Regine per caso. Donne al governo in età moderna

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Regine per caso. Donne al governo in età moderna

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Storia e Società

Cesarina Casanova

Regine per caso Donne al governo in età moderna

Editori Laterza

© 2014, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2014

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Anno 2014 2015 2016 2017 2018 2019

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0991-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione Donne al governo. Un malaugurato caso? «C’est la peste de l’air, l’Erynne envenimée»: così inizia il ritratto della regina nera, l’Erinni velenosa che rende irrespirabile l’aria con i suoi delitti e la sua perfidia. Con questi terribili versi, pubblicati nel 1616, lo scrittore e poeta protestante Théodore Agrippa d’Aubigné1 ha fissato l’infamante leggenda di Caterina de’ Medici – vedova di Enrico II, dal 1560 reggente di Francia – e dei suoi figli degenerati. La sua immagine viene presentata come il concentrato di tutti i cliché sull’inversione dei ruoli che il Rinascimento attinge dal mondo classico e dalla cultura misogina medievale: la donna al potere non può che essere uno scherzo di natura, strega, avvelenatrice, sessualmente sfrenata, incestuosa, eretica. Aprendo la strada agli sviluppi successivi della ricerca sulle relazioni tra i sessi, già parecchi anni fa Natalie Zemon Davis aveva scritto un bel saggio sul paradosso culturale delle donne dominanti e sulle immagini satiriche della lotta per le brache – i pantaloni, l’indumento maschile da sempre simbolo della ribellione femminile al buon ordine famigliare e sociale –, sul rifiuto da parte di molte di accettare il ruolo di sudditanza che proprio dalla fine del Quattrocento cominciò a essere raccomandato alle donne con più forza che in passato2. Nel V secolo a.C. Socrate, pur tenendo conto della diversa costituzione fisica dei due sessi, aveva immaginato la possibilità per la donna di accedere a posizioni di comando:   T.A. d’Aubigné, Poema tragico, Rizzoli, Milano 1979, pp. 78 sgg.   N. Zemon Davis, Le culture del popolo. Saperi, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento, Einaudi, Torino 1980, pp. 175-209 (ed. orig. 1975). Si veda anche P. Bureau, La «dispute pour la culotte». Variations littéraires et iconographiques d’un thème profane (XIIIe-XVIe siècles), in «Médiévales», 29, 1995, pp. 105-129. 1 2

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Pensiamo che le femmine dei cani da guardia debbano sorvegliare anch’esse ciò che sorvegliano i maschi, cacciare assieme a loro e fare tutto il resto in comune, oppure che esse debbano solamente custodire la casa, perché a causa del parto e dell’allevamento dei cuccioli non possono fare altro, mentre quelli faticano e hanno la cura completa del gregge?

La risposta dell’allievo Glaucone riconosceva che esse «devono fare tutto in comune, però tratteremo loro come più deboli, i maschi come più forti». La condizione per usare «le donne per gli stessi compiti degli uomini», afferma Socrate, è impartire loro gli stessi insegnamenti, cioè la musica e la ginnastica e l’arte della guerra, e «trattarle allo stesso modo». Più difficile gli sembrava realizzare la comunione delle donne e dei figli necessaria per eliminare, per un ristretto numero di eletti, l’ossessione per la legittimità della propria discendenza e quindi l’oppressione del controllo sessuale degli uomini sulle donne3. L’opinione di Socrate, come altre sue asserzioni, rimase inascoltata e isolata. Nicole Loraux ha osservato che Aristotele, nel libro III della Politica, «non riserva neppure una parola al gruppo delle donne quando elenca tutte le categorie dei non-cittadini: essendo la prospettiva rigidamente ‘politica’, avviene tutto tra uomini»4. Si tratta della rimozione di un’ansia incombente: la tragedia greca abbonda di immagini femminili minacciose, che esprimono la paura che il loro potere latente e imbrigliato sfugga al controllo degli uomini; il mito di Pandora, raccontato da Esiodo, non diversamente dalla cultura giudaico-cristiana, attribuisce a una donna l’origine delle fatiche e dei dolori dell’umanità. Questo timore, rappresentato ripetutamente in azioni sceniche tragiche, «ha il suo corrispondente comico nell’ipotesi fantastica avanzata da Aristofane di un’azione politica delle donne. Sia in senso tragico che comico, il potere femminile è sempre trattato come uno sconvolgimento della natura delle cose»5. Un ruolo di potere delle donne – reale, anche se non riconosciuto – è invece presente nella Roma augustea, come dimostra tra gli 3   Platone, Politeia, libro V, su cui si veda J. Redfield, L’uomo e la vita domestica, in L’uomo greco, a cura di J.P. Vernant, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 153-185, pp. 163-171. 4   N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 250. 5   Redfield, L’uomo e la vita domestica cit., p. 161.

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altri il caso di Livia. Sposata da Ottaviano nel 38 a.C., è oggetto di esaltazione da parte della propaganda imperiale, in quanto incarnazione, insieme con il marito, della valorizzazione del matrimonio, presupposto di una riforma dei costumi sessuali che Augusto riteneva indispensabile per realizzare stabilità sociale e incremento delle nascite. Livia, sposa integerrima, fu tuttavia attaccata come donna partecipe delle decisioni politiche che si prendevano all’interno della domus imperiale: ella si sarebbe arrogata un potere che andava oltre i compiti a lei assegnati nella sfera degli affetti famigliari – ai quali avrebbe dovuto limitarsi come sposa dell’imperatore – per invadere anche spazi pubblici all’interno del palazzo imperiale, dove per le sue iniziative si era guadagnata la fama di intrigante6. Dunque, nel mondo greco-romano come in quello giudaicocristiano, la tradizione misogina si radicava su una separazione dei ruoli di genere costitutiva della stabilità sociale, su una gerarchia dei sessi che solo nella corte imperiale poteva far assumere alle donne ruoli di potere, ma sempre qualificati come informali, e come tali passibili di venire censurati in quanto impropri e usurpati. Nella Bibbia, peraltro, compaiono figure femminili dominanti – come Giuditta ed Ester –, guidate da Dio a salvare il proprio popolo dal genocidio, usando a questo fine la loro bellezza. Ma nell’Ecclesiastico e nell’Ecclesiaste il padre di famiglia è continuamente esortato nella vita di tutti i giorni a tenere le donne a freno e ben custodite dentro casa. Anche per le donne di rango, dal IV secolo nell’Europa cristianizzata sarebbe stata questa propensione misogina a prevalere, rafforzata dall’interpretazione paolina del messaggio evangelico la cui espansione, tuttavia, dovette subire una lunga battuta d’arresto e una parcellizzazione regionale a contatto con la cultura franco-germanica. Il momento in cui riprese a diffondersi in tutta Europa una accezione sostanzialmente omogenea del diritto, e quindi anche dei diritti delle donne, si può collocare nel XIV secolo, quando Accursio, Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi separarono il Corpus Juris dalle raccolte di leggi consuetudinarie e feudali7. Nel   F. Cenerini, La donna romana, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 73-80.   I. MacLean, The Renaissance Notion of Woman: a Study in the Fortunes of Scholasticism and Medical Sciences in European Intellectual Life, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1980, pp. 68 sgg. 6 7

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secolo successivo i filologi umanisti contribuirono al radicarsi di concetti quali la fragilitas, l’imbecillitas, l’infirmitas sexus, mutuati dalle categorie romanistiche, ambigue e, nella dottrina penalistica, applicate alle fattispecie più disparate e in riferimento alle discussioni sulla diversa imputabilità delle donne. Questa differenza non viene affermata sulla base di una definizione precisa, ma è una realtà che si rintraccia nelle pieghe del discorso giuridico: nella raccomandazione ai giudici di tener conto del sesso, o nell’applicazione attenuata delle pene. Tuttavia proprio questa disparità di trattamento, questo riguardo che qualcuno ha definito «cavalleria giudiziaria»8, è lo stigma di inferiorità che costituisce il presupposto del divieto di ricoprire cariche pubbliche, oltre a quello di sporgere denunce di reati o di produrre una testimonianza. Questi orientamenti prevalenti fra gli esponenti di spicco della cultura giuridica avrebbero trovato una definitiva sistemazione nell’ampio saggio di diritto famigliare e matrimoniale di André Tiraqueau, nel quale è esplicitamente dichiarata la totale sfiducia nella razionalità femminile: dall’affermazione della debolezza fisica si sfocia infatti in quella della mancanza di raziocinio9. Le domande che Tiraqueau si pone – preliminarmente, se le donne siano umane o animali – e dalle quali deriva l’interrogativo sulla loro minore punibilità per imbecillitas animi, mentis, et ingenii, costruiscono un ampio quadro – del quale la diversa imputabilità è solo un tassello – che definisce la completa soggezione delle donne. Sulla scorta di questo intreccio tra argomentazione giurisprudenziale e definizioni extralegali della «naturale» inferiorità delle donne, la loro esclusione come testimoni nei processi, ad esempio, è giustificata dalla propensione femminile a mentire e dalla loro scarsa credibilità. Se, da un lato, viene asserita una differenza che giustifica un minor accanimento punitivo, compresa l’attenuazione, a partire dal XVII secolo, della ferocia delle esecu8   D. Palk, Gender, Crime and Judicial Discretion. 1780-1830, The Boydell Press, Woodbridge 2006. 9   Andreae Tiraquelli Regii in Curia Parisiensi Senatoris Ex commentariis in Pictonum consuetudines Sectio de Legibus Connubia­libus, & Iure Maritali, ab ipso authore adeo reformata, totque ac tantis thesauris locupletata, ut non immerito nouum opus censeri debeat, Parisiis, apud Odoënum Paruum, in vico Iacobæo, sub intersignio Lilii aurei, 1546.

