Resistenza. Album della guerra di liberazione

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RESISTENZA ALBUM DELLA GUERRA DI LIBERAZIONE

a cura di

RAIMONDO LURAGHI RIZZOLI

Sono passati cinquant’anni, l’antifascismo è ormai un valore anche per chi lo combatté, ma alle ragioni dell’analisi continuano a intrecciarsi quelle della polemica. Troppo spesso infatti il corto respiro dell’attualità finisce per velare lo sguardo di chi è chiamato a interpretare i concitati e drammatici

avvenimenti che seguirono alla caduta del fascismo e all'annuncio dell’Armistizio con gli Alleati 18 settembre 1943. E insomma difficile «fare storia» su quegli

anni, e il modo

migliore per confrontarsi

con le vicende di un conflitto che fu guerra civile e di liberazione, fonte di lutti e di estremo riscatto morale è allora ammettere, come fa Raimondo Luraghi, che più dello studio conta ancora l’esperienza e che a scrivere non è qui lo storico ma «la penna di un combattente». In cinque capitoli e più di duecento fotografie, molte delle quali uscite per la prima volta da archivi storici e militari, Luraghi ricostruisce il percorso che condusse dalla debacle dell’8 settembre 1943 alla Liberazione dell’aprile 1945. La verità della «presa diretta» ritorna così a illuminare vicende note e meno note di quegli anni: il fatale smarrimento dei primi mesi quando, nello sbando generale, ci si dovette affidare al coraggio e allo spirito d’iniziativa dei singoli; il dilagare dei tedeschi che erano alleati e divennero occupanti e invasori; la tenace opera di resistenza, l’organizzazione capillare dei gruppi partigiani, valle per valle, zona per zona; la faticosa ricostituzione delle nostre Forze armate; la lunga serie di terribili stragi contro la popolazione inerme. Parole e immagini di questo album testimoniano di un periodo colmo di sventura e di passione civile; al racconto delle tante storie personali e collettive si intreccia con naturalezza l’inedita interpretazione del-

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RESISTENZA ALBUM DELLA GUERRA DI LIBERAZIONE

“acuradi

RAIMONDO LURAGHI

RIZZOLI

Proprietà letteraria riservata

© 1995 RCS Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano ISBN 88-17-844004

Prima edizione: aprile 1995

Molte sono state le persone e gli enti che hanno contribuito alla compilazione di questo album. Si ricordano in particolare: Istituto storico della Resistenza, Torino;

Adolfo Mignemi dell'Istituto storico della Resistenza di Novara; Paolo Momigliano Levi dell’Istituto storico della Resistenza di Aosta; Vittorio De Tassis dell'Istituto nazionale per la storia del Movimento di liberazione di Milano; Ufficio storico S.M. Esercito;

col. Giovanni De Lorenzo, capo dell'Ufficio storico S.M. Aeronautica. Ultimi in ordine di elenco ma non dì apporto Maria Grazia Ferrario, Raffaele Oriani e Camillo Albertini.

RL.

VISIONI

Avevamo vent'anni e oltre il ponte Oltre il ponte che è in mano nemica Vedevam l’altra riva, la vita,

Tutto il bene del mondo oltre il ponte. Tutto il male avevamo di fronte, Tutto il bene avevamo nel cuore,

A vent'anni la vita è oltre 1l ponte, Oltre ilfuoco comincia l’amore. Italo Calvino, Oltre 11 Ponte

Ciò che qui s1 offre al lettore non è un libro di storia. È infatti convinzione dell’autore che la generazione cui egli stesso appartiene non possa-per motivi profondi - scrivere la Storia di quegli anni crudeli (è pure, in un senso, meravigliosi). La storia implica distacco, mentre, per dirla con Carducci, «Nol troppo odiammo e sofferimmo». Sento venire un’obiezione piuttosto farisaica e mi affretto a smentirla: distacco non significa porre tutto e tutti sullo stesso piano, certamente no. Significa prospettiva storica, assenza di passione, non certo di eticità. Questo è il primo motivo per cui noi combattenti non possiamo scrivere storia di quell’immenso dramma (o per lo meno, ritiene di non poterlo l’autore di queste righe). Il secondo è lo stato deplorevole della ricerca che dopo il conflitto, parecchi anni dopo, specialmente in epoca di «consociativismo», fu attuata da alcune di quelle persone di età più giovane che non avevano «odiato e sofferto» o che l’avevano fatto assai poco, al massimo solo di riflesso e da cui ci si sarebbe dovuto attendere l’inizio di quella storiografia cui tutti agognavano. Purtroppo, a parte poche, lodevoli eccezioni, da quelle penne abbiamo sovente visto uscire una «storiografia» (mi sì perdoni, ma le virgolette ci vogliono) viziata da pregiudizi e ideologie di parte e di partito, strumentalizzata ai fini della «guerra fredda» e rigogliosamente cresciuta lungo quella drammatica spaccatura che mise gli uni contro gli altriì combattenti e gli epigoni della guerra di liberazione. Ora la guerra fredda non è che un ricordo. Siamo dunque, infine, alla storia? Per quanto riguarda le persone della generazione cui appartengo, ho già detto di no, e perché «no». Ma per quanto riguardaigiovani? I ver: giovani, quelli che sono oggi al massimo trentenni? Certo, questo è il loro compito, per lo meno di quelli tra essi che si dedicheranno alla storia della guerra di liberazione come scelta di vita. Ma sarà un compito né facile né semplice, perché prima di accingersi ad un autentico lavoro di ricerca, condotto con professionalità, distacco e acribia, essi dovranno sgomberare il terreno da tutto il clarpame

Resistenza - album della guerra di liberazione 1943-1945

della pseudo-storia che vi ha depositato - in molti strati - la generazione «di mezzo» (o per lo meno, alcuni di tale generazione). Della Resistenza, pretendendo di farne la storia, si è fatto sovente scempio. Ognuno ha cercato di «colorarla» con le proprie ideologie. Ricordate ancora Carducci? «Spongon or birri e frati il suo quaderno,- E quel povero veltro ha un bel da fare - A cacciar per la chiesa e pe ’l governo.» Questa opera di pulizia sarà lunga e noi che a suo tempo combattemmo con le armi in pugno, assai probabilmente non ne vedremo la conclusione. Ma infine una vera storia di quella vicenda epica e tragica che fu la guerra di liberazione nascerà. Bisogna esserne certi. Ed avere fiducia nei nostri giovani. Ed allora - solo allora -, spogliata alfine dagli orpelli falsi della retorica, dalle esaltazioni ipocrite e dalle bugie sparse a piene mani nelle versioni più o meno «partitiche», ma anche ripulita dal fango lanciato da quanti vollero ridurla a un «mito», la guerra di liberazione apparirà alfine agli occhi delle future generazioni in tutta la sua spoglia e tragica grandezza, con le sue luci e le sue ombre, con i suoi eroi e i suoì martiri ma anche con ] suol arrivisti, mestatori e mestieranti, con i suoi momenti gloriosi e crudeli; e solo allora, di fronte ad una visione critica e spassionata, le generazioni future sì rende-

ranno conto di quanto essa sia stata grande, terribilmente grande; di quali uomini abbia avuto, di quale immenso contributo essa abbia dato alla Patria. E si inchineranno di fronte ad essa con rispetto, quasi con tremore perché ne intuiranno la lezione sovrumana. Che cosa è dunque questo libro? Esso non è (si è già detto) una storia, ma è fondato su un'esperienza vissuta. Non sui ricordi personali, che vi sono, ma non sono indicati

come tali se non assai di rado: ma su un'esperienza nel senso più vasto del termine. Il lettore non deve nemmeno cercarvi una «completezza» che non è mai stata - né poteva essere - negli intenti dell'autore. Si tratta piuttosto di una serie di abbozzi impressionistici, la cul scelta - non dovuta ad una «selezione» - è stata anche dettata dall’affacciarsi

tumultuoso ed emotivo dei ricordi. Chi fa professione di storico (di vero storico, non di scrivano di corte) mi capirà. E, a mezzo secolo di distanza, una visione; ed insieme una serie di pensieri su un’esperienza che chiunque l’abbia vissuta porta ancora impressa nel cuore e nell’anima come

un marchio di fuoco. È scritta dalla penna di un combattente; e sebbene questi abbia fatto per quasi cinquant'anni professione di storico, non è, lo ripeto, una visione «storica». È un insieme di pensieri e di meditazioni. Chiunque può dissentire. È in fondo, non è anche per questo che le forze della Liberazione hanno lottato? Non è forse stato perché la ricerca fosse libera, perché tutte le opinioni potessero esprimersi senza remore o timori, perché chi voglia fare professione di studioso non debba più, in alcun modo, rispettare un «credo» di parte o di partito? Nonsìpuò dire che nel cinquan-

Vistoni

tennio trascorso questo ideale sia stato realizzato: il che sigmfica che per far mettere salde radici alla democrazia italiana molto resta ancora da fare. Un paio di anni or sono, una notissima rivista americana, salutando la generazione che

aveva combattuto la Seconda guerra mondiale e che ora se ne andava in ritiro, ebbe a scrivere tra l’altro: «... 1Versi di una canzone di guerra, popolare in Gran Bretagna, dicevano: ... e torneranno le colombe a volare — sulle bianche scogliere i Dover, - domani, quando il mondo sara libero. Oggi il mondo è, in ogni caso, più libero di quanto non lo sia mai stato: ed il merito è, in grandissima parte, di quella fantastica generazione. Ma le colombe non sono ancora tornate. I combattenti non hanno potuto riportarcele: questo sarà il compito dei loro figli».

In Torino, il 12 di novembre 1994 RAIMONDO

I versi di Calvino in epigrafe sono tratti da Romanzi e Racconti ©1994 Arnoldo Mondadori Editore.

LURAGHI

DALL’8 SETTEMBRE ALLA LIBERAZIONE

A coloro che non hanno mai saputo — perché assenti dalla battaglia oscura e sanguinosa durata venti mesi — a coloro che hanno dimenticato le torture e gli incendi, il capestro è gli ostaggi, le stragi e l’esercito innumerabale delle vittime senza nome e senza volto.

