Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte 9788842068464

Che ne è del corpo dopo la morte? Perché le società umane non si limitano a sbarazzarsi dei corpi, come se si trattasse

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Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte
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Percorsi 47

ANTROPOLOGIA

Serie diretta da Francesco Remotti

VOLUMI PUBBLICATI

Maria Arioti

Introduzione all’antropologia della parentela Alice Bellagamba

L’Africa e la stregoneria. Saggio di antropologia storica Enrico Comba

Antropologia delle religioni. Un’introduzione Gianluca Ligi

Antropologia dei disastri Marina Sozzi

Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia Stefano Allovio

Pigmei, europei e altri selvaggi Luca Jourdan

Generazione Kalashnikov. Un antropologo dentro la guerra in Congo Adriano Favole

Oceania. Isole di creatività culturale Francesco Remotti

Cultura. Dalla complessità all'impoverimento

Adriano Favole

Resti di umanità Vita sociale del corpo dopo la morte

Editori Laterza

© 2003, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2003 Terza edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2011 Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-6846-4

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

I morti, che ne è dei morti a Futuna? Mentre mi preparavo a partire per la mia prima ricerca sul campo in Polinesia, questa domanda riecheggiò più volte nella mia mente. Mi chiedevo se avrei assistito a lunghi e complessi riti funebri, dove venissero sepolti i defunti, quale forma avessero assunto le credenze polinesiane sul rapporto tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti dopo la conversione degli abitanti dell’isola al cristianesimo. Come spesso avviene agli antropologi, l’esperienza di campo avrebbe di lì a poco dissipato l’immagine esotica di una società radicalmente diversa da quella in cui ero fino ad allora vissuto. In effetti, il fulcro del rito funebre era anche a Futuna la messa, celebrata secondo il consueto canone cattolico. Il cimitero dell’isola, raccolto nell’area retrostante la chiesa, con le sue semplici tombe sovrastate da croci in legno e in ferro appariva simile a quei piccoli cimiteri di campagna che a lungo hanno segnato il territorio delle società europee. In quanto alle credenze, anche i racconti più «tradizionali» concernenti i viaggi di antichi eroi nel mondo dei morti presentavano un evidente carattere sincretico e racchiudevano citazioni bibliche, spesso letterali. L’unico rito funebre a cui ebbi occasione di assistere durante i lunghi mesi di permanenza sull’isola mi colpì tuttavia per un aspetto che mi sembrava contrastasse nettamente con le pratiche della morte proprie della nostra società: la relazione tra le persone in lutto e il cadavere del defunto. Il corpo del morto, dopo essere stato lavato, unto di olio di palma e avvolto in coperte e stoffe di corteccia, era stato collocato al centro della capanna in cui l’uomo era vissuto: qui, le donne del suo ampio gruppo familiare cominciarono ad abbracciarlo, ad accarezzarlo, a versare lacrime V

sul suo volto, tenendolo a turno sulle ginocchia. Gli abitanti del villaggio erano seduti attorno all’abitazione e assistevano alla scena, entrando di tanto in tanto per consegnare un dono alla famiglia del defunto e per un ultimo contatto fisico col morto, nell’imminenza della sua sepoltura. Quel rito mi richiamò alla memoria un’esperienza precedente quando, durante il servizio civile, ero vissuto per circa un anno in una struttura sanitaria per anziani e malati terminali, in uno sperduto paese delle Langhe piemontesi. Qui i morenti concludevano la loro esistenza per lo più in solitudine, confinati in grandi stanze bianche dalle pareti spoglie, anonime e sterili. Il contatto con i loro corpi, stremati dalla malattia e dall’età, era limitato alle pratiche mediche e assistenziali. Al sopraggiungere della morte, i cadaveri – lavati e rivestiti da personale specializzato – venivano deposti (come spesso accade nei nostri ospedali) in una squallida e ombrosa camera mortuaria, priva dello spazio necessario per un rito, per un pianto, per un congedo socialmente organizzato. A partire da un’ampia rassegna di casi etnografici e storici, questo libro si interroga sul rapporto ambivalente che gli esseri umani intrattengono con i corpi dei morti. Fonti di affetto e di attaccamento emotivo, essi suscitano allo stesso tempo orrore e repulsione per l’imminente disgregazione che li minaccia. L’idea di trovarsi davanti a corpi ancora «impregnati» di cultura e di umanità si scontra con la sensazione di avere a che fare con semplici residui organici. La percezione di forme familiari di cui si vorrebbe conservare inalterata la memoria lascia ben presto spazio alla drammatica realtà della loro inevitabile decomposizione. Il proposito iniziale da cui questo testo ha preso le mosse era proprio quello di guardare ai corpi morti quali oggetti di soglia (capitolo 1), segni tangibili e ambivalenti di quel complesso rapporto che lega mondo dei vivi e mondo dei morti. In quest’ottica, le differenti modalità con cui le società umane trattano i cadaveri prima di prenderne congedo sono apparse un punto di partenza imprescindibile (capitolo 2). Col procedere della ricerca è divenuto sempre più chiaro che in molte società e in molte epoche la parabola del corpo non si conclude con il trattamento del cadavere. La vita sociale dei corpi può proseguire ulteriormente attraverso varie categorie di «reVI

sti» che, a diverso titolo, tornano ad attrarre l’attenzione dei viventi. Le reliquie cristiane (capitolo 3), le reliquie delle società dell’Oceania avidamente raccolte nei secoli scorsi dagli europei (capitolo 4), le reliquie «scientifiche» dell’anatomia, della paleoantropologia, della medicina (si pensi agli organi per i trapianti), i cadaveri conservati di leader politici e religiosi (capitolo 5) rappresentano altrettanti esempi del prolungamento dell’esistenza sociale dei corpi oltre la morte. La categoria di «resti», ambiguamente sospesa tra l’essere e il nulla, appare uno strumento utile a porre in connessione contesti etnografici e storici differenti e a far emergere le varie concezioni e rappresentazioni del corpo e della morte che le società umane hanno elaborato. L’antropologia culturale ha dedicato di recente molta attenzione ai corpi e alla complessa dialettica tra cultura e biologia di cui essi sono il prodotto. In particolare, la prospettiva teorica dell’antropopoiesi, da cui questo testo ha preso le mosse, si è concentrata sulla rilevanza degli interventi culturali sui corpi per la costruzione di particolari forme di umanità (Remotti 1999). Allo stesso tempo, negli ultimi vent’anni, l’antropologia ha reintegrato la morte nel suo campo di studi. Si è assistito al proliferare di ricerche etnografiche e alla pubblicazione di alcuni lavori teorici ampiamente comparativi. Oggi difficilmente si potrebbe far propria l’osservazione di Phyllis Palgi ed Henry Abramovitch, autori a metà degli anni Ottanta di un celebre articolo/rassegna sull’antropologia della morte: «Stranamente, ben pochi antropologi si sono interessati specificamente e direttamente all’argomento. Essi, al contrario dei filosofi, hanno manifestato uno scarso fascino per il mistero della morte» (1984, 385). Facendo convergere e dialogare lo studio antropologico del corpo con quello della morte, questo testo si propone di mostrare come la drammatica questione della disgregazione dei corpi rappresenti una sfida decisiva per ogni società umana. Dilatando la nozione cristiana di «reliquia» – rappresentazione ambivalente del rapporto tra vivi e morti (Goody 2000) – esso si propone di riflettere sul problema dei «resti» umani in chiave transculturale e interdisciplinare. Il presupposto che sta alla base della ricerca è che l’antropologia, intesa quale sapere delle connessioni e della comunicazione interculturale, grazie ai suoi strumenti teorici e all’inventario delle conoscenze sulle altre culture possa consentirci VII

di riflettere meglio sulle concezioni e sulle pratiche della morte proprie della nostra società. Per questo, nei vari capitoli di cui questo lavoro si compone, il lettore si troverà a transitare dai contesti «esotici» di una piccola isola polinesiana ai rumorosi quartieri di una città metropolitana, dagli austeri ambienti dei monasteri medievali alle polverose teche dei musei etnografici. Riunendo in un unico spazio contaminato le reliquie cristiane, le reliquie degli Altri, le reliquie «laiche» della politica e della scienza, ci si propone di mostrare la fecondità di un approccio transculturale al problema universale della morte degli esseri umani e della continuità dei sistemi sociali. Le idee confluite in questo libro hanno preso forma nell’ambito di due distinti progetti di ricerca. Il primo, intitolato «Tanato-metamòrfosi: la morte come processo trasformativo», è stato reso possibile da una borsa di studio che mi è stata concessa dalla Fondazione Ariodante Fabretti di Torino. Sono grato al presidente della Fondazione, Tullio Regge, al vicepresidente, Luciano Scagliarini, e ai componenti del comitato scientifico (Marina Sozzi, Roberto Beneduce, Francesco Campione, Giorgio Cosmacini, Giovanni De Luna, Alfredo Milanaccio, Alessandro Pastore, Francesco Remotti) per l’incoraggiamento e per i loro preziosi suggerimenti. Il secondo progetto, dal titolo «Luoghi dei vivi, luoghi dei morti. Confini, separazioni, intersezioni: prospettive interdisciplinari e comparative», è relativo a una ricerca di interesse nazionale (ex 40%) coordinata da Francesco Remotti negli anni 2000-2002. La partecipazione al progetto nell’ambito dell’unità di Torino, con sede presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali è stata per me fonte di innumerevoli spunti. Ringrazio in particolare i partecipanti al seminario «Luoghi dei vivi, luoghi dei morti», tenutosi presso lo stesso Dipartimento nell’anno accademico 2001-2002, per avermi dato occasione di approfondire questioni teoriche rilevanti e di venire a conoscenza di interessanti materiali etnografici. Molte persone hanno collaborato, a vario titolo, alla realizzazione di questo libro. Ringrazio Carlo Capello, Giulia Capotorto, Enrico Comba, Adriana Destro, Luisa Faldini, Alberto Guaraldo, Gianluca Ligi, Maurizio Mori, Claire Moyse, Chiara Pussetti, Ivo Quaranta, Pietro Scarduelli, Marina Sozzi, Simona Taliani, Paola Sacchi, Francesca Sbardella, Paolo Sibilla e Francesco Zanotelli, per avermi segnalato o procurato testi utili alla ricerca. Sono ugualmente grato a Marco Aime, Stefano Allovio, Giovanni De Luna, Pier Paolo Viazzo e FranceVIII

sco Remotti per aver letto e commentato la prima versione di questo manoscritto. Giacomo Giacobini e Paolo Tappero, responsabili rispettivamente del Museo di Anatomia Umana e del Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso dell’Università di Torino, hanno agevolato la mia ricerca presso queste due istituzioni. Ho un debito di perenne riconoscenza verso la gente dell’isola di Futuna, a cui devo la passione per la ricerca antropologica e alla quale sono legato da una profonda amicizia. Infine, un ringraziamento particolare va a Cristina, compagna di vita, con la quale ho discusso, spesso animatamente, ogni capitolo di questo libro.

Adriano Favole Trinità, 27 luglio 2002

Resti di umanità

Capitolo primo

L’incerta soglia

L’intelletto degli uomini è così incerto che essi non possono neppure determinare il momento della morte. Plinio il Vecchio, Naturalis historia

1.1. Tra i vivi e i morti La certezza di morire è un dato di fondo dell’esistenza, l’espressione del destino ultimo e inevitabile della persona. «Senza dubbio una fine certa della vita incombe sui mortali / né la morte si può evitare, dobbiamo andarle incontro», scriveva Lucrezio nel De rerum natura1. La finitudine, l’essere-per-la-morte sono apparsi a molti filosofi come la condizione propriamente umana, un limite a partire dal quale la vita acquisisce il suo significato. Il memento mori, la coscienza di morire, distingue infatti l’essere umano dagli animali e instillerebbe nell’umanità un’irrequietezza conoscitiva, fonte primaria della ricerca del senso e della creatività culturale (Bauman 1992). Scorrendo la letteratura storica e antropologica sulla morte, si ha tuttavia l’impressione che a questa certezza relativa al finire dell’esistenza corrisponda una profonda incertezza sui confini tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, tra la vita e la morte. Una soglia dai confini sfumati separa i due mondi, un orizzonte dai tratti indefiniti che i viventi devono provvedere, in qualche modo, a tracciare. Quando, ai primi del Novecento, Robert Hertz cominciò a riflettere sul tema della morte a partire dalle informazioni che antropologi, missionari e viaggiatori avevano raccolto tra le società 1

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, III, vv. 1078-1079.

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«primitive», divenne immediatamente chiaro che, nella maggior parte dei casi, la morte veniva intesa come un lungo processo trasformativo. Mentre è «opinione diffusa nella nostra società che la morte si compia in un istante», scriveva Hertz (1994, 53-54), altrove la definitiva trasformazione del vivente in defunto o antenato richiede un lungo processo, scandito per lo più da una doppia sepoltura. Nelle società dell’Indonesia e del Madagascar prese in esame dallo studioso francese, il cadavere veniva infatti sottoposto a lunghi ed elaborati trattamenti finché un’ultima sepoltura provvedeva a collocare le ossa ormai libere dalle carni in una dimora definitiva. L’«anima», resto immateriale della persona, seguiva un cammino parallelo al corpo, viaggiando progressivamente verso il luogo dei morti: «In virtù dello stretto legame esistente tra l’anima e le ossa, i riti per cui esse vengono purificate, decorate, vivificate e infine condotte nel luogo consacrato, determinano di riflesso una reazione sulla condizione dell’anima» (ivi, 92). Anche lo stato di lutto che accompagna solitamente un decesso assume un significato nuovo alla luce di una definizione della morte come processo: mettendo in atto riti, pratiche e comportamenti particolari, i vivi accompagnano la transizione del defunto. I destini paralleli del corpo e dell’anima trovano un’ulteriore corrispondenza a livello sociale nei riti e nelle pratiche del lutto. Sarà a partire da queste illuminanti riflessioni di Hertz che, qualche anno più tardi, Arnold Van Gennep collocherà i funerali tra i riti di passaggio, interpretando le loro varie fasi alla luce della triade separazione - margine o liminarità - aggregazione2. Il lungo processo di metamorfosi del defunto verso la condizione di antenato (e il corrispondente stato di lutto) viene concepito da questo autore 2 Il libro di A. Van Gennep Les rites de passage (1909) è uno dei testi di maggior successo nella storia dell’antropologia. A mio modo di vedere, sebbene l’autore non lo riconosca, l’analisi dei riti funebri deve molto a Hertz. L’articolo di quest’ultimo si avvale infatti di una ricchissima documentazione etnografica e fonda a livello teorico molti dei temi che caratterizzeranno poi la storia dell’antropologia della morte. La stessa fortunata formula dei «riti di passaggio» viene prefigurata da Hertz in un passo del suo articolo laddove egli afferma: «Non solo all’iniziazione, tuttavia, occorre accostare la morte quale se la rappresenta la coscienza collettiva: esiste anche una stretta affinità tra i riti funerari e quelli della nascita e del matrimonio» (1994, 98).

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come un periodo liminare (dal latino limen, «soglia»); la seconda sepoltura segna il momento di aggregazione del morto al mondo dei morti e di riaggregazione delle persone in lutto alla comunità dei viventi. Una concezione processuale del morire emerge allo stesso modo nell’equazione tra la morte e il viaggio, che ritroviamo in molte epoche e in molte culture3. In varie tradizioni religiose si sostiene infatti che, alla morte, il defunto intraprende un lungo viaggio, spesso irto di ostacoli, che lo condurrà in un lasso di tempo più o meno lungo a raggiungere l’aldilà, a dissolversi o a ritornare tra i viventi. Come ha osservato Gian Paolo Gri, il tema del viaggio contiene e risolve un’ambiguità sostanziale del rapporto delle culture con la morte e con i morti: attaccamento e timore, affetto e paura, desiderio di continuità e bisogno di rottura. La metafora del viaggio concilia due caratteristiche fondamentali: implica una partenza, ma garantisce anche un carattere progressivo, processuale, all’allontanamento; permette di sovrapporre in maniera coerente i tempi della morte fisica e del processo di consumazione del corpo con i tempi psicologici e mentali del lutto (2000, 11)4.

In un importante saggio dedicato alla rilevanza del concetto di «persona» nell’antropologia della morte, Maurice Bloch osserva che in alcune società anche la vita viene concepita alla stregua di un viaggio, al punto che «ciò che noi chiamiamo morte è soltanto un episodio di una storia più lunga che è iniziata prima e continuerà in seguito» (Bloch 1988, 12)5. La dottrina buddista e induista del karma, secondo cui l’anima è destinata a rinascere in condizioni di vita commisurate alla qualità delle azioni compiute nelle vite precedenti, ne è un esempio eloquente. «Ciò che resta» della persona al termine della vita e del viaggio della morte è de3

Si vedano al proposito Couliano 1991; Collins, Fishbane 1995. Il tema del viaggio dell’anima fa da sfondo a numerose analisi della morte in campo italiano come mostrano i lavori di L.M. Lombardi Satriani e M. Meligrana (1982) e la raccolta di saggi curata più di recente da S.M. Barillari (1998). 5 Nel saggio citato, M. Bloch – uno dei maggiori studiosi della morte in campo antropologico – sottolinea che l’idea della morte come processo trasformativo accomuna molte società di interesse storico e antropologico. Sulla relazione tra morte e persona si veda anche Bloch 1993. 4

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stinato a ritornare nel mondo dei vivi, carico del fardello di colpe e meriti maturati in una precedente esistenza. Il confine tra vivi e morti è dunque caratterizzato da una notevole «porosità». Per questo anche i defunti si ripresentano spesso ai viventi: il viaggio può prevedere un ritorno. La diffusa pratica della possessione, ritrovata dagli antropologi in società appartenenti a tutti i continenti, ne è un chiaro esempio. Per quanto si configuri come un fenomeno estremamente eterogeneo, si può dire che la definizione della possessione come «invasione» del corpo del posseduto da parte di entità spirituali (dèi o antenati) e pratica di comunicazione con l’aldilà sia ampiamente condivisa. Attraverso i loro medium viventi, i morti tornano a far sentire la loro voce, prendendo decisioni importanti per la società, esercitando attività terapeutiche, aiutando i vivi nel difficile percorso di elaborazione del lutto. E non è solo questione di società «esotiche»: anche in Occidente il ritorno dei morti ha un posto di primo piano6. Uno degli argomenti privilegiati dell’analisi storica relativa alla morte nel Medioevo concerne i revenants, i morti che, con le loro apparizioni, tornano a turbare i viventi. «La dimensione antropologica e universale del ritorno dei morti è presente tra l’altro nelle tradizioni occidentali, a partire dall’antichità fino al Medioevo, e addirittura nel folclore contemporaneo», scrive Jean-Claude Schmitt, lo storico francese che più si è interessato all’argomento (1995, 6). Non a caso, l’istituzione del giorno dei morti nel calendario cristiano si deve all’ordine monastico di Cluny, particolarmente attento al culto dei defunti e nelle cui abbazie i revenants facevano spesso sentire la loro presenza7. Lo stesso Purgatorio – la cui origine nella dottrina cristiana si colloca sul finire del Duecento – può essere interpretato come il luogo in cui la Chiesa, preoccupata dal frequente attraversamento dei confini, «rinchiuse» i morti. Nel Purgatorio essi trovarono un luogo adeguato di permanenza e nel sacerdote un autorevole mediatore con coloro che ancora rimanevano sulla terra e che, con preghiere e oboli, potevano abbreviare la loro presenza in questo luogo di 6

Per un’analisi del fenomeno della possessione nel Medioevo cfr. Caciola 2000. 7 Si veda al proposito Cantarella 1993.

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margine permettendo loro l’accesso alla dimora eterna del Paradiso8. Nonostante l’istituzione del Purgatorio, luogo di margine e di confinamento, nelle tradizioni europee i morti sono a lungo ritornati tra i vivi. L’etnologo francese Daniel Fabre sostiene che Edward B. Tylor fu profondamente influenzato dallo «spiritismo» nel momento in cui lavorava all’elaborazione di Primitive culture (1871), comunemente considerato uno dei primi classici dell’antropologia moderna. Diffuso negli Stati Uniti a partire dalla metà dell’Ottocento, il fenomeno religioso e culturale dello spiritismo ebbe un enorme successo di pubblico: attraverso le sedute spiritiche era possibile comunicare con l’aldilà, ottenere «prove» tangibili della sopravvivenza dei morti, offrire alle persone in lutto l’opportunità di dialogare con i defunti. Lo spiritismo si diffuse in Inghilterra e in Francia proprio negli anni in cui Tylor elaborava la teoria secondo cui l’«animismo» sarebbe la caratteristica peculiare delle religioni primitive e si presenterebbe sotto forma di «sopravvivenza» nelle società moderne. Proprio nel 1871 – anno di pubblicazione di Primitive culture – la società londinese discuteva con passione di spiritismo in seguito all’arrivo di Kate Fox, la medium americana che per prima si era mostrata capace di far parlare i morti. «Occupandosi del mondo degli spiriti nelle credenze ‘primitive’, Tylor non poteva che incontrare nuovamente, in forma costitutiva o diffusa, questo spiritismo che era divenuto in pochi anni una convinzione condivisa, una Chiesa autonoma, un tema di confronto scientifico» (Fabre 1987, 9). Secondo l’interpretazione di Fabre, la messa a punto di una delle categorie più influenti della nascente antropologia evoluzionista fu dunque condizionata da un fenomeno, lo spiritismo, che si presentava come la riproposizione moderna dell’antico tema dei revenants della tradizione medievale. Né Tylor né gli antropologi che dopo di lui si occuparono di morte approfondirono il tema del ritorno dei morti nelle società europee, sia per l’imporsi di una visione dell’antropologia come sapere delle società esotiche e marginali, sia per una sorta di «tabù teologico» che, come osserva lo storico Mi8 Cfr. Le Goff 1981. Sull’importanza del tema della reciprocità e dello scambio tra i vivi e i morti in campo storico si veda Gordon, Marshall 2000.

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chel Vovelle, ha fatto sì che a lungo il sapere antropologico si sia fermato «sulla soglia della chiesa»9. Eppure, nella proposta di Fabre, proprio il tema del ritorno dei morti potrebbe fornire un orizzonte comune di riflessione a storici e antropologi impegnati a studiare la morte in campo europeo10. Nell’introdurre la questione dei confini tra vivi e morti pare utile infine richiamare alla memoria un altro antenato dell’antropologia moderna, Sir James George Frazer, un autore affascinato dalle credenze «primitive» concernenti la morte11. Una delle preoccupazioni centrali della sua opera più famosa, The golden bough (1890) concerne la diffusa presenza di simboli di fertilità, sessualità e rinascita nei riti funebri, un tema di cui già si era occupato Johann Jakob Bachofen in riferimento alle civiltà classiche. In molte società, argomenta Frazer, la morte si presenta come la condizione del riprodursi della vita (la fertilità dei terreni, la fecondità delle donne), una credenza che il regicidio rituale testimonia in maniera emblematica (infra, § 5.3). Il sacrificio del sovrano è condizione essenziale per il rinnovamento della società, la sua morte getta momentaneamente la realtà nel caos ma pone le basi per una ricostruzione dell’ordine cosmico, sociale e naturale. Secondo Maurice Bloch e Jonathan Parry (1982), curatori di un celebre testo che si proponeva proprio di analizzare il nesso tra sessualità, fertilità e riti funebri in un’ampia cornice comparativa, la diffusa pratica del sacrificio mostra l’indissolubile legame tra la vita e la morte. La degenerazione è condizione essenziale per la rigenerazione della vita. La logica del sacrificio, ampiamente documentata a livello storico ed etnografico, implica l’idea secondo cui «la morte è una fonte di vita» ed «esiste una connessione logica tra la concezione della vita come bene limitato e l’idea secondo cui la morte e la riproduzione sono inestricabilmente correlate» (ivi, 8-9). A questo proposito, i Melanesiani delle isole Trobriand studiati da Bronislaw Malinowski esprimevano in maniera partico9 Citato in Fabre 1987, 17. M. Vovelle è unanimemente considerato il maggiore storico vivente della morte in campo europeo (cfr. in particolare Vovelle 2000). 10 Sul tema del ritorno dei morti si vedano anche Lanternari 1976 e LéviStrauss 1984. 11 Si veda in particolare Frazer 1933-1936.

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larmente suggestiva l’intreccio vita-morte, sostenendo che ogni clan possiede un numero fisso di «anime» che periodicamente si reincarnano in esseri umani. Queste vivono tra Kiriwina, l’isola dei viventi, e Tuna, l’isola dei morti, alternandosi senza sosta tra le due dimore con il succedersi delle generazioni (Malinowski 1948). Alla luce della logica del sacrificio e della teoria correlata della vita come bene limitato, non ci troviamo soltanto in presenza di un confine poroso e incerto: mondo dei vivi e mondo dei morti appaiono domini strettamente imbricati. La morte non si oppone alla vita, ma fonda e garantisce la possibilità stessa dell’esistenza. 1.2. Biologia della morte Analizzato dal punto di vista dei riti e delle credenze che antropologi e storici hanno indagato nelle varie parti del mondo, l’istante della morte si è dilatato fino ad assumere i contorni indefiniti di una soglia di transizione. La morte è apparsa allora come un processo, il confine si è rivelato permeabile in entrambe le direzioni, mondo dei vivi e mondo dei morti hanno cessato di opporsi come realtà incomunicanti, essendo piuttosto l’uno la possibilità di esistenza dell’altro. Tuttavia, anche gli autori che più efficacemente hanno contribuito a elaborare questa prospettiva processuale raramente hanno diretto il loro sguardo verso la biologia. Se nel territorio delle scienze sociali si è insistito sugli aspetti trasformativi dell’evento, l’accento è stato posto sulle credenze, sulle escatologie, sulle rappresentazioni della morte, come se gli aspetti biologici presentassero un carattere non problematico, immediatamente evidente. Il confine può essere incerto nelle elaborate costruzioni del pensiero religioso, nei riti funebri di popoli «primitivi», nell’immaginario collettivo e nelle pratiche che esso alimenta (possessione, spiritismo, vampirismo12), ma in definitiva poggerebbe su un fatto certo e puntuale, la morte biologica. In realtà, la stessa drammatica incertezza che storia e antropologia evidenziano a livello culturale si ripropone sul versante bio12

Sul vampirismo si veda Barber 1994.

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logico. Nel campo della biomedicina occidentale l’elaborazione di una definizione condivisa di morte si è rivelata infatti da sempre molto problematica. Come nel caso di Hertz e delle società che egli prese in considerazione, anche in una prospettiva biologica la morte appare oggi come un processo e non come evento puntuale, e gli sforzi si concentrano semmai nella ricerca di un «punto di non ritorno», oltre il quale essa dà scacco matto alle capacità della scienza di riparare o rigenerare i corpi. Il punto di non ritorno è storicamente fluttuante e alla sua definizione concorrono ragioni teologiche, filosofiche, economiche, politiche e culturali oltre che scientifiche. La definizione biologica o biomedica di morte sembra insomma svolgere per certi versi un ruolo analogo ai riti funebri: stabilire il momento dell’approdo all’altra sponda dello Stige, in una traversata di cui è difficile valutare la lunghezza (mors certa hora incerta). Da un punto di vista biologico la morte è un fenomeno che può essere indagato a diversi livelli. In primo luogo, la morte cellulare accompagna l’essere umano durante tutta la sua esistenza. Sebbene lo studio della morte delle cellule sia piuttosto recente se paragonato all’analisi di come esse si suddividono (anche sul versante scientifico il tabu della morte fa sentire i suoi effetti!), oggi sappiamo in che modo il metabolismo cellulare viene sconvolto da attacchi virali, mancanza di ossigeno, ipertermia, esposizione a tossine e così via. Accanto a questi processi patologici di «nécrosi» cellulare occorre segnalare che, nel corso dello sviluppo, cellule e gruppi di cellule vanno incontro a una morte programmata detta «apòptosi». Per la formazione di tessuti e organi complessi come il cervello si rende necessaria una vera e propria ecatombe di gruppi cellulari, geneticamente controllata. Come ha efficacemente scritto Jean-Claude Ameisen: «È la morte cellulare che, a ondate successive, scolpisce le nostre braccia e le nostre gambe a partire dagli abbozzi di esse […] nel più profondo dell’embrione, la morte cellulare costruisce gli organi, scavando i condotti del tubo digerente e quelli del cuore in cui circolerà il sangue» (2001, 31-32)13. Sul piano terapeutico, possiamo osservare che la necessità di eliminare ampi gruppi di cellule (se non parti consistenti di 13

Citato in Marchesini 2002, 485.

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organi) è evidente nelle terapie contro i tumori maligni. Da un punto di vista cellulare, morte e vita appaiono intimamente connesse. Nelle terapie antitumorali come nel fenomeno dell’apòptosi assistiamo a una sorta di «sacrificio cellulare», la morte da cui scaturisce la vita dell’organismo. La caduta delle foglie è essenziale per la sopravvivenza dell’albero, per riprendere l’accattivante metafora racchiusa nel termine «apòptosi» (dal greco απο´ πτω− σις, «caduta di foglie o petali»). Se la morte si infiltra nei meandri della vita, è vero anche l’opposto. Molte cellule mantengono la propria vitalità ben oltre la fase in cui il corpo è divenuto cadavere. È noto per esempio che gli spermatozoi possono sopravvivere quarantotto ore dopo la morte di un uomo; cellule epiteliali da innesto possono essere prelevate entro le ventiquattro ore, parti di ossa vitali fino a quarantotto e tessuti delle arterie molte ore dopo ancora. Alcuni ricercatori hanno di recente estratto cellule staminali dal cervello di individui morti fino a venti ore prima14. Inoltre, se spingessimo ulteriormente la nostra analisi verso il «micro», potremmo osservare che gli acidi nucleici che costituiscono il nostro patrimonio genetico sono potenzialmente immortali. Il prolungamento della vita dopo la morte appare poi in modo evidente in quello che può considerarsi come uno degli argomenti centrali nell’attuale dibattito sulla morte: la possibilità dell’espianto e del trapianto di organi, un tema di cui mi occuperò nell’ultimo capitolo (infra, § 5.2). Gli organi individuano un secondo livello in cui può essere indagata la morte biologica. Il terzo livello della morte biologica, quello che presumibilmente più interessa gli studiosi delle scienze sociali, si colloca tuttavia al di là delle cellule e degli organi e concerne l’essere umano nella sua complessità. Quando un organismo umano può definirsi morto? Quando un corpo diventa cadavere? Per tentare di rispondere a queste domande, può essere utile fare riferimento a un volume del neurologo Carlo Alberto Defanti, il cui titolo risulta assai significativo: Vivo o morto? La storia della morte nella 14

Le cellule staminali sono cellule immature, non specializzate e potenzialmente in grado di svilupparsi in alcuni tipi di tessuti o addirittura in qualsiasi tipo di tessuto.

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medicina moderna (1999)15. Il libro si apre con la sconcertante storia di Judith Anne Debro, una giovane donna americana che nel 1975 fu coinvolta in un grave incidente stradale. Trasportata in stato di coma in un ospedale del Missouri, il neurochirurgo che la prese in cura comunicò ai parenti che non vi erano speranze di salvezza: nonostante il suo cuore continuasse a battere e il respiro fosse mantenuto artificialmente, la donna – in base al criterio di morte cerebrale elaborato alcuni anni prima da un comitato della Harvard Medical School – poteva considerarsi morta. Il medico propose al marito di interrompere il trattamento, ma i familiari di lei si opposero: nella disputa il compagno si rivolse al tribunale per chiedere l’autorizzazione a sospendere le cure. Poiché lo Stato del Missouri non aveva ancora accolto la nuova definizione di morte cerebrale, l’autorizzazione non fu concessa. Se l’incidente fosse avvenuto in California la donna, il cui cuore cessò comunque di battere una ventina di giorni dopo, sarebbe stata dichiarata morta poche ore dopo l’incidente. «Il fatto che una persona possa venire dichiarata viva in uno Stato e morta in un altro è certamente un paradosso, una sfida al senso comune», commenta Defanti (ivi, 9). La tragica vicenda della giovane donna americana pone in rilievo il fatto che i progressi della rianimazione nella seconda metà del Novecento hanno reso alquanto incerto il confine tra la vita e la morte. Ci si può tuttavia chiedere: si tratta di un problema completamente nuovo? Solo di recente gli esseri umani si sono trovati davanti a un confine biologico incerto? In realtà, sostiene Defanti, tutta la storia della morte nella medicina moderna è costellata di dubbi e incertezze: «Il riconoscimento della morte dei singoli individui […] e l’esatta individuazione del momento in cui essa avviene hanno sempre posto problemi e anzi in certe epoche, come nel Settecento e in misura minore nell’Ottocento, sono stati motivo di profondo turbamento sociale» (ivi, 11). Nel secolo dei Lumi si diffuse un vero e proprio timore della cosiddetta morte apparente. L’incapacità di stabilire un criterio sicuro, soprattutto nei casi di morte improvvisa, spinse gli studiosi a elaborare alcu15 C.A. Defanti è tra i fondatori della Consulta Italiana di Bioetica di cui è stato presidente tra il 1994 e il 1998.

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ne tecniche di accertamento che appaiono oggi alquanto curiose, come l’accostare alle narici una candela o il porre una coppa d’acqua sul torace, per verificare i segni di una seppur debole respirazione. J.B. Wilson, anatomista danese operante a Parigi, raccomandò nei casi sospetti – quando i metodi meno invasivi non avessero fugato ogni dubbio – di ricorrere «alle ferite che fannosi con gli strumenti pungenti, o taglienti, o sia col fuoco»16. I termini «becchino» e «beccamorto» deriverebbero proprio dall’uso di mordere i cadaveri quale espediente estremo per verificare l’avvenuto decesso, onde evitare sepolture anticipate. Nell’Ottocento la scoperta del funzionamento integrato di cuore, polmoni e cervello quale fondamento della vita dell’organismo permise l’individuazione di metodi più attendibili: nonostante ciò, i numerosi concorsi indetti dalle Accademie mediche di Francia e Inghilterra per la definizione di un criterio unico e certo di morte non ebbero successo. Proprio l’Ottocento, d’altra parte, vide la comparsa negli ospedali tedeschi del vitae dubiae asylum, la camera mortuaria o obitorio (dal latino obıire, «andare incontro» alla morte), in cui il morto veniva tenuto sotto osservazione per fugare ogni dubbio sull’avvenuto trapasso17. Vivo o morto? La questione sembrava avviata verso una risoluzione decisiva nei primi decenni del Novecento, quando le invenzioni dello stetoscopio e, più tardi, dell’elettrocardiogramma permisero una registrazione certa dell’attività cardiaca. In realtà, le tecniche di rianimazione messe a punto nella seconda metà del secolo e il diffondersi della chirurgia dei trapianti hanno portato nuovamente l’attenzione sulla problematicità del confine18. Sul 16

Citato in Defanti 1999, 38. Può essere curioso notare che il regolamento di polizia mortuaria tuttora in vigore in Italia («Gazzetta Ufficiale» del 12 ottobre 1990) dispone che, dopo l’avvenuto accertamento del decesso, «nessun cadavere può essere chiuso in cassa, né essere sottoposto ad autopsia, a trattamenti conservativi, a conservazione in celle frigorifere, né essere inumato, tumulato, cremato, prima che siano trascorse 24 ore», salvo casi particolari (art. 8). Gli articoli 11 e 12 raccomandano inoltre che durante tale periodo esso sia posto in condizioni che non ostacolino eventuali manifestazioni di vita. 18 Proprio a partire dalle esperienze di coloro che, grazie alle nuove tecniche di rianimazione, furono riportati in vita, R. Moody scrisse un libro che ebbe e ha tuttora un enorme successo di pubblico (1975). I racconti concernenti le 17

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finire degli anni Cinquanta, nei reparti di rianimazione, alcuni individui colpiti da gravissime lesioni cerebrali furono a lungo mantenuti in vita grazie alla ventilazione meccanica. Questi individui, apparentemente privi di coscienza e di attività cerebrale, dovevano considerarsi vivi o morti? Si poteva dichiarare defunto un individuo col cuore pulsante? La questione fu affrontata dal comitato della Harvard Medical School, il quale nel 1968 elaborò una definizione di morte che viene oggi accolta nella maggior parte degli Stati del mondo. La condizione di coma dépassé («coma irreversibile»), tipica di quegli individui il cui cuore continuava a battere ma le cui funzioni cerebrali sembravano irrimediabilmente estinte, venne considerata un nuovo criterio di morte e si parlò di «sindrome da morte cerebrale» (brain death syndrome). Una volta accertata l’irreversibilità della morte cerebrale, nonostante il cuore pulsante e il respiro artificialmente controllato, dopo un adeguato periodo di osservazione questi individui potevano essere considerati morti: era ammessa l’interruzione delle pratiche di rianimazione (non configurabile come eutanasia) e i loro organi potevano essere prelevati per essere trapiantati in altri corpi umani. La definizione di morte cerebrale, successivamente ripresa e aggiornata in più occasioni19, è stata accolta in gran parte del mondo e ha dato vita a un amplissimo dibattito. Aprendo la strada alla possibilità dei trapianti, essa ha permesso di utilizzare la forza vitale residua di alcuni cadaveri, non mancando tuttavia di sollevare dubbi e perplessità sia nel mondo occidentale sia altrove. La definizione di morte cerebrale ha affidato a una sofisticata tecnologia e a un gruppo ristretto di specialisti iniziati il compito di tracciare un confine sul quale le varie società non hanno mai cessato di riflettere. Tuttavia, come evidenzia Margaret Lock esperienze vissute da pazienti colpiti da gravi traumi o malattie alle soglie della morte (near death experiences) raccolti da Moody nel suo testo rappresentano, come ha scritto il teologo J. Vernette, «il punto più lontano a cui possa spingersi un uomo dall’altro lato dello specchio» (1999, 117). 19 Particolarmente importante al proposito fu l’Uniform declaration of death act approvato nel 1981 da una commissione presidenziale a Washington. La commissione dichiarò che la morte cerebrale equivaleva alla «perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali» distinguendola dallo «stato vegetativo persistente» che aveva creato dubbi sulla morte «reale». Cfr. Lock 1996.

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(1996; 2001) in alcuni lavori che mettono a confronto gli Stati Uniti e il Giappone sulla questione dei trapianti e delle rappresentazioni della morte, anche quello della morte cerebrale è un criterio storicamente e culturalmente costruito. Come tale esso presta il fianco a dubbi e critiche, tanto che in una società pure tecnologicamente avanzata ed economicamente forte come il Giappone la definizione di morte cerebrale è stata accolta nella legislazione con riluttanza e solo di recente (1997) mentre la possibilità dei trapianti è giudicata tuttora in termini alquanto negativi. D’altra parte, nel corso degli ultimi trent’anni, i criteri di accertamento della morte cerebrale si sono rivelati alquanto complessi e sono variati con il mutare degli apparati tecnologici. Se l’attenzione si è diretta in un primo momento verso l’accertamento della perdita irreversibile di funzioni del tronco encefalico (l’area del cervello che controlla il respiro, la pressione, la temperatura ecc.), oggi alcuni scienziati propongono di orientare le ricerche verso la corteccia cerebrale, la sede della coscienza e l’area del cervello che risente maggiormente dell’interazione tra biologia e cultura20. «L’individuazione di un momento della morte, in altre parole di un punto di non ritorno in seno a un processo, è in ultima analisi più una decisione basata su motivi pragmatici (e in questo caso anche etici) che un risultato della ricerca scientifica» (Defanti 1999, 40). La conclusione di Defanti pone in luce il fatto che la definizione di morte cerebrale non ha certo posto fine al dibattito sul quando si muore. Essa, in realtà, lascia aperta la questione su un ulteriore livello della morte che è inevitabile introdurre, accanto a quelli già citati delle cellule, degli organi, degli organismi: la morte della persona. L’analisi di questo ulteriore livello ci porta decisamente oltre la biologia intesa come dato naturale (e oltre i confini della nostra stessa cultura), e mette in campo aspetti etici, politici, religiosi, antropologici: che cosa è la persona umana? Quando cessa di essere tale? Chi ha il potere di deciderlo? Qual è il suo destino? Proprio la possibilità, amplificata dalle tecnologie biomediche, di prolungare la vita dell’organismo (o per lo meno di alcune sue parti) oltre quella della persona rende evidenti i 20

Cfr. al proposito Favole, Allovio 1999.

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limiti di una definizione puramente biologica della morte, che prescinda da riferimenti di tipo culturale o storico. Come in un curioso gioco di sponda, l’approccio biologico alla morte finisce per fare appello a una definizione culturale della persona; analogamente, come abbiamo visto in precedenza (supra, §1.1), l’approccio culturale si fonda spesso sull’idea illusoria che la definizione biologica di morte fornisca un dato certo e incontrovertibile. L’approccio culturale e la prospettiva biologica sembrano viceversa convergere nell’individuare la problematicità del confine tra i vivi e i morti, uno spazio storicamente e culturalmente modellato, fluido, dalle forme molteplici e cangianti, aperto alle dispute e ai confronti. Un confine drammatico e incerto che le società umane devono in qualche modo provvedere a tracciare. 1.3. Il corpo come soglia L’interesse per i confini è decisamente rilevante in antropologia, una disciplina che, come ha fatto rilevare Ugo Fabietti, «nasce sulla frontiera tra culture diverse» (1999, XII – corsivo dell’autore). Potremmo parlare di un sapere dell’orizzonte (Favole 2002) che, nel caso della morte, si trova davanti un limite che accomuna l’intera umanità. La morte si presenta infatti come il confine estremo, l’uscita (più o meno definitiva) dalla comunità dei viventi: un confine problematico che tutti gli esseri umani devono, prima o poi, attraversare, che tutte le società sono chiamate a organizzare. I modi di esplorare questo orizzonte sono indubbiamente molteplici. L’antropologia si è concentrata in modo particolare sulle credenze che le varie popolazioni hanno elaborato riguardo al destino dei defunti, alla conformazione dell’aldilà, all’eventuale ritorno dei morti; sui riti mediante cui si accompagna la transizione del defunto e si riorganizza il gruppo che ha subito una perdita; in maniera meno pervasiva sui corpi, ovvero sulle diverse modalità di trattamento del cadavere e dei suoi resti che possono essere molto significative per comprendere il modo in cui la società disegna il confine e di rimando riflette sul senso della propria umanità. Credenze, riti, corpi non sono quasi mai ambiti di indagine praticati in maniera esclusiva. Scorrendo brevemente la storia dell’antropologia della morte21 ci si accorge tuttavia che, pur con no16

tevoli eccezioni, l’accento è caduto alternativamente su uno di questi tre aspetti. Da Tylor a Frazer, i primi antropologi moderni furono affascinati dalle credenze primitive concernenti la morte. Essi sostennero che le riflessioni dei primi uomini sul destino dei defunti erano state all’origine dell’idea di «anima» e, di conseguenza, di tutto il pensiero religioso. Come hanno sottolineato Richard Huntington e Peter Metcalf in Celebrazioni della morte – quello che può considerarsi il libro di maggior successo nella storia dell’antropologia della morte – «nella misura in cui la religione veniva considerata come un primo e largamente erroneo passo verso la scienza, le radici dell’intera impresa intellettuale umana venivano fatte risalire a queste prime riflessioni degli uomini sul loro destino dopo la morte» (1985, 57). Prendendo decisamente le distanze dagli studi precedenti, l’antropologia classica (il funzionalismo britannico così come l’etnologia francese) spostò l’attenzione sui riti funebri e sulla loro capacità di reintegrare i sistemi sociali in risposta a quell’evento caotico ed entropico per eccellenza che è la morte22. In quanto ai corpi, nonostante la grande mole di dati etnografici raccolti dagli antropologi nel corso del Novecento, l’intuizione cruciale di Hertz secondo la quale «l’attenzione per i contesti simbolici e sociologici del cadavere consente di formulare le più profonde spiegazioni sul significato della morte e della vita quasi in ogni società» (Huntington e Metcalf 1985, 71) è stata in gran parte trascurata. Laddove egli aveva abilmente tentato di connettere i tre campi di ricerca (corpi, riti, credenze), gli antropologi che lo seguirono, a partire da Van Gennep (1909) e sulla scia delle teorie «sociologiche» di Émile Durkheim, spostarono decisamente l’accento sui riti. L’antropologo americano Renato Rosaldo, riflettendo sull’attenzione pressoché esclusiva dell’antropologia classica per i riti funebri, ha lamentato la scarsa considerazione in cui è stato tenuto lo studio delle emozioni: «Le etnografie scritte ubbidendo alle norme classiche considerano la morte come un rito piuttosto che un’esperienza di perdita dolorosa» (2001, 50). «Perché – si chie21 Per un’utile anche se ormai datata rassegna degli studi antropologici sulla morte si veda Palgi, Abramovitch 1984. 22 Esemplare al proposito lo studio di J. Goody sui LoDagaa del Ghana (1962).

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de – gli etnografi si esprimono così spesso come se davvero un padre che perde il proprio figlio o una persona colpita da lutto che tenta un suicidio non facciano praticamente niente di molto diverso dal seguire una convenzione?» (ivi, 107)23. Nella prospettiva di Rosaldo, lo studio della soglia che separa i vivi dai morti dovrebbe porre in primo piano le emozioni, spesso drammatiche, che accompagnano la difficile transizione. Vi sono indubbiamente altri ambiti di ricerca che gli antropologi hanno trascurato, almeno fino a tempi piuttosto recenti. Uno di questi riguarda lo studio dei morenti 24. La morte è stata per lo più indagata post rem, a fatto avvenuto, trascurando il lungo percorso di dolore, sofferenza e disperazione che spesso accompagna il processo del morire. La soglia è stata esplorata, per così dire, nella direzione dell’aldilà, attraverso i riti e le credenze che ne definiscono i contorni, trascurando i tragici momenti che contraddistinguono le varie fasi del morire. Inoltre, riprendendo una celebre critica mossa agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso da Johannes Fabian, si potrebbe osservare che l’antropologia ha a lungo trascurato di considerare il noi, ovvero le rappresentazioni e le concezioni della morte che caratterizzano le società occidentali. Questo perché, concentrandosi su come gli altri muoiono (Fabian 1973), gli antropologi si sarebbero limitati a studi di carattere locale, per lo più in contesti esotici, mostrandosi poco propensi ad analisi di carattere generale e comparativo, dimenticando che la morte pone le società umane davanti a problemi di rilevanza universale. Prima di introdurre i temi che faranno da sfondo al percorso di ricerca proposto in questo libro, vorrei soffermarmi brevemente sui motivi che spiegano perché la morte abbia occupato tutto sommato uno spazio piuttosto marginale nella teoria antro23 La critica era già contenuta in Rosaldo 1984. In quella sede egli contestava in particolare lo studio citato di R. Huntington e P. Metcalf (1985), rei di aver persistito nel porre al centro dell’attenzione antropologica i riti funebri. Una risposta alle critiche di Rosaldo è contenuta nella seconda edizione della loro opera (1991). 24 Un’importante eccezione è costituita dall’antropologo britannico W.H.R. Rivers (1926), il quale osservò che numerose società individuano uno stadio di transizione tra la vita e la morte in cui collocano sia individui morti da poco sia individui che si avvicinano alla morte (anziani, ammalati, condannati).

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pologica, almeno fino agli ultimi venticinque anni. Una prima spiegazione ha a che fare con quella che è stata definita la «proibizione della morte», tipica della società occidentale. Si tratta di una celebre argomentazione che ritrova le sue origini in un breve articolo intitolato The pornography of death, che Geoffrey Gorer pubblicò per la prima volta nel 1955 e che venne poi ripubblicato in uno studio di grande successo dedicato ai costumi funebri della società inglese contemporanea (1965). Nell’Occidente del XX secolo, sosteneva l’antropologo britannico, la morte sembra svolgere lo stesso ruolo occupato dal sesso nei due secoli precedenti. Si tratta di un argomento tabu, «proibito». Se «sarebbe stato raro un individuo che, nel XIX secolo, con la sua alta mortalità, non avesse assistito almeno a una morte reale e non avesse reso omaggio ai ‘bei cadaveri’ (beautiful corpses)» (1965, 171), questo tipo di esperienza è divenuto raro e soprattutto è tenuto nascosto. I morenti e le persone in lutto sono oggetto di evitazione, parlare della morte equivale a praticare una forma di pornografia25. A partire da queste tesi provocatorie, lo storico francese Philippe Ariès elaborerà il concetto di «morte proibita», inteso come l’insieme degli atteggiamenti tipici della società occidentale moderna nei confronti del morire (1975, 1977). Sulla base di questa considerazione, si può ipotizzare che, provenendo in gran parte dal mondo occidentale, gli antropologi avrebbero portato con sé sul campo i valori culturali della propria società: incapaci di vincere il tabu della morte, essi avrebbero diretto il loro sguardo verso i riti e le credenze, ovvero verso aspetti dell’evento meno drammatici e in un certo senso più «addomesticati». Per questo lo studio delle emozioni e dei morenti, per limitarci agli ambiti indicati più sopra, fu a lungo trascurato. Gli studi degli storici france25 Non è esagerato dire che il tema della «morte proibita» nella società occidentale è uno degli argomenti topici, trasversale ai vari campi di studio che si sono occupati della morte negli ultimi cinquant’anni (dalla sociologia all’antropologia culturale, dalla storia alla psicoanalisi). Se è indubbio che, come mise in luce lo studio di J. Mitford sulla morte nella società americana (1963), fenomeni quali l’ospedalizzazione del morente, la crisi del rito, il business che circonda l’industria funeraria hanno finito spesso per fornire un’immagine della morte come evento tabu soprattutto nella società urbana occidentale, risulta tuttavia difficile su questo argomento opporre in maniera dicotomica il «West» (l’Occidente) al «Rest» (le altre società). Un’interessante riflessione al proposito è fornita da I. Pardo (1985).

