René Descartes e il teatro della modernità
 9788898694112, 9788898694815

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Alfredo Gatto

René Descartes

e il teatro della modernità

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 2 - Proposte

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Alfredo Gatto

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2015, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 2 - aprile 2015 ISBN – Edizione cartecea: 9788898694112 ISBN – E-book: 9788898694815 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Venetian Mask - dettaglio © Silvano Rebai - Fotolia.com

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A Silvia, We two being one, are it. John Donne, The Canonization

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Ringraziamenti Il testo qui presentato è l’elaborazione della tesi di dottorato discussa nel marzo del 2013 presso l’Università Vita-Salute San Raffaele. Vorrei esprimere la mia gratitudine ad Andrea Tagliapietra, il relatore della mia tesi; devo a lui, infatti, il suggerimento da cui ha preso il via, già durante la redazione della tesi di laurea specialistica, l’architrave dell’intero progetto. Vorrei ringraziare anche Massimo Donà per il contino incoraggiamento e il sostegno in tutti gli anni trascorsi al San Raffaele, e Leonel Ribeiro dos Santos per il supporto e l’interesse che ha sempre gentilmente dimostrato per le mie ricerche cartesiane. Colgo l’occasione inoltre per ringraziare Mário Santiago de Carvalho: gran parte della stesura del presente lavoro è stata svolta a Coimbra, dove mi trovavo, sotto la sua supervisione, per approfondire la relazione fra Descartes e i Conimbricensi. Vorrei cogliere l’occasione per esprimere tutta la mia gratitudine al Centro di Studi su Descartes – Ettore Lojacono, e in particolare a Giulia Belgioioso, Igor Agostini e Massimiliano Savini per la loro disponibilità e per tutte le osservazioni e i preziosi suggerimenti che mi hanno permesso di migliorare e arricchire la versione iniziale del progetto. Un grazie va, infine, alla mia famiglia per il loro continuo sostegno.

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Se hic Cartesius sincere loquatur, et verba eius ex usu recepto intelligantur, tum id, quod hic affirmat cum eius principiis non potest conciliari Johannes Regius, Cartesius verus Spinozismi architectus, sive Uberior assertio et vindicatio tractatus cui titulus Cartesius Spinosae praelucens antehac vernaculo sermone editi; quibusquam clarissime nec non certissime demonstratur, in Cartesio reperiri primaria fundamenta Spinozismi, Franequerae 1719, p. 176.

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Introduzione

Nel nostro patrimonio storico e filosofico, Descartes è da sempre considerato il fondatore della modernità. Secondo questa interpretazione, il filosofo francese, dopo essersi liberato della tradizione scolastica e medievale, rifiutandone l’autorità, avrebbe posto le basi di un nuovo edificio concettuale fondato sul primato del soggetto. L’idea che la filosofia moderna nasca nel segno di una rinnovata consapevolezza del ruolo decisivo dell’esperienza soggettiva, dominus di una rinnovata modalità di accesso al vero, si è trasformata in un luogo comune, quasi si trattasse di un feticcio ermeneutico sottratto, per definizione, ad ogni istanza critica. È però quanto mai opportuno, e proprio in un momento in cui il tanto decantato subiectum cartesiano non sembra più in grado di fare fronte alle complesse dinamiche che si agitano al suo interno, ripensare nuovamente questo pregiudizio irriflesso e ormai immediato. È necessario, con l’accuratezza e la pazienza che ogni critica richiede, fare ritorno ai testi cartesiani, cercando di scovare e portare alla luce nuove geometrie e possibilità interpretative. Interrogare una volta ancora Descartes, infatti, significa analizzare la modernità filosofica nell’atto della propria narrazione.

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Per raggiungere il nostro obiettivo è necessario, prima di tutto, prendere le distanze da due diversi indirizzi di pensiero che hanno condiviso, sebbene all’interno di un quadro metafisico affatto differente, una comune analisi del testo cartesiano. Stiamo qui facendo riferimento, da un alto, all’esegesi del cogito offertaci dalla ricostruzione storica dell’idealismo classico e, dall’altro, a quella corrente di pensiero, figlia della lezione di Heidegger, che ha visto in Descartes l’autore da cui prendere risolutamente le distanze, così da poter avviare un’indagine post-metafisica sulla nostra contemporaneità. Entrambe queste tradizioni ritengono che il filosofo francese sia stato il primo a porre le basi per istituire, nella circolarità conchiusa dell’orizzonte rappresentativo, il dominio della cogitatio quale via privilegiata di accesso al mondo. Nell’interpretazione fornita da queste due correnti di pensiero, il cogito è ciò che ha permesso alla soggettività di guardare a se stessa quale garanzia ultima del sapere. Ma chi è dunque Descartes? La risposta per Hegel è molto semplice: «René Descartes è un eroe, che ricominciò da capo l’impresa1». Certo, la filosofia cartesiana non è esente da delle critiche che pongano l’accento sulla sua astrattezza e unilateralità; tuttavia, questo non autorizza a misconoscere la novitas introdotta nel panorama del tempo, almeno agli occhi del magistero hegeliano. Descartes, infatti, e in ciò sta tutta l’importanza della sua rivoluzione, ha iniziato a filosofare prendendo le mosse «dalla posizione dell’autocoscienza reale», quindi pensando l’ordine del mondo a partire da un orizzonte soggettivo, in modo da imporre il cogito quale fondamento di ogni futura certezza.

1 G. W. F. Hegel, Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie (18401844), in Werke in zwanzig Banden, redaktion E. Moldenhauer und K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1971; trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla storia della filosofia (Vol. III, Tomo II), La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 70.

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Il giudizio fornito da Hegel rimarrà un punto di partenza imprescindibile per ogni indagine intenzionata a ripercorrere le tappe del trionfo cartesiano. Dallo stesso Schelling, secondo il quale con Descartes si sarebbe conquistato «il più risoluto distacco da ogni autorità2», fino a Giovanni Gentile ed Edmund Husserl, l’analisi a cui verrà sottoposto il pensiero cartesiano sarà sostanzialmente identica nelle sue linee generali. Secondo questa interpretazione, Descartes ha inaugurato la comprensione della modernità filosofica, ed è riuscito nel suo intento proprio instaurando una relazione immediata fra il pensiero e l’essere: da questo momento in poi, ogni dato posto come trascendente non sarà compreso se non a partire dallo spazio dischiuso dal soggetto cartesiano. Anche il secondo filone interpretativo richiamato in precedenza, vale a dire quello legittimato dalla lezione heideggeriana, ripercorre, seppur con un diverso giudizio di valore, la stessa analisi sviluppata dall’idealismo classico. Per Heidegger, infatti, il pensiero cartesiano è nuovamente inteso come l’inizio decisivo della filosofia moderna3: nella cogitatio viene ad emergere sulla scena metafisica la relazione fra l’aspetto soggettivo del pensiero e la componente riflessiva che contraddistinguerà, da quel momento in poi, il contenuto della rappresentazione. Il fondamento del cogitare dovrà perciò assicurare, in un circolo magico e conchiuso, sia l’oggetto intenzionato, sia colui che dispone di quel contenuto.

2 F. W. J. Schelling, Zur Geschichte der Neueren Philosophie (1836-1837), in Sämmtliche Werke (XIV Voll.), Cotta, Stuttgart und Augsburg 1856-1861, Vol. X, pp. 1-200; trad. it. di G. Durante, intr. di G. Semerari, Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 10. 3 M. Heidegger, Nietzsche: Der europäische Nihilismus (1940), Neske (Bd. II), Pfullingen 1961; trad. it. di F. Volpi, Il nichilismo europeo, in Nietzsche, Adelphi, Milano 2005, pp. 563-743.

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Nell’orizzonte trascendentale di questa nuova istanza rappresentativa, la verità diventerà certezza, e il contenuto di ogni riflessione si troverà ad essere garantito all’interno del dominio della cogitatio. Da tale impostazione prese in seguito le mosse una variegata tradizione intenzionata a decostruire dall’interno quel plesso metafisico incarnato dalla prepotenza del cogito. Lo spettro del soggetto cartesiano, trasformatosi ormai in un soggetto scabroso4, divenne il paradigma di una comune rimozione filosofica. Che si tratti di Deleuze o Nancy, Derrida e Foucault, poco importa: è quanto mai opportuno eliminare, in termini esplicativi e fondativi, quell’escrescenza soggettiva che, quasi fosse un’ipostasi ereditata dalla tradizione, sembra costituire un argine allo sfondamento della metafisica. Una nuova indagine sulla filosofia cartesiana, intenzionata ad interrogare secondo differenti prospettive quel luogo teorico e metaforico che siamo soliti chiamare modernità, non può incominciare se non prendendo le distanze da questa vulgata storiografica. È di nuovo necessario, pertanto, indagare in modo critico, e realmente ex novo, i diversi regimi discorsivi che hanno innervato la ratio cartesiana. Per incrinare quella comune fiducia che siamo soliti riporre nella ricostruzione storica operata dall’idealismo classico e dal pensiero post-metafisico di matrice heideggeriana, possiamo naturalmente richiamarci alla lezione ermeneutica di JeanLuc Marion, che ha già dimostrato quanto il pregiudizio circa l’importanza della componente soggettiva nella metafisica di Descartes sia ben lungi dal trovare un riscontro circostanziato e coerente nei testi stessi5. 4 Cfr. S. Zizek, The Ticklish Subject. The Absent Centre of Political Ontology, Verso Books, London-New York 2000; trad. it. di D. Cantone e L. Chiesa, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina, Milano 2003. 5 Cfr. J.-L. Marion, L’altérité originaire de l’ego. Meditatio II, AT VII, 24-

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In effetti, l’idea di un elemento riflessivo del cogito, in grado di dare vita ad un soggetto capace di conquistare ogni sua certezza riflettendo sulle condizioni ultime della propria possibilità, non è un concetto realmente cartesiano. Basti pensare che il termine “riflessione” [reflexio/reflectere] non compare mai nelle Meditationes. Le occorrenze del termine repraesentare, per di più, quando sono presenti nel corpus delle Meditationes, non sono mai poste in relazione all’operazione della cogitatio, ma sono sempre riferite ad una res determinata, sganciata dall’azione poietica dell’ego. All’interno di un tale contesto, è facile dimostrare come l’ego, lungi dal porre in atto la propria stessa rappresentazione, sia già da sempre diviso dal proprio sum, visto che la cogitatio è libera di pensare e pensarsi solo perché esistente, ab origine, come cosa pensata [«res cogitans cogitata»]. Questa indagine potrebbe continuare. L’obiettivo che ci proponiamo, però, è più ampio, essendo intenzionati a delineare una nuova genealogia critica della modernità. Per raggiungere questo intento, è necessario fare ritorno ai testi cartesiani, cercando in essi il punto di rottura capace di dischiudere la narrazione e fondazione di una nuova epoca. La nostra indagine prenderà le mosse dall’epistolario cartesiano, convinti che solo al suo interno si possa rintracciare lo snodo decisivo del moderno. È solo in quel luogo, infatti, che è possibile trovare la vera e concreta frattura cartesiana, la sottile linea rossa che costituirà l’architrave dell’intera teoresi del filosofo francese.

25, in Id., Questions cartésiennes II. Sur l’ego e sur Dieu, Puf, Paris 1996, pp. 3-48; trad. it. di I. Agostini, L’alterità originaria dell’ego, in Id., Questioni cartesiane sull’io e su Dio, Le Monnier-Mondadori, Milano 2010, pp. 3-30.

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Come è facile immaginare, stiamo qui facendo riferimento alla dottrina – esposta dal filosofo francese a partire da alcune lettere del 1630 indirizzate a Mersenne, e poi ripresa o richiamata in molti altri luoghi del corpus cartesiano – sulla libera creazione delle verità eterne. Ora, senza anticipare l’analisi di questo plesso particolarmente problematico, possiamo comunque già ora delinearne, in modo conciso, alcuni tratti. L’idea che le verità eterne, invece di essere co-originarie all’intelletto divino, siano il risultato di una volontà libera ed efficiente, non vincolata ad alcun paradigma logico, metafisico e perfino morale, costituisce una persuasione assolutamente irriducibile alla tradizione precedente. Il contenuto di una tale dottrina implica una discontinuità di ragione realmente assoluta, sciolta da ogni vincolo passibile di introdurre una qualsiasi proporzione fra la volontà onnipotente di un Dio creatore e la natura finita del pensiero umano. Una potentia Dei così intensa, non essendo a nulla vincolata, comporta il venir meno di ogni solido legame epistemologico fra Dio e l’uomo. La natura incomprensibile del divino diviene il dato di partenza, lo scandalo da cui ogni interrogazione deve avere inizio. Con questa teoria, Descartes si pone al di fuori dei sistemi di sapere vigenti al tempo, imprimendo un’accelerazione decisiva all’intera storia della filosofia. Non deve perciò sorprendere il giudizio di Ferdinand Alquié, secondo cui «la teoria della creazione delle verità eterne è la chiave della metafisica cartesiana6». È curioso, tuttavia, quanto si sia spesso cercato, quasi inseguendo l’interpretazione classica della metafisica cartesiana, di rimediare alle conseguenze, all’apparenza paradossali, di questa dottrina. Alcuni interpreti hanno provato ad evidenziare una cesura fra le posizioni espresse intono a questo nodo 6 F. Alquié, La découverte métaphysique de l’homme chez Descartes, Puf, Paris 1950 (n. éd. Puf, Paris 1987), p. 90 (trad. nostra).

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concettuale – null’altro che il frutto acerbo di una suggestione giovanile – e la matura riflessione di Descartes, culminata nelle Meditationes. Secondo Alexandre Koyré7, ad esempio, la consapevole accettazione di una simile teoria avrebbe decostruito dall’interno ogni impresa intellettuale e scientifica, rendendola impossibile. È necessario rimediare allora a questa problematica stigmatizzando lo sforzo cartesiano, quasi fosse un’idea affacciatasi temporaneamente nel suo immaginario, e poi subito abbandonata. Anche Étienne Gilson8, pur riconoscendo la novità di questo nuovo itinerario metafisico, e considerandolo per giunta uno degli assi portanti del moderno edificio cartesiano, finiva implicitamente per limitarne la portata, giacché lo giudicava un pensiero funzionale ad un altro progetto, cioè un dispositivo necessario per sviluppare un’analisi della libertà divina che potesse giustificare una fisica fondata sulle sole cause efficienti. D’altra parte, se Harry Frankfurt9 riteneva che questa teoria ci ponesse di fronte ad una possibilità estrema, ossia quella di un mondo per sua natura assurdo [«inherently absurd»], tale da disgregare l’armoniosa connessione che la Scolastica medievale aveva stabilito fra la ragione umana e l’intelletto divino, per Edwin M. Curley10 una simile dottrina è, in alcuni suoi aspetti, quantomeno bizzarra [«bizzarre doctrine»]. 7 Cfr. A. Koyré, Essais sur l’idée de Dieu et les preuves de son existence chez Descartes, Editions Ernest Leroux, Paris 1922 (n. ed. University of Toronto Library, Toronto 2011). 8 Cfr. É. Gilson, La liberté chez Descartes et la théologie, Félix Alcan, Paris 1913 (n. éd. Vrin, Paris 2008). 9 Cfr. H. Frankfurt, Descartes on the Creation of the Eternal Truths in «The Philosophical Review», 1, LXXV, 1977, pp. 36-57. 10 Cfr. E. M. Curley, Descartes on the Creation of the Eternal Truths in «The Philosophical Review», 4, XCIII, 1984, pp. 569-597.

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Come cercheremo di dimostrare nel primo capitolo, qualunque tentativo di limitare la portata di un simile costrutto metafisico è destinato a fallire. Non solo perché esso rappresenta un unicum nel nostro panorama filosofico, e non può essere in qualche modo ridotto ad altro, ma perché si tratta di una formulazione concettuale che accompagna l’iter filosofico di Descartes dai suoi esordi fino alle ultime testimonianze di cui disponiamo. È altrettanto vero, però, che l’importanza di questa teoria, inizialmente consegnata ai suoi corrispondenti, non sembra ricoprire alcun ruolo nei lavori pubblicati dal filosofo francese. Anzi, testi alla mano, il contenuto delle opere cartesiane è, in certi luoghi testuali verificabili con precisione, addirittura in contraddizione con le posizioni che Descartes sviluppa e difende nei lavori consegnati alle stampe. A questo proposito, prendendo in esame alcune importanti considerazioni proposte da Emanuela Scribano11, svilupperemo un diverso approccio, intenzionato a portare alla luce la complessità che appartiene alla riflessione cartesiana. Questo obiettivo verrà raggiunto non prima di aver riconsegnato Descartes al suo tempo, a quell’immaginario barocco ben rappresentato da una dialettica di chiaroscuri che è la cifra metaforica dell’impresa cartesiana. È per questo che lo spazio teatrale, quale luogo in cui collocare l’accadere di ogni moderna deduzione filosofica, sarà il sostrato metaforico di questa disamina. Il Seicento, infatti, oltre ad essere il secolo cartesiano e barocco per eccellenza, è anche il secolo di quel teatro che mette letteralmente in scena i concetti che si stanno facendo innanzi, accogliendoli fra le pieghe della rappresentazione. Nella cavità di questo luogo, Descartes metterà in scena il dramma della modernità. 11 Cfr. E. Scribano, Angeli e beati. Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza, Laterza, Roma-Bari 2006, in part. pp. 161-194.

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Il testo che meglio di altri restituisce il cuore del tentativo cartesiano, ossia le Meditationes, dovrà allora essere indagato quasi fosse un grande teatro, uno spazio di svariate maschere facenti capo ad un solo e geniale capocomico. Le singole figure che si presenteranno in questo teatro – Il Dio Ingannatore, Il Genio Maligno, Il Dio Verace – saranno così delle personae, vale a dire dei personaggi e delle maschere funzionali ad un progetto destinato, inevitabilmente, a trascenderle. L’andamento del dramma cartesiano, tuttavia, e in modo particolare la sua conclusione, assicurata per sempre da un buon Dio garante dell’intera avventura, non sembra in grado di corrispondere alla radicalità di quella teoria sulle verità eterne che si era in precedenza imposta all’attenzione di Descartes. Questo Dio, infatti, cioè l’immagine pacificata di un essere morale, univocamente determinato, non è quel Dio. Ecco che una consapevole cesura sembra aver fatto la sua comparsa. Non è poi così difficile dimostrare la differenza che anima queste due analisi sulla natura del divino. La teoria che afferma la natura creata, e dunque contingente, delle verità, mentre loda l’incomprensibilità e l’infinita potenza di Dio, rende al suo cospetto poca cosa l’uomo, sospeso dinanzi ad una volontà insondabile. Al tempo stesso, sembra che proprio nelle Meditationes, e naturalmente in tutti gli altri lavori portati a termine da Descartes, quello stesso uomo, trasformatosi in soggetto, quindi in un’astratta istanza rappresentativa, vada incontro al proprio riscatto, obliando quel contenuto perturbante espresso in precedenza. Qual è la ragione di questo scarto? Esistono due idee di Dio, o siamo in presenza di due discorsi umani dedicati a differenti modalità di pensare la natura e l’essenza divine? Pensare un Dio letteralmente absolutus, creatore di ogni possibile verità, talmente libero da non essere vincolato da alcuna legge e logica umana, a tal punto onnipotente da poter modi-

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ficare quelle certezze che sono il frutto del suo stesso arbitrio, significa porre l’intelligenza dell’uomo dinanzi alla contingenza del proprio bagaglio epistemico. Di fronte ad una tale divinità, nessuna conoscenza può considerarsi universalmente garantita. Ogni legge e ogni verità sono per ciò stesso fragili: non solo avrebbero potuto essere differenti, ma potrebbero esserlo tuttora, et nunc, vista l’impossibilità di poter escludere, stante la potenza di Dio, l’opportunità che Egli si possa rivelare altrimenti12. Ogni cosa è infatti sospesa all’incomprensibile potenza divina, dunque anche la sua presunta immutabilità. Ma come poterci garantire, allora? In quale modo, e con quali forze? Si tratta di rinunciare ad ogni sapere stabile? O non possiamo forse provare a costruire un mondo e una conoscenza edificati come se Dio fosse soggetto a tutte quelle proprietà che siamo sempre stati abituati ad attribuirgli? Sì, se Dio è buono, se la sua volontà non è soggetta a cambiare, se siamo in grado di proporzionare i nostri sforzi ad una determinata immagine divina, è possibile dare forma ad un sapere, stabile e funzionale, del mondo che abitiamo. Per raggiungere un tale obiettivo dobbiamo però obliare, in modo consapevole, proprio la natura di quel Dio creatore che Descartes aveva deciso di evocare nel dibattito del suo tempo. Si tratta, in sostanza, di fondare una metafisica che sia garantita da una certa idea di Dio, ben proporzionata alle necessità umane. Quanto appena detto, tuttavia, presuppone che ogni conquista intellettuale sia stata raggiunta all’interno di un dominio ben determinato, figlio di una libera iniziativa cartesiana, così che solo in quello spazio essa possa rivendicare la propria assolutezza. A dover essere modificati saranno, quindi, tutti quei

12 Forniremo le ragioni a sostegno di questa interpretazione della speculazione cartesiana nel primo capitolo del presente lavoro, analizzando nel dettaglio le testimonianze del filosofo sulla natura create delle verità eterne.

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giudizi che, sulla scorta della precedente lettura del pensiero cartesiano e dell’origine del moderno, si sono imposti nella nostra storiografia. L’analisi di quell’epoca storica che si è soliti chiamare modernità è stata interpretata, a partire dalla seconda metà del XX secolo, e sulla scorta di una logica ermeneutica quasi bipolare, alla luce di due differenti paradigmi critici. Da un lato, ripercorrendo le analisi svolte da Karl Löwith13, si è ritenuto che la coscienza storica dell’età moderna non potesse rivendicare alcuna reale specificità, poiché la condizione stessa della sua possibilità doveva essere ricondotta ad una frattura ben più originaria, ossia al rifiuto di quel cosmo pagano che, nella sua ciclicità, ignorava la linearità del tempo biblico e cristiano. Dischiusa la circolarità di un Tutto privo di un telos determinato, e infranta quella physis che infiniti mondi genera e distrugge, ecco che i futuri sistemi di sapere, pur nelle diversità delle rispettive articolazioni, finivano per dipendere da quell’evento in cui trovavano le loro condizioni di intelligibilità. Le analisi di Hans Blumenberg14, dall’altro lato, si sono rivolte criticamente proprio a questo costrutto ermeneutico. Se la modernità dipende nelle sue linee guida da un accadimento che si è consumato altrove, sembra che non possa rivendicare per sé alcuna reale legittimità. Certo, ogni epoca, all’interno del paradigma della secolarizzazione, manifesta delle differenze irriducibili al passato; tuttavia, è altrettanto vero

13 Cfr. K. Löwith, Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History, University of Chicago Press, Chicago 1949; trad. it. di F. T. Negri, intr. di P. Rossi, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Il Saggiatore, Milano 2004. 14 Cfr. H. Blumenberg, Die Legitimitat der Neuzeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1966-1974; trad. it. di C. Marelli, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992.

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che questa lettura, sebbene non arrivi a negare l’originalità dell’età moderna, finisce implicitamente per contestare che il moderno sia tale di per sé, vale a dire grazie all’autenticità da esso rivendicata. L’intera esegesi offerta dalle letture precedenti deve essere, secondo il filosofo tedesco, modificata in maniera radicale: la modernità, infatti, lungi dall’essere l’ennesima variabile di un’identica costante storica, è figlia di un contro-movimento dinamico e oppositivo, capace di imporsi, in maniera legittima, su un passato teologico divenutole ormai insopportabile. Le anticipazioni che abbiamo prima richiamato sembrano andare in tutt’altra direzione rispetto all’interpretazione offerta da Blumenberg. Descartes si trova, in effetti, nelle condizioni di fondare un sapere stabile e necessario solo dissimulando consapevolmente quel Dio creatore delle verità eterne la cui natura incomprensibile è sottratta ad ogni vincolo epistemico. Non sembra possibile, pertanto, rinvenire nel tentativo cartesiano alcuna legittima affermazione da parte di un soggetto divenuto sovrano. Ciò non significa, tuttavia, che il gesto cartesiano non esprima un bagaglio concettuale irriducibile alla tradizione che l’ha preceduto. Nella nostra proposta ermeneutica, a consentire l’emergere di una nuova epoca è la frattura messa in scena da Descartes nel suo teatro. La modernità dischiude lo spazio della propria esistenza solo confrontandosi, per la prima volta, con un Dio realmente assoluto e onnipotente. Un simile Dio non è da nulla vincolato, non essendoci alcuna logica che ne limiti il raggio di azione; l’episteme umana non è quindi autorizzata a rivendicare per i risultati delle proprie ricerche alcuna oggettività che non possa rivelarsi in se stessa contingente, essendo soggetta all’arbitrio di una volontà incomprensibile. Ma se ogni conoscenza non può reclamare alcuna legittimità che non sia sospesa, in ultima analisi, alla volontà di questa potentia abso-

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luta, non esiste alcun discorso che si possa imporre a dispetto del fiat divino. Evocando una tale idea, Descartes ha posto il pensiero umano di fronte alla possibilità della propria stessa catastrofe. Tale consapevolezza, ad ogni modo, ed è questo l’implicito che muove il tentativo cartesiano, non ci deve impedire di descrivere il nostro mondo, ossia questa creatura che è possibile indagare in modo stabile e all’apparenza definitivo a patto che quell’idea di Dio sia estromessa dalla scena e sostituita con un’altra maschera, la cui immutabilità divenga garanzia di certezza. È alla luce di questa decisione che la modernità cartesiana giunge a rivendicare un’autonomia che è, in verità, solo il frutto di un abile esorcismo. Obliando la reale condizione della sua stessa legittimità, l’età moderna sembra trasformarsi in un processo di consapevole dissimulazione, un dramma che può essere messo in scena solo gettando un fascio di luce sull’ombra che avvolge l’intera commedia.

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Capitolo primo Lo scandalo cartesiano

In una serie di lettere scritte nel 1630, Descartes presenta a Mersenne una riflessione letteralmente inaudita, destinata ad imprimere una svolta all’intera storia del pensiero. Come lo stesso Descartes si preoccupa di rilevare, la questione che suscita le sue riflessioni non è teologica, dato che non dipende strettamente dalla Rivelazione, bensì metafisica. È proprio la metafisica, infatti, il campo di indagine che ha guidato i primi studi del filosofo francese. Ed è questa disciplina che ha formato il suo genio speculativo, permettendogli di porre a tema i fondamenti della sua stessa fisica. Mentre ripercorre con sottile compiacenza il proprio itinerario di formazione, quasi anticipando quell’autobiografia intellettuale che costituirà la grande premessa del Discours de la méthode, Descartes introduce alcune considerazioni di particolare originalità, capaci di sospingere la precedente teoresi lungo territori ancora inesplorati: Nella mia fisica non rinuncerò a toccare molte questioni metafisiche, e in particolare questa: che le verità matematiche, che voi chiamate eterne, sono state stabilite da Dio e ne dipendono interamente, come fanno tutte le restanti creature. In effetti, dire che queste verità sono indipendenti da Dio

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26 significa parlare di lui come di un Giove o Saturno e assoggettarlo allo Stige e al destino. Non abbiate timore, ve ne prego, di affermare e far sapere dappertutto che è Dio che ha stabilito queste leggi in natura, come un Re stabilisce le leggi nel suo regno (B Op n. 30, p. 147; AT, I, p. 145)1.

Il passo citato chiama per la prima volta in causa la teoria sulla libera creazione delle verità eterne. Le verità cui sta facendo riferimento Descartes sono, per ora, solo quelle matematiche. Questa affermazione cartesiana, considerata a sé stante, potrebbe anche non sembrare una rottura decisiva con le consuete modalità di pensare il rapporto fra Dio e le creature. In effetti, sia la tradizione agostiniana, nelle sue varie sfaccettature, sia quella di ispirazione tomista, ritengono che l’insieme di tutte le verità – comprese quelle che regolano, ad esempio, i rapporti numerici – non possa sussistere indipendentemente dal pensiero divino. È impossibile pensare, anche solo per un breve istante, che una qualunque verità possa imporsi a dispetto dell’esistenza di Dio, quasi potesse esistere come un’entità separata, da Lui indipendente. Queste verità sono perciò dei modelli eterni contenuti nell’intelletto divino, e non possono, in alcun modo, esistere senza il principio che le sostanzia, rendendole possibili. 1 Descartes a Mersenne, Amsterdam, 15 aprile 1630, in René Descartes. Tutte le lettere: 1619-1650, a c. di G. Belgioioso, con la coll. di I. Agostini, F. Marrone, F. A. Meschini, M. Savini e J.-R. Armogathe, Bompiani, Milano 2005, pp. 139-149. L’epistolario cartesiano verrà citato, d’ora in poi, con la seguente dicitura: B Op. Per quanto concerne le altre opere di Descartes, faremo sempre riferimento all’edizione italiana curata da Giulia Belgioioso: René Descartes. Opere: 1637-1649, a c. di G. Belgioioso, con la coll. di I. Agostini, F. Marrone, M. Savini, Bompiani, Milano 2009 (B Op I), e René Descartes. Opere postume: 1650-2009, a c. di G. Belgioioso, con la coll. di I. Agostini, F. Marrone, M. Savini, Bompiani, Milano 2009 (B Op II). L’edizione francese curata da Charles Adam e Paul Tannery, Œuvres de Descartes (XI Voll.), Vrin, Paris 1964-1976 (nuov. présent. par J. Beaude, P. Costabel, A. Gabbey et B. Rochot) sarà invece citata, in tutto il testo, come AT.

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Descartes afferma dunque che ogni cosa dipende da Dio, le verità eterne allo stesso titolo delle restanti creature; sostiene, inoltre, che ogni cosa è da Lui stabilita, non potendo esistere un’entità sottratta alla Sua volontà; infine, il filosofo francese sottolinea che, se queste verità esistessero a dispetto di Dio, finiremmo per trasformarlo in un Giove o un Saturno, assoggettandolo allo Stige e al destino, come una qualunque divinità pagana. Jean-Luc Marion ha notato come il passo sopra riportato contenga in realtà due diversi proposizioni, che dovrebbero essere analizzate separatamente2. Il richiamo metaforico a Giove e allo Stige, infatti, non ripete, con un linguaggio immaginifico e quindi trascurabile, l’affermazione cartesiana relativa alla natura delle verità matematiche, ma indica, seppur in modo implicito, un richiamo critico ad alcuni referenti storici. Marion ha provato a rintracciare gli autori che avrebbero spinto Descartes a fare ricorso a questo espediente figurale, non certo frequente nella sua produzione. Oltre ad alcuni luoghi omerici (Iliade, XVI, vv. 433-438; XXII, vv. 168-169), al Prometeo (vv. 515-518) di Eschilo, a Erodoto (Storie, I, 91) e alla Teogonia (v. 220) esiodea, sembrano Virgilio (Eneide, X, 111113) e, in modo particolare, Cicerone (De fato, 32; De natura deorum, II, 31), gli autori che hanno ben incarnato, agli occhi di Descartes, quell’idem sentire da cui prendere le distanze. Cicerone, ad esempio, descrivendo l’essentia Dei secondo il modello stoico, non aveva istituito alcuna sproporzione fra l’estensione della ragione umana e quella divina. Se questi dèi possiedono una ratio, una veritas e una lex simili, in tutto e per tutto, a quelle umane, non sembra esservi spazio per istituire 2 Cfr. J.-L. Marion, Dieu, le Styx et les destinées, in Questions cartésiennes II, cit., pp. 119-142; trad. it., Dio, lo Stige e i destini, in Questioni cartesiane, cit., pp. 73-87.

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uno scarto o anche solo una distanza fra l’uomo e Dio. Come suggerisce Marion, è «precisamente questa eadem necessitas» che Descartes decide di rifiutare «con la dottrina della creazione delle verità eterne». Il riferimento cartesiano a Giove e a Saturno può quindi essere interpretato come una «risposta allo stoicismo comune che non razionalizza gli dèi pagani che dissolvendone la trascendenza3». È probabile, inoltre, che Descartes sia stato spinto a chiarificare la propria avversione ad una siffatta idea di Dio grazie all’influenza, più o meno diretta, che Lutero e Montaigne avevano esercitato nel milieu culturale del tempo. In effetti, sia Lutero nel De servo arbitrio, sia Montaigne nei suoi celebri Essais, avevano portato avanti, seppur da posizioni affatto diverse, una comune polemica contro il tentativo di limitare l’onnipotenza divina, cercando di evitare che finisse per essere sottomessa, alla stregua delle divinità degli stoici, ad una qualche eterna necessità. Pertanto, non si può escludere che il richiamo cartesiano a Giove e al destino nasconda un implicito riferimento proprio a questo plesso storico e concettuale. Ad ogni modo, a prescindere dai referenti che hanno spinto il filosofo a far uso di questo paragone immaginifico, è opportuno fare ritorno ai testi cartesiani, e avviare un’indagine approfondita su di essi. Descartes ha sostenuto che le verità matematiche non possono in alcun modo essere pensante come indipendenti da Dio, essendo state da Lui stabilite, al pari delle altre leggi di natura. In seguito a questa affermazione, il filosofo francese mette letteralmente in scena un dialogo posticcio, funzionale a scandagliare con maggiore precisione i presupposti delle affermazioni precedenti. Ora, prima di porre la nostra attenzione su tale passo, certo decisivo per gli esiti di una corretta esegesi del pensiero 3 Ivi, p. 78.

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cartesiano, è opportuno procedere oltre, analizzando gli altri luoghi dell’epistolario in cui la celebre teoria fa nuovamente la sua comparsa, per poi tornare, con maggiore consapevolezza critica, a questo fondamentale passaggio. In una successiva lettera indirizzata a Mersenne il 6 maggio 1630, Descartes si sofferma di nuovo sullo stesso tema, fornendo, forse su richiesta del Minimo, alcune precisazioni circa lo status ontologico di siffatte verità: Per quanto riguarda le verità eterne, ripeto che sono vere e possibili soltanto perché Dio le conosce come vere e possibili, e non, al contrario, che sono conosciute come vere da Dio quasi fossero vere indipendentemente da lui. E se gli uomini intendessero bene il senso delle loro parole, sarebbero blasfemi qualora dicessero che la verità di qualcosa precede la conoscenza che ne ha Dio, poiché in Dio volere e conoscere non sono che uno; di modo che per ciò stesso che vuole qualcosa, la conosce, e perciò soltanto tale cosa è vera. Non bisogna dunque dire che se Dio non esistesse, queste verità sarebbero comunque vere (B Op n. 31, p. 151; AT, I, pp. 149150. Il corsivo è nel testo).

Nella prima parte di questo brano vi è un chiaro riferimento ad un passo tratto dalle Disputationes Metaphysicae di Francisco Suárez4. Il testo del gesuita, modificato nelle sue originali intenzioni da una negazione che ne rovescia il senso, è riportato per suggerire un’interpretazione dell’essenza divina che è opportuno rifiutare, così da dare vita ad un discorso sulla

4 Cfr. Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, Voll. XXV-XXVI (1861), in Opera Omnia, Editio nova, XXVIII Voll., par C. Berton, Ludovico Vivès, Parigi 1856-1878 (repr. II Voll., Georg Olms, Hildesheim 1965); trad. it. di C. Esposito, Disputazioni Metafisiche. I-III, Rusconi, Milano 1996; edic. y trad. esp. de S. Rábade Romeo, S. Caballero Sánchez y A. Puigcerver Zanón, Disputaciones Metafísicas, VII Voll., Biblioteca Hispánica de Filosofía, Madrid 1960-1967.

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natura di Dio che sappia corrispondere alla Sua infinita maestà e potenza. Nel prossimo capitolo ci occuperemo in maniera più dettagliata della posizione di Suárez, collocandola nel suo contesto storico. Per il momento, è sufficiente tracciare in modo conciso alcuni aspetti generali di questa visione per comprendere in modo adeguato il significato dell’analisi cartesiana. La posizione suáreziana, così come è delineata da Descartes, sembra considerare le verità eterne non solo come indipendenti da Dio, ma a tal punto necessarie da imporsi a dispetto della Sua stessa esistenza. Se siffatte entità sono vere o possibili [«verae aut possibiles»] in virtù di se stesse o delle relazioni che intrattengono fra loro, ciò significa che non saranno vere perché eternamente conosciute da Dio, trovando nel Suo intelletto la condizione della loro possibilità; al contrario, saranno conosciute da Dio proprio perché possiedono, già da sempre, e in virtù della loro stessa natura, le condizioni ultime della loro esistenza. Queste verità sono dunque a tal punto autosufficienti da poter essere concepibili e pensabili a prescindere dall’intelletto divino. Per assurdo, anche se Dio non esistesse, l’assoluta necessità di questi modelli non verrebbe meno: la loro verità è perciò talmente necessaria da non dipendere, in alcun modo, dalla potenza e volontà divine. Prendendo le distanze dalle conseguenze della ratio di Suárez, Descartes continua ad insistere sullo relazione di assoluta dipendenza che ogni creatura deve manifestare dinanzi a Dio. Queste considerazioni lasciano però aperte ancora molte domande. Certo, non esiste alcuna verità che sia a tal punto necessaria da imporsi a dispetto di Dio; ogni cosa, inoltre, può dirsi vera e possibile soltanto perché eternamente conosciuta dall’intelletto divino; infine, Dio è condizione necessaria affin-

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ché una qualunque verità possa esistere, trovando in questa dipendenza la radice della sua legittimità. Tuttavia, visto che siffatte verità non sono indipendenti da Dio, e devono alla sua esistenza la condizione della loro possibilità, quale relazione intrattengono con Lui? Sono il frutto della Sua volontà, e dunque, pur essendo eterne, sono comunque create, al pari delle altre creature? Oppure sono contenute, come nel modello agostiniano e poi scolastico, nell’intelletto divino, costituendo i modelli eterni della Sua creatio? È probabile che alcune di queste domande siano state rivolte a Descartes dallo stesso Mersenne. Nella lettera successiva, infatti, scritta il 27 maggio 1630, la più concisa ma la più intensa di questo breve trittico metafisico, il filosofo francese risponde, senza lasciare adito a dubbi di sorta, a tutti questi quesiti, facendo emergere in modo esplicito il nucleo concettuale che sorregge la novitas della sua teoresi: Mi chiedete in quale genere di causa Dio ha disposto le verità eterne. Vi rispondo che è nello stesso genere di causa nel quale ha creato ogni cosa, cioè come causa efficiente e totale. È certo infatti che egli è autore tanto dell’essenza quanto dell’esistenza delle creature; ora, quest’essenza non è nient’altro che queste verità eterne, che io non concepisco affatto emanare da Dio, come i raggi del Sole; so, però, che Dio è autore di tutte le cose e che queste verità sono qualche cosa, e di conseguenza che ne è l’autore (B Op n. 32, p. 153; AT, I, pp. 151-152. Il corsivo è nel testo).

Con questo breve affondo, Descartes recide ogni legame col pensiero medievale, disegnando una frattura irriducibile alle passate formulazioni. All’interno di tale visione, le verità eterne non risiedono già da sempre nell’intelletto di Dio, e non sono neppure dei modelli co-originari all’essenza divina, ossia degli esemplari di cui si è servita la voluntas Dei quando si è decisa alla creazione. Il Dio cartesiano, infatti, lungi dal

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poter coesistere con qualcosa che non sia direttamente figlio della propria potenza, è la causa efficiente e totale [«efficiens et totalis causa»] non soltanto delle semplici creature che popolano il mondo, bensì di quelle verità eterne che non sarebbero mai potute esistere se non fossero state, per prima cosa, pensate e volute. Rimane comunque un’altra domanda: sebbene Dio sia la causa ultima di ogni essenza ed esistenza possibili, è stato in qualche modo costretto a creare proprio queste verità, cioè quelle che regolano il nostro mondo, o era assolutamente libero di dare vita a differenti proporzioni conoscitive? Mi chiedete anche chi ha necessitato Dio a creare queste verità; e io dico che egli è stato tanto libero di fare che non fosse vero che tutte le linee tirate dal centro alla circonferenza fossero uguali quanto di non creare il mondo. Ed è certo che queste verità non sono più necessariamente congiunte alla sua essenza delle altre creature. Chiedete che cosa ha fatto Dio per produrle. Io dico che per il fatto stesso che ha voluto e ha inteso che esse fossero dall’eternità, le ha create, oppure (se attribuite la locuzione ha creato soltanto all’esistenza delle cose) le ha disposte e fatte. In Dio, infatti, volere, intendere e creare sono una stessa cosa, senza che l’una proceda l’altra, nemmeno di ragione [«ne quidem ratione»] (Ibid.; AT, I, pp. 152-153 Il corsivo è nel testo).

La risposta cartesiana alla domanda del Minimo non potrebbe essere più chiara. Non solo Dio è la causa, efficiente e totale, di ogni verità, ma è causa massimamente libera. Le verità eterne, dunque, oltre a dipendere strettamente da Dio, sono figlie di una libera opzione divina. Questo significa che la stessa eternità che sembra caratterizzarle ai nostri occhi è un attributo derivato, ossia è il frutto di una scelta nient’affatto necessaria. Al cospetto di Dio, quelle verità che noi giudichiamo eterne non possono rivendicare alcun privilegio, logico o cronologico, non essendo altro che il risultato di una creatio arbitraria.

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Queste verità non sono allora, come nel sistema tomista, degli archetipi eterni e necessari, a immagine dei quali il mondo sublunare è stato creato; al contrario, in Dio non vi è alcuna gerarchia ontologica, e le idee e le creature sono, nell’istante eterno che precede la creazione, perfettamente eguali, cioè disposte in una linea orizzontale che rifiuta, di principio, qualunque verticalità. Dio è stato tanto libero di creare o non creare il mondo, quanto di modificare e sovvertire ante litteram quelle proporzioni conoscitive grazie alle quali la mente finita dell’uomo disegna il proprio mondo, cercando di trovare al suo interno il possesso di un sapere stabile. Ogni singola verità, vale a dire tutto l’architrave epistemico di cui ci serviamo – le leggi logiche, gli assiomi matematici e infinite altre cose ancora –, avrebbe potuto essere differente, non possedendo alcuna ragione intrinseca che spingesse Dio ad agire secondo una certa, e già determinata, ragione. Del resto, se Dio fosse stato in qualche modo inclinato da altro, avrebbe patito una qualche dipendenza, e dunque solo impropriamente avremmo potuto definirlo libero. La voluntas divina, invece, come Descartes mette bene in luce, è a tal punto sovrana da non patire alcun vincolo, nemmeno di ragione. L’idea che le verità eterne, essendo state create liberamente da Dio, possiedano una necessità “seconda”, figlia di una scelta assolutamente libera, pone dei quesiti sulla loro natura. In effetti, se simili verità sono eterne e necessarie solamente perché Dio ha così deciso, è legittimo giudicarle contingenti? Inoltre, anche se rispondessimo in modo affermativo, magari considerandole contingenti solo in quell’istante atemporale che ha preceduto la creatio divina, prima che acquisissero la loro intrinseca necessità, rimarrebbe comunque un problema: dopo esser state create, tali verità possiedono una natura che non è più soggetta a cambiare, oppure è impossibile escludere

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che Dio intervenga nuovamente, così da modificare il frutto eterno della propria decisione? Si tratta, in sostanza, di sapere se Dio, dopo aver stabilito le leggi del proprio regno, sia a tal punto onnipotente da riconsiderare, in virtù di ragioni che non possiamo certo investigare, l’insieme dei propri decreti, o se la necessità e immutabilità di simili leggi rappresenti un limite anche per il libero esercizio della Sua voluntas. Certo, noi sappiamo che le «verità cosiddette eterne», come scrive Descartes in una lettera del 27 maggio 1638 indirizzata a Mersenne, «non sarebbero verità se Dio non avesse così stabilito» (B Op n. 167, p. 677; AT, II, p. 138); tuttavia, il problema non è così risolto, poiché affermare la natura creata di simili verità non ci dice tutto ciò che è necessario sapere del rapporto di dipendenza che le lega a Dio, visto che lascia ancora aperte entrambe le possibilità che abbiamo appena delineato. Insomma, affermando che le verità eterne dipendono da Dio, Descartes non ci dice, almeno in termini espliciti, se tali verità possano cambiare, o se siano a tal punto immutabili da rappresentare un limite invalicabile anche per il loro stesso creatore. La questione non è di poco conto, perché ad essere implicitamente in gioco è la validità e la stabilità della conoscenza umana. Ora, poiché le verità eterne sono le chiavi che consentono all’intelletto umano di farsi strada in mente Dei, qualora non fosse possibile escludere, almeno di principio, l’eventualità di un loro cambiamento, sarebbe la stessa conoscenza di cui l’uomo può disporre a riscoprirsi ben più fragile di ogni previsione, sospesa all’arbitrio di una volontà onnipotente. È quindi opportuno soffermarsi con particolare cura su tutti i luoghi testuali in cui Descartes discute le implicazioni di questa teoria. Procediamo allora con ordine, e continuiamo a seguire il cammino cartesiano.

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Dal punto di vista cronologico, dopo le tre lettere scritte nella primavera del 1630, e il breve richiamo contenuto nella missiva del 1638, Descartes chiama nuovamente in causa la dottrina sulla creazione delle verità eterne nelle sua responsio alle obiezioni rivoltegli da Pierre Gassendi. Sulla base di una scorretta interpretazione della Meditatio V5, Gassendi accusa Descartes di aver fatto proprie alcune delle opinioni in uso nelle Scuole, ossia che «le nature, o essenze, delle cose sono eterne, e che da esse risultano proposizioni di verità sempiterna» (V Object., B Op I, p. 1109; AT, VII, p. 319). Avendo già avuto modo di addentrarci nella teoria cartesiana, non è poi difficile comprendere quanto l’appunto critico di Gassendi sia ben lontano dal cogliere nel segno, giacché attribuisce a Descartes proprio un’opinione che il filosofo aveva già espressamente rifiutato e condannato. La risposta cartesiana, breve ma incisiva, non deve sorprenderci: Quanto poi a quel che dite, che vi sembra duro stabilire qualcosa di immutabile ed eterno oltre Dio, ciò vi parrebbe a ragione tale se fosse questione di una cosa esistente o soltanto se stabilissi qualcosa di così immutabile che la sua immutabilità non dipendesse da Dio. Ma, come i Poeti fingono [«Poëtae fingunt»] che Giove abbia, bensì, dato origine al fato, ma che, una volta che questo ha avuto origine, egli si sia imposto di osservarlo, così io non ritengo che le essenze delle cose e le verità matematiche che di esse si possono conoscere siano indipendenti da Dio; ma ritengo, nondimeno, che esse siano immutabili ed eterne perché Dio così ha voluto, perché così ha disposto. Duro o molle che sia, a me basta che sia vero (V Resp., B Op I, pp. 1185-1187; AT, VII, p. 380. Il corsivo è nel testo).

5 Cfr. R. Descartes, B Op I, pp. 765-775; AT, VII, pp. 63-71.

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Il passo appena citato impone alcune considerazioni. Ad un primo sguardo, può sorprendere il riferimento di Descartes a Giove e al fato, perlomeno se pensato in relazione ad un altro luogo testuale dell’epistolario cartesiano, cioè la lettera dell’aprile 1630 in cui il filosofo francese presentava, per la prima volta, la teoria sulle verità eterne proprio in contrapposizione a quell’ideale pagano che è parso limitare la potentia Dei6. In quella sede, Descartes sottolineava che le verità matematiche, lungi dall’essere indipendenti da Dio, sono state da lui stabilite, e non pongono pertanto alcun vincolo alla Sua azione creatrice. Ora, invece, si chiama in causa quella stessa immagine, e proprio per avvalorare l’assunto cartesiano. Come interpretare questo differente approccio? Descartes forse si contraddice, magari alla luce di una riflessione svoltasi nel corso di questi dieci anni? Come il testo sembra immediatamente suggerire, non siamo di fronte a nulla di tutto ciò. Certo, Descartes si avvale – espediente quanto mai raro nelle sue riflessioni – di una metaforica figurale; in questo caso, tuttavia, questa proporzione immaginifica è accolta nelle geometrie della sua prosa per stravolgere il significato e il senso suggeriti nella lettera precedente. Il richiamo a Giove e al fato, infatti, è ora utilizzato con l’intento esplicito di confermare la teoria cartesiana. Se nella lettera a Mersenne era opportuno pensare che le verità matematiche fossero dipendenti da Dio, così che si evitasse di sottometterlo allo Stige e al destino, nella risposta all’obiezione di Gassendi si tratta di comportarsi come i poeti, e fingere che Dio, al pari di Giove, pur avendo dato origine al fato – in questo caso, le essenze delle cose e le verità matematiche –, scelga di osservarlo. Il richiamo a Giove è utile allora al filosofo per tradurre, in termini figurali, lo stesso assunto. 6 Cfr. R. Descartes, B Op n. 30, p. 147; AT, I, p. 145.

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Non sappiamo il motivo per il quale Descartes abbia deciso di modificare il suo giudizio sul valore di un simile esempio, dando forza ad un’immagine che era servita, nella lettera a Mersenne, per marcare le distanze da un certo modo di pensare la relazione che Dio intrattiene con le proprie creature. Quello che è importante, comunque, non è tanto l’exemplum cartesiano, bensì le ragioni teoriche sottese ad una tale scelta. Pur fingendo una similitudine fra Dio e Giove, Descartes mantiene intatte le considerazioni sulla dipendenza che ogni verità deve manifestare dinanzi alla potenza divina. Oltre a confermare questo assunto, il filosofo aggiunge un’ulteriore precisazione già discussa nelle lettere precedenti, cioè afferma che simili verità sono eterne ed immutabili solo perché Dio ha così voluto «[quia Deus sic voluit»] e così disposto [«quia sic disposuit»]. È quindi certo che, se Dio non avesse deciso per la loro eternità ed immutabilità, queste verità avrebbero anche potuto non essere eterne e immutabili. Ciò significa che la natura che hanno acquisito è ben lungi dall’essere necessaria, visto che era possibile che queste verità non fossero dotate delle caratteristiche che ora possiedono. La verità delle nostre dimostrazioni avrebbe potuto essere differente, se solo Dio avesse deciso di dare forma, liberamente, ad altre proporzioni conoscitive, modificando ante litteram i criteri ultimi per decidere della validità e necessità delle singole questioni in esame. Ecco che l’idea cartesiana di un Dio onnipotente, che liberamente decide del valore di ogni possibile verità, deve in concreto modificare il modo con cui l’uomo riflette sulle ragioni ultime della propria certezza. Nel passaggio appena citato, tuttavia, Descartes non sembra fornire una risposta decisiva alle domande che abbiamo posto in precedenza. Certo, le essenze delle cose dipendono da Dio, e sono immutabili ed eterne perché così è stato stabilito. Ma, in seguito alla decisione divina, la loro immutabilità è qualcosa

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di così definitivo da non poter essere posto in questione, al punto da costituire un vincolo anche per la potentia Dei? Di primo acchito, si è tentati di rispondere in modo affermativo: Dio, al pari di Giove, dopo aver dato origine al fato, sceglie liberamente di osservarlo e di sottomettersi ad esso. Senza imporre alla volontà divina alcun vincolo reale, possiamo sostenere che la natura immutabile di simili verità, sebbene non abbia posseduto alcuna intrinseca necessità, rappresenti ora un dato universalmente garantito e definitivo anche per le future scelte di Dio. Ad ogni modo, non è ancora certo che la lettura appena descritta sia quella che meglio restituisca le reali implicazioni della teoresi cartesiana. D’altra parte, la similitudine presentata da Descartes, ossia quella fra il filosofo che indaga la natura di Dio e i poeti che rimano le gesta di Giove, lascia qualche dubbio. In effetti, rileggendo il brano, si può anche sostenere il contrario di quanto l’interpretazione classica vorrebbe suggerirci: poiché «i Poeti fingono [»Poëtae fingunt»] che Giove abbia dato origine al fato», per poi decidere di osservarlo, è possibile sostenere che anche Descartes stia fingendo, visto che sta presentando la sua posizione proprio attraverso una similitudine – «come i Poeti [«quemadmodum Poëtae»]», «così io [«ita ego»]» – fra sé e i poeti, fra il proprio Dio e Giove. Oltre a questo aspetto, che non è certo marginale, rimane un ultimo dato da porre a mente: sebbene Descartes sostenga che non esista nulla di indipendente da Dio, giacché le verità matematiche e le essenze delle cose sono immutabili ed eterne in seguito ad una libera decisione divina, non afferma, tuttavia, che ciò che ha ora ha acquisito l’attributo dell’immutabilità sia immutabile anche per Dio, rendendo così la voluntas Dei impotente di fronte al risultato delle proprie stesse scelte. È forse più opportuno, almeno in questa fase, sospendere quindi il giudizio, e proseguire nella nostra analisi dei testi cartesiani.

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Nell’estate del 1641, Mersenne spedisce a Descartes delle nuove obiezioni. Tra le varie considerazioni lì presentate, ve ne sono due meritevoli della nostra attenzione. La prima concerne la distinzione proposta dal filosofo nella Meditatio IV fra la volontà e l’intelletto7. Mersenne ritiene che l’idea sostenuta da Descartes – la volontà perde la propria indifferenza e libertà non appena l’intelletto giunge a disporre di una conoscenza chiara e distinta – finisca per limitare e forse distruggere la libertà di Dio, privandolo di quella sovrana indifferenza che dovrebbe caratterizzarne l’azione e l’operato. Ecco il testo: Il sesto scrupolo si origina dall’indifferenza del giudizio, ossia della libertà, che dite attenere non alla perfezione dell’arbitrio, ma alla sua sola imperfezione, di modo che l’indifferenza viene meno ogni volta che la mente coglie chiaramente quel che deve essere creduto, o fatto, o omesso. Non vedete che, supposto questo, distruggete la libertà di Dio, dalla quale togliete l’indifferenza, allorché egli crea questo mondo piuttosto che un altro, oppure non ne origina alcuno? E tuttavia è di fede che Dio è stato dall’eternità indifferente a originarne uno, o innumerevoli, o anche nessuno (VI Object., n. 6, B Op I, p. 1205; AT, VII, pp. 416-417).

Secondo Mersenne, se si sottrae al Creatore la possibilità di una sovrana indifferenza, delimitando l’esercizio della Sua libertà a questo mondo, si finisce per distruggerne la libertà, giacché si vincola l’ambito della potentia Dei ad un dominio già determinato. Nella sua risposta, Descartes deve subito premettere alle proprie analisi un’importante precisazione. Nella Meditatio IV, infatti, ad essere in questione era la sola

7 Cfr. R. Descartes, B Op I, pp. 751-763; AT, VII, pp. 52-62.

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volontà umana, riconosciuta causa dell’errare perché incapace di sostare nei confini distinti dell’intelletto, e perciò pronta ad accogliere, in modo indifferente, qualsivoglia stimolo nascosto nell’ombra senza averne prima vagliato la chiarezza. La volontà e l’arbitrio umani, però, non sono certo quelli posseduti da Dio. Non esiste alcuna proporzione fra Creatore e creature, sicché, per quanto riguarda la libertà dell’arbitrio [«arbitrii libertatem»], è doveroso riconoscere che «la sua natura è in Dio di gran lunga diversa di come è in noi», visto che è folle anche solo pensare che «la volontà di Dio non sia stata dall’eternità indifferente a tutte le cose che sono accadute o mai accadranno» (VI Resp., n. 6, B Op I, p. 1225; AT, VII, pp. 431-432). L’indifferenza che spetta alla libertà dell’uomo è priva di ogni criterio di proporzione rispetto all’indifferenza che sembra convenire alla realtà divina. Associato all’uomo, quindi, questo attributo, anziché essere un segno positivo della propria libertà, è indice di una fragilità ontologica connaturata al suo stesso esserci. Ad essere in questione, infatti, è un’apprensione conoscitiva che, non disponendo della verità della cosa intenzionata, è indifferente al vero e al suo contrario, perché incapace di limitarsi e rimanere fedele alla propria finitezza. Ecco il motivo per cui la «somma indifferenza» associata Dio è «sommo argomento della sua onnipotenza» (Ibid.; AT, VII, p. 432), mentre riferita all’uomo perde questa caratteristica, dato che «questi trova la natura di ogni bene e di ogni vero già determinata da Dio», e perciò «abbraccia tanto più volentieri, e quindi anche più liberamente, il bene ed il vero, quanto più chiaramente lo vede, e non è mai indifferente, se non quando ignora cosa sia più buono» (Ivi, pp. 1225-1227; AT, VII, pp. 432-433). Descartes non si limita soltanto a questa distinzione. Per risolvere i rilievi sollevati da Mersenne, quanto appena detto

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sarebbe stato certo sufficiente. Una volta che si è dimostrato che l’indifferenza non si riferisce univocamente a Dio e alle Sue creature, si può infatti sostenere che i rilievi contenuti nella Meditatio IV riguardino solamente la volontà dell’uomo. Tuttavia, dopo aver fornito queste precisazioni, Descartes prosegue nella sua disamina, evocando una volta ancora la sua teoria sulle verità eterne: Non si può fingere [«fingi potest»] alcun bene, o vero, o alcunché da credere, o da fare, o da omettere la cui idea sia stata nell’intelletto divino prima che la sua volontà si determinasse a far sì che fosse tale. E non parlo qui della precedenza nel tempo: non vi è stata prima neppure per ordine, o per natura o, come dicono, per ragione ragionata, così che, cioè, questa idea del bene [«ista boni idea»] abbia spinto Dio a scegliere una cosa piuttosto che un’altra (Ibid.; AT, VII, p. 432).

Questo affondo cartesiano è molto importante per due ragioni: in primo luogo, amplia il dominio di quelle verità eterne create liberamente da Dio, nominando per la prima volta, oltre alle verità matematiche, l’idea del bonum, vale a dire il criterio ultimo della moralità divina; in secondo luogo, fornisce delle ulteriori precisazioni sul corretto modo di intendere il rapporto fra la volontà e l’intelletto divini. Descartes ribadisce l’impossibilità di porre il contenuto di una qualsiasi verità in modo indipendente dall’azione creatrice di Dio. Non è quindi lecito pensare, nemmeno per un istante, che siano esistite, ad esempio, un’idea di bontà o di verità preesistenti a quell’atto con cui Dio ha creato il mondo. La potentia Dei non è allora legata a dei criteri che non siano il frutto immediato di una Sua decisione, non essendo possibile separare l’intellectus di Dio – sede di quei paradigmi eterni grazie ai quali soppesare la possibilità del mondo – dalla Sua voluntas – null’altro che la forza capace di mettere in opera ciò che è stato pensato, e deciso, altrove.

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È proprio questa distinzione classica ad essere rifiutata con forza da Descartes, visto che sembra presupporre una distinzione fra le facoltà divine che pone dei limiti all’onnipotenza di Dio. Non esiste dunque alcuna gerarchia in mente Dei: Dio non pensa di realizzare una possibilità e in seguito, dopo averne valutato l’opportunità, decide volontariamente di darle forma. Per lo stesso motivo, non si può nemmeno parlare di una precedenza nell’ordine delle ragioni: Dio non possiede un’idea del bene, a Lui coeterna e consustanziale, prima di averla creata, come non possiede una verità che non sia il risultato del Suo arbitrio. La volontà e l’intelletto di Dio sono diversi sono nell’accidentalità con cui noi ci riferiamo ad essi, poiché non esiste, e non può esistere, una qualunque distinzione fra le facoltà divine. A questo punto, è forse più chiaro il riferimento cartesiano contenuto nella lettera del 27 maggio 1630, in cui si afferma che in Dio «volere, intendere, e creare sono una stessa cosa, senza che l’una proceda l’altra, nemmeno di ragione [«ne quidem ratione»]» (B Op n. 32, p. 153; AT, I, p. 153). È quindi improprio parlare di un volontarismo cartesiano, visto che questa definizione presuppone ciò che il filosofo rifiuta nel modo più risoluto: una distinzione fra volontà e intelletto. Per affermare che la volontà sia l’attributo più importante dell’analisi cartesiana sull’essenza divina è necessario, infatti, richiamarsi implicitamente all’esistenza di una diade che non ha, nelle intenzioni di Descartes, alcun diritto di esistere. Dio ha perciò voluto e inteso che queste verità fossero ciò che sono in modo assolutamente libero, senza patire alcuna costrizione. Se non è possibile che vi sia qualcosa nell’intelletto divino che non sia stato, simul, determinato dalla Sua volontà, ad essere scosso nelle sua fondamenta è l’intero ordine di priorità con cui l’uomo prova ad investigare la causalità divina:

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43 Così, ad esempio, non è che egli abbia voluto creare il mondo nel tempo perché ha visto che sarebbe stato meglio così che se l’avesse creato dall’eternità; né ha voluto che i tre angoli del triangolo fossero uguali a due retti perché sapeva che non avrebbe potuto essere diversamente. Ma, al contrario, è poiché ha voluto creare il mondo nel tempo che è meglio così che se esso fosse stato creato dall’eternità; ed è perché ha voluto che i tre angoli del triangolo fossero necessariamente uguali a due retti che questo è adesso vero e non può essere diversamente; e così tutto il resto (VI Resp., n. 6, B Op I, p. 1225; AT, VII, p. 432).

Descartes stravolge le ragioni insite nelle decisioni divine. Dio non sceglie di creare questo mondo poiché questa decisione è quella che meglio di altre può rifletterne la perfezione; Dio non patisce alcun vincolo, non agendo grazie a dei criteri che sembrano preesistere alla Sua creatio. All’interno di una tale visione, qualsiasi cosa esistente può esser riconosciuta come buona o vera solamente perché Dio ha deciso che fosse così e non altrimenti. Ogni singola creatura non è ciò che è per via della sua partecipazione ad una qualche Bontà o Verità eterne, consustanziali alla cogitatio Dei, proprio perché tutto ciò che di buono e vero esiste non poteva esser definito tale prima che Dio, in virtù di un atto absolutus, sciolto da qualunque vincolo e da qualunque ragione, lo legittimasse. Naturalmente, le considerazioni fin qui svolte valgono anche per le verità matematiche. A proposito di questo nodo problematico, Descartes ribadisce ciò che aveva già sottolineato altrove: nulla esiste in modo necessario prima che Dio abbia deciso di attribuirgli, liberamente, una qualche intrinseca necessità. Questo aspetto, poiché investe gli strumenti con cui l’uomo si fa strada nel mondo, è forse ancora più delicato del precedente, almeno agli occhi di Mersenne.

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È intorno a questa seconda questione che vengono proposti a Descartes ulteriori rilievi critici: L’ottavo scrupolo nasce dalla vostra Risposta alle quinte Obiezioni. In che modo può accadere che le verità della Geometria o della Metafisica, quali sono da voi menzionate, siano immutabili ed eterne e, tuttavia, non indipendenti da Dio? Infatti, in quale genere di causa dipendono da lui? Ha forse dunque potuto far sì che la natura del triangolo non fosse? E in qual modo, vi prego, avrebbe potuto far sì, dall’eternità, che non fosse vero che due volte 4 facesse otto? O che il triangolo non abbia tre angoli? Dunque, o queste verità dipendono dal solo intelletto, mentre pensa a tutto ciò, o da cose esistenti; o sono indipendenti, perché non sembra che Dio abbia potuto far sì che alcuna di queste essenze o verità non fosse dall’eternità (VI Object., n. 8, B Op I, pp. 12051207; AT, VII, pp. 417-418).