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zioni contro le streghe, dall’altro viene però ribadita l’esclusione delle donne dai virilia officia, quindi dalla guerra, dal governo, dalla successione nei feudi «ob garrulitate» (per petulanza), ma anche per la loro ambizione («foeminae sua natura dominationis cupidae sunt») che può indurle a sacrificare alla sete di potere persino il bene dei propri figli10. La trattatistica cinquecentesca argomentava l’inadeguatezza delle donne a esercitare il comando anche con la debolezza derivante dalla loro costituzione fisica e morale: se si pretendeva che l’imbecillitas sexus le rendesse per natura incapaci di comandare eserciti, la mendacia e l’incontrollata libidine che sarebbero state loro connaturate le rendevano altrettanto inadatte ad amministrare la giustizia con quell’imparzialità intransigente che le Scritture attribuiscono a re Salomone. In non pochi casi, nel pieno Medioevo e nella prima età moderna, impreviste e malaugurate successioni femminili al trono sono rappresentate dai ritratti a fosche tinte di sovrane e reggenti, schiave di vizi innominabili. L’immagine negativa della regina che forza la natura rinnegando riserbo e pudore e impadronendosi del potere con arti subdole e malvagie ha però due varianti positive: quella della donna «superiore al suo sesso», la donna «virile» che indossa i panni di Pantasilea, regina delle Amazzoni, o della casta Diana, e quella della pietà e santità eroica di alcune venerate sovrane. L’archetipo biblico che può giustificare l’eccezionalità del buon governo femminile è quello della regina Betsabea, antitetico a quello dell’empia Jezabel. Trattatistica politica e polemica misogina hanno ridimensionato il clamoroso protagonismo di regine e reggenti dal Cinquecento in poi, e hanno fatto passare sotto silenzio la frequenza delle presenze femminili al governo di grandi e piccoli feudi e signorie dove, fino alla fine del XV secolo, le donne furono ammesse alla successione in mancanza di eredi maschi. «Tomber en quenouille»11 era l’espressione che veniva usata per deplorare questo evento malaugurato e i conseguenti effetti di instabilità e di «disordine», cioè di rottura della continuità dinastica per linea maschile, additati tra le   Ivi, c. 9, § 59; c. 11, § 77; c. 61, § 2; c. 69, § 28; c. 102, § 9.   L’espressione non è traducibile alla lettera ed esprime lo sconcerto di chi precipita in una condizione inferiore, quella della donna, qui identificata con la conocchia (quenouille). 10 11

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principali cause di conflittualità per la ridefinizione continua dei rapporti di forza nel quadro geopolitico europeo conseguente. Per controversie relative a contrastate successioni femminili vennero combattute la guerra dei Cent’anni, le guerre d’Italia e il conflitto settecentesco che contrastò il trono a Maria Teresa d’Austria, per citare solo alcuni fra gli eventi bellici più noti e devastanti. Se un tempo una figlia poteva governare alla morte del padre, in mancanza di figli maschi, in Francia il revival della legge salica lo escluse, con l’intento di stabilizzare la dinastia regnante trasmettendo il cognome insieme con la sovranità. Quando, infatti, il diritto a regnare toccava per nascita a una donna, essa doveva per forza cederlo al marito, con il conseguente cambio di casata e di cognome. I francesi paventavano questa circostanza alla quale alludevano, appunto, con l’espressione «tomber en quenouille», dove quenouille indicava l’unico oggetto appropriato per le mani femminili. L’irrigidimento della rappresentazione patrilineare agnatizia del lignaggio andò di pari passo, dal XV secolo, con il processo di accentramento degli Stati e con le serrate delle oligarchie cittadine, che divennero ereditarie. Dunque, che le donne filassero la lana con fuso e conocchia e deponessero le armi! La bellicosità femminile non era solo una metafora ma era associata al ricordo, fresco e inquietante, di Giovanna d’Arco, l’eroina nazionale francese, poi bruciata come strega, che aveva combattuto e liberato la Francia dagli inglesi dopo oltre cent’anni di guerre e a quello, più remoto, di Eleonora d’Aquitania, un’altra donna che ai suoi tempi aveva indossato la corazza e impugnato la spada, per partecipare alla seconda crociata col marito Luigi VII, trecento anni prima. Le vite di alcune sovrane, o comunque di alcune donne considerate «eccezionali» per aver avuto un ruolo determinante nella sfera pubblica, confermano la risposta negativa che oltre trent’anni fa fu data alla domanda «C’è stato un Rinascimento per le donne?»12. Il Rinascimento segna un passaggio cruciale nella costruzione di quanto ancora si considera il «moderno» europeo – l’espansione extracontinentale, lo Stato accentrato, il monopolio delle istituzioni giudiziarie nella repressione della violenza, la società gerarchiz12   J. Kelly-Gadol, Did Women Have a Renaissance?, in Becoming Visible: Women­in European History, a cura di R. Bridenthal e C. Koonz, Houghton Mifflin,­Boston 1977.

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zata, la cultura politica e il rinnovamento religioso13 –, ma questa valutazione positiva è fondamentalmente «maschia»: per le donne, i secoli dell’età moderna hanno tracciato soprattutto dei limiti, delle barriere culturali, e hanno imposto delle regole inasprite e avvalorate dalla interpretazione più restrittiva delle prescrizioni di san Paolo: l’imposizione della castità, l’obbligo di «velarsi» al cospetto del Signore nelle chiese dove invece gli uomini stanno a capo scoperto, autorizzati dal loro sesso a mettersi più direttamente a contatto con la divinità, e dove agli uni e alle altre vengono riservati spazi separati14. Il paradosso è che nelle dinastie regnanti, come nelle famiglie aristocratiche, il sistema di successione patrilineare cedette dopo meno di due secoli: pensato per assicurarsi la continuità, per un «bisogno di eternità»15 che lasciava presumere ai capifamiglia di poter determinare – anche dopo la propria morte e senza poterle mai vedere – i destini delle generazioni future dei propri discendenti, senza limitazioni di tempo, mostrò segni di crollo della cultura del sistema corporato del lignaggio e di una impasse demografica, spia inequivocabile di una crisi dei presupposti della stabilità della famiglia e degli Stati. Agli inizi del Settecento, le stesse strategie di trasmissione del nome, del patrimonio e del prestigio che dovevano assicurarne la durata provocarono infatti frequenti estinzioni di casati aristocratici, sia per la mancanza di successori maschi, sia per la scelta di destinare al matrimonio e al diritto all’eredità un unico figlio che doveva assicurare la discendenza alla stirpe. Soprattutto, emergevano scelte individualistiche in opposizione alla famiglia o alla ragion di Stato (come nel caso di Cristina di Svezia) che potevano variare da una mésaillance matrimoniale al deciso rifiuto di sposarsi anche da parte di primogeniti maschi. Per 13   Ovviamente è solo un rapidissimo accenno. Per un approfondimento autorevole della categoria del «moderno» si veda P. Prodi, Storia moderna o genesi della modernità?, Il Mulino, Bologna 2012. 14   Nella Prima lettera ai Corinzi (11, 2-16) Paolo impone alle donne di presentarsi al tempio velate, mentre gli uomini si rivolgono direttamente a Dio a capo scoperto, perché la donna deve portare sulla testa il segno della propria dipendenza (11, 10). Su questo si veda R. Prezzo, Veli d’Occidente. Temi, metafore, simboli, Bruno Mondadori, Milano 2008, in particolare alle pp. 87-89. 15   M.A. Visceglia, Il bisogno di eternità: i comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Guida, Napoli 1988.

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una sorta di contrappasso che si faceva beffe delle disposizioni testamentarie, non solo degli aristocratici ma anche dei regnanti, tutta la prima metà del XVIII secolo fu segnata dai rivolgimenti europei provocati da guerre di successione e dai problemi legati al passaggio della sovranità in mani femminili. Infine, nell’Est d’Europa, la presenza delle donne al governo, con le imperatrici Caterina I, Anna Ivanovna, Elisabetta e Caterina II, non avrebbe potuto essere più schiacciante, anche se frutto di circostanze molto diverse da quelle che avrebbero portato sul trono Maria Teresa d’Austria. Comunque, i francesi avevano sperimentato molto prima le debolezze dell’argine innalzato contro il potere femminile, comunque fosse legittimato: nella seconda metà del Cinquecento Caterina de’ Medici, vedova del re Enrico II di Valois e madre di figli minorenni, governò per quasi trent’anni per un suo attributo «naturale» e «femminile», la maternità, che le dava il diritto di esercitare il potere che tutti i figli, anche quando diventarono maggiorenni, si affrettarono a cederle. Fece eccezione Enrico III, che però lo reclamò dalla madre solo un anno prima di morire. Fu lei, comunque, ad aprire la strada alla successione dei Borbone, dopo l’estinzione della discendenza maschile dei Valois. Come contro altre regine e reggenti, anche contro Caterina la violenza denigratoria esplose in corrispondenza di tensioni interne e internazionali di particolare gravità – in questo caso le lotte politiche e religiose del secondo Cinquecento francese – e fu dettata dall’odio di parte. La propaganda denigratoria, come sempre nei confronti delle donne al governo, non fu rivolta alle sue scelte politiche ma si espresse con accuse e termini infamanti per il suo sesso: gli avversari giudicavano il suo governo pronunciando la condanna nella sfera morale e culturale, che si riassumeva nell’accusa di aver pervertito il ruolo «naturale» della maternità per sete di potere. Sebbene ogni volta che una regina veniva esaltata o infamata le espressioni di culto encomiastico (come quelle di odio irriducibile) fossero manipolazioni propagandistiche e non necessariamente cronache fedeli, edificanti o scandalizzate delle loro abitudini sessuali di corte, è tuttavia singolare come l’esecrazione del «mostruoso governo delle donne» – un’espressione diffusa appunto attorno alla metà del XVI secolo ma di più antica origine – abbia lasciato tracce fino a oggi nei luoghi comuni che continuano ad essere divulgati.

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Più o meno consapevolmente, la comunicazione storica che ha più presa sul pubblico – in primo luogo quella cinematografica – ha quasi sempre trascurato il ruolo politico (e non solo il potere indiretto, ottenuto per attitudine all’inganno e alla manipolazione) che molte donne ebbero per nascita, per matrimonio o per talento; oppure vengono ripetute riduttive banalità e un’aneddotica triviale che ricalca le astiose relazioni dei contemporanei e le trasposizioni letterarie, teatrali e melodrammatiche di quei modelli, diffuse e popolari nell’Ottocento, che aprirono la strada al largo consumo di biografie più o meno romanzate, le quali sono tuttora i tramiti più diretti – e tutto sommato i più innocui – alla storia per i non specialisti. Fino a tutti gli anni Ottanta del Novecento c’è stata una sorta di reticenza nella storiografia italiana a entrare nel cuore del problema del potere in riferimento alle donne, mentre altrove le ricerche sul ruolo politico femminile erano state avviate già da un decennio. Non sempre però l’attenzione di studiose e studiosi ha inserito l’eccezionalità di alcune esperienze di potere di donne nei quadri ampi della storia politico-istituzionale oltre che sociale. Nel caso di Isabella di Castiglia la biografia di Peggy Liss, uno dei primi esempi di questi studi, era rimasta strettamente limitata alla ricostruzione della personalità della regina, senza approfondire gli elementi politici, economici e sociali che avevano caratterizzato il contesto storico nel quale Isabella esercitò la sua sovranità16. Va detto che la tardiva manifestazione di interesse per il tema da parte della storiografia italiana si può giustificare con la mancanza della materia prima: per studiose e studiosi anglosassoni c’è sempre stato uno stuolo di regine che non potevano in alcun modo essere ignorate (Maria ed Elisabetta Tudor, Maria Stuart, Maria II Stuart, Anna Stuart, Vittoria, Elisabetta II) né classificate come «anomalie», perché non può certo sfuggire che la serie inizia proprio in quel XVI secolo che considerava il governo delle donne una «mostruosità». In Francia, oltre alle regine di Valois (Margherita di Navarra e la pronipote Margherita, più nota, per molto tempo, come «la licenziosa Margot») si stendeva l’ombra 16   P.K. Liss, Isabel the Queen. Life and Times, Oxford University Press, New York-Oxford 1992.