Giovanni Colli, in 25 aprile. La Resistenza in Piemonte

I combattenti della Resistenza non sì resero mai conto, per lo meno fino dopo la Liberazione, di aver militato nella Resistenza. Sembra un paradosso maè così: il termine «Resistenza» fu coniato più tardi, a cose fatte, per una sorta di mimetismo con la francese Resistance. Durante la guerra tutti coloro che in un modo o nell’altro sì opponevano al fascismo ed all’occupazione tedesca - i combattenti della lotta armata per primi- usarono altre definizioni: «guerra partigiana» (più ristretta) o «guerra di liberazione» (più ampia e comprensiva). Ancora nel dicembre 1945, nel bellissimo volume pubblicato dal mensile «Mercurio» (che fu uno dei primi a cercar di fornire un panorama della lotta testé terminata)! sì usa soltanto ed unicamente il termine «guerra partigiana». La «Resistenza» VI è ignorata. La parola fu più tardi, come si è detto, mutuata dalla Francia. Poco importava che l’esperienza francese fosse profondamente diversa da quella italiana; che colà la vera guerra «per bande» fosse cominciata soltanto quando il conflitto ebbe una svolta sostanziale, al tempi di Stalingrado ed El Alamein, per intenderci.? Con gli Alleati ancora lontani dal loro suolo, con un governo «legale» a Vichy, l'opposizione interna francese agli occupanti tedeschi era stata fondamentalmente passiva: dapprima l’attendisme poi la resistance, appunto. Ma in Italia la lotta armata (anche perché iniziatasi quando già sì sentivano battere le ore decisive della guerra) aveva assunto sin da principio carattere attivo. Èd allora, perché questo termine? La ragione, forse, sta nella sua sinteticità. «Resistenza» consente la definizione mediante l’uso di una sola parola; «guerra partigiana» o «guerra di liberazione» sono perifrasi, sembrano più prolisse, meno efficaci. Ma questa è una spiegazione troppo facile: tanto facile da sconfinare nel banale. Vediamo di approfondire la questione, nei limiti del possibile. Senza che forse coloro 1 quali la usarono e la usano nemmeno se ne rendessero conto, finiva per celarsi dietro l’uso - o il non uso - del vocabolo una differente visione. «Resistenza» è apparentemente (ma solo apparentemente) un termine più limitativo. Essa sembra comprendere soltanto un aspetto di quella proteiforme guerra: quella cioè combat-

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tuta sulle montagne, nelle valli, nelle città, in ogni caso dietro il fronte tedesco, ignorando o sottovalutando il resto. Ilche, sia detto di passata, a non pochi - che con la Resistenza combattuta non avevano in genere mai avuto nulla a che fare - faceva comodo: e non certo per motivi «storic». In realtà non è così, e con la parola «Resistenza» sì può ben esprimere l’insieme dello sforzo bellico italiano nell’intera guerra di liberazione, di cui essa può valere come sinonimo: la lotta dei partigiani e quella delle città, la resistenza attiva e passiva nei campi di concentramento e di deportazione, i combattenti partigiani all’estero, infine il contributo alla Liberazione da parte delle Forze armate in terra, in cielo e sui mari. Ma l’uso del termine «Resistenza» può anche sottintendere una interpretazione più ampia, che travalichi 1 limiti di tempo. È chiaro che la guerra di liberazione non cominciò se non nel momento in cui fu sparato il primo colpo tra italiani e tedeschi; che la guerra partigiana non sì iniziò che con la formazione delle prime bande. Per la Resistenza 1 confini temporali sembrano invece essere assai più elastici e più vaghi; teoricamente essi possono essere spinti indietro al momento stesso in cui il regime fascista, sopprimendo le libertà elementari, costrinse ogni forma di opposizione sul terreno dell’ illegalità, della clandestinità, 0, appunto, non più della lotta politica ma della «resistenza». Sebbene questa ipotesi di definizione possa con validissimi motivi essere sostenuta (ma la sì dovrà allora estendere anche all'opposizione - o alle opposizioni - all’interno del regime stesso), la guerra di liberazione sembra più correttamente doversi porre come un fenomeno a sé. Essa, pur non mancando di una sostanziosa continuità con l’antifascismo del ventennio, pur ricevendo da questo una serie di valori, di tradizioni, di ere-

dità storiche che valsero ad influenzarla profondamente, ebbe un suo specifico carattere entro specifici limiti. Essa rappresentò un momento supremo; essa fu il contributo armato che in Italia - su tutti 1 fronti, in tutti 1 campi - ci si sforzò di dare alla vittoria della libertà sul totalitarismo nazista. La guerra di liberazione, appunto. È non vale dire che nello schieramento delle Nazioni Unite vi era anche l’altro totalitarismo, quello sovietico. L'Unione Sovietica non fu scelta come alleato dalle democrazie; essa fu loro «gettata addosso» dalla follia hitleriana che, dopo due anni di alleanza (l’empia alleanza, come fu giustamente definita),* attaccò repentinamente l’Urss «costringendola», per così dire, nel campo delle Nazioni Unite. Ma la causa della democrazia e della libertà rimaneva saldamente difesa dagli Alleati occidentali; solo attraverso la loro vittoria il totalitarismo sarebbe stato posto in scacco e la libertà resa all'Europa (0 per lo meno a gran parte dell'Europa) e, certo, al nostro Paese. Questa fu la guerra di liberazione; e non è possibile comprendere la realtà del contributo dato dall'Italia alla causa delle Nazioni Unite senza vederla (giova ripeterlo) attraverso 1 suoi quattro aspetti che sì completano vicendevolmente: la guerra partigiana in territorio nazionale; quella dei partigiani italiani all’estero; la resistenza (e qui il termine

Dall’8 settembre alla Liberazione

è quanto mai appropriato!) degli internati militari in Germania, dei deportati nei campi di concentramento e di sterminio; infine quella delle Forze armate sui fronti a fianco degli Alleati. Solo così il quadro può pretendere ad una certa completezza; sebbene manchino ancora (a cinquant'anni dalla fine del conflitto!) gli studi storici analitici e pazienti (e soprattutto privi di faziosità politica più o meno mascherata) perché si possa pretendere di costruire su di essì una sintesi completa, critica e spassionata. Va detto tuttavia che questa nostra visione globale della Resistenza come guerra di liberazione combattuta su quattro «fronti», comincia infine a venir accettata in maniera più diffusa e consapevole da combattenti e da studiosi;* la conoscenza storica di quel grande momento non potrà che trarne vantaggio, e sì potrà infine pervenire a quell’analisi scientifica che per il momento non sembra ancora possibile. Ci sì può dunque per ora limitare soltanto ad alcune pennellate che cerchino di fornire un'idea delle reali dimensioni del fenomeno e della sua incidenza sulla storia d’Italia e del mondo: ma imbattendosi continuamente in problemi non risolti (perché storici e scrittori, in... altre faccende affaccendati, hanno trascurato di risolverli); in tabù politici

di varia natura; in spiegazioni artefatte che nessuno osa toccare per non venire anatemizzato da tanti settori della «cultura»... È non parlo qui della vexata quaestio di dare una collocazione storica corretta anche all’operato di coloro che combatterono dall'altra parte. Essa sì avvia ormai a soluzione. È stato uno storico di chiara (e onestamente riconosciuta) collocazione politica che ha infine avuto la probità di ammettere che la guerra di liberazione assunse anche in parte non trascurabile il carattere di guerra civile.® E inutile, come suol dirsi «nascondersi dietro

un dito»: vi furono italiani che scelsero di schierarsi con la Repubblica sociale, le cui motivazioni non vanno anatemizzate o maledette, ma comprese (anche se non necessariamente giustificate): e che, sovente, meritano rispetto, anzitutto da parte dei nemici

di jer1.9 Non è qui il problema; direi che qui si sono fatti, nel senso dell’imparzialità, passi da gigante, superiori, per esempio, a quelli compiuti nel settore che Benedetto Croce chiamò «la così detta storia del Risorgimento», ove personaggi come Metternich, Francesco IV o Ferdinando II continuano in troppi nostri libri di scuola a giocare la parte dei «cati nel teatro dei burattini. Il problema sta proprio invece nell’analisi storica delle forze che combatterono perla Liberazione; molti, troppi, dopo che la guerra fu terminata, cercarono, più che la ricostruzione veridica degli eventi, la dimostrazione che determinate loro visioni di parte fossero «giuste»; molti, troppi, montarono alla carica per conquistarsi 11 monopolio della Resistenza o per identificarla con le loro interpretazioni politiche tentando addirittura (ed è un tentativo che, ahimè, continua) di estromettere dalla storia e di porre al bando

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quei resistenti i quali non volevano accettare le loro tesi: contro dì essi fu addirittura instaurato un vero e proprio linciaggio morale. Con danno gravissimo per la storiografia della Resistenza. Ed anche per la Resistenza stessa. Non avevano ancora taciuto le armi che già sì scatenava, da parte delle forze politiche più disparate, una autentica «caccia» a monopolizzare la Resistenza sotto le proprie bandiere. La causa più esiziale (anche se non l’unica) di ciò fu la divisione tra i grandi vincitori della Seconda guerra mondiale, il frantumarsi della coalizione di fronte alla minaccia di un nuovo espansionismo totalitario da parte sovietica, l’inizio della «guerra fredda». Essa non poteva che portare seco la rottura tra le forze ed ì gruppi che avevano combattuto nella Resistenza ed ora sì schieravano su fronti opposti, alla difesa di opposti ideali. I tentativi di continuare a sostenere che la Resistenza era «unita» (ilche era falso) contro un «fascismo» che aveva cessato di esistere, la pretesa che 1resistenti dovessero per forza essere schierati per la causa della «pace» (cioè, detto crudamente, della resa davanti all’imperialismo sovietico) non potevano che acuire i contrasti, non potevano che immergere ogni cosa in un'atmosfera di menzogna e di mistificazione. Questo, non già il «mancato insegnamento della Resistenza nelle scuole», fu la principale causa delle deformazioni che impedirono il sorgere di una genuina storiografia della guerra di liberazione; e fu in definitiva proprio questo che, a sua volta, insieme ad altre cause, impedì che - salve le eccezioni - glieventi di quella guerra fossero insegnati chiaramente e senza falsificazioni ai giovani. Ma non è nostra intenzione di parlare qui del «dopo»: troppi gravi problemi verrebbero sollevati, che ci porterebbero lontano dal nostro assunto. Veniamo dunque agli inizi, agli albori della guerra di liberazione. Essa cominciò nel momento stesso in cui l’Italia cercò di uscire da un conflitto in cui era stata trascinata arbitrariamente senza il consenso di alcun organo costituzionale rappresentativo (avendol la dittatura fascista tutti tolti di mezzo o posti a tacere) e 1 tedeschi la attaccarono per eliminarne le Forze armate, occuparne il territorio e farne un proprio campo di battaglia. Non intendiamo qui soffermarci sulle gravi responsabilità di coloro che mal diressero - o non diressero affatto - la reazione armata italiana al repentino attacco tedesco: di ciò si parlerà più oltre. Gli italiani comunque si batterono, assai più di quanto - per ignoranza, per tendenziosità o per mala fede - non sì voglia ammettere. Ma anche di ciò, a suo tempo. È comunque certo che da quel momento, dalla «battaglia», cioè, dell’8

settembre, ebbe inizio quella lotta armata, intesa a contribuire in vario modo alla liberazione d’Italia, che costituisce nel suo insieme la guerra di liberazione, la Resistenza. Così una guerra sì inserì sull’altra. Alla prima, contro le Nazioni Unite, era stato posto termine mediante un armistizio che riconosceva la nostra sconfitta militare e intendeva