Il contenuto dell’obiezione citata riflette una persuasione comune nel pensiero del tempo. Rimanendo fedeli a delle considerazioni universalmente accettate, può certo destare sorpresa l’idea che nulla esista di indipendente da Dio, e che tuttavia le verità della geometria e della matematica continuino ad essere considerate immutabili ed eterne, per giunta in virtù di una libera decisione divina. Mersenne pone Descartes di fronte ad un bivio, utile per comprendere la distanza incolmabile che separa il filosofo francese dalle precedenti riflessioni. La scelta è fra le seguenti possibilità: o queste verità sono indipendenti da Dio, e quindi la Sua voluntas è impotente di fronte al contenuto che esse possiedono, oppure simili verità dipendono da Dio, nel senso che sono contenute eternamente nel Suo intelletto, quasi ci trovassimo di fronte a degli oggetti o dei modelli eterni che non potrebbero esistere se non fossero ab origine pensati. Mersenne sembra offrire a Descartes le uniche due interpretazioni di cui potevano disporre gli studiosi del tempo per

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venire a capo di simili questioni. La prima corrisponde, lato sensu, alla ratio di Suárez: per il teologo gesuita, le verità eterne sono a tal punto necessarie da poter esistere indipendentemente dal pensiero divino. La seconda, invece, consiste nella classica soluzione tomista, secondo cui le verità eterne sono dei modelli già da sempre accolti nell’intellectus di Dio, strettamente dipendenti dalla Sua cogitatio. Il vero problema è che Mersenne, almeno in questo frangente, sembra essere quasi sordo alla novitas cartesiana, cioè pare non aver compreso quanto le considerazioni cartesiane rappresentino un unicum nell’attuale panorama filosofico, tanto da non poter essere incardinate all’interno di un orizzonte ermeneutico che Descartes aspramente rifiuta. La responsio cartesiana si articola a partire da una premessa necessaria: A chi presti attenzione all’immensità di Dio [«Dei immensitatem»], è manifesto che non ci può essere assolutamente nulla che non dipenda da lui; non solo nulla di sussistente, ma anche nessun ordine, nessuna legge, o nessuna ragione di vero o di buono [«rationem veri et boni»]: altrimenti, infatti, come si diceva poco sopra, egli non sarebbe stato del tutto indifferente a creare le cose che ha creato (VI Resp., n. 8, B Op I, p. 1229; AT, VII, p. 435).

L’immensità di Dio è, per Descartes, la radice della Sua indifferenza. Del resto, se Dio agisse spinto da una qualche estrinseca necessità, sarebbe costretto a conformare la propria enérgeia a qualcosa che lo precede, così da smentire la propria onnipotenza. Ma non esiste nulla che possa vincolare la causalità divina, proprio perché è impossibile anche solo concepire l’esistenza di qualcosa che preesista a Dio e che l’abbia, in qualche modo, limitato: Se una qualche ragione di bene [«ratio boni»] avesse preceduto la sua preordinazione, essa lo avrebbe determinato a

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46 fare l’ottimo; ma, al contrario, è perché si è determinato a fare le cose che ora esistono che esse – come è scritto nella Genesi – sono molto buone, il che vuol dire che la ragione della loro bontà dipende dal fatto che egli ha voluto farle così (Ibid.; AT, VII, pp. 435-436. Il corsivo è nel testo).

Nel passo citato, Descartes afferma nuovamente che perfino il principio ultimo della nostra stessa moralità, ossia quell’idea del bene che ci consente di conoscere Dio, affinché gli si possa essere riconoscenti, non è ciò che ha guidato la creatio divina, spingendolo a creare questo mondo. Se così fosse, Dio non sarebbe né immenso né indifferente, poiché avrebbe patito una qualche dipendenza o alterità, e avrebbe agito in virtù di un costrutto già dato, non direttamente posto dalla Sua potentia. Ciò che è buono è tale, allora, non perché esista una ratio boni, modello eterno di ogni possibile creazione, bensì poiché Dio ha così, liberamente, deciso. In che modo, però, i rilievi cartesiani possono fornire una risposta adeguata ai dubbi di Mersenne? Secondo Descartes, date le premesse, non vi sarebbe nemmeno bisogno di «chiedere in qual genere di causa questa bontà, o le altre verità, sia di Matematica, sia di Metafisica, dipendano da Dio» (Ibid.; AT, VII, p. 436), e questo perché i generi delle cause sono state formulate proprio da quelle stesse persone che hanno, fino a questo momento, totalmente ignorato la reale natura divina, quasi cercassero di rimediare alla Sua potenza, magari accostandole dei modelli eterni ed immutabili pensati come vincoli alla Sua azione. Tuttavia, e questo è per Descartes quasi sorprendente, un nome a questa particolare forma di causalità è stato dato: Dio sarà, agli occhi del filosofo, quella causa efficiente e totale che, nella propria indifferenza, ha determinato, in modo libero e sovrano, l’insieme delle verità che ora regolano sia il nostro mondo, sia la conoscenza che l’intelletto umano può conseguire al suo interno.

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Di fronte all’immensità di una tale potenza, l’uomo non dispone di alcun criterio di proporzione per farsi strada nel mistero divino; non possiede nemmeno un concetto univoco che lo renda partecipe della Sua infinita perfezione. Per queste ragioni, non può indagare oltre la natura insondabile della potenza divina, quasi potesse racchiudere la volontà e l’intelletto di Dio nel dominio dei propri pensieri. Noi possiamo allora, semplicemente, riconoscere che Dio avrebbe potuto far sì che una determinata verità non fosse vera, ma non siamo certo in grado di indicarne le ragioni. Non c’è quindi bisogno, secondo Descartes, «di chiedere in quale maniera Dio abbia potuto fare dall’eternità che non fosse vero che due volte 4 faccia 8», visto che tutto ciò «non può essere inteso da noi» (Ivi, p. 1231; AT, VII, p. 436). Il divario che divide il Creatore dalla propria creatura è un tema costante nell’indagine cartesiana. Non è casuale che il continuo richiamo all’abisso epistemologico che ci divide dall’immensità divina sia spesso accompagnato da alcune considerazioni svolte da Descartes sulla natura creata delle verità eterne. È proprio questa idea, infatti, a costituire lo scandalo supremo, quella pietra di inciampo che impedisce al pensiero dell’uomo di collocarsi in mente Dei. A tale proposito, la lettera del 2 maggio 1644 indirizzata a Mesland ci consente di sviluppare ulteriormente questo aspetto del pensiero cartesiano. Sebbene lo spazio dedicato alla potentia Dei in questa lettera non sia così ampio, la densità e l’importanza di queste righe impongono di soffermarci su di esse con una certa attenzione. È opportuno dividere il contenuto della lettera in più parti, analizzarle singolarmente, e poi trarre delle conclusioni che ci consentano di fare un passo avanti nella nostra analisi. Ecco l’incipit cartesiano:

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48 Quanto alla difficoltà di concepire in che modo per Dio è stato libero e indifferente far sì che non fosse vero che i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti, o in generale che i contraddittori non potessero stare insieme: tale difficoltà si può facilmente superare considerando che la potenza divina non può avere limite alcuno [«la puissance de Dieu ne peut avoir alcune bornes»], e poi ancora, considerando che il nostro spirito è finito e creato di una natura tale da poter concepire come possibili le cose che Dio ha voluto fossero veramente possibili, ma non tale da poter anche concepire come possibili quelle cose che Dio avrebbe potuto rendere possibili, ma che ha tuttavia voluto rendere impossibili (B Op n. 454, pp. 1913-1915; AT, IV, p. 118).

Il problema in esame è sempre lo stesso: com’è possibile che Dio sia stato a tal punto libero e indifferente da stravolgere tutte quelle verità che il nostro intelletto ha sempre giudicato necessarie? Inoltre, come concepire e rendere presente alla nostra mente una simile possibilità? Le questioni sembrano molto delicate, e tuttavia Descartes ritiene che simili difficoltà possano essere facilmente superate, riflettendo in modo adeguato sulla natura divina e sugli strumenti di cui disponiamo. In questo passaggio, il filosofo decide di esporre di nuovo, e con chiarezza ancora maggiore, il fondamento della propria innovazione teoretica. Sappiamo già quanto Dio sia immenso e indifferente, e quanto siano infinite la Sua libertà e onnipotenza. Possiamo così limitarci, suggerisce Descartes, ad analizzare le conseguenze che paiono derivare da questi attributi, tenendo bene a mente due premesse fondamentali: per prima cosa, non dobbiamo mai dimenticarci della potenza divina, non essendoci nulla che la possa in qualche modo vincolare; inoltre, dobbiamo essere altrettanto consapevoli della natura finita e creata che ci definisce, senza pensare che l’estensione del nostro intelletto sia il giudice ultimo delle azioni di Dio.

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Ora, se queste sono le premesse con cui giudicare delle possibilità in esame, è chiaro quanto l’usuale modalità di descrivere la relazione Creatore-creatura debba essere riformulata. Il Dio cartesiano non possiede, a differenza, ad esempio, del Deus tomista, una struttura archetipale, ossia una gerarchia eterna e ideale che lo “sostenga” quasi accompagnandone le decisioni, cioè che ne guidi l’ordinatio presentando al Suo intelletto i modelli che la propria voluntas dovrà porre in forma. Il Dio che crea, in termini efficienti e totali, le verità eterne, non dispone di alcun criterio che ne accompagni l’epifania; d’altro canto, se fosse vincolato anche solo dalla natura eterna della propria stessa essenza non sarebbe, agli occhi di Descartes, immenso e libero, indifferente e onnipotente, dovendo da sempre patire l’esistenza di qualcosa che non sia stata la Sua potentia a stabilire e legittimare. È questo il motivo per cui la potenza divina non può aver alcun limite. Il nostro spirito, al contrario, è finito, determinato, costretto ad abitare in un dominio già deciso per esso. Se il nostro intelletto può quindi giudicare, grazie ai principi di cui dispone, tutto ciò che Dio ha deciso di creare, non può circoscrivere la libertà divina in quello stesso spazio, visto che Dio, nella Sua sovrana indifferenza, avrebbe potuto rendere ugualmente possibili altre cose che ha deciso di non realizzare. Noi non possiamo pensare che la libertà divina sia limitata a quel sistema di regole con cui la nostra mente disegna il mondo e le sue proporzioni; dobbiamo invece, e in ciò risiede forse il vertice della nostra stessa comprensione, essere consapevoli della differenza, profonda e radicale, che abita il nostro modesto bagaglio epistemico, senza pensare di poter giudicare della potentia Dei alla luce della nostra apprensione conoscitiva. L’analisi cartesiana sull’immensità divina si accompagna sempre alla consapevolezza del carattere finito e creato, e dunque non necessario, della conoscenza umana. Per Descartes,

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quindi, la prima considerazione, ossia l’assoluta potenza di cui dispone questo Dio creatore, ci permette di affermare che il Suo volere «non può essere stato determinato a far sì che fosse vero che i contraddittori non possano stare insieme e che, di conseguenza, ha potuto fare l’opposto»; inoltre, l’altro aspetto del problema, relativo alla natura limitata del nostro intelletto, «ci assicura poi che, benché ciò sia vero, noi non possiamo comprenderlo, poiché la nostra natura non ne è capace» (Ivi, p. 1915; AT, IV, p. 118). È ormai chiaro il quadro generale delineato da Descartes: da una parte, l’infinita libertà della potentia Dei non ci consente di escludere alcuna Sua possibile realizzazione, non essendoci nulla capace di limitarla; dall’altra parte, si ottiene un’indiretta conferma di un tale assunto, poiché la natura creata del nostro intelletto, non potendo elevarsi fino alla vertigine del pensiero divino, non ci permette di formulare alcun giudizio su un mistero inattingibile per la nostra comprensione: Benché Dio abbia voluto che alcune verità fossero necessarie, ciò non equivale a dire che le abbia volute necessariamente; infatti, una cosa è volere che esse fossero necessarie, e tutt’altra volerlo necessariamente, ovvero essere necessitato a volerlo. Certo, ammetto che vi sono delle contraddizioni così evidenti da non poter neppure essere rappresentate al nostro spirito, senza giudicarle totalmente impossibili, come quella che voi proponete: che Dio avrebbe potuto far sì che le creature non fossero dipendenti da lui. Tuttavia, noi non le dobbiamo rappresentare per conoscere l’immensità della sua potenza, né dobbiamo concepire alcuna gerarchia o priorità tra il suo intelletto e la sua volontà (Ibid.; AT, IV, pp. 118-119. Il corsivo è nel testo).

Il passaggio citato conferma ciò che il filosofo aveva sostenuto in precedenza: non c’è alcun criterio di proporzione fra Dio e la Sua più nobile creatura; non esiste perciò alcuna mediazione possibile, universalmente garantita, vista la discrasia che divi-

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de l’orizzonte della comprensione umana dall’immensità della natura divina. In queste righe abbiamo l’ennesima conferma di una costante persuasione cartesiana: l’uomo non può conchiudere la libertà di Dio nel dominio, creato e univocamente stabilito, delle leggi che governano le sue dimostrazioni. Certo, l’intelletto umano è in grado di riconoscere, grazie agli strumenti di cui dispone, il carattere necessario di una determinata dimostrazione. Quello che non deve pensare, però, è che questi criteri, cioè quelli di cui è attualmente in possesso, valgano anche per Dio, costituendo dei limiti per la Sua infinita e indifferente potentia. Tutto ciò che noi giudichiamo necessario, d’altra parte, è stato stabilito da Dio. Il fatto che abbia voluto che ci fossero delle verità necessarie, tuttavia, non significa che le abbia volute necessariamente, ossia che sia stato costretto a volere proprio quelle verità che noi, ora, giudichiamo necessarie. La potenza divina ha perciò stabilito, secondo Descartes, che ci fossero delle verità necessarie, queste e non altre, pur avendo il potere di decidere altrimenti. La necessità è quindi una caratteristica che vale solo all’interno di questo determinato orizzonte, senza imporsi alla voluntas Dei. L’uomo, ad ogni modo, non è nelle condizioni di pensare altre possibili verità, non potendo nemmeno rappresentarsele. È allora impossibile che l’ingegno umano possa cogliere, in modo chiaro e distinto, ulteriori e possibili alternative, poiché è costretto a riflettere con le regole e gli strumenti che gli sono stati lasciati in dote. Ciò cui la sua mente può giungere, però, è proprio la consapevolezza di questa originaria limitazione. Sebbene l’uomo non possa avere di fronte a sé altri scenari metafisici, è comunque in grado di non escluderne l’eventualità, mantenendo ben ferme le considerazioni sull’immensità divina. Ecco che la sua mente, mentre esclude di poter pensare in modo non contraddittorio differenti possibilità, è al con-

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tempo ben consapevole che questo ragionamento perderebbe ogni valore, non appena fosse accostato al potere di Dio. L’uomo diviene conscio del divario infinito che lo separa dal proprio Creatore, e raggiunge così i confini della sua stessa ragione. Pensando ad una possibilità che non può ricevere alcuna rappresentazione, ma che può solo essere posta come non immediatamente negata, il suo intelletto riconosce che infinite altre cose sono possibili a Dio, senza che i limiti imposti dalla ratio creaturale in cui è confinato possano rivendicare alcun diritto al cospetto della potenza divina. Ora, poste queste premesse, possiamo riproporre la domanda decisiva che abbiamo formulato in differenti occasioni. Certo, Dio non ha necessariamente stabilito queste verità, ma in questo preciso momento, dopo averle liberamente create, può intervenire nuovamente nel mondo, modificando la necessità di questi paradigmi? In generale, una simile opportunità è sempre stata esclusa, considerata la volontà cartesiana di dare vita ad un sapere certo e stabile di noi stessi e dello spazio in cui viviamo. Tuttavia, se Dio è il libero creatore delle verità eterne, e se queste verità sono necessarie solo perché volute, nel caso in cui il loro contenuto, una volta avvenuta la scelta divina, si rivelasse a tal punto vincolante da non poter essere modificato nemmeno da Dio, sarebbe proprio la potentia Dei a patire un limite davvero invalicabile. Il risultato di questa libera creatio, cioè, manifesterebbe il non poter più di Dio, eliminando quello scarto epistemologico che rappresenta la cifra costitutiva del pensiero cartesiano. È possibile, comunque, integrare queste considerazioni con altri luoghi dell’epistolario di Descartes. All’inizio di questo lavoro, mentre commentavamo la prima testimonianza della teoria sulle verità eterne, ossia la lettera del 15 aprile 1630 indirizzata a Mersenne, abbiamo volutamente omesso, avvisan-

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do il lettore, un ulteriore passaggio di quella missiva, proprio con l’obiettivo di analizzarlo a tempo debito. Ora, avendo già scandagliato gran parte dei luoghi cartesiani dedicati a questa problematica, è forse opportuno fare ritorno alla seconda parte di questa lettera, e capire in che modo il suo contenuto possa aiutarci a fare luce sulla questione di cui stiamo discutendo. Dopo aver scritto che le verità matematiche dipendono da Dio, e che sono state da Lui stabilite allo stesso modo con cui un Re stabilisce le leggi del suo regno, Descartes sostiene che all’uomo sia preclusa ogni comprensione della grandezza di Dio. Poco dopo questa affermazione, il filosofo mette in scena un dialogo incentrato sulle ultime questioni analizzate, soppesandone i pro e i contro, quasi stesse immaginando di conversare con Mersenne: Vi si dirà che, se Dio avesse stabilito queste verità, potrebbe cambiarle come fa un Re con le sue leggi. A questo bisogna rispondere di sì, posto che la sua volontà possa cambiare. – Ma io le concepisco come eterne ed immutabili. – Ed io giudico la stessa cosa di Dio. – Ma la sua volontà è libera. – Sì, ma la sua potenza è incomprensibile. In generale, possiamo esse sicuri che Dio può fare tutto quel che noi possiamo comprendere, ma non che non possa fare quello che non possiamo comprendere, poiché sarebbe temerario pensare che la nostra immaginazione abbia la stessa estensione della sua potenza (B Op n. 30, p. 147; AT, I, pp. 145-146).

È probabile che Descartes abbia deciso di discutere in termini dialogici il contenuto di questa dottrina, inscenando un confronto immaginario fra differenti posizioni dottrinali, per anticipare alcune delle potenziali difficoltà connesse a questa nuova formulazione. Il presupposto stesso dell’intera teoria, cioè la persuasione che le verità eterne siano stabilite liberamente da Dio, avrebbe potuto, infatti, generare qualche

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dubbio nell’animo di un ipotetico interlocutore, magari preoccupato della stabilità e affidabilità di quelle stesse leggi che avevano, fino ad ora, costituito l’architrave di ogni conoscenza. Dio è libero, e liberamente ha creato la totalità delle verità possibili. Ma è proprio questo il problema: se queste verità sono create, e quindi non si sono imposte necessariamente a Dio, sono immutabili in termini assoluti, o l’immutabilità è una caratteristica che esse esibiscono solo di fronte a noi, e non dinanzi al loro creatore? Questa domanda è subito implicata dalla teoria cartesiana. Non deve perciò sorprendere l’intervento del filosofo; conscio di tali difficoltà, Descartes decide di metterle in scena, anticipando alcune delle perplessità che sarebbero potute sorgere in un suo lettore. Dio può modificare queste verità, così come un Re cambia le proprie leggi? Potrebbe naturalmente modificarle, se si ritiene che la sua volontà possa cambiare. Tuttavia, se pensiamo che simili verità siano eterne e immutabili, e, soprattutto, se siamo persuasi che queste stesse proprietà siano consustanziali all’essenza divina, dobbiamo escludere una tale opportunità. L’infinita potenza di Dio ha dunque creato, senza patire alcuna costrizione, le verità eterne; al tempo stesso, dato che consideriamo eterna la Sua natura e immutabile la Sua volontà, non possiamo certo pensare che queste leggi, e quindi questo mondo e questa conoscenza, siano nelle condizioni di poter cambiare. La conclusione appena delineata è quella cui giunge gran parte della critica cartesiana. Certo, le cose non sembrano poter cambiare; non è forse immutabile la natura di Dio? Ad un primo sguardo, sembrerebbe di sì. Tuttavia, se la novitas cartesiana si limitasse ad affermare l’originaria libertà e indifferenza divine nei confronti delle verità comunemente giudicate

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eterne, saremmo di fronte ad una decisa presa di posizione nei confronti della traditio filosofica precedente, ma non avremmo ancora compreso appieno lo scandalo cartesiano. In effetti, pur avendo giudicato eterna l’essentia Dei, e aver così garantito la stabilità delle leggi di questo mondo, ora immutabili allo stesso modo del loro creatore, Descartes fa un passo avanti, uno scatto che, pur non squalificando ciò che è stato detto, lo colloca in un contesto affatto differente. Dio è eterno e immutabile, lo sappiamo; ma c’è dell’altro, suggerisce Descartes: la volontà di Dio è libera. E, cosa ancora più importante, «la sua potenza è incomprensibile [«sa puissance est incompréhensible»]» (Ivi, p. 146; AT, I, p. 146). Incomprensibile: questa è la parola con cui si chiude il dialogo inscenato da Descartes. Dio è dunque incomprensibile. La Sua immensità è perciò al di fuori dei confini della cogitatio umana. Siamo noi, pertanto, che proviamo a delinearne i tratti, scovando nelle pieghe della Sua potenza dei criteri stabili che abbiano valore tanto per la profondità della Sua infinita essentia, quanto per la natura finita delle nostre apprensioni intellettuali. Noi delimitiamo il regno di ciò che è possibile, e, sospinti da una proporzione definita, fondata su una qualche similitudine o somiglianza, proviamo ad applicare a Dio tali concetti. Di fronte ad una potenza incomprensibile, infinita e indifferente, dovremmo però restare muti, poiché non esiste un legame univoco o analogico che ci permetta di dare voce ad una proporzione veridica capace di restituire, senza alcuno scarto o differenza, un’immagine o un concetto dell’essenza divina. La natura di Dio sfigura, infatti, ogni nostra rappresentazione. Ecco che tutti i limiti e le contraddizioni che ci troviamo a patire non ci dicono nulla della natura di Dio, cioè non possono rappresentare dei vincoli per il dominio infinito della Sua

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omnipotentia8, e questo a causa dell’abisso che ci separa dal nostro creatore: il massimo cui possiamo giungere è proprio la consapevolezza di tale impossibilità.

8 Utilizziamo il termine onnipotenza, senza alcun richiamo alla distinzione medievale fra una potentia absoluta e una potentia ordinata, perché le testimonianze cartesiane sulle verità eterne che fanno riferimento all’omnipotentia non elaborano un’articolata riflessione sulla differenza e sulla dialettica che dovrebbero caratterizzare l’agire ad extra di Dio. Nelle VI Resp., n. 6, B Op I, p. 1225; AT, VII, p. 432, ad esempio, Descartes sostiene che «la somma indifferenza in Dio» sia un «sommo argomento della sua onnipotenza», senza però fornire un’analisi dettagliata del potere divino. Anche nella lettera rivolta a Mesland (cfr. R. Descartes, B Op n. 454, p. 1913; AT, IV, p. 118), discutendo ancora una volta dell’indifferenza di Dio, il filosofo sostiene che la «potenza divina [«la puissance de Dieu»]» non possa avere «limite alcuno» (cfr., a questo proposito, R. Descartes, B Op n. 677, p. 2619; AT, V, p. 272). Nella lettera inviata ad Arnauld (cfr. R. Descartes, B Op n. 665, p. 2581; AT, V, pp. 223-224), inoltre, Descartes si richiama all’onnipotenza tout court, senza indagare una supposta distinzione interna alla potentia Dei: «A me non sembra che si debba dire di cosa alcuna che non possa essere fatta da Dio. Infatti, poiché tutto ciò che vi è di vero e di bene dipende dalla sua onnipotenza [«omnis ratio veri et boni ab ejus omnipotentia dependeat»], non oserei neppure dire che Dio non possa far sì che vi sia un monte senza valle». Il filosofo francese riconosce implicitamente l’unitarietà del potere divino anche quando non discute apertamente la teoria sulle verità eterne: se nelle IV Resp., B Op I, pp. 987 e 1013; AT, VII, pp. 227 e 249, evoca la «potenza divina [«divinam potentiam»]», nelle V Resp., B Op I, p. 1189; AT, VII, p. 383, si rifà invece, semplicemente, all’onnipotenza [«omnipotentia»] di Dio. Anche nei casi in cui Descartes si richiama alla distinzione (cfr., ad esempio, R. Descartes, VI Resp., n. 7, B Op I, p. 1229; AT, VII, p. 435), non fornisce alcuna precisazione circa la portata e il fondamento che dovrebbe caratterizzarla. D’altro canto, quando Mersenne, nelle II Object. (cfr. R. Descartes, B Op I, pp. 845-847; AT, VII, p. 125), evoca la potenza assoluta di Dio, il filosofo non menziona nelle sue risposte (cfr. R. Descartes, II Resp., B Op I, pp. 869-875; AT, VII, pp. 142-146) la tradizionale ripartizione, lasciando sullo sfondo i riferimenti testuali proposti dal Minimo. Descartes non sembra dunque interessato ad indagare la distinzione insita nell’onnipotenza divina, forse per non pregiudicarne, anche solo da un punto di vista formale, l’unitarietà.

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L’idea che Dio sia incomprensibile, e che non possa individuarsi, in modo univoco, nel dominio finito delle nostre umane rappresentazioni, è una persuasione che accompagna Descartes lungo tutto il suo tragitto intellettuale. Poco prima della conclusione del dialogo appena discusso, il filosofo aveva già insistito sulla natura incomprensibile di Dio, contrapponendo l’immensità della Sua idea alle leggi da Lui create, tutte ugualmente innate nella nostra mente. D’altra parte, mentre possiamo comprendere le verità che Dio ha deciso di stabilire, non possiamo però racchiudere nel nostro pensiero la condizione ultima che ha permesso a quelle stesse leggi di essere ciò che sono: ecco che, «pur conoscendola, noi non possiamo comprendere la grandezza di Dio. Il fatto stesso, però, che la giudichiamo incomprensibile, ce la fa stimare di più» (Ivi, p. 147; AT, I, p. 145). Nella lettera successiva, quella del 6 maggio 1630, Descartes si rammarica del fatto che «la maggior parte degli uomini» non consideri Dio «come un essere infinito e incomprensibile, il solo Autore da cui tutte le cose dipendono» (B Op n. 31, p. 151; AT, I, p. 150). E, sempre nello stesso luogo, il filosofo sostiene una volta ancora che Dio è una causa «la cui potenza supera i limiti del nostro intelletto umano»; inoltre, visto che «la necessità di queste verità non eccede affatto la nostra conoscenza, esse sono qualcosa di minore e di soggetto a questa potenza incomprensibile» (Ibid.). Non sono comunque solo le lettere a testimoniare la persuasione che il pensiero umano sia fondato, in ultima analisi, su un’idea assolutamente incomprensibile. Anche le Meditationes descrivono un Dio che, nella Sua assolutezza, non può mai divenire il quid di una rappresentazione universalmente rassicurata. Nella prefazione di quest’opera, mentre si afferma la necessità di rifiutare gli argomenti degli atei, Descartes sottolinea quanto sia importante «ricordarci che le nostre menti de-

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vono essere considerate finite, Dio invece incomprensibile ed infinito [«Deum autem ut incomprehensibilem et infinitum»]» (Praef. Medit., B Op I, p. 691; AT, VII, p. 9). La Meditatio IV conferma lo stesso assunto, tutto incentrato sulla differenza abissale che divide l’estensione del pensiero umano dalla cogitatio Dei: «Poiché so che la mia natura è molto fragile e limitata, la natura di Dio invece immensa, incomprensibile, infinita [«Dei autem naturam esse immensam, incomprehensibilem, infinitam»], so anche abbastanza, proprio per questo, che sono in suo potere innumerevoli cose di cui ignoro le cause» (Medit. IV, B Op I, pp. 753-755; AT, VII, p. 55). Nella prima delle sue risposte ai critici, ponendo le basi del concetto di Dio come causa sui, Descartes invita l’interlocutore a prestare attenzione «alla sua immensa potenza [«immensam ejus potentia»]» (I Resp., B Op I, p. 837; AT, VII, p. 119). Allo stesso modo, in un altro luogo si parla del «potere infinito di Dio [«infinitam Dei potestatem»]» (IV Resp., B Op I, p. 979; AT, VII, p. 220). Dio, dunque, essendo infinito e onnipotente, è per noi incomprensibile, perlomeno nella sua compiuta attualità: «L’idea dell’infinito, perché sia vera, non deve essere in alcun modo compresa, perché la stessa incomprensibilità è contenuta nella ragione formale dell’infinito [«ipsa incomprehensibilitas in ratione formali infiniti continetur»]» (V Resp., B Op I, p. 1171; AT, VII, p. 368). L’onnipotenza incomprensibile è allora, come ha sostenuto Marion, il nome cartesiano di Dio9. 9 «Incompréhensibilité et toute-puissance se confondent pour donner à penser cartésiennement l’impensable – le nom de Dieu. La toute-puissance incompréhensible énonce le nom cartésien de Dieu. Ce nom s’énonce à partir de la fonction épistémologique qu’assure le créateur des vérités éternelles: fonder le code comme une nature (innée) par une disposition radicalement arbitraire», J.-L. Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, Puf, Paris 1981, p. 281.

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I testi appena citati confermano quanto sia profondo il divario che ci divide dalla immensità del pensiero divino. D’altro canto, se disponessimo di un’idea adeguata di Dio, capace di conchiudere nei confini della nostra rappresentazione la potentia Dei, a torto potremmo giudicarla infinita. In questo caso, avremmo già commisurato il dominio della Sua voluntas allo spazio, creato e definito, della nostra comprensione. Siamo noi, quindi, a giudicare immutabili le essenze e le verità delle cose, e siamo sempre noi a pensare che esse non possano più cambiare. Tuttavia, mentre siamo convinti di tutto ciò, sappiamo che la volontà di Dio è libera, e, soprattutto, siamo certi, dato il divario che ci divide dal nostro creatore, che la Sua potenza sia assolutamente incomprensibile. Dio è perciò incomprensibile: è solo per questa ragione che siamo legittimati a pensarlo nella Sua absoluta onnipotenza, sciolta da qualunque legame, da qualunque vincolo, da qualunque promessa e immagine. La consapevolezza di questo scarto, se da un lato ci permette di riconoscere che Dio può certamente fare quello che noi possiamo comprendere, dall’altro ci impedisce di sostenere che non sia in grado di realizzare tutto ciò che non possiamo comprendere. Se potessimo penetrare in mente Dei, infatti, tracciando i confini della Sua infinità e maestà, finiremmo per estendere la nostra immaginazione sino ad identificarla con quella divina, eliminando, così, proprio quella differenza che testimonia la nostra creaturalità. Descartes, ad ogni modo, è ben consapevole di quanto sia temerario anche solo avanzare una simile possibilità. L’immutabilità di tutte le leggi stabilite da Dio vale, in termini assoluti, soltanto per noi, poiché il nostro ingegno finito non può pensare il loro essere altrimenti. Al tempo stesso, vista la libertà della natura divina, non possiamo escludere che queste verità, una volta stabilite, non siano più soggette a poter cambiare,

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giacché non siamo in grado di scandagliare i consilia Dei, e nemmeno porre un argine determinato alla Sua potenza. Insomma, se giudicassimo delle possibilità che Dio è libero di realizzare solo alla luce di ciò che noi riteniamo possibile, finiremmo per tradirne la natura, proporzionando quello che Lui può fare a ciò che noi possiamo intendere. In una lettera del 29 luglio 1648 rivolta ad Arnauld, Descartes torna ad occuparsi di questo problema, confermando quanto scritto in precedenza: Ora, a me non sembra che si debba dire di cosa alcuna che non possa essere fatta da Dio. Infatti, poiché tutto ciò che vi è di vero e di bene [«ratio veri e boni»] dipende dalla sua onnipotenza, non oserei neppure dire che Dio non possa far sì che vi sia un monte senza valle, o che uno e due non facciano tre, ma dico solo che Dio mi ha dato una mente tale da non poter concepire un monte senza valle, o una somma di uno e due che non faccia tre, e così via, e che tali cose implicano contraddizione nel mio concetto (B Op n. 665, p. 2581; AT, V, pp. 223-224).

Noi non possiamo sostenere che vi sia qualcosa che non possa essere realizzato da Dio, e non siamo nemmeno in grado di escludere che la Sua voluntas possa dare vita ad una realtà che giudichiamo impossibile. La questione della contraddizione, cioè di quello che noi pensiamo sia contraddittorio, lungi dal riguardare la potenza incomprensibile di Dio, concerne, solamente, i limiti della nostra intellezione, ossia la natura finita della mente umana. Ecco che l’insieme di ciò che noi riteniamo implicare una contraddizione non può costituire un’esigenza assoluta per la potentia Dei, bensì è un’impossibilità reale solo per la nostra rappresentazione di quella potenza. Il fatto che sia per noi impossibile concepire un monte senza vallata, e infinite altre cose ancora, non significa che questo limite debba necessaria-

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mente imporsi anche a Dio. Del resto, se giudicassimo delle possibilità divine in virtù di ciò che noi riteniamo possibile, avremmo già negato non solo la Sua indifferenza e libertà, ma anche la Sua stessa incomprensibilità, poiché avremmo istituito uno strumento di proporzione con cui scandagliare una potentia che non possiede alcun vincolo, essendo la condizione di ogni possibile ratio. Un’ampia schiera di interpreti, tuttavia, ha negato che il Dio cartesiano possa realizzare tutto ciò che noi riteniamo impossibile, contraddizioni incluse. Anche chi ha pensato che Descartes abbia esteso il dominio della voluntas Dei al di là dei limiti imposti dal pensiero medievale, ha comunque tentato di rimediare a questo scandalo, collocando l’indifferenza e l’incomprensibilità divine in quell’istante nel quale Dio ha pensato-e-voluto questo mondo, venendo poi meno all’opportunità di poterlo modificare. Amos Funkenstein10 e Hide Ishiguro11, ad esempio, hanno escluso che l’onnipotenza di Dio sia in grado di rendere vero ciò che noi consideriamo attualmente contraddittorio, fornendo delle interpretazioni a nostro parere poco coerenti con le testimonianze cartesiane discusse in precedenza. Edwin M. Curley12, inoltre, richiamandosi all’influente analisi di Mar-

10 Cfr. A. Funkenstein, Theology and the Scientific Imagination from the Middle Ages to the Seventeenth Century, Princeton University Press, Princeton 1986; trad. it. di A. Serafini, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, Einaudi, Torino 1996, pp. 214-228; Id., Descartes, Eternal Truths and the Divine Omnipotence, in Studies in the History and Philosophy of Science, Vol. VI, n. 3, Pergamon Press 1975, pp. 185-199. 11 Cfr. H. Ishiguro, The status of necessity and impossibility in Descartes, in A. O. Rorty (ed.), Essays on Descartes’ Meditations, University of California Press, Berkeley 1986, pp. 459-472. 12 Cfr. E. M. Curley, Descartes on the Creation of the Eternal Truths, op. cit.; cfr. P. T. Geach, Omnipotence in «Philosophy», XLVIII, 1973, pp. 7-20.

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tial Guéroult13, ha sostenuto che nella teoria cartesiana vi sarebbero alcune verità – nella fattispecie, quelle riguardanti l’essentia Dei – che non sono soggette alla causalità divina. Secondo l’autore, è opportuno sviluppare una distinzione, già presente in nuce nella dottrina di Descartes: da una parte, esisterebbero delle verità necessariamente necessarie [«necessarily necessary»] che riguardano la natura divina; dall’altra, avremmo a che fare con delle verità necessarie solo in modo contingente [«contingently necessary»], cioè soltanto per noi, poiché la loro necessità è il risultato di una libera opzione della voluntas Dei. Ora, se le interpretazioni appena richiamate finiscono per tradire la lettera dei testi cartesiani, commisurando la potenza divina all’estensione della nostra immaginazione, anche le analisi all’apparenza più spregiudicate, come quelle di Harry Frankfurt14, non sono comunque in grado di corrispondere appieno alla radicalità della posizione cartesiana. Frankfurt ritiene che la teoria della libera creazione delle verità eterne renda la ragione umana e la rivelazione divina radicalmente discontinue. Tale dottrina, fondandosi su un divario che lacera di principio ogni univocità concettuale, non ci permette di considerare le nostre verità come necessarie al punto da poter valere anche per l’intelletto divino. La potentia Dei cartesiana, dunque, presuppone un dominio di possibilità infinitamente più ampio di quello che siamo in grado di comprendere: ciò che noi pensiamo sia logicamente necessario non coincide con la necessità assolutamente con13 Cfr. M. Guéroult, Descartes selon l’ordre des raisons (L’âme et les corps, Vol. II), Aubier, Paris 1953, in part. pp. 22-39. 14 Cfr. H. Frankfurt, Descartes on the Creation of the Eternal Truths, cit., pp. 36-57; cfr. inoltre Id., The Logic of Omnipotence in «Philosophical Review», 2, 73, 1964, pp. 262-263.

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siderata, poiché Dio avrebbe potuto dotarci di altri principi logici, magari incompatibili con quelli di cui ora disponiamo. La nostra incapacità di concepire una verità al momento contraddittoria, pertanto, è un limite che ha valore soltanto per noi, e non certo per Dio. Questa teoria implica allora, secondo Frankfurt, che non sia possibile alcuna scienza, perlomeno se pensata come un sistema di sapere che sia vero in termini assoluti, in modo indipendente dall’arbitrio divino. La posizione di Frankfurt, certo la più radicale fra quelle formulate negli ultimi anni, è stata oggetto di innumerevoli critiche15. Si è sempre pensato, infatti, che questa lettura negasse di principio che la razionalità fosse essenziale a Dio, aprendo così il campo ad una potenza cieca, capricciosa e irrazionale. In anni più recenti, Lilli Alanen16 è tornata ad esaminare l’inter15 Cfr., fra gli altri, R. La Croix, Descartes on God’s Ability to Do the Logically Impossible in «Canadian Journal of Philosophy», XIV, 1984, pp. 455-475. La Croix nega risolutamente che la dottrina cartesiana sulle verità eterne comporti il possibile venir meno della trascendentalità epistemica connessa al principium firmissimum, sottolineando quanto l’intera analisi di Frankfurt lasci nell’ombra vari passaggi testuali incompatibili con l’interpretazione che intende sostenere. Questa accusa, tuttavia, può essere legittimamente rivolta allo stesso La Croix: i brani su cui Frankfurt fa leva per dare sostanza alla propria lettura, ossia il contenuto delle lettere ad Arnauld e More (cfr. R. Descartes, B Op n. 665, p. 2581; AT, V, pp. 223-224; B Op n. 677, p. 2619; AT, V, p. 272), vengono considerati da La Croix come delle provocazioni [«provocative points»] e delle affermazioni che necessitano di essere integrate ed incorporate all’interno di un quadro più ampio. In verità, il contenuto di questi passaggi, lungi dall’essere compatibile con l’ipotesi che La Croix intende suggerire, rappresenta una testimonianza in aperto contrasto con le sue linee guida. 16 Cfr. L. Alanen, Omnipotence, Modality and Conceivability, in J. Broughton and J. Carriero (eds.), A Companion to Descartes, Blackwell Publishing Company 2008, pp. 353-371; Id., Descartes, Omnipotence and Kinds of Modality, in V. Chappell (ed.), Essays on Early Modern Philosophers, Vol. I: René Descartes, Garland Publishing, New York & London 1992, pp. 182-196.

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pretazione di Frankfurt: ripercorrendone gli aspetti salienti, e affermando che non esiste una verità possibile e necessaria indipendentemente dall’atto libero e volontario con cui Dio stabilisce di crearla, ha guadagnato un punto di vista che le ha permesso di riflettere criticamente sulle altre interpretazioni. Ha così sottolineato, a nostro avviso cogliendo nel segno, che tutte le precedenti letture della teoria cartesiana finivano per affermare proprio ciò che Descartes aveva cercato, con ogni sforzo, di escludere, cioè che vi sia un ordine – morale, logico o metafisico – che preceda l’esercizio della voluntas Dei. Ma se quest’ordine non ha alcun diritto di esistere, per la studiosa finlandese non ha neppure più senso interrogarsi sull’affidabilità di tutte le verità create, visto che non esiste alcuna possibilità di porre in questione una decisione che non possiamo comprendere. Le analisi di Frankfurt e Alanen, tuttavia, non compiono quel passo successivo che abbiamo tracciato in precedenza. Entrambi gli autori mantengono inalterato quel giudizio che ha caratterizzato le precedenti indagini, continuando a ritenere che le verità create, ora immutabili ed eterne, non possano più cambiare, nemmeno ad opera della potentia Dei. A nostro avviso, è questa invece l’ultima conseguenza che è opportuno trarre dall’analisi dei testi cartesiani. La volontà di Dio, infatti, oltre ad essere massimamente libera, è assolutamente incomprensibile: non siamo perciò autorizzati a porre dei vincoli alla Sua azione; per lo stesso motivo, non possiamo nemmeno escludere quelle possibilità di cui non possiamo fornire alcuna rappresentazione. Del resto, se fossimo in grado di scandagliare, senza resto alcuno, tutto quello che Dio è in grado di realizzare, finiremmo per negarne, di fatto, proprio l’incomprensibilità. Descartes ribadisce questa considerazione per l’ultima volta nella lettera del 5 febbraio a More:

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65 Vi preoccupa la potenza divina, che ritenete possa togliere tutto ciò che è in un vaso e, al tempo stesso, impedire che i suoi lati si riuniscano. Io, invece, poiché so che il mio intelletto è finito, e la potenza di Dio infinita, non pongo mai alcun limite ad essa, ma considero soltanto cosa possa essere da me percepito o non percepito e diligentemente mi sforzo affinché nessuno dei miei giudizi contrasti con la mia percezione. Per questo, oso affermare che Dio può tutto ciò che percepisco essere possibile; non mi azzardo, però, a negare che egli possa ciò che ripugna al mio concetto, limitandomi a dire che implica contraddizione (B Op n. 677, p. 2619; AT, V, p. 272).

Questa è l’ultima testimonianza cartesiana sul tema di cui ci stiamo occupando. Se prestiamo attenzione alle ultime righe del passo riportato, possiamo notare come Descartes si soffermi, una volta ancora, sulla sproporzione che divide il nostro intelletto dalla potenza divina, ricollegandosi proprio alla prima delle sue testimonianze sulle verità eterne, cioè la lettera del 15 aprile 1630 indirizzata a Mersenne. In quella missiva, Descartes sosteneva che noi possiamo «essere sicuri che Dio può fare tutto quel che noi possiamo comprendere»; al tempo stesso, però, non siamo legittimati a sostenere che Dio «non possa fare quello che non possiamo comprendere, poiché sarebbe temerario pensare che la nostra immaginazione abbia la stessa estensione della sua potenza» (B Op n. 30, p. 147; AT, I, p. 146). La lettera a More ribadisce con altre parole lo stesso identico concetto: se Dio è in grado di realizzare «tutto ciò che percepisco essere possibile», Descartes non può al tempo stesso negare, venendo meno allo scarto che lo divide dal suo creatore, che Dio possa dare vita a «ciò che ripugna al mio concetto» (B Op n. 677, p. 2619; AT, V, p. 272), solo perché una simile eventualità gli appare contraddittoria.

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Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, il quadro che sorregge la teoria cartesiana. La mente umana non può escludere che Dio possa realizzare anche ciò che le appare attualmente impossibile. Ed è impossibile, ad esempio, per l’uomo immaginare differenti verità, poiché gli strumenti di cui dispone sono vincolati proprio alla logica di quelle leggi. Tuttavia, ciò non lo autorizza a negare che Dio avrebbe potuto creare un altro mondo, magari regolato da altri principi, se solo avesse deciso altrimenti. L’incomprensibilità del potere divino, infatti, non possiede alcun limite, e non può certo essere commisurata all’apparato epistemico di una Sua semplice creatura. Ma per quale motivo, allora, dovremmo spingerci oltre i limiti della nostra natura ed escludere che queste verità, liberamente create, e prive di una necessità che non faccia capo all’arbitro di Dio, non possano più cambiare? Forse perché Dio ha deciso che fossero immutabili? Certamente, a patto che questa considerazione valga soltanto per quello spazio in cui la mente umana è libera di mettere in gioco le proprie categorie, che sono, ricordiamolo, finite e limitate, e destinate perciò a perdere ogni valore e universalità, non appena avvicinate all’arbitrio divino. Due diversi ordini di ragioni sembrano quindi imporsi nell’immaginario cartesiano. Rimanendo fedeli al dominio epistemico in cui siamo confinati, non possiamo né rappresentare come vero ciò che ci appare attualmente contraddittorio, descrivendo un mondo regolato da differenti verità, né pensare che le leggi su cui uniformiamo la nostra conoscenza possano cambiare, visto che la loro immutabilità è il frutto di una precisa scelta divina. D’altro canto, provando a collocarci in mente Dei, cioè provando a tracciare i confini della Sua potenza, scopriamo che nulla gli è impossibile, neppure quello che pare comportare una contraddizione nel nostro concetto. Ecco che la stessa

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natura delle verità eterne, analizzata alla luce del secondo ordine di ragioni, sembrerebbe poter17 perdere ogni necessità e immutabilità, perlomeno se rapportata al dominio infinito di possibilità che la potentia Dei è libera di realizzare. Non possiamo perciò escludere, confinati in uno spazio affatto limitato, figlio di una logica creata, che Dio possa modificare ancora il contenuto di queste verità eterne, stravolgendo le proporzioni conoscitive di cui disponiamo in questo momento18. Ciò non significa, ad ogni modo, che Descartes sia con17 Il condizione, in questo caso, è d’obbligo, proprio per non negare, in actu exercito, quell’incomprensibilità divina difesa e posta a tema da Descartes in tutto il suo corpus filosofico. A questo proposito, è necessario rivedere criticamente i giudizi da noi espressi in A. Gatto, Di un’impossibile confessione. Il soggetto cartesiano e la libera creazione delle verità eterne in «Il Pensiero», Vol. I, 2011, pp. 91-108. 18 Esiste, tuttavia, una testimonianza raccolta da Frans Burman in cui Descartes sembra suggerire una risposta in parziale disaccordo con la nostra lettura: «Dio avrebbe potuto ordinare a una creatura di odiarlo e stabilire così che ciò è buono? Risposta. Ora non può [«Jam non potest»], ma non sappiamo ciò che avrebbe potuto fare. Ma perché non avrebbe potuto ordinare ciò ad una creatura?» (R. Descartes, B Op II, p. 1273; AT, V, p. 160). Dio, suggerisce il filosofo, avrebbe certamente potuto modificare le leggi morali in vigore, ordinando ad una Sua creatura l’odio verso il proprio Creatore; allo stato attuale, però, non sembra che una simile eventualità sia ancora possibile. È importante sottolineare che il Colloquio con Burman, pur facendo parte del corpus cartesiano, non è un testo scritto dal filosofo francese, essendo invece il resoconto di un colloquio che Descartes ebbe con Frans Burman, un giovane studente di teologia, figlio di un ministro protestante. Inoltre, la data in cui avvenne l’incontro (16 aprile 1648) e quella in cui il manoscritto fu ultimato (20 aprile 1648) divergono (d’altra parte, non dobbiamo neppure dimenticare che il manoscritto di cui disponiamo non è il testo originale, ma una copia del lavoro fatta ad Amsterdam da Johan Clauberg). Ciò significa che il testo – frutto, per l’appunto, di un colloquio – non fu, con ogni probabilità, ultimato il giorno stesso in cui avvenne l’incontro. Questa discrepanza fra le date, unita alla scarsa caratura intellettuale dello studioso, ci portano a sottostimare il valore testimoniale da attribuire all’opera. Per corroborare il nostro giudizio, è utile riflettere su

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vinto che queste verità possano cambiare. Il filosofo sta soltanto affermando, fedele ai presupposti della sua teoria, che l’uomo non è in grado di escludere l’eventualità che tali verità possano cambiare. La differenza fra queste due formulazioni è, naturalmente, abissale. La prima affermazione presuppone, pur nella sua “tragicità”, una perfetta conoscenza del pensiero divino. In questo caso, l’uomo è così consapevole dell’essentia Dei da abbracciare nella propria mente ogni possibilità, anche la più radicale, cioè quella possibilità in grado di stravolgere i dettami della sua stessa ragione. Questa lettura, tuttavia, non è coerente con i testi cartesiani19.

un altro passaggio del colloquio, in cui Descartes sembra sostenere delle posizioni sulla natura delle verità eterne in aperta contrapposizione alle altre testimonianze di cui disponiamo: «Dio, pur essendo indifferente a tutto, ha tuttavia necessariamente decretato così perché necessariamente ha voluto l’ottimo, sebbene sia dalla sua volontà che ciò è stato fatto ottimo. E qui non si dovrebbe disgiungere nei decreti di Dio la necessità e l’indifferenza: sebbene abbia agito con la massima indifferenza, tuttavia ha al tempo stesso agito in modo massimamente necessario» (Ivi, p. 1285; AT, V, p. 166). Se la prima parte del passo citato non è compatibile col pensiero di Descartes, la seconda è invece apertamente contraddittoria, come ha rilevato lo stesso Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, cit., pp. 306-307. Poiché questo passaggio è stato giustamente considerato estraneo al pensiero di Descartes (cfr., ad esempio, il testo citato con VI Resp., n. 6, B Op I, p. 1225; AT, VII, pp. 431-432; VI Resp., n. 8, B Op I, p. 1229; AT, VII, pp. 435-436), è forse opportuno non considerare il contenuto del colloquio come una testimonianza decisiva, capace di decidere del valore di un’interpretazione. È probabile, infatti, che Burman, provando a mettere per iscritto il confronto avuto con Descartes, abbia compiuto qualche leggerezza espositiva, non disponendo degli strumenti per analizzare in profondità il contenuto di una dottrina così complessa e articolata. 19 Nonostante questa interpretazione tradisca la lettera dei testi cartesiani, alcuni pensatori più o meno coevi al filosofo francese, fra cui lo stesso Leibniz, rifiutarono e criticarono duramente il contenuto della dottrina anche per il radicale contingentismo che sembrava derivarne. Per un’analisi più

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Uno degli obiettivi di Descartes, infatti, è proprio quello di decostruire dall’interno ogni relazione di univocità fra Dio e le Sue creature. L’uomo non può quindi rendere ragione dell’attuale creatio, e nemmeno descrivere le condizioni che potrebbero snaturarla o magari emendarla, non avendo una logica capace di accogliere l’eventualità di una sua destituzione. Se disponesse di una simile capacità, inoltre, non sarebbe in possesso di una conoscenza fragile, giacché comprenderebbe le ragioni di questa debolezza, potendo afferrarle e giudicarle, e così racchiuderle nella propria riflessione. La seconda affermazione, quella che meglio restituisce le reali implicazioni della metafisica cartesiana, pone invece l’intelletto umano di fronte ad una situazione ben differente. In questo caso, l’uomo non conosce nulla delle future decisioni divine, poiché non sa neppure se questa voluntas possa nuovamente intervenire nel mondo, modificando il contenuto di quelle verità da noi considerate eterne. La ratio umana, pertanto, non può affermare una simile possibilità, ma non la può, al tempo stesso, neppure escludere. Al cospetto di una potenza incomprensibile, infinita e onnipotente, è possibile che ogni cosa creata possa essere stravolta nelle sue ragioni, dimostrandosi contingente; al tempo stesso,

ampia ed approfondita della ricezione della dottrina, cfr. G. Gasparri, Le grand paradoxe de M. Descartes. La teoria cartesiana delle verità eterne nell’Europa del XVII secolo, Leo S. Olschki, Roma 2007; E. Scribano, Da Descartes a Spinoza. Percorsi della teologia razionane nel Seicento, Franco Angeli, Milano 1988, in part. pp. 83-150. Cfr. inoltre G. Rodis-Lewis, Polémiques sur la création des possibles et sur l’impossible dans l’école cartésienne in «Studia Cartesiana», 2, 1981, Amsterdam: Quadratures, pp. 105–123; T. M. Schmaltz, Radical Cartesianism. The French Reception of Descartes, Cambridge University Press, Cambridge 2000; P. Easton, What is at stake in the cartesian debates on the eternal truths? in «Philosophy Compass», 4, n. 2, 2009, pp. 348-362.

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dinanzi ad una simile voluntas, rimane ugualmente possibile l’eventualità contraria, ossia che tutto l’orizzonte del creato mantenga le caratteristiche che gli sono state impresse da Dio al momento della creazione. Entrambe queste strade rimangono aperte e percorribili: le verità eterne, create e immutabili, potrebbero conservare quella necessità che Dio ha scelto di stabilire per loro; la volontà divina, però, potrebbe anche modificare siffatte verità, ed imprimere alla propria creatio altre leggi e altre proporzioni, altri principi e altri scenari, magari incompatibili con quelli attuali. Queste due opportunità rimangono ugualmente possibili, senza che l’intelletto umano possa decidersi. Prendere partito per una delle due alternative, infatti, significherebbe negare proprio quella potentia absoluta che rappresenta la pietra angolare dell’edificio cartesiano. Prima che la modernità giunga a rappresentare se stessa con dei contorni determinati, è dunque vittima di una frattura che pare insinuarsi nell’ordine geometrico delle sue ragioni, minandone alla radice la possibilità. È necessario capire se riuscirà a ricucire questa ferita, trovando un punto archimedeo in grado di garantire una stabile verità al suo sapere, o se proverà a dissimulare questa radicale incertezza, estromettendo dalla scena i segni della propria fragilità.

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Capitolo secondo Descartes e la tradizione

1. L’autonomia delle verità La teoria della libera creazione delle verità eterne rappresenta un pensiero capace di sospingere la riflessione metafisica di là dal quadro concettuale formalizzato dall’indagine medievale. Pensare che non vi sia alcuna verità che non dipenda dalla volontà di Dio significa, infatti, aumentare a dismisura lo spettro della Sua sovrana potenza. All’interno di un tale quadro metafisico, in cui la natura creata delle verità diviene un segno tangibile della loro contingenza, sembra venir meno ogni criterio che permetta all’uomo di farsi strada nei meandri umbratili dell’essenza divina. Se il fondamento della nostra conoscenza non può, per sua natura, restituirci un’immagine di Dio in grado di racchiudere i margini del Suo intelletto e della Sua potenza, ora tanto uniti da essere una sola e medesima cosa, è impossibile qualunque legame univoco che sappia ripercorrere, anche solo in modo parziale, la ratio divina. Non sembra possibile conoscere Dio per essergli riconoscenti, come accadeva nell’universo medievale, poiché non possediamo alcuna verità, quindi alcun criterio metafisico, logico,

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matematico e morale che possa restituirci una traccia fedele del Suo mistero. L’idea che un Dio onnipotente non disponga di una serie di modelli esemplari, e a Lui consustanziali, per dare vita e sostanza all’universo creaturale, dischiude nuove proporzioni conoscitive, disegnando uno scenario metafisico irriducibile alla tradizione precedente. Per comprendere adeguatamente la novitas cartesiana è necessario porla in relazione con le differenti modalità con cui, storicamente, il pensiero medievale ha pensato lo statuto ontologico delle verità eterne. Prima di giungere agli autori che hanno, con ogni probabilità, influito maggiormente sull’immaginario di Descartes, plasmando il milieu culturale di La Flèche, è opportuno fare ritorno ad Agostino, uno dei pensatori che ha contribuito ad edificare il canone teologico e filosofico occidentale. Le idee sono per Agostino espressioni essenziali delle cose, fisse ed immutabili, e per ciò eterne e permanenti nel loro modo d’essere, essendo contenute, già da sempre, nell’intelletto divino: Le idee sono infatti le forme primarie o le ragioni stabili e immutabili delle cose; poiché non sono state formate, sono quindi eterne e immutabili in se stesse, e sono contenute nell’intelligenza divina. Non avendo né origine né fine, si dice che tutto quello che può nascere o morire e ciò che nasce e muore viene formato sul loro modello (De Diver. Quaest. octog. tribus, q. 46, 2)1. 1 Le traduzioni dei passi latini sono nostre. Pensiamo, ad ogni modo, che possa essere utile indicare, ove possibile, le traduzioni italiane di riferimento delle opere da noi citate, così da fornire al lettore un utile punto di riferimento. Cfr., in questo caso, S. Aurelius Augustinus, De Diversis Quaestionibus octaginta tribus, q. 46, 2: «Sunt namque ideae principales quaedam formae vel rationes rerum stabiles atque incommutabiles, quae ipsae formatae non sunt ac per hoc aeternae ac semper eodem modo sese habentes, quae divina intellegentia continentur. Et cum ipsae neque oriantur neque intere-

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Le proporzioni matematiche, le idee morali o le verità metafisiche non sono il diretto risultato della creatio divina, quasi fossero dei costrutti contingenti, liberi di poter esser differenti da come sono in questo momento, bensì sono dei modelli coeterni a Dio. Le verità universali, pur essendo distinte dall’intelletto divino, gli sono in tal modo consustanziali. La loro eternità, mentre le pone in un rapporto di immediata reciprocità con la cogitatio divina, non si trova in contraddizione con la dipendenza che si trovano a patire dinanzi all’intellectus dell’Onnipotente. L’oggettività che caratterizza la loro essenza universale, infatti, è conosciuta eternamente da Dio, senza essere identificabile, in toto, col dominio della Sua volontà. La necessità di questa implicazione garantisce, agli occhi della tradizione, la validità oggettiva di queste idee, senza che la natura universale di tali verità finisca per determinare e limitare la potentia Dei. Non deve perciò sorprendere un breve passaggio agostiniano presente nel De Libero Arbitrio in cui si afferma che l’indefettibile verità del numero [«incorruptibilem numeri veritatem»] è universale tanto per l’intelletto umano quanto per ogni altro essere pensante2. La somma di sette e ant, secundum eas tamen formari dicitur omne quod oriri et interire potest et omne quod oritur et interit»; trad. it. di G. Ceriotti, Ottantatre questioni diverse, in La vera religione (VI/2), Città Nuova, Roma 1995, pp. 85-87. 2 «Non enim si sensu corporis percepi numeros, idcirco etiam rationem partitionis numerorum vel copulationis sensu corporis percipere potui. Hac enim luce mentis refello eum, quisquis vel in addendo vel in retrahendo dum computat falsam summam renuntiaverit. Et quidquid sensu corporis tango, veluti est hoc coelum et haec terra, et quaecumque in eis alia corpora sentio, quamdiu futura sint nescio: septem autem et tria decem sunt; et non solum nunc, sed etiam semper; neque ullo modo aliquando septem et tria non fuerunt decem, aut aliquando septem et tria non erunt decem. Hanc ergo incorruptibilem numeri veritatem, dixi mihi et cuilibet ratiocinanti esse communem», S. Aurelius Augustinus, De Libero Arbitrio, II, 8.21; trad. it. di D. Gentili, intr. di A. Trapè, Il libero arbitrio, in Dialoghi II (III/2), Città Nuova, Roma 1976 (n. ed. Città Nuova, Roma 1992), p. 237.

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tre sarà sempre dieci, e non solamente ora, ma sempre [«non solum nunc, sed etiam semper»], senza che vi possa essere un tempo in cui questa operazione dia luogo ad un altro risultato. La logica che regola i rapporti numerici non si impone quindi solamente all’intelletto finito delle creature, ma anche a quello divino. Per quale motivo, ad esempio, Dio ha creato il mondo precisamente in sei giorni? La risposta di Agostino è una precisa conferma di quanto scritto finora: Noi non possiamo dire che il sei è un numero perfetto perché Dio ha realizzato la sua creazione in sei giorni; ma possiamo dire che Dio ha portato a termine le sue opere in sei giorni poiché il sei è un numero perfetto. Anche se queste opere non ci fossero state, questo numero sarebbe dunque perfetto: d’altra parte, se non fosse perfetto, Dio non avrebbe compiuto la sua creazione attenendosi a questo numero (De Genesi ad Litteram, IV, 7)3.

Agostino sembra riproporre il “Dilemma di Eutifrone”, accettandone la soluzione socratica. Se nel dialogo platonico ad essere in gioco era il corretto modo di pensare l’attributo della santità – ciò che è santo [«ὅσιος»] è caro agli dei perché santo, o è da considerarsi santo proprio perché caro agli dei? (Eutifrone, 10a-11b) –, in questo frangente Agostino si chiede implicitamente se sia la scelta divina che istituisce, ex novo, l’insieme delle ragioni necessario per legittimarla, o se la sua

3 «Quamobrem non possumus dicere, propterea senarium numerum esse perfectum, quia sex diebus perfecit Deus omnia opera sua; sed propterea Deum sex diebus perfecisse opera sua, quia senarius numerus perfectus est. Itaque, etiamsi ista non essent, perfectus ille esset; nisi autem ille perfectus esset, ista secundum eum perfecta non fierent», S. Aurelius Augustinus, De Genesi ad Litteram, IV, 7; trad. it. di. L. Carrozzi, La Genesi alla lettera (IX/2), Città Nuova, Roma 1989, p. 175.

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decisione sia guidata da un preciso criterio, in qualche modo indipendente da essa. Il numero sei è perfetto perché Dio ha creato il mondo in sei giorni, o la volontà divina ha portato a termine la creazione proprio in sei giorni perché il sei è un numero perfetto? È la scelta divina a creare la perfezione, oppure Dio, senza alcuna apparente costrizione, ha commisurato le proprie decisioni in funzione di una perfezione già determinata? La risposta che Agostino fornisce a questa domanda, tracciando i confini epistemici dell’esperienza medievale, non è per nulla scontata e innocente. Prendendo partito per la seconda delle due alternative, il Vescovo di Ippona fornisce un quadro concettuale che rimarrà pressoché immutato, perlomeno fino alle pagine dell’epistolario cartesiano. Il nucleo portante dell’analisi agostiniana, dunque, non è compatibile con la radicalità delle considerazioni che Descartes presenterà per la prima volta a Mersenne. È vero, però, che in una delle più importanti lettere dedicate alla teoria della libera creazione delle verità eterne, ossia la lettera a Mesland del 2 maggio 1644, il filosofo, una volta esposta la sua analisi, si sia richiamato proprio ad Agostino, quasi a voler suggerire una linea di continuità fra le proprie riflessioni e quelle formulate dall’autore del De Civitate Dei. In effetti, dopo aver sostenuto che la mente umana non deve «concepire alcuna gerarchia o priorità» tra l’intelletto e la volontà di Dio, non essendoci «in lui che una sola azione, totalmente semplice e pura», Descartes riporta nel testo un’affermazione di Agostino che sembra ben compendiare quanto detto finora: «Queste parole di Sant’Agostino esprimono ciò con grande efficacia: poiché le vedi [o Dio], le cose esistono ecc., dal momento che in Dio vedere e volere non sono che una stessa cosa» (B Op n. 454, p. 1915; AT, IV, p. 119).

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Riferendosi al passaggio appena citato, Laurence Devillairs4 e Stephen Menn5 hanno suggerito, sebbene all’interno di contesti assai differenti, un rapporto di diretta filiazione fra Agostino e Descartes, ritenendo che il richiamo al magistero agostiniano, lungi dall’essere casuale, riveli una delle fonti più prossime nell’elaborazione della dottrina sulle verità eterne. Per confermare la problematicità di questa interpretazione, anche solamente dal punto di vista storico, sarebbe sufficiente soffermarsi sulle reazioni, sapientemente indagate e descritte da Henri Gouhier6, che la teoria di Descartes susciterà negli ambienti agostiniani a lui contemporanei. Rimanendo comunque ancorati al testo, possiamo notare come la citazione agostiniana non sia direttamente in relazione al nucleo portante della lettera, essendo piuttosto una struttura retorica di rincalzo utile per confermare un’altra considerazione, relativa alla semplicità divina. Agostino non è perciò chiamato in causa per dare forza all’opinione cartesiana sull’onnipotenza di Dio, ma per supportare una delle conseguenze che derivano da quell’analisi. Il Vescovo di Ippona, d’altra parte, non avrebbe mai potuto sottoscrivere molte delle considerazioni del filosofo francese. Come abbiamo sopra rilevato, per Agostino le idee e le verità eterne, pur non essendo indipendenti dalla cogitatio Dei, non sono il risultato di una libera e indifferente creatio, quasi che 4 Cfr. L. Devillairs, “Ce que ces mots de Saint Augustin expriment fort bien”. L’augustinisme de la thèse cartésienne de la création des vérités éternelles, in A. Del Prete (a c. di), Il Seicento di Descartes. Dibattiti cartesiani, Le Monnier, Firenze 2004, pp. 25-42; cfr. anche Id., Descartes et la connaissance de Dieu, Vrin, Paris 2004. 5 Cfr. S. Menn, Descartes and Augustine, Cambridge University Press, Cambridge 1998, in part. pp. 337-352. 6 Cfr. H. Gouhier, Cartésianisme et Augustinisme au XVIIᵉ siècle, Vrin, Paris 1978.