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si26, e lo smascheramento della «morte proibita» quale rappresentazione collettiva peculiare alla società occidentale, ebbero l’effetto di stimolare anche in antropologia, a partire dalla fine degli anni Settanta, un rinnovato interesse per la morte che culminò in alcuni studi divenuti ormai dei veri e propri classici27. Una seconda possibile ragione dello spazio ridotto che a lungo lo studio della morte ha occupato nella storia del pensiero antropologico concerne più direttamente la metodologia della ricerca sul campo. Eventi quali il nascere e il morire presentano anche in altre società un carattere meno pubblico, più intimo rispetto, per esempio, ai riti di iniziazione28. Il nascituro e il morente sono circondati in genere da un ristretto numero di familiari e la presenza di un ricercatore estraneo in queste situazioni può rivelarsi altamente problematica. Oltre alle resistenze che egli porta con sé provenendo da una società che «proibisce» la morte, l’antropologo deve vincere le resistenze degli stessi nativi, poco inclini alla collaborazione nei tragici momenti che circondano il morire. In gran parte delle società umane il morente vive una fase liminare che prepara la sua uscita dal gruppo. Si tratta di una fase in cui la società – intesa nel senso più ampio – si «ritira», lasciando all’individuo e alla ristretta cerchia dei familiari il compito di occuparsi del morente. Non è forse un caso che gli studi più interessanti sui morenti siano maturati nel contesto della psicologia, come mostra il celeberrimo e pionieristico lavoro di Elisabeth Kübler-Ross sui malati terminali (1969). In quest’ottica, la solitudine del morente di cui parlava Norbert Elias (1982)29 a proposito della società occidentale si configurerebbe come una con26

Cfr. anche Vovelle 2000. Si vedano in particolare i lavori già citati nel testo di R. Huntington e P. Metcalf (1985); M. Bloch e J. Parry (1982); S. Cederroth, C. Corlin e J. Lindström (1988). Meno celebre ma ugualmente interessante il testo curato da S.C. Humphreys e H. King (1981). 28 Significativamente, anche le ricerche antropologiche sulla nascita sono piuttosto rare e, per lungo tempo, si sono concentrate sui riti evitando l’analisi dell’evento nascita. Cfr. al proposito Davis-Floyd, Sargent 1997. 29 Occorre a mio parere distinguere la «solitudine del morente», intesa come l’inevitabile condizione di soglia che prepara il distacco dell’individuo dal suo ambiente socio-culturale, dall’«abbandono del morente» che lo stesso Elias denuncia a proposito della società occidentale in relazione al confinamento dei morenti in istituti e strutture sanitarie. 27

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dizione ampiamente diffusa a livello etnografico e non storicamente circoscritta. Nei momenti che precedono la morte, la società si ritrae dalla vita dell’individuo intervenendo però subito dopo per prendersi cura del corpo e mettere in atto i riti del congedo. Se il morire comporta il ripiegamento dell’individuo sul sé e su un piccolo gruppo di intimi, la morte avvenuta vede il ritorno prepotente della società, a cui spetta il compito di accompagnare il defunto verso il mondo dei morti, tracciando, attraverso i riti e le credenze che fanno loro da sfondo, i lineamenti di un confine che, come abbiamo visto in precedenza, si presenta alquanto problematico. Questo libro pone al centro della propria attenzione i corpi morti, i cadaveri e i resti dei processi di decomposizione. L’idea di fondo che lo sorregge è che i corpi morti siano oggetti di soglia estremamente significativi per indagare gli atteggiamenti che una società intrattiene nei confronti della morte. Accogliendo la cruciale intuizione di Hertz, andremo alla ricerca dei significati simbolici di cui varie società rivestono i corpi dopo la morte. Poste davanti agli inesorabili processi di decomposizione e disgregazione biologica che vanno sotto il nome di «tanato-morfòsi», le società umane reagiscono praticando su ciò che resta del corpo interventi culturali che definirò di «tanato-metamòrfosi». Le varie forme di trattamento del cadavere – dagli interventi estetici della toilette funebre alle modalità con cui si provvede ad accelerare (si pensi alla cremazione), occultare (le varie forme di sepoltura), rallentare o arrestare (l’imbalsamazione e la mummificazione) i processi di decomposizione (infra, cap. 2) – ne sono un esempio eloquente. Avviene poi che spesso la storia del corpo non si fermi qui: in molte società alcune categorie di resti (scheletri interi, crani, ossa, denti, capelli e così via) tornano ad avere una vita sociale – come direbbe Arjun Appadurai (1986) – rivestendosi di significati religiosi, politici, scientifici, estetici (infra, capp. 3, 4 e 5). Proprio la nozione di «resti» potrebbe rivelarsi un utile strumento teorico per un’indagine antropologica sul corpo dopo la morte. Collocandosi tra l’essere – gli individui di cui conservano tracce fisiche e simboliche – e il non essere rappresentato dalla dissoluzione fisica e dall’oblio sociale a cui sembrano destinati, i «resti» sono una categoria ontologicamente ambivalente che rende ben conto degli atteggiamenti contrastanti che le società han21

no nei confronti dei corpi morti. Oggetto di repulsione e di orrore per un verso, essi sono al contempo i depositari di una profonda carica affettiva e sacrale, almeno da parte di coloro che in vita ebbero rapporti di familiarità col defunto; destinati all’oblio e all’anonimato, essi spingono tuttavia a escogitare forme selettive di memoria che preservino il ricordo della loro forma vitale; preda degli attacchi distruttivi dei processi biologici, i corpi morti conservano tracce fisiche o simboliche dei consistenti interventi culturali di cui furono oggetto nel corso dell’esistenza. In quanto presenze concrete di quella soglia che separa il mondo dei vivi dal mondo dei morti, i resti umani (nella forma di cadaveri o di ossa) appaiono decisamente importanti per una riflessione antropologica sulla morte. Con il suo inevitabile avvento, la morte introduce un elemento di crisi e di discontinuità nel rapporto che le società umane intrattengono con i corpi degli individui che le compongono. Il sopraggiungere della morte minaccia di porre definitivamente fine a quei continui interventi sul corpo che, come ha evidenziato Francesco Remotti, rappresentano un aspetto essenziale del processo di «antropopoiesi» (1996; 1999; 2000), di costruzione dell’essere umano. L’organismo, con le sue trasformazioni biologiche, prende il sopravvento sulla persona. E tuttavia, il corpo morto non è quasi mai considerato alla stregua di un semplice involucro biologico. L’attenzione rituale che universalmente circonda i cadaveri (e che pare connessa alla stessa origine filogenetica dell’essere umano), nasce dal fatto che essi sono «resti» di umanità e non semplici residui organici. Preparandosi a prendere congedo dai corpi, la società si trova a dover fare i conti con quella humanitas evanescente e residua che caratterizza i resti. Se in vita gli esseri umani «incorporano» cultura attraverso operazioni antropopoietiche di natura estetica, rituale o quotidiana, la morte minaccia di porre fine a questi interventi, collocando i corpi in una sorta di limbo antropologico, dando origine alla categoria liminare dei resti, sospesi tra cultura e biologia, tra organico e inorganico, tra presenza e assenza, tra umano e post-umano. Gli investimenti culturali e affettivi di cui i corpi sono oggetto in vita non si dissolvono del tutto al sopraggiungere della morte: nei resti risuona ancora, anche se in dissolvenza, l’eco dell’umanità in essi scolpita. Questo lavoro, attingendo alla vasta letteratura antropologica 22

sulla morte prodotta nel corso degli ultimi decenni, si propone come uno studio teorico sulla vita sociale del corpo dopo la morte. Esso adotta un approccio ampiamente trasversale e mette a confronto società differenti sul tema dei resti, raccogliendo risposte locali a questioni di carattere universale. Questo «giro lungo» tra le altre culture dovrebbe permetterci di acquisire strumenti per riflettere in maniera più approfondita sui significati che i resti assumono nella nostra stessa società. In via preliminare, sarà bene tentare di rispondere a due domande che ci introdurranno poi all’analisi del trattamento dei corpi dopo la morte: che cosa succede quando si verificano morti senza cadaveri? A livello storico ed etnografico, sono mai esistite società che abbiano programmaticamente abbandonato i corpi morti senza alcuna attenzione rituale, come se si trattasse di semplici rifiuti organici? 1.4. Il cadavere assente e l’umanità rifiutata A Tikopia, sperduta isola dell’Oceano Pacifico situata all’estremità orientale delle Salomone e studiata a più riprese nel secolo scorso dall’antropologo britannico Raymond Firth30, le morti in mare erano piuttosto frequenti. Gli incidenti potevano avvenire durante le lunghe traversate oceaniche a bordo delle imbarcazioni tradizionali o nel corso di spedizioni di pesca: anche i suicidi sceglievano spesso il mare come ultima dimora. Firth si sofferma più volte a riflettere sul fatto che il mancato ritrovamento del cadavere gettava i familiari e gli amici del defunto in un profondo sconforto. La consuetudine dei Tikopia, quando qualcuno si perde in mare, consiste nel fatto che i parenti attendono per circa un anno che un’imbarcazione straniera faccia approdo sull’isola […]. In seguito, essi celebrano un rito di sepoltura come per un cadavere ma utilizzando stuoie e stoffa di corteccia, in una tomba vuota. Per definire questa cerimonia utilizzano l’espressione «distendere le stoffe della tomba per rendere asciutto il disperso». Il simbolismo racchiuso nell’espressione rimanda al fatto che le stoffe della tomba forniscono indumenti asciutti 30

Cfr. Firth 1976; 1977.

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allo spirito del morto, il cui corpo ha raggiunto la sua ultima dimora nell’oceano avvolto in indumenti bagnati (1970, 62 – corsivo mio).

La disperazione di Pa Rangifuri, amico e informatore di Firth, per la morte suicida del figlio Noakena e per il mancato ritrovamento del corpo, fu almeno in parte mitigata con un funerale in cui il cadavere fu sostituito da stoffe di corteccia, stuoie e vari tipi di ornamento. Il funerale venne celebrato dopo che Noakena era apparso in sogno al genitore chiedendo di essere «asciugato». La metafora dell’«asciugare» enfatizza la dimensione corporale del defunto, la cui presenza fisica, almeno in forma simbolica, sembra essenziale per la celebrazione di un rito funebre che ponga fine al periodo di lutto. In effetti, come sostiene Louis Vincent Thomas, «nulla è più tragico dell’assenza del cadavere»: per questo molte società ricorrono in questi casi a funerali fittizi e seppelliscono oggetti che, in qualche modo, fungono da sostituti (1980, 46-48)31. I Diola del Senegal, studiati negli anni Sessanta dallo stesso Thomas, seppellivano il sostegno in pietra su cui il defunto poggiava la propria testa durante il sonno. Altre società africane utilizzano le vesti o gli ornamenti indossati in vita dal morto. Nell’antica Roma, quando il padrone rifiutava la sepoltura a uno schiavo, i suoi compagni confezionavano una sorta di bambola con le sembianze del defunto. In fondo, nota Thomas, l’uso di erigere cenotafi per i soldati dispersi in guerra risponde alle stesse esigenze. Come ci ricorda anche la psicoanalisi, la presenza del cadavere costituisce un’esigenza fondamentale per l’elaborazione del lutto (Fedida 1970). Anche quando vi sia la certezza della morte e del luogo in cui si trova il corpo, il suo recupero viene considerato della massima importanza, come mostra il caso seguente che ci riporta in mari un po’ meno esotici. Il 12 agosto del 2000 il sotto31 Antropologo francese, L.V. Thomas ha dedicato gran parte della sua attività scientifica allo studio della morte, soprattutto nelle società africane. Cfr. Thomas 1976; 1978; 1980; 1982; 1992; 2000. L’interesse per gli studi tanatologici è particolarmente forte in Francia dove, negli ultimi dieci anni, sono stati pubblicati numerosi lavori di taglio antropologico e sociologico: cfr. Liberski 1994; Mohen 1995; Nathan 1995; Augé 1995; Bacqué 1997; Déchaux 1997; Scheps 1998; Baudry 1999; Dagognet, Nathan 1999; Fellous 2001.

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marino russo Kursk si inabissava nelle gelide acque del mare di Barents, con a bordo il suo carico umano di oltre cento marinai. Dopo alcuni giorni caratterizzati da frenetici quanto infruttuosi tentativi di salvataggio, tutti gli uomini di bordo vennero dichiarati morti all’interno della «tomba d’acciaio», come venne definita l’imbarcazione. Qualche giorno più tardi, le autorità russe furono aspramente criticate dai parenti delle vittime che non accettarono di partecipare alla cerimonia ufficiale di addio. Il Kursk, disse uno di loro, «non dovrà essere considerata la tomba degli ‘eroi del sottomarino’». Pressato dall’opinione pubblica, il presidente russo Vladimir Putin fu costretto a promettere solennemente «il recupero dei corpi […] e un funerale con tutti gli onori della terraferma». Per i familiari delle vittime i corpi dei marinai non erano certo semplici «spoglie» biologiche di cui si potesse fare a meno. Nonostante la certezza della morte e del luogo di sepoltura, la restituzione dei corpi fu considerata essenziale ed essi vennero recuperati l’anno successivo, al termine di una rischiosa operazione internazionale32. Veniamo ora alla seconda questione posta alla fine del paragrafo precedente: esistono società che non circondano di alcuna attenzione i cadaveri dei loro membri e li abbandonano alla stregua di rifiuti organici? L’etnografia riporta alcuni casi di società di cacciatori e raccoglitori i quali, per le esigenze della loro forma di economia, vivono in piccoli gruppi spostandosi frequentemente sul territorio e dedicano attenzioni minime ai resti. A proposito dei costumi funebri di quattro gruppi di cacciatori e raccoglitori africani, l’antropologo britannico James Woodburn fece rilevare che «le procedure di trattamento e la disposizione dei corpi sono relativamente semplici e mondane. Esse vanno oltre, ma non molto oltre, le esigenze pratiche di liberarsi di un corpo in putrefazione» (1982, 202)33. Al sopraggiungere della morte, il corpo può venire rivestito, unto, avvolto in bende, decorato: do32 Le informazioni e le citazioni sul caso del Kursk sono tratte da vari articoli pubblicati tra il 2000 e il 2001 dal quotidiano «la Repubblica» e raccolti poi in un dossier on line all’indirizzo: www.repubblica.it/online/mondo/kursk/dossier. 33 Le società considerate da J. Woodburn in questo celebre articolo sono gli Hazda della Tanzania, i Pigmei Mbuti dell’ex Zaire, i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani !Kung del Botswana e della Namibia. Le conclusioni di Woodburn

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podiché viene sepolto sotto pochi centimetri di terra, nella capanna in cui l’individuo viveva, capanna che viene poi abbattuta, divenendo una sorta di tomba. Questi luoghi di sepoltura sono ben presto abbandonati al loro destino e dimenticati. Ciò che contraddistingue l’atteggiamento di questi popoli verso la morte è la rapidità, non priva tuttavia di attenzioni rituali, con cui essi abbandonano i corpi. Si potrebbe osservare che tutte le società devono prima o poi congedarsi dai corpi e abbandonarli al loro destino. E tuttavia, per quanto l’attenzione di cui li rivestono possa limitarsi a interventi essenziali (come le operazioni di toilette funebre, infra, § 2.1), a un breve rito e a una sepoltura ben presto dimenticata, il congedo socialmente e culturalmente organizzato prima dell’abbandono definitivo è profondamente diverso dai casi in cui i cadaveri sono trattati al pari di semplici rifiuti organici. Il «rifiuto del cadavere», intendendo con quest’espressione la negazione di ogni cura per i corpi morti, espulsi come corpi estranei, senza attenzioni rituali, al pari di altri prodotti biologici in decomposizione, va in questo senso nettamente distinto dall’abbandono praticato nel contesto di riti e pratiche socialmente definite. Realtà ben diffusa in molte epoche e culture, il «rifiuto del cadavere» è una pratica macabra e punitiva che, per lo più, viene effettuata ai danni dei corpi di «altri», corpi la cui radicale alterità permette l’esercizio di una violenza post mortem che viene in genere concepita come una delle peggiori atrocità che si possano compiere verso un essere umano. L’aspetto punitivo del rifiuto del cadavere è ben illustrato da questo passo biblico del profeta Geremia (8, vv. 1-2): In quel tempo – oracolo del Signore – si estrarranno dai loro sepolcri le ossa dei re di Giuda, le ossa dei suoi capi, dei sacerdoti, dei profeti e degli abitanti di Gerusalemme. Esse saranno sparse in onore del sole, della luna e di tutta la milizia del cielo che essi amarono, servirono, seguirono, consultarono e adorarono. Non saranno più racrelative alla natura dei costumi funebri di queste società non hanno la pretesa di fornire una generalizzazione applicabile a tutte le società di cacciatori e raccoglitori. Come mostra il caso degli Aborigeni australiani, vi sono (o vi erano) popolazioni di cacciatori e raccoglitori che hanno elaborato cerimonie funebri e modalità di trattamento dei corpi estremamente complesse (cfr. Elkin 1938).

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colte né sepolte, ma rimarranno come letame sulla terra.

Le sanguinose guerre che hanno caratterizzato tanta parte del secolo scorso forniscono al proposito tragici e ripetuti esempi. I conflitti «etnici» esplosi negli ultimi decenni abbondano di orribili fosse comuni, di cadaveri sfregiati, mutilati, bruciati: dagli scontri nei Balcani a quelli tra Hutu e Tutsi in terra africana – per limitarci agli esempi più celebri – le guerre etichettate come «genocidi» paiono caratterizzarsi per un’accanita violenza sui corpi morti. I cadaveri dei Kosovari, che sono costati al leader serbo Slobodan Milosevic l’accusa di crimine contro l’umanità, vennero trasportati in camion frigoriferi dal Kosovo alla Serbia e gettati in fosse comuni, come carcasse di animali34. Risalendo un po’ più indietro nel tempo, in alcuni campi di sterminio nazisti i cadaveri furono riciclati come rifiuti: i grassi vennero utilizzati per la fabbricazione del sapone, i capelli per la confezione del feltro, dalle ossa – macabro richiamo alle parole di Geremia – venne ricavato concime35. Alla fine della seconda guerra mondiale, le truppe iugoslave diedero vita a una serie di operazioni di vendetta contro la popolazione italiana, gettando i corpi delle vittime nelle «foibe». Come ha osservato lo storico Giovanni De Luna, in una riflessione dedicata ai corpi del Novecento: «Quelle fosse, da sempre utilizzate dai contadini del Carso come discariche e ricettacolo di immondizie, accolsero i cadaveri-rifiuti, espulsi dalla comunità, in una sorta di ‘bagno rigeneratore’ in cui l’uso di quei corpi lascia intravedere – anche terminologicamente – i contorni terrificanti della ‘pulizia etnica’» (2001, 164)36. Come mostrano questi brevi esempi, quando la violenza assume i caratteri estremi del «genocidio», l’accanimento contro i corpi può oltrepassare il confine della morte, fino a negare ai resti ogni forma di sacralità e ogni possibilità di rito funebre. In una prospettiva piuttosto diversa, anche la commercializzazione del cadavere (o di alcune sue parti) rientra nella categoria del «rifiuto», come mostrano alcuni casi storici ed etnografici su 34 R. Ourdan, L’opinion serbe commence à évoluer grâce aux révélations sur les charniers, in «Le Monde», 3 luglio 2001, p. 2. 35 Thomas 1980, 101. 36 Le espressioni riportate tra virgolette sono tratte da Valdevit 1999.

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cui avrò occasione di ritornare in seguito. Sul finire del XVIII secolo, in Nuova Zelanda, all’epoca dei primi contatti tra gli occidentali e le popolazioni locali, alcuni capi maori, avendo constatato la passione dei viaggiatori e dei collezionisti europei per le teste tatuate (moko-mokaï) che essi ostentavano nelle loro capanne, non esitarono a farne commercio e ad accentuare l’attività bellica per procurarsi i crani dei nemici (Le Fur 1999b). Queste teste-trofeo finirono per fare bella mostra di sé prima nei «Gabinetti delle curiosità» e più tardi nei musei etnografici dei paesi occidentali (infra, § 4.4). Pratiche simili, che appaiono oggi alquanto macabre, non mancavano neppure nella patria dei civilizzatori inglesi. Più o meno negli stessi anni, tra la seconda metà del Settecento e i primi tre decenni dell’Ottocento, in Inghilterra la scarsa disponibilità di cadaveri per gli studi di anatomia favorì la formazione di un mercato nero di corpi morti. Protagonisti ne furono i cosiddetti bodysnatchers, «predatori di cadaveri» che diedero vita a vere e proprie bande specializzate nel rubare i corpi appena inumati per rivenderli poi alle scuole anatomiche37. Soltanto l’Anatomy Act del 1832, che avrà tra i suoi ispiratori il filosofo Jeremy Bentham, porrà fine a questa macabra pratica estendendo la disponibilità legale di corpi. Se, fino a quella data, le leggi inglesi prevedevano che un limitato numero di cadaveri di condannati a morte fosse messo a disposizione delle scuole anatomiche, l’Anatomy Act incluse le salme di persone decedute in ospizi e non reclamate da alcuno. Seppure ebbe l’effetto di limitare l’opera dei bodysnatchers, «svalutando» di fatto il prezzo dei corpi morti, questa disposizione introdusse una pratica classista di abbandono del cadavere. All’origine della biomedicina occidentale, che ha nell’anatomia un solido e imprescindibile fondamento, ritroviamo così resti di individui condannati a morte o abbandonati negli ospizi. La nascita e gli sviluppi della scienza medica furono resi possibili dalla mercificazione del cadavere, legata a una definizione del corpo come entità puramente biologica (Foucault 1969). Il problema 37 Si veda al proposito Quigley 1996, 292-298. Un’approfondita riflessione sull’uso dei cadaveri in relazione alla nascita della moderna anatomia è fornita da Richardson 1987.

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della mercificazione dei corpi morti – o meglio di alcune loro parti – si è riproposto di recente, nel momento in cui i progressi della medicina delle cure intensive e dei farmaci anti-rigetto hanno permesso la diffusione dei trapianti. Nonostante l’indubbio valore umanitario e sociale di questa pratica, non sono mancate le critiche di chi, da vari punti di vista, ha denunciato il rischio di dichiarazioni precoci di morte o di un uso strumentale e commerciale dei resti umani (infra, § 5.2). Il sociologo svizzero Jean Ziegler (1975) ha parlato al proposito di cannibalisme marchand, riferendosi in generale al commercio di parti del corpo umano a scopo terapeutico. Vorrei infine soffermarmi su alcuni casi che non riguardano necessariamente il rifiuto vero e proprio del cadavere ma la negazione ad alcune categorie sociali delle consuete pratiche di trattamento del corpo, dei riti funebri, dei luoghi normalmente riservati alle sepolture. Come ha evidenziato Giancarlo Baronti in un approfondito saggio dedicato alla pena di morte in età moderna (2000), nelle società europee l’esecuzione capitale prevedeva spesso l’esposizione dei cadaveri dei «giustiziati»: abbandonati agli agenti atmosferici, spesso divorati dagli animali, i loro resti venivano in seguito sepolti in terra non consacrata. Allo stesso modo, nella Chiesa medievale, a eretici, streghe e suicidi venivano negati i consueti riti funebri e l’accesso ai campisanti. L’esempio più interessante al proposito concerne però il destino dei corpi dei non iniziati. In quelle società in cui è una qualche forma di iniziazione a sancire il passaggio dell’individuo alla condizione propriamente sociale di persona, i cadaveri di individui non iniziati possono essere assimilati a feti abortiti e sepolti senza attenzioni rituali. Così i Bijagó della Guinea Bissau, recentemente studiati da Chiara Pussetti e Lorenzo Bordonaro, considerano il bambino nelle prime settimane di vita come un essere incompleto e senza identità, più simile a un orebok, uno «spirito» (di cui è considerato la reincarnazione), che a un essere umano. «Fintanto che è bianco e molle, fino al momento cioè della sua integrazione sociale, il neonato non viene considerato una vera persona: la sua morte non verrà pianta, il suo cadavere verrà interrato rapidamente in un posto qualsiasi» (Pussetti, Bordonaro 1999, 103)38. 29

Storicamente ed etnograficamente, il «rifiuto del cadavere» sembra dunque riservato a individui che vengono collocati al di fuori dei confini dell’umanità o perlomeno della comunità: in quanto portatori di una radicale differenza etnica, come nel caso dei genocidi; in quanto ritenuti estranei alla società civile o religiosa, come nel caso dei «giustiziati», degli eretici e dei suicidi nell’età medievale o ancora dei pazzi e dei criminali in età moderna, quando i loro cadaveri forniranno la materia prima per gli studi anatomici (infra, § 5.1); e ancora, in quanto non fanno ancora parte dell’umanità in senso proprio, come nel caso dei bambini non iniziati. In tutte queste situazioni, i cadaveri possono essere assimilati a rifiuti che, come tali, sono abbandonati, gettati via, riciclati, venduti. Il rifiuto sembra configurarsi insomma come l’eccezione che conferma la regola: laddove vi è piena attribuzione di humanitas all’individuo, l’attenzione ai resti si configura come una necessità inderogabile. Viceversa, il rifiuto dei cadaveri appare come un’evasione, spesso assai pericolosa, dai confini dell’umanità.

38 Problemi simili non sono del tutto estranei alla nostra società. In molte legislazioni europee esiste una notevole incertezza sulle modalità di trattamento del corpo dei bambini morti durante la gestazione. Il regolamento di polizia mortuaria attualmente in vigore in Italia («Gazzetta Ufficiale» n. 239 del 12 ottobre 1990) definisce «prodotti abortivi» i feti morti di età inferiore alle 28 settimane di gestazione. Fino alle 20 settimane per essi non è prevista – salvo specifica richiesta da parte dei genitori – la sepoltura in cimitero bensì lo smaltimento al pari degli altri rifiuti biologici ospedalieri. Se si tiene conto che la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza impedisce l’aborto oltre la dodicesima settimana – suggerendo implicitamente che oltre questo limite ci troviamo di fronte a un essere umano vero e proprio – si noterà una curiosa sfasatura. Tra le dodici e le venti settimane il feto è già, per quanto embrionalmente, un essere umano ma non ha diritto a una sepoltura adeguata. Problemi simili esistono nella legislazione francese. Si veda al proposito Fellous 2001 (in particolare le pp. 39-88).

Capitolo secondo

Dal corpo ai resti

E invero, se nella morte è un male essere straziato dalle mascelle / e dai morsi delle fiere, non intendo come non sia acerbo / esser posto sul rogo per esservi arrostito dalle calde fiamme / o soffocare immerso nel miele o intirizzire di freddo, / disteso sopra la liscia superficie di una gelida pietra, / o esser premuto dall’alto, schiacciato sotto il peso della terra. Tito Lucrezio Caro, De rerum natura

2.1. Tra finzione e dissoluzione Liberarsi dei corpi morti senza praticare su di essi alcun tipo di intervento e senza dedicarvi una seppur minima attenzione rituale è una modalità dis-umana, aberrante e violenta di trattare i defunti. Il «rifiuto del cadavere», come è emerso nelle ultime pagine del capitolo precedente, caratterizza infatti situazioni di violenza estrema o di emarginazione, in cui i corpi morti sono considerati portatori di un’alterità minacciosa che li colloca al di fuori dei confini dell’umanità o comunque della comunità che li respinge. Se si escludono questi casi estremi (ma niente affatto rari), si può tuttavia osservare che, per lo più, il momento della morte coincide con una temporanea riappropriazione culturale del corpo. Al sopraggiungere della morte, corpi a lungo devastati dalla malattia e dall’agonia recuperano – in maniera fittizia e transitoria – una vita sociale divenendo il fulcro di attenzioni culturali che si concretizzano spesso in interventi di tipo estetico. Un rapido sguardo ai trattamenti che varie società riservano ai cadaveri nei momenti immediatamente successivi alla morte ci permette infatti di osservare che essi vengono lavati, oliati, profumati, depilati, pettinati, truccati, dipinti, abbigliati con i vestiti della festa o avvolti in stoffe e 31

panni preziosi. La «toilette funebre», come viene normalmente definita, maschera i segni devastanti dell’agonia e della sofferenza, cercando di tenere nascoste le tracce dell’imminente disgregazione. Come ha osservato Francesco Remotti: «Quel poco che ancora rimane, quel margine di intervento che ancora sussiste subito dopo la morte, viene sfruttato in ogni modo per imprimere, ancora una volta, i segni di una cultura, di una concezione antropologica, di una forma di umanità» (2000, 138). Nel concludere il loro studio transculturale sui riti funebri, Richard Huntington e Peter Metcalf (1985), dopo un percorso che li aveva condotti dall’Africa all’Indonesia (passando per l’antico Egitto e la Francia medievale), dedicavano un capitolo agli american deathways, i «modi di morire» americani. Se, sul finire degli anni Settanta, si poteva opporre un’Europa settentrionale caratterizzata da un rito funebre sobrio e laico e dalla scelta prevalente della cremazione a un’Europa meridionale che, a causa soprattutto dell’influenza della Chiesa cattolica, continuava a preferire la sepoltura sotto terra, gli americani avevano da tempo intrapreso una strada ancora diversa, optando per un rito funebre civile ma molto elaborato. Fin dagli ultimi anni dell’Ottocento si era infatti imposto un funerale che comprendeva l’uso di una tecnica di imbalsamazione parziale dei corpi e di una toilette funebre particolarmente curata; una lunga veglia funebre in una funeral home sotto la guida di un funeral director; infine la sepoltura sotto terra. Ciò che maggiormente colpiva (e colpisce tuttora) della cosiddetta «tanatoprassi» americana era proprio la cura del cadavere, i trattamenti volti a preservarne l’integrità e a esaltarne la bellezza per tutto il periodo della veglia, tra cui un cospicuo uso di cosmetici (infra, § 2.6). Se altri autori si erano limitati a condannare i risvolti commerciali della tanatoprassi, individuando nella cura quasi ossessiva del cadavere un’incapacità tutta americana di accettare la morte1, Huntington e Metcalf consideravano questi interventi come una delle tante modalità attraverso cui le società reagiscono agli imminenti processi di decomposizione dei corpi: «Nell’orrore per la putrefazione gli americani assomigliano ai Be1

Due contributi importanti in quest’ottica sono Waugh 1948 e Mitford 1963.

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rawan del Borneo, ma la loro reazione è diversa. I Berawan tentano infatti di accelerare il completamento del processo, gli americani cercano di fermarlo» (1985, 282)2. In un libro dal titolo significativo per la prospettiva qui delineata, Des cadavres et des hommes ou l’art d’accomoder les restes, l’antropologo svizzero Jean-Gabriel Gauthier nota che «il defunto è immediatamente oggetto di cure volte a purificarlo, per lo più associate ad attenzioni estetiche che si ha l’abitudine di definire ‘toilette del morto’» (2000, 30). Queste operazioni rispondono a esigenze igieniche (chiusura degli orifizi e di eventuali ferite, occultamento di odori sgradevoli ecc.), ma rivestono in primo luogo una funzione estetica che, per altro, va al di là delle semplici pratiche di manipolazione del corpo: «La gestualità, la parola, la musica – tanto la melodia quanto il ritmo – possono essere inclusi nella ‘toilette del morto’ da cui sono indissociabili e che, senza di essi, si ridurrebbe a un semplice esercizio tecnico» (ivi, 29). Quest’ultimo, estremo tentativo di appropriazione culturale dei corpi, suggerisce Gauthier, va al di là delle operazioni di pulizia e ornamento: le parole e i gesti rivolti al cadavere (accarezzare, abbracciare, tenere sulle ginocchia3), le musiche, gli oggetti che lo circondano ritagliano uno spazio in cui, in maniera effimera e illusoria, il cadavere si ritrasforma in corpo e torna a far parte della società che lo circonda. «Non c’è un solo popolo che, ai giorni nostri, non compia in qualche maniera un atto assimilabile alla toilette del morto. Questa testimonianza d’amore, d’affetto, di rispetto, questa purificazione dell’altro attraverso se stessi, sembra iscriversi in un codice genetico dell’umanità» (ivi, 32). In molte società la toilette funebre ha tra i suoi compiti anche quello di conferire una precisa postura al corpo, prima che la rigidità cadaverica impedisca ogni ulteriore intervento: nella pratica cattolica le mani vengono congiunte e tra esse viene posta una corona di rosario, le palpebre sono abbassate e il corpo è disteso a suggerire l’idea del sonno eterno. In altre società – presso i Micronesiani di Yap (isole Caroline) o i Maori della Nuova Zelanda 2 Per un’approfondita analisi storico-antropologica della tanatoprassi americana rimando a Thomas 1980, 128 e segg.; Gauthier 2000, 184 e segg.; Vovelle 2000, 624-627. 3 Si pensi alla celeberrima Pietà di Michelangelo.

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per esempio – al morto viene fatta assumere una posizione seduta e attorno a esso si dispongono asce, lance e altri oggetti che gli appartennero in vita4. Interventi estetici più o meno invasivi preparano dunque il corpo per il rito funebre vero e proprio di cui esso sarà il fulcro. Attorno a quel corpo rimodellato, il gruppo si ricostituisce, si riattivano le reti sociali, si dispiegano complessi scambi cerimoniali. Facendo un bilancio del consistente numero di studi sui riti funebri compiuti dagli antropologi, tra la prima e la seconda edizione della loro celebre opera, Huntington e Metcalf osservano che un tema comune emergente da questa variegata e approfondita letteratura è proprio l’importanza degli scambi (19912, 13). Dall’Africa all’Europa fino all’Oceania, i riti funebri danno vita a complesse reti di scambio, quel dare-ricevere-ricambiare che, come già aveva intuito Marcel Mauss nel suo Essai sur le don (1923-1924), è costitutivo della società. In quanto protagonisti del rito funebre, i corpi morti sono oggetti (o soggetti?) sociali per eccellenza, e attorno ad essi prende forma quella società che essi stanno per abbandonare e da cui stanno per essere abbandonati5. «La morte, certezza suprema della biologia poiché tutto ciò che vive deve morire, presenta un carattere ‘atemporale e metafisico’6: ma essa lascia sempre un cadavere, ben attuale e reale, sede di profonde trasformazioni organiche» (Thomas 1980, 13). L’affermazione di Thomas coglie con realistica lucidità lo slittamento dalla «finzione» rappresentata dagli ultimi interventi sul corpo alla putrefazione che trasforma definitivamente quest’ultimo in cadavere. I processi biologici della tanato-morfòsi pongono drasticamente fine al modellamento culturale del corpo. La putrefazione, termine che già di per sé suscita orrore e angoscia, è la forza disgregatrice per eccellenza, è la «morte presente», la «morte che agisce» (ivi, 84). Se per gran parte della loro esistenza 4 Cfr. Maconi 1965, 148-149 e Thomas 1980, 80 e segg. Entrambi gli autori forniscono un’ampia rassegna comparativa sui costumi legati alla toilette funebre. Una breve ma efficace riflessione sull’importanza di questa pratica in campo sanitario è fornita da Burdillat 1998. 5 Sulla centralità dello scambio nei riti funebri si veda Barraud et al. 1994. 6 L’espressione è di V. Jankélévitch, filosofo francese autore di una celebre riflessione sulla morte (1977).

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i corpi degli individui sono modellati e manipolati dalle forze della cultura, la putrefazione appare come un processo essenzialmente «anti-poietico», il punto terminale e irreversibile dell’opera di costruzione dell’essere umano. In quanto tale, essa pone una minaccia mortale non solo all’individuo ma all’intera società e per questo deve essere culturalmente controllata. Gestire i processi di disgregazione dei corpi è una necessità ineludibile per le società umane. Anche se non mancano esempi etnografici di gruppi che, almeno per qualche tempo, vivono a stretto contatto con i cadaveri e con le sostanze che ne fuoriescono7, per lo più la putrefazione viene occultata (le varie pratiche di sepoltura), evitata (la cremazione, il cannibalismo funebre), accelerata (l’esposizione del cadavere agli agenti atmosferici), arrestata (la mummificazione). Le svariate tecniche di trattamento del cadavere messe in atto dalle differenti società di cui mi occuperò in questo capitolo rispondono tutte all’esigenza di governare la trasformazione di corpi che stanno per uscire dall’orbita sociale ma sono ancora «impregnati» di umanità, tanto da non poter essere facilmente abbandonati. Per approfondire questo punto, è bene affidarci a un’osservazione particolarmente significativa di Thomas: L’uomo, si potrebbe dire, è l’animale che seppellisce i propri morti. Si deve parlare al riguardo di una «breccia bio-antropologica»8 che introdurrebbe un’autentica specificità dell’uomo? L’atteggiamento di fronte alla morte – e al cadavere – non sarebbe in definitiva quell’aspetto del suo essere per cui l’uomo si sottrae parzialmente alla natura e diventa animale acculturato? «Ciò che definiamo la cultura di un popolo è, almeno in parte, lo sforzo ch’esso compie per reintegrare nella propria vita collettiva la materialità del cadavere, le ossa prive della carne che rappresenta la vita, per scongiurarne gli effetti distruttivi: alla distruzione nichilista della natura di cui Darwin dice che uc7 I riti di iniziazione di alcuni Pigmei africani prevedevano la convivenza a stretto contatto con un cadavere per sei giorni; i Dayak del Borneo mescolavano i liquidi della decomposizione con del riso che i parenti del morto consumavano durante i funerali; in alcuni gruppi della Nuova Britannia e della Nuova Guinea le vedove erano tenute a cospargersi il corpo con i resti del morto. Cfr. Thomas 1980, 87 e segg. Altri esempi interessanti sono in Hertz 1994. 8 L’espressione è tratta da Morin 1970.

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cide più di quanto conservi, le società rispondono controllando la putrefazione del supporto reale della vita, la carne. La mummia, lo scheletro, il cranio rimodellato9, che ne è la più antica metafora, rappresentano mediante il loro contrario ciò che della realtà umana non è più visibile né palpabile, le sue credenze, i suoi valori, la sua cultura»10 (Thomas 1976, 10 – corsivo dell’autore).

La connessione tra l’umanità e il trattamento dei corpi morti presenta un’evidenza non solo storica ed etnografica ma anche filogenetica. La consapevolezza della morte e la cura dei cadaveri segnano infatti un punto di netta distinzione tra l’essere umano e gli animali11. A partire dalla prospettiva enunciata da Duvignaud e ripresa da Thomas, si può tuttavia fare un passo ulteriore nella direzione di ricerca proposta in questo libro: l’attenzione per i corpi dopo la morte si presenta come una sorta di corollario dell’idea secondo cui l’uomo è in primo luogo un essere bioculturale che modella il proprio corpo. La cura dei cadaveri rappresenta un prolungamento di questo sforzo, un tentativo (illusorio per l’individuo, ma non per la società) di reazione alle forze disgreganti della putrefazione. Ecco perché quest’ultima è l’aberrazione suprema, un evento profondamente dis-umano, la minaccia radicale alle capacità poietiche dell’umanità: «Ciò che definiamo la cultura di un popolo è, almeno in parte, lo sforzo ch’esso compie per reintegrare nella propria vita collettiva la materialità del cadavere», sostiene giustamente Duvignaud. L’avversione per i processi rivoltanti della tanato-morfòsi non è solo legata ai rischi igienici che essa comporta (come si è visto, in alcune società si instaura addirittura con essa una certa familiarità), ma a un rischio più radicale: l’annullamento di una propensione intimamente umana, quella di provvedere al modellamento, alla manipolazione e alla cura del corpo. Non a caso, nella nostra società, l’evento più drammatico di un funerale non è la presenza 9

Traduco l’aggettivo francese surmoulé con «rimodellato». Thomas cita qui da un testo di J. Duvignaud, Le language perdu (1973, 275276), teoricamente molto interessante. Il libro, che costituisce una serrata critica allo strutturalismo allora imperante in Francia, si conclude con un capitolo – da cui è preso il brano riportato – intitolato significativamente L’os et la chair. 11 Al proposito si veda il bel saggio di D. Mainardi, La conquista della consapevolezza in etologia (2001a). 10

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in sé del cadavere, ma la chiusura della bara, che segna simbolicamente la fine di ogni possibilità di intervento sociale, culturale e affettivo sul corpo12. Il controllo della putrefazione, affidato a specifiche pratiche di trattamento del cadavere e confinato in luoghi sacri come i cimiteri, è dunque una questione della massima importanza per le società umane. Il periodo che intercorre tra il funerale e la fine del processo di disgregazione del corpo è identificabile come un ulteriore periodo di soglia e, non a caso, molte società ne segnano ritualmente l’inizio e la conclusione13. Una volta terminata l’azione disgregante, i resti, per lo più, terminano la loro vita sociale. Il defunto può cadere nell’oblio e nell’anonimato o, al contrario, entrare a far parte della schiera degli antenati. Eppure, significativamente, in molte epoche e in molte culture la storia del corpo dopo la morte non si conclude neppure qui: i resti ossei di individui appartenenti ad alcune categorie sociali divengono nuovamente oggetti (o soggetti?) culturali di cui la società si riappropria, rimettendo in scena la finzione del modellamento. Se numerosi spiritualisti non hanno che disprezzo o indifferenza per la spoglia mortale – come del resto avevano per il corpo vivo –, e non danno valore che all’anima, se altri, pensando che la morte ponga termine definitivamente alla persona, confondono il «resto» con il «niente», ce ne sono, al contrario, che avvolgono il morto di premure e vogliono evitargli il più possibile l’oltraggio della decomposizione (cremazione, imbalsamazione, cure tanatopratiche) […]. Si sa il valore che i cristiani danno alle reliquie, proprio come l’uomo primitivo che consacrava un culto ai crani; i marxisti stessi non sfuggono alla regola, nel momento in cui sfilano «pietosamente» nella Piazza Rossa a Mosca davanti al corpo imbalsamato di Lenin. Lo splendore delle tombe avrebbe senso se i «resti» che racchiudono non avessero alcun valore? Ciò che si teme soprattutto è la putrefazione (Thomas 1976, 295-296). 12

Si pensi alla scena del celebre film di Nanni Moretti La stanza del figlio (2001) in cui l’immagine si sofferma con insistenza sui particolari della chiusura della bara e sugli effetti psicologici che essi inducono nei familiari del ragazzo morto. 13 Cfr. supra § 1.1 il tema della doppia sepoltura reso celebre da R. Hertz.

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Le reliquie cristiane, i celebri crani rimodellati e gli altri resti umani che le popolazioni dell’Oceania conservavano gelosamente e, a noi più familiari, i corpi imbalsamati di leader politici e religiosi o ancora le ossa con cui i paleoantropologi ricostruiscono la storia stessa dell’umanità tornano, a diverso titolo, a essere i depositari di investimenti affettivi, devozionali, estetici, scientifici. Fenomeni a lungo considerati propri della religione, di una credulità popolare alimentata dalla Chiesa (le reliquie cristiane), o di popoli primitivi e selvaggi vittime delle loro superstizioni (si pensi al culto e all’ostentazione dei crani in Oceania), questi «resti di umanità» destano il nostro interesse quali testimonianze di altrettanti tentativi culturali di arginare le forze disgregatrici della morte. I crani rimodellati esposti nella teca di qualche museo etnografico rappresentano in fondo, come suggerisce Duvignaud, la primitiva (nel senso di primaria e costitutiva) metafora della cultura umana e dei suoi interventi sui corpi che, anche se in maniera fittizia e illusoria, oltrepassano il limite ultimo della morte. 2.2. Tipologie e culture Rimandando ai capitoli successivi lo studio di alcune particolari categorie di resti che, sottraendosi all’oblio, hanno destato l’interesse di storici, antropologi e scienziati, è bene, in via preliminare, dare un’occhiata complessiva ai variegati modi con cui le società umane si sono confrontate con il drammatico problema della decomposizione dei corpi. La reazione ai processi disgreganti della tanato-morfòsi pone le società davanti a un numero limitato di scelte: la tipologia dei trattamenti del cadavere che propongo di seguito si limita a riassumere in uno schema molto semplificato le differenti modalità concrete di affrontare l’inevitabile disgregazione dei corpi morti, senza particolari riferimenti ai significati e all’elaborazione rituale di cui ogni società circonda questi interventi. A partire da questo schema di carattere generale, sarà possibile analizzare nei paragrafi successivi alcuni casi etnografici specifici e addentrarsi nella complessa trama di significati in cui tali pratiche vengono avvolte. In base al modo in cui le società reagiscono all’irrompere del38

la putrefazione si possono identificare cinque «macro categorie» che racchiudono a loro volta una forma specifica di trattamento del cadavere: [0. Rifiuto del cadavere] 1.

EVITARE (DISTRUGGENDO) – Cremazione – Cannibalismo funebre

2.

ACCELERARE

– Esposizione o abbandono rituale 3.

DISSIMULARE (CONSENTIRE)

– Sepoltura 4.

RALLENTARE

– Imbalsamazione temporanea – Tanatoprassi 5.

BLOCCARE (EVITARE CONSERVANDO) – Mummificazione – Criogenizzazione – (Trapianti)

Schema 1. Il controllo culturale della putrefazione

«Dovunque, quasi sempre, lo spettacolo della tanatomorfosi, della decomposizione, è motivo di ribrezzo, anzi di paura, ed è fondamentale, per mantenere la funzionalità delle mitologie rassicuranti, impedirne la vista» (Urbain 1980, 519)14. Se i casi di rifiuto del cadavere esaminati nel capitolo precedente si caratterizzano come una sorta di «categoria zero», in cui ci si limita a liberarsi dei corpi morti come se si trattasse di scarti organici, in genere l’insostenibilità della putrefazione e il suo carattere «anti-poietico» spingono le società a praticare una qualche forma di controllo dei processi di decomposizione. I cadaveri possono essere bruciati in maniera più o meno completa o ingeriti (cat. 1, 14 J.D. Urbain è uno studioso francese di spazi cimiteriali (1978; 1989). Egli ha proposto una tipologia di interventi sul cadavere a cui mi sono ispirato per l’elaborazione di questo schema (1980).

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«evitare, distruggendo»); esposti agli agenti atmosferici e alla voracità degli animali (cat. 2, «accelerare»); sepolti sotto la nuda terra, nella sabbia, nelle paludi, in grotte, nelle acque del mare, di laghi e fiumi, in preziosi sarcofagi di marmo e ancora tra le chiome degli alberi (cat. 3, «dissimulare/consentire»); conservati temporaneamente grazie a tecniche di imbalsamazione parziale, come nel caso della tanatoprassi americana (cat. 4, «rallentare»); infine, possono essere mummificati o affidati alla quiete raggelante del freddo (cat. 5, «bloccare»). Ciò che accomuna queste diverse pratiche è da un lato l’esigenza di prendere le distanze dai cadaveri in decomposizione e dall’altro quella di garantire un’attenzione culturale verso questi resti ancora impregnati di humanitas: il trattamento del cadavere si configura come una risposta culturalmente organizzata all’intrinseca ambivalenza dei corpi morti. L’antropologia mostra oggi una certa avversione per la costruzione di tipologie: il rischio paventato è quello di creare delle categorie astratte in base alle quali le varie società finiscono per opporsi in maniera troppo netta e distinta, come se si trattasse di mondi chiusi e incomunicanti; oppure, al contrario, si rischia di porre in uno stesso contenitore concettuale società molto diverse tra loro sulla base di somiglianze esteriori. Perché allora proporre una tipologia relativa al modo in cui le società reagiscono alla disgregazione dei corpi? Si tratta in primo luogo di gettare uno sguardo d’insieme, per quanto semplificato, su uno dei problemi di fondo delle società umane. Un problema a cui, salvo abbandonare i corpi come rifiuti, è impossibile sottrarsi. Ma c’è una ragione più sostanziale. A partire da questo schema si può osservare come le scelte che le società compiono in materia di trattamento del cadavere non siano quasi mai esclusive. Anche se in aree culturali e in momenti storici particolari può predominare l’una o l’altra di queste forme, per lo più è impossibile identificare una società con una soltanto delle categorie indicate. Nella citazione riportata come epigrafe a questo capitolo, Lucrezio, nell’ostentare indifferenza verso i trattamenti praticati sul cadavere, riflette sul fatto che al suo tempo (I secolo a.C.), la cremazione, l’inumazione in terra o in sepolcri di pietra e ancora l’immersione nel miele per conservare il cadavere erano scelte ampia40

mente praticate15. Anche se tali opzioni non sempre riflettevano la volontà del deceduto (schiavi e prigionieri di guerra dati in pasto alle belve nei circhi, martiri cristiani bruciati), non può non colpire questa varietà di interventi sul cadavere. In un contesto storico e culturale completamente diverso, tra gli ’Are’are delle isole Salomone, una popolazione melanesiana studiata da Daniel de Coppet a partire dagli anni Sessanta, ritroviamo una situazione ugualmente variegata: a seconda del loro rango, gli ’Are’are immergevano i morti nelle acque, li inumavano, li cremavano o li esponevano agli agenti atmosferici dopo averli sistemati in una piroga che veniva posta sulla cima di un albero (1970). Allo stesso modo, Jean Guiart (1979, 129 e segg.) riferisce che i Kanak della Nuova Caledonia esponevano i corpi dei morti al suolo, li essiccavano conservandoli poi in contenitori di fibra intrecciata, li deponevano in anfratti o li inumavano: una simile varietà si riscontrava anche nelle vicine isole Vanuatu16. Introducendo un’ampia rassegna etnografica sulla morte, Vittorio Maconi notava che: Le forme di sepoltura non presentano una distribuzione omogenea, né in senso geografico né in senso culturale. Sovente più forme di sepoltura coesistono in una medesima regione geografica, in un medesimo distretto, anzi all’interno di una medesima cultura. Fra gli indios dell’America meridionale si incontrano parecchie forme di sepoltura addirittura all’interno di piccoli gruppi; così avviene pure nelle Nuove Ebridi17. L’Australia presenta quasi tutte le forme esistenti nell’intero mondo: fra quegli indigeni infatti si pratica la sepoltura in ter15 La citazione di Lucrezio è tratta da De rerum natura, III, vv. 888-893. La pratica di conservare i cadaveri immergendoli nel miele e cospargendoli di cera, citata anche da Cicerone e Varrone e raccomandata in precedenza da Democrito, era di origine orientale (celebre il caso di Alessandro Magno il cui corpo venne, a quanto pare, immerso proprio nel miele). 16 Occorre precisare, per correttezza di documentazione, che le società considerate da J. Guiart (i Melanesiani della Nuova Caledonia e delle Vanuatu) presentavano e presentano tuttora un panorama etnico alquanto frammentato per lingua, tipo di organizzazione sociale ecc., per cui sarebbe sbagliato pensare ad esse in termini di società omogenee e uniformi. Tuttavia, modi differenti di trattare il cadavere si riscontravano anche all’interno di uno stesso gruppo etnico. 17 Antico co-dominio francese e inglese, le Nuove Ebridi sono divenute indipendenti nel 1980 assumendo il nome di Vanuatu.

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ra, la deposizione del cadavere su piattaforme o su alberi, la collocazione in spaccature di roccia o di piante, la disseccazione o mummificazione, la cremazione e anche una forma particolare di parziale cannibalismo (1965, 153).

In un articolo che si propone di mettere in discussione la tesi secondo cui le popolazioni native dell’Amazzonia mostrerebbero una forte propensione all’oblio dei morti, Jean-Pierre Chaumeil passa in rassegna le variegate modalità di trattamento del cadavere che caratterizzano quest’area. «Raramente si riscontra un trattamento uniforme per tutti in una medesima cultura: i morti non sono tutti nella stessa situazione, il loro destino varia in funzione dell’età, del sesso, dello status sociale, del luogo del decesso…» (1997, 84). Nelle basse terre dell’America del Sud si praticano la sepoltura nella casa del defunto, sulla piazza del villaggio, in foresta, in aree cimiteriali, con la deposizione del corpo nella terra o in urne decorate. Tale sepoltura può essere definitiva o doppia, come nel caso degli Yuko, i quali, dopo aver essiccato il cadavere col fuoco lo seppellivano nella sua abitazione per riesumarlo due anni dopo, riportarlo al villaggio per una celebrazione finale e riseppellirlo in una grotta-cimitero con centinaia di altre mummie. Oltre alla sepoltura, in Amazzonia si ritrovano la cremazione, spesso riservata a capi e sciamani; la mummificazione (molto importante anche nelle culture andine), anch’essa limitata in genere a personalità eminenti; l’esposizione dei cadaveri su piattaforme elevate; l’endocannibalismo (infra, § 2.4); la «sostituzione funebre» per cui il cadavere viene rimpiazzato da oggetti o da parti del corpo. In molti casi queste pratiche coesistono in un medesimo gruppo sociale e spesso, argomenta Chaumeil, l’attenzione per i resti si prolunga sulle ossa-reliquie, oggetto di attenzione devozionale ed estetica: presso i Bororo, per esempio, esse venivano esumate, lavate, dipinte, ornate di piume e collocate in panieri sacri (ivi, 89). Si potrebbe essere tentati di pensare che questa colorita varietà di costumi funebri sia limitata a contesti storicamente ed etnograficamente esotici. In realtà, anche un’occhiata superficiale alla nostra società smentisce questa ipotesi. Quasi il 5% degli italiani sceglie oggi la cremazione (cat. 1, «evitare»); gli altri optano per la sepoltura in terra o in loculi di cemento o di marmo (cat. 3, «dissimulare»); ad alcuni corpi particolarmente importanti vengono 42

riservati trattamenti di mummificazione (cat. 5, «rallentare o bloccare»)18. È sufficiente allargare lo sguardo a società a noi molto prossime per ritrovare scelte alquanto diverse: in Inghilterra e in Olanda, per esempio, la cremazione è di gran lunga il metodo più consueto di trattamento dei cadaveri (vi fa ricorso circa il 70% degli inglesi). Abbiamo già visto il caso degli Stati Uniti, in cui la maggior parte degli individui subisce alla morte una parziale imbalsamazione (cat. 4, «rallentare») per poi venire sepolta nella terra; un’esigua minoranza di americani ricorre alla criogenazione (cat. 5, «bloccare») nella speranza che tecnologie innovative ne consentano il ritorno in vita (infra, § 2.5). Persino la pratica della doppia sepoltura, analizzata da Hertz presso società del Borneo e del Madagascar, è stata riscontrata nella Grecia rurale (Danforth e Tsiaras 1982) e a Napoli19. A voler seguire le tesi di Jean-Thierry Maertens, al cattolicesimo è connaturata una forma di cannibalismo funebre simbolico dal momento che, durante l’eucarestia, i fedeli sono invitati a consumare «la carne e il sangue del loro fondatore, a rischio, in periodi di persecuzione, di essere accusati di cannibalismo» (1979, 25). Come fa opportunamente notare John Douglas Davies, in molte società si riscontrano sistemi di credenze concernenti la morte piuttosto eterogenei che, spesso, si riflettono in modalità alquanto diverse di trattamento dei cadaveri (2000, 118 e segg.). Per esempio, benché si pensi comunemente che gli induisti e i buddisti siano cremati, in realtà la cremazione coesiste quasi sempre con l’inumazione20. I riti tradizionali dell’area tibetana prevedevano la cremazione, l’immersione, la sepoltura o lo smembramento dei cadaveri, i quali venivano dati in pasto agli animali; i corpi dei ca18 Il cadavere mummificato di Giovanni XXIII è stato di recente riesumato ed esposto nella basilica di San Pietro a Roma. 19 «Non c’è molta differenza tra un vecchio cinese che pulisce con cura le ossa dei suoi antenati e Luigi, il lavandaio di scheletri di Poggio Reale, il cimitero napoletano di cui ho già parlato: due anni dopo l’inumazione, quando il defunto ha finito di colare, egli lava le ossa in presenza dei familiari e le depone poi in un’urna di marmo» (Thomas 1980, 91). 20 Come osserva l’indologo M. Piantelli, nel mondo indiano i poveri vengono in genere inumati e così avviene per i bambini prima della dentizione e per gli asceti (1996). Analogamente, nel mondo buddista la cremazione è una pratica elitaria.

