Relazione e alterità 9788855290500, 9788855290517

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Relazione e alterità
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D. Calabrò, S. Dadà, C. Meazza, M. Villani

Relazione e alterità A cura di Giuseppe Pintus

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 16 - Proposte

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Daniela Calabrò, Silvia Dadà, Carmelo Meazza, Massimo Villani

Relazione e alterità a cura di Giuseppe Pintus

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2019, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 16 - agosto 2019 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-050-0 ISBN – Ebook: 978-88-5529-051-7 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: © Ica Spanu e Antonio Salis, Casa d’artista, Sennori (SS)

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Se l’Europa fa segno: per una fenomenologia dello straniero Daniela Calabrò

I primi “vagiti” dell’indagine filosofica, ma non solo filosofica, sono stati favoriti dal confronto con lo xenos, lo straniero. In tal senso, culla perfetta della cosiddetta civiltà furono le coste lambite dal Mediterraneo e dall’Egeo, aree di incontro/scontro tra xenoi, la cui vitalità nel pensare fu risvegliata anche dalla constatazione che ogni tentativo di autoriflessione e costruzione della propria identità non poteva se non risultare dinamicamente stimolato da un esterno non perfettamente combaciante. Dobbiamo partire, se vogliamo comprendere a fondo la posta in gioco di tale necessario e imprescindibile confronto, da due tra i più importanti e suggestivi dialoghi platonici: il Simposio e il Fedro. Qui, infatti, la questione dell’altro da sé, dello xenos, viene efficacemente pensata. Se è vero che l’immagine offerta dal Simposio sulla relazionalità è tutta orientata a difendere il processo di liberazione dalle relazioni umane che il filosofo deve realizzare, il Fedro annuncia una tensione nuova, che difende un ideale di vita in cui l’attività intellettuale ha bisogno di essere condivisa per essere davvero tale e in cui l’altro diventa, restando altro, lo specchio nel quale intravedere il sé. Una visione di pensiero, questa, più problematica e critica, che rivisita il motto delfico del “conosci te stesso” alla luce di una relazione con un centro esterno che non è accidentale al darsi dell’identità, ma suo necessario controcanto.

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Ma il luogo più straordinario della riflessione platonica sul concetto di xenos lo troviamo nelle Leggi1. Qui, il controcanto è rappresentato dalla figura di un’assenza, quella di Socrate, che infatti non compare; in sua vece, Platone ci presenta lo straniero ateniese quale interlocutore principale del dialogo. Allo xenos viene assegnato il compito decisivo, quello del filosofo. Filosofo è dunque lo straniero. Estranea è la filosofia rispetto alla polis, alla comunità politica. Ma, e questo ci sembra essere di radicale importanza, Zeus viene indicato da Platone come divinità protettrice degli stranieri (Zeus Xenios). Inizia, da qui, una decisiva riflessione sulla relazione della comunità politica con l’esterno e su come sia possibile mantenere pure e inalterate le leggi della polis quando la comunità, aprendosi verso l’esterno e interagendo con esso, inevitabilmente produce mescolanze e alterazione dei costumi. Quella che sembra essere un’impasse è invece il punto di forza della riflessione platonica sullo statuto dello straniero e sulla regolamentazione e accoglienza di tutti gli xenoi secondo le leggi stabilite (philoxenia)2. Gli stranieri, inoltre, possono essere capaci di introdurre il principio del mutamento nella comunità politica, superando così la fissità strutturale che per definizione caratterizza i nomoi e che ne impedisce il perfezionamento. Insomma, è anche allo straniero che Platone affida il compito del perfezionamento delle leggi della polis e quindi della sua stessa evoluzione, e ciò avviene durante quello che viene denominato Il Consiglio notturno3. Qui, gli ambasciatori della città (i theoroi) incontrano gli xenoi (anthropoi theioi) che sono in grado di offrire miglioramen-

1.  Cfr. Platone, Leggi, VIII, 850A-850D. 2.  Cfr. ivi, 952D-953E. 3.  Cfr. ivi, 960B-969D.

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ti alla legislazione della città. Nel consiglio notturno, quindi, accade l’incontro tra cittadini della polis e stranieri. Entrambi hanno a cuore il bene della comunità. Platone li definisce sophoi perché sono sempre alla ricerca della verità e della conoscenza. Gli ambasciatori e gli xenoi hanno il medesimo compito: confrontarsi a vicenda e sperimentare la bellezza di essere al contempo in grado di insegnare e di imparare. Ecco, quindi, come ben sottolinea Farnesi Camellone in un testo dal titolo La xenia come luogo per la filosofia nelle Leggi di Platone: Il comune denominatore tra tutti questi anthropoi theioi sembra essere, seppur declinato in diverse modalità, il loro rapporto con “l’essere straniero”: se ciò è vero, allora risulta corretto affermare che, nei Nomoi, xenia e filosofia si trovano legate strettamente, o meglio, nel dialogo in questione la filosofia, mai posta direttamente in gioco, indossa la maschera della xenia. Tale mascheramento non deve essere interpretato come sinonimo di artificialità: piuttosto esso rappresenta la possibilità di espressione propria della filosofia, intesa come ciò che costitutivamente si sottrae a un rapporto immediato con la comunità politica, ma che a questa risulta indissolubilmente connesso. La xenia non riveste dunque il ruolo di semplice metafora della filosofia, bensì essa incarna la dimensione propria della filosofia nel suo rapporto con la polis.4

A questo punto risulta chiaro il riferimento platonico a Dioniso, il dio bacchico, ctonio, che viene raffigurato come sempre oscillante e senza posa, il dio che è insieme presenza e assenza. E ancora, il dio straniero, mascherato, che rifugge la trasparenza apollinea, ma incarna appunto l’estraneità a ogni logos. Con questa facies Dioniso fa breccia nella polis delle Leggi, lui, la

4.  M. Farnesi Camellone, La xenia come luogo per la filosofia nelle Leggi di Platone, in U. Curi - B. Giacomini, Xenos. Filosofia dello straniero, Il Poligrafo, Padova 2002, pp. 315-330: p. 321.

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divinità straniera, in grado di sovvertire la fissità dei nomoi… dal fuori, dall’ex di ogni xenosophia proviene il cambiamento; il cambiamento, lo smottamento di regole fisse e immutabili transitano solo nel cuore della notte, quando il chiarore della stabilità e della fissità del reale viene meno… nella notte, quando cioè i confini dismettono le proprie linee, i propri contorni, le proprie forme, i propri argini, le proprie chiusure. Il Consiglio notturno non può che avere Dioniso come nume tutelare, cioè la divinità che già da sempre eccede i confini di ogni sapere logocentrico. Se in nome di leggi immutabili veniva decretata la morte di Socrate e quindi la morte della filosofia, qui Platone agisce di conseguenza e la sua personale azione filosofica si rivolge, appunto come un necessario controcanto, a tutti i cittadini della sua polis. Facciamo adesso un salto temporale molto lungo, che non vuole essere una digressione, quanto piuttosto un approfondimento di quanto abbiamo detto finora. Siamo nel ’900 e ciò a cui mi riferisco riguarda il concetto di humanitas in Edmund Husserl; negli anni della crisi si profila un nuovo necessario controcanto. Tale controcanto ha le sue radici nella impossibilità per Husserl di disgiungere vita e filosofia: impossibile infatti sarebbe stato pensare a una Weltanschauung disgiunta a vario titolo dalla Lebenswelt; impossibile soprattutto sarebbe stato, per Husserl, pensare a una verità senza umanità. Così e solo così possiamo parlare qui adesso di un nuovo più attuale controcanto, quello per il quale Husserl, il filosofo ebreo Husserl, ha segnato la nostra storia più recente. Alle «scienze di fatti [che] creano meri uomini di fatto»5, Husserl ha voluto contrapporre un mondo nuovo, basato sui concetti fenome5.  E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascenden­ tale, tr. it. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1987, p. 35.

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nologici di relazione e intersoggettività. Concetti questi del tutto evidenti nella loro originarietà, in quanto non mediati o costruiti a partire da alcun punto archimedico di osservazione. La relazione intersoggettiva è ciò che si dà prima e indipendentemente da qualsiasi altro giudizio o pensiero, prima quindi di qualsiasi scienza istituita e/o costruita. Ma ben prima di essere ridotto a rifiuto, Edmund Husserl redige – per la rivista giapponese Kaizo – tre dei cinque testi poi pubblicati nel volume XXVII della Husserliana. Di che cosa si trattava? E perché soprattutto questi cinque testi sono decisivi per la nostra indagine? Redatti negli anni 1922-1923, questi articoli segnano un percorso, tratteggiano un’idea dell’Europa e del suo possibile, necessario rinnovamento al tempo della “crisi della filosofia”. Cosa succede all’Europa alla fine della Prima guerra mondiale? Cosa, di fatto, entra in crisi? L’umanità. Ecco la risposta di Husserl. «L’umanità è stata ridotta dalla guerra a un’indicibile miseria, non solo morale e religiosa ma anche filosofica. […] Questa guerra, la colpa più universale e profonda dell’umanità nell’intera storia, ha mostrato l’impotenza e l’inautenticità di tutte le idee. […] Divenuta guerra di popoli nel senso più terribile e letterale del termine, ha perduto il proprio significato etico», così che, per «il rinnovamento etico-politico dell’umanità», occorrerebbe «un’arte sorretta da ideali etici supremi e fissati in modo chiaro», capace di una «educazione universale dell’umanità»6. Ma tale «educazione universale dell’umanità» non può che passare dal

6.  E. Husserl, Briefwechsel. Band III: Die Göttinger Schule, a cura di K.Schumann, Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1994, pp. 163 e 12; tr. it. di C. Sinigaglia, Presentazione a E. Husserl, L’idea di Europa. Cinque saggi sul rinnovamento, a cura di C. Sinigaglia, Raffaello Cortina, Milano 1999, pp. X s.

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rinnovamento. Da una nuova Europa. Ed ecco il monito e lo sprone di Husserl: un’umanità vive e opera nella pienezza delle forze soltanto se sorretta nel suo slancio da una fede in se stessa e nella bellezza e bontà della vita della propria cultura; se, dunque, non si limita a vivere, ma aspira a qualcosa che considera grande, e trova appagamento solo quando riesce progressivamente a realizzare valori genuini e sempre più elevati. Essere degno di appartenere a un’umanità simile, cooperare a una tale cultura, contribuire ai suoi valori edificanti, rappresenta la felicità di ogni uomo operoso e lo solleva dalle preoccupazioni e dalle sventure individuali. […] Perciò diciamo: deve necessa­ riamente accadere qualcosa di nuovo, deve accadere in noi e per mezzo di noi – noi che siamo parte dell’umanità che vive in questo mondo, che plasma il mondo grazie a noi e noi grazie al mondo… dobbiamo forse aspettarci che questa cultura guarisca da sé nel puro gioco casuale delle forze che producono e distruggono i valori? Dobbiamo accettare il «tramonto dell’Occidente» come se si trattasse di una fatalità, di un destino che ci sovrasta? Sarebbe un destino fatale solo se lo accettassimo passivamente – soltanto se potessimo accettarlo passivamente. Ma questo non possono farlo neppure coloro che lo annunciano.7

La forza straordinaria di queste parole, questo rinnovato con­ trocanto, non può non avere in Platone la sua ascendenza e la sua origine. L’ideale etico, il sommo Bene si affacciano qui per promuovere la reazione contro il pessimismo debole e il realismo privo di ideali; contro quella crisi dell’umanità che il Novecento attraversa nel modo più tragico mai visto. La fiducia nella possibilità dell’umanità anima le parole di Husserl, che ci consegna, di fatto, la chiave per «smuovere le montagne»: La fede che ci anima – che la nostra cultura non possa essere considerata unica e compiuta, e che possa e debba essere 7.  Ivi, pp. 3 s.

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15 riformata dalla ragione e dalla volontà dell’uomo – può allora «smuovere le montagne», non nella fantasia, ma nella realtà, solo se si trasforma in pensiero obiettivo, razionalmente evidente, solo se giunge a chiarire e a determinare pienamente l’essenza e la possibilità del suo fine, nonché del metodo che permette di realizzarlo. E in tal modo la fede si procura da sé il fondamento della propria giustificazione razionale. Soltanto una simile chiarezza nella comprensione può esortare a lavorare con gioia e a dare alla volontà la risolutezza e la forza necessarie per realizzare l’azione liberatrice; soltanto questa conoscenza può diventare patrimonio sicuro, affinché, con la partecipazione di migliaia di persone convinte da una simile razionalità, si riesca finalmente a smuovere le montagne, e quel moto di rinnovamento, meramente emotivo, si trasformi nel processo stesso di rinnovamento.8

Husserl propugna, quindi, in queste pagine, una nuova visione del mondo, legata al concetto fenomenologico di Lebenswelt che, ancora una volta, troviamo a fondamento dell’humanitas autentica. Il mondo della vita su cui deve ergersi l’idea rinnovata di Europa è quel mondo in cui relazionalità, intersoggettività, empatia disciplinano «l’educazione di sé che non ha mai fine»9. Il rinnovamento, quindi, così come la possibilità di mutare le leggi secondo Platone, si incentra in un nuovo concetto di verità: non più assoluta e inconcussa, ma relazionale, aperta, proiettata verso quel “fuori” che ogni ex determina. Il telos verso cui tende la nuova storia dell’umanità accade «nella e per la filosofia», l’unica libertà. Infatti, «il carattere più proprio della cultura europea è determinato da quel carattere peculiare di quel movimento di libertà che nasce […] nell’antica Grecia, con la creazione di una nuova forma di cultura, la filosofia»10.

8.  Ivi, p. 5. 9.  Ivi, p. 46. 10.  Ivi, p. 86.

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La filosofia dell’apertura, sin da Platone, incarna l’eidos stesso della cultura, quell’imperativo categorico che è il presupposto dell’unità di ogni umanità, e che trova nell’idea di Europa – come «idea di una cultura filosofica – la sua piena realizzazione. Non c’è Europa senza filosofia, dunque senza rinnovamento. La stessa storia, in quanto storia dell’umanità europea, è tale solo perché inscritta, sin dalla sua origine, nell’orizzonte etico del rinnovamento. Storia infinita di un compito mai compiuto e di continuo differito» o, come dirà Husserl nella Crisi delle scienze europee, storia di un’umanità che «vuole e può vivere ormai soltanto nella libera costruzione della propria esistenza, della propria vita storica, in base alle idee della ragione, in base a compiti infiniti»11. Il compito infinito è quello della ricerca filosofica che ha sempre fuori di sé la sua ragion d’essere più autentica. Qui l’istanza intersoggettiva, la co-implicazione ioaltro e io-mondo assumono il riconoscimento più elevato; quello cioè di una teoresi che si flette nell’etica, nell’agire non mai unicamente privato che rivela l’humanitas autentica. L’uni­ca forma di vita possibile si dà nella responsabilità per altri. Questa è la vera «vita filosofica»: Il rinnovamento dell’uomo – del singolo uomo e di un’umanità accomunata – è il tema supremo di ogni etica. La vita etica è, per essenza, una vita soggetta consapevolmente all’idea di rinnovamento, ed è, da questa, volontariamente guidata e formata. L’etica pura è la scienza dell’essenza e delle forme possibili di una tal vita nella pura generalità. L’etica umana empirica mira poi ad adeguare le norme dell’etica pura all’empirico, e a diventare la guida dell’uomo terreno nelle condizioni (individuali, storiche, nazionali, ecc.) date. […] Ma l’etica, poi, non è soltanto etica individuale, bensì anche etica sociale. […] Nella relazione sociale [l’uomo] vede che l’altro, nella misura in cui 11.  C. Sinigaglia, Presentazione a E. Husserl, L’idea di Europa, cit., pp. XIV s. Per il riferimento a Husserl si rinvia a: E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 332.

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17 è buono, riveste un valore anche per lui, non meramente utile ma in sé; egli ha dunque un puro interesse al lavoro etico che ogni altro compie da sé, ha in generale un interesse proprio a che gli altri soddisfino il più possibile i loro buoni desideri, conducano la propria vita nella giusta forma, e pertanto la sua volontà etica deve essere volta a fare il possibile perché questo accada. Ciò appartiene, dunque, a quanto è categoricamente richiesto; il migliore essere, volere e realizzare possibile degli altri appartiene al mio proprio essere, volere, realizzare, e viceversa. Appartiene, dunque, alla mia vita autenticamente umana il desiderio che non solo io sia buono, ma che l’intera comunità sia una comunità di buoni.12

Per Husserl, quindi, la questione del rinnovamento dell’Europa deve passare per un nuovo inizio, una nuova modalità di vedere il mondo; bisogna pensare tale rinnovamento a partire dalla questione stessa della filosofia, proponendo l’idea di un’etica universale che «abbraccia l’intera vita attiva di una soggettività razionale»13. Ma il rinnovamento a cui allude Husserl tiene conto anche, come abbiamo appena visto, dell’etica individuale, ancora una volta veicolata dal concetto fenomenologico di intenzionalità, di intersoggettività, di Ineinander. La “responsabilità per altri” che ogni etica individuale richiede per potersi definire e aprire a un’etica sociale, comunitaria, europea, si dà nella prassi continua, sempre rinnovata di un pensiero all’altezza del proprio tempo: un tempo che non istituisca verità chiuse nell’intimità di un senso definitivamente acquisito, ma che si esponga all’urto con la sua stessa ragione, al contraccolpo della sua stessa verità, senza imprigionare lo scarto, le differenze, le alterità. In una parola: facendo del pensiero libertà e non fissità. Bisogna dis-trarre l’Europa dai suoi margini, trarla fuori dai suoi confini, arricchirla di tutti quei «valori erranti» di cui ci ha 12.  E. Husserl, L’idea di Europa, cit., pp. 25 s. e 55 s. 13.  Ivi, p. 25.

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parlato Camus nel corso del suo intervento dal titolo Il futuro della civiltà europea14, presentato alla Conferenza Internazionale svoltasi ad Atene nel 1955, se vogliamo davvero liberarla dai lacci che la legano a uno sterile territorio xenofobico. L’idea di Europa nasce – come abbiamo visto – dalla figura dello xenos, dello straniero. Nell’antichità, lo xenos, lo straniero, l’altro, l’estraneo, è stato pensato come una risorsa, una possibilità, un arricchimento e non come ciò che dobbiamo tenere a bada o ciò da cui dobbiamo renderci immuni. Al modello xenofobico bisogna sostituire quello xenosophico. La xenosophia, infatti, si attesta come il luogo imprescindibile di ogni apertura del pensare. Se il sapere, costitutivamente, è ciò che proviene dall’altro, dall’alterità, dal fuori, allora ogni indagine filosofica dovrebbe ambire per sua essenza al proprio contagio, alla promiscuità e alla latenza di ogni sua prescritta frontiera. Pensiero dell’altro, non mai assimilato ma portato, tradotto, accompagnato, riconosciuto come altro indefettibile, impossibile da tenere sul bordo, a distanza, sulla riva; l’altro è sempre già arrivato come apertura, slargo, ulteriorità; l’altro è sempre già qui, nel suo essere presso, prossimo, quasi intimo. I “valori erranti” presenti in un’Europa fecondata dallo xenos sono quelli a cui mira l’indagine filosofica di Jean-Luc Nancy15 (si vedano in particolare i concetti di comunità inoperosa, comparizione e spartizione). La sua riflessione disfa l’immagine identitaria di ogni soggettività stabile e unitaria per aprirsi co14.  Cfr. A. Camus, Il futuro della civiltà europea, tr. it. di A. Bresolin, Castelvecchi, Roma 2012. 15.  Di J.-L. Nancy, si vedano, in particolare a questo proposito: La comu­ nità inoperosa, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1992; Alla frontiera, figure e colori, tr. it. di L. Bonesio, in «Tellus», n. 9, 1993; La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, tr. it. di R. Deval e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007; Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, a cura di D. Calabrò, Mimesis, Milano-Udine 2009.