Dall’8 settembre alla Liberazione

condurre il Paese fuori dal conflitto, con la speranza di evitarne l’annientamento totale. Era pieno diritto dell’Italia di fare ciò, malgrado l’esistenza del così detto «patto d’accialo» con la Germania; senza bisogno di sottolineare che esso era stato firmato da un governo autoritario e non ratificato secondo alcuna procedura democratica, basta ricordare il principio salus populi suprema lex per SE (ammesso che ve ne sia bisogno) Il tentativo italiano di uscire dalla guerra. Che tale tentativo sia stato compiuto in maniera maldestra, goffa, senza prepararsi alle peggiori conseguenze, è una verità; rimane 1l fatto che l’Italia aveva il pieno e totale diritto di cercare di badare ai propri interessi e non a quelli di altri. La Germania in effetti badò soltanto al propri interessi e non sì trattenne nemmeno per un attimo a meditare se sì poteva o meno ritenere legittimo il gesto italiano; l’Italia fu considerata nemica senza che ci si preoccupasse di dichiararle la guerra: fu condannata, e basta. E le sue Forze armate furono attaccate immediatamente, con estrema violenza

e inaudita brutalità e, nella più parte dei casi, senza alcun preavviso o intimazione di resa; Il suo territorio venne sottoposto a dura occupazione e addirittura mutilato con l'annessione al Resch del Trentino e della Venezia Giulia. Non rimaneva che combattere. Cominciò così per l’Italia una nuova guerra: la guerra di liberazione. Non tutto l’insieme delle Forze armate italiane si era disintegrato sotto il brutale urto tedesco: rimanevano in piedi alcune unità nelle zone libere nonché l'insieme della Marina e gran parte dell’ Aeronautica. Rimanevano quei reparti italiani che si erano tosto uniti al partigiani locali in Grecia, in Jugoslavia, in Francia, dando luogo all’importantissimo fronte dei partigiani italiani all’estero. Rimanevano i 650.000 internati militari in Germania che, trattati con estrema brutalità, avrebbero trovato in sé l'immensa forza morale di rimanere fedeli al giuramento e di negarsi alla collaborazione con itedeschi. E rimanevano quelli che, in territorio occupato, sottrattisi alla cattura avevano deciso di scegliere la pericolosa e rischiosissima strada dì darsi alla macchia, di cercare dì orgamizzare la lotta partigiana armata sull'esempio degli altri popoli invasi. Dove e come nacque la Resistenza partigiana? Pochi fenomeni sono così difficili da defimire, sia per l'immensa nube di tendenziosità e di falsificazioni «politiche» postbelliche (che sussistono pervicacemente ancora oggi), sia per l'enorme complessità delle motivazioni e degli impulsi che spinsero migliaia di uomini a impugnare (0 a non gettare) le armi. Attraverso questa immensa cortina fumogena, comunque, alcune cose (dettate in gran parte dall'esperienza personale) sembra sì possano definire. I primissimi nuclei partigiani - salvo pochissime eccezioni di cui parleremo - sorsero per iniziativa di giovani soldati e ufficiali (per lo più di complemento: anche se non mancarono alcuni valorosi in servizio effettivo) 1quali erano stati, per così dire, «educati» alla terribile scuola della guerra. Pressoché nessuno di loro aveva alle spalle un’esperienza di antifascismo, meno che mai di antifascismo militante; quasi tutti (o meglio,

Ici

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tutti) erano stati da ragazzi nelle organizzazioni giovanili del fascismo. Pochi avevano aderito con entusiasmo alla guerra (ma vi erano stati anche questi); la stragrande maggioranza vi sì era adattata (0 rassegnata) senza spingersi più in là di un malcontento generico. Tutti durante gli anni del servizio militare avevano compiuto quello che essi consideravano il loro dovere, in maniera onesta e con coraggio, rischiando sovente le proprie vite. Mal'esperienza terribile della guerra aveva loro strappato la benda dagli occhi. Lo stato di scandalosa impreparazione con cui l’Italia era stata gettata dissennatamente nel conflitto ed i suoi soldati mandati a morire inutilmente su fronti lontani, il senso di vergogna che cominciava a germinare in fondo all'anima per atti che sì sentivano estranei alla natura stessa del popolo italiano come la persecuzione degli ebrei, la pugnalata alla schiena della Francia già vinta, la dichiarazione di guerra contro Paesi che erano nostri amici tradizionali come gli Stati Uniti, lo spettacolo delle continue aggressioni, le crudeltà viste nei Paesi occupati, la iattanza e la prepotenza di un «alleato» che gli italiani, nelle loro più intime fibre, avevano sempre considerato nemico ereditario, l’Italia ridotta di nuovo, dopo secoli, in conseguenza di una guerra che nessuno ci aveva dichiarato - ma che noi avevamo stoltamente dichiarato agli altri - in un campo di battaglia di eserciti stranieri, tutto ciò aveva fatto fare balzi da gigante alla coscienza dei giovani in uniforme. Nell'estate del 1943 in moltissimi giovani soldati e ufficiali - come pure nella maggioranza della popolazione- il malcontento generico stava trasformandosi in una miscela esplosiva. Si aggiunga l’ordine del governo legittimo - cui era stato prestato giuramento di opporsi all'aggressione tedesca; l’onta del trattamento ignobile cui furono sottoposti dai tedeschi 1prigiomeri italiani -parcati come buoi a novanta per carro- lasciati sovente morire di fame e di sete mentre venivano trascinati in Germania; il desiderio di rispondere alla prepotenza dell’invasore mostrandogli che vi erano italianiiquali sapevano battersi e morire: e sì avrà la molla che spinse tanti giovani ufficiali e soldati sui monti, pronti alla lotta armata. (Paradossalmente fu, almeno in parte, questo stesso senso di rivalsa che spinse altri a schierarsi sotto le bandiere della Repubblica sociale italiana: un fenomeno che ancora attende chi lo studi a fondo e con la necessaria acribia.) Le bande partigiane non nacquero per ordine di alcuno; meno che mai dei partiti antifascisti i quali ancora nell'estate del 1943 erano formati da pochi esigui nuclei pressoché privi di un seguito popolare di massa. Vi furono poche eccezioni: il gruppo costituito a

Madonna del Colletto, in Valle Gesso, da un pugno di aderenti al Partito d’azione e guidato dall’avvocato Tancredi Gal imberti, antifascista di Cuneo; i primi tentativi di due comunisti di Borgo San Dalmazzo (Cuneo), Giovanni e Spartaco Barale, nonché del comunista Cino Moscatelli in Valsesia per costituire qualche gruppo armato (sempre però mettendo insieme per lo più militari «sbandati»). Si possono citare altri esempi

Dall’8 settembre alla Liberazione

del genere; ma, in ogni caso, si trattava di iniziative individuali e locali da parte di antifascisti «di base». Il movimento fu quindi agliinizi del tutto spontaneo: 1 partiti arrivarono dopo. Certo, successivamente il loro apporto fu prezioso; essi contribuirono a coordinare1vari gruppi, a cercar di dare un indirizzo politico al movimento (ilche non fu facile, perché inizialmente anche1partiti non avevano le idee chiare); infine ad aiutare una prima, sommaria autoeducazione alla democrazia. Una seconda leggenda di cui è ora che si faccia piazza pulita, è quella (accreditata per lo più da elementi neofascisti, come l’ex senatore Giorgio Pisanò) la quale vorrebbe vedere nella Resistenza niente altro che «una lotta tra comunisti e fascisti». Nulla potrebbe essere più falso. In primo luogo, nemmeno tutti i combattenti della Repubblica sociale italiana erano fascisti. Vi furono, anzi, tra di essi coloro che con il fascismo rifiutarono

e tuttora rifiutano di identificarsi: Quanto poi alla Resistenza, nessuno può né deve negare la parte cospicua che in essa svolsero 1 comunisti, i quali tuttavia, nell'insieme dei combattenti, rappresentarono unicamente una minoranza: forte minoranza, indubbiamente: ma minoranza. Uomini come Duccio Galimberti, Enrico Martini (Mauri), Edgardo Sogno, Pietro Cosa, Antonio e Alfredo Di Dio, Aldo e Alberto Li Gobbi, Francesco De Gregori (Bolla), Dante Livio Bianco ed altre, moltissime altre eminenti figure, oltre ad uno stuolo di semplici combattenti, non erano né furono mai comunisti; alcuni di essi, anzi, erano anticomunisti ed accettarono l'alleanza con gli uomini del PCI solo

per il tempo e la durata della guerra salvo poi a riprendere la propria libertà di iniziativa

politica. Le stesse formazioni garibaldine, organizzate ad iniziativa del Partito comunista italiano, non costituivano la maggioranza dell'insieme dei combattenti e nelle loro file numerosi erano i non comunisti, anche se alcuni furono successivamente «politicizzati». Non si dimentichi che sovente l'adesione ad una formazione partigiana di un determinato orientamento politico fu puramente casuale, dettata dal fatto che tale formazione sl trovava In zona. Il fronte della Resistenza (o meglio della guerra di liberazione) era estremamente composito ed una seria ed approfondita analisi di esso, condotta senza pregiudizi, non è stata ancora tentata 0, per lo meno, è stata appena abbozzata, anche per la difficoltà intrinseca del tema. Una certezza incontrovertibile è che il movimento partigiano non sgorgò da alcuna specifica classe né da alcun gruppo sociale; esso attinse 1 suoi combattenti dai ceti più diversi, fu un fenomeno collettivo dell’Italia intera e nessuno ebbe in esso una primogenitura o alcuna priorità. Altrettanto certo è che esso (come l’intera Resistenza) rimase un fenomeno sostanzialmente elitario. Minoritario fu anche il numero di quanti aderirono alle Forze armate della Repubblica sociale italiana. La stragrande maggioranza fin che poté rimase «fuo-