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i modelli che governano questo mondo, e su cui noi commisuriamo ogni nostra conoscenza, potessero essere diversi da come sono attualmente. La formulazione agostiniana, mentre preserva la libertà divina al cospetto delle proprie creature, non ritiene che la potentia Dei sia così assoluta da poter violare o semplicemente modificare quelle leggi e quei principi che le sono, in realtà, consustanziali. La posizione di Agostino rappresenterà un costante punto riferimento per la riflessione successiva. Lo stesso Duns Scoto, richiamandosi al passo delle De Diversis Quaestionibus citato in precedenza, ha rifiutato di ricondurre i modelli intelligibili dell’attuale creatio ad un atto arbitrario della voluntas divina7. L’idea è infatti per il Doctor Subtilis una ragione eterna collocata nell’intellectus di Dio, in virtù della quale qualcosa può essere formato, di là dalla cogitatio Dei, secondo una sua ragione propria8. Le idee sono nell’intelletto divino «ante omnem actum voluntatis divinae9», così che il loro statuto ontologico non sia definito da una potentia libera di determinarsi altrimenti. Il Dio cartesiano, al contrario, pur avendo stabilito la necessità di queste verità, avrebbe anche potuto crearne altre, magari 7 Cfr. L. Alanen, Descartes, Duns Scotus and Ockham on Omnipotence and Possibility in «Franciscan Studies», 45, 1985, pp. 157-188. Anche Guglielmo di Ockham, a dispetto del giudizio critico che riserverà all’opinio proposta da Scoto, rimarrà ancorato a questa comune persuasione medievale (cfr., ad es., In I Sent., dist. 45, q. 2); cfr., a questo proposito, A. B. Wolter, Ockham and the Textbooks: On the Origin of Possibility in «Franziskanische Studien», 32, 1950, pp. 70-96. 8 «Idea est ratio aeterna in mente divina, secundum quam aliquid est formabile ut secundum propriam rationem eius», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 35, q. un., n. 38, in Opera Omnia (Vol. VI), Ordinatio. Liber Primus. Distinctiones 26-48, a c. di P. Augustini Sépinski, Civitas Vaticana, Typis polyglottis vaticanis, Roma 1963, p. 260. 9 Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 39, q. un, a. 2, n. 7, cit., p. 407.

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incompatibili con gli strumenti logici di cui l’uomo è in possesso. Il dominio della Sua voluntas è allora infinitamente più ampio del raggio di azione del Dio medievale. È solo in seguito a queste considerazioni sull’essenza divina che Descartes introduce la questione poi confermata e nobilitata dal richiamo al passo agostiniano. Il Vescovo d’Ippona è quindi citato in un contesto che non è più schiettamente cartesiano, ma che appartiene a gran parte della riflessione teologica precedente, sempre intenzionata a considerare, accanto alla potenza di Dio, la Sua unità e semplicità. Geneviève Rodis-Lewis ha giustamente sostenuto che la teoria cartesiana sulla libera creazione delle verità eterne non testimonia una discontinuità radicale con la sola tradizione agostiniana di ascendenza platonica, non essendo compatibile neppure con la struttura della ratio tomista10. Ora, per il Doctor Angelicus il mondo non è affatto casuale [«mundus non est casu factus»]: è necessario che vi siano delle forme, vale a dire delle idee, a immagine delle quali questo stesso mondo è stato creato11. L’idea può essere considerata al tempo stesso come un esemplare [«exemplar»] o come una ragione [«ratio»]. In quanto principio che sottostà alla produzione delle cose, essa è un modello intelligibile, e in questo caso può dirsi esemplare; al contrario, se assunta in relazione al solo aspetto conoscitivo, sganciata da ogni realizzazione de10 Cfr. G. Rodis-Lewis, L’Œuvre de Descartes, Vol. I, Vrin, Paris 1971, p. 128; cfr. Id., L’Œuvre de Descartes, cit., Vol. II, pp. 487-488. 11 «Quia igitur mundus non est casu factus, sed est factus a Deo per intellectum agente, ut infra patebit, necesse est quod in mente divina sit forma, ad similitudinem cuius mundus est factus. Et in hoc consistit ratio ideae», S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, Iª q. 1-49 cum commentariis Caietani, q. 15, a. 1, Editio Leonina, cura et studio fratrum praedicatorum, Roma 1888, p. 199; trad. it. di P. A. Balducci, intr. di P. M. Daffara, La Somma Teologica (Vol. II), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 94.

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terminata, può chiamarsi ragione, appartenendo alla sola sfera speculativa12. Le idee, lungi dall’essere degli universali astratti o degli oggetti che si pongono accanto all’intelletto divino, minandone l’unità, sono dunque, per quanto concerne il loro risvolto pratico, delle forme esemplari, ossia delle relazioni intelligibili con cui l’essenza divina informa l’universo della creazione. Se questa è la funzione pratico-epistemologica delle idee, che cosa dire del loro status ontologico? Esse dipendono totalmente da Dio, alla stregua di qualunque altra creatura, o la verità che le costituisce è eterna, tale da imporsi sia alla natura finita della nostra conoscenza, sia all’intellezione infinita di Dio? La soluzione offerta da Tommaso è di particolare interesse poiché rappresenta il tentativo di far coesistere, in una diade priva di contraddizioni, l’eternità e l’intrinseca necessità di simili verità con la loro dipendenza dall’intellectus divino. Si tratta, in sostanza, di sapere se l’eternità sia una proprietà esclusiva di Dio [«Utrum esse aeternum sit proprium Dei»]13.

12 «Cum ideae a Platone ponerentur principia cognitionis rerum et generationis ipsarum, ad utrumque se habet idea, prout in mente divina ponitur. Et secundum quod est principium factionis rerum, exemplar dici potest, et ad practicam cognitionem pertinet. Secundum autem quod principium cognoscitivum est, proprie dicitur ratio; et potest etiam ad scientiam speculativam pertinere. Secundum ergo quod exemplar est, secundum hoc se habet ad omnia quae a Deo fiunt secundum aliquod tempus. Secundum vero quod principium cognoscitivum est, se habet ad omnia quae cognoscuntur a Deo, etiam si nullo tempore fiant; et ad omnia quae a Deo cognoscuntur secundum propriam rationem, et secundum quod cognoscuntur ab ipso per modum speculationis», S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 15, a. 3, cit., p. 204; trad. it. p. 100. 13 S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 10, a. 3, cit., pp. 97-98; trad. it. di P. A. Balducci, intr. di P. M. Daffara, La Somma Teologica (Vol. I), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, pp. 212-214.

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Tutto ciò che è necessario, imponendosi sulla propria negazione, testimonia il suo valere sempre, la propria eternità. Ma se ciò che è necessario è per ciò stesso eterno, non sembra che l’eternità sia attributo esclusivo di Dio, dato che esistono molte cose, ad esempio i principi che utilizziamo nelle nostre dimostrazioni, a cui questa proprietà può essere attribuita in modo legittimo. Per l’Aquinate, tuttavia, l’eternità è riferibile solo a Dio [«aeternitas vere et proprie in solo Dio est»], e deriva direttamente dalla Sua immutabilità: quello che noi, quasi per traslazione, consideriamo eterno, acquisisce questa determinata proprietà solo perché partecipe della natura immutabile del divino. Ecco il motivo per cui Le cose vere e necessarie sono eterne poiché sono nell’intelletto eterno, che è il solo intelletto divino. Per questo motivo, non vi è alcunché di eterno al di fuori di Dio (Summa Theol., I, q. 10, a. 3)14.

Simili verità, pur essendo necessarie ed eterne, non potrebbero rivendicare alcuna proprietà specifica che non finisca per trovare nell’intelletto divino la sua condizione di possibilità. Lontane dall’essere delle forme platoniche, possono esistere e valere sempre solo patendo un’assoluta dipendenza dall’intellezione divina; se non fossero pensate ab aeterno da Dio, lungi dall’essere vere e necessarie ed eterne, sarebbero radicalmente infondate, non potendo esistere in modo indipendente dalla cogitatio Dei. Per Tommaso, dunque, l’eternità di tali verità non esclude che esse continuino, nonostante tutto, a dipendere da Dio, essendo proprio questo il presupposto dell’intera analisi: la relazione fra la loro eternità e il loro dipendere dall’intellezione divina non è perciò di esclusione, ma di inclusione recipro14 «Secundum hoc igitur vera et necessaria sunt aeterna, quia sunt in intellectu aeterno, qui est intellectus divinus solus. Unde non sequitur quod aliquid extra Deum sit aeternum», Ibid.; trad. it. p. 214.

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ca. Ecco che l’esistenza di Dio è la precondizione necessaria affinché si possa riconoscere un’intrinseca validità anche alla totalità delle nostre dimostrazioni, che non potrebbero rivendicare alcuna necessità se non fossero già da sempre accolte nell’intellectus divino. In effetti, Se non ci fosse alcun intelletto eterno, non ci sarebbe alcuna verità eterna. Ma visto che il solo intelletto divino è eterno, soltanto all’interno di esso la verità trova la propria eternità. Da ciò non segue dunque che vi sia qualcosa di eterno al di là di Dio, perché la verità dell’intellezione divina è Dio stesso (Summa Theol., I, q. 16, a. 7)15.

La validità delle affermazioni di Agostino circa l’assoluta cogenza delle proporzioni numeriche deve essere contestualizzata, cioè collocata in mente Dei. Sebbene tali verità siano dipendenti dall’intelletto divino, ciò non implica che Dio sia la loro causa efficiente, ossia che Egli avrebbe potuto modificare intrinsecamente il loro contenuto, rendendo falsa, ad esempio, quella logica con cui noi giudichiamo della validità delle nostre dimostrazioni. Nel magistero tomista, le verità eterne, sebbene siano subordinate all’intelletto divino, non sono il frutto arbitrario e gratuito della Sua volontà. Il loro contenuto, infatti, pur trovando le condizioni della propria esistenza nella cogitatio Dei, non è il risultato di una libera creatio. L’insieme di queste verità non può rivendicare alcuna reale indipendenza e, al tempo stesso, non può nemmeno essere considerato come la diretta conseguenza di un fiat divino, quasi fosse il prodotto non necessario di un’autentica decisione. 15 «Si nullus intellectus esset aeternus, nulla veritas esset aeterna. Sed quia solus intellectus divinus est aeternus, in ipso solo veritas aeternitatem habet. Nec propter hoc sequitur quod aliquid aliud sit aeternum quam Deus, quia veritas intellectus divini est ipse Deus», S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 16, a. 7, cit., p. 215; trad. it. p. 122.

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Lo statuto ontologico delle verità è particolarmente complesso: non possono esistere se non nell’intellectus di Dio, da questo traendo la loro eternità; non possono pertanto rivendicare alcuna reale indipendenza; infine, non sono create ex nihilo, come una qualunque esistenza contingente, essendo vincolate alla loro compiuta perfezione. Nell’universo tomista, del resto, Dio non sceglie di essere buono, come se fosse in suo potere determinare, in qualità di causa efficiente, i paradigmi morali della propria teofania16. Ecco perché Quando si dice “Dio è buono” non si vuole dire che “Dio è la causa della bontà”, o che “Dio non è cattivo”; il senso è invece questo: “ciò che noi chiamiamo bontà nelle creature preesiste in Dio”, e secondo un modo ben più alto. Perciò a Dio non conviene la bontà in quanto causa del bene, ma è anzi il contrario: poiché è buono, effonde la bontà nelle cose (Summa Theol., I, q. 13, a. 2)17. 16 Come ha notato opportunamente Étienne Gilson, «non si può dire che la bontà come tale, l’intelligenza come tale, né la forza come tale, esistano nell’essere divino come forme definite; ma sarebbe ugualmente inesatto dire che, affermando che Dio è buono, giusto o intelligente, non affermiamo nulla di positivo di Lui. Ciò che affermiamo in ciascuno di questi casi è la sostanza divina stessa. Dire che Dio è buono non equivale semplicemente a dire che Dio non è cattivo; e neppure equivale a dire: Dio è la causa della bontà; il vero senso di questa espressione è il seguente: quello che noi chiamiamo bontà nelle creature, preesiste in Dio, e in modo ben più alto. Quindi a Dio conviene la bontà non perché è causa del bene; ma piuttosto è tutto il contrario: per il fatto che è buono effonde la bontà nelle cose», É Gilson, Le Thomisme. Introduction à la philosophie de saint Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 1919 (n. éd. Vrin, Paris 1986); trad. it. di C. Marabelli e F. Marabelli, Il Tomismo. Introduzione alla filosofia di san Tommaso d’Aquino, Jaca Book, Milano 2011, pp. 165-166. 17 «Cum igitur dicitur Deus est bonus, non est sensus, Deus est causa bonitatis, vel Deus non est malus, sed est sensus, id quod bonitatem dicimus in creaturis, praeexistit in Deo, et hoc quidem secundum modum altiorem. Unde ex hoc non sequitur quod Deo competat esse bonum inquantum causat bonitatem, sed potius e converso, quia est bonus, bonitatem rebus dif-

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Alla luce delle testimonianze tomiste, Étienne Gilson non ha alcun dubbio sull’identità storica del magister che susciterà la reazione cartesiana. Secondo l’insigne studioso, un’attenta analisi dei testi di Descartes consente di formulare un’ipotesi precisa: il filosofo francese, negando che le essenze possano sussistere indipendentemente dalla volontà divina, prende posizione contro il sistema di pensiero vigente al tempo. Su queste delicate questioni, dunque, l’avversario cartesiano non può essere che Tommaso d’Aquino18. Il giudizio di Gilson non coglie però nel segno. Certo, il pensiero cartesiano manifesta una differenza irriducibile al bagaglio concettuale di matrice tomista: è naturale, quindi, che la teoria sulla libera creazione delle verità eterne chiami in causa dei nuclei teorici incompatibili con la ratio divina descritta da Tommaso. Tuttavia, questo non è un motivo sufficiente per ritenere che sia proprio il magister domenicano il primo o l’unico referente critico della speculazione di Descartes, poiché ad essere in questione nella sua dottrina, e fin nelle fondamenta, è tutto l’edificio epistemico eretto dalla tradizione precedente. fundit», S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 13, a. 2, cit., p. 142; trad. it. p. 300. 18 «Nul doute n’est possible sur la personne de l’adversaire auquel le philosophe s’opposait. En niant que les essences considérées comme réelles ou même comme possibles puissent subsister indépendamment de la volonté divine ou de la connaissance que Dieu en a, en maintenant malgré cette assertion leur absolue immutabilité, en allant chercher enfin jusque dans une distinction même purement abstractive entre l’entendement et la volonté de Dieu la racine même de la doctrine qu’il condamne, Descartes prend nettement position contre l’enseignement de l’École. Sur ce point, capital par les conséquences théologiques, métaphysiques et scientifiques qui en découlent, son adversaire n’est autre que saint Thomas», É. Gilson, La liberté chez Descartes et la théologie, cit., p. 75. È importante precisare, tuttavia, che lo storico francese ritornerà sui propri passi, modificando il suo giudizio. Ci soffermeremo sull’interpretazione gilsoniana in modo più dettagliato nel secondo paragrafo del quarto capitolo.

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Ad ogni modo, l’idea che le verità eterne, pur non essendo il risultato di una volontà libera ed efficiente, fossero dipendenti dall’esemplarità divina, è stata una persuasione comune, almeno fino alla progressiva autonomizzazione del campo del possibile portata avanti, attraverso un progressivo abbandono della solutio tomista, da alcuni teologi coevi a Descartes. Prima che la Seconda Scolastica19 incrinasse quel rapporto dinamico e vitale tra Dio e gli exemplata del nostro mondo, rivendicando per l’orizzonte dei possibili un’intrinseca oggettività, la convinzione che l’origine dei modelli eterni che hanno guidato la creatio fosse comunque riconducibile alla causalità formale di Dio fu uno dei presupposti che guidò, ad esempio, la riflessione di Enrico di Gand20.

19 Utilizziamo questa espressione, consapevoli delle difficoltà e ambiguità che può talora generare, col senso attribuitole da Carlo Giacon. Cfr. C. Giacon, La seconda scolastica (III Voll.): I grandi commentatori di san Tommaso (Vol. I), Fratelli Bocca Editore, Milano 1944; Id., Precedenze teoretiche ai problemi etico-giuridici. Toledo, Pereira, Fonseca, Molina, Suárez (Vol. II), Fratelli Bocca Editore, Milano 1947; Id., I problemi giuridico-politici (Vol. III), Fratelli Bocca Editore, Milano 1950. I tre volumi sono ora disponibili presso Nino Aragno Editore, Torino 2001. 20 Cfr. P. Porro, Possibilità ed esse essentiae in Enrico di Gand, in W. Vanhamel (ed.), Henry of Ghent, Leuven University Press, Leuven 1996, pp. 211-253; Id., Ponere statum. Idee divine, perfezioni creaturali e ordine del mondo in Enrico di Gand in «Mediaevalia. Textos e Estudos», 3, 1993, pp. 109-159; Id., Possibile ex se, necessarium ab alio: Tommaso d’Aquino e Enrico di Gand in «Medioevo», 18, 1992, pp. 231-273. Per uno sguardo generale sull’analisi dell’esse essentiae svolto da Enrico, in particolare alla luce del suo contesto storico, cfr. inoltre L. M. de Rijk, Un tournant important dans l’usage du mot Idea chez Henri de Gand, in Idea. VI Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo: Roma, 5-7 gennaio 1989 (a c. di N. Fattori e L. Bianchi), Edizioni dell’Ateneo, Roma 1991, pp. 89-98; Id., Quaestio de Ideis. Some Notes on an Important Chapter of Platonism, in J. Mansfeld and L. M. de Rijk (eds.), Kephalaion. Studies in Greek Philosophy and its Continuation, Assen 1975, pp. 204-213.

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Il Doctor Solemnis affrontò questo argomento analizzando la relazione che la scienza divina intrattiene con i propri oggetti21. Ora, se il suo oggetto primario «non est nisi ipsa divina essentia22», l’oggetto secondario, che concerne le modalità mimetiche con cui l’essentia Dei si consegna alle creature, può essere ulteriormente suddiviso23: mentre nel primo momento l’essenza della creatura non è altro che la stessa sostanza divina, nel secondo è invece considerata in un suo specifico modo d’essere, l’esse essentiae. Il problema principale riguarda qui lo statuto ontologico da attribuire all’essere dell’essenza: l’esse essentiae è ciò che è indipendentemente dal positivo riferimento ad una causa esterna, o rinvia a Dio come condizione della propria possibilità? Nonostante una certa ambiguità che attraversa sovente la riflessione di Enrico, e che ha generato, come ha messo bene in luce Jacob Schmutz24, alcuni equivoci sull’interpretazione da attribuire ad alcuni passaggi del suo corpus, è possibile rispondere al seguente interrogativo prendendo partito per la seconda delle alternative disponibili. Sebbene l’essenza sia ciò che è secundum se, ossia in virtù della sua natura25, non si sarebbe però venuta determinando 21 Cfr. Henricus de Gandavo, Quodlibet IX, q. 2, in Opera Omnia (Vol. XIII), ed. R. Macken, Leuven University Press, Leuven 1983, pp. 25-46. 22 «Obiectum primarium non est nisi obiectum informans ad actum intelligendi, et non est nisi ipsa divina essentia, quae per se intelligitur a Deo, et nihil aliud ab ipso», Ivi, p. 27 (38-43). 23 «Sed aliud a se, ut obiectum secundarium suae cognitionis, potest cognoscere dupliciter: uno modo cognoscendo de creatura id quod ipsa est in Deo, alio modo cognoscendo de ipsa id quod ipsa habet esse in se ipsa, aliud a Deo, quamvis non habeat esse extra eius notitiam», Ibid. (45-48). 24 Cfr. J. Schmutz, Les paradoxes metaphysiques d’Henri de Gand durant la seconde scolastique in «Medioevo», 24, 1998, pp. 89-149. 25 «Est autem id quod est essentia in unaquaque re communiter loquendo

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come essenza, quindi come soggetto e termine della creazione26, se non alla luce della dipendenza formale che la lega a Dio. L’esse essentiae nomina allora quella possibilità che, non essendosi ancora consegnata all’effettività del mondo creato, non è tuttavia un puro nihil, dotata com’è di un esse definito e immutabile, direttamente connesso all’eterna esemplarità dell’intelletto divino. L’esse dell’essentia è ciò che è in virtù del rapporto di eterna partecipazione che intrattiene con Dio27. Del resto, è solo grazie alla causalità formale che Dio esercita nei confronti del proprio oggetto secondario che il mondo si costituisce nella

id quod ei convenit ratione naturae suae secundum se […]. Est autem ista participatio divini esse in essentia, esse essentiae, in quantum essentia illa exemplatum est divini esse secundum rationem causae formalis, quia per ipsum esse essentiae ut per actum sibi proprium essentialem habet id quod res est ex ratione sui generis, quod sit ens et natura et essentia proprie dicta, non solum figmentum», Henricus de Gandavo, Quodlibet X, q. 8, in Opera Omnia (Vol. XIV), ed. R. Macken, Leuven University Press – E. J. Brill, Leuven 1981, pp. 201-202 (85-95). 26 «Et ideo, sicut idem re est subiectum creationis et terminus, sic idem re est ipsum subiectum creationis et acquisiotum per ipsam, ut esse existentiae, qualemcumque differentiam habeant ambo ad creationem passivam», Henricus de Gandavo, Quodlibet X, q. 7, in Opera Omnia (Vol. XIV), cit., p. 193 (29-32). 27 «Primum esse habet essentia creaturae essentialiter, sed tamen participative, in quantum habet formale exemplar in Deo [...]. Potest dici de essentia creaturae quod ipsa est suum esse participatum formaliter, licet non effective, sicut de Deo dicitur quod est ipsum esse simpliciter et absolute, non participatum neque formaliter neque effective», Henricus de Gandavo, Quodlibet I, q. 9, in Opera Omnia (Vol. V), ed. R. Macken, Leuven University Press – E. J. Brill, Leuven 1979, pp. 53-55. Cfr. Henricus de Gandavo, Quodlibet VIII, q. 9, in Quodlibeta magistri Henrici Goethals a Gandavo doctoris solemnis, vaenumdantur ab iodoco Badio Ascensio, sub gratia et privilegio ad finem explicandi, II Voll., Parigi 1518 (repr. Bibliothéque S. J., Louvain 1961), foll. 319 vk – 320 rk.

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sua concreta possibilità, dischiudendo all’intelligenza delle creature gli strumenti epistemici per ripercorrere a ritroso le rationes ideali che hanno guidato il Creator mundi. La creatio divina, tuttavia, non si esaurisce nel rapporto di subordinazione che lega l’esse essentiae all’intellectus divino: se Dio si rapporta all’essere dell’essenza come causa formale, è solamente in qualità di causa efficiente che decide quali delle essenze ratificate verranno condotte all’esistenza28. L’esse existentiae è figlio di una voluntas che, nella sua sovrana libertà, impone al mondo una relazione inedita fra il Creatore e le Sue creature. Questo nuovo rapporto rivela la duplice dipendenza che l’essenza creaturale si trova a patire dinanzi a Dio: mentre l’esse essentia ha nella partecipazione all’intelletto divino la propria causa formale, l’esse existentiae si riscopre, al contrario, temporalmente determinata, sempre sospesa alla causalità efficiente di Dio29. Tacendo per ora sull’incertezza manifestata da Enrico sullo statuto ontologico da assegnare all’impossibilità, possiamo rilevare lo scarto epistemico che sussiste fra la contingenza dell’esse existentiae e l’eterna stabilità che caratterizza l’esse essentiae: come ha notato Pasquale Porro, «se riguardo all’e-

28 «In quantum enim ipsa se ipsa absque omni absoluto addito est similitudo divinae essentiae secundum rationem causae formalis, convenit ei esse essentiae, in quantum autem ipsa in se ipsa absque omni absoluto addito est effectus divinae essentiae, vel immediate, vel mediante agente naturali secundum rationem causae efficientis, convenit ei esse existentiae», Henricus de Gandavo, Quodlibet X, q. 7, in Opera Omnia (Vol. XIV), cit., p. 151 (51-56). 29 «Secundum esse non habet creatura ex sua essentia sed a Deo, in quantum est effectus voluntatis divinae iuxta exemplar eius in mente divina», Henricus de Gandavo, Quodlibet I, q. 9, in Opera Omnia (Vol. V), cit., p. 54 (76-78).

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sistenza fisica tutte le essenze sono ugualmente indifferenti rispetto alla potenza del Creatore (tanto che Dio può porre in atto una res prima di un’altra a suo completo piacimento senza mediazione alcuna), nel loro essere proprio le essenze sono disposte secondo un ordine strettamente gerarchico su cui Dio stesso non può intervenire30». Alla fragilità creaturale di un mondo mai universalmente assicurato, si affianca una regione ideale che non è soggetta ad alcuna modifica, essendo già stabilita nella sua intrinseca possibilità. La sproporzione esistente tra i due differenti domini, necessaria per salvaguardare la sovranità della potentia divina, non incrina, ad ogni modo, il quadro d’insieme tracciato a più riprese dallo stesso Enrico: l’eternità e l’apparente autonomia ontologica delle essenze, infatti, non sono mai astrattamente separate dall’intelletto di Dio, inteso quale fons possibilitatis del loro stesso essere. L’esse quiddidativum dei possibili, quindi, non partecipa dell’eternità divina alla luce di una denominazione estrinseca, ma in virtù di un legame indissolubile e necessario. Il dominio delle essenze è perciò fondato su una originaria relazione di partecipazione e dipendenza «ad formam divini exemplaris31». La posizione di Enrico riconduce le ragioni ideali che hanno accompagnato la creatio mondana ad un nesso di eterna dipendenza che ha luogo nell’intellectus dell’Onnipotente. La subordinazione dell’esse dell’essenza invocata nei Quodlibeta, 30 P. Porro, Possibilità ed esse essentiae in Enrico di Gand, cit., p. 248. 31 «[…] Et superm illam rationem rei prima ratio quae fundatur, est ratio entis sive esse quidditativi, quae convenit ei ex respectu ad formam divini exemplaris, a quo accipitur ratio rei dictae a ratitudine, quae eodem est cum ratione entis quidditativi. Ex eo enim est ratum quid, quo est quidditativum quid, et e converso», Henricus de Gandavo, Summa, a. 34, q. 2, in Summa. Quaesiones ordinariae: art. XXXI-XXXIV, in Opera Omnia (Vol. XXVII), ed. R. Macken, Leuven University Press, Leuven 1991, p. 174 (42-46).

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però, non libera i presupposti insiti nel suo decantato volontarismo fino ad incrinare l’immediata correlazione, difesa e chiamata in causa da tutta l’esperienza medievale come garanzia di intelligibilità, fra l’onnipotenza divina e le verità eterne. Al tempo stesso, il teologo di Gand non può nemmeno essere considerato come quell’autore che, difendendo l’assoluta autonomia epistemica dell’esse essentiae, ha posto le basi della reazione cartesiana. La genuina riflessione del Doctor Solemnis non è infatti interamente riconducibile all’interpretazione che verrà fornita del suo pensiero nel corso della Scolastica del XVI e XVII secolo. A questo proposito, l’utilizzo della speculazione gandiana da parte di Francesco Albertini32 non sembra, ad esempio, rispettare appieno l’intima complessità del pensiero di Enrico33.

32 Riprendiamo qui brevemente alcune considerazioni svolte nel seguente articolo: A. Gatto, Francesco Albertini interprete di Enrico di Gand. L’esse essentiae e l’autonomia ontologica dei possibili in «Giornale Critico di Storia delle Idee», Vol. 4, n. 8, 2012, pp. 109-122. Sull’opera di Albertini, cfr. J. Schmutz, La querelle des possibles. Recherches philosophiques et textuelles sur la métaphysique jésuite espagnole, 1540-1767 (III Voll.), Thèse de Doctorat en régime de cotutelle, Paris-Bruxelles 2003, in part. Vol. I (L’histoire d’une problème), pp. 261-287 e Vol. II (Les auteurs et les textes), pp. 589-620. Cfr. inoltre P. Di Vona, Studi sulla Scolastica della Controriforma. L’esistenza e la sua distinzione metafisica dall’essenza, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 93-109 e I. Agostini, L’infinità di Dio. Il dibattito da Suárez a Caterus (1597-1641), Editori Riuniti, Roma 2008, passim. 33 L’idea che l’essenzialismo ontologico argomentato dal gesuita fosse in rapporto alla riflessione del magister di Gand era comunque un dato acquisito presso i suoi contemporanei. A questo proposito, cfr. Ioannis Lalemandet, Cursus philosophicus. Complectens, lateque discutiens controversias omnes a Logicis, Physicis, Metaphysicique agitari solitas, praesertim quae Thomisticae, Scoticae, et Nominalium Scholis sudorem cient, disp. VII, pars. I [«De essentia rerum»], Laurentii Anisson, Lione 1656, p. 703; cfr. inoltre Ioannis Caramuel y Lobkowitz, dissert. II, c. 1, a. 5, in Leptotatos latine subtilissimus, Camillum Conradam, Vigevano 1681, pp. 148-152.

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Nel secondo tomo dei suoi Corollaria34, il gesuita calabrese si domanda se l’esse essentiale sia figlio dell’intrinseca potenza che inerisce all’essere attuale delle creature, o se dipenda invece dalla «potentiam extrinsecam Creatoris35». Prima di esporre la sua opinione, Albertini riporta due classiche opinioni in merito: la prima, di ascendenza tomista, ritiene che le essenze, prima di essere prodotte da Dio, non siano in possesso ab aeterno di un essere reale36; la seconda è al contrario riconducibile alla tradizione scotista, e afferma la totale subordinazione delle essenze all’intellezione divina37.

34 Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, etc., ex principiis philosophicis incomplexis, seu praedicamentis substantiae, quantitatis, ubi et ad aliquid, iuxta irrefragabilem doctrinam philosophicam et theologicam S. Thomas de Aquino Doctoris Angelici, Tomus Secundus, Iacobi Cardon, Lugduni 1629 (editio prima, Lione 1616). Il primo tomo, invece, è stato pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1606, e poi ripreso nell’edizione lionese del 1629, da cui saranno tratti i riferimenti testuali: Francesco Albertini, Corollarium seu quaestionum theologicarum tomus primus continens corollaria deducta ex principiis philosophicis complexis praecipue in primam et tertiam partem Sancti Thomae, Lugduni 1629. 35 «Punctus difficultatis est an hoc esse reale habeant creaturae per potentiam extrinsecam Creatoris, quatenus sunt in ipso tanquam in causa; an per potentiam intrinsecam in ipsis creaturis, ita ut esse essentiale creaturarum ab aeterno non tantum sit potentiale in causa, sed etiam actuale in se, in quo fundetur respectus passibilitatis sive ad potentiam activam Creatoris, si res est creabilis, sive etiam ad potentiam naturalem, si res est generabilis», Francesco Albertini, disp. I, q. 1, n. 1, in Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., p. 2 a. 36 «Essentias rerum antequam producantur a Deo nullum habere esse reale actuale nec essentiae, nec existentiae, sed esse omnino nihil quantum ad esse actuale in se ipsis», Ivi, n. 3, p. 2 c. 37 «Non dari a parte rei essentias rerum secundum esse actuale reale, sed addunt creaturas produci per actum intellectus divini secundum quoddam esse intelligibile absolutum intrinsecum ipsis creaturis», Ivi, n. 4, p. 2 e.

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Albertini è particolarmente critico verso i presupposti all’opera nella prima sententia: Le essenze delle creature non sono assolutamente nulla prima dell’esistenza, e non hanno neppure un essere potenziale nella loro causa, bensì sono in possesso di un essere quidditativo o un’essenza intrinseca attuale e assoluta da tutta l’eternità38.

Nella «secunda conclusio contra secundam sententiam», il gesuita prende inoltre posizione «contra Scotus et Scotistas», radicalizzando le loro premesse: questi autori, infatti, pur ritenendo che l’esse quidditativum appartenesse alla creatura prima dell’esistenza, finivano per collocare la sua intrinseca positività nell’intellectus di Dio39. Per Albertini, diversamente, le essenze creaturali, oltre a possedere, in virtù della loro stessa natura, un esse absolutum, non sono subordinate al pensiero di Dio, esistendo «ab aeterno a parte rei extra intellectum divinum40».

38 «Essentiae creaturarum non sunt omnino nihil ante existentiam, neque habent esse solum potentiale in causa, sed ab aeterno habent esse intrinsecum actuale absolutum quidditativum seu essentiae», Ivi, n. 12, p. 4 e – a. 39 «Hoc esse essentiae seu quidditativum absolutum intrinsecum, quod ut probatum est, habet creatura ante existentiam, est a parte rei extra intellectum divinum, contra Scotus, et Scotistas relatos in secunda sententia, qui quidem, ut vidimus supra, admittunt hoc esse quidditativum absolutum et intrinsecum in creatura ante existentiam, negant tamen hoc esse essentiae dari a parte rei extra intellectum divinum, sed dicunt esse in ipso intellectu divino, quatenus intellectus divinus cognoscens essentiam divinam tanquam exemplar creaturarum, producat illas in esse quidditativo absoluto et intelligibili, in quo fundatur ratio producibilitatis ad extra secundum existentiam», Ivi, n. 28, p. 7 d – e. 40 «Remanet igitur probatum essentias creaturarum non solum habere ab aeterno esse absolutum essentiae contra Hervaeum et alios relatos in prima sententia, sed illud habere ab aeterno a parte rei extra intellectum divinum contra Scotum et alios citatos in secunda sententia», Ivi, n. 38, p. 9 d.

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In tal modo, il gesuita elimina alla radice qualunque rapporto causativo fra la potentia Dei e il loro contenuto quidditativo: ad essere qui rifiutata, dunque, non è soltanto la causalità efficiente di Dio, bensì la Sua stessa funzione esemplare41. Le essenze possiedono allora da se stesse, ossia indipendentemente da qualsivoglia subordinazione, sia essa efficiente o formale, la condizione ultima della loro possibilità. Le linee guida di questa conclusione presentano un nucleo teorico incompatibile con la genuina riflessione di Enrico di Gand. Il Doctor Solemnis, d’altro canto, non è mai venuto meno al vincolo di dipendenza che legava l’esse essentiae alla causalità formale di Dio. È interessante notare, tuttavia, come lo stesso Albertini, dopo aver portato a termine il proprio ragionamento, decida di rispondere agli argomenti contrari alla sua prima conclusio utilizzando, in maniera impeccabile, alcuni passaggi testuali dell’opera gandiana42. 41 «Dices, saltem prima ratio possibilitatis in creatura, etsi reduci non possit ad Deum tanquam causam efficientem, reducetur tamen ad ipsum tanquam causam exemplarem, quia cum haec causa exemplaris sit causa formalis extrinseca, est prior omni effectu possibili. Sed contra quia adhuc potest militare idem argumentum factum, nam quaero quare lapis est exemplabilis et non Chimaera? Non potest dici oriri ex defectu causae exemplaris, quia est infinita simpliciter, ergo prima radix impossibilitatis oritur ex Chimaera, etc. Quomodo autem creaturae pendeant in genere causae exemplaris, videbimus in sequenti dubitatione», Ivi, n. 21, p. 6 d. 42 Cfr., ad esempio, Francesco Albertini, Corollaria, disp. I, q. 1, n. 40 – 41, cit., p. 9 a – c: «Ad tertium respondetur concedendo essentiam esse ens formaliter necessarium, sed differre a necessario Dei, tumquia illud est necessario existens, tumquia omnino independens. Creatura vero secundum esse existentiae ab aeterno nihil est, et est contingens. Secundum vero esse essentiae est dependens saltem in genere causae exemplaris a Deo, ut dicemus in sequenti quaestione […]. Ad simile argumentum respondit Henrici, cum dixit essentiam creaturae habere duplex esse, scilicet, esse essentiae et esse existentiae, et quodlibet istorum, inquit, habet a Deo; sed primum habet a Deo ut causa exemplari: Deus enim per suam intellectionem, qua intelligit seipsum ut exemplar, dat in genere causae formalis extrinsecae esse

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Se non possiamo pensare ad una semplice contraddizione presente nel testo del gesuita, possiamo comunque sottolineare la dinamica che lo attraversa. In effetti, come poter conservare la dipendenza formale patita dalla creatura secundum esse essentiae, e difendere, simul, l’intrinseca positività e autonomia dell’esse reale? L’apertura della quaestio successiva43 non aiuta certo a risolvere il problema, poiché in questa sede Albertini, abbandonando la radicalità della sua prima formulazione, sembra mitigare i giudizi precedenti; in piena continuità con Enrico, il gesuita calabrese colloca infatti l’esse essentiae nel dominio della causalità esemplare di Dio44.

intelligibile, et quidditativum cuilibet essentiae creatae. Secundum autem esse, quod est esse existentiae, dat ut est causa efficiens; unde non sequitur, quod creatura habeat aliquod esse, et non sit a Deo, sed solum quod non dicitur creari quantum ad primum, sed quantum ad secundum esse. Et cum esse essentiae sit esse secundum quid, non est per creationem, sed sufficit, quod sit per intellectionem divinam in genere causae formalis». 43 «Vidimus in superiori quaestione creaturam habere esse essentiae ut essentiae actuale reale ab aeterno independenter a Deo, tanquam a causa efficienti. Nunc videndum est, an creatura quoad esse essentiae dependeat saltem a Deo tanquam a causa exemplari», Francesco Albertini, Corollaria, disp. I, q. 2, n. 1, cit., pp. 10-11 e – a. 44 Questo è il testo della sua seconda conclusio: «Essentiae rerum secundum esse quidditativum dependent aliquo modo a Deo, tanquam a causa efficienti, quia si Deus non esset causa efficiens, repugnaret existentia creaturae, ergo repugnaret etiam in essentia ordo essentialis ad ipsam existentiam, et consequenter repugnaret realitas ipsius essentiae. Est tamen advertendum, quod adhuc est differentia inter dependentiam essentiae creaturae a Deo ut causa exemplari, et inter dependentiam ab eodem, ut causa efficienti: nam quamvis si non esset Deus, ut causa efficiens, repugnaret esse essentiae creaturae. Haec tamen repugnantia non esset formalis intrinseca, ita ut immediate repugnaret ex principiis intrinsecis, seu ex incompossibilitate terminorum, sicut repugnat chimaera. At vero si repugnaret esse rationem prototypam, seu exemplarem Caesaris, repugnaret ipsum esse imaginis Caesaris ex principiis intrinsecis, et ex incompossibilitate terminorum, esse

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La seconda quaestio recupera i presupposti della riflessione gandiana, situando l’essere dell’essenza in mente Dei. Non sappiamo se sia stata la fedeltà di questo «Henricus Gandavensis redivivus45» alla lettera del Doctor Solemnis a spingerlo a rimediare alle considerazioni inizialmente espresse sull’autonomia delle essenze, o se sia stata invece la preoccupazione per l’eccessiva radicalità di una dottrina da lui stesso considerata, expressis verbis, come meramente probabile46, a spingerlo a ricollocare l’esse delle creature in un rapporto di diretta dipendenza con l’esemplarismo delle idee divine. L’attenzione e l’importanza che Albertini ha conquistato presso i contemporanei, però, sono la conseguenza diretta delle opinioni che ha nutrito sull’assoluta autonomia e indipendenza dell’ordo possibilitatis; sono state proprio quest’ultime, del resto, ad essere considerate il frutto più genuino, e forse più pericoloso, del suo pensiero. Ad ogni modo, ben prima Descartes affermasse la natura creata delle verità eterne, cercando di preservare l’assoluta indifferenza della creatio divina, Duns Scoto si era preoccupato di analizzare quella struttura eidetica posta da Enrico di Gand a fondamento dell’intelligibilità mondana. Il Doctor Subtilis

enim taliter repraesentativum, esset tunc quid chimaericum; ita etiam dicendum de essentiis rerum, si Deus non esset causa exemplaris», Ivi, n. 7, p. 11 b. 45 L’espressione è di J. Schmutz, La querelle des possibles (Vol. I), cit., p. 265. 46 È importante infatti sottolineare come questa precisazione, posta fra parentesi, sia immediatamente successiva alla prima conclusio: «[Nota quod tam in hac conclusione, quam in sequenti solum intendimus cum Capreolo mox infra citando, has conclusiones esse probabiles, non tamen negamus opinionem oppositam, quae tenet essentias rerum nullum habere esse actuale ab aeterno, sed tantum potentiale in causa, non esse satis probabilem]», Francesco Albertini, Corollaria, disp. I, q. 1, n. 12, cit., p. 4 a.

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era convinto che il realismo sotteso alla speculazione gandiana limitasse il raggio di azione della potentia Dei; Enrico, infatti, attribuendo alle essenze una relazione immutabile con l’intelletto di Dio, aveva finito per privarle di ogni creaturalità. Secondo Scoto, affermare l’esistenza di un esse actuale da sempre relato alla scienza divina significa sottrarre alle essenze ogni dipendenza ontologica, rendendole necessarie in modo indipendente dal concorso divino. La riflessione del magister di Gand, accettata nelle sue estreme conseguenze, impone dunque un vincolo ben determinato all’agire di Dio; alla luce della teoresi enrichiana, del resto, non era certo semplice giustificare lo scarto che separava l’eternità divina dalla contingenza della creatio mondana, giacché lo status di tali essenze sembrava possedere una necessità assoluta e immutabile47. Il Dottor Sottile ripercorre quindi gli istanti di natura in cui si articola il pensiero divino col chiaro intento di abbandonare le premesse enrichiane48. La descrizione fornita da Scoto, tut-

47 «Quinto (secundum idem medium, de creatione), quia productio rei secundum istud esse essentiae verissime et creatio (ipsa enim est mere de nihilo ut termino a quo, et ad verum ens ut ad terminum ad quem); et productio ista secundum eos est aeterna; ergo creatio est aeterna, – cuius oppositum nititur ostendere et dicit se habere demonstrationes. Sexto (secundum eandem viam, per oppositum de annihilatione), sequitur quod non possit aliquid annihilari: sicut enim producitur de ente secundum essentiam, ita videtur redire in ens secundum essentiam, – non in nihil», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 36, q. un., n. 17-18, cit., pp. 277-278. 48 «Hoc potest poni sic: Deus in primo istanti intelligit essentiam suam sub ratione mere absoluta; in secundo istanti producit lapidem in esse intelligibili et intelligit lapidem, ita quod ibi est relatio in lapide intellecto ad intellectionem divinam, sed nulla adhuc in intellectione divina ad lapidem, sed intellectio divina terminat relationem “lapidis ut intellecti” ad ipsam; in tertio instanti, forte, intellectus divinus potest comparare suam intellectionem ad quodcumque intelligibile ad quod nos possumus comparare, et

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tavia, assegnando ad ogni oggetto individuato dall’intellezione divina quel minimo di formalità necessaria per garantire l’oggettività dell’esse intelligibile, e così fondare la sua relazione con Dio, finisce per attribuire alle essenze uno statuto ontologico altrettanto necessario. Sebbene non siano concepibili indipendentemente dall’intellectus divino, simili essentiae sono però in possesso di un «esse deminutum49» che le predispone ad esser pensate. La possibilità del loro esse non è allora figlio di un atto sovrano della voluntas Dei, essendo collocate nell’intelletto divino prima di ogni atto della Sua volontà50.

tunc comparando se ad lapidemintellectum, potest causare in se relationem rationis; et in quarto instanti potest quasi reflecti super istm relationem causatam in tertio instanti, et tunc illa relatio rationis erit cognita. Sic ergo non est relatio rationis necessaria ad intelligendm lapidem – tamquam prior lapide – ut obiectum, immo ipsa “ut causata” est posterior (in tertio instanti), et adhuc posterior erit ipsa “ut cognita”, quia in quarto instanti», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 35, q. un., n. 32, cit., p. 258. 49 «Et licet posset poni calumnia in exemplo, non ita potest in proposito dicit de intellectione et obiecto, quin obiectm totum et secundum totale esse suum, “deminutum esse” habeat in actu. Et si velis quaererealiquod esse verum huus obiecti ut sic, nullum est quaerere nisi “secundum quid”, nisi quod istud “esse secundum quid” reducitur ad aliquod esse simpliciter, quod est esse ipsius intellectionis; sed istud “esse simpliciter” non est formaliter esse eius quod dicitur “esse secundum quid”, sed est eius terminative vel principiative, ita quod ad istud “verum esse secundum quid” reducitur sic quod sine isto vero esse istius non esset illud “esse secundum quid” illius», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 36, q. un., n. 46, cit., p. 289. 50 «Ideae mere naturaliter repraesentant illud quod repraesentant, et sub ratione qua aliquid repraesentant; quod probatur ex hoc quod deae sunt inintellectu divino ante omnem actum voluntatis divinae, ita quod nullo modo sunt ibi per actum illius voluntatis: sed quidquid naturaliter praecedit actum voluntatis, et mere naturale», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 39, q. un, n. 7, cit., p. 407.

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Il Doctor Subtilis è perciò lontano da quel volontarismo assoluto che gli è stato sovente attribuito51. Le idee divine, infatti, non sono possibili perché pensabili, ma sono pensabili perché già garantite nella loro intrinseca possibilità. Le essenze, di conseguenza, verranno definite in virtù di un criterio negativo che preesiste all’onnipotenza divina52: È dunque assolutamente impossibile ciò a cui per sé ripugna l’essere, e ciò a cui innanzitutto in forza di se stesso è tale che gli ripugna l’essere – e non a causa di un qualche rapporto con Dio, affermativo o negativo; al contrario, gli ripugnerebbe l’essere anche se, per assurdo, Dio non esistesse53.

È ormai chiaro il presupposto che sorregge l’analisi scotista: se le essenze non sarebbero ciò che sono indipendentemente 51 Il giudizio di Gilson è perfettamente in linea con la nostra analisi: la dottrina scotista, infatti, «non ha nulla in comune con un volontarismo, come quello di Cartesio per esempio, in cui l’intelletto, la volontà e la potenza di Dio non costituiscono che un tutt’uno. Nessun dubbio è possibile su questo punto, se Cartesio infatti negherà che Dio crei le verità eterne con un atto di volontà anteriore all’atto di conoscenza che egli ne ha (poiché in Dio i due atti si confondono), Duns Scoto ha molte volte ed esplicitamente negato che la conoscenza divina delle idee dipenda da un atto di volontà divina. Prodotte dall’intelletto di Dio, le idee e la loro verità sono talmente indipendenti dal volere divino che, se per assurdo Dio non avesse volontà, le idee divine e le loro verità resterebbero esattamente ciò che sono», É. Gilson, Jean Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, Vrin, Paris 1952; trad. it. di C. Marabelli e D. Riserbato, Giovanni Duns Scoto. Introduzione alle sue posizioni fondamentali, Jaca Book, Milano 2008, p. 293. 52 «Possibile, secundum quod est terminus vel obiectum omnipotentiae, est illud cui non repugnat esse et quod potest ex se esse necessario: lapis, productuis in esse intelligibili per intellectum divinum, habet ista ex se formaliter et per intellectum principiative», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 43, q. un., n. 7, cit., p. 354. 53 «Illud ergo est simpliciter impossibile cui per se repugnat esse, et quod ex se primo est tale quod sibi repugnat esse, – et non propter aliquem respectum ad Deum, affirmativum vel negatvum; immo repugnaret sibi esse, si per impossibile Deus non esset», Ivi, n. 5, pp. 353-354.

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dalla relazione eterna che intrattengono con l’intelletto divino, non è comunque la voluntas Dei a tracciare i loro confini epistemici. Le condizioni di possibilità dell’ente, pertanto, non dipendono da alcun fiat divino, ma sono tali a prescindere dalla Sua onnipotenza. Non è la volontà divina a determinare, per via negativa, la statuto ontologico di quelle creature che non faranno parte del piano della propria creatio, poiché è Dio stesso ad incontrare nella violazione del principio di non contraddizione un limite che precede ogni Sua possibile ordinatio. La dipendenza formale che l’ente deve patire dinanzi all’eternità dell’intelletto divino è situata in un quadro ontologico la cui origine non è riconducibile a Dio: anche qualora Dio non esistesse, ciò che è absolute impossibile rimarrebbe tale, senza dover attendere alcun concorso divino. I presupposti appena delineati sono naturalmente inconciliabili con la dottrina cartesiana. Nella lettera indirizzata a Mersenne il 6 maggio 1630, Descartes aveva elaborato la sua teoria prendendo criticamente le distanze da una persuasione che sembra restituire le linee guida del pensiero di Duns Scoto54. Tuttavia, quando il filosofo francese sottolinea la necessità di rifiutare ogni discorso che non riconduca immediatamente le verità eterne al dominio della potentia Dei, non sembra voler suggerire alcun rapporto critico fra la propria dottrina e quella del Doctor Subtilis. La riflessione scotista, infatti, aveva avuto, soprattutto all’interno del quadro culturale più prossimo a Descartes, una no-

54 «Non bisogna dunque dire che se Dio non esistesse, queste verità sarebbero comunque vere [«Il ne faut donc pas dire que si Deus non esset nihilominus istœ veritates essent verœ»]», R. Descartes, B Op n. 31, p. 151; AT, I, pp. 149-150.

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tevole influenza, finendo per essere incorporata all’interno di differenti tradizioni teologiche. È più probabile che i riferimenti cartesiani alla natura creata delle verità eterne siano pensati come il controcanto dialettico a dei pensatori che, pur avendo subito l’influsso della speculazione scotista, non siano però, stricto sensu, identificabili con la figura storica del Dotto Sottile55. A questo proposito, facendo nostra l’analisi proposta da JeanLuc Marion56, possiamo avanzare una diversa interpretazione: per quanto concerne la natura creata delle verità eterne, il più diretto avversario di Descartes è il gesuita spagnolo Francisco Suárez.

2. L’avversario di Descartes L’analisi appena svolta sullo statuto ontologico assegnato alle verità eterne nell’universo medievale conferma la sostanziale frattura introdotta dal pensiero cartesiano. Descartes consegna ai suoi interlocutori una novitas concettuale destinata a generare un dissenso non più componibile con le riflessioni metafisiche che l’hanno preceduta. Ricercando dei possibili richiami critici alla tradizione presenti nella teoria cartesiana, si sono ritrovati nelle lettere del filosofo rivolte a Mersenne chiari riferimenti a dei passi contenuti nell’opera suáreziana. È stato quindi naturale indicare in

55 Cfr. E. Mehl, La création des vérités éternelles: Descartes s’est-il forgé un adversaire scotiste? in «Archa Verbi. Subsidia», n. 6, 2013, pp. 119-137. 56 Cfr. J.-L. Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, cit., in part. pp. 27-139.

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Suárez il principale avversario cartesiano. Descartes, tuttavia, non abbandona soltanto i presupposti all’opera nella grande sintesi del Doctor Eximius. Francisco Suárez è infatti uno dei tanti autori precedenti o immediatamente coevi a Descartes che si sono interrogati sulle verità eterne e sulla relazione che l’intelletto divino intrattiene con l’essentia creaturarum. È per questo motivo che, nella chiusa del paragrafo precedente, seguendo la scia di alcune autorevoli interpretazioni, abbiamo posto l’accento sul fatto che il teologo granadino sia semplicemente il “più diretto” avversario della teoria cartesiana. Suárez è l’avversario più diretto per una ragione molto semplice: testi alla mano, è l’unico a cui Descartes faccia riferimento nei luoghi dedicati a presentare e sviluppare le linee guida della sua dottrina sulla libera creazione delle verità eterne57. Ad ogni modo, ciò non significa che il filosofo non fosse consapevole di prendere le distanze da un intero orizzonte di pensiero, ben compendiato dagli autori che avevano dominato o continuavano ad occupare il centro della scena teologica e filosofica. Non vogliamo in questa sede soffermarci in modo dettagliato su tale aspetto58, indagando la speculazione dei singoli pensatori connessi a questo milieu culturale; non possiamo comunque non ricordare, solo per citarne alcune, le figure

57 Sulla relazione fra Descartes e Suárez circa la questione delle verità eterne, cfr. inoltre T. J. Cronin, Objective Being in Descartes and Suárez, Gregorian University Press, Roma 1966, in part. pp. 37-74 e N. J. Wells, Suárez on the Eternal Truths (part I) in «The Modern Schoolman», LVIII, January 1981, pp. 73-104; Id., Suárez on the Eternal Truths (part II) in «The Modern Schoolman», LVIII, March 1981, pp. 159-174. 58 A questo proposito, stiamo lavorando alla stesura di un articolo esplicitamente dedicato a tale tematica e incentrato su Pedro da Fonseca e sul Cursus Conimbricensis.

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di Pedro da Fonseca59, Gabriel Vázquez60 e il lavoro dei gesuiti

59 Pedro da Fonseca, Institutionum Dialecticarum libri octo, Lisbona 1564; intr. e trad. pt. de J. F. Gomes, Instituições Dialécticas, Universidade de Coimbra, Coimbra 1964; Id., Isagoge philosophica, Lisbona 1591; intr. e trad. pt. de J. F. Gomes, Isagoge Filosófica, Universidade de Coimbra, Coimbra 1965; Id., In Libros Metaphysicoruum Aristotelis Stagirita, Tomi Quatuor, Colonia 1615 (repr. Georg Olms, Hildesheim 1964). Sulla bibliografia dedicata all’Aristotele Portoghese, vd., in part., gli studi di M. P. Pereira, Ser e Pessoa. Pedro da Fonseca. I – O método da filosofia, Universidade de Coimbra, Coimbra 1967 e di A. M. Martins, Lógica e ontologia em Pedro da Fonseca, Fundação Calouste Gulbenkian, Lisboa 1994. Sui singoli aspetti della riflessione del gesuita, cfr., fra gli altri, i seguenti lavori (in ordine cronologico): E. Elorduy Maurica, Influjo de Fonseca en Suárez in «Revista Portuguesa de Filosofia», 11, 3/4, 1955, pp. 507-519; M. P. Slattery, Two Notes on Fonseca in «The Modern Schoolman», XXXIV, 1957, pp. 193-202; J. F. Gomes, Pedro da Fonseca: Sixteenth Century Portuguese Philosopher in «International Philosophical Quarterly», Vol. VI, 4, 1967, pp. 632-644; P. Di Vona, Studi sulla Scolastica della Controriforma, cit., pp. 16-20 e passim; A. M. Martins, Fonseca (Pedro da), in Logos. Enciclopédia Luso-Brasileira de Filosofia, Vol. II, Lisboa 1990, pp. 656-665; A. Freire, Pedro da Fonseca, humanista e filósofo in «Revista Portuguesa de Filosofia», 50, 1994, pp. 143153; A. M. Martins, Liberdade e Autonomia em Fonseca in «Mediaevalia. Textos e Estudos», 7-8, 1995, pp. 515-527; M. S. de Carvalho, Inter Philosophos non mediocris contentio. A propósito de Pedro da Fonseca e do contexto medieval da distinção essência/existência in «Mediaevalia. Textos e Estudos», 7-8, 1995, pp. 529-562; E. J. Ashworth, Petrus Fonseca on Objective Concepts and the Analogy of Being, in P. A. Easton (ed.), Logic and the Workings of the Mind. The Logic of Ideas and Faculty Psychology in Early Modern Philosophy, Atascadero, Ridgeview Publishing Co. 1997, pp. 47-63; S. Menn, Suárez, Nominalism, and Modes, in K. White (ed.), Hispanic Philosophy in the Age of Discovery, The Catholic University of America Press, Washington, DC, 1997; A. Coxito, Estudos sobre filosofia em Portugal no século XVI, Imprensa Nacional – Casa da Moeda, Lisboa 2005, in part. pp. 195-283; A. M. Martins, A causalidade em Pedro de Fonseca in «Veritas», Vol. 54, 3, 2009, pp. 112-127. 60 In relazione alle tematiche qui analizzate, vd., in part., Gabriel Vázquez, Commentarium ac disputationum in primam partem S. Thomae, disp. LX, c. 2, n. 7, Tomus Primus, Juan Gracián, Alcalà 1598, p. 484; Ivi, disp. CIV, c. 3, n. 9-10, p. 1025; Id., Commentarium ac disputationum in tertiam partem

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di Coimbra, che diedero alle stampe, fra il 1592 e il 1606, il Cursus Conimbricensis61. S. Thomae, Ingolstadt 1610 (Editio prima, Sánchez Crespo, Alcalà 1609), disp. LXXII, c. 2, n. 8-9, p. 732. Per quanto concerne la bibliografia, si tengano presenti, in part., i lavori di J. Schmutz, Le miroir de l’univers. Gabriel Vázquez et les commentateurs jésuites, in J.-C. Bardout et O. Boulnois (éd.), Sur la science divine, Puf, Paris 2002, pp. 382-411; Id., Un dieu indifférent. La crise de la science divine dans la scolastique moderne, in O. Boulnois – J. Schmutz – J.-L. Solère (éd.), Le contemplateur et les idée: Modèles de la science divine du néoplatonisme au XVIIIe siècle, Vrin, Paris 2002, pp. 185-221. Cfr. inoltre N. J. Wells, John Poinsot on Created Eternal Truths vs. Vasquez, Suárez and Descartes in «American Catholic Philosophical Quarterly», Vol. 68, n. 3, 1994, pp. 425-446. 61 Commentarii Collegii Conimbricensis Societatis Jesu, In octo libros Physicorum Aristotelis Stagyritae, Coimbra 1592; In quattuor libros De Coelo Aristotelis Stagiritae, Lisbona 1593; In libros Aristotelis, qui Parva Naturalia appelantur, Lisbona 1593; In libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum, aliquot Conimbricensis Cursus Disputationes in quibus praecipua quaedam Ethicae disciplina capita continentur, Lisbona 1593; In duos libros De Generatione et Corruptione Aristotelis Stagiritae, Coimbra 1597; In tres libros de Anima Aristotelis Stagiritae, Coimbra 1598; In universam Dialecticam Aristotelis Stagiritae, Coimbra 1606. Il commentario alla Metaphysica di Aristotele non venne invece ultimato; a questo proposito, cfr. M. S. de Carvalho, Tra Fonseca e Suárez: una metafisica incompiuta a Coimbra in «Quaestio», 9, 2009, pp. 41-59. Per ricostruire invece l’intera vicenda che portò alla redazione del Cursus, vd. soprattutto A. M. Martins, The Conimbricenses, in M. C. Pacheco – J. F. Meirinhos (eds.), Intellect et imagination dans la Philosophie Médiévale/Intellect and Imagination in Medieval Philosophy/Intelecto e imaginação na Filosofia Medieval (Actes du XIe Congrès International de Philosophie Médiévale de Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie Médiévale, Porto, du 26 ai 31 août 2002), Brepols Publishers, Turnhout 2006, Vol. I, pp. 101-117; M. S. de Carvalho, Medieval Influences in the Coimbra Commentaries (An Inquiry Into the Foundations of Jesuit Education) in «Patristica et Mediaevalia», XX, 1999, pp. 19-32; Id., Psicologia e ética no Curso Jesuíta Conimbricense, Edições Colibri, Lisboa 2010 pp. III-XVI; trad. it di A. Gatto, Psicologia e Etica nel Cursus Conimbricensis, Anicia, Roma 2014; C. S. Marinheiro, The Conimbricenses: the Last Scholastics, the First Moderns or Something in between? The Impact of Geographical Discoveries on Late 16th Century Jesuit Aristotelianism, in M. Berbara and K.A.E. Enenkel (eds.), Portuguese

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Benché la fama di Suárez, sia come teologo della Compagnia, sia come referente critico più vicino al testo di Descartes, abbia spesso, in modo più o meno implicito, ingiustamente oscurato l’opera dei pensatori citati, siamo convinti che un attento lavoro sulle fonti cartesiane non possa non ripartire anche da questi autori, con particolare riguardo al Curso dei Conimbricensi, alla luce soprattutto della centralità del ruolo intellettuale e pedagogico da loro svolto nel XVII secolo. Ad ogni modo, ci occuperemo in maniera più circostanziata di questo aspetto nel quinto capitolo, in relazione alle possibili fonti del Dio Ingannatore cartesiano. Ritorniamo ora a Francisco Suárez e alla sua presenza nell’epistolario cartesiano. Nel primo capitolo, mentre analizzavamo la teoria sulle verità eterne del filosofo francese, avevamo già avuto l’opportunità di richiamarci alla figura del Doctor Eximius. Nella lettera del 6 maggio 1630, Descartes sembrava infatti evocare il pensiero del teologo gesuita. Nonostante il testo di questa missiva fosse scritto in francese, erano presenti dei passaggi latini che richiamavano alcune considerazioni tratte dalle Disputationes Metaphysicae. Per comprendere appieno l’obiettivo del filosofo è utile operare innanzitutto un raffronto fra i due autori. Riportiamo la prima parte del testo cartesiano nella sua versione originale: Pour les vérités éternelles, je dis derechef que sunt tantum verœ aut possibiles, quia Deus illas veras aut possibiles cognoscit, non autem contra veras a Deo cognosci quasi independenter ab illo sint verœ (B Op n. 31, p. 150 ; AT, I, p. 149. Il corsivo è nel testo).

In questo passaggio, Descartes inverte l’ordine di priorità con cui pensare il rapporto che lega Dio alle verità eterne: il conHumanism and the Republic of Letters, Brill, Leiden 2011, pp. 395-423; C. Casalini, Aristotele a Coimbra, Anicia, Roma 2012.

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tenuto di siffatte verità non è più indipendente dalla cogitatio Dei, poiché non esiste alcuna verità che non trovi in Dio la condizione della propria esistenza. Non è il loro contenuto, ossia la loro intrinseca verità e possibilità, che permette a Dio di conoscerle, quasi potessero esistere in modo indipendente dalla Sua cogitatio. È vero il contrario: non esiste nulla che sia vero o possibile se non in virtù di quell’atto con cui Dio decide, in modo libero e indifferente, della sua verità e possibilità. È tuttavia curioso che Descartes scelga, quasi all’improvviso, di passare dalla lingua francese al latino. È ragionevole pensare che questo cambiamento non sia figlio di una scelta meramente stilistica, soprattutto se prestiamo attenzione al contenuto del brano citato. In effetti, il filosofo si sta qui riferendo ad un importante passaggio delle Disputationes suáreziane: Rursus neque illae enunciationes sunt verae quia cognoscuntur a Deo, sed potius ideo cognoscuntur, quia verae sunt, alioqui reddi posset ratio, cur Deus necessario cognosceret illas esse veras (Disp. Met., disp. XXXI, s. 12, n. 40)62.

Ora, se proviamo ad accostare le due citazioni, possiamo subito accorgerci delle loro affinità e differenze. Benché i testi siano molto simili dal punto di vista lessicale, è facile notare come questa consonanza esteriore nasconda, in realtà, una diversità essenziale. Il testo cartesiano recupera in modo consapevole uno dei concetti decisivi della riflessione di Suárez; tale concetto, però, non è evocato per corroborare la sua analisi, ma per mettere in luce, in modo chiaro e definitivo, la distanza che lo divide dalla ratio suáreziana. Il richiamo al pensiero del gesuita è presentato con una negazione che, stravolgendo il testo di Suárez, conferma, in ter-

62 Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, disp. XXXI, s. 12, n. 40, in Opera Omnia, cit., Vol. XXVI, p. 295.

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mini positivi, proprio ciò che Descartes intende difendere e giustificare. L’uso del latino, lungi dall’essere un vezzo espositivo, è una traccia con cui Descartes esplicita i fondamenti della sua nuova dottrina, facendo emergere, al tempo stesso, il silenzioso interlocutore cui questa teoria si rivolge. La riflessione cartesiana sembra perciò opporsi, in termini speculari, ad alcune fondamentali premesse suáreziane. Il gesuita spagnolo è persuaso che le cose non siano vere perché eternamente conosciute da Dio, trovando nel Suo intellectus le condizioni della loro possibilità, ma è convinto che siano conosciute da Dio proprio perché vere. Una qualunque res non sarà in possesso di una certa essentia in quanto oggetto dell’intellezione divina, ma potrà essere conosciuta da Dio perché possiede, nella sua intrinseca intelligibilità, quella determinata essenza63. Allo stesso modo, l’uomo non può essere considerato un animale razionale perché rappresenta un’individuazione dell’esemplare divino, essendo invece la cogitatio Dei a riconoscerlo, in quanto tale, nella sua assoluta positività64. Benché non possa esistere qualcosa che non sia già oggetto dell’intelletto divino, nel caso in cui una tale «hypothesim impossibilem» si realizzasse, non per questo 63 «Considerando vero divinam scientiam, solum prout est simplex intelligentia creaturarum secundum esse essentiae seu possibile vel quatenus est intuitiva visio existentiae, sic videtur sine inconveniente posse concedi etiam illius scientiae veritatem consistere in conformitate ad illa obiecta; nam secundum hanc praecisam considerationem non est causa talium obiectorum, sed mera intuitio et quasi speculatio, et ideo secundum eamdem considerationem non ideo res est talis essentiae quia talis a Deo cognoscitur, sed e converso, ideo talis cognoscitur quia talis essentiae est, neque aliter poterat vere cognosci», Ivi, disp. VIII, s. 5, n. 5, Vol. XXV, p. 294. 64 «Homo, verbi gratia, non ideo est animal rationale quia Deus talem illum cognoscit, seu quia in exemplari divino talis repraesentatur, sed potius ideo talis cognoscitur, quia ex se postulat talem essentiam», Ivi, disp. I, s. 4, n. 21, p. 32; trad. it. p. 173.