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stitutivamente alla nuda esposizione all’altro. Ogni identità diventa così l’indice di uno spazio, di un luogo, di una topografia vissuta; ma, al contempo, questo indice inscrittivo e inclusivo apre alla sua stessa escrizione: la frontiera è il passaggio, il luogo dell’attraversamento, il bordo che insieme traccia il limite e segna l’approssimarsi, come la pelle del corpo, esposizione liminare del sé. Qui io e altro smettono di fronteggiarsi; insieme piegano la riva del confine istituito; annullano le distanze senza far scomparire le differenze; si dispongono al contatto, alla mescolanza, all’apertura a una prossimità multipla di corpi, in cui il noi si rende palpabile, si tocca e si offre ad essere toccato… l’immagine si moltiplica, si scheggia, si urta, si scarta. Tutto questo comporta una riflessione radicale sulla nostra provenienza e sulla nostra traiettoria, insomma su ciò che vogliamo essere: «né luoghi, né cieli, né dei: […] smantellamento e decostruzione degli spazi chiusi, dei recinti, delle chiusure»16. Bisogna allora istituire un “pensiero delle rive”, un pensiero dell’approssimarsi che ci renda disponibili a udire la pietra, a custodire i vasti spazi dell’aperto, a penetrare fin dentro il suono della notte – per dirla con gli straordinari versi di Rilke; bisogna aspettare che il sole d’Occidente sia tramontato, che la trasparenza senza ombre dell’ego cogito cartesiano venga offuscata, per poter finalmente essere-con «lo scarto tra un corpo e l’altro» e «riappropriarci così del rischio degli estremi»17. Dalla Siria alla Libia, dalla Somalia all’Asia centrale, dai territori di guerra alla speranza di approdo in nuove terre: è possibile stilare una lista interminabile di questi luoghi, luoghi di tor­ mento come li definisce Nancy; punti geografici o punti di mon-

16.  J.-L. Nancy, La dischiusura, cit., p. 222. 17.  Cfr. J.-L. Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, cit., p. 129.

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do in cui assistiamo alla perdita generale del senso, una fuga del senso che accade in forma politica, etica, religiosa, estetica o in altre forme; ma ciò che noi oggi dobbiamo aver chiaro è che i significati di parole quali “nazione”, “gente”, “sovranità”, “comunità”, e molte altre, stanno apparendo come tanti vasi rotti. Non si tratta semplicemente di cancellare delle frontiere, di ridisegnare i territori, di marcarne l’identità; la frontiera territoriale è infatti un innesto, un tracciato complesso che si dispiega in molteplici contingenze, che si apre a pluralità linguistiche, filosofiche, tecnologiche, sociologiche, storico-politiche, ecc. Di tale pluralità è necessario tener conto in quanto ogni esistenza è «appello, incitazione, eccitazione a superare l’utilità e la soddisfazione per andare verso il distacco da sé, l’abbandono, il passaggio al limite – passaggio che non oltrepassa ma che sfiora, tocca e, toccando, si lascia toccare per il fuori»18. Seguendo ancora le parole di Nancy, che qui si attestano come il controcanto della nuova idea di Europa: bisogna pensare il doppio bordo del tracciato, e con esso il rapporto dei colori, che fanno il gioco e la posta in gioco delle frontiere. Non bisogna pensarlo a partire dalla traccia tracciata, dalle terre appropriate, ma a partire dalle tracce traccianti, dall’insieme dei gesti singolari che distribuiscono i colori qua e là, che conferiscono il loro spessore, il loro spicco, la loro sfumatura nella s-partizione. Occorre pensare ciò che fa che il colore, il singolare di un colore, esiste laddove il colore cessa, lascia il posto ad altri, oppure vi si mescola, nel gioco dello stesso doppio bordo. Occorre perciò pensare un’identità singolare del territorio – ma occorre pensarla come un’intensità d’esposizione, sempre messa in gioco sulla frontiera, e non come un’estensione di dominazione.19

18.  J.-L. Nancy, Il corpo dell’arte, a cura di D. Calabrò e D. Giugliano, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 58 s. 19.  J.-L. Nancy, Alla frontiera, figure e colori, cit., p. 5.

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Lungi dal pensare a una cancellazione delle frontiere o a un multiculturalismo umanistico pseudo-democratico, Nancy propone un’arte delle frontiere, dell’esposizione dei colori gli uni agli altri, come ad esempio accade nelle tele “disumane” di Cézanne. In esse, infatti, le macchie di colore si sopravanzano, come le onde, l’una all’altra, e, così, il mondo classicamente percepito scompare: scompare il mondo delle linee prospettiche, il mondo unico ed eterno che è rappresentabile seguendo le leggi geometriche che lo reggono e che quindi lo rendono immediatamente accessibile allo sguardo cosmoteoretico di ogni occhio umano. Qui sta la “disumanità” delle sue tele, qui l’orizzonte perduto del significato diventa lo spazio dal quale l’assenza del significato può essere pensata, ma solo per estendere quell’orizzonte che è, propriamente, “perduto”, ri-tratto. Nel momento in cui si sveste del sapere, e quindi si sottrae a se stesso come atto intellettuale, il pensiero non incontra la mistica, o la metafisica che rafforzano la dimensione del medesimo, del soggetto fondante, portatore di verità inconcusse, ma l’etica: si fa rapporto, relazione all’altro, apertura del senso e non sua fissazione. La dimensione della comunità tratteggiata da Nancy non è allora quella del Geist, di una sostanza che diviene soggetto producendo il mondo dei significati, dei valori, delle norme, è invece quella della finitezza capace di esporsi al proprio limite, di attestarsi sul proprio confine per cogliere quell’eccedenza che, attraversandola, la frattura e le rende impossibile il dominio su di sé. Questa comunità non è fatta di individui, ma da singolarità finite che accolgono il limite dentro di sé e non lo lasciano all’esterno di una presunta unità. Nancy delinea una dimensione comunitaria che non pretende di farsi assoluta, di riassorbire al proprio interno tutte le dimensioni dell’uomo, ma esibisce proprio ciò che, sottraendosi al concetto, alla totale trasparenza del significato, costituisce l’essere come inappropriabile altro. In questa inappropriabilità troviamo però la responsabilità dell’essere-con; è qui che facciamo l’esperienza

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più alta della libertà: l’altro resta la nostra riva, il nostro bordo, la nostra frontiera. Ma questo, lungi dal configurarsi come un lessico sottrattivo e quindi negativo, è piuttosto il linguaggio che si allontana dalle coppie oppositive di ogni pensiero del confine: arrivare/rivaleggiare; bordare/abbordare; fronte/fronteggiare. «Per pensare questa rivalità generale senza volerla riassorbire né fomentare, bisogna inventare un pensiero delle rive, dei loro bordi e dei loro limiti, un pensiero degli estremi, dell’esistenza estrema nella sua finitezza»20. In tal modo egli mette fuori gioco, decostruisce letteralmente la presupposta immanenza di una legge, di una norma invariante, e dischiude il lessico etico-politico a una diversa modalità di approccio. Se, infatti, cosa che succede oggi e che tutti abbiamo sotto gli occhi, al posto della riva il bordo si indurisce e il limite si ferma, diventa frontiera e sorveglianza, confine e baluardo, contorno livido o ferita, la finitezza si esaspera in cattiva infinità o in nonsenso. Non sono possibili né la salvezza, né la verità tragica, né il movimento di una storia. Dalla riva dell’Occidente sembra che ci siamo imbarcati per l’oceano illimitato del nichilismo.21

La più grande paura oggi più che mai sentita tra gli stati-nazione è quella della “perdita di controllo” dei propri confini; un grido ripetuto con il più minaccioso dei riverberi dal Nord al Sud del mondo, dall’Occidente all’Oriente. E intanto barconi carichi di umanità si spaccano tra le onde in cerca di una costa, di un nuovo luogo di approdo: la costa appare […] come il lontano, come il laggiù oltre l’orizzonte, l’altro mondo presentito, a un tempo temuto per la sua estraneità e sperato come l’assicurazione di un altro bordo dell’elemento periglioso, come il termine possibile di una tra­ versata […], cioè come la possibilità di un arrivo su qualche altra costa, vicino a un’altra prossimità. La costa è il luogo da 20.  J.-L. Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, cit., p. 128. 21.  Ivi, p. 129.

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23 dove si parte e dove si approda: un luogo che non è esattamente né limite, né bordo (né negatività della traccia, né positività della forza), ma passaggio, scivolamento nell’acqua della costa lacerata o sfrangiata, della roccia sminuzzata in sabbia, mescolata con la spuma e la terra in cui il passo scompare.22

È davvero pensabile poter immunizzare l’Europa? Cosa si nasconde dietro i respingimenti? Paura dell’altro? Del contagio? Della contaminazione? Cos’è questa onnipresente paura di tutto ciò23? Forse la paura è che nessun “rinforzo” militare ai confini, nessuna istituzione di tasse doganali, nessun controllo di carte di identità, nessuna legislazione linguistica, nessun accordo possa contenere questo “divenire sconfinato” del confine, il suo insuperabile débordement. Il mondo delle rive senza altra riva che la mutua esposizione di tutte le rive ci appare come il mondo più lacerato, il più esposto alla sua stessa conflagrazione. È un mondo in cui la riva rischia in ogni momento di sparire come luogo di passaggio e di arrivo, come luogo di debordamento dell’uno nell’altro, di un elemento nel suo contrario e della vita nella morte. Un mondo in cui la riva e la rovina rivaleggiano…24

È cosi che il meccanismo immunitario – il meccanismo giusto? – assume il carattere di una vera e propria guerra la cui posta in gioco è il controllo, e in ultima analisi la sopravvivenza del corpo nei confronti di invasori stranieri che cercano prima di occuparlo e poi di distruggerlo. Ritornano, da questo punto di vista, raf-

22.  Ivi, p. 127. 23.  Sui temi del contagio, della contaminazione e della immunizzazione preventiva si veda l’importante lavoro di R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002. Si vedano anche C. Resta, L’estra­ neo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, il melangolo, Genova 2008 e P.A. Rovatti (a cura di), Scenari dell’alterità, Bompiani, Milano 2004. 24.  J.-L. Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, cit., p. 128.

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24 forzati ed autorizzati da una ben diversa cauzione scientifica, tutti i tropi della trattatistica seicentesca sul corpo politico: dall’attenzione ossessiva per i confini identitari alla paura fobica del contagio da parte di potenziali infiltrati, all’allestimento di sempre nuove barriere difensive.25

E infatti quella paura è giustificata (il confine è fuori del controllo perché nessun confine può anche essere successivamente controllato), ma le sue conseguenze non sono così cattive, e certamente non così cattive come i sanguinari e brutali sforzi per ridefinire e “mantenere” i confini. «Mai come oggi abbiamo l’esatta percezione di questa comunità di corpi – del contagio senza fine che li accosta, sovrappone, impregna, coagula, mescola, clona. Le aperture della carne e le trasfusioni del sangue sono identiche a quelle del senso. Vacilla ogni definizione del sano e del malato, del normale e del patologico, dell’immune e del comune»26, del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male. La via percorsa da Roberto Esposito27 conduce a un concetto di xenos che si basa sulla categoria della communitas, intesa come relazionalità espropriante e perciò stesso contagiante. Ciò determina uno spostamento d’attenzione sui rischi intrinseci a tale contagio e sui conseguenti dispositivi immunitari. È fin troppo evidente come tale rischio abbia progressivamente invaso tutta la semantica linguistica relativa al concetto di immunizzazione, protezione, frontiere e confini identitari. Il dispositivo immunitario che sta al fondo della politica escludente dello xenos conduce al rovesciamento del rapporto vita/ potere generando l’ipertrofia degli apparati di sicurezza che 25.  R. Esposito, Immunitas, cit., p. 183. 26.  Ivi, p. 180. 27.  Di R. Esposito segnaliamo, al riguardo, anche: Bìos. Biopolitica e fi­ losofia, Einaudi, Torino 2004; Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007; Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2016.

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sempre di più caratterizzano le società contemporanee. Il rischio continuo è che tale dispositivo immunitario si trasformi da biopolitico in tanatopolitico: l’Olocausto ne è stato l’esempio più recente. Qualsiasi biopolitica infatti, si affaccia pericolosamente sul bordo della tanatopolitica. Oggi, essendo saltate quasi completamente le mediazioni moderne tra vita e politica, ed essendo il dispositivo immunitario più che mai influente, l’intreccio fra biopolitica e tanatopolitica nella figura dello xenos, ma non solo, ha raggiunto un livello di tensione tale da esigere scelte radicali e responsabili. La problematicità del nodo cruciale espresso dalla duplice faccia della vita – la sua protezione e insieme la sua negazione – in Esposito giunge a una svolta radicale: si tratta di accedere a una biopolitica affermativa; quella per la quale l’alterità, la diversità, lo xenos risultano essere l’esplicazione della «vita nelle sue differenti guise». Non ci resta che l’esposizione: esposizione sul limite tra le differenze spaziali, etniche e linguistiche. L’Europa è qui l’indice di un’escrizione, di una scrittura dal/del fuori. Un essere in comune privo di confini. Siamo abituati a pensare che i confini passino fuori di noi; essi invece ci attraversano al nostro interno, impedendoci di essere identici a noi, se non a partire dall’altro, se non come apertura al suo mistero. Per questo non basta tradurre e dialogare, ma anche sopportare l’incomunicabilità e il silenzio: è solo qui, infatti, nel sottrarsi di ogni facile intesa, che la separazione diventa rapporto e l’intendersi si apre all’ascolto dell’enigma delle nostre differenze. È solo nella più radicale e radicata determinatezza, entro un limite che ci de-finisce in quanto esseri finiti che l’universale si mostra nella concretezza di una figura. Non si dà mai l’uomo, ma sempre un’esistenza finita, abitante una terra, parlante una lingua. È solo qui, nel darsi ogni volta di un evento singolare, che l’universale si consegna alle forme delle sue determinazioni, e non nella cancellazione generica dei tratti: solo così può prendere forma e diventare riconoscibile un volto. Da tutti questi volti, da tutti questi idiomi, dovrà

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26 comporsi, come in un mosaico, una nuova immagine, quella di una Europa unita in ciascuno dei suoi frammenti, identica a sé solo perché in se stessa differente, tenuta insieme dal bisogno delle sue parti di confrontarsi in un dialogo alimentato non da ciò che è familiare e comune, ma da quanto è e deve rimanere assolutamente estraneo e singolare.28

Assolutamente estraneo, singolare, straniero, xenos. Questo deve essere il nuovo volto dell’Europa. Questa dev’essere l’altra Europa; questo il suo controcanto; la finis Europae deve segnare un rinnovato inizio; un inizio che lega il cum non alla fine, per delimitarne lo spazio, il limite, l’orizzonte – cum finis Europae – ma alla sua nascita: è solo così che l’Europa può, ancora, guardare lontano. Questo mio testo è dedicato a tutti coloro che, guardando lontano, sentono risuonare il controcanto di ogni fuori, di ogni volto, di ogni xenos… e, insieme, è dedicato a tutti gli xenoi che – dal fondo del mare – non hanno più voce per poter far risuonare il proprio controcanto. Il Mediterraneo si ritirò un giorno, e il futuro apparve: scheletri dalle bocche spalancate, ossa scomposte, ormai levigate, alleggerite del peso dell’esistenza… è solo terra adesso, è solo morte, è la vita di qui!

28.  C. Resta, Introduzione, in Identità d’Europa, «Tellus», n. 12, 1994, p. 1.

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Unicità e singolarità. Per un soggetto relazionale tra Emmanuel Levinas e Jean-Luc Nancy Silvia Dadà

Premessa Non è raro che ci si riferisca in modo plenario, collettivo e astratto al “soggetto moderno”, comprendendo sotto questa denominazione vari tratti appartenenti alla riflessione di numerose personalità dell’epoca: Descartes, considerato solitamente il fondatore, ma anche Locke, Hume e Kant, tra gli altri. È certamente rischioso pretendere di distillare gli elementi più “puri” di queste riflessioni per comporre in modo artificiale un’essenza, quanto lo è fare una media e porre sotto a un denominatore comune vari aspetti, ognuno dei quali, coerente con il suo proprio sistema di pensiero, ne uscirebbe impoverito se asportato in modo chirurgico. Sebbene, quindi, tale espressione si riveli in parte un’indebita astrazione, e sebbene un “soggetto moderno” come tale non sia forse mai esistito, ciò non toglie che nel Novecento si è creduto di ucciderlo. La sua esistenza, forse spettrale, ha quindi profondamente influenzato il pensiero contemporaneo tanto da costituirne, per contrasto, uno dei suoi principali tratti distintivi. Senza quindi rinunciare a questa nozione, giustificata dalla sua importanza postuma, ma nello stesso tempo senza accettarla in maniera irriflessa, dobbiamo, prima di prendere in esame

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alcuni esempi di critica del “soggetto moderno”, chiarire in modo puntuale che cosa si intende con esso e fissare alcune delle sue caratteristiche. Innanzitutto, va detto che la storia di questa nozione è di certo più antica della modernità, essa ha origine con la nascita stessa della filosofia1 e si incrocia strettamente con la storia dell’idea di “persona”, attraverso la commistione della tradizione giuridica romana e quella giudaico-cristiana2. Sebbene quindi molte delle sue qualità siano da far risalire a questa origine, è solo in epoca moderna che l’idea di soggetto assume un ruolo centrale, in opposizione all’oggetto, divenendo il nucleo privilegiato di orientamento e conoscenza del mondo. Esso comincia ad essere considerato, attraverso l’operazione messa in atto da Descartes nelle Meditazioni e portata avanti dalla filosofia critica kantiana, come fondamentum inconcussum, punto di appoggio su cui ricostruire l’edificio della conoscenza. Tale primato gnoseologico fa sì che il soggetto coincida con il suo essere cosciente e autocosciente, andando a costituire il suo stesso principio di individuazione, che sia essa legata all’atto puntuale del pensiero, come nel caso cartesiano, o alla persistenza della coscienza nel tempo, come in Locke3. Questa capacità di 1.  Per una ricostruzione completa e accurata si veda la voce “Sujet” in B. Cassin, Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, Seuil, Paris 2004, pp. 1233-1253. 2.  Il momento in cui avviene la prima saldatura tra il soggetto e la persona si fa risalire alla definizione boeziana della persona come naturae rationalis individua substantia. Per una storia del dispositivo teologico-politico della persona e per una sua interessante critica si vedano i lavori di Roberto Esposito, in particolare Le persone e le cose, Einaudi, Torino 2014, e Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013. Per un approccio giuridico alla questione si veda invece S. Rodotà, Dal soggetto alla persona. Trasformazioni di una categoria giuridica, in «Filosofia politica», n. 3, 2007, pp. 365-377. 3.  La questione dell’autocoscienza e quella dell’identità personale sono quasi indissociabili e costituiscono un nodo fondamentale della discussione della

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attribuire a se stesso il proprio pensiero si estende anche all’azione, e per questo risulta, anche giuridicamente, imputabile e responsabile4 dei propri atti, capace di riconoscere se stesso come colui che li ha commessi. Come dice Alain Renaut: Ce qui […] définit intrinsèquement la modernité, c’est sans doute la manière dont l’être humain s’y trouve conçu et affirmé comme source de ses représentations et de ses actes, comme leur fondement (subjectum, sujet) ou encore comme leur auteur.5

Tale padronanza del soggetto sul pensiero e sui propri atti rivela un dualismo di fondo, per cui la parte “superiore” e “spirituale” dirige e possiede il corpo come una sua proprietà. La soggettività è quindi fortemente connotata in relazione all’as­ soggettamento, sia che si tratti del rapporto di subordinazione di una parte sull’altra, sia che si tratti sul terreno politico della subordinazione del suddito al sovrano. Un soggetto, quindi, cosciente, autocosciente, responsabile per le proprie azioni, padrone del proprio corpo: ecco, in modo schematico e sommario, le principali caratteristiche di quello che si è soliti chiamare “soggetto moderno”. I linguaggi dell’attribuzione, dell’imputazione, dell’assoggettamento, presenti in modo disgiunto o incompleto in sistemi precedenti, medievali modernità. Per una disamina completa di queste due nozioni e dei loro sviluppi all’interno del pensiero moderno si veda U. Thiel, The Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal Identity from Descartes to Hume, Oxford University Press, New York 2011. 4.  Come illustra in modo chiaro e scrupoloso Alain de Libera, tale costituzione del soggetto agente non è un’invenzione moderna, ma si sviluppa grazie all’incontro, in epoca tardo-antica, tra teologia trinitaria e filosofia. Ciò non toglie che questo graduale processo abbia condotto alla sua espressione, per così dire, più compiuta in epoca moderna. Si veda in particolare A. de Libera, Archéologie du sujet. Vol. I: Naissance du sujet, Vrin, Paris 2007. 5.  A. Renaut, L’individu. Réflexions sur la philosophie du sujet, Hatier, Paris 1998, p. 6.