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delle «straniere»: le italiane Caterina e Maria de’ Medici, l’infanta di Spagna nota come Anna d’Austria, ma in realtà austriaca solo per parte di madre, l’esecrata Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, figlia dell’imperatrice Maria Teresa. Non stupisce, pertanto, che in Italia questa attenzione sia mancata: nel corso dei secoli, per trovare una figura che colpisca l’immaginazione e che si imponga come protagonista della scena politica del suo tempo, dobbiamo risalire all’XI secolo, a Matilde di Canossa, che regina non fu ma che, come signora di un vasto dominio e antagonista dell’imperatore Enrico IV, lasciò un segno indelebile nella memoria storica nazionale. Proprio per essere vissuta in un periodo che la scarsità di fonti (rispetto a secoli successivi) ha reso, indebitamente, forse «oscuro» ma non necessariamente «oscurantista», la sua individualità è stata costretta nei limiti fuorvianti già definiti dai suoi contemporanei nelle cronache encomiastiche dei suoi elogiatori e in quelle denigratorie dei suoi avversari politici17. Comunque, nel caso di Matilde – alla quale più che ad altri poteva essere attribuito un disegno di unificazione politica dell’Italia in accordo con il papato – ha prevalso la trasmissione di un’immagine di castità e di «virilità». L’ossimoro «donna virile» l’ha preservata da un destino che, alcuni secoli dopo, sarebbe stato riservato alle regine di Napoli Giovanna I e Giovanna II, associate nel ricordo, seguendo il racconto cinquecentesco di Guicciardini, a ogni genere di sfrenatezza. Il classico capolavoro della storiografia umanistica italiana diffonde un ritratto oltraggioso delle due regine, degradate ad «anomalie», in balia della colpevole debolezza del loro sesso, incapaci di governare e di decidere autonomamente da favoriti e amanti, dai quali anzi sarebbero state manipolate e subornate. Di conseguenza, fino ad anni recenti in Italia la ricerca ha messo a fuoco quasi solamente poteri indiretti, trasversali, «giochi di squadra» femminili, complementari a quelli maschili18, e per molto 17   Ma si veda l’intenso ritratto di V. Fumagalli, Matilde di Canossa. Potenza e solitudine di una donna nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1996. 18   Di «giochi di squadra» per alludere alla complementarità dell’apporto femminile rispetto a quello maschile nell’attuazione di strategie di promozione o nella attività diplomatica informale ha parlato per prima R. Ago, Carriere e clientele nella Roma barocca, Laterza, Roma-Bari 1999.

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tempo è stata trascurata l’evidenza del potere esercitato in prima persona in ambito europeo da regine sui juris o per matrimonio, né si sono analizzate a fondo le circostanze dell’assunzione o dell’esclusione delle donne dal governo. Peraltro, anche la straordinaria fioritura di monografie degli ultimi anni – che, oltre a quelle in lingua inglese e francese, comprende anche importanti lavori di studiosi tedeschi, concentrati soprattutto sull’Alto Medioevo, ma include solo marginalmente apporti italiani e spagnoli – non riesce quasi mai a uscire da un ambito strettamente specialistico, e quindi a influire sull’immaginario collettivo, formato da una risaputa aneddotica intrecciata su sfondi storici approssimativi. I problemi di comunicazione mi sembra siano riducibili alla scelta e alla verifica di chiavi di lettura in grado di dare un senso a lavori ora numerosi e spesso molto eruditi o a raccolte di saggi nei quali però non è sempre facile trovare chiare ipotesi interpretative comuni; alla quasi totale assenza di un’indispensabile periodizzazione lunga che parta almeno dall’Alto Medioevo e che permetta di non considerare il tema del potere femminile come una «sorpresa» che i vari specialisti incontrano nel corso delle loro ricerche, da inquadrare appunto nella categoria della «eccezionalità», più o meno gradita; alla sottovalutazione, da parte degli storici accademici, della biografia come strumento per la trasmissione della memoria storiografica, il cui persistente successo di pubblico rimane alimentato da lavori spesso anche molto pregevoli ma che in genere ricalcano opere venerande caratterizzate da un gusto letterario per l’analisi introspettiva dei soggetti, che gli storici di professione quasi sempre disprezzano. Penso soprattutto agli italiani: francesi e anglosassoni, infatti, sono riusciti spesso a coniugare il rigore alla divulgazione. Mi riferisco fra i tanti a Éliane Viennot e alla sua ricostruzione, che risale a circa vent’anni fa, della figura di Margherita di Valois19: alla regina era lasciata tutta la sua umanità, liberando il suo ritratto dalle incrostazioni astiose o fantasiose che si erano stratificate su di lei tra XVI e XIX secolo. Il libro è un esempio di come si possa rappresentare una individualità senza attribuirle le modalità di 19   É. Viennot, Margherita di Valois. La vera storia della regina Margot, Mondadori, Milano 1994.

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ragionare e di esprimere sentimenti propri della società nella quale viviamo oggi. Il tempo della politica e della società, ma anche quello della cultura e della mentalità: se non suonassero troppo ambizioso l’obiettivo e troppo azzardato l’accostamento, occorrerebbe cercare di coniugare la Margot di Éliane Viennot con la Margherita di Navarra di Lucien Febvre20, che ci può ancora aiutare a liberarci dalla convinzione che i sentimenti si esprimano sempre nello stesso modo, o che in ogni tempo ci si debba scandalizzare per gli stessi comportamenti: banalità, si potrebbe dire oggi, ma ancora difficili da praticare21. La ricerca storica sulle donne al potere esige una periodizzazione che non dia per scontato un poi che segua senza scosse, senza interruzioni e senza retrocessioni un prima, e che non dia per scontata una concatenazione di eventi che porti dal buio alla luce o dalla schiavitù alla liberazione, come se questi andamenti progressivi fossero irreversibili. Se un secolo e mezzo fa lo si poteva pensare, oggi siamo disincantati, almeno su altri temi della ricerca storica. Ancora più importante è trasmettere al lettore non specialista che tutto quello che si voleva escludesse le donne dal potere – comprese la forza fisica e l’attitudine alle armi – non è ascrivibile alla sfera della natura bensì a quella della cultura. Singoli casi separati da mezzo millennio, come quelli di Matilde di Canossa e di Margherita di Valois, non si possono valutare con lo stesso metro, anche se entrambe esercitarono un potere reale destinato ad avere enormi conseguenze sulla società del loro tempo e nel futuro. In definitiva, l’ampiezza del potere di cui può godere un sovrano non è la stessa in tutte le congiunture storiche: anche da questo punto di vista i nostri schemi mentali vanno tarati sulle opportunità e sulla sensibilità degli uomini e delle donne del passato, nella misura in cui non sempre ai diritti è conseguito un godimento di essi e non necessariamente la mancanza di norme ha frenato l’accesso clamoroso a poteri di fatto. 20   L. Febvre, Amor sacro, amor profano. Margherita di Navarra: un caso di psicologia nel ’500, Cappelli, Bologna 1980 (ed. orig. 1944). 21   L. Febvre, Storia e psicologia e Come ricostruire la vita affettiva di un tempo: la sensibilità e la storia, entrambi in Studi su Riforma e Rinascimento e altri scritti su problemi di metodo e di geografia storica, Einaudi, Torino 1966 (ed. orig. rispettivamente 1938 e 1941).

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Nel 1980 l’abolizione della legge salica in Svezia ha permesso a Vittoria, figlia primogenita di Gustavo XVI, di diventare principessa ereditaria, e il mutamento dei riferimenti culturali condivisi nel suo paese le ha anche consentito di sposare un commoner che assume il titolo di altezza reale ma non avrà mai quello di re, anche quando la moglie sarà regina. Prima di Vittoria avevano regnato sulla Svezia solo tre donne: la prima fu, nel XIV secolo, Margherita la Grande, una straordinaria figura di sovrana che fu tale però come reggente, dopo la morte prima del marito Hakkon, re di Norvegia, e poi del figlio Olaf. Margherita, l’unica erede di suo padre Valdemaro IV, a dieci anni era stata sposata con Hakkon che aveva assunto i poteri regali dalla moglie: una trasmissione di sovranità da donna a uomo che nel Medioevo era molto comune, in mancanza di eredi maschi, e che in questo caso servì a sancire l’unione delle corone di Norvegia, Svezia e Danimarca22. Nel XVII secolo Cristina, erede al trono svedese a sei anni, vi rinunciò per non doversi sposare: fondate o meno che siano le prove della sua omosessualità, di certo non volle accettare anche una sovranità condizionata da quella di un marito23. Cristina, più che rinunciare al potere, cercò senza riuscirci di esercitarlo altrove. Chi provò tutte le conseguenze negative del suo essere donna fu invece Ulrika Eleonora, che fu regina di Svezia dal 30 novembre 1718, dopo la morte del fratello Cristiano XII, al 29 febbraio 1720, e poi fu «declassata» a regina consorte fino alla morte. Infatti, nel 1715 Ulrika Eleonora aveva sposato Federico d’AssiaKassel, che avrebbe voluto nominare co-reggente per governare su un piano di parità, ma non le fu possibile per l’opposizione del Parlamento, introdotto in Svezia nel 1719, sicché fu costretta ad abdicare in favore del marito dopo un solo anno di regno. Lei vivente, Federico le successe così sul trono come re Federico I24. 22   Su Margherita posso solo rimandare alla voce corrispondente dell’Enciclopedia Treccani online. Come nel caso di Ulrika Eleonora, di cui parlerò fra poco, non è casuale che a due figure così rilevanti sia stata recentemente dedicata pochissima attenzione. Margherita, peraltro, è citata anche in siti divulgativi come «moglie di Hakkon». 23   Su Cristina e sulla bibliografia relativa, anch’essa non amplissima e riferita prevalentemente alla letterata e protettrice delle arti, mi soffermerò più avanti. 24   Su Ulrika Eleonora, come ho detto, mancano studi recenti e occorre basarsi su O. Jägerskiöld, Lovisa Ulrika, drottning av Sverige, Wahlström & Widstrand, Stockholm 1945, al quale rimandano tutti i siti visitati.

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Dunque, questa monarchia millenaria (ma non dinastia millenaria, essendo quella dei Bernadotte insediata da poco più di due secoli) ha riconosciuto soltanto alla fine del Novecento il diritto della principessa primogenita ad essere considerata a tutti gli effetti continuatrice della linea dinastica. Altrove una legge che escludeva le donne dalla successione non venne praticamente mai introdotta fino al XVIII secolo, ma non è detto che le cose siano andate meglio: è il caso della Spagna, dove il diritto a regnare sulla Castiglia non fu formalmente negato a Giovanna, figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona e madre di Carlo V, ma questo non le garantì spazio alcuno per l’esercizio del potere. La legge salica, che alle eredi dirette preferiva i cugini o altri collaterali maschi dello stesso lignaggio, fu imposta in Spagna solo nel 1714 dall’Inghilterra e dall’Austria, dopo la guerra di successione, per evitare che i discendenti di Filippo V di Borbone, nuovo re, per eredità femminile unissero la corona spagnola a quella dei Borbone di Francia. Un secolo dopo, il dilemma se la legge salica andasse applicata o meno si ripropose: si trattava di decidere se a Ferdinando VII sarebbe dovuta succedere sua figlia Isabella, nata (non più attesa) nel 1830, o suo zio Carlos María Isidro, già designato erede al trono da Ferdinando25. L’abolizione della legge salica favorì Isabella senza privare i discendenti maschi di Filippo V dei loro diritti sulla corona spagnola, dal momento che furono collocati nell’ordine di successione dopo tutte le femmine nate da una linea maschile primogenita. Rimasta orfana e diventata regina a tre anni, la bambina assunse il nome di Isabella II e la madre Maria Cristina di Borbone (del ramo napoletano) governò al suo posto come reggente. Il prozio Carlos María Isidro rifiutò di riconoscere la legittimità della successione e assunse il nome di Carlo V in nome della legge salica, abrogata unilateralmente da Ferdinando VII a favore della figlioletta, e avrebbe sempre rivendicato di essere l’erede legittimo. 25   Su Isabella II esiste una produzione di bibliografie e fonti, coeve o contemporanee, molto ampia: rimando a R.A. Gutiérrez Lloret, Los Borbones. Isabel II (1833-1868; Madrid 1830-Paris 1904), La Monarquía Hispánica, Biblioteca virtual Miguel de Cervantes, http://www.cervantesvirtual.com/bib/historia/monarquia/ isabel2.shtml.