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la reale oggettività che presiede ai rapporti ontici e intellegibili verrebbe meno65. Simili considerazioni implicano per Descartes un totale stravolgimento del corretto modo di pensare la natura divina. D’altronde, se le cose non acquisissero le loro proprietà perché partecipi del dominio infinito dell’essentia Dei, ma fossero, al contrario, ciò che sono in modo indipendente da Dio, si finirebbe per limitare il raggio di azione della Sua potentia. In un tale contesto, Dio non sarebbe più la «fonte di ogni bontà e verità [«omnis bonitatis veritatisque fontem»]», come il filosofo afferma nei Principia Philosophiae66, poiché si troverebbe a patire la realtà di un dato già acquisito, non legittimato dal libero esercizio della Sua voluntas. La lettera del 6 maggio 1630 contiene altri riferimenti al pensiero del gesuita. Dopo aver affermato che le verità eterne dipendono da Dio, e che sono vere e possibili soltanto perché Dio le conosce come vere e possibili, Descartes procede oltre, traendo un’ulteriore conseguenza: Se gli uomini intendessero bene il senso delle loro parole, sarebbero blasfemi qualora dicessero che la verità di qualcosa precede la conoscenza che ne ha Dio, poiché in Dio volere e

65 «Licet sit impossibile esse aliquod ens quod actu non vere concipiatur ab aliquo intellectu saltem divino, nihilominus tamen etiamsi intellectus apprehendat illam hypothesim impossibilem in re positam, nimirum quod omnis intellectus etiam divinus cessaret ab actuali rerum conceptione, nihilominus adhuc esset in rebus veritas, nam et compositum ex corpore et anima rationali esset verus homo et aurum esset verum aurum, etc., vel secundum veritatem essentiae si intelligamus non manere res existentes, vel etiam secundum existentiam, si fingamus cessante actuali cognitione adhuc conservari res existentes a Deo operante per suam potentiam exsequentem; ergo haec veritas intelligi potest sufficienter per illam aptitudinalem conformitatem, etiamsi actualis non sit», Ivi, disp. VIII, s. 7, n. 27, Vol. XXV, p. 304. 66 Cfr. R. Descartes, Princ. Phil., I, 22, B Op I, p. 1727; AT, VIII, p. 13.

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107 conoscere non sono che uno; di modo che per ciò stesso che vuole qualcosa, la conosce, e perciò soltanto tale cosa è vera [«ex hoc ipso quod aliquid velit, ideo conosci, et ideo tantum talis rest est vera»] (B Op n. 31, p, 151; AT, I, p. 149. Il corsivo è nel testo).

Abbiamo già sottolineato quanto sia importante nella speculazione del filosofo francese il rifiuto di ogni distinzione fra le facoltà divine. Il Dio cartesiano non vuole qualcosa perché ne possiede una conoscenza certa; non la pensa neppure come vera poiché ne riconosce la verità, quasi che il suo esser possibile sia determinato e stabilito a prescindere dalla cogitatio di Dio. Al contrario, non esiste una verità in grado di imporsi alla conoscenza divina, proprio perché non vi è nulla che possa sussistere indipendentemente dalla potentia Dei. Sappiamo, inoltre, che in Dio la voluntas e l’intellectus non fanno capo a differenti domini, ma sono assolutamente indistinguibili, non essendo possibile formulare alcuna gerarchia fra di essi. Descartes sviluppa queste considerazioni per sottrarsi ai presupposti di Suárez, cercando di sfuggire alle dinamiche di quella ratio. È grazie alla distinzione delle facoltà divine, difesa e argomentata dal Doctor Eximius, che l’indipendenza delle verità trova le condizioni della sua intelligibilità. Non è un caso che Suárez, dopo aver affermato che ogni cosa è vera e possibile prima che Dio la riconosca come tale, si soffermi proprio su questa particolare questione: Si ab ipso Deo proveniret earum veritas, id fieret media voluntate Dei; unde non ex necessitate proveniret, sed voluntarie. Item, quia respectu harum enuntiationum comparatur intellectus divinus ut mere speculativus, non ut operativus; intellectus autem speculativus supponit veritatem sui obiecti, non facit; igitur huiusmodi enuntiationes quae dicuntur esse in primo, immo etiam quae sunt in secundo modo dicendi per se, habent perpetuam veritatem, non solum ut sunt in di-

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108 vino intellectu, sed etiam secundum se ac praescindendo ab illo (Disp. Met., disp. XXXI, s. 12, n. 40. Il corsivo è nostro)67.

Suárez ritiene che l’intelletto divino, lungi dall’essere operativo [«operativus»], sia solo speculativo [«speculativus»], non essendo una causa efficiente in grado di creare l’essenza delle cose; un intelletto speculativo, se presuppone la verità del proprio oggetto, di certo non la produce: ogni singolo enunciato possiede allora una perpetua verità [«perpetuam veritatem»] non soltanto all’interno dell’intelletto divino [«in divino intellectu»], bensì in se stesso [«secundum se»]. La subalternità dell’efficienza divina è testimoniata dalla priorità logica accordata da Suárez alla scientia Dei: non è l’onnipotenza a definire compiutamente la natura di Dio, perlomeno nel suo aspetto teofanico, ma la scientia che Egli possiede di se stesso e del mondo creato. Dio è dunque onnipotente «quia cognoscit omnia», giacché è soltanto in virtù della Sua scienza che la potentia con cui si manifesta trae le informazioni e le condizioni per poter agire. Anche se fingessimo di sottrarre a Dio l’onnipotenza, spogliandolo del dominio infinito sempre a disposizione della Sua voluntas, non per questo smetterebbe di sapere, essendo proprio la conoscenza il sigillo eterno che ne individua e ne caratterizza l’essentia68.

67 Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, disp. XXXI, s. 12, n. 40, in Opera Omnia, cit., Vol. XXVI, p. 295. 68 «Deus non ideo omnia scit, quia est omnipotens: sed e converso, ideo est omnipotens, quia cognoscit omnia, nam per scientiam suam operator, et ideo per scientiam constituitur omnipotens. Confirmatur, quia illa duo ita concomitanter se habent, ur argumentando per locum intrinsecum, etiam si Deus fingeretur non esse omnipotens, non propterea desineret omnia scire, ergo non ideo omnia scit, quia est omnipotens, ergo aliunde omnia cognoscit, quam per suam essentiam cognitam, ut omnipotentem», Franciscus Suárez, Tractatus de Divina Substantia, III, c. 2, n. 9, in Opera Omnia, cit., Vol. I, p. 198.

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Appaiono allora più comprensibili le ragioni che spingono il Doctor Eximius a considerare lo statuto ontologico delle verità eterne come indipendente dall’azione creatrice di Dio69. D’altra parte, se tali verità fossero subordinate all’essentia Dei, sarebbero figlie di una decisione volontaria, e non avrebbero perciò alcuna intrinseca necessità che non fosse legittimata da una scelta arbitraria. Per il teologo gesuita le verità eterne non

69 Questo giudizio si impone alla riflessione suáreziana a dispetto degli stessi giudizi critici espressi dal Doctor Eximius nei riguardi di Duns Scoto ed Enrico di Gand, rei di aver attribuito all’essenza delle creature il possesso di un verum esse reale prima del fiat divino: «Principio statuendum est essentiam creaturae, seu creaturam de se et priusquam a Deo fiat, nullum habere in se verum esse reale, et in hoc sensu, praeciso esse existentiae, essentiam non esse rem aliquam, sed omnino esse nihil. Hoc principium non solum verum est, sed etiam certum secundum fidem […]. Essentiae creaturarum, etiamsi a Deo sint cognitae ab aeterno, nihil sunt nullumque verum esse reale habent antequam per liberam Dei efficientiam illud recipiant», Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, disp. XXXI, s. 2, n. 1, in Opera Omnia, cit., Vol. XXVI, p. 229. Per confermare l’implicito che soggiace alla riflessione del Doctor Eximius, possiamo richiamare la ricezione che questo particolare aspetto del pensiero di Suárez incontrò nell’opera del gesuita calabrese Francesco Albertini. In una quaestio [«Utrum creatura ab aeterno sit in potentia obiectiva»] dei suoi Corollaria, difendendo l’intrinseca possibilità della potentia obiectiva, Albertini si richiama proprio a Suárez, quasi sorprendendosi dell’opposizione manifestata nello specifico dal gesuita spagnolo: «Haec sententia [vale a dire quella che ritiene che l’essenza delle creature sia ab aeterno in possesso di un essenza intrinseca e positiva, senza dover attendere la causalità efficiente di Dio] non indiget probatione, probatur enim illis iisdem rationibus quibus probavimus in prima quaestione essentias rerum habere esse essentiae actuale positivum ab aeterno. Argumenta quae fieri solent contra hanc sententiam sunt eadem fere, quae retulimus, et solvimus in prima questione citata. Quia vero Suarez et alii recentiores ponunt quaedam alia argumenta, quae videntur peculiariter militare contra hanc potentiam obiectivam, quam diximus esse ab aeterno positivam et realem et intrinsecam ipsi essentiae creaturae, ideo solvenda sunt hic», Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, disp. I, q. 3, n. 3, cit., p. 12 d.

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sono quindi il frutto di una libera decisione e non dipendono da una causa esterna, essendo loro, piuttosto, a fornire a Dio le ragioni per esercitare la Sua onnipotenza. Suárez conferma questo assunto in un luogo successivo delle Disputationes: Aeque enim vera est haec conditionalis, si lapis est animal, est sensibilis, ac ista, si homo est animal, est sensibilis; ergo etiam haec propositio, omne animal est sensibile, per se non pendet ex causa quae possit efficere animal. Unde, si per impossibile nulla esset talis causa, nihilominus illa enuntiatio vera esset, sicut haec est vera, chymaera est chymaera, vel similis (Disp. Met., disp. XXXI, s. 12, n. 45. Il corsivo è nostro)70.

Per il Doctor Eximius la verità di un enunciato si fonda sulla connessione necessaria dei suoi termini e non trae origine da alcuna causalità estrinseca. Il valore veritativo di una proposizione come la seguente, «Se l’uomo è un animale, allora è un essere dotato di sensibilità», non dipende dall’esistenza concreta dei termini posti in relazione. Questa frase, sganciata da ogni sua realizzazione concreta, sarebbe vera anche se non vi fosse nessun uomo, ossia se non fosse esistita una causa efficiente capace di condurlo all’esistenza: un qualunque enunciato, pertanto, può essere vero, ed esprimere una verità eterna e necessaria, anche se gli estremi che lo compongono non esistono71. Si tratta di una posizione tutt’altro che eccentrica nel panorama culturale del tempo, come dimostra una quaestio di Eu70 Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, disp. XXXI, s. 12, n. 45, in Opera Omnia, cit., Vol. XXVI, p. 297. 71 «At vero in alio sensu propositiones sunt verae etiamsi extrema non existant; et in eodem sunt necessariae ac perpetuae veritatis, quia cum copula est in dicto sensu non significet existentiam, non attribuit extremis actualem realitatem in seipsis, et ideo ad suam veritatem non requirit existentiam seu realitatem actualem», Ibid..

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stachio a Sancto Paulo. Il cistercense, autore di una Summa philosophiae quadripartita considerata da Descartes «il miglior libro che sia mai stato scritto in questa materia» (B Op n. 283, p. 1321; AT, III, p. 232), si era soffermato sulla supposta eternità dell’essentia rerum72. Al termine di una breve analisi del problema, Eustachio afferma che le connessioni necessarie di cose non esistenti sono da considerarsi sempiterne [«sempiternae»]; dato che tali connessioni «non sono formalmente altro che la negazione della diversità tra il soggetto e il predicato, non esistono se non negativamente». Una proposizione come «Homo est animal» è perciò necessaria, «poiché è una connessione perpetua dell’Uomo con l’Animale, l’Animale non essendo nulla di distinto dall’Uomo73». I criteri di verità delle proposizioni sono quindi eterni: sebbene Dio conosca la perpetua necessità di ogni possibile connessione, non è però la causa efficiente del loro poter essere74. Le premesse dell’indagine suáreziana, ad ogni modo, si spingono forse oltre, dando vita ad un’iperbole: per il Doctor Eximius, la proposizione condizionale prima richiamata – «Se

72 Eustachio a Sancto Paulo, Metaphysica, II, dist. 2, q. 3, in Summa philosophiae quadripartita. De rebus Dialectis, Moralibus, Physicis, e Metaphysicis, Lione 1647 (Editio prima, Carolum Chastelain, Parigi 1609), pp. 20-21. 73 «Dantur etiam necessarie connexiones rerum non exsistentium, aeque sempiternae: quae quidem connexiones nihil aliud sunt formaliter quam negationes diversitatis inter subiectum et attributum, quae proinde non nisi negative exsistunt: Exempli gratia, haec propositio, Homo est animal, dicitur esse necessaria, quia est necessaria quaedam eaque perpetua connexio Hominis cum Animali, eo quod Animal non sit quid distinctum ab Homine», Ivi, p. 21. 74 Sulla quaestio di Eustachio appena citata, cfr. N. J. Wells, Eustache of St. Paul and Eternal Essences in «The Modern Schoolman», LXXIX, 2002, pp. 277-304.

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l’uomo è un animale, allora è un essere dotato di sensibilità» – rimarrebbe comunque vera, non essendo il risultato di una libera decisione, anche qualora non vi fosse alcun Dio. Ciò significa che la condizione ultima della verità e possibilità di ogni cosa non risiede in mente Dei. È la sua stessa cogitatio, infatti, ad accogliere il contenuto di idee e connessioni che sono ab origine definite, tali da presentarsi nella loro intrinseca necessità. La voluntas divina può al massimo dare forma a delle proporzioni che non le appartengono, esercitandosi in un dominio già circoscritto. Per il teologo gesuita, dunque, che Pietro sia un uomo, o che l’uomo sia un animale [«Petrus sit homo, aut homo animal»], non è il risultato di una causa efficiente [«non habere causam efficientem»], poiché questa connessione è necessaria di per se stessa [«quia illa connexio de se est omnino necessaria»], non dipendendo da una causalità estrinseca75. È stato perciò da sempre vero considerare l’uomo un animale razionale, senza che si dovesse attendere la creatio divina76; è la potentia Dei a dover creare l’uomo seguendo quelle determinate caratteristiche, non potendo violare la necessità assoluta di questa connessione.

75 «Quod vero essentia sit talis rei non habet causam efficientem, nec fit, quia de se est necessarium ac perpetuum; quod est dicere hominem quidem, aut animal, habere causam efficientem; quod vero Petrus sit homo, aut homo animal, non habere causam efficientem, quia illa connexio de se est omnino necessaria. Unde consequenter etiam aiunt, quamvis essentia creaturae habeat causam, veritatem tamen essentiae non habere causam, quia consistit rei veritas in illa necessaria connexione, quae de se perpetua est et causam non habet, et hoc modo est scientia de veritatibus necessariis ac perpetuis», Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, disp. XXXI, s. 12, n. 41, in Opera Omnia, cit., Vol. XXVI, p. 295. 76 «Ab aeterno fuit verum dicere hominem esse animal rationale», Ivi, disp. XXXI, s. 1, n. 4, p. 225.

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Alla luce della conseguenze della teoresi suáreziana, la reazione di Descartes non dovrebbe sorprendere. Il filosofo francese, infatti, dopo aver sostenuto che tutte le verità eterne sono vere e possibili poiché dipendono da Dio, si è poi soffermato sull’essentia Dei, escludendo qualunque distinzione fra la volontà e l’intelletto divini. Subito dopo queste precisazioni, Descartes aggiunge una breve considerazione che sembra ricalcare quasi letteralmente, sebbene all’interno di un contesto critico, un altro passaggio della Disputationes: Non bisogna dunque dire che se Dio non esistesse, queste verità sarebbero comunque vere [«Il ne faut donc pas dire que si Deus non esset nihilominus istœ veritates essent verœ»] (B Op n. 31, p. 151; AT, I, pp. 149-150. Il corsivo è nel testo).

Anche in questo caso, Descartes presenta la propria teoresi in aperta contrapposizione al pensiero suáreziano. Le citazioni del Doctor Eximius sono così precise e circostanziate che non ci consentono di pensare ad una mera coincidenza. Descartes sostiene il contrario di ciò che viene affermato nelle Disputationes: se è Dio ad aver stabilito le verità eterne, non è certo possibile pensare che il contenuto di simili verità sarebbe vero anche nel caso in cui Dio non esistesse. Le posizioni dei due autori riflettono un diverso modo di pensare la natura divina. Descartes ritiene che l’essentia Dei sia così infinita da risultarci assolutamente incomprensibile. Dio travalica, come ben sappiamo, ogni rappresentazione umana: l’uomo non può perciò stabilire una relazione univoca, e universalmente assicurata, che lo leghi al suo Creatore, visto che non dispone di alcuna proporzione che gli possa restituire un’immagine del volto divino. La distanza con la ratio suáreziana non potrebbe essere maggiore. Secondo il gesuita spagnolo, il compito della metafi-

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sica è proprio quello di comprendere Dio [«comprehendere Deum77»]; d’altro canto, se «Dio cade, in senso assoluto, sotto l’oggetto di questa scienza [«absolute Deus cadit sub obiectum huius scientiae»]», è necessario che Egli «sia compreso nel suo oggetto [«ergo necesse est ut sub obiecto suo Deum complectatur»]78». In tal modo, Dio non si sottrae equivocamente alla metafisica come una ratio che, all’origine del proprio effetto, non è sottoposta alle leggi e ai principi dell’orizzonte causato, ma sarà compreso, in qualità di pars precipua, nell’edificio reso possibile dalla Sua stessa creatio79. Per raggiungere questo intento, è necessario che vi sia almeno un concetto o una ragione comune che permetta alle creature di conoscere il loro Creator mundi, così da poter cogliere l’essenza divina nello spazio conchiuso della sua manifestatio. 77 «Ostensum est enim obiectum adaequatum huius scientiae debere comprehendere Deum et alias substantias immateriales, non tamen solas illas. Item debere comprehendere non tantum substantias, sed etiam accidentia realia, non tamen entia rationis et omnino per accidens; sed huiusmodi obiectum nullum aliud esse potest praeter ens ut sic; ergo illud est obiectum adaequatum», Ivi, disp. I, s. 1, n. 26, Vol. XXV, p. 11. 78 Ivi, disp. I, s. 1, n. 19, p. 9. 79 Jean-François Courtine ha perciò ragione nel sottolineare che, «se Dio trova posto nell’edificio suareziano delle Disputationes, lo trova in qualche modo a cose fatte, e soltanto nella misura in cui risponde anch’egli alle determinazioni più generali dell’ens ut sic, senza sfuggire all’unità comprensiva dell’ontologia generale». Dio è dunque «preso in considerazione metafisicamente, solo se e per il fatto che rientra nei ranghi dell’oggetto formalmente definito da tale scienza […]. Dio non si articola con la metafisica come venendo dal di fuori, e cioè come principio estrinseco, ossia come causa del soggetto della metafisica, ma ne fa parte per il fatto che gli è assegnato un posto – il primo – allorquando si tratti di discendere fino alla considerazione degli enti specifici», J.-F. Courtine, Suárez et le système de la métaphysique, Puf, Paris 1990; trad. it. di C. Esposito e P. Porro, Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta in Suárez, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 228-229.

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Jean-Luc Marion ha dimostrato come la riflessione di Suárez giunga alla definizione di questo concetto, capace di garantire uno strumento di mediazione per farsi strada in mente Dei, attraverso lo “stravolgimento” del pensiero tomista80. In effetti, come ha messo in luce Jean-François Courtine, «dire che l’oggetto della metafisica “comprende” Dio, quand’anche a titolo di objectum praecipuum, non significa soltanto opporsi diametralmente alla lettera e allo spirito dell’intero insegnamento di Tommaso d’Aquino, ma anche e soprattutto sottomettere Dio – con una sicurezza quasi sonnambolica, e con la massima indifferenza nei confronti di tutta una tradizione che aveva il suo centro nella meditazione sull’onnipotenza divina – al carattere logico dell’ontoteologica81». Per il teologo gesuita, l’oggetto adeguato della metafisica è l’«ens in quantum ens82»: Dio, in qualità di primum ens, entrerà a far parte a tutti gli effetti dell’orizzonte metafisico, oggettivandosi all’interno della riflessione umana83. L’analisi di Suárez84, infatti, divisa fra l’univocità scotista e l’analogia di 80 Cfr. J.-L. Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, cit., in part. pp. 70-95. 81 J.-F. Courtine, Il sistema della metafisica, cit., p. 174. 82 «Ens in quantum ens reale esse obiectum adaequatum huius scientiae», Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, disp. I, s. 1, n. 26, in Opera Omnia, cit., Vol. XXV, p. 11. 83 «Non repugnare Deum, ut cognitum per creaturas, convenire cum illis in aliqua ratione communi obiecti; nam, licet in suo esse et secundum se magis distet a creatura qualibet quam ipsae inter se, tamen secundum ea quae de ipso manifestari possunt scientia naturali, et iuxta rationem et modum quo manifestari possunt ex creaturis, maior proportio et convenientia inveniri potest inter Deum et creaturas quam inter aliquas creaturas inter se», Ivi, disp. I, s. 1, n. 13, p. 6; trad. it. p. 65. 84 Sulla posizione suáreziana circa l’analogia e l’univocità, cfr. D. Heider, Is Suárez Concept of Being Analogical or Univocal? in «American Catholic Philosophical Quaterly», 81, 1, 2007, pp. 21-41 e J. Pereira, Suárez. Between Scholasicism and Modernity, Marquette University Press, Milwaukee 2007.

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Tommaso, sembra propendere, almeno inizialmente, per la prima opzione: se è necessario rifiutare una delle due possibilità [«si alterum negandum esset»], è proprio l’analogia, che è incerta [«quae incerta est»], e non invece l’unità del concetto [«unitas conceptus»], che sembra dimostrata da valide ragioni, a dover essere negata85. La risposta di Suárez non deve sorprendere: la posizione a sostegno dell’univocità presuppone uno degli aspetti fondanti la ratio suáreziana, cioè che l’ente designi un concetto comune a Dio e alle creature. Certo, il gesuita si sofferma nuovamente su questo nodo problematico, e alla fine della terza sezione della Disputatio XXVIII86 pare rivalutare, almeno verbalmente, l’analogia tomista. Tuttavia, ciò non significa che Suárez non abbia depotenziato il nucleo portante del pensiero di Tommaso, ponendo le basi per modificare dall’interno le ragioni che l’Aquinate aveva presentato a sostegno della sua teoria. Il Doctor Eximius, mantenendo ben ferma l’unità del concetto oggettivo di ens, risolve quello scarto fra finito e infinito che costituiva il fondamento della speculazione tomista. L’analogia suáreziana, pur rifiutando, all’apparenza, la solutio offerta da Duns Scoto, ne accetta implicitamente i presupposti, giacché introduce nella relazione analogica difesa dall’Aquinate un

85 «Si ens non est univocum, illa ratio sufficit ut non sit proprie universale; quomodo autem ex dictis non sequatur esse univocum, et quid illi ad univocationem desit, infra in proprio loco est tractandum, agendo de divisionibus entis; nunc solum assero omnia quae diximus de unitate conceptus entis longe clariora et certiora videri quam quod ens sit analogum, et ideo non recte propter defendendam analogiam negari unitatem conceptus, sed si alterum negandum esset, potius analogia, quae incerta est, quam unitas conceptus, quae certis rationibus videtur demonstrari, esset neganda», Ivi, disp. II, s. 2, n. 36, p. 81. 86 Cfr. Ivi, disp. XXVIII, s. 3, n. 5-9, Vol. XXVI, pp. 14-16.

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conceptus entis valido, univoce, tanto per Dio quanto per le creature. L’univocità dell’ente finisce per collocare la trascendenza causale di Dio in un spazio affatto circoscritto, proprio mentre attribuisce un’autonomia ontologica sempre maggiore all’orizzonte immanente la comprensione umana87. In tal modo, Suárez decostruisce, di fatto, le ragioni a sostegno della gerarchia archetipale strenuamente difesa e posta a tema da Tommaso, privando l’ente della sua caratteristica precipua, vale a dire la creaturalità: «Il nome di ente non è perciò imposto alla creatura poiché essa mantiene una proporzione o una proporzionalità e Dio, bensì semplicemente in quanto essa è qualcosa in se stessa e non è assolutamente un nulla» (Disp. Met., disp. XXVIII, s. 3, n. 15)88. La totalità degli enti è considerata a prescindere dall’immensità e incomprensibilità della potentia Dei. L’univocità del vero esclude inoltre che Dio si consegni all’uomo nelle vesti di una potenza “straniera”, visto che la sua natura è già risolta in uno spazio condiviso, accessibile all’intelligenza dell’uomo. L’essentia Dei sarà perciò proporzionata all’oggettività univoca del conceptus entis, e le stesse proprietà divine saranno definite secondo i principi e i vincoli che determinano la natura dell’ens in quantum ens, conducendo Dio nell’orizzonte sancito dal principio di non contraddizione.

87 «Nam constat creaturam non denominari ens extrinsece ab entitate aut esse quod est in Deo, sed a proprio et intrinseco esse, ideoque non per tropum, sed per veritatem et proprietatem ens appellari. Item constat creaturam ut ens est non definiri per creatorem aut per esse Dei, sed per esse ut sic et quia est extra nihil», Ivi, dist. XXVIII, s. 3, n. 15, p. 18. 88 «Nomen etiam entis non ideo est impositum creaturae, quia servat illam proportionem seu proportionalitatem ad Deum, sed simpliciter quia in se aliquid est et non omnino nihil», Ivi, disp. XXVIII, s. 3, n. 11, p. 16.

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L’univocità di Suárez, nell’istante in cui consegna la ratio divina nelle mani del pensiero dell’uomo, finisce per vincolare la potentia di Dio alle regole di quel gioco. Il teologo gesuita abbandona così, in actu exercito, la riflessione tomista, includendo nello spazio metafisico ciò che avrebbe dovuto costituirne la condizione di possibilità. Chiarite queste premesse, sono ormai evidenti le ragioni che condurranno Descartes a criticare la solutio offerta da Suárez. Il punto fermo della riflessione cartesiana è il rifiuto di uno dei principali aspetti del pensiero suáreziano, vale a dire l’univocità dell’ente come strumento per avvicinare il discorso umano al mistero divino. L’incomprensibilità di Dio, quindi, impone una ferma condanna di ogni legame fondato su un presupposto univoco. Ecco il motivo per cui «nessuna essenza può convenire univocamente a Dio ed alla creatura [«nulla essentia potest univoce Deo et creaturae convenire»]» (VI Resp., B Op I, p. 1227; AT, VII, p. 433). Questa affermazione non è certo isolata: anche nella prima parte dei suoi Principia Philosophiae, Descartes sostiene che «il nome di sostanza [«nomen substantiae»]» non spetti a Dio e alle creature univocamente, «come si è soliti dire nelle scuole [«ut dici solet in Scholis»]» (Princ. Phil., I, 51, B Op I, pp. 1745-1747; AT, VIII, p. 24). E ancora, in una lettera inviata a More il 15 aprile 1649, il filosofo francese è convinto che «nessun modo di agire convenga univocamente a Dio ed alle creature [«nullum agendi modum Deo et creaturis univoce convenire»]» (B Op n. 694, p. 2687; AT, V, p. 347). Ci troviamo di fronte, insomma, ad una presa di posizione netta, ribadita più volte. La critica alla ratio del gesuita si snoda lungo due direttive strettamente collegate: da un lato, vi è la messa in questione della presunta aseità delle verità eterne; dall’altro, il radicale rifiuto dell’univocità. L’oggettività del conceptus univocus entis e l’indipendenza delle verità al

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cospetto della potenza divina sono due concetti che, nella riflessione di Suárez, si richiamano vicendevolmente. Descartes deve perciò rifiutare i presupposti della speculazione suáreziana per evitare di ricondurre l’essentia Dei nell’orizzonte limitato della ragione dell’uomo. La teoria sulla libera creazione delle verità eterne è ciò che permette al filosofo di consegnare alla riflessione successiva un’idea di Dio non riducibile alle categorie dell’intelletto umano. In questa dottrina, infatti, viene meno ogni proporzione fra l’onnipotenza divina e il dominio epistemico a disposizione della sua più nobile creatura. L’incomprensibilità di Dio sconfessa alla radice ogni criterio univoco, ossia qualsiasi tentativo di tracciare una linea di continuità fra il contenuto della rappresentazione umana e le possibilità che la voluntas divina è libera di realizzare. La convinzione che la teoria cartesiana sulla natura creata delle verità eterne fosse direttamente correlata all’aseità e indipendenza delle idee divine sostenuta da Suárez è stata oggetto di alcune critiche. Gregory Walski89, ad esempio, ha proposto una differente interpretazione dell’intera questione. Secondo l’autore, il referente critico della teoria cartesiana sulle verità eterne non può essere identificato col Doctor Eximius. Per dare un sostegno concreto alla propria convinzione, Walski riporta il contenuto di una lettera del 30 settembre 1640 indirizzata a Mersenne, in cui Descartes ci fornisce delle interessanti informazioni sul suo itinerario di formazione intellettuale: 89 Cfr. G. M. Walski, The Opponent and Motivation behind Descartes’ Eternal Truths Doctrine, in A. Del Prete (a c. di), Il Seicento di Descartes, cit., pp. 43-60; Id., The Cartesian God and the Eternal Truths, in D. Garber and S. Nadler (eds.), Oxford Studies in Early Modern Philosophy, Vol. I, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 23-44.

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120 Dato che devo ricevere le obiezioni dei Gesuiti tra quattro cinque mesi, penso di dovermi tenere pronto ad accoglierle. Nel frattempo avrei voglia di rileggere un po’ la loro filosofia, cosa che non ho fatto da vent’anni. A tal fine vi sarei grato se mi scriveste i nomi degli autori che hanno composto corsi di Filosofia che sono maggiormente seguiti da loro e se in questi ultimi vent’anni ve ne sono di nuovi. Non rammento che i Conimbricensi, Toletus e Rubius; vorrei sapere inoltre se c’è qualcuno che abbia composto un riassunto di tutta la Filosofia della Scuola che sia adottato; potrei in tal modo risparmiare il tempo della lettura dei loro grossi libri (B Op n. 272, p. 1285; AT, III, p. 185. Il corsivo è nostro).

La dottrina sulla libera creazione delle verità eterne è stata presentata, per la prima volta, nell’aprile del 1630. Ora, se Descartes sostiene, nell’autunno del 1640, di non leggere i testi della Scuola da una ventina d’anni, è difficile pensare che il filosofo stia citando, parola per parola, quasi avesse sottomano il testo, dei passaggi tratti dalle Disputationes. Inoltre, benché non si possa escludere che Descartes avesse una certa familiarità con il pensiero del teologo gesuita, avendo studiato a La Flèche, dobbiamo tuttavia considerare che lasciò la Scuola nel 1614, e che non ebbe più l’occasione di studiare quei testi dopo il 1620. Forte di queste informazioni, Walski sostiene che il filosofo francese, mentre discute le implicazioni della propria teoria, riferendosi implicitamente, e in termini critici, alla ratio suáreziana, non fosse in possesso dei testi del teologo, e non potesse, per questo motivo, richiamarsi ad essi direttamente. Lo studioso americano ritiene che sia stato Mersenne a presentare al filosofo le citazioni del Doctor Eximius. Avendo già avuto l’occasione di riflettere criticamente, nelle sue Quaestiones celeberrimae in Genesim, sul pensiero di Suárez, Mersenne avrebbe potuto trascrivere il brano ed inviarlo a Descartes. Secondo Walski, la lettera del 6 maggio 1630 non è sola-

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mente un atto d’accusa nei confronti del pensiero suáreziano, ma è anche, e forse soprattutto, un testo polemico indirizzato a Mersenne. Le lettere del 1630, quindi, non sono soltanto rivolte a Mersenne; piuttosto, sono delle lettere scritte contro Mersenne. Il motivo è presto detto: il Minimo fu uno degli interpreti più importanti di quella corrente culturale che Richard Popkin90 definì scetticismo mitigato [«mitigated skepticism»]. All’interno di una tale visione, è impossibile guadagnare una conoscenza della natura che non sia limitata al solo mondo delle apparenze. Un sapere destinato a non poter cogliere le essenze reali delle cose, però, chiuso in un orizzonte meramente probabilistico, non era certo quel tipo di conoscenza cui si stava dedicando il genio cartesiano. Ecco che la teoria sulla libera creazione delle verità eterne, lungi dall’essere solo un’alternativa all’univocità suáreziana, dovrebbe essere interpretata come una critica radicale nei confronti di quello scetticismo ben compendiato dalle analisi del Minimo. La proposta ermeneutica di Walski non convince affatto. Non è possibile escludere che sia stato Mersenne a riportare alla memoria di Descartes il brano di Suárez; le lettere del 1630, per di più, sono naturalmente pensate anche contro alcuni dei presupposti presenti nella riflessione del Minimo. Le ragioni del mancato accordo fra i due, però, non sono quelle suggerite dallo studioso americano. Mersenne, infatti, non è criticato per le presunte implicazioni scettiche della sua teoresi; al contrario, è a pieno titolo uno degli avversari di Descartes per le personali convinzioni che ha nutrito sull’univocità ed eternità delle verità matematiche.

90 Cfr. R. H. Popkin, The History of Skepticism, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1979, pp. 129-150; trad. it. di R. Rini, Storia dello scetticismo, Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 154-177.

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La riflessione del Minimo, infatti, si inserisce in quel cammino che ha portato gli scienziati e i matematici, al pari dei teologi, verso l’univocità91. Mersenne, in sostanza, colloca le sue riflessioni in un clima culturale intenzionato a salvaguardare l’intrinseca necessità delle proprie ricerche. Per raggiungere un tale obiettivo, è opportuno sottrarre all’arbitrio di Dio le verità matematiche e le leggi fisiche, giudicandole necessarie ed eterne: si tratta, insomma, di rimediare ad alcune potenziali conseguenze dell’onnipotenza divina, quali la fragilità e la contingenza del creato, per fondare le regole che consentano all’uomo di giungere ad un sapere stabile, non più soggetto ad una potentia straniera. All’interno di questo contesto, la mediazione di Galilei svolge un ruolo paradigmatico: imponendo alla natura un linguaggio matematico, lo scienziato veste di un unico abito le diverse discipline, per poi commisurare questo stesso linguaggio alla cogitatio divina. L’uomo, dunque, attraverso la geometria e l’aritmetica, può giungere a delle verità che, in virtù della loro oggettività, possiedono una certezza identica a quella di Dio: per quanto concerne la «verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina92». Nella visione di Galilei non esiste perciò alcuno scarto fra la conoscenza umana e quella posseduta da Dio. La ragione dell’uomo può così entrare in continuità con la ratio Dei, sen-

91 A questo proposito, cfr. J.-L. Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, cit., pp. 161-227 e Id., Esquisse d’une histoire des définitions de Dieu à l’époque cartésienne, in Questions cartésiennes II, cit., pp. 221-280; trad. it., Lineamenti di una storia delle definizioni di Dio in epoca cartesiana, in Questioni cartesiane, cit., pp. 135-172. 92 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, I, in Opere (II Voll.), a c. di F. Brunetti, Utet, Torino 2005, p. 136.

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za che debba patire, di principio, una differenza letteralmente assoluta, priva di qualunque mediazione. L’intelletto umano è libero di conquistare una conoscenza realmente divina, rischiarando i misteri che regolano le proporzioni di questo mondo. Le riflessioni di Galilei non costituiscono certo un unicum nel panorama del tempo. Lo stesso Keplero, infatti, aveva forgiato, grazie alla matematica, le chiavi per avere accesso in mente Dei. Le verità matematiche, lungi dall’essere stabilite da Dio, sono già da sempre consustanziali all’esercizio della Sua cogitatio, non essendo altro che le regole eterne di cui si è servito per dare forma alla Sua creatura. Dio ha dunque creato il mondo secondo proporzioni numeriche, ed è stata la geometria che ha fornito a Dio gli esempi con cui creare il mondo [«Geometria…exempla Deo creandi mundi suppeditavit93»]. Anche per Keplero, insomma, l’uomo può conquistare un sapere necessario e oggettivo, ripercorrendo gli infiniti labirinti dei consilia Dei. L’univocità del vero non è allora un’esigenza che si affaccia solo in ambito teologico, poiché il suo rilancio è funzionale alla rinascita di una nuova scienza, fondata su differenti premesse. Questi autori riescono a legittimare le loro ricerche proprio intervenendo sull’estensione della libertà divina, cioè commisurando lo spazio della voluntas Dei ad un insieme di possibilità che è a tal punto definito da poter essere investigato anche dalla ragione umana. Keplero e Galilei non considerano le verità matematiche come il frutto non necessario della creazione di Dio; piuttosto, le giudicano come l’espressione “ordinata” della Sua stes-

93 J. Kepler, Harmonice Mundi, IV, in Gesammelte Werke (XX Voll.) ed. W. von Dyck, M. Caspar et al., Munich 1938-1988, Vol. VI, p. 31.

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sa cogitatio. Il contenuto di simili verità, eterne e necessarie, è così consustanziale al pensiero divino. L’onnipotenza di Dio non può nulla al cospetto della loro intrinseca oggettività: può soltanto limitarsi ad agire conformando la propria azione a delle regole che deve essa stessa, in primis, riconoscere. In tal modo, la razionalità matematica avvicina, in un abbraccio all’apparenza indissolubile, la ratio divina e la ragione umana. La riflessione di Mersenne non si allontana da questi presupposti: si limita ad accoglierli, sviluppandone le conseguenze. Il Minimo è convinto che l’intellectus di Dio si dispieghi geometricamente, e che le Sue idee siano riducibili a degli enunciati matematici. L’uomo, conoscendo con assoluta certezza l’intrinseca necessità delle proporzioni numeriche, è in grado di giungere ad una verità che sia valida anche per Dio94. L’univocità di un sapere così geometrizzato consente alla finitezza umana di sanare la frattura epistemologica che ne ha sempre sancito la creaturalità. È la stessa logica che guida i pensieri umani ad ispirare le riflessioni divine: il principio di non contraddizione, ad esempio, sarà necessario tanto per l’uomo quanto per Dio. La potentia Dei non solo non può violarlo, o sottrarsi ad esso, ma non avrebbe nemmeno potuto creare o immaginare un mondo che non fosse guidato dalla necessità del principium firmissimum. Il contenuto oggettivo che ha guidato la creatio divina dovrà essere eterno e indipendente dall’onnipotenza di Dio, e la sua validità sarà possibile non in virtù di una libera e arbitraria decisione, bensì grazie alla non contraddittorietà dei termini e delle relazioni che lo costituiscono. 94 Come ha sottolineato Vincent Carraud, Mersenne finisce quindi per assicurare il primato della matematica sottomettendo Dio all’orizzonte dell’univocità. A questo proposito, cfr. V. Carraud, Mathématique et métaphysique: les sciences du possible in «Les Études Philosophiques», n. 1-2, 1994, pp. 145-159.

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Queste considerazioni ci restituiscono un’idea della potentia Dei affatto limitata. La volontà divina è costretta a rispettare dei criteri che non ha stabilito, e che costringono Dio ad agire solo all’interno di un insieme di possibilità già determinato: le verità sono infatti necessarie ed eterne in sé, senza dover attendere una decisione divina. Ora, visto che il loro contenuto non dipende dall’infinita potenza del Creator mundi, la mente umana può investigare le leggi di questo mondo forte di una consapevolezza ben precisa: il sapere che sarà in grado di raggiungere avrà un valore oggettivo e universale, identico a quello posseduto da Dio. L’uomo può conquistare una certezza assoluta, commisurando le leggi che regolano la sua conoscenza a quelle possedute dall’intellectus divino. L’indipendenza delle verità eterne si conferma ancora una volta la condizione necessaria affinché l’univocità del sapere possa dispiegare i propri stessi presupposti. A differenza dell’interpretazione suggerita da Walski, le lettere del 1630 sulla libera creazione delle verità eterne sono state scritte per criticare anche questa tendenza all’univocità sottoscritta dallo stesso Mersenne. È dunque per porre un argine a queste istanze che Descartes, intenzionato a salvaguardare l’immensità della natura divina, sviluppa una riflessione incompatibile con le tendenze teologiche e scientifiche del tempo. La teoria sulla libera creazione delle verità eterne è lo strumento che consente al filosofo di mettere in questione simili speculazioni. La dottrina cartesiana presuppone, come ben sappiamo, un’idea della potenza divina ben differente da quella comunemente accettata, ponendoci di fronte ad un Dio realmente creatore, la cui onnipotenza testimonia uno scarto epistemologico che il pensiero umano non è in grado di colmare. Il contenuto delle verità cui ci rivolgiamo, quindi, non può rivendicare una necessità assoluta, non essendo altro che il risultato del libero

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arbitrio divino. La contingenza di simili verità non consente perciò all’uomo di rappresentare, in modo chiaro e distinto, il volto di Dio. Se la ragione umana, grazie agli strumenti in suo possesso, può descrivere soltanto delle proporzioni finite, valide solo all’interno di un contesto limitato, la natura divina non può invece essere confinata nello spazio che ha deciso di creare, poiché un simile dominio non può racchiudere l’immensità di una potenza che rimane, in termini assoluti, al di là di un orizzonte così limitato. La necessità che la mente umana ritrova nel mondo non ci dice allora nulla della necessità divina; non costituisce, cioè, una traccia che ci consenta un avvicinamento alla cogitatio Dei: fra le due, difatti, non esiste alcuna mediazione possibile, visto che la voluntas e l’intellectus divini non sono sottoposti a quelle leggi e a quelle verità che Dio ha deciso, liberamente, di rendere necessarie. Insomma, questa onnipotenza non può essere proporzionata all’estensione della rappresentazione umana, costituendone la condizione di possibilità. L’unica certezza che l’uomo è in grado di raggiungere è la consapevolezza di questo scarto, di questa frattura epistemica che nessuna ragione è legittimata a colmare. Il Dio cartesiano è allora una potenza libera e infinita. Non esiste alcun concetto univoco che possa restituire all’uomo un’immagine del suo Creatore. L’uomo, pur conoscendo l’intrinseca necessità delle leggi di questo mondo, non ha per questo accesso al pensiero divino; il contenuto delle verità stabilito dalla Sua potentia non restituisce i margini compiuti del Suo mistero, ma rappresenta soltanto una delle infinite possibilità che Dio era libero di realizzare. Grazie alla teoria sulla libera creazione delle verità eterne,

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Descartes decostruisce ogni tendenza all’univocità, escludendo che l’uomo possa, in virtù di una relazione inclusiva, toccare i margini di un Dio che si rivela, in ultima analisi, assolutamente incomprensibile.

3. Ratio veri e ratio boni Evocando la possibilità di un Dio realmente creatore, dominus onnipotente di ogni possibile ratio, Descartes ha abbandonato i presupposti dell’intera speculazione medievale. Tutta la tradizione precedente, infatti, non è mai venuta meno ad una persuasione comune: le verità eterne non sono il risultato di una volontà libera ed efficiente, esistendo ab origine nell’intelletto di Dio. Nell’istante eterno che precede la creazione, la volontà divina non può perciò dare corpo alla propria creatio se non osservando dei vincoli necessari preposti al Suo agire. Fra gli infiniti presupposti che la potentia di Dio è obbligata a rispettare, ve ne sono due che meritano la nostra attenzione: ci stiamo riferendo, da un alto, al principio di non contraddizione e, dall’altro, alla moralità connessa all’essentia divina. Ora, per far emergere le ragioni della frattura cartesiana, è utile confrontare le posizioni del filosofo francese con la riflessione compiuta dal pensiero medievale95 sulle stesse tematiche.

95 Ci soffermeremo soltanto su alcune delle posizioni sviluppate nel corso della tradizione medievale, non essendo possibile ripercorrere in modo esauriente un orizzonte così vasto e composito. Ad ogni modo, per approfondire alcune delle questioni di cui ci occuperemo rimandiamo al lavoro di E. Randi, Il sovrano e l’orologiaio. Due immagini di Dio nel dibattito sulla «potentia absoluta» fra XIII e XIV secolo, La Nuova Italia, Firenze 1986; cfr. anche W. J. Courtenay, Capacity and Volition. A History of the Distinction of Absolute and Ordained Power, Lubrina, Bergamo 1990.

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Iniziamo la nostra breve disamina dalla prima questione, guidati dall’ingegno di Tommaso d’Aquino. In un importante articolo della Summa Theologiae [«Utrum Deus sit omnipotens»]96, il magister domenicano si interroga sull’onnipotenza divina, esaminandone l’estensione. Dal momento che potenza è un termine che si riferisce ad un insieme di possibili [«potentia dicatur ad possibilia»], quando si dice che Dio è in grado di realizzare qualsiasi cosa, si vuole dire che può tutto ciò che è possibile [«possit omnia possibilia»], ossia tutto ciò che possiede una ratio entis97. Dio può disporre della totalità di quei possibili che hanno ragione di ente: ciò che non ha ragione di ente, non essendo fra i possibili assoluti, non rientra quindi nell’ambito dell’omnipotentia Dei, poiché, come ha osservato Étienne Gilson, «le sole cose che Dio possa non volere sono precisamente quelle che, in definitiva, non sono delle cose. Vale a dire tutte quelle cose che racchiudono in sé qualche contraddizione98». Qualunque cosa sfugga alla ratio entis non è perciò contenuta nel dominio della divina onnipotenza; non ne fa parte, tuttavia, non certo per un limite della potentia di Dio [«non

96 S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 25, a. 3, cit., pp. 293-294; trad. it. pp. 296-303. Cfr. S. Thomas de Aquino, Summa contra Gentiles, lib. 1-2 cum commentariis Ferrariensis, II, 22, Editio Leonina, cura et studio fratrum praedicatorum, Roma 1918, pp. 320-321; trad. it. di T. S. Centi, Somma contro i Gentili, Utet, Torino 1977, pp. 300-302. 97 «Communiter confitentur omnes Deum esse omnipotentem. Sed rationem omnipotentiae assignare videtur difficile. Dubium enim potest esse quid comprehendatur sub ista distributione, cum dicitur omnia posse Deum. Sed si quis recte consideret, cum potentia dicatur ad possibilia, cum Deus omnia posse dicitur, nihil rectius intelligitur quam quod possit omnia possibilia, et ob hoc omnipotens dicatur», S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 25, a. 3, cit., p. 293; trad. it. p. 298. 98 È Gilson, Il Tomismo, cit., p. 177.

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propter defectum divinae potentiae»], bensì perché non ha la natura di cosa fattibile [«non potest habere rationem factibilis»]99. Immaginare di estendere l’azione divina a delle cose che non hanno ragione di ente, infatti, è come chiedersi se Dio sia in grado di far sì che dei contraddittori possano, simul, stare insieme100. Questa impossibilità non implica alcun difetto nella potentia del Creator mundi: Dio non può non perché impotente, ma perché tali cose solo impropriamente sono dette possibili. Una realtà contraddittoria, infatti, non può neppure essere considerata una res determinata, non costituendo il termine positivo di un’azione. L’Aquinate non modificherà le linee guida della sua responsio nemmeno quando introdurrà una distinzione interna alla potentia Dei: 99 «Quidquid potest habere rationem entis, continetur sub possibilibus absolutis, respectu quorum Deus dicitur omnipotens. Nihil autem opponitur rationi entis, nisi non ens. Hoc igitur repugnat rationi possibilis absoluti, quod subditur divinae omnipotentiae, quod implicat in se esse et non esse simul. Hoc enim omnipotentiae non subditur, non propter defectum divinae potentiae; sed quia non potest habere rationem factibilis neque possibilis. Quaecumque igitur contradictionem non implicant, sub illis possibilibus continentur, respectu quorum dicitur Deus omnipotens. Ea vero quae contradictionem implicant, sub divina omnipotentia non continentur, quia non possunt habere possibilium rationem. Unde convenientius dicitur quod non possunt fieri, quam quod Deus non potest ea facere», S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 25, a. 3, cit., p. 293; trad. it. p. 300. 100 «Ad primum ergo dicendum quod non. Et hoc non importat in Deo imperfectionem potentiae, sed quia hoc non habet rationem possibilis. Nam omnis virtus activa producit effectum sibi similem; omne autem quod agit, agit in quantum est ens actu; ergo effectus agentis est ens actu; quidquid ergo repugnat ei quod est esse actu, repugnat potentiae activae. Quod esset, si contradictoria simul essent», S. Thomas de Aquino, Quaestiones quodlibetales, Quodl. XII, q. 2, a. 1, Editio Leonina – Édition du Cerf, RomaParigi 1996; trad. it. di P. R. Coggi, Le Questioni Disputate. Questioni su argomenti vari (Vol. XI), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2003, p. 687.

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130 Quello che si attribuisce alla potenza considerata in se stessa, si dice che Dio lo può grazie alla sua potenza assoluta [«secundum potentiam absolutam»]. Tali sono tutte quelle cose in cui si può trovare la ragione di ente, come abbiamo detto in precedenza. Invece, ciò che si attribuisce alla potenza divina in quanto esegue gli ordini della volontà giusta [«imperium voluntatis iustae»], si dice che Dio lo può fare di potenza ordinata [«de potentia ordinata»]. In tal senso, dunque, dobbiamo dire che Dio, con la sua potenza assoluta, può fare cose diverse da quelle che ha previsto e stabilito di fare (Summa Theol., I, q. 25, a. 5)101.

L’idea che Dio possa rivelarsi secondo due differenti modalità, attraverso una potentia absoluta e una potentia ordinata, non significa certo collocare nel cuore dell’essentia Dei una differenza capace di minarne l’unità102. Si tratta invece di un espediente formale, utile per dare voce allo scarto irriducibile che separa l’orizzonte del creato dalla voluntas divina. La distinzione fra queste due potenze è frutto del solo intelletto dell’uomo: considerare la potentia ordinata come un’individuazione del volere divino significa porre una distinzione, benché formale, fra ciò che Dio ha realizzato e ciò che avrebbe potuto o potrà creare. D’altro canto, se il mondo rivelasse tout court l’onnipotenza di Dio, consegnerebbe la ratio della

101 «Quod attribuitur potentiae secundum se consideratae, dicitur Deus posse secundum potentiam absolutam. Et huiusmodi est omne illud in quo potest salvari ratio entis, ut supra dictum est. Quod autem attribuitur potentiae divinae secundum quod exequitur imperium voluntatis iustae, hoc dicitur Deus posse facere de potentia ordinata. Secundum hoc ergo, dicendum est quod Deus potest alia facere, de potentia absoluta, quam quae praescivit et praeordinavit se facturum», S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 25, a. 5, cit., p. 297; trad. it. p. 308. 102 A questo proposito, cfr. L. Moonan, St. Thomas Aquinas on Divine Power, in Atti del Congresso Internazionale per il VII centenario di San Tommaso, Roma-Napoli, 1974, Vol. III, pp. 366-407.

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creazione nelle mani della propria creatura: la potentia absoluta è dunque quel residuo di possibilità che pone formalmente una differenza fra Dio e la creatio. Anche in Tommaso, l’onnipotenza divina è tenuta a seguire dei limiti precisi: tutto quello che Dio può «secundum potentiam absolutam» è confinato nel dominio della ratio entis, quel non contraddittorio insieme di possibilità che vincola l’esercizio della voluntas Dei. Ciò che determina l’orizzonte delle Sue infinite e molteplici teofanie è così un orizzonte logico che non è posto in modo arbitrario dalla Sua potentia. Il Dio tomista si trova a patire una discrasia cui nessuna ragione o volontà può porre rimedio: le possibilità che la Sua omnipotentia è libera di realizzare saranno inscritte in un orizzonte epistemico a tal punto necessario da non poter essere violato. Un brano tratto dalla Summa contra Gentiles è chiaro a riguardo: Poiché i principi di alcune discipline, come la logica, la geometra e l’aritmetica, sono desunti dai soli principi formali delle cose, dai quali dipende la loro essenza, Dio non può fare cose contrarie a questi principi: non può, ad esempio, far sì che il genere non sia predicabile della specie, o che le linee che vanno dal centro alla circonferenza non siano eguali, oppure che un triangolo non abbia i tre angoli uguali a due angoli retti (Summa contra Gentiles, II, 25)103.

103 «Cum principia quarundam scientiarum, ut logicae geometriae et arithmeticae, sumantur ex solis principiis formali bus rerum, ex quibus essentia rei dependet, sequitur quod contraria horum principiorum Deus facere non possit: sicut quod genus non sit predicabile de specie; vel quod lineae ductae a centro circumferentiam non sint aequales; aut quod triangulus rectilineus non habeat tres angelus aequales duo bus rectis», S. Thomas de Aquino, Summa contra Gentiles, II, 25, cit., pp. 329-330; trad. it. p. 309.

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Lo statuto ontologico delle verità eterne è vincolante per la potentia Dei. I principi matematici e logici rappresentano un limite necessario per qualsiasi volontà, compresa quella divina. Sebbene il contenuto di queste leggi non sia, nella ratio tomista, indipendente dalla cogitatio Dei, la loro condizione di possibilità non risiede in un decreto arbitrario, ma possiede quelle determinate caratteristiche dall’eternità. Il principio di non contraddizione, posto a tutela di siffatte verità, non è perciò una creatura divina, essendo piuttosto la legge che designa l’orizzonte della volontà e dell’intelletto di Dio. La persuasione che l’omnipotentia Dei non possa violare i dettami sanciti dal principium non è un’opinione difesa dal solo Tommaso; costituisce, al contrario, l’idem sentire della – quasi – totalità del pensiero medievale. Il giudizio di Enrico di Gand sulla relazione fra potenza divina e non contraddizione, ad esempio, si può desumere dall’analisi compiuta dal Doctor Solemnis sullo statuto ontologico da assegnare all’impossibilità. Nella terza quaestio del suo sesto Quodlibet104, forte della distinzione tra una potentia subiective e una potentia obiective, Enrico si interroga sull’origine di ciò che è giudicato impossibile. Ora, poiché l’impossibilità, lungi dal nominare alcunché di positivo, il cui fondamento sia magari riconducibile all’azione di una causa, non è altro che una semplice privazione, non può essere in alcun modo riferita a Dio secundum se105, bensì 104 Cfr. Henricus de Gandavo, Quodlibet VI, q. 3, in Opera Omnia (Vol. X), ed. G. A. Wilson, Leuven University Press, Leuven 1987, pp. 41-51. 105 «Descendendo ergo ad propositum dicimus de impossibili quod dicitur privative et realiter: non imponitur nisi a privatione eius quod est vere positivum – cuiusmodi est potentia activa aut passive –, quod in creaturis habet esse secundum se et per se et in respectu ad Deum, cui impossibile attribuitur ex respectu impossibilis in creatura ad ipsum, et nullo modo secundum se et ex se. Et sic modo converse, sicut possible simpliciter primo attribu-

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alle sole creature. Il fatto che esse siano figlie della potentia Dei, però, non significa che il loro stesso fondamento partecipi delle condizioni che rende possibili. D’altra parte, visto che una privazione può trovarsi in una data cosa senza che vi sia nel suo principio un difetto corrispondente, la causa dell’impossibilità non può essere necessariamente ricondotta all’incapacità dell’agente in questione. L’impossibilità, infatti, è tale di per se stessa, e non è il risultato di un deficit della potenza agente. Se il possibile è subordinato all’essentia Dei, l’impossibile è ciò che è indipendentemente dal concorso divino106: Dio non è dunque in grado di realizzare il contraddittorio perché ciò è absolute impossibile, e non a causa di un limite intrinseco alla Sua onnipotenza107. Nella terza quaestio del suo ottavo Quodlibet, Enrico torna ad occuparsi del medesimo problema, fornendo una soluzione all’apparenza differente. Il teologo di Gand distingue un impossibile obiective e un impossibile subiective: mentre il primo termine concerne l’impossibilità assoluta [«simpliciter»], itur Deo active secundum se, et ex hoc attribuitur creaturae posse passive secundum se primo et deinde in respectu ad Deum, ex quo demum attribuitur Deo in respectu ad creaturam, sicut iam dictum est, sic impossibile simpliciter primo attribuitur creaturae secundum se, et ex hoc in respectu ad Deum, ex quo demum attribuitur Deo in respectu ad creaturas, nullo autem modo attribuitur ipsi secundum se et ex se ipso», Ivi, pp. 46-47 (36-48). 106 «Positivum enim in essentia creaturae non est nisi a positivo in Deo, privativum vero in creatura, aut etiam pure negativum circa non creaturam, non est ab aliquo privativo vel negativo in Deo, sed ex se ipso, secundum quod malum et non ens privativum non habet nisi causam privativam», Ivi, pp. 49-50 (15-19). 107 «[…] Non posse facere contradictoria esse simul attribuitur Deo quia impossibile est quod ipsa in se recipiant simultatem, nec est huius aliqua ratio requirenda ex parte Dei, sive ex parte idearum sive alio modo, quia non habet rationem nisi pure privativam, quae ex parte Dei secundum se inveniri non potest», Ivi, p. 47 (53-57).

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che nemmeno Dio è nelle condizioni di realizzare, il secondo riguarda quell’impossibilità legata alla potentia di un agente determinato. In questa sede, l’origine dell’impossibilità sembra essere ricondotta ad una deficienza connessa alla potenza divina: non è più possibile sostenere che Dio non possa fare l’impossibile perché l’impossibile non può essere fatto; piuttosto, l’impossibile non può essere fatto per la semplice ragione che Dio non lo può fare108. Il fondamento dell’impossibilità è qui ricondotto nel cuore dell’onnipotenza divina. La dinamica presente nel corpus enrichiano non stravolge, tuttavia, il quadro d’insieme che stiamo iniziando a delineare. L’incapacità divina di dare vita a ciò che viola il principium firmissimum, custode ultimo dell’intelligibilità del creato, rappresenta infatti un presupposto sottratto ad ogni istanza critica. Anche Duns Scoto, mentre si interroga sull’eventualità di dare ragione dell’onnipotenza divina grazie alla sola ragione naturale, ci fornisce un quadro ben preciso di questo attributo109: In un altro modo, onnipotente si deve intendere nel suo significato propriamente teologico, in quanto è detto onnipotente chi può produrre ogni effetto e qualsiasi cosa possibile [«quodcumque possibile»] – cioè qualunque cosa non sia in se stessa necessaria o includa contraddizione [«quodcumque 108 «Non est verum dicere de impossibili simpliciter quod Deus non potest illud facere quia non potest fieri, sed potius non potest fieri quia Deus non potest facere, sicut et in affermativa non dicitur Deum possibile aliquid facere quia illud possibile est fieri, sed e converso quia Deus potest illud facere, ideo possibile est fieri», Henricus de Gandavo, Quodlibet VIII, q. 3, in Quodlibeta magistri Henrici Goethals a Gandavo doctoris solemnis, cit., fol. 304 vq. 109 Sul valore e la portata dell’onnipotenza in Scoto, cfr. È. Gilson, Giovanni Duns Scoto, cit., pp. 367-388.

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135 quod non est ex se necessarium nec includit contradictionem»] – immediatamente, senza la cooperazione di nessun altra causa agente (Ordinatio, I, dist. 42, q. unica)110.

Per il Dottor Sottile omnipotens è colui che, senza la cooperazione di altre cause, può portare immediatamente all’essere «quodcumque possibile», vale a dire tutto ciò che non implica contraddizione. La riflessione scotista conferma, benché all’interno di un quadro metafisico affatto differente, le stesse considerazioni svolte a suo tempo da Tommaso ed Enrico: la voluntas Dei non può violare i dettami del principium firmissimum. L’opinione di Scoto non cambia nemmeno dopo aver analizzato il dominio estensivo delle “due” potenze. È interessante notare che il Doctor Subtilis estende il valore della distinzione alle stesse creature: nella sua disamina, ogni soggetto può agire «secundum potentiam ordinatam», decidendo di uniformarsi alle regole istituite e, al tempo stesso, può agire «praeter illam legem vel contra eam», grazie alla sua potentia absoluta111. 110 «Alio modo “omnipotens” accipitur proprie theologice, prout omnipotens dicitur qui potest in omnem effectum et quodcumque possibile (hoc est in quodcumque quod non est ex se necessarium nec includit contradictionem), ita – inquam – immediate quod sine omni cooperatione cuiuscumque alterius causae agentis», Ioannes Duns Scotus, Utrum Deum esse omnipotentem possit probari naturali ratione, dist. 42, q. unica, n. 9, in Opera Omnia (Vol. VI), cit., p. 343. 111 «In omni agente per intellectum et voluntatem, potente conformiter agere legi rectae et tamen non necessario conformiter agere legi rectae, est distinguere potentiam ordinatam a potentia absoluta; et ratio huius est, quia potest agere conformiter illi legi rectae, et tunc secundum potentiam ordinatam […], et potest agere praeter illam legem vel contra eam, et in hoc est potentia absoluta, excedens potentiam ordinatam. Et ideo non tantum in Deo, sed in omni agente libere – qui potest agere secundum dictamen legis rectae et praeter talem legem vel contra eam – est distinguere inter potentiam ordinatam et absolutam; ideo dicunt iuristae quod aliquis hoc potest facere de facto, hoc est de potentia sua absolutam, – vel de iure, hoc est de

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L’analogia fra l’uomo e Dio, ad ogni modo, viene subito ridimensionata. In effetti, essendo Dio la condizione di ogni possibile ordine, non potrà mai agire «inordinate»; la singola creatura, al contrario, poiché non rappresenta la ragione ultima della legge, nel caso in cui violasse ciò che de facto e de iure è stato stabilito da Dio agirebbe al di fuori dell’ordo stabilito. La volontà divina può invece sottrassi ai vincoli legislativi che ha lei stessa liberamente istituito senza stravolgere l’ordine del mondo, giacché potrebbe stabilire un’altra legge, ugualmente retta, su cui uniformare la legalità del proprio volere112. Nella riflessione scotista, Dio è perciò libero di modificare le proporzioni mondane113: può sia uniformare le proprie azioni, de potentia ordinata, al dominio creaturale cui ha deciso di dare forma, sia cambiare, de potentia absoluta, il risultato della Sua stessa creatio. Tuttavia, qualora agisse al di fuori delle coordinate che Lui stesso ha creato, non per questo si

potentia ordinata secundum iura», Ioannes Duns Scotus, Utrum Deus posit aliter facere res quam ab ipso ordinatum est eas fieri, dist. 44, q. un., n. 3, in Opera Omnia (Vol. VI), cit., pp. 363-364. 112 «Sed quando in potestate agentis est lex et rectitudo legis, ita quod non est recta nisi quia statuta, tunc potest aliter agens ex libertate sua ordinare quam lex illa recta dictet; et tamen cum hoc potest ordinate agere, quia potest statuere aliam legem rectam secundum quam agat ordinate. Nec tunc potentia sua absoluta simpliciter excedit potentiam ordinatam, quia esset ordinata secundum aliam lehem sicut secundum priorem; tamen excedit potentiam ordinatam praecise secundum priorem legem, contra quam vel praeter quam facit», Ivi, dist. 44, q. un, n. 5, pp. 364-365. 113 Sulla concezione “operativa” della potentia absoluta posta a tema da Scoto, cfr. E. Randi, Ockham, John of XXII and the Absolute Power of God in «Franciscan Studies», 46, 1986, pp. 205-216; Id., A Scotist Way of Distinguishing between God’s Absolute and Ordained Power, in A. Hudson and M. Wilks (eds.), From Ockham to Wycliffe. Studies in Church History, Blackwell, Oxford 1987, pp. 43-50; Id., Il sovrano e l’orologiaio, cit., in part. pp. 51-77.