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o antichi, si trovano in epoca moderna in una congiunzione unitaria, ad articolarsi in modo coerente e a saldarsi in un unico concetto e nel concetto stesso di “unico” in quanto individuo, indivisum. Questa necessaria premessa ci permette di concentrarci ora sull’oggetto del nostro intervento, ossia la critica di tale soggetto moderno. Allo stesso modo della sua definizione, anche per quanto riguarda la critica, non è possibile parlare in modo monolitico di un’unica operazione di messa in discussione: dai “maestri del sospetto”, per riprendere la felice espressione di Ricoeur, passando per Heidegger, Deleuze, Merleau-Ponty, molte le strategie di decostruzione di tale nozione, sino ad arrivare a un vero e proprio abbandono della categoria stessa di soggetto, in direzione di quella di impersonale6. Innumerevoli, quindi, le angolazioni in cui avremmo potuto affrontare questo tema. Abbiamo deciso di concentrarci su due autori, Emmanuel Levinas e Jean-Luc Nancy, accomunati, e questo sarà ciò che cercheremo di mostrare, da una riformulazione dell’idea di soggetto che definiamo “relazionale”. Con l’espressione “soggetto relazionale” intendiamo un soggetto che non si limita ad entrare in relazione con gli altri soggetti o con gli altri enti del mondo, ma che è esso stesso costituito da tale relazione. Il soggetto, in questo modo, perde il suo statuto individuale e autonomo, la sua natura sostanziale. Esso non si pone indipendentemente, in modo assoluto, prima del suo coinvolgimento in un agire: egli è sempre in relazione. Il soggetto cosiddetto “relazionale” è egli stesso, per usare un’espressione di Adriano Fabris, un «crocevia di relazioni»7: come quel 6.  Per l’analisi teorica del tema dell’impersonale e per l’attenta disamina di vari esempi nella storia della filosofia rimandiamo a R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofie dell’impersonale, Torino, Einaudi 2007. 7.  A. Fabris, RelAzione. Una filosofia performativa, Morcelliana, Brescia 2016, p. 26. Sempre dello stesso autore, il quale si è dedicato all’elaborazio-

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punto, dinamico e senza dimensioni, in cui si intrecciano fili che nascono prima di lui e continuano dopo il suo passaggio. Senza relazione, quindi, non avrebbe senso parlare di “soggetto”. Cercheremo quindi prima di mettere in luce i modi in cui i due autori singolarmente intraprendono la critica all’idea moderna di soggetto, successivamente cercheremo di porre in confronto e in dialogo tali soluzioni per mostrare analogie e differenze. Sebbene infatti si possa parlare per entrambi di soggettività relazionale, vedremo come tale definizione si trovi declinata in modi assai differenti, da un lato in senso etico, dall’altro in senso ontologico.

Levinas. L’unicità dell’umano Riguardo alla questione della soggettività moderna, Levinas non opta per un puro rifiuto di essa, in direzione di un antiumanismo, ma non per questo la sua strategia risulta meno radicale. Si tratta di un lavoro di scavo e ridefinizione dall’interno dei concetti stessi, che, invece di essere demoliti e annientati da questa operazione, ne risultano rinnovati e rigenerati, acquisendo nuova forza espressiva. Proprio per questo il pensiero levinasiano può dirsi rivoluzionario, per il fatto di mettere in opera una conversione del senso stesso del soggettivo8. ne di una filosofia della relazione in numerosi luoghi della sua riflessione, ricordiamo almeno TeorEtica. Filosofia della relazione, Morcelliana, Brescia 2010. Interessante anche la proposta di una ontologia della relazione portata avanti, attraverso la critica e il commento a numerosi luoghi della filosofia moderna, da Andrew Benjamin, del quale rimandiamo a A. Benjamin, To­ wards a Relational Ontology, SUNY Press, Albany 2015. 8.  Espressione utilizzata da Caterina Resta, la quale dice molto chiaramente: «Non c’è dubbio che il pensiero di Emmanuel Levinas sia stato, nel Novecento, quello che maggiormente ha contribuito a mettere in crisi questo

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Nella prospettiva levinasiana, la quale propone un’etica come filosofia prima, così come non si tratta di negare l’orizzonte ontologico, ma di mostrare l’ulteriorità e il primato della relazione etica per quanto riguarda la struttura del reale, allo stesso modo non si tratta di negare semplicemente l’esistenza di un soggetto cosciente, autocosciente, padrone dei suoi pensieri e delle sue azioni, ma di metterne in discussione il primato e l’autosufficienza. Questo è ciò che nell’insegnamento di Levinas, lungo la sua lunga e approfondita riflessione, rimane costante. La filosofia occidentale, con la sua volontà sistematica dominata dalla categoria di totalità, rivela il primato dell’Uno e l’annullamento della differenza. Che ciò avvenga attraverso la concettualizzazione messa in opera dal discorso apofantico, o attraverso il riferimento a un orizzonte ontologico, essa annulla la possibilità stessa di ogni relazione, che non sia di comprensione o dominio, quindi violenta. «La filosofia è un’egologia»9, come leggiamo nelle prime pagine di Totalità e infinito, poiché l’Altro è sempre ricondotto al Medesimo, il quale si appropria o assimila tutta la realtà rendendola propria e quindi annullandone l’alterità. A questo orizzonte totalitario Levinas fa precedere la più originaria relazione con l’altro, una relazione etica basata sull’infinita responsabilità nei confronti del volto dell’altro uomo, che implora di non ucciderlo. Rompendo la totalità in direzione della trascendenza dell’Altro, che, come l’idea di Infinito della Terza Meditazione cartesiaparadigma [della soggettività], a tutt’oggi, per molti aspetti, imperante. La sua filosofia dell’alterità, incentrata sulla precedenza dell’altro, non solo ha inferto un colpo mortale all’istanza del Soggetto, ma, affermando la priorità della responsabilità sulla libertà ha operato una vera e propria rivoluzione copernicana, di cui ancora stentiamo a vedere gli effetti» (C. Resta, L’estra­ neo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, il melangolo, Genova 2008, p. 79). 9.  E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1990, p. 42.

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na, è contenuto nel soggetto sfuggendo alla sua presa e alla sua presa, la relazione etica si mantiene equidistante sia dalla totale separazione di Medesimo e Altro che dall’Assimilazione da parte di uno verso l’altro. Affinché ciò accada il soggetto deve avere due polarità: da un lato, egli deve mantenersi anche separato e incentrato su di sé, dall’altro deve essere aperto e rivolto verso l’altro. È quindi un passaggio necessario per la costituzione della soggettività etica l’esistenza di un soggetto autocentrato, autocosciente e padrone di sé, quindi quello che abbiamo definito “soggetto moderno”. In quella sorta di contro-analitica esistenziale che Levinas delinea nella sezione Interiorità ed economia dell’opera del 1961, vediamo descritte le caratteristiche di questa soggettività la quale è spesso descritta attraverso termini quali “interiorità”, “separazione”, “psichismo”, tutti riconducibili all’ambito di quella autonomia e indipendenza classiche della modernità. Il soggetto si rapporta al mondo come oggetto di godimento: ciò che gli è esterno è qualcosa che deve essere preso, al fine di soddisfare i propri bisogni, primo tra tutti quello di nutrimento. Attraverso il lavoro e la conoscenza il soggetto manipola il mondo, lo addomestica e lo riconduce a sé, lo prende e lo com-prende, annullando l’esteriorità attraverso un’opera di digestione e assimilazione. Un soggetto, quindi, violento, egoista, autocentrato, che nel tentativo di soddisfare il suo conatus essendi si serve della realtà come un oggetto in suo possesso: «“Io penso” equivale a “io posso” – ad una appropriazione di ciò che è, ad uno sfruttamento della realtà»10. Levinas quindi sottolinea la necessità di una soggettività di tal sorta, dell’esistenza di un punto nel mondo che guardi la realtà, ne faccia esperienza coi suoi sensi e se ne appropri attraverso il pensiero, ma questa non può essere né la prima né l’ultima 10.  Ivi, p. 44.

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parola: «Il Medesimo non è l’Assoluto […]. Soltanto andando incontro ad Altri sono presente a me stesso […]; in quanto responsabile sono ricondotto alla mia realtà ultima»11. Il solipsismo dell’io, dalla sua posizione di controllo e comando, si scopre già da sempre messo in discussione e coinvolto dalla chiamata dell’altro uomo che lo obbliga a rispondere e a farsi carico della sua esistenza. La soggettività compie una conver­ sione, poiché, dalla sua posizione solipsistica e autoriferita volge lo sguardo fuori di sé in direzione dell’altro uomo. Si dovrebbe dire, ancor meglio, che tale soggettività nasce nell’apertura stessa, poiché prima della relazione non c’è nessuna soggettività. L’illusione di indipendenza e di autonomia è svelata a posteriori, ma comunque preceduta dalla relazione etica originaria. Si potrebbe dire, con Buber, che anche per Levinas «in principio è la relazione»12, ma, a differenza che per il filosofo tedesco, questa relazione si fonda sul terreno della corporeità, al punto da essere definita da Bailhache, come una «trascendenza concreta»13. Non è una semplice amicizia tra intelletti, ma un rapporto asimmetrico in cui l’Io è sovrastato dall’Altro nella sua maestà e nella sua vulnerabilità, un coinvolgimento profondo e penoso, che comporta la ferita e il dolore «nel dovere di dare all’altro perfino il pane della propria bocca e il mantello delle proprie spalle»14. Tale attenzione alla corporeità, ereditata dal movimento fenomenologico, si rivela sia sul lato attivo che su quello passivo. L’uomo, infatti, si nutre, con

11.  Ivi, pp. 182 s. 12.  M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 67. 13.  G. Bailhache, Le Sujet chez Emmanuel Levinas. Fragilité et subjectivité, PUF, Paris 1994, p. 246. Tale opera rimane tutt’oggi una delle trattazioni più ampie ed accurate sul tema della soggettività in Levinas. 14.  E. Levinas, Altrimenti che essere o aldilà dell’essenza, tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 71.

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la bocca, assapora la vita, ma è anche capace di privarsi del proprio pane per donarlo all’altro che ha fame; con l’occhio osserva e comprende, ma è lo sguardo dell’altro uomo quello che lo perseguita, che lo inquieta e lo obbliga; con la mano si appropria del mondo e lo plasma con la tecnica, ma è lui stesso ad essere costantemente vulnerabile, trafitto fino alle viscere dalla sofferenza dell’altro uomo. Se già questi due livelli della soggettività si trovano esposti in Totalità e infinito, nell’altro grande testo del 1974, Altrimenti che essere, la questione della passività e della soggettività etica è affrontata in modo ancor più radicale, facendo riferimento a termini quali sostituzione e ostaggio. Il soggetto si spoglia della propria identità monadica e, svuotato di sé, è responsabile dell’altro sino alla sostituzione. Tutt’altro che irenico altruismo, l’inquietudine dell’Io lo rende ostaggio dell’altro che lo costringe, contro la sua stessa volontà (malgré soi), a rinunciare a se stesso. Esso, detronizzato anche grammaticalmente, perde la sua posizione di “io” al nominativo, per diventare un “sé”, all’accusativo. Il ribaltamento del soggetto si rispecchia quindi nella stessa costruzione della frase: esso diventa soggetto passivo, dando luogo a un passaggio dalla soggettività alla soggezione. Nell’asimmetria infinita della relazione, egli si trasforma da “soggetto di” a “soggetto a”. A ben vedere, quindi, il soggetto moderno non è semplicemente rifiutato, ma relativizzato e subordinato alla relazione etica. La riflessione levinasiana concilia e allo stesso tempo rifiuta le due prospettive opposte dell’umanismo classico e della sua critica anti-umanista novecentesca. Le due prospettive, infatti, quella umanista e quella anti-umanista, sembrano, nella loro apparente opposizione, finire per essere complici. In entrambi i casi, infatti, ciò che sfugge è la relazione interumana. Da un lato il soggetto moderno, come abbiamo visto, la inibiva attraverso la riconduzione del tutto a sé e quindi l’intuizione dell’anti-

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umanismo è stata quella di «aver abbandonato l’idea di persona, scopo e origine di se stessa, in cui l’io è ancora cosa perché è ancora un essere»15. Dall’altro lato, tuttavia, anche nell’abbandono di tale categoria la realtà viene reificata e compresa in un orizzonte chiuso e senza relazione, che sia quello delle strutture logico-matematiche nel caso dello strutturalismo, o dell’orizzonte ontologico nel caso di Heidegger. Se quindi la critica alla soggettività moderna è necessaria, la direzione in cui essa deve avvenire è opposta a quella in cui è stata effettivamente condotta: «L’umanesimo deve essere denunciato solo perché non è sufficientemente umano»16. Si ritrova in queste parole l’eco delle considerazioni dello Heidegger della Lettera sull’umanismo («Si pensa contro l’umanismo perché esso non pone l’humanitas dell’uomo a un livello abbastanza elevato»17), ma a differenza del filosofo tedesco l’umanità dell’uomo non dipende dalla sua apertura all’essere, quanto dalla sua apertura all’altro uomo: insomma, l’uomo non è, per Levinas, il pastore dell’essere, bensì il custode di suo fratello18. Ne consegue una risemantizzazione del termine umano con una connotazione fortemente etica, che si ritrova anche nell’utilizzo corrente del termine, per cui l’umanità è un modo di essere morale, non semplicemente l’appartenenza a una specie. Come fa notare giustamente Jean-Michel Salanskis, “umano” non è una categoria, la definizione di una classe di enti, «ciò che merita il nome di uomo, nella sua filosofia [di Levinas], è piuttosto una sfida:

15.  Ivi, p. 161. 16.  Ibidem. 17.  M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1976, p. 56. 18.  «Perché Altri mi riguarda? Che è Ecuba per me? Sono io il custode di mio fratello? – Queste domande non hanno senso se si è già presupposto che l’Io ha cura solo di Sé, se è solo cura di sé» (E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 147).

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il termine è un termine d’idealità, attraverso il quale transita un appello, l’appello a diventare umani»19. Questa umanità dell’umano che spinge la sua responsabilità sino alla sostituzione con l’altro uomo potrebbe sembrare che conduca allo svuotamento dell’identità del soggetto sino alla sua stessa scomparsa. Significativo, in questo senso, il fatto che, riferendosi al comandamento d’amore «amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18), Levinas prediliga, rispetto alla traduzione di Buber e Rosenzweig («esso è come te»), una ancora più audace: «Amerai il tuo prossimo: è te stesso»20. Il sé è un Altro, come dice Rimbaud, ma nell’alterazione rimane Io. Anzi, è proprio questa destituzione del soggetto che lo identifica e che gli dona un’unicità irriducibile. Il principium individuationis di questa soggettività etica si rivela quindi nel suo essere altro da sé, nella sostituzione all’altro. L’Io è unico e insostituibile nella sostituzione all’Altro, è l’unico che può rispondere alla sua chiamata. Se infatti si estendesse la sostituzione e la responsabilità anche agli altri, si finirebbe per predicare il sacrificio umano21, mentre soltanto l’Io, anzi, soltanto io posso rispondere alla chiamata e sacrificare me stesso per l’altro: Il soggetto nella responsabilità si aliena nell’intimo della sua identità di un’alienazione tale che non svuota il Medesimo della sua identità, ma ve lo assoggetta, con una convocazione irrecusabile, si assoggetta come nessuno, in cui nessuno potrebbe sostituirlo. Unicità, al di fuori del concetto […], non un Io, ma io sotto convocazione. Convocazione all’identità per la risposta della responsabilità nell’impossibilità di farsi sostituire senza

19.  J.-M. Salanskis, L’humanité de l’homme. Levinas vivant II, Klincksieck, Paris 2011, p. 24 (tr. nostra). 20.  E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, a cura di S. Petrosino, tr. it. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, p. 114. 21.  Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 159.

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38 carenza. A questo comando, teso senza pausa, non si può che rispondere «eccomi» in cui il pronome «io» è all’accusativo.22

Quindi non-intercambiabile, inchiodato alla sua responsabilità irremissibile, il soggetto etico è unico e in questo eletto. Vediamo quindi che il concetto di unicità si accosta a quello, di matrice religiosa, di elezione, ed entrambi diventano pressoché sinonimi. Questo secondo concetto, appartenente alla tradizione ebraica, non costituisce per Levinas un privilegio, quanto piuttosto un surplus di doveri rispetto all’alterità, doveri che rendono il soggetto l’unico a poter rispondere “eccomi” alla convocazione. L’eccezionalità dell’eletto sta quindi nella sua maggior responsabilità rispetto agli altri. Ma questo “rispetto a” solleva la seconda difficoltà. L’elezione, in senso classico, non coinvolge mai la totalità: l’elezione, quindi, prevede tradizionalmente un’estensione limitata, che demarchi una differenza rispetto all’universalità. Tale differenza, nella visione levinasiana, è principalmente una differenza di responsabilità; come dice Dostoevskij nei Fratelli Karamazov – parole che Levinas cita in numerose occasioni23 –: «Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutti ed io più degli altri» (parte seconda, libro sesto, II, a). Ognuno è eletto e unico in quanto responsabile e sebbene la responsabilità è propriamente parlando soltanto la mia, l’elezione viene associata all’umanità intera: ogni uomo, in quanto responsabile per il suo prossimo, prima di ogni volontaria assunzione di questa stessa responsabilità, è eletto, è il punto del mondo privilegiato su cui poggiano le colpe altrui. L’unicità quindi non sta tanto nell’esclusione di qualcuno da questo privilegio, quanto nell’eccezionalità incomparabile di ogni unico.

22.  Ivi, p. 178. 23.  Cfr., a titolo esemplificativo, solo alcuni casi: E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 183; Id., Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, a cura di F. Riva, Castelvecchi, Roma 2014, p. 115.; Id., Tra noi. Saggi sul pensareall’altro, a cura di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, pp. 139, 141.

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Nancy. La singolarità dell’essere-con La critica del soggetto moderno, in particolare di quello cartesiano, è il punto di partenza della riflessione che Jean-Luc Nancy svolge negli anni Settanta, raccolta sotto il titolo di Ego sum (1979), e che condurrà alla successiva ontologia dell’essere singolare plurale. In queste pagine Nancy mette in opera un minuzioso lavoro di decostruzione, non limitandosi semplicemente a porre in evidenza quegli attributi o quelle strutture proprie del soggetto moderno e che devono essere abbandonate, bensì egli cerca, portando l’attenzione su alcuni luoghi classici dell’opera cartesiana, ma attraverso uno sguardo obliquo e inusuale, di mostrare come nel profondo di questo stesso soggetto si annidi la sua stessa negazione, la differenza rispetto all’interpretazione che di esso viene tradizionalmente data. Nell’epoca della fine della metafisica e della morte di Dio, anche il soggetto sembra costretto a dissolversi, ed è in effetti questo che la filosofia del Novecento sta facendo. Ma, a parere del filosofo francese, la matrice della stessa fine di questo soggetto è già stata nascosta al suo interno, in modo più o meno consapevole, dallo stesso Descartes. La vita stessa del soggetto comincia con una sentenza di morte e coincide con essa: «l’instaurazione cartesiana del Soggetto corrisponde, per la più stringente necessità della sua stessa struttura, all’esaurimento istantaneo delle sue possibilità essenziali»24. Già Derrida25, la cui influenza non cessa di farsi presente nell’opera di Nancy, nella sua disputa con Foucault26 aveva mostrato quanto nel cuore stesso della ragione cartesiana si nascondesse 24.  J.-L. Nancy, Ego sum, a cura di R. Kirchmayr, Bompiani, Milano 2008, p. 43. 25.  Cfr. J. Derrida, Cogito e storia della follia, in Id., La scrittura e la diffe­ renza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 2002, pp. 39-79. 26.  Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, tr. it. di F. Ferrucci, BUR, Milano 1998.