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pi religiosi potevano viceversa essere mummificati per diventare in seguito oggetti di devozione nei templi. Un’analoga molteplicità di costumi funebri è stata evidenziata dallo studio compiuto da Geoffrey Gorer (1984) nel Sikkim (Himalaya meridionale) nel corso degli anni Trenta. L’identificazione tra una società e una precisa modalità di affrontare la putrefazione nasce forse dall’assunto – assai comune in antropologia come in altri ambiti del sapere occidentale – secondo cui le culture si caratterizzano per sistemi di credenze e pratiche alquanto omogenee e coerenti, ma non trova riscontri nell’analisi etnografica. Se è possibile sintetizzare in uno schema i tipi di intervento sul cadavere, si rivela oltremodo difficile (e anzi impossibile) classificare le società in base al modo in cui trattano i corpi dei morti. Mettere a confronto, come hanno fatto Huntington e Metcalf (supra, § 2.1), gli americani e i Berawan in materia di costumi funebri non è poi un’operazione così azzardata: davanti alla morte cadono le barriere culturali, le tipologie (e le identità) entrano in crisi. L’evento morte invita a gettare lo sguardo su come altri, in altri mondi, affrontano il limite della disgregazione: come se davanti all’orrore della dissoluzione dei corpi – suprema negazione della natura culturale dell’uomo – non si potesse fare altro che dare un’occhiata ad altri contesti. Inoltre, la celebrazione di un rito funebre costituisce un’ottima occasione per affermare differenze all’interno della società (ricchi e poveri, uomini e donne, capi e gente comune, bambini e adulti ecc.). Anche se non si può certo negare che vi siano pratiche preferenziali di trattamento dei corpi, è tutto sommato errato o per lo meno molto semplicistico dire che gli indiani bruciano, i popoli mediterranei seppelliscono, gli antichi Egizi imbalsamavano. 2.3. Corpi in cenere 21 «…ardono i doni, / gl’incensi, i cibi e l’olio in colmi vasi; / e quando, già cadute al suol le ceneri, / cessò la fiamma, aspergono di vino / le sue reliquie e la suggente brace. / L’ossa raccolte poi mesto 21 Nella preparazione di questo paragrafo e della parte restante del capitolo mi sono servito di alcuni testi di carattere generale: Barley 1995; Maertens 1979; Thomas 1980; Quigley 1996; Douglas Davies 2000; Gauthier 2000.

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ripone / in un’urna di bronzo Corinèo»22. Il racconto delle esequie di Miseno nell’Eneide di Virgilio ci introduce al tema del bruciare i corpi, una pratica molto antica e diffusa per «evitare» i processi di putrefazione. Il termine italiano utilizzato in maniera pressoché esclusiva per indicare questo procedimento è «cremazione», mentre «incenerizione» assume in genere una connotazione negativa, più legata agli oggetti o ai cadaveri degli animali che ai corpi umani23. Il differente significato di due termini che, a prima vista, potrebbero sembrare quasi sinonimi, indica già il carattere ambivalente che l’atto di bruciare i corpi può assumere in contesti, epoche e culture diverse. Un rapido sguardo al passato indica che, se sussistono tracce di cremazioni rituali nel Paleolitico, non ci sono dubbi che la pratica fosse molto diffusa in Europa nel Neolitico, quasi sempre associata all’inumazione. È nota la presenza di questo rituale nella Grecia antica; la cremazione venne adottata dai Romani verso il 750 a.C. Come si è osservato in precedenza, a Roma coesistevano numerose modalità di trattamento dei cadaveri e soltanto a partire dai primi secoli dell’era cristiana il fuoco fu riservato ai corpi «indegni» di sepoltura dei martiri e di altre categorie marginali. I riti dell’iniectio terrae e dell’os resectum di cui ci parlano le fonti antiche (Varrone e Cicerone in particolare) e che di recente hanno trovato conferma in alcuni ritrovamenti archeologici, indicano una curiosa commistione tra cremazione e inumazione per uno stesso cadavere, a conferma dell’ipotesi secondo cui è difficile che una società compia una scelta univoca nel modo di trattare i corpi. L’iniectio terrae consisteva nel mescolare le ceneri con una manciata di terra mentre il rito dell’os resectum vedeva la deposizione nell’urna contenente le ceneri del defunto di un osso del suo scheletro (in genere un piede)24. Anche a livello etnografico la cremazione è piuttosto diffusa25. 22

Virgilio, Eneide, VI, vv. 324-330. Questa opzione terminologica venne già indicata in un convegno internazionale di igiene riunitosi a Torino nel 1880. In quell’occasione si avanzò la proposta di limitare l’uso del termine «incenerire» (dal latino cinis, cineris) alla combustione di resti animali riservando a quella dei cadaveri umani il termine «cremare» (dall’omofono latino crema¯re). Cfr. Thomas 1980, 170. 24 Cfr. Gauthier 2000, 176-178. 25 Società che ricorrono alla cremazione si ritrovano in tutti i continenti (per 23

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Nelle società che hanno abbracciato l’induismo e il buddismo, la cremazione è anche oggi ampiamente praticata, sebbene anche qui non in maniera esclusiva26. Nei suoi studi sulla morte in India, l’antropologo inglese Jonathan Parry ha riflettuto sulla relazione tra le pratiche funebri indu e le concezioni del corpo (1982; 1989). Il principale significato della pratica cremazionista sembra essere quello di liberare l’individuo dagli aspetti materiali del corpo fisico (sthula sharira) per dotarlo di un corpo più «sottile» (suksham o preta sharira), di forma via via più raffinata ed eterea, che si sottrae alla logica degli elementi. È per questo motivo che i resti della cremazione (ceneri e parti di ossa) vengono affidati alle acque del Gange, a significare una ri-generazione dell’ordine cosmico fondata sulla liberazione dagli aspetti materiali del corpo. Analogamente, gli asceti Aghoris che, per il loro stile di vita, tanto hanno colpito l’immaginario occidentale, rifiutano la cremazione: il loro modo di condurre l’esistenza comporta già una rinuncia alla materialità e alla carnalità27. Se, per gran parte degli uomini, la cremazione è un atto volontario di auto-sacrificio con cui liberarsi dalla materia, l’asceta sceglie di mortificare il proprio corpo già nel corso dell’esistenza e non necessita quindi di ricorrere alla cremazione. In una monografia più recente, lo stesso Parry osserva che, dal punto di vista delle credenze, i riti funebri induisti non presentano quella coerenza e quella omogeneità che spesso gli autori ocuno sguardo d’insieme si vedano i lavori di carattere generale citati più sopra alla nota 21). Viceversa, alcune religioni proibiscono esplicitamente di bruciare i cadaveri: tra queste l’islam, l’ebraismo, lo shintoismo, lo zoroastrismo, i mormoni, la Chiesa ortodossa di Russia. 26 In una prospettiva antropologica, vorrei segnalare al proposito l’interessante saggio di M. Charras su Bali (1979). Qui i defunti possono essere cremati subito dopo la morte (se si tratta di individui di alto rango), dopo un lasso di tempo di alcuni giorni (il corpo subirà in questo caso una parziale imbalsamazione) o addirittura dopo molti anni, avendo avuto nel frattempo una sepoltura provvisoria. Alcuni indologi italiani hanno dedicato approfonditi studi ai riti funebri indiani: cfr. in particolare Filippi 1996; Piantelli 1996. 27 «Gli Aghoris appartengono a un ordine monastico di asceti che vanno in giro nudi, o indossano sudari tolti ai corpi dei morti. Hanno i capelli arruffati, dormono su catafalchi usati per trasportare i defunti, mangiano le ceneri tolte dalle pire della cremazione e portano con sé un recipiente ricavato da uno scheletro umano» (Douglas Davies 2000, 115).

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cidentali hanno loro attribuito (1994). Dottrine apparentemente contraddittorie quali la reincarnazione (samsara) e la trasformazione del defunto in antenato possono coesistere nella spiegazione «emica» del rito28. Come per il trattamento dei corpi, così a livello delle credenze le scelte culturali sono raramente esclusive e definite. Al riguardo anche Clifford Geertz, nella sua celebre interpretazione di un funerale giavanese, insisteva sulle incongruenze e sulla stratificazione storica e culturale dei significati connessi al rito (1987). In un contesto come quello giavanese, caratterizzato dal sovrapporsi di visioni «animistiche», indu e islamiche, e nell’ambito di una rapida trasformazione dello stile di vita (dalla comunità di villaggio all’urbanizzazione), il rito funebre diveniva un’arena sociale in cui si confrontavano (e si scontravano) simboli religiosi carichi di valori politici. Le tradizionali modalità di trattamento dei corpi, che un tempo prevedevano la cremazione, erano entrate in crisi e la costruzione di nuovi modelli rifletteva le tensioni socio-culturali del momento29. Come mostrano le approfondite analisi di Parry e di Geertz, l’intricata rete di simboli connessa a un rito funebre rende impossibile un’interpretazione univoca, anche in un singolo contesto. Il significato attribuito alla pratica crematoria può essere addirittura opposto in società ed epoche diverse. Se nel mondo induista e buddista ci si augura che il proprio cadavere venga ritualmente bruciato alla morte o qualche tempo dopo, altrove questa stessa pratica può assumere i contorni di una punizione o di un oltraggio. I roghi su cui, in epoca medievale, si bruciavano le streghe e gli eretici ne sono una testimonianza eloquente: il fuoco che consumò i corpi di Giovanna d’Arco e di Giordano Bruno, per limi28 Il termine «emico» si riferisce al modo di conoscere e descrivere una cultura proprio di chi ne fa parte, nonché dello studioso che si attiene ai termini del sistema di conoscenza nativo. Il termine si contrappone a «etico», quel modo di conoscere e descrivere una cultura che utilizza concetti considerati universali. 29 Sebbene risalga al 1973 e sia relativo a una ricerca sul campo compiuta a Giava negli anni Cinquanta, il saggio di Geertz fornisce spunti molto interessanti per un’adeguata interpretazione dei riti funebri. Dopo aver abbandonato la pratica di cremare i morti sotto l’influenza dell’islam, i Giavanesi del villaggio di Modjokuto stavano ridefinendo (non senza forti tensioni) la modalità di celebrare i riti funebri e, questione niente affatto secondaria, il modo di trattare i corpi morti (dalla toilette, alla veglia, al tipo di sepoltura).

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tarci a due esempi eccellenti, fu un fuoco distruttore, simbolo e anticipazione di quella punizione divina che li attendeva nell’aldilà. In anni più recenti, i nazisti affidarono per lo più al fuoco il compito di «smaltire» i cadaveri dei prigionieri dei campi di sterminio. Ad Auschwitz e a Birkenau si sperimentarono tecniche sempre più raffinate per ridurre al minimo il consumo di carburante e sfruttare l’autocombustione dei cadaveri30. Quei corpi, le cui ceneri vennero utilizzate come fertilizzante o miscelate col catrame per servire da bitume stradale, furono oggetto di un radicale oltraggio. Curiosamente, nel periodo post-bellico, numerosi cadaveri di gerarchi nazisti vennero affidati dalle autorità tedesche al fuoco distruttore e i loro resti dispersi in luoghi sconosciuti, per evitare il sorgere di santuari e di insensate nostalgie. Anche inceneriti, infatti, i resti umani possono essere oggetto di profonde attenzioni. Il 16 agosto del 2000, il presunto scheletro di Martin Bormann, rinvenuto misteriosamente a Berlino (dopo che il fidato collaboratore di Hitler aveva vissuto un lungo esilio in America Latina), venne cremato e le sue ceneri disperse in acque extraterritoriali31. Non a caso, mentre in Occidente la cremazione rituale ha conosciuto una straordinaria diffusione nel corso del Novecento, per gli ebrei rimane una pratica proibita, e anche in Germania essa non si è affermata come in altri paesi del Nord Europa. Nella storia dell’Occidente si è assistito in effetti a un curioso fenomeno di mutamento o inversione di significati in relazione all’uso di bruciare i corpi. Per l’influenza del cristianesimo e della sua dottrina della resurrezione, la cremazione – comune nel mondo romano – fu per secoli proibita e praticata soltanto, come si è visto, per streghe, eretici e altre categorie di individui considerati estranei (o nemici) della cristianità32. Soltanto negli ultimi decenni dell’Ottocento, movimenti massonici, materialisti e anticlerica30 Le macabre cronache raccontano di cumuli di cadaveri sormontati da corpi femminili, più ricchi di grassi sottocutanei i quali, sciogliendosi, alimentavano il fuoco distruttore. 31 Un interessante documentario sul destino dei cadaveri di alcuni importanti gerarchi nazisti, da cui traggo queste informazioni, è stato prodotto dalla Rai col titolo I misteri del nazismo. Cfr. anche § 5.3. 32 Una notevole eccezione va segnalata per le grandi epidemie di peste. Nel 1656 più di 60.000 vittime di questo flagello vennero bruciate a Napoli in una sola settimana.

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li, in opposizione alla pratica cristiana e in accordo con i problemi di spazio (e di igiene) di città sempre più affollate di vivi e di morti, si fecero paladini della cremazione. L’esempio della Gran Bretagna è emblematico al proposito: come riporta Douglas Davies, uno dei maggiori esperti di storia della cremazione moderna, nel 1885 solo tre corpi vennero cremati, dieci nel 1886 e tredici nel 1887. Negli anni Trenta del Novecento si passò all’1%: lo sviluppo ebbe un’accelerazione crescente a partire dal dopoguerra toccando il 7% nel 1944, il 15 nel 1948, il 31 nel 1958. Il pareggio tra inumazioni e cremazioni si raggiunse nel 1967, mentre negli anni Ottanta circa il 70% degli inglesi sceglieva di essere cremato (Douglas Davies 2000, 46-47)33. In Italia, come negli altri paesi dell’Europa del Sud, le cose andarono diversamente. Nonostante anche qui movimenti cremazionisti siano sorti già sul finire dell’Ottocento, la cremazione non fu mai una pratica molto diffusa soprattutto per l’ostilità della Chiesa cattolica che, fino al 1963, la proibì esplicitamente. Tuttavia, sebbene solo il 5% degli italiani siano attualmente cremati, la pratica ha in gran parte perso anche agli occhi di coloro che scelgono la sepoltura ogni connotazione moralmente negativa34. Proprio in Italia, il Parlamento ha approvato di recente una nuova legge che regolamenta la cremazione e su cui vorrei soffermarmi nella parte restante di questo paragrafo, in quanto lascia emergere alcuni temi di rilevante interesse. Con la legge denominata «Disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle 33

L’archivio della Cremation Society of Great Britain riporta i seguenti dati relativi al numero percentuale delle cremazioni in rapporto al numero totale delle morti (anno 2000): Austria 21,99; Belgio 33,98; Cina 46; Danimarca 71,78; Eire 5,50; Finlandia 26,42; Francia 17,43; Germania 40,10 (1999); Gran Bretagna 70,93; Ungheria 33; Italia 5,28; Olanda 48,88; Nuova Zelanda 58,31 (1999); Norvegia 31,75; Portogallo 16,43; Spagna 13,69; Svezia 69,54; Svizzera 72,17; Stati Uniti 25,39 (1999). 34 La Fondazione Ariodante Fabretti di Torino ha da tempo promosso lo studio della storia della cremazione in Italia e, più in generale, lo studio della morte nell’epoca moderna e contemporanea, come mostra la pubblicazione di alcuni volumi nella collana della Fondazione stessa: cfr. Conti, Isastia, Tarozzi 1998; Comba, Mana, Nonnis Vigilante 1998; Sozzi, Porset 1999; Douglas Davies 2000; Filippa 2001; Sozzi 2001. 35 Il disegno di legge è stato discusso e approvato il 7 marzo 2001; la legge (n. 130 del 30 marzo 2001) è stata pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 91 del 19 aprile 2001.

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ceneri»35, il Parlamento ha disciplinato i criteri con i quali i cittadini possono esprimere la volontà che i loro corpi siano cremati; ha previsto la costruzione di almeno un crematorio per Regione e la realizzazione di sale attigue che permettano lo svolgimento di un rito di commiato; ha reso possibile, modificando l’articolo 411 del Codice penale, la dispersione delle ceneri, prima proibita in Italia; infine, ha previsto la possibilità di prelevare alcuni campioni biologici dal cadavere che permettano eventuali indagini sul patrimonio genetico del defunto. La discussione svoltasi in Parlamento in occasione dell’approvazione della legge si è incentrata sull’importanza del trattamento dei corpi dopo la morte. È proprio, significativamente, a partire dalle modalità di intervento sui corpi (optare per la cremazione o per l’inumazione, consentire o no prelievi a uso giudiziario?) che sono emerse le credenze, le posizioni ideologiche e religiose dei relatori che si muovevano tra cattolicesimo, materialismo, agnosticismo36. Il destino dei cadaveri e la forma del rito funebre costituiscono anche nella nostra società un terreno di scontro tra visioni escatologiche diverse che, non di rado, nascondono aspre diatribe politiche. L’aspetto più interessante della legge e del dibattito che ha suscitato nel paese37 consiste però nell’introduzio36 Il relatore della legge ha evidenziato la necessità di tenere conto del «crescente interesse per il destino del proprio corpo dopo la morte», sottolineando gli aspetti positivi della cremazione in quanto «scelta culturale» e risposta all’esigenza pratica di «preservare la terra per i vivi». Un parlamentare di area cattolica ha viceversa palesato i suoi dubbi dicendo: «Ricordo Foscolo che celebrava la dignità dei Sepolcri […] erano tempi di grande civiltà […]. Foscolo ricordava agli uomini del suo tempo […] che anche il sepolcro ha una dignità specifica. Del resto, la stessa cultura americana, quando vuole esprimere il meglio di se stessa, crea il cimitero degli eroi». Un altro relatore non ha nascosto le sue posizioni decisamente anti-cremazioniste: «Signor Presidente, non capisco perché si consideri un pregiudizio il non voler ricorrere alla cremazione […]. A mio avviso si tratta invece di una proposta che viene da una cultura che individua nel cadavere un rifiuto da incenerire […] non credo dobbiamo augurarci che queste pratiche continuino bensì alimentare il rispetto del corpo […]. Qualcosa di sacro che deve essere custodito dalla società e dai familiari». Le citazioni sono tratte dal dibattito parlamentare del 7 marzo 2001. 37 Tutti gli articoli di cronaca apparsi sui quotidiani nazionali hanno sottolineato la questione della dispersione delle ceneri. Si veda in particolare l’intervista di S. Giacomoni al filosofo R. Bodei, apparsa su «la Repubblica» del 21 giugno 2001 col titolo Rivoluzione tra i nostri cari estinti.

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ne della possibilità di disperdere in natura o in luoghi di particolare interesse simbolico oppure ancora di conservare in casa i resti della cremazione stessa, le ceneri del defunto che fino ad allora dovevano essere sepolte in un cimitero38. Nel riflettere sulla cremazione, una pratica che, agli inizi del Novecento, poteva considerarsi di pertinenza pressoché esclusiva di società di interesse etnologico, Hertz aveva osservato che «essa non è in generale considerata un atto definitivo e di per sé sufficiente, ma richiede un rito ulteriore e supplementare» (1994, 66). Come nel caso della doppia sepoltura, dell’esposizione del cadavere, del cannibalismo e anche della mummificazione, la cremazione è innanzitutto un modo di affrontare i processi della disgregazione della carne ma non risolve da sola il problema dei resti. Per questo, osservava lo studioso francese sulla scorta delle sue informazioni etnografiche, la cremazione è in genere seguita da altri riti che hanno come fulcro di attenzione la cenere e i resti ossei risparmiati (o meglio stabilizzati) dal fuoco. Nonostante vi sia una profonda differenza tra la cremazione adottata dalla società occidentale, con i suoi forni asettici e i cadaveri che ardono rapidamente, nascosti allo sguardo dei familiari, e le cremazioni antiche o contemporanee praticate en plein air con ben altra enfasi rituale in altre società, il problema dei resti costituisce uno sfondo problematico comune. Qual è lo statuto «ontologico» delle ceneri? Si tratta di un semplice prodotto organico, più o meno polverizzato, della combustione o si deve presumere che qualcosa dell’umanità inscritta nei corpi permanga in questi loro resti arsi dal fuoco? Secondo Thomas la differenza tra una cremazione praticata col solo fine «ecologico» e «igienico» di sbarazzarsi al più presto dei cadaveri e un rito funebre appropriato risiede proprio nell’attenzione che i vivi attribuiscono alle ceneri. Douglas Davies, paladino della cremazione moderna, osserva che la crescente tendenza in Gran Bretagna a disperdere le ceneri in luoghi di particolare significato per il defunto o per i suoi familiari riflette un mondo post-moderno in cui «contano poco le credenze 38 L’articolo 2 della legge modifica l’articolo 411 del Codice penale inserendo il seguente comma: «Non costituisce reato la dispersione delle ceneri di cadavere autorizzata dall’ufficiale dello stato civile su base di espressa volontà del defunto».

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ampiamente condivise o le ideologie, e dove l’identità consiste in poche relazioni personali, che entrano a far parte del ricordo attraverso l’atto rituale privato della collocazione delle ceneri in luoghi significativi» (2000, 52). Disperdendo le ceneri in aree care al defunto, i familiari danno vita a una sorta di «compimento retrospettivo dell’identità» del defunto (ivi, 51)39. In una società sempre più globalizzata in cui il senso della comunità locale dei vivi si va progressivamente indebolendo, suggerisce Douglas Davies, anche i luoghi comunitari dei morti (i cimiteri) rischiano di scomparire. Parafrasando il titolo di un celebre libro di Marc Augé (1993), potremmo osservare che la pratica della dispersione privata delle ceneri sembra prefigurare la nascita di «non luoghi» dei morti. Se i significati della cremazione moderna oscillano tra una pratica meramente ecologica e un difficile tentativo di adattare un antico rito alle esigenze della società contemporanea, numerosi esempi etnografici pongono in primo piano ancora una volta la questione dei resti. In molte società i resti ossei della cremazione vengono accuratamente lavati, ripuliti, disposti secondo un preciso ordine prima di essere ritualmente sepolti o dispersi. A Bali, «in un delirio di urla, centinaia di mani frugano le ceneri, i più per recuperare delle monetine, gli altri per raccogliere i piccoli frammenti di ossa che devono ricostituire l’immagine del morto. Questi resti sono attentamente lavati in acqua sacra e portati su una piattaforma. Le donne officianti le collocano in ordine su una stoffa bianca…» (Charras 1979, 158). Prima di congedare definitivamente il defunto, molte società ritengono importante praticare ancora una volta degli interventi culturali su ciò che rimane dei corpi. In quest’ottica, l’esempio «timidamente» riportato in una nota da Hertz e relativo ai Quiché del Guatemala assume un significato paradigmatico: «I Quiché riunivano le ceneri e impastandole con della gomma modellavano una statua a cui mettevano una maschera raffigurante i tratti del defunto, la statua veniva poi deposta nella tomba» (1994, 112). E che dire dei Khmer e dei Thaï di cui parla Gauthier, i quali disegnavano le sembianze del 39 Si veda al proposito il saggio di P. Belhassen (1997) che analizza il fenomeno della cremazione moderna ponendolo a confronto con casi storici ed etnografici e riflette sullo statuto giuridico ambivalente del cadavere e dei suoi resti.

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defunto nelle sue ceneri ancora calde (2000, 181)? In queste straordinarie forme di arte effimera si evidenzia lo sforzo poietico che le culture umane compiono sui corpi degli individui e che, a quanto pare, si estende – seppure in maniera illusoria – anche al di là della soglia che separa la vita dalla morte. 2.4. Corpi mangiati Per quanto ci appaia, a un primo sguardo, come una pratica repellente, anche l’ingestione del cadavere o di alcune sue parti rientra nelle modalità rituali con cui alcune società affrontano o affrontavano i processi di disgregazione dei corpi. Col termine di «endo-cannibalismo» si indica l’ingestione di cadaveri di defunti che fanno parte della comunità o del gruppo di riferimento, mentre l’«eso-cannibalismo» riguarda il consumo di nemici uccisi nel corso di guerre, faide, spedizioni di caccia alle teste ecc. L’espressione «cannibalismo funebre» può includerle entrambe anche se tende a essere utilizzata soprattutto nella prima accezione. In ogni caso, sembra più appropriato parlare di cannibalismo piuttosto che di antropofagia: fin dall’origine etimologica40, il concetto di «cannibalismo» oscilla infatti tra realtà e proiezione immaginaria, tra rappresentazione simbolica e pratica sociale, e appare utile a designare un procedimento rituale culturalmente regolato, che nulla ha a che fare con forme di antropofagia patologica o di necessità, in cui il consumo di carne umana non risponde a una modalità socialmente definita di affrontare la morte. Quando, sul finire del secondo conflitto mondiale, i soldati giapponesi uccisero e mangiarono alcuni Arapesh della Nuova Guinea, il loro orribile gesto antropofagico fu dovuto alla fame e alla disperazione e non a una scelta culturale sul modo di dar sepoltura ai morti. Gli stessi Arapesh, colpiti dalla cru40 Nella forma di caniba o canibales, il termine venne introdotto in Europa da Cristoforo Colombo. Egli riferì che gli abitanti delle isole Bahamas e di Cuba chiamavano con questo termine gli abitanti delle piccole Antille, i Caribi, che essi ritenevano feroci guerrieri e consumatori di carne umana. «Il termine cannibale è dunque un termine ‘meticcio’, insieme europeo e americano, scaturito da una partita a tre in cui il terzo assente erano i Caribi, e i cui rispettivi orizzonti erano saturi di antropofagia, insieme idea e pratica» (Kilani 2001).

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deltà di un atto compiuto da individui con cui, negli anni precedenti, avevano familiarizzato, lo attribuirono all’insorgere di una subitanea pazzia, rifiutandosi di credere che, soltanto per i morsi della fame, quegli stranieri avessero potuto compiere un atto così profondamente disumano (Tuzin 1983). Mangiare i morti, così come bruciarli, può essere l’espressione di una suprema aberrazione (consistente nel negare qualunque attribuzione di umanità ai corpi) o, al contrario, può corrispondere a una pietas profonda (trasformare il proprio corpo in sepolcro per i defunti): solo l’analisi del contesto culturale e rituale dell’atto può indicare il sentiero interpretativo corretto. Per la sua valenza esotica e per la sfida che pone alle capacità di comprensione, il cannibalismo è in genere considerato una pratica profondamente esoterica che l’antropologo è chiamato a decrittare. In realtà, come afferma Mondher Kilani, «il cannibalismo ha da sempre resistito all’analisi» (2001): esso ha suscitato un enorme interesse tra il pubblico, ma pochi sono i lavori antropologici approfonditi sull’argomento. Per l’orrore suscitato, per il fatto che sembra situarsi al di là dell’accettabile, questa pratica ha finito per dar luogo a un’amnesia sospetta, a un’autocensura divenuta quasi un tabu (Guille-Escuret 2000). Alcuni autori, basandosi sulla scarsa attendibilità delle fonti e sulla mancanza di testimonianze dirette, hanno addirittura negato che il cannibalismo sia mai stato realmente praticato (Arens 1979). Si tratterebbe della proiezione di un atteggiamento aggressivo e selvaggio sugli «altri» o di una costruzione mitologica volta a opporre un’umanità pienamente realizzata (la propria) a una condizione pre-umana, extra-umana o post-umana. Anche se, come mette in luce il lavoro già citato di Kilani, il cannibalismo è in primo luogo un’idea «buona da pensare» e in quanto tale diffusa un po’ ovunque, alcuni studi successivi all’opera revisionista di Arens non lasciano dubbi sull’effettiva esistenza, fino a tempi piuttosto recenti, di consumo di carne umana soprattutto in contesti funebri (endocannibalismo). Prima di addentrarmi in un esempio etnografico tratto dall’Amazzonia (con la Melanesia è l’area su cui esistono le testimo41 L’interesse per il cannibalismo melanesiano si accentuò negli anni Settanta quando D.C. Gajdusek (1977) individuò nella pratica dell’endocannibalismo la

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nianze più interessanti e recenti41), vorrei passare in rassegna alcune ipotesi interpretative sul cannibalismo, inteso nella sua accezione più ampia. Studi di impostazione psicoanalitica hanno messo in luce gli aspetti aggressivi legati a questa pratica e, nel caso dell’endocannibalismo, il riflesso di un atteggiamento ambivalente verso i morti, allo stesso tempo investiti di affetto, amore e devozione ma anche fonti di timore e repulsione42. Basandosi soprattutto sul caso degli Aztechi, Marvin Harris ha propugnato al contrario un’interpretazione materialistica che, pur non negando l’importanza dei significati simbolici, ha privilegiato l’idea secondo cui il cannibalismo scaturisce da un’esigenza di proteine animali in contesti ecologici in cui esse scarseggiano43. La maggior parte dei lavori antropologici pongono tuttavia l’accento sugli aspetti simbolici: attorno al cannibalismo si condenserebbero cosmologie e antropologie indigene, sistemi di pensiero che definiscono lo spazio propriamente umano. I già citati Arapesh della Nuova Guinea non praticano il cannibalismo, ma si servono di esso (sotto forma di costruzione concettuale) per modellare lo spazio mitologico e culturale che circonda la loro società: il loro «sistema metafisico definisce la cultura arapesh come un’isola di civiltà circondata in ogni lato da mangiatori di uomini che la minacciano in maniera più o meno costante» (Tuzin 1983, 68). In altre aree della Melanesia, l’ingestione reale di parti del cadavere equivale a un’incorporazione simbolica delle forze vitali del defunto e rimette in moto le capacità riproduttive femminili (Gillison 1983; Porter Poole 1983)44. I resti conservano in questi casi un’efficacia simbolica che trasforma la morte in principio di rinascita. In effetti, alcuni recenti studi analizzano il cannibalismo alla luce di particolari concezioni del corpo e dei suoi resti: è a questi ultimi che farò specifico riferimento nell’esaminare da vicino un caso etnografico di area amazzonica. causa del kuru, una malattia neurodegenerativa che colpiva i Fore e altre popolazioni delle Highlands orientali (vedi anche Lindenbaum 1979). Analisi ormai classiche del cannibalismo melanesiano sono quelle raccolte nel volume curato da P. Brown e D. Tuzin (1983). 42 Un testo classico al riguardo è Sagan 1974. Per una prospettiva psicoanalitica recente rimando a Stephen 1998. 43 Cfr. Harris 1977. 44 Si veda al proposito anche il § 4.3.

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I Wari’ sono una piccola popolazione che abita la foresta pluviale del Brasile occidentale, nella regione di Rondonia, vicino al confine boliviano. Nel variegato panorama dei riti funebri e dei trattamenti del cadavere in area amazzonica (Chaumeil 1997), i Wari’ occupano un posto particolare in quanto, fino agli anni Sessanta, mangiavano una parte consistente (carne arrostita, cervello, cuore, fegato, ossa polverizzate ecc.) di quasi tutti i morti45. Nel periodo della loro ricerca sul campo, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso, Beth Conklin e Aparecida Vilaça hanno potuto intervistare molti informatori che erano stati autori o testimoni diretti di atti di cannibalismo funebre46. Se l’esocannibalismo (praticato raramente dai Wari’) era considerato come una forma di ostilità e oltraggio verso popolazioni nemiche, il consumo rituale dei propri morti appariva dalle dichiarazioni degli informatori come «il modo più rispettoso di trattare un corpo umano» (Conklin 1995, 76). Costretti ad abbandonare la loro pratica tradizionale dalle pressioni delle autorità statali e della Chiesa, i Wari’ esprimono ancora oggi la loro insoddisfazione per la sepoltura che colloca i morti nella terra «umida e fredda»47, affidandoli alla voracità degli animali. Mangiare i morti era per loro il modo migliore di reagire ai processi disgregativi e la cremazione l’unica alternativa possibile: Un trattamento rispettoso per i resti umani richiede il secco e il caldo. Il solo spazio tradizionale per una degna sepoltura si trovava infatti al di sotto delle terrazze su cui dorme il gruppo familiare, dove piccoli fuochi bruciavano pressoché costantemente, tenendo la terra calda e secca. È qui che le ceneri funebri erano interrate nel passato ed è qui che la placenta e i feti abortiti continuano a essere sepolti (ivi, 85).

Le analisi di Conklin e Vilaça ci permettono di addentrarci in profondità nel contesto della cultura Wari’ e di comprendere i motivi di questa modalità di affrontare i processi degenerativi del45

Sull’endocannibalismo in area amazzonica si veda anche Erikson 1986. I testi a cui faccio riferimento sono Conklin 1995 e Vilaça 2000. 47 Come riferisce B. Conklin, prima degli anni Sessanta la sepoltura in foresta era riservata a feti e bambini deceduti subito dopo la nascita (1995, 85). 48 Le due antropologhe forniscono chiavi interpretative parzialmente diverse: mi limito qui a riprendere da entrambe alcuni spunti che mi paiono interessan46

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la morte, così stravagante ai nostri occhi48. Per i Wari’ mangiare i morti è in primo luogo la modalità privilegiata di ciò che noi definiamo «elaborazione del lutto»: come in numerose altre culture dell’Amazzonia, alla morte dell’individuo molti oggetti che gli appartennero in vita vengono distrutti e si evita di pronunciare il suo nome personale al fine di favorire il distacco emotivo dei familiari. Durante il rito funebre, mentre gli affini tagliano in pezzi, arrostiscono e consumano il cadavere, i parenti più stretti prendono consapevolezza dell’evento distruttivo della morte e della necessità di riorganizzare il gruppo49. Se non si può dire che in area amazzonica i morti tendano sempre a essere oggetto di un repentino e inesorabile oblio, la necessità di sottolineare il distacco è tuttavia forte e il cannibalismo si presta bene a questo fine50. La spiegazione più plausibile del cannibalismo Wari’ va tuttavia rintracciata nella complessa rappresentazione del corpo che questo gruppo ha elaborato: i Wari’ esprimono infatti con particolare pregnanza l’idea che il corpo sia una costruzione bio-culturale. Essi «vedono il corpo umano come un nesso di parentela, personalità e relazioni sociali. La parentela è definita fisicamente come condivisione di sostanze corporee (specialmente sangue) che si origina dal contributo dei genitori al concepimento e alla gestazione e si accresce con lo scambio di fluidi corporei» (ivi, 86). Dopo il matrimonio, per esempio, la donna diviene «consanguinea» del marito: la parentela non è un fatto puramente biologico ma è oggetto di costruzione sociale. Da ciò deriva l’idea che il corpo sia l’espressione organica tanto delle relazioni sociali e parentali che attraversano la società quanto dei processi cognitivi ed emotivi che caratterizzano la persona: si spiega così l’uso del termine kwerexi’, che «significa ‘corpo’ o ‘carne’ ma anche ‘costume’, ti per i temi del libro, senza la pretesa di esaurire la complessa trama di significati che fa da sfondo al cannibalismo Wari’. 49 Nel corso del funerale i partecipanti si dividono in due gruppi: gli iri’ nari («veri parenti»), ovvero i consanguinei, e i nari paxi, ovvero gli affini. Sono questi ultimi che tagliano in pezzi il cadavere e lo mangiano, ciò che è proibito ai consanguinei (Conklin 1995, 80). 50 Ho già accennato in precedenza all’idea, fatta propria anche da P. Clastres (1980), secondo cui le culture dell’Amazzonia presenterebbero un forte oblio dei morti se paragonate alle società andine (ma soprattutto africane) e al loro culto degli antenati. Questa tesi è oggi contestata (Chaumeil 1997) anche se non mancano studi che prendono posizione a suo favore (Taylor 1993).

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‘abitudine’, ‘personalità’» (ibid.). L’espressione con cui molti Wari’ rispondono alle domande pressanti degli antropologi sui significati dei loro riti e delle loro pratiche – «così sono i nostri costumi» (je’ kwerexi’) – significa allo stesso tempo «così sono i nostri corpi» (ibid.). La società e la cultura non modellano solo gli aspetti esteriori del corpo ma si insinuano più in profondità, condizionando l’equilibrio dei fluidi vitali (sangue, sperma, saliva). In quest’ottica, il cannibalismo può essere considerato un’affermazione postuma dell’esigenza di modellamento culturale dei corpi. Mangiando i defunti, i Wari’ riaffermano il carattere culturale dei corpi e si riappropriano di quelle relazioni sociali di cui essi sono (letteralmente) costituiti. Lasciare che i corpi siano disgregati dai processi biologici della putrefazione equivarrebbe a una sorta di rifiuto del cadavere ovvero a negare l’umanità che è loro intrinseca. Questi nativi dell’Amazzonia esprimono dunque alcune buone ragioni per cui è bene mangiare i morti: per il rispetto che si deve loro; per evitare il contatto con la terra contaminante e fredda; per facilitare il distacco dalla comunità dei viventi; per riappropriarsi delle relazioni sociali che il defunto, nel corso della sua vita, ha incorporato. Il cadavere, lungi dall’essere una semplice spoglia organica, è una «potente incorporazione di identità, relazioni sociali e legami interpersonali» (ibid.). Tutto ciò si incastona poi in una complessa visione cosmologica, a cui si possono fare solo alcuni sommari riferimenti. Come evidenzia in particolare il lavoro di Vilaça, nella visione dei Wari’ l’umanità si estende su una sorta di continuum che va dagli spiriti dei defunti agli esseri umani in senso proprio, ad alcune categorie di animali (soprattutto i predatori) e agli stranieri. Se i Wari’ sono esseri umani in senso proprio, l’umanità – almeno in forma latente – è presente anche nelle altre categorie: essa infatti non va intesa come un quid sostanziale bensì come una «prospettiva» sul mondo (Vilaça 2000; Viveiros de Castro 1998), una particolare capacità di rapportarsi ad esso (in qualità di spirito, antenato, predatore, preda). La morte innesca un processo di trasformazione, una tanatometamòrfosi che è al tempo stesso un’antropo-metamòrfosi: per i Wari’ il defunto non ha perso la propria umanità ma, semplicemente, si pone ora in una «prospettiva» diversa. Anche per i Wari’ dell’Amazzonia i cadaveri sono dei resti di umanità. Il loro statuto incerto – come incerto è in ogni cultura – si risolve però in 58

una sua identificazione progressiva con il corpo di un animale, in cui lo spirito (jam-) del morto, dopo essere transitato nel mondo degli spiriti, andrà infatti a reincarnarsi. Mangiare il cadavere equivale allora a esprimere il nuovo statuto ontologico del defunto: questi abbraccia adesso un’altra «prospettiva» sul mondo, quella della preda che il cacciatore Wari’ insegue e di cui si ciba. Il morto attraversa il confine dell’umanità «piena» (la società Wari’) per rifugiarsi in una periferia ombrosa, dove risiedono anche i nemici i quali possono ugualmente divenire delle prede. Nella cosmologia e nell’antropologia wari’, l’atto del mangiare (una preda, un defunto, un nemico) segna ritualmente una trasformazione, una metamorfosi dell’umano in una delle molteplici forme in cui esso può presentarsi. 2.5. Corpi sepolti Riprendendo lo schema concernente le modalità di controllo culturale della decomposizione dei corpi (supra, § 2.2), troviamo – dopo aver esaminato la categoria dell’«evitare» e le corrispondenti pratiche della cremazione e del cannibalismo funebre – la categoria dell’«accelerare». Il riferimento è a varie modalità di esposizione del cadavere mediante le quali numerose popolazioni affidavano agli agenti atmosferici o agli animali (avvoltoi, carnivori, insetti) il completamento dei processi di decomposizione dei corpi. L’esposizione consiste in una forma alquanto precoce di abbandono del cadavere: tuttavia, l’atto rituale mediante cui avviene l’esposizione, il controllo sociale della pratica e l’eventuale recupero dei resti segnalano una radicale differenza dalle forme di rifiuto del cadavere che abbiamo esaminato nel primo capitolo. In questo senso, l’esposizione può essere intesa come un’accelerazione dei processi di decomposizione e al tempo stesso come una loro dissimulazione (anche se non mancano esempi di società che consentivano o imponevano a determinate categorie di individui in lutto uno stretto contatto con il cadavere in putrefazione). Il modo migliore di definire l’esposizione è forse quello di conce51 Numerosi casi etnografici di esposizione del cadavere sono riportati in Maertens 1979, 13-20; Thomas 1980, 193-196; Quigley 1996, 222-225. Cfr. anche Boyce 1979 per il caso degli Zoroastriani.

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pirla come una sepoltura all’aria aperta51. Uno degli esempi più celebri e straordinari di esposizione è quello praticato dagli Zoroastriani o Parsi, un gruppo religioso di antica origine persiana oggi particolarmente diffuso in India. La religione zoroastriana sviluppò nel tempo una concezione del cadavere come entità fortemente contaminante. Affidare i processi di decomposizione alla terra (inumazione) o al fuoco (cremazione) venne considerato altamente pericoloso. Per questo i Parsi cominciarono a costruire le dahkma o Torri del Silenzio, grandi piattaforme sollevate da terra: qui venivano deposti i cadaveri che ben presto finivano prede degli avvoltoi, mentre i liquidi e i resti della decomposizione venivano convogliati verso un pozzo centrale. Nel XX secolo il progressivo inurbamento degli adepti della religione zoroastriana rese sempre più difficile mantenere questa pratica funebre: nonostante siano stati costretti a scegliere tra la sepoltura e la cremazione, molti di essi dichiarano tuttora il loro rammarico per essere stati costretti ad abbandonare le Torri del Silenzio (Hinnells 1996). Con «sepoltura» si indica un vasto insieme di pratiche di trattamento del cadavere che consistono nel «dissimulare/consentire» la putrefazione. Il concetto di «sepoltura» ha in effetti un campo semantico molto ampio e dai confini sfumati e incerti: esso indica tanto l’azione del seppellire, quanto la cerimonia che l’accompagna e ancora il luogo in cui si seppellisce un morto. Significativamente dunque esso connette i corpi, i riti e i luoghi, una convergenza semantica non priva di importanti implicazioni (come si vedrà in conclusione di paragrafo). Se nella nostra società «sepoltura» è stato a lungo sinonimo di «inumazione» (mentre oggi la pratica corrente è piuttosto la deposizione della bara in loculi di cemento), una rapida carrellata etnografica indica che i corpi possono essere sepolti, oltre che nella terra, nella sabbia, nel marmo, nelle paludi, in grotte e cavità naturali, immersi nell’acqua o posti tra le chiome e le radici degli alberi. Sture Lagencrantz, per esempio, fornisce, sulla base di un’accurata indagine storica ed etnografica, una mappatura delle società africane che praticavano la 52 Griots è un termine di origine francese con cui si indicano i musicisti dell’Africa subsahariana e in particolare le caste di musicisti dell’area occidentale.

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sepoltura sugli alberi per particolari categorie di persone (1991). In molte parti dell’Africa subsahariana capi, sacerdoti, griots52, gente comune, persone ritualmente «impure» potevano essere sepolte nelle cavità di grandi alberi come i baobab, deposte tra i rami o le radici e ancora legati ai tronchi, sospese su piattaforme nascoste dalle fronde o interrate alla base del fusto. L’uso degli alberi quali luoghi di sepoltura poteva rispondere a esigenze contrapposte: evitare la contaminazione della terra e delle acque da parte di corpi in qualche modo estranei o pericolosi (stregoni, lebbrosi, donne gravide ecc.) e in altri casi ostentare una tomba aerea a mo’ di monumento politico, come nel caso di importanti capi53. L’uso degli alberi quali luoghi di sepoltura è ugualmente testimoniato in molte società dell’Oceania54: i Kanak della Nuova Caledonia, per esempio, seppellivano i loro morti nei banian, enormi alberi le cui radici aeree si estendono progressivamente sul suolo racchiudendo nei loro meandri i resti sepolti e dando vita nel tempo a veri e propri cimiteri arborei. Se l’inumazione è stata per secoli la pratica più diffusa nel mondo occidentale, in altre società è all’acqua che si affidano i processi di disgregazione dei corpi. Negli atolli corallini delle isole Marshall della Micronesia studiati di recente dall’etnoarcheologo Dirk Spennemann (1999), le piccole dimensioni delle isole, la scarsità della terra produttiva e un regime fondiario in cui non esistevano terre comuni su cui situare le sepolture collettive determinarono l’uso di affidare ai flutti il destino dei corpi. L’inumazione era riservata un tempo ai leader più importanti: gli altri cadaveri, dopo essere stati lavati, unti e avvolti in stoffe di corteccia, venivano gettati in mare. Nel corso dell’Ottocento, in seguito alla conversione al cristianesimo, si costruirono cimiteri nei pressi delle chiese. Oggi, la continua erosione a cui sono soggette queste isole, che si innalzano poco al di sopra del livello del mare, e la forte crescita demografica che le caratterizza stanno portando a una ripresa delle sepolture tradizionali in acqua. 53

Nelle società tradizionali africane il «re» è spesso di origine straniera: la sepoltura sugli alberi allora può sottolineare sia il suo prestigio e sia la sua estraneità alla terra su cui ha regnato. 54 Cfr. Spencer, Gillen 1904, 506-507, per quanto riguarda gli Aborigeni australiani.

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L’ampiezza semantica del concetto di sepoltura è legata anche alla varietà dei contenitori del corpo, che può essere sepolto avvolto in lenzuola, in stoffe, in pelli di animali oppure chiuso in bare di legno, di acciaio, in sarcofagi di marmo o in urne55 e pentole, per limitarci ad alcuni esempi. Attraverso la scelta del materiale e della forma del contenitore si comunicano informazioni sullo status del morto, sul suo ruolo sociale, sulla sua ricchezza e importanza nella società che ha appena lasciato nonché sulle rappresentazioni dell’aldilà che essa elabora. È ciò che i LoDagaa del Ghana, i cui costumi funebri tradizionali sono stati studiati da Jack Goody (1962), esprimono oggi in maniera particolarmente colorita. A partire dagli anni Ottanta in questa società dell’Africa occidentale si è sviluppato infatti l’uso di costruire bare dalle forme più curiose (automobili, missili, imbarcazioni) che hanno attirato l’interesse di turisti e mercanti d’arte occidentali 56. Anche la posizione del morto nel luogo di sepoltura (disteso, in posizione fetale, seduto, supino, in verticale, su un lato ecc.) è in genere estremamente significativa e connessa al sistema di credenze locali così come l’orientamento del corpo (verso oriente, verso levante, verso un luogo culturalmente significativo) o gli oggetti deposti nella bara. Fra i Taneka del Benin, scrive Marco Aime, «gli uomini vengono sepolti con il capo verso ovest, direzione da cui arrivarono gli antenati fondatori dei loro villaggi, mentre le donne vengono interrate con la testa rivolta a est, in direzione del mercato di Copargo da loro frequentato» (2002, 92). Nel complesso, quindi, la categoria tanatologica di «sepoltura» racchiude una variegata molteplicità di pratiche accomunate dal fatto che i processi di putrefazione sono dissimulati e «consentiti», dal momento che non si ricorre in questo caso a interventi invasivi volti a evitare, accelerare o ritardare le trasformazioni. Lasciando da parte l’ampia varietà storica ed etnografica delle forme di sepoltura – che renderebbe evidentemente impossibile una trattazione sistematica – mi limiterò qui di seguito a scegliere alcuni temi significativi per la prospettiva teorica sviluppata in questo libro. Nel suo studio sulle rappresentazioni collettive della morte, 55 Un’interessante analisi della sepoltura in urna delle popolazioni precolombiane del territorio argentino è fornita da S. Monzon (1979). 56 R. Bonetti, comunicazione personale.

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Hertz mise in luce che la sepoltura del cadavere non coincideva necessariamente con un congedo definitivo dal morto. La sepoltura appariva piuttosto come un occultamento dei processi di decomposizione, al termine del quale i resti venivano riesumati per essere in seguito definitivamente sepolti. La decomposizione dei corpi procedeva in modo speculare al «viaggio» dell’anima verso l’aldilà e alla trasformazione del morto in antenato: allo stesso tempo, in questo periodo di soglia, la società era alle prese con l’elaborazione del lutto. L’idea che il sonno eterno possa essere «disturbato» da successivi interventi di manipolazione del cadavere – pratiche ricorrenti nelle società esaminate da Hertz – colpì l’immaginario occidentale tanto che il tema della doppia sepoltura si è imposto come un topos classico dell’antropologia della morte. Come si è detto, studi successivi hanno rilevato che questa pratica era ugualmente diffusa in alcune aree «tradizionali» dell’Europa contemporanea come la Grecia e l’Italia meridionale così come in alcune regioni del continente asiatico. A differenza del cannibalismo funebre e dell’esposizione del cadavere, la doppia sepoltura non è affatto scomparsa dal mondo di oggi. Tra il 1989 e il 1991 David Graeber (1995) ha studiato il rito di riesumazione dei cadaveri (famadihana) presso i Merina del Madagascar, nell’area di Arivonimamo, già oggetto degli interessi di Maurice Bloch (1971). Il famadihana è un lungo e complesso rituale che ha inizio con la proclamazione dei nomi degli antenati che verranno riesumati. Una processione animata da musica e danze accompagna gli uomini che hanno il compito di entrare nelle tombe e recuperare i morti. I cadaveri vengono aspersi di rhum e miele e quindi riportati alla luce: «Durante il famadihana, i corpi sono abbondantemente manipolati senza tanti riguardi: essi vengono fatti danzare con i vivi, tirati e strattonati, avvolti e legati con grande forza e quindi trascinati in una danza ancora più tumultuosa prima di essere ricollocati nelle loro dimore» (Graeber 1995, 263). L’atto centrale del rito, che si compie almeno sei-sette anni dopo la morte e può ripetersi in seguito molte volte, consiste nel riavvolgere i corpi in nuovi sudari di seta. Prima e dopo l’operazione, i vivi danzano con i resti dei loro morti, girando più volte attorno alla tom57

Cfr. Saugnieux 1972; Clark 1980.

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ba, quasi a dare concretezza etnografica al celebre tema figurativo della danza macabra, tipico del Medioevo europeo57. Il famadihana malgascio mostra con particolare concretezza il tema della manipolazione dei resti: come in una toilette funebre prolungata i corpi ricevono ancora una volta attenzioni culturali. Vengono «alimentati» con rhum e miele, rimodellati e rivestiti, fatti danzare al suono della musica. La finzione della corporeità viene rimessa in scena ad anni di distanza dalla morte attraverso un’incorporazione simbolica di cibo, relazioni sociali (la manipolazione da parte dei discendenti più diretti), espressioni artisticoculturali come la danza. Attraverso l’attenzione ai resti, si rinsalda la memoria di alcuni antenati: il famadihana coincide in genere con la fondazione di una nuova tomba, il che richiede la presenza di un razambe, un «grande antenato» riesumato da un’altra sepoltura e portato cerimonialmente nella sua nuova dimora. Il suo nome e quello degli altri antenati minori che vengono «riavvolti» durante il rito sono proclamati a voce alta il giorno precedente. Come ben evidenzia il lavoro di Graeber, il famadihana non è soltanto un rito della memoria: esso può essere interpretato allo stesso modo come una pratica dell’oblio. Occorre infatti precisare che il nuovo sudario che avvolge il corpo riesumato del grande antenato capostipite della nuova tomba non contiene solo i resti del suo corpo: in genere numerosi antenati la cui identità personale va polverizzandosi assieme ai resti dei loro cadaveri vengono avvolti insieme. Per lo più, il «corpo» riavvolto consiste in realtà in un insieme di razana ikambanana, ovvero «combined ancestors», resti polverizzati di individui (fino a una dozzina) di cui si perde progressivamente la memoria. «L’intero processo di polverizzazione e, in seguito, di compattamento dei corpi può essere visto come l’aspetto concreto e tangibile di un processo di amnesia genealogica58» (ivi, 264). Nell’atto stesso in cui si celebra il nome e la tomba di un nuovo antenato, si perde il ricordo di altre schiere di morti. Ciò che resta del corpo dell’antenato si mescola con i frammenti di un’umanità vissuta in precedenza: in quei sudari si concentrano letteralmente dei «resti di umanità». Nelle pratiche 58 Per «amnesia genealogica» si intende in genere il processo attraverso cui, ad ogni generazione, una società provvede in maniera più o meno consapevole e deliberata, all’oblio di alcuni antenati.