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In seguito, ancora quasi bambina, Isabella II assunse direttamente il potere dopo essere stata sposata al cugino Francesco d’Assisi di Borbone-Spagna. La regina non associò al trono il marito, il quale, secondo una tradizione non meglio verificata – in quanto fondata sulla sua presunta impotenza e sulla sua omosessualità – non contribuì neppure alla continuità della linea dinastica giacché si diceva che non fosse il padre biologico dell’erede di Isabella, Alfonso XII. Il governo della regina durò fino al 1868 quando, a seguito degli andamenti della guerra contro i carlisti (seguaci di Don Carlos María Isidro e di suo figlio Carlos Luis, che si sarebbe proclamato re col nome di Carlo VI), dovette andare in esilio a Parigi. Lì, due anni dopo, abdicò a favore del figlio, il quale riuscì a tornare in Spagna nel 1874, dove regnò fino alla morte, nel 1885. Alla memoria di Isabella II, unica regina di Spagna a tutti gli effetti, è associato il ricordo di un periodo in cui forze progressiste e liberali affrontarono in suo nome gli elementi più retrivi della società. Anche nel secolo successivo, dopo l’esautoramento del nipote della regina, Alfonso XIII – imposto dai repubblicani nel 1931 – e allo scoppio della guerra civile fra repubblicani e nazionalisti che mise fine alle speranze della giovane repubblica, la dittatura di Francisco Franco fu resa in buona parte possibile dall’azione militare dei carlisti, che il generale Franco appoggiava contro Alfonso XIII, anche se all’epoca la fazione era rappresentata dall’ottantenne don Alfonso. Questi nel 1936 assunse il titolo di re come Alfonso Carlos. I seguaci del pretendente carlista, anche dopo la sua morte, rappresentarono una parte importante dei sostenitori e dei membri dell’esercito di Franco fino al 1975 quando, con la fine della dittatura, il ramo spagnolo dei Borbone – iniziato con Filippo V – tornò a regnare in Spagna con Juan Carlos I, nipote di Alfonso XIII. Un lieto fine? Non sembrerebbe, dato che ultimamente i tabloid­si sono interrogati sulla malaugurata circostanza di due successive nascite femminili – le figlie del principe ereditario Felipe –: problema che non dovrebbe esistere per una monarchia costituzionale del XXI secolo, la quale, per di più, per tradizione quasi ininterrotta ha rifiutato la legge salica. L’opinione pubblica, insomma, rimane quindi fortemente legata all’idea della mascolinità della successione dinastica.

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Per molto tempo la cultura europea ha sottovalutato, considerandole marginali, non solo molte esperienze di governo di regine o reggenti, ma anche le possibilità delle donne di accedere alla gestione e alla proprietà dei patrimoni famigliari. Negli anni Novanta del Novecento, tuttavia, una ricca produzione storiografica ha messo in luce come per le ereditiere dell’aristocrazia l’esclusione dalla successione per i beni del proprio lignaggio a favore dei maschi dei rami collaterali non fosse così scontata. Questo ha portato anche a ripensare la «mostruosità» della trasmissione dinastica del potere alle donne e a mettere in dubbio che il principio che legittimava l’esclusione fosse fondato su ragioni legate al sesso per una divisione «naturale» dei ruoli di genere. Eppure, un’idea del potere femminile diffusa a lungo anche tra gli storici di professione (comprese alcune storiche) e ancora oggi non del tutto accantonata vorrebbe che – laddove si sono verificati – i governi delle donne siano stati malaugurati o felici casi fortuiti. Questa impostazione del problema rappresenta un residuo della cultura storiografica ottocentesca, come è chiaro nel caso dell’Inghilterra dominata dalla regina Vittoria. Di questa donna e dei suoi sessantatré anni di regno, nonostante «l’età vittoriana» abbia trasformato profondamente il quadro politico, economico e sociale del Regno Unito e del Commonwealth in una dimensione globalizzante, ciò che si ricorda sono soprattutto aneddoti di carattere moraleggiante più che politico, con un forte risalto dato ai valori e al modello di famiglia borghese da lei incarnati, in contrapposizione agli scandali sessuali e finanziari attribuiti ai precedenti membri della famiglia degli Hannover, che avevano portato discredito alla monarchia26. 26   L’opera più importante su Vittoria è tuttora quella di Lord T.E. May Farnborough, Constitutional History of England since the Accession of George the Third, Longmans, Green & Co, London 1896 (prima ed. 1863). I lavori più recenti – o riproposti più di recente – dedicati al capo di Stato che ha guidato il Regno Unito nella sua massima espansione imperialistica sono in gran parte biografie del genere più popolare e sentimentale. Si vedano S. Weintraub, Victoria: An Intimate Biography, Dutton, New York 1987; C. Erickson, Her Little Majesty: The Life of Queen Victoria, Simon & Schuster, New York 1997; C. Hibbert, Queen Victoria: A Personal History, Basic Books, New York 2000; T. Rennell, Last Days of Glory: The Death of Queen Victoria, Viking, New York 2000. Fa eccezione R. Marx, La regina Vittoria e il suo tempo, Il Mulino, Bologna 2001.

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Il regno di Vittoria creò per i britannici il concetto di «monarchia di famiglia», sia in riferimento all’unione felice col marito Alberto e all’armonia domestica che univa i due sovrani – in analogia con l’immagine della propria intimità proposta dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria un secolo prima – sia in riferimento agli stretti vincoli di parentela che la regina aveva praticamente con tutte le casate regnanti. Che la storiografia positivista abbia posto in secondo piano le qualità politiche della regina e ne abbia fissato l’icona di madre di famiglia e dei suoi sudditi fa capire come mai siano rare a tutt’oggi le rivisitazioni soddisfacenti del personaggio: quella cultura, ostile all’analisi di personalità che non fossero quelle di papi e condottieri, e incapace di valutare Vittoria sia come protagonista politica sia come persona di sesso femminile, ne ha trasmesso un’immagine appiattita e monocorde di austera matrona, bigotta fino al ridicolo, mentre lo scavo migliore della sua umanità lo dobbiamo ancora a una delle più famose biografie, La regina Vittoria di Lytton Strachey, pubblicata nel Regno Unito nel 1921 e tradotta in Italia nel 1939, in seguito ristampata senza interruzione fino ad oggi. La biografia di Lytton Strachey fornì gli elementi per una valutazione complessiva della personalità della regina e rimane il modello esemplare di un genere popolare e disprezzato dagli accademici.

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I Regnanti di diritto o di fatto. Matilde e le altre 1. I confini incerti della regalità femminile La cultura greco-romana e quella giudaico-cristiana sono riferimenti obbligati ma non del tutto sufficienti a spiegare perché alle donne sia sempre stata attribuita una posizione marginale e perché gli esempi di protagonismo femminile siano stati considerati eccezioni, cioè deroghe da una norma profondamente radicata nelle coscienze. Anche se gli studi sulle strutture mentali indoeuropee di Georges Dumézil in linea di massima sono convincenti – in quell’universo culturale troverebbe la sua radice la divisione funzionale delle attività umane che assegna alle donne un ruolo subalterno, equiparato a quello dei lavoratori della terra1 –, tuttavia alcune ricerche di antropologi e di etnografi (compreso lo stesso Dumézil) ci danno segnali contraddittori. Per quanto riguarda il mondo antico, lo schema tripartito – sfera del sacro, sfera dell’aristocrazia guerriera, sfera della produzione – è stato declinato diversamente a seconda dei periodi: Dumézil ha sostenuto che nell’antica Lanuvium il culto di Giunone assunse un carattere tripartito, al femminile, e speculare a quello della triade maschile (Giove, Marte e Quirino, il dio che presiede alle attività pacifiche). Giunone è un’unica divinità ma è qualificata secondo le tre funzioni distinte delle attività umane tipiche delle culture indoeuropee: la guerra, la fecondità, la regalità sacrale. Giunone dunque era venerata come dea e come regina e interve1

  G. Dumézil, L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, il Cerchio, Rimini 1988.

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niva sui campi di battaglia favorendo una parte in lotta. Come a lei, anche a Vesta sarebbero stati riconosciuti attributi virili e le sacerdotesse della dea sono ricordate come vergini combattenti2. Non è l’unico esempio di integrazione di maschile e femminile come adattamento del modello gerarchico declinato al maschile che colloca ai vertici della società sacerdoti-re e guerrieri. È stato osservato come la sacralizzazione del βασίλεύς bizantino sia stata accompagnata da segnali ambigui. In questo caso la definizione della regalità si è servita di metafore sessuali che non si limitano ad alludere alla mascolinità e al ruolo paterno del sovrano: egli non è solamente colui che dà la vita attraverso il seme, ma anche colui che nutre, integrando nella sua persona una funzione materna, femminile. Questo dualismo era rappresentato con i simboli del sole e della luna che, nell’immaginario popolare bizantino, divennero un segno inequivocabile, mutuato dalla cultura persiana, della presenza o dell’imminente epifania della regalità. L’ambiguità sessuale del re-imperatore, simultaneamente padre e madre, condizionava lo stesso matrimonio imperiale. Il vero legame sacrale era infatti quello con il corpo collettivo del popolo: il rapporto fisico con una donna aveva un’importanza molto minore e la persona della moglie dell’imperatore bizantino non completava con il suo corpo femminile il corpo sacro del re-maschio. Dal punto di vista teorico, il principio di successione su base famigliare e dinastica non aveva alcun senso a Bisanzio: i legami biologici e l’ascendenza, sia dell’imperatore che della consorte, erano considerati marginali in quanto accidentali e non determinanti nella scelta dell’imperatore, fatta direttamente da Dio. Il matrimonio imperiale si può rappresentare come un’unione simbolica tra il sovrano e la parte femminile del suo popolo, asservita e legata alla terra. Dei molti esempi di matrimoni contratti con donne di rango inferiore il più noto è quello che unì Teodora a Giustiniano3. Gli esempi del mondo antico e bizantino lasciano intravvedere tensioni fra l’universalità del modello, la varietà degli adattamenti 2   J.M. Pailler, La vierge et le serpent. De la trivalence à l’ambiguïté, in «Mélanges de l’École française de Rome», Antiquité, 109, 1997, 2, pp. 513-575, pp. 523-524. 3   D.A. Miller, Royauté et ambiguïté sexuelle, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 26, 1971, 3-4, pp. 639-652.