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un fondo di follia, impossibile da esiliare fuori dal soggetto; prendendo le mosse da questa operazione, Nancy mostra come la stessa certezza del soggetto, tanto solida da divenire sostanza su cui tutto il mondo poggia, nasconda dentro di sé un vuoto, un nulla che regge e fonda la realtà. Il cogito, punto archimedico della realtà indubitabile, diventa così un punto di disordine, caogito. Non si tratta tanto di svalutare o svelare l’inconsistenza della realtà, quanto di mostrare il suo inseparabile legame con la finzione: la verità si costituisce attraverso un’illusione, in quella duplicità testimoniata dal fatto che la certezza del pensiero sta nella parvenza (videor) di se stesso: Videor: sembro, appaio, sono visto. […] Il videor assicura il cogito perché attesta la sola presenza che il dubbio più radicale non può intaccare […]. Sembrare è produrre un’illusione. Il videor è l’illusione che, con una torsione o una perversione inaudita, àncora la certezza nel bel mezzo di un abisso illusorio.27

La centralità della finzione è rintracciata da Nancy nel cogito e nel suo autore, in un gioco di specchi per cui le due figure si confondono. Tale sovrapposizione tra i due, il cogito e Descartes, è giustificata dallo svolgimento in prima persona dell’opera cartesiana, per cui lo stesso procedere mascherato, larvatus prodeo, è un attributo che per Nancy appartiene a entrambi. Come in una rappresentazione teatrale, il soggetto appare con una maschera, per meglio far accogliere la verità a chi lo osserva. Ma egli si rivela questa stessa maschera, nel suo gioco di nascondimenti, una maschera che non nasconde nulla dietro di sé: La maschera dissimula il soggetto confuso, disorientato, che ha vergogna di se stesso e che perde ogni sicurezza nel momento in cui si presenta. Ma siccome il soggetto non è stato, prima

27.  J.-L. Nancy, Ego sum, cit., pp. 78 s.

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41 di salire sulla scena in cui dirà “Io sono”, la maschera dissimula anche la confusione in cui giunge a se stesso (dunque all’essere), oscuro a sé dietro il rovescio nero della maschera, mentre si confonde con quell’altro di cui inscena il ruolo per cercare di apparire.28

Non esiste l’autenticità, ma soltanto la rappresentazione di un nascondimento, come quel velo dipinto con la tecnica pittorica del trompe-l’œil, che inganna lo sguardo sembrando reale e nasconde per sempre qualcosa che non è mai stato dipinto. Non c’è nessuna sostanza, nessun sostrato, ma soltanto l’apparire dell’«arealità»29 di un soggetto, costituito di uno spazio vuoto che ha questo stesso nulla come marca distintiva, una bocca che si apre, e che esiste soltanto, ogni volta, nella puntualità dell’atto di aprirsi per dire “ego sum”. Il testo del 1979 non esaurisce il confronto con Descartes, né la critica nancyana al soggetto moderno, che accompagnerà tutta l’opera dell’Autore. Esso, anzi, potrebbe considerarsi la pars de(co)nstruens dell’ontologia singolare plurale successivamente elaborata da Nancy. È infatti proprio la costatazione di questa inconsistenza del soggetto moderno e della sua certezza autoreferenziale che gli permette di mettere in discussione l’idea solipsistica di individuo e di elaborare una relazionalità originaria. Il soggetto solitario padrone di sé è un’illusione, poiché «per essere assolutamente solo, non basta che io sia solo, è necessario che io sia solo a essere solo»30, ma una solitudine di tale sorta, la solitudine dell’assoluto, è logicamente impossibile, una costruzione metafisica che ha privato la storia della filosofia del valore della relazione. Ogni individuo è invece in rapporto,

28.  J.-L. Nancy, Ego sum, cit., p. 97. 29.  Ivi, p. 45. 30.  J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2003, p. 24.

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tanto che non ha senso parlare di singolarità in modo dissociato dalla pluralità. L’espressione “essere singolare plurale” cerca proprio di comunicare questa inseparabilità di dimensioni. Proprio per questo non si dovrebbe parlare di “individuo”, quanto piuttosto di singolo, anzi, di singoli. Come attesta il termine latino singuli, coniugato sempre e solo al plurale, ogni ente si trova da sempre con altri enti ed è a sua volta costituito da questa relazione. L’identità del soggetto risiede quindi non tanto nella sua autonomia e interiorità indipendente, quanto nel suo stesso coinvolgimento nel rapporto con ciò che gli è altro. Anche il cogito cartesiano, sebbene appaia come esempio del contrario, sembra fondarsi su questa relazione, poiché la stessa impresa della rifondazione della verità sembra possibile soltanto nella sua possibile estensione ad altri, che possano a loro volta applicarla a loro stessi. Per questo quindi Nancy si spinge sino all’equazione: «Ego sum = ego cum»31. Colui che più degli altri avrebbe colto l’importanza strutturale della relazione nella costituzione della “soggettività” è secondo Nancy Martin Heidegger. Nel § 26 di Essere e tempo, infatti, egli dichiara che il Dasein è sempre un con-essere, costituito da un “con” essenziale e sua condizione intrinseca, tanto che «nessun’altra filosofia è penetrata così profondamente nell’enigma del con-essere», ma malgrado questa intuizione tale tema non viene affrontato dal pensatore tedesco con la radicalità dovuta: «in Heidegger, ancora oggi non c’è niente che abbia avuto meno seguito di questo enigma»32. Da un lato, infatti, il con-essere finisce per essere elaborato come convivenza inautentica e indifferente del “si” (man), dall’altro come comunità destinale del popolo. Ciò che il pensatore si propone, 31.  J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2001, p. 46. 32.  J.-L. Nancy, Sull’agire. Heidegger e l’etica, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2005, p. 66.

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con e oltre Heidegger, è proprio l’elaborazione di un’ontologia del “con”, che non consideri il rapporto né come puro e neutro affiancamento di individualità, né come una comunità mitica e inglobante: Il senso stesso della parola «insieme», così come quello della parola «con», sembra oscillare infinitamente e senza un punto di equilibrio tra queste due accezioni: o «insieme» della giustapposizione partes extra partes, di parti isolate e senza rapporto, o «insieme» del raccoglimento totum intra totum, unitotalità in cui il rapporto si oltrepassa e si trasforma in essere puro. Ma si capisce subito che la ricchezza del termine è data appunto dall’equilibrio tra queste due accezioni.33

La relazione quindi deve unire gli enti senza racchiuderli in una totalità, e questo può accadere soltanto se si perde un principio unitario e se si rinuncia a ricondurre la pluralità degli enti ad esso. Proprio per questo nemmeno l’essere heideggeriano può rappresentare l’orizzonte di senso comune, esso si disperde nei singoli enti, che diventano il loro stesso senso. Come dei frammenti di un qualcosa che non è mai stato unito, la struttura del reale si compone di questo infinito reticolato di singolarità, le quali sono ognuna espressione unica e singolare del senso. Il senso, a sua volta, non ha un contenuto che viene comunicato tramite queste singolarità, ma è costituito dalla sua stessa multiforme circolazione, è, insomma, la relazione stessa. Questo doppio movimento di unione e separazione è definito da Nancy partage, traducibile come “con-divisione”, condivisione senza oggetto, che si gioca sui bordi delle singolarità che come singole voci comunicano in modo nuovo e inedito una tonalità del senso. Come le considerazioni riguardo alla comunità34 avevano 33.  J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. 83. 34.  Il tema della comunità è affrontato da Nancy a partire dalla riflessione di George Bataille. Intorno a tale tema si è sviluppato un ampio e interessante dibattito, che ha visto tra i suoi principali protagonisti, oltre a Nancy,

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fatto emergere, la tensione del rapporto sta proprio in questa unione e separatezza delle singolarità, che non sono unite da un’istanza trascendente comune, che ne annullerebbe la particolarità, quanto dallo stesso vuoto che le separa. Nancy parla di singolo o singolarità piuttosto che di soggetto proprio per evidenziare che quest’ultimo, inserito nel reticolo di relazioni, perde il suo posto privilegiato. Così come, infatti, il soggetto cartesiano si rivela essere la maschera che nasconde il vuoto dietro di sé, il soggetto, se ancora possa essere definito tale, nella struttura ontologica esposta da Nancy è scavato, concavo, come un tamburo che riverbera il senso, senso che non è altro che questo stesso rinvio infinito. Ogni singolarità è una voce35 con un suo timbro unico e irripetibile, che contribuisce all’infinita polifonia della relazione, senza mai costituire un’armonia conclusa, ma sempre aperta a nuove variazioni. Come dice in modo molto chiaro Enrica Lisciani-Petrini: Insomma, per Nancy si tratta di capire – al di qua e prima di ogni analisi sulla “voce” parlante o pensante – come possa lentamente prodursi, intorno alla cavità di una risonanza, quella dinamica di increspature ritmiche, per cui una pelle

Maurice Blanchot e in Italia Roberto Esposito. Senza poterci soffermare in modo adeguato sulla questione, ci limitiamo a ricordare i testi principali. In particolare, cfr. J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, cit.; M. Blanchot, La comunità inconfessabile, tr. it. e postfazione di D. Gorret, SE, Milano 2002; R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. Per un approfondimento si veda F. De Petra, Comunità, comunicazio­ ne, comune. Da Georges Bataille a Jean-Luc Nancy, DeriveApprodi, Roma 2010. Sulla nozione di “inoperosità” e sul suo legame col pensiero heideggeriano si rimanda infine a L. Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2013. 35.  L’idea delle voci come espressione della proliferazione delle singolarità si trova sviluppata soprattutto in relazione alla tematica dell’ermeneutica in un interessante confronto con il pensiero di Martin Heidegger in J.-L. Nancy, La partizione delle voci. Verso una comunità senza fondamenti, a cura di A. Folin, Il Poligrafo, Padova 1993.

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45 arriva a tendersi e circondare tale “caverna sonora” così “incorporandola”, cioè dando lì, in quel punto, corpo […] a un essere vociante. 36

Una voce che viene prima del pensiero e della parola, che si riduce alla sua funzione fàtica, ovvero quella di promuovere la comunicazione, di aprire un canale, indipendentemente dal contenuto del detto, come quando si dice “pronto”, ad inizio di una chiamata telefonica, oppure “eccomi”. Se ogni singolarità è una voce, ne consegue che la stessa identità come individuazione del soggetto viene meno, lasciando posto alla singolarità dell’ogni volta, in una dinamica di continua singolarizzazione del reale: Nell’ontologia di Nancy non potrà esserci né “la” comunità intesa come origine o destino di comunione delle singolarità; né “il” soggetto come identità omogenea coincidente con se stessa, né “la” voce come permanenza sonora e unicità espressiva del singolare; né “il” corpo come massa consistente e organismo compiuto da capo a coda: la singolarità è la venuta in presenza del suo “ogni volta” eventuale, “ogni volta” il soggetto, la voce, il corpo, l’essere-in-comune; l’“ogni volta” è il per sempre delle singolarità, pluralizzazione infinita del finito, discontinuità e discrezione come legge dell’essere.37

La figura che meglio si presta a descrivere questa soggettività nancyana è il nodo, costituito dalla stessa relazione, punto di un incontro che, senza un’interiorità propria, è completamente apertura di sé. Non c’è un dentro nascosto, ma tutto il soggetto è il suo fuori esposto. Tale esposizione ha carattere corporeo e materiale, tanto da essere definita expeausition, da “peau” 36.  E. Lisciani-Petrini, Noi: diapason-soggetti, introduzione a J.-L. Nancy, All’ascolto, tr. it. di E. Lisciani-Petrini, Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. XXIX s. 37.  S. Piromalli, Nudità del senso, nudità del mondo. L’ontologia aperta di Jean-Luc Nancy, Il Poligrafo, Padova 2012, p. 241.

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(pelle), per cui il limite di ogni singolarità consiste nel contatto tra bordi, attraverso uno scambio e una comunicazione che somiglia proprio a quella del toccare. L’ontologia di Nancy ha una dimensione fortemente connotata materialmente: l’immanenza del senso, la pluralità delle singolarità che compongono il mondo nella loro relazione non sono elementi ideali, una descrizione astratta e spirituale della struttura del reale, tutt’altro, le stesse parole che siamo abituati a leggere in una tonalità idealistica si trovano qui affrontate nella loro materialità. È proprio a proposito di questa materialità del senso, della corporeità della singolarità, che Nancy trova un’altra occasione di confronto con Descartes. Il bersaglio è il presunto dualismo cartesiano, ma anche qui non si tratta di rifiutare questa prospettiva, quanto di mostrare il fatto che l’interpretazione diffusa sia «un effetto ideologico derivante dall’oblio e dalla deformazione del pensiero di Cartesio»38, che nasconde dietro una più profonda comprensione, apparentemente opposta. Come si coglie dall’esempio della cera della Seconda Medita­ zione, o in una lettera a Elisabetta di Boemia, tra l’anima e il corpo, tra la res cogitans e la res extensa, non c’è semplicemente divisione, ma unione senza indistinzione, che si realizza nel fatto che ogni res sente l’altra come il proprio fuori, e ne è quindi costituita. Ne consegue che, come aveva detto Freud in quella nota quasi inascoltata, l’anima è estesa, non ne sa nulla39, essa è il corpo nella sua esteriorità, nel suo sentirsi inesteso, così che il soggetto, privato della sua interiorità, diventa la sua stessa nuda materialità, o arealità, attraverso cui si fa il senso 38.  J.-L. Nancy, Indizi sul corpo, Ananke, Torino 2009, p. 83. 39.  Cfr. S. Freud, Risultati, idee, problemi, in Id., Opere. 1930-1938. L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, a cura di C. Musatti, vol. XI, Boringhieri, Torino 1979, p. 566: «La psiche è estesa, di ciò non sa nulla». Questa citazione si ritrova in numerosi luoghi dell’opera di Nancy. Tra gli altri ricordiamo J. Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli 2004, pp. 21-26, in cui viene dedicata una riflessione specifica.

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del mondo nel mondo stesso. Il soggetto è proprio questa unione nel corpo, sotto forma di sentire e di tocco: L’«io» non è altro se non la singolarità di un tocco, di un tocco in quanto il tocco è sempre attivo e passivo ad un tempo, e in quanto il tocco evoca qualcosa di puntuale […]. L’unità di un corpo, la sua singolarità, è l’unità di un tocco, di tutti i tocchi (di tutti i toccare) di questo corpo. Ed è questa unità che può fare un io, un’identità.40

L’unità del corpo, che costituisce l’identità del soggetto, non si dà nell’unità organica, nella struttura chiusa e gerarchica del corpo guidato dal pensiero, bensì nell’unità del senso, nel singolo evento puntuale della sensibilità, come scambio di un dentro e un fuori che comunicano. La pelle stessa più che essere un contorno chiuso del corpo è ciò che ne permette lo scambio con l’esterno, la continua trasmissione di stimoli. Non c’è più un dentro e un fuori. Come Nancy coglie in prima persona attraverso l’esperienza del trapianto, l’alterità è costitutiva dell’io, seppur rigettata, scomoda, dolorosa, essa è ciò che ne permette l’esistenza: L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato, denudato e bardato, intruso nel mondo come in se stesso, inquietante spinta dello strano, conatus di un’infinità escrescente.41

Essere-per e essere-con Il confronto puntuale tra il pensiero di Levinas e quello di Nancy meriterebbe uno spazio e un livello di approfondimento 40.  J.-L. Nancy, Indizi sul corpo, cit., p. 77. Per quanto riguarda il tema del toccare si veda l’importante testo che Derrida dedica alla filosofia di Nancy: Toccare, Jean-Luc Nancy, tr. it. di A. Calzolari, Marietti, Genova-Milano 2007. 41.  J.-L. Nancy, L’intruso, Cronopio, Napoli 2000, p. 37.

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che esulano dalle possibilità e dagli scopi di questo contributo. Tante le affinità; ancor più significative, forse, le differenze42. Ciò che ci interessa qui mettere in luce è il fatto che entrambi, senza rifiutare semplicemente l’idea moderna di soggettività, attraverso una sua critica giungono a un’elaborazione di una soggettività relazionale. Ciò viene svolto attraverso due differenti strategie. Da un lato, Levinas compie un lavoro di risemantizzazione: senza rinunciare ai concetti tradizionalmente associati all’idea di soggetto moderno, egli li svuota e li rianima di un nuovo significato. La responsabilità, in quanto principium individua­ tionis del soggetto, non significa più come attribuzione libera di azioni, pensieri e decisioni, quanto risposta e presa in carico dell’altro. Per questo aspetto passivo della responsabilità la soggettività sembra accentuare il legame col concetto di assoggettamento, non più di una parte (l’anima) sull’altra (il corpo), o in un senso di sudditanza in ambito politico, bensì come soggezio­ ne all’Altro, che si realizza con la sostituzione, nella concretezza e nella materialità tipica di un “pensiero incarnato”43. Lo stesso concetto di umano perde il suo legame con l’idea di persona e con l’identificazione con una specie per diventare categoria morale. Infine, l’idea di unicità, associata all’idea di elezione, non caratterizza l’atomica individualità, in netta cesura rispetto agli altri uomini e rispetto al resto del mondo, bensì la contaminazione dell’altro nell’io, e l’impossibilità di sottrarvisi.

42.  Carmelo Meazza, in un interessante saggio sul pensiero di Jean-Luc Nancy, sottolinea giustamente come per quest’ultimo l’influenza della filosofia levinasiana sia un elemento significativo della sua proposta filosofica, più presente di quanto non venga esplicitamente dichiarato. Concordiamo con questa considerazione e rimandiamo all’intero testo: C. Meazza, La comunità s-velata. Questioni per Jean-Luc Nancy, Guida, Napoli 2010. 43.  Cfr. F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, Morcelliana, Brescia 2011.

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La strategia decostruttiva di Nancy si sviluppa invece attraverso un processo quasi inverso. Egli non mantiene la terminologia associata al soggetto moderno per ridefinirla, quanto piuttosto cerca di mostrare che la stessa concezione moderna poggia o nasconde in sé, in modo più o meno consapevole, i germi del suo contrario. Ne scaturisce una soggettività svuotata, sia dei suoi principali attributi, sia della sua interiorità, una soggettività aperta ed esposta, corporea, alterata dalla relazione con altre singolarità che la costituiscono. Il soggetto perde la sua unità di individuo per diventare una singolarità testimone dell’evento del senso, tramite la comunicazione tra dentro e fuori, in un reticolato continuamente in espansione di singolarità. L’uomo perde inoltre il suo privilegio, infatti esso contribuisce insieme a tutti gli altri enti, animali, vegetali, ma anche esseri inanimati, al farsi del mondo. In entrambi i casi abbiamo un’operazione di svuotamento del soggetto: in Levinas esso rimane de-nucleato, trova il suo centro fuori di sé, nell’altro; in Nancy invece diventa un soggettotamburo, che nella relazione di con-divisione promuove ed è esso stesso il senso del reale. Questo svuotamento, quindi, promuove in tutte e due le prospettive la centralità della relazione. Non c’è, sia in Levinas che in Nancy, nessuna possibilità di soggetto, così come nessuna possibilità di mondo, senza relazione: sia l’unicità levinasiana che la singolarità nancyana sono questa relazione stessa. Questa comune idea è ciò che ci ha portato all’inizio a parlare di “soggettività relazionale”. Si possono conciliare queste due prospettive? Così come abbiamo reputato rischioso compiere un’operazione artificiale che tenesse insieme caratteristiche proprie di un’intera tradizione per quanto riguarda il soggetto moderno, allo stesso modo anche in questo caso non è opportuno limitarsi a prendere ciò che è buono di una e unirlo a ciò che è buono dell’altra. Ogni parte del pensiero trova un suo senso e un suo valore nel sistema proprio dell’Autore che lo ha pensato. Detto questo, però,

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è anche vero che un pensiero deve poter vibrare oltre se stesso, per dare nuovi frutti, anche inattesi. Proprio per questo, sebbene le due impostazioni siano di difficile conciliabilità, meritano di essere fatte dialogare. Ci limitiamo ad alcune considerazioni per aprire alcuni nuovi spazi di confronto. La stessa possibilità di parlare in entrambi i casi di soggettività relazionale, più che svelare un’affinità, ci rivela che il termine “relazione” non è un termine neutro, e il sistema, o, comunque, l’orizzonte in cui esso è inserito ne permette delle declinazioni assai differenti. “Relazione”, insomma, si dice in molti modi. Non è quindi superfluo aggiungere un attributo a questo termine. In Levinas si parlerà infatti di relazione etica, in Nancy di relazione ontologica. Il carattere primo dell’etica in Levinas fa sì che la descrizione della struttura del reale sia affidata alla responsabilità nei confronti dell’altro, mentre in Nancy è l’essere, nella sua infinita singolarizzazione dei singoli enti, a costituire tale struttura. Tale differenza può essere illustrata come quella che intercorre tra essere-per e essere-con. Se immaginiamo la relazione come una rete, che collega un insieme di punti, o, meglio, di nodi, ci sembra che le soggettività levinasiane, fondate sulla loro insostituibilità nella sostituzione all’altro, abbiano la loro stessa consistenza nell’Altro (nodo). In Nancy, invece, ogni singolo, essendo unica espressione dell’essere, trova il suo senso non nella singolarità dell’altro nodo, quanto in se stesso e nella sua libertà, posto nell’insieme di relazioni. Questo insieme di relazioni, pur non essendo una totalità chiusa, si configura come un tutto complessivo, un insieme infinito in continua espansione e variazione. La relazione pensata da Levinas ci sembra quindi avere un elemento di tridimensionalità dettata dall’asimmetria della relazione con l’alterità, che vede nei singoli nodi il suo fine, mentre la relazione proposta da Nancy sembra mantenere un più alto grado di omogeneità, che pone maggiormente l’attenzione sulla rete che sul nodo. In particolare, ci sembra che la posizione dell’etica come filosofia