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e nelle credenze funebri dei Merina non emerge soltanto la necessità di onorare la memoria dei defunti attraverso una prolungata attenzione ai loro resti. Si riscontra, parallelamente, la necessità dell’oblio. I morti assediano i vivi, intimidendoli con punizioni e calamità. I morti minacciano di uccidere i vivi perché «vogliono diventare numerosi», recita un proverbio malgascio. «I vivi rispondono frantumando e compattando i corpi dei morti in modo da tenere basso il loro numero» (ivi, 275). La pratica rituale della doppia sepoltura o meglio della sepoltura molteplice ci conduce così a sottolineare alcuni temi fondamentali legati al rapporto che i vivi intrattengono con i resti dei morti. La manipolazione prolungata dei corpi, come si è visto in più occasioni, si spiega con il loro essere impregnati dell’umanità che hanno incorporato nel corso della loro esistenza. L’attenzione ai resti onora la memoria dei morti, la rafforza: e, tuttavia, può esistere una società che non mette in atto allo stesso tempo strategie di oblio dei defunti? Si può sopravvivere all’«assedio» di generazioni di morti non dimenticati? Riavvolgendo i loro morti, i Merina provvedono a un’azione di selezione della memoria. Come spiegavano a Graeber i suoi informatori merina, se il famadihana non venisse celebrato, i morti invierebbero ai vivi calamità di ogni tipo come incendi, carestie, siccità. Mentre chiedono ai vivi un rito che rinsaldi la memoria di alcuni di essi, gli antenati accettano di essere progressivamente dimenticati ovvero definitivamente spogliati della loro umanità. L’analisi del famadihana ci conduce infine a un’ultima riflessione sulla sepoltura. La tomba collettiva dei Merina, il cui aspetto granitico contrasta con la deperibilità dei materiali con cui si costruiscono le abitazioni, rappresenta il centro simbolico di un gruppo costruito dalle abilità personali del «grande antenato», capostipite della tomba stessa. In una società caratterizzata da raggruppamenti parentali e politici alquanto fluidi, le tombe segnano punti di aggregazione di gruppi a cui l’antenato stesso diede vita. Attraverso le sue abilità personali, egli seppe reperire le risorse (la terra in primo luogo) che permettono ora al gruppo di vivere una certa coesione. Le sepolture – i luoghi dei morti – strutturano il mondo dei vivi: finché la memoria di quell’antenato verrà conservata il gruppo manterrà una sua compattezza e unitarietà. Quando questa verrà meno, l’identità dell’antenato andrà a 65

dissolversi in quella del fondatore di un nuovo gruppo e di una nuova tomba. Arriviamo così a una conclusione di carattere più generale: il modo in cui una società organizza i luoghi dei morti non è indifferente per l’organizzazione dei luoghi dei vivi. Le sepolture e i processi di memoria e di oblio che esse mettono in atto costituiscono ancoraggi territoriali per le identità sociali dei viventi59. Attraverso le sepolture prendono forma le identità culturali: per dirla con Maertens, l’inumazione inscrive sulla terra conquistata alla cultura ciò che fino a quel momento era inscritto esclusivamente sul corpo: seppellendo un cadavere nella terra per carpirne la fecondità, l’interramento è isomorfo alla scarificazione […]. I morti non sono sepolti come semplici rifiuti: essi territorializzano il desiderio dei sopravvissuti e rendono la terra significativa nel progetto socio-economico del gruppo (1979, 28).

2.6. Corpi conservati Davanti all’irrompere della decomposizione dei corpi, le società umane fanno ricorso a due ulteriori opzioni che possono essere sintetizzate rispettivamente nelle categorie del «rallentare» (cat. 4) e del «bloccare (evitare conservando)» (cat. 5) i processi degenerativi della tanato-morfòsi60. Nella quarta categoria rientrano tutti quegli interventi sui cadaveri volti a preservarne, per quanto possibile, l’integrità almeno per il periodo di svolgimento dei riti funebri. La quinta categoria riguarda invece interventi più invasivi che hanno come scopo quello di conservare il cadavere per un tempo indefinito. Per riflettere su queste ulteriori modalità di trattamento del 59 Vorrei segnalare due recenti contributi che hanno attinenza con queste tematiche. T. Widlok (1998) pone in evidenza come le popolazioni khoisan della Namibia, che fino a tempi recenti non attribuivano molta importanza ai luoghi dei morti, abbiano di recente cominciato a costruire tombe monumentali per i capi. Questo mutamento nei costumi funebri è legato, secondo l’autore, all’emergere di un discorso sul patrimonio culturale e all’esigenza di rivendicare un legame privilegiato e ancestrale con la terra. A proposito degli Himba della Namibia, M. Bollig (1997) sottolinea come le tombe costituiscano un capitale simbolico attorno a cui si sviluppa la competizione per il potere politico. 60 Cfr. supra, § 2.2.

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corpo morto lasceremo i contesti «esotici» dell’Africa e dell’Amazzonia, per addentrarci all’interno della società occidentale. Sebbene, per lo più, le pratiche della toilette funebre esaminate all’inizio di questo capitolo siano volte semplicemente a mascherare i primi segni della decomposizione, dando ai cadaveri un’illusoria apparenza di corpi viventi, in alcuni casi questi interventi mirano a preservare l’integrità fisica per un tempo più prolungato. Un caso emblematico al proposito, a cui si è già accennato in precedenza (supra, § 2.1), concerne la cosiddetta «tanatoprassi», una pratica molto diffusa negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’Europa tra cui la Francia meridionale61. Come riferisce Thomas, gli interventi di tanatoprassi comportano un duplice trattamento del cadavere. In primo luogo si provvede a sostituire il sangue delle vene e delle arterie con una sostanza a base di formaldeide e di coloranti. Il viso in particolare viene massaggiato per conferirgli una colorazione rosea e una certa tonicità, eliminando così il pallore che la morte gli aveva conferito. In secondo luogo, si provvede al trattamento delle cavità interne che vengono liberate dai materiali intestinali, dai gas e da tutte quelle componenti che favoriscono il repentino diffondersi dei processi di decomposizione: esse vengono riempite a loro volta con un liquido antisettico. Lo scopo di questo duplice intervento è quello di ritardare gli effetti della putrefazione, ridando al contempo al cadavere le sembianze di un corpo vivente: per questo si provvede al rigonfiamento delle guance, alla chiusura della bocca, alla bombatura degli occhi. Inoltre si fa ricorso ai cosmetici, il cui uso appare più massiccio in America e più discreto in Europa (Thomas 1980, 128 e segg.). A seconda della scrupolosità con cui l’intervento viene eseguito e di alcune condizioni oggettive (tempo trascorso dalla morte all’intervento, peso ed età del defunto, eventuale tipo di malattia che lo ha portato alla morte), il cadavere può essere preservato per un periodo che va da una settimana a qualche mese. Lo scopo di questi interventi, che si possono definire di imbalsamazione temporanea, è principalmente quello di permettere 61 Negli ultimi anni la tanatoprassi si è molto diffusa anche in Spagna. In Italia vi sono al momento consistenti progetti che mirano a introdurre scuole di tanatoprassi e a realizzare funeral houses per il commiato.

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l’esposizione del cadavere per il periodo, in genere piuttosto lungo, della veglia funebre. Esso viene poi abbandonato al suo destino, chiuso ermeticamente in una bara sepolta sotto la terra, nel marmo o in loculi di cemento. Come osserva Douglas Davies: Alcuni criticano l’accurata pratica di preparazione dei corpi in uso nell’America del Nord poiché questa sembra negare la realtà della morte. I corpi vengono regolarmente imbalsamati e trattati con attenzione all’estetica, per cercare di far apparire i morti come fossero vivi e sani […]. Tale pratica, l’imitazione della vita nei morti, ha avuto molto successo nella seconda metà del XX secolo, ed alcuni sostengono che rifletta il tentativo degli americani di evitare la crudezza della morte […]. Così facendo, in genere, si tace del fatto che la moderna imbalsamazione è un atto solo temporaneo e parziale (2000, 58-59).

Lungi dall’essere una forma di negazione della morte, la tanatoprassi apparve già a Thomas, il quale negli anni Ottanta rifletteva sulla rapida diffusione di questa pratica funebre nelle città mediterranee della Costa Azzurra, come una generale «riabilitazione del corpo» che torna a essere «il nodo del rito funebre, sul quale si cristallizza un gioco di emozioni che apre il periodo di lutto e ne facilita di molto l’elaborazione […]. L’estetica mortuaria, per il tramite del come se, sdrammatizza almeno in parte la situazione e permette alla malinconia di insediarsi con una minor dose di traumaticità» (1980, 138 e 139 – corsivi dell’autore). Nell’interpretazione di Thomas (con cui concordano sia Douglas Davies sia, come si è visto in precedenza, Huntington e Metcalf), la tanatoprassi non è definibile come una forma di negazione della morte: potremmo parlare piuttosto di una «finzione di corporeità»62 (esibire il cadavere come se si trattasse ancora di un corpo) destinata a favorire un ultimo contatto con i resti. Se per le popolazioni della foresta amazzonica esaminate in precedenza l’elaborazione del lutto comporta un atteggiamento aggressivo e distruttivo nei confronti del cadavere (infra, § 2.4), per gli americani si tratta invece di congedarsi progressivamente dal defunto che, per quanto illusoriamente, mantiene, almeno per il periodo della veglia, le sembianze di un corpo vivo. 62

Sul tema della «finzione di corporeità» si veda anche infra, cap. 3.

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Un’evidente negazione della morte sembra emergere invece da un altro costume funebre americano, che consiste in una forma moderna di conservazione del cadavere e di evitazione della putrefazione: la criogenizzazione63. A metà degli anni Novanta circa mille americani erano iscritti a una delle associazioni che promuovono la diffusione di questa pratica e qualche decina di cadaveri era già stata sottoposta al trattamento64. La criogenia è un processo piuttosto complesso che consiste essenzialmente in una progressiva ibernazione del cadavere e nella sua conservazione a temperature bassissime per un periodo di tempo illimitato. La procedura va attuata subito dopo l’accertamento del decesso: dopo un adeguato trattamento farmacologico, il corpo viene progressivamente raffreddato fino a raggiungere la temperatura di circa –40 °C (l’operazione richiede circa 48 ore). In seguito esso viene immerso in un liquido ibernante e raggiunge una temperatura di –160 °C, temperatura che deve essere poi mantenuta costante. Le associazioni che promuovono la criogenia offrono ai loro adepti la possibilità di ibernare l’intero cadavere oppure soltanto la testa, che viene separata dal corpo a livello delle spalle65. Esse, in cambio di un’ingente quantità di denaro (pari a circa 120.000 dollari per l’intero corpo, poco meno della metà per la sola testa), si incaricano poi di stoccare il cadavere in un deposito e di conservarlo a tempo indefinito. Questa moderna pratica di conservazione dei corpi è fondata 63

Le forme più celebri di conservazione del cadavere sono ovviamente legate alle varie tecniche di mummificazione, riscontrabili in molte società sia nell’antichità sia nel mondo contemporaneo. G. Elliot Smith e W.G. Perry (1915) videro nell’ampia diffusione della mummificazione in tutti i continenti una prova a sostegno della loro bizzarra teoria «eliocentrica», secondo la quale le principali elaborazioni tecniche e spirituali dell’umanità si sarebbero realizzate per la prima e unica volta in Egitto e si sarebbero poi diffuse in tutto il mondo. Poiché non rientra tra gli obiettivi di questo testo un’analisi approfondita della mummificazione (si veda però il § 5.3 per una riflessione sull’importanza politica della conservazione del cadavere), mi limito qui a rimandare il lettore a opere di taglio antropologico che contengono interessanti riflessioni sull’argomento: Kosei 1968; Maertens 1979, 42-47; Thomas 1980, 126-155 e soprattutto Reid 2001. 64 Cfr. Quigley 1996, 233-236. 65 La possibilità almeno teorica della clonazione fa sì che molti oggi richiedano semplicemente l’ibernazione di alcune cellule.

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sulla speranza che, in futuro, i progressi della biomedicina consentano di riportare l’individuo in vita, guarendolo dalla malattia che lo ha colpito e portato alla morte e riparando al contempo i danni causati dall’esposizione a temperature così basse. È noto infatti che, se l’ibernazione blocca il processo di putrefazione, la trasformazione dell’acqua (di cui il nostro corpo è ricco) in ghiaccio dilata le cellule, danneggiandole in modo irreparabile, almeno per le attuali tecnologie. Coloro che scelgono di preservare soltanto la testa sperano che in futuro gli scienziati siano in grado di ricostruire anche il resto del corpo, ricorrendo magari alle discusse biotecnologie della clonazione. Gli individui che si affidano alla criogenia ritengono insomma che il corpo venga come sospeso nella soglia che separa la vita dalla morte (si parla infatti correntemente di «sospensione criogenica»): ormai disgiunti dal mondo dei vivi, i «crionauti» rifiutano allo stesso tempo di raggiungere il mondo dei morti e degli antenati, affidandosi piuttosto alle capacità scientifiche e tecniche dei discendenti66. Come ha fatto notare Stefano Allovio in un saggio dedicato a questa particolare e moderna «tribù» – «non è un gruppo molto numeroso, assomiglia a una di quelle piccole tribù che hanno fatto la storia degli studi antropologici» (2001, 22) – , gli individui che ricorrono alla sospensione criogenica paiono a prima vista rifiutare ogni forma di credenza e di rito funebre. Essi ricorrono alla scienza, al progresso per congelare le trasformazioni e scongiurare gli effetti disgregativi della morte. In questo caso, «non si elabora culturalmente la putrefazione, neppure la si blocca per l’esecuzione rituale delle esequie come nel caso dell’imbalsamazione: qui si aspira a una vera immortalità scientificamente fondata, pare non esserci nulla di simbolico» (ivi, 23). I criogeni affidano al futuro la possibilità di continuare a manipolare e a costruire il loro corpo biologico. L’evento «anti-poietico» della putrefazione viene sospeso, confidando in una futura, rinnovata poiesis del corpo. In realtà, argomenta Allovio, nella loro profonda (e tutto sommato cieca) fede nella scienza anche i criogeni fanno ricorso a un mito, non poi così dissimile da quelli che caratterizzano molte società «primitive»: il mito dell’immortalità. La scienza attuale, in66

Cfr. Wowk, Darwin 1991.

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fatti, lascia intravvedere ben poche possibilità di riparare in futuro i tessuti danneggiati dal gelo e di riportare in vita questi defunti. A rigor di scienza, ci troviamo qui davanti a cadaveri congelati e non a corpi sospesi tra la vita e la morte. «L’idea di avere un parente o un conoscente sospeso tra la vita e la morte e quindi non ancora morto è evidentemente una credenza, così come rientra nell’ambito delle credenze l’idea di un processo di resurrezione razionalmente argomentato» (ivi, 27). Se molte società affidano a una qualche divinità o agli antenati la propria speranza in una qualche forma di immortalità, i criogeni hanno dato vita a un curioso culto dei discendenti fondato sulla fede nel progresso: la resurrezione futura è rimessa nelle mani di questi ultimi invece che nell’intervento provvidenziale di un dio o di un antenato. Concludendo questa rassegna sul trattamento del cadavere, possiamo osservare che anche i criogeni, i quali sostengono di volersi sottrarre alle pratiche, alle credenze e ai consueti riti della morte, non fanno altro che esprimere, con la loro scelta, la profonda avversione che gli esseri umani nutrono verso i processi di decomposizione dei corpi morti. Il ricorso al freddo e l’elaborazione di un mito di immortalità di matrice scientifica è soltanto uno dei granelli di un mucchio di costumi e credenze strane e bizzarre che le società umane hanno elaborato per reagire alla morte e per porre ancora una volta al centro della loro attenzione i corpi e il loro destino. D’altra parte, come vedremo a partire dal prossimo capitolo, la storia di questi ultimi non sempre si conclude in questo modo: le pratiche di trattamento del cadavere lasciano spesso dei resti che conservano impresse profonde tracce di umanità.

Capitolo terzo

Reliquie cristiane

Quanto alle reliquie, toccarle è oggetto di desiderio e delle preghiere di tutti. Come se il corpo fosse ancora vivente e florido di salute, lo si ammira, lo si bacia, gli si suonano strumenti musicali. Gregorio di Nissa, De Theodoro martyre In una reliquia si poteva pensare che la gelida anonimia dei resti umani fosse ancora piena della presenza della persona cara. Peter Brown, Il culto dei santi

3.1. Incontri di reliquie nel Sud Pacifico In un pomeriggio di settembre del 1997, ormai quasi al termine di una lunga ricerca sul campo a Futuna, in Polinesia occidentale, stavo passeggiando sulle pendici collinari di Asoa, sul versante orientale dell’isola1. Ad Asoa salivo di tanto in tanto per ammirare la splendida vista che quest’area offre sull’isola prospiciente di Alofi e per dilatare, almeno a livello visivo, i confini sempre troppo ristretti e avvolgenti di una piccola isola polinesiana. Mentre attraversavo uno dei tanti campi di igname che ricoprono il pendio, vidi in lontananza la sagoma familiare di Soane Fanene, o meglio del Tu’i Asoa, come viene localmente chiamato il capo tradizionale di Ono, uno dei villaggi più grandi di Futuna. Personaggio schivo e poco interessato a rilasciare interviste a un antropologo, il Tu’i Asoa fu in quell’occasione molto loquace, forse per l’assenza di 1 Piccola isola della Polinesia occidentale, Futuna fa parte del Territorio d’Oltremare francese di Wallis e Futuna. La ricerca sul campo aveva come obiettivo principale lo studio del sistema politico tradizionale (Favole 2000).

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taccuini e registratori, forse perché a suo agio tra le coltivazioni. Ricordando una domanda che gli avevo posto qualche tempo prima su quello che la tradizione indica come il primo «re» dell’isola, Fakavelikele, il Tu’i Asoa mi invitò a seguirlo fino a una piantagione di noci di cocco che si trovava poco al di sopra del nostro punto di incontro. Qui, con mia grande sorpresa, scoprì sotto un palmo di terra un teschio accuratamente avvolto in una di quelle sgargianti stoffe sintetiche con cui si vestono oggi i Polinesiani. «È il cranio di Fakavelikele», commentò. «Più in basso ci sono i resti della sua abitazione e la pietra su cui poggiava il dorso». La presunta tomba di Fakavelikele era stata (ri)scoperta qualche anno prima, nel corso di una campagna di scavi promossa da un archeologo francese. Interrogando gli anziani del villaggio, lo studioso aveva individuato il sito della sepoltura da tempo abbandonata proprio sui terreni appartenenti al gruppo parentale dell’attuale capo-villaggio. Questi, periodicamente, dissotterra il teschio e lo avvolge in una stoffa nuova. «La tomba di Fakavelikele» – mi disse il Tu’i Asoa – «è proprio qui sul mio terreno e mostra che sono a buon diritto il capo di Ono». La presenza dei resti di un antenato così illustre sui terreni di famiglia certifica, per così dire, il rango dell’attuale capo-villaggio e legittima la sua autorità. A Futuna, come in molte altre società del Pacifico (ma non solo), il potere politico si fonda su legami di continuità col passato e i resti umani agiscono come segni scritturali, pegni (pignora, per utilizzare uno dei termini con cui si designavano le reliquie cristiane) di una memoria basata sull’oralità. Nell’epoca pre-coloniale, l’esistenza di una linea di continuità tra i capi e i loro predecessori, ribadita dalla presenza tangibile dei resti corporei degli antenati, era decisamente più esplicita e marcata. I racconti della tradizione orale parlano infatti di un kete ’uli, un «paniere nero» contenente le ossa del primo capo-villaggio, che il leader in carica custodiva gelosamente, appendendolo alle travi portanti della sua capanna. Quelle ossa sottratte all’oblio garantivano il suo mana, ovvero l’«efficacia» e la legittimità del suo potere2. 2 Mana è un termine ampiamente diffuso nelle isole del Sud Pacifico. Il suo campo semantico è molto ampio e numerose sono le analisi interpretative del

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Quando, nel 1837, il primo missionario cristiano sbarcò sull’isola, non ebbe dubbi a classificare queste e altre pratiche e credenze come «superstizioni pagane». Pierre Chanel era un umile e timido sacerdote francese appartenente alla congregazione cattolica della Società di Maria, che si era data il compito di evangelizzare l’Oceania centrale, in competizione con i missionari protestanti della London Missionary Society. I suoi primi anni di permanenza a Futuna furono piuttosto infruttuosi: accolto con rispetto e grande ospitalità, il missionario – a parte alcuni moribondi battezzati di nascosto! – non riuscì tuttavia a rinchiudere molte pecore nel suo ovile3. Dopo due lunghi anni di permanenza, avendo constatato gli scarsi risultati della sua predicazione, Chanel, su pressione del suo superiore, si lanciò in una battaglia iconoclastica contro i simboli e le immagini del paganesimo polinesiano. Riversò a terra le pietre su cui i capi (considerati localmente come «tabernacoli delle divinità») poggiavano il dorso; sfregiò i pali centrali delle capanne che i Polinesiani ritenevano «incarnazioni» di importanti divinità; bruciò o distrusse molti idoli tra cui, con tutta probabilità, i kete ’uli che racchiudevano le ossa degli antenati4. Poco dopo la prima importante conversione, quella di Meitala, figlio del capo supremo dell’isola, Chanel fu ucciso il 28 aprile 1841 da «un’orda selvaggia armata di lance, di casse-tête, di mazze e di asce» (Servant 1996, 104)5. L’omicidio perpetrato ai danni di un sacerdote che aveva attaccato il cuore simbolico del sistema poconcetto compiute dagli antropologi. In generale esso indica la «capacità», l’«abilità», l’«efficacia» dell’azione di un individuo (per lo più un capo) nell’ottenere «benessere» per il suo popolo. Nell’epoca pre-cristiana il mana del capo era legato alle sue relazioni privilegiate con il mondo delle divinità tradizionali: oggi, in molti contesti insulari, esso scaturisce dalla stretta relazione che i capi intrattengono con i sacerdoti cristiani. Una rassegna delle interpretazioni classiche del concetto è stata svolta di recente da C. Pignato (2001). 3 P. Chanel annotava quotidianamente nel suo diario le informazioni concernenti la sua attività pastorale. Il suo Journal, pubblicato nel 1960, è una preziosa fonte di informazioni etnografiche. 4 È ciò che sostengono alcuni informatori futuniani con cui ho lavorato durante la ricerca sul campo. Una testimonianza analoga è stata raccolta da F. Douaire-Marsaudon (1998, 112). 5 La citazione è tratta dagli scritti di L.C. Servant, missionario inviato sull’isola dopo la morte di Chanel e incaricato di compilare una Notice concernente il popolo futuniano e, in particolare, di raccogliere informazioni sull’uccisione del missionario in vista del processo di beatificazione.

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litico-religioso dell’isola (profanando gli oggetti sacri e spingendo l’erede al trono a sconfessare le divinità tradizionali) venne ben presto interpretato negli ambienti cattolici francesi in chiave agiografica: la sua azione di pioniere del cristianesimo in una società che in pieno XIX secolo non conosceva ancora le Sacre Scritture fece di lui un martire, il cui sangue avrebbe fecondato con la «luce della verità» la comunità isolana. In seguito alla sua uccisione, le autorità religiose e civili francesi inviarono a Futuna una nave «coperta di tanti uomini e di tanti cannoni»6, per recuperare il corpo del missionario e incutere timore agli isolani. L’anno successivo tutti gli abitanti dell’isola ricevevano il battesimo. Il cadavere di Chanel, che era stato sepolto poco lontano dal luogo del martirio, avvolto in stoffe di corteccia e unto di olio di palma secondo gli usi locali, fu recuperato nel corso del 1842. Portato a bordo della corvetta Allier, venne esaminato dal medico di bordo: «Si riscontrò nel cranio una frattura anomala, corrispondente a quella dello strumento tagliente che aveva causato la morte. Egli stesso si incaricò di imbalsamare i preziosi resti» (Servant 1996, 124). L’autopsia di ciò che rimaneva del corpo costituì la prima tappa di un lungo percorso di ricerca che comportò in seguito un’analisi puntuale della biografia del personaggio, l’accertamento delle circostanze del martirio, il compiersi di miracoli per sua intercessione (al momento della sua morte si produsse un fragoroso tuono, nonostante il cielo – dicono le cronache – fosse perfettamente terso). Ben presto, numerose opere di carattere agiografico provarono l’eccezionalità della testimonianza cristiana e del sacrificio di Chanel, ponendo le basi per la sua beatificazione (avvenuta il 17 novembre 1889) e per la successiva santificazione (celebrata da Pio XII il 17 gennaio 1954). Come per le spoglie dei primi martiri cristiani, i resti di Chanel – proclamato Santo patrono dell’Oceania e inserito ufficialmente nel calendario liturgico cristiano alla data del 28 aprile – sono stati oggetto di particolari attenzioni. Dopo essere stati recuperati a Futuna nel 1842, essi vennero trasportati prima in Nuova Zelanda 6 F. Comte, Lettera di R.P. Comte, missionario apostolico, al R.mo P. Colin, superior generale della Società di Maria, in «Annali della Propagazione della Fede», 15, 1843.

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e poi a Lione, sede della congregazione a cui egli apparteneva, dove arrivarono nel 1850. Il cranio di Chanel arrivò a Roma nel 1954, in occasione della santificazione del missionario. Nel frattempo i Futuniani avevano cominciato a chiedere la restituzione dei resti del «loro» santo. La richiesta fu accolta nel 1977, quando lo scheletro tornò sull’isola, e nel 1987, quando il cranio di Chanel divenne il nucleo simbolico del grande santuario a lui dedicato nel villaggio di Poi, non lontano dal luogo del martirio (Laracy 2000). Quei resti, racchiusi in un prezioso reliquario – una sorta di kete ’uli moderno di antica tradizione cristiana – sono oggi oggetto di grande venerazione da parte dei Futuniani, una popolazione che ha abbracciato con convinzione la fede nel Dio del Vangelo. La vicenda del corpo (vivo e morto) di Chanel presenta così un interesse che va al di là di una semplice «tempesta in un bicchiere dei Mari del Sud», per dirla con Marshall Sahlins (1986, 125), un autore che proprio a partire dall’evento del martirio «laico» di James Cook alle Hawaii ha dato vita a un vivace dibattito antropologico7. L’incontro tra un missionario europeo, erede di una tradizione cristiana millenaria, e una sperduta popolazione del Pacifico, il cui sistema politico-religioso poteva vantare origini non meno nobili e antiche, si risolse in uno scontro ideologico nel quale le concezioni dei resti umani svolsero un ruolo non secondario. Quelli che agli occhi del missionario non erano altro che idoli pagani, rappresentavano tangibilmente per i Polinesiani la fonte stessa del potere politico: affidandoci alla terminologia cristiana del culto delle reliquie, potremmo dire che la praesentia dell’antenato garantiva la potentia del capo. La battaglia del sacerdote contro le «superstizioni pagane» si risolse nella sua morte: e tuttavia, gli stessi resti del suo corpo tornarono in seguito sull’isola ad alimentare un nuovo (ma molto antico in un’ottica cristiana) culto delle reliquie. La vicenda sarebbe forse andata diversamente se sull’isola fossero arrivati i missionari protestanti della London Missionary Society per i quali il culto cristiano delle reliquie non è altro che «superstizione». 7 Per una sintesi del dibattito tra M. Sahlins e G. Obeyesekere concernente l’interpretazione dell’episodio relativo alla morte del Capitano Cook, cfr. Viazzo 2000, 167 e segg.

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Europei e Futuniani, per quanto molto diversi per retroterra culturale, condividevano un culto, ovvero un’attenzione speciale per i resti umani o meglio per alcune categorie di resti. Frammenti di corpi sottratti all’oblio e alla dissoluzione e capaci di divenire resti esemplari, modelli di «santità» in un caso o di un potere politico ancestrale ricco di mana nell’altro. Entrambi i culti avevano alle spalle tradizioni millenarie: Chanel era l’epigono di una lunga teoria di martiri e santi, i cui resti avevano accompagnato in epoche differenti l’espansione ecumenica del cristianesimo. A loro volta i Futuniani erano gli eredi di un lungo processo di irradiamento culturale: a partire da qualche angolo del Sudest asiatico, gli antenati degli attuali Polinesiani avevano colonizzato sistematicamente ogni scoglio del Pacifico in grado di permettere l’insediamento di comunità umane. Nel loro lungo cammino di conquista dell’Oceania, gli antenati dei Futuniani disseminarono nel Pacifico (e prima ancora nell’Indonesia) il loro culto peculiare dei resti umani di cui, ancora nel secolo scorso, si ritrovavano molte tracce. Nei due capitoli che seguono, senza la pretesa di avventurarmi in un percorso storico ed etnografico esauriente, tenterò di riflettere sulle reliquie che popolano il passato cristiano degli evangelizzatori dell’Oceania e quello degli indigeni colonizzati. Il concetto di «reliquia», al di là del significato specifico che riveste nella storia del cristianesimo, può assumere una valenza comparativa e transculturale. Esso designa in questo significato esteso quei resti dei processi di decomposizione dei corpi umani che per ragioni diverse (religiose, scientifiche, politiche, estetiche) vengono sottratti all’oblio e all’irreversibile scomparsa a cui vanno incontro i corpi dei comuni mortali. 3.2. Resti esemplari Il controllo culturale dei processi di disgregazione dei corpi, come è emerso nel capitolo precedente, è uno dei problemi di fondo dell’umanità: così, alla morte di un essere umano, si pongono in atto delle scelte (raramente esclusive) sulle modalità di trattamento del suo cadavere, che vanno dalla cremazione al cannibalismo funebre, all’abbandono agli agenti atmosferici, ai vari tipi di sepoltura, a imbalsamazioni, mummificazioni e così via. Per lo 77

più, la conclusione dei processi di putrefazione coincide con un congedo definitivo del corpo dalla società e alcune culture segnano questo passaggio con un rito apposito, la seconda sepoltura. Ciò che rimane del corpo (le ossa in primo luogo) al termine di questo lungo periodo di soglia cade di solito nell’oblio. Sia che questi resti vengano abbandonati al loro destino, in luoghi di cui si perde progressivamente la memoria, sia che vengano raccolti in siti ben identificati, come accade per gli ossari nella nostra società, essi divengono resti anonimi e impersonali. Eppure vi sono molte società in cui alcune categorie di resti si sottraggono a questo destino. Si tratta di reliquie «esemplari» che non cedono all’oblio e sembrano anzi superare indenni quella frattura radicale che è la morte. Invece di essere abbandonati al loro destino, essi vengono per così dire re-incorporati nella società che tributa loro speciali attenzioni, se non un vero e proprio culto. Nella società occidentale, il caso più evidente e interessante al proposito è sicuramente quello delle reliquie cristiane. Il culto cristiano delle reliquie colpisce innanzitutto per la sua profondità storica e per l’ampia estensione geografica: anche se presenta caratteristiche e intensità molto diverse secondo le epoche e i luoghi considerati (per non parlare delle critiche di cui è stato bersaglio fin dalle origini), si può dire che esso accompagna il cammino storico del cristianesimo dalla nascita delle prime comunità fino ai giorni nostri. In alcuni illuminanti saggi scritti nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, Peter Brown ha posto in luce l’importanza del culto delle reliquie nel cristianesimo tardo antico (IV-V secolo), mostrando la sua intrinseca connessione con il sorgere e il diffondersi del culto dei santi8. Nei suoi scritti Brown polemizza con una radicata tradizione storiografica, la quale considera il culto dei santi e dei loro corpi come l’infiltrazione di credenze «popolari» e «folcloriche» di matrice pagana (se non decisamente politeistica) in una religione che, nel suo pensiero ufficiale, avrebbe elaborato una concezione monoteistica e astratta della divinità. In realtà, egli sostiene, la nascita del culto dei santi è coerente con la visione profondamente innovativa dei rapporti tra gli uomini e la divinità, tra i vivi e i morti elaborata dal 8

Cfr. Brown 1983; 1988; 1992.

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cristianesimo, e la sua diffusione fu il risultato di una consapevole scelta da parte delle gerarchie ecclesiastiche in formazione. Avendo seguito l’esempio di Cristo, donando la propria vita per la causa della fede, i martiri delle prime comunità cristiane subirono ben presto un processo di santificazione. I sepolcri dei santi – sia che si trattasse delle solenni tombe dei patriarchi ebrei in Terra Santa, oppure, in ambienti cristiani, di tombe, frammenti di corpi o anche oggetti concreti che fossero stati in contatto con questi corpi – erano luoghi privilegiati, dove s’incontravano gli estremi opposti del cielo e della terra (Brown 1983, 11).

La tomba del santo divenne un luogo simbolico in grado di infrangere barriere che, nei secoli precedenti, erano apparse insormontabili: cielo e terra, vivi e morti trovarono in essa un formidabile punto di incontro. Nonostante la morte, una morte spesso orribile in un periodo di feroci persecuzioni, agli occhi dei credenti il santo manifestava tangibilmente la sua praesentia nelle reliquie della sua persona. Così, nel V secolo, Gregorio di Nissa parlava dei resti di san Teodoro: «Quelli che li contemplano, ne abbracciano per così dire il corpo vivo nel suo pieno rigoglio: coinvolgono occhi, bocca, udito, tutti i sensi e poi, versando lacrime di venerazione e di passione, indirizzano al martire le loro preghiere di intercessione, proprio come se fosse presente»9. «In una reliquia – sintetizza efficacemente Brown – si poteva pensare che la gelida anonimia dei resti umani fosse ancora piena della presenza della persona cara» (ivi, 19). La presenza del santo nei suoi resti si manifestava in miracoli, prodigi, guarigioni, conversioni che ne attestavano la potentia (o la virtus), pegno e garanzia delle sue capacità di mediazione con la divinità e del fatto che, pur avendo reso la propria anima a Dio, il suo corpo sarebbe risorto alla fine dei tempi come quelli, ben presto dimenticati, dei comuni mortali. Quei resti, venerati quali tesori preziosi, erano legati a triplo filo con il santo: testimonianze della sua vita e del suo martirio, segni concreti della sua presenza e garanzie della sua futura resurrezione. Un po’ come nel caso polinesiano esaminato in 9

Citato in Brown 1983, 19.

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precedenza in cui le ossa degli antenati legittimavano l’autorità del capo, i resti esemplari dei santi divennero fonte di «benessere» e potere per la comunità che li custodiva. Sophia Boesch Gajano – una delle più autorevoli studiose della santità – non esita al proposito a ricorrere proprio alla nozione polinesiana di mana: «La reliquia diviene strumento di potere. Si tratta di un potere ‘interno’, immanente, assimilabile a forme animistiche, una sorta di mana; e un potere ‘esterno’ o sociale, nel senso che la reliquia conferisce un potere all’individuo, alla comunità, all’istituzione che la possiede» (1999a, 23)10. Nei secoli centrali del Medioevo (IX-XI secolo), il culto delle reliquie raggiunse l’apice della sua importanza e non solo nel contesto strettamente religioso ma nella vita politica, sociale, economica delle società del Nord come del Sud Europa (per limitarci all’Occidente). Questa tesi è di un altro celebre storico, Patrick Geary, il quale ha evidenziato l’importanza di questi resti esemplari per le politiche della Chiesa, dell’Impero e delle realtà comunali dell’Italia medievale (2000). Di fronte a simili improbabili e sconcertanti vestigia della pietà paleocristiana e medievale, gli storici, ancora in tempi recenti, tendevano a sminuirne l’importanza […]. Tuttavia, quando il soggetto della ricerca non è tanto la reliquia in sé ma la gente che a essa è devota, che la trova, la compra o la ruba, ne emerge che – contrariamente alle aspettative della più «illuminata» generazione di storici – le reliquie occupano un posto fondamentale nel tessuto della vita medievale (ivi, 7-8).

A partire dalle cronache dell’epoca relative in particolare alle trafugazioni di reliquie (un genere agiografico conosciuto come furta sacra), Geary analizza in primo luogo il ruolo di questi resti negli ambienti monastici dell’Europa settentrionale11. La necessità di fondi, la competizione tra monasteri, l’esigenza di protezione spirituale contro l’invadenza dei laici indussero molti responsabili di comunità monastiche a procurarsi resti di san10 Di S. Boesh Gajano, oltre all’opera di sintesi citata nel testo (1999a), vorrei segnalare i lavori seguenti che contengono interessanti approfondimenti sul culto delle reliquie: Agiografia altomedievale (1976) e Reliques et pouvoirs (1999b). 11 Cfr. Geary 2000, 61 e segg.

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ti celebri attraverso il dono, l’acquisto da professionisti del commercio (come il celebre diacono di Roma Deusdona le cui carovane attraversavano in primavera le Alpi cariche di reliquie), o compiendo veri e propri furti. Fu così che il corpo di santa Fede fu sottratto alla comunità di Agen dai monaci di Conques, per i quali la presenza di una santa di «richiamo» si era rivelata un’esigenza primaria, in grado di attirare verso il loro monastero la numerosa schiera di pellegrini che percorrevano il loro cammino in direzione di un altro celebre santuario, quello di San Giacomo di Compostela. L’esigenza di reliquie tuttavia andava ben oltre la sfera monastica o religiosa. Poiché la presenza di un santo noto garantiva prosperità, benessere economico, protezione, importanza politica a tutta la comunità che lo possedeva, l’epoca carolingia vide una continua mobilità di resti che, a partire dalla Spagna degli ultimi martiri cristiani, dalle catacombe di Roma, dall’Oriente bizantino e dalla Terra Santa percorrevano in lungo e in largo il continente europeo. Carlo Magno e il figlio Ludovico non indebolirono il culto dei santi e delle loro reliquie, anzi fecero di esso uno strumento utile a rafforzare il loro programma di consolidamento e accentramento politico, sociale e religioso12. Fu lo stesso Carlo Magno a imporre l’uso di giurare sulle reliquie («Possano Dio e i santi a cui queste reliquie appartengono giudicarmi»), ad accrescere l’importanza e la spettacolarità dei riti della translatio e della depositio di reliquie negli altari che ne erano privi, a incastonare resti umani nel suo trono: la sua spada e il suo anello erano protetti da frammenti della Croce. Nell’Italia comunale, d’altra parte, le varie comunità politiche rivaleggiavano anche attraverso il culto dei rispettivi santi, non di rado personaggi locali di cui le narrazioni agiografiche provvedevano a costruire una biografia eroica. È noto che la traslazione delle reliquie di san Marco da Alessandria (827 d.C.) ebbe un’importanza cruciale per la storia di Venezia e per il mantenimento della sua autonomia, così come le spoglie di san Nicola (traslate nel 1087 da Mira) resero importante la città di Bari13. Le stesse crociate, culminate nel saccheg12 13

Ivi, 40 e segg. Ivi, 93 segg.

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gio di Costantinopoli (1204 d.C.), «produssero una sorta di ondata di reliquie di ogni specie in Europa, che fece sì che gli apostoli e i primi martiri fossero quasi onnipresenti tramite le loro reliquie, duplicate e sparpagliate in tutto l’Occidente» (ivi, 28). Ripercorrendo le narrazioni (translationes o furta sacra) concernenti la disseminazione di questi corpi santi nell’Occidente medievale, Geary offre uno spaccato inedito della vita politico-sociale dei secoli centrali del Medioevo, un modo decisamente affascinante di fare storia a partire dai resti. Accogliendo la lezione di Brown, di Geary e degli altri studiosi che negli ultimi trent’anni hanno svolto ricerche sul tema, un folto gruppo di storici ha dato vita di recente a un convegno (tenutosi a Boulogne-sur-Mer nel 1997) da cui è scaturito un volume piuttosto interessante, Les reliques. Objets, cultes, symboles (a cura di E. Bozóky, A.-M. Helvétius, 1999). I vari saggi di cui esso si compone prestano attenzione alle forme eterogenee che il culto ha assunto in Occidente, in Oriente e in altri luoghi di diffusione della cristianità. In uno studio che si propone di affrontare il culto delle reliquie «in una prospettiva realmente globale e interdisciplinare» (ivi, 14), ampio spazio viene dato ai contesti politici, sociali ed economici in cui esso si svolse. Viene inoltre esaminata l’influenza che il culto esercitò attraverso i secoli sull’architettura, sulla costruzione di uno spazio segnato dalla cristianità, sulla nascita e sulla diffusione di particolari canoni estetici (soprattutto per quanto concerne i reliquari). Il volume consente inoltre al lettore di accostarsi alle riflessioni teologiche in cui la venerazione delle reliquie venne inquadrata e di approfondire aspetti quali i riti di traslazione, i pellegrinaggi, la rivalità delle varie comunità religiose per il possesso di questi preziosi resti. Un contributo particolarmente interessante in una prospettiva antropologica è quello sviluppato da Jean-Pierre Duteil (1999), che analizza il ruolo delle reliquie nelle comunità cristiane della Cina e del Vietnam del XVII e del XVIII secolo. Per contrastare la diffusa presenza di «idoli pagani», i missionari cristiani introdussero fin dal loro arrivo in queste società oggetti di culto quali acqua benedetta, medagliette votive, rosari, crocifissi, reliquie. Tra queste testimonianze tangibili della nuova fede, le comunità locali parevano particolarmente affascinate proprio dalle reliquie. Esse arrivavano dall’Occidente, ma potevano essere «prodotte» an82

che localmente: così, alla morte di François Xavier nell’isola di Xangchuan, davanti a Canton, il suo corpo fu trasformato in reliquia e deposto nella chiesa di Goa, dove è rimasto fino a oggi, con l’eccezione del braccio destro staccato per essere deposto a Roma nella curia generale dei gesuiti. Al momento della fondazione della diocesi del Tonchino, si resero necessarie nuove reliquie: da Roma giunsero così i resti di san Giuliano e di san Milite che andarono a consacrare gli altari delle chiese di Hanoi. In seguito alle persecuzioni subite in Giappone, nel Tonchino, nel Dai-Viet e in Cina, le nuove comunità cristiane videro in seguito emergere le figure dei martiri locali, i cui resti divennero oggetto di un culto alquanto sentito. Molti di essi rimasero in loco, altri percorsero a ritroso il cammino della cristianità. Così, il gesuita Alexandre de Rhodes raccolse la testa del giovane catechista Andrea, martirizzato a Da Nang (Vietnam) nel 1644, e la inviò a Roma dove essa arrivò nel 1650 dopo un avventuroso viaggio, per mostrare al papato la tenacia con cui i missionari perseveravano nell’opera evangelica. Diffidando di un’immagine compatta e coerente delle credenze cristiane, il libro curato da Edina Bozóky e Anne-Marie Helvétius fa emergere nel suo complesso la tensione tra i sostenitori del culto delle reliquie (docteurs) e i loro detrattori (douteurs): ben prima della radicale condanna da parte dei Riformatori (incisiva nella dottrina, più discutibile se esaminata negli atteggiamenti degli aderenti alle varie chiese riformate), vescovi, teologi, eretici avevano a vario titolo espresso dubbi, critiche, perplessità. Nel tirare le somme dei lavori, Henri Platelle osserva che il culto delle reliquie ha penetrato tutta la vita sociale: esso ha occupato la riflessione dei teologi e nutrito la pietà dei fedeli […]; ha fornito ai principi e ai potenti un sovrappiù di sacralità […]; ha fatto sentire il suono del denaro attorno all’altare […]; ha esercitato una forte influenza sull’architettura religiosa […]. In breve, potremmo parlare di una sorta di onnipresenza delle reliquie e dunque di un vero e proprio continente da scoprire (1999, 321-322).

Affidandoci alle parole di un celebre antenato dell’antropologia francese, Marcel Mauss (1923-1924), potremmo dire che ci troviamo davanti a un «fatto sociale totale»: a partire dallo studio 83

delle reliquie è possibile addentrarsi in ambiti culturali che vanno ben oltre la sfera religiosa. Uno di questi ambiti, a cui vorrei dare particolare rilievo nelle pagine che seguono e che lo stesso Platelle indica come uno dei campi più interessanti verso cui indirizzare nuove ricerche, è quello relativo alle riflessioni sul corpo, sui suoi processi trasformativi, sul suo destino. Le reliquie cristiane presentano in effetti un notevole interesse per una riflessione antropologica sui resti. Ci troviamo qui di fronte a una società (o meglio a una costellazione di società) che pone al centro della propria attività cultuale corpi simbolici – si pensi all’eucarestia quale «corpo» di Cristo –, corpi mummificati o miracolosamente scampati alla decomposizione, ossa, teschi e altri frammenti di un’umanità esemplare. Questi resti, come vedremo nei prossimi paragrafi, venivano (e, in alcuni contesti, vengono tuttora) manipolati, baciati, ostentati, e addirittura indossati. Come in una toilette funebre prolungata essi venivano esposti alla vista, portati in processione e anche in viaggio, attraverso tournée destinate a raccogliere fondi e a mantenere viva la devozione dei credenti14. Si può dire che il cristianesimo si diffuse parallelamente alla disseminazione di resti umani in tutto l’ecumene evangelizzato: viaggiavano le reliquie, traslate dai loro luoghi originari di sepoltura verso le nuove comunità di adozione, e viaggiavano verso di esse i pellegrini, protagonisti di un turismo religioso ante litteram che – pur in forme mutate – arriva fino ai nostri giorni15. In alcune epoche non si esitò a profanare tombe e a visitare necropoli abbandonate pur di procurarsi reliquie da donare, vendere, barattare. Queste «ossa senza pace» – secondo la felice espressione di James Bentley (1985) – servirono a tessere alleanze, a stipulare patti, a cementare identità comunitarie locali. Esse furono oggetto di forti investimenti estetici: vennero collocate in reliqua14 La pratica di portare le reliquie in processione ha un’origine molto antica (le prime testimonianze risalgono al VII secolo) ed è tuttora praticata almeno in certe aree del Sud Europa. Nel settembre del 2000, le reliquie di santa Teresa di Gesù Bambino attraversarono l’Italia nord-occidentale facendo tappa in numerose diocesi che organizzarono a turno veglie di preghiera. 15 Si calcola che nel 2001 più di otto milioni di pellegrini abbiano visitato il santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. 16 Sui reliquari si veda Elbern 1998.

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ri tempestati di pietre preziose16, in statue, in altari monumentali, in teche di cristallo; furono dipinte o addirittura utilizzate, come in certe cappelle barocche, quali elementi architettonici decorativi o come mattoni da costruzione. Avendo superato, per così dire, indenni la fase della disgregazione del corpo, questi resti tornavano a divenire degni di investimenti poietici. Considerate dai fedeli alla stregua di corpi sopravvissuti alla loro stessa dissoluzione, potevano essere (ri)modellati e riacquisire una vita sociale: al contrario di ciò che avviene normalmente ai resti, essi non cadevano nell’anonimato ma mantenevano in sé (anche quando ne erano semplici frammenti) la personalità del defunto. Qui risiedono, a mio modo di vedere, il grande interesse e la grande sfida interpretativa che le reliquie presentano oggi. Perché in alcune epoche e in alcune culture gli essere umani pongono una così forte attenzione a certe categorie di resti umani, tanto da infrangere (o illudersi di infrangere) l’orrore della morte che è, in primo luogo, orrore della dissoluzione del corpo? Perché in alcuni contesti i processi antropo-poietici – gli interventi culturali sui corpi – sembrano spingersi al di là del limite invalicabile della morte? Prima di tentare di dare una risposta sarà bene dare uno sguardo, per quanto fugace, allo sfondo storico del culto cristiano delle reliquie, in modo da contestualizzare spunti di riflessione utili a dipanare la questione. 3.3. Origine e sviluppi del culto17 L’ermeneutica cristiana non ha rintracciato nelle Sacre Scritture testi che fondino in maniera convincente il culto delle reliquie18: esso scaturisce piuttosto dalla tradizione apostolica e dall’insegnamento orale. I primi cristiani ebbero nei confronti dei morti un’attenzione che, per molti versi, non doveva essere molto dissi17 Oltre che delle opere citate nel testo, per ricostruire lo sfondo storico del culto delle reliquie mi sono valso dei seguenti lavori: MacCulloch 1918; Séjourné 1937; Leclercq 1948; Josi et al. 1953; Strong 1983; Bentley 1985; Jounel 1990; Monaci 1993; Vauchez 1993. L’ampiezza geografica e la profondità storica del culto non permettono ovviamente una sintesi esaustiva che, d’altra parte, non rientra negli obiettivi di questo testo. 18 Un’analisi puntuale dei passi del Vecchio e Nuovo Testamento che possono avere una qualche relazione con il culto delle reliquie è svolta da P. Séjourné (1937, coll. 2314-2318).

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mile da quella dei Romani e degli ebrei. Seguendo l’esempio della sepoltura di Cristo, essi preferirono l’inumazione alla cremazione, ma la cura delle tombe continuava a manifestarsi attraverso la deposizione di fiori, l’aspersione con oli profumati, il consumo collettivo di pasti nei pressi del sepolcro (un’abitudine ben presto condannata come pagana). Le tombe erano luoghi «eleganti e privati», secondo l’espressione di Peter Brown, ovvero oggetto di un culto a carattere prevalentemente familiare. L’inasprirsi delle persecuzioni e l’emergere della figura del martire quale eroe della fede trasformarono questa antica pietas per i morti in qualcosa di radicalmente nuovo. Il culto delle reliquie nacque in relazione a corpi torturati, sfigurati dai morsi delle fiere, bruciati, corpi martirizzati di cui gli adepti della nuova religione raccoglievano e custodivano i resti. Ossa bruciacchiate, brandelli di carne, vesti stracciate, capelli, denti, gocce di sangue che avevano intriso il terreno venivano recuperati con attenzione, quasi a sfidare la violenza dei persecutori. Ci troviamo qui di fronte a una cura particolarmente meticolosa per i resti, un’accentuazione di quell’attenzione per i corpi morti che, come è emerso fin dai primi capitoli, contraddistingue in maniera pressoché universale le società umane. Il Martyrium Ignatii e il Martyrium Polycarpi, considerate le due testimonianze più antiche del culto delle reliquie, ne forniscono una rappresentazione eloquente: «Solo le parti più dure dei suoi resti santi erano sfuggite [ai denti delle fiere]: esse furono prelevate, portate ad Antiochia e deposte in una cassa come un tesoro dal valore inestimabile»19. Nel racconto del martirio di Policarpo (avvenuto verso la metà del II secolo) si narra che «il centurione fece collocare il corpo in mezzo alla piazza e, secondo la loro consuetudine, lo fece bruciare. Noi, in seguito, recuperando le ossa più preziose delle gemme e più pure dell’oro le deponemmo in un luogo conveniente»20. È interessante notare come, fin da questi primi esempi, emerga il tema della considerazione estetica dei resti, paragonati a preziosi gioielli: nel Medioevo essi saranno incastonati in reliquari come pietre preziose. 19 20

Martyrium Ignatii, ivi, col. 2319. Martyrium Polycarpi, ivi, col. 2320 – corsivo mio.