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alle diverse culture e le possibilità, mai del tutto evitate, di aggirare la rigidità del divieto di mescolare ciò che doveva essere tenuto distinto integrando maschile e femminile nella sfera del comando. È però la partizione triadica che ha fissato gli archetipi culturali che hanno permesso di escludere le donne dal sacro e dalla superiore funzione guerriera, costitutiva della legittimazione del potere del re e dell’aristocrazia. Nel caso dell’Europa medievale e moderna, l’innesto del messaggio paolino su questo sostrato millenario legittimò per altri due millenni le gerarchie sociali e per sesso nelle aree conquistate da Roma e dal Cristianesimo4. I casi di donne che esercitarono il potere in Europa, più o meno formalmente, hanno in comune il fatto di essere stati resi possibili da situazioni di instabilità politica; anche se tali momenti di crisi ebbero caratteristiche e conseguenze diverse, per la regalità femminile fu possibile affermarsi per effetto dell’assenza o dell’interruzione del principio di continuità dinastica in linea maschile. Nell’Alto Medioevo la frantumazione dei domini e la pluralità delle norme e degli usi consuetudinari impedirono che fossero erette barriere insuperabili che escludessero le donne dall’esercizio del potere. La stessa legge salica permetteva loro di ereditare, anche se dal XIV secolo venne manipolata e adattata ad esigenze diverse. Si trattava infatti di una raccolta di norme che probabilmente risaliva al tempo di re Clodoveo (481-511) e che si riferiva a un ordinamento sociale basato sul clan, nel quale la terra coltivata non era ancora di proprietà privata in senso pieno, poiché tutta la comunità contadina conservava diritti su di essa. Tuttavia la terra non era più soggetta a redistribuzioni periodiche e veniva trasmessa ereditariamente in linea maschile da ogni capofamiglia. I vincoli imposti ai possessori consistevano nel fatto che nessun contadino poteva vendere la terra che coltivava e, nel caso che l’agricoltore fosse morto senza lasciare eredi maschi, sarebbe passata nelle mani dei «vicini», cioè dei membri della comunità5. Anche prima 4   D.A. Miller, Vers une théorie unifiée de la royauté et de l’aristocratie, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 33, 1978, 1, pp. 3-20. 5   É. Viennot, La France, les femmes et le pouvoir. L’invention de la loi salique (Ve-XVIe siècle), Perrin, Paris 2006; J.L. Nelson, Family Structures and Women Rulers in Europe. Agency, Practice and the Representation of Political Powers (XIIXVIII), a cura di G. Calvi, EUI Working Papers, HEC n. 2008/2, pp. 27-44.

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dell’organizzazione feudale introdotta in Europa dai Carolingi, le consuetudini locali e particolari circostanze potevano far assumere alle donne ruoli di rilevanza politica, fossero o no di stirpe reale6. Molti sovrani tedeschi dovettero la loro ascesa e il titolo regale ai legami stretti mediante il matrimonio con un’esponente del casato che deteneva il regno, con una parente o anche con la vedova del predecessore7. In Germania «nobiltà» non indicava una condizione acquisita per diritto successorio ma era il termine con il quale si esprimeva l’evidente supremazia dei grandi signori; quanto all’élite che governava l’Europa, solo la consacrazione o l’incoronazione la distingueva dai sovrani. I re avevano la stessa attribuzione di rango dei signori territoriali, e la nobiltà era un riconoscimento del potere in senso ampio8. A differenza del modello franco – poi diffuso dai Carolingi –, nei regni in cui non riuscì a svilupparsi una vera e propria dinastia regia, dove cioè la regalità stentò ad essere concepita come attributo di una sola famiglia e restò più fortemente ancorata all’affermazione in combattimento del re, la regina vedova fu utilizzata spesso per trasmettere la regalità al nuovo marito configurandosi come garante di continuità e stabilità, per limitare i conflitti alla morte del re e per dare una ufficiale legittimazione al nuovo sovrano scelto dall’aristocrazia militare9.

È il caso delle regine longobarde, che dal VII secolo ebbero una visibilità politica non comparabile con nessun’altra in Euro6   Un esempio di ascesa da umili origini è quello della regina visigota Baddo, vissuta nel VI secolo, che dopo essere stata legata a Recaredo in un rapporto di concubinato, fu sposata da lui nel 586 e associata al trono. La ragione per la quale Recaredo finì per sposare la plebea Baddo, oltre (verosimilmente) alla sua bellezza, fu la concomitante decisione del re di convertirsi al cristianesimo insieme con tutto il suo popolo; la conversione fu infatti solennizzata dal Concilio di Toledo, nel 589. In quell’occasione Baddo, cosa certamente inconsueta, sottoscrisse con il marito il documento conciliare. Vedi M.G. Fuente, Reinas medievales en los reinos hispánicos, La Esfera de los Libros, Madrid 2003. 7   M. Hartmann, Die Königin im frühen Mittelalter, Kohlhammer, Stuttgart 2009. 8   T.N. Bisson, Princely Nobility in an Age of Ambition (c. 1050-1150), in Nobles and Nobility in Medieval Europe. Concepts, Origins, Transformations, a cura di A.J. Duggan, The Boydell Press, Woodbridge 2000, pp. 101-113. 9   C. La Rocca, Donne al potere. Le regine nell’alto medioevo, Giunti, Firenze 1996, p. 25.

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pa; il prestigio loro riconosciuto è ben documentato, come nel caso di Ansa, moglie di Desiderio, qualificata come «eccellentissima», «gloriosa», «gloriosissima», «felicissima» e «reverendissima»; inoltre è attestato che alle sue dipendenze dirette c’erano funzionari dell’amministrazione e fideles. Dopo la sconfitta di re Desiderio, questa posizione non fu mantenuta e le regine longobarde da allora furono ricordate solo come mogli di re, unite a loro unicamente da un legame personale, e quindi senza nessun riconoscimento di potere, se non quello, privato, di coniuges amatissimae. Alle regine, peraltro, rimaneva un ruolo di supervisione del funzionamento della domus regia che comprendeva l’amministrazione del tesoro e i rituali di scambio dei doni con gli alleati. La loro posizione nel palazzo, inoltre, le metteva in condizione di crearsi un seguito personale tra i giovani aristocratici che vi venivano allevati, costituendo così gruppi di pressione a esse favorevoli10. Se in Europa la presenza di donne in ruoli di potere si infittì attorno al IX-X secolo, ciò avvenne in coincidenza con il riconoscimento dello status delle regine, molto più raramente ripudiate o rimpiazzate con altre più giovani e sempre più spesso consacrate con una cerimonia solenne. Contemporaneamente, nei diplomi imperiali esse vennero qualificate come «consortes regni». Il De ordine palatii del vescovo Incmaro – che fu al vertice della gerarchia ecclesiastica francese dall’845 all’876 – rende esplicito come la funzione di consors regni fosse associata alla compresenza di funzioni pubbliche e di relazioni private nel luogo fisico della domus del re. Alle regine competeva assicurare il decoro del palazzo e organizzare in ogni occasione ufficiale il cerimoniale di quella che si presentava già come una corte11. Al ruolo che venne loro riconosciuto ufficialmente si aggiungeva spesso l’influenza che molte furono in grado di esercitare in virtù dei loro rappor  Ibid.   Sul ruolo delle donne nelle famiglie dominanti e come elementi connettivi degli equilibri di potere, e in particolare sull’importanza del riconoscimento del rango di consortes alle spose dei re francesi, si veda R. Le Jan, Femmes, pouvoir et société dans le Haut Moyen Âge, Picard, Paris 2001. Per le funzioni della regina e il De ordine palatii si veda anche J. Dufour, Le rôle des reines de France au IXe et Xe siècles, in «Comptes-rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et BellesLettres», 142, 1998, 3, pp. 913-932. 10 11

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ti privilegiati con il marito, servendosi della bellezza ma anche dell’intuito politico e della cultura. Era un potere aggiuntivo e informale che spesso rischiava di diventare troppo ingombrante e che poteva indurre il re e una fazione di corte a decidere l’allontanamento delle consorti, col pretesto della sterilità, dell’infedeltà, del caratteraccio o della scarsa avvenenza. È stato osservato come il protagonismo delle regine coincida con la crisi del potere centrale, dall’anno 887, con la deposizione di Carlo il Grosso, [che] libera una forte affermazione del ruolo delle donne appartenenti alle famiglie nobiliari: il loro potere, certamente già esistente [...] ha ora modo di manifestarsi con pienezza, fossero sposate o meno, vedove o niente affatto vedove. E ciò dipese, in gran parte, dal declino del funzionariato maschile dello stato carolingio, del contenuto e della carica di conti, marchesi e di altre competenze pubbliche. Non è un caso che, alla fine del secolo IX, compaiono ovunque [...] in numero sempre crescente tali donne12.

In corrispondenza con tale affermazione, però, la posizione delle regine si sarebbe rivelata tutt’altro che solida, per la facilità con la quale i matrimoni potevano essere annullati dalle autorità ecclesiastiche. In Francia, le spose dei re hanno avuto una posizione estremamente fragile fino a tutto il XII secolo: da Carlo il Calvo a Filippo Augusto, vale a dire dal IX all’inizio del XIII secolo, diciassette re si sposarono con trenta donne, delle quali dieci vennero ripudiate e dieci non furono riconosciute come legittime. È significativo che questi matrimoni mal assortiti e questi ménages burrascosi si siano concentrati all’inizio e alla fine di questo periodo: se ne trovano tre, rispettivamente nell’867, nell’878 e nell’886, presso gli ultimi Carolingi (Carlo il Calvo, suo figlio Luigi il Balbuziente, suo fratello Carlo il Grosso), mentre gli altri interessano, a partire dal 992, tutta la discendenza di Ugo Capeto fino al 1201, quando Filippo Augusto (1165-1223) dovette cede12   V. Fumagalli, Adelaide e Matilde, due protagoniste del potere medievale, in La contessa Adelaide e la società del secolo XI, Atti del Convegno di Susa (14-16 novembre 1991), numero monografico di «Segusium», 32, 1991, 29, pp. 243-257, citazione alle pp. 256-257.

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re all’imposizione del papa di riconoscere come legittima moglie Ingeburge, sorella di re Canuto VI di Danimarca. Ingeburge fu ripudiata per motivi mai del tutto chiariti ma che portarono all’annullamento della cerimonia dell’incoronazione e al suo allontanamento da corte il giorno successivo alle nozze, avvenute il 14 agosto 1193, con il conseguente rifiuto di Filippo Augusto di riconoscerla regina, in attesa di uno scioglimento del matrimonio da parte di papa Innocenzo III. Si può pensare che la diciottenne Ingeburge si fosse rivelata, al re che non l’aveva mai incontrata prima, disgustosamente brutta o intollerabilmente petulante o noiosa, ma l’immagine che ne resta non conferma la prima ipotesi e nemmeno la seconda, poiché anzi la giovane principessa appare bonaria e gioviale. Secondo il cronista inglese William di Newburgh, la ragione doveva essere o l’alito insopportabilmente fetido o una deformità del corpo che non appare nel ritratto, perché nascosta dagli abiti o perché volutamente non messa in evidenza dall’artista13. In ogni caso, Filippo non aspettò che l’annullamento fosse pronunciato e il pretesto con cui lo chiese non era del tutto improbabile: il re sosteneva che il legame fosse incestuoso, cioè che ci fosse una parentela fra i due (peraltro non dichiarata in precedenza). Ma all’epoca si consideravano incestuosi i matrimoni celebrati all’interno del settimo grado di parentela, intendendo sia i legami di sangue sia quelli cognatizi, cioè acquisiti col matrimonio, e perfino quelli spirituali, con padrini e con madrine di battesimo. Era una intrusione nella libera scelta matrimoniale – dei capifamiglia, non degli individui, che non erano quasi mai liberi di decidere con chi sposarsi – da parte della Chiesa, che cercava di limitare i conflitti e l’instabilità sociale allargando l’area delle alleanze possibili per impedire che i lignaggi più forti si chiudessero in isole ripiegate su se stesse e antagoniste. Queste proibizioni entro il settimo grado non erano però sempre efficaci e paradossalmente favorivano l’instabilità matrimoniale (e quindi anche politica), rendendo quasi impossibile che all’occorrenza non si potesse far valere una remota parentela per 13   Chronicles of the Reigns of Stephen, Henry II and Richard I, a cura di R. Howlett, Longman, London 1884-1889, vol. I, p. 369.