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prima, da cui deriva la declinazione della relazione e la formulazione di una soggettività in senso etico, permetta il convivere di una dimensione descrittiva e di una prescrittiva, un essere che fornisce nello stesso tempo anche le ragioni per un agire. Il soggetto non soltanto è in relazione, ma esso la promuove, nella risposta all’altro uomo, attraverso un’esigenza che proviene da fuori di sé e lo coinvolge in modo unico e insostituibile. La relazione intesa in questo modo sembra farsi e alimentare il suo stesso essere, in modo performativo. Come spiega in modo chiaro Adriano Fabris, «un principio è tale in quanto fa, realizza qualcosa: è principio di qualcos’altro. Ma proprio in questo fare, di nuovo, esso si fa, retroagisce riflessivamente su di sé, si afferma e riconferma come principio»44. Ne consegue che, se la relazione è principio, essa non deve mai fissarsi come tale, poiché facendolo perderebbe il suo carattere relazionale e si esaurirebbe in se stessa. Deve quindi essere un principio performativo che si espande aprendo sempre nuove e inaspettate possibilità. La relazione, quindi, in quanto principio, da un lato deve descrivere la struttura del reale, dall’altro deve essere il motore che avvia la dinamica dell’agire. La relazione quindi può essere principio solo nel suo farsi tale. La soggettività che ne scaturisce trova nell’altro il suo fine e la direzione e il senso della relazione, e ciò permette di valorizzare i singoli nodi della rete. La soggettività nancyana sembra invece, nel suo concepirsi nella relazione tra singolarità, mantenere un maggior livello di indipendenza che non rende conto del movimento di proliferazione di relazioni. Da un lato, quindi, il carattere di unicità della singolarità è ancora legato al fatto interno a se stessa, dall’altro la valorizzazione del singolo avviene nell’ottica di una relazionalità complessiva, che comprende tutte le relazioni, senza soffermarsi sulla qualità di

44.  A. Fabris, RelAzione, cit., p. 179.

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ognuna di esse. Nancy non manca di elaborare una riflessione etico-politica che renda conto di queste esigenze, ma essa, non essendo “prima”, rimane subordinata a un senso, quello ontologico, che non ha in sé il senso della relazione e la ragione del coinvolgimento del singolo in essa. Per il soggetto-timpano che fa risuonare con il suo unico timbro l’essere e il senso è forse vero ciò che dice Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo» (1Cor 13,1). Detto questo, è necessario aggiungere che la radicalità strutturale di Levinas, che pone il rapporto e quindi la soggettività in chiave etica, meriterebbe forse di estendersi, come Nancy propone in ambito ontologico, anche ad altre porzioni di mondo, quale quella animale, ma non solo. L’idea di responsabilità necessita di una sua estensione, che comprenda anche altri livelli di alterità (animale, vegetale, ecosistema). In un’epoca, infatti, in cui il problema ecologico e lo sviluppo della tecnica hanno cambiato completamente il nostro modo di essere nel mondo, l’urgenza sta proprio nel diventare interlocutori di queste nuove dimensioni, riconoscendo loro anche una dignità differente rispetto al passato e rinunciando a parte di quella posizione privilegiata che il soggetto moderno pretendeva di avere in quanto “uomo”.

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Il tratto del tra-noi in J.-L. Nancy Carmelo Meazza

Dobbiamo soprattutto a J.-L. Nancy la straordinaria attenzione a questo tratto del tra-noi. Può sembrare curioso ma l’esigenza di scrivere quel tratto, di inscriverlo come una sorta di spaziatura del noi, si fa carico, prende a suo carico, una particolare stanchezza che, ormai da tempo, circonda la questione dell’altro. Se l’altro arriva, se l’al­ tro è un arrivante, lo si deve a quel tratto; lo si deve a una singolare spaziatura che si promuove tra l’uno e l’altro. Nancy dunque ci riporta a quel tratto. L’etica come filosofia prima non è sufficiente a pensare la relazione e senza un pensiero radicale della relazione la stessa alterità è in pericolo; non solo, la stessa alterità corre il rischio di fare da figura della violenza per eccellenza. Derrida non ha in fondo mai smesso di pensare la violenza come ciò che accade nella sospensione assoluta della relazione1.

1.  Cfr. J. Derrida, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in Id., La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, pp. 99-198.

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Ma cosa implica questo tratto? Come interrogarlo in quell’o­ pera di tramite in cui sembra istituirsi? In un passo di Comunità inoperosa Nancy scrive: né “essere” né “relazione” bastano a dargli un nome, neppure se considerati in questo rapporto di equivalenza; e qui, d’altronde, non c’è un’equivalenza di termini che sarebbe un’altra relazione esterna all’“essere” e alla “relazione”. Bisognerà risolversi a dire che l’essere è in comune, senza mai essere comune.2

Quel tratto dunque è in comune senza essere comune. L’essere e la relazione non sarebbero sufficienti a dargli un nome. Neppure l’unità di sostanza e relazione sarebbe capace di nominare questo tramite che Nancy vuole né interno né esterno all’essere singolare. Neppure l’uno dell’uno e dei molti, né l’uno né i molti si troverebbe all’altezza di questo legame disgiuntivo che Nancy ci propone. Quest’uno né uno né molti se ne va troppo 2.  J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2003, p. 9; cfr.: A. Moscati, Corpi di nessuno, postfazione a J.-L. Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli 1995; F. Ferrari, Nudità. Per una critica silenziosa, Lanfranchi, Milano 1999; G. Berto, Jean-Luc Nancy: lo svestirsi del pensiero, in «aut aut», n. 304, 2001, pp. 63-67; F. Guibal - J-C. Martin (a cura di), Sens en tous sens. Autour des travaux de Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2004; B.C. Hutchens, Jean-Luc Nancy and the Future of the Philosophy, Acumen, Chesham 2005; D. Calabrò, Dis-piegamenti. Soggetto, corpo e comunità in Jean-Luc Nancy, Mimesis, Milano 2006; R. Caldarone, Il cuore dell’altro. Su Jean-Luc Nancy, in «Giornale di Metafisica», XXXII, n. 1, 2010, pp. 101-130; S. Piromalli, Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di María Zambrano e Jean-Luc Nancy, Il Poligrafo, Padova 2009; Ch. Watkin, Difficult Atheism. Post-Theological Thinking in Alain Badiou, Jean-Luc Nan­ cy and Quentin Meillassoux, Edinburgh University Press, Edinburgh 2011; P. Gratton - M.-E. Morin (a cura di), Jean-Luc Nancy and Plural Thinking. Expositions of World, Ontology, Politics, and Sense, State University of New York Press, Albany 2012; F. Schiefen, Öffnung des Christentums? Eine fun­ damentaltheologische Auseinandersetzung mit der Dekonstruktion des Chris­ tentums nach Jean-Luc Nancy, Verlag Friedrich Pustet, Regensburg 2018.

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in alto, scava una trascendenza negativa, mobilita le risorse e la retorica di una dialettica, per farsi carico di quel singolare culto dell’univocità che Nancy condivide con Deleuze, per il quale il pensiero è come chiamato a farsi fulmineo, a pensare come un fulmine i molti nell’uno e l’uno nei molti. L’essere singolare plurale di Nancy implica un pensiero che non sosti con la sua differenza in questa unità differente, implica che quel tra-noi sia l’esposizione di questa unità molteplice in cui neppure per un istante l’uno non è molto e il molto non è l’uno. Non è difficile comprendere la posta in gioco di questa ripresa dell’essere plurale. Dopo decenni intensi in cui la filosofia francese ha sondato il politico nei corpi molecolari dei poteri, in cui il potere appare essenzialmente come dominio, Nancy interroga invece la potenza del politico. Il cum di un Dasein come Mit-sein restituisce il politico alla nozione di potenza. Siamo ricondotti alla semplicità di questa formula: il tra-noi è la più grande potenza. La tecnologia più potente è in questa techne che siamo l’un-l’altro. Non capiamo granché dello stesso dominio, del potere come dominio e devastazione, non capiamo neppure il conflitto, le logiche tenaci della resistenza e dell’insubordinazione, se ci sfugge questo nesso tra potenza e tra-noi. Prima, anteriormente a ogni scissione, divisione, conflitto, il tra-noi è già la tecnologia di una infinita potenza. Se le grandi scuole della filosofia critica nel corso di due secoli hanno ancorato la criticità al campo di tensione del conflitto, ancora di più hanno innestato partizione e antitesi sociale, Nancy compie un viraggio radicale verso un’altra implicazione: il pensiero critico non è tale se non si fa innanzi tutto documento o testo, forse si può dire, nominazione, di un accadere in-comune dato anteriormente a tutti i nostri progetti e disposizioni, che si spartisce o in-opera nella trama di una ininterrotta serie di fratture e interruzioni singolari. Se la funzione critica non no-

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mina, questa potenza non sarà neppure in grado di attraversare l’energia costituente dei conflitti. Ancora di più, in questa linea di premesse che J.-L. Nancy propone, il politico non troverebbe nessun oriente, alcun avvenire costituente, perfino l’idea comunista sarebbe inutilmente sospesa a un’idea regolativa, a un semplice ideale, se la filosofia non fosse capace di nominare la tecnologia del comune. Se il cum di Nancy può, ogni tanto, con tutti gli scongiuri necessari e le necessarie precisazioni, fare appello al comunismo, è perché esso non ha nulla a che fare con l’attesa del non ancora di Bloch e neppure con la memoria di un luogo perduto. Se il suo nome può e deve ancora circolare, se non ci si deve rassegnare alla logica dello spettro, è perché la sua memoria accade in quell’infinita resistenza che si apre nel tratto del tra-noi. Tutto ciò riguarda, in fondo, in quel fondo senza fondo su cui tante volte Nancy insiste, il legame per cui siamo. Proprio questo Mit-sein è per la filosofia la cosa più difficile. Più difficile poiché essa è, per un suo lato essenziale, il contraccolpo di un certo effetto di perdita o di copertura di questo tra-noi. È in questo contraccolpo che si innalza la sua istanza metafisica e in questa istanza i suoi concetti non sono in grado di nominare la prossimità di questa spaziatura in cui siamo. L’intuizione memorabile da cui viene Essere e tempo, come si sa, ha uno dei suoi affluenti principali proprio in questo punto: come nominare questa è che già sempre siamo, come nominarla rispettandone la estrema lontananza della sua immensa prossimità? Meglio ancora, come nominare questa innominabilità, come impedire che il suo sottarsi, il suo ritirarsi, non continui a scavare un fondo che non cessa di fondare per quanto vuotato sino al niente? Nancy comprende che questo tratto in ritiro o in differenza del tra-noi deve innanzitutto liberarsi da tutte le retoriche della differenza.

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In questo c’è sicuramente la lezione della différance di Jacques Derrida. Se per Derrida, tuttavia, la différance, nel suo battito di ciglia, diffida ogni legame da se stesso, per Nancy quel battito fa legame nella disgiunzione. C’è potenza in questa disgiunzione. Se quel differire non deve raddoppiare l’ente o differirlo in una qualche fondalità abissale, deve affermarsi o inventarsi un pensiero radicale della superficie. L’esigenza di radicalizzare quel tratto del tra-noi liberandolo da ogni rinvio ad altro lo conduce a conciliare la radicalità di un pensiero di superficie, o immanenza di superficie, con la logica estrema di un’assoluta esposizione. La visionarietà speculativa di Nancy differisce quel tratto in una esposizione. Un differire che si espone, che si dà in quanto esposizione. Si tratta di una linea di invenzione concettuale che porterà frequentemente Nancy a sondare quei corpi esposti per eccellenza, esposizioni singolari, che sono le opere dell’arte. Tuttavia, per Nancy, le opere dell’arte più che esemplari di esposizione sono esempi di tutto ciò che si espone, più che offrire il canone o la misura dell’esposizione esse devono piuttosto riceverlo da un’interrogazione che ascolta il cuore stesso del Dasein. Per Nancy non si capirebbe l’esposizione dell’opera dell’arte se non si comprendesse l’immanenza esposta del Dasein. Se non si reinterrogasse l’analitica esistenziale di Essere e tempo. Nancy tenta quindi la reinvenzione dell’immanenza nel cuore stesso del Dasein. In Essere singolare plurale egli definisce Essere e tempo come l’«ultima “filosofia prima”»3. Si tratta per lui di re-intensificare proprio l’analitica esistenziale. L’Ereig­ nis deve inscriversi nel battito interno del Dasein. La sua convinzione più arrischiata è che l’essere-con, quindi il tratto del tra-noi, sarebbe definito con chiarezza dallo stesso Heideg3.  J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2001, p. 38.

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ger come «essenziale alla costituzione del Dasein medesimo»4. L’imperativo pratico del Mit-sein sarebbe già in una certa alte­ razione del Da-sein. L’alterità dell’altro sarebbe già nella piega di partizione in cui si accade come Da-sein. Per segnalare questa piega di partizione in cui superficie ed esposizione convergono, Nancy chiama in causa il morire. Se il Dasein può ripetersi in un’altra iscrizione, se può essere ripreso come Mit-sein, se la stessa analitica esistenziale può garantire risorse inaspettate per una filosofia del tra-noi, lo si deve a un’altra possibile declinazione dell’essere-per-la-morte. Il tocco in cui batte il morire per Nancy non rispetta la partizione del Dasein, il suo tratto immanente, se non si libera dall’angoscia del morire. Si tratta di pensare il Dasein nella sua fine, nella sua finitudine mortale, ma questa fine non direbbe la giunzione di esposizione e superficie se non si liberasse dal senso per la fine. Se il Dasein può assumere il rango di un esemplare del tra-noi per un’alterazione che si traccia in una differenza senza rinvio è per una mortalità del tutto estranea all’umanismo dell’angoscia esistenziale. Occorre per Nancy deporre il privilegio umano del morire per conseguire la finitudine del Dasein. Il privilegio elettivo del richiamo dell’angoscia esistenziale umanizza il morire nello stesso momento in cui soggettiva il Dasein. Per risuonare nel tocco del morire occorre spegnere il suo richiamo elettivo. Un soggetto è sempre ciò che si trattiene in una ipseità e il richiamo elettivo del morire, il senso per la fine, è sempre conforme alla logica e padronanza di un soggetto. Il Dasein non si dice adeguatamente se non come fuori-di-sé, e questo fuori-di-sé, come alterazione del sé, come un alter che abita irriducibilmente il sé, lo si esprime bene nel tocco inumano di una mortalità finita.

4.  Ivi, p. 39.

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Non c’è dunque alcun privilegio di ex-sistenza per gli uomini rispetto agli altri enti. Si può dire che per Nancy ogni ente, in quanto ente, in quanto modo d’ente, sia un Dasein; Dasein nel punto stesso in cui il suo limite è toccato come morire, finito nel suo essere mortale. Questa spartizione di Nancy, nel momento in cui è costretta a precisarsi, deve ogni volta citare il contatto interrotto di un niente. Come se il niente di Sartre si reinventasse nella mortalità del Dasein, assumendo il carattere del contrattempo o dell’inanticipabilità o fuori memoria della chiamata di Levinas. Un essere altrimenti, o un essere non gravato da sé, non ha nulla a che fare con un istante verticale che sobbalza la continuità temporale; il suo accadere non chiama in causa la potenza d’apertura dell’incontro. È piuttosto l’incontro stesso, l’io e il tu che si ritrovano l’uno verso l’altro nel tramite della spartizione. Anche questo niente in qualche modo nientifica e ogni vota che Nancy deve darne conto è quasi sempre la logica tattile, il pathos che insorge al limite estremo del contatto, il punto quasi tattile del contatto, ad essere evocato. Nancy non riesce a dire in altro modo questa differenzialità che vuole emanciparsi ad ogni rinvio al differire, che vuole sottrarsi all’economia dell’es gibt, che non vuol in alcun modo compromettersi con un’economia di donazione e di indebitamento. La risorsa decisiva diventa il contatto, la metafora tattile del contatto si sforza di pensare la contingenza di un limite in cui l’accadere è nel fuori di sé di un’esposizione assoluta. Mentre per Derrida il contatto non potrebbe che restituire una linea che si divide in due bordi, per Nancy questa divisione porta con sé la potenza di un legame, diciamo pure il pathos di un legame.

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Scrive per esempio: «“Prossimità” e “toccare” evocano ciò che bisognerebbe chiamare la distanza intima secondo la quale l’“essere” si rapporta all’“essenza” dell’uomo, cioè secondo la quale “l’essere stesso è il rapporto”»5. Come si vede, è questa metafora del toccare che è chiamata a fare da figura di risonanza di questa riontologizzanone di Heidegger dopo una certa lezione di Levinas e Derrida. È questa metafora del toccare, laddove, all’estrema superficie, qualcosa fa spasmo in una disgiunzione intoccabile. La coerenza che si afferma è sempre la medesima: nel tocco della prossimità, di un’autoprossimità, nello stesso tempo, per il medesimo spazio-tempo, si traccia una disgiunzione il cui senso non è altro che il respiro di un battito, già sempre fuori di sé, espropriato da sé, esposto in una alter/azione di sé. Nei suoi primi lavori6 la spaziatura heideggeriana si era già riscritta nelle figure dell’estensione, estensione dei corpi ed estensione di psiche, e questa ricerca lo aveva già portato verso ciò che eccede la misura, eccesso di misura comune anche a estensioni incomparabili in quanto tali. A sua volta questo eccesso di misura, questo spaziamento di misura, si lasciava attrarre dalle disgiunzioni di superficie. In Ego sum la bocca, nella congiunzione e disgiunzione delle sue labbra, diventa l’immagine intensiva dell’incommensurabile del corpo e dell’anima. L’ego si darebbe nella superficie delle labbra in cui una bocca, prima di ogni parola, si congiunge e si disgiunge. Anche qui, un battito tra un’apertura e una chiusura, né apertura né chiusura, in cui un ego si traccia nell’esistenza. Quest’apertura 5.  J.-L. Nancy, L’“etica originaria” di Heidegger, in Id., Il pensiero sottratto, tr. it. di M. Vergani, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 114. 6.  Cfr. J.-L. Nancy, Psyche, in «Première Livraison», n. 16, 1978; Id., Le Poids d’une pensée, Le Griffon d’argile-Presses Universitaires de Grenoble, Sainte Foy-Grenoble 1991, pp. 14, 110 ss.; Id., Corpus, Métailié, Paris 1992, tr. it. cit.

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di labbra permetteva allora a Nancy di infilare in una serie l’exposizione della nascita e il nutrimento di cui il vivente respira, la relazione tra corpo e corpo con una madre, preliminare contatto prima di ogni altezza del volto. L’immagine di questo confine dischiuso delle labbra, questa apertura limite di un corpo, installava la spaziatura heideggeriana in una tensione quasi erogena, in ogni caso si imponevano già tutte le condizioni per l’apologia di una dischiusura con/tattile o tattile. Nancy sa molto bene che la sua è, la è di questo tra-noi, rischia di contrarsi in un’autoaffezione. In effetti è assai arduo liberare questo limite con/tattile dalla tensione autoaffettiva. La scommessa di Nancy però è che l’auto-affetto sia sempre un etero-affetto. Laddove il contatto è estremo, là si tocca un intoccabile, là si dispiegherebbe una etero/affezione. Questa autoaffezione la si comprende meglio nell’economia della convulsione o dello spasmo. Uno spasmo convulsivo che attraversa il corpo, per Nancy, è come la sua elementare risorsa che lo immunizza dalla sua chiusura in sé. L’ex/istere accade in questo spasmo e questo spasmo fa da indice di una esposizione fuori di sé. L’apologia del contatto viene da questa linea di svolgimento. Questa convulsività del corpo sarebbe in qualche modo ciò che lo immunizza dalla gravità di sé, ciò che lo distacca da sé nella congiuntura di un contatto. La potenza del tra-noi riceverebbe il suo statuto da questa legge che nell’intensità più estrema del tatto, del toccare vero e proprio, non può che esperire il distacco, o meglio, l’intoccabile presente in ogni estremo contatto. Così il corpo immune da se medesimo sarebbe un corpo esposto laddove il contatto tocca l’intoccabile, quell’intoccabile che ogni contatto estremo deve poter non toccare. Si tratta insomma del tentativo di Nancy di salvare l’eteroaffezione dal­l’autoaffezione.