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comporterebbe «inordinate». Non vi è alcuna contraddizione, infatti, nel trasgredire l’ordine attuale. La volontà divina, del resto, è il fondamento di ogni legge possibile: la verità di qualunque statuto legislativo è così proporzionata a quell’atto volontario di cui Dio ha stabilito la legittimità. Il fatto che un’azione dell’Onnipotente non si uniformi all’ordo vigente non testimonia, quindi, alcuna irrazionalità nel piano provvidenziale disposto dalla prescienza divina. Il pensiero scotista esclude, ciò nonostante, che l’onnipotenza di Dio possa violare il dominio della non contraddizione: Dio, dunque, agendo secondo quelle leggi rette che sono state da lui stabilite, si dice che agisca secondo la sua potenza ordinata; potendo compiere anche molte altre cose che non si uniformano a quelle leggi già prefissate, ma sono diverse, si dice che agisca secondo la sua potenza assoluta: infatti, poiché Dio può fare qualunque cosa non includa contraddizione [«Deus quodlibet potest agere quod non includit contradictionem»], e può agire in qualsiasi modo non comporti contraddizione [«omni modo potest agere qui non includit contradictionem»], si dice pertanto che agisca secondo la sua potenza assoluta (Ordinatio, I, dist. 44, q. unica)114.

Il passo riportato conferma che la riflessione di Duns Scoto considera l’orizzonte della non contraddizione consunstanziale alla natura divina. Se Dio è libero di modificare lo scenario del mondo, non può, però, intervenire sui criteri di verità del

114 «Deus ergo, agere potens secundum illas rectas leges ut praefizae sunt ab eo, dicitur agere secundum potentiam ordinatam; ut autem potest multa agere quae non sunt secundum illas leges iam praefixas, sed praeter illas, dicitur eius potentia absoluta: quia enim Deus Quodlibet potest agree quod non includit contradictionem, et omni modo potest agree qui non includit contradictionem (et tales sunt multi modi alii), ideo dicitur tunc agree secundum potentiam absolutam», Ioannes Duns Scotus, dist. 44, q. un., n. 7, in Opera Omnia (Vol. VI), cit., pp. 365-366.

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discorso logico: è invece costretto a testimoniarli, rapportando la propria voluntas alle leggi della Sua cogitatio. La posizione di Guglielmo di Ockham non si discosta, nella sostanza, da simili conclusioni115. Il Venerabilis Inceptor si occupa del tema in una quaestio dei suoi Quodlibeta, sostenendo che la distinzione fra le due potenze sia soltanto un «modus loquendi»: Dio non può fare alcune cose de potentia ordinata, ed altre in virtù della sola potentia absoluta, poiché non può agire, a differenza di quanto pensava Scoto, al di fuori dell’ordine stabilito116. La potenza assoluta divina si riferisce dunque a quel non contraddittorio insieme di possibilità da cui Dio avrebbe potuto attingere prima della creatio; ad ogni modo, come ha messo bene in luce William J. Courtenay117, una volta decisosi a re-

115 Cfr., ad esempio, M. A. Pernoud, The Theory of the Potentia Dei according to Aquinas, Scotus and Ockham in «Antonianum», XLII, 1972, pp. 6995. Un’interpretazione differente è invece fornita da D. W. Clark, Ockham on Human and Divine Freedom in «Franciscan Studies», XXXVIII, 1978, pp. 122-160. 116 «Circa primum dico quod quaedam potest Deus facere de potentia ordinata et aliqua de potentia absoluta. Haec distinctio non est sic intelligenda quod in Deo sint realiter duae potentiae quarum una sit ordinata et alia absoluta, quia unica potentia est in Deo ad extra, quae omni modo est ipse Deus. Nec sit est intelligenza quod aliqua potest Deus ordinata facere, et aliqua potest absolute et non ordinata, quia Deus nihil potest facere inordinate […]. Cum enim Deus sit aequalis potentiae nunc sicut prius, et aliquando aliqui introierunt regnum Dei sine omni baptismo, sicut patet de pueris circumcisis trmpore Legis defunctis antequam haberent usum rationis, et nunc est hoc possibile. Sed tamen illud quod tunc erat possibile secundum leges tunc institutas, nunc non est possibile secundum legem iam institutam, licet absolute sit possibile», Guillelmus de Ockham, Utrum homo possit salvari sine caritate creata, Quodl. VI, q. 1, a. 1, in Quodlibeta Septem. Opera Theologica (Vol. IX), ed. J. C. Wey, St. Bonaventure, New York 1980, pp. 585-586. 117 W. J. Courtenay, Nominalism and Late Medieval Religion, in H. A.

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alizzare questo mondo, Dio non agisce se non in virtù della Sua potentia ordinata. La distinzione fra le due potenze è di natura meramente euristica, utile per porre un argine teologico alla traduzione della causalità aristotelica operata in ambito averroista118. Siamo perciò di fronte ad un semplice espediente formale, necessario per non circoscrivere la volontà divina nello spazio finito della creatio mondana119: Il poter qualcosa a volte può essere considerato secondo le leggi ordinate e istituite da Dio [«secundum leges ordinata et

Oberman and C. Trinkhaus (eds.), The Pursuit of Holiness in Late Medieval and Renaissance Religion, Brill, Leiden 1974, pp. 26-59, in part. pp. 37-43; cfr. Id., The Dialectic of Omnipotence in High and Late Middle Ages, in T. Rudavsky (ed.), Divine Omniscience and Omnipotence in Medieval Philosophy, Dordrecht 1985, pp. 243-269, in part. pp. 254-256. 118 Cfr. L. Bianchi, Il Vescovo e i filosofi. La condanna parigina e l’evoluzione dell’aristotelismo scolastico, Lubrina, Bergamo 1990, in part. pp. 63-105. 119 È proprio questa ragione che spinge Ockham a criticare Giovanni XXII. Il Papa, infatti, secondo l’opinione del Venerabilis Inceptor, rifiutando il valore, seppur formale, della distinzione, finirebbe implicitamente per equiparare l’azione della potentia Dei a quella di una causa naturale e necessaria: la dottrina difesa dal Giovanni II, dunque, «patenter asserit, non latenter, quod Deus non potest aliquid facere de potentia absoluta, quod non facit de potentia ordinata, quia omnia sunt ordinata a Deo. Ex quo sequitur evidenter quod nulla creatura potest aliquid facere, quod non facit; et ita omnia de necessitate eveniunt et nihil penitus contingeret, sicut quamplures infedele et antiqui haeretici docuerunt, et adhuc occulti haeretici et laici et vetulae tenent», Guillelmus de Ockham, Tractatus Contra Benedictum, III, 3, in Opera Politica (Vol. III), ed. H. S. Offler, Manchester 1961, p. 231. Tuttavia, come ha messo meritoriamente in luce Eugenio Randi, è probabile che le motivazioni che avevano spinto Giovanni XXII a diffidare della liceità della distinzione fossero ben diverse da quelle attribuitegli da Ockham, facendo così presagire il comune rifiuto di un’accezione scotista, e quindi radicalmente contingentista, della distinzione stessa. Cfr. E. Randi, Il rasoio contro Ockham? Un sermone inedito di Giovanni XXII in «Medioevo», 11, 1983, pp. 179-198.

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140 institutas a Deo»], e queste sono le cose che Dio può fare con la sua potenza ordinata [«de potentia ordinata»]. Il potere, però, può essere considerato in un altro modo, riferendosi a tutto ciò che non è contraddittorio che sia prodotto [«omne quod non includit contradictionem fieri»], sia che Dio abbia stabilito di produrlo sia che non lo abbia deciso, giacché Dio può fare molte cose che non vuol fare (Quodl. VI, q. 1, a. 1)120.

È possibile trovare una riprova del valore vincolante del principium in un altro luogo dell’opera ockhamiana incentrato sulla possibilità di una conoscenza intuitiva del non esistente121. Secondo il Venerabilis Inceptor, ogni singola individualità è un fatto atomico. L’ente è svincolato da qualsiasi struttura archetipale che ne minacci l’individualità, essendo esclusivamente legato al libero arbitrio della volontà divina122; l’onnipotenza di Dio può allora sottrarre ogni ente al suo sistema di relazioni. 120 «Posse aliquid quandoque accipitur secundum leges ordinatas et institutas a Deo, et illa dicitur Deus posse facere de potentia ordinata. Aliter accipitur “posse” pro posse facere omne illud quod non includit contradictionem fieri, sive Deus ordinaverit se hoc facturum sive non, quia multa potest Deus facere quae non vult facere», Guillelmus de Ockham, Quodl. VI, q. 1, a., 1, in Quodlibeta Septem, cit., p. 586. 121 Guillelmus de Ockham, Utrum sit possibile intellectum viatoris habere notizia evidentem de veritatibus theologiae, q. 1, a. 1, in Scriptum in Librum Primim Sententiarum. Prologus et Distinctio Prima. Opera Theologica (Vol. I), ed. G. Gál et S. Brown, St. Bonaventure, New York 1967, pp. 16-47; cfr. Guillelmus de Ockham, Utrum cognitio intuitiva possit esse de obiecto non existente, Quodl. VI, q. 6, in Quodlibeta Septem, cit., pp. 604-607. 122 Il nominalismo è perciò una diretta conseguenza dell’enfasi ockhamiana sul ruolo ricoperto dalla potentia Dei all’interno della sua prospettiva teologica e filosofica. A questo proposito, cfr., fra gli altri, L. Baudry, Le Tractatus de Principiis Theologiae attribué a G. d’Occam, Vrin, Paris 1936, in part. pp. 39-40; H. A. Oberman, Some notes on the Theology of Nominalism with attention to its Relation to the Renaissance in «The Harvard Theological Review», LII, 1959, pp. 47-76; M. A. Pernoud, Innovation in William of Ockham’s References to the Potentia Dei in «Antonianum», XLV, 1970, pp. 65-97. Cfr. inoltre (ma solamente su questo particolare aspetto), A. de

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Ora, se esiste una differenza fra la conoscenza intuitiva di un oggetto e l’oggetto intuito, e se Dio, inoltre, può sottrarre ad ogni res l’insieme dei suoi riferimenti immediati, non si può escludere che il fatto assoluto [«res absoluta»] rappresentato dalla conoscenza intuitiva di un oggetto possa esistere senza che l’oggetto sia presente, giacché la rappresentazione sensibile del colore [«visio coloris sensitiva»] può, ad esempio, essere conservata da Dio anche se il colore non esiste, essendo le due cose affatto distinte123. Quello su cui dobbiamo interrogarci è dunque l’eventualità che Dio, de potentia absoluta, consenta all’uomo di cogliere, grazie ad una conoscenza intuitiva, legata alla presenza immediata dell’ente, l’esistenza di un oggetto attualmente non esistente. Tuttavia, ciò non significa certo rendere presente alla

Muralt, Epochè – Malin Génie – Théologie de la toute puissance divine. Le concept objectif sans l’objet in «Studia Philosophica», 26, 1966, pp. 159-191, in part. pp. 180-182. 123 «Ex istis sequitur quod notitia intuitiva, tam sensitiva quam intellectiva, potest esse de re non exsitente. Et hanc conclusionem probo, aliter quam prius, sic: omnis res absoluta, distincta loco et subiecto ab alia re absoluta, potest per divinam potentiam absolutam exsistere sine illa, quia non videtur verisimile quod si Deus vult destruere uanm rem absolutam exsistentem in caelo quod necessitetur destruere unam aliam rem exsistentem in terra. Sed visio intuitiva, tam sensitiva quam intellectiva, est res absoluta, distincta loco et subiecto an obiecto. Sicut si videam intuitive stellam exsistentem in caelo, illa visio intuitiva, sive sit sensitiva sive intellectiva, distinguitur loco et subiecto ab obiecto viso; igitur ista visio potest manere stella destructa; igitur etc. Patet etiam ex praedictis quomodo Deus habet notizia intuitivam omnium, sive sint sive non sint, quia ita evidenter cognoscit creaturas non esse quando sunt, sicut conoscit eas esse quando sunt. Patet etiam quod res non exsistens potest cognosci intuitive, quantumcumque primum obiectum illius actus non esista – contra opinionem ali quorum –, quia visio coloris sensitiva potest copnservari a Deo ipso colore non esistente; et tamen ista visio terminator ad colorem tamquam ad primum obiectum, et eadem ratione visio intellectiva», Guillelmus de Ockham, q. 1, a. 1, in Scriptum in Librum Primim Sententiarum, cit., pp. 38-39.

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conoscenza umana ciò che è, simul, assente; qualora agisse in tal modo, infatti, Dio indurrebbe in errore la propria creatura, generando un’apprensione contraddittoria. Questa possibilità, a dispetto delle apparenze, non stravolge l’impianto del nostro sapere124. Una simile evenienza è infatti già relata ad un vincolo determinato: la conoscenza intuitiva di una res non esistente è ipotizzabile soltanto perché la sua realizzazione non appare contraddittoria. È in questo contesto che va collocata la quaestio ockhamiana: Di nessun assoluto, realmente distinto da un altro assoluto, si deve negare che possa esistere senza di esso per opera della potenza di Dio [«per divinam potentiam absolutam»], salvo che non appaia una contraddizione evidente [«nisi appareat evidens contradictio»]. Ma non c’è un’evidente contraddizione che vi sia il giudizio che segue l’apprensione, e tuttavia che non ci sia l’apprensione (In I Sent., Prol., q. 1, a. 6)125.

124 L’idea che il volontarismo divino posto a tema da Ockham potesse implicare una deriva scettica è un’opinione che ha avuto una certa fortuna nella storiografia ockhamiana. Cfr., ad esempio, N. Abbagnano, Guglielmo di Ockham, Lanciano 1931; C. Giacon, Guglielmo di Occam. Saggio storico-critico sulla formazione e sulla decadenza della Scolastica (II Voll.), Vita e Pensiero, Milano 1941; K. Michalski, La Philosophie au XIVᵉ siècle, Frankfurt 1969. Sulla necessità di rifiutare invece qualunque velato scetticismo, si vedano i contributi di P. Boehner, The notitia intuitiva of nonexistents According to W. Ockham, in Id., Collected articles on Ockham, St. Bonaventure, New York 1958, pp. 268-292; F. Corvino, L’influenza di Giovanni Duns Scoto sul pensiero di Guglielmo di Ockham, in Id., Studi di filosofia medievale, Adriatica, Bari 1974, in part. pp. 220-225; A. Ghisalberti, L’intuizione in Ockham in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», LXX, 1978, pp. 207-226. 125 «De nullo absoluto realiter distincto ab alio absoluto debet negari quin possit fieri sine eo per divinam potentiam absolutam nisi appareat evidens contradictio. Sed non apparet evidens contradictio quod iudicium sequens apprehensionem sit, et tamen quod apprehensio non sit», Guillelmus de Ockham, q. 1, a. 6, in Scriptum in Librum Primim Sententiarum, cit., p. 59.

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Anche per il Venerabilis Inceptor, la voluntas Dei è costretta, di necessità, a riconoscere il valore fondante del principium. Non è l’onnipotenza divina a rendere possibile l’intuizione di un oggetto non esistente, bensì è la non contraddittorietà di una simile occorrenza che permette a Dio di realizzare questa possibilità. Dio può ciò che può non solamente perché libero di manifestarsi nella Sua sovrana omnipotentia, bensì poiché non è immediatamente contraddittorio che ciò possa accadere. Ockham, pertanto, lungi dall’essere il fautore di un volontarismo assoluto, si mantiene in piena continuità con la tradizione precedente: anche nella sua riflessione, l’onnipotenza di Dio è relegata all’interno di un dominio che delimita le condizioni del Suo agire126. Gli autori sin qui citati – solo alcuni fra i tanti che avremmo potuto ricordare –, si muovono all’interno di un orizzonte comune, e ciò a dispetto delle radicali differenze che li dividono. Le condizioni ultime della ratio entis non sono disposte liberamente dall’arbitrio divino, ma sono determinate ab eterno, in virtù della loro intrinseca necessità. La ragione necessaria che governa le proporzioni logiche ed epistemiche di ogni creatio possibile non è a disposizione della voluntas Dei. Dio non può perciò creare un mondo che non sia regolato dal principium firmissimum: l’onnipotenza di questo Dio può manifestare la propria essentia in uno spazio già da sempre circoscritto. È anche contro questa persuasione che Descartes elabora una teoria sulla libera creazione delle verità eterne in cui l’omnipotentia Dei sia accolta nella sua massima estensione. Per il filosofo francese, il libero esercizio della volontà divina non è

126 Cfr. L. Urban, William of Ockham’s Theological Ethics in «Franciscan Studies», 33, 1973, pp. 310-350.

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stato limitato da alcuna rationem veri et boni127: pensare realmente la potentia Dei significa riflettere sulla sua absoluta indifferenza, poiché «la somma indifferenza in Dio [«summa indifferentia in Deo»] è un argomento decisivo a favore della sua onnipotenza [«est ejus omnipotentiae argumentum»]» (VI Resp., n. 6, B Op I, p. 1225; AT, VII, p. 432). In effetti, se Dio non fosse stato indifferente alla totalità delle alternative possibili, essendo piuttosto guidato da dei criteri indipendenti dalla Sua voluntas, soltanto a torto avremmo potuto definirlo onnipotente, giacché avrebbe patito la realtà di un positum necessario di per se stesso, privo del contributo della creatio divina. Per Descartes il contenuto di ogni legge e verità è possibile, e in grado di acquisire una propria intrinseca necessità, solo in virtù di un fiat assolutamente arbitrario. Qualunque verità è dunque necessaria alla luce di un atto gratuito, svincolato da ogni principio che non sia figlio di una decisione sovrana. Il principio di non contraddizione, quel principium che governa lo spazio della nostra riflessione, è perciò creato, liberamente, e quindi capace di imporre la necessità del suo imperium all’interno di un orizzonte affatto circoscritto. Il problema della contraddizione, ripensato attraverso la teoresi cartesiana, è qualcosa che ha a che fare soltanto con la finitezza costitutiva della nostra ragione; è però lontano dal riguardare l’essentia Dei, essendo il prodotto non necessario di una potenza incomprensibile. Descartes è consapevole di non dover trasgredire lo spazio limitato della sua cogitatio, giudicando delle possibilità che la potentia Dei può realizzare in vista di ciò che appare possibile all’uomo. Tutto quello che «implica contraddizione nel 127 Cfr. R. Descartes, VI Resp., n. 8, B Op I, p. 1229; AT, VII, p. 435.

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concetto [«involvere contradictionem in conceptu»]» (B Op n. 665, p. 2581; AT, V, p. 223), non può costituire un termine di paragone per la volontà divina, universalmente libera di trasgredire quei principi che ha voluto rendere necessari. L’intelletto umano non è autorizzato ad escludere alcuna opzione; può solo limitarsi a riconoscere che Dio ha deciso che l’uomo non potesse concepire, senza contraddizione, l’accadere di simili eventualità. Il Dio di Descartes, pertanto, non patisce alcun vincolo, essendo la ratio ultima di ogni verità. Questa concezione sancisce l’abbandono della tradizione precedente, e consegna al dibattito del tempo una teoria letteralmente inaudita. Indugiando ancora un poco nell’ambito medievale, è possibile trovare un’eccezione al quadro appena tracciato. Nel De Divina Omnipotentia, infatti, Pier Damiani ha rifiutato di ricondurre la potentia Dei nel dominio sancito dal principio di non contraddizione128. Il monaco ravennate, protagonista indiscusso di un secolo segnato dallo scontro fra i dialectici e i loro avversari, ha presentato una teoria ben diversa da quella che sarà canonizzata dal magistero di Tommaso d’Aquino.

128 Un’interpretazione differente è sostenuta da P. Remnant, Peter Damian: Could God Change the Past? in «Canadian Journal of Philosophy», n. 8, 1978, pp. 259-268 e da L. Moonan, Impossibility and Peter Damian in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 62, 1980, pp. 146-163; per una lettura del De Divina Omnipotentia in linea con quella presentata in queste pagine, cfr. invece R. P. McArthur – M. P. Slattery, Peter Damian and Undoing the Past in «Philosophical Studies», 25, 1974, pp. 137-141; I. M. Resnick, Divine Power & Possibility in St. Peter Damian’s De Divina Omnipotentia, Brill, Leiden-New York-Boston 1992, in part. pp. 98-111; R. Gaskin, Peter Damian on Divine Power and the Contingency of the Past in «British Journal for the history of Philosophy», 5, 1997, pp. 229-247. Per uno sguardo più ampio sull’opera di Damiani e sulla questione dell’onnipotenza, ci permettiamo di rinviare a A. Gatto, Pier Damiani. Una teologia dell’onnipotenza, Aracne, Roma 2013.

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Il contenuto del testo inviato all’abate Desiderio e ai monaci del cenobio benedettino di Montecassino è una risposta critica e salace nei confronti di quell’ars dialectica che si stava imponendo nel dibattito culturale dell’XI secolo. La diffusione delle traduzioni e delle opere boeziane, unita ai suoi commenti alle opere aristoteliche, ai testi di Marziano Capella, Alcuino e molti altri, avevano stimolato uno sviluppo degli studi intorno all’ars disserendi. I cosiddetti dialectici, forti di queste letture, erano convinti che le regole della logica, lungi dall’essere il prodotto contingente di una scelta divina, fossero eterne e necessarie. La stessa verità dei contenuti di fede, quindi, avrebbe dovuto essere soggetta al vaglio critico di questa “nuova” arte discorsiva, affinché potesse vedersi riconosciuta una qualche legittimità. La radicalità di queste convinzioni non poteva certo lasciare indifferente una personalità come Pier Damiani, molto critico nei confronti di un’impostazione che rischiava di compromettere parte dei dogmi su cui si fondava la tradizione cristiana. Un’analisi intorno all’onnipotenza divina si rivela così lo strumento idoneo per dimostrare ai dialettici del tempo la validità finita della logica umana. Agli occhi del monaco ravennate, la dialettica è incapace di conchiudere nelle maglie discorsive dei suoi sillogismi l’infinita essentia di Dio. Il confronto con Desiderio, il futuro Papa Vittore III, nasce proprio dalla necessità di difendere la trascendenza di una verità che, dando origine alle regole che guidano l’ars dialectica, non può mai essere vincolata e circoscritta nella ratio di una Sua creatura. Il motivo scatenante della disputa è la corretta interpretazione di un passo di San Girolamo: «Cum omnia possit Deus, suscitare virginem non potest129». Il problema, in sostanza, consiste 129 San Girolamo, Ep. XXII ad Eustochium, V, PL 22, 397.

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nel sapere se l’onnipotenza divina sia in grado di restituire la verginità ad una donna che l’ha perduta. Dopo Damiani, la stessa questione sarà affrontata anche dall’Aquinate nei suoi Quodlibeta [«Utrum Deus possit virginem corruptam reparare130»]. La risposta del magister domenicano alla suddetta quaestio testimonia la distanza che ormai divideva il pensiero tomista dalle riflessioni di Damiani131. Vi sono, secondo Tommaso, due differenti possibilità di analizzare il problema: si può considerare l’integrità perduta della mente e del corpo, o fare riferimento alla causa che ha direttamente corrotto quella «mulier virgo». Ora, se la prima delle due alternative è possibile a Dio, che «per gratiam» può reintegrare la mente e «per miraculum»

130 S. Thomas de Aquino, Quaestiones quodlibetales, Quodl. V, q. 2, a. 1, cit.; trad. it. pp. 504-507. 131 Il problema sollevato da Pier Damiani sarà discusso anche da Anselmo d’Aosta (cfr. F. Corvino, Necessità e libertà di Dio in Pier Damiani e in Anselmo d’Aosta, in Id., Studi di filosofia medievale, cit., pp. 97-122), e continuerà a rappresentare un importante riferimento critico per tutta la tradizione successiva, almeno fino alla metà del XIV secolo (cfr., ad es., la posizione di Giovanni di Mirecourt analizzata da W. J. Courtenay, John of Mirecourt and Gregory of Rimini on Whether God Can Undo the Past in «Recherches de Théologie ancienne et médiévale», 39, 1972, pp. 224-25). Poiché la restituzione della verginità perduta sembrava implicare la contingenza dell’attuale corso temporale, la quasi totalità dei teologi ha sempre rifiutato una simile possibilità, preferendo mantenere ferma, come criterio giuda, l’immutabilità di Dio. Il problema principale, dunque, era quello di salvaguardare l’essentia Dei escludendo quelle azioni che solo impropriamente potevano essere considerate diretta manifestazione della Sua omnipotentia. L’itinerario concettuale di Anselmo, dal Proslogion (c. VII), passando per il De Casu Diaboli (c. XII) fino al Cur Deus Homo (II, 10 e 17), è un perfetto esempio di questa esigenza. Cfr., a questo proposito, W. J. Courtenay, Necessity and Freedom in Anselm’s Conception of God in «Analecta Anselmiana», IV/2, 1975, pp. 39-64.

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consolidare il corpo, la seconda è, al contrario, assolutamente impossibile, poiché neppure Dio può far sì che ciò che è stato fatto non sia accaduto. Il campo di estensione della potentia Dei, infatti, è limitato, come ben sappiamo, all’ente nella sua totalità, la potenza divina non potendo realizzare il contraddittorio132. Nonostante la questione sia identica, i presupposti della riflessione di Pier Damiani sono ben differenti da quelli all’opera nella responsio tomista. Secondo i dialectici, Dio non è in grado di rendere nuovamente vergine una donna poiché la volontà divina, al pari di ogni altra creatura, deve rispettare i dettami del più saldo dei principi. Per il monaco ravennate, tuttavia, questa non è una ragione sufficiente per escludere una simile possibilità: l’uomo, rimanendo fedele alle regole del suo intelletto, non è autorizzato a pensare che la potentia Dei sia impotente di fronte alla contraddizione solo perché

132 Cfr. S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 25, a. 4, ad 1-3, cit., p. 296 (trad. it. p. 304): «Ad primum ergo dicendum quod, licet praeterita non fuisse sit impossibile per accidens, si consideretur id quod est praeteritum, idest cursus Socratis; tamen, si consideretur praeteritum sub ratione praeteriti, ipsum non fuisse est impossibile non solum per se, sed absolute, contradictionem implicans. Et sic est magis impossibile quam mortuum resurgere, quod non implicat contradictionem, quod dicitur impossibile secundum aliquam potentiam, scilicet naturalem. Talia enim impossibilia divinae potentiae subdntur. Ad secundum dicendum quod sicut Deus, quantum est ad perfectionem divinae potentiae, omnia potest, sed quaedam non subiacent eius potentiae, quia deficiunt a ratione possibilium; ita, si attendatur immutabilitas divinae potentiae, quidquid Deus potuit, potest; aliqua tamen olim habuerunt rationem possibilium, dum erant fienda, quae iam deficiunt a ratione possibilium, dum sunt facta. Et sic dicitur Deus ea non posse, quia ea non possunt fieri. Ad tertium dicendum quod omnem corruptionem mentis et corporis Deus auferre potest a muliere corrupta, hoc tamen ab ea removeri non poterit, quod corrupta non fuerit. Sicut etiam ab aliquo peccatore auferre non potest quod non peccaverit, et quod caritatem non amiserit».

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una simile evenienza non è compatibile con le ragioni che regolano la sua conoscenza. I limiti imposti da una logica fondata sul principium firmissimum sono destinati, infatti, a perdere ogni valore, non appena vengano commisurati all’onnipotenza infinita di Dio: Come Dio ha potuto far sì, prima che le cose fossero, che non esistessero, può ugualmente far sì, anche in questo momento [«et nunc»], che non siano esistite le cose che sono esistite […]. Pertanto, se l’onnipotenza è coeterna a Dio [«omnia posse coaeternum est Deo»], Dio ha potuto far sì che ciò che è esistito non sia esistito [«potuit Deus ut quae facta sunt non fuerint»]. È dunque opportuno affermare costantemente e fedelmente che Dio, essendo considerato onnipotente, può veramente qualunque cosa [«ueraciter omnia possit»], senza alcun tipo di eccezione, sia riguardo a ciò che è esistito, sia riguardo a ciò che non è esistito (De Div. Omnip., 619 d – 620 b)133.

Nelle analisi di Pier Damiani la volontà di Dio non conosce alcun limite. Non esiste nulla che possa vincolare la potentia Dei: nemmeno il principio di non contraddizione è in grado di costituire un argine necessario al libero dispiegarsi dell’onnipotenza divina. La potenza infinita di questo Dio può allora «rendere vergine qualsiasi donna, fosse pure di molti mariti,

133 «Sicut ergo potuit Deus, antequam quaeque facta sunt, ut non fierent, ita nichilominus potest et nunc ut quae facta sunt non fuissent […]. Si itaque omnia posse coaeternum est Deo, potuit Deus ut quae facta sunt facta non fuerint. Constanter igitur et fideliter adserendum quia Deus, sicut omnipotens dicitur, it asine ulla prorsus exceptione ueraciter omnia potest, siue in his quae facta sunt, siue in his quae facta non sunt», Petrus Damianus, De Divina Omnipotentia, In Reparatione Corruptae et factis infectis reddensis, PL 145, 595 – 622, cit. 619 d – 620 b; intr. et trad. fr. par A. Cantin, Pierre Damien, Lettre sur la toute-puissance divine, Les Éditions du Cerf, Paris 1972, pp. 477-479; intr. e trad. it di A. Gatto, con un saggio di A. Tagliapietra, Pier Damiani, L’onnipotenza divina, ll Prato, Padova 2013, pp. 193-195.

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e ripristinare nella sua stessa carne, come se fosse uscita dal ventre materno, il sigillo della sua integrità» (Ivi, 601 b). Del resto, suggerisce il monaco, «come non potrebbe Dio restituire la verginità a colei che l’ha perduta, considerando che egli è onnipotente e che si tratta di una cosa buona?134» (Ivi, 600 b). La seconda premessa dell’argomentazione, vale a dire la bontà connaturata alla possibilità in esame, stravolge, in realtà, l’assolutezza del volere divino, imponendogli un limite ben determinato. Dio può rendere nuovamente vergine una donna, facendo in modo che ciò che è accaduto non sia mai accaduto, non in virtù della Sua sola onnipotenza, bensì perché una tale cosa è in se stessa buona. In un passo successivo dell’opera, Damiani ritorna ad esaminare il problema, rendendo più esplicita la medesima soluzione: Dal momento che Dio può tutto, perché dubiti che Dio possa fare in modo che qualche cosa, al tempo stesso, sia e non sia [«simul sit et non sit»], se è un bene che ciò accada [«si hoc fieri bonum est»]? Del resto, se è inutile che una qualsiasi cosa resti confusa fra l’essere e il non essere, è pur vero che Dio non fece alcunché di inutile, ma solo cose buone [«bona omnia fecit»]. Anzi, se è un male, e perciò un niente, Dio non lo fa affatto (Ivi, 608 d)135.

Il monaco ravennate sostiene che la voluntas Dei non sia vincolata al principium firmissimum. La Sua potentia può trasgredire, in ogni momento, le deduzioni messe in campo dalla

134 Ivi, rispettivamente pp. 123 e 119. 135 «Cum ergo Deus omnia possit, cur addubitas Deum hoc posse ut aliquid simul sit et non sit, si hoc fieri bonum est? Porro si si inutile est res quaslibet inter esse et non esse confundi, Deus autem non inutilia, sed bona omnia fecit. Immo, si malum est ac per hoc nichil est, hoc Deus omnino non facit», Ivi, p. 151.

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ragione umana; tuttavia, Dio non dispone, absolute, del principio di non contraddizione. In verità, l’onnipotenza divina è libera di sottrarsi alle leggi che ha istituito solamente se è un bene che ciò accada. La natura morale di Dio è dunque la precondizione necessaria di ogni teofania. Dio è in grado di violare i limiti che ha imposto all’intelletto delle proprie creature, dimostrando la finitezza delle loro categorie, soltanto se questa possibilità non contraddice il nucleo più profondo della Sua stessa essentia. La bontà si rivela la ragione ultima, necessaria e increata, della volontà divina. In Pier Damiani è all’opera, seppur in un contesto assai differente, quella stessa persuasione che detterà l’agenda di tutte le riflessioni successive: l’estensione della potentia Dei è legata a dei paradigmi eterni e indipendenti. Per l’intera tradizione medievale, quindi, Dio non è mai realmente absolutus. Il pensiero di Descartes rifiuta in modo consapevole questi presupposti. Per il filosofo francese, la voluntas Dei è assolutamente indifferente: se la creatio fosse stata guidata da delle ragioni eterne, non potremmo certo discorrere in modo legittimo di una potentia libera e incomprensibile. Ecco il motivo per cui Non si può fingere alcun bene, o vero [«nullum bonum, vel verum»], o alcunché da credere, o da fare, o da omettere la cui idea sia stata nell’intelletto divino prima che la sua volontà si determinasse a far sì che fosse tale. E non parlo qui di precedenza nel tempo: non vi è stata prima neppure per ordine, o per natura o, come dicono, per ragione ragionata [«ratione ratiocinata»], così che, cioè, questa idea del bene [«ista boni idea»] abbia spinto Dio a scegliere una cosa piuttosto che un’altra (VI Resp., n. 6, B Op I, p. 1225; AT, VII, p. 432).

Il Dio cartesiano non agisce conformandosi ad una ragione indipendente: la sua voluntas non patisce nessun vincolo, né

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morale, né metafisico o logico, poiché, come il filosofo suggerisce ad Arnauld, «tutto ciò che vi è di vero e di bene [«omnis ratio veri et boni»] dipende dalla sua onnipotenza» (B Op n. 665, p. 2581; AT, V; p. 224). In effetti, Se una qualche ragione di bene [«ratio boni»] avesse preceduto la sua preordinazione, essa lo avrebbe determinato a fare l’ottimo; ma, al contrario, è perché si è determinato a fare le cose che ora esistono che esse – come è scritto nella Genesi – sono molto buone [«sunt valde bona»], il che vuol dire che la ragione della loro bontà [«ratio eorum bonitatis»] dipende dal fatto che egli ha voluto farle così (VI Resp., n. 8, B Op I, p. 1229; AT, VII, pp. 435-436. Il corsivo è nel testo).

Dio non crea il mondo perché guidato da una ratio boni, da un paradigma morale preesistente e vincolante. Al contrario, la bontà che la ragione umana ritiene connaturata all’essentia divina è il libero risultato dell’omnipotentia Dei. I modelli connessi alla nostra visione dell’etica hanno perciò acquisito la loro intrinseca necessità in virtù di una decisione arbitraria. Ciò che ora è buono, dunque, può dirsi tale soltanto perché così è stato stabilito. Dio, infatti, era libero, nella Sua sovrana indifferenza, di creare altre verità, consegnando al mondo differenti proporzioni morali. Il Dio cartesiano non sembra essere allora – necessariamente – un buon Dio, visto che la moralità connessa alle nostre azioni è figlia di una potentia che avrebbe potuto rivelarsi altrimenti. Queste considerazioni rappresentano una radicale presa di distanza da tutta la tradizione medievale. Anche chi, come Pier Damiani, rifiutava di consegnare l’agire di Dio al dominio del principium, finiva per limitare l’onnipotenza divina, commisurando lo spettro del Suo possibile volere ad un paradigma morale determinato.

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A tale proposito, è interessante soffermarsi sul problema dell’odium Dei, tema caratteristico di tutta la tradizione ockhamiana. Una simile questione, lungi dal suggerire un’interpretazione volontaristica dell’etica di Ockham136, è perfettamente congruente con l’idem sentire della riflessione medievale. Il Venerabilis Inceptor ha analizzato questa possibilità in molti luoghi della sua opera, fornendo, almeno all’apparenza, delle risposte mutualmente incompatibili137. Mentre in un passaggio del suo commento alle Sentenze Ockham sostiene che Dio può ordinare ad una creatura di odiarlo [«Deus potest praecipere quod voluntas creata odiat eum»], ottenendo ciò che vuole [«igitur voluntas creata potest hoc facere138»], nei Quodlibeta il francescano sembra invece escludere una simi-

136 Non è dunque neppure necessario interrogarsi, come fa invece David W. Clark, Voluntarism and Rationalism in the Ethics of Ockham in «Franciscan Studies», IX, 1971, pp. 72-87, su quelle interpretazioni che hanno tentato, erroneamente, di definire il pensiero ockhamiano secondo categorie “volontariste” o “razionaliste”; in realtà, i vari passaggi citati nel saggio, lungi dal potersi prestare ad apposte letture, sono perfettamente congruenti fra loro. Il “volontarismo” che Clark sembra rintracciare in Ockham, applicando alla riflessione del Venerabilis Inceptor modelli che appartengono alla tradizione scotista, si rivela un insieme vuoto. La volontà di Dio, infatti, non è mai in Ockham realmente ab-solta dalla concretezza del Suo aver già agito. 137 Cfr. A. Ghisalberti, Guglielmo di Ockham, Vita e Pensiero, Milano 1996, in part. pp. 231-232. Ghisalberti è tornato in seguito ad esaminare la riflessione ockhamiana, modificando i suoi precedenti giudizi: cfr. Id., Amore di Dio e non contraddizione: L’essere e il bene in Guglielmo di Ockham, in L. Bianchi (a c. di), Filosofia e teologia nel trecento. Studi in ricordo di Eugenio Randi, Louvain-La-Neuve 1994, pp. 65-83. 138 Guillelmus de Ockham, Quaero utrum voluntas beata necessario fruatur Deo, q. XVI, in Quaestiones in Librum Quartum Sententiarum (Reportatio). Opera Theologica (Vol. VII), ed. R. Wood et G. Gál, St. Bonaventure, New York 1984, p. 352.

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le eventualità, almeno considerando l’attuale configurazione della volontà umana139. A dispetto delle apparenze, è possibile dimostrare la sostanziale compatibilità delle due formulazioni, facendo emergere il quadro metafisico sotteso alla morale ockhamiana. Nel suo commento al lavoro di Lombardo, Ockham ci fornisce, in una quaestio di particolare interesse140, le linee guida per comprendere in modo adeguato il suo pensiero. Il teologo francescano è convinto, forte del suo approccio nominalista, che l’«actum odiendi Deum» possa essere separato dalle connotazioni morali che solitamente lo accompagnano. La potentia divina è perciò in grado di causare ciò che vi è di assoluto nell’atto di odiare Dio [«Deus potest causare quidquid absoltum est in actu odiendi Deum»], senza con questo chiamare in causa la deformità e la malizia [«deformitatem vel malitiam»] connesse al realizzarsi di una simile possibilità. D’altronde, se tutto quello che non include contraddizione né male di colpa [«omne quod non includit contradictionem, nec malum colpae»] può essere compiuto da Dio, non vi è alcun motivo per escludere dal novero delle possibilità divine l’o-

139 «Si Deus posset hoc praecipere, sicut videtur quod potest sine contradictione, dico tunc quod voluntas non potest pro tunc talem actum elicere; quia ex hoc ipso quod talem actum eliceret, Deus diligeret super omnia, et per consequens impleret praeceptum divinum, quia hoc est diligere Deum super omnia: diligere quid quid Deus vult diligi; et ex hoc ipso quod sic diligeret, non faceret praeceptum divinum per casum; et per consequens sic diligendo, Deus diligeret et non diligeret, faceret praeceptum Dei et non faceret», Guillelmus de Ockham, Quodl. III, q. 14, in Quodlibeta Septem, cit., pp. 256-257. 140 Guillelmus de Ockham, Utrum angelus malus semper sit in actu malo, q. XV, in Quaestiones in Librum Secundum Sententiarum (Reportatio). Opera Theologica (Vol. V), ed. R. Wood et G. Gál, St. Bonaventure, New York 1981, pp. 338-358.

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dium Dei – a patto, però, che l’odio non sia caratterizzato moralmente in termini negativi. Ora, visto che Dio può ingenerare, sine peccato, l’odio verso di sé, la volontà umana è autorizzata ad odiare il proprio creatore, dando luogo ad un’azione meritoria: Sebbene l’odio, il furto, l’adulterio e simili siano giudicati, stante l’ordine vigente [«de comuni lege], in modo negativo […], considerati in se stessi, tuttavia, possono essere fatti da Dio senza che vi sia connessa alcuna circostanza negativa [«sine omni circumstantia mala annexa»]. Anzi, qualora fossero comandati da Dio, possono essere compiuti meritoriamente dall’uomo (In II Sent., q. 15)141.

Ockham sta portando alle estreme conseguenze il suo approccio nominalista: non soltanto l’odium Dei, bensì anche il furto e l’adulterio potrebbero essere realizzati senza che quest’atto implichi un presupposto morale incompatibile con l’infinita bontà e perfezione della natura divina. Nell’attuale configurazione mondana, tuttavia, nessuna volontà creata può, in modo meritorio, compiere simili azioni. Se desidera conquistare la salvezza, l’uomo è perciò costretto ad amare Dio. Inoltre, alla luce dell’ordine morale vigente, anche la potenza divina deve conformarsi al contenuto dei propri decreti, non potendo certo trovarsi in contraddizione con se stessa. Queste considerazioni riguardano però soltanto la potentia ordinata di Dio. Sappiamo, infatti, che la volontà divina può, de potentia absoluta, modificare il sistema di relazioni che ha

141 «Licet odium, furari, adulterari et similia habeant malam circumstantiam annexam de communi lege, quatenus fiunt ab aliquo qui ex praecepto divino obligatur ad contrarium, tamen quantum ad omne absolutum in illis actibus possunt fieri a Deo sine omni circumstantia mala annexa. Et etiam meritorie possunt fieri a viatore si caderent sub praecepto divino», Ivi, p. 352.

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imposto al mondo. Dio non è allora costretto a causare nessun atto [«Deus ad nullum actum causandum obligatur»], essendo libero di produrre qualsiasi atto assoluto [«quemlibet actum absolutum potest causare»]. Se Dio decidesse di modificare le regole che attualmente guidano la morale dell’uomo, ascrivendo, nel novero delle azioni meritorie, l’odio verso di sé, le creature potrebbero raggiungere la beatitudine rifiutando, in modo consapevole, il loro creatore. Questa estrema possibilità non stravolge, malgrado le apparenze, l’orizzonte morale che appartiene di necessità all’essentia divina: Se l’odio di Dio è causato dal solo Dio lo sarà sempre per un fine buono [«propter bonum finem»], poiché Dio non verrebbe per nulla danneggiato dall’odio della creatura (In II Sent., q. 15)142.

Per lo stesso Ockham, ogni possibile accadimento è posto in relazione alla natura morale di Dio. Anche ciò che sembra in contraddizione con l’essenza divina, in tanto è possibile in quanto non contraddice l’infinita bontà che guida la potentia Dei. L’uomo può odiare Dio, e meritare la propria salvezza, poiché, compiendo questa azione, può raggiungere un bonum finem. L’onnipotenza divina è in grado di stravolgere le proporzioni morali del mondo, sconvolgendo i criteri che guidano il comportamento delle creature, solo perché ciò non entra in conflitto con quella ratio boni che vincola l’agire ad extra di Dio.

142 «Si odium Dei causatur a solo Deo, semper erit propter bonum finem, quia Deus ex odio creaturae in nullo damnificatur», Ivi, pp. 353-354.

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Gabriel Biel, uno dei più radicali teologi nominalisti, si mantiene nel solco tracciato dal Venerabilis Inceptor143. Anche per lui, Dio non è l’autore del male [«Deus non est auctor mali»], non potendo peccare144. Biel sembra anticipare alcune posizioni cartesiane, subordinando l’ordine morale alla voluntas Dei145: anche per il teologo tedesco, Dio non agisce uniformandosi ad un ideale di bontà già preesistente, bensì lo crea, così che ogni cosa divenga buona in virtù della decisione divina146.

143 Sul rapporto fra Dio e la legge morale in Gabriel Biel, cfr. H. A. Oberman, The Harvest of Medieval Theology. Gabriel Biel and Late Medieval Nominalism, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1963 (n. ed. 2001), in part. pp. 90-111. Sull’influenza della riflessione di Biel, cfr. Id., Masters of the Reformation, Cambridge University Press, Cambridge 1981; trad. it. di A. Prandi, I maestri della Riforma. La formazione di un nuovo clima intellettuale in Europa, Il Mulino, Bologna 1982. 144 Gabriel Biel, In II Sent., dist. 1, q. 2, a. 3 l, in Collectorium in IV Libros Sententiarum Guillelmi Occam, Tübingen 1501; repr. Georg Olms Verlag (II Voll.), Hildesheim – New York 1977, s. p. 145 Non è un caso che il nome di Gabriel Biel compaia nelle II Objectiones (cfr. R. Descartes, B Op I, pp. 845-847; AT, VII, pp. 125-126) accanto a quello di Gregorio da Rimini, e proprio in relazione alla possibilità dell’inganno divino presentata da Descartes nella Meditatio I. Ad ogni modo, come mostreremo nel quinto capitolo, il paragone suggerito dai critici cartesiani non coglie nel segno. La posizione del filosofo francese, infatti, è ben più radicale di quella sostenuta dai teologi medievali citati da Mersenne. 146 «Voluntas Dei est sui ipsius regola et ideo non potest esse non recta, nec quodcumque extra se ideo vult quia rectum, sed quia vult ideo est rectum; unde impossibile est voluntatem divina discordare a recta ratione, ut dictum est», Gabriel Biel, In II Sent., dist. 37, q. un., a. 3 k, in Collectorium in IV Libros Sententiarum Guillelmi Occam, cit., s. p.; cfr. Gabriel Biel, In I Sent., dist. 43, q. 1, a. 4 e: «Deus potest aliquid facere quod non est iustum fieri a Deo; si tamen faceret, iustum esset fieri. Unde sola voluntas est prima regula iustitiae, et eo quod vult aliquid fieri, iustum est fieri, et eo quod vult aliquid non fieri, non est iustum fieri».

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Questa convinzione, però, non deve essere separata dal presupposto che guida l’intera analisi. La potentia Dei è sempre in relazione ad una realtà positiva, determinata secondo le leggi che governano l’essenza divina. La Sua volontà è in grado di intrattenere una relazione di causalità soltanto con quei possibili cui non è annessa alcuna specificazione morale di tipo decettivo, giacché la deformitas e la malitia non fanno segno ad una realtà positiva, non essendo altro che una «privatio iustitiae debitae147». All’interno di tale approccio, Dio può fare, fatta salva l’intrinseca necessità del principium firmissimum, qualsiasi cosa, a condizione che la realizzazione di simili possibilità sia compiuta «sine deformitate», cioè senza quella caratterizzazione morale di segno negativo che si accompagna solitamente al furto, all’adulterio e all’odium Dei. Il volontarismo della tradizione ockhamiana deve essere quindi ridimensionato, in particolar modo se confrontato con la speculazione di Descartes. Come abbiamo già ampiamente sottolineato, la sua teoria sulla libera creazione delle verità eterne incrina la comune modalità di riflettere sull’essentia Dei. Le conseguenze all’opera in tale dottrina finiscono per destrutturare ogni humana doctrina de Deo che non si sappia principiata, ossia legittimata a discorrere delle condizioni del147 «Nullus est actus positivus cui essentialiter annexa est malitia: nam deformitas aut malitia non est aliquid sed privatio iustitiae debitae, et illa nulli positive entitati est inseparabiliter annexa, quia nulla est entitas positiva, quam Deus operatur cum secunda causa, quin eam efficere posset Deus sine causa secunda: quod,si faceret, nulla annecteretur iniustitia […]. Et ad illud quod postea additur de latrocinio, adulterio, etc., dicitur quod actu illi in specie et numero et quicqud est positivum in eis possunt fieri sine deformitate […]. Immo si Deus qualitatem illam, quae est odium Dei, crearet in voluntate, quodnon est impossibile, non esset peccatum nec actus deformis», Gabriel Biel, In II Sent., dist. 37, q. un., a. 3 l, in Collectorium in IV Libros Sententiarum Guillelmi Occam, cit., s. p.

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la sua possibilità solo a partire da un positivo riconoscimento della propria contingenza. Descartes decide di abbandonare ogni presupposto passibile di limitare la potenza divina, recidendo ogni legame col pensiero medievale. Poiché Dio non agisce in virtù di una ragione consustanziale alla Sua essentia, l’intelletto umano, non potendo disporre di un ordo commisurato ad una tale prepotenza, è costretto a servirsi di ragioni incapaci di rivendicare una necessità che non sia sospesa ad un arbitrio sovrano. L’omnipotentia Dei, infatti, indifferente al vero e al suo contrario, non è da nulla determinata: è la volontà di Dio, ratio ultima di ogni verità e bontà, a stabilire le leggi che dovranno vincolare il contenuto della Sua creatio. La mente dell’uomo può soltanto tracciare i confini di questa divina voluntas, costruendo delle proporzioni finite, valide all’interno di uno spazio limitato. Non è in grado, tuttavia, di esibire le ragioni di una scelta che rimane, da ultimo, assolutamente gratuita.

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Capitolo terzo Il pubblico e il privato

Nei precedenti capitoli, abbiamo dimostrato come la dottrina cartesiana sulla libera creazione delle verità eterne chiami in causa dei presupposti incompatibili con quelli all’opera nel pensiero medievale. Non abbiamo, però, ancora discusso il ruolo che questa teoria svolge nel corpus del filosofo. Ciò, tuttavia, non dipende da una preferenza ermeneutica, ma risponde ad una precisa scelta compiuta dallo stesso Descartes. Gli unici richiami espliciti al contenuto di questa dottrina si trovano, infatti, solo nel suo epistolario e nelle risposte alle obiezioni rivolte alle Meditationes. Non esiste, del resto, nelle opere edite o in quelle pubblicate postume, alcun riferimento ai problemi connessi ad una così innovativa riflessione1.

1 Se le lettere rappresentano, secondo una precisa accezione che analizzeremo nel presente capitolo, il “privato” cartesiano, potrebbe non apparire legittimo considerare le Responsiones come parte di questa categoria. In verità, la legittimità del loro contenuto e il fondamento su cui si basano sono affatto diversi da quelli all’opera nelle Meditationes. Descartes, infatti, non introduce in questo testo alcun positivo riferimento al contenuto della sua dottrina sulla libera creazione delle verità eterne; anzi, le sue analisi sono rese possibili, come cercheremo di porre in luce in questo capitolo, soltanto a condizione di non evocare i presupposti di tale teoria. Il filosofo francese

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Poiché l’analisi cartesiana di questo costrutto metafisico attraversa l’intero arco della sua esistenza filosofica, dalle prime lettere del 1630 fino all’ultima testimonianza del febbraio 1649, un’assenza così clamorosa non è certamente casuale. Si tratta allora di comprendere per quale motivo il contenuto di una simile teoria non sia presente nel pensiero “pubblico” del filosofo francese. A nostro parere, è possibile rintracciare le ragioni di questa scelta solo analizzando con particolare cura le conseguenze epistemologiche derivanti dal riconoscimento della dottrina in esame. Descartes sostiene che l’agire di Dio si configuri come il risultato non necessario di una potenza incomprensibile. Venuta meno ogni conoscenza univoca, all’uomo è preclusa ogni possibilità di farsi strada in mente Dei, non potendo far altro che descrivere le leggi che governano la creazione, senza, però, comprenderne realmente il fondamento. In un mondo governato da un Dio realmente onnipotente, l’uomo è costretto a riconoscere la necessaria finitezza delle proprie conquiste intellettuali. La potentia Dei, infatti, essendo indifferente alla totalità delle alternative possibili, avrebbe potuto imporre alla Sua creatio un’altra oggettività. Tutte le verità che l’uomo giudica necessarie, quindi, sono il frutto di una decisione arbitraria, non soggetta a delle ragioni che non sia stata la voluntas Dei a stabilire e legittimare. Anche se l’intelletto umano è consapevole di abitare un dominio episceglie così di chiamare in causa le implicazioni connesse alla sua dottrina per rispondere a delle obiezioni che, altrimenti, non avrebbero trovato il medesimo livello di giustificazione. È proprio per sottrarre ogni possibile liceità alle osservazioni dei suoi critici che Descartes decide di introdurre e così presentare, expressis verbis, le linee guida di questa riflessione. Il contenuto della teoria cartesiana viene quindi esplicitato, quasi si trattasse di una struttura di soccorso, per difendere le considerazioni svolte in precedenza, conducendo l’intera analisi su di un piano più elevato.

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stemico le cui verità sono necessarie e immutabili grazie al fiat divino, non può, tuttavia, pensare il loro esser altrimenti, poiché gli strumenti di cui dispone sono uniformati proprio a quelle regole e a quelle leggi. Questa consapevolezza, ad ogni modo, non deve spingerlo a limitare l’onnipotenza divina, giudicando delle possibilità che Dio può realizzare solo in vista di ciò che è in grado di comprendere. D’altro canto, se siamo certi che Dio possa fare tutto quello che la nostra mente finita è in grado di intendere, non possiamo al tempo stesso escludere che la Sua voluntas non abbia la possibilità di trasgredire questi stessi limiti, perché, come Descartes si preoccupa di precisare, «sarebbe certo temerario pensare che la nostra immaginazione abbia la stessa estensione della sua potenza» (B Op n. 31, p. 147; AT, I, p. 146). L’incomprensibilità della potentia Dei diviene il filo conduttore dell’indagine cartesiana. L’intero quadro della creazione assume una nuova prospettiva: non soltanto l’insieme delle verità cui ci rapportiamo avrebbe potuto esser differente, ma, stante la volontà divina, non possiamo neppure escludere l’eventualità che il loro contenuto possa cambiare. Descartes non può negare che il carattere immutabile delle verità, essendo creato e perciò contingente, non possa essere oggetto di nuove ed eventuali modifiche. In effetti, sostenere che le leggi di questo mondo, una volta create, acquisiscano un’immutabilità realmente assoluta, cioè sciolta da ogni positivo riferimento ad una voluntas indifferente, significa, ipso facto, porre di fronte al libero esercizio dell’onnipotenza divina un dato non più questionabile, già presente nella sua risolta attualità. Il filosofo francese non può spingersi tanto lontano da uniformare la potenza di Dio all’estensione della sua comprensione; al tempo stesso, non è neppure in grado di affermare, con assoluta certezza, che il contenuto di queste verità, ora

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necessario e immutabile, sia per ciò stesso contingente, ossia ancora libero di poter cambiare, giacché non possiede alcun strumento di proporzione per scandagliare i consilia Dei. Ecco che l’indagine cartesiana conduce il filosofo di fronte ad uno scenario metafisico ben più problematico di quello disegnato dalla tradizione precedente. L’incomprensibilità con cui Dio si rivela, infatti, non permette all’uomo di fare luce sul Suo misterium: la ragione umana, consapevole dell’omnipotentia Dei, non può escludere dal novero delle azioni divine quelle che appaiono incompatibili con le regole che informano la sua conoscenza. Se è in grado, dunque, di riconoscere che le leggi che governano questo mondo sono liberamente create, figlie di una necessità sospesa ad un arbitrio sovrano, Descartes non può negare che queste stesse leggi possano, al cospetto della volontà divina, nuovamente cambiare. La dottrina sulla libera creazione delle verità eterne non sospinge la conoscenza umana in uno spazio assolutamente contingente, bensì traccia un quadro metafisico cui non è affatto estranea la possibilità di un mondo dominato da una logica contingente. È questa estrema eventualità che impedisce alla ratio umana di conchiudersi e di conquistare la certezza di un sapere valido necessariamente. La conoscenza dell’uomo, anche quella che appare più cogente e stabile, è sempre esposta alla possibilità della propria catastrofe. Nel quadro metafisico delineato dalla teoria cartesiana, ogni sapere potrebbe allora sempre rivelarsi fragile, visto che non può escludere – senza negare, in actu excercito, la prepotenza della voluntas Dei – che le coordinate cui si affida siano stravolte nel loro fondamento. L’uomo non può, insomma, eliminare dal proprio bagaglio conoscitivo la certezza di questa possibilità. Ogni sua conquista intellettuale, per quanto appaia certa e chiara e distinta, non è nelle condizioni di sanare questa frattura, quello scarto epistemico che, testimoniando la

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natura creaturale della sua impresa, riconosce al tempo stesso la potenza e la grandezza di Dio. È alla luce di queste conseguenze che prende corpo il tentativo cartesiano di edificare un sapere che permetta all’uomo di abitare questa creatio. Un tale proposito, tuttavia, è possibile solo espungendo dallo scenario che ci si appresta a fondare ciò che potrebbe, in ogni istante, limitare il valore dell’impresa, stravolgendone i presupposti. Per ottenere un simile obiettivo, è importante rimediare alla contingenza che l’estensione della potentia Dei potrebbe sempre testimoniare, sanando, con una decisione consapevole, la differenza che divide la cogitatio umana dalle sue condizioni di possibilità. È necessario descrivere un mondo in cui il dominio della volontà divina sia uniformato ai limiti del pensiero dell’uomo, eliminando ogni discrasia che non possa essere immediatamente riconvertita, in virtù di una proporzione inclusiva, all’interno delle coordinate concettuali a sua disposizione. Questa decisione, naturalmente, non conduce Descartes ad abbandonare il contenuto della propria dottrina, bensì a non evocarne le implicazioni, scegliendo di non esplicitarne interamente i contenuti nei lavori destinati ad un vasto pubblico. Del resto, qualora il filosofo non si fosse deciso a dissimulare i presupposti e le conseguenze all’opera nella sua disamina, non avrebbe mai potuto rivendicare per le proprie scoperte una validità che non fosse nelle condizioni di rivelarsi, in ultima analisi, contingente. Emanuela Scribano coglie dunque nel segno quando sostiene che «il progetto di fondazione della certezza della scienza poteva svolgersi all’interno di una metafisica che non estendesse il potere divino alle leggi della logica, perché era da una metafisica di questo genere che era partito l’attacco più inquie-

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tante alla certezza della scienza2». L’intera metafisica pubblica cartesiana può essere quindi legittimamente interpretata alla stregua di una «metafisica costruita “come se” Dio fosse vincolato alle leggi del vero e del bene3». Sembra esistere, pertanto, una differenza fra il Descartes “pubblico” e il D’escartes4 “privato”. Se il filosofo francese non avesse posto, almeno formalmente, uno iato fra i presupposti della teoria sulle verità eterne e l’esito della sua pubblica speculazione, non avrebbe mai potuto conseguire una conoscenza universalmente garantita. Non sarebbe stato in grado, insomma, di esibire e fondare un sapere a tal punto stabile da imporsi a dispetto della voluntas Dei. Da una parte, dobbiamo perciò confrontarci con una descrizione metafisica resa possibile dalla scelta di non far entrare nelle deduzioni in esame le premesse presenti nella dottrina cartesiana; dall’altra, invece, abbiamo comunque il dovere di corrispondere al nucleo più profondo della speculazione del filosofo, mettendo in luce le operazioni che gli consentono, in modo sapientemente dissimulato, di rendere disponibile, ad una modernità incipiente, un sapere libero dalle sovrastrutture scolastiche. Questa interpretazione non vuole certo suggerire che Descartes fosse intenzionato a non pubblicizzare le sue scoperte a

2 E. Scribano, Angeli e beati, cit., p. 189. 3 Ivi, p. 187. 4 Con questa espressione stiamo facendo riferimento al gioco di parole utilizzato da Huygens in una lettera dell’8 marzo 1640 inviata a Descartes, in cui il corrispondente fa riferimento al desiderio del filosofo francese di vivere in disparte (vivre à l’écart), prendendo congedo dalla società e dagli obblighi che questa comporta; a questo proposito, cfr. R. Descartes, B Op n. 245, p. 1157; AT, III, p 745.

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causa della sua inveterata prudenza5, o per delle motivazioni legate ad un’opzione di carattere esoterico6. Se fosse questo il criterio guida della nostra indagine, Jean-Luc Marion avrebbe naturalmente ragione a stigmatizzarne la validità7. È la stessa natura della corrispondenza in età classica, strumento principe per la circolazione delle idee, a negare ogni liceità ad una simile ipotesi. L’epistolario cartesiano è parte, come ha sottolineato Carlo Borghero8, di una precisa «strategia comunicativa»: l’autore è ben consapevole di condividere le sue riflessioni con un pubblico più ampio di quello rappresentato dal proprio diretto interlocutore. Sebbene la dimensione privata non indichi o presupponga alcuna segretezza, e benché non si possa neppure parlare di due differenti metafisiche, frutto di due diverse speculazioni reciprocamente incompatibili, è però al tempo stesso necessario riconoscere il dislivello che abita il pensiero cartesiano, continuando ad interrogasi sulle sue eventuali ragioni.

5 Cfr. É. Bréhier, La création des vérités éternelles dans le système de Descartes in «Revue philosophique de la France et de l’Etranger», 62, 1937, pp. 15-29, in part. pp. 15-16. 6 Cfr., a questo proposito, Maxime Leroy, Descartes, le philosophe au masque (II Voll.), Paris, Rieder 1929. L’interpretazione di Leroy è un perfetto esempio di una tendenza ermeneutica che è necessario rifiutare: l’idea che il filosofo francese fosse, in realtà, un libertino mascherato è infatti una suggestione che non trova alcun reale riscontro nei testi cartesiani. 7 Cfr. J.-L. Marion, La création des vérités éternelles. Le réseau d’une “question”, in J.-R. Armogathe – G. Belgioioso – C. Verti (a c. di), La biografia intellettuale di René Descartes attraverso la Correspondance, Vivarium, Napoli 1999, pp. 387-407. 8 C. Borghero, La corrispondenza, il testo, il laboratorio, in J.-R. Armogathe – G. Belgioioso – C. Verti (a c. di), La biografia intellettuale di René Descartes, cit., pp. 715-724.

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L’idea che vi sia una differenza fra ciò che Descartes sostiene rimanendo fedele al contenuto della sua dottrina, e le riflessioni cui dà spazio nei testi pubblici, interessati a descrivere una conoscenza oggettiva e disponibile all’ingegno umano, è suggerita dagli stessi testi del filosofo francese. Per dare sostanza a tale intuizione, è sufficiente soffermarsi su alcuni esempi, utili per corroborare il disegno d’insieme. Consideriamo un passaggio contenuto nella seconda parte dei Principia Philosophiae, in cui il filosofo discute criticamente il pregiudizio di chi ritiene esista il vuoto in senso assoluto [«de vacuo absolute sumpto»]: Abbiamo pensato che nulla impedisse che almeno Dio potesse far sì che un corpo venisse tolto dal recipiente che riempie e nessun altro subentrasse al suo posto. Ora, però, per correggere questo errore, bisogna considerare che, certo, non v’è una connessione tra il recipiente e questo o quel corpo particolare in esso contenuto; ma che ve n’è una grandissima, e del tutto necessaria, tra la figura concava del recipiente e l’estensione, presa in genere, che dev’essere contenuta in tale cavità. Cosicché concepire un monte senza valle non ripugna più dell’intendere codesta cavità senza l’estensione in essa contenuta (Princ. Phil., II, 18, B Op I, p. 1789; AT, VIII, p. 50).

Descartes si era già soffermato su questo problema nella Meditatio V. Il filosofo sostiene che l’esistenza di Dio non possa essere separata dalla sua essentia «più facilmente di quanto la grandezza dei suoi tre angoli uguali a due retti possa essere separata dall’essenza del triangolo, o l’idea di valle dall’idea di monte». Per la stessa ragione, «pensare Dio (ossia l’ente sommamente perfetto) privo dell’esistenza (ossia privo di una perfezione), non ripugna più che pensare un monte senza valle» (Medit. V, B Op I, p. 769; AT, VII, p. 66). Il contenuto dei brani citati è, nella sostanza, identico. Nondimeno, se accostiamo le considerazioni appena esposte ad una

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lettera inviata da Descartes ad Arnauld, già ampiamente analizzata nei capitoli precedenti, ci accorgiamo immediatamente di una differenza lampante: Non oserei neppure dire che Dio non possa far sì che vi sia un monte senza valle, o che uno e due non facciano tre, ma dico solo che Dio mi ha dato una mente tale da non poter concepire un monte senza valle, o una somma di uno e due che faccia tre, e così via, e che tali cose implicano una contraddizione nel mio concetto. E la stessa cosa penso si debba dire anche di uno spazio che sia del tutto vuoto, ossia di un nulla che sia esteso (B Op n. 665, p. 2581; AT, V, p. 224).