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liberarsi di un legame non più opportuno e stringere una nuova intesa. Il ridotto numero delle dinastie che si alleavano mediante il matrimonio era il risultato quasi inevitabile delle richieste di dispense ai vescovi: una pratica che non impediva allo sposo un «pentimento» più o meno tardivo per il peccato commesso che, se il papa fosse stato consenziente, gli avrebbe permesso di allontanare una moglie indesiderata con l’annullamento. Un sinodo celebrato a Compiègne decretò il 5 novembre 1193 la nullità del matrimonio di Filippo Augusto, ma il re si trovò di fronte al rifiuto di avallarla da parte di papa Celestino III, che nel 1195, su richiesta del fratello di Ingeburge, re Canuto VI, aveva dichiarato illegittima la decisione del sinodo. Il re non per questo rinunciò a sposare Agnese di Meranie nel 1196, diventando di fatto bigamo, e per questo nel 1200 le sue terre furono colpite dall’interdetto da papa Innocenzo III. Non è ben chiaro il motivo di questa prova di forza da parte del re, a meno di non dar credito all’idea romantica di un colpo di fulmine che lo avesse colto il giorno stesso del matrimonio precedente. Di Agnese infatti si diceva che fosse straordinariamente bella, ma le cronache dei contemporanei sono del tutto inaffidabili, in quanto troppo adulatrici o troppo denigratorie; per non parlare delle fonti iconografiche, che ritraggono «tipi» femminili più che i lineamenti reali di donne in carne e ossa. Il comportamento successivo di Filippo Augusto non si può spiegare neppure con il bisogno di avere un erede perché Agnese, che morì venticinquenne nel 1201, riuscì a dargli due maschi; ma verosimilmente anche Ingeburge sarebbe stata in grado di partorirgli dei figli, se solo ne avesse avuto l’occasione. Rimangono vaghe anche le ragioni legate alle politiche delle alleanze: sposando Ingeburge, Filippo Augusto aveva fatto una scelta antinglese. Dopo la scomparsa di Agnese, i negoziati con il papa per l’annullamento del vincolo con Ingeburge, che erano stati temporaneamente sospesi, ripresero nel 1205 quando Filippo Augusto tentò di nuovo di sciogliere il matrimonio con la donna, per tutto il tempo relegata in monastero, accampando il pretesto, più plausibile, che non fosse stato consumato. Nel 1207 Innocenzo III esortò Filippo Augusto a una crociata contro gli eretici albigesi, definiti un abominio della natura, garantendogli la remissione dei peccati. In cambio il re rinunciò a una nuova prova di forza col papa sul piano della sua autonomia nelle scelte matrimoniali e

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smise di cercare di disfarsi di Ingeburge. La regina ebbe almeno la consolazione di farsi riconoscere come tale14. Nel 1215, prima di morire, Innocenzo III aprì il Concilio Lateranense IV che ebbe importanti ripercussioni anche nella politica matrimoniale dei maggiori casati, portando da sette a quattro i gradi di parentela entro i quali le unioni erano considerate incestuose: ciò rese meno facile di prima ricorrere, per il ripudio delle mogli, al pretesto di aver ignorato in buona fede un legame così remoto. La possibilità di annullare i matrimoni precedenti aveva infatti contribuito molto all’instabilità delle alleanze così come a quella della posizione delle regine: l’accusa, anche pretestuosa, di sterilità poteva infatti indurre la Chiesa a pronunciare con relativa facilità il decreto di annullamento. Ma le richieste potevano essere avanzate dai mariti e avvalorate dalle autorità ecclesiastiche anche con altre giustificazioni. Un nipote di Carlo Magno, l’imperatore Lotario II, nell’857, dopo soli due anni di matrimonio, volle ripudiare la regina Teutberga: «primo divorzio ufficialmente dibattuto in giudizio nell’Europa carolingia»15; poiché il tempo trascorso dalla consumazione del matrimonio non era sufficiente per provare la sterilità della moglie, nell’860 l’imperatore presentò a un concilio di vescovi riuniti ad Aquisgrana una «spontanea» confessione della donna che avrebbe ammesso di aver avuto rapporti incestuosi col proprio fratello il quale, secondo la versione sottoscritta dalla regina, l’aveva sodomizzata; dopo questo rapporto Teutberga aveva abortito un feto [sic!]. Lotario ottenne dai vescovi compiacenti lo scioglimento del vincolo e la reclusione in monastero della regina16. 2. «Consortes», «matres amatissimae», regine «sui juris» Prima di Filippo Augusto, due delle dieci mogli ripudiate da parte di re francesi lo furono per necessità dinastiche. Tutti gli altri annullamenti di matrimonio furono motivati dal desiderio di   Tutta la vicenda è ricostruita in Viennot, La France, les femmes et le pouvoir

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cit.

  La Rocca, Donne al potere cit., pp. 14-15.   Si veda S. Airlie, Private Bodies and the Body Politic in the Divorce Case of Lothar II, in «Past & Present», 161, 1998, pp. 3-38. 15 16

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sposare donne più giovani e più belle. Fra le ripudiate per questa ragione figura anche Eleonora d’Aquitania (dopo quindici anni di matrimonio e due gravidanze concluse). C’è invece un solo esempio di richiesta di annullamento fatto da una regina per un suo «capriccio»: Adelaide d’Angiò, vedova del conte di Gévaudan e sposata a trentacinque anni al re franco Luigi V l’Ignavo, che ne aveva quindici, dopo qualche anno lo aveva lasciato per convivere con Guglielmo d’Arles, che successivamente avrebbe sposato. Luigi, malaticcio e solo, sarebbe morto poco dopo senza eredi, mentre Adelaide e Guglielmo avrebbero avuto due figlie, una delle quali, Costanza, nel 1003 avrebbe sposato Roberto, secondo sovrano di Francia della dinastia capetingia17. Nel primo quarto dell’XI secolo fu adottata stabilmente la regola dell’erede unico, primogenito e maschio. Solo con l’affermazione della primogenitura la regina, in quanto madre del futuro re, di regola fu scelta accuratamente fra le principesse, ebbe un suo rituale di consacrazione e di incoronazione e le proprie insegne regali. Mentre nei secoli precedenti si preferiva che le mogli del re fossero di basso rango, per evitare che la forza della loro parentela permettesse loro di costituire potenti e pericolose fazioni a corte e una posizione personale forte, le scelte dei re carolingi prima e dei capetingi poi furono dettate dalle opportunità di alleanza politica; quindi anche lo status delle loro mogli si elevò18. Madri di una prole spesso numerosa, fondatrici di monasteri e tramiti 17   Viennot, La France, les femmes et le pouvoir cit. Roberto, malgrado fosse soprannominato il Pio, ebbe una vita sentimentale burrascosa, che gli costò anche una scomunica; d’altra parte, la reputazione della stessa Costanza era tutt’altro che specchiata. Così almeno raccontano le cronache coeve, che la dipingono come vanitosa, avara, arrogante e vendicativa. D’altra parte si sa che i provenzali venuti a corte con Costanza erano disprezzati dai franchi e ne erano ricambiati. Le due culture erano molto diverse e la corte provenzale, crocevia di letterati e di artisti, amava le novità e l’eleganza raffinata; gli uomini si radevano il viso (cosa che li rendeva effeminati agli occhi dei franchi) e i laici avevano i capelli tagliati in una foggia simile a quella dei chierici. Lo stesso re, a quanto racconta il poeta Helgaud de Fleury, temeva la moglie, che riteneva incostante e minacciosa come una tigre. Le vicende successive gli dettero ragione, se vogliamo prendere questo giudizio dispregiativo e misogino come una prefigurazione della spregiudicatezza politica della quale Costanza avrebbe dato prova per mantenere il suo ruolo di regina di Francia (L. Theis, Robert le Pieux. Le roi de l’an mil, Perrin, Paris 1999; Helgaud de Fleury, Vie de Robert le Pieux, trad. fr. di R.-H. Bautier, CNRS, Paris 1993). 18   La Rocca, Donne al potere cit., pp. 20-24.

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della diffusione della cultura letteraria, queste regine non di rado svolgevano anche funzioni di governo19. Il cambiamento fu dovuto, oltre che all’intervento della Chiesa in merito alla sacramentalità del vincolo del matrimonio, alla fine delle lotte fratricide per il possesso delle parti di eredità prima divise fra tutti i figli maschi – e spesso usurpate dai più forti con le armi – in conseguenza dell’adozione di un nuovo sistema di successione che privilegiava uno solo di essi. Questa trasformazione fu concomitante con l’affermazione di una concezione dinastica della trasmissione del potere. Ne derivò l’importanza che vennero ad assumere, in questo contesto, la scelta della sposa, di rango adeguato, e la legittimità della prole. Questa progressione è confermata dagli ordines coronationis, cioè da quei testi che descrivono l’andamento della cerimonia che consacrava solennemente i re. Uno degli elementi fondamentali dell’ordo coronationis è costituito dalla raffigurazione della regina come consors regni. Il primo modello per la regina che si incontra nell’ordo è quello di Giuditta, cioè «di una donna che unisce la fragilità della vedova con la forza del guerriero e la visione strategica del comandante, ma che comunque non è una regina né lo diventa dopo la sua eroica azione. Regina è invece Ester, che la tradizione altomedievale accosta, per il ruolo salvifico svolto da entrambe in favore del popolo ebraico, a Giuditta»20. È stato dimostrato che l’espressione «consors regni» ebbe carattere eminentemente letterario nelle pochissime attestazioni dei secoli VII-VIII e valore politico ideologico nella piena età carolingia, ma non fu mai il fondamento di un istituto giuridico relativo all’esercizio del potere politico. Fu solo con Engelberga, moglie dell’imperatore Ludovico II, la quale a partire dall’866 venne ripetutamente e sistematicamente definita «consors regni» in molti diplomi imperiali, che l’espressione si riempì realmente di tale significato. Infatti l’imperatrice partecipò attivamente all’azione di governo del marito compiendo in molte occasioni atti di sovranità21. Il ruolo giocato come consortes regni, l’esperienza maturata in 19   De Hincmari epistola «De ordine palatii», pubblicato a Parigi da F. Viewer nel 1885. 20   G. Isabella, Modelli di regalità nell’età di Ottone I, tesi di dottorato in Storia medievale, XVIII ciclo, relatore G.M. Cantarella, a.a. 2006-2007, pp. 151-152. 21   Ivi, p. 154.