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Tra-noi vi sarebbe alla fine l’intoccabile, intoccabile sarebbe la linea in cui siamo gli uni e gli altri. A questo punto un lungo saggio-recensione di Derrida arriva come una severa minaccia intorno a questa spaziatura intoccabile. Scrive Derrida, in questo saggio dedicato proprio all’opera di J.-L. Nancy: La legge è forse sempre la legge del tatto. Questa legge della legge, si trova là, innanzitutto. C’è questa legge, ed è la legge stessa, la legge della legge. Non si immagina affatto che cosa sarebbe una legge senza qualche cosa come il tatto: bisogna toccare senza toccare. Toccando è proibito toccare: non toccare la cosa stessa, ciò che si deve toccare.7

Cosa intende dire Derrida? Chiama in causa intanto il principio della legge, l’anima o lo spirito di una legge. Non quanto libera dalla legge ma ciò che la istituisce nel suo regime e da cui la legge ottiene l’imperativo che impone. Ebbene, per capire lo spirito della legge, il nesso che ogni legge assume con il divieto, il carisma stesso del divieto, senza il quale la legge perderebbe la sua aura, occorre risalire alla legge del tatto. Poiché è proprio nell’esperienza del toccare, nel momento stesso in cui tutta l’enfasi cade e risuona nel toccare qualcosa, che il suo senso si illumina o illumina un divieto. Si potrebbe persino dire: la struttura o l’effetto di struttura di un divieto: “non toccare la cosa stessa, ciò che si deve toccare”. Si capirebbe dunque lo spirito del divieto in cui si installa la legge, si capirebbero figure tipiche del religioso o del sacro, come il ritegno, il pudore, il tremore, il rispetto, attraverso un’analitica del tatto. Sembra

7.  J. Derrida, Toccare, Jean-Luc Nancy, tr. it. di A. Calzolari, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 91.

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controintuitivo, ma Derrida intende dire semplicemente che nessun contatto è davvero possibile, nessun contatto assume il carattere o la cifra di un’esperienza tattile se non è limitrofo, cioè se non si verifica nell’aporia di un certo limite. Il contatto non avverrebbe se quel limite saturasse l’interfaccia dei momenti del tatto. Se quella linea saturasse l’interfaccia il tatto non sarebbe tattile, cioè non sentirebbe alcunché, il toccare non accadrebbe. Saturando quel limite mancherebbe appunto il limite in cui l’interruzione garantisce il contatto. Così quel limite deve sempre sospendere il contatto affinché via sia tatto. Quel limite deve sottrarsi all’un-altro, deve risultare in un certo modo intoccabile affinché il toccare sia possibile. Derrida non fa che ricordare questa aporia nel momento in cui sorprende J.-L. Nancy ad aggirarsi insistente e tenace su questo luogo non luogo in cui l’etica troverebbe il suo ancoraggio in una nuova ontologia. Questa aporia però non è un tratto marginale della tradizione filosofica. Non si può dire appartenga a una trincea eretica che farebbe resistenza alle macchine metafisiche. Derrida fa di tutto per mostrare che essa si insedia da sempre nei momenti costitutivi della filosofia stessa. Sta innanzi tutto nelle modalità di idealizzazione, laddove intuizione e idea­lizzazione si interfacciano trattenendo la presenzialità pura nello sguardo, laddove appunto la verità sembra assicurarsi nel tocco intuitivo. Questa metafisica apto-tropica per Derrida agisce ovunque presenzialità e intuizione si rassicurano a vicenda. Da sempre, insomma il regime di questa intuizione promuove e promette una tropica del toccare. La promuove e la promette proprio nel momento in cui reclama la volontà di rinunciarvi, nel momento in cui (Derrida richiama il paradigma del Fedone) dichiara il congedo dal sensibile e dal turbamento del corpo, dal turbamento del piacere e del dispiacere. La promuove quindi proprio quando inter-

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rompe il tattile, quando chiede di rinunciarvi. Quando ritiene quindi che il contatto con l’eidos debba presupporre la fine o l’interruzione del tatto. Ma non è proprio questa immanente interruzione, questa spaziatura di un intoccabile, che governa la legge tattile del contatto? Non è proprio qui, nel cuore tattile del tatto, che il contatto deve congiungere nel disgiungere che avanza il corteo degli intoccabili, degli impensabili, inappropriabili? E se questo è vero, se l’interfaccia del contatto spiega l’aura che circonda l’idealità della presenza, se tra le due accade un’assoluta solidarietà, se entrambe concorrono nei luoghi in cui la metafisica impone il suo statuto, come consegnare a tutto questo una radicalizzazione ontologica, addirittura una rifondazione ontologica dell’etica? Le obiezioni di Derrida non lasciano intatto il corpus delle opere di Nancy. Al di là di un’amicizia e persino di una sincera ammirazione, scuotono dall’interno il cuore visionario di J.-L. Nancy. Si può dire però che non pregiudichino l’urgenza teorica che in vario modo Nancy interpreta. In questa urgenza teorica c’è il tema del legame e del comune del tra-noi. Occorre chiedersi, dopo Derrida, se non si debba innanzi tutto sottrarre quel tratto alla metafora della linea o del limite. Quindi a tutta una serie di invenzioni speculative che su questa linea cercano di pensare il tra-noi. Quell’uno accanto all’altro che Nancy, molte volte, chiama partes extra partes, non riusciamo a intensificarlo nel tra in cui accade se la linea fa da metafora del tratto. La metafora della linea-tratto, della linea orizzonte, dell’istante-linea-tempo, per dirne solo alcune, riporta fatalmente il tratto alla linea e la linea al tropo del contat­ to. In questa sceneggiatura speculativa gli enti sono in quanto

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si delimitano. Sono in quanto in questo limite includono ciò che escludono. C’è sempre una sapienza dialettica che lavora in questo limite e presidia al contempo l’escluso e l’incluso. Occorre, allora, innanzi tutto, sottrarre il tratto alla linea e a tutta una grammatica che prospera da sempre sull’unità disgiuntiva che in essa si installa. Del resto, proprio questa sottrazione del tratto alla linea consentirebbe a Nancy di valorizzare pienamente una delle acquisizioni più importanti del suo lavoro, cioè l’esposizione. Forse si può dire intanto che quel tratto si asciuga in una linea quando il tra noi si spezza nell’io e nel tu o nell’io e nell’ente. Il tra-noi in questo senso non si dice come relazione intersoggettiva, né come relazione del soggetto e dell’oggetto. Soggetto/oggetto o anche io/tu, anche laddove il tu nomina l’altro, non riuscirebbero a fare testimonianza del tra-noi. Non riusciamo a riecheggiare il tra-noi con la relazione intersoggettiva, anzi dobbiamo convincerci che non riusciamo a esprimere la dissociazione della persona dal subjectum, non riusciamo a separare l’apertura della persona dal soggetto, se il legame si esprime come semplice intersoggettività. Neppure se il tu si connota nell’asimmetria dell’altro. Neppure se spezziamo la simmetria circolare con l’istanza dell’altro. Dicevamo, né io-tu-altro ma neppure le varianti che si animano intorno al plesso subjectum-objectum. Ripetiamo: quando queste modalità di relazione diventano cardinali qualcosa di decisivo va in copertura nel tra-noi. Quel tratto nella spiegazione concettuale tende a una linea. Si può anche dire che tenda a una linea poiché la relazione, la relazione io-tu-l’altro o soggetto-oggetto, svanisce nel nome, quella linea sempre disposta a dividersi in due bordi non è altro che l’immagine di questa consumazione. Si dice: tra l’io e l’altro c’è la relazione, ma la relazione si limita a nominare uno svanimento. La relazione è quasi un flatus. Anche quando si porta all’estremo l’unità di sostanza e relazione, anche quando si cerca di trasferire

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il suo fantasma tra sostanze nel cuore della sostanza, in realtà, intorno ad essa, prospera un’alleanza naturale di ogni cattiva metafisica e cioè il rapporto tra essere e niente. Il suo flatus si ripiega facilmente, si rende naturalmente disponibile a nientifi­ care in un differire. Fino a quando non capiremo che la cattiva metafisica vive e si trascina nel rilancio di queste inevidenze che prosperano nella logica di questo differire, continueremo a praticare una cattiva metafisica, anche laddove siamo impegnati a decostruirne il dispositivo. Quindi neppure l’unità di sostanza e relazione riesce rispettare il rango della relazione. Quindi non rispetta neppure il rango dei relati. Il destino dei relati di una relazione è tutto nella relazione. Se la relazione perde, per così dire, di sostanza, a risentirne è innanzitutto la nozione stessa di sostanza. Sicuramente incominciamo ad abbondare la reclusione del tratto nella linea quando la relazione tra l’io e il tu nomina un terzo. Levinas è sempre su punto di sostenerlo quando il volto dell’altro sembra coaccadere nel terzo. Quando accade nell’ingresso del terzo. L’interprete di Levinas dovrebbe sapere che questo non solo è il momento in cui si evoca la difficile questione della giustizia, ma è soprattutto il momento nel quale il volto non cede alla tentazione di ridurre la sua luce, la sua luminosità, a quella di un occhio che guarda. Per questa via ritroviamo una coniugazione speciale tra il terzo e la relazione. Ritroviamo un certo modo di sottolineare la sostanza della relazione. La sostanza a/dialettica della relazione accade laddove l’uno e l’altro sono coimmanenti a un terzo né l’uno né l’altro. L’ipostasi del terzo è decisiva per sottrarre la relazione alla nominazione vuota o al niente in cui la cattiva metafisica la trascina. Oltre la semplice relazione tra sostanze e oltre la semplice identità di sostanza e relazione, si offre una scena di una relazionalità dislocata in un terzo a sua volta irriducibile a un altro come un egli. L’intelligenza della fede, l’intelligenza teologica della fede cristiana, nel suo filo più tenace e resistente, ha sempre difeso la

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relazione dalla relazionalità. Ha chiamato Spirito una relazione resistente alla riduzione relazionale del Padre e del Figlio. Ora, dovremmo ormai saperlo, la filosofia, soprattutto nelle sue grandi famiglie continentali della fenomenologia e dell’ontologia, non dovrebbe guardare con troppa superbia queste formule dogmatiche. Non solo perché esse raccolgono e sedimentano un’infinita discussione pubblica nella misura di un certo consenso, ma soprattutto perché ormai da tempo la ragione sa che la fede la riguarda sin nel suo dispositivo propriamente razionale. Non solo, ma nel complesso lavoro decostruttivo che ha subito nell’ultimo secolo, ha scoperto che la fede prima ancora di evocare l’irto territorio del dogma rimanda a una sfera in cui l’istanza naturale della filosofia si trova in un fatale ritardo o in un fatale anticipo. Dunque la tradizione del dogma non riduce la relazione del Padre e del Figlio alla relazionalità del Padre e del Figlio. Su questo, piuttosto, c’è una teologia troppo incline alla filosofia negli ultimi decenni. L’intelligenza della fede ipostatizza lo Spirito per impedirgli la caduta relazionale. Diciamo pure che lo personalizza per impedire che il Padre e il Figlio siamo semplici soggetti in relazione. Non solo questo Spirito del Padre e del Figlio non si volatizza nella semplice relazionalità, ma fa anche resistenza alla sua riduzione a esito o frutto pure eterno della relazione. La sua pretesa è invece di costituire l’ipostasi per la quale la relazione in quanto tale è possibile e l’ipostasi per la quale i momenti della relazione sono persone, cioè relazioni in cui un altro è sempre incluso. Non solo questa ipostasi dello Spirito resiste alla semplice relazionalità, non solo pretende l’ipostasi di un terzo, ma fa oscillare questo terzo tra l’ordine di tutti i possibili pronomi. Pronomi personali maschili e femminili e pronomi impersonali vi sono inclusi. Come se questa intelligenza della fede di prossimità vo-

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lesse insegnare la seguente cosa: nella relazione con l’altro non solo un terzo come altro deve trovarsi incluso, ma, controintuitivamente, deve trovarsi incluso un terzo come qualcosa o ente. Come a sottolineare che il mondo cosale degli enti, diciamo tutto il mondo dei viventi e non viventi, co/accade nella relazione. Non vi sarebbe relazione se essa non si dislocasse nella coimmanenza di tre ipostasi, in cui lo Spirito si trova a designare la convertibilità di datità e alterità, non solo il chi ma anche il cosa. Il terzo non viene dopo il Padre e il Figlio. Non vi sarebbe relazione tra Padre e Figlio se un terzo non fosse incluso in una modalità per la quale nessun altro terzo possa trovarsi escluso. Quel terzo contrassegna l’ek-stasi della relazione. Nell’immaginazione teologica, in questo terzo, Trinità immanente e Trinità economica si incontrano senza confondersi. Per questo si deve dire che non si dà relazione se il tratto in cui accade non si istituisce in un’opera. Non la metafora della linea in cui svanisce la relazione in relazionalità, ma piuttosto la metafora del corpo o dell’opera. Di un corpo d’opera il cui segno non si riduca a delimitare o a far segno nel limite, ma a contrassegnare una datità im/propria. Il tratto del tra-noi istituisce un luogo improprio, non proprio dell’uno e dell’altro, altro come terzo dall’uno e dall’altro. Solo in questa improprietà la relazione è ek-statica e solo in questa improprietà chiunque altro è incluso. La relazione quindi non giunge all’altro se non si fa opera. Se un’opera non disloca la relazione in tre momenti. Se non accade ex/staticamente nel suo farsi opera. Quel tratto non istituito come un’opera farebbe svanire la relazione nella partitura di una semplice automanifestazione o autocomunicazione o oggettivazione. Il dogma resiste dunque sull’ipostasi dello Spirito, così come non arretra sull’implicazione tra l’opera e lo spirito. Padre e Figlio non sarebbero in relazione se non nella sua opera. Non vi sarebbe prossimità, fidatezza del tra-noi senza questo tratto

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come opera. Non si stabilirebbe una relazione con l’altro se un’opera non istituisse o non facesse risuonare l’im/proprietà del tratto del tra-noi. Meglio ancora, se l’opera non fosse la fatticità stessa di questa improprietà, la fatticità stessa di quel tratto. Il segno di quest’opera è un contrassegno, non fa opera senza un contrassegno che lavora diversamente rispetto alla natura elementare del segno. Anche qui l’intelligenza teologica ha molto da offrire ad una filosofia meno reclusa nei propri dogmi. L’intelligenza teologica marca quest’opera nella convertibilità degli ultimi due trascendentali. È in questa congiuntura che essa, in qualche modo, immagina il nesso tra l’opera e lo Spirito del Padre e del Figlio e la questione del terzo come pronome di tutti i terzi, viventi e non viventi. Nella convertibilità degli ultimi due trascendentale non solo l’opera afferma una datità impropria ma in essa la condivisione è nel segno di una con/dilezione. Nel segno di un piacere senza proprietà. In quest’opera si riafferma il per-tutti del mondo, il per-tutti di ciò che è dato. Ogni volta che il tratto si fa opera è la tessa datità dell’ente che si riafferma, che viene riconquistata, al di là delle varie forme di appropriazione in cui può circolare o celarsi. La fenomenologia trova questa im/proprietà quando incontra l’ente come dato. Quando è costretta a condurre all’estremo la datità del dato dell’ente. Quando sottrae la datità alla sua sempre possibile riduzione ad objectum. La datità implica un dato a, cioè un dato a chiunque, condivisibile nella sua improprietà. Questa condivisione rischia di andar fraintesa, rischia di riproporre, più o meno surrettiziamente, la logica di una partizione o suddivisione o distribuzione, se non si reiventa radicalmente con quella singolare filiera di nozioni che trova in risonanza il

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condilectus di Riccardo di San Vittore8 e il piacere della Terza critica kantiana. La formula che può esprimere tutto questo è la seguente, formula intimamente trinitaria: la relazione dell’uno all’altro non lascia l’altro nella sua alterità, non trasforma questa alterità in una proprietà o in una cattiva trascendenza se non nell’opera di un terzo come altro dall’uno e dall’altro in cui ogni altro può non essere escluso.

8.  Riccardo di S. Vittore, La Trinità, I, 11.20; VI, 3. Rinvio, su questi temi, al contenuto del mio articolo: Sull’opera dello Spirito del Padre e del Figlio, in «Quaderni di Inschibboleth», n. 12, 2019/2, pp. 93-109. Più in generale, sui temi della convertibilità del dato e dell’altro, rimando al mio volume: L’effetto del reale e la prossimità del tra-noi, Guida, Napoli 2018.

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Jean-Luc Nancy La creazione del soggetto Massimo Villani

Le nozioni di “soggetto” e di “creazione” sono due assi portanti della riflessione di Nancy. Se il concetto di creazione verrà messo in gioco in testi relativamente recenti, più o meno a partire dalla metà degli anni Novanta, per poi restare come tema peculiare del filosofo di Strasburgo1, il lavoro sulla soggettività costituisce invece l’abbrivio del suo percorso: il primo libro di Nancy2 è dedicato alla decostruzione del soggetto cartesiano, quell’ego cogito che afferma con assoluta certezza la propria esistenza puntuale e che fa di questa auto-evidenza esistenziale il fondamento di ogni rappresentazione del mondo. È opportuno sottolineare subito questo dato diacronico: alla strategia decostruttiva subentra la semantica della creazione: da qui Nancy arriverà, infine, a mettere a tema il concetto di struzione. Naturalmente non si tratta di netti cambi di paradig-

1.  A partire da Essere singolare plurale (1996), tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2001, in particolare il cap. IV: La creazione del mondo e la curiosità. Il tema della creazione è poi centrale in La creazione del mondo o la mondia­ lizzazione (2002), tr. it. di D. Tarizzo e M. Bruzzese, Einaudi, Torino 2003. 2.  J.-L. Nancy, Ego sum (1979), a cura di R. Kirchmayr, Bompiani, Milano 2008.

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ma, di tagli o svolte. In una scrittura densa e ramificata come quella di Nancy, che procede piuttosto per sperimentazioni linguistiche e concettuali che per analisi metodiche di problematiche specifiche, è molto difficile e in ogni caso controproducente individuare tagli e cesure. È opportuno parlare, invece, di scarti interni a un pensiero che, pur collocandosi all’interno di una tradizione – o di una scuola, una prospettiva, un metodo: nessuna di queste parole si attaglia a ciò che chiamiamo “decostruzione” –, insomma, pur collocandosi all’interno di un regime di senso o di un discorso già dato, allo stesso tempo se ne distacca. In un libro recente Roberto Esposito3 ha affermato che l’Italian Thought – con le sue peculiari caratteristiche che rimandano a un forte radicamento del pensiero nel contesto storico-politico, a una concezione produttiva del conflitto, a un radicamento della teoresi nel vissuto effettivo dei soggetti –, lungi dall’emergere dalla French Theory, assume il suo profilo proprio distaccandosi da quest’ultima. In particolare, la decostruzione avrebbe indebolito il potenziale politico della filosofia per aver prodotto una letterarizzazione del filosofico e, soprattutto, per aver costruito il suo spazio di esercizio nella dimensione del neutro. Disattivate tutte le coppie oppositive attraverso le quali ha preso forma il discorso della metafisica occidentale, la decostruzione si sarebbe privata di quel rapporto col fuori che è il presupposto di ogni gesto polemico e politico. Se il fuori si confonde col dentro non si ha nient’altro che la neutralizza­ zione dei due termini. Nella myse en abyme, la procedura più tipica della decostruzione, va perduta la concretezza del reale con le possibilità – politiche, ma anche etiche e cognitive – che in esso si danno.

3.  Cfr. R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2016, pp. 111-156.

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Più che discutere questa tesi4, nella cui argomentazione Esposito coinvolge profondamente lo stesso Nancy, qui si intende far emergere la specificità del lavoro nancyano che, come detto poco fa, pur situandosi nella scia di Derrida, non può essere assimilato alla decostruzione. Lo scarto che Nancy apre nella sua riflessione concerne – questa la tesi che si propone – il ruolo e la funzione del negativo. È l’attenuarsi del lavoro del negativo, o meglio la rimodulazione della sua funzione a far sì che il pensiero di Nancy scarti rispetto all’esercizio più ortodosso della decostruzione. Da un lavoro di pura e semplice destituzione, la ricerca di Nancy muove verso qualcosa che non può certo dirsi “istituzione”, ma è certo che il negativo non funzionerà più come potenza neutralizzante, ma piuttosto come effrazione, apertura, scavo di uno spazio per l’insorgenza del nuovo. Il potenziale – cognitivo e politico – del lavoro di Nancy sul soggetto sta proprio nel fatto che esso, lungi dal destituire semplicemente le soggettività, ci offre importanti strumenti per penetrare nella complessità del nostro tempo. Che è un tempo del molteplice, nel quale corpi, pratiche e discorsi si danno paratatticamente, al di fuori di qualunque tassonomia e rendendo impossibile ogni sintesi. Quello nancyano è esattamente un pensiero della coesistenza: lungi dal neutralizzare in una sintesi univoca la disseminazione disarticolata in cui si danno corpi, pratiche e discorsi, lungi dal ridurre tutto questo a una cortina fumosa che renda indifferente il modo di stare al mondo, il suo co-esistenzialismo intende proprio radicarsi in questa disseminazione orizzontale refrattaria a ogni sintesi che è il tratto più tipico delle democrazie neoliberali. Il regime neoliberale, ce lo ha insegnato Foucault, non ha bisogno del comando sovrano da cui discenderebbe la norma 4.  Per un’ampia discussione sul rapporto tra decostruzione e l’affermatività del pensiero italiano contemporaneo si veda il volume collettaneo a cura di E. Stimilli, Decostruzione o biopolitica?, Quodlibet, Macerata 2017.