L’orizzonte metafisico che rende possibile queste considerazioni è affatto diverso da quello all’opera nelle Meditationes e nei Principia. In questi testi, il vuoto è considerato un concetto contraddittorio, e dunque da rifiutare, al pari di innumerevoli altre possibilità, come l’esistenza in natura di un monte senza valle. Nella lettera ad Arnauld, invece, Descartes non esclude che queste stesse cose possano, in virtù della potentia Dei, accadere, bensì si limita a dire che simili eventualità appaiono contraddittorie al pensiero umano. Il filosofo esamina perciò un’identica questione partendo da due presupposti differenti: nelle opere pubbliche, l’estensione della potenza divina è uniformata alle capacità cognitive dell’uomo, Dio non potendo trasgredire le leggi che ha deciso di creare; nella lettera ad Arnauld, l’omnipotentia Dei è considerata, al contrario, per quello che realmente è, ossia una potenza infinita e indifferente, in grado di poter agire al di fuori dei limiti che ha imposto alla propria creatura. Vi sono altri luoghi in cui Descartes, non evocando consapevolmente i presupposti implicati dalla teoria sulla libera creazione delle verità eterne, disegna degli scenari metafisici funzionali a garantire all’uomo il pieno possesso delle sue conquiste intellettuali.

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Nell’incipit della Meditatio VI, ad esempio, prima di avventurarsi nella dimostrazione dell’esistenza delle cose materiali, il filosofo si dice certo della possibilità che esse esistano, formulando una premessa ben precisa: Non c’è dubbio, infatti, che Dio sia capace di fare tutto ciò che io sono capace di percepire in tal modo [«Deus sit capax ea omnia efficienti quae ego sic percipiendi sum capax»]; e nulla mai ho giudicato non poter essere fatto [«fieri non posse judicavi»] da lui se non perché ripugnava ad essere da me distintamente percepito (Medit. VI, B Op I, p. 777; AT, VII, p. 71).

È naturale riconoscere a Dio la capacità di realizzare tutto ciò che l’intelletto umano può comprendere. Questa convinzione è confermata poco oltre, quando il filosofo ci ricorda che «tutto ciò che intendo chiaramente e distintamente può essere fatto da Dio [«Deo fieri posse»] tal quale lo intendo» (Medit. VI, B Op I, p. 785; AT, VII, p. 78). L’aspetto più interessante riguarda la seconda parte della riflessione, quella in cui il Descartes dichiara di non aver mai pensato che la potenza divina non fosse in grado di fare qualcosa – a patto, ovviamente, che la possibilità in esame non fosse in contraddizione con la chiarezza e distinzione della rappresentazione umana. Il filosofo afferma, seppur in modo implicito, che Dio non può realizzare ciò che implica contraddizione per la cogitatio dell’uomo. Ciò significa che la voluntas Dei è in grado di manifestare la propria potentia solo conformandosi alle regole della ratio umana. Tutto quello che sfugge alla presa di questa ragione, non essendo uniformato ai suoi criteri, non può perciò accadere. Ora, confrontando il brano appena citato con le riflessioni svolte da Descartes nelle missive indirizzate ad Arnauld, Mesland o More, possiamo notare che il quadro d’insieme è mutato. Se nelle lettere, infatti, Descartes afferma di non poter escludere

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che Dio possa fare ciò che implica contraddizione, non essendo certo possibile uniformare il dominio della potenza divina alla cogitatio umana, nel passaggio delle Meditationes appena riportato, diversamente, il filosofo è convinto che Dio non sia in grado, absolute, di realizzare ciò l’uomo giudica contraddittorio. La distinzione fra il pubblico e il privato cartesiano emerge, una volta ancora, in tutta la sua chiarezza al termine della Meditatio VI. Descartes deve qui confrontarsi con una nuova difficoltà: «Erriamo non di rado anche in ciò verso cui la natura ci spinge: come quando coloro che sono malati appetiscono una bevanda o un cibo che poco dopo risulterà loro nocivo» (Medit. VI, B Op I, p. 793; AT, VII, p. 84). Potremmo forse sostenere che queste persone sbaglino perché in possesso di una natura corrotta dalla malattia. Tuttavia, anche i malati sono creature di Dio; sembra difficile, quindi, giustificare il motivo per cui un idropico sia portato a desiderare qualcosa di così pericoloso per la sua salute. Ci troviamo perciò al cospetto di un vero errore della natura [«verus error naturae»]. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: perché Dio, vista la Sua bontà, non interviene, modificando una circostanza così ingiusta? La risposta cartesiana è in realtà molto semplice: Dio non interviene per la semplice ragione che non può. Come ha rilevato Emanuela Scribano, nell’ultima Meditatio siamo di fronte ad «una vera e propria affermazione dell’impotenza di Dio9». Descartes tenta comunque di tracciare una via d’uscita, sostenendo che nella nostra esperienza del mondo non vi sia nulla 9 E. Scribano, Quel che Dio non può fare. Descartes e i limiti della potenza divina, in G. Canziani – M. A. Granada – Y. Ch. Zarka (a c. di), Potentia Dei. L’onnipotenza divina nel pensiero dei secoli XVI e XVII, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 335-350, cit. p. 339.

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che non attesti la potenza e la bontà di Dio [«Dei potentiam bonitatemque»]. La volontà divina, inoltre, avrebbe potuto modificare la natura dell’uomo, eliminando le cause di questo errore; così facendo, però, non sarebbe più riuscita a conservare il corpo in modo così mirabile. È allora quanto mai necessario riconoscere l’esistenza del problema: In base a ciò è del tutto manifesto che, nonostante l’immensa bontà di Dio [«non obstante immensa Dei bonitate»], la natura dell’uomo in quanto composto di mente e corpo non può non essere qualche volta fallace (Medit. VI, B Op I, p. 797; AT, VII, p. 88).

Pur non volendo che l’idropico provi il sentimento della sete, Dio non sembra in grado di dare seguito ai propri desideri: è impotente di fronte ad una situazione che vorrebbe non si realizzasse. Descartes è legittimato a trarre questa conseguenza, però, solo decidendo, in maniera consapevole, di lasciare nell’ombra quel Dio indifferente e liberamente creatore già evocato nelle pagine del suo epistolario. Le ragioni della scelta sono, ad ogni modo, abbastanza evidenti: ascrivere a Dio questo limite è poca cosa di fronte alla possibilità di fondare un sapere oggettivo, immediatamente disponibile all’uomo. Certo, l’assoluta stabilità di ogni conoscenza è, in realtà, valida grazie ad una particolare, e ben determinata, idea di Dio; tuttavia, è soltanto alla luce di questa autentica decisione che l’uomo è in grado di tracciare i confini di un mondo proporzionato all’estensione della sua cogitatio. La chiarezza e distinzione del pensiero è allora possibile soltanto riducendo le infinite possibilità a disposizione dell’omnipotentia Dei. Descartes decide, con un atto gratuito, di limitare l’estensione di quella infinita potentia già ampiamente descritta e giustificata altrove. In tal modo, il filosofo traccia una metafisica nella

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quale l’incomprensibilità dell’onnipotenza divina è relegata ai margini del testo. Il gesto cartesiano consegna alla modernità le condizioni della sua narrazione, illuminando, con una decisione sovrana, l’ombra che avvolge l’intera creatio. Il cogito è libero di occupare il centro della scena, imponendo al volto divino quei tratti funzionali alla conquista e al possesso di un sapere oggettivo. L’età moderna inaugurata dall’esperienza cartesiana, lungi dall’essere un movimento di reazione nei confronti del suo passato teologico, si costituisce perciò come un processo di consapevole dissimulazione. Come sottolinea Jean-Pierre Cavaillé, Descartes finisce per instaurare con i suoi lettori quello stesso rapporto che Dio intrattiene con le proprie creature10. Al pari di Dio, che non rivela all’uomo il cuore del Suo misterium, rimanendo libero di trasgredire con l’arbitrio di una volontà onnipotente i confini della creazione, anche Descartes sceglie di procedere mascherato, eliminando dalla rappresentazione ciò che potrebbe, in ogni istante, sfigurarne i contorni, rendendo vane le fatiche dell’uomo. È Descartes stesso, forse, a suggerircelo, in una delle sue prime testimonianze: Come gli attori [«comoedi»], accorti a non far apparire l’imbarazzo sul volto, vestono la maschera [«personam»], così io, sul punto di calcare la scena del mondo [«mundum theatrum»], dove sinora sono stato spettatore [«spectator»], avanzo mascherato [«larvatus prodeo»] (Cogitat. Privat., B Op II, p. 1061; AT, X, 213).

10 «Descartes fait tout pour instaurer avec son public un rapport similaire à celui que Dieu entretient avec ses créatures. Dieu se sonne à connaître sans se donner à comprendre, institue librement les vérités tout en protégeant le mystère de sa grandeur et de sa puissance, comme un monarque veille à préserver sa majesté en évitant de se rendre familier à ses sujets», J.-P. Cavaillé, Descartes. La fable du monde, Vrin, Paris 1991, p. 297.

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Capitolo quarto Il corpo del mondo

1. Mundus est fabula Poco prima di Natale, alla fine del 1630, Descartes confida a Mersenne che la sua principale preoccupazione è di «mettere ordine nel caos per farne uscire la luce» (B Op n. 40, p. 189; AT, I, p. 194). La luce cui si fa riferimento è quella che dovrebbe illuminare lo scenario descritto ne Le Monde ou Traité de la lumière, il lavoro che il filosofo decise di lasciare inedito, non appena ebbe notizia della condanna di Galilei1. Descartes, tuttavia, ben prima che la censura ecclesiastica condannasse gli studi dello scienziato pisano, stava già cercan1 Cfr. R. Descartes, B Op n. 61, pp. 249-251; AT, I, pp. 270-272: «Mi ero proposto di inviarvi il mio Mondo per queste festività; e non più di quindici giorni fa ero ancora assolutamente deciso ad inviarvene almeno una parte, se non fosse stato possibile trascriverlo interamente in questo lasso di tempo. Ma vi dirò che avendo fatto cercare in questi giorni a Leida e Amsterdam se ci fosse il Sistema del Mondo di Galilei, giacché mi sembrava di aver sentito che era stato stampato in Italia l’anno scorso, mi si è fatto sapere che era vero che era stato stampato, ma che tutti gli esemplari erano stati bruciati a Roma contemporaneamente, e lui condannato a qualche ammenda: ciò mi ha sconcertato a tal punto, che mi sono quasi deciso a bruciare tutte le mie carte o, almeno, a non lasciarle vedere a nessuno».

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do un espediente che gli consentisse di «dire la verità senza turbare l’immaginazione di nessuno» (B Op n. 40, p. 189; AT, I, p. 194). La decisione di esporre le sue riflessioni sulla “materia” del mondo attraverso il filtro di un espediente favolistico potrebbe quindi divenire intelligibile all’interno di un tale contesto: «la favola del mio mondo [«la fable de mon Monde»]», scrive infatti Descartes, «mi piace troppo per rinunciare a completarla» (B Op n. 36, p. 175; AT, I; p. 179). Al termine del quinto capitolo de Le Monde, il filosofo francese si rivolge ad un ipotetico lettore, illustrando i criteri che guideranno la sua indagine: Affinché la lunghezza di questo discorso vi riesca meno noiosa, voglio includerne una parte nell’invenzione di una favola [«l’invention d’une fable»] per mezzo della quale spero che la verità non manchi di manifestarsi a sufficienza e non sia meno gradevole a vedersi che se la esponessi nella sua nudità (Le Monde, V, B Op II, p. 249; AT, XI, p. 31).

L’analisi cartesiana si inscrive, per sua stessa ammissione, all’interno di uno statuto ontologico favolistico. L’intero progetto dovrà perciò essere collocato in un orizzonte affabulatorio2. Poiché il percorso che la ragione dovrà compiere per dare forma al nuovo mondo appartiene a questa favola, è naturale che Descartes fornisca, nel capitolo successivo, una precisazione di particolare importanza: Il mio proposito non è di spiegare le cose che sono effettivamente nel vero mondo, ma solo di fingerne uno a piacere [«feindre un à plaisir»], nel quale non vi sia nulla che le menti

2 Per un’analisi più ampia di questo plesso concettuale, ci permettiamo di rinviare a A. Gatto, La fabula de Descartes. La libre création des vérités éternelles et le théâtre des Meditationes in «Revista Filosófica de Coimbra», Vol. 21,n. 42, 2012, pp. 339-361.

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177 più grossolane non siano capaci di concepire e che possa tuttavia essere creato proprio come l’avrò finto (Ivi, VI, B Op II, p. 255; AT, XI, p. 36).

La fictio di tale favola è un costrutto deliberato, privo di una verità che non sia stata presupposta in sede di progettazione. La validità di ciò che sarà dimostrato troverà la sua giustificazione solo alla luce di un’opzione gratuita e arbitraria. Ci troviamo di fronte ad una libera iniziativa cartesiana, ad una scelta che, tracciando i confini del dominio di indagine, ha deciso di lasciare nell’ombra le reali condizioni di possibilità del “vero” mondo. Ecco perché le leggi del «nouveau monde» descriveranno i soli segreti di questa favola, abbandonando «le cose che sono effettivamente nel vero mondo» ad un altro destino. Le Monde non è il primo testo in cui compare il termine favola. Nelle Regulae ad Directionem Ingenii, il filosofo si era già servito della fabula come strumento retorico per imprimere maggiore incisività alla propria esposizione. Nella dodicesima regola, Descartes vuole riassumere ciò che è stato detto in precedenza, descrivendo le condizioni che dovrebbero consentire al pensiero di giungere ad un sapere non più soggetto all’errore. Il filosofo francese è convinto che l’intelletto umano non possa essere ingannato in alcun modo se solo intuisce precisamente quello che gli si presenta all’evidenza, cioè se non si persuade che l’immaginazione possa restituire gli oggetti del mondo nella loro verità, o che il senso sia in grado di riprodurre i veri fantasmi degli enti sensibili, o che le cose esterne siano realmente ciò che appaiono ad un primo sguardo. In effetti, continua Descartes, l’immaginazione, il senso e le cose esterne espongono spesso l’uomo di fronte alla possibilità di sbagliare, «come se qualcuno ci raccontasse una favola [«ut si quis fabulam nobis narracerit»] e noi credessimo che i fatti fossero avvenuti» (Regulae, XII, B Op II, p. 763; AT, X, p. 423).

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Dopo le Regulae e Le Monde, la favola farà nuovamente la sua comparsa nella prima parte del Discours de la méthode. In questa sede, la favola è considerata il mezzo migliore per descrivere l’autobiografia di un metodo: «Propongo questo scritto solo come una storia o, se preferite, una favola [«fable»]». Del resto, è risaputo quanto «la piacevolezza delle favole [«la gentilesse des fables»]» sia in grado di ridestare «l’ingegno [«esprit»]» (Discours, I, B Op I, p. 29; AT, VI, p. 4). Il ricorso alla fabula, lungi dall’essere un evento causale, accompagna il filosofo lungo tutta la prima parte del suo tragitto culturale: ci si può riferire allora, seguendo le indicazioni di Leonel Ribeiro Dos Santos, ad un’unica strategia affabulatoria che percorre tutta l’esperienza di Descartes, da una fabula vitae suae ad una fabula mundi3. Prima che il filosofo francese decidesse di servirsi della favola come mezzo privilegiato per descrivere l’origine di un’ipotetica creazione, o per introdurre, sotto il velo di un mero exemplum narrativo, le linee guida del proprio metodo, Francis Bacon, nel suo De Sapientia Veterum4, si era già interrogato sul valore ontologico di questo genere letterario. Per il filosofo inglese, però, le favole, lungi dall’essere delle mere invenzioni dell’ingegno umano, sono delle «sacre reliquie», dei «tenui sospiri di età migliori [«reliquiae sacrae et 3 «Não só o recurso à comparação e à analogia mas também à conjectura, à fábula e à ficção è procedimento frequente em Descartes, ao ponto de se poder falar de uma mesma estratégia efabulatória e ficcional que percorre toda a sua filosofia, desde a fabula vitae suae à fabula mundi», L. Ribeiro Dos Santos, Retórica da Evidência ou Descartes segundo a Ordem das Imagens, Quarteto Editoria, Coimbra 2001 (n. ed. Centro de Filosofia da Universidade de Lisboa, Lisboa 2013), p. 149. 4 Cfr. F. Bacon, De Sapientia Veterum, Robertus Barkerus, London 1609; trad. it. di M. Marchetto, Sapienza degli antichi, Milano, Bompiani 2000, in part. pp. 75-85.

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aurae tenues temporum meliorum»]», fondamentali per squarciare l’oblio e il silenzio che avvolgevano l’umanità delle origini. Le favole sono sempre servite «da involucro e da velo [«ad involucrum et velum»], ma anche da luce e da chiarificazione [«ad lumen et illustrationem»]5», essendosi rivelate assai utili al progresso della scienza, poiché hanno garantito all’ingegno umano un accesso più facile e immediato al cuore delle sue ricerche. Descartes, tuttavia, utilizzando la favola come un espediente meramente retorico, non sarebbe certo disposto a sottoscrivere i giudizi formulati da Bacon. Come avremo modo di vedere, la fable cartesiana, lontana dal conservare la traccia di un’arcaica origine, è una creazione euristica, uno strumento per liberare il mondo da una conoscenza che non sia riconducibile alla volontà poietica di un abile fabulator. A questo punto, si tratta di capire il reale motivo che ha spinto Descartes a presentare la propria opera come una favola, quasi volesse circoscrivere e limitare il valore intrinseco della fondazione di quel nouveau monde cui si stava per dedicare. È possibile che il filosofo abbia deciso di esporre le sue scoperte – destinate a dare voce e sostanza a nuovi scenari, incompatibili con l’orizzonte culturale informato dall’aristotelismo scolastico – attraverso l’espediente di una favola per non turbare i suoi futuri lettori. Tuttavia, se prestiamo attenzione al prosieguo del testo, possiamo avanzare una differente interpretazione del progetto cartesiano. Il filosofo francese è convinto che questa fable, pur non essendo una descrizione veritiera del mondo, debba possedere una coerenza interna, uniformata a delle leggi determinate. Per seguire l’itinerario del racconto cartesiano, un attento letto-

5 Ivi, p. 81.

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re dovrà, per prima cosa, abbandonare le comuni proporzioni mondane che gli stanno di fronte, lasciandosi guidare in un luogo del tutto nuovo, collocato in degli «spazi immaginari». Sebbene questi spazi siano infiniti, Descartes sceglie di limitare la loro estensione, «affinché questa infinità non ci sia d’ostacolo e non ci metta in difficoltà» (Le Monde, VI, B Op II, p. 249; AT, XI, p. 32). Non è necessario abitare un orizzonte tanto vasto; è sufficiente fermarsi in un luogo determinato, e assistere così, in qualità di spettatori privilegiati, ad una nuova creatio: dobbiamo perciò immaginare che «Dio crei di nuovo tutt’intorno a noi così tanta materia che, in qualunque direzione possa estendersi la nostra immaginazione, essa non percepisca più alcun luogo che sia vuoto» (Ibid.). Inoltre, visto che il filosofo sta rivendicando il diritto e la «libertà di fingere [«liberté de feindre»]» i tratti di questa materia, è utile attribuirle delle caratteristiche che siano perfettamente proporzionate alle nostre modalità conoscitive, in modo che non vi sia nulla che un uomo «non possa conoscere il più perfettamente possibile» (Ivi, p. 251; AT, XI, p. 33). Definendo l’essenza di questa materia, dobbiamo escludere che si tratti della «materia prima dei filosofi [«Matière première des Philosophes»]», indeterminata e inconoscibile; è preferibile concepirla, piuttosto, come un «corpo perfettamente solido» e divisibile. Anche qualora le singole parti che la compongono iniziassero a muoversi convulsamente, generando il caos – «il più confuso e il più imbrogliato che i poeti possano descrivere» –, un «buon ordine» si imporrebbe comunque, assumendo la forma di un mondo perfetto, regolato dalle leggi stabilite da Dio. Questo caos non trasgredisce dunque i limiti dell’intelletto umano; anzi, se solo ci fermassimo ad osservarne i tratti, ci accorgeremmo che «tutto ciò che esso contiene» è a tal punto noto che non potremmo neppure «fingere di ignorarlo [«fein-

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dre de l’ignorer»]». D’altro canto, «per quanto riguarda le qualità che vi ho posto, se vi badate bene», aggiunge Descartes, «le ho soltanto supposte quale voi potevate immaginarle» (Ivi, p. 253; AT, XI, p. 35). Il compito che Descartes si propone, infatti, non è quello di spiegare e descrivere il mondo, ma di «fingerne uno a piacere [«feindre un à plaisir»]», già conformato alle capacità conoscitive dell’uomo. Per raggiungere questo obiettivo, però, è necessario eliminare qualunque cosa possa, in qualche modo, minare alla radice l’intero racconto: Se vi mettessi la pur minima cosa oscura [«la moindre chose qui fût obscure»], potrebbe accadere che in questa oscurità [«cette obscurité»] si celasse qualche contraddizione [«quelque répugnance»] di cui non mi fossi accorto, e in tal modo supporrei senza pensarci una cosa impossibile. Invece, dal momento che posso distintamente immaginare tutto ciò che vi pongo, è certo che, se anche non vi è nulla che sia tale nel vecchio mondo, Dio può tuttavia crearlo in uno nuovo: è certo, infatti, che Egli può creare tutte le cose che possiamo immaginare [«il est certain qu’il peut créer toutes les choses que nous pouvons imaginer»] (Ivi, VI, B Op II, p. 255; AT, XI, p. 36).

Il testo appena riportato sembra implicitamente suggerirci che, se l’autore di questa fable non intervenisse in modo deliberato nella narrazione, potrebbe esistere un certo contenuto – una «chose obscure» – in grado di scompaginare l’intero racconto. Per allontanare questo pericolo, è necessario che la chiarezza e la distinzione dei contenuti della favola siano separate da qualunque cosa sia in grado di gettare un’ombra sulla rappresentazione che si sta inscenando. L’oscurità che minaccia il lieto fine della fable, infatti, è qualcosa che, non essendo determinata dai limiti dell’umano intelletto, è libera di inscriversi all’interno dei suoi margini, generando una quelque répugnance. Affinché ciò non accada,

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si deve eliminare dalla scena ogni possibile evento che non sia immediatamente riconducibile alle leggi che regolano tale mondo. L’affermazione con cui si chiude il sesto capitolo è di particolare importanza: Descartes sostiene di poter immaginare in modo distinto tutte le caratteristiche del suo nouveau monde, aggiungendo che Dio «può creare tutte le cose che possiamo immaginare6» (Ibid.). Se confrontiamo questa considerazione con le riflessioni svolte da Descartes nell’ormai celebre lettera del 15 aprile 1630, siamo in grado di portare alla luce l’implicito che ha guidato le analisi del filosofo francese. Anche in questa missiva Descartes è convinto che «Dio può fare tutto quel che noi possiamo comprendere». Il problema, però, è che il ragionamento cartesiano non si ferma qui: il filosofo, infatti, aggiunge subito dopo che sarebbe certo temerario pensare che Dio «non possa fare quello che non possiamo comprendere» (B Op n. 30, p. 147; AT, I, p. 146). Limitando la propria analisi soltanto alla prima parte della riflessione, Descartes sceglie, nel suo trattato sulla luce, di eliminare e dissimulare una parte delle implicazioni derivan-

6 Il filosofo francese non fa direttamente riferimento alla comprensione dell’uomo e alla dimensione intellettuale della sua cogitatio, ma all’immaginazione umana, una facoltà che presiede alla Fisica. Alla luce di queste considerazioni, non sembra dunque problematica la scelta di Descartes: il filosofo non si richiama alla potentia Dei semplicemente perché non è questo l’ambito in cui collocare un’analisi dell’onnipotenza divina. In verità, come il prosieguo del testo dimostrerà dedicandosi all’attributo dell’immutabilità di Dio, la descrizione del mondo fisico è resa possibile soltanto da una decisione fondata metafisicamente, volta a circoscrivere il dominio della potentia Dei. Benché la fable si collochi all’interno di un ambito meramente “naturale”, ossia in un contesto gnoseologico limitato allo statuto dell’immaginazione umana, ad essere qui in questione è proprio la decisione metafisica che giustifica, rendendo così possibile, il ricorso di Descartes alla favola.

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ti dalla sua stessa speculazione, riducendo il raggio di azione dell’arbitrio divino. In questo testo, l’onnipotenza e l’incomprensibilità di Dio non sono pensate nella loro massima estensione. La scelta cartesiana di delimitare il dominio della potentia Dei soltanto alla prima delle due alternative, tuttavia, non segue da una deduzione compiuta nei labirinti della natura divina, ma è una decisione gratuita, funzionale al progetto del filosofo francese. Considerando le riflessioni svolte nei capitoli precedenti, sappiamo che la descrizione del nouveau monde non si sarebbe mai potuta ottenere, così come è stata acquisita, se il contenuto della teoria cartesiana sulle verità eterne non fosse stato separato, con un atto tanto consapevole quanto ingiustificato, dall’intera trattazione. È probabile, ad ogni modo, che il filosofo non sia stato subito cosciente delle difficoltà implicate dalla propria dottrina. Nella lettera appena citata, subito dopo aver chiamato in causa, per la prima volta, la sua teoria sulla libera creazione delle verità eterne, Descartes confida a Mersenne il proposito di «mettere tutto ciò per iscritto nella mia fisica anche prima di 15 giorni», invitando il Minimo a diffondere e pubblicizzare la sua novitas metafisica «tutte le volte che se ne presenterà l’occasione, ma senza fare il mio nome [«sans me nommer»]» (Ibid.). L’analisi di Descartes sulla natura creata delle verità eterne è dunque contemporanea alle indagini sui fondamenti della fisica. La descrizione del suo mondo dovrebbe perciò conservare una traccia di questa riflessione. Le Monde, tuttavia, sembra essere guidato da una logica interna affatto differente da quella presente nelle lettere. È possibile allora che Descartes abbia deciso in seguito di non esplicitare i presupposti di questa teoria, consapevole di poter fondare, nel quadro metafisico appena evocato, soltanto una fisica destinata ad essere una de-

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scrizione meramente contingente, sempre esposta all’arbitrio di una volontà insondabile. Alla luce di tali premesse, possiamo comprendere appieno le ragioni del filosofo: per giungere ad una fondazione dell’universo fisico formalmente oggettiva, svincolata da una potentia assoluta e indifferente, è necessario eliminare quell’ombra che l’incomprensibilità divina getta sulla propria creatio. La scelta cartesiana di illuminare l’oscurità del misterium Dei è figlia del tentativo strategico di rappresentare un’idea di Dio che sia uniformata alla ragione umana. D’altra parte, se Descartes non avesse deciso di rendere univoco il potere divino, cioè se non avesse stabilito di uniformare l’absoluta omnipotentia Dei alla capacità estensiva della comprensione umana, non sarebbe mai riuscito a rendere ragione del suo mondo e della sua favola. Nicolas Grimaldi7 coglie quindi nel segno quando sottolinea che gli attributi divini e le condizioni della conoscenza umana descritti da Descartes – l’idea che Dio sia buono e verace, la persuasione che le verità siano eterne ed immutabili e le idee chiare e distinte vere, o la pervicace convinzione che la materia sia riducibile alle modalità con cui noi la percepiamo – siano tutti dei presupposti necessari per fondare una «fisica da favola». Per raccontare questa fable, Descartes dovrà imporre a Dio dei limiti ben precisi, vincolando la Sua onnipotenza a dei paradigmi metafisici e matematici determinati.

7 «La bonté de Dieu, sa véracité, que les vérités soient éternelles et que toutes les idées claires et distinctes soient vraies, que la matière soit donc réductible à celle que nous avons de l’étendue, c’est sur cette fable que Descartes a fondé non seulement sa physique, mais encore son assurance que les corps soient de simples machines, et qu’étant dépourvus d’esprit, les animaux fussent aussi insensibles aux coups ou aux caresses que les horloges à la main qui tire leur cordon pour les faire sonnes», N. Grimaldi, Descartes et ses fables, Puf, Paris 2006, p. 52.

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Dopo aver rischiarato l’oscurità che minacciava il buon esito dell’intera narrazione, il filosofo francese può adesso farsi strada nel suo mondo, intenzionato a descriverne con assoluta certezza i meccanismi. D’ora in poi, l’essentia divina, non essendo più quella «chose obscure» capace di stravolgere l’apparato conoscitivo dell’uomo, sarà chiamata in causa per giustificare e legittimare l’impresa che si sta per intraprendere. Nel settimo capitolo de Le Monde, l’analisi cartesiana può così realmente incominciare: Sappiate dunque, innanzi tutto, che per natura non intendo qui una qualche dea o qualche altro tipo di potenza immaginaria, ma che mi servo di questo termine per designare la stessa materia, in quanto la considero con tutte le qualità che le ho attribuito, comprese tutte insieme, e a condizione che Dio continui a conservarla nello stesso modo in cui l’ha creata (Le Monde, VII, B Op II, pp. 255-257; AT, XI, p.37).

Sgombrato il campo dalle precedenti definizioni della natura, ora ridotta alla pura estensione della materia, Descartes può dedicarsi a ricercarne le leggi. Sebbene Dio conservi, grazie alla sua azione continua, le cose create, non le conserva certo nello stesso stato, giacché nel mondo si producono svariate differenze, ossia numerose variazioni accidentali che prendono corpo nell’ambito della stessa sostanza. Ora, visto che è «facile credere che Dio – il quale, come tutti devono sapere, è immutabile – agisca sempre nella stessa maniera» (Ivi, p. 257; AT, XI, p. 38), è possibile enumerare, senza il timore d’essere contraddetti, alcune leggi di questa natura e le regole che presiedono ai suoi cambiamenti8.

8 Per un’amplia analisi di queste leggi e della relazione fra il loro contenuto e l’immutabilità di Dio, cfr. D. Garber, Descartes’ Metaphysical Physics, Chicago University Press, Chicago 1992, in part. pp. 197-254 e pp. 273-293. Cfr. inoltre D. Des Chene, Physiologia. Natural Philosophy in Late Aristo-

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La prima legge stabilisce che «ciascuna parte della materia, presa in particolare, persevera nello stesso stato fino a che l’incontro con le altre non la costringe a cambiarlo» (Ibid.); con la seconda, invece, Descartes suppone che «un corpo, quando ne spinge un altro, non può comunicargli alcun movimento se non ne perde al tempo stesso altrettanto del suo, né può sottrarglielo se il suo non aumenta altrettanto» (Ivi, p. 261; AT, XI, p. 41). Queste leggi, tuttavia, possono rivendicare una loro legittimità e universalità solo grazie alla natura immutabile di Dio. È lo stesso Descartes a riconoscerlo: Ancorché lo si volesse scegliere a piacere [«encore qu’on le voulût choisir à souhait»], quale fondamento più fermo e più solido si potrebbe trovare per stabilire una verità se non assumere la stessa fermezza ed immutabilità che sono in Dio? (Ivi, VII, B Op II, pp. 263-265; AT, XI, p. 43).

L’immutabilità divina è necessaria per garantire all’uomo il pieno possesso delle sue conquiste intellettuali. Se avessimo la possibilità di circoscrivere l’essentia Dei, magari interpretando i restanti attributi in vista del più importante di essi, scegliendone uno a piacere, l’immutabilità di Dio sarebbe certamente il più utile per i bisogni umani. La stessa cogenza delle due leggi appena descritte consegue dal solo fatto che «Dio è immutabile e, agendo sempre nella stessa maniera, produce sempre lo stesso effetto» (Ivi, p. 265; AT, XI, p. 43). La terza regola, relativa al movimento dei singoli corpi, non fa perciò eccezione: «Questa regola si poggia sullo stesso fondamento delle altre due e dipende soltanto dal fatto che Dio conserva ogni cosa con un’azione continua» (Ivi, p. 267; AT, XI, p. 44).

telian and Cartesian Thought, Cornell University Press, Ithaca and London 1996, in part. pp. 314-341.

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Le considerazioni appena esposte rimarranno il criterio guida dell’indagine cartesiana per tutto l’arco della ricerca del filosofo. Gli stessi Principia Philosophiae riprenderanno queste riflessioni, collocandole in un contesto più ampio: «in Dio è una perfezione non solo il fatto di essere in se stesso immutabile, ma anche di operare nel modo più costante e immutabile» (Princ. Phil., II, 36, B Op I, p. 1807; AT, VIII, p. 61). Seguendo lo stesso itinerario già percorso ne Le Monde, Descartes giustifica l’opportunità di descrivere le leggi della natura solo partendo dall’immutabilità di Dio: «A partire da questa stessa immutabilità divina, si possono conoscere alcune regole o leggi della natura che sono le cause secondarie e particolari dei diversi movimenti che avvertiamo nei singoli corpi» (Ibid.; AT, VIII, p. 62). Descartes può descrivere il suo mondo, e giustificare i meccanismi della natura grazie alle tre leggi appena descritte, soltanto ricorrendo all’immutabilità divina. Se Dio non conservasse con paziente costanza il frutto della propria volontà, l’uomo non avrebbe alcuna possibilità di fondare un sapere certo e stabile, oggettivo e necessariamente assicurato; non potrebbe, cioè, indagare i segreti del mondo con assoluta necessità, poiché i risultati della sua ricerca non avrebbero alcun stabile fondamento, essendo sempre sospesi alla potenza assoluta di Dio. Ecco allora che l’intera strategia cartesiana può preservare un margine di verità solo adeguando la natura divina alle esigenze della sua stessa impresa, risolvendo lo scarto epistemologico che divide l’uomo dal proprio Creatore. Le condizioni ultime di questa strategia, ad ogni modo, non trovano alcuna giustificazione nell’essentia Dei, bensì sono il risultato di un atto che Descartes compie arbitrariamente, scegliendo, in modo consapevole, di definire il raggio di azione dell’onnipotenza divina, così da uniformarla ai limiti della cogitatio umana.

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Il filosofo ci fornisce un’implicita conferma di questa differenza al termine del settimo capitolo, mentre si sofferma sulle verità eterne: Mi accontenterò di avvertirvi che, oltre alle tre leggi che ho spiegato, non voglio supporre se non quelle che conseguono infallibilmente da quelle verità eterne [«vérités éternelles»] sulle quali i matematici sono soliti appoggiare le loro più certe e più evidenti dimostrazioni: quelle verità, dico, secondo le quali Dio stesso ci ha insegnato che aveva disposto tutte le cose in numero, in peso e misura, e la conoscenza delle quali è così naturale alle nostre anime che noi, quando le concepiamo distintamente, non potremmo non giudicarle infallibili e sospettare che, se Dio avesse creato più mondi, esse non sarebbero vere in tutti come lo sono in questo (Le Monde, VII, B Op II, p. 269; AT, XI, p. 47).

Se prestiamo attenzione al passaggio riportato, analizzandolo alla luce delle riflessioni cartesiane sullo statuto principiato delle verità eterne avanzate, nello stesso periodo, nel suo epistolario, possiamo osservare la diversa modalità con cui il filosofo si rapporta a queste formulazioni. Ne Le Monde, infatti, le leggi della natura conseguono «infallibilmente» dalle verità eterne, la cui necessità è il fondamento che consente ai matematici di giustificare, in modo certo ed evidente, il valore ultimo delle loro dimostrazioni. Il contenuto di queste verità non potrebbe cambiare – come Descartes confermerà nella quinta parte del Discours9 – ne-

9 Cfr. R. Descartes, B Op I, p. 75; AT, VI, p. 43: «Ho fatto inoltre vedere quali fossero le leggi della natura e senza appoggiare le mie ragioni su nessun altro principio se non sulle infinite perfezioni di Dio, ho cercato di dimostrare tutte quelle su cui si fosse potuto nutrire qualche dubbio, facendo vedere che esse sono tali che, se anche Dio avesse creato più mondi, non ve ne sarebbe stato nessuno in cui esse avrebbero mancato di essere osservate».

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anche qualora Dio desse vita ad altri mondi possibili. La loro universale e sempiterna necessità consente perciò all’uomo di indagare l’universo del creato forte di un solido strumento di proporzione. La ragione umana, esaminando con attenzione le conseguenze che derivano da questa necessità, è in grado di «conoscere gli effetti a partire dalle loro cause», cioè di ottenere delle «dimostrazioni a priori di tutto ciò che può essere prodotto in questo nuovo mondo» (Ibid.). È interessante sottolineare che la posizione appena esaminata si inscrive in un contesto epistemico differente da quello elaborato nelle lettere del 1630 inviate a Mersenne. In queste lettere, Descartes si sofferma più volte sulla natura creata delle verità eterne, riconducendo l’intrinseca necessità del loro contenuto ad un atto libero e arbitrario che avrebbe potuto dare origine a ben altre leggi e proporzioni. Lo scenario metafisico che il filosofo presenta al Minimo non coincide con quello delineato nel suo trattato; anche in questo caso, le ragioni cartesiane, al contempo implicite ed evidenti, rispondono a delle esigenze precise: qualora Descartes non avesse circoscritto l’onnipotenza divina, vincolando le infinite possibilità a disposizione della Sua potentia, non avrebbe potuto rivendicare per le proprie ricerche alcuna reale oggettività. Ecco quindi la motivazione che ha spinto Descartes a consegnare ai suoi lettori solo i margini di questo drāma, spingendolo a non evocare, all’interno de Le Monde, le osservazioni sulla potentia Dei analizzate nel “privato” della sua corrispondenza. L’idea cartesiana di esporre le proprie ricerche sulla natura attraverso l’espediente di una favola è figlia di questa consapevolezza. La metafisica del filosofo francese, assunta nella sua piena radicalità, condannerebbe il mondo manifesto a non essere altro che una fable, ossia una fictio che, pur avendo delle leggi che presiedono alla coerenza del suo sviluppo, non

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possiede una verità che sia in grado di giustificarla di là da ogni ragionevole dubbio, cioè a dispetto della libera quanto onnipotente volontà di Dio. Per realizzare una descrizione del mondo che non sia, almeno formalmente, sempre nelle condizioni di rivelarsi altrimenti, è allora necessario intervenire nel cuore dell’essentia Dei, e garantire all’intellectus dell’uomo la possibilità di conoscere il mondo, ricercando un sapere capace di rivendicare pubblicamente una sua intrinseca dignità e utilità. Abbandonata ogni volontà di dare vita ad un vera descrizione del mondo, ci si può soltanto limitare a raccontare la favola di un alter mundus, descrivendone le leggi e i meccanismi. Descartes, tuttavia, può realizzare un simile proposito, portando a termine il proprio racconto, solo eliminando, dal teatro del suo mondo, quella «chose obscure» incarnata dall’alterità divina, da sempre implicata nei processi della ratio umana. Dopo aver estromesso dalla scena l’ascosità del divino, Descartes potrà farsi strada in mente Dei, iniziando ad indagarne la natura secondo quelle proprietà che sono necessarie al lieto fine della favola. In questa rappresentazione barocca, e nel chiaroscuro delle sue pieghe, la chiarezza e la distinzione delle nostre formulazioni concettuali sono accompagnate da un’ombra gettata sull’essentia, essa stessa umbratile, di Dio. La dimensione luminosa del pensiero, dunque, è resa possibile da una «chose obscure» che il pensiero deve illuminare per mettere in scena la propria drammaturgia. Non resta così altro rimedio che quello di raccontare, e raccontarsi, una favola. Non è allora un caso se, in un ritratto dipinto da Jean-Baptist Weenix, il filosofo francese sia immortalato con un libro fra le mani, aperto solo in parte. Sebbene un’ombra sia gettata sulla pagina, è possibile leggere quanto vi è scritto: «Mundus est fabula».

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2. L’anfiteatro e la macchina Il XVII secolo è l’epoca del teatro e della dissimulazione, del trompe-l’œil e dell’eloquenza. È perciò impossibile pensare realmente la filosofia di Descartes senza riflettere sul sostrato metaforico che innerva il suo tempo. Lo stesso filosofo, lontano dall’essere il fautore di un pensiero disincarnato, è parte integrante di questo mondo, diviso fra il ritmo incessante delle quaestiones medievali e i chiaroscuri dello scetticismo barocco. Nel seicento la dimensione pubblica del teatro diviene un compendium simbolico e concreto del mondo: assistiamo allora, come ha sottolineato Jean-Pierre Cavaillé, ad una teatralizzazione dell’universo e ad una universalizzazione del teatro10. L’utilizzo cartesiano della favola – fabula è un altro modo per indicare una messa in scena, tragica o comica –, o i ripetuti richiami e riferimenti alla natura teatrale del pensiero, si inscrivono all’interno di un contesto culturale ben determinato. La metaforica teatrale è un espediente retorico e concettuale che accompagna l’iter speculativo del filosofo dai suoi esordi fino alle pagine dedicate all’analisi stoica delle passioni umane. Nelle Cogitationes Privatae11, Descartes descrive la missione intellettuale che lo attende paragonandosi a degli attori: come i «comoedi», nel tentativo di nasconder il «pudor» dal volto, sono costretti ad indossare una maschera, allo stesso modo il filosofo francese, pronto ora a calcare non più da «spectator» il palcoscenico di questo teatro mondano, decide di fare la sua comparsa nascondendo le sue reali intenzioni [«larvatus prodeo]».

10 Cfr. J.-P. Cavaillé, Descartes. La Fable du monde, cit., p. 39. 11 Cfr. R. Descartes, B Op II, p. 1061; AT, X, p. 213.

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Se nelle Cogitationes Privatae il theatrum mundi è il luogo privilegiato per rappresentare un intero progetto di vita, nell’ultimo saggio pubblicato Descartes fa invece cenno al naturale piacere che si prova quando, in qualità di spettatori, si assiste «alle strane avventure che si vedono rappresentate a teatro» (Les Pass. de l’Âme, II, 94, B Op I, p. 2419; AT, XI, p. 399). Anche ne La Recherche de la vérité, il dialogo incompiuto in cui il filosofo stava cercando di porre le basi del proprio metodo, alla ricerca di quel punto archimedeo per sostenere e fondare una nuova scienza del mondo, l’istanza teatrale viene di nuovo chiamata in causa. In un passaggio fondamentale dell’opera, il retroterra barocco del pensiero cartesiano accompagna l’intera narrazione: Non avete mai udito nelle commedie [«comédies»] questa espressione di stupore: Dormo o son desto? Come potete essere certo che la vostra vita non sia un sogno perpetuo e che tutto ciò che pensate di apprendere con i sensi non sia falso, tanto ora quando dormite? Visto principalmente che avete appreso di essere stato creato da un essere superiore [«être supérieur»], il quale, essendo onnipotente come è [«étant tout-puissant»], non avrebbe avuto maggiore difficoltà a crearci come io dico, che come voi pensate di essere (La Recherche, B Op II, p. 845; AT, X, pp. 511-512).

La fragilità epistemica è qui posta in relazione sia all’inganno di quell’essere superiore che indosserà, nell’esordio delle Meditationes, la maschera del Dio Ingannatore12, sia alla messa in

12 L’être supérieur della Recherche coincide con il Dio Ingannatore delle successive Meditationes per due ragioni: in primo luogo, per il positivo riferimento all’onnipotenza, e poi perché «l’attributo di creator», come sottolinea Tullio Gregory, «è troppo tecnico e esclusivamente riferito a Dio dalla tradizione teologica per supporre che Descartes lo possa usare indifferentemente per Dio e per il genius malignus», T. Gregory, Dio ingannatore e genio maligno. Note in margine alle Meditationes di Descartes in «Giornale

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scena di una drammaturgia intimamente legata a quella fabula che rappresenta la cifra ontologica della pubblica riflessione del filosofo. Nella terza parte del Discours, inoltre, ripercorrendo il cammino intellettuale che lo ha condotto alla scoperta di un nuovo metodo, Descartes racconta di aver viaggiato per il mondo, «cercando di essere più spettatore [«spectateur»] che attore [«acteur»] in tutte le commedie [«Comédies»] che vi si recitavano» (Discours, III, B Op I, pp. 55-56; AT, VI, p. 28). Il teatro rappresenta anche il luogo della dissimulazione, lo spazio in cui ogni personaggio, indossando una maschera, può celare le sue reali intenzioni: Voetius, infatti. mostrandomisi col volto sempre coperto d’una maschera [«in me non prodeat nisi personatus»], manda ora uno, ora un altro dei suoi discepoli per non essere considerato il responsabile delle cose contenute nei loro scritti, e, tuttavia, al tempo stesso, per rafforzarle con la sua autorità (B Op I, p. 1497; AT, VIII, p. 7).

È naturale che la maschera del teologo riformato finisca per trovare nel teatro il luogo più idoneo per inscenare il proprio dramma: Le prediche di questo dottore, da me or ora descritte, sono dunque solite piacere al popolo, dal momento che la natura di tutti gli uomini è tale che essi provano piacere a commuoversi non soltanto davanti all’allegria, ma anche e soprattutto davanti ai più strazianti affetti dell’animo; perciò nei teatri trovano spazio le tragedie non meno che le commedie [«hinc tragoediae non minus quam comediae in teatris locum inveniunt»] (Ivi. p. 1545; AT, VIII, pp. 47-48).

Critico della Filosofia Italiana», 53, 1974, pp. 477-516, ora in Id., Mundana Sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1992, pp. 401-440, cit. p. 407, n. 9.

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Al di là delle svariate occorrenze del vocabolario teatrale presenti nel corpus del filosofo, la teatralità della riflessione di Descartes troverà il suo più coerente sviluppo nelle Meditationes. È proprio in quella sede che la strategia cartesiana andrà incontro alla sua più articolata e compiuta definizione. Le Meditazioni sono infatti un multiforme teatro13, uno spazio in cui il filosofo dà voce e sostanza al dramma di una modernità incipiente; quasi fosse un drammaturgo spagnolo del Siglo de oro, Descartes disegna uno spazio pubblico popolato da svariate maschere, ciascuna destinata a giocare un proprio ruolo nella dinamica narrativa che si sta rappresentando. Il filosofo finirà così per mettere in scena uno straordinario drāma, destinato ad imprimere un’accelerazione decisiva alla tassonomia dei saperi medievali. Lasciando per ora da parte l’andamento di quest’opera, di cui ci occuperemo in modo più dettagliato nel prossimo capitolo, possiamo comunque soffermarci sulle VII Objectiones, scritte da Pierre Bourdin e inserite nella seconda edizione delle Meditationes stampata ad Amsterdam nel 1642. L’andamento del confronto assume immediatamente l’aspetto di una pièce teatrale. Bourdin, infatti, introduce gli argomenti in esame simulando un dialogo col proprio avversario; Descartes, tuttavia, è una presenza ingombrante ma silenziosa, visto che all’ironia del gesuita non segue alcuna reale presa di distanza da parte del filosofo. Descartes accusa dunque Bourdin di costringerlo ad indossare una «maschera [«larva»]», con l’intenzione «non di nascondere, ma di deformare» il suo vol-

13 Riferendoci alla dimensione teatrale della riflessione cartesiana, ci muoviamo in modo totalmente indipendente dalle considerazioni proposte da D. Dennett, Consciousness explained, Little Brown and Company, Boston 1991; trad. it. di L. Colasanti, Coscienza. Che cosa è, Laterza, Roma-Bari 2009.

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to, per poi aggiungere: «Io, però, me la tolgo e la butto via, sia perché non ho l’abitudine di fare l’istrione, sia, anche, perché non sarebbe conveniente farlo qui, dove ho a che fare con un religioso a proposito di una questione molto seria» (VII Resp., B Op I, p. 1249; AT, VII, p. 454). Il filosofo francese decide allora di rispondere ad ogni singola obiezione del gesuita, dimostrando come le critiche che gli sono rivolte nascano da una mancata comprensione delle Meditationes. Dopo un serrato scambio di battute, Descartes interrompe il confronto con Bourdin, scegliendo di non inframmezzare più le riflessioni del religioso con le sue note esplicative: Ma diventa noioso, per me, rimproverarlo ogni volta di falsità; da ora in poi, dissimulerò e sarò spettatore silenzioso, sino alla fine, delle altre sue burle. Per quanto, certo, mi imbarazzi vedere che il Reverendo Padre, con la sua troppa voglia di cavillare, abbia calzato il socco dei comici [«comicum soccum»]; e che, descrivendosi timoroso, lento, di scarso ingegno, abbia qui voluto imitare non gli Epidici o i Parmenoni dell’antica commedia [«veteris Comoediae»], ma quel personaggio [«illam personam»] vilissimo della commedia di oggi che cerca di far ridere con le sue sciocchezze (Ivi, p. 1303; AT, VII, pp. 492-493).

Una volta riportate nella loro interezza le riflessioni di Bourdin, Descartes inscena una pièce teatrale in cinque atti. Le VII Objectiones e Responsiones, considerate nella loro interezza, danno perciò luogo ad una rappresentazione al quadrato, ossia ad una commedia che, prendendo spunto da una trama precedente, si propone di trasfigurarla. Alla messa in scena di Bourdin si sostituisce, sovrapponendosi, la rappresentazione cartesiana, una commedia con due soli attori: da una parte l’architetto, alter ego del filosofo, e dall’altra uno stolido e inconsapevole muratore, una maschera che in-

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carna alla perfezione la superficialità intellettuale del religioso francese. L’idea cartesiana di considerare il proprio interlocutore alla stregua di un commediante, interessato a catturare l’interesse del pubblico con espedienti comici di scarso rilievo, unita, in modo particolare, alla scelta di Bourdin di presentare le sue obiezioni sotto il velo di un’ironica drammaturgia, non devono sorprendere, soprattutto considerando l’incidenza del teatro nell’educazione gesuitica14. Nelle Regulae professoris rhetoricae contenute nella Ratio Studiorum, infatti, il docente era esplicitamente invitato ad affinare le capacità oratorie dei suoi studenti attraverso la recita di un dialogo o alla messa in scena di un testo teatrale: «L’insegnante potrà, talvolta, proporre agli allievi di svolgere, al posto del componimento, una breve azione scenica [«brevem aliquam actionem»], cioè un’egloga, una scena o un dialogo, cosicché la migliore di quelle composte possa essere rappresentata in classe, dopo aver assegnato le parti tra gli stessi studenti15».

14 Cfr. J.-M. Valentin, Le théâtre des Jésuites dans les pays de langue allemande (1554-1680), III Voll., Publications Universitaires Européennes, Peter Lang, Bern – Frankfurt am Main – Las Vegas 1978 (in part., Vol. I, pp. 205-384); cfr. inoltre M. Fumaroli, Les jésuites et la pédagogie de la parole, in M. Chiabò e F. Doglio (a c. di), I gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, Torre d’Orfeo, Roma 1995, pp. 39-56 e F. M. Sirignano, L’itinerario pedagogico della Ratio Studiorum, Luciano, Napoli 2001. Sul ruolo che questa educazione, improntata ad un vero e proprio dramma scolastico, modulato secondo messinscene e pantomime musicali, ricoprì ad esempio nell’itinerario di formazione di Athanasius Kircher, cfr. T. Pangrazi, La Musurgia Universalis di Athanasius Kircher. Contenuti, fonti, terminologia, Leo S. Olschki, Roma 2009. 15 Ratio atque Institutio Studiorum Societatis Iesu, Napoli 1599 [Roma, 1586, 1591]; trad. it. di A. Bianchi, Ordinamento degli studi della Compagnia di Gesù, , Rizzoli, Milano 2002, p. 279.

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La metaforica teatrale non rappresenta tuttavia l’unica risorsa figurale e simbolica per mettere in scena il dramma di una modernità incipiente: accanto a quel teatro in cui l’uomo inscenava i confini del proprio mondo, scatenando le passioni più diverse, un’altra struttura, questa volta di forma ellittica, ha rappresentato uno snodo decisivo nella formazione intellettuale del filosofo. Descartes, infatti, ebbe l’opportunità di frequentare l’anfiteatro di anatomia di Leiden, «il luogo in cui la morte gode nel soccorrere la vita [«Hic est locus ubi mors gaudet succurrere vitae»]», come è scritto sull’arcata d’ingresso dell’anfiteatro padovano, voluto da Girolamo Fabrici d’Acquapendente, l’anatomista e fisiologo che ispirò il lavoro di Pieter Pauw. All’interno dei suoi confini, l’impresa scientifica si trasforma in un avvenimento pubblico, e l’uomo, attore e spettatore ad un tempo, può consegnare allo sguardo dei presenti un pezzo di mondo, descrivendone i meccanismi. Al centro dell’anfiteatro, nel tavolo in cui avveniva la dissezione, il corpo e la sua materia inerte danno vita ad uno spettacolo condiviso, destinato a diventare il paradigma di un nuovo sapere. Nello spazio di questa rappresentazione è vietato l’accesso all’analogia, alla similitudine e ad ogni cosa non sia immediatamente riconducibile, e perciò riducibile, alle geometrie finite dell’estensione. La verticalità delle proporzioni cede il passo ai legami orizzontali tracciati dalla mano umana, mentre la dimensione della somiglianza, come ha notato Michel Foucault16, viene bandita e sostituita dalla precisione chirurgica dell’anatomista. Il corpo stesso dell’uomo è preda e oggetto di questa nuova esigenza: le sue funzioni «seguono tutte naturalmente, in 16 Cfr. M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 2004, in part. pp. 31-92.

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questa macchina [«en cette Machine»], dalla sola disposizione dei suoi organi, né più né meno di come i movimenti di un orologio o di un altro automa, seguono dai suoi contrappesi e dalle sue ruote». A dispetto di un’intera tradizione cresciuta all’ombra dell’aristotelismo scolastico, non è più nemmeno necessario concepire all’interno di un congegno così ben oliato un’anima vegetativa o sensitiva, «né alcun altro principio di movimento e di vita, ad eccezione del suo sangue e dei suoi spiriti» (L’Homme, V, B Op II, p. 507; AT, XI, p. 202). L’indagine cartesiana sulla natura meccanica dei comportamenti degli animali, compendiata in quella celebre immagine con cui si chiude la quinta parte del Discours17, si muove all’interno di questo clima culturale18. L’idea che gli animali fossero delle macchine prive di riflessione, e quindi disponibili ad essere dissezionati nelle loro componenti più minute, si era affacciata già nelle Cogitationes Privatae19, per essere poi riconfermata ne Les Passions de l’Âme20. Nella prima parte di questo trattato, consacrata all’anima e alle sue interazioni con la «macchina del nostro corpo [«machine de notre corps»]» (Les Pass. de l’Âme, I, 7, p. 2337; AT, XI, p. 331), l’automatismo dei comportamenti animali costituisce un aspetto importante per Descartes, quasi un exemplum funzionale a ricercare un farmaco e un rimedio generale contro le passioni:

17 «É la natura che agisce in loro, a seconda della disposizione dei loro organi, allo stesso modo in cui si vede che un orologio composto solo da ruote e molle, può contare le ore e misurare il tempo con precisione maggiori di noi con tutta la sua prudenza», R. Descartes, B Op I, p. 93; AT, VI, p. 59. 18 A questo proposito, cfr. D. Des Chene, Spirits and Clocks. Machine and Organism in Descartes, Cornell University Press, Ithaca and London 2001. 19 Cfr. R. Descartes, B Op II, p. 1067; AT, X, p. 219. 20 Cfr. R. Descartes, B Op I, pp. 2381-2383; AT, XI, pp. 368-370.

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199 Dal momento che, con un po’ d’esercizio, si possono cambiare i movimenti del cervello negli animali sprovvisti di ragione [«dans les animaux dépourvus de raison»], è evidente che lo si può fare ancor meglio negli uomini, e che anche coloro le cui anime sono più deboli potranno acquistare un comando assoluto su tutte le loro passioni, se mettessero sufficiente impegno a indirizzarle e a guidarle (Ivi, I, 50, p. 2383; AT, XI, p. 370).

La riflessione di Descartes sugli animali trova, ad ogni modo, la sua più completa e articolata esposizione nella quinta parte del Discours21. È in questa sede che il filosofo, recuperando la fable che ha avuto luogo negli spazi immaginari de L’Homme, torna a riflettere sulla natura meccanica del corpo. L’interesse cartesiano non è qui rivolto solo a questa moltitudine di ossa, muscoli, nervi, arterie e vene, bensì all’opportunità di istituire una cesura metafisica fra l’uomo e il mondo animale. In effetti, suggerisce Descartes, «se vi fossero macchine tali da avere gli organi e la forma di una scimmia o di qualche altro animale privo di ragione, noi non avremmo alcun modo per riconoscere che esse non siano in tutto della stessa natura di questi animali» (Disc. de la méthode, V, p. 91; AT, VI, p. 56). Benché sia sempre possibile costruire una macchina simile in tutto e per tutto ad un animale privo di ragione [«animal sans raison»], non potremmo mai essere ingannati al cospetto di un automa capace di imitare dei veri uomini [«vrai hommes»], giacché disponiamo di due mezzi per esercitare con successo la nostra capacità di discernimento. Il primo riguarda la natura semantica dei segni che gli uomini utilizzano per manifestare i propri pensieri22, mentre il secondo si riferisce alla distanza in-

21 Cfr. R. Descartes, B Op I, pp. 89-95; AT, VI, pp. 55-60. 22 «Il primo di questi mezzi è che mai esse [le macchine] potrebbero usare parole, né altri segni componendoli come noi facciamo per manifestare agli

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colmabile che separa l’universalità della ragione umana dalla particolarità, sempre circoscritta, degli organi che consentono agli animali di muoversi23. È il linguaggio, dunque, a determinare la differenza specifica fra gli uomini [«les hommes»] e le bestie [«les bêtes»]. D’altro canto, precisa il filosofo, basta osservare ciò che accade in natura: gli ebeti [«hébétés»], gli stupidi [«stupides»] e perfino gli insensati [«insensés»] sono in grado di «mettere assieme diverse parole e comporre un discorso attraverso il quale far intendere i loro pensieri»; non esiste, però, nessun animale, «per quanto perfetto possa apparire e ben nato possa essere», capace di fare altrettanto, pur disponendo, come le gazze e i pappagalli, dell’organo preposto alla parola (Ivi, pp. 91-93; AT, VI, p. 57). Questi esempi non dimostrano che «le bestie hanno meno ragione degli uomini», bensì confermano che «esse non ne hanno affatto», poiché è la natura che agisce in loro in base alla disposizione degli organi, «allo stesso modo in cui si vede che un orologio, composto solo da ruote e molle, può contare le ore e misurare il tempo» (Ivi, p. 93; AT, VI, p. 58).

altri i nostri pensieri. Si può infatti ben concepire che una macchina sia fatta in maniera tale da profferire delle parole, ed anche che ne profferisca qualcuna a proposito delle azioni corporee che causeranno qualche cambiamento nei suoi organi […], ma non si può fare in modo che essa disponga diversamente le parole per rispondere al senso di tutto quel che si dirà in sua presenza, come anche i più ebeti possono fare», Ivi, p. 91; AT, VI, pp. 56-57. 23 «Il secondo mezzo è che, per quanto esse possano fare molte cose tanto bene quanto ciascuno di noi, o anche meglio, esse fallirebbero inevitabilmente in altre, attraverso le quali si scoprirebbe che esse non agirebbero per conoscenza, ma solo in virtù della disposizione dei loro organi. Infatti, mentre la ragione è uno strumento universale, che può servire in ogni sorta di occasione, questi organi hanno bisogno di qualche disposizione particolare per ogni azione particolare», Ibid..

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L’uomo possiede, inoltre, a differenza degli animali, un’anima razionale [«âme raisonnable»] creata direttamente da Dio e indipendente dal corpo: Dopo l’errore di coloro che negano Dio […], non ve n’è alcuno che allontani maggiormente le menti deboli dal retto cammino della virtù, che l’immaginare che l’anima delle bestie abbia la stessa natura della nostra e che, di conseguenza, noi non abbiamo nulla da temere né da sperare dopo questa vita, alla stregua delle mosche e delle formiche (Ivi, p. 95; AT, VI, p. 59).

Con questi giudizi, Descartes recide ogni possibile legame con la tradizione libertina, da sempre intenzionata a scalzare quel pregiudizio antropocentrico fondato sulla presunta superiorità e signoria dell’uomo sul mondo animale24. Contro Michel de Montaigne e Pierre Charron, entrambi citati nella lettera inviata al Marchese di Newcastle25, il filosofo francese torna ad

24 La critica corrosiva che la tradizione libertina riserverà all’antropocentrismo costituisce un leitmotiv di quell’opera di decentramento cui si ispirava tutta la corrente del libertinismo erudito. Cfr., fra gli altri, Montaigne, Essais, II, XII; trad. it. di F. Gravini, Saggi, Adelphi, Milano 2007, in part. pp. 594-595 e ss.; P. Charron, De la Sagesse (1601), I, 8; C. de Bergerac, Les États et Empires du Soleil, in Les œuvres libertines de Cyrano de Bergerac, Vol. I, par F. Lachèvre, Paris 1922. Per un’analisi complessiva del fenomeno, attenta a porre in risalto la progressiva consunzione del pregiudizio antropocentrico nell’area culturale libertina, cfr. T. Gregory, Il libertinismo della prima metà dei Seicento. Stato attuale degli studi e prospettive di ricerca, in T. Gregory – G. Paganini – G. Canziani – O. Pompeo Faracovi – D. Pastine (a c. di), Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 3-47, in part. pp. 32-37; Id., Éthique et religion dans la critique libertine, in Id., Genèse de la raison classique de Charron à Descartes, Puf, Paris 2000, pp. 81-112, in part. pp. 103-105. 25 «Per quanto riguarda l’intelletto o il pensiero che Montaigne e altri attribuiscono alle bestie, non posso essere del loro stesso avviso. Non che mi fermi a quel che si dice, che cioè gli uomini hanno un dominio assoluto su tutti gli altri animali; riconosco infatti che ve ne sono di più forti di noi, e

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insistere, in molti luoghi del suo epistolario26, sull’abisso che separa l’anima umana, immateriale e immortale, dal comportamento meccanico degli animali, per definizione riducibile alla materialità misurabile e quantificabile dell’estensione. Il filosofo francese sottrae l’anima dell’uomo dallo spettacolo pubblico dell’anfiteatro, affidando, al tempo stesso, il proprio corpo alle sapienti mani dell’anatomista. La differenza che divide l’uomo dall’animale non è dunque per nulla innocente: è grazie a queste riflessioni che Descartes può legittimamente consegnare anche il corpo umano ad un’analisi fisica e anatomica, riservandosi un resto ontologico – la spiritualità dell’anima – irriducibile al lieto fine della favola. Il mirabile residuo dell’anima, segno tangibile della creatio divina, svolge due funzioni nel progetto cartesiano: da una parte, testimonia l’impossibilità di ricondurre questo sigillum Dei alla materia estesa, salvando l’ispirazione cristiana dell’intera riflessione; dall’altra, invece, apre le porte dell’impresa scientifica al corpo complessivo del mondo, a questa nuova creatura quantificabile e misurabile dalla vis conoscitiva dell’uomo. L’indagine compiuta da Descartes sulla natura degli animali è stata perciò sempre considerata utile alla fondazione della sua fisica. Sia questo particolare aspetto della riflessione cartesiana, sia le altre parti del suo edificio concettuale sarebbero, in sostanza, delle analisi funzionali a rendere possibile una filosofia della natura irriducibile alle ipotesi precedenti. Gli studi

credo sia possibile che ve ne siano anche alcuni dotati per natura di astuzie in grado di ingannare gli uomini più furbi. Ritengo però che essi ci imitino, o superino, solo in quelle azioni che non sono guidate dal pensiero», R. Descartes, B Op n. 587, pp. 2351-2353; AT, IV, pp. 573-576. 26 Cfr. R. Descartes, B Op n. 127, p. 425; AT, I, p. 414; B Op n. 164, pp. 651-653; AT, II, pp. 39-41; B Op n. 677, pp. 2623-2625; AT, V, pp. 276-279.

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di Étienne Gilson sono un esempio paradigmatico di questa tendenza interpretativa27. Per lo studioso francese, la metafisica svolge un ruolo subordinato nel pensiero di Descartes; nemmeno la sua teoria sulla libera creazione delle verità eterne, destinata a dare voce ad una nuova idea di Dio, sfugge a questo giudizio critico. Anzi, per Gilson l’enfasi cartesiana sulla libertà divina deve essere interpretata come la condizione indispensabile per liberare il mondo dall’ipoteca delle cause finali, rendendo possibile un mondo dominato dalle sole cause efficienti28.