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diversi ambiti, la conoscenza spesso ravvicinata di molti grandi signori del regno, la complicità con i dignitari di corte spiegano come mai alla madre fosse affidata non di rado la reggenza alla morte del re. Ma altre strade potevano portare alcune donne al potere, prima della morte dei mariti, o anche per diritto proprio, senza essere mai state sposate. Era anche possibile che figlie uniche di signori feudali si ponessero alla testa di milizie e amministrassero la giustizia. Esse non si debbono considerare «eccezioni», né perché la loro posizione fosse stata conquistata per aver aggirato una norma né perché fossero state tollerate nonostante le norme: la posizione di rilievo delle donne nel mondo feudale dipendeva dall’organizzazione della famiglia e dalla forza del lignaggio al quale appartenevano per nascita o per matrimonio22. Infatti non si prescriveva ma nemmeno si escludeva che, in assenza di maschi adulti, le madri, le sorelle o le figlie assumessero funzioni di comando23, né questi ruoli erano preclusi alle mogli, soprattutto quando erano vedove e madri di eredi minorenni. In Russia la regina Olga ereditò il principato di Kiev: dopo la morte del marito Igor, nel 945, governò da sola fino al 964, durante la minore età del figlio. Ermengarda, figlia di Ludovico II, re di Provenza e d’Italia e imperatore dall’855, ereditò il trono del padre e governò col marito Bosone, fratello della regina Richilde, moglie di Carlo il Calvo. Una generazione dopo, Adelaide di Borgogna avrebbe reso possibile al suo secondo marito, il re di Germania Ottone I, di ottenere la corona d’Italia, trasmessale dal primo consorte, Lotario II, figlio di Ugo di Provenza, giocando comunque un ruolo politico di primo piano, come la nuora Teofano. Nipote dell’imperatore bizantino Giovanni I, Teofano fu onorata dal marito, Ottone II, imperatore del Sacro Romano Impero, col titolo di «coimperatrix». L’imperatrice venne incoronata solennemente nel 972 a Roma, da papa Giovanni XIII, durante la cerimonia del loro matrimonio. Nel 983, dopo la morte improvvisa di Ottone, il potere che Teofano, insieme con la suocera 22   Sull’interazione fra la struttura del potere e la struttura della parentela si veda R. Le Jan, Famille et pouvoir dans le mond Franc (VIIe-Xe siècles). Essai d’anthropologie sociale, Publications de la Sorbonne, Paris 1995. 23   M.T. Guerra Medici, I diritti delle donne nella società altomedievale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1986, pp. 296-297.

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Adelaide, aveva raccolto nelle sue mani permise alle due donne di governare durante la minore età del figlio di Ottone, che aveva solo tre anni. Nella persona di Teofano, come reggente del Sacro Romano Impero, due ruoli diversi venivano a coincidere: quello di «amatissima madre» dell’erede e quello di «imperator augustus» per grazia divina, termini entrambi (uno al femminile e uno al maschile) usati nei documenti ufficiali per rivolgersi a lei in relazione alle funzioni che esercitava nella sfera pubblica e nella sfera privata. Alla sua morte, nel 991, Adelaide restò sola al governo fino al 994 quando Ottone III fu dichiarato maggiorenne24. Il regnum tedesco medievale non aveva norme costituzionali per la designazione del re e la successione al trono. Prima del 1356, la regalità era basata sulla forza di chi aspirava a farsi riconoscere degno di regnare e sull’appoggio dei magnati. Il re veniva poi consacrato e unto dalla Chiesa. Tradizionalmente il governo era limitato ai maschi, il ruolo della regina non era specificato; d’altra parte era soggetto alle mutevoli interpretazioni dei contemporanei e variava a seconda della personalità delle governanti. Significativamente, le regine ebbero molte opportunità nell’epoca delle dinastie ottoniana e salica, spesso basate sulla forza di singole individualità. Agnese, figlia del conte di Poitou e moglie dell’imperatore Enrico III, non aveva titolo per governare né come regina coronata e imperatrice, né come vedova; inoltre il suo status di consors regni non le dava diritti come coreggente. Fu soltanto la sua condizione di madre che le permise di assumere la tutela del proprio figlio, il futuro Enrico IV. L’esplicito consenso dei principi e il giuramento dei magnati furono le basi del suo governo: non solo fu riconosciuta come agente fiduciario per conto di suo figlio, ma ricaddero su di lei anche gravi responsabilità nell’esercizio del potere. Agli occhi della gente, tuttavia, suo figlio Enrico governava da solo. Alcuni documenti furono scritti a nome suo e lui li firmò. Gli storici contemporanei dicono che fu Enrico a creare ducati e a investire vescovi. Solo le formule dei documenti ufficiali, non più riferite alla consors regni ma alla «mater nostra», «genetrix nostra» e all’«imperatrix augusta», indicano che Agnese governava. Oltre   Viennot, La France, les femmes et le pouvoir cit.

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alle sue responsabilità amministrative, Agnese agiva come giudice supremo e come comandante militare in capo. Come reggente il suo potere era legato alla posizione del figlio ed era basato sulle richieste di lui e sulla sua presenza fisica. Il vescovo Anno di Colonia, precettore di Enrico, sapendo bene come l’influenza di Agnese derivasse dal controllo della persona del re, ne organizzò il rapimento per diventare lui stesso reggente25. In Italia, il tema delle donne al potere ha suscitato interesse solo recentemente. D’altra parte, nel regno di Napoli, la presenza di regine per diritto di nascita nel XIV e XV secolo – Giovanna I e Giovanna II d’Angiò – per molto tempo è stata considerata come foriera di guai e sinonimo di governo arbitrario e di instabilità politica. Nel regno, peraltro, le figlie potevano succedere nei feudi, avevano grande autonomia, disponevano di ricchezze personali e spesso esercitavano funzioni di governo e comandavano proprie milizie. L’attuale attenzione della storiografia per il ruolo pubblico di queste e di altre donne ha permesso di prendere le distanze da un’aneddotica banale – peraltro ancora apprezzata nel mercato editoriale –, spesso influenzata da una trattatistica misogina di antiche origini diffusa per radicare nel senso comune l’idea della marginalità e della subordinazione delle donne nella competizione per il potere e l’eccezionalità di ruoli di governo esercitati da figure isolate nella loro stravagante devianza26. Nelle fonti narrative, «l’azione delle regine appare [...] fortemente caratterizzata da comportamenti standardizzati, sia in negativo, sia in positivo [...]; esse compaiono anzitutto, e in misura prevalente, quando sono loro attribuite azioni nefande, come orditrici di oscure trame e di congiure all’interno del palazzo, se non addirittura come dirette responsabili dell’eliminazione fisica dei loro rivali»27. Secondo la Storia di Andrea da Bergamo, è il caso della fiamminga Ermengarda de Hesbaye, indicata nel suo racconto come esecutrice dell’accecamento che nell’817 provocò 25   Su Agnese si veda A. Fössel, Die Königin im mittelalterlichen Reich: Herrschaftausübung, Herrschaftsrechte, Handlungsspielräume, Thorbecke, Stuttgart 2000, pp. 332-338. 26   P. Corsi, Un percorso di lettura, in «Con animo virile». Donne e potere nel Mezzogiorno medievale (secoli XI-XV), a cura di P. Mainoni, Viella, Roma 2010, pp. 19-30. 27   La Rocca, Donne al potere cit., p. 4.

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la morte di Bernardo, re d’Italia e nipote del marito, l’imperatore Ludovico il Pio. È un esempio di come i momenti di crisi politica più accentuata fossero spontaneamente ricondotti al subdolo operato di una donna potente: il comportamento privato di una regina «malvagia» diventava un elemento di perturbazione dell’ordine costituito, perché sovvertitore degli equilibri esistenti [...]. A tale immagine potente, pianificatrice e segreta, si unisce talvolta quella della regina come protagonista di azioni insensate, dettate puramente dall’istinto amoroso o sessuale, e pertanto dalle conseguenze politicamente disastrose28.

Nonostante non vi fosse nessuna norma giuridica che accennasse minimamente alla possibilità che le figlie dei re ereditassero la regalità e la trasmettessero al proprio sposo, è evidente che tale possibilità esisteva. La mancanza di una regola successoria definita estendeva anche ai mariti delle figlie del re, oltre che a tutti i figli del re stesso, la possibilità di rivendicare il trono, ragione evidente della riluttanza che a suo tempo aveva manifestato Carlo Magno a staccarsi dalle figlie, per non moltiplicare i possibili pretendenti al trono. Alla sua morte il figlio Ludovico il Pio allontanò le cinque sorelle nubili dal palazzo per instaurare un nuovo ordine. «La loro cacciata da corte si trasformava in un’opera energica di pulizia morale», che le cronache assecondarono con l’esecrazione della loro sfrenatezza sessuale. «Non erano donne al potere. Quando Ludovico si sbarazzò di loro, e le cacciò da Aquisgrana, esse scomparvero semplicemente dalla documentazione scritta e non si ha di loro più alcuna notizia»29. Questo esempio evidenzia il valore delle figlie femmine come veicolo di trasmissione della regalità e i rischi conseguenti per loro; infatti spiega anche perché i rapimenti delle donne di stirpe regale – mezzi per acquisire, mediante matrimoni forzati, terre e parentele nobili – sono numerosi nelle cronache, così come sono frequenti i matrimoni delle figlie usati come mezzo per garantirsi la possibilità di successione in più regni30.   Ivi, pp. 6-7.   Ivi, pp. 45 e 54. 30   In generale si veda P. Skinner, Le donne nell’Italia medievale, Viella, Roma 2005. 28 29

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3. In cerca di Matilde Se ci limitiamo alla cronachistica italiana, Matilde di Canossa appare caratterizzata prevalentemente in positivo. Da essa Vito Fumagalli trasse spunto per rappresentarla in tutte le sfumature della mestizia soave, dominante, ai suoi occhi, sull’esaltazione guerriera: per il rimpianto delle cose non fatte, per la solitudine meditativa conquistata solo in imminenza della morte, per il rammarico di non lasciare nessuno dietro di sé. Fumagalli, che pubblicò quel piccolo libro a un anno da una morte che da tempo sapeva imminente, iniziando il suo racconto proprio da quello scampolo di vita che rimaneva alla contessa, ha colto con particolare intensità la dolcezza di Matilde, la sua dedizione alla causa del papato a costo del sacrificio delle sue inclinazioni, minimizzando i momenti bellicosi e crudeli che quella causa le richiese di vivere31. Ma cosa c’è di Matilde in questo libro che non sia il frutto di un’abile mescolanza di vero e di verisimile, di letture simpatetiche del personaggio, di ipotesi fondate sul «niente esclude che»? Se anche si vuole tornare a interrogare le fonti, come molti medievisti hanno fatto, ne possiamo trarre solo le notizie che ci sono state tramandate in tempi diversi «da gente cioè di diversa capacità di memoria, da gente che a quel personaggio si accostava, testimone di se stessa, coi più diversi atteggiamenti, partecipe o complice o vittima o spettatrice o ripetitrice occasionale», come scrisse Arsenio Frugoni a proposito di Arnaldo da Brescia32. Queste fonti vanno messe in relazione con coloro che le hanno scritte «badando a ricondurre l’impegno di ogni testimone per Arnaldo nel circolo di tutti i suoi impegni»33. Lo stesso vale per le innumerevoli ricostruzioni storiografiche più o meno recenti. Ascolteremo quindi altre voci, sia di uomini sia di donne. Voci italiane soprattutto: per gli italiani a un certo momento della loro storia Matilde è stata 31   V. Fumagalli, Matilde di Canossa. Potenza e solitudine di una donna del Medioevo, Il Mulino, Bologna 1996. La chiave di lettura della solitudine è stata ripresa recentemente anche da R. Rinaldi, Matilde di Canossa, donna potente e sola, in Il Medioevo di Vito Fumagalli, a cura di B. Andreolli, P. Galetti, T. Lazzari, M. Montanari, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2010, pp. 297-306. 32   A. Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Einaudi, Torino 1989, p. xxi. 33   Ivi, p. xxiii.