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di inclusione/esclusione; esso funziona semmai attraverso una logica della fitness5, dell’adeguazione continua all’emergere di nuove soggettività, ciascuna portatrice di norme proprie, e che vengono tutte incluse nell’ordine, messe a produzione: in che senso questa uguaglianza diffusa, la mera coesistenza delle differenze, non esaurisce il compito della democrazia?

Il negativo e la decostruzione È Nancy stesso a spiegare il ruolo centrale che il lavoro del negativo ha nel suo pensiero. Nel definire la sua posizione rispetto a quella di un autore pure così prossimo a lui come Deleuze, si esprime così: la linea di Deleuze è una linea francese […]. Invece la linea di Derrida è evidentemente la linea tedesca. […] Io mi considero piuttosto tedesco. […] il pensiero di Deleuze mi sembra un pensiero della trasformazione. È trasformazione da un’estremità all’altra, tutto è trasformazione, metamorfosi. È la trasformazione che sta al posto dell’essere: quella di Deleuze non è affatto una filosofia dell’essere, ma è una filosofia della trasformazione. È propriamente una filosofia del divenire, del divenire impercettibile. E il divenire impercettibile non è affatto una interruzione d’essere, non c’è né cominciamento né interruzione […]. Al contrario il pensiero di matrice tedesca, ossia la grande metafisica classica, è un pensiero della nascita e della morte, un pensiero della messa in forma e della perdita di forma.6

5.  Cfr. L. Bazzicalupo, Dispositivi e soggettivazioni, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 27-33. 6.  J.-L. Nancy, Dialogo con Jean-Luc Nancy, in A. Potestà - R. Terzi (a cura di), Annuario 2000-2001. Incontro con Jean-Luc Nancy, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 34 s.

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Quello che, secondo Nancy, manca al pensiero di Deleuze è presto detto: «si tratta esattamente della questione della negatività, perché nascita e morte indicano qualcosa che nasce in niente e che svanisce in niente – ex nihilo e in nihilo»7. Ancora in un altro confronto con Deleuze, Nancy prosegue questo discorso affermando che «o il negativo ha la pienezza semplice del caos, oppure scava la mancanza-di-sé dell’essere. Non comprendo, da parte mia, come si possa evitare questo scavo (la morte, il tempo, la genesi, la fine)»8. Giustamente, quindi, è stato detto che il negativo costituisce un «motivo»9 del pensiero nancyano. D’altra parte, Nancy scrive un libro dal titolo molto esplicativo: Hegel. L’inquietudine del negativo10. Come dice già il titolo di questo importante saggio, il negativo di cui parla Nancy, nel momento in cui ne fa il movente della sua riflessione, non è la potenza che distruggendo le determinazioni fisse dell’intelletto chiude la storia in una figura definitiva. Al contrario, esso è un principio di dinamizzazione. Già a questa altezza, insomma, il negativo è la vita stessa, la sua inquietudine, il suo modo di rilanciarsi infinitamente attraverso continui strappi (la morte, il tempo, la genesi, la fine) che sono esattamente ciò che impedisce ogni chiusura: «Se c’è un punto da cui cerco di afferrare Hegel, direi che è quello che assume Hegel come colui che rimprovera a Kant di non aver infuso la vita alla statua che ha eretto. La grande questione di Hegel è la vita, la vita dello spirito»11. Insomma, la negazione della ne-

7.  Ivi, p. 35. 8.  J.-L. Nancy, Le differenze parallele. Deleuze e Derrida, a cura di T. Ariemma e L. Cremonesi, ombre corte, Verona 2008, p. 19. 9.  Cfr. A. Moscati, Di alcuni motivi nel pensiero di Jean-Luc Nancy, in A. Potestà - R. Terzi (a cura di), Annuario 2000-2001, cit., pp. 103-113. 10.  J.-L. Nancy, Hegel. L’inquietudine del negativo, Cronopio, Napoli 1998. 11.  J.-L. Nancy, Dialogo con Jean-Luc Nancy, cit., pp. 48 s.

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gazione, il culmine della dialettica hegeliana, è per Nancy non il momento in cui viene ristabilita una posizione, ma è «uno scavo della negazione»12. In altri termini, il negativo, lungo tutta la riflessione di Nancy, è ciò che toglie se stesso, toglie qualunque principio sovrano o sintesi superiore che fluttui al di sopra della molteplicità disseminata degli enti mondani. Non si tratta di fare del negativo un principio, ma di eliminare ogni principio, giacché qualunque principio, fosse anche il niente, farebbe ostruzione alla esposizione reciproca nella quale gli enti sono dati. Gli enti sono esposti, nudi, perché non si dà alcunché che li sovrasta: «“Nichilismo” in realtà vuol dire: fare principio del niente. Ma ex nihilo vuol dire: disfare ogni principio, ivi compreso quello del niente»13. Hegel, come campione del negativo, è assunto proprio come il filosofo che, per così dire, ha spogliato il mondo, privandolo di un garante esterno: l’esperienza di questo mondo prende la forma del «sé». […] «Sé» vuole dire «ciò che si riferisce a sé»: si tratta di un rapporto in cui il termine non è dato – e il mondo della separazione è quello in cui non sono più dati i termini di un rapporto di senso, termini come «natura», «dei», «comunità».14

Insomma la negazione della negazione è funzionale all’affermazione della disseminazione ontica. Per cui si può concludere che lo specifico del lavoro nancyano non è la mera neutralizzazione o spettralizzazione dell’empirico; al contrario, in Nancy «sottrarre presenza all’essere significa anche aprire lo spazio per un’insorgenza: l’éclat o l’éclatement indica l’irruzione del 12.  Ivi, p. 6. 13.  J.-L. Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, tr. it. di R. Deval e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007, p. 37. 14.  J.-L. Nancy, Hegel, cit., pp. 12 s.

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nuovo, di qualcosa che ha una differenza di natura rispetto a quanto lo precede»15. Sebbene tutta la riflessione nancyana si svolga in una semantica negativa, nella quale è continuamente enfatizzato il ritrarsi, l’abbandono di ogni senso assegnabile all’esistenza – un’esistenza mondana che si scopre esposta, fragile, priva di garanti –, tuttavia non c’è in lui alcun pathos epigonale, dal momento che questo ritrarsi, questo scavo del negativo, è esattamente la chance del pensiero, del nostro tempo. È proprio questo sottrarsi di ogni ostruzione di un Senso ultimo a lasciar circolare il senso come esposizione delle singolarità finite: vi è per noi un pensiero che è terminato, una modalità del pensiero che è stata liquidata col naufragio del senso, ossia con il compimento e l’intero arco delle possibilità di significazione dell’Occidente (Dio, Storia, Uomo, Soggetto, Senso stesso). Ma compiendosi e ritraendosi, questo pensiero fa sorgere una nuova configurazione (la sua, dunque, che si disfa sul proprio limite), alla maniera della marea più impetuosa, che ritraendosi lascia vedere modificato il limite della riva.16

Questa è dunque la condizione del pensiero e in particolare del pensiero contemporaneo. “Condizione” nella doppia accezione di ciò che rende possibile e di modo d’essere. Giustamente, allora, è stato notato che la filosofia di Nancy si distingue dall’esercizio più ortodosso del decostruzionismo anzitutto perché, a dispetto della raffinatezza della sua scrittura, a dispetto dei tecnicismi dei suoi lavori, sempre in lui «si sente cuocere sotto l’apparenza del testualismo più spinto l’interesse per le cose»17.

15.  A. Moscati, op. cit., pp. 104 s. 16.  J.-L. Nancy, Un pensiero finito, a cura di L. Bonesio, Marcos y Marcos, Milano 1992, pp. 10 s. 17.  T. Tuppini, Jean-Luc Nancy. Le forme della comunicazione, Carocci, Roma 2012, p. 12.

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Rispetto al lavoro di Derrida, si può dire che Nancy «ha posi­ tivizzato la decostruzione». Infatti, anche se «l’ultima speculazione di Derrida è mossa da un interesse sostanzialmente etico, eminentemente “pratico”, Nancy concede ancora di più, il suo pensiero è assolutamente ontologico, cioè si occupa anzitutto di ta onta»18. Nancy si occupa delle cose, della realtà, una dimensione di cui la sua scrittura si fa interamente carico, «per giungere alla conclusione che le cose sono il senso, e il senso è le cose. Non ci sono che le cose, non c’è che senso»19. È in virtù di questa sottrazione che spazializza, che apre spazio alle cose, che si può parlare per Nancy di “pensiero cosale”. Ecco come si esprime Nancy stesso: «Considerare il pensiero come una cosa: è la prima esigenza di chi voglia conoscere questa realtà così singolare che si chiama “pensiero”»20. Questa concretezza del pensiero, la sua cosalità, è messa alla prova da Nancy proprio sul terreno più astratto: persino laddove ci si confronta con nozioni generalissime, quando si usano parole come “Idea”, “Spirito”, “Sapere”, spiega Nancy che ognuna delle loro formazioni e trasformazioni, ogni loro impiego o deviazione costituisce un’esperienza concreta, eminentemente concreta: cioè un’esperienza nella quale si aderisce alla cosa stessa; si sposa il suo arrivo e il suo andamento, la sua modalità, la sua inflessione, la sua consistenza e la sua resistenza.21

Il pensiero tocca le cose ed è da esse toccato. Lungi dall’essere puro contenuto noematico, il pensiero ha un peso. Nancy mette a tema il rapporto che etimologicamente lega il pensare al pesare: «La voce latina pensare significa pesare, stimare, va-

18.  Ibidem. 19.  Ibidem. 20.  J.-L. Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, a cura di D. Calabrò, Mimesis, Milano-Udine 2009, p. 9. 21.  Ibidem.

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lutare […]. È una forma intensiva di pendo: soppesare, fare o lasciar pendere i piatti di una bilancia, pesare, calcolare, pagare e, secondo la modalità intransitiva, pendere, essere pesante. Il pensiero – il pens, il pensement – verrà più tardi»22.

Dopo il soggetto, le singolarità In realtà questa lettura è possibile solo alla luce degli sviluppi più recenti del pensiero di Nancy. Nelle sue prime opere Nancy si attesta su posizioni tipicamente decostruttive, nelle quali il lavoro del negativo è tutto destituente. Lungi dal dischiudere uno spazio per l’apparizione delle cose, quindi per l’emergenza del senso, il lavoro del primo Nancy è inteso a deporre la concretezza del reale. Lo si può vedere proprio leggendo quell’Ego sum citato all’inizio di questo intervento. Ciò che intende fare Nancy confrontandosi col cogito cartesiano è proprio catturarlo in una mise en abyme, per la quale la posizione del soggetto non si lascerà più distinguere dalla sua deposizione: l’instaurazione cartesiana del Soggetto corrisponde, per la più stringente necessità della sua stessa struttura, all’esaurimento istantaneo delle sue possibilità essenziali. L’erezione e l’inaugurazione stesse del Soggetto hanno provocato l’inabissamento della sua sostanza. Non solo la hanno provocata, ma l’inabissamento della sostanza appartiene all’erezione del Soggetto.23

L’argomentazione enfatizza l’aspetto barocco della meditazione cartesiana, l’aspetto per il quale il soggetto emerge come un trompe-l’œil, un inganno ottico. Esso si erige a partire dalla relazione con l’altro, ma “in sé” è un puro vuoto, o meglio una finta, una finzione. A questa altezza, l’interesse primario 22.  Ivi, p. 11. 23.  J.-L. Nancy, Ego sum, cit., pp. 43 s.

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di Nancy è quello di confondere, neutralizzare l’istituzione e la destituzione del soggetto24. Ma cosa emerge dalla deposizione del soggetto? Quando Nancy pone questa domanda, e lo fa esplicitamente in un testo del 198925, mostra che la decostruzione non era la sua ultima parola. Era sì necessaria una fase di smantellamento, ma essa non lascia il vuoto né il neutro. La decostruzione era necessaria proprio per portarci a quella condizione di molteplicità esposta di cui si diceva prima. Era necessario, insomma, «accedere a risorse che l’Occidente occulta e insieme custodisce»26, per usare la formula con la quale Nancy descrive il suo progetto di una decostruzione del cristianesimo. Ma per andare oltre il soggetto occorre rimodulare la funzione del negativo. Il soggetto è il suppositum, la sua stessa supposizione. Ma in ciò occorre vedere, dice Nancy, tutta una storia che coincide con la «storia dell’Occidente o della filosofia in quanto storia di una supposizione». «Il soggetto è la figura compiuta, sviluppata, di un gesto pre-soggettivo, che è in verità il gesto fondativo occidentale, il gesto della supposizione e della presupposizione»27. Si tratta ora di accompagnare la nostra civiltà al di là della chiusura della metafisica, al di là della “fine del soggetto”. Non in uno spazio vuoto e generico dove sono neutralizzate le istanze soggettive, ma, al contrario, nella densità materiale composta di singolarità reciprocamente esposte in/a un mondo che non 24.  Per una lettura più approfondita di questo testo cfr. R. Kirchmayr, JeanLuc Nancy e la decostruzione del cogito, introduzione a J.-L. Nancy, Ego sum, cit., pp. 7-21. 25.  J.-L. Nancy, Apres le sujet qui vient, in «Cahiers Confrontation», n. 20, 1989. 26.  J.-L. Nancy, Noli me tangere. Saggio sulla levata del corpo, tr. it. di F. Brioschi, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 11. 27.  J.-L. Nancy, Un sujet?, in «Shift. International Journal of Philosophical Studies», n. 1, 2017, p. 159.

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ha più presupposti, ma che consiste, invece, nella mera coesistenza priva di sintesi di una molteplicità differenziale. Il primo modo di accompagnarci oltre questa chiusura è porre la domanda chi, piuttosto che cosa, viene dopo il soggetto: «passare da cosa a chi, o da quid a quis, vuol dire passare dall’esserequalche-cosa della sostanza che suppone la presupposizione, a ciò che si potrebbe chiamare “quisità”»28. Se non che una “quisità” non si dà: le singolarità non emergono da un fondo comune che sarebbe loro presupposto. Insomma, si tratta di rovesciare il soggetto, esporre ciò che prima era presupposto. Al soggetto sopraggiungono le singolarità, esseri finiti e come tali costitutivamente esposti gli uni agli altri. Nella loro esposizione reciproca le singolarità non riconoscono la rispettiva provenienza – esse non hanno presupposto – ma constatano la propria esistenza. Il concetto nancyano di singolarità rappresenta per molti versi il punto di convergenza tra motivi del pensiero di Deleuze e di Derrida. Non si tratta di una sintesi: Nancy mette in comunicazione questi due modelli teoretici, estroflettendoli l’uno verso l’altro. In breve, da una parte Deleuze pensa la singolarità in termini energetici, come una differenza “in sé”, evento intensivo e antiestensionale, puro divenire che non si lascia individuare in alcuna forma29. In questo modello metamorfico dilegua l’impe-

28.  Ivi, p. 175. 29.  I testi deleuziani di riferimento per la teoria della singolarità sono: G. Deleuze, Logica del senso, tr. it. di M. de Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, e, per il tema contiguo dell’ecceità, G. Deleuze - F. Guattari, Mille piani. Capi­ talismo e schizofrenia, 2 voll., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987. Sulla separazione operata da Deleuze della singolarità dall’estensione cfr. T. Ariemma, Logica della singolarità. Antiplatonismo e ontografia in Deleuze, Derrida, Nancy, Aracne, Roma 2009.

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netrabilità di ta onta: lo sbocco necessario dell’inseità energetica è l’impercettibilità: «la parola d’ordine, diventare impercettibile, fare rizoma e non mettere radici»30. Certo, l’impercettibile di cui parla Deleuze è proprio il sensibile al di là della sintesi percettiva di un soggetto, sintesi nella quale va perduta questa densità profonda e diveniente31. Tuttavia, nel piano di immanenza ove si distende questo divenire mancano quei momenti di rottura, le fratture, la nascita e la morte. È un pensiero nel quale l’interruzione svanisce nel flusso: nella sua traduzione politica, esso non trova il punto di innesco, non fa contrasto32. Dall’altra parte, Derrida afferma con decisione proprio la spazialità della singolarità. Sin da un testo molto risalente come La voce e il fenomeno33, la decostruzione del logocentrismo è messa in atto proprio attraverso l’irruzione, sulla scena del lo­ gos, di elementi che gli sono estranei, pur essendogli in qualche modo consustanziali: l’entame è la in-ruzione del fuori, che impedisce a un sistema di chiudersi, di totalizzarsi, inserendo al suo “interno” qualcosa da cui esso non può immunizzarsi. Lavorando su alcuni luoghi del testo platonico, Derrida chiama pharmakon questo intruso che fende lo spazio del pensiero: nome scelto per la sua polisemia – la quale «ha permesso, per distorsione, indeterminazione e sovradeterminazione, ma senza controsenso, di tradurre la stessa parola con “rimedio”, 30.  G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 295. 31.  Cfr. J. Gil, L’impercettibile divenire dell’immanenza. Sulla filosofia di Deleuze, a cura di G. Ferraro e M. Masini, Cronopio, Napoli 2015. 32.  È l’obiezione mossa a Deleuze da più parti. Cfr. A. Badiou, «Existe-t-il quelque chose comme une politique deleuzienne?», in «Cités», n. 40, 2009, pp. 15-20. Si veda anche lo stesso R. Esposito, Pensiero istituente. Tre para­ digmi di ontologia politica, in M. Di Pierro - F. Marchesi (a cura di), Almanac­ co di Filosofia e Politica I. Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 23-39. 33.  J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nel­ la fenomenologia di Husserl, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1968.

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“veleno”, “droga”, “filtro” ecc.»34 –, il pharmakon «è ciò che, sopraggiungendo sempre dal di fuori, agendo come il fuori stesso, non avrà mai virtù proprie e definibili»35. Questa attenzione per l’esteriorità porta Derrida a prendere le distanze dall’immanentismo deleuziano. Nella «postulazione continuista»36 deleuziana dilegua l’alterità, la differenza assoluta, lo scarto. La singolarità, come pensata da Derrida a partire da questa preminenza del negativo e dall’enfasi sull’esteriorità, è qualcosa che buca l’immanenza. Prevale qui la spazialità di una traccia che si incide e scalfisce il continuo. Tuttavia, com’è noto, proprio la logica della traccia funziona in Derrida come un dispositivo di neutralizzazione di istanze contrarie, da cui emerge una situazione di arresto: è come se l’indecidibilità messa a tema da Derrida ne avesse reso indeciso il pensiero, bloccato da un eccesso di diffidenza e di prudenza nei confronti di tematiche cariche di sedimentazioni storiche e politiche. Esemplare di questa impasse è un passaggio come il seguente: «la disidentificazione, la singolarità, la rottura con la solidità identitaria, lo s-legamento [dé-liaison] mi sembrano tanto necessari quanto il contrario»37. Proprio in un dialogo con Nancy, Derrida afferma la sua «meraviglia» per il fatto che Nancy «abbia preso in carico […] queste grandi cose, questi grandi temi, questi grandi concetti, questi grandi problemi, che si chiamano senso, mondo, creazione, libertà, comunità»38. E prosegue, poche righe più 34.  J. Derrida, La farmacia di Platone, tr. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2007, p. 59. 35.  Ivi, p. 93. 36.  J. Derrida, Toccare, Jean-Luc Nancy, tr. it. di A. Calzolari, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 161. 37.  J. Derrida - B. Stiegler, Ecografie della televisione, tr. it. di L. Chiesa, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 74. 38.  J. Derrida - J.-L. Nancy, Responsabilité – du sens à venir, in F. Guibal J.-C. Martin (a cura di), Sens en tous sens. Autour des travaux de Jean-Luc Nancy, Éditions Galilée, Paris 2004, p. 168.