27 Ci stiamo riferendo, in modo particolare, al primo lavoro dello storico dedicato al filosofo francese: cfr. É. Gilson, La liberté chez Descartes et al théologie, cit., in part. pp. 76-127 e pp. 157-210. La riflessione gilsoniana su Descartes è andata incontro a notevoli sviluppi nel corso dei decenni successivi. Il giudizio dello storico sulla filosofia cartesiana incomincia a mutare a partire dalla pubblicazione di uno studio sul pensiero religioso di Descartes ad opera di Henri Gouhier (cfr. La pensée religieuse de Descartes, Vrin, Paris 1924). Il commentario gilsoniano al Discours de la méthode di Descartes (Vrin, Paris 1926), unito ai suoi Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, Vrin, Paris 1930 (n. éd. Vrin, Paris 1984), testimoniano dunque una parziale revisione delle analisi precedenti. È altrettanto vero, tuttavia, che la convinzione che la metafisica di Descartes fosse al servizio di una nuova fisica, e ad essa subordinata, è una persuasione che non ha mai abbandonato lo storico francese, come dimostrano i suoi saggi americani; cfr. É. Gilson, The Unity of Philosophical Experience, Charles Scribner’s Sons, New York 1937 (n. ed. Ignatius Press, San Francisco 1999); Id., God and Philosophy, Yale University Press, Yale 1941 (n. ed. Yale University Press, Yale 2002). 28 «Il est à remarque en effet, que dès 1630, c’est à propos de sa physique que Descartes introduit dans ses lettres à Mersenne l’exposé de son sentiment sur la liberté de Dieu […]. Dès cette époque la négation de la finalité dans la volonté divine est donc pour lui à la base de la physique, et c’est pourquoi Descartes peut écrire dans la même lettre que sans la connaissance de Dieu et de sa véritable nature il n’aurait jamais pu trouver les fondements de cette science. Par là, nous découvrons quel sens et quelle portée il convient d’attribuer à la conception cartésienne de la liberté di-

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La scelta cartesiana di evocare un Dio immenso, incomprensibile e infinito è un modo per allontanare la presenza divina dalla natura, lasciando l’orizzonte del creato alle industriose cure dell’ingegno umano. Descartes acquisisce potere sul suo mondo glorificando la maestà divina, proprio mentre sospinge ai margini della natura l’essentia e la voluntas di questo Dio. In un simile contesto, la negazione di ogni finalismo, presente in vari luoghi della produzione cartesiana29, si rivela una precondizione indispensabile per la costruzione di una fisica autonoma, interamente disponibile alle capacità e ai bisogni dell’uomo. La dottrina consegnata alle lettere del 1630 non sarebbe altro, insomma, che una riflessione riconducibile, nella sua interezza, ad un’opzione scientifica: nella fattispecie, all’abbandono delle cause finali come paradigma di spiegazione della natura. L’interpretazione offerta da Gilson ridimensiona la novitas della metafisica cartesiana, assegnandole soltanto un ruolo di sostegno, utile per confermare e chiarificare i risultati già raggiunti altrove. Tuttavia, ben prima che l’esegesi dello storico francese si imponesse come un punto di riferimento per la storiografia successiva, Pierre Bayle aveva fornito nel Rorari-

vine. Cette doctrine est avant tout, aux yeux de Descartes, l’indispensable base métaphysique d’une physique des cause efficientes. Lorsqu’il refuse d’admettre une distinction, même de raison, entre l’entendement de Dieu et sa volonté, c’est parce que cette distinction conduit à penser que la volonté de Dieu agit selon le bien qu’appréhende son entendement, et légitime par là-même une explication finaliste des choses», É. Gilson, La liberté chez Descartes et al théologie, cit., pp. 94-95. 29 Cfr. R. Descartes, Medit. IV, B Op I, pp. 753-755; AT, VII, p. 55; V Object., B Op I, pp. 1095-1097; AT, VII, pp. 309-310; V Resp., B Op I, p. 1179; AT, VII, pp. 375-376; Princ. Phil., I, 28, B OP I, p. 1731; AT, VIII, pp. 15-16; Princ. Phil., III, 2-3, B Op I, pp. 1837-1839; AT, VIII, p. 81; Coll. con Burman., B Op II, p. 1269; AT, V, p. 158.

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us30 una lettura affatto diversa dell’intera questione, ribaltando ante litteram l’ordine di priorità con cui rileggere i rapporti fra la metafisica e la fisica cartesiane. In un’opera pubblicata a metà del XVII secolo, Girolamo Rorario, nunzio di Clemente VII alla corte di Ferdinando, sostenne che gli animali, oltre a possedere un’anima razionale, sono in grado, all’occorrenza, di servirsene meglio degli esseri umani31. Analizzando le ragioni offerte da questo scritto, Bayle colse l’occasione per confrontare la riflessione di Descartes con quella aristotelico-scolastica32, mettendo in risalto la debolezza di entrambe le posizioni. L’aspetto interessante della sua analisi è la collocazione teorica che il polemista francese assegna alla tesi cartesiana sugli animali: È un vero peccato che l’opinione di Descartes si presenti così lontana dalla verosimiglianza e così difficile da sostenere, perché è molto favorevole alla vera fede33.

Secondo Bayle, Descartes decide di considerare l’animale alla stregua di un automa meccanico, privo del libero arbitrio e di ogni capacità sensitiva, per giustificare quell’immagine divina che l’uomo trova, in modo innato, nella propria mente. Il pro-

30 Cfr. v. Rorarius, in P. Bayle, Dictionnaire historique et critique (cinquième édition, IV Voll.), Amsterdam – Leyde – La Haye – Utrecht 1740, pp. 76-87; trad. it. di G. Cantelli, Rorario, in P. Bayle, Dizionario storicocritico, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 145-215. 31 Cfr. Hieronymus Rorarius, Quod animalia bruta ratione utantur melius homine libri duo, Seb. and Gabr. Cramoisy, Paris 1648. 32 Per un’analisi completa di questa tematica, con particolare riguardo all’ambiente culturale che ha preceduto l’analisi cartesiana, cfr. D. Des Chene. Life’s Form: Late Aristotelian Conception of the Soul, Cornell University Press, Ithaca and London 2000. 33 P. Bayle, Rorario, cit., p. 145.

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blema dell’anima da attribuire alle bestie è allora un tassello di una più ampia teodicea cartesiana. In effetti, se un animale sprovvisto di ragione fosse dotato, come suggeriscono gli scolastici, di un’anima sensitiva, ricettiva al dolore del mondo, andrebbe incontro ad una sofferenza ingiustificata, giacché quel dolore, non essendo la conseguenza di una scelta libera e consapevole, apparirebbe assolutamente gratuito. Un animale incapace di poter scegliere non merita certo di essere punito, poiché non vi sarebbe alcuna possibilità di riscattare una sofferenza realmente innocente. Come giustificare, del resto, un Dio che crea degli esseri inconsapevoli senza instillare in loro la scintilla del Suo amore, primo motore di ogni ascensione conoscitiva? E cosa pensare di un Dio incapace di riscattare il dolore delle proprie creature, sordo alle sofferenze della sua stessa prole? Non sembra possibile, dunque, conciliare questo scandalo con la bontà divina. L’intuizione cartesiana, però, suggerisce Bayle, «ci solleva da tutte queste difficoltà34». Descartes, infatti, considerando gli animali come delle macchine o dei perfetti automi senz’anima, squalifica di principio queste esiziali conseguenze. Benché Dio sia l’artefice del loro destino, non può esser più giudicato responsabile del loro dolore. Non essendo dotati di un’anima sensitiva, gli animali manifestano ai nostri occhi una sofferenza soltanto apparente: il loro statuto ontologico sarà perciò incorporato nei meccanismi estesi e misurabili della natura, al pari di qualunque altro oggetto del mondo. Le riflessioni di Bayle rappresentano un possibile e differente approccio al cuore del pensiero di Descartes, in grado di incrinare i criteri della lettura gilsoniana. La scelta cartesiana di allontanare dagli animali ogni traccia divina, anziché essere 34 Ivi, p. 155.

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funzionale alla progressiva naturalizzazione del mondo, si rivela una decisione fondata su un’esigenza metafisica, necessaria per scagionare, di fronte al tribunale dell’uomo, la condotta divina. Possiamo confermare la natura metafisica dell’impresa cartesiana dando il giusto risalto alle parole con cui il filosofo introduce, per la prima volta, i tratti salienti della teoria sulla libera creazione delle verità eterne: Quanto alla vostra questione di Teologia, benché superi la capacità della mia mente, non mi sembra essere estranea alle mie competenze, poiché non riguarda ciò che dipende dalla rivelazione – cosa che chiamo propriamente Teologia –, ma è piuttosto metafisica e deve essere esaminata dalla ragione umana. Ora, ritengo che tutti coloro ai quali Dio ha dato l’uso di questa ragione siano obbligati ad usarla soprattutto per cercare di conoscerlo e di conoscere se stessi. Proprio da questo ho cercato di cominciare i miei studi; e vi dirò che non avrei saputo trovare i fondamenti della Fisica [«les fondements de la Physique»], se non li avessi cercati per questa via. Si tratta, anzi, della materia che ho studiato più di tutte e nella quale, grazie a Dio, ho trovato qualche soddisfazione (B Op n. 30, pp. 146-147; AT, I, p. 144).

La testimonianza di Descartes non potrebbe essere più chiara: è la metafisica che lo ha condotto a ricercare e poi trovare «les fondements de la Physique». L’indagine sulla filosofia della natura si inscrive pertanto all’interno di questa disciplina, trovando in essa la sua condizione di possibilità35. Dopo aver

35 Se le fondamenta dell’edificio cartesiano sono metafisiche, il progetto esposto a Mersenne nella primavera del 1630 troverà la sua compiuta realizzazione soltanto nell’architettura delle Meditationes, vale a dire nell’opera che racchiude, come Descartes rivela in una lettera inviata al Minimo il 28 gennaio 1641, «tutti i fondamenti della mia fisica» (R. Descartes, B Op n. 301, p. 1395; AT, III, pp. 297-298). Secondo Daniel Garber, le Meditatio-

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chiarito l’ordine di priorità che ha guidato la propria indagine, Descartes aggiunge di voler prendere in considerazione, nel trattato sul mondo, «molte questioni metafisiche [«plusieurs questions métaphysiques»]»: si sta riferendo, naturalmente, alle riflessioni connesse alla natura creata delle verità eterne. Sappiamo che il filosofo riuscirà a descrivere il suo mondo solo dissimulando il fulcro teorico sotteso alla sua dottrina, ossia mettendo da parte la natura umbratile di Dio per vincolare le possibilità divine all’orizzonte, immutabile e oggettivamente assicurato, dell’attuale creazione. L’impossibilità di dare corpo e sostanza al progetto originario, però, non stravolge la gerarchia che lo stesso Descartes ha imposto ai fondamenti delle proprie ricerche. È necessario invertire, dunque, l’ordine di priorità imposto dall’interpretazione gilsoniana, recuperando la reale intentio del filosofo francese. Descartes non ritiene che Dio sia il libero creatore delle verità eterne per liberare il mondo dall’ipoteca delle cause finali; al contrario, ogni forma di finalismo è bandita dall’universo cartesiano proprio perché Dio è il libero creatore delle verità eterne. Allo stesso modo, il filosofo è convinto che l’intellectus

nes, anziché essere un lavoro conchiuso in se stesso, sono quindi il preludio metafisico di un più ampio programma scientifico, destinato a scalzare il dominio epistemico della scienza aristotelica: «The program of the Meditations is not an autonomous philosophical project, but the prelude to a larger scientific program […]. The motivation for the Meditations cannot be merely the refutation of skepticism, a problem that, it would seem, is of no pressing concern to the practicing scientist. The Meditations is, as it were, a Trojan horse that Descartes is attempting to send behind the lines of Aristotelian science […]. The Meditations are intended to give the epistemological foundations of the new science as much as its metaphysical foundations», D. Garber, Semel in vita: The Scientific Background to Descartes’ Meditations, in Id.., Descartes Embodied. Reading Cartesian Philosophy through Cartesian Science, Cambridge University Press, Cambridge 2011, pp. 221-256, cit. p. 223.

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e la voluntas siano tutt’uno in Dio non per giustificare l’inconoscibilità delle cause finali a favore delle sole cause efficienti, bensì perché non è più possibile pensare che vi sia, una volta posta l’indifferenza dell’essentia Dei, alcuna distinzione fra le Sue facoltà. Descartes è indotto infine a rifiutare ogni separazione, fosse pure di ragione, fra la volontà e l’intelletto divini poiché questa distinzione riconosce implicitamente la possibilità che la potentia Dei possa agire in virtù di un fine collocato ab aeterno nell’intelletto di Dio, quasi fosse indipendente dalla Sua infinita voluntas. La negazione delle cause finali non è perciò il risultato di un’esigenza che prende corpo nella filosofia della natura cartesiana, ma è un lascito metafisico, collegato all’onnipotenza e all’immensità divine. Descartes trova nella metafisica, e in un’opzione oltremodo radicale, le condizioni indispensabili per realizzare il proprio progetto. Una volta eliminati da questo spettacolo pubblico i criteri per investigare i consilia Dei, l’uomo non dovrà far altro che riempiere il vuoto creatosi, ponendo al centro del suo moderno anfiteatro il corpo meccanico di un nuovo mondo.

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Capitolo quinto Il teatro della cogitatio

1. Le maschere delle Meditationes Le Meditationes sono la prima esposizione pubblica e sistematica della metafisica cartesiana. Ciò non significa, naturalmente, che il filosofo non avesse dedicato parte delle proprie energie ad approfondire, già nel periodo della sua formazione intellettuale, le radici della filosofia1. Tuttavia, se non possediamo il testo di quel giovanile petit traité de Métaphysique cui si fa riferimento in alcune lettere2, non possiamo neppure immaginare che la quarta parte del Discours3 restituisca il cuore della filosofia prima di Descartes.

1 Sulla metafora cartesiana dell’albero della filosofia, cfr. R. Descartes, Princ. Phil., B Op I, p. 2231; AT, IX, p. 14: «Tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e perfetta morale, la quale, presupponendo una completa conoscenza delle altre scienze, è l’ultimo grado di saggezza». 2 Cfr. R. Descartes, B Op n. 17, p. 45; AT, I, p. 17; B Op n. 30, p. 147; AT, I, p. 144; B Op n. 37, p. 179; AT, I, p. 182; B Op n. 104, p. 367; AT, I, p. 350. 3 Cfr. R. Descartes, B Op I, pp. 59-71; AT, VI, pp. 31-71.

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È lo stesso filosofo, nella Praefatio alle sue Meditationes, ad avvertire il lettore dell’insufficienza espositiva delle questioni metafisiche presentate in quella sede4. D’altra parte, sia la scelta di pubblicare lo scritto in lingua volgare, possibile preda di un numero considerevole di spiriti deboli [«les esprits faibles»5], sia la volontà di non discutere le ragioni degli scettici [«les plus fortes raisons des sceptiques»6], lo avevano spinto a non esporre, in modo articolato e approfondito, i fondamenti delle proprie ricerche. Per stabilire «qualcosa di solido e duraturo nelle scienze» (Medit. I, B Op I, p. 703; AT, VII, p. 17), e avviarsi così alla costruzione di un sapere rinnovato, è necessario mettere da parte ogni conoscenza pregressa, ricominciando dalle fondamenta. Descartes decide quindi di guadagnare, attraverso una solitaria riflessione in prima persona, equiparabile agli esercizi spirituali dei gesuiti7, una nuova consapevolezza critica, attaccando proprio quei principi su cui si reggeva la tradizione

4 «Avevo brevemente toccato le questioni di Dio e della mente umana già in precedenza, nel Discorso sul metodo per condurre rettamente la ragione e ricercare la verità nelle scienze, stampato in francese nel 1637, non certo con l’intenzione di trattarne lì accuratamente, ma solo per darne un saggio e venire a sapere, in base ai giudizi dei lettori, in qual modo dovessi trattarne in seguito. Esse mi sembravano, infatti, di un’importanza tale da ritenere di doverci tornare sopra più di una volta; e per spiegarle seguo una via così poco battuta e lontana dalla norma che non avevo ritenuto utile insegnarla più diffusamente in uno scritto francese e che doveva essere letto in lungo e largo da tutti, perché non credessero di potervi accedere anche gli ingegni più deboli», R. Descartes, Praef. Medit., B Op I, p. 689; AT, VII, p. 7 (il corsivo è nel testo). 5 Cfr. R. Descartes, B Op n. 104, p. 367; AT, I, p. 350. 6 Cfr. R. Descartes, B Op n. 103, p. 363; AT, I, p. 353; cfr. inoltre R. Descartes, B Op n. 149, AT, I, p. 560. 7 Cfr. G. Belgioioso – F. A. Meschini, Philosopher, méditer: l’Expérience philosophique chez Descartes in «Quaestio», 4, 2004, pp. 197-227.

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precedente. Affinché sia possibile raggiungere questo scopo, è opportuno sospendere l’assenso su tutte quelle opinioni e conoscenze che non appaiono certe e indubitabili. L’analisi cartesiana inizia a vagliare l’affidabilità dei sensi: sebbene rappresentino una fonte insostituibile per incrementare la nostra conoscenza, è pur vero che, talvolta, possono indurci in errore. Questo non è comunque un motivo sufficiente per rifiutare il loro ausilio; i sensi possono anche ingannarci «su cose piccole e alquanto lontane», ma non sembra ragionevole dubitare delle altre informazioni che spesso ci forniscono – a patto, ovviamente, che non ci si paragoni a dei folli, il cui cervello, guastato dal «vapore ribelle» dell’atrabile, fa dire loro «con certezza che sono dei re, mentre sono poverissimi, o che sono vestiti di porpora, mentre sono nudi, o che hanno un capo d’argilla o che sono in tutto delle zucche o fatti di vetro». Certo, si potrebbe usare questo caso limite per squalificare l’apporto conoscitivo della percezione sensibile; un simile esempio, però, non sarebbe di nessun aiuto: del resto, «costoro son pazzi [«amentes sunt isti»8], e non meno demente [«demens]» di loro sembrerei anch’io, se me ne servissi quale esempio per me» (Ivi, p. 705; AT, VII, p. 19).

8 Sulla figura del folle, e sul ruolo che ricopre nell’economia della Meditationes, si tenga presente l’analisi di M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Plon, Paris 1961 (n. éd. Gallimard, Paris 1972); trad. it. di F. Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 2005, in part. pp. 51-53 e pp. 485-509. Sull’interpretazione foucaultiana, cfr. J. Derrida, Cogito et histoire de la folie, in L’écriture et la différence, Éditions du Seuil, Paris 1967; trad. it. di G. Pozzi, intr. di G. Vattimo, Cogito e storia della follia, in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2002, pp. 39-79. Per un’analisi complessiva del confronto fra i due filosofi francesi, cfr. S. Natoli, Ermeneutica e genealogia. Filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger, Foucault, Feltrinelli, Milano 1981, in part. pp. 137-166, ora anche in Id., La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 29-67.

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Durante il sonno, l’uomo, tratto in inganno dalla verosimiglianza dei sogni, può trovarsi nondimeno nelle stesse situazioni descritte dai folli; non sembra esistere, pertanto, un criterio ultimo per distinguere il sogno dalla veglia. Questa situazione, all’apparenza problematica, sembra tuttavia garantirgli una solida proporzione: il contenuto dei sogni, infatti, è simile a delle immagini dipinte; entrambi non possono essere immaginati o raffigurati se non a partire da qualcosa di più semplice ed universale, realmente esistente. Ecco che la materia ultima di tali pensieri, ossia la natura corporea e la sua estensione, unita alla figura delle cose estese e alla loro quantità, non sembrano soggette alla morsa del dubbio. Questa considerazione permette a Descartes di istituire un discrimine all’interno delle diverse discipline: In base a ciò potremmo, forse a buon motivo, concludere che la Fisica, l’Astronomia, la Medicina e tutte le altre discipline che dipendono dalla considerazione delle cose composte sono bensì dubbie, ma che l’Aritmetica, la Geometria, e altre discipline di questo genere, che non trattano che di cose semplicissime e massimamente generali, e poco si preoccupano se esse realmente esistano o meno, contengono qualcosa di certo e di indubbio. Che sia desto o che dorma, infatti, due e tre, sommati fra loro, fanno cinque, ed il quadrato non ha più di quattro lati; e non sembra possibile che verità tanto perspicue incorrano nel sospetto di falsità (Ivi, p. 707; AT, VII; p. 20).

L’aritmetica e la geometria, a differenza dell’astronomia e della medicina, rese possibili da un positivo riferimento alla realtà esteriore, sono delle discipline che non necessitano, nell’universalità che le caratterizza, di alcun legame con un orizzonte composito di referenti esterni, occupandosi soltanto di enti astratti dal mondo circostante. Siamo di fronte a delle materie all’apparenza estranee al processo dubitativo messo in campo da Descartes: la loro certezza e necessità sembrano porle al

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riparo da quella radicale opera di repulisti cui si sta dedicando il filosofo francese. Questo sparuto gruppo di certezze, però, pare prestare il fianco ad una «vetus opinio» radicata nella mente dell’uomo Descartes: Purtuttavia, è radicata nella mia mente una vecchia opinione [«vetus opinio»]: c’è un Dio che può tutto [«Deum esse qui potest omnia»] e dal quale sono stato creato quale esisto. Donde so, allora, che egli non abbia fatto sì che non esista alcuna Terra, alcun cielo, alcuna cosa estesa, alcuna figura, alcuna grandezza, alcun luogo e, nondimeno, tutto ciò mi appaia esistere, non diversamente da ora? E, anzi, come giudico errino talvolta gli altri in quel che ritengono di conoscere alla perfezione, così non potrei forse sbagliarmi io, ad esempio, ogni volta che sommo due e tre, o conto i lati del quadrato o, se è possibile immaginarselo, qualcosa di più facile ancora? (Ibid.; AT, VII, p. 21).

Il passo riportato rappresenta il primo punto di svolta delle Meditationes. Nella cavità di questo teatro, fa il suo ingresso in scena – evocata da un ricordo che pare imporsi a dispetto della volontà, espressa a più riprese dal filosofo, di fare piazza pulita di ogni opinione e presupposto precedenti – la prima maschera di questo moderno dramma: il Dio Ingannatore. La maschera ingannatrice convocata nel teatro eleva esponenzialmente il grado di insecuritas dell’argomentazione. Questo «Deus qui potest omnia» è in grado di estendere la pratica dubitativa ben oltre l’ambito meramente sensibile. Ad entrare in crisi è un insieme di verità che mai, prima di allora, era stato messo in discussione nei suoi fondamenti. L’onnipotenza di questo Dio può sottrarre alle verità dell’aritmetica e della geometria quell’intrinseca necessità che le ha sempre caratterizzate. Ecco che il nostro intero bagaglio conoscitivo – comprese le regole e le leggi cui ci affidiamo per decidere della verità o falsità di ogni enunciato – potreb-

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be essere stato ab origine decostruito dall’interno da un Dio cui è affatto estranea ogni remora morale. Non disponendo di un’immagine divina capace di fare fronte a questo evento, non siamo perciò nelle condizioni di escludere alcuna possibilità. La tragicità chiamata in causa da questa maschera, ad ogni modo, viene immediatamente allontanata dalla scena con un atto tanto gratuito quanto ingiustificato. Restando fedeli ai presupposti che dovrebbero guidare l’indagine, infatti, Descartes non dispone di alcun valido criterio per rendere ragione del suo rifiuto; tuttavia, forte di una persuasione passata, conclude il suo ragionamento nel modo seguente: «Forse, però, Dio non ha voluto che io mi inganni così: lo si dice infatti sommamente buono [«dicitur enim summe bonus»]» (Ibid.). Dopo aver accolto nei margini del proprio teatro la maschera del Dio Ingannatore, la cui omnipotentia sembra in grado di stravolgere, rendendo falsa, ogni conquista intellettuale, il filosofo francese interviene nella narrazione, inserendo una considerazione estranea all’andamento del dubbio. L’affondo cartesiano, all’apparenza avulso dal cuore della meditazione, modifica in realtà l’andamento del testo, vanificando la portata, l’estensione e la funzione della maschera. Il prosieguo della Meditatio I non deve dunque sorprendere; defigurata l’immagine appena evocata, non resta che affrontare un problema più circoscritto: se l’inganno è incompatibile con la bontà divina, per quale ragione l’uomo è comunque soggetto all’errore? Questa domanda pone Descartes di fronte ad una scelta: limitare parte dell’onnipotenza di Dio per assicurare l’uomo di fronte alla deceptio divina, ponendo l’accento sulla Sua veracità e bontà, o sacrificare questi attributi sull’altare della potentia Dei? In verità, lungi dal dedicarsi all’analisi del problema, il filosofo francese decide, semplicemente, di accantonare il dilemma, eliminandolo alla radice:

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217 Ci saranno forse alcuni che preferiranno negare un Dio tanto potente, piuttosto che credere che tutte le altre cose sono incerte. Ma non contraddiciamoli, e consideriamo fittizio [«fictitium»] tutto questo che s’è detto su Dio (Ivi, p. 709; AT, VII, p. 21).

Il passaggio citato, unito alla scelta cartesiana di fare riferimento ad una pervicace credenza convinta della bontà divina [«dicitur…summe bonus»], estromette dalle Meditationes il contenuto perturbante rappresentato dal Dio Ingannatore. Una volta esclusa dalla scena la possibilità incarnata da tale maschera, il cammino cartesiano subirà un’immediata accelerazione: da questo momento, sarà lo stesso filosofo a conquistare il centro della rappresentazione. La scelta di Descartes corrisponde ad un necessità ben precisa: l’illimitata estensione del dominio a disposizione di questo Dio non avrebbe mai potuto garantire il raggiungimento di alcuna certezza. L’assolutezza di ogni conquista intellettuale si sarebbe potuta rivelare non soltanto contingente, bensì fasulla, vale a dire guadagnata all’interno di un quadro epistemico ingannevole, disancorato dal mondo. L’iter conoscitivo che il filosofo si stava preparando ad intraprendere, quindi, non avrebbe potuto conquistare alcun sapere che fosse in grado di imporsi a dispetto dell’inganno divino. Il sopraggiungere di questa possibilità costringe perciò Descartes ad intervenire, rimediando allo strapotere di questa maschera. Vincolando la potentia Dei nello spazio di una moralità univocamente determinatasi, il filosofo decide di conchiudere nei margini del teatro l’oscenità di ciò che, inscrivendosi nella meditazione, avrebbe sempre potuto costituirne la radicale negazione. Una volta relegata la «vetus opinio» di un Dio onnipotente e potenzialmente ingannatore al di fuori della messa in scena, la drammaticità della dubitatio cartesiana viene meno. D’ora in

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poi, sarà Descartes ad imporre a se stesso le ragioni per dubitare. Ecco allora che, «volta la volontà nella direzione contraria, porterò me stesso a sbagliare [«me ipsum fallam»] e, per qualche tempo, farò finta che esse [le opinioni consuete] siano interamente false ed immaginarie» (Ibid.; AT, VII, p. 22). Per rappresentare la temporanea fragilità della meditazione, si dovrà chiamare in causa una nuova maschera, ben differente da quella che l’ha immediatamente preceduta: Supporrò dunque non un Dio ottimo, fonte della verità [«non optimum Deum, fontem veritatis»], ma un certo Genio Maligno [«genium aliquem malignum»], e che questi, sommamente potente ed astuto [«summe potentem et callidum»], abbia impiegato tutta la sua abilità a farmi sbagliare: riterrò che il cielo, l’aria, la Terra, i colori, le figure, i suoni, e tutte le cose esterne non siano altro che beffe dei sogni, con cui egli ha teso trappole alla mia credulità (Ivi, pp. 709-711; AT, VII, p. 22).

Il Genio Maligno appena evocato, simile a quei demoni che si aggiravano nei teatri barocchi del tempo9, ricopre un ruolo marginale nell’economia dell’indagine cartesiana. A dispetto delle apparenze, l’estensione della sua autonomia e la funzione che è chiamato a svolgere sono ben circoscritte10: mentre il Dio Ingannatore, forte della Sua onnipotenza, non era vincolato a nessuna certezza logica, matematica o morale, imponendosi all’interno della dubitatio, la maschera di questo genio è invece figlia di un’esigenza che è lo stesso Descartes ad esplicitare. La radice della sua possibilità, cioè, riposa nella 9 Cfr. J. Rousset, La littérature de l’âge baroque en France: Circé et le Paon, Paris 1953; trad. it. di L. Xella, La letteratura dell’età barocca in Francia: Circe e il pavone, Il Mulino, Bologna 1985. 10 Sulla finitudine del Genio Maligno, cfr. R. Kennington, The finitude of Descartes’ Evil Genius in «Journal of the History of Ideas», XXXII, 1971, pp, 441-446.

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volontà narrativa del filosofo, interessato a mantenere ancora vive, una volta defigurata la maschera del Dio Ingannatore, le ragioni del dubbio inscenate nell’esordio della Meditatio I. L’azione di questo demone è limitata solamente a quell’ambito mondano su cui è necessario sospendere il nostro giudizio, affinché si consenta a questo «genium malignum» di mettere in crisi la conoscenza di cui disponiamo11. Non è quindi un caso se, dopo aver eliminato dal teatro, con un atto arbitrario, la grande maschera ingannatrice, l’attenzione cartesiana non si rivolgerà più alla presunta necessità delle verità geometriche o matematiche, ma si dirigerà, con l’ausilio di questo modesto demone, al cielo e all’aria, alla terra e ai colori e ai suoni; insomma, allo spazio circoscritto del mondo sensibile. Il Genio Maligno, assicurando al dubbio la sua universalità metodica, finisce per sottrarre al mondo ogni consistenza ontologica; la sua funzione, tuttavia, corrisponde in realtà ad una fictio deliberata, necessaria per trasformare, come ha rilevato Henri Gouhier, una questione propriamente metafisica in una semplice ipotesi metodologica12. La maschera del grande in-

11 È dunque scorretto il paragone istituito da A. de Muralt, Epochè - Malin Génie - Théologie de la toute puissance divine, cit., p. 185, fra il Genio Maligno cartesiano e il Dio onnipotente di Ockham. L’estensione causativa di queste due figure è infatti differente: se il Dio ockhamiano è il creatore per eccellenza, capace di causare direttamente tutto ciò che è possibile senza il concorso di alcuna causa seconda (cfr., ad es., In I Sent., dist. 42, q. unica), la maschera del cattivo genio ricopre invece, all’interno del dominio epistemico tratteggiato da Descartes nella Meditatio I, un ruolo limitato: creatura fra le creature, il Genio Maligno può soltanto limitarsi ad intervenire su un mondo che non ha lui stesso contribuito a realizzare. 12 Il Genio Maligno «n’a aucune signification métaphysique: c’est un artifice purement méthodologique qui permet au doute de continuer au moment où justement toutes les questions métaphysiques sont entre parenthèses, y compris celles de l’existence de Dieu et de sa véracité», H. Gouhier, Essais, Vrin, Paris 1949, p. 154.

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gannatore e l’artificio del «genium malignum» rappresentano due ipotesi complementari ma distinte: se il Dio Ingannatore nasce da uno scrupolo dell’intelligenza, il Genio Maligno è figlio della volontà e dell’immaginazione del filosofo, null’altro che un mito metodologico al servizio di un dispositivo sperimentale13. Ferdinand Alquié ha giustamente individuato nella collocazione narrativa di queste due dramatis personae il discrimine che le divide: mentre il Dio Ingannatore è interiore al dubbio intellettuale, cioè consustanziale al suo stesso apparire, il Genio Maligno è legato al volontario desiderio di porsi di fronte ad una situazione di incertezza14. La maschera del cattivo demone è dunque direttamente chiamata in causa dal filosofo francese, costituendo un espediente necessario per mantenere in vita la drammaticità della dubitatio; il contenuto prepotente del Dio Ingannatore, invece, si presenta nella riflessione cartesiana come una possibilità ricevuta e accolta all’interno della rappresentazione: le condizioni del suo apparire e la «vetus opinio» che ne custodisce il ricor-

13 «Le Dieu créateur qui peut tout, comme celui dont on m’a parlé au catéchisme, éveille en moi une supposition et une crainte d’ordre métaphysique, que, seule, la réflexion métaphysique pourra dissiper. Le malin génie est une mythe méthodologique, œuvre de la volonté et de l’imagination appliquées a la mise au point d’un dispositif expérimental; le service qu’on lui demande est même d’éliminer ce qui était d’ordre métaphysique dans les hypothèses sur l’origine de mon être, afin d’éviter le risque de réviser les négations dont elles furent le prétexte», H. Gouhier, La pensée métaphysique de Descartes, Vrin, Paris 1962 (n. éd. Vrin, Paris 1999), p. 120. 14 «Ce qui, selon nous, distingue avant tout l’hypothèse du Dieu trompeur et celle du malin génie, c’est que, toutes deux transcendantes à la raison, elles sont, par contre, différemment situées par rapport à l’inquiétude: le Dieu trompeur est intérieur au doute intellectuel, le mauvais génie n’est lié qu’à l’assomption volontaire de l’incertitude», F. Alquié, La découverte métaphysique de l’homme chez Descartes, cit., p. 177.

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do, infatti, non sono evocate volontariamente da Descartes, essendo loro, piuttosto, ad imporsi nei confini del suo teatro. Nella messa in scena cartesiana, ogni maschera occupa un ruolo strategico, chiamando a raccolta, all’interno di questo dramma, le linee guida di una tradizione precedente. Tullio Gregory ha ricostruito il retroterra concettuale di queste due personae, sostenendo che il Dio Ingannatore e il Genio Maligno, oltre ad incarnare delle esigenze teoriche differenti, siano state delle figure storiche realmente esistenti: «Il Dio ingannatore non era un’ipotesi metafisica inconsueta per filosofi e teologi, il cattivo genio non era per loro, né per il giudici dei tribunali nei processi contro le streghe, una finzione. Se il Dio ingannatore e il genio maligno possono aver assunto questi significati nel discorso di Descartes, ciò non toglie che egli evocava, con quei termini, temi e problemi vivi e reali nella cultura del tempo15». Quando Descartes disegna i tratti del “suo” «genium malignum» ha ben presente la consistenza ontologica di questa entità mediana. A dispetto dei giudizi riservati all’angelologia tomista16, il filosofo recupera le riflessioni medievali, collocandole all’interno della propria strategia. Nell’universo descritto da Tommaso d’Aquino, il possibile intervento angelico o demonico era tutt’altro che un’eventualità remota. Nei primo quattro articoli della quaestio 111 della sua Summa17, il Doctor Angelicus indaga le condizioni che potrebbero 15 T. Gregory, Dio ingannatore e genio maligno. Nota in margine alle Meditationes di Descartes, cit., p. 408. Cfr. Id., La tromperie divine in «Studi Medievali», 23, 1982, pp. 517-527, ora in Id., Mundana Sapientia, cit., pp. 389-399. 16 Cfr R. Descartes, B Op n. 706, p. 2743; AT, V, p. 402; Coll. con Burman, B Op II, p. 1267; AT, V, p. 157. 17 S. Thomas de Aquino, De actione angelorum in nomine, q. 111, a. 1-4, in Summa theologiae, Iª q. 50-119 cum commentariis Caietani, Editio Leoni-

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consentire a queste figure di modificare il processo conoscitivo dell’uomo. L’incapacità dell’intelletto umano di cogliere la nuda verità intellegibile apre la strada, secondo l’Aquinate, all’intercessione di creature superiori. Come dimostra il quarto articolo della presente quaestio18, il potere a loro disposizione, sebbene possieda un’estensione maggiore di quella umana, è comunque circoscritto all’interno di un dominio definito. L’angelo, infatti, «sua naturali virtute», è certamente in grado di intervenire sui sensi dell’uomo; non può, tuttavia, eccedere l’«ordinem totius creaturae». Queste figure mediane hanno quindi la capacità soltanto di agire su delle realtà che sono già a loro disposizione, ma non possono creare ex novo nulla che non trovi in Dio la sua prima ragion d’essere19. Il ruolo che gli angeli e i demoni ricoprivano nella gerarchia mondana era sempre definito in relazione alla causalità divina: la similitudine era funzionale a porre in risalto l’infinita distanza che separava l’omnipotentia Dei dallo spazio, finito e ben determinato, che spettava alle Sue creature. L’angelo na, cura et studio fratrum praedicatorum, Roma 1889, pp. 515-519; trad. it. di P. T. Centi, La Somma Teologica (Vol. VII), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, pp. 166-177. 18 S. Thomas de Aquino, Utrum angelus possit mutare sensum humanum, q. 111, a. 4, cit., pp. 518-519; trad. it. p. 176. 19 «Sensus immutatur dupliciter. Uno modo, ab exteriori; sicut cum mutatur a sensibili. Alio modo, ab interiori, videmus enim quod, perturbatis spiritibus et humoribus immutatur sensus; lingua enim infirmi, quia plena est cholerico humore, omnia sentit ut amara; et simile contingit in aliis sensibus. Utroque autem modo Angelus potest immutare sensum hominis sua naturali virtute. Potest enim Angelus opponere exterius sensui sensibile aliquod, vel a natura formatum, vel aliquod de novo formando; sicut facit dum corpus assumit, ut supra dictum est. Similiter etiam potest interius commovere spiritus et humores, ut supra dictum est, ex quibus sensus diversimode immutentur», Ibid..

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o il demone, infatti, muovendosi all’interno di un orizzonte circoscritto, non dispongono della potentia necessaria per trasgredire i vincoli che la volontà divina ha imposto alla propria creatio. Se sono nelle condizioni di intervenire sui sensi dell’uomo, sia esternamente, presentando alla percezione umana degli oggetti sensibili, sia internamente, producendo delle alterazioni nei sensi stessi, non sono in grado di agire al di fuori dell’ordine stabilito da Dio. La loro creaturalità li inchioda, nella gerarchia degli esseri, in un contesto limitato: pur potendo incrinare le apprensioni conoscitive degli esseri a loro sottoposti, sono costretti ad agire all’interno dello spazio tracciato dall’infinita potentia Dei. Ora, se si analizzava con tanta cura e circospezione il potere a disposizione di queste creature, è perché le si riteneva realmente esistenti. Nella prima metà del seicento, «i mali genii, i maligni spiritus, i daemones non sono affatto un “mito” o la creazione dell’immaginazione popolare, ma esseri spirituali con un posto preciso ed essenziale nell’universo – non solo religioso, ma fisico e metafisico – dell’epoca20». I demoni sono delle presenze che accompagnano, fino alle soglie della modernità, il vissuto quotidiano delle persone, occupando un posto nient’affatto secondario nell’immaginario collettivo. Per dare sostanza a questa considerazione, è sufficiente riflettere sul clamore che suscitarono, fra il 1632 e il 1634, le vicende che videro protagonista Urbain Grandier21, accusato di aver infestato di demoni un convento di orsoline22. Il caso di 20 T. Gregory, Dio ingannatore e genio maligno, cit., p. 438, n. 75. 21 Per una ricostruzione storica delle vicende di questo sacerdote, cfr. il romanzo storico di A. Huxley, The Devils of Loudun, Chatto & Windus, London 1952; trad. it. di M. Ubezio, I diavoli di Loudun, Cavallo di Ferro, Roma 2008. Cfr., inoltre, M. de Certeau, La possession de Loudun, Julliard, Paris 1970 (n. éd. Gallimard, Paris 2005). 22 Richard Popkin, senza dubbio sovrastimando l’importanza degli avvenimenti che ebbero luogo a Loudun, ritiene che il clamore suscitato da questo

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questo sacerdote, descritto dalla penna salace di Pierre Bayle come un «bel homme, agréable dans la conversation, propre en ses habits et en sa personne23», rappresenta soltanto uno dei vari processi per stregoneria che ebbero luogo in quel periodo. La possibilità che un uomo potesse divenire preda delle attenzioni di un demone era perciò una convinzione che innervava il tessuto di credenze dell’epoca. Non dovrebbe sorprendere, quindi, l’attenzione con cui gli apologeti erano pronti a denunciare chiunque osasse mettere in dubbio la veridicità di simili avvenimenti. Negare la realtà di tali creature, magari riconducendo i casi di possessione che continuavano a fiorire nella prima metà del Seicento a delle cause fisiologiche e naturali24, significava mettere in crisi tutta quella riflessione demonologica che aveva tratto parte del proprio materiale direttamente dalle Sacre Scritture. Chi avanzava dei dubbi sulla reale esistenza degli angeli o dei demoni era per ciò stesso collocato nell’ampia schiera degli atei, dei libertini e dei pirroniani, tutti egualmente intenzionati a decostruire quella gerarchia ontologica che regolava e tutelava la creatio divina25.

avvenimento abbia giocato un ruolo non secondario sul dubbio cartesiano; cfr. R. H. Popkin, Storia dello scetticismo, cit., pp. 209-210. 23 P. Bayle, v. Grandier (Urbain), in Dictionnaire historique et critique, cit., pp. 589-592. 24 Cfr. ad esempio F. Garasse, La doctrine curieuse des beaux esprits de ce temps ou prétendus tels, S. Chappelet, Paris 1623, pp. 793-869 (n. éd. par J. Salem, Éditions Les Belles Lettres, Paris 2009, pp. 707-758); cfr. inoltre M. Mersenne, Quaestiones celeberrimae in Genesim, Lutetiæ Parisiorum, Paris 1623, coll. 469, 473 e 475. 25 Cfr. T. Gregory, Apologeti e libertini in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», LXXXIX, 2000, pp. 1-35.

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Il Genio Maligno di Descartes trova la sua collocazione all’interno di questo dibattito. La maschera del demone, pertanto, rispetta alla perfezione i criteri con cui la trattatistica del periodo disegnava i contorni di simili figure. Un ipotetico lettore delle Meditationes non avrebbe avuto quindi alcuna difficoltà a riconoscere nel «genium malignum» le caratteristiche di quei demoni che abitavano il teatro del suo mondo. Accanto a questa dramatis personae, tuttavia, un’altra figura aveva già fatto la sua comparsa nella dubitatio cartesiana: ci stiamo riferendo, naturalmente, alla maschera del Dio Ingannatore. È importante subito precisare che il Dio evocato nella «vetus opinio» non soltanto non è, a dispetto delle apparenze, riducibile alla traditio scolastica, ma non è neppure paragonabile, a differenza del Genio Maligno, ad una creatura cui si riconosceva una collocazione precisa nella scala degli esseri. Il primo a non accorgersi dell’abisso che separava l’incipit delle Meditationes dalle analisi precedenti sarà proprio Mersenne26:

26 Sulle fonti dell’obiezione del Minimo, cfr. J.-P. Cavaillé, Dieu trompeur, doctrine des équivoques et athéisme: entre Grégoire de Valence et Descartes, in G. Canziani – M. A. Granada – Y. Ch. Zarka (a c. di), Potentia Dei, cit., pp. 317-334 e Id., Équivoques et restrictions mentales in «Kairos», 8, 1997, pp. 35-80. Cfr. inoltre C. Buccolini, “Contra eos qui deum falsum dicere posse docent”. La genesi dell’obiezione di Mersenne sul Dio ingannatore in «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXV, 2006, pp. 82-120. La posizione di Mersenne sulla possibilità di un Deus mendax si può ricavare dalle domande che il Minimo rivolge a Machiavelli, richiamato dall’inferno per l’occasione: «Age vero Machiavellum aggrediamur, & ab inferis, ad quos sine dubio discendi, ni forte resipuerit, si fas est, revocemus. Quid ô politice de Deo censes? Nullumne amitti, ut ex tuis nefandis propositionibus concludere possumus: sed atheismum non ei impingamus: qualem esse Deus existimas? An infedelem? An eum mendacio favere posse credis? At si mendax, at si fallens, non est optimus, ac proinde non est Deus», M. Mersenne, Quaestiones celeberrimae in Genesim, cit., col. 381.

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226 Negate che Dio possa mentire o ingannare, quando, tuttavia, non mancano scolastici che lo affermano, come Gabriel, il Riminese ed altri, i quali ritengono che Dio, nella sua potenza assoluta, menta, ossia dia a conoscere agli uomini qualcosa che contrasta con i suoi propositi e contro quel che ha decretato, come quando, incondizionatamente, ha detto ai Niniviti per mezzo del profeta: ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta; e come quando ha detto molte altre cose che tuttavia non sono accadute, in quanto non ha voluto che quelle parole corrispondessero ai suoi propositi o al suo decreto. Infatti, se ha indurito il cuore del Faraone e lo ha accecato, se ha posto nei profeti un’intenzione menzognera, come fate a sapere che non possiamo essere da lui ingannati? Dio non può forse comportarsi nei confronti degli uomini come un medico nei confronti dei malati ed un padre nei confronti dei figlioli, i quali, tutt’e due ingannano molto spesso malati e figli ma con sapienza e a fin di bene? (II Object., B Op I, pp. 845847; AT, VII, pp. 125-126. Il corsivo è nel testo).

Secondo il Minimo, l’ipotesi cartesiana si inscrive all’interno di un ampio dibattito: ben prima di Descartes, Gregorio da Rimini27 e Gabriel Biel28 si erano interrogati 27 Gregorius Ariminensis, Lectura super Primum et Secundum Sententiarum (VII Voll.), ed. D. Trapp, V. Marcolino, W. Eckermann, M. SantosNoya, W. Schulze, W. Simon, W. Urban and V. Vendland, De Gruyter, Berlin – New York 1979-1987. Per uno sguardo complessivo sull’opera di Gregorio, cfr. G. Leff, Gregory of Rimini. Tradition and Innovation in Fourteenth Century Thought, Manchester University Press, Manchester 1961; F. Fiorentino, Gregorio da Rimini. Contingenza, futuro e scienza nel pensiero tardo-medievale, Antonianum, Roma 2004. Alcune interessanti osservazioni sul rapporto fra l’Ariminense e Descartes si trovano nella v. Rimini (Gregoire de), in P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, cit., pp. 56-58; trad. it., Gregorio da Rimini, in P. Bayle, Dizionario storico-critico, cit., pp. 127-143. 28 Cfr. H. A. Oberman, The Harvest of Medieval Theology, cit., passim e M. L. Picascia, Un occamista quattrocentesco: Gabriel Biel, La Nuova Italia, Firenze 1979.

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sulla possibilità che Dio, de potentia absoluta, fosse in grado di ingannare le proprie creature, rispondendo in modo sostanzialmente affermativo. In verità, Gregorio non ha realmente sostenuto le posizioni che gli sono state attribuite da Mersenne; lo stesso Biel, collocando l’eventualità di una simile ipotesi in un contesto destinato a limitarne la potenziale tragicità, non può certo essere considerato l’antesignano del Dio Ingannatore cartesiano. Per quanto riguarda Gregorio da Rimini, possiamo subito rilevare che il tortor infantium si era limitato a riportare, in alcuni luoghi decisivi del suo Commento alle Sentenze29, le riflessioni di Richard Fitzralph30 e Adam Wodeham31, due teologi a lui contemporanei. Se l’Ariminense faceva riferimento alle loro posizioni, era però solo per prenderne le distanze. Questi pensatori, infatti, erano convinti che il dominio di possibilità della potenza assoluta di Dio fosse più esteso di quello riservato alla Sua potenza ordinata32. Ecco che 29 Cfr. Gregorius Ariminensis, In I Sent., dist. 42-44, q. 2 [«Utrum deus possit dicere falsum»], in Super Primum. Dist. 19-49 (Vol. III), a c. di V. Marcolino, W. Simon, W. Urban, V. Wendland, De Gruyter, Berlin – New York 1984, pp. 389-409. 30 Cfr. G. Leff, Bradwardine and the Pelagians. A Study of His “De Causa Dei” and Its Opponents, Cambridge University Press, Cambridge 1957; Id., Richard Fitzralph commentator of the Sentences, Manchester University Press, Manchester 1963; K. Walsh, A Fourteenth-Century Scholar and Primate: Richard FitzRalph in Oxford, Avignon and Armagh, Oxford University Press, Oxford 1981. 31 Cfr. W. J. Courtenay, Adam Wodeham. An Introduction to His Life and Writings, Brill, Leiden 1978. 32 È da notare, tuttavia, in linea con le considerazioni avanzate da W. J.

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se «Deus non potest de potentia ordinata fallere», è in grado, de potentia absoluta, di sottrarsi ad ogni vincolo morale, illudendo e traendo in inganno l’intelletto umano33; oltre a poter mentire [«non solum Deum posset dicere falsum»], Dio sarebbe capace di ingannare direttamente le Sue creature senza dover ricorrere ad una causa seconda34. Gregorio da Rimini escludeva invece tout court l’inganno divino: il vero Dio della tradizione è per lui assolutamente incapace di dire il falso «cum intentione fallendi», non potendo certo contraddire la perfezione della propria natura. D’altro canto, se «absolute Deus non potest dicere falsum», sostenere che Dio, magari in virtù della Sua potentia absoluta, sia in grado di poter mentire, significherebbe scambiare l’essentia Dei per una sua falsa immagine35. A chi cercasse poi di ritrovare nei passi biCourtenay, Capacity and Volition, cit., pp. 129-130, che le indagini sulla potentia absoluta di Dio – o, come nel caso più specifico di Richard Fitzralph, sulla possibilitas supernaturalis absoluta – non descrivevano certo (almeno nella tradizione, lato sensu, ockhamiana) degli avvenimenti a continua disposizione di Dio, costituendo piuttosto quell’insieme di possibilità che Dio avrebbe originariamente potuto realizzare. 33 «Deus non potest de potentia ordinata fallere, de absoluta tamen posset causando in mente alicuius falsum assensum», Gregorius Ariminensis, In I Sent., dist. 42-44, q. 2, a. 1, in Super Primum. Dist. 19-49 (Vol. III), cit., p. 397. 34 «Arguit quidam doctorum supra memoratorum quod non solum deus posset dicere falsum, sed etiam aliud per se et directe fallere e decipere, quiam omnem rem, quam deus potest facere mediante causa secunda, potest immediate per se ipsum. Hoc patet per articulum omnipotentiae et commune concessionem theologorum», Ivi, dist. 42-44, q. 2, a. 2, p. 402. 35 «Secundo principalis conclusio confirmatur ex eo, quod dicit sequi “si deus vult mentiri, deus non est deus”. Sequitur enim “si deus dicit falsum

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blici degli esempi a sostegno di questa opinione, si dovrà rispondere – come farà, d’altra parte, lo stesso Descartes36 – mettendo in risalto la natura meramente simbolica di quei passaggi37.

cum intentione fallendi, deus vult mentiri, ut probatum est; igitur si deus sic dicit falsum, deus non est deus, et per consequens, si deus sic potest dicere falsum, deus potest non esse deus”. Consequens autem falsum est», Ivi, dist. 42-44, q. 2, a. 1, p. 396. Cfr. anche il seguente passaggio: «Secunda conclusio est quod absolute deus non potest dicere falsum. Hanc probo primo sic: Si deus posset dicere falsum in sensu supra dato, deus posset non esse deus. Consequens est falsum, et consequentia probatori ex dicto Augustini 5 Confessionum capitulo 5, ubi sententialiter dicit quod apertissime et longe a quolibet abicienda erat dementia Manichaei», Ivi, pp. 397-398. 36 «È a tutti nota, infatti, la distinzione fra i modi di parlare di Dio adottati al significato ordinario, che contengono bensì una qualche verità, ma in quanto riferita agli uomini, e dei quali le Sacre Scritture si servono solitamente, ed altri che esprimono una verità più nuda e non riferita agli uomini, dei quali tutti devono servirsi per far filosofia, ed in particolar modo ho dovuto servirmi io, nelle mie Meditazioni, dal momento che in esse ho persino supposto che ancora non mi fosse noto uomo alcuno e, in più, non consideravo me stesso in quanto costituito di mente e corpo, ma in quanto sola mente. È quindi perspicuo che io non ho parlato di menzogna, la quale è espressa con parole, ma soltanto della malizia interna e formale, che è contenuta nell’inganno», R. Descartes, II Resp., B Op I, pp. 869-871; AT, VII, pp. 142-143. 37 «“Dicere” sumitur dupliciter: Nam uno modo idem est quod dictum proferre vel formare. Alio modo idem est quod per dictum aliquid significare. Et ista distingui ad invicem patet, nam etiam oratio sic a dicente profertur quod non significatur, et significatum orazioni sic a dicente significatur quod non profertur. Et hoc modo rectius et magis proprie sumitur dicere, sicut potest haberi ex intentione Augustini in libro Contra mendacium, circa medium, ubi ait quod “quae significantur, utique ipsa dicuntur”. Secundum hoc etiam dicere falsum uno modo idem est quod proferre vel formare dictum vel enuntiationem vel dictum significare falsum, accipiendo falsum pro falso enunciabili seu significabili iuxta intellectum in praecedentibus datum frequenter. Et distinctio patet, nam contingit aliquem dicere falsum uno modo et non alio, sicut patet in locutione ironica et aliis etiam tropicis et figuratis, in quibus etiam ipsae enuntiationes, quae proferuntur, secundum,

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La posizione dell’Ariminense è comprensibile alla luce della descrizione ockhamiana38 delle due potenze: poiché la potentia Dei è unica e indistinta, e la sua distinzione è soltanto il frutto della discorsività del nostro intelletto, Dio non può realizzare de potentia absoluta ciò che non gli è consentito de potentia ordinata. Certo, la tradizione ha consegnato ad ogni interprete l’esigenza di corrispondere ad un plesso teologico particolarmente problematico; tuttavia, suggerisce Gregorio, se la potenza ordinata pare limitata a ciò che Dio può «stante sua ordinazione et lege aeterna», e la potenza assoluta, considerata simpliciter e absolute, sembra invece estendersi al di là dell’orizzonte a disposizione dell’homo viator, è comunque assodato che Dio non agisce mai al di fuori dell’ordine stabilito, garantendo così alle proprie creature un solido appiglio per avanzare nel Suo misterium39. se falsae sunt, et tamen, quae per ea tunc significantur, sunt vera», Gregorius Ariminensis, In I Sent., dist. 42-44, q. 2, a. 1, cit., p. 390. 38 Cfr. Guillelmus de Ockham, Utrum homo possit salvari sine caritate creata, Quodl. VI, q. 1, a. 1, in Quodlibeta Septem. Opera Theologica (Vol. IX), cit., in part. pp. 585-586. 39 «Deum posse hoc vel illud facere potest intlligi dupliciter, scilicet secundum potentiam ordinatam et secundum potentiam absolutam. Non quod in deo sint duae potentiae, una ordinata, alia absoluta – nec hoc volunt significare doctores –, sed illud dicitur deus ad intellectum recte intelligentium posse de sua potentia ordinata, quod potest stante sua ordinatione et lege aeterna, quae non est aliud quam eius voluntas, qua aeternaliter voluit haec vel illa et taliter vel taliter se facturum, illud autem dicitur posse de potentia absoluta quod simpliciter et absolute potest. Et econtra illud dicitur non posse secundum potentiam ordinatam, quod non potest stante sua, quae nunc est, ordinazione, illud vero non posse de potentia absoluta, quod simpliciter et absoluta non potest. Patet autem quod simpliciter et absolute sine suppositione codicionis multa deus potest, quae non potest supposita

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La critica di Gregorio da Rimini si articola dunque su due piani: da un lato, il tortor infantium sottolinea l’impossibilità di pensare, senza contraddizione, l’inganno divino; dall’altro, il teologo nega che vi sia anche solo uno spiraglio per introdurre una simile ipotesi, forte dell’assoluta unitarietà della potentia Dei. È importante precisare che gli autori citati e criticati da Gregorio non hanno raggiunto quella radicalità di cui sono accusati. Adam Wodeham e Richard Fitzralph, infatti, hanno sempre collocato l’eventuale inganno divino all’interno di un contesto preciso: Dio potrebbe «fallere» e «decipere» soltanto se l’accadere di tale eventualità non implicasse il venir meno di quell’ordo morale, connaturato all’essentia divina, con cui Dio amministra l’orizzonte mondano. Nel caso in cui l’inganno fosse invece accompagnato dalla connotazione morale che solitamente lo caratterizza, cioè se fosse un atto in se stesso ingiusto e malvagio, nemmeno l’omnipotentia Dei potrebbe portare a termine una simile azione. Un caso paradigmatico, ampiamente discusso da Gregorio da Rimini, è proprio quello di Fitzralph. Grazie ad una provocatoria esegesi di un passo agostiniano contenuto nel De Mendacio40, l’Arcivescovo di Armagh spezza eius lege et voluntate, qua voluit sic se facturum, et hoc ideo, quia illa, etsi sint simpliciter loquendo possibilia, sunt tamen incompossibilia ordinationi divinae», Gregorius Ariminensis, In I Sent., dist. 42-44, q. 1, a. 2, cit., p. 368. 40 «Sed utrum sit utile aliquando mendacium, multo maior magisque necessaria quaestio est. Utrum ergo mentiatur quisquis fallendi non habet voluntatem, vel etiam id agit ne fallatur cui aliquid enuntiat, quamvis enuntiationem ipsam falsam habere voluerit, quia ideo voluit ut verum persuaderet; et utrum mentiatur quisquis etiam verum volens enuntiat causa fal-

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la continuità, lessicale e teologica, solitamente stabilita tra l’inganno e la menzogna. Secondo Agostino, colui che mente dice il falso perché desideroso di trarre in inganno qualcuno; è allora evidente che la menzogna è un’affermazione falsa [«enuntiationem falsam»] proferita con la volontà di ingannare [«cum voluntate ad fallendum prolatam»]. Fitzralph ritiene che la definizione agostiniana debba essere ulteriormente approfondita: per mentire, non è sufficiente affermare il falso «cum intentione fallendi», poiché è necessario che l’inganno sia perpetrato con un’«intentione deordinata». Ora, dato che una tale evenienza non può essere attribuita a Dio [«illa definitio mendacii…in Deo esse non potest»], Fitzralph si mantiene, nonostante le apparenze, nel solco tracciato dalla tradizione41. lendi, dubitari potest. Nemo autem dubitat mentiri eum qui volens falsum enuntiat causa fallendi: quapropter enuntiationem falsam cum voluntate ad fallendum prolatam, manifestum est esse mendacium. Sed utrum hoc solum sit mendacium, alia quaestio est», S. Aurelius Augustinus, De Mendacio (IV, 5); trad. it. di V. Tarulli, intr. di N. Cipriani, La menzogna, in Morale e ascetismo cristiano (VIII/2), Città Nuova, Roma 2001, p. 319. Per approfondire l’analisi di Agostino sulla menzogna, cfr. A. Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2001 (n. ed. Bruno Mondadori, Milano 2008), in part. pp. 244-262. 41 «Ad hanc rationem video dupliciter posse responderi secundum dicta quorundam doctorum modernorum: Et primo quidem negando consequentiam, et ad probationem dicendo quid illa definitio mendacii, quod est falsa significatio cum intentione fallendi, deberet intelligi de intentione deordinata fallendi, qualis in deo esse non potest, nec quod talis possit in eo esse, probatur, sed solum quod intentio fallendi. Secundo posset dici quod accipiendo sic mendacium, videlicet pro falsa significazione cum intentione

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Lo stesso Robert Holcot42 si limiterà a ribadire e confermare l’idem sentire dei teologi a lui contemporanei: benché Dio possa dichiarare consapevolmente il falso «cum intenione fallendi creaturam», visto che ciò non sembra implicare alcuna immediata contraddizione, non può tuttavia – come ha sottolineato in un articolo [«An Deus possit aliquem fallere»] decisivo del suo commento – «iniuste vel viciose vel deordinate fallere43», poiché l’inganno è possibile solo escludendo un’«intentio deordinata» incompatibile con la perfezione morale dell’essentia divina. Pierre de Ceffons, inoltre, interrogandosi sulla possibilità divina di «decipere» in una quaestio del suo commento alle Sentenze44, non si discosta dal quadro generale. Pur essendo intenzionato a criticare l’esegesi del passo agostiniano offerta da Richard Fitzralph, il teologo francese fa riferi-

fallendi praecise sine pluri, consequens non est falsum loquendo de potentia dei absoluta, sed de ordinata tantum, et sic intelligendae dicerentur auctoritates esse Apostoli et Augustini», Gregorius Ariminensis, In I Sent., dist. 42-44, q. 2, a. 1, cit., pp. 392-393. 42 Robert Holcot, In quatuor libros Sententiarum quaestiones, Lione 1581 (repr. Minerva, Frankfurt 1967). Cfr. K. H. Tachau, Robert Holcot on Contingency and Divine Deception, in L. Bianchi (a c. di), Filosofia e teologia nel trecento, cit., pp. 157-196. 43 Robert Holcot, In III Sent., q. 1, a. 8, cit., s. p. 44 Pierre de Ceffons, Utrum Deus possit aliquem decipere seu ipse possit decipi, in In Sent. I, dist. 44, q. 3; cfr. J-F. Genest, Pierre de Ceffons et l’hypothèse du Dieu trompeur, in Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIV siècle, Vrin, Paris 1984, pp. 197-214. Cfr. D. Trapp, Augustinian Theology of the XIVth Century in «Augustiniana», 6 (1956), pp. 146-274, in part. pp. 224-227; Id., Peter Ceffons of Claivaux, in «Recherches de théologie ancienne et médiévale», 24, 1957, pp. 101-154.

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mento all’ambiguità di un altro brano del Vescovo d’Ippona, contenuto nel De Diversis Quaestionibus: Dio non inganna nessuno direttamente [«Deus quidem per se ipsum neminem decipit»]: è infatti il Padre della Verità, la Verità stessa e lo Spirito Santo. Tuttavia, poiché distribuisce a ciascuno ciò che si merita […], si serve delle anime in base ai meriti e ai titoli che corrispondono ai loro gradi e, se uno merita di essere ingannato, non solo non è lui ad ingannarlo, ma neppure grazie ad un uomo che ama nel modo conforme e che persiste nell’osservare il detto: Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no; e nemmeno per mezzo di un angelo, cui non si addice il ruolo d’ingannatore. Si serve al contrario o di un uomo che non si è ancora liberato da simili passioni, oppure di un angelo che, a causa della corruzione della sua volontà, è stato collocato negli infimi gradi o per punire i peccatori o per provare e purificare quelli che rinascono secondo Dio45.

Pierre de Ceffons rileva immediatamente che la soluzione offerta da Agostino potrebbe prestarsi a diverse letture: se Dio può ingannare grazie alla mediazione di un angelo malvagio, come negare che tutto ciò che Dio fa grazie ad una Sua creatura possa essere immediatamente realizzato da Lui stesso,

45 «Quapropter Deus quidem per se ipsum neminem decipit; est enim Pater Veritatis et Veritas et Spiritus Veritatis. Dignis tamen digna distribuens (quoniam hoc quoque pertinet ad iustitiam et veritatem), utitur animis pro meritis et dignitatibus, quae sunt in gradibus earum, ut si quisquam dignus est decipi, non solum per se ipsum non eum decipiat, sed neque per talem hominem, qui iam congruenter diligit et custodire persistit: Sit in ore vestro: est est, non non, neque per angelum cui non convenit persona fallaciae, sed aut per talem hominem, qui nondum se huiusmodi cupiditatibus exuit, aut per talem angelum, qui pro suae voluntatis perversitate vel ad vindictam peccatorum vel ad exercitationem purgationemque eorum qui secundum Deum renascuntur in infimis naturae gradibus ordinatus est», S. Aurelius Augustinus, De Diversis Quaestionibus octaginta tribus (q. 53, 2); trad. it. p. 101.

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senza intercessione alcuna46? Nonostante questi rilievi, che avrebbero condotto il teologo a farsi carico di una posizione certamente più complessa e radicale, la solutio offerta da Pierre de Ceffons è del tutto in linea con le indagini precedenti: «In hoc studio non tenetur quod Deus possit decipere: dico quod non potest decipere47». Anche Pierre d’Ailly si dedicherà all’estensione della potentia Dei, esaminando l’opportunità divina di «decipere et fallere48». Attraverso una distinzione interna all’operare di Dio, d’Ailly ritiene che l’onnipotenza divina sia in grado di realizzare qualunque cosa, compreso ciò che a noi appare in contrasto con l’ordine stabilito; ancora una volta, tuttavia, simili possibilità, oltre a non implicare alcuna violazione del principium firmissimum, non coinvolgono determinazioni morali incompatibili con la perfezione dell’essentia divina. Dio può dunque ingannare «per se ipsum, immediate et directe», potendo realizzare senza alcuna mediazione quello che

46 «Ex quibus patet quod Deus, saltim per angelum, decipere potest. Sed, ut videtur, quidquid potest per angelum, potest et per seipsum», Pierre de Ceffons, In I Sent, dist. 44, q. 3, cit. in J-F. Genest, Pierre de Ceffons et l’hypothèse du Dieu trompeur, cit., p. 211. 47 Cit. in J-F. Genest, Pierre de Ceffons et l’hypothèse du Dieu trompeur, cit., p. 205. 48 Petrus de Alliaco, In I Sent., q. 12, a. 3, in Quaestiones super libros Sententiarum, Lione 1500, foll. 188 vb – 189 ra. Sulla riflessione del teologo francese, si vedano i seguenti studi: M. Patronnier de Gandillac, De l’usage et de la valeur des arguments probables dans les questions du cardinal Pierre d’Ailly sur le Livre des Sentences in «Archives d’historie doctrinale et littéraire du moyen âge», VIII, 1933, pp. 43-91; F. Oakley, Pierre d’Ailly and the Absolute Power of God. Another Note on the Theology of Nominalism in «Harvard Theological Review», 56, 1963, pp. 59-74; Id., The Political Thought of Pierre d’Ailly: The Voluntarist Tradition, Yale Historical Publications, New Haven 1964; W. J. Courtenay, Covenant and Causality in Pierre d’Ailly in «Speculum», 46, 1971, pp. 94-119.