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ri», cercando di arrangiarsi a continuare il proprio lavoro negli uffici, nelle fabbriche e nel campi, dando però - è giusto riconoscerlo - il contributo che ognuno poté dare, o si sentì di dare, all’azione dei partigiani (e furonoi più) o dei loro avversari fascisti (e furono un ben sparuto numero). È certo che gli «anni del consenso» con il regime fascista (che c'erano stati: inutile negarlo) erano ben lontani, sostituiti da un rancore crescente verso i crudeli, prepotenti, violenti invasori tedeschi ed ancor più verso coloro che ne erano stimati i servi; è altrettanto certo che ciò portava la maggioranza della popolazione a sentirsi moralmente «dalla parte» della Resistenza. Una cosaè certa: chiunque abbia combattuto per la Liberazione in quegli anni di ferro, sa come in tutta l’Italia occupata dai tedeschi l'appoggio materiale e morale da parte della grande maggioranza fosse non solo di conforto, ma costituisse un aiuto senza il quale sarebbe stato impossibile continuare la lotta. E un fatto su cui tutti icombattenti - senza distinzione di orientamento politico - concordano e che è addirittura risibile voler porre in dubbio. Nel corso della lotta non pochi passarono non di rado da un appoggio passivo ad un aiuto attivo al resistenti, vincendo attendismo e paura. In Italia meridionale, sebbene la causa della Repubblica sociale italiana non vi avesse alcun seguito, vi furono fenomeni di imboscamento e di remitenza alla leva dettati solo da egoismo e da totale disinteresse alla causa nazionale (e talora anche dalla miseria, che, come fu giustamente osservato, sovente priva l’uomo anche del suo più elementare senso di dignità). Un fattore1importantissimo per il sorgere e lo svilupparsi dell’azione partigiana fu però, nel Nord, l'atteggiamento delle campagne. Esso non è stato mai studiato in maniera spassionata e critica: lo hanno impedito la persistenza dei miti e delle leggende politiche. Ma sta di fatto che i contadini, diffidenti per natura, lo furono in particolare nei confronti del fascismo repubblicano (che ebbe in genere un carattere prevalentemente urbano, con 1suoi centri nelle città), mentre tra i partigiani la prevalenza di quelli di origine contadina era quasi dovunque notevole. I soldati che dopo 1°8 settembre sì gettarono sulle montagne (equelli, enormemente più numerosi, che inizialmente cercarono rifugio a casa propria, sperando di poter sfuggire alla cattura da parte tedesca, come pure gli altri, che 1tedeschi erano riusciti a catturare ed avevano trascinato alla prigionia in Germania) erano almeno nella massa di origine contadina; e così lo erano parecchi dei giovani che raggiunsero poi 1 partigiani per sottrarsi alla chiamata alle armi da parte della Repubblica sociale. Tutto ciò non deve stupire se sì pensa che l’Italia era ancora, nel 1943, un Paese prevalentemente agricolo e che 1semplici soldati sì reclutavano in maggioranza schiacciante tra i contadini, sia per il loro stesso numero, sia perché ad essi riusciva difficile se non impossibile ottenere esoneri. Certo vi era un serio problema, che influì in vario modo (non ancora ben definito) sui

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rapporti tra contadini e partigiani. Era in atto il sistema delle consegne obbligatorie di prodotti agricoli agli ammassi, cui i contadini erano contrarissimi e cercavano di opporsì con ogni mezzo, eccetto l’uso della forza. Essi lamentavano che i prodotti venivano loro sottopagati (iilche era vero) e desideravano naturalmente venderli a prezzi più remunerativi. Dalle città si obiettava che questo era mercato nero ed in molti casi sì faceva ricadere sulle campagne la responsabilità della penuria cui erano assoggettati i cittadini. Anche questo era in parte vero, in parte non vero: non mancavano nelle campagne coloro che esigevano prezzi esosi ed esorbitanti; ma molti sì contentavano di ottenere quello che sembrava loro equo: vendere i prodotti ad un prezzo più giusto. Ovviamente le autorità della Repubblica sociale italiana rappresentavano, in questa lotta tra città e campagna, la parte vista dal contadini come ostile, tanto più che sì vociferava (e con molto fondamento) che gran parte delle derrate prese in modo più o meno violento da gruppi armati fascisti finivano ai tedeschi e non ai cittadini italiani. Questa situazione (che ricorda in qualche modo, sia pure con minor spargimento di sangue, la lotta tra città e campagna in Russia al tempo del «comunismo di guerra») finiva per far sempre più identificare ai contadini ìpartigiani come «ì loro» e i fascisti come i nemici. Così sì stabilì una specie di solidarietà tra mondo contadino e partigiani, solidarietà che ebbe sfumature varie, dall’appoggio aperto alla semplice non-ostilità, mentre 1fascisti(0, come dicevanoicontadini piemontesi «la repubblica») arrivavano «da fuori» ed erano per ciò stesso oggetto di diffidenza: a loro volta reagivano in genere a questa diffidenza contadina con atteggiamenti di aperta ostilità e sospetto, il che ne aggravava la posizione. Tale solidarietà del mondo contadino fu per 1 partigiani di valore inestimabile: non è esagerato dire che senza dì essa non sì sarebbero potuti sostenere e la loro lotta sarebbe presto diventata impossibile. Questo fu per 1partigiani l'appoggio più prezioso, così come quello degli altri contadini che formavano la maggioranza degli internati militari in Germania e che rifiutarono di porsi al servizio degli occupanti tedeschi. Tra le prime cose che nell'Italia occupata tentarono di fare i partiti con le loro modestissime forze, vi fu l'iniziativa per dare alla lotta di liberazione alcuni organi dirigenti che valsero a garantire subito un coordinamento. Anzitutto 1 Comitati di liberazione nazionale, nominalmente dipendenti dal CLN centrale di Roma ma in genere, per forza di

cose, largamente autonomi; poscia (0, in qualche caso, prima) i Comitati militari dei CLN; alcuni di essi (come quello piemontese, che si valse dopo qualche tempo dell’opera del generale Giuseppe Perotti) quanto mai attivi ed efficienti. Va anzi detto che lo stesso CLN del Piemonte fu il primo ad orgamzzarsi e a funzionare; gli altri in genere arrivarono dopo: il Comitato di liberazione Alta Italia (che doveva coordinare tutto il Nord e che ebbe per ciò specifica delega dal CLN centrale) non fu attivo che a partire dal gennaio 1944. | Un notevole sforzo fu anche fatto, dapprima mediante la creazione di Comitati sindaca-

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li clandestini, poi di Comitati di agitazione, per mantenere e sviluppare Il collegamento con il malcontento e la protesta operaia. Il fatto stesso che sia per gli occupanti tedeschi che per il governo fascista scioperare fosse un crimine inFre interrompeva la produzione ad essi quanto mai necessaria, dette ipso facto agli scioperi operai il carattere di protesta antifascista. Il raggruppamento di un certo numero dii partiti politici nei Comitati di liberazione ebbe anche due conseguenze non previste né volute (o, per lo meno, previste scientemente solo dai comunisti che cercarono tosto di porsi come 1reali «ispiratori» della politica dei CLN al che li aiutò il loro maggiore attivismo e la loro già te organizzazione): vale a dire una certa ostracizzazione di tutti quei gruppi o quelle forze che sì Nera ano fuori dai CLN (monarchici, comunisti dissidenti come il gruppo torinese «Stella rossa», parte dei repubblicani storici, ecc.). Tutti coloro che stavano all’interno dei CLN non tardarono a fregiarsi dell’ etichetta di «forze di rinnovamento», col che gli altri (che pure erano antifascisti e volevano combattere gli occupanti tedeschi) finirono prima 0 poi per venire di fatto demonizzati come «reazionari», per lo meno «obiettivamente». Grave cosa, in genere ignorata, sottovalutata o comunque scarsamente studiata dalla storiografia della Resistenza, ma in cui sì potrebbe anche vedere un accenno di inizio della famigerata politica «del salame» con cui, dopo il conflitto, nei Paesi ove arrivarono le Armate di Stalin, 1 comunisti finirono per liquidare gradualmente (come affettando un salame) ogni altra forza politica che non accettasse le loro direttive «unitarie», aventi come fine ultimo l’imposizione di un nuovo totalitarismo. In ogni caso, 1 partiti politici nell'Italia del Nord erano troppo assorbiti dalle necessità impellenti della lotta armata per dare eccessivo adito alle contese intestine; ma in Italia meridionale essi apparivano arroccati su una posizione settaria di rifiuto totale a collaborare con l’unico governo italiano esistente: quello regio presieduto dal maresciallo Badoglio. Ciò portò ad una sterile posizione di stallo che dette anche luogo ad episodi i quali non si possono definire che obbrobriosi come l’incitamento al popolo a scagliarsi contro quei soldati italiani che sì organizzavano per andare al fronte a combattere contro 1tedeschi e che furono in non pochi casi sottoposti ad un autentico linciaggio morale. In queste tragiche circostanze trascorse il primo inverno della nuova FASE (ma il quarto in assoluto). In Italia meridionale, malgrado tutto, il 13 ottobreilgoverno Badoglio

aveva dichiarato guerra alla Germania e l'Italia diventò «cobelligerante» degli Alleati; infine 18 dicembre il I Raggruppamento motorizzato andò al fuoco contro i tedeschi a Monte Lungo (Caserta). Data di importanza primaria, che segna infine l’entrata in linea di una sia pur modesta unità militare italiana accanto alle truppe alleate. Si può così dire che, infine, dall'autunno del 1943 gli italiani combattevano. Sui monti, nelle valli, sul fronte, all’estero, nei campi di internamento e di concentramento. Da parte degli occupanti tedeschi si cercò di schiacciare la Resistenza del Nord con il