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Nei primi secoli del cristianesimo, questa attenzione ai resti dei martiri coincise con una particolare considerazione per le loro tombe. Esse, da luoghi privati che erano, divennero luoghi pubblici di culto, attorno a cui le prime comunità trovarono un punto di ancoraggio e di solidificazione della propria identità: come già si era visto in precedenza in relazione a diversi esempi etnografici, in molte società i luoghi dei morti coagulano attorno a sé le comunità dei vivi21. In questo caso, la venerazione per le tombe si unì ad alcune consuetudini liturgiche che caratterizzeranno tutta la storia del cristianesimo: prima di tutto, il sepolcro divenne il luogo in cui si celebrava l’anniversario della morte del santo, il suo dies natalis, per utilizzare i termini della nascente teologia del martirio. Attraverso le atroci sofferenze che lo avevano condotto alla morte (il racconto della passio veniva letto in occasione dell’anniversario), il santo aveva riprodotto il modello esemplare della passione di Cristo. Egli, allo stesso modo del Dio incarnato per la salvezza dell’essere umano, aveva vinto la morte attraverso i patimenti del corpo: i miracoli e i prodigi che i suoi resti compivano ne erano una testimonianza diretta. La figura del martire che perde la vita ma trionfa sulla morte si ripresenterà spesso nelle epoche successive: Sofia Boesch Gajano considera il martire una «realtà storica e un modello antropologico» e parla in riferimento alla storia del cristianesimo di una «costante riattualizzazione del modello martiriale e della conseguente venerazione tributata a nuovi martiri» (1999a, 11 e 14). L’accostamento tra la figura di Cristo e quella del martire spiega una seconda consuetudine liturgica consistente nel sovrapporre l’altare su cui si celebrava l’eucarestia alla tomba del santo. Il corpo di Cristo – «materialmente» presente sull’altare nel pane e nel vino consacrati, in base alla dottrina della transustanziazione – si univa così simbolicamente al corpo del santo. Vale la pena di notare che, tuttora, gli altari delle chiese cattoliche racchiudono una reliquia in una apertura posta alla base o in un reliquario interno22. La definizione dei santi quali «membra» di Cristo si espri21

Cfr. in particolare § 2.5. Sancito dal secondo Concilio di Nicea (787 d.C.), l’obbligo di deporre una reliquia nell’altare è stato riconfermato in molte occasioni nella storia della Chiesa ed è tuttora in vigore. 22

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me simbolicamente e tangibilmente nei luoghi di culto attraverso una sovrapposizione dei loro corpi. L’attenzione per le reliquie si manifestò dunque inizialmente nell’accurata raccolta dei resti del martirio e in un culto delle tombe che rimase tuttavia piuttosto «discreto» (ben lontano dalle forme spettacolari che esso assumerà in seguito, quando i corpi «usciranno» dalle tombe e verranno traslati e smembrati) e questo sia per il timore di nuove persecuzioni, cosa che sconsigliava manifestazioni troppo eclatanti del culto, sia per un rapporto con i martiri che spesso era di familiarità e di conoscenza diretta. L’esigenza di mantenere una vicinanza fisica ai corpi santi si esprimeva nel desiderio di essere sepolti nelle loro vicinanze (ad sanctos, ad martyres, inter limina martyrum), un costume che caratterizzerà l’organizzazione cimiteriale fino all’epoca moderna. Con l’ufficializzazione del cristianesimo in tutto l’Impero e con la fine delle persecuzioni, il culto delle reliquie, tra il IV e il V secolo, vide un incredibile sviluppo. Vescovi e dottori della Chiesa (Basilio e Giovanni Crisostomo in Oriente, Agostino a Ippona, Ambrogio a Milano, Gaudenzio a Brescia, Martino e Gregorio a Tours – per limitarci ad alcuni esempi eccellenti) diffusero e incoraggiarono il culto facendo di esso uno strumento importante per il consolidamento del potere ecclesiastico. Essi stessi che, con la loro opera pastorale, propagandarono la fede per cui i martiri avevano perso la vita, divennero santi e modelli di santità: alla loro morte – e non di rado anche prima – i loro resti divennero reliquie avidamente desiderate. A mano a mano che il cristianesimo faceva breccia nelle città dell’Occidente e del Nord Europa, si rendevano necessarie reliquie per edificare chiese, costruire basiliche, erigere santuari: dall’Oriente giungevano resti dei martiri ma anche nuove categorie di reliquie, specialmente quelle legate alla passione di Cristo (frammenti della Croce e della corona di spine, i chiodi che ne forarono le mani, la lancia che trafisse il costato), alla figura della Madonna (il famoso latte della Vergine), ai profeti dell’Antico Testamento, agli apostoli. «Da locale che era, il culto tendeva a divenire universale» (Séjourné 1937, col. 2334): il culto delle reliquie e dei santi appa23

Si vedano i lavori già citati di P. Brown.

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re in effetti particolarmente vivace nei periodi di espansione del cristianesimo, come tra il IV e il V23, tra l’VIII e il IX, nell’XI secolo24, e, in seguito, tutte le volte in cui la Parola di Dio verrà divulgata in aree di nuova evangelizzazione. La disseminazione di resti dei santi accompagna in questi periodi di espansione la costruzione dello spazio cristiano. Frammenti di un’umanità esemplare percorrono in ogni loro parte i nuovi territori del cristianesimo e attorno ad essi prendono forma nuove comunità di credenti. Accogliendo i suggerimenti di antropologi quali Jean-Loup Amselle (2001) e Ulf Hannerz (2001), i quali contestano l’idea secondo cui la globalizzazione sarebbe un fenomeno proprio soltanto del mondo contemporaneo, potremmo sostenere che la diffusione di questi resti segnala l’esistenza di «aree» o «periodi» di globalizzazione cristiana. Insieme alle reliquie viaggiavano infatti saperi, pratiche, ideologie, narrazioni che creavano o consolidavano tra le varie società dell’ecumene cristiano reti di alleanze, di comunicazione e di scambio; allo stesso tempo la rivalità per il loro possesso faceva sorgere aspri conflitti. Come ha ben evidenziato Geary in un saggio apparso nel volume curato dall’antropologo americano Arjun Appadurai e volto a esaminare la vita sociale degli oggetti (1986), le reliquie possono essere considerate «merci sacre» il cui movimento nei secoli centrali del Medioevo segnala la vivacità degli scambi interculturali. Donate, trafugate e barattate più che commercializzate – essendo il commercio riservato a merci di minore prestigio –, le reliquie vanno annoverate tra i più importanti beni di scambio, utilizzate da papi, vescovi, imperatori e leader politici per tessere fitte reti di alleanze. Una sorta di grandioso scambio kula in cui, invece che collane e braccialetti di conchiglia, circolavano resti di santi, assimilati a preziosi gioielli25. Come i vaygu’a dei Trobriandesi essi difficilmente potevano essere comprati e venduti (noblesse oblige!), ma contribuivano efficacemente all’instaurarsi di rapporti di carattere politico ed economico oltre che culturale e religioso tra le varie comunità che partecipavano allo scambio. 24

Si veda Geary 1986; 2000. Il riferimento è ovviamente a Argonauts of the Western Pacific (1922), la celebre opera in cui B. Malinowski descrive lo scambio kula in alcuni contesti insulari della Melanesia. 25

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Oltre a viaggiare esse stesse durante le solenni traslazioni, le reliquie invitavano al viaggio i pellegrini che, recandosi presso i sepolcri dei santi, cercavano i conforti della fede o speravano in guarigioni miracolose. Fin dal IV secolo, la Terra Santa e Roma furono mete ambite e per tutto il Medioevo il pellegrinaggio fu una pratica molto diffusa. Lungo le strade che portavano a santuari come Santiago di Compostela in Spagna o San Michele al Gargano in Puglia, i pellegrini trovavano chiese, santuari e luoghi di culto che racchiudevano a loro volta reliquie più o meno importanti, percorrendo così in vista della meta finale vere e proprie «vie dei morti»26, cammini verso la salvezza spirituale e il benessere fisico. E anche quando, nei primi secoli dell’Europa moderna (XVI-XVII), l’attrattiva religiosa delle reliquie andò svanendo – almeno per le società che abbracciarono la Riforma –, esse rimarranno la principale attrattiva per i viaggiatori, suscitando il loro interesse e la loro curiosità. Lo storico polacco Antoni Maçzak, nel suo celebre studio su Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna (1992), mette in luce come le reliquie fossero al centro dell’attenzione dei viaggiatori cattolici come di quelli protestanti27: per questi ultimi, perduto il valore religioso, le reliquie mantenevano un interesse che egli non esita a paragonare a quello attribuito ai capolavori artistici presenti nei musei28. Una presenza così abbondante e diffusa di reliquie fu favorita, oltre che dall’«invenzione» di corpi santi, dall’uso, che ci appare oggi alquanto sconcertante, di smembrare e dividere i resti: inoltre, molte reliquie non consistevano in veri frammenti corporei bensì in oggetti che, a vario titolo, erano stati in contatto con i santi. L’uso di smembrare le salme per ottenerne reliquie da traslare ritualmente verso le basiliche e i luoghi di culto è ben testimoniato in Oriente fin dal IV secolo. Poco dopo la fondazione di Costantinopoli, l’imperatore Costanzo si procurò reliquie di san Timoteo, di san Luca e di sant’Andrea facendole prelevare ad An26 L’espressione ricalca il titolo di un celebre lavoro di R. Guidieri sulla società fataleka delle isole Salomone (1980). 27 Cfr. in particolare pp. 323-347. 28 Può essere interessante notare che al di là del pellegrinaggio religioso (che rimane una pratica piuttosto diffusa in molti paesi del Sud Europa), le reliquie rivestono oggi un certo interesse anche per il turista «laico» e non mancano guide al proposito: cfr. Rufus 1999.

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tiochia e ad Alessandria. In Occidente queste pratiche vennero rallentate dalla maggiore severità delle leggi romane in fatto di violazione dei sepolcri e di prelevamento dei corpi. Sebbene i primi vescovi (Gaudenzio, Martino, Vittricio) fossero tornati dai lunghi viaggi in Terra Santa con il loro carico di reliquie, soltanto nel corso dell’VIII secolo si assiste in Occidente a una diffusa profanazione delle tombe e delle teche al fine di moltiplicare le reliquie. La pratica divenne in seguito così consueta che i sovrani francesi, a partire dal XIII secolo, non esitarono a emulare i loro «eroi culturali», includendo nelle disposizioni testamentarie la volontà (puntualmente rispettata) che al sopraggiungere della morte il loro corpo venisse smembrato e le parti così ottenute sepolte in luoghi differenti, in modo da moltiplicare gli effetti benefici della vicinanza alle reliquie dei santi29. Costituite dall’intero corpo o dalle sue parti più importanti come la testa, un braccio, una gamba (reliquiae insignes) o da frammenti di minore dimensione come mani, piedi, denti, dita (reliquiae non insignes), le reliquie corporee – dette soma, corpus, beatorum corpora, sacra ossa e così via – costituiscono solo uno dei tipi di reliquia. Accanto ai resti venivano infatti venerati e conservati oggetti che, durante la vita del santo o al sopraggiungere della morte, avevano avuto con lui un qualche rapporto: abiti, oggetti sacri o quotidiani, strumenti del martirio, definiti reliquie per contatto. In riferimento a Cristo e alla Madonna, le reliquie per contatto supplivano alla mancanza dei corpi, assunti in cielo nella loro completa integrità. Infine, occorre ricordare le reliquie rappresentative – brandea, signa, symbola, trophea: si tratta di pezzi di stoffa posti sul sepolcro del santo (i celebri brandea) e capaci di «assorbire» le virtù che emanano dalla sua presenza; di polvere e terra raccolta nei pressi della tomba o di luoghi particolarmente significativi; dell’olio della lampada che illumina il santuario, per limitarci ad alcuni esempi. La presenza di questa ampia varietà tipologica di reliquie lascia emergere una concezione alquanto estesa del corpo, che non coincide con l’unità biologica e i suoi resti, 29 Segnalo al proposito il contributo di A. Paravicini Bagliani (1992). Sulla frammentazione del corpo in relazione al genere si veda Bynum Walker 1992; D. Hillman e C. Mazzio (1997) analizzano il tema della frammentazione e i significati culturali delle varie parti del corpo nella prima età moderna.

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ma si allarga alle relazioni che esso stesso intrattenne in vita e anche post mortem (infra, § 3.4). Concludendo questo rapido sguardo sul divenire storico del culto, si può osservare che se «al tempo del Medioevo la venerazione delle reliquie era divenuta così diffusa, popolare e intensa, che più di uno studioso l’ha definita come la vera religione del mondo medievale» (Strong 1983, 455), la sua importanza nei secoli successivi si attenuò, senza tuttavia mai svanire del tutto. La condanna di Calvino30 e dei Riformatori comportò l’abbandono del culto nelle regioni che abbracciarono la nuova fede e il Concilio di Trento, pur riconfermando l’importanza della venerazione dei santi e dei loro resti, impose alla Chiesa di Roma una maggiore cautela, soprattutto nella valutazione dell’autenticità delle reliquie. In seguito, lo spirito laico dell’Illuminismo lanciò una forte sfida al culto e nel corso della Rivoluzione francese molte reliquie vennero distrutte: ironia della sorte, i corpi di alcuni martiri della Rivoluzione diverranno a loro volta resti esemplari, esposti nelle chiese alla venerazione dei credenti. Come si è visto, l’espansione coloniale nel corso dell’Ottocento, in Africa come in Oceania, fu accompagnata dalla comparsa di nuovi martiri e dalla successiva venerazione per i loro corpi. E anche quando l’attenzione religiosa per le reliquie divenne decisamente meno importante – tale può essere considerato oggi il culto anche nei paesi cattolici del Sud Europa – emersero altre forme di interesse per questi resti esemplari: lo sviluppo dell’archeologia cristiana sul finire dell’Ottocento comportò una nuova attenzione, mentre oggi si moltiplicano le analisi di reliquie attraverso le moderne tecnologie della ricerca scientifica che, oltre a fornire nuovi indizi sulla loro autenticità, si propongono di ridare un volto e di ricostruire la «presenza» fisica dei santi anche attraverso rappresentazioni multimediali. Nell’ottobre del 2001, una commissione interdisciplinare formata da anatomopatologi, chimici, genetisti, archeologi e paleografi ha esaminato lo scheletro che, secondo la tradizione, apparterrebbe a san Luca e che è conservato nella basilica di Santa Giustina a Padova. Secondo la testimonianza di san Girolamo, la reli30 J. Calvin, Advertissement très-utile du grand profit qui reviendroit à la chrétienté s’il se faisoit inventaire de tous les corps saints et reliques qui sont tant en Italie qu’en France, Allemagne, Espagne et autres royaumes et pays, Ginevra 1543.

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quia del santo sarebbe stata trasportata da Antiochia a Costantinopoli dall’imperatore Costanzo nel IV secolo: all’epoca delle Crociate essa sarebbe poi stata trafugata e di essa si sarebbero appropriati i benedettini di Padova. Le analisi del Dna hanno stabilito che quelle ossa appartengono presumibilmente a un uomo vissuto nell’area dell’attuale Siria, alto un metro e 63 centimetri, di corporatura robusta, sofferente di enfisema polmonare, morto fra i settanta e gli ottantacinque anni in un periodo compreso tra il 130 e il 400 d.C. Il profilo così tracciato corrisponde alle notizie storiche sulla figura dell’evangelista. Un frammento del suo corpo è stato richiesto di recente dall’arcivescovo ortodosso di Tebe, città in cui si troverebbe la tomba vuota del santo. Per quanto possa apparirci marginale, l’interesse per le reliquie non pare sia venuto meno31. 3.4. L’incompletezza dello spirito e la finzione del corpo Storici come Peter Brown e Patrick Geary hanno mostrato con le loro analisi che il culto delle reliquie non può essere interpretato semplicemente come l’infiltrazione di credenze «popolari», «folcloriche» e in definitiva «irrazionali» in una concezione monoteistica e astratta della divinità e dello spirito elaborata nel contesto del cristianesimo delle origini. Non si può cioè opporre una supposta pensée sauvage delle masse cristiane al pensiero teologico dei Padri della Chiesa e dei filosofi della Scolastica; d’altra parte, in epoche molto lontane tra loro, autori quali sant’Agostino e san Tommaso si proclamarono favorevoli alla venerazione dei santi attraverso i loro resti. Il culto delle reliquie, pur mancando di una centralità dottrinaria nel pensiero cristiano, si impose come una 31 La notizia sulla ricognizione dello scheletro di san Luca è tratta dall’articolo Quelle ossa sono di S. Luca, pubblicato sul quotidiano «La Stampa» il 23 ottobre 2001. In Italia l’antropologo fisico F. Mallegni si è specializzato nell’analisi di «cadaveri eccellenti» tra cui quelli di sant’Antonio da Padova, Giotto, Federico II, il Conte Ugolino. 32 Nel suo libro Les reliques des saints: formation coutumière d’un droit (1975), N. Herrmann-Mascard analizza la storia istituzionale delle reliquie. L’autrice propende per un’origine popolare del culto e mostra come la Chiesa abbia progressivamente recepito un ordine normativo concernente le reliquie formatosi su base consuetudinaria.

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diffusa esigenza di attenzione ai resti dei martiri e dei santi e la Chiesa lo accolse progressivamente e non senza esitazioni nel suo ordinamento normativo32. Si tratterebbe di una «mentalità», per usare un concetto storiografico (mutuato per altro da Lucien LévyBruhl), o di una «cultura», in termini antropologici, che pone particolare enfasi su alcune categorie di resti umani la cui importanza travalica i confini della sfera religiosa per addentrarsi nei meandri della politica, dell’economia, della socialità. Nel culto delle reliquie, suggeriscono Brown e Geary, si può leggere una riflessione sul significato della morte, sul rapporto tra i vivi, i morti e la divinità, sulle connessioni tra questo mondo e l’aldilà così come è possibile far emergere importanti aspetti della vita sociale dell’epoca. Ci troviamo davanti a una metafisica dei resti e contemporaneamente a pratiche e rituali che ci consentono di capire maggiormente la società (le società) dell’Antichità e del Medioevo. A mio modo di vedere, l’analisi storica delle reliquie fornisce all’antropologo che si occupa di temi concernenti la morte ulteriori spunti di riflessione. Partiamo da alcune considerazioni che Peter Brown dedica al pensiero di sant’Agostino (1983, 101 e segg.). Formatosi nella corrente immaterialista del neoplatonismo, sant’Agostino, nell’ultimo libro del De civitate Dei, mostra un interesse sorprendente per il corpo umano. «Fu questo proiettarsi della potenza divina nel presente per ricostituire il corpo umano al momento della resurrezione a colpire Agostino quando in vecchiaia scrisse e predicò a proposito delle tombe dei santi» (ivi, 109). I miracoli che Dio compiva presso i sepolcri gli apparivano ora ben altro che «sciocchezze» correnti tra la «gente comune»: essi mostravano piuttosto il potere di Dio e la sua costante preoccupazione per il corpo; questo potere – crede ora Agostino – si manifesta nella maniera più appropriata nei luoghi dove adesso giacciono quei morti che sono stati preparati a perdere la propria compagine corporea nella fede della straordinaria misericordia che l’avrebbe fatta risorgere (ibid.).

Questi miracoli, che un tempo aveva guardato con sospetto, assumevano ora un rinnovato interesse alla luce di una considerazione più attenta della corporeità. Un aspetto che sembra unificare il culto delle reliquie pur nel94

la vasta eterogeneità storica ed etnografica delle sue manifestazioni è proprio la questione della corporeità. Che si tratti di corpi incorrotti nella loro interezza (di cui la tradizione è ricca di esempi), di resti stabilizzati dei processi di putrefazione (crani, ossa, denti ecc.) o ancora di oggetti che in qualche modo furono in contatto con i corpi santi (abiti, oggetti del martirio), le reliquie costituiscono un argine, un punto di arresto ai processi di disgregazione e trasformazione dei corpi. Attorno a questi resti prende forma quella che potremmo definire una «finzione» di corporeità. Anche quando non vi è altro che un piccolo frammento del suo corpo, il santo è ritenuto infatti interamente «presente» in esso. «Un osso, un dente, un capello, un capo di vestiario o addirittura una semplice orma possono racchiudere in sé il potere e la santità della persona con la quale furono associati, rendendola, in questo modo, nuovamente presente» (Strong 1983, 452). La praesentia si manifesta nei miracoli che Dio compie attraverso il corpo del santo ma anche negli atti performativi dei credenti che si comportano nei confronti dei resti come se fossero davanti a un corpo vivente. Le reliquie, come è emerso nei paragrafi precedenti, venivano rivestite, decorate, manipolate, baciate, esposte, portate in processione e in viaggio, spalmate di unguenti, asperse di profumi. Ci si inchinava davanti ad esse e su di esse si pronunciavano giuramenti come se ci si trovasse davanti alla persona del santo. Come ha scritto di recente Philippe Boutry in un testo che pone a confronto reliquie d’Oceania e reliquie cristiane, «il culto delle reliquie ha a che fare con una teologia dell’incarnazione, un’antropologia del corpo, un’‘ecclesiologia’ della visibilità» (1999, 83). Se, di norma, i corpi morti cadono nell’oblio e si dissolvono, le reliquie arrestano i processi di decomposizione (biologica e culturale) e costituiscono un supporto materiale al ricordo della per33 Il culto napoletano delle «anime purganti» descritto da S. De Matteis e M. Niola (1997) si fonda sulla venerazione di resti anonimi (crani in particolare). Questi resti, segni tangibili di anime che vagano tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, esortano i viventi a pregare per loro e possono essere reinvestiti di un’identità, o quanto meno di una storia. Il culto delle «anime purganti» è particolarmente interessante per la manipolazione dei resti che comporta. Proprio l’anonimato di queste particolari reliquie ha comportato la condanna da parte delle autorità ecclesiastiche.

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sona tuttora «presente» in esse33. Mentre le varie società, dopo aver compiuto i riti del commiato, prendono decisamente le distanze nei confronti dei cadaveri, in questo caso essi permangono al centro della scena sociale. E non si tratta soltanto di sostenere il ricordo e di testimoniare una presenza. Ponendosi come argine alla dissoluzione e all’oblio, la reliquia prefigura allo stesso tempo il destino ultimo del corpo umano ovvero la sua resurrezione. Il tema della resurrezione dei corpi – centrale nel pensiero cristiano – presenta molti punti di interesse per una riflessione antropologica sul corpo34. Se, come è emerso nei capitoli precedenti, la putrefazione è un processo anti-poietico per eccellenza in quanto pone fine agli interventi culturali di costruzione del corpo rigettandolo in una dimensione puramente biologica, la resurrezione è un processo di ordine inverso. Essa rimanda a una futura (ri)costruzione del corpo, a un nuovo processo poietico che trasformerà nuovamente i resti in forme umane. «Questi pallidi volti in decomposizione, ora soffusi di una tinta biancastra, allora si copriranno di pelle leggiadra, colorita d’un sangue più bello di ogni fiore» scriveva Prudenzio (IV secolo) nel suo carme funerario35. Le qualità intrinseche delle reliquie, le loro capacità di «agire» compiendo miracoli, il profumo che esse emanano, il sangue e gli umori corporei che spesso ne scaturiscono fanno presagire il destino del corpo santo che la resurrezione ricostruirà nella sua integrità. A imitazione di Cristo (il Dio fatto carne) che andò incontro alla morte ma, significativamente, non alla putrefazione dal momento che il suo corpo fu assunto integro in cielo, il santo ha acquisito attraverso il martirio i meriti che porteranno alla sua futura resurrezione. La riflessione teologica fonda la legittimità del culto delle reliquie sulla sacralità del corpo di Cristo proprio in funzione del messaggio spirituale di salvezza: incarnazione, eucarestia, morte, resurrezione, esempio e garanzia della resurrezione dei corpi nel giorno del giudizio (Boesch Gajano 1999a, 21).

Se la resurrezione finale sarà opera di Dio, i credenti metto34 35

Cfr. l’ottimo saggio storico Bynum Walker 1995. Citato in Brown 1983, 109.

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no in scena fin dalla morte del santo una chiara finzione di corporeità: colpisce, a questo proposito, la relazione «sensoriale» che i credenti intrattengono con questi resti eccellenti. Essi, oggetto di una promiscuità con i viventi che ci appare oggi piuttosto sconcertante, sono manipolati, toccati, baciati; per essi si suonano strumenti musicali, si diffonde incenso profumato. Le reliquie stesse emanano odori, umori, suoni, come se fossero corpi vivi. Esse divengono il ricettacolo di investimenti estetici, dal momento che sono decorate, dipinte, incastonate nei reliquari insieme a pietre preziose. Le narrazioni che le circondano mantengono viva la storia del santo e, allo stesso tempo, quella dei suoi resti: la storia di questi corpi sottratti all’oblio non cessa al momento della morte ma continua (si pensi al genere dei furta sacra da cui prende spunto Geary) fino a quando la devozione dei fedeli non viene meno. La reliquia esprime dunque nell’escatologia cristiana la vittoria dell’essere umano sulla morte, una vittoria che il martire e il santo ottengono fin da subito, restituendo la loro anima a Dio e intercedendo in favore dei viventi, e che tuttavia troverà il suo pieno compimento nel momento in cui essi si riapproprieranno del corpo. Il completo trionfo sulla morte che si esprime nella dottrina della resurrezione non può che includere un viaggio a ritroso nel processo di decomposizione, una negazione costruttiva dei processi anti-poietici della putrefazione. Il corpo a cui qui si fa riferimento non coincide evidentemente con un’unità puramente biologica. Il corpo è in questo contesto prima che un’unità materiale l’espressione di una capacità di relazione, di incorporazione di rapporti sociali36. È un corpo esteso ben al di là dei confini biologici in cui lo racchiuderà il pensiero scientifico moderno: l’esistenza delle reliquie per contatto – oggetti con cui il santo, vivo o morto, ebbe una qualche relazione – lo testimonia pienamente. Le reliquie, è bene ricordarlo, vengono designate da termini quali soma, corpus, beatorum corpora che sembrano operare a livello simbolico una trasformazione dei resti in corpi e sottolineano senza ombra di dubbio l’importanza centrale della corporeità; esse sono anche dette pignora, «garanzie» della presenza 36

Sul concetto di «incorporazione» si veda Csordas 1990; 1994.

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del santo, della sua opera di intercessione e della resurrezione futura; i brandea, pezzi di stoffa calati nella tomba o posti a contatto con le reliquie, «assorbono» la sacralità dei corpi a testimonianza delle capacità di questi ultimi di continuare a relazionarsi con i viventi. In un numero monografico della rivista «Terrain» intitolato Le corps en morceaux, Jean-Pierre Albert riflette sulle mortificazioni più o meno volontarie a cui santi e soprattutto sante della tradizione cristiana medievale sottoposero il proprio corpo (1992). Sul modello della passione di Cristo, esse attraverso violenze, torture, digiuni e rinunce di ogni sorta utilizzarono la sofferenza come strumento di redenzione del mondo e di espiazione dei peccati. Spesso, già in vita, i loro corpi mostravano segni di disgregazione (non di rado di vera e propria putrefazione) e le agiografie si soffermano con cura su questi macabri particolari, in una sorta di «anatomia della sofferenza» che avrà il suo apice nella venerazione del cuore sanguinante di Gesù Cristo. La biografia di molte sante sembra esaltare proprio l’idea della progressiva degenerazione del corpo quale strumento privilegiato di salvezza dell’anima. Eppure, osserva Albert, molti di questi corpi sfigurati trovano al momento della morte una rinnovata integrità. Essi «profumano» di santità, appaiono rosei come non lo erano mai stati, addirittura vedono ricrescere i loro organi interni, come narrano le agiografie di santa Rita, santa Francesca Romana, santa Lidvina. Paradossalmente, che si tratti di corpi fatti a pezzi al momento della morte per essere sepolti presso le tombe e le reliquie di diversi santi – come avveniva nel XIII secolo per i cadaveri di sovrani e vescovi francesi – o di corpi disgregati dalle sofferenze già in vita, queste pratiche non rimandano a un atteggiamento nichilista nei confronti del corpo stesso ma alla fede nella sua ri-costituzione finale. Soltanto allora [al momento della morte] risplendono i prestigi della carne: una parure floreale, la morbidezza e la filigrana di una carnagione delicata, un dolce calore conservato a lungo, la bellezza conturbante di un viso addormentato […]. Tali sono le metamorfosi del corpo dei santi. Fatto a pezzi in vita per partorire un’anima, esso non esiste che nel puzzle dei supplizi e delle mortificazioni […]. Ma l’ora della morte, in cui esso ritrova una gloriosa integrità, non è altro che il

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punto di incrocio dei due assi opposti del suo destino: votato in primo luogo a una disgregazione incompiuta, esso accede nel campo delle reliquie a una rinnovata integrità in ciascuna delle sue parti. Perché le reliquie, per quanto siano minuscole, sono chiamate corpi santi (Albert 1992, 45 – corsivo dell’autore).

La mortificazione del corpo e i processi di corruzione di cui esso è oggetto37, sostiene Albert, non prefigurano la sua completa dissoluzione ma sono lo strumento privilegiato attraverso cui esso potrà in futuro ritrovare la sua integrità. La storia di questi corpi santi è in contrasto con una visione dualistica dell’essere umano, destinato a perdere il proprio corpo e a trasformarsi nell’aldilà in un’essenza incorporea. Le reliquie cristiane, così come la dottrina della resurrezione dei corpi, sono invece l’espressione di una esigenza di corporeità che travalica l’esperienza drammatica della sofferenza, della malattia, della morte, della dissoluzione. In altri termini, si potrebbe sostenere che il culto delle reliquie è il prodotto dell’insoddisfazione per una definizione puramente spirituale della natura umana. Nonostante l’insistenza della tradizione platonico-cristiana sulla centralità dell’anima, il corpo – inteso, è bene ripeterlo, non solo come entità biologica ma in primo luogo come possibilità di relazione – trova nel culto delle reliquie una rivincita importante. La «finzione» del corpo rimedia l’incompletezza dello spirito38. Tutte le finzioni devono tuttavia affrontare il rischio di essere smascherate: prima o poi il loro carattere illusorio, arbitrario, fittizio può venire svelato. Ben prima della critica di Calvino e dei Riformatori e del successivo attacco degli illuministi che denunciarono il culto come una forma di credulità popolare alimentata dalla Chiesa, le reliquie furono oggetto di un serrato dibattito tra sostenitori e detrattori del culto. Già nel IV secolo scrittori cristiani come Eusebio e Vigilanzio espressero i loro dubbi, temen37 In riferimento allo schema del § 2.2 concernente il controllo culturale della putrefazione, si potrebbe introdurre un’ulteriore categoria: i supplizi con cui molti santi e asceti affliggono il proprio corpo in vita si configurano come una sorta di «anticipazione» della decomposizione. 38 Un rigido dualismo appare estraneo a molta parte del cristianesimo. Cfr. al proposito Schmitt 1998.

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do che l’attenzione per i resti dei martiri evolvesse in una vera e propria forma di «idolatria». Nel corso del Medioevo, vescovi come Claudio di Torino e Agobardo di Lione dichiararono la loro contrarietà al culto delle reliquie e alla centralità che esso aveva assunto nella pratica cristiana. Da un punto di vista laico, non si può non ricordare la pungente dissacrazione del culto fornita da Boccaccio nella novella del Decameron in cui Frate Cipolla promette «a certi contadini di mostrare loro la penna dello agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono San Lorenzo»39. Certo, lo scetticismo degli scrittori cristiani è spesso dovuto a questioni teologiche che mettono in guardia contro lo scivolamento dalla «venerazione» dovuta ai corpi dei santi all’«adorazione», che va riservata solo a Dio; oppure alla questione dell’autenticità dei resti, la cui relazione con la persona del santo era spesso tutt’altro che dimostrata. Tuttavia un interrogativo permane: si può escludere che fin dalle origini, accanto alla fede e alle credenze nelle virtù dei corpi santi, coesistessero dubbi e perplessità sulla finzione di corporeità di cui abbiamo parlato e sulla dottrina della resurrezione dei corpi da cui essa era sostenuta? Gli storici e gli antropologi trascurano spesso di indagare il fatto che scetticismo e perplessità verso le rappresentazioni religiose sono propri anche di altre società e di altre epoche oltre a quella moderna. Eppure, rappresentazioni religiose come le icone, le reliquie e i miti presentano un intrinseco carattere «ambivalente» in quanto non sono identiche a ciò che rappresentano, non coagulano un consenso universale sul messaggio che veicolano, in altre parole – come sostiene l’antropologo britannico Jack Goody (2000, 28) – si fondano in ultima analisi su «contraddizioni cognitive». In quest’ottica, le reliquie offrono allo studioso un interessante campo di indagine. In quanto rappresentazioni metonimiche di un corpo che non è più (o non è ancora) esse sono per eccellenza delle «rappresentazioni ambivalenti» perché oscillano tra la presenza e l’assenza, tra la corporeità e la spiritualità, tra l’impurità normalmente associata ai cadaveri e la purezza del ri39 Giovanni Boccaccio, Decameron, Garzanti, Milano 1974, pp. 556-573. Un analogo smascheramento del culto è operato da Chaucer nei Canterbury Tales.

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cordo. In quanto oggetti di soglia che si collocano tra la vita e la morte, tra il qui e l’aldilà, tra l’umanità e il mondo organico, le reliquie hanno suscitato in epoche e società diverse orrore o, all’opposto, un fascino irresistibile. I dubbi, le prese di distanza, gli atteggiamenti ambivalenti nei loro confronti, l’esistenza di significative «assenze» di reliquie in molte società, segnalano «le contraddizioni cognitive tra l’evidente mortalità del corpo e l’idea dell’immortalità dell’anima. È il paradosso dei resti mortali e della nostalgia di immortalità» (ivi, 97). Nel prossimo capitolo, accogliendo l’osservazione di Goody, secondo cui «la relativa assenza [di reliquie] in Africa è in forte contrasto con le pratiche dei cacciatori di teste, con l’esibizione di crani e con l’uso delle ossa in molte società oceaniane» (ivi, 96), lasceremo riposare in pace le spoglie dei santi per metterci sulle tracce di altri resti umani eccellenti, tra l’Indonesia e le isole del Sud Pacifico.

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Capitolo quarto

Reliquie d’Oceania

Bob ci condusse al luogo ove, vedendosi circondato dai nativi, aveva sparato contro il primo uomo che gli si era fatto incontro […]. Giovane ancora ora egli giace ove i suoi lo abbandonarono […]. Se i suoi amici non tornano a recuperarlo ei servirà di pasto ai vermi e ad altri animali; se torneranno, mostrerà ad essi che cosa sono i nostri fucili, e forse impareranno a non desiderare la testa degli altri. Essi potranno forse un giorno avere la mia, ma intanto io conservo la testa di costui nello spirito, che Bob, memore forse dei suoi giorni giovanili, non esitò a staccare dal busto. Luigi Maria D’Albertis, Alla Nuova Guinea. Ciò che ho veduto e ciò che ho fatto

4.1. Estetica dei resti Tra la fine del 1999 e i primi giorni del 2000, il Musée d’Art d’Afrique et d’Océanie di Parigi ospitò un’interessante mostra dedicata alle «Reliquie d’Europa e d’Oceania»1: l’esposizione ebbe un ottimo successo di pubblico e di critica tanto che, nell’ultimo numero del millennio, il quotidiano francese «Le Monde» la inserì tra gli eventi culturali più significativi dell’anno2. In quell’occasione, reliquie cristiane provenienti da alcuni paesi europei (Francia, Germania e Svizzera) condivisero uno spazio espositivo «contaminato» insieme ai resti umani provenienti da popolazioni dell’Indonesia e dell’Oceania e conservati in musei etnografici e collezioni private. Nella breve durata di una visita, lo spettatore po1 «La mort n’en saura rien». Reliques d’Europe et d’Océanie (Parigi, 12 ottobre 1999-24 gennaio 2000). Cfr. Le Fur 1999a. 2 Cfr. P. Dagen, E. de Roux, La mondialisation abolit les frontières de l’art, in «Le Monde», 31 dicembre-1° gennaio, p. 17.

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teva osservare gli scheletri di santi cristiani come Prospero e Pancrazio rivestiti di preziosi tessuti tempestati di diamanti, di lamine d’oro e d’argento; i crani di santa Sabina e sant’Orsola incastonati in plastiche forme metalliche che ne riproducono le sembianze; a poca distanza, volti rimodellati sul cranio con argilla, cera, resina e altre paste vegetali, crani dipinti, decorati e incisi o incastonati nel morbido legno delle felci arboree, reliquari, ostensori in legno dipinto e altre spettacolari reliquie provenienti dai Mari del Sud. Questo accostamento a prima vista provocatorio e dissacrante mostrava al visitatore che quella carica di «esotismo» e «primitivismo» che i resti umani conservati nei musei etnografici (e in particolare i crani) portano con sé a ben vedere non è estranea a importanti oggetti della tradizione cristiana. La cura e l’ostentazione di resti del corpo umano non sono proprie soltanto di società a lungo deformate dalle lenti etnocentriche occidentali che hanno ricondotto questo interesse esclusivamente a pratiche macabre come la caccia alle teste o il cannibalismo funebre, ma sono parte integrante della nostra stessa tradizione culturale e religiosa. Per quanto lontane, differenti e a lungo incomunicanti, molte società dell’Europa e dell’Oceania hanno condiviso un’attenzione peculiare a ciò che rimane del corpo alla morte: per una parte almeno della loro storia, esse hanno preservato dall’oblio e dell’anonimia alcune categorie di resti, ponendoli al centro di importanti attività cultuali e religiose. A differenza di una precedente mostra intitolata Le crâne, objet de culte, objet d’art, tenutasi a Marsiglia agli inizi degli anni Settanta, l’esposizione di Parigi evitava ogni allusione evoluzionistica. «È difficile non rimanere stupefatti davanti a questa identità di comportamenti di uomini certo ‘primitivi’ ma che vivevano agli antipodi a molte migliaia o decine di migliaia di anni di distanza»: così Henri Gastaut, nel catalogo della mostra di Marsiglia, aveva evidenziato la somiglianza fra le attenzioni riservate ai crani da parte dei «primitivi», intesi in senso paleoantropologico e preistorico, e da parte dei «primitivi», nel senso etnologico del termine, dell’Oceania (Gastaut 1972, 6). A Parigi, l’intromissione delle reliquie cristiane ebbe al contrario l’effetto di frantumare la categoria del «primitivo», facendo piuttosto emergere uno sfondo problematico comune a varie società, la necessità ineludibile di riflettere sul destino dei corpi, di venire a patti con i processi di103

sgregativi, di conservare o dimenticare i morti. Se a Marsiglia l’attenzione per i resti aveva accomunato gli uomini primitivi della preistoria agli uomini delle società esotiche dell’Oceania, contrapponendoli entrambi ai «moderni», a Parigi la categoria degli Altri sfumava in quella del Noi. Come gli abitanti dell’Oceania nel loro recente passato (XVII-XX secolo) hanno posto grande attenzione ai resti, così in un’epoca più o meno lontana le popolazioni europee hanno venerato le reliquie, e lo fanno tuttora in certe aree del continente. Ciò che avevano in comune questi oggetti raccolti nel ristretto spazio di una mostra era il loro riferimento a questioni esistenziali di ampio carattere antropologico e storico concernenti la morte e il destino degli esseri umani: questioni che rappresentano uno sfondo problematico comune anche se ad esse si danno risposte differenti, inevitabilmente locali e particolari. Vengono in mente al proposito le parole di Clifford Geertz: «I problemi, essendo esistenziali, sono universali; le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse» (1987, 342). Poste davanti alla morte e ai processi trasformativi che essa comporta, molte società dell’Europa, dell’Indonesia e dell’Oceania hanno mostrato una particolare cura per alcuni resti del corpo (soprattutto i crani) appartenuti a specifiche categorie di esseri umani (santi, stranieri, antenati, nemici). Questi resti, in primo luogo, sono divenuti oggetto di attenzioni estetiche particolarmente rilevanti. Come già era emerso nel capitolo precedente, le reliquie dei santi venivano rivestite, ornate, incastonate in preziosi reliquari dalle forme più varie e la mostra di Parigi esponeva numerose tipologie artistiche nate attorno alle «ossa senza pace» dei santi. Tali erano per esempio i volti-reliquario, forme argentee e dorate, finemente cesellate, che racchiudono al proprio interno il cranio del santo3; e tali erano i busti-reliquario o le statue-reliquario in legno o in metallo che ricostruiscono, in maniera realistica o con sembianze altamente stereotipate, la figura corporea del santo le cui ossa riposano all’interno4. E che dire della cura con cui molteplici frammenti appartenuti al corpo di vaste schiere di santi sono incastonati insieme a filigrane dorate e stoffe pre3 4

Cfr. Le Fur 1999a, 173-179. Ivi, pp. 180-181.

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ziose in lipsanoteche e stauroteche5 diffuse nelle chiese di mezza Europa? Per non parlare dei crani rinvenuti in alcuni cimiteri della Baviera e appartenuti non a santi ma a gente comune, i cui discendenti provvedevano a dissotterrare i resti e a dipingere le ossa con decorazioni floreali e, non di rado, a trascrivere su di essi parole di commossa pietà6. La storia delle reliquie cristiane ha, come si è visto, importanti implicazioni sociali, economiche e culturali ma è, al contempo, storia dell’arte, un’arte dei resti umani. Tra le società austronesiane7 dell’Indonesia e dell’Oceania l’attenzione estetica per i resti si dirigeva soprattutto verso i crani8. Essi, una volta ridotti alla loro struttura ossea, potevano venire dipinti, come testimoniano le reliquie raccolte tra i Marind-anim dell’Irian Jaya9, i quali dopo aver ricoperto il cranio di ocra – una «rivitalizzazione simbolica del defunto attraverso un colore generalmente associato al sangue» (Le Fur 1999a, 120) – tracciavano bande orizzontali di colore nero e giallo, riproducendo le pitture corporali praticate in vita sui corpi. Nella Nuova Irlanda, una grande isola al largo della Nuova Guinea, i crani di alcuni operatori rituali (maghi della pioggia?) venivano dipinti con strisce ver5 Il termine «lipsanoteca» indica un reliquario che contiene frammenti di molti santi. Queste reliquie sono accompagnate da piccole strisce di carta, dette cedolae, su cui sono riportati i nomi dei santi o delle sante a cui sono appartenute. Le stauroteche, oltre ai resti dei santi, contengono frammenti di legno appartenuti secondo la tradizione alla croce su cui fu crocifisso Gesù. Cfr. Le Fur 1999a, 208-211. 6 Sull’uso di esumare, dipingere e scrivere sui crani ci sono testimonianze relative a molte parti d’Europa, dalla Bretagna ai monasteri del Monte Athos in Grecia (cfr. Le Fur 1999a, 124-127). Un interessante studio su forme recenti del culto dei crani nell’Italia meridionale è fornito da I. Pardo (1983; 1989). 7 Il termine «austronesiano» è di origine linguistica e indica un’amplissima famiglia di lingue che si estende dal Sudest asiatico, all’Indonesia, all’Oceania fino alle coste del Madagascar. Le popolazioni di lingua austronesiana (oggi circa 270 milioni di individui) iniziarono la loro espansione dal Sudest asiatico circa 6.000 anni fa e si diffusero in un’area di straordinaria espansione. Gran parte delle popolazioni dell’Indonesia e dell’Oceania parlano oggi lingue di derivazione austronesiana. 8 In questo paragrafo presento una rassegna tipologica di reliquie indonesiane e oceaniane che non ha la pretesa di essere completa. Il lettore troverà materiali sull’argomento soprattutto nelle pubblicazioni dedicate all’arte oceaniana. Cfr. Meyer 1995. 9 L’Irian Jaya fa parte dell’Indonesia e occupa la parte occidentale della Nuova Guinea.

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ticali di colore bianco, rosso e blu. Nella vicina isola di Manus ad alcuni crani di antenati venivano ricostruiti il naso e le orbite con una pasta vegetale, mentre gusci di conchiglia riproducevano le forme degli occhi: il «volto» così ottenuto veniva poi colorato di rosso e nero. Secondo le fonti etnografiche questi crani venivano conservati nelle «case degli uomini»10 e la loro ostentazione svolgeva nel rito un ruolo propiziatorio (Fortune 1931-1932; Ohnemus 1996). I crani incisi, più rari di quelli dipinti, si ritrovavano tra i Dayak del Borneo: nell’esemplare esposto nella mostra di Parigi e risalente alla prima metà del XX secolo, i lineamenti del volto sono ricostruiti mediante una lega in piombo, e un’incisione di arabeschi tipica dell’arte indonesiana percorre la fronte e la parte superiore della volta cranica. Gli Angoram della valle del Sepik (Papua Nuova Guinea) appendevano i crani di alcuni antenati nelle case cerimoniali dopo averli colorati con l’ocra e aver inciso il cranio con motivi curvilinei riconducibili a stili propri di particolari clan. Anche in questo caso si avverte uno sforzo di ricostruzione del volto, dal momento che le orbite e il naso venivano riempiti di midollo vegetale, mentre la mascella era fissata al cranio mediante una legatura di vimini11. Le molteplici forme di ornamento del cranio costituiscono un’ulteriore modalità di intervento estetico sui resti. In Oceania i materiali utilizzati erano alquanto variegati e comprendevano conchiglie, denti e zanne di maiale, piume, grani vegetali, stoffe di corteccia, corde e oggetti di importazione (stoffe, perle ecc.). La forma più celebre di ornamento del cranio è quella praticata dagli Asmat dell’Irian Jaya12. Gli Asmat distinguevano i crani dei nemici (ndaokus) da quelli degli antenati (ndambirkus). I primi, a cui veniva staccata la mascella (indossata poi come ornamento dalle donne), non ricevevano particolari attenzioni estetiche ma svolgevano un ruolo importante nel corso dei riti di iniziazione maschile (Smidt 1993). I crani degli antenati venivano invece trattati con molta cura: la mascella veniva fissata con una corda alla ca10 La «casa degli uomini» è un’istituzione rituale tipica di molte società della Melanesia. 11 Cfr. Le Fur 1999a, 128-129. 12 Ivi, pp. 142-146.

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vità nasale, riempita con una mescola di cera in cui venivano incastonati grani vegetali di colore rosso e grigio. Un «piercing» nasale di madreperla, di ossa animali o umane era riservato ai morti che già avevano subito l’iniziazione. Un’acconciatura di piume di pappagallo e casuario, di becchi d’uccello, di conchiglie (a seconda della rilevanza del personaggio) completava l’ornamento di queste reliquie che erano conservate nelle abitazioni e, non di rado, utilizzate come poggia-testa dagli uomini. Gli interventi estetici sui resti risultano particolarmente interessanti nelle varie forme di rimodellamento del cranio, una pratica diffusa in Papua Nuova Guinea (bacino del Sepik e golfo di Papuasia), Nuova Irlanda, Nuova Bretagna, isole Salomone e isole Vanuatu. Nel bacino del Sepik numerosi gruppi – quali gli Iatmul, i Sawos, i Kapriman, i Kaningara, gli Yimar – praticavano il rimodellamento: tra di essi, per qualità estetica e varietà stilistica spiccano certamente gli Iatmul, una popolazione resa celebre in antropologia dall’opera di Gregory Bateson (1936). Gli Iatmul rimodellavano sia i crani dei nemici sia quelli degli antenati, facendo ricorso a tecniche alquanto differenti. In riferimento agli antenati, sappiamo che i resti del cadavere venivano esumati qualche mese dopo la morte: separato dallo scheletro, il cranio veniva prima ripulito e fatto bollire in un infuso di erbe e in seguito posto a seccare al sole in modo che assumesse una colorazione bianca13. La mascella veniva fissata alla fossa nasale o sostituita con una protesi in legno. Un primo strato di materiale plastico, ricavato da una mescola di calce e sostanze lattiginose vegetali, veniva applicato sulla superficie del cranio. Un secondo impasto (calce, ocra, oli vegetali) serviva all’artista a riprodurre i tratti del volto del defunto. Lo scultore portava il cranio nella propria capanna e dormiva a stretto contatto con esso: secondo le testimonianze degli informatori, la vicinanza ai resti favoriva la visione in sogno del defunto di cui, al risveglio, l’artista riproduceva le sembianze. La lunghezza del naso, la larghezza della bocca e altre misure fondamentali erano state registrate al momento della morte con l’ausilio di alcuni bastoncini che lo scultore conservava per la circostanza. Questa attenzione realistica ai particolari spiega la grande 13

Cfr. Coiffier 1999.

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varietà di espressioni del volto delle centinaia di crani rimodellati iatmul presenti nei musei occidentali. Una volta ricostruito il volto, sulla pasta vegetale ormai quasi indurita veniva applicata una parrucca, ricavata dai capelli di alcuni consanguinei che si erano rasati nel periodo del lutto. Infine il volto ricostruito poteva essere dipinto con ocra rossa e con una sorta di argilla bianca, realizzando motivi curvilinei le cui forme sono riconducibili a canoni stilistici propri di particolari villaggi e clan. I crani rimodellati degli antenati, conservati nelle «case degli uomini» su ostensori lignei a loro volta dipinti, venivano esibiti nel corso di feste e cerimonie rituali. I crani dei nemici erano invece sepolti in un apposito tumulo davanti alla «casa degli uomini» o, nel caso di individui particolarmente rinomati, presso il palo centrale dell’abitazione (Aufenanger 1975), un’interessante forma di incorporazione dello straniero (infra, § 4.4). La tecnica del rimodellamento non esaurisce le tipologie di interventi estetici sui resti: i Tolaï della penisola della Gazzella (Nuova Bretagna) ricavavano una sorta di maschera (iorr) da un cranio tagliato a metà in verticale14. La parte anteriore era rimodellata con mastice nero, l’acconciatura ricavata da capelli umani, mentre una sorta di barba delimitava il volto ricostruito e contornato da strisce dipinte per lo più di bianco e ocra. Nella parte posteriore, una piccola asticella in legno trattenuta con i denti consentiva di indossare la maschera-cranio durante particolari cerimonie. Infine, non mancano i tentativi di conservare la testa praticando forme di imbalsamazione più o meno definitiva. L’esempio più celebre in Oceania è certamente quello delle teste tatuate (moko-mokaï) dei Maori della Nuova Zelanda: dopo aver svuotato il cranio, i Maori essiccavano il volto del morto sul quale spiccavano i tatuaggi realizzati in momenti successivi nel corso della sua esistenza, la cui estensione e complessità erano indici dell’età e del rango sociale dell’individuo. Una tecnica ancora più complessa era riservata dai già citati Marind-anim dell’Irian Jaya alle teste dei nemici15. Subito dopo la morte, una volta incisa da una parte all’altra del collo, la pelle del volto veniva staccata dal cra14 15

Cfr. Le Fur 1999a, 159-161. Ivi, pp. 140-141.

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nio e posta a seccare su una noce di cocco. Il cranio veniva svuotato e ripulito, le cavità riempite di materiali plastici e, al termine di queste operazioni, la pelle originale veniva ricollocata sulle ossa craniche, modellata e dipinta in modo da conferire una parvenza di vitalità16. Questi volti conservati venivano esibiti nel corso di lunghe feste che celebravano, mediante canti e danze, le imprese dei guerrieri cacciatori di teste. I trofei erano poi accumulati nelle case cerimoniali e abbandonati a un destino di lenta e inesorabile disgregazione. Nel loro cammino di espansione da ovest a est, i popoli austronesiani hanno disseminato nell’arcipelago indonesiano e negli sterminati spazi dell’Oceania insulare un culto dei resti che si è sviluppato in una strabiliante molteplicità di forme. Dal Borneo all’isola di Pasqua, questa arte dei resti umani si è concentrata particolarmente sui crani, ma non mancano esempi del ricorso ad altre parti del corpo. I capelli ad esempio costituiscono la materia prima per la fabbricazione delle maschere, come mostrano numerosi esempi melanesiani; nelle isole Marchesi alcune ossa dello scheletro (l’òmero e il femore in particolare) fornivano il materiale di base per la scultura altamente stereotipata di figure dalle sembianze umane (tiki). Alle Hawaii denti umani erano incastonati come pietre preziose nei recipienti in cui si cibavano i sovrani. Infine, in questa rassegna inevitabilmente sommaria, vorrei citare i gioielli/amuleti maori scolpiti, levigati, cesellati e incisi a partire da un frammento della volta cranica. Da un’estremità all’altra del mondo austronesiano, alcune categorie di resti hanno manifestato un grande fascino e una notevole carica evocativa. 4.2. Tanato-metamòrfosi Perché molte società dell’Indonesia e dell’Oceania conservavano alcuni resti corporei appartenuti a nemici e antenati? Quale ruolo occupavano nei riti, nelle cerimonie, nei luoghi in cui venivano ostentati? Di quali significati erano localmente investiti? Come si inserivano nelle rappresentazioni locali della persona e del suo de16 Questa tecnica è simile a quelle mediante cui gli Achuar dell’Amazzonia ottenevano le celebri teste ridotte, molto diffuse nei musei etnografici.