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solitamente avviene in virtù di cause seconde. Secondo Pierre d’Ailly, ciò non è però in contraddizione – come riteneva, ad esempio, Gregorio da Rimini – con l’immagine di Dio ereditata dalla tradizione: simili ipotetici accadimenti, infatti, qualora si realizzassero, non incrinerebbero l’ordo morale e metafisico con cui Dio amministra il creato. È solo perché non presuppongono alcun peccato né alcuna caratterizzazione morale che simili evenienze non possono, almeno de potentia absoluta, essere rigorosamente escluse. La presunta radicalità di simili formulazioni va collocata all’interno di un contesto più ampio: lontane dal suggerire un’interpretazione realmente “operativa”49 della potentia Dei, queste questioni erano interessate ad indagare il dominio formale della volontà divina. Anziché essere interpretate alla stregua di una possibilità concreta, volta a scompaginare lo spazio della creatio mondana, le quaestiones in esame vanno ripensate alla luce di un’esigenza oltremodo umana, quella, cioè, di non confinare il libero manifestarsi dell’onnipotenza di Dio nell’orizzonte oramai definito e limitato a disposizione delle Sue creature. È possibile ritrovare all’opera questo stesso presupposto nella riflessione di Gabriel Biel. All’apparenza, il teologo tedesco sembra suggerire un’interpretazione della potenza divina simile a quella tracciata da Descartes. La voluntas Dei è la ragione ultima di ogni cosa: tutto ciò che esiste è tale soltanto perché Dio ha deciso di realizzarlo, immediatamente, senza il concorso di cause seconde. Come abbiamo rilevato in precedenza, in Biel il dominio dell’onnipotenza divina, lungi dall’es-

49 Questa terminologia, ripresa in seguito da Eugenio Randi nei suoi studi, è riconducibile a H. A. Oberman, Via Antiqua and Via Moderna: Late Medieval Prolegomena to Early Reformation Thought in «Journal of the History of Ideas», 48, 1987, pp. 23-40.

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sere realmente absolutus, è uniformato alla dimensione morale che ne ha caratterizzato l’epifania. Dio è in grado allora di revelare falsum solamente se una simile azione non contraddice il nucleo più profondo della Sua essentia. Il teologo non esclude dunque, almeno di principio, che «Deus potest falsum aliquod revelare alicui» (In III Sent., dist. 12, q. un., a. 3 c.), magari imponendo all’intelletto umano una falsa apprensione conoscitiva; tuttavia, una simile, estrema possibilità, è fattibile soltanto perché non comporta alcun peccatum né alcuna malizia sottesa all’inganno. Poiché ogni res è un fatto assoluto, sganciato da ogni struttura archetipale, Biel è convinto che Dio possa, de potentia absoluta, mentire o rivelare il falso, senza che la menzogna sia posta in relazione al giudizio morale che solitamente l’accompagna50. Ciò è legittimo, in ogni caso, soltanto perché Dio, agendo in questo modo, non contraddice i paradigmi morali che ne vincolano la potentia. Secondo il teologo, Dio non soltanto non è – né può essere – l’autore del male, ma non è neppure in grado di peccare, giacché non può violare la moralità congiunta alla Sua essentia. Ecco allora che i «figmenta» e le «privationes» e tutto ciò che risulta incompatibile con l’infinita perfezione della Sua natura «non possunt creari a Deo» (In II Sent., dist. 1, q. 2, a. 3 l). L’onnipotenza divina è costretta a patire l’esistenza di un positum valido absolute, indipendente da ogni possibile voluntas. In questo contesto, l’ipotesi dell’inganno divino è già accolta nel racconto di un’amorevole teodicea: Dio, somma potenza e sommo bene, deve conformare le proprie azioni ad una 50 «Et si mentiri simpliciter est dicere, asserere vel revelare falsum, non video quin Deus hoc possit de potentia absoluta, non tamen sic omne mendacium erit peccatum», Gabriel Biel, In III Sent., q. un., a. 3 d, in Collectorium in IV Libros Sententiarum Guillelmi Occam, cit., s. p.

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ragione destinata ad accompagnarne la manifestatio. Come ha posto all’attenzione Tullio Gregory, «decipere e fallere da parte di Dio significa semplicemente l’atto con cui egli crea una conoscenza o proposizione falsa come crea ogni altra res o qualitas, e tale atto non comprende affatto la determinazione sincategorematica iniuste o vitiose, né implica una intentio fallendi51». Emmanuel Faye52 e Emanuela Scribano53, ricercando altre possibili ricorrenze del tema dell’inganno divino in ambito medievale, hanno individuato una fonte più prossima al milieu cartesiano. Benché le conclusioni dei due autori siano differenti, entrambi sono convinti che non sia necessario ritornare, sulla scia di Gregory, alle dispute scolastiche del XIV e XV secolo. Nelle sue Responsiones ad Arnauld54, infatti, Descartes si riferisce esplicitamente alla nona disputazione «De falsitate seu falso» di Francisco Suárez55. È possibile che il filosofo, introducendo nella Meditatio I il tema della fragilità della conoscenza umana, sempre esposta al possibile intervento di agenti estranei, avesse come riferimento alcuni passaggi tratti dall’opera del Doctor Eximius. Accanto a Suárez – il «primo autore che mi è venuto fra le mani» (IV Resp., B Op I, p. 997; AT, VII, p. 235) –, a nostro 51 T. Gregory, Dio ingannatore e genio maligno, cit., p. 411. 52 Cfr. E. Faye, Philosophie et perfection de l’homme. De la Renaissance à Descartes, Vrin, Paris 1998, pp. 333-335; Id., Dieu trompeur, mauvais génie et origine de l’erreur selon Descartes et Suarez in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», 2001/1, Tome 126, pp. 61-72. 53 Cfr. E. Scribano, Angeli e beati, cit., pp. 175-184. 54 Cfr. R. Descartes, IV Resp., B Op I, p. 997; AT, VII, p. 235. 55 Cfr. Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, disp. IX, in Opera Omnia, cit., Vol. XXV, pp. 312-328.

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parere è possibile indicare, nel volume dedicato alla Physica di Aristotele curato da Manuel de Góis56, una fonte della maschera ingannatrice non solo più prossima, ma quasi letterale. Benché non si abbia alcuna notizia certa dei volumi utilizzati nel collegio di La Flèche, non possiamo dimenticare l’influenza esercita in ambiente gesuita dal Cursus Conimbricensis nell’Europa del XVII secolo. Concentriamo dunque la nostra attenzione sul primo articolo della quaestio XVI, e precisamente sulla discussione intorno alla potentia absoluta e ordinata. Poiché l’estensione della potenza divina è uniformata al dominio della non contraddizione [«Absoluta Dei potentia fieri potest quidquid contradictionem non implicat»], vengono enumerate una serie di azioni la cui realizzazione non può essere attribuita alla potenza divina: Itaque, fieri a Deo non potest, ut sex non sint bis tria, quia alioqui essent et non essent sex; nec item ut homo non sit animal particeps rationis, quia esset simul ac non esset homo; nec ut creatura conservetur sine Deo, quia esset dependens, cum sit creatura, et non esset dependens ex hypothesi; similiter neque mentiri Deus potest, quia cum sit ipsa veritas, esset Deus ac non esset57.

Ci troviamo all’interno di un contesto familiare. In linea con le precedenti riflessioni, in cui l’azione divina era collocata nel dominio della ratio entis, il Cursus sostiene che Dio non possa far sì che la somma di due volte tre non sia sei – in caso contrario, infatti, tale somma sarebbe e non sarebbe sei. Allo stesso modo, non può fare in modo che l’uomo non sia un animale partecipe di ragione, perché altrimenti sarebbe e non sarebbe, simul, un uomo; infine, non può nemmeno mentire: essendo la verità stessa, Dio sarebbe e non sarebbe Dio. 56 Cfr. Commentarii Collegii Conimbricensis Societatis Jesu, In octo libros Physicorum Aristotelis Stagyritae, l. II, c. 7, q. 16, a. 1, cit., pp. 312-313. 57 Ivi, p. 313 (il corsivo è nostro).

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L’analisi della potentia Dei svolta nel Curso non si discosta dalla tradizionale modalità di investigare i limiti del potere divino; ad essere interessanti nella quaestio in esame sono tuttavia gli esempi utilizzati da De Góis. Se ripensiamo all’esordio delle Meditationes, infatti, possiamo notare come la possibilità – posta, e negata – che le verità matematiche e geometriche fossero alterate nel loro fondamento era precisamente una delle possibili conseguenze derivanti dalla presenza del Dio Ingannatore nella Meditatio I. Di fronte ad un «Deus qui potest omnia», «non potrei forse sbagliarmi» si domanda Descartes, «ogni volta che sommo due e tre, o conto i lati del quadrato?» (Medit. I, B Op I, p. 707; AT, VII, p. 21). Benché le due occorrenze siano collocate in diversi contesti teorici – nei Conimbricensi, come esempio di ciò che neppure l’omnipotentia Dei può realizzare, vista la contraddittorietà dell’ipotesi; nel filosofo francese, invece, quale possibilità limite dischiusa da un’inedita dramatis personae –, la loro somiglianza non dovrebbe certo sfuggire. I due esempi sorgono nella stessa circostanza, ossia discutendo dell’estensione della potenza divina: posta l’esistenza di un Dio che può tutto, si tratta di corrispondere alle molteplici opportunità che essa pone di fronte all’umana episteme. Inoltre, sia nel Curso Conimbricense sia in Descartes vi è un diretto riferimento alla menzogna e all’inganno divino: nel filosofo francese tale richiamo svolge una funzione architettonica, quale condizione foriera di ulteriori sviluppi e possibili sviluppi, mentre nei Conimbricensi non è altro che un’ipotesi priva di ogni legittimità. Confrontando le due analisi, ritroviamo dunque alcuni tratti comuni: abbiamo a che fare con un esempio («fieri a Deo non potest, ut sex non sint bis tria, quia alioqui essent et non essent sex» – «ego ut fallar quoties duo et tria simul addo») reso possibile dal medesimo contesto (la «absoluta Dei potentia» e un

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«Deus qui potest omnia»), e accompagnato da un riferimento assai simile – la menzogna nel caso del Curso, e l’inganno nella meditatio di Descartes. È ovviamente impossibile poter stabilire, con geometrica certezza, se il filosofo francese stesse pensando proprio al lavoro dei Conimbricensi quando ha tratteggiato nella Meditatio I la figura del Dio Ingannatore. Al contempo, non dobbiamo però né dimenticare che questi commentari gesuiti all’opera aristotelica erano certamente conosciuti da Descartes, come testimoniano due occorrenze presenti nel suo epistolario58, né sottostimare l’influenza culturale e pedagogica svolta dal Cursus nell’ambiente più prossimo a Descartes59. I volumi dei Conimbricensi, infatti, rappresentavano il materiale privilegiato per esporre, durante le lezioni che si svolgevano all’interno dei collegi gesuitici, le più autorevoli opinioni in esame. È dunque più che probabile che Descartes avesse, nello specifico, una certa familiarità con l’indagine contenuta nel commentario alla Physica dello Stagirita, impiegando in modo consapevole alcuni esempi tratti da quel volume. Ad ogni modo, al netto della somiglianza testuale e lessicale dei due passaggi, dobbiamo tener presente che il possibile richiamo al Cursus svolge la stessa funzione della citazione delle Disputationes suáreziane discussa in precedenza: anche in questo caso, il presupposto che guida le due analisi è ben differente, e il testo cartesiano sembra suggerire una totale inversione delle premesse metafisiche assunte dai Conimbri58 Cfr. R. Descartes, B Op n. 272, p. 1285; AT, III, p. 185; B Op n. 289, p. 1339; AT, III, p. 251. 59 Su Descartes e i Conimbricensi, cfr. N. J. Wells, The Conimbricenses, Descartes, Arnauld and the Two Ideas of the Sun in «The Modern Schoolman», LXXXI, 2003, pp. 27-56; Id., Descartes and the Coimbrans on Material Falsity in «The Modern Schoolman», LXXXV, 2008, pp. 271-316.

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censi. Per loro, infatti, in linea con la riflessione anteriore, la potentia Dei era uniformata a dei modelli eterni, co-originari all’azione della volontà divina. Dio non avrebbe potuto agire se non conformandosi ad una ratio entis già determinata. Prendendo le distanze da questi presupposti, il filosofo francese è giunto a delineare un’altra idea di Dio. Il Dio Ingannatore del teatro cartesiano rappresenta quindi una dramatis personae irriducibile a questa tradizione. Nonostante la «vetus opinio» del «Deus qui potest omnia» non sia semplicemente, come suggerisce Gregory, «un’ipotesi sorta nella mente di Descartes, ma una precisa dottrina teologica con la quale egli doveva fare i conti60», la maschera cartesiana manifesta tuttavia uno scarto concettuale incompatibile con le ipotesi avanzate in precedenza. Il dominio di possibilità che questo Dio è libero di realizzare è infinitamente più esteso di quello tracciato da qualunque teologo nominalista. Il «Deus qui potest omnia» del filosofo non è vincolato ad alcuna legge morale, matematica o metafisica: l’onnipotenza che lo caratterizza è in grado di ingannare l’uomo, minando alla radice il suo percorso conoscitivo, senza che quest’inganno sia posto immediatamente in relazione a dei paradigmi morali già stabiliti. La figura del Dio Ingannatore è resa possibile, trovando le condizioni della sua legittimità, solo dalle considerazioni svolte da Descartes sulla natura creata delle verità eterne. Poiché Dio è la causa efficiente e totale di ogni verità, non deve rispettare alcun criterio eterno ed increato: in qualità di «fons veritatis61», rappresenta la ratio di ogni bene e necessità pos-

60 T. Gregory, Dio ingannatore e genio maligno, cit., p. 440. 61 Cfr. R. Descartes, Medit. I, B Op I, p. 709; AT, VII, p. 22; Princ. Phil., I, 22, B Op I, p. 1727; AT, VIII, p. 13.

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sibili62. È questo il motivo per cui Descartes non può essere certo, nel corso della sua dubitatio, che un «Deus qui potest omnia» non lo possa ingannare: vista la sovrana libertà che ne caratterizza l’epifania, non si può immediatamente affermare che questo Dio non possa essere un Dio non Ingannatore. Come ha sottolineato Henri Gouhier, l’ipotesi avanzata da Descartes non sarebbe potuta sorgere, con queste precise modalità, nella teologia precedente63. All’interno di quel quadro metafisico, l’agire divino è uniformato a dei modelli esemplari che neppure la Sua voluntas è in grado di violare. Dio è perciò necessariamente buono, e in nessun caso potrebbe venir meno, servendosi dell’inganno, al legame d’amore che ne ha guidato la creatio. Un teologo di ispirazione agostiniana o tomista, inoltre, essendo già certo della verità incarnata da Dio, non si sarebbe mai posto il problema di dimostrarne la veracità; Descartes, al contrario, è costretto ad invocare la veracità perché non possiede, date le premesse della sua riflessione, la possibilità di chiamare subito in causa quella verità assoluta che è Dio64.

62 Cfr. R. Descartes, VI Resp., n. 6, B Op I, p. 1225; AT, VII, p. 432; VI Resp., n. 8, B Op I, p. 1229; AT, VII, pp. 435-436; B Op n. 665, p. 2581; AT, V, p. 224. 63 Cfr. H. Gouhier, La pensée métaphysique de Descartes, cit., pp. 250-264. Cfr. inoltre É. Bréhier, La création des vérités éternelles dans le système de Descartes, cit., in part. pp. 16-21 e J.-L. Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, cit., in part. pp. 328-346. Per una ricostruzione dell’intera questione, cfr. D. Kambouchner, Le Méditations métaphysiques de Descartes, Puf, Paris 2005, in part. pp. 307-328. 64 «Jamais le théologien augustinien ou thomiste n’eut l’occasion d’invoquer la véracité de Dieu précisément parce que la possibilité d’invoquer la Vérité qui est Dieu le dispensait du problème dont la solution appelle la véracité. Inversement, le philosophe cartésien invoque la véracité précisément parce que l’impossibilité d’invoquer la Vérité qui est Dieu le conduit au problème dont la solution appelle la véracité. Ce qui signifie: l’hypothèse du Dieu

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Per fare fronte a questa difficoltà, il filosofo dovrà trovare un plesso mediano che gli consenta di coniugare la stabilità del proprio iter conoscitivo con un’imago Dei in continuità con quella disegnata dalla tradizione. Anche Jean-Luc Marion è convinto che l’esordio della Meditatio I sia in relazione ad un Dio creatore delle verità eterne65; questo Dio, tuttavia, non è impersonato dalla maschera ingannatrice – denominazione che, secondo lo studioso francese, andrebbe impiegata con una certa prudenza, visto che mai nelle Meditationes si fa cenno ad un Dio che liberamente inganna –, ma si rivela dietro il «Deus qui potest omnia» figlio della tradizione nominalista. Il Dio onnipotente della Meditatio I si richiama direttamente alla riflessione cartesiana del 1630, e può opporsi all’espediente strategico rappresentato dal Genio Maligno soltanto perché già pensato come quell’ottimo Dio, «fontem veritatis» (Medit. I, B Op I, p. 709; AT, VII, p. 22), che farà nuovamente la sua comparsa nei Principia66. Secondo Marion, l’onnipotenza divina, lungi dal rendere possibile l’inganno, lo esclude radicalmente, vista l’incompatibilità di questa iperbole con gli altri attributi caratteristici dell’essentia Dei. Discutendo la validità di questa maschera, il filosofo francese può perciò richiamarsi al «paradosso insostenibile di un’onnipotenza ingannevole»: l’idea che possa esistere un Dio in grado di ingannare l’uomo, «non appena si pone la que-

trompeur n’est possible comme supposition que par référence à un Dieu créateur des vérités éternelles», H. Gouhier, La pensée métaphysique de Descartes, cit., p. 258. 65 Cfr. J.-L. Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, cit., in part. pp. 344-346. 66 Cfr. R. Descartes, Princ. Phil., I, 22, B Op I, p. 1727; AT, VIII, p. 13.

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stione della sua possibilità logica e della sua non contraddizione», risulta infatti «non soltanto iperbolica, ma incoerente67». La convinzione che il Dio Ingannatore rappresentasse una fictio metodologica, funzionale solamente alla scoperta del vero Dio garante dell’esperienza, è un presupposto che aveva accompagnato anche l’interpretazione di Martial Guéroult68. All’interno della sua analisi, la maschera ingannatrice non fa riferimento ad alcun mistero circa l’origine del nostro sapere, ma si fonda su un’immagine della natura divina falsa e contraddittoria. Secondo Guéroult, è proprio il riferimento cartesiano all’onnipotenza ad escludere la possibilità dell’inganno: poiché la menzogna non è altro che una manifestazione di impotentia, la libertà di ingannare non aggiunge nulla all’estensione della voluntas Dei, bensì ne mina alla radice la possibilità69. Se la dottrina sulla libera creazione delle verità eterne riposa sull’i-

67 J.-L. Marion, Sur le prisme métaphysique de Descartes. Constitution et limites de l’onto-théo-logie dans la pensée cartésienne, Puf, Paris 1986; trad. it. di F. C. Papparo, Il prisma metafisico di Descartes. Costituzione e limiti dell’onto-teo-logia nel pensiero cartesiano, Guerini e Associati, Napoli 1998, p. 225. 68 Cfr. M. Guéroult, Descartes selon l’ordre des raisons (L’âme et Dieu, Vol. I), cit., pp. 30-49. A questo proposito, cfr. anche F. Alquié, Science et métaphysique (Les Cours de Sorbonne, 1955), ora in Id., Leçons sur Descartes. Science et métaphysique chez Descartes, La Table Ronde, Paris 2005; trad. it. di T. Cavallo, Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, Ets, Pisa 2006, in part. pp. 77-79 e pp. 137-154. 69 «La bonté, sans doute, exclut la tromperie, mais la toute-puissance ne l’exclut pas moins […]. La bonté, loin de limiter la toute-puissance, conspire avec elle, car tromper est le fait de l’impuissance tout autant que de la malice […]. En conséquence, l’hypothèse du Dieu trompeur ne se fonde pas sur le “mystère de notre origine”, mais sur une fausse idée que nous nous faisons de notre auteur et de sa toute-puissance», M. Guéroult, Descartes selon l’ordre des raisons (L’âme et Dieu, Vol. I), cit., p. 44.

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dea cartesiana del vero Dio, tracciando i confini della Sua natura, l’emergere di questa teoria è allora, ipso facto, incompatibile con la maschera evocata dal filosofo nelle Meditationes. L’analisi di Guéroult, tuttavia, finisce per presupporre ciò che Descartes aspramente rifiuta, vale a dire che vi sia alcunché di consunstanziale alla volontà divina. Nella dottrina cartesiana, infatti, prima che Dio si decida liberamente alla creazione, non esiste alcun modello esemplare capace, in qualche modo, di vincolarlo, guidandone l’azione. La creazione delle verità eterne, dunque, lontana dall’essere il controcanto dialettico all’ipotesi del Dio Ingannatore, ne rappresenta il presupposto: è la natura creata di siffatte verità, comprese quelle morali, ad evocare nel teatro di Descartes la maschera ingannatrice. Il fatto che questa possibilità, non appena chiamata in causa, sia estromessa dalla scena in virtù di una decisione gratuita ed arbitraria, non significa che questa figura non abbia tratto origine dalla dottrina cartesiana70. L’ipotesi dell’inganno divino, inoltre, appare incongruente soltanto alla luce di una premessa che dovrebbe essere estranea, almeno per il momento, all’andamento della dubitatio. In effetti, se consideriamo il protagonista delle Meditationes come una persona comune71 che, pur non essendo ancora a conoscenze delle teorie cartesiane, possiede comunque, radicata nella mente, una «vetus opinio», dovremmo renderci immediatamente conto che quest’uomo non dispone di alcun criterio per limitare il dominio della potentia Dei. Un tale per-

70 Sull’impossibilità di porre in relazione il Dio Ingannatore con la teoria cartesiana sulla natura creata delle verità eterne, cfr. E. Scribano, Angeli e Beati, cit., in part. pp. 165-175. 71 A questo proposito, cfr. H. Frankfurt, Demons, Dreamers and Madmen. The Defense of Reason in Descartes’ Meditations, The Bobbs – Merill Company, Indianapolis – New York 1970, pp. 56-58.

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sonaggio, consapevole soltanto dell’esistenza di un Dio onnipotente, non può essere certo che quel Dio non sia in grado di ingannare; per la stessa ragione, non può nemmeno sapere che l’inganno sia, sic et simpliciter, un segno di impotentia. È perciò solo con un atto all’apparenza ingiustificato, estraneo alle ragioni della Meditatio I, che è possibile persuadersi che un Dio onnipotente non possa essere ingannatore. Descartes interviene all’interno del testo rimuovendo, con un generico «si dice [«dicitur»]», la drammaticità della messa in scena. La maschera di questo Dio, onnipotente e quindi potenzialmente ingannatore, è così allontanata dal teatro, sostituita da un «genium aliquem malignum» la cui forza ed efficacia sono già rimediate da un «optimum Deum, fontem veritatis». Ora, se Descartes non è legittimato, date le premesse dell’argomentazione, ad eliminare dalla scena questa figura, per quale motivo ha preso una simile decisione? L’iperbole del Dio Ingannatore deve forse essere eliminata perché contraddittoria? Questa possibilità, lungi dal risolvere il problema, finirebbe in realtà per riproporlo. In primo luogo, nel pensiero di Descartes il principium firmissimum, anziché riguardare la potentia immensa e incomprensibile di Dio, concerne la nostra rappresentazione di quella potenza. Il problema della contraddizione è un vincolo che coinvolge le nostre modalità di accesso al misterium Dei, e non certo il cuore di una voluntas che rimane, nella Sua arbitrarietà, inattingibile. In secondo luogo, come abbiamo sottolineato, colui che medita, non essendo ancora a conoscenza del sistema di attributi necessario per descrivere l’essentia Dei, non dispone di un valido criterio per indagarne la natura. È in possesso, infatti, soltanto di una «vetus opinio» che lo informa dell’esistenza di un Creator mundi, infinitamente potente.

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A dispetto di queste considerazioni, Descartes interviene nelle Meditationes per estromettere dal suo teatro la traccia di questo Dio, limitando il dominio della Sua voluntas all’interno di un quadro metafisico ben determinato. Così facendo, il filosofo può porre le basi per edificare una conoscenza oggettiva, valida absolute: è quindi proprio l’esigenza di fondare un sapere stabile, non più soggetto ad un’onnipotenza svincolata da ogni proporzione umana, la principale ragione che spingerà Descartes ad eliminare dalle Meditationes l’oscurità epistemica implicata da questa dramatis personae. Allontanare l’inquietante presenza della maschera ingannatrice significa, uno actu, porre le condizioni per dimostrare l’oggettività dell’umana episteme. Del resto, «coloro che dicono che Dio inganni», scrive il filosofo a Mersenne, «devono rinunciare ad ogni certezza se non ammettono come assioma che Dio non può ingannarci» (B Op n. 309, p. 1447; AT, III, pp. 359-360). Il Dio Ingannatore è il corrispettivo metafisico di quella «chose obscure» che minacciava il lieto fine della fable raccontata ne Le Monde. Se in quella sede era necessario eliminare ogni oscurità per descrivere un «nouveau monde», rendendo possibile la narrazione cartesiana, nelle Meditationes si pone l’esigenza di sottrarre alla fictio dubitativa ogni elemento capace di sconvolgerne l’andamento, magari rivelandone l’intrinseca fragilità. Nella sostanza, la strategia sottesa alle due scelte è perciò identica: in entrambi i casi, ad essere in gioco è la possibilità di dare forma ad un progetto stabile, le cui fondamenta non siano, in ogni istante, sospese ad una voluntas libera e indifferente. Estromessa la precarietà connessa alla maschera del Dio Ingannatore, e conservata, attraverso l’espediente del Genio Maligno, la metodicità del dubbio, Descartes può proseguire l’iter delle sue meditazioni, alla ricerca di quel punto archimedeo su cui fondare l’edificio di un nuovo sapere.

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Una domanda, a questo punto, si impone: se l’iperbole del Dio Ingannatore è possibile solo alla luce della dottrina cartesiana sulle verità eterne, escludere dal dramma che si sta inscenando questa dramatis personae significa, sub eodem, fondare una metafisica sganciata dalle linee guida suggerite da tale teoria?

2. Il cogito e la veracità di Dio Dopo aver eliminato dal teatro la maschera ingannatrice, Descartes si ritrova in un «gorgo profondo», talmente agitato «da non riuscire né ad appoggiare i piedi sul fondo, né a risalire a nuoto in superficie» (Medit. II, B Op I, p. 713; AT, VII, p. 24). Il filosofo sente quindi l’esigenza di ricercare un fondamento inconcusso. Sebbene non vi sia alcunché di certo, la presenza di un essere sommamente potente e sommamente astuto [«summe potens, summe callidus»] finisce per confermare proprio l’esistenza di colui che dubita: Senza dubbio, allora, esisto anche io, se egli mi fa sbagliare; e, mi faccia sbagliare quanto può, mai tuttavia farà sì che io non sia nulla, fino a quando penserò d’essere qualcosa. Così, dopo aver ponderato tutto ciò, si deve infine stabilire che questo enunciato, Io sono, Io esisto [«Ego sum, ego existo»], è necessariamente vero ogni volta che viene da me pronunciato, o concepito con la mente (Ivi, pp. 713-715; AT, VII, p. 25. Il corsivo è nel testo).

L’avventura intellettuale di Descartes trova nel processo riflessivo della cogitatio la chiave di volta per stabilire un argine al proseguimento del dubbio, un solido punto di manovra per rilanciarsi alla conquista della certezza esteriore. È il pensiero la prima cosa in grado di sottrarsi all’iperbole dubitativa: nel continuum temporale che contraddistingue la presenza a sé dell’intelletto, chi dubita è certo di essere una res cogitans, ossia una mente o un’anima o una ragione pensante. Non vi è

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perciò nulla che possa essere «da me percepito in modo più facile o evidente della mia mente» (Ivi, p. 725; AT, VII, p. 34). Prima che l’idea di Dio sia chiamata in causa, l’unica certezza a disposizione del filosofo è dunque l’esistenza del pensiero, libero da ogni commistione sensibile. A questo punto, per incrementare il bagaglio del suo sapere, dimostrando la realtà degli oggetti intenzionati dalla cogitatio, Descartes deve soffermarsi di nuovo sul contenuto di quell’atavica opinione sulla «somma potenza di Dio [«summa Dei potentia»]» che si era imposta a dispetto della sua volontà. Il contenuto della «vetus opinio», ad ogni modo, non è il frutto di una intentio del filosofo; egli la trova all’interno della rappresentazione [«mihi occurrit»], senza averne evocato la possibilità72. Il dativo esprime qui la natura patologica della cogitatio73: Descartes si imbatte in questa idea e, lungi dal poterne delineare i contorni, deve esperire l’alterità che caratterizza originariamente l’andamento della meditazione. L’orizzonte della rappresentazione è allora già da sempre dischiuso, e mai il cogito si è trovato nelle condizioni di ridurre la forma delle proprie rappresentazioni alla sostanza del vero. Richiamando alla memoria il cammino compiuto in precedenza, il filosofo è nuovamente costretto ad invocare nelle Meditationes la maschera del Dio Ingannatore. Se nella Meditatio I, però, la potentia sottesa a tale figura rendeva impossibile ogni stabile conoscenza, nella Meditatio III l’insecuritas che sembra affliggere il filosofo è rimediata da una convinzione che esclude di principio la precarietà della cogitatio:

72 Cfr. R. Descartes, Medit. III, B Op I, p. 729; AT, VII, p. 36. 73 Cfr. J.-L. Marion, L’alterità originaria dell’ego, in Questioni cartesiane, cit., pp. 3-30.

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251 Mi faccia pure sbagliare chiunque abbia il potere di farlo, mai tuttavia farà sì che io sia nulla, fino a quando penserò d’essere qualcosa; o che in un qualche tempo sia vero che io mai sia stato, dal momento che ora è vero che io sono; o anche, forse, che due e tre, sommati fra loro, facciano più o meno di cinque, o altro di simile, in cui riconosca una manifesta ripugnanza (Ivi, p. 729; AT, VII, p. 36).

Anche in questo caso, alcune delle possibilità connesse alla «summa Dei potentia» sono immediatamente allontanate dalla rappresentazione, senza che sia stata fornita una dimostrazione per giustificare tale decisione. Certo, ora è direttamente l’autorità del cogito a rivendicare questa scelta; tuttavia, ciò non modifica il quadro d’insieme: colui che medita, infatti, non è autorizzato a delimitare il dominio della volontà divina, non avendone ancora dimostrato l’esistenza. Descartes rinnova dunque il proprio gesto escludente, ponendo le condizioni per rischiarare il cammino che sta per intraprendere: Poiché non ho alcun motivo di ritenere che ci sia un Dio ingannatore, e neppure so ancora se ci sia un Dio, la ragione di dubbio che dipende esclusivamente da quell’opinione è molto tenue e, per così dire, metafisica. Per rimuovere anch’essa, però, debbo, non appena se ne darà motivo, esaminare se Dio sia e, nel caso in cui egli sia, se possa essere ingannatore: non mi sembra infatti di poter mai essere completamente certo di alcun’altra cosa, se ignoro questa (Ibid.).

Il passaggio appena citato contiene in nuce la strategia cartesiana, e conferma al contempo alcune delle considerazioni svolte in precedenza. Ancora una volta, il filosofo decide di estromettere dal suo teatro l’ipotesi di un Dio in grado di stravolgere, forte della Sua omnipotentia, l’episteme umana, senza disporre di una ragione cogente capace di giustificare una simile scelta. D’altra parte, se Descartes non è neppure certo che un qualche Dio realmente esista, perché escludere ab origine che

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possa essere ingannatore? È lo stesso filosofo a rivelarlo: è necessario negare questa eventualità poiché, in caso contrario, non sarebbe possibile esser certi di nulla, ogni conoscenza essendo sempre soggetta all’arbitrio di una voluntas indifferente ad ogni paradigma morale e metafisico. Esclusa ogni legittimità al contenuto di quest’ipotesi, «l’ordine sembra esigere per prima cosa che io ripartisca tutti i miei pensieri in determinati generi, e ricerchi in quali fra essi si trovi propriamente verità o falsità» (Ibid.; AT, VII, pp. 36-37). Poiché le idee, considerate in se stesse, non possono essere false, al pari della volontà o degli affetti, il contenuto dell’errore andrà ricercato nella relazione sottesa al giudizio. È quindi opportuno analizzare l’immagine degli enti significati dalle idee, per verificare il rapporto che intrattengono con le cose situate al di fuori della cogitatio. Sebbene vi siano tre tipi di idee – le idee innate [«innatae»], le idee avventizie [«adventitiae»] e le idee direttamente prodotte dalla riflessione umana [«a me ipso factae»] –, non sembrerebbe, ad un primo sguardo, che ciò che esse rappresentano possa essere distinto dall’azione della cogitatio. Vi sono comunque due ragioni per sostenere il contrario: la prima è figlia di un impulso spontaneo, tratto dalla natura; la seconda è invece in rapporto alla forza esplicativa della volontà dell’uomo, che non sembra disporre, a suo piacimento, degli oggetti che le si presentano. Entrambe le opinioni, tuttavia, non forniscono in verità alcuna ragione vincolante: se l’insegnamento naturale non è altro che una certa inclinazione, già dimostratasi a più riprese fallace, non si può nemmeno escludere, giudicandola contraddittoria, l’eventualità che il pensiero possieda, senza averne ancora consapevolezza, una qualche facoltà in grado di produrre l’immagine esteriore degli enti mondani. Non è allora in virtù di un «giudizio certo, ma solo per un cieco impulso, che ho sinora creduto che esistano cose diverse da me» (Ivi, p. 733; AT, VII, p. 40).

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Se considerassimo però le idee non come delle funzioni del pensiero – nel qual caso, la trascendentalità della cogitatio non potrebbe riconoscere alcuna positiva alterità fuori di sé –, bensì in quanto rivolte all’esterno, sarebbe forse possibile dischiudere la circolarità delle riflessione. Le idee che fanno segno ad una «substantia», ad esempio, contengono certamente più realtà oggettiva di quelle che ne rappresentano soltanto gli accidenti. Ecco che l’idea con cui «intendo un Dio sommo, eterno, infinito, onnisciente, onnipotente e creatore di tutte le cose che sono fuori di lui» avrà «più realtà obiettiva di quelle attraverso le quali mi vengono fatte vedere delle sostanze finite» (Ivi, pp. 733-735; AT, VII, p. 40). A questo punto, si dovrà verificare se la «realitas objectiva» dell’idea di Dio possa sottrarsi, formalmente ed eminentemente, al dominio della cogito, dimostrando la finitezza del suo potere causale74.

74 L’analisi delle possibili fonti cartesiane sulla distinzione fra concetto formale e oggettivo non rientra fra gli obiettivi di questo lavoro. Ci limitiamo quindi ad indicare alcuni studi esplicitamente dedicati a tale problematica. Criticando l’indagine svolta da Étienne Gilson nell’Index scolasticocartésien, Félix Alcan, Paris 1913, Roland Dalbiez ha rintracciato nella tradizione scotista coeva a Descartes la fonte più prossima della distinzione utilizzata da Descartes, per la prima volta, nella Meditatio III; sebbene non si possa stabilire l’influenza direttamente esercitata dal Dottor Sottile, è comunque plausibile che il filosofo francese avesse una qualche familiarità con la discussione di queste argomentazioni, grazie soprattutto alla mediazione di Francisco Suárez e Gabriel Vázquez. Cfr. R. Dalbiez, Les sources scolastiques de la théorie cartésienne de l’être objectif à propos du “Descartes” de M. Gilson in «Revue d’histoire de la philosophie», 3, 1929, pp. 464-472. Per un’analisi dell’interpretazione di Dalbiez, in linea con l’ipotesi suggerita dallo storico francese, cfr. R. Ariew, Descartes and the Last Scholastics, Cornell University Press, Ithaca and London 1999, pp. 39-57. Dello stesso autore, cfr. inoltre l’edizione rivista e ampliata del libro precedente: Descartes among the Scholastics, Brill, Leiden-Boston 2011, pp. 71-97. L’idea che Descartes fosse profondamente radicato in un milieu culturale informato dalla traditio scotista troverà conferma anche negli studi di C. Normore,

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Mentre Descartes esamina la natura divina, vale a dire quella «sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, e dalla quale siamo stati creati», si convince dello scarto irrimediabile che lo divide dall’essentia Dei. Non potendo essere l’unico e autentico creatore del contenuto obiettivo di quell’idea, il filosofo è costretto a riconoscere l’esistenza di una divina alterità, indipendente dall’azione poietica della sua cogitatio; d’altra parte, «quand’anche l’idea di sostanza fosse in me per il fatto stesso che io sono sostanza, non per questo, tuttavia, vi sarebbe l’idea della sostanza infinita, poiché sono finito, a meno che essa non provenisse da una sostanza che fosse infinita in realtà» (Ivi, p. 741; AT, VII, p. 45).

Meaning and Objective Being, in A. O. Rorty (ed.), Essays on Descartes’ Meditations, cit., pp. 223-241 e J.-F. Courtine, La doctrine cartésienne de l’idée et ses sources scolastiques, in Lire Descartes aujourd’hui, Actés publiés par O. Depré et D. Lories, Éditions Peeters, Louvain 1997, pp. 1-20. Norman Wells ha suggerito, al contrario, di ricercare in Francisco Suárez la fonte principale della distinzione fra concetto formale e concetto oggettivo nell’opera cartesiana; a questo proposito, cfr. N. J. Wells, Objective Being: Descartes and His Sources in «The Modern Schoolman», 45, 1967, pp. 49-61; Id., Objective reality of Ideas in Descartes, Caterus and Suárez in «Journal of the History of Philosophy», 28, 1990, pp. 33-61 e Id., Objective reality of Ideas in Arnauld, Descartes and Suárez, in E. J. Kremer (ed.), The Great Arnauld and Some of His Philosophical Correspondents, University of Toronto Press, Toronto – Buffalo – London 1994, pp. 131-183. Earline J. Ashworth si è invece concentrata sull’influenza probabilmente esercitata su Descartes da Antonio Rubio e Pedro da Fonseca, due autori conosciuti da Descartes: cfr. E. J. Ashworth, Petrus Fonseca on Objective Concepts and the Analogy of Being, cit., pp. 47-63 e Id., Antonius Rubius on Objective Being and Analogy: One of the Routes from Early Fourteenth-Century Discussions to Descartes’s Third Meditation, in S. F. Brown (ed.), Meeting of the Minds. The Relations between Medieval and Classical Modern European Philosophy (Acts of the International Colloquium held at Boston College, June 14-16, 1996, organized by the Société Internationale pour l’Etude de la Philosophie médiévale), Brepols Publishers, Turnhout 1999, pp. 43-62.

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L’infinità non rappresentabile di una simile idea, non essendo proporzionata a nessuna conoscenza a disposizione della cogitatio, precede il pensiero umano, rendendolo possibile. Tutto ciò che il cogito percepisce di vero e di reale è perciò contenuto all’interno dell’idea di Dio: come le tenebre possono essere percepite soltanto a partire dalla luce, e il finito per mezzo dell’infinito, per la stessa ragione l’uomo può dubitare poiché già in possesso di un’idea perfetta, condizione ultima di ogni chiarezza e distinzione75. Sebbene non si possa «toccare col pensiero» un’idea che sfugge ad una ragione limitata, è sufficiente, aggiunge il filosofo, che «io intenda ciò e che giudichi che tutte le cose che percepisco chiaramente e so implicare una qualche perfezione, e forse anche innumerevoli altre che ignoro, siano formalmente e eminentemente in Dio perché l’idea che ho di lui sia, tra tutte quelle che sono in me, massimamente vera e massimamente chiara e distinta» (Ivi, pp. 741-743; AT, VII, p. 46). Per restituire al pensiero quel ruolo di dominus che aveva in precedenza ricoperto, si potrebbe delineare una linea di fuga, riducendo le perfezioni descritte a mere opportunità in potenza, sempre a disposizione dell’ampliamento infinito dell’umana episteme. Tale ipotesi, però, deve scontare una differenza irrimediabile: se l’idea di Dio si consegna alla riflessione nella sua compiuta e infinita attualità, la cogitatio non potrà mai conquistare una conoscenza che non sia sempre suscettibile di un ulteriore incremento. Il sapere in possesso del cogito dovrà dunque dipendere da una causa che rappresenti realmente la garanzia ultima dell’universo mondano. Questo principio non può certo essere la 75 Sull’idea chiara e distinta di Dio, e sulla discussione che ne è seguita dentro e fuori le Meditationes, cfr. I. Agostini, L’idea di Dio in Descartes. Dalle Meditationes alle Responsiones, Le Monnier-Mondadori, Milano 2010.

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cogitatio: in caso contrario, si sarebbe già attribuita tutte quelle proprietà e perfezioni che ora le mancano. Inoltre, è impossibile che il pensiero, incapace di porre le condizioni del suo stesso esserci, sia in grado di garantire il perdurare della propria esistenza, essendo costretto piuttosto a cercare altrove la ragione del suo esistere. Come ha rilevato Ferdinand Alquié, il cogito è «debordato dall’essere da ogni parte76»: non solo non si è trovato nelle condizioni di determinare i contenuti della propria riflessione, ma non sembra neppure in grado di garantire la stabilità del loro perdurare. È perciò necessario riconoscere un principio che, dando vita alla cogitatio, sia capace di assicurare, in ogni singolo istante, la sua conservazione. Questa causa non può essere altri che Dio: al termine della Meditatio III, Descartes può così «concludere che, dal solo fatto che esisto, e che c’è in me un’idea di un ente perfettissimo, ossia di Dio, si dimostra nel modo più evidente che anche Dio esiste» (Ivi, p. 747; AT, VII, p. 51). L’idea di Dio è necessariamente innata, poiché non può essere stata guadagnata né dall’accidentalità delle cose sensibili, né dall’intrinseca potentia della cogitatio, incapace di togliere o aggiungere alcunché a quel contenuto: Tutta la forza dell’argomento sta in ciò, che riconosco che non è possibile che io esista di natura quale sono, ossia abbia in me l’idea di Dio, a meno che non esista in realtà anche Dio; Dio, dico, quello stesso di cui c’è in me l’idea, cioè colui che ha tutte le perfezioni che sono in grado non di comprendere, ma di toccare col pensiero, in un modo o nell’altro, e che non è assolutamente esposto a difetto alcuno. E da questo risulta a sufficienza che egli non può essere fallace: infatti, che ogni frode ed inganno dipenda da un qualche difetto è manifesto per luce naturale (Ivi, p. 749; AT, VII, pp. 51-52). 76 F. Alquié, Lezioni su Descartes, cit., p. 173.

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Descartes si sta qui riferendo ad un’idea di Dio che si presenta al cogito in un modo ben determinato, cioè secondo un sistema di attributi di cui la riflessione umana è costretta a riconoscere la compiuta perfezione e necessità. Il pensiero, pur non comprendendo i misteri contenuti nell’essentia Dei, accoglie tuttavia, all’interno della rappresentazione, le proprietà che ineriscono alla natura incomprensibile di quell’idea. Analizzandone il contenuto, l’uomo può confrontare i vari attributi che si impongono all’interno della cogitatio, giudicando della loro compossibilità. Ora, se l’inganno è un segno di impotenza, il vero Dio onnipotente e creatore potrà mai ingannare le Sue creature? Escludendo una simile eventualità, Descartes pone le condizioni per garantire alle proprie conoscenze un solido ancoraggio; forte di questa certezza, il filosofo è ora autorizzato, partendo da un dato incontestabile, a dedurre infinite altre verità. La veracità divina è dunque la condizione indispensabile per assicurare all’uomo l’oggettività del sapere: in effetti, partendo «da questa contemplazione del vero Dio, nel quale si celano tutti i tesori delle scienze e della sapienza», è possibile giungere «alla conoscenza di tutte le cose» (Ivi, p. 751; AT, VII, p. 53). Descartes può conseguire una certezza non soggetta ad alcun dubbio solo dimostrando l’esistenza e la veracità di questo «sommo ente [«summum ens»]»: «se ignorassi Dio», scrive infatti il filosofo, «non avrei mai vera e certa scienza di cosa alcuna» (Ivi, p. 773; AT, VII, p. 69). Senza la conoscenza del «vero Dio», quindi, sarebbe stata di principio impossibile la stabile apprensione di qualsiasi sapere, «al punto che, prima di conoscerlo, non avrei potuto conoscere perfettamente alcun’altra cosa» (Ivi, p. 775; AT, VII, p. 71). L’aspetto più importante del tentativo cartesiano non risiede solo nella dimostrazione dell’esistenza di Dio, bensì in quel

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processo volto a delimitare lo spazio morale della Sua teofania, costringendo la potentia Dei a non trasgredire quell’insieme di possibilità che si ritiene consustanziale alla Sua natura. In un’opera come i Principia, destinata a presentare ad un pubblico più vasto i tratti salienti del pensiero cartesiano, i presupposti di quest’analisi appaiono in tutta la loro chiarezza. Dopo aver descritto i tratti di una causa infinita e incomprensibile, sottolineando l’impossibilità di cercare nella natura ogni finalità sottesa alla creatio divina, il filosofo riflette sull’essentia Dei: Il primo attributo di Dio che qui si offre alla nostra considerazione è quello per cui egli è sommamente verace [«summe verax»] e dispensatore di ogni lume: e pertanto ripugna nel modo più assoluto che egli ci faccia sbagliare, ovvero che sia in senso proprio e positivo causa degli errore ai quali, come ci mostra l’esperienza, siamo soggetti. Infatti, benché poter ingannare appaia forse a noi uomini prova non da poco d’ingegno, certamente la volontà di ingannare non procede giammai se non da malizia, timore o debolezza, e quindi non può trovarsi in Dio (Princ. Phil., I, 29, B Op I, pp. 1731-1733; AT, VIII, p. 16).

La veracità è qui il primo attributo di Dio, il più importante, o forse solamente quello che meglio di altri può rappresentare quel plesso in grado di garantire al filosofo un criterio di proporzione per rendere conto, in un orizzonte stabile ed assicurato, della natura divina. In questo contesto, è proprio l’omnipotentia Dei a rinsaldare, escludendo l’inganno, il legame epistemologico necessario per confermare la conoscenza umana. Se le esigenze espositive dei Principia hanno lasciato nell’ombra alcuni presupposti dell’analisi cartesiana, non problematizzando in modo articolato i problemi connessi alla potentia Dei, dobbiamo tornare alle Meditationes per ritrovare le ragioni sottese alla strategia del filosofo.

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Le premesse che hanno consentito a Descartes di conquistare l’esistenza del vero Dio si inscrivono all’interno di un quadro metafisico ben determinato. Le condizioni per dimostrare la natura verace di questa nuova maschera, infatti, sono rese possibili soltanto dall’arbitrarietà di quel gesto con cui il filosofo, nell’esordio delle Meditationes, ha estromesso dal teatro l’ipotesi del Dio Ingannatore. È solo eliminando da principio, con una decisione arbitraria, le possibilità dischiuse da quella figura che Descartes è libero di vincolare il dominio infinito della voluntas Dei, escludendo che un Dio onnipotente, libero da ogni modello metafisico e morale, possa ingannare le Sue stesse creature. D’altra parte, affinché il cogito potesse rappresentare il proprio dramma era necessario descrivere l’onnipotenza divina nel suo eterno passato, pensandola come da sempre vincolata a dei paradigmi eterni ed increati, connaturati all’immutabilità della Sua essentia. È grazie a questo presupposto, estraneo alle ragioni che hanno sospinto nel teatro la maschera ingannatrice, che il filosofo può garantire la stabilità della messa in scena. Ecco allora che la cogitatio, dovendo predisporre i margini della rappresentazione, è stata costretta ad eliminare la condizione della sua insecuritas77, facendole prendere univocamente partito, ossia relegandola in un sistema di attributi uniformato alle esigenze cartesiane. Se i tratti peculiari di quel «Deus qui potest omnia» evocato nella Meditatio I erano resi possibili dalle riflessioni svolte da Descartes sulla natura creata delle verità eterne, l’esclusione dal teatro di tale maschera dà voce ad una metafisica priva delle conseguenze all’opera in quella teoria. Le riflessioni 77 Sull’insecuritas che accompagna l’iter cartesiano nelle Meditationes, cfr. M. Donà, Divina insecuritas. Saggio su René Descartes, in Id., Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004, pp. 143-184.

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contenute nel prosieguo delle Meditationes sono guadagnate lasciando nell’ombra i presupposti della dottrina cartesiana; dopo aver congedato dal teatro il Dio Ingannatore, infatti, la precarietà epistemica connessa a quella figura viene estromessa dalla rappresentazione. Il lavoro del filosofo procede orfano di una possibilità da egli stesso evocata: il processo deduttivo messo in scena da Descartes sarà perciò universalmente commisurato alla veracità divina, garanzia ultima di ogni proporzione intellettuale. La maschera di un Dio Verace si sostituirà, sovrapponendosi, all’ipotesi precedente, rendendo possibile il buon esito della trattazione. Le analisi successive alla Meditatio I si lasciano alle spalle l’eventualità evocata nell’incipit del testo, formulando una riflessione cui sono estranee le ripercussioni incarnate dall’iperbole iniziale. D’altronde, è solo alla luce di questa premessa che Descartes è autorizzato ad assumere, nel prosieguo delle Meditationes, alcune posizioni che avrebbero potuto ricevere ben altra trattazione se i presupposti sottesi alla maschera ingannatrice non fossero stati consapevolmente esclusi dal suo teatro. Il caso dell’idropico, ad esempio, discusso e analizzato nella Meditatio VI, pone il filosofo di fronte ad una situazione particolarmente problematica, capace di incrinare i giudizi formulati in precedenza sull’essentia Dei. Per quale ragione un buon Dio permette che un uomo, spinto da una fallacia presente in natura, appetisca una cosa che gli risulterà nociva? Inoltre, poiché in natura non esiste nulla che non attesti la bontà e la potenza divine, non sembra esservi alcuna motivazione cogente che impedisca un divino intervento in grado di emendare questo scandalo, sollevando l’uomo da una situazione di cui non è responsabile. La questione sollevata da Descartes è più delicata delle difficoltà emerse nella Meditatio IV. In quella sede, infatti, si

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trattava di comprendere il motivo per cui l’uomo, certo della veracità divina, fosse comunque soggetto a sbagliare. Se l’imperfezione sottesa all’errore o all’inganno non poteva certo essere ascritta a Dio, era però sempre possibile per l’uomo farsi carico dell’intero problema, riconducendo la causa dell’errore alla sproporzione esistente fra il suo intelletto e la sua volontà. Nella Meditatio VI, invece, questa opportunità è esclusa: la malattia cui va incontro l’idropico non può, in quanto tale, giustificare una simile ingiustizia, giacché «un uomo malato non è creatura di Dio in un senso meno vero di un uomo sano; e, quindi, non sembra ripugnare meno che riceva da Dio una natura fallace» (Medit. VI, p. 793; AT, VII, p. 84). Al termine della sua disamina, Descartes è così costretto a riconoscere l’esistenza e l’attualità del problema, confessando che, «nonostante l’immensa bontà di Dio, la natura dell’uomo in quanto composto di mente e corpo non può non essere qualche volta fallace» (Ivi, p. 797; AT, VII, p. 88). Dio si scopre qui radicalmente impotente, poiché è costretto a tollerare una situazione in contraddizione con la bontà che ne qualifica la natura. L’esito di questa analisi, tuttavia, dipende dalla decisione cartesiana di non evocare, all’interno delle Meditationes, quel Dio la cui potentia infinita non avrebbe mai potuto incontrare alcun vincolo, essendo la ratio libera e indifferente di ogni cosa. Il Dio che prende corpo nelle Meditationes non è allora il Dio creatore delle verità eterne. Ciò, naturalmente, non significa postulare l’esistenza di due differenti divinità, ciascuna con prerogative mutualmente irriducibili. Al contrario, significa valorizzare l’apertura che dischiude l’apparente circolarità della rappresentazione cartesiana, riconoscendo che le Meditationes, lungi dal conchiudere le riflessioni del filosofo, fanno sdegno ad una possibile apertura che non risolve, nella sua totalità, la speculazione di Descartes.

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È nell’esclusione della grande maschera ingannatrice che si può ritrovare il fondamento della decisione cartesiana. Certo, il Dio Ingannatore non è, sic et simpliciter, il Dio creatore delle verità eterne, benché ne rappresenti, ad ogni modo, una traccia. È solo facendo implicitamente riferimento a un Dio che liberamente crea, in quanto ratio di ogni bene o verità possibili, i paradigmi e i modelli eterni di tutto ciò che esiste, che è possibile anche solo evocare i tratti di quella dramatis personae. Chiamare in causa una simile possibilità, però, equivale a collocare la ragione umana in un contesto epistemico caratterizzato da una precarietà pressoché assoluta. Ecco quindi il motivo per cui Descartes esclude dalla rappresentazione le conseguenze sottese alla maschera ingannatrice, ponendo le condizioni per giungere ad una conoscenza che sia valida oggettivamente, a dispetto di qualunque potentia estranea alle ragioni invocate nella dubitatio. La metafisica presente nelle Meditationes non esaurisce perciò la riflessione cartesiana sull’essentia Dei. Le possibilità connesse alla natura creata delle verità eterne, infatti, rimangono ancora presenti nell’indagine del filosofo, sebbene non vengano direttamente chiamate in causa. Se non si può parlare di uno scarto che separa la speculazione cartesiana, divisa fra un pensiero privato che non trova alcuno sbocco testuale nelle opere edite e un’indagine interamente consegnata alle stampe, rimane però legittimo interrogarsi sull’orizzonte stratificato che caratterizza l’impresa di Descartes. Benché non esistano “due” metafisiche, una meramente ipotetica, resa possibile dalla scelta di non introdurre nei testi pubblici la teoria sulla libera creazione delle verità eterne, ed un’altra consegnata al solo epistolario, rimane in piedi, tuttavia, l’opportunità di ripensare il pensiero cartesiano grazie al dislivello, sapientemente dissimulato, che continua ad abitare la sua riflessione.

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Il corpus del filosofo ci appare allora come una ricerca dinamica, in continua negoziazione con se stessa e con i presupposti che ne hanno delineato il fondamento. La speculazione di Descartes conferma ancora una volta la complessità che le appartiene, disegnando i confini di una rappresentazione barocca e stratificata. In questo moderno dramma in più atti, ad ogni sprazzo di luce corrisponde una zona d’ombra, quasi fossimo di fronte ad una continua negoziazione fra le esigenze pubbliche dell’uomo e il volto nascosto di Dio.

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Conclusione

Nel lavoro appena concluso abbiamo indagato vari aspetti del pensiero cartesiano, interpretando il corpus del filosofo a partire dallo scarto inaugurato dalle sue riflessioni sullo statuto ontologico delle verità eterne. Con questa teoria inaudita, Descartes ha preso congedo dall’universo medievale, radicalizzando alcuni dei presupposti presenti in quelle analisi. Le verità eterne, lungi dall’essere dei modelli esemplari già presenti, nella loro intrinseca oggettività, nell’intellectus divino, si scoprono create, sospese all’arbitrio della potenza di Dio, indifferente ad ogni modello che non sia stata la Sua sovrana voluntas a stabilire e legittimare. La dottrina cartesiana, assunta nella sua piena radicalità, priva l’episteme umana di un universale strumento di proporzione, recidendo ogni legame univoco fra Dio e le proprie creature. All’uomo è così preclusa ogni possibilità di farsi strada in mente Dei, non disponendo più di un criterio, valido absolute, per circoscrivere il misterium divino. La necessità che l’uomo incontra nel mondo, e di cui si serve per dare forma ad un sapere stabile, non risolve l’infinita distanza che lo divide dall’essentia Dei, poiché non gli restituisce

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il dominio di possibilità che Dio avrebbe potuto realizzare. Ciò che la sua ragione giudica necessario, dunque, è tale solo in virtù di una scelta gratuita; rappresenta, cioè, una necessità che è figlia di una volontà che avrebbe potuto decidersi altrimenti. L’oggettività delle ragioni in nostro possesso, pertanto, si inscrive all’interno di un’opzione nient’affatto necessaria. Anche la riflessione che ha preceduto l’affondo cartesiano si è interrogata sulla precarietà di questo mondo, riconducendo l’attuale dominio creaturale ad una scelta massimamente libera. Descartes, tuttavia, evocando nel dibattito del tempo alcune considerazioni irriducibili alle analisi precedenti, ha finito per radicalizzare la fragilità mondana indagata dalla tradizione medievale. All’interno di quell’ambito di riflessione, l’omnipotentia Dei era, sì, libera di creare o non creare il mondo, riservandosi inoltre, nella variante più radicale offerta dalla solutio scotista, l’opportunità di intervenirvi nuovamente, ma non era comunque in grado di venir meno ad un ordine logico e morale consustanziale alla Sua natura. Nella filosofia di Descartes, al contrario, la contingenza dell’universo creaturale non conserva alcuna traccia della ratio che ne ha accompagnato la creazione. Il “suo” Dio, infatti, condizione ultima di ogni verità possibile, è radicalmente indifferente, non essendo ab origine vincolato da delle ragioni connaturate alla Sua stessa essentia. Dio, in altri termini, quando si decide alla creazione, non è guidato da dei modelli eterni già da sempre disponibili alla Sua cogitatio, bensì li crea, liberamente, senza dover uniformare la Sua epifania ad alcunché che non sia diretta espressione di una sovranità absoluta, sciolta da ogni vincolo e da ogni legame preesistente.

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La dottrina cartesiana sulla natura creata delle verità eterne rappresenta una novitas metafisica destinata ad evocare una frattura difficilmente ricomponibile. Le conseguenze implicate da tale teoria pongono la riflessione umana di fronte ad uno scarto epistemico inaudito: non soltanto la totalità delle nostre conoscenze avrebbe potuto, se Dio avesse deciso diversamente, essere affatto differente da quella di cui disponiamo, ma la stessa oggettività del sapere di cui siamo in possesso potrebbe essere modificata nelle sue fondamenta, in virtù di una scelta tanto gratuita quanto incomprensibile. Alla luce delle implicazioni chiamate in causa dal filosofo, non è possibile escludere che la potentia Dei possa decidersi altrimenti, magari scompaginando la Sua creatio; l’episteme dell’uomo, infatti, poiché non possiede alcun criterio per proporzionare il dominio della volontà divina allo spazio della ratio umana, non è autorizzata a negare una simile ed estrema eventualità. Le conseguenze sottese alla teoria cartesiana finiscono per esporre il pensiero alla possibilità della propria catastrofe. Il filosofo francese, lungi dall’inaugurare un’epoca caratterizzata da un soggetto divenuto sovrano, dominus degli enti intenzionati dalla sua cogitatio, consegna quindi alla riflessione successiva un nuovo scenario. L’onnipotenza assoluta di un Dio incomprensibile, indifferente ad ogni legge che non trovi nel Suo arbitrio le condizioni della propria esistenza, non deve comunque impedire alla ratio umana di conchiudersi, ossia di provare a fondare un sapere che possa rivendicare una sua universale oggettività. Per raggiungere un simile obiettivo, però, è necessario rimediare ai presupposti impliciti in quelle riflessioni: la cogitatio dell’uomo dovrà allora espungere dalla rappresentazione i segni di una fragilità connaturata al suo stesso esserci. Descartes deciderà perciò di dare vita a un dramma inaudito: nel suo

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multiforme teatro, la traccia incarnata da quel Dio verrà allontanata dalla messa in scena e sostituita da un’altra imago Dei, da una figura che possa divenire la garanzia ultima di ogni certezza. Fra le pieghe di questa rappresentazione, non vi è alcuna rinuncia ad un passato teologico vissuto come un fardello di cui è necessario affrancarsi, magari per poter condurre la riflessione verso altri e più sereni lidi; anzi, in questa dialettica di chiaroscuri, Descartes amplifica i presupposti della traditio medievale, svicolando l’epifania divina da ogni struttura che non sia riconducibile ad un voluntas assoluta. Non ci stiamo confrontando con un processo meramente esclusivo, quasi si trattasse di un’azione volta a scalzare un determinato sistema di sapere, così da poterlo astrattamente sostituire; al contrario, abbiamo a che fare con una decisa radicalizzazione delle istanze, metafisiche e teologiche, che definivano e informavano il dominio di comprensione della riflessione precedente. È proprio la radicalità di questa novitas a imporre una diversa strategia. Descartes è consapevole che il sapere umano può rivendicare per la sua teoresi un’oggettività sottratta ad ogni iperbole dubitativa solo rischiarando, in virtù di una decisione arbitraria, l’oscurità che avrebbe potuto e potrebbe avvolgere l’intera rappresentazione. La natura umbratile dell’essentia Dei si predispone all’analisi del pensiero come una possibilità negata, esclusa da quel moderno drāma che Descartes ha deciso di mettere in scena. Il teatro cartesiano, evocando e mascherando, le condizioni della propria legittimità, consegna alla modernità le chiavi di una nuova fondazione. Le sue condizioni, tuttavia, non sono certo garantite dalla pre-potenza di un soggetto divenuto sovrano, bensì dalla scelta di obliare i segni della propria possibile precarietà. La modernità potrebbe rivelarsi forse un pro-

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cesso di consapevole dissimulazione, un dramma barocco che può tracciare i confini della sua messa in scena solo lasciando nell’ombra la ratio indifferente che ne ha guidato la mano.

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Indice

Introduzione

p. 11

Capitolo primo Lo scandalo cartesiano

p. 25

Capitolo secondo Descartes e la tradizione 1. L’autonomia delle verità 2. L’avversario di Descartes 3. Ratio veri e ratio boni

p. 71 p. 71 p. 99 p. 127

Capitolo terzo Il pubblico e il privato

p. 161

Capitolo quarto Il corpo del mondo 1. Mundus est fabula 2. L’anfiteatro e la macchina

p. 175 p. 175 p. 191

Capitolo quinto Il teatro della cogitatio 1. Le maschere delle meditationes 2. Il cogito e la veracità di Dio

p. 211 p. 211 p. 249

Conclusione

p. 265

Bibliografia

p. 271

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 2 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788898694815

René Descartes è stato tradizionalmente considerato il fondatore di un nuovo paradigma filosofico che ha posto le basi della modernità. Nel presente lavoro, l’autore si interroga sul fondamento di questo comune giudizio, analizzando la riflessione cartesiana alla luce della teoria sulla libera creazione delle verità eterne. In questa dottrina, letteralmente inaudita, Descartes ha dato voce ad un pensiero irriducibile alla tradizione precedente, tracciando le linee guida di un’altra, e ben più radicale, idea di Dio. È significativo, tuttavia, che il filosofo francese si sia limitato ad elaborare ed esporre i presupposti della sua teoria soltanto nel proprio epistolario, e non nelle opere destinate ad un più ampio pubblico. L’analisi delle ragioni di questa scelta intende restituire al lettore la dialettica che ha caratterizzato la riflessione di Descartes, collocandola nell’immaginario barocco cui a pieno titolo apparteneva. Alfredo Gatto ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele. Ha curato l’edizione italiana del De Divina Omnipotentia di Pier Damiani e del De Septem Sigillis di Gioacchino da Fiore. È autore inoltre di Pier Damiani. Una teologia dell’onnipotenza (Aracne, Roma 2013). Attualmente, è cultore della materia presso la cattedra di Storia della Filosofia Moderna e Contemporanea al San Raffaele di Milano e svolge un post-dottorato nella Faculté de Philosophie dell’Institut Catholique de Toulouse.

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