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più spietato terrore. Giàil19 settembre, affrontati presso Boves (Cuneo) da un gruppo di soldati italiani, 1 tedeschi (comandati dal colonnello delle SS Piper; divenuto in seguito tristemente celebre per il massacro del prigionieri americani a Malmédy) dettero alle fiamme l’intero paese e trucidarono 32 civili, tra cui il parroco ed il commissario prefettizio, gettati ancor vivi tra le fiamme. Prova (sece ne fosse ancora bisogno) che1crudeli, spietati massacri tedeschi non vennero «poi», in «reazione» alle azioni partigiane: ma subito, quando ancora sì trattava di combattimenti di tipo «regolare». Cominciava così un tragico, sanguinoso cammino di morte e di stragi che avrebbe percorso le tappe raccapriccianti di Marzabotto (Modena), Sant'Anna di Stazzema (Lucca), Vinca di Fivizzano (Massa Carrara), per citare solo le più gravi atrocità. Un contributo a sbloccare la situazione eliminando le sterili diatribe dei partiti in Italia meridionale (diatribe che 1semplici combattenti partigiani del Nord, 1quali sì sentivano abbandonati, seguivano con impazienza e fastidio, domandandosi quando mai ci sì sarebbe infine dedicati unicamente alla lotta per cacciare gli invasori tedeschi dall'Italia), venne da una serie di iniziative promosse dalla Russia sovietica e, subordinatamente,

dal Partito comunista. Il 14 marzo 1944 il governo Badoglio poté, con legittima soddisfazione, diffondere la notizia del proprio riconoscimento da parte dell’Unione Sovietica, dovuto, certo, all’azione di quel grande ed abile diplomatico italiano che fu l'ambasciatore Prunas; ma anche (come non si tardò a vedere) ad una precisa ed astuta politica di Stalin. Il 27 marzo giunse a Napoli dall Urss Palmiro Togliatti, membro dell'esecutivo del Komintern, fedelissimo esecutore della politica staliniana. Immediatamente egli gettò da parte tutte le diatribe contro il governo Badoglio, dichiarò che la cosa essenziale era liberare l’Italia dal tedeschi e quindi potenziare al massimo la lotta armata contro di essi su tutti 1 fronti ove operavano degli italiani. Si sarebbe tosto costituito un «gabinetto di guerra» presieduto da Badoglio ed in cui sarebbero entrati 1 partiti, deponendo la loro sterile e negativa ostilità; a sua volta il re annunciò la propria intenzione di abdicare nominando il Principe di Piemonte Luogotenente generale del Regno al momento della liberazione di Roma. La mossa di Togliatti fu accolta indubbiamente con immenso sollievo e con ampio consenso da coloro che si battevano nel Nord (dai semplici combattenti, certo: forse non dai maggiori esponenti politici). Essa accrebbe enormemente tra i combattenti partigiani la popolarità dei comunisti e cominciò ad accreditare la leggenda del Togliatti «moderato, democratico», che avrebbe perseguito una «via italiana al socialismo» distinguendosi dal totalitarismo sovietico. La verità era (ed oggi l'apertura degli archivi ex sovietici l’ha ampiamente confermato) che Togliatti applicava puramente e semplicemente in Italia la politica dettata da Stalin, la migliore per dar credito ai comunisti e spianare loro la vita verso il potere.”

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I delitti commessi da Stalin, la sua figura di tiranno sanguinario hanno fatto dimenticare che egli era anche altro: un politico astuto e abilissimo, quanto mai realista; e che il suo tipico metodo erano le rivoluzioni «dall’alto»: prima al governo poi, se possibile, al potere.? Ma lasciamo queste divagazioni. Il fatto fu, lo ripetiamo, che l'iniziativa di Togliatti fu salutata con molto favore da quanti erano impegnati fino al collo nella lotta armata ed erano stanchi delle vuote diatribe dei partiti nel Sud, sebbene ciò nel Nord apportasse anche un elemento di divisione latente (e non tanto latente) tra le forze comuniste (e garibaldine) perché non pochi furono coloro i quali accettarono la nuova linea solo a fior di labbra, mantenendosi in realtà su posizioni estremiste, «operaiste» e settarie. In ogni caso ciò contribuì a rendere possibile la «grande estate» dal 1944 in cui la partecipazione italiana alla lotta di liberazione raggiunse 1 suoi apici. Sulla scia dell’entusiasmo per la liberazione di Roma e più tardi di Firenze, per l’abdicazione del re e l’insediamento a Roma di un nuovo governo presieduto da Ivanoe Bonomi, per lo sbarco alleato in Normandia, 1 partigiani passarono dovunque all'attacco. Intere valli e zone collinari furono almeno e liberate: fu 11 momento delle «repubbliche» partigiane, dalle valli del Cuneese alla Val Chisone, alle Langhe, all’Astigiano, alla Carnia, a Montefiorino (Modena), a Torrigha (Genova) all’Ossola, infine ad Alba: dovunque furono instaurati «governi» provvisori, furono pubblicati giornali liberi, in alcuni casi 1 Carabinieri (che militavano numerosi fraivolontari della libertà) ripresero le loro funzioni di tutela dell'ordine pubblico; in molti casi nei comuni liberati furono create Giunte popolari mediante libere elezioni, le prime in Italia dopo il ventennio fascista. Infine s1 intensificò anche la lotta nelle posizioni più avanzate ed esposte: le stesse città, sede del nemico. Colà agivano organizzazioni varie (ovviamente, tutte di e/te) come i Gruppi di azione patriottica (GAP) di ispirazione garibaldina o l'Organizzazione Franchi, diretta da Edgardo Sogno, di tendenze autonome (cioè non specificamente Li Il 19 giugno 1944 tutte le unità partigiane erano state raggruppate nel Corpo volontari della libertà, dipendente dal CLNAI; qualche tempo dopo, per iniziativa del governo italiano, il generale Raffaele Cadorna, che sì era distinto combattendo contro i tedeschi 1°8 settembre, fu paracadutato per assumerne il comando (per altro Cadorna incontrò non pochi ostacoli a venire accettato: gli esponenti politici avrebbero infatti voluto riservargli unicamente la carica di «consulente militare». Infine l'accordo fu raggiunto). I conflitti - anche duri - tra correnti della Resistenza non mancarono, ma (a differenza di quanto accadde in Jugoslavia o in Grecia) senza che si arrivasse al sangue, eccetto che in alcuni casi ben individuati e dovuti a tentativi di sopraffazione da parte di forze estremiste a danno degli altri combattenti partigiani. Alcuni tra i peggiori di questi tentativi ebbero luogo però dopo la fine del conflitto, come gli assassinii commessi nel famigerato «triangolo della morte», in Emilia.

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Sul fronte, il Corpo italiano di liberazione (CIL) passò di successo in successo, liberando Chieti e L'Aquila e infine distinguendosi con la bella vittoria sui tedeschi conquistata dai paracadutisti della «Nembo» a Filottrano, nelle Marche. Purtroppo tutti questi successi erano stati pagati a carissimo prezzo. La perdita più tragica forse fu quella dei 335 ostaggi fucilati alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Tra di essi (sebbene le vittime di parte comunista non mancassero) cadde il fior fiore della Resistenza «moderata» e «militare» che fu letteralmente decapitata, perdendo uomini come il colonnello Montezemolo, il generale Simoni, il generale Fenulli, Pilo Albertelli, responsabile militare del Partito d'azione. La speranza che la Liberazione fosse potuta venire già nell'estate del 1944 era stata grande: ma, infine, le forze alleate dovettero segnare il passo sul fronte occidentale (dopo il disastroso insuccesso di Arnhem, in Olanda) e in Italia (ovelaloro avanzata cozzò contro una nuova posizione tedesca di difesa: la Linea gotica, lungo l'Appennino). Peggio le cose sì misero sul fronte orientale, ove la disperata ed eroica insurrezione di Varsavia fu abbandonata a se stessa dal sovietici e sì chiuse, dopo mesi di lotta, con il completo schiacciamento degli insorti (che ebbero 250.000 caduti) e la totale distruzione di Varsavia. Anche in Italia si dovette ora registrare un tempo d’arresto; e, nel frattempo, fronteg-

giare la rabbiosa controffensiva tedesca contro le forze partigiane (fu in questo ciclo di operazioni che sì ebbero le stragi di Marzabotto, di Sant'Anna, di Vinca: prove tra l’altro, se ce ne fosse ancora bisogno, che 1 tedeschi ed i loro collaboratori «sentivano» la

popolazione italiana come nemica). Le forze partigiane dovettero sostenere terribili combattimenti: nel Veneto, sul Monte Grappa, l'offensiva nemica, condotta da ingenti forze, cominciò il 19 settembre. Dopo giorni di violenta lotta in cui caddero centinaia di partigiani (31 furono i prigionieri impiccati solo a Bassano del Grappa), venne la volta della zona libera della Carnia, poi dell’Ossola, infine delle Langhe dove le forze del comandante Mauri resistettero per oltre un mese, perdendo circa 100 caduti ed infliggendo al nemico gravi perdite, tra cui la distruzione di otto mezzi corazzati. In questo quadro va visto il proclama lanciato 1 13 novembre 1944 dal maresciallo Alexander, comandante le forze alleate, il quale incitava i partigiani a rallentare le proprie operazioni in attesa di una stagione migliore. Era, in sostanza, un suggerimento ben intenzionato, anche se mostrava una non perfetta conoscenza delle condizioni della lotta dietro il fronte. Comunque le sinistre sì affrettarono a darne una interpretazione malevola, volendo vedere in esso un invito quasi alla defezione, il che assolutamente non era. Venne così il secondo inverno, ma fu l’ultimo; nella primavera del 1945, con l’inizio

dell’offensiva alleata su tutti i fronti, la guerra sì avvicinò alla conclusione. Nel Nord Il CLNAI invitò la popolazione adi insorgere € fece un’azione assai più effettiva muovendo le formazioni partigiane sulle città. Sebbene il nemico non fosse più in grado di opporre una forte resistenza, i combattimenti non mancarono, specialmente a Torino.