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stino post mortem? L’antropologo che cerca di rispondere a queste e ad altre domande relative alle reliquie d’Oceania si trova davanti a molte difficoltà. Non sempre le società locali hanno conservato memoria di queste manipolazioni dei resti che vennero ben presto scoraggiate, condannate e proibite dai missionari e dai funzionari coloniali. Le fonti etnografiche più antiche sono spesso lacunose al proposito e lo stesso vale per altri documenti di archivio17. I missionari, come nel caso di Futuna descritto in precedenza (§ 3.1), si affrettarono a far sparire queste testimonianze di «paganesimo», di «credulità», di inquietante promiscuità tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Lo sguardo laico dei funzionari coloniali condannò questa attenzione ai resti, frettolosamente associata a costumi primitivi, a forme di violenza intollerabili con la pax coloniale, a pratiche magiche. Gli stessi collezionisti, che spesso si soffermano sulle modalità di raccolta dei loro oggetti, esercitarono una sorta di autocensura sul tema dei resti umani: come si vedrà più avanti, non di rado essi si resero responsabili di vere e proprie razzie, predarono tombe e siti sacri, raccolsero crani rimodellati, teste tatuate e altre reliquie anche contro il volere delle società locali. La rapida rassegna tipologica svolta nel paragrafo precedente suggerisce che c’è perlomeno un tratto che accomuna molte società dell’Oceania nella loro attenzione ai resti: spesso esse non si limitavano a conservare i crani e altre parti dello scheletro, ma li rendevano oggetto di particolari investimenti estetici. I crani potevano essere dipinti, incisi, ornati, rimodellati, ricostruiti a partire dalla pelle essiccata, conservati per esaltare gli elaborati tatuaggi che ricoprivano i volti: l’elenco potrebbe continuare con altre tipologie quali i crani delle Marchesi avvolti in tapa, stoffe di corteccia su cui l’artista riproduceva i tatuaggi che un tempo segnavano la pelle del morto18. D’altra parte nei Mari del Sud l’associazione tra arte e morte risulta particolarmente pregnante non solo per le reliquie descritte più sopra ma anche per le numerose tipologie di oggetti coinvolti nei riti funebri. Tuttavia, applicare in 17 Per una bibliografia generale rimando ancora una volta a Le Fur 1999a, 251-256. 18 Cfr. Boës, Sears 1993-1994; Bounoure 1999.

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modo generico categorie come «arte» ed «estetica» alle reliquie d’Oceania è un’operazione problematica, che rischia di peccare di etnocentrismo, a meno che si provveda a specificare i significati che vogliamo attribuire a questi concetti. In un articolo dedicato ai Mountain-Ok della Nuova Guinea centrale, Barry Craig sostiene esplicitamente che l’esposizione di reliquie e trofei nelle case cerimoniali degli uomini può essere considerata una vera e propria forma d’arte (1990). I MountainOk sono una popolazione suddivisa in numerosi gruppi etnici (Fegolmin, Tifalmin, Telefolmin, Baktamanmin) che parlano lingue differenti ma presentano tratti culturali simili. Vivono nelle montagne che fanno da spartiacque ai fiumi Sepik e Fly, tra l’Irian Jaya e la Papua Nuova Guinea. Fino agli anni Sessanta essi esponevano nelle case cerimoniali, appendendole alle pareti, centinaia di ossa umane e animali (maiali domestici e selvatici, casuari, vari tipi di marsupiali), secondo una disposizione variabile che tuttavia seguiva alcuni criteri di riferimento19. Nell’interpretazione locale di questa pratica prevale l’idea secondo cui le ossa e la loro particolare disposizione siano dispensatrici di «benessere» e «prosperità», in quanto favoriscono la crescita dei raccolti e la moltiplicazione delle prede20. Nell’interpretazione dell’antropologo emerge viceversa l’idea che l’esposizione di queste centinaia di resti umani e animali rappresenti nello spazio della capanna una particolare visione cosmologica dei rapporti che l’essere umano intrattiene con l’ambiente che lo circonda. «Le mie informazioni suggerivano che la disposizione era uno schema simbolico che agiva come un modello ecologico delle relazioni tra le risorse animali, gli insediamenti umani e le coltivazioni» (Craig 1990, 200). La particolare disposizione dei trofei e delle reliquie rappresenta agli occhi dell’antropologo l’ecosistema in cui i Mountain-Ok vivono e le relazioni che essi intrattengono con il mondo animale e vegetale, relazioni che sono alla base del loro modello di società. Le ossa divengono qui dei «segni» scritturali, attraver19 Un’interessante rassegna sugli usi cerimoniali delle ossa nelle società della Nuova Guinea si trova in Aufenanger 1961. 20 Oltre che da B. Craig, l’uso di disporre le ossa nelle case cerimoniali degli uomini da parte dei Mountain-Ok è stata analizzata da antropologi quali F. Barth (1975), D. Jorgensen (1981), W. Wheatcroft (1975).

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so i quali l’habitat dei Mountain-Ok viene ricostruito nello spazio cerimoniale delle «case degli uomini». Che cosa spinge Craig a parlare in questo contesto di una «forma artistica»? Ciò che distingue l’arte dall’artigianato, argomenta l’antropologo, è il suo essere «accessibile a un pubblico (publically accessible), aspecifica (unspecific), sperimentale (experimental), modelizzante (modelling)» (1990, 208)21. L’esposizione di reliquie e trofei nelle case cerimoniali dei Mountain-Ok si conformava a questi criteri perché, per quanto ristretta a un pubblico di maschi iniziati, la visione di esse dava adito a commenti e osservazioni critiche sulle modalità di organizzazione e disposizione della «collezione» (publically accessible). In secondo luogo, la disposizione delle ossa non rispondeva a finalità specifiche (unspecific) e soprattutto presentava un carattere sperimentale (experimental): essa non si limitava a rappresentare l’habitat dei Mountain-Ok così come esso era, ma suggeriva modelli alternativi di come avrebbe potuto essere (modelling). Nel disporre le reliquie e i trofei, i singoli curatori di questi «musei nativi» sperimentavano a livello simbolico le relazioni tra i Mountain-Ok, i nemici, gli animali e il mondo naturale costruendo modelli di realtà nel gioco delle rappresentazioni e lasciando intravedere possibilità alternative (ivi, 208209). Poteva così accadere che, secondo le esperienze e la personalità del «curatore», nelle case cerimoniali yolam dei Baktamanmin, le mandibole del maiale selvatico fossero collocate lontano dalle ossa umane, per evidenziare la minaccia che questo animale rappresenta per le coltivazioni, in quanto nemico e rivale dell’uomo; o, al contrario, potevano essere poste a stretto contatto con le reliquie degli antenati, in quanto l’aggressività e la virilità dei maiali selvatici sono virtù che dovrebbero caratterizzare anche i maschi adulti (Barth 1975). Disponendo sulle pareti delle case cerimoniali i resti di uomini e animali, i Mountain-Ok riflettevano sulla loro società e sul modo in cui essa avrebbe potuto essere. Lasciamo ora i Mountain-Ok e i loro musei nativi – progressivamente scomparsi a partire dagli anni Sessanta in seguito alla condanna delle autorità civili e religiose – e torniamo alle reliquie 21 I criteri proposti da B. Craig ricalcano quelli definiti da D. Brook (1977), nell’ambito di un dibattito maturato nel contesto della Pacific Arts Association.

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descritte nel paragrafo precedente. In che senso si può parlare di «attenzioni estetiche» e di «arte dei resti» a proposito dei crani rimodellati e delle altre reliquie? Se le disposizioni delle ossa descritte da Craig hanno a che fare con rappresentazioni simboliche di carattere «cosmologico», nel caso dei resti umani analizzati in precedenza – e in particolare dei crani rimodellati – ci troviamo davanti a rappresentazioni del corpo o di una sua parte. Il quarto criterio indicato da Craig – modelling – appare anche qui molto appropriato. Riprendendo un’espressione già utilizzata nell’analisi delle reliquie cristiane, potremmo dire che anche in questo caso abbiamo a che fare con «finzioni di corporeità». Il concetto di «finzione», per le sue complesse ramificazioni semantiche ed etimologiche, appare piuttosto interessante per un’analisi antropologica delle reliquie d’Oceania. Com’è noto, il verbo latino fingere da cui deriva il sostantivo italiano «finzione» indica in primo luogo l’azione del «formare», «plasmare», «creare», «fare», «fabbricare». In riferimento alle arti figurative può significare anche «scolpire», «rappresentare», «figurare» e non è raro il suo utilizzo in un dominio propriamente estetico («acconciare», «adornare», «ornare»). Un secondo ambito di significati concerne invece l’«immaginare», «sognare», «supporre», «inventare», «escogitare», «ordire», il «simulare» e non ultimo il «falsare». Le reliquie descritte nel primo paragrafo di questo capitolo sono in primo luogo il frutto di un lavoro di modellamento, di figurazione da parte di mani esperte che mirano a ridare al cranio la forma di un volto, le sembianze di un corpo. Che si tratti di crani dipinti con l’ocra, di crani adornati o rimodellati fino a riprodurre in maniera realistica il volto del defunto, queste reliquie sembrano l’espressione di uno sforzo di ricostruzione del corpo (del volto per lo meno) a partire dai resti. L’artista appare impegnato a contrastare gli effetti disgreganti (anti-poietici) della morte, riproducendo un processo di ordine inverso, destinato a ridare consistenza e forma a un corpo di cui non rimangono che alcune tracce. A partire dai resti, l’artista ricostruisce forme di umanità dissolte dai processi di tanato-morfòsi. Se, secondo la prospettiva teorica dell’antropopoiesi già richiamata in precedenza, nel corso dell’esistenza i corpi sono oggetto di una continua opera di costruzione mediante la quale essi «incorporano» cultura, la manipolazione dei resti sembra confi113

gurarsi come un prolungamento di questo processo. Un’antropopoiesi dilatata oltre la soglia della morte segnala la volontà di contrastare, per lo meno a livello simbolico, immaginativo, finzionale, le forze che disgregano i corpi, che li trasportano dalla dimensione biologico-culturale che essi avevano in vita in un terreno puramente organico. Intervenendo su questi processi anche quando non rimangono che le parti dure e secche del cadavere, queste società oppongono ai processi della tanato-morfòsi (le inesorabili trasformazioni biologiche dei corpi morti) quelli che potremmo definire interventi di «tanato-metamòrfosi», vale a dire trasformazioni culturalmente controllate e significative di ciò che resta dei corpi. Gli interventi di tanato-metamòrfosi riaffermano la capacità della cultura di contrastare i processi della biologia, la possibilità di opporre alla morte che distrugge i corpi la forza delle finzioni culturali, in grado di ricostruirli, rimodellarli, rivitalizzarli. L’«estetica» o «arte» dei resti è allora qualcosa di profondamente diverso dalla contemplazione dell’oggetto nella vetrina di un museo: ci troviamo piuttosto davanti a uno sforzo poietico di riaffermare le capacità immaginative e finzionali dell’essere umano nel momento in cui la morte pone radicalmente in discussione l’esistenza stessa della società e della cultura. «Ciò che definiamo la cultura di un popolo è, almeno in parte, lo sforzo che esso compie per reintegrare nella propria vita collettiva la materialità del cadavere, le ossa prive della carne che rappresenta la vita, per scongiurarne gli effetti distruttivi»: la citazione di Jean Duvignaud già riportata più sopra22 appare decisamente adatta a chiarire questo punto. All’inesorabilità della morte che decompone i corpi, queste società rispondono applicando le proprie forze creative, poietiche, artistiche e immaginative proprio a quegli oggetti – crani e altre parti dello scheletro – che sembrerebbero testimoniare in modo evidente e inconfutabile il trionfo della morte sull’essere umano. Le finzioni e le rappresentazioni sono tuttavia intrinsecamente ambivalenti, come ci ha insegnato Goody nella sua riflessione sulle reliquie cristiane23. Le finzioni hanno sì a che fare con il «co22 23

Cfr. § 2.1. Cfr. § 3.4.

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struire», il «modellare», ma anche con l’«immaginare», l’«inventare», il «falsare». Proprio il ricorso ai resti per ricostruire a livello simbolico una corporeità dissolta dai processi di tanato-morfòsi lascia supporre anche il desiderio di esibire la finzione, la possibilità di smascherare uno sforzo illusorio, vano, frutto di un inganno perpetrato a livello collettivo. In modo simile a ciò che avveniva per molti reliquari cristiani, nel rimodellare con la cera i volti di alcuni defunti gli artisti della Nuova Irlanda ponevano particolare attenzione affinché una parte del cranio rimanesse scoperta, in modo da distinguere la scultura così realizzata da altre forme artistiche (come i celebri malanggan) che non racchiudevano al loro interno dei resti umani (Lewis 1964). Le reliquie d’Oceania sono «finzioni di corporeità» non solo perché in esse appare evidente un tentativo di ricostruzione dei corpi, ma anche per l’altrettanto evidente carattere fittizio e in ultima analisi illusorio di questa operazione. I crani rimodellati in particolare mostrano la forza delle finzioni culturali, la loro capacità di affrontare persino l’abisso della morte, le potenzialità dell’immaginazione e della creatività umana ma, nello stesso tempo, non possono mascherare il fallimento a cui in definitiva questi sforzi sono votati. Le reliquie dell’Oceania sono oggetti ambivalenti, di soglia: essi si collocano tra la memoria e l’oblio24. Manifestano insieme la forza della presenza e il dramma dell’assenza, la concretezza della realtà biologica dell’essere umano e le capacità poietiche (creative, artistiche) di un essere che costruisce, immagina, finge la propria umanità. Il fascino che questi oggetti hanno esercitato ben oltre i territori in cui furono originariamente prodotti è legato forse proprio al loro carattere ambivalente in quanto rappresentano la crisi di categorie apparentemente molto solide, muovendosi tra essere e non essere, tra realtà e finzione. Nelle isole di Malekula e Tomman (Vanuatu) la finzione di corporeità non si limitava alla ricostruzione del volto. Le effigi funerarie conosciute con il nome di rambaramp consistevano in un manichino scolpito nel legno delle felci arboree sul quale veniva collocato il cranio rimodellato del defunto (Layard 1928; Deacon 24 P.H. Lewis definisce i crani rimodellati della Nuova Irlanda e delle Vanuatu «memorial figure for the dead» (1964, 135).

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1934; Lewis 1964; Guidieri, Pellizzi 1981). La lunghezza delle braccia e delle gambe era attentamente commisurata all’anatomia dello scheletro e il volto veniva ricostruito riproducendo le sembianze del morto. Il manichino così ottenuto veniva dipinto con colori e tratti corrispondenti alle pitture che erano state realizzate in vita sul corpo, durante le numerose cerimonie che segnavano l’ingresso dell’individuo in uno dei gradi di età in cui queste società dividono il ciclo di vita. Portati in processione dalla capanna cerimoniale gamal fino ai confini del villaggio, i rambaramp, una volta terminate le cerimonie funebri, erano depositati nuovamente nel gamal dove imputridivano senza essere oggetto di particolari cure. La parabola del rambaramp rappresenta in maniera esemplare il potere delle finzioni culturali, la loro capacità di ricostruire (di rivitalizzare) ciò che la morte distrugge: allo stesso modo in cui, nel corso dell’esistenza, la cultura si inscrive nei corpi – come mostrano visivamente le pitture corporee delle cerimonie di iniziazione – così, durante il funerale, il corpo viene ricostruito e nuovamente dipinto. Tuttavia, anche questo «secondo corpo» è destinato alla decomposizione, esso si dissolverà lentamente senza che qualcuno se ne prenda più cura. L’immagine antropologica che questi oggetti racchiudono è allora quella di un essere, l’uomo, che si muove tra realtà e finzione, tra finzione e dissoluzione, tra le forme che la cultura crea e i resti di questi percorsi poietici. 4.3. Cacciatori di teste In molte società del Sudest asiatico e dell’Oceania, la conservazione e l’ostentazione dei crani era legata a una pratica che gli occidentali definirono «caccia alle teste». «La caccia alle teste fa parte di un vasto complesso rituale in cui la testa umana o una sua 25 La distinzione tra «reliquie» di antenati e «trofei» di nemici uccisi nel corso di spedizioni di caccia alle teste è piuttosto comune. Come osservano C. Coiffier e A. Guerreiro (1999, 38 e 39), si tratta di una distinzione alquanto problematica, in primo luogo perché i raccoglitori europei classificarono spesso come «trofei» quelle che in realtà erano ossa appartenute ad antenati. In secondo luogo perché le stesse popolazioni locali potevano incorporare come «antenati» i crani dei nemici uccisi in battaglia. Spesso poi le razzie non comportavano il ta-

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parte (il cranio, la mascella, lo scalpo, la pelle, i denti) sono conservate come trofei o reliquie per fini diversi» (Coiffier, Guerreiro 1999, 31)25. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento questo rituale era ancora presente a Taiwan, nell’isola di Luzon (Filippine), in gran parte del Borneo, nell’area meridionale di Sumatra, a Nias, Sulawesi, Sumba, Timor, Ceram e in varie parti della Nuova Guinea26. In epoca pre-coloniale essa si ritrovava in molte isole dell’Oceania tra cui, per limitarci a due esempi celebri, il gruppo delle Marchesi e la Nuova Zelanda. Per celebrare la fine di un lutto (come tra i Berawan del Borneo o i Toraja di Sulawesi), per vendicare un parente ucciso (Sumba), per le cerimonie di investitura di un capo-villaggio (Nias), nell’ambito di un rito di iniziazione (Iban del Borneo) o per favorire la fertilità dei raccolti e delle donne, un manipolo di guerrieri poteva organizzare un’imboscata ai danni di un gruppo nemico nel corso della quale una o più teste venivano tagliate e riportate al villaggio. Al ritorno dalla spedizione i guerrieri erano acclamati e accolti in trionfo, lunghi festeggiamenti celebravano il successo dell’iniziativa. Le teste dei nemici venivano poi manipolate in vista della conservazione del teschio: nel Borneo esse erano ripulite dalle parti molli con l’uso di strumenti; a Nias e Sumba bollite, a Timor affumicate. Per lo più esse venivano poi pubblicamente ostentate, appese ai soffitti delle case lunghe (Borneo), ai cornicioni di edifici cerimoniali (Timor) oppure esposti nelle capanne dove si riunivano i consigli di villaggio (Nias) o ancora su particolari altari posti al centro del villaggio stesso e detti «alberi dei teschi» (Sumba). In altri casi questi trofei umani erano sepolti sotto i pali di sostegno delle case dei capi (Nias) o in speciali tumuli (Alor)27. Condannata come pratica violenta e barbara allo stato sommo, la caccia alle teste costituì per gli europei una giustificazioglio delle teste dei nemici ma il furto di crani ancestrali, un po’ come nella tradizione dei furta sacra di epoca medievale (cfr. cap. 3). Alcuni autori circoscrivono l’uso del termine «trofeo» alle ossa degli animali. 26 Una mappa completa della diffusione della caccia alle teste alla fine dell’Ottocento si trova in Le Fur 1999a, 30. 27 Traggo queste informazioni di carattere generale da Scarduelli 2000. Un’ampia raccolta di saggi sulla caccia alle teste nel Sudest asiatico si trova in Hoskins 1996.

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ne all’opera di colonizzazione e pacificazione delle società locali. L’accumulazione e l’ostentazione dei crani contribuirono a proiettare un’ombra di primitivismo e di selvatichezza sulle popolazioni dell’arcipelago indonesiano e melanesiano, tanto più che la pratica fu frettolosamente (e per lo più erroneamente) associata al cannibalismo. La violenza e la promiscuità tra i vivi e i morti che essa comportava furono viste con agghiacciante stupore dagli occidentali i quali, non di meno, provarono attrazione e fascino per quei resti che si affrettarono a raccogliere per sottoporli ad analisi scientifiche o collocarli nelle teche dei musei. Per gli antropologi la caccia alle teste si è rivelata un oggetto di studio alquanto complesso. Anche se non mancano aspetti comuni, l’ampia estensione storica e geografica del fenomeno fa sì che il rituale si presenti in forme alquanto mutevoli e la molteplicità di lingue che caratterizza l’area della sua estensione rende difficile il confronto e la comparazione. Se non mancano dettagliate analisi di carattere locale, molto più difficile si è rivelato il tentativo di elaborare spiegazioni convincenti di carattere generale. Trattandosi di una pratica in cui la questione dei resti è centrale, pare inevitabile gettare uno sguardo alle principali interpretazioni antropologiche del fenomeno. A partire da una vasta analisi delle fonti disponibili, Christian Coiffier e Antonio Guerreiro (1999) hanno recentemente fornito al proposito un’interessante sintesi. In una prima prospettiva interpretativa, «la caccia alle teste sarebbe uno sviluppo ‘specializzato’ della nozione più generale di sacrificio cruento o omicidio rituale quale offerta a una divinità o a un antenato fondatore» (ivi, 34). In sintonia con le prospettive teoriche di Henri Hubert e Marcel Mauss (1899), alcuni autori considerano il taglio rituale delle teste come una variante della pratica ampiamente diffusa del sacrificio, la morte che genera vita. Sacrificando un essere umano, queste società solleciterebbero una reciprocità da parte di divinità e antenati, chiamati a infondere benessere e prosperità al gruppo, favorendo la crescita dei raccolti, l’abbondanza della pesca e la fertilità delle donne. Una seconda prospettiva pone invece l’accento sulle rappresentazioni locali della persona, del corpo e delle loro metamorfosi. Per comprendere il significato della caccia alle teste occorrerebbe cioè indagare il modo in cui queste società 118

costruiscono la persona umana, come concettualizzano la distinzione tra i suoi aspetti «materiali» e «immateriali». Che cosa rimane della persona al momento della morte? Attraverso quali processi si compie il passaggio dal vivente all’antenato? La terza prospettiva interpretativa individuata da Coiffier e Guerreiro lega la caccia alle teste all’acquisizione di uno status sociale (di adulto, guerriero, leader politico) e all’affermazione di un ethos virile. Presso gli Iban del Borneo e gli A’tayal di Taiwan, per esempio, procurarsi la testa di un nemico era indispensabile nel contesto di una cerimonia di iniziazione o di ingresso in un nuovo grado di età. La caccia alle teste in effetti era spesso praticata da società molto bellicose che individuavano il dolore e la violenza quali importanti strategie formative per i giovani: prova ne sia la parallela diffusione di pratiche quali la scarificazione, la circoncisione e altre mutilazioni genitali, il tatuaggio, il digiuno rituale. Un’ulteriore interpretazione del fenomeno che ha avuto molto seguito sostiene che queste popolazioni crederebbero nell’esistenza di una «sostanza spirituale» presente nelle teste dei nemici e capace di garantire fertilità e prosperità al gruppo qualora sia fatta propria. Questa ipotesi, aspramente criticata da Rodney Needham in un celebre articolo (1976), lascia oggi spazio all’idea secondo cui la caccia alle teste è piuttosto l’espressione di un «debito di vita» – secondo la definizione proposta dagli stessi Coiffier e Guerreiro – che lega perennemente gli esseri umani ai loro antenati. Se questi ultimi hanno letteralmente dato la vita ai loro discendenti, i vivi sono chiamati periodicamente ad appianare questa reciprocità asimmetrica, soprattutto in momenti di crisi o di rinnovamento della società. Non a caso, le spedizioni di caccia alle teste si svolgevano in seguito a epidemie, carestie, sconvolgimenti climatici oppure nel corso delle cerimonie di iniziazione dei giovani o dei capi. Infine, su un piano più propriamente sociologico, la caccia alle teste sembrerebbe configurarsi come un’importante strategia di «incorporazione» dell’Altro per il tramite dei resti. Si tratta di una prospettiva interpretativa di carattere generale su cui avremo occasione di ritornare più avanti, dopo una breve visita a una popolazione delle Highlands della Nuova Guinea che ci permetterà di aprire un varco alla ricerca dei significati locali del rito. 119

Gli Adjirab sono una società di circa tremila individui che vive tra i fiumi Keram e Ramu (bacino del Sepik), in una regione conosciuta col nome di Porapora. Divisi in clan matrilineari con a capo un big man28, gli Adjirab erano legati alle società circostanti da una fitta rete di scambi, di alleanze e di rapporti violenti fatti di guerre e razzie. Periodicamente essi organizzavano spedizioni nel corso delle quali tagliavano le teste dei loro nemici (Peltier 1999, 49-58). L’ultimo omicidio di questo genere di cui si abbia notizia fu perpetrato verso il 1930 ai danni di un funzionario del governo australiano e quest’ultimo inviò per rappresaglia tra quelle impervie e inaccessibili montagne un battaglione dell’esercito: i soldati incendiarono i villaggi, devastarono le coltivazioni, bruciarono le armi e impiccarono sul posto i presunti colpevoli. «Quando, ai nostri giorni, si chiede agli Adjirab perché praticassero la caccia alle teste, essi rispondono invariabilmente che gli antenati (maro) reclamavano una testa», sostiene Philippe Peltier (ivi, 51) che ha studiato questo gruppo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Ogni clan custodiva infatti nella «casa degli uomini» un certo numero di maro, pali in legno scolpiti con sembianze umane al centro dei quali era appeso un cranio ricoperto di un impasto di terra e olio vegetale, periodicamente rinnovato. Si trattava evidentemente di crani rimodellati (§ 4.1), con il volto e il naso ricostruiti con l’argilla e gli occhi riprodotti con dischi di madreperla. «Di tanto in tanto – riferivano gli informatori adjirab all’antropologo francese – questi antenati ‘viventi’ parlavano. Essi avevano fame e annunciavano il numero di uomini e di donne di cui reclamavano il corpo» (ivi, 52). Le «parole» degli antenati erano all’origine della spedizione. Un gruppo di guerrieri del clan e alcuni loro alleati (adjie) si radunava allora nella «casa degli uomini», a stretto contatto con i maro. Essi seguivano alcuni tabu, evitando di avere rapporti sessuali e di lasciare il villaggio per la foresta. Alla vigilia del giorno fatidico, i guerrieri si truccavano per divenire «neri e brillanti» (ivi, 56) come i maro e si decoravano il 28 Classica figura dell’etnografia melanesiana, il big man è un leader la cui autorità si fonda sulla ricchezza, sul prestigio personale di cui gode, sulla capacità di esercitare forme di persuasione, di stringere alleanze e più in generale sull’abilità di condurre transazioni di carattere economico.

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corpo con oggetti appartenuti ai loro antenati. Durante la spedizione essi, secondo l’interpretazione nativa, divenivano i loro antenati. L’imboscata era rapida: la vittima veniva uccisa con pugnali e mazze di legno e per lo più solo la testa era riportata nel villaggio, poiché il peso del corpo avrebbe rallentato la marcia. Al ritorno, i corpi o le teste venivano deposti davanti ai maro, i cui volti erano stati nel frattempo rimodellati e abbigliati con decorazioni di piume: «Lucidi, brillanti in tutta la gloria della loro decorazione, i maro, a immagine dei guerrieri, ricevevano i corpi» (ibid.). Non è del tutto chiaro cosa avvenisse nella capanna quando i cadaveri giacevano davanti agli antenati. Secondo alcune testimonianze, i maro venivano a turno fatti «danzare» attorno a essi e avvicinati affinché potessero «bere» il sangue delle vittime. Pochi uomini potevano assistere a questa messa in scena, uno dei momenti più segreti del rito. Non è certo se le carni fossero effettivamente mangiate dai guerrieri e dal loro entourage. L’ultimo atto del rituale si consumava circa un mese dopo quando il cranio dipinto del nemico veniva deposto nella casa del big man. Nel caso adjirab emerge di nuovo in primo piano il tema della finzione del corpo. Come si è visto, i volti degli antenati erano oggetto di periodici interventi di ricostruzione e decorazione. Essi «parlavano», «avevano fame», «danzavano» e «si nutrivano» dei corpi dei nemici. La loro «presenza», per il tramite dei resti, si manifestava nella capacità di spingere i guerrieri a organizzare spedizioni di caccia alle teste. Ciò che tuttavia colpisce particolarmente in questo caso etnografico è la centralità delle metamorfosi. Nel corso del rituale, i guerrieri si trasformavano progressivamente in antenati, vivendo a stretto contatto con essi, colorandosi di nero come i crani rimodellati, decorandosi con oggetti appartenuti ai loro predecessori. «Gli uomini che partivano per la guerra si transustanziavano. Essi si separavano dal mondo quotidiano per fondersi in quello degli antenati. Tocchiamo qui uno degli aspetti della caccia alle teste in Nuova Guinea più difficili da circoscrivere: quello della rappresentazione e della composizione della persona» (ivi, 54). Visto nel suo complesso, il rituale comportava una sorta di «trasgressione» delle identità consuete: gli antenati si trasformavano nuovamente in guerrieri e, viceversa, questi ultimi si tramutavano in antenati. I viventi assumevano l’aspetto dei resti dei loro antenati, dipingendosi il volto di nero bril121

lante (il colore dei crani rimodellati) e il contorno degli occhi di bianco argenteo, lo stesso colore della madreperla con cui si ricostruivano le orbite dei crani. Nella finzione del rito, era come se gli uomini esplorassero i confini dell’umanità, oltrepassandoli nella direzione degli antenati e tornando poi ad assumere i consueti ruoli sociali. Divenendo gli antenati, essi facevano prevalere in sé quella componente della persona destinata a infrangere le barriere tra la vita e la morte e a sopravvivere alla disgregazione del corpo. Mediante un processo che potremmo definire di resurrezione simbolica, i resti si riappropriavano di corpi e forme (parlando, andando alla guerra, mangiando, danzando) e ripercorrevano così a ritroso il processo di decomposizione; i viventi dal canto loro si sforzavano di assomigliare ai resti – una tanato-metamòrfosi anticipata – e divenivano antenati, simulando nello spazio del rito il cammino che porta dalle «forme di umanità» ai «resti di umanità». Un’ulteriore metamorfosi trasformava infine lo straniero, il nemico, l’Altro in antenato. In effetti, in molte società della Nuova Guinea la caccia alle teste aveva tra i suoi obiettivi principali il rafforzamento dell’identità del gruppo mediante una contrapposizione a gruppi nemici: «Ogni caccia alle teste serviva a rifondare il gruppo» (ivi, 58). Curiosamente la rifondazione del gruppo comportava un incorporamento del nemico per il tramite dei suoi resti: nel caso degli Adjirab, qualche tempo dopo la celebrazione finale il cranio dipinto e rimodellato della vittima entrava a far parte dello spazio cerimoniale della capanna, il nemico era divenuto maro, «antenato». Anche Pietro Scarduelli, riflettendo sui significati della caccia alle teste nell’arcipelago indonesiano, ritiene di centrale importanza il tema dell’incorporazione dell’Altro. Questa ipotesi esplicativa ha il merito di identificare la caccia alle teste con un tentativo di organizzazione cognitiva delle relazioni fra il Noi e l’alterità e di mettere in luce il rapporto tra questa pratica e il mantenimento dei confini dell’universo sociale, confini che, separando il Noi dall’Altro, assumono una rilevanza cosmologica (2000, 172 – corsivo dell’autore).

Come è noto, le spedizioni non erano praticate contro chiunque, bensì ai danni di popolazioni con cui non si avevano legami genealogici o scambi matrimoniali: società con culture altre, che 122

parlavano lingue diverse e che si collocavano oltre quei gruppi con i quali si intrattenevano rapporti commerciali e scambi matrimoniali. Sia il contesto sociale del rito sia il contesto cognitivo – la «cosmologia» indigena – sostengono questa ipotesi. Per quanto riguarda il primo punto, occorre osservare che i gruppi che praticavano la caccia alle teste si situavano in genere all’interno delle grandi isole o in piccole isole lontane dalle principali rotte commerciali: le popolazioni ai danni delle quali essi compivano le spedizioni erano portatrici non solo di profonde differenze culturali ma di una radicale alterità. «L’alterità rispetto alla comunità di villaggio non si configurava come diversità […] ma come estraneità; lo straniero non era il diverso ma l’estraneo ostile, il nemico» (ivi, 177 – corsivo dell’autore). In quanto alle cosmologie indigene, osserva Scarduelli, molte società dell’arcipelago condividevano una rappresentazione dicotomica del mondo che opponeva il villaggio alla foresta, l’ordine al disordine, l’interno all’esterno. Sul piano simbolico la caccia alle teste consentiva un’incorporazione e allo stesso tempo un addomesticamento di questa alterità radicale. Essa risolveva quell’ambivalenza di fondo che molte società provano nei confronti degli stranieri: temuti, odiati e allo stesso tempo necessari per costruire e consolidare il Noi; una minaccia da fronteggiare e allo stesso tempo una risorsa in opposizione alla quale definire la propria forma di umanità. La caccia alle teste rispondeva a entrambe le esigenze: attaccato e ucciso, il nemico veniva incorporato attraverso i suoi resti in luoghi altamente simbolici dell’identità del gruppo, come mostra l’ostentazione dei crani nelle «case degli uomini», nelle capanne dove si riunivano i consigli, sugli alberi al centro del villaggio o in aperture poste alla base dei pali di sostegno delle abitazioni cerimoniali. Un po’ come nella logica simbolica del culto delle reliquie cristiane esaminata in precedenza, per i cacciatori di teste l’incorporazione dei resti era un’operazione fondante dell’identità del gruppo: una logica a cui, come vedremo nei prossimi paragrafi, non si sottrassero neppure i «cacciatori di resti» europei che, tra il XVIII e il XX secolo, scorrazzavano in Oceania e in altre parti del mondo abitate dai «selvaggi». 4.4. Gli europei, cacciatori di resti in Oceania 123

Il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini di Roma conserva una ricca collezione di oggetti provenienti dall’Oceania. Tra questi, chiusi in depositi non accessibili al pubblico, vi sono alcuni crani rimodellati della Nuova Guinea raccolti alla fine dell’Ottocento dall’esploratore genovese Luigi Maria D’Albertis e due teste tatuate maori. Di queste, una è di origine sconosciuta mentre la seconda proviene dalla collezione di Enrico Giglioli, zoologo ed etnologo italiano che nel corso dell’Ottocento viaggiò in Oceania, in Malesia, nell’Estremo Oriente e in Indocina. Nella scheda di riferimento Giglioli scrisse che la testa è un trofeo di guerra: egli l’acquistò a Londra nel 1888 da un tale G. Frank che a sua volta l’aveva avuta dal Museo Zoologico di Tubinga, dove era arrivata verso il 1836. La testa sarebbe appartenuta a un giovane guerriero morto in una cruenta battaglia presso la Bay of Islands nel 1830: del suo trofeo si sarebbe impadronito il celebre capo maori Te Whero Whero che l’avrebbe poi ceduta a commercianti inglesi. Qualche anno fa un’antropologa neozelandese di origine maori, Naguya Te Awekotuku, visitò il museo romano e chiese di vedere le due reliquie. In quell’occasione l’antropologa pregò il curatore della sezione oceanistica di non esporre le teste sia per ragioni etiche sia per evitare una protesta ufficiale da parte della comunità maori: allo stesso tempo sostenne la tesi secondo cui le teste sarebbero dei «falsi». Non si tratterebbe cioè di trofei di guerra appartenuti a nemici sconfitti in battaglia bensì di schiavi, fatti uccidere appositamente da capi maori privi di scrupoli allo scopo di vendere le loro teste agli europei29. L’episodio del Museo Pigorini non è isolato. Nell’agosto del 1988, la rivista britannica «Anthropology Today» riferiva di un caso analogo che ebbe ben altro risalto nel mondo anglosassone (Benthall 1988). A maggio di quello stesso anno, l’Alta Corte di Londra aveva infatti proibito alla casa d’aste Bonham’s di mettere in vendita una testa tatuata maori. Sir Graham Latimer, presidente del National Maori Council, venne personalmente in Europa per recuperare la reliquia dalla «legittima» proprietaria a cui diede in cambio una scultura in pietra. 29

L’episodio mi è stato riferito da M. Biscione, curatore della sezione oceanistica del Museo Pigorini, il quale mi ha fornito allo stesso tempo preziose informazioni sulle collezioni oceanistiche del museo.

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La vicenda suscitò grande scalpore e un vivace dibattito sullo statuto dei resti umani conservati ed esposti nei musei. Sul «Times», Bernard Levin parlò del commercio delle teste tatuate e di altri resti umani nei termini di una «profanazione avvilente e profondamente offensiva» e si chiese «cosa penserebbe la gente della proposta di mettere all’asta paralumi ricavati dalla pelle di ebrei scorticati nel periodo nazista» (Benthall 1988, 1). Anche la casa d’aste Christie’s fu messa sotto accusa per la vendita di 35 crani rimodellati, accusa da cui i responsabili dell’azienda si difesero sostenendo che, in questo caso, si trattava di «opere d’arte» più che di parti del corpo umano. Il dibattito fece emergere questioni quali la proprietà e i diritti sui resti umani, la legittimità di esporli pubblicamente nei musei, il diritto delle comunità native a reclamarne la restituzione, le modalità spesso oscure se non apertamente delittuose con cui i collezionisti ne entrarono in possesso. In effetti si potrebbe sostenere con Yves Le Fur che, al pari delle società native, a partire dal XVIII secolo e fino ai primi anni del XX, l’Europa fu un’accanita «cacciatrice di teste in Oceania» (1999b). Mentre alcune popolazioni dell’area persistevano nel loro macabro rituale, contrastate dal fuoco dei colonizzatori e dalle prediche dei missionari, generazioni di esploratori, navigatori, commercianti, collezionisti e scienziati raccoglievano avidamente teste, crani, mummie, scheletri, ossa e parti anatomiche non esitando ad acquistarle dai nativi e, quando ciò non era possibile, a profanare cimiteri e siti sacri e, non di rado, a uccidere pur di procurarsi materiali di cui l’anatomia comparata, l’antropologia fisica, la frenologia e le collezioni museali facevano pressanti richieste. James Cook fu anche in questo campo un precursore: già nel corso del suo secondo viaggio nel Pacifico (1773) acquistò una testa tatuata da un gruppo di Maori. Qualche decennio più tardi, quando le imbarcazioni dei commercianti frequentavano ormai abitualmente i Mari del Sud, le teste erano divenute un comune oggetto di scambio. Il reverendo Samuel Marsden riferiva verso il 1820 che esse erano vendute dai nativi in cambio di asce e polvere da sparo. Secondo quanto egli stesso riferisce, in precedenza per i Maori le teste dei nemici uccisi in battaglia erano trofei di guerra che potevano essere restituite al gruppo di appartenenza come segno della volontà di cessare la guerra: l’incontro con gli occidentali investì quei resti di nuovi significati. Inve125

ce di ridarli ai nemici, essi potevano ora venderli ai commercianti europei, ottenendone in cambio potenti armi con cui tenere a bada le tribù rivali. Il religioso inglese sconsigliava comunque ai commercianti di acquistare questa «merce» per il timore che le tribù di origine dei malcapitati, venendone a conoscenza, potessero attaccare le navi «per la stima e la venerazione che nutrono per queste preziose reliquie» (cit. in Le Fur 1999b, 62). Qualche anno più tardi, il grande esploratore francese Jules-Sebastian Dumont d’Urville sollevava la questione etica: «Da quando gli europei si sono mostrati desiderosi di acquistare queste teste conservate, gli indigeni ne hanno fatto un oggetto di commercio. È chiaro che la nuova destinazione che hanno dato a questi trofei non ha contribuito a rendere le loro guerre meno frequenti e meno sanguinarie» (ibid.). Al contrario, alcuni capi cominciarono a tagliare le teste degli schiavi e a tatuarle appositamente pur di soddisfare la crescente domanda europea (Gastaut 1972, 23). Nella prima parte dell’Ottocento furono soprattutto i commercianti a importare in Europa vari tipi di resti umani. Il celebre marchio «Godeffroy», una società commerciale tedesca che costruì un vero e proprio impero economico nel Pacifico a partire dalle Samoa, nel 1860 creò un museo ad Amburgo. Quando, nel 1884, esso venne smantellato in seguito al fallimento della ditta, l’inventario contava 375 crani e 53 scheletri completi provenienti dalle isole dei Mari del Sud e dall’Australia settentrionale. Nella seconda metà del secolo, alla curiosità «estetica» per i resti si affiancò progressivamente un interesse scientifico. A partire dal 1870-1880 per esempio, il Golfo di Papuasia (Papua Nuova Guinea) fu teatro di esplorazioni che prepararono la colonizzazione inglese. Esploratori, amministratori, ricercatori e missionari parteciparono congiuntamente alle spedizioni e portarono a casa abbondanti scorte di materiale umano. Mentre i missionari e i funzionari coloniali cercavano di sradicare «superstizioni» di lunga data, non esitando a incendiare le «case degli uomini» con il loro contenuto di reliquie, gli studiosi raccoglievano con cura parti del corpo umano da inviare ai loro colleghi in patria impegnati a costruire teorie sull’origine dell’uomo, sull’evoluzione della specie, sulle capacità intellettuali delle varie razze dell’umanità. Il naturalista Luigi Maria D’Albertis fece cinque viaggi in Nuova Guinea tra il 1871 e il 1878, principalmente nel Golfo di Papuasia. Gran126

de appassionato di caccia, D’Albertis percorreva fiumi e montagne alla ricerca di nuove specie di uccelli con cui arricchire la sua collezione. Non mancò di fare pure razzia di resti umani. «Che si urli finché si vuole – scriveva nel diario del quinto viaggio, l’esplorazione del fiume Fly –: sì, ho violato due tombe ma sono entusiasta. Mi sono procurato due scheletri interi provenienti proprio dal centro della Nuova Guinea! […] Questi nobili selvaggi si sottraggono alle mie ricerche e visto che i vivi mi sfuggono perché non interrogare i morti?» (D’Albertis 1882, 326). Se egli dichiarava di provare orrore per l’ostentazione dei crani nelle capanne di villaggi che trovava spesso deserti (forse per i colpi di fucile e gli scoppi di dinamite?), non esitò però a conservare sotto «spirito» la testa di un nativo che il suo amico Bob, dopo averlo ucciso, gli aveva staccato dal collo30: l’espressione «caccia alle teste» non è più in questo caso soltanto un’ardita metafora per una macabra attività di raccolta di resti a fini scientifici, ma l’espressione di una violenza fisica diretta. In effetti, l’accostamento tra le pratiche locali di caccia alle teste e le modalità di raccolta dei resti umani da parte degli europei, lungi dall’essere una semplice provocazione, consente di porre in luce «le logiche che guidano la costruzione del sé e dell’altro quali sfere referenziali di significato» (Pannel 1992, 163). In un celebre articolo, Sandra Pannel ha esplicitamente messo a confronto le narrazioni dei Mayawo dell’isola di Damar (Molucche) concernenti la caccia alle teste con le narrazioni dei naturalisti inglesi Sir Alfred Russel Wallace e Henry Forbes i quali, sul finire dell’Ottocento, erano impegnati in missioni di studio e di raccolta di specie autoctone vegetali e animali e di resti umani nell’arcipelago malese. La convergenza tra queste attività di «caccia» e «raccolta» apparentemente così diverse è significativa, secondo Pannel, non solo per l’unità di luogo e di tempo in cui si svolse: nel compiere la loro attività rituale o scientifica, Mayawo e inglesi si trovarono infatti a condividere un problema comune: l’esistenza di 30

Si veda l’epigrafe di questo capitolo, tratta da D’Albertis 1880. Pannel prende spunto da un saggio di R. McKinley secondo il quale le spedizioni di caccia alle teste, proprio perché compiute ai danni di popolazioni che si collocano oltre i confini cosmologici dell’umanità, possono essere intese quali «viaggi verso e da altri mondi» (1976, 98-99). 31

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forme di umanità radicalmente «altre» rispetto a quelle con cui essi si rapportavano di consueto31. Ancora alla fine dell’Ottocento, i Mayawo tagliavano le teste dei nemici dell’isola di Wetar, una popolazione che, secondo la cosmologia locale, si situava oltre i confini dell’umanità, oltre l’isola dei morti (collocata nell’atollo di Nus Leur). La società di Wetar veniva descritta dal mito mayawo di origine della caccia alle teste come sommamente violenta, capace di crimini orrendi come l’infanticidio. Per i Mayawo questa società era portatrice di un’alterità radicale, al punto che l’unica relazione possibile con essa era costituita da periodiche spedizioni omicide, nel corso delle quali qualche decina di teste veniva tagliata e riportata sull’isola. Anche le narrazioni di Wallace e Forbes descrivono con insistenza l’arcipelago malese come una realtà naturalisticamente e antropologicamente «altra»: una regione che si colloca «a parte dal resto del mondo, con le proprie razze di uomini e i propri aspetti della natura; con le proprie idee, sentimenti, costumi e modi di parlare» (Wallace 1872, 2 – cit. in Pannel 1992, 164). Anche se gli obiettivi di studio dei due scienziati erano principalmente di ordine naturalistico, essi non rinunciarono a indagare le caratteristiche delle diverse società che incontrarono e si sforzarono di classificarle in base all’aspetto fisico dei loro membri in una qualche categoria antropologica. Davanti a questa strabiliante alterità essi misero in atto una strategia di appropriazione e incorporazione che può essere paragonata al modo con cui i Mayawo si rapportavano ai loro nemici di Wetar. Wallace e Forbes raccolsero centinaia di migliaia di campioni vegetali, animali e umani. Il loro ethos di raccoglitori, osserva Pannel, comportava l’espropriazione, l’incorporazione, l’imposizione di gerarchie di potere e di sapere a un mondo che essi coglievano come dato piuttosto che prodotto. La cranioscopia, l’antropometria, la frenologia offrivano loro strumenti di valutazione dell’alterità: misurando e descrivendo i volti dei nativi (un’operazione che Pannel definisce di «dissezione discorsiva» – ivi, 170), Wallace non si limitava a fornire descrizioni fisiche ma esprimeva giudizi sulla disposizione mentale e morale delle popolazioni incontrate. Posti davanti all’esistenza fenomenologica di un’alterità minacciosa, i Mayawo decisero di tagliare le teste dei nemici: la loro strategia di incorporazione prevedeva la necessità di appropriarsi 128

delle teste ma soprattutto dei volti, i simboli fisici della personalità sociale dell’Altro. Una volta riportate al villaggio le teste venivano cotte e date da «mangiare» agli antenati: atti simbolici e trasformativi che collocavano ormai l’alterità dei nemici nei rassicuranti confini dell’identità del gruppo. Secondo l’analisi di Pannel le cose non andavano molto diversamente (se si guarda alla logica dell’operazione) nel mondo europeo di fine Ottocento: soltanto che, invece della cottura, il processo di incorporazione dell’Altro prevedeva, dopo l’espropriazione e l’appropriazione di resti umani e altri dati concernenti le popolazioni, una loro dislocazione nei musei o nei testi scientifici. Mediante queste operazioni essi venivano incastonati in una scala temporale e la macchina simbolica dell’evoluzionismo trasformava un’alterità minacciosa in categorie antropologiche addomesticate e controllabili. Gli Altri (e i loro resti) andavano a occupare una qualche casella della via che, dall’oscurità della selvatichezza, portava alla luminosa civiltà degli europei. Questa espropriazione dell’Altro da uno specifico contesto spaziale, temporale e culturale e la sua incorporazione entro l’ordine tassonomico e temporale dell’Occidente, ben riassunto dal cronotopo del museo, comportava così una ridefinizione della valenza simbolica dell’Altro nei termini di una visione del mondo e di valori occidentali ascritti di tipo scientifico, estetico, tecnologico e culturale (Pannel 1992, 171).

Anche se Wallace e Forbes a quanto risulta non uccisero per prelevare teste, la loro ossessione per la raccolta di crani e per le misurazioni craniche in vivo li rende simili ai «selvaggi» Mayawo: davanti a un’alterità radicale, entrambi gli attori di questa rappresentazione ottocentesca reagirono mettendo in atto pratiche di incorporazione dell’Altro alquanto simili, almeno dal punto di vista delle logiche simboliche operanti. Se gli europei furono a lungo cacciatori di resti e di altri oggetti nel mondo dei selvaggi, essi individuarono nel museo il luogo privilegiato per la loro incorporazione. Come suggerisce una mostra recentemente inaugurata al Musée d’Ethnographie di Neuchâtel, 32

Le musée cannibale, Neuchâtel, 9 marzo 2002-2 marzo 2003.

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il museo etnografico è a ben vedere un’istituzione «cannibale» per eccellenza (Gonseth, Hainard, Kaehr 2002)32. Nel museo l’alterità venne incorporata e simbolicamente «digerita» secondo criteri espositivi destinati più a rafforzare l’identità del Noi, la sua superiorità gerarchica, storica e culturale, che a far conoscere le altre forme di umanità. Le parole dell’antropologo francese Alban Bensa appaiono al proposito particolarmente pregnanti: «La messa in scena [nei musei] dei popoli colonizzati non è altro in fondo che la fase finale del loro assoggettamento, una danza dello scalpo organizzata da coloro che, spesso senza particolari difficoltà militari, li hanno sottomessi» (2000, 127). Non stupisce allora, come avremo occasione di vedere più avanti, che da qualche tempo a questa parte molte comunità native abbiano cominciato a denunciare l’atteggiamento predatorio dell’Occidente e a esigere dai musei la restituzione di resti umani e oggetti sacri. Attraverso un curioso gioco di specchi, l’accusa infamante di essere «cacciatori di teste» e «cannibali» si sta ritorcendo contro l’Occidente, contro noi, primitivi come direbbe Francesco Remotti (1990). 4.5. Intermezzo americano: storia di Ishi 33 Alfred Kroeber fu una delle figure eminenti dell’antropologia americana nei primi decenni del Novecento. Nel 1901 ottenne un incarico all’Università della California e si stabilì a San Francisco, dove cominciò una lunga attività di ricerca sugli indiani. Le comunità native dello Stato californiano vivevano in quegli anni la fase finale di un orrendo sterminio, cominciato a metà Ottocento, all’epoca della corsa all’oro, e destinato a ridurre la popolazione indigena del 90 per cento. In poco più di cinquant’anni, epidemie, campagne militari, massacri, lavori forzati ed espropriazione di terre da parte dei coloni avevano condotto molti gruppi sull’orlo dell’estinzione. Questo vero e proprio genocidio si rivelò «invisibile» agli occhi di Kroeber. Egli, come osserva acutamente Nancy Scheper-Hughes, «al pari di molti an33 La fonte principale di questo paragrafo è Scheper-Hughes 2001a, un articolo che ha suscitato notevole interesse, innescando sulla rivista «Anthropology Today» un dibattito concernente il tema della restituzione dei resti umani alle comunità native. Cfr. il commento di A.K. Kenny e T. Killion (2002).

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tropologi della sua epoca, si dedicò in primo luogo a quella che venne poi definita un’‘etnografia di salvataggio’ (salvage ethnography) – il tentativo di documentare le culture di popoli indigeni che stavano rapidamente scomparendo» (2001a, 14). Kroeber si proponeva di raccogliere, grazie all’aiuto degli «ultimi» informatori viventi, quanti più dati possibile di ordine linguistico e culturale in modo da sottrarre all’oblio l’esistenza ormai compromessa delle società locali, destinate all’estinzione davanti all’irrompere della società occidentale. Come ebbe a scrivere Margaret Mead negli anni Sessanta a proposito della sua esperienza di ricerca alle Samoa negli anni Venti: Era il periodo in cui sottolineavamo l’importanza assoluta delle monografie sulle società primitive, preziose proprio perché costituivano la documentazione di un ordine che si sarebbe ben presto dissolto per non tornare mai più. Come ritratti ben dipinti dei morti famosi, queste monografie si sarebbero conservate per sempre34.

L’oggetto dell’antropologia di Kroeber non contemplava, come egli stesso riconobbe nei suoi scritti, lo studio delle relazioni tra i bianchi e le popolazioni native. L’antropologia doveva documentare le culture indigene nella loro forma «autentica», precedente alla comparsa degli occidentali. Occorreva cercare di riesumare, attraverso le testimonianze degli informatori residui, un mondo perduto, di cui rimanevano ormai poche e frammentarie vestigia. Nell’agosto del 1911 Kroeber apprese con interesse, insieme al giovane assistente linguista Tom Waterman, la notizia della cattura nei pressi di Oroville di un indiano «selvaggio». Costui era scampato alcuni anni prima a una retata dell’esercito americano che aveva catturato gli altri componenti del suo piccolo gruppo sulle pendici del monte Lassen, chiudendoli poi in una riserva, al riparo dai fucili dei coloni. Stremato e affamato, il «selvaggio» fu rinvenuto nei pressi di un mattatoio. Fu lo stesso Waterman a riconoscere il prigioniero – che lo sceriffo locale aveva pensato bene di chiudere nella cella dei pazzi – come un indiano yahi, locutore della lingua yana che si riteneva ormai estinta. Per l’interesse 34 La citazione è tratta dall’Introduzione a Coming of age in Samoa scritta per l’edizione del 1961 (1968, 13).