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avanti, confessando il timore che informa il suo atteggiamento: rispetto a queste grandi parole si sente come la mosca che ha compreso che soltanto a sfiorare il miele vi resterebbe intrappolata. Derrida solo a nominare questi concetti, resterebbe intrappolato nella tradizione. Ebbene, Nancy, da parte sua, si tuffa nel miele. Per Nancy la traccia, la scrittura, la differenza non spettralizzano il reale, ma sono dispositivi produttivi di senso. L’entame è il negativo che interrompe il continuum del piano d’immanenza; ma lo fa per incidervi nuove forme, per innescare circolazione di senso, per aprire nuovi mondi. Il negativo, insomma, non è lo spettro del reale, l’opposto speculare del dato che determina una situazione di stallo (come accadeva nel caso dell’identificazione di instaurazione e deposizione nel cogito cartesiano). Nessuna mise en abyme: il negativo scava uno spazio per lo slancio delle singolarità le une verso le altre. La stessa logica del retrait – che pure Nancy desume da Derrida39 e che è un asse portante della sua riflessione40 – si attiva proprio a partire da questo lavoro del negativo che non è più meramente decostruttivo, inteso a produrre un blocco, ma che si orienta invece a generare un’apertura di senso. Il retrait, infatti, non è una desertificazione ontologica, ma è il modo di risalimento degli enti, dopo che il negativo ha deposto tutte le figure in cui essi erano sussunti: entità finite e relazionali, le singolarità si approcciano l’una all’altra nel modo paradossale del ritiro. Si accostano l’una all’altra ritirandosi. Questo ritiro

39.  Derrida elabora il concetto di retrait ne Il ritrarsi della metafora, in J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. I, tr. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2008, pp. 67-102. 40.  Sulla centralità del retrait nel pensiero nancyano mi permetto di rinviare al mio L’imminenza dell’aisthesis, in J.-L. Nancy, L’altro ritratto, a cura di D. Calabrò e M. Villani, Castelvecchi, Roma 2014, pp. 5-18.

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non ha nulla di strategico, non è il gesto di arretramento dinanzi a un pericolo. Al contrario, il ritiro è funzionale precisamente alla non chiusura del rapporto, al rilancio della relazione, col rischio che essa sempre porta con sé. Il retrait è quella dinamica che apre uno spazio per un possibile rapporto, per un mondo. Di conseguenza anche la comunità non avviene mai secondo l’annodarsi dei legami, ma precisamente secondo la «déliaison»41, slegamento e dissociazione. La nozione di retrait fa tutt’uno con quella di alterità: l’altro è ciò che si ritira in sé, ed è così che è altro, è così che mi consente un rapporto. Insomma, qui si vuole enfatizzare il fatto che il negativo in Nancy, a partire dalla fine degli anni Ottanta, non è un principio di desertificazione o di spettralizzazione, ma al contrario una potenza di accumulazione ontologica. È il suo lavoro che fa emergere gli enti mondani al di fuori di qualsiasi sintesi rappresentativa; ed è alla luce di questo lavoro effrattivo che è possibile accedere a ciò che affiora dopo il soggetto: le singolarità, gli enti finiti che sono la grana stessa del mondo. È per questo che la teoria nancyana della singolarità deve incrociare il lessico “energetico” di Deleuze. Il singolare, infatti, non è, ma viene: il singolare si singolarizza nello slancio che lo produce, o da dove esso si traccia. È esso stesso la forza, l’impetus o il conatus che afferra, o si lascia afferrare da una “volta” (un’occasione, un’occorrenza, un’opportunità, un incontro, un buono o pessimo umore, un kairos, ossia nient’altro che favore, fulgore, contingenza di essere e di senso).42 41.  Cfr. P. Lacoue-Labarthe - J.-L. Nancy, Le ‘retrait’ du politique, in Idd. (a cura di), Le retrait du politique. Cahiers du Centre de recherches philoso­ phiques sur le politique, Éditions Galilée, Paris 1983, p. 197. 42.  J.-L. Nancy, Rive, bordi, limiti (della singolarità), in J.-L. Nancy, Pren­ dere la parola, tr. it. di R. Borghesi e C. Tabacco, Moretti & Vitali, Bergamo 2013, p. 25.

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Altrove Nancy afferma che «“Essere” vuol dire essere spinto fuori, cioè ek-sistere»43. Forza, slancio, impetus, conatus, spinta: per questi enti costitutivamente estroflessi, coincidenti col proprio fuori, attraversati dal rapporto con l’altro, è giusto parlare di un certo vitalismo. «Qualcosa come una vita si sviluppa intorno all’ek-, un vitalismo si forma intorno a un esistenzialismo radicalizzato»44.

La creazione Con quanto detto finora si è inteso affermare che il modo nancyano di concepire la differenza ontologica non mette capo alla desertificazione del piano ontico: l’immanenza non è lo spazio nella deiezione, e il lavoro filosofico non deve risalire all’Essere infinitamente al di là degli enti. Tanto meno, come ancora in Derrida, l’esercizio filosofico punta a innescare l’elemento intrinsecamente differenziale di un sistema, al fine di scoprire la sua essenziale, eppure rimossa, disarticolazione interna. Aver «positivizzato la decostruzione», come si diceva prima, significa, per Nancy, aver fatto emergere tutta la densa materialità del mondo, al di fuori di ogni cono rappresentativo e come qualcosa che non deve essere trasceso in direzione di un’autenticità altra. L’immanenza, lungi dall’essere una cattura, è essa stessa apertura continua di senso proprio perché attraversata da un negativo la cui funzione non è destitutiva ma sempre effrattiva, dischiudente. Per pensare questo spingersi nella presenza di tutti gli enti, Nancy introduce il concetto di creazione. Si tratta di uno scarto

43.  J.-L. Nancy, Plus d’un, in A. Barrau - J.-L. Nancy, Dans quels mondes vivons-nous?, Éditions Galilée, Paris 2011, p. 34. 44.  F. Neyrat, Le communisme existentiel di Jean-Luc Nancy, Nouvelles Éditions Lignes, Paris 2013, p. 44.

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rispetto al lessico decostruttivo, attraverso il quale Nancy non intende più smontare e desedimentare, ma affermare, esporre, enfatizzare la coesistenza, il darsi l’uno con l’altro di tutti gli enti. “Creazione” non è sinonimo di fabbricazione o produzione, ma indica la dinamica nella quale un universale si sottrae, “sgretolandosi” nella molteplicità degli esistenti: è insomma la spinta verso il fuori in cui ogni ente consiste. Creazione significa deposizione di ogni arché ed emersione delle singolarità: la «creazione del mondo» […] non è la produzione a partire da nulla di un puro qualche cosa, che così non farebbe altro che implodere nel nulla da cui non è mai uscito, ma è invece l’esplosione della presenza nella molteplicità originaria della sua partizione. Esplosione del nulla, in effetti: spaziatura del senso, spaziatura come senso, e circolazione. Il nihil della creazione è la verità del senso, ma il senso è la spartizione originaria di questa verità. Detto altrimenti: l’essere può es­ sere soltanto essendo-gli-uni-con-gli-altri, circolando nel con e come con di questa co-esistenza singolarmente plurale.45

Pensare la coesistenza a questo livello, come esplosione della presenza, impedisce che possa ergersi alcun soggetto a svettare al di sopra della molteplicità. Ma tale creazione del soggetto non è più mera deposizione, svuotamento: il valore affermativo di “creazione” intende proprio intensificare l’esserci delle singolarità. Parlare di creazione vuol dire pensare l’ontologia come accrescimento, inaugurazione dell’essere. Significa pensare l’immanenza come pienezza e come potenza; in questa logica il negativo è l’inquietudine che sempre scopre, denuda, espone gli enti. È precisamente in questo senso che Nancy parla di creazione del mondo:

45.  J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. 7.

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88 Un mondo «visto», un mondo rappresentato, è un mondo sospeso allo sguardo di un soggetto-del-mondo. Un soggetto-delmondo (che è poi anche un soggetto-della-storia) non può però essere lui stesso nel mondo. Anche in mancanza di una rappresentazione religiosa, un soggetto simile, implicito o esplicito, non può fare altro che ribadire e perpetuare la funzione di un Dio creatore, ordinatore e destinatore (o addirittura destinatario) del mondo.46

Nancy, si rivolge alle cosmologie moderne, mostrando come già in esse il mondo non si dia che come demoltiplicazione di un principio originario che, aprendosi in quanto mondo, si sottrae come origine: «già nelle rappresentazioni metafisiche classiche di questo Dio si tratta solo, in fin dei conti, del mondo stesso, del mondo in se stesso e per se stesso. Per più versi, infatti, le grandi costruzioni trascendentali del razionalismo classico non elaborano altro che il rapporto immanente del mondo con se stesso: esse si interrogano, cioè, sull’essere-mondo del mondo»47. Gli esempi citati sono quelli del Deus sive natura di Spinoza naturalmente, ma anche la creazione continua di Cartesio, la visione in Dio di Malebranche, la monade di tutte le monadi di Leibniz. In questa lettura il mondo, la totalità delle singolarità finite, non è l’oggetto di un soggetto della creazione: «il tratto decisivo del diventare-mondo del mondo – o del diventare-mondo dell’insieme che un tempo veniva scisso e articolato in naturauomo-Dio – è il tratto in virtù del quale il mondo si allontana risolutamente dallo statuto di oggetto, per diventare esso stesso il “soggetto” della propria “mondialità” – o “mondializzazione”»48. Dunque il concetto è sottratto alla semantica religiosa: «La

46.  J.-L. Nancy, La creazione del mondo o la mondializzazione, cit., p. 18. 47.  Ibidem. 48.  Ivi, p. 19.

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“creazione” è un tema, o un concetto, che noi dobbiamo estrapolare dal suo contesto teologico. E ciò è possibile […] perché è la teologia stessa […] ad essersi disfatta di un Dio separato dal mondo. In fondo al monoteismo, noi troviamo un mondo senza Dio, vale a dire un mondo senza un altro mondo»49. La creazione è dunque ex nihilo, viene da nulla, non è prodotto, ma puro accrescimento: il mondo è creato da nulla significa, in maniera assai più specifica e assai più vincolante per il pensiero, che: il nulla stesso, se così possiamo dire, o meglio nulla cresce come qualche cosa. (Dico «cresce», poiché è questo il senso di cresco – nascere, crescere – da cui proviene il termine creo: far nascere e prendersi cura di una crescita). Nella creazione, una crescita cresce da nulla, e questo nulla prende cura di se stesso, coltiva la sua crescita. L’ex nihilo è allora la formula esatta di un materialismo radicale, vale a dire di un materialismo senza radici.50

L’assenza di un creatore così come di un destinatario del mondo, e, insieme, l’assenza di un dato, di un progetto o di un’idea secondo cui forgiare un mondo, fanno del mondo stesso un soggetto, ovvero qualcosa che dipende solo da sé, qualcosa che si tiene in sé, che non è portato in presenza dallo sguardo di un soggetto che lo inserisce in un orizzonte di senso. Esposto a nulla, il mondo non ha un senso che rimandi a qualcosa di esterno al mondo stesso, ma esso fa senso in se stesso, fa senso nello scavarsi: «la tenuta di un mondo è l’esperienza che il mondo fa di se stesso. L’esperienza (ex-periri) consiste nell’attraversarsi fino in fondo»51. Creazione è, quindi, il nome che Nancy dà a questa dinamica di decostruzione di una soggettività sovrana – calata nel mon49.  Ivi, p. 34. 50.  Ivi, p. 35. 51.  Ivi, p. 22.

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do, ma pur sempre staccata da esso –, dinamica in cui mondo e senso sono presi in un medesimo chiasma.

Struzione Ma come va pensata questa coesistenza puramente additiva, questo accrescimento senza alcun(a) fine? Questa ontologia differenzialista e post-fondazionale52 non rischia di essere troppo empatica rispetto a un capitalismo neoliberale che, refrattario a ogni trascendenza normativa, perpetua lo sfruttamento proprio ponendo tutti e tutto su una medesima paratassi? La logica della creazione è intesa da Nancy proprio come resistenza alla tentazione di ripristinare una soggettività trascendente e normativa: la creazione, ovvero l’accrescimento additivo del mondo, è senza progetto, è, anzi, solo getto, spinta continua all’esistenza. La radicalità del pensiero nancyano sta proprio nel fatto di accettare l’ambiguità di questo getto additivo, coglierne la potenzialità e anche la minaccia. Proprio per spingersi in questa radicalità, Nancy dopo i suoi esercizi decostruttivi più risalenti e dopo aver pensato la logica “positiva” della creazione, introduce il concetto di struzione: su cosa apre la decostruzione? Non si tratta di “ricostruire”. Si tratta di aprire e di inaugurare, di lasciar nascere del senso. Ciò che è in gioco al di là di costruzione e decostruzione è la struzione come tale. Struo significa “ammassare”, “stipare”. Non si tratta dell’ordinamento [ordonnance] né dell’organizzazione che implicano il con- e l’in-struzione. È il mucchio,

52.  Cfr. O. Marchart, Post-Foundational Political Thought. Political Dif­ ference in Nancy, Lefort, Badiou and Laclau, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007.

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91 l’insieme non assemblato. È contiguità e copresenza, certo, ma senza principio di coordinazione.53

Struzione è il darsi del molteplice come origine, e, per ciò stesso, dell’origine non come principio di sintesi e unificazione: «Simultaneità non coordinata di cose o di esseri, la contingenza della loro coappartenenza, la dispersione della profusione di aspetti, specie forze, forme, tensioni e intensioni»54. «Ciò che chiamo “struzione” sarebbe lo stato del “con” privo del valore di condivisione, che non mette il gioco altro che la semplice contiguità con la sua contingenza»55. La sfida di Nancy è quella di non calare su questa profusione un principio organizzativo forgiato astrattamente: La filosofia di Nancy tenta di posizionarsi il più vicino possibile alla struzione, di mostrarne la positività, ciò che essa rivela – ma anche il pericolo, la minaccia che essa porta con sé. In effetti, il rischio maggiore del nostro tempo è non solo quello di accettare questo stato di struzione, ma di collaborarvi attivamente, senza riserve – senza pudore né distanza. Collaborare alla giustapposizione significa considerare che tutto ciò che è può essere definito su uno stesso piano, orizzontalmente, alla maniera di oggetti che possono essere accumulati secondo il modello di una lista: un orso bianco, una centrale nucleare, un clandestino, un cellulare… In una tale prospettiva tutto diventa piatto, oggetto, equivalente.56

Ma d’altra parte, e questo è il punto decisivo, si tratta anche di non rifiutare la struzione, ovvero di non tornare a erigere

53.  J.-L. Nancy, De la struction, in A. Barrau - J.-L. Nancy, Dans quels mondes vivons-nous?, cit., p. 89. 54.  Ivi, p. 90. 55.  Ibidem. 56.  F. Neyrat, Le communisme existentiel di Jean-Luc Nancy, cit., p. 15.

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principi ma, piuttosto, di proseguire il lavoro di smontaggio di ogni norma o presupposto, esponendo le singolarità «a un principio che destituisca ogni principio, misura, calcolo, equivalenza, un principio anarchico»57. In questo difficile equilibrio si manifesta la commistione, nel pensiero nancyano, di descrizione e prescrizione. Lungi dall’essere un blocco o un limite, tale confusione è l’elemento di forza di tale pensiero. Questa confusione, infatti, è il tratto caratteristico della odierna razionalità politica neoliberale, la quale include le differenze, persino le stimola, ma per governarle: dal fatto ricava una norma, una norma non trascendente ma che si adegua alle emergenze continue; ma una norma che naturalizza le differenze, dalla descrizione ricava una prescrizione. In risposta a tutto questo, la filosofia di Nancy si discosta dalle posizioni identitarie, sovraniste, etniciste che rispetto alle minacce più pressanti della struzione – flussi di uomini, merci, dati e capitali – non trovano di meglio che ripristinare istanze trascendenti ispirate al tema dell’autonomia del politico. Nancy al contrario prosegue nella sua creazione politica58. Ancora una volta, la creazione è un’intensificazione del lavoro del negativo che però non mette capo a una neutralizzazione dello spazio (politico), ma, al contrario mira alla deposizione di ogni principio che, ergendosi come sovrano, coarti il potenziale del piano d’immanenza. È proprio spingendo al limite la logica della sovranità che Nancy ne smonta l’impianto: «l’eccezione […] non è soltanto ciò che si dà fuori diritto, o fuori istituzione. Essa è anche ciò che non si dà affatto: ciò che non è un fatto bruto, un dato cui ricondurre il passaggio al limite del diritto, 57.  Ivi, p. 56. 58.  D. Gentili, Creazione politica, in «B@belonline», n. 10-11, 2011, pp. 133-138.

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ma ciò che si ritrae da ogni dato»59. Là dove Schmitt colma con la densità di un Fuhrer questo spazio di eccedenza, Nancy ne fa il punto di apertura di una democrazia anarchica, priva di principi, nella quale gli enti sono rimessi alla loro esposizione reciproca. Fuori dal cono rappresentativo suturato dal vertice eccezione/sovrano, la creazione democratica lascia proliferare quella che Nancy chiama l’uguaglianza degli incommensura­ bili, il comunismo delle inequivalenze60. Naturalmente Nancy non dice in cosa debba effettivamente consistere questa democrazia degli incommensurabili, e questo è l’aspetto più fragile e problematico di una posizione teoretico-­ politica che non offre concreti spunti pratici. Ma l’obiettivo principale di questo intervento era quello di sottrarre la decostruzione e in particolare la figura di Nancy, con le peculiarità che si sono sottolineate, a una lettura che ne liquidi l’esercizio come “neutralizzante”; si è provato a mostrare che in Nancy vi sono risorse per spingere la decostruzione in una direzione affermativa. Si concluderà con una citazione nella quale Nancy offre uno spunto per pensare il principio additivo, accumulativo, della struzione – qui chiamato «dipendenza [addiction]» – avendone presente la minaccia, ma senza suturarla attraverso un principio normativo trascendente: Che differenza c’è tra ciò che qui chiamiamo “dipendenza” da una parte, e “adorazione” dall’altra? Una differenza molto semplice forse. La dipendenza, quali che siano il suo oggetto e la sua natura, implica un rapporto con una presenza tangibile, appropriabile. La “droga” è ciò che mi fa davvero percepire un altro regime di presenza, un “altrove” in cui posso dimenticare o convertire il “qui” che desidero abbandonare. Nella dipendenza c’è qualcosa che in fin dei conti è dell’ordine

59.  J.-L. Nancy, La creazione del mondo, cit., p. 113. 60.  Cfr. J.-L. Nancy, Verità della democrazia, tr. it. di R. Borghesi e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2009.

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94 dell’allucinazione. L’adorazione designa piuttosto un rapporto con una presenza che non si tratta di far entrare “qui”, ma di conoscere e affermare come essenzialmente “altrove”, come qualcosa che apre il “qui”. Non si tratta neppure di una presenza nel senso usuale del termine. È la presenza, non già di qualcosa ma dell’apertura, della separazione, della breccia o della fuga del “qui” stesso.61

61.  J.-L. Nancy, L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo II, tr. it. di R. Borghesi e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2012, pp. 16 s.

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Indice

Daniela Calabrò, Se l’Europa fa segno: per una fenomenologia dello straniero

p. 9

Silvia Dadà, Unicità e singolarità. Per un soggetto relazionale tra Emmanuel Levinas e Jean-Luc Nancy

p. 27

Carmelo Meazza, Il tratto del tra-noi in J.-L. Nancy

p. 53

Massimo Villani, Jean-Luc Nancy. La creazione del soggetto

p. 71

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Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Nove­ cento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fe­ nomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Crea­ zione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cri­ stianesimo. 8.  Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la te­ stimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onni­ potenza e me-ontologia nel Medioevo.

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11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un pos­ sibile itinerario. 14.  Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alte­ rità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità.

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 16 - Proposte

I saggi raccolti nel presente volume si concentrano, a partire da diverse prospettive, sulla questione dell’alterità e della relazione. Un tratto comune ai diversi contributi si può senz’altro trovare nel pensiero di Jean-Luc Nancy, ma molto presente è anche la figura di Emmanuel Levinas. I principali temi trattati sono la questione dell’identità, quella del soggetto, il comune e il tra-noi. Con saggi di Daniela Calabrò, Silvia Dadà, Carmelo Meazza e Massimo Villani.

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN e-book 9788855290517 € 7,00 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.