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Certo fu grande soddisfazione delle forze partigiane poter salutare l’arrivo degli Alleati nelle città pilibere dove la vita stava riprendendo in buon ordine. Sul fronteilCorpo italiano di liberazione era stato ritirato e riorganizzato in una serie di Divisioni (chiamate «Gruppi di combattimento») ben armate ed equipaggiate con materiale inglese. Presero così parte all'offensiva finale 1Gruppi Legnano, Cremona, Friuli e Folgore (in cui fu incorporata la vecchia, gloriosa Divisione Nembo). È furono ifanti del «Friuli» che ebbero la gioia di entrare per primi a Bologna, precedendo ogni altra truppa alleata. Così la guerra di liberazione era terminata. Cominciava un nuovo, difficile capitolo della storia italiana, ma non è nostro compito occuparcene. Quale contributo aveva dato l’Italia alla propria liberazione? Da parecchie parti sì continua a ripetere ad nauseam con acidità che 1combattenti italiani, partigiani o soldati,

non hanno vinto la guerra. Questa sembra proprio la scoperta dell‘acqua calda: iresistenti, tutti i resistenti che combatterono (e non gli «eroi della sesta giornata»°), non hanno mai preteso di aver vinto essi la guerra; nemmeno di aver dato un contributo rilevante. Sapevano e sanno benissimo quello di cui molti, troppi, sì sono voluti dimenticare: che la vittoria sul fronte italiano è stata dovuta agli Alleati ed alle loro Forze armate. Senza di essi, senza il loro contributo di sangue e di sacrifici, senza la loro potenza militare, non saremmo mai stati liberi, l'Europa intera non sarebbe mai stata libera. Ma ciò che 1l sangue ed 1 sacrifici degli italiani ci hanno dato è stato il recupero della nostra dignità nazionale. È non sì è trattato di piccola cosa. Le Forze armate italiane, terrestri, navali ed aeree, impegnate sul fronte e comprese nei quattro Gruppi da combattimento (cui devono essere aggiunti il «Piceno» ed il «Mantova» che non fecero in tempo ad entrare in azione) superavano all’atto della Liberazione 1 70.000 combattenti, ma ad essi sì debbono sommare quelli che nei mesi precedenti militarono nel Corpo di liberazione e nel IRaggruppamento motorizzato e che per vari motivi (caduti, mutilati, feriti, ammalati, dispersi) non poterono riprendere la lotta nei Gruppi. Tutti insieme (e secondo un calcolo precauzionale) si possono far ammontare ad oltre 100.000. Se ad essì si aggiungono ancoral’Aeronautica, la Marina e le così dette Divisioni «ausiliarie» (chein realtà garantirono 1 servizi logistici non solo alle forze italiane ma anche e sopra tutto a quelle alleate, operando sempre sulla linea del fuoco, con rischio continuo della vita e gravissimi sacrifici) sì può dire in tutta tranquillità che i combattenti italiani delle forze così dette «regolari» superarono (e di parecchio) i420.000 uomini. Ad essi occorre sommare 1 partigiani all’estero (circa 65.000), nonché le forze partigiane in Italia che all’atto della Liberazione oscillavano sui 70.000 uomini ma che nell’arco dei due interi anni avevano schierato un totale di circa 220.000 combattenti. Complessivamente oltre 700.000 italiani si batterono su terra, in cielo, sui mari, all’estero e sui monti e nelle valli italiane nella guerra di liberazione. E non si dimentichinoi650.000 che, internati in

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Germania, seppero resistere a tutte le minacce, a tutte le lusinghe, a tutte le pressioni, preferendo la squallida, miserevole vita dei campi di concentramento, la fame, il freddo, le malattie, 1maltrattamenti piuttosto che accettare di collaborare militarmente con

gli occupanti tedeschi venendo meno al giuramento prestato.!9 Quanti dettero la vita in questa crudele guerra? Secondo dati forniti dalle autorità italiane i partigiani caduti furono 35.828 cui si debbono aggiungere 9980 civili massacrati per rappresaglia. I partigiani all’estero ebbero 32.000 caduti; gli internati militari in Germania 40.000; le Forze armate (che avevano avuto 26.000 caduti nella battaglia dell’8 settembre) ne ebbero altri 20.000 da Monte Lungo alla Liberazione. Tra di essi, 29 generali dettero la vita, caduti in combattimento o massacrati; altri 10 perirono nei campi di internamento portando il totale a 39. Il numero dei civili e degli ebrei italiani morti nei campi di sterminio oscilla sui 40.000 (ebrei italiani deportati, incluse le isole dell’E geo: 8566, di cu morti nei lager 7557; deportati italiani non ebrei: 36.434, di cui morti nei lager circa 32.000). Il totale dunque dei caduti italiani su tutti 1 quattro fronti della Resistenza (partigiani e civili, combattenti del fronte, partigiani all’estero, internati edeportati) si può far sali13, secondo un calcolo prudenziale, a circa 200.000 (esattamente 203.365). Più del 28% diquanti, in vario modo, presero parte alla lotta. Se a tutti costoro aggiungiamo i mutilati, 1 feriti, gli ammalati, gli storpi, coloro che uscirono dall’atroce esperienza dell’occupazione e delle rappresaglie tedesche spezzati nel fisico e nel morale, allora il numero delle vittime si avvicina al mezzo milione. Oggi però arrivano coloroiquali parlano di «presenza» tedesca in Italia anziché di occupazione; e gli altri, che ci vengono a raccontare che la Resistenza fu un mito. Già, un mito. Con quasi mezzo milione di vittime. Non scherziamo! Così l’Italia contribuì al ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Altri caddero, sul fronte opposto: e per quanti lo fecero credendo onestamente di compiere il proprio dovere così come ad essi era dato di capirlo, non sì può che nutrire rispetto. Ma non sì deve dimenticare che 1 caduti della Resistenza dettero la vita perché l’Italia e 11 mondo fossero liberi. Questo è l’immenso debito che tutte le generazioni hanno contratto con loro.

DI

LA BATTAGLIA DELL’8 SETTEMBRE

L'un dopo l’altro 1 messi da sventura Piovon come dal ciel. Longwy cadea E 1fuggitivi da la resa oscura S'affollan polverosi a l'Assemblea. - Eravamo dispersi in su le mura: À pena ogni due pezzi un uom s’avea: Lavergne dispari ne la paura: L’armi fallian. Che puù far si poeta? - Morir - risponde l’Assemblea seduta. Giosue Carducci, Ca 1a

Tutto cominciò con la battaglia dell’8 settembre 1943. Ma che cosa rappresenta tale evento, a mezzo secolo di distanza, nella memoria storica degli italiani? Vediamo se si può

tentare di tracciarne un bilancio.Il primo quesito cui si deve cercar di rispondere è 1l seguente: fu 1’8 settembre una data di cui il Paese deve sentir vergogna? Mettiamo subito da parte la tesi per cui tale vergogna dovrebbe derivare dal «tradimento» ai danni dell’alleato tedesco. Tale tesi (di matrice fascista)ècosì priva di fondamento che non meriterebbe nemmeno parlarne. Pochi cenni AO bastare. Come sì è detto in precedenza, l’Italia era effettivamente legata alla Germania nazista dal così detto «patto d'acciaio». Messa da parte l'ilegittimità del patto stesso (nonché Il fatto che i tedeschi erano stati iprimi a violarlo quando nel 1939 scatenarono la guerra senza informare l’Italia preventivamente come era previsto dall'art. 3), rimane però il principio che pacta sunt servanda. Certamente: ma fino al momento in cul mantenere 1l patto possa significare una minaccia mortale alla vita stessa della nazione. Allora gliinteressi della Patria debbono prevalere su ogni altra considerazione. Non sì è mai visto alcun Paese lottare per gli interessi... di un altro. Una classe dirigente che ciò facesse sarebbe - essa sì - colpevole di tradimento verso la propria Patria. E questo fia suggel che ogni uom sganni. Più grave l’accusa - proveniente dall’antifascismo - secondo cui l°8 settembre, caratterizzato dalla fuga vergognosa del re, della Casa reale, del governo e degli Stati maggiori, 1quali abbandonarono a se stessi 1 soldati, lo sarebbe stato anche dal contegno (che si vuole egualmente vergognoso) dei militari (o meglio, poiché un tantino di demagogia non guasta) degli ufficiali che st sarebbero dati in massa alla fuga codarda di fronte ai tedeschi. Il tutto per giungere alla condanna totale non già del fascismo (che sì era già condannato da sé con le sue follie e 1 suoi errori) ma dello Stato italiano in se stesso, delle sue strutture, delle sue Forze armate, quali si erano andate creando nel Risorgimento e ne erano state il frutto. Vediamo come stanno le cose. Anzitutto è un fatto indiscutibile che il re e il governo