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che poteva rappresentare per la comunità scientifica, l’Università della California, su proposta dello stesso Kroeber, «riscosse» il prigioniero che Waterman condusse subito a Berkeley. Descritto come timido, gentile, timoroso soprattutto delle folle35, Ishi – un nome attribuitogli dallo stesso Kroeber e che in lingua yana significava semplicemente «essere umano»36 – si rivelò un ottimo informatore. Tanto Kroeber e Waterman quanto Edward Sapir, un altro illustre esponente dell’antropologia americana, utilizzarono Ishi come fonte inesauribile di informazioni sulla lingua, sui miti, sui racconti, sul modo di vita della sua gente, gli Yahi, ormai quasi sterminati dai colonizzatori occidentali. A Ishi venne destinata come abitazione una stanza proprio all’interno del museo che il Dipartimento di Antropologia inaugurò nell’autunno del 1911. La stanza si trovava vicino a un’ampia collezione di ossa e crani umani, cosa che lo deprimeva alquanto (Scheper-Hughes 2001a, 14). Come scrisse molti anni più tardi Theodora Kroeber, moglie di Alfred: «Ishi li aveva avvertiti che era pericoloso parlare dei morti; ed era pericoloso anche pensarci troppo. Ciascuno aveva il suo mondo – quello dei vivi o quello dei morti – e bisognava lasciarlo dov’era» (1985, 206). A ben vedere, la collocazione di Ishi nel museo corrispondeva tuttavia all’immagine che l’antropologia dell’epoca forniva di lui e del suo popolo: egli era una reliquia o un fossile vivente. Grandi folle accorrevano al museo per contemplare questo «resto» in carne ed ossa di un’umanità in via di scomparsa, inevitabilmente destinata all’estinzione secondo il paradigma evoluzionistico dell’epoca. Oltre al suo lavoro di informatore per gli antropologi, durante il giorno Ishi intratteneva i visitatori mostrando loro il modo in cui si costruiva una punta di freccia o si tendeva un arco. Come in un agghiacciante zoo umano, i visitatori si accalcavano per poterlo vedere, per toccarlo, stringergli la mano e conoscere l’«ultimo india35 A. Kroeber attribuiva questi atteggiamenti al «carattere» di Ishi. Come rileva giustamente N. Scheper-Hughes, sembra piuttosto che ci si trovi dinnanzi ai ben noti sintomi di quella che gli psicologi definiscono PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder; 2001, 16). 36 Come rileva T. Kroeber: «Ishi non rivelò mai il suo personale nome yahi. Fu come se lo avesse consumato sul rogo funebre dell’ultimo dei suoi cari» (1985, 120).

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no selvaggio» d’America. Temendo che la gente lo spaventasse troppo, nel giorno dell’inaugurazione del museo Waterman aveva addirittura pensato di metterlo sotto vetro: «Waterman fece notare tristemente a Kroeber che secondo lui l’unica soluzione possibile era quella di mettere Ishi dietro un vetro durante le ore di visita, in modo che la gente potesse vederlo ma fosse almeno impedita di toccarlo» (ivi, 125). Kroeber optò per una sistemazione in una delle sale piccole dell’esposizione, in modo che poche persone alla volta gli si potessero accostare. Ishi rimase nel museo fino al giorno della sua morte, nel marzo del 1916. Negli ultimi mesi di vita, aveva ripetuto più volte che i morti devono essere bruciati, auspicando implicitamente che questo trattamento venisse riservato anche al suo corpo. In quel periodo Kroeber si trovava a New York: nonostante che, venuto a conoscenza del peggioramento delle condizioni di salute del suo amico-informatore, egli si fosse raccomandato che il suo corpo venisse cremato senza subire mutilazioni, il dottor Saxton Pope praticò un’autopsia invasiva del cadavere nel corso della quale asportò il cervello. Ishi aveva cessato di essere una reliquia vivente, ma i suoi resti si trasformarono in reliquie che la scienza giudicava ancora preziose per i suoi studi. Kroeber si arrabbiò molto per l’accaduto ma, al suo ritorno, decise comunque di affidare il cervello a un collega che lavorava presso il prestigioso Smithsonian Institution mentre le ceneri del corpo furono conservate in un piccolo vaso nero. La vicenda del corpo di Ishi lo turbò alquanto, al punto che ne parlò raramente e non scrisse più nulla su di lui affidando le sue memorie alla moglie che le pubblicò solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1960. La storia di Ishi sarebbe forse caduta nell’oblio se, a metà degli anni Novanta, sulla scia di una legge federale americana che impone la catalogazione dei resti umani e degli oggetti funebri nativi e la loro restituzione alle comunità originarie, un gruppo di attivisti indiani di Oroville non avesse preteso la restituzione del suo cervello e delle sue ceneri. Questi resti sono stati sepolti in un luogo segreto, sulle pendici del monte Lassen, nell’agosto del 2000. 4.6. Etica dei resti La vicenda di Ishi e di Kroeber è significativa da molti punti di vi133

sta. Essa pone in rilievo in maniera particolarmente incisiva e drammatica l’atteggiamento violento e predatorio che ha caratterizzato il rapporto tra l’Occidente e le altre società e a cui la stessa antropologia, almeno in una certa fase della sua storia, non si è sottratta. La paradossale incorporazione di un «selvaggio» vivente in un museo è sintomatica di un rapporto con l’alterità volto non solo ad addomesticarla, a incastonarla in categorie e tipologie controllabili, ma anche a includerla in una gerarchia, in cui gli Altri finiscono per occupare una casella marginale nella cosmologia della società egemone. Non soltanto Ishi, ma tutte le società primitive apparivano agli occhi di gran parte degli antropologi di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento come dei resti di umanità, residui di un percorso di civilizzazione da cui erano rimaste tagliate fuori. Lungi dall’essere percepite come la presentificazione di possibilità alternative al modello sociale occidentale, esse erano letteralmente degli «scarti», avendo imboccato vicoli ciechi e laterali rispetto alla strada maestra del progresso. Nella modernità, di questi mondi non rimanevano altro che «sopravvivenze», quelle sopravvivenze che l’inglese Tylor, antenato totemico dell’antropologia culturale americana, pose non a caso al centro della sua attenzione. Egli, significativamente, utilizzava proprio il termine relics per indicare quei riti, quelle credenze, quelle istituzioni e in generale quegli elementi culturali e sociali tipicamente primitivi, i quali sopravvivevano nel mondo moderno come «residui» o «relitti» di una precedente fase evolutiva. Il vivace dibattito sul coinvolgimento dell’antropologia nei processi coloniali37 e sulla necessità di «decolonizzare» il pensiero antropologico può essere arricchito da una riflessione su quella che ho definito «caccia ai resti», sulle modalità di incorporazione di questi ultimi nei musei e nelle istituzioni scientifiche38. La biografia intellettuale di Kroeber contiene al proposito un altro episodio significativo: a poco più di vent’anni, giovane allievo di Franz Boas, gli venne affidata dal maestro la responsabilità di condurre studi etnografici e linguistici su un piccolo gruppo di Eschi37

Mi limito a rimandare il lettore al classico lavoro di T. Asad (1973). Si veda al proposito l’interessante lavoro di M. O’Hanlon e R.L. Welsch (2000). 38

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mesi che l’esploratore artico Robert Peary, dopo averli fatti prigionieri, aveva portato allo stesso Boas. Quando uno di essi morì di tubercolosi, i suoi compagni furono condotti a piangere su un tumulo di terra la cui forma riproduceva le loro tombe tradizionali ma all’interno della quale, a loro insaputa, era stato collocato un tronco di legno in sostituzione del cadavere. Quest’ultimo era stato inviato nel frattempo a New York, al Bellevue Hospital College of Physicians and Surgeons, per essere sottoposto ad analisi scientifiche (Thomas 2000, 77). In un articolo dal titolo significativo, Headhunters and bodysnatchers (1989), James Urry passa in rassegna l’atteggiamento predatorio che caratterizzò alcuni antropologi oceanisti tra il XIX e il XX secolo. L’esploratore e proto-etnografo russo Nicolai Miklouho-Maclay, per esempio, racconta nei suoi scritti con assoluto distacco emotivo di come, durante un viaggio in Nuova Guinea, alla morte di un suo giovane servitore polinesiano, avesse provveduto a estrarne il cervello. Nonostante la paura di un imminente attacco da parte di gruppi di nativi che avrebbero potuto sospettarlo di essere l’autore di un delitto orrendo, viste le mutilazioni che stava praticando sul cadavere, egli preparò con calma una soluzione a base di alcool per immergervi «la laringe con la lingua e tutti i muscoli. Un pezzo di pelle della fronte e del capo con tanto di capelli entrò così a far parte della mia collezione» (1982, 129 – cit. in Urry 1989, 12). Allo stesso modo, i corpi morti degli «ultimi»39 Tasmaniani William Lanney e Truganini furono oggetto di mutilazioni tremende. Nonostante la sua richiesta di avere una sepoltura onorevole, Lanney fu inumato nel 1869 soltanto dopo che la testa, le mani e i piedi erano stati rimossi per essere studiati. La notte stessa della sepoltura, ciò che rimaneva del cadavere venne prelevato da un altro gruppo di ricercatori decisi ad appropriarsi della preziosa reliquia. Il dottor Stockell, autorevole membro della Royal Society di Tasmania, ricavò dalla pelle di Lanney un contenitore per tabacco mentre altri componenti della stessa società scientifica vantavano il possesso di frammenti dell’orecchio, del 39 Come osserva J.-L. Amselle (2001, 206-207), parlare di «ultimi» Aborigeni tasmaniani significa trascurare la categoria dei meticci e cadere in un pregiudizio razzista per cui l’appartenenza a una società richiederebbe una presunta «purezza» di origini.

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naso e delle mani (Ryan 1981 – cit. in Urry 1989, 12). Non andò meglio alla povera Truganini: dopo la sua morte, avvenuta nel 1876, lo scheletro fu trafugato con la complicità del governo coloniale ed esposto nel museo della Royal Society. Soltanto nel 1976, al termine di una lunga battaglia, i discendenti degli Aborigeni tasmaniani hanno ottenuto la restituzione delle ossa le cui ceneri, dopo essere state cremate, sono state disperse in mare. Se è abbastanza noto che il già citato Boas finanziò una parte della sue ricerche con la vendita di crani predati agli indiani della costa nord-occidentale, è meno risaputo che Alfred C. Haddon, organizzatore della celebre spedizione allo Stretto di Torres, non esitò a profanare tombe e chiese nelle campagne dell’Irlanda per procurarsi materiale umano nell’ambito di un progetto di ricerca sull’etnografia del Regno Unito. Lo stesso Malinowski confessa nel suo diario che durante un viaggio a Sariba (Papua Nuova Guinea meridionale) nel 1914 «ispezionò una casa» e «saccheggiò una tomba» (1967, 48). Non è chiaro se sottrasse o meno resti umani. D’altra parte, nonostante le pressanti richieste dei suoi maestri Haddon e Charles G. Seligman, Malinowski non era molto interessato alle misurazioni craniche e ai teschi. Sul finire degli anni Venti, l’antropologia sociale britannica preferiva ormai la raccolta di «fatti sull’organizzazione sociale alle ossa e alle misurazioni» (Urry 1989, 13). Vi sono società in cui il drammatico ricordo della sottrazione di resti umani è rimasto vivo fino ai nostri giorni. È il caso degli Amungme dell’Irian Jaya studiati da Chris Ballard nel corso degli anni Novanta (2001). A partire dalle schede concernenti cinque crani conservati nel Museo di Storia Naturale di Londra, Ballard ha ricostruito la vicenda che portò alla loro raccolta da parte del naturalista inglese Alexander F.R. Wollaston. Tra il 1912 e il 1913 Wollaston fu a capo di una spedizione nell’allora Nuova Guinea Olandese (oggi Irian Jaya) che si proponeva di realizzare la prima ascensione al monte Carstensz, una cima di oltre 4.700 metri di altitudine. Dal momento che una precedente spedizione aveva incontrato sulle montagne una popolazione di bassa statura, i Tapiro, Haddon si era convinto all’epoca della presenza nell’area di un nuovo tipo di «pigmei» papuani. Al fine di trovare prove a sostegno della sua ipotesi, Haddon invitò Wollaston a procurarsi dei crani sulle montagne dell’entroterra. 136

Quando vennero a conoscenza dell’arrivo di popolazioni bianche mai viste in precedenza, alcune centinaia di Amungme scesero dai loro villaggi in quota verso i campi che Wollaston aveva organizzato molto più in basso, in preparazione all’ascensione. Sebbene non comprendessero una sola parola della lingua dei bianchi, alcuni di loro gli fecero da guida verso l’interno, verso la cima che egli intendeva scalare. La presenza imprevista di un esteso ghiacciaio rese impossibile l’impresa. Sulla via del ritorno il naturalista inglese si imbatté in decine di cadaveri di Amungme morti di stenti nel tentativo di fare ritorno ai loro villaggi che distavano dai campi-base degli alpinisti molti giorni di marcia. Spinti forse a scendere verso la costa da un culto millenaristico che aveva identificato nei bianchi degli «spiriti» venuti dall’aldilà e capaci di riportarli con sé, gli Amungme avevano mal calcolato la necessità di scorte alimentari per un eventuale ritorno: essi avevano invano chiesto cibo agli stranieri, finché stremati avevano tentato di rientrare nei loro villaggi. Come raccontò un anziano a Ballard nel 1997 nel corso di un’intervista, ciò che più sconvolse gli Amungme scesi in seguito verso i bassipiani in cerca dei loro parenti dispersi fu il ritrovamento di cadaveri decapitati. Con tutta probabilità, nonostante non ci siano tracce dell’evento nei suoi diari, fu lo stesso Wollaston, studioso di medicina, a staccare le teste dai corpi. In un passo delle sue memorie egli descrive quattro indigeni morti presso uno dei campi: la loro età e il loro sesso presentano una stretta corrispondenza con quella dei crani conservati nel museo ma, soprattutto, con il luogo che l’anziano informatore amungme indicò a Ballard quale punto di ritrovamento dei cadaveri decapitati. Perché questo silenzio di Wollaston sulla raccolta dei resti? Forse, ipotizza Ballard, per la consapevolezza di un’azione compiuta ai danni e contro la volontà di una popolazione che egli aveva imparato ad apprezzare per la collaborazione e l’amicizia che gli aveva mostrato. Il senso del dovere verso la scienza e verso le pressanti richieste dei colleghi aveva avuto la meglio sul rispetto dei morti e sull’episodio calò un velo di silenzio, squarciato ora dalle testimonianze native. Per gli Amungme l’incontro con i bianchi all’inizio del secolo fu solo il primo di una lunga serie di avvenimenti drammatici culminati negli anni Settanta con ripetuti massacri da parte del governo indonesiano, impegnato a difendere una delle miniere d’oro più ricche del mon137

do dalle rivendicazioni delle popolazioni native. Nell’imporre una strategia del terrore, i militari non esitarono a esporre pubblicamente i cadaveri dei giustiziati per poi farli scomparire, negando la possibilità delle cerimonie del lutto, curiosa eco dei fatti di cui fu responsabile Wollaston. Il percorso tra le reliquie d’Oceania ci ha così condotti dalla dimensione estetica a quella che potremmo definire «etica» dei resti umani. Che si tratti di reliquie cristiane sottratte a comunità rivali o agli «infedeli» (i furta sacra della tradizione medievale), di teste tagliate ai danni dei nemici, di reliquie di antenati rubate alle comunità di origine, di resti umani predati dagli europei alle società native, questi processi di incorporazione dell’alterità implicano spesso violenze e massacri e sono non di rado la conseguenza e la manifestazione di rapporti di dominazione e di sfruttamento. Non si tratta di un fenomeno circoscrivibile soltanto a epoche passate. La passione per la raccolta dei resti umani a scopi scientifici non è affatto venuta meno. Don Johanson, lo scopritore dell’australopiteco «Lucy», racconta di come negli anni Settanta, necessitando di un femore di Homo Sapiens da mettere a confronto con un fossile appena scoperto, non avesse esitato a procurarselo da un vicino cimitero della comunità etiopica degli Afar (Johanson, Edey 1981, 159)! In un saggio dedicato alla stessa area, teatro della scoperta di innumerevoli resti fossili che hanno consentito agli scienziati occidentali di ricostruire la storia evolutiva del genere umano, il paleontologo americano Jon Kalb si chiede se, dopo la tratta degli schiavi, dell’avorio e dei diamanti non sia il caso di ipotizzare una «tratta delle ossa» perpetrata dagli europei ai danni delle popolazioni africane (2001). In quest’ottica non stupisce allora che sia parte integrante degli odierni processi di decolonizzazione la richiesta di restituzione di resti umani e oggetti sacri da parte delle popolazioni native. Negli ultimi dieci anni, in seguito alle pressanti richieste delle comunità locali, numerose università, musei e istituzioni di ricerca americani, australiani e inglesi hanno cominciato a restituire i resti umani alle società da cui furono prelevati, non di rado con pratiche del tutto illecite ed esercitando varie forme di violenza. Negli Stati Uniti, il NAGPRA (Native American Graves Protec40

Cfr. al proposito Mihesuah 2000.

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tion and Repatriation Act), una legge federale del Congresso, impone dal 1990 la restituzione di resti umani e oggetti sacri alle comunità native che ne facciano richiesta40. Il tema della restituzione sta suscitando un vivace dibattito in antropologia e in archeologia (Gareth Jones, Harris 1998). Diviene oggi sempre più chiaro che la scienza occidentale non può più esercitare come in passato una sorta di diritto di prelazione sui resti e sulle opere d’arte più o meno antiche, in nome di un presunto interesse generale. Patrimonio dell’umanità, i resti ispirano allo stesso tempo alle società locali un «religioso» rispetto che si scontra con gli interessi scientifici. La definizione di un’etica dei resti umani si sta insomma imponendo come una preoccupazione centrale per tutte quelle discipline che, a vario titolo, hanno a che fare con ciò che rimane dei corpi. Il dibattito sulla restituzione dei resti fa emergere un’altra dimensione importante del rapporto tra i corpi e la morte: oltre che oggetto di attenzioni estetiche, di finzioni antropopoietiche e di considerazioni etiche, i resti umani sono spesso al centro di complesse politiche di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, addentrandoci più da vicino nel territorio della modernità.

Capitolo quinto

Reliquie della modernità

Questa collezione venne a mano a mano crescendo, con i modi anche meno legittimi, dallo spoglio di vecchi sepolcreti abbandonati […]. Una volta, nelle valli piemontesi, compii uno di questi reati scientifici con la complicità niente meno che di un procuratore del re; e fu una buona fortuna per ambedue se i valligiani presero per un carico di zucche quei vecchi crani che ci gravavano le spalle dentro sacchi sdrusciti […]. Dal coraggioso viaggiatore Lamberto Loria ebbi in dono molti crani della Nuova Guinea, uno dei quali ricco di graffiti doveva servire da bandiera. Cesare Lombroso, Il mio museo

5.1. Anatomia dei resti La riflessione sui resti compiuta in questo libro ci ha finora condotto negli ambienti austeri delle chiese cristiane di origine tardoantica e medievale, nelle capanne cerimoniali delle società native dell’Oceania, nei polverosi musei etnografici di epoca coloniale. Eppure, se l’ostentazione dei resti umani e la promiscuità tra vivi e morti che essa comporta apparvero agli europei quali macabri segni di «primitivismo» storico o etnografico, oggi la prospettiva appare capovolta. Distrutte, predate oppure occultate, le raccolte di teschi e ossa sono quasi completamente scomparse dai contesti locali delle società native; quanto alle reliquie cristiane, esse vennero prima bandite dalle chiese riformate e in seguito «precauzionalmente» sottratte alla vista dei fedeli in molte chiese cattoliche (soprattutto nell’Europa del Nord) per timore che non fossero autentiche; infine, come è emerso nella parte conclusiva del capitolo precedente, sotto la spinta di denunce e pressioni da 140

parte delle comunità locali, molti resti vengono oggi ritirati dalle esposizioni museali per essere restituiti alle società di origine o più semplicemente per essere sepolti in casse chiuse nei depositi. Può avvenire così che l’antropologo interessato ai significati locali di resti del corpo umano sottratti alla dissoluzione e all’oblio, esposti a un pubblico più o meno ampio e soprattutto collocati al centro di importanti pratiche sociali, trovi un campo di ricerca più fecondo in una grande città metropolitana che nel contesto esotico di una remota isola dei Mari del Sud. Il Museo di Antropologia Criminale di Cesare Lombroso occupa oggi due ampi saloni di un elegante edificio che ospita l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Torino, a pochi metri dalle rive del Po. L’ambiente del museo, aperto solo a un pubblico di ricercatori «iniziati»1, è reso oscuro dalla mole massiccia dei mobili che racchiudono, dietro vetrine ottocentesche, oggetti ammassati alla rinfusa, senza un ordine apparente. Fotografie e ritratti di pazzi e criminali si alternano a corpi di reato, coltelli, pugnali, pistole, che furono protagonisti di atti di violenza sanzionati dalla legge. Craniometri e macchine elettromagnetiche testimoniano l’attività scientifica della nascente psichiatria italiana nell’epoca post-unitaria. Su fogli ingialliti dal tempo e su materiali improbabili quali le brocche per l’acqua spiccano disegni e incisioni di delinquenti e malati di mente, racchiusi a vita in carceri e manicomi. Il bisogno di comunicazione dei detenuti, soffocato dalle istituzioni totalitarie ottocentesche, si esprimeva nell’uso creativo di materiali di recupero come terriccio, ossa di pollo, piccoli pezzetti di legno, stracci con cui essi diedero vita a rappresentazioni antropomorfe, scene erotiche, modellini, sculture dalle forme astratte e impenetrabili. L’ultima forca di Torino giace smontata sul pavimento, mentre sulle pareti spiccano collezioni di ferri per prigionieri e una riproduzione in scala del carcere modello di Philadelphia. In questa raccolta caotica di materiale psichiatrico, criminologico e medico-legale che risale per lo più alla seconda metà del 1 Chiuso al pubblico dal 1998, il museo è accessibile solo a studiosi che documentino un interesse scientifico per le collezioni. Sulla storia del Museo Lombroso si veda Colombo 2000.

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XIX secolo e a cui Lombroso si dedicò durante tutta la sua vita professionale, spiccano le numerose tipologie di resti umani. Crani numerati di criminali, pazzi e primitivi sono disposti l’uno accanto all’altro, su ripiani improvvisati2. Decine di contenitori vitrei di forma arrotondata, semplicemente impilati sul pavimento, racchiudono altrettanti cervelli immersi in liquidi giallastri. Oscurate parzialmente da una sottile carta da pacco che le protegge dai danni della luce, ampie porzioni di pelle umana tatuata ritagliate dai cadaveri di prigionieri e soldati morti in battaglia giacciono negli scaffali della prima sala. Una collezione di calchi in cera colorata dalle sembianze quanto mai realistiche, ricavata da volti appena immobilizzati dalla morte e catalogati con gli epiteti di «Ladro», «Omicida», «Uxoricida», «Falsario», occupa un’intera vetrina. Lo scheletro dello stesso Lombroso, in base a una sua precisa volontà testamentaria, è esposto in una delle sale: la pelle del volto scorticato e rimodellato giace immersa in un liquido dentro un’ampolla di vetro, con le palpebre abbassate, la bocca socchiusa e i baffi demodé di un corpo appena divenuto cadavere. Le raccolte traumatologiche e di anatomia patologica, in gran parte successive alla morte di Lombroso3, completano il macabro quadro di questo museo, inaugurato nel 1898 dal celebre studioso che lo concepì come un’esibizione del suo infaticabile impegno per la scienza e per la costruzione di una società civile e razionale, in grado di controllare tutte le forme di devianza sociale. In quello stesso anno 1898, a poche centinaia di metri dall’attuale sede del Museo Lombroso, veniva inaugurata un’altra ricca esposizione di resti umani, tuttora aperta al pubblico. Il Museo di Anatomia Umana dell’ateneo torinese sorge in locali austeri, appositamente costruiti per ospitare questo tipo di collezioni4. L’a2 Come scriveva lo stesso Lombroso nel 1906, in occasione del rinnovamento dell’esposizione per il VI Congresso di Antropologia Criminale: «…larghe vetrine contengono quei 260 crani di criminali in faccia ai quali stanno i crani di razze selvagge, dei vertebrati superiori; ai piedi di questi, su speciali supporti, stanno i crani dei giustiziati di Alessandria, oggetto di lunghi studi agli inizi della mia carriera e di così ardenti e per lungo tempo insoddisfatti desideri» (2000, 326-327). 3 C. Lombroso morì a Torino il 19 ottobre 1909, all’età di 74 anni. 4 Il Museo di Anatomia Umana dell’Università di Torino dedicato a Luigi Rolando si trova in corso M. d’Azeglio 52.

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natomia umana raggiungeva in quegli anni la sua massima importanza nell’insegnamento e nella ricerca e la scuola torinese visse un momento di grande fama nazionale e internazionale. Il preciso ordine dell’esposizione rispecchia gli ideali di una scienza medica positiva che si proponeva di rendere trasparenti i meccanismi di funzionamento del corpo umano. I resti occupano anche in questo caso una parte rilevante della collezione5. Accanto a più antiche curiosità, già tipiche dei settecenteschi Gabinetti di Anatomia, come lo scheletro del «gigante» e quello del «nano», spiccano i preparati anatomici a secco e sotto alcool. Apparati circolatori e digerenti anneriti dal fumo con cui vennero essiccati sono esposti nella loro originale connessione con il cranio dell’individuo a cui appartennero. L’avambraccio di Lorenzo Restellini, medico chirurgo e volontario dell’esercito piemontese nelle guerre risorgimentali, fa bella mostra di sé in un’ampolla colma di alcool. Le collezioni di crani europei ed extraeuropei così come le grandi litografie di «tipi» umani (africani, asiatici, nativi americani) appese alle pareti testimoniano l’interesse nascente per le teorie darwiniane sull’origine dell’uomo: a fine Ottocento nascevano in Italia le prime cattedre di Antropologia. Un gran numero di encefali umani rinsecchiti e conservati secondo il metodo elaborato da Carlo Giacomini – uno dei padri più illustri del museo – sono distribuiti sui vari ripiani di un’ampia vetrina. Lo scheletro, il volto conservato sotto spirito, il cervello e le interiora dello stesso Giacomini occupano uno spazio espositivo a sé: al pari di Lombroso, l’anatomico torinese volle che il suo corpo divenisse alla morte una «reliquia scientifica». Acerrimi rivali in vita, con Giacomini che contestava a Lombroso la sua teoria del rapporto deterministico tra le anomalie morfologiche e il comportamento deviante dell’individuo, i due studiosi rivaleggiano anche da morti comparendo entrambi come i guardiani silenziosi dei loro rispettivi musei. Il corpo umano e le sue parti, reali o riprodotte in ce5 In queste brevi note descrittive circoscrivo il mio interesse ai resti umani, trascurando deliberatamente tutte le altre tipologie di oggetti, come i modelli anatomici in cera che costituiscono una parte molto importante del patrimonio storico-scientifico del museo. Sui modelli anatomici in cera e per una concisa storia del museo stesso si veda Giacobini 1997.

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ra, gesso, legno e cartapesta, dominano la scena di un’esposizione che celebra il trionfo scientifico dell’anatomia moderna. Nonostante l’unità di tempo e la comune humus storico-culturale in cui presero forma, i due musei sono evidentemente molto diversi. Quella di Lombroso può considerarsi come una raccolta sui generis dal carattere fortemente autobiografico, che rispecchia bene la personalità eccentrica e molteplice del suo curatore. Medico, alienista, psichiatra, criminologo, antropologo, ricercatore «militante», convinto sostenitore delle necessarie ricadute sociali dell’attività scientifica, Lombroso fu uno scienziato della devianza e il museo rispecchia fedelmente il suo metodo, in cui i «fatti» e i «dati» raccolti si impongono per la loro autoevidenza. I devianti sono nella sua prospettiva i malati mentali, i delinquenti nati e i responsabili di crimini minori, le prostitute, gli omosessuali ma anche i primitivi, i geni e tutti coloro che si discostano in qualche modo dalla norma. Il loro essere «altri» si deve a una regressione, a quella sindrome che Lombroso definì «atavismo» e che consiste essenzialmente nel porsi fuori dall’esile sentiero che conduce a una società moderna, civile, ordinata, in costante progresso. «Criminalità-pazzia-genialità-prostituzione sono, rispetto al progresso evolutivo, alterazioni regressive analoghe che ripescano forme conservate nel magazzino biologico» (Colombo 2000, 35 – corsivo dell’autore). L’atavismo è inciso nei corpi dei devianti, nella loro morfologia biologica6. Misurando i crani, esaminando le conformazioni encefaliche e le espressioni del volto, Lombroso individua delle anomalie che costituiscono i segni «evidenti» di patologie regressive e socialmente pericolose. Di qui la passione per la raccolta di resti umani di varia natura che documentano, come prove indiziarie di un grandioso processo all’umanità, la colpevolezza del deviante. Di qui l’accostamento tra i resti del pazzo, del criminale e del primitivo, accomunati da una biologia recalcitrante al progresso: «In realtà» – scriveva il suo 6 Lombroso conservava sulla scrivania del suo studio, oggi ricostruito nel museo, il cranio di un ladro calabrese, il Villella, che gli diede l’illuminazione per la sua teoria. Quel cranio presentava una vistosa anomalia nella fossa occipitale mediana che rendeva il cervelletto simile a quello «dei rosicanti, dei lemurini oppure dell’uomo tra il terzo e il quarto mese del concepimento» come egli scrisse in L’uomo delinquente (cit. in Colombo 2000, 86).

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collaboratore Enrico Ferri nel 1891 – «la nostra popolazione criminale si compone di puri selvaggi, di cui i delitti in gran parte non sono altro che sforzi insensati e disperati per agire da selvaggi, in mezzo e alle spese di una società incivilita»7. Alla base di quella che Ferruccio Giacanelli ha giustamente definito un’«antropologia della sofferenza» (2000, 16) vi è, da parte di Lombroso, una costante preoccupazione di incorporare e addomesticare quell’alterità che si incarna in coloro che gli appaiono come una minaccia costante al progresso sociale e civile. Un’incorporazione scientifica, razionale, «positiva», la quale doveva concretizzarsi da un lato nella riorganizzazione delle istituzioni manicomiali e criminali, dall’altro nell’avanzata del colonialismo capace di condurre i selvaggi alla civiltà. Nel museo, questa incorporazione si spinge fino all’appropriazione di resti che quell’alterità rappresentano in modo emblematico per via delle loro deformazioni morfologiche. Scheletri e teschi predati in antichi cimiteri abbandonati si affiancano così a quelli acquisiti da manicomi e carceri e a quelli che Lombroso riceve dalle più disparate regioni del mondo: da viaggiatori ed esploratori come Lamberto Loria8, da solerti funzionari coloniali. Lamentandosi per i costi eccessivi del trasporto dei resti umani dall’Eritrea, egli scriveva: «…e io feci loro notare che, se si gravavano così i trasporti degli scheletri e dei crani eritrei, i quali ne erano ancora il prodotto più accertato e abbondante, quell’unico vantaggio che ci poteva fornire quella triste colonia veniva a cessare» (Lombroso 2000, 327). Come si è osservato in precedenza, molto diverso per struttura e storia è il Museo di Anatomia Umana: in questo caso non si tratta certo di un’istituzione autobiografica, bensì di una collezione formatasi nell’arco di due secoli e che testimonia, attraverso la stratificazione cronologica degli oggetti e dei resti esposti, lo sviluppo storico della scienza anatomica9. Anche in questo caso protagonista indiscusso è il corpo in vetrina, per citare il titolo di un 7

Cit. in Colombo 2000, 34. Scienziato, osservatore, meticoloso raccoglitore, Loria compì un lungo viaggio in Nuova Guinea sul finire dell’Ottocento. Raccolse un importante patrimonio oggettuale oggi in gran parte confluito nelle raccolte del Museo Pigorini di Roma. 9 Sulla storia dell’anatomia si veda l’ottimo Carlino 1994. 8

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interessante articolo di Nélia Dias dedicato a una riflessione antropologica sulle raccolte mediche di alcune istituzioni francesi (1992). Un corpo frammentato che tuttavia deve illustrare i meccanismi con cui opera il corpo vivente. Per usare un ossimoro, potremmo parlare di cadaveri o resti viventi: d’altra parte, come osserva Drew Leder (1990), «la medicina, almeno dai tempi di Cartesio, ha progressivamente considerato il corpo come un ‘cadavere animato’ e l’autopsia quale principale mezzo per raccogliere dati sulla biologia umana» (cit. in Lock 1996, 35). E tuttavia, se Lombroso è tutto proteso alla ricerca delle anomalie morfologiche quali segni di devianza, in questo museo prevale la rappresentazione di un corpo «universale», la cui fisiologia unisce piuttosto che dividere l’umanità. Se si escludono le collezioni craniologiche di fine Ottocento raccolte nell’ambito della teoria evoluzionista, l’esposizione anatomica del museo torinese mostra le costanti funzionali della fisiologia del corpo servendosi, a scopi didattici e divulgativi, di resti o di modelli in materiale plastico. Il museo, un tempo arena iniziatica per futuri medici, aveva uno scopo didattico, e buona parte degli oggetti illustrano il funzionamento e le patologie del corpo vivo. Le fotografie, a differenza del Museo Lombroso, scarseggiano, perché si avverte l’esigenza di un rapporto sensoriale con il corpo, base della pratica medica e chirurgica: un corpo da vedere nella sua tridimensionalità, da toccare, manipolare, odorare; un corpo le cui anomalie morfologiche – ciò che Giacomini contestava a Lombroso – non si configurano necessariamente come patologiche. Pur essendo tra di loro «naturalmente» diversi per morfologia, i corpi presentano caratteristiche universali che hanno reso possibile lo sviluppo di una scienza biomedica che trascende i confini culturali. Analizzati dal punto di vista delle rappresentazioni della morte i due musei appaiono tuttavia per molti versi convergenti. Essi racchiudono intanto un paradosso. Da un lato infatti, molti dei loro oggetti sono letteralmente dei cadaveri, dei resti o loro fedeli riproduzioni (si pensi ai calchi e ai modelli in cera). D’altra parte però la morte – i riti, le credenze, le varie forme di controllo culturale dei processi di decomposizione – è come assente, lontana, rimossa. Una concezione rigidamente materialista del corpo, una sorta di monismo biologico accomuna la prospettiva di Lombroso e quella degli anatomisti ottocenteschi. In quest’ottica, i corpi 146

morti divengono dei semplici scarti o rifiuti che non necessitano di particolari attenzioni culturali, ma si rivelano utili tutt’al più a essere conservati ed esposti per motivi didattici, divulgativi o a sostegno delle proprie convinzioni scientifiche. Gli stessi corpi vivi non «assorbono» storia né cultura, ma seguono semplicemente una parabola biologica. A questo proposito, è significativo che Lombroso ritenesse indicativi di criminalità e primitivismo operazioni antropopoietiche di incisione dei corpi come i tatuaggi: Uno dei caratteri più singolari dell’uomo primitivo od in stato di selvatichezza è la frequenza con cui si sottopone a questa, piuttosto chirurgica che estetica, operazione […]. Anche in Italia si ritrova diffusa […] questa pratica, ma solo nelle infime classi sociali, nei contadini, marinai, operai, pastori, soldati e più ancora tra i delinquenti, di cui essa, per la grande frequenza, costituisce un nuovo e speciale carattere anatomico-legale (2000, 98).

I lunghi e complessi interventi culturali sui corpi morti e sui resti, le tanato-metamòrfosi che ci erano apparse come un prolungamento degli interventi antropopoietici sui corpi vivi sembrano del tutto insensati e irrazionali in questa prospettiva. A differenza di molte reliquie esaminate nei capitoli precedenti, i resti esposti sono in entrambi i musei volutamente anonimi e spersonalizzati. Alle finzioni culturali che molte società costruiscono a partire dai resti, si contrappone qui un accentuato realismo biologico, una corporeità svincolata da ogni intervento culturale. Ne consegue che i cadaveri esposti in questi musei, depersonalizzati, deculturalizzati e privi di storia, appaiono in realtà immobilizzati, come in attesa che un rito, una qualche forma di congedo socialmente organizzata, consenta loro di uscire dalla soglia che separa i vivi dai morti e di cui sono rimasti prigionieri. La morte è come arrestata, imprigionata nei resti, colta nell’attimo in cui attanaglia i corpi. L’«orrore» che queste raccolte inspirano in molti visitatori non iniziati alle scienze mediche nasce forse proprio dall’ostentazione di una morte «nuda», liberata da quelle finzioni culturali attraverso le quali molte società tentano di addomesticarla. «Spogliata della cultura, la morte non trascende più la biologia per fondare il senso del limite della vita umana; almeno per la medicina, viene concepita come puro cedimento biologico, 147

come scarto» (Lock 1996, 35). Solo le «reliquie laiche» dei due antenati fondatori conservano un’identità marcata, introducendo nella raccolta un’ambivalenza di fondo e instillando un dubbio nel paradigma biologico dominante: donando il proprio cadavere alla scienza perché sia esibito a testimonianza di una fede salda nella materialità del corpo, Lombroso e Giacomini sembrano in realtà ricercare un’immortalità simbolica, una «presenza» al di là della morte, in qualità di sacerdoti di un culto di matrice scientifica. I loro volti immersi nell’alcool, tuttavia, più che l’immortalità evocano una morte eterna, prolungata nel tempo. Infine, è ancora il tema dell’etica dei resti a unire i due musei. Generazioni di ergastolani, malati di mente, vagabondi senza identità, stranieri, fornirono a loro insaputa la materia prima per queste macabre esposizioni. La scienza ottocentesca non si limitò a predare corpi e resti in lontane società esotiche, ma mise in atto pratiche di incorporazione anche nei confronti di categorie sociali «altre», che vivevano entro i confini del proprio mondo. Una predazione che, come vedremo nel prossimo paragrafo, continua in forme mutate anche nella società contemporanea. 5.2. La mercificazione del cadavere e delle sue parti Dopo la morte di Lombroso, le sue teorie, che avevano conosciuto momenti di grande notorietà e successo a cavallo dei due secoli, persero ben presto di credito e la lenta decadenza del suo museo che oggi rasenta l’oblio ne fornisce una dimostrazione eloquente. In quanto all’anatomia si può dire che a inizio Novecento essa aveva praticamente esaurito il suo secolare compito scientifico: la figura dell’anatomista lasciò progressivamente spazio a nuove specializzazioni. L’esposizione di resti e modelli del corpo umano perse la sua precedente importanza e i musei di anatomia rimasero ancora per qualche tempo degli spazi didattici per poi divenire semplici depositi di materiale di varia natura. Solo in questi ultimi anni si sta assistendo a una ripresa di interesse per le collezioni mediche, in quanto testimonianze storiche di fasi importanti della scienza moderna. Nel corso del Novecento, seppure in forme mutate, i resti umani hanno tuttavia continuato a imporsi all’attenzione della comunità scientifica al pun148

to da determinare un importante cambiamento nelle rappresentazioni della morte. Le tecniche chirurgiche del trapianto di organi si sono diffuse progressivamente a partire dagli anni Sessanta: in un primo momento i trapianti, limitati al rene, venivano effettuati solo da donatori viventi consanguinei di cui si provvedeva a verificare la compatibilità immunologica. Con il progresso dei farmaci anti-rigetto, che culminò nel 1980 con l’introduzione della ciclosporina, divenne possibile prelevare organi da un numero estremamente esteso di donatori vivi o morti per reimpiantarli su soggetti viventi. L’espianto da cadaveri poneva tuttavia serie difficoltà tecniche in quanto, se organi come le cornee o tessuti come le fasce tendinee possono essere prelevati anche diverse ore dopo la morte, i reni rischiano lesioni da anossia, mentre altri organi come il cuore mantengono la loro funzionalità soltanto se estratti nel momento in cui sono ancora in piena attività. Nel 1967, a Città del Capo, Christian Barnard tentò allora una soluzione alternativa prelevando il cuore pulsante di un paziente in stato di coma irreversibile e trapiantandolo in un cardiopatico gravemente ammalato. L’evento ebbe un’enorme risonanza a livello mondiale. La medicina era ormai in grado di trasformare alcuni corpi morenti da residui biologici destinati alla decomposizione a potenziali e preziosi depositi di parti capaci di continuare la loro vita in corpi di altri esseri umani. Se la nuova tecnica chirurgica prometteva di salvare e prolungare molte vite, essa si trovava però posta davanti a un problema etico-culturale di grande rilevanza: si poteva considerare morto un individuo il cui cuore, seppure artificialmente, continuava a battere nonostante il venire meno delle funzioni cerebrali? Era possibile distinguere in termini razionali, scientifici, indubitabili un morente da un morto, un corpo da un cadavere? In altri termini, era possibile tracciare il confine della soglia che separa il mondo dei vivi dal mondo dei morti, risolvendo così un problema a cui da sempre l’umanità si trova confrontata? Come abbiamo visto nel primo capitolo, la nuova definizione di «morte cerebrale», destinata a essere accolta in gran parte degli Stati del mondo, venne elaborata proprio nel 196810, pochi me10

Cfr. supra, § 1.2.

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si dopo il pionieristico trapianto di Barnard, da un comitato ad hoc della Harvard Medical School. Nell’articolo scaturito dal loro rapporto, i componenti del comitato individuarono nel «coma irreversibile» un nuovo criterio di morte e parlarono di «sindrome da morte cerebrale»11. Una nuova definizione della morte si rendeva necessaria per il fatto che (1) i miglioramenti delle misure di rianimazione e di sostegno vitale hanno portato ad accrescere gli sforzi per salvare coloro che sono stati disperatamente colpiti. Talora questi sforzi hanno un successo solo parziale, cosicché il risultato è un individuo il cui cuore continua a battere, ma il cui cervello è danneggiato in modo irreversibile. L’onere è grande per i pazienti che hanno perso definitivamente l’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali e per coloro che abbisognano di un letto ospedaliero […]; (2) criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto12.

Secondo la proposta del comitato, i pazienti in coma irreversibile non andavano più considerati come morenti ma come morti a tutti gli effetti, nonostante il cuore pulsante. Il fatto che questa nuova definizione della morte biologica, destinata a essere rivista e aggiornata senza tuttavia subire mutamenti sostanziali, sia stata elaborata all’indomani del primo trapianto di cuore e il contenuto stesso della relazione che ne seguì (si pensi soprattutto al punto 2 della citazione riportata più sopra) la connettono strettamente all’imporsi delle tecniche chirurgiche del trapianto di organi prelevati da pazienti tenuti artificialmente in vita nelle sale di rianimazione. Possiamo dunque rintracciare all’origine di questa ridefinizione della morte, così caratteristica della società contemporanea, una «pratica dei resti» che ha investito alcuni cadaveri (per lo più morti di morte violenta) di nuovi significati e di una mutata valenza ontologica. Da scarto biologico utile a dissezioni praticate a 11 La definizione di morte cerebrale venne in seguito rivista e aggiornata più volte. Particolarmente importante fu l’elaborazione dell’Uniform declaration of death act da parte di una commissione presidenziale americana nel 1981. 12 Ad hoc Committee of the Harvard Medical School 1968, A definition of irreversible coma, in «Journal of the American Medical Association», vol. 205, pp. 337-340.

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scopo didattico e scientifico, il cadavere è divenuto per la medicina una potenziale fonte di vita e rinnovato benessere per altri esseri umani. Dopo il cuore e i reni, anche la pelle e vari tipi di tessuti, le ossa, le cornee, le valvole cardiache cominciarono infatti a essere espiantati da individui cerebralmente morti per essere impiantati in corpi estranei viventi13. Oltre alla nuova definizione di morte, alla base della chirurgia dei trapianti si collocano alcune peculiari pratiche tanatologiche. In primo luogo, la frammentazione del cadavere, che secoli di indagini anatomiche hanno reso familiare ai cultori delle scienze mediche e che presenta tuttavia risvolti inquietanti per i profani. D’altra parte, come è emerso dalle pagine di questo libro, dagli scheletri dei santi cristiani alle reliquie degli antenati polinesiani, la frammentazione del cadavere o dei suoi resti ha un’ampia diffusione storica ed etnografica. In secondo luogo, l’incorporazione di una parte del cadavere in un corpo altro, una pratica piuttosto rara, la quale trova un precedente importante soltanto nel contesto del cannibalismo funebre. La novità assoluta della chirurgia dei trapianti sta tuttavia nel fatto che gli organi prelevati continuano a vivere in un altro organismo, mentre il cadavere da cui sono stati smembrati va incontro a una qualche forma culturalmente controllata di decomposizione. È il carattere vivente di queste particolari reliquie, avidamente ricercate, comprate e come vedremo non di rado trafugate che le pone alla base di «forme post-moderne di sacrificio umano», secondo l’efficace formula di Nancy Scheper-Hughes (2001b, 5). Rinnovando l’antica logica del sacrificio, queste reliquie fanno sì che la vita scaturisca dalla morte: il sangue versato da vittime spesso ricche di forza vitale dona mana («benessere») alla comunità dei viventi. La cattiva morte che colpisce giovani vite umane (incidenti stradali, morti violente o sul lavoro) viene trasformata attraverso il «dono» degli organi in una morte buona o quantomeno utile alla società. Se si tiene conto della particolare definizione di morte quale cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali e delle pratiche 13 Anche il trasferimento di sostanze come il sangue e lo sperma e di organi «doppi» come i reni potrebbe rientrare in un’analisi sulle attuali pratiche biomediche dei resti. Limito qui la mia attenzione al prelievo di organi e tessuti da cadaveri.

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tanatologiche (frammentazione del cadavere, incorporazione di resti) che ne sono alla base, non stupisce che tanto all’interno del mondo occidentale quanto altrove la chirurgia dei trapianti abbia sollevato dubbi, incertezze, opposizioni e anche atteggiamenti di decisa repulsione14. Come osserva Margaret Lock in un articolo che pone a confronto il Nord America con il Giappone, nonostante l’economia capitalistica e il forte sviluppo tecnologico del paese asiatico, la definizione di morte cerebrale non vi è stata riconosciuta15 e la pratica dei trapianti ha suscitato prese di posizione decisamente critiche (1996). A titolo di esempio, mentre nel 1990 in America venivano eseguiti 2.000 trapianti di cuore, in Giappone non ebbe luogo nessun intervento del genere. Per la maggior parte dei Giapponesi, compresi esponenti di spicco della comunità medico-scientifica, la definizione di morte cerebrale è «innaturale» in quanto riduce la morte da processo socialmente definito a evento biologico. Opponendosi a un Occidente «freddo» e «razionale»16, la comunità nipponica pone l’accento sugli inevitabili risvolti sociali della morte, irriducibile a una definizione puramente biologica. Le persone intervistate dall’antropologa americana sostenevano che, soprattutto nelle prime ore dopo la morte, il corpo del defunto va preservato nella sua integrità e ciò è reso impossibile dalle subitanee esigenze di espianto degli organi. Infine, poiché all’interno della cultura giapponese la formalità del dono è tuttora centrale nei rapporti di reciprocità, «per molti l’idea di ricevere un organo anonimamente donato sarebbe difficile da accettare senza un enorme senso di colpa» (Lock 1996, 49). 14 La stessa definizione di morte cerebrale è all’origine di un ampio dibattito che coinvolge medici, filosofi e bioetici, la cui ricostruzione va al di là degli scopi di questo libro. 15 La definizione di morte cerebrale è stata accolta in Giappone più di recente, con molta riluttanza. Il trapianto di cuore è però anche oggi molto raro e la maggior parte dei trapianti di reni è dovuto a donatori viventi e consanguinei. Cfr. Kazumasa 1998. 16 Nell’interpretazione di M. Lock (1996; 2001), l’opposizione giapponese ai trapianti riflette più che le credenze della cultura tradizionale l’esigenza di una contrapposizione identitaria a un mondo, l’Occidente, di cui il Giappone ha adottato lo stile di vita ma da cui intende continuare a differenziarsi. Le rappresentazioni della morte fornirebbero in quest’ottica un importante strumento di costruzione identitaria.

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A partire da un’analisi ampiamente transculturale e transnazionale dei risvolti medici, sociali ed etici dei trapianti, alcuni antropologi hanno recentemente sviluppato un approccio decisamente critico nei confronti della diffusione di questa pratica, del traffico di organi e della mercificazione del corpo umano e delle sue parti a cui le tecnologie biomediche hanno dato luogo17. Un lavoro particolarmente interessante al proposito è quello di Nancy Scheper-Hughes, Il traffico di organi nel mercato globale (2001c). L’autrice fa parte di un’associazione che ha sede in Italia, la Bellagio Task Force on Organ Transplantation, Bodily Integrity, and the International Traffic in Organs, che si propone di esaminare «gli effetti etici, sociali e medici della commercializzazione di organi umani e le accuse di abusi dei diritti umani nella raccolta e distribuzione di organi» (ivi, 9). Lo scopo dell’associazione non è quello di mettere radicalmente in discussione una tecnica che a volte consente di migliorare la qualità della vita di pazienti gravemente ammalati, ma di porre in luce come l’ideologia del «dono», del «sacrificio», della «scelta altruistica» che sta alla base del prelievo di organi per i trapianti abbia finito per occultare il fatto che spesso si utilizzano mezzi eticamente discutibili, se non proprio illegali, per ottenere questi resti tanto preziosi e desiderati. La ricerca medica e sociale si è fino ad oggi concentrata quasi esclusivamente sui «recettori», dimenticando le tragiche storie vissute dai «datori» di organi. Attraverso un’innovativa forma di ricerca sul campo multilocalizzata e condotta in cliniche di trapianti e centri di dialisi, laboratori di ricerca, banche degli occhi, obitori, stazioni di polizia, tribunali di Stati Uniti, Brasile, Sudafrica, India, Cina, Israele e così via, gli antropologi che partecipano al progetto hanno scoperto l’esistenza di abusi di ogni sorta e, in alcuni casi, di una vera e propria «tratta degli organi» attraverso i canali occulti di un fiorente mercato nero. Gli esempi non mancano. Come hanno segnalato i rapporti di numerose organizzazioni internazionali quale Human Rights Watch, lo Stato cinese è accusato di espiantare sistematicamente reni, cornee, tessuti epatici e valvole cardiache da prigionieri giu17 Cfr. in particolare Sharp 2000 e il numero monografico della rivista «Body and Society» (2001) dedicato a Bodies for sale.

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stiziati (ivi, 26-36). Fino al 1995, le vittime di esecuzioni capitali furono circa 2.000 all’anno e in seguito il numero crebbe di molto per l’ampliamento dei crimini passibili di pena di morte, un provvedimento che, secondo le accuse, sarebbe dovuto proprio alla volontà di incrementare i fondi ottenuti dalla vendita di organi ai paesi occidentali. Nel Sudafrica dell’apartheid i chirurghi trapiantisti non erano tenuti a chiedere il consenso dei familiari prima di espiantare organi e tessuti dai cadaveri (ivi, 62-74). Per lo più i resti venivano prelevati da corpi di giovani neri o meticci deceduti a seguito di morti improvvise o malattie dovute alle precarie condizioni della loro esistenza e trapiantati nei corpi di bianchi vecchi, debilitati e ricchi. Fino agli anni Novanta, circa l’85 per cento di tutti i trapiantati di cuore al celebre Groote Schuur Hospital di Città del Capo erano maschi bianchi. Durante le dittature militari degli anni Settanta e Ottanta in Brasile, Argentina e Cile i corpi di intellettuali, ebrei, leader sindacali e altri dissidenti, oltre a essere torturati, vennero utilizzati come depositi di organi con cui soddisfare le esigenze degli appartenenti all’élite militare (ivi, 74-89). In molti Stati le liste d’attesa per i trapianti sono gestite in maniera per nulla trasparente, e spesso facoltosi ammalati stranieri ottengono trattamenti di favore in cambio di consistenti cifre di denaro, mentre le minoranze povere ed emarginate sono praticamente escluse dalla categoria dei «recettori». La possibilità di ottenere un rene da donatore vivente ha dato vita, soprattutto in India, a un fiorente mercato di organi (legale fino al 1994), ceduti soprattutto da donne e uomini oberati dai debiti o dall’impossibilità di provvedere diversamente alle esigenze della famiglia a ricchi clienti dell’Occidente o dei paesi del Golfo (ivi, 23-26). «In generale» – osserva Scheper-Hughes – «il flusso degli organi segue le moderne rotte del capitale: dal Sud al Nord, dal Terzo al Primo Mondo, dai poveri ai ricchi, dalla gente di colore ai bianchi, dalle femmine ai maschi» (ivi, 17). Un po’ come nella tradizione delle ossa dei santi nel Medioevo e dei crani delle popolazioni dell’Oceania nel XIX secolo, queste reliquie moderne sono oggetto di traffici, acquisti, baratti e di veri e propri furti. Alla base di questa nuova attenzione verso i resti non vi è tuttavia la credenza nel potere della praesentia del santo o un interesse di tipo scientifico e museale ma, come direbbe Ivan Illich (1992), una 154

«feticizzazione» della vita che rende indispensabili alla sopravvivenza di corpi spesso anziani e debilitati, e destinati comunque a una morte prossima, corpi altrui e soprattutto loro parti, investite dello statuto di merci. Ancora una volta, il mondo ricco, che sarebbe ormai riduttivo identificare soltanto con l’Occidente, si rende responsabile di atti di predazione nei confronti di altre società, praticando una nuova forma di incorporazione dei resti. Non stupisce allora che in molti contesti economicamente disagiati, dalle baraccopoli del Brasile alle periferie del Sudafrica ai sobborghi delle metropoli indiane, si siano diffuse «leggende» su furti di corpi, rapimenti di bambini, sottrazione di organi a pazienti ignari ricoverati in ospedale (Sheper-Hughes 1996)18. Se non sempre questi racconti riflettono eventi realmente accaduti, essi testimoniano però le paure di popolazioni povere oppresse da regimi dittatoriali o costrette in situazioni di disagio per le quali la mercificazione del corpo (nelle varie forme che essa può assumere, dalla prostituzione alla vendita di organi «doppi») appare come l’unica via di sopravvivenza. Queste popolazioni, attraverso dicerie e leggende metropolitane, sollevano verso le società egemoni e le loro tecnologie sofisticate un’accusa di «neocannibalismo» (Scheper-Hughes 2001c, 39) che appare, sotto molti punti di vista, tutt’altro che infondata. 5.3. La vita politica dei resti Le argomentazioni sviluppate nel paragrafo precedente permettono di osservare che se la scienza moderna e in particolare l’anatomia sembravano aver ridotto i cadaveri, e soprattutto i resti dei loro processi di decomposizione, a scarti o rifiuti che solo credenze e superstizioni rivestono di una qualche importanza simbolica o affettiva, l’irrompere delle tecnologie dei trapianti ha mutato in maniera consistente questa visione. Pur nell’ambito di un persistente riduzionismo biologico, la chirurgia dei trapianti e le biotecnologie hanno riportato l’attenzione su alcuni cadaveri e su alcune loro parti e si sono incaricate di trasportare il loro carico di vita residua in altri corpi viventi. Mediante una rinnovata for18

Si veda al proposito Bonato 1998.