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anche un simbolo di grandezza nazionale, regina (senza averne il titolo) per eccellenza. Nel suo caso, come per altri personaggi, è necessario restituire un barlume di plausibilità alla ricostruzione dei comportamenti e dei sentimenti degli individui del passato, soprattutto di un passato che ha lasciato dietro di sé pochi documenti autografi, specialmente se si tratta di donne, e molto scandalo, o eccessivo stupore, quando si è trattato di donne apparse con clamore nella sfera pubblica: bisogna moltiplicare gli sguardi, come suggeriva Arsenio Frugoni. La ricchissima bibliografia non può in ogni caso essere reticente sulla «irregolarità» di una donna senza marito, o associata a figure che le cronache abbozzano appena, uomini dai soprannomi impietosi, mariti transeunti – prima alla fanciulla toccò Goffredo «il Gobbo», poi, a quarantatré anni, il sedicenne Guelfo di Baviera, detto «il Pingue». Sono matrimoni che giustificano sia l’insistenza di Fumagalli sulla solitudine della contessa sia anche le insinuazioni malevole degli avversari su sue relazioni con papi e vescovi. In ogni caso, minimizzare le presenze maschili consente anche di esaltare le virtù virili di Matilde, la sua castità o altre qualità positive attribuibili alle donne, malgrado occupino la scena pubblica. A patto però di tralasciare o mettere in secondo piano il calcolo politico che indusse a quelle unioni con uomini dai soprannomi ridicoli ma dalle nobilissime origini. Amante del papa Gregorio VII, o del vescovo Anselmo da Lucca: la denigrazione sessuale delle donne di potere è tutt’altro che inconsueta. Questa contaminazione delle stanze del palazzo papale echeggia, peraltro, l’esempio non troppo lontano della romana Marozia, che si pretendeva essere stata apertamente concubina di uomini appartenenti all’alta gerarchia ecclesiastica. Del resto, il pensiero binario dei cronisti, che è il più diffuso in ogni epoca, non può, se si è dalla sua parte, che fare di Matilde un’icona di santità mancata. Pare che Matilde fosse bella: certamente aveva capelli rossi, forse ereditati dalla madre Beatrice di Lorena. Aveva denti forti, ancora intatti nel teschio quando la sua salma fu esumata, due volte, l’ultima delle quali nel 1644. A distanza di oltre mezzo millennio dalla morte, avvenuta nel 1115, il corpo era riconoscibile e intero, quasi incorrotto. Benché fosse morta a 69 anni, i capelli non erano incanutiti. Tutti elementi che possono indurre a dipingerla come una mistica di forte spiritualità schierata

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con strenuo coraggio a difesa del papato contro l’imperatore: ce n’è abbastanza per accreditarla come quasi santa. Anche i due mariti dovettero contribuire poco a reprimere i desideri della carne: non il rozzo Gobbo né tantomeno il secondo marito, giovanissimo ma indolente e pingue, del quale si sbarazzò poiché, secondo alcuni, non dimostrò di esserle di nessuna utilità neppure per concepire un figlio. Eppure, Matilde doveva sapere di avere poche probabilità di farlo alla sua età, anche se già aveva partorito, particolare sul quale molte fonti sono reticenti. Nel caso di Guelfo di Baviera, inoltre, è più plausibile l’opinione di chi pensa che lo allontanò pochi anni dopo il matrimonio per non dover dividere il comando. L’iconografia di Matilde coeva e quella secentesca non aiutano a farsi un’idea molto più precisa della sua persona. Fumagalli ha definito le miniature che la ritraggono come «dolci» e ciò è indubbiamente vero ma, come quella già vista di Agnese di Meranie, i due ritratti abbozzano immagini di generica leggiadria, una qualità del femminile che si attribuisce a donne non inquietanti e devote, ma senza personalizzarne i volti: i lineamenti sono appena schizzati. Anche nei ritratti della famiglia di Agnese – nota come religiosissima – le singole figure femminili sono riconoscibili solo dalle scritte sui cartigli. Non solo, tali immagini di bellezza e dolcezza sono tracciate su codici di autori dei loro entourage come quello offerto a Matilde dal monaco Donizone. La vicenda dei Canossa, che termina con una donna, prosegue idealmente quella di un’altra donna, Adelaide di Borgogna, per breve tempo regina d’Italia (947-950) in quanto moglie di Lotario II, figlio di Ugo di Provenza, e poi sposa dell’imperatore Ottone I. Beatrice di Lorena è la seconda moglie di Bonifacio, marchese di Toscana, e madre di Matilde, una mésaillance, in quanto il padre di Matilde, valoroso combattente, non poteva competere per nobiltà di lignaggio con la moglie, sposata in seconde nozze in età matura, quando lei aveva appena quattordici anni. Dopo la morte di Bonifacio, Beatrice sposò il cugino Goffredo il Barbuto di Lorena; questi si ribellò all’imperatore Enrico III, che prese in ostaggio Beatrice e la piccola Matilde, portandole in Germania. Goffredo e Beatrice divennero quindi sempre più gravitanti verso la Germania, tanto più dopo il proscioglimento dei propri feudatari ribelli

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effettuato da Enrico III sul letto di morte34. Come abbiamo visto, Matilde di Canossa avrebbe sposato Goffredo il Gobbo, figlio del Barbuto. Alla morte del Gobbo, nel 1076, Matilde avrebbe aspettato tredici anni a risposarsi con il giovane Guelfo di Baviera, e lo avrebbe fatto, secondo Glauco Maria Cantarella – che non accenna nemmeno alla presunta impotenza del consorte –, per motivi politici, trattandosi di un matrimonio strategico che mirava a moltiplicare i nemici di Enrico IV, ma già sostanzialmente fallito nel 1095, quando l’imperatore era riuscito a far rientrare la rivolta dei guelfi ed era alle prese con il figlio ribelle Corrado, con la fuga della moglie Prassede, già prigioniera, che era stata accolta proprio da Matilde, e soprattutto con l’affermazione delle città comunali. Dopo la morte di Matilde, in un clima nel quale la cerimonia dell’unzione che consacrava i re si era già affermata, il monaco Donizone celebrò la regalità della dinastia dei Canossa, come «astri splendenti» di saggezza, e Matilde nel ruolo della vergine Diana, anzi, della Vergine Maria. Sui due matrimoni e la breve vita di una figlia il monaco non dice nulla35. Molti non dicono nulla, tanto è vero che della bambina è incerto anche il nome. Paolo Golinelli ipotizza che sia stata concepita nel 1070, dopo pochi mesi di matrimonio col Gobbo, e che si sarebbe chiamata Beatrice, come la nonna. La neonata sarebbe morta subito dopo la nascita. Secondo il vescovo di Lucca, Rangerio, la giovanissima madre avrebbe avuto un parto molto difficile che, insieme alla perdita della piccola, la fece fuggire via dal marito per non dover più sottostare alle «gioie malvagie della misera carne»36. Non sappiamo come Goffredo avrebbe reagito a questi propositi di castità della giovane moglie, che si era rifugiata a Firenze dalla madre, perché un agguato gli tolse la vita pochi anni dopo, nel 1076. Una cronaca di parte comunale, quella di Landolfo di Milano, avversa a Matilde, l’accusò di aver armato la mano dei sicari: secondo questa versione, Matilde ispirò l’assassinio del marito 34   Sembra che Matilde sia nata nel 1046 e che alla morte del padre avesse appena sei anni. 35   G.M. Cantarella, L’immortale Matilde di Canossa, in Matilde e il tesoro dei Canossa tra castelli, monasteri e città, a cura di A. Calzona, Silvana Editoriale, Milano 2008, p. 65. 36   P. Golinelli, Matilde e i Canossa nel cuore del Medioevo, Camunia, Firenze 1996, p. 157.

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perché non sopportava di doversi assoggettare al volere di un uomo e voleva governare di persona, dalla Toscana al Lazio. Paolo Golinelli osserva anche che Matilde comunque non si preoccupò di fingere dolore per la morte di Goffredo e trascurò perfino di tributargli i consueti atti di suffragio per la salvezza della sua anima37. In ogni caso, la maggior parte dei racconti coevi accenna appena a entrambi i suoi mariti. Quanto a Guelfo di Baviera, fu una scelta dettata a Matilde nel 1089 dalla necessità di contrastare Enrico IV dopo la morte di Gregorio VII e del vescovo Anselmo da Lucca, secondo la cronaca di Bernoldo di Costanza «per poter intervenire tanto più virilmente in aiuto della santa Chiesa»38. Tuttavia il Pingue cambiò schieramento e si alleò con il nemico del papato, Enrico IV, lasciando la moglie sola ma in grado di difenderne la causa. Su Matilde quindi ci sono poche certezze, ma di una cosa si può essere sicuri: fu protagonista assoluta, con papa Gregorio VII, nella lotta per le investiture e nell’arginare le pretese imperiali. Non appena si affermò come la grande sostenitrice del papato, a metà degli anni Settanta, fu oggetto di voci malevole e di diffamazioni: alcuni l’esecravano per il suo potere, «mostruoso» in quanto ritenuto una usurpazione dell’autorità maschile, mentre altri seguivano gli stereotipi che qualificavano le donne come dissolute e deboli. Da parte imperiale la si accusava di eresia, di essere una sfrontata Jezabel e una spudorata profanatrice delle leggi umane e divine. Alla propaganda filocanossiana non restava che contrapporre a questi luoghi comuni misogini le classiche immagini celebrative delle donne eccezionali, paragonandola alla Vergine Maria (e quindi sorvolando su matrimoni e gravidanza) oppure presentandola in veste virile, come donna superiore al suo sesso. Donne al potere a lei contemporanee, come l’imperatrice Agnese, così come altre che l’avevano preceduta, avevano esercitato il comando in associazione con i mariti e potevano presentarsi nel solco della tradizione, ruolo non adeguato a Matilde, per la quale furono evocate le regine e le donne eroiche della   Ivi, p. 165.   D.J. Hay, The Military Leadership of Matilda of Canossa, 1046-1115, Manchester University Press, Manchester 2008, pp. 198-226. 37 38

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Bibbia per celebrarla come combattente nella guerra santa contro i nemici di Cristo. Così l’obbligo morale di opporsi agli eretici aveva soverchiato le strettoie e i doveri che imponeva la condizione femminile. I sostenitori di Matilde dovettero contrastare l’aggressiva letteratura nata nel clima delle lotte per le investiture: fin dall’antichità le donne erano state rappresentate come deboli e inadatte a combattere, salvo eccezioni più o meno leggendarie, come le Amazzoni. Paolo e i primi padri della Chiesa ribadirono il ruolo subordinato delle donne e Girolamo, commentando il libro di Isaia – particolarmente autorevole tra i contemporanei di Matilde – rappresentò le donne al comando come una metafora della corruzione. Tale riferimento fu particolarmente utile a molti giuristi per argomentare l’opposizione alle donne che si presentavano sulla scena politica e a capo di eserciti39, mentre altri giustificarono la restrizione dell’accesso delle donne a posizioni di comando con la debolezza del sesso. Donne che combattevano o che comandavano c’erano state, ma erano rimaste figure discusse per tutto l’Alto Medioevo, come nel caso delle feroci