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(assai meno, forse, il Principe ereditario; e per nulla affatto gli Stati maggiori, che invece avrebbero dovuto rimanere ai loro posti) avevano il dovere di sottrarsi alla cattura da parte tedesca. Così agendo, si comportarono semplicemente come prima di loro avevano fattoireali ed igoverni di Olanda, di Norvegia o di Grecia. Il re del Belgio che scelse di restare a Bruxelles divenne un trastulloi impotente in mano tedesca e fu dal suo popolo tacciato di tradimento. Questo può almeno in parte contribuire a spiegare la così detta «fuga di Pescara». Che poi il re si fosse in precedenza caricato di enormi responsabilità mettendo al potere Il fascismo, consentendogli di calpestare lo Statuto, di legare il Paese alla Germania nazista e poi di trascinarlo in guerra, è un fatto; che la Monarchia fosse quindi venuta meno al compito fissatole da Cavour, di salvaguardia contro l'avvento di governi autoritarì di tipo bonapartistico e contro le loro follie, è altrettanto esatto. Ma la «fuga di Pescara» non era la conferma dell’ignavia del re, come si volle sostenere, ma un atto che non poteva non venir compiuto. Ma (si accusa) le strutture dello Stato- e inparticolar modo le Forze armate, e in particolarissimo modo il corpo degli ufficiali - si comportarono vilmente, ecc. Vediamo anche qui le cose un po’ più da vicino. Tra 1militari (e gli ufficiali, su cui pesano in ogni caso le maggiori responsabilità) vi furono coloro che vennero meno non solo al loro dovere, ma alla dignità stessa di soldati. Anzitutto, 1 traditori. Tali sono coloro che nelle battaglie dell’8 settembre si misero apertamente dalla parte dei tedeschi, talora aprendo addirittura il fuoco contro 1 loro compagni d'arme italiani. (Diverso sarà il caso di quelli che aderiranno più tardi alla Repubblica sociale italiana: sarà questa una scelta discutibile, però comprensibile. Ma all’8 settembre la Repubblica sociale non era ancora stata costituita.)!! I traditori vi furono, come coloro che assassinarono il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna, Capo di Stato maggiore della Divisione Nembo, ma, in genere, furono relativamente assai pochi. '° Più numerosi, molto più numerosi purtroppo, furono1pavidi, gliignavi, gliinetti. Da parte di molti tra costoro sì obiettò che «non c'erano ordini», che le disposizioni «non erano chiare» e che quindi le Forze armate erano state abbandonate a se stesse.

Ciò non è del tutto vero, perché se i Capi di Stato maggiore non mostrarono certo né audacia né Iniziativa, la Marina e l'Aeronautica sapevano che cosa fare - e lo fecero. Quanto all’ Esercito, il comunicato diramato dal maresciallo Badoglio, pur nella colpevole assenza di ordini specifici, parlava chiaro a chi non avesse voluto fare il sordo: le ostilità contro le Nazioni Unite cessavano; ma bisognava reagire con le armi ad ogni attacco da qualsiasi altra parte. E poiché in Italia non vi erano né i marziani né gli ottentotti, era chiaro che si parlava dei tedeschi. Ma vent'anni di asservimento ad un regime dittatoriale ove era cosa saggia non impicciarsi nella «politica» e pensare alla carriera, ove i piaggiatori finivano sovente per prevalere e le

La battaglia dell’8 settembre

persone sincere venivano messe in disparte, avevano lasciato il segno. Vi erano troppi 1 quali avevano dimenticato che quando si portano le spalline (o addirittura si sceglie Il mestiere delle armi) si deve porre in bilancio anche la possibilità di giocarsi la vita: se di questo non ci si rende conto, allora sì è sbagliato mestiere. E bisogna anche ricordare che il dovere di un soldato non è di arzigogolare, di «interpretare» gli ordini, ma di eseguirli. Per costoro il vecchio motto Ust obbedir tacendo, e tacendo morir era del tutto caduto nel dimenticatoio. Ma accanto ai traditori ed agliignavi vi furono coloro che gli ordini li avevano capiti benissimo e che scelsero l’unica via dell’onore militare: battersi. E furono di più-assai di più-dì quanto una leggenda malevola e intessuta di menzogne non voglia riconoscere. Soldati, sottufficiali e ufficiali, di complemento e in servizio permanente, come il già citato Bechi Luserna; generali come Ferrante Gonzaga, D'Amico, Gandin, CigalaFulgosi, Policardì, Pelliora, gli ammiragli Bergamini, Campioni e Mascherpa (questi ultimi due fucilati dai fascisti per... aver compiuto il loro dovere): tutti questi - e molti altri - dettero la vita, primi caduti della guerra di liberazione. Che la propaganda fascista abbia cercato di infamareisoldati dell’8 settembre, lo sì può anche capire; più difficile ècomprendere perché lo fecero sino a ierl-e in parte ancora lo fanno - parecchi che fecero parte delle correnti antifasciste. Perché? Sergio Romano ha osservato giustamente'? che tutte queste forze - 1 cattolici in particolare, ma anche i comunisti e parecchi socialisti massimalisti - erano per tradizione estranee (e sovente ostili) allo Stato italiano unitario così come era uscito dal Risorgimento; il Partito d'azione, possiamo aggiungere, rappresentava in parte 1 discendenti di quella sinistra inconciliabile che nel Risorgimento aveva perduto la partita. Ora lo Stato monarchico era in crisi: ottima ragione per dargli addosso. Perché, certamente, si voleva eliminare la Monarchia (e questa, date le responsabilità dell'istituzione, era un’aspirazione giusta e plausibile), ma sopra ogni altra cosa sì volevano abbattere e togliere di mezzo le istituzioni dello Stato tradizionale, in primo luogo le Forze armate, gettando su di esse il discredito. Si era rinunciato, cioè, a rinnovare lo Stato eliminandone le pecche, programma forse «minimo» ma fattibilee (e urgente). Quello che invece si «sognava» era di gettarlo a mare e crearne uno nuovo; progetto di palingenesi che era (e che si sarebbe rivelato) del tutto utopistico. Salvo forse per 1 comunisti che, coerenti come sempre, seguivano un loro piano di «trasformazione» avente come fine la conquista del potere con i metodi possibili in Occidente. Sarebbe da studiare quanto queste aspirazioni palingenetiche (con la conseguente rinuncia ad un rinnovamento più modesto e concreto) abbiano contribuito alla mancata riforma dello Stato dopo la Liberazione. Che nel calore della lotta politica si usassero tali argomenti per discreditare ed abbattere lo Stato monarchico e possibilmente le sue istituzioni, è del tutto comprensibile; il giudi-

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Resistenza - album della guerra di liberazione

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1943-1945

zio politico non è teso alla ricerca della verità, ma ad assicurare la vittoria della propria parte. Ma che dopo la guerra ed ancora oggi quel giudizio politico non sia stato sostituito dal giudizio storico è cosa grave, in parte spiegabile con la scissione della guerra fredda (che però ormai è strafinita). Vediamo quale fu la verità. Che nell’Esercito regio vi fossero alcuni traditori e parecchi ignavi, si è detto; ma ogni nazione attaccata da Hitler ebbe1suoi codardi e i suoi Qursling. Che il governo monarchico abbia gestito la crisi nel più fallimentare dei modi, è anche esatto (con lo sciagurato comunicato del 25 luglio «la guerra continua»; la disposizione di reagire agli attacchi che, chiara in sé, lasciava però ogni iniziativa in mano al presunto nemico; la latitanza dei Capi di Stato maggiore: e, già prima, l’assurdo rifiuto di accoghere la Divisione aviotrasportata che gli americani intendevano inviare di rinforzo ai difensori di Roma). Tuttavia coloro che non tradirono o non si fecero prendere dal panico avevano elementi abbastanza per potersi battere. E, giova dire, si batterono. L’Esercito italiano era logorato, depauperato da tre anni di guerra persa; le truppe tedesche erano già abbondantemente penetrate in casa, insinuatesi in mezzo alle nostre unità. Tuttavia gli italiani combatterono, dando sovente al nemico parecchio filo da torcere. Ciò appare chiaro dal numero dei caduti nella battaglia dell’8 settembre. 26.000 furono 1morti; e almeno altrettanti imutilati, 1 feriti, 1 dispersi. Attorno a Roma le Divisioni Piave e Ariete, comandate dai generali Tabellini e Cadorna, sì batterono ricacciando 1 tedeschi; 1 cavalleggeri di Montebello persero nella feroce battaglia quasi tutti i loro ufficiali. In Corsica furono le Divisioni italiane Cremona e Friuli, ben guidate dal generale Magli e dai loro comandanti, che, unite ai partigiani e ai soldati francesi, buttarono 1 tedeschi fuori dall'isola dopo giorni di lotta sanguinosa: il comandante francese, generale Louchet, scrisse che gli artiglieri italiani avevano dato prova «di valore e di efficienza tecnica» e che egli «non li avrebbe mai potuti ringraziare abbastanza».!* Sull’isola d'Elba soldati e marinai aiutati dai civili respinsero, in violenti combattimenti, 1 tentativi tedeschi di conquistare l'isola stessa colando a picco due motozattere nemiche e rintuzzando infine l'assalto. I presìdi italiani di Cefalonia, Lero, Rodi, Coos resistettero per giorni e giorni pagando con la vita il loro eroismo, gli ultimi si arresero il 16 novembre(e vennero immediatamente fucilati, in dispregio del diritto delle genti. Ma, si sa, 1 nazisti non davano molto peso al diritto delle genti). I soldati e gli ufficiali italiani in Jugoslavia, in Albania, in Grecia, guidati dai generali Azzi, Oxilia, Infante, sì unirono quasi in massa al partigiani e continuarono insieme ad essi a combattere sino alla fine del conflitto. Nel complesso l'Esercito italiano non solo si batté, ma si batté in modo che non sfigura a petto di altri, aggrediti da Hitler. L'esercito del Regno diJugoslavia, attaccato mentre era al massimo del suo potenziale, fu liquidato in tre giorni; quello olandese, forte di

La battagha dell’8 settembre

due Corpi d’Armata, sì arrese in quattro giorni; quello francese, considerato il più potente del mondo, forte di sei Divisioni corazzate oltre quelle di fanteria, fu fatto letteralmente a pezzi, catturato in massa e costretto alla resa in 36 giorni. Lo stesso Esercito rosso, appartenente a quell’ Unione Sovietica il cul rappresentante Vishinsky osò poi dire, alla Conferenza della pace di Parigi, che gli italiani erano «più buoni a scappare che a combattere», ebbe all’inizio disfatte enormi, lasciando in mano tedesca milioni di prigionieri, alcuni (per ammissione dello stesso Stalin) arresisi dopo appena un simulacro di resistenza. Non faremo paragoni, perché 1 paragoni sono odiosi; ci limiteremo a dire che l’Italia ebbe né più né meno il destino di tanti Paesi attaccati da Hitler e che tra 1 suoi ufficiali ed 1 suoi soldati vi furono molti che seppero salvare l’onore e compiere il loro dovere fino al sacrificio supremo. E che l’ultimo reparto italiano a capitolare fu quello di Lero, che tenne duro, come si è detto, fino al 16 novembre 1943, cioè per oltre due mesi.

Episodi, st dirà. Ma tutti 1 grandi eventi sono composti da una somma di episodi. Manca a tutt'oggi un quadro organico e completo della battaglia dell’8 settembre: evidentemente gli storici erano in altre faccende affaccendati. Il mantenere però un quadro frammentario di tale battaglia non fu senza scopo. Esso servì a costruire la menzogna dell’'Esercito italiano «che non si batté, salvo eccezioni» (e non importa se quelle «eccezioni» erano costituite da centinaia di migliaia di soldati e da migliaia di ufficiali). In realtà le Forze armate italiane non sfigurarono: è nostra opinione che se ci sì decidesse a costruire uno studio storico esauriente ed organico della battaglia dell’8 settembre, la menzogna che ancora viene spacciata come moneta corrente sarebbe spazzata via e verrebbe fuori che 1 soldati italiani non hanno proprio nessun motivo di vergognarsene: assai meno di altri, in ogni caso. 650.000 caddero in mano tedesca e furono inviati nei campi di concentramento in Germania, soggetti ad un trattamento rude e crudele; altri sfuggiti alla cattura, sì gettarono sui monti. Per essi la guerra contro l’invasore tedesco era appena cominciata.

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Dove non è espressamente indicata la provenienza, le foto si intendono di proprietà dell'Archivio Rizzoli

hd DLALVII

LA

LA GUERRA E FINITA ............ Badoglio annuncia alla Nazione che la richiesta di un armistizio è stata accolta dal gen. Eisenhower Le forze italiane cessano ovunque da ogni ostilità contro gli anglo-sassoni Ia sapranno reagire contro eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza Resa all'ineluttabile ‘1agerisione impesta dalipassi LI e LaNOIZia allaCasa Bian dicontinuare l'impari lotta

La notizia dell’Armistizio come apparve sui quotidiani del 9 settembre 1943. (Archivio «La Stampa»)

Comincia la «battaglia castro n 001 È N. iultimicombattimen

La battaglia nel bacino del Done: prosegue con immutata violenza La città di Stalino sgomberata dai tedescl

dell’8 settembre»: soldati del I Granatieri si

preparano a difendere Porta San Paolo a Roma; l’ultimo a destra in abiti

civili è il tenente Raffaele Persichetti che cadra il 10

presso la Piramide di Cato Cestio meritando la medagha d’oro alla memoria.

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E cominciata la lotta attorno a Porta San Paolo, primo episodio della battaglia per Roma le cui vicende non sono mai state studiate seriamente e a fondo. Nella foto sopra soldati italiani rispondono al fuoco; nell'altra granate tedesche esplodono presso la Porta. (Collezione privata)

La battagha dell’8 settembre

Resistenza - album della guerra di liberazione 1943-1945

Pianta schematica della battaglia per Roma. Come si vede dallo schieramento delle Divisioni italiane, se fosse esistito un Comando coordinatore esse (in genere ben distribuite e combattive, come st vide) avrebbero potuto aver ragione dei tedeschi. (Foto Ansa)

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8-9 settembre: i luoghi

MONTEROSI

degli attacchi tedeschi alle forze italiane

14 MONTEROTONDO

10 settembre: Ore 16: Calvi di Bergolo firma

l'armistizio con Kesselring

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di Sardegna Ora 17: cessa l'ultimo atti resistenza a Porta San P.

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8-9 seltembre: Ponte della magliana {Ovest di Roma) principale teatro della

«| battaglia per la difesa della capitale

4-Basilica 4

San Paolo

pria

La battaglia dell’8 settembre

41

Un altro episodio della battaglia dell’6 settembre: la corazzata S Roma da 40.000 tonnellate,

nave ammiraglia della flotta italiana, in navigazione verso I Malta, vista da poppavia della corazzata gemella Vittorio Veneto e nel drammatico istante BI del suo affondamento. Peri quasi a l'intero equipaggio e l'ammiraglio E SABA

Bercamini, comandante della flotta italiana.

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Cannoni semoventi della Divisione corazzata Ante entrano in battaglia contro 1 tedeschi nella campagna tra Monterosi e Manziana (Viterbo). L’«Artete», al comando del generale Raffaele Cadorna, figlio di Luigi e futuro comandante del Corpo volontari della liberta, inflisse un grave rovescio ai tedeschi. (Uff. storico S.M. Esercito)

Un carro armato dell’«Aniete»: dopo la resa di

Roma, il 10 settembre 1943, st preferì distruggere mezzi e armamenti della Divisione per non lasciarli in mano ai tedeschi. Qui a lato una saracinesca in via Ostiense a Roma eriwvellata di colpi in seguito ar combattimenti di strada. (Foto Publifoto)

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Truppe tedesche a Roma davanti al ministero dell’Interno. Roma rimase sotto occupazione tedesca fino al 4 giugno 1944. Dapprima vi st riuni ilgoverno della Repubblica sociale che però subito st spostò a Salo, sul Lago di Garda.

La battagha dell’8 settembre

Una drammatica immagine di truppe tedesche colte nel tentativo di arrestare sparando un aereo della Regia Aeronautica che si appresta a decollare dall'aeroporto di Peretola (Firenze) per recarsi al Sud.

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Corsica: ufficiali italiani e capi partigiani corsi si accordano per la battaglia contro 1 tedeschi. Le truppe italiane di stanza in Corsica st schierarono immediatamente contro 1 tedeschi che presidiavano in forze l’isola. Tra 1 reparti italiani vi erano le Divistoni Friuli e Cremona che combatteranno poi al fronte in Itaha.

La battaglia dell’8 settembre

Un altro momento della guerra in Corsica: l’Artighenia italiana st prepara ad entrare in azione contro leforze tedesche a Bastia. Il contributo delle nostre batterie sara fondamentale - a detta degli stessi francesi — per la liberazione della città e di tutta l’isola. (Uff. storico S.M. Esercito)

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La battagha dell’8 settembre

n) All’annuncio dell’Armistizio 1 tedeschi attaccarono

immediatamente leforze rtaltane stanziate nelle varie isole greche. Una tra le più violente battaglie si svolse a Cefalonia, difesa strenuamente dalla Divistone Acqui. In ispregio ad ogni legge di guerra, 1 tedeschi massacrarono spietatamente gli italiani che avevano fatto

prigionieri. Dall'alto: un pezzo d'artiglieria della «Acqui» viene portato in batteria e due soldati ttaliani combattono con un fucile matragliatore. Nella pagina a fianco, dall'alto: soldati della «Acqui» si apprestano a respingere

l'attacco tedesco; un posto di blocco italiano cattura un motociclista tedesco il 13 settembre 1943.

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DELL'ARMATA ITALIANA Col tradimento di Badoglio, l'Italia fascista e la « CAMERATI

Germania nazionalsocialiste sono state abbandovate vilmente nella loro lotta fatale.

i

La consegna delle armi dell’armata di Badoglio

in Grecia è terminata completamente, senza spar-

gere sangue. Soltanto la divisione '’ Acqui” al comando del generale Gandin, partigiano di Bedoglio. dislocata nelle isole di Cefalonia e di Coriù, e isoleta colà dagli altri territori, ba respinto l'offerta di una consegna pacifica delle armi e ba

cominciato la lotta contro i camerati tedeschi e Sascisti.

Un volantino tedesco lanciato sulle nostre

Questa lotta è assolutamente senza speranza. Le divisione è divisa in due parti, è circondeta dal - mare, senza alcun rifornimento e senza speranza

posizioni a Cefalonia. Si noti la promessa

di aiuto da perte dei nostri nemici. Noi camerati tedeschi non vogliamo queste lot-

menzognera ai soldati italiani di farli scegliere

‘al afidarvi ai presic'i tedeschi delle Isole. Allora

tra il «ritorno in Patria»

e la prigionia tedesca. Furono invece tutti massacrati.

Nella pagina a fianco, due delle centinara di ufficiali italiana che saranno sterminati a

Cefalonia. Quello a destra di chi guarda è il tenente Gianni Clenci, milanese, che s1 avvio alla

fucilazione cantando Il Piave. Gli fu conferita la medaglia d’argento alla memoria.

ta. Vi invitiomo perciò a deporre le vostre armi e anche per voi, come per gli altri camerati italiani, è aperta la via verso la Patrie.

Se però sarà continuata l’attuale resistenza irragionevole, sarete tutti schiacciati ed annientati fra pochi giorni dalle forze preponderanti tedesche che stanno roccogliendosi. Chi verrà fatto prigioniero allora non potrà piu tornare nella Patria. Perciò, camerati italiani, appena otterrete gue-

sto manifestino, passate subito ai tedeschi. E l'ultima possibilità di salvervit

IL GENERALE TEDESCO. DI CORPO D'ARMATA »

Chi

sarà fatto prigioniero allora nos potrà

piu tornare nella Patrie! È l'ultima possibelisà di salvarsi! |’ -

La battaglia dell’8 settembre

Di

Resistenza - album della guerra di liberazione 1943-1 945

Uomini della Divisione Acqui in attesa di essere fucilati. Gli ultimi di Cefalonia, 1 primi d’Italia. Nella pagina a fianco, dall'alto: in ispregio del diritto delle genti, il Comando tedesco annunziaSI: un manifesto che1 soldati italianièquali «oseranno» resistere (obbedendo 0a agli ordini del legittimo governo) saranno messi a morte;u altro manifesto annuncia la fucilazione di dieci soldati i presso Mantova per aver «sparato su un reparto di soldati

germanici in marcia», cioè per aver eseguito gli ordini del governo italiano.

Attenzione! Le truppe italiane che oppongono resistenza agli ordini germanici verranno trattate come

francotiratori. Gli ufficiali ed i comandanti di queste truppe verranno fatti responsabili della resistenza e fucilati senza pietà come

francotiratori. Il Comando Superiore Germanico

Flhhommandantue Mantua AVVISO tn dato

19 Settembre

secondo la legge marziale

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passati

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di armi

1 seguenti soldi ti inabiani:

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L'apogeo della guerra di liberazione

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