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ma di «sacrificio», alcune categorie di resti tornano oggi a essere depositarie di mana, di una forza vitale capace di riportare benessere in alcuni individui appartenenti alla comunità e, a volte, ad essa estranei: una forma di incorporazione dell’alterità che, al pari dei casi cristiani e oceaniani esaminati nei capitoli precedenti, ha dato luogo a traffici e furti di resti e ad accuse di violenze, omicidi e atti di cannibalismo. Al di là del settore medico, ci sono altri ambiti in cui i resti assumono tuttora un’importanza che va oltre il loro statuto biologico di scarti: uno di questi ha a che fare con la dimensione politica dei corpi morti. Nella tradizione degli studi antropologici, la connessione tra la morte, i resti e la politica è stata analizzata soprattutto in relazione al destino del corpo di leader, capi, sovrani e specialisti rituali. Un contributo importante al proposito ci è fornito dall’opera più volte citata di Huntington e Metcalf e in particolare dalla terza sezione di Celebrazioni della morte, intitolata significativamente «Il cadavere reale e il corpo politico» (1985, 193-264). Ponendo l’accento sui «riti funebri dei grandi uomini di società di piccole e grandi dimensioni» (ivi, 195), gli autori individuano due ambiti tematici principali. In primo luogo, spesso avviene che i resti dei sovrani mantengono una sacralità e un’importanza tali da essere trasformati in vere e proprie reliquie politiche. «In quasi tutti i casi si riscontra che i resti del re19 morto hanno una grande importanza simbolica e quindi politica. Anche nei sistemi burocratici moderni i funerali dei capi di Stato sono spesso degli eventi grandiosi e altamente politicizzati e i loro cadaveri sono oggetto di culto nazionale» (ivi, 195-196). Quei corpi che, in vita, furono investiti di profondi significati politici, possono conservare nei loro resti una carica sacrale che contribuisce a garantire la perennità delle istituzioni a fronte dell’inevitabile mortalità dei loro leader. I casi etnografici emblematici al proposito sono molto numerosi. Nei riti funebri dei sovrani thailandesi descritti da H.G.A. Wales (1931), il cadavere del re, dopo una sontuosa toilette, veniva posto in posizione rannicchiata dentro un’urna d’oro, che era 19 Il termine «re» viene qui utilizzato in maniera generica per riferirsi a forme di leadership alquanto diversificate. Cfr. Huntington, Metcalf 1985, 195.

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conservata per cento giorni su un catafalco nel palazzo reale. Trascorso questo periodo, le ossa venivano recuperate, lavate, profumate e poste in un contenitore di legno di sandalo che a sua volta veniva deposto sulla pira funebre. Il mattino successivo, il nuovo re, assieme ai membri della famiglia reale, cerca tra le ceneri i frammenti di ossa e alcuni di essi vengono dati ai figli del monarca morto affinché li indossino incastonati in medaglioni d’oro. Le rimanenti reliquie vengono messe in un contenitore d’oro e trasportate al palazzo dove saranno al centro di un culto reale (Huntington, Metcalf 1985, 200).

Questi lunghi e complessi riti funebri contribuivano a rafforzare la centralizzazione del regno e fornivano un indispensabile supporto all’insediamento del nuovo sovrano che, presenziando alla cerimonia, legittimava il proprio diritto di successione. Le tanato-metamòrfosi del cadavere erano al centro del rito e ne ritmavano l’azione: «Il trattamento secondario del cadavere consentiva di ottenere le reliquie reali, che a loro volta rafforzavano le tendenze centripete del regno: una volta conservate nel palazzo, esse formavano una sorta di riserva carismatica che era l’essenza degli antichi re» (ivi, 203 – corsivo mio). Il secondo ambito di analisi individuato da Huntington e Metcalf concerne il rapporto problematico che lega le esigenze di continuità del sistema politico e la decadenza fisica del corpo del sovrano che lo rappresenta. In quelle società in cui si ritiene che il re rappresenti nella sua persona la collettività dei cittadini e garantisca il benessere, la vitalità, la coesione sociale, che cosa succede quando il suo corpo, un «simbolo naturale» (ivi, 232) della società, decade, invecchia, muore e si decompone? Che cosa avviene in quel periodo di soglia che separa l’ora della morte dal momento in cui i resti del cadavere ormai stabilizzati divengono (eventualmente) reliquie politiche? Come ha posto in luce Remotti, il presupposto che sta alla base dell’interpretazione di Huntington e Metcalf è che «il nesso simbolico corpo del sovrano/Stato è – e non può che essere – di segno positivo: il corpo è simbolo solo in quanto è in salute, perché la sua funzione è quella di rappresentare (e garantire) la salute dello Stato» (1993, 91 – corsivo dell’autore). In quest’ottica, l’invecchiamento, la malat157

tia, la morte e la decomposizione si presentano come una minaccia radicale alle istituzioni politiche. Per questo gli Shilluk del Sudan uccidevano il re (fisicamente secondo Frazer, simbolicamente secondo Evans-Pritchard20) appena manifestava segni di debolezza. E per la stessa ragione, sostengono Huntington e Metcalf, i giuristi e i filosofi inglesi del Rinascimento elaborarono la celebre teoria dei «due corpi del re» (Kantorowicz 1957): il «corpo naturale», destinato a deperire e disgregarsi, e il «corpo politico» destinato invece a permanere. Anche nell’Inghilterra rinascimentale, infatti, al simbolo dell’istituzione politica non si permetteva di decomporsi: alla morte del re, un’effigie di cera – nuovo simbolo dell’imperituro corpo politico – prendeva il posto del cadavere nelle cerimonie funebri, mentre il corpo biologico del sovrano, sottratto alla vista, dimorava nascosto nella bara. Se, come si è osservato più volte in questo libro, il controllo della decomposizione è un problema di fondo di ogni società, esso assume una rilevanza particolare nel caso di individui investiti di consistenti valori simbolici e politici. In questi casi, le pratiche tanatologiche mirano con particolare insistenza a «evitare» o «occultare» la decomposizione del simbolo21. Il re può essere anticipatamente soppresso; in alternativa il suo cadavere può venire accuratamente conservato almeno fino al momento della successione (si pensi alle diffuse pratiche di mummificazione); o ancora, il corpo biologico, nascosto alla vista, può essere efficacemente sostituito da un’effigie. Nell’interpretazione di Remotti l’idea, fatta propria da Huntington e Metcalf, secondo cui il corpo del sovrano si presta a essere un simbolo della perennità dello Stato soltanto fino a quando la decadenza e la morte lo assalgono risente in realtà di una concezione tipicamente occidentale dello Stato stesso. Alcuni esempi etnografici africani mostrano invece che anche la deca20 Nella Frazer Memorial Lecture del 1948, E.E. Evans-Pritchard propose un’interpretazione del regicidio rituale quale problema della struttura sociale shilluk piuttosto che della religione e della magia, come aveva viceversa sostenuto J.G. Frazer. La mancanza di prove convincenti lo indusse inoltre a ipotizzare che l’esecuzione cerimoniale del re fosse una finzione più che un evento reale. Cfr. Frazer 1922; Evans-Pritchard 1948. 21 Cfr. supra, § 2.2.

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denza e la decomposizione del corpo del sovrano possono divenire simbolicamente significativi delle crisi, delle tensioni, delle trasformazioni a cui, inevitabilmente, anche le istituzioni politiche vanno incontro. Nell’antico regno del Nkore, alla morte del sovrano (mugabe) la vita politica e sociale veniva come sospesa (Remotti 1993, 89 e segg.). La capitale era distrutta e costruita altrove, i fuochi del recinto reale venivano spenti; si interrompeva l’attività lavorativa: a uomini e donne si proibiva persino di unirsi sessualmente. Il cadavere del re, trasportato lontano dalla capitale, veniva deposto su una specie di letto di legno dove subiva l’inesorabile decomposizione. I liquidi che ne fuoriuscivano venivano raccolti in un recipiente e mescolati con latte. Tra i vermi che si formavano, il più grande veniva identificato con il nuovo sovrano: esso veniva trasportato nella foresta e si riteneva che qui si trasformasse a sua volta in leone. In effetti, la cattura di un piccolo leoncino preannunciava la «rinascita del mugabe» (ivi, 94-95). In riferimento all’antico regno del Nkore, il trattamento del cadavere del re e i complessi rituali che ne circondavano le trasformazioni mostrano che il corpo del leader può essere simbolicamente significativo anche al momento della morte (nonché successivamente). In questo caso, l’esibizione della decomposizione rappresenta i mutamenti a cui va incontro lo stesso soggetto politico: la crisi delle istituzioni, la sospensione temporanea della vita politica e sociale, la successiva rinascita del potere. Alle tanato-metamòrfosi del corpo del re corrispondono qui significative trasformazioni nel corpo politico. Come mostrano due interessanti monografie che lo storico Sergio Luzzatto ha di recente dedicato al destino dei cadaveri di Giuseppe Mazzini (2001) e Benito Mussolini (1998)22, l’importanza politica dei corpi, dei cadaveri e dei resti non riguarda soltanto le società di cui l’antropologia si è classicamente interessata o le monarchie europee di epoca rinascimentale. Alla morte del teorico repubblicano e padre nobile del Risorgimento, avvenuta a Pisa l’11 marzo 1872, il suo cadavere venne mummificato. La salma, deposta in una bara con sportello di cristallo che consentiva la vista del suo profilo, prima di arrivare alla destinazione finale di 22

Cfr. anche Isnenghi 1990.

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Genova compì un lungo tragitto ritmato da numerose soste che attrassero grandi folle, una forma moderna di viaggio delle reliquie di antica tradizione cristiana. Nel primo anniversario dalla morte, il 10 marzo 1873, al cimitero genovese di Staglieno giunsero oltre 30.000 persone per un pellegrinaggio laico alle reliquie politiche del cospiratore repubblicano. Anche a causa della non perfetta riuscita della mummificazione, il pellegrinaggio andò scemando negli anni successivi ma il cadavere di Mazzini tornò a far parlare di sé nel giugno del 1946 quando, all’indomani del referendum che sancì la nascita della Repubblica italiana, la salma fu riesumata e tornò per un giorno ad attrarre il popolo laico dei suoi devoti, in una sorta di atto di beatificazione dell’illustre antenato repubblicano (Luzzatto 2001). Ben diverso fu, come è noto, il destino del cadavere di Mussolini. Se il leader fascista aveva consapevolmente trasformato in vita il proprio corpo nell’icona dello Stato totalitario, il suo cadavere appeso per i piedi, insieme a quelli di Claretta Petacci e di alcuni gerarchi, all’impalcatura di un distributore di benzina in piazzale Loreto a Milano segnò la drammatica conclusione del suo regime. «Quel giorno», scrive Luzzatto (1998, 10), «gli antifascisti hanno affidato al cadavere di Mussolini il compito – propriamente tragico – di svolgere un discorso sulla polis». Il 29 aprile 1945 il cadavere orribilmente mutilato di Mussolini che già presentava i primi segni di decomposizione segnò, secondo alcuni storici, la data di nascita rituale del nuovo Stato italiano. Anch’esso, per altro, non concluse la propria vita sociale con la prima inumazione. Dopo la trafugazione della salma da parte di nostalgici fascisti e il suo ritrovamento nell’estate del 1946, la nuova Repubblica occultò il cadavere fino al 1957. Solo allora esso venne consegnato alla famiglia che lo tumulò nella cripta del cimitero di San Cassiano di Predappio: la forza emotiva ed evocativa di quei resti era tale che per ben undici anni essi rimasero «ostaggio» dello Stato. La vicenda dei cadaveri di Mazzini e Mussolini e la loro evidente importanza simbolica nella storia italiana appaiono alquanto significative per una riflessione sulla vita politica dei resti. Secondo l’interpretazione di Luzzatto, la mummificazione del politico risorgimentale da parte dei suoi amici repubblicani fu intesa come uno strumento di lotta contro il potere monarchico e la 160

Chiesa cattolica23. Il viaggio delle reliquie nell’Italia nord-occidentale si proponeva infatti di sedimentare il consenso e di aggregare le diverse anime del partito repubblicano, attraverso l’ostentazione di un corpo rimasto intatto, nonostante la morte. Attorno alle reliquie del leader poteva prendere corpo una sorta di religione civile laica che avrebbe consolidato il profilo di Mazzini, la Mummia della Repubblica, quale simbolo di un’istituzione politica in via di costruzione. L’arresto dei processi di decomposizione e la riserva carismatica delle sue reliquie dovevano esprimere la persistenza delle idee repubblicane oltre la morte del leader. Anche nella vicenda di piazzale Loreto il cadavere di Mussolini continuò a funzionare come simbolo: le mutilazioni, la posizione anomala a testa in giù, l’imminente putrefazione esprimevano tuttavia la crisi inesorabile del regime fascista, la volontà di un mutamento storico radicale e, insieme, prefiguravano la trasformazione del suo corpo da icona a scarto biologico. A quei resti venne infatti negata, almeno fino al 1957, la possibilità di trasformarsi in pericolose reliquie politiche. Una riflessione particolarmente brillante e innovativa sulla vita politica dei corpi morti è stata svolta da Katherine Verdery in una breve ma approfondita monografia (1999). L’argomento principale del saggio concerne l’importante ruolo svolto nel corso degli anni Novanta dai resti di politici, intellettuali, personaggi storici, ma anche individui noti solo localmente o del tutto anonimi, nelle politiche degli Stati post-socialisti dell’Europa orientale. All’indomani della caduta dei regimi comunisti, un incessante e persistente flusso di ossa ha attraversato l’Europa dell’Est. Cadaveri di personalità di spicco del mondo della politica e della cultura, mandati in esilio o sfuggiti alle persecuzioni, furono rimpatriati nei loro paesi d’origine24; altri corpi, sepolti frettolosamente in 23 Si veda anche la recensione di M. Belpoliti al libro di Luzzatto: Il potere della mummia, in «La Stampa», 1° maggio 2001, p. 23. 24 Tra i numerosi esempi riportati, particolarmente interessante e approfondito è il rimpatrio delle ossa del vescovo Innocenzo Micu, un sacerdote vissuto nel XVIII secolo e il cui cadavere venne riportato da Roma in Romania nell’agosto del 1997 (Verdery 1999, 55-93). Con la caduta dei regimi comunisti, il problema della ridefinizione delle identità religiose si è posto con particolare intensità e un ruolo importante al proposito è stato svolto dal recupero dei resti di personalità di spicco della tradizione cristiana.

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fosse comuni o in tombe anonime e nascoste, ricevettero nuova e più degna sepoltura25. I cadaveri imbalsamati di Lenin e Stalin, per citare i due nomi più celebri, dovettero al contrario abbandonare i mausolei in cui erano stati deposti e dove milioni di persone si erano recate in precedenza per rendere loro omaggio. Altri cadaveri intrapresero lunghi viaggi attraverso nuovi territori nazionali in costruzione, attirando decine di migliaia di persone in ogni luogo di sosta: nel 1987, due anni prima del solenne anniversario della battaglia del Kosovo (1389) nella quale i Serbi furono sconfitti dai Turchi, le presunte ossa del principe Lazar – che perse la vita in quell’occasione – furono portate in processione attraverso il territorio di quella che sarebbe dovuta divenire nuovamente la «Grande Serbia», accompagnate dallo slogan: «La patria serba è là dove ci sono le ossa dei Serbi» (ivi, 18). Lazar, attraverso la presenza delle sue ossa, veniva presentato come l’eroe della nuova nazione. In area tedesca, le reliquie di Federico il Grande, trasportate in Germania occidentale dagli alleati alla fine della seconda guerra mondiale, furono cerimonialmente riportate a Sans Souci (ex Germania dell’Est), per sancire la ritrovata unità del popolo tedesco. Queste tanato-politiche dei corpi, che colpiscono per la frequenza e per l’importanza assunta nel frangente storico considerato, appaiono in effetti a Verdery come uno dei tratti più caratterizzanti dell’epoca post-socialista o post-comunista. Perché mai all’indomani del 1989 le società dell’Europa orientale affidarono proprio a una rinnovata «vitalità» di ossa e cadaveri più o meno celebri (ma anche anonimi) un ruolo così delicato nelle politiche identitarie? Che cosa trasforma i resti umani in simboli politici così efficaci? Trascurando l’approfondita analisi del contesto storico in cui si muove il saggio di Verdery, mi limiterò a riportare le sue puntuali osservazioni concernenti l’«efficacia simbolica» dei corpi morti. Esse ci saranno utili anche per una ricapitolazione di 25 È il caso di Imre Nagy, primo ministro ungherese nel 1956. Per i suoi tentativi di riforma, egli venne condannato e impiccato nel 1958. Il suo cadavere fu sepolto a faccia in giù, nella nuda terra e senza una lapide. Il 16 giugno 1989, oltre 250.000 ungheresi parteciparono alla solenne (ri)sepoltura dei resti di quello che venne considerato un martire del regime e un nuovo eroe nazionale (Verdery 1999, 29-31).

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alcune riflessioni compiute nei capitoli precedenti. In primo luogo, è la materialità dei resti a fare di essi simboli politicamente efficaci: come mostra il tema della praesentia, già emerso nello studio delle reliquie cristiane, «i corpi hanno il vantaggio della concretezza che nondimeno trascende il tempo, rendendo il passato immediatamente presente» (ivi, 27). In secondo luogo, i resti sono simboli «ambigui, multivocali, polisemici» (ivi, 28). Anche se essi hanno un singolo nome di riferimento e appartennero a una singola persona, la complessità delle biografie di coloro che li rivestirono con la propria carne è tale che si presta a scelte interpretative alquanto variegate. I resti umani sono oggetti concreti e tuttavia proteiformi perché non hanno un singolo significato ma sono aperti a letture differenti. Dal momento che i cadaveri evocano la vita vissuta di complessi esseri umani, possono essere valutati da differenti angolature: ad essi si possono assegnare virtù, vizi e intenzioni contraddittorie (ibid.).

L’ambivalenza dei corpi morti che più volte abbiamo sottolineato diviene una caratteristica essenziale in un contesto politico: «Questo, mi sembra, è il segno di un buon simbolo politico: esso ha effetti legittimanti non perché ognuno concorda sul suo significato ma in quanto attrae l’interesse nonostante (o a causa di?) i divergenti punti di vista su ciò che esso significa» (ivi, 31 – corsivo dell’autrice). Il terzo motivo che spiega l’efficacia simbolica dei resti risiede nel fatto che essi evocano incertezze, timori, paure su questioni di rilevanza «cosmologica». In quanto segni tangibili di morte e oggetti di soglia, essi costringono gli esseri umani a riflettere sul rapporto tra i morti, i vivi e coloro che verranno in seguito – tre categorie antropologiche che secondo Verdery sono parte integrante di ogni società –, sui valori di fondo che stanno alla base della propria forma di umanità. In un’epoca storica come quella post-socialista, che ha visto un profondo sconvolgimento dell’immagine del mondo per le società che l’hanno vissuta, i resti si sono rivelati dei simboli buoni da pensare, utili a «riordinare mondi di significato» (ivi, 33) sconvolti da cambiamenti profondi. Ecco perché il recupero o il rifiuto di alcuni cadaveri non furono semplicemente opera di leader in cerca di legittimazione ma coinvolsero in163

teri villaggi e territori che, andando alla ricerca dei «propri» morti, mirarono a costruire nuove identità etniche e culturali. Presento la politica dei cadaveri non tanto come una forma di legittimazione di nuovi governi (sebbene essa possa anche mirare a questo obiettivo) quanto piuttosto in riferimento a cosmologie e pratiche che coinvolgono i vivi e i morti. Considero la riscrittura della storia, che è ovviamente centrale alla politica dei corpi morti, come parte di un processo più ampio attraverso il quale si manifestano cambiamenti fondamentali nella concezione del tempo (ivi, 26-27).

Ponendo in discussione l’eredità culturale ricevuta dai morti, i vivi ridefiniscono gli spazi della propria socialità. Il quarto motivo che si pone a fondamento dell’efficacia simbolica dei resti risiede nella loro capacità di suscitare emozioni profonde, in quanto testimonianze concrete di persone che hanno lasciato il mondo dei vivi e prefigurazioni del destino che attende ogni essere umano. Infine, l’aura di sacralità che circonda ovunque i corpi morti fa di essi un prezioso strumento per la «sacralizzazione» di nuove forme di ordine politico e morale. In società come quelle post-socialiste dell’Europa orientale, in affannosa ricerca di nuove identità etniche e culturali, la manipolazione dei resti di personaggi destinati ad assumere il ruolo di «antenati» della patria o, al contrario, ad essere sconfessati come tali si rivelò un’operazione politica fondamentale. «Il rimpatrio dei corpi morti nel periodo post-socialista è parte del rinnovamento delle identità nazionali (e della lotta per tali identità) attraverso il recupero dei ‘nostri tesori culturali’ al fine di dar loro sepoltura adeguata – una sepoltura che lega le popolazioni ai loro territori nazionali in un universo ordinato» (ivi, 49). Volendo riassumere in conclusione le caratteristiche che rendono elevato il capitale simbolico dei resti e che contribuiscono a spiegare perché nell’Europa dell’Est – ma beninteso anche altrove – la manipolazione dei resti abbia rappresentato un’operazione politica di importanza cruciale, possiamo elencare i seguenti punti: il potere della «presenza», l’ambivalenza e la conseguente apertura simbolica, la capacità di evocare questioni di rilevanza cosmologica e di suscitare emozioni profonde, la sacralità di cui i resti sono pressoché universalmente circondati. 164

5.4. Epilogo: i resti del XXI secolo La mattina dell’11 settembre 2001 le due torri gemelle del World Trade Center ardevano come grandiose pire funebri, oscurando il cielo sopra New York. Centinaia di persone erano rimaste prigioniere delle fiamme ai piani più alti dei due edifici. Corpi sospesi tra la vita e la morte cadevano lungo le vertiginose pareti di cristallo. Incapaci di resistere alle altissime temperature che si sprigionarono in seguito al terribile impatto degli aerei-killer, i due grattacieli collassarono, seppellendo sotto i loro frantumi più di 2.800 morti. Il periodo di lutto collettivo che si aprì fin dal pomeriggio si caratterizzò per una lunga e ininterrotta ricerca dei resti delle vittime, destinata a protrarsi per i successivi mesi. I cadaveri ritrovati integri furono in effetti pochissimi. Le macerie, setacciate metro per metro, restituirono invece decine di migliaia di resti umani: brandelli di tessuti, frammenti di ossa e soprattutto denti, una parte del corpo in grado di resistere alle temperature più elevate e di conservare sotto lo smalto cellule integre da cui è possibile estrarre il profilo genetico dell’individuo. Il tentativo di attribuire ai resti un nome, un’identità, si rivelò in quell’occasione un’esigenza insopprimibile e primaria. Come scrisse un giornalista sul «Los Angeles Times»: «Con un nome, la famiglia può seppellire la persona amata. Con un nome, il patrimonio può essere sistemato; si può incidere una lapide; si può stabilire una fine»26. I frammenti più grandi furono identificati attraverso la ricostruzione delle impronte digitali, il riconoscimento di tatuaggi, anelli, braccialetti, orologi, ultimi segni della vita sociale di corpi ormai ridotti a residui organici. Centinaia di scienziati, biologici molecolari appartenenti alle più importanti società americane di ricerca genetica, medici legali, esperti di odontotecnica vennero convocati per dare un nome, attraverso analisi del Dna e altre complesse tecniche di indagine, ai resti di più piccole dimensioni, dilaniati dalle esplosioni, dal calore, dai crolli. Le tracce del Dna estratte dai resti ritrovati tra acciaio e cemento vennero confrontate con il materiale biologico prelevato da spazzoli26 R. Lee Hotz, Restoring identities to victims, in «Los Angeles Times», sito web, 25-9-2001.

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ni, pettini e altri oggetti personali appartenuti ai defunti, un’operazione complessa, lunga ed estremamente costosa. Il recupero e l’analisi dei resti permise di identificare circa la metà delle vittime. Per esse fu possibile celebrare un funerale, costruire una tomba, porre un termine al periodo del lutto. Gli altri rimasero ufficialmente dei «dispersi»: centinaia di manifestini furono appesi per le strade di New York con le foto di coloro che vennero definiti missing, «scomparsi» anziché deceduti. Per settimane i familiari sperarono che i loro cari non si trovassero alle «torri» al momento dello schianto, ma in un altrove da cui sarebbero ben presto ricomparsi. Quando la speranza venne meno, per alcuni furono organizzati funerali in cui, in modo simile ai casi etnografici esaminati all’inizio di questo libro27, il corpo fu sostituito da un oggetto, un vestito, un ritratto. Il 29 maggio del 2002, quando erano ormai passate molte settimane dal ritrovamento degli ultimi resti umani, le autorità decisero di concludere il lutto collettivo con un funerale simbolico delle vittime di cui non era rimasto alcun segno tangibile. Alle 10 e 29, l’ora in cui crollò la seconda delle due torri, suoneranno le campane e una guardia d’onore formata da poliziotti, vigili del fuoco, squadre di soccorso e famiglie delle vittime porterà una barella vuota lungo la rampa che si estende dal centro del luogo del disastro fino alla strada. Lì la barella sarà deposta in un’autoambulanza che si metterà lentamente in moto, risalendo in processione West Street, in una specie di simbolico funerale delle 1.776 vittime i cui corpi non sono stati ritrovati28.

La tragedia di New York ha riportato improvvisamente la morte di massa al centro dell’attenzione delle società occidentali. Essa ha fatto emergere l’esigenza di forme collettive di lutto, culturalmente elaborate; l’importanza affettiva dei resti per i familiari del defunto; l’angoscia per la dissoluzione di ogni reliquia corporea e l’importanza di un corpo (o per lo meno di una sua parte) 27

Cfr. supra, § 1.4. A. Stille, New York l’ultima cerimonia ora parte la ricostruzione, in «la Repubblica», sito web, 30-5-2002. L’identificazione dei resti ritrovati tra le macerie è proseguita nei mesi successivi e ha consentito di ridurre notevolmente il numero delle persone di cui non si è trovata alcuna traccia corporea. 28

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per un ultimo saluto, un congedo socialmente organizzato. La «cattiva morte» subita dalle vittime degli attentati dell’11 settembre è stata ulteriormente accentuata dalla dissoluzione dei loro corpi, molti dei quali sono probabilmente «evaporati» per le altissime temperature determinate dalle esplosioni. Significativamente, nei mesi successivi, sono emersi racconti e leggende metropolitane a proposito di «spiriti dei morti» che vagherebbero senza meta per le strade della città. Sono i fantasmi dei morti senza corpo, ai quali non è stato possibile concedere né un funerale, né una tomba in cui riposare. Anche in questo caso alcune cronache giornalistiche risultano alquanto significative: La nera leggenda è […] quella della nube con l’odore della «Rubble» che sale dal fondo dell’isola e si muove con un percorso proprio, che niente ha da spartire col vento. Ti prende alle spalle mentre cammini nell’East Village, ti aspetta all’uscita della metropolitana di Soho. Si dice siano le vittime senza pace di quelli che non sono stati recuperati né sepolti, condannati a giacere per sempre sotto le nuove schegge di cristallo che sorgeranno29.

In seguito ai fatti dell’11 settembre 2001, altri fantasmi cominciarono a vagare senza meta negli aridi territori dell’Afghanistan, fantasmi di uomini e donne morti sotto le bombe americane e i cui corpi non furono mai ritrovati. Anche in contesti culturali così differenti dagli Stati Uniti la ricerca dei resti fu spesso affannosa e infruttuosa. A decine di giorni dai bombardamenti mani insanguinate dalla fatica scavavano ancora nelle macerie alla ricerca di un corpo, di una traccia, di un frammento: come se il ritrovamento dei resti potesse ridare un senso a forme di umanità sconvolte dall’irrompere di una violenza cieca, estrema, assoluta. Una drammatica esigenza di umanità, espressa attraverso la rivendicazione della sacralità dei corpi morti. Questo accenno finale al legame affettivo che unisce gli esseri umani ai corpi dei defunti, un legame profondo ma ambivalente, perché destinato ben presto a essere troncato, conclude il percor29 G. Romagnoli, Un mese di funerali fantasma per i dispersi delle torri, in «la Repubblica», sito web, 16-10-2001.

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so di questo libro. Un percorso che ha preso le mosse da un’analisi del modo in cui le differenti società umane trattano i cadaveri ed è proseguito con un’indagine sulle concezioni che esse hanno elaborato in riferimento ai resti dei processi di decomposizione. Come si è visto, a seconda dei contesti storici ed etnografici, i resti possono assumere un valore religioso, sociale, economico, estetico, scientifico, politico. Anche in pieno XXI secolo e nel bel mezzo di conflitti che minacciano l’esistenza stessa dell’umanità, essi mantengono un’importanza che va ben al di là del loro statuto ontologico di residui organici. È bene allora, in sede di conclusione, porre ancora una volta la questione centrale che ha animato la ricerca confluita in questo testo: perché gli esseri umani non si limitano a prendere atto della disgregazione dei corpi e della loro inevitabile scomparsa? Se, sfruttando gli strumenti e le conoscenze dell’antropologia, ho affidato per lo più ad altre società, alle loro concezioni della morte, del corpo e del destino dei defunti il compito di fornire una risposta, vorrei da ultimo dare la parola a un illustre studioso, autore di una riflessione sull’essere umano che prende spunto dallo studio di una categoria estrema di «altri»: gli animali. In un saggio intitolato L’animale irrazionale. L’uomo, la natura e i limiti della ragione (2001b), l’etologo Danilo Mainardi nota che l’uomo è, tra gli animali, quello che ha sviluppato nel corso della sua evoluzione le maggiori capacità razionali ma, allo stesso tempo, non ha rinunciato ad elaborare miti, credenze, finzioni che comportano una sorta di sospensione della ragione. Questa «ambivalenza cognitiva» è particolarmente chiara nel rapporto che l’essere umano intrattiene con la morte. Se alcuni animali possono raggiungere una generica consapevolezza della morte sulla base delle proprie esperienze, «solo nella nostra specie sorge l’apparentemente semplice ragionamento: se tutti prima o poi muoiono, ciò significa che anch’io dovrò morire» (ivi, 30). In accordo con quanto James G. Frazer aveva osservato quasi un secolo fa (1922), Mainardi sostiene che è a partire da questa semplice e sconvolgente conclusione, da questo sillogismo impietoso che gli esseri umani sono stati spinti a dar vita ai più elaborati sistemi di credenze concernenti un ipotetico quanto «irrazionale» destino ultraterreno. L’elaborazione di credenze relative all’aldilà, la drammatizzazione dei riti funebri, il trattamento dei cadaveri, l’attenzione ai resti rientrano 168

in queste forme culturalmente elaborate di «irrazionalità» che, dal punto di vista dell’etologo, si configurano come una strategia di adattamento tipicamente umana (di cui si ritrovano tracce nel mondo animale). Sviluppando le argomentazioni di Mainardi alla luce del percorso proposto in questo libro, si potrebbe allora sostenere che le «finzioni» mediante cui gli esseri umani trasformano quelli che razionalmente non sono altro che scarti, residui organici di corpi ormai privi di vita, in reliquie culturalmente significative sono operazioni profondamente intrise di umanità. Una società che, come quella immaginata da George Orwell in 1984 (1973), cancellasse ogni traccia di corporeità e di memoria dei defunti al momento della loro morte, rinunciando a includere nella propria forma di umanità il mondo degli antenati e il mondo dei discendenti, potrebbe anche essere perfettamente razionale ma apparirebbe, senza dubbio, profondamente disumana.

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Indici

Indice dei nomi*

Aborigeni australiani, 26n, 41, 61n. Aborigeni tasmaniani, 135n, 136. Abramovitch, H., VII, 17n. Achuar (Ecuador, Perù), 109n. Adjirab (Papua Nuova Guinea), 119122. Afar (Etiopia), 138. Agobardo, vescovo, 99. Agostino, santo, 88, 93-94. Aime, M., VIII, 62. Albert, J.-P., 98-99. Alessandro Magno, 41n. Alexandre de Rhodes, gesuita, 83. Allovio, S., VIII, 15n, 70. Ambrogio, santo, 88. Ameisen, J.-C., 10. Amselle, J.-L., 89, 135n. Amungme (Irian Jaya - Indonesia), 136-137. Andrea, catechista, 83. Andrea, santo, 90. Angoram (Papua Nuova Guinea), 106. Antonio da Padova, santo, 93n. Appadurai, A., 21, 89. Arapesh (Papua Nuova Guinea), 53, 55. ’Are’are (Isole Salomone), 41. Arens, W., 54. Ariès, P., 19. Asad, T., 134n.

Asmat (Irian Jaya - Indonesia), 106. A’tayal (Taiwan), 119. Aufenanger, H., 108, 111n. Augé, M., 24n, 52. Aztechi, 55. Bachofen, J.J., 8. Bacqué, M.-F., 24n. Baktamanmin (Papua Nuova Guinea), 111-112. Ballard, C., 136-137. Barber, P., 9n. Barillari, S.M., 5n. Barley, N., 44n. Barnard, C., 149-150. Baronti, G., 29. Barraud, C., 34n. Barth, F., 111n, 112. Basilio il Grande, 88. Bateson, G., 107. Baudry, P., 24n. Bauman, Z., 3. Belhassen, P., 52n. Belpoliti, M., 161n. Beneduce, R., VIII. Bensa, A., 130. Benthall, J., 124-125. Bentham, J., 28. Bentley, J., 84, 85n. Berawan (Borneo - Indonesia), 33, 44, 117.

* Sono riportati in corsivo i nomi di popolazioni.

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Bijagó (Guinea Bissau), 29. Biscione, M., 124n. Bloch, M., 5 e n, 8, 20n, 63. Boas, F., 134, 136. Boccaccio, G., 100 e n. Bodei, R., 50n. Boës, E., 110n. Boesch Gajano, S., 80 e n, 87, 96. Bollig, M., 66n. Bonato, L., 155n. Bonetti, R., 62n. Bordonaro, L., 29, 30. Bormann, M., 48. Bororo (Brasile), 42. Boscimani !Kung (Botswana, Namibia), 25n. Bounoure, G., 110n. Boutry, P., 95. Boyce, M., 59n. Bozóky, E., 82-83. Brook, D., 112n. Brown, Paula, 55n. Brown, Peter, 72, 78 e n, 79 e n, 82, 86, 88n, 93-94, 96n. Bruno, G., 47. Burdillat, M., 34n. Bynum Walker, C., 91n, 96n. Caciola, N., 6n. Calvino, G., 92 e n, 99. Campione, F., VIII. Cantarella, G.M., 6n. Capello, C., VIII. Capotorto, G., VIII. Carlino, A., 145n. Carlo Magno, 81. Cederroth, S., 20n. Chanel, P., santo, 74 e n, 75-77. Charras, M., 46n, 52. Chaucer, G., 100n. Chaumeil, J.-P., 42, 56, 57n. Cicerone, Marco Tullio, 41n, 45. Clark, J.M., 63n. Clastres, P., 57n. Claudio, vescovo, 99.

Coiffier, C., 107n, 116 e n, 118-119. Colombo, C., 53n. Colombo, G., 141n, 144, 145n. Comba, A., 49n. Comba, E., VIII. Comte, F., 75n. Conklin, B.A., 56 e n, 57n. Conti, F., 49n. Cook, J., 76 e n, 125. Corlin, C., 20n. Cosmacini, G., VIII. Costanzo II, 90, 92. Craig, B., 111 e n, 112 e n, 113. Csordas, T.J., 97n. Dagen, P., 102n. Dagognet, F., 24n. D’Albertis, L.M., 102, 124, 126 e n, 127. Danforth, L.M., 43. Darwin, C., 35. Darwin, M., 70n. Davies, J.D., 43 Davis-Floyd, R.E., 20n. Dayak (Borneo - Indonesia), 35n, 106. Deacon, A.B., 115. Debro, J.A., 12. Déchaux, J.-H., 24n. De Coppet, D., 41. Defanti, C.A., 11, 12 e n, 13n, 15. De Luna, G., VIII, 27. De Matteis, S., 95n. Democrito, 41n. De Roux, E., 102n. Destro, A., VIII. Deusdona, diacono di Roma, 81. Dias, N., 146. Diola (Senegal), 24. Douaire-Marsaudon, F., 74n. Douglas Davies, J., 43, 44n, 46n, 49 e n, 51-52, 68. Dumont d’Urville, J.-S., 126. Durkheim, É., 17. Duteil, J.-P., 82. Duvignaud, J., 36 e n, 38, 114.

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Edey, M.A., 138. Elbern, V.H., 84n. Elias, N., 20 e n. Elkin, A.P., 26n. Elliot Smith, G., 69n. Erikson, P., 56n. Eschimesi, 134. Eusebio di Cesarea, 99. Evans-Pritchard, E.E., 158 e n. Fabian, J., 18. Fabietti, U., 16. Fabre, D., 7, 8n. Faldini, L., VIII. Fanene, S., 72. Fataleka (Isole Salomone), 90n. Favole, A., 15n, 16, 72n. Fede, santa, 81. Federico II il Grande, 162. Federico II di Svevia, 93n. Fedida, P., 24. Fegolmin (Papua Nuova Guinea), 111. Fellous, M., 24n, 30n. Ferri, E., 145. Filippa, M., 49n. Filippi, G.G., 46n. Firth, R., 23 e n, 24. Forbes, H., 127-129. Fore (Papua Nuova Guinea), 55n. Fortune, R.F., 106. Foscolo, U., 50n. Foucault, M., 29. Fox, K., 7. Francesca Romana, santa, 98. Frank, G., 124. Frazer, J.G., 8 e n, 17, 158 e n, 168. Futuniani (T.O.M. Wallis e Futuna Francia), 72-77. Gajdusek, D.C., 54n. Gareth Jones, D., 139. Gastaut, H., 103, 126. Gaudenzio, vescovo di Brescia, 88, 91.

Gauthier, J.-G., 33 e n, 44n, 45n, 52. Geary, P., 80 e n, 82, 89 e n, 93-94, 97. Geertz, C., 47 e n, 104. Geremia, profeta, 26-27. Giacanelli, F., 145. Giacobini, G., IX, 143n. Giacomini, C., 143, 146, 148. Giacomoni, S., 50n. Giavanesi (Giava - Indonesia), 47n. Giglioli, E., 124. Gillen, F.J., 61n. Gillison, G., 55. Giotto, 93n. Giovanna d’Arco, 47. Giovanni XXIII, papa, 43n. Giovanni Crisostomo, 88. Girolamo, santo, 92. Giuliano, santo, 83. Giustina, santa, 92. Gonseth, M.-O., 129. Goody, J., VII, 17n, 62, 100-101, 114. Gordon, B., 7n. Gorer, G., 19, 44. Graeber, D., 63-65. Gregorio di Nissa, 72, 79. Gregorio di Tours, santo, 88. Gri, G.P., 5. Guaraldo, A., VIII. Guerreiro, A., 116 e n, 118-119. Guiart, J., 41 e n. Guidieri, R., 90n, 115. Guille-Escuret, G., 54. Haddon, A.C., 136. Hainard, J., 129. Hannerz, U., 89. Harris, M., 55 e n. Harris, R.J., 139. Hazda (Tanzania), 25n. Helvétius, A.-M., 82-83. Herrmann-Mascard, N., 93n. Hertz, R., 3, 4 e n, 10, 17, 21, 35n, 37n, 43, 51-52, 62-63. Hillman, D., 91n. Himba (Namibia), 66n.

193

Hinnells, J.R., 60. Hitler, A., 48. Hoskins, J., 117n. Hotz, R.L., 165n. Hubert, H., 118. Humphreys, S.C., 20n. Huntington, R., 17, 18n, 20n, 32, 34, 44, 68, 156 e n, 157-158. Hutu (Rwanda, Burundi), 27. Iatmul (Papua Nuova Guinea), 107108. Iban (Borneo - Indonesia), 117, 119. Illich, I., 154. Isastia, A.M., 49n. Ishi, 132 e n, 133-134. Isnenghi, M., 159n. Jankélévitch, V., 34n. Johanson, D., 138. Jorgensen, D., 111n. Josi, E., 85n. Jounel, P., 85n. Kaehr, R., 129. Kalb, J., 138. Kanak (Nuova Caledonia), 41, 61. Kaningara (Papua Nuova Guinea), 107. Kantorowicz, E.H., 158. Kapriman (Papua Nuova Guinea), 107. Kazumasa, H., 152n. Kenny, A.K., 130n. Khoisan (Namibia), 66n. Kilani, M., 53n, 54. Killion, T., 130n. King, H., 20n. Kosei, A., 69n. Kosovari (Kosovo), 27. Kroeber, A., 130-134. Kroeber, T., 132 e n. Kübler-Ross, E., 20. Lagencrantz, S., 60. Lanney, W., 135.

Lanternari, V., 8n. Laracy, H., 76. Latimer, G., 124. Layard, J., 115. Lazar, principe di Serbia, 162. Leclercq, H., 85n. Leder, D., 146. Le Fur, Y., 28, 102n, 104n, 105 e n, 106n, 108n, 110n, 117n, 125-126. Le Goff, J., 7n. Lenin, N., 37, 162. Lévi-Strauss, C., 8n. Levin, B., 124. Lévy-Bruhl, L., 94. Lewis, P.H., 115 e n. Liberski, D., 24n. Lidvina, santa, 98. Ligi, G., VIII. Lindenbaum, S., 55n. Lindström, J., 20n. Lock, M., 14 e n, 146, 148, 152 e n. LoDagaa (Ghana), 17n, 62. Lombardi Satriani, L.M., 5n. Lombroso, C., 140, 142 e n, 143, 144 e n, 145-148. Loria, L., 140, 145 e n. Luca, santo, 90, 92, 93n. Lucrezio Caro, Tito, 3 e n, 31, 40, 41n. Ludovico I, 81. Luzzatto, S., 159-160, 161n. MacCulloch, J.A., 85n. Maconi, V., 34n, 41. Maçzak, A., 90. Maertens, J.-T., 43, 44n, 59n, 66, 69n. Mainardi, D., 36n, 168-169. Malinowski, B., 8-9, 89n, 136. Mallegni, F., 93n. Mana, E., 49n. Maori (Nuova Zelanda), 28, 33, 108109, 125. Marchesini, R., 10n. Marco, santo, 81.

194

Marind-anim (Irian Jaya - Indonesia), 105, 108. Marsden, S., 125. Marshall, P., 7n. Martino, vescovo, 88, 91. Mauss, M., 34, 83, 118. Mayawo (Damar - Indonesia), 127129. Mazzini, G., 159-161. Mazzio, C., 91n. McKinley, R., 127. Mead, M., 131. Meitala, 74. Meligrana, M., 5n. Merina (Madagascar), 63-65. Metcalf, P., 17, 18n, 20n, 32, 34, 44, 68, 156 e n, 157-158. Meyer, A.J., 105n. Michelangelo Buonarroti, 33n. Micronesiani (Isole Caroline), 33. Micu, I., 161n. Mihesuah, D.A., 138n. Miklouho-Maclay, N., 135. Milanaccio, A., VIII. Milite, santo, 83. Milosevic, S., 27. Mitford, J., 19n, 32n. Mohen, J.P., 24n. Monaci, A.C., 85n. Monzon, S., 62n. Moody, R.A., 13n, 14n. Moretti, N., 37n. Mori, M., VIII. Morin, E., 35n. Mountain-Ok (Papua Nuova Guinea), 111-112. Moyse, C., VIII. Mussolini, B., 159-161. Naguya Te Awekotuku, 124. Nagy, I., 162n. Nathan, T., 24n. Needham, R., 119. Nicola, santo, 81. Niola, M., 95n.

Noakena, 24. Nonnis Vigilante, S., 49n. Obeyesekere, G., 76n. O’Hanlon, M., 134n. Ohnemus, S., 106. Orsola, santa, 103. Orwell, G., 169. Ourdan, R., 27n. Palgi, P., VII, 17n. Pancrazio, santo, 103 Pannel, S., 127-129. Pa Rangifuri, 24. Paravicini Bagliani, A., 91n. Pardo, I., 19n, 105n. Parry, J., 8, 20n, 46-47. Pastore, A., VIII. Peary, R., 134. Pellizzi, F., 115. Peltier, P., 120. Perry, W.G., 69n. Petacci, C., 160. Piantelli, M., 43n, 46n. Pigmei Baka (Camerun), 25n. Pigmei Mbuti (Repubblica Democratica del Congo), 25n. Pignato, C., 74n. Pio da Pietralcina, santo, 84n. Pio XII, papa, 75. Platelle, H., 83-84. Plinio il Vecchio, Gaio Secondo, 3. Policarpo, martire, 86. Pope, S., 133. Porset, C., 49n. Porter Poole, F.J., 55. Prospero, santo, 103. Prudenzio Clemente, Aurelio, 96. Pussetti, C., VIII, 29-30. Putin, V., 25. Quaranta, I., VIII. Quiché (Guatemala), 52. Quigley, C., 28n, 44n, 59n, 69n. Regge, T., VIII.

195

Reid, H., 69n. Remotti, F., VII-IX, 22, 32, 130, 157159. Restellini, L., 143. Richardson, R., 28n. Rita, santa, 98. Rivers, W.H.R., 18n. Rolando, L., 142n. Romagnoli, G., 167n. Rosaldo, R., 17, 18 e n. Rufus, A., 90n. Sabina, santa, 103. Sacchi, P., VIII. Sagan, E., 55n. Sahlins, M., 76 e n. Sapir, E., 132. Sargent,C.F., 20n. Saugnieux, J., 63n. Sawos (Papua Nuova Guinea), 107. Sbardella, F., VIII. Scagliarini, L., VIII. Scarduelli, P., VIII, 117n, 122-123. Scheper-Hughes, N., 130 e n, 132 e n, 151, 153-155. Scheps, R., 24n. Schmitt, J.-C., 6, 99n. Sears, S., 110n. Séjourné, P., 85n, 88. Seligman, C.G., 136. Servant, L.C., 74 e n, 75. Sharp, L., 153n. Shilluk (Sudan), 158. Sibilla, P., VIII. Smidt, D., 106. Sozzi, M., VIII, 49n. Spencer, B., 61n. Spennemann, D., 61. Stalin, J.V. Dzˇugasˇvili, detto, 162. Stephen, M., 55n. Stille, A., 166n. Strong, J.S., 85n, 92, 95. Taliani, S., VIII. Taneka (Benin), 62.

Tappero, P., IX. Tarozzi, F., 49n. Taylor, A.-C., 57n. Te Whero Whero, capo maori, 124. Telefolmin (Papua Nuova Guinea), 111. Teodoro, santo, 79. Teresa di Gesù Bambino, santa, 84n. Thomas, L.V., 24 e n, 27n, 33n, 34 e n, 35 e n, 36 e n, 37, 43n, 44n, 45n, 51, 59n, 67-68, 69n, 135. Tifalmin (Papua Nuova Guinea), 111. Tikopia (Isole Salomone), 23. Timoteo, santo, 90. Tolaï (Nuova Bretagna - Papua Nuova Guinea), 108. Tommaso, santo, 93. Toraja (Celebes - Indonesia), 117. Trobriandesi (Papua Nuova Guinea), 8, 89. Truganini, 135. Tsiaras, A., 43. Tutsi (Rwanda, Burundi), 27. Tuzin, D., 54, 55 e n. Tylor, E.B., 7, 17, 134. Ugolino della Gherardesca, 93n. Urbain, J.D., 39 e n, 134. Urry, J., 135-136. Valdevit, G., 27n. Van Gennep, A., 4 e n, 17. Varrone, Marco Terenzio, 41n, 45. Vauchez, A., 85n. Verdery, K., 161 e n, 162 e n, 163. Vernette, J., 14n. Viazzo, P.P., VIII, 76n. Vigilanzio, 99. Vilaça, A., 56 e n, 58. Virgilio Marone, Publio, 45. Vittricio, vescovo, 91. Viveiros de Castro, E., 58. Vovelle, M., 8 e n, 20n, 33n. Wales, H.G.A., 156. Wallace, A.R., 127-129.

196

Wari’ (Brasile), 55-59. Waterman, T., 131-132. Waugh, E., 32n. Welsch, R.L., 134n. Wheatcroft, W., 111n. Widlok, T., 66n. Wilson, J.B., 13. Wollaston, A.F.R., 136-138. Woodburn, J., 25 e n. Wowk, B., 70n.

Xavier, F., 83. Yahi (California), 131-132. Yimar (Papua Nuova Guinea), 107. Yuko (Colombia), 42. Zanotelli, F., VIII. Ziegler, J., 29. Zoroastriani (India, Gran Bretagna), 59n, 60.

Indice del volume

Premessa

V

1. L’incerta soglia

3

1.1. Tra i vivi e i morti, p. 3 - 1.2. Biologia della morte, p. 9 - 1.3. Il corpo come soglia, p. 16 - 1.4. Il cadavere assente e l’umanità rifiutata, p. 23

2. Dal corpo ai resti

31

2.1. Tra finzione e dissoluzione, p. 31 - 2.2. Tipologie e culture, p. 38 - 2.3. Corpi in cenere, p. 44 - 2.4. Corpi mangiati, p. 53 - 2.5. Corpi sepolti, p. 59 - 2.6. Corpi conservati, p. 66

3. Reliquie cristiane

72

3.1. Incontri di reliquie nel Sud Pacifico, p. 72 - 3.2. Resti esemplari, p. 77 - 3.3. Origine e sviluppi del culto, p. 85 - 3.4. L’incompletezza dello spirito e la finzione del corpo, p. 93

4. Reliquie d’Oceania

102

4.1. Estetica dei resti, p. 102 - 4.2. Tanato-metamòrfosi, p. 109 - 4.3. Cacciatori di teste, p. 116 - 4.4. Gli europei, cacciatori di resti in Oceania, p. 123 - 4.5. Intermezzo americano: storia di Ishi, p. 130 - 4.6. Etica dei resti, p. 133

5. Reliquie della modernità

140

5.1. Anatomia dei resti, p. 140 - 5.2. La mercificazione del cadavere e delle sue parti, p. 148 - 5.3. La vita politica dei resti, p. 155 - 5.4. Epilogo: i resti del XXI secolo, p. 165

Bibliografia

171

Indice dei nomi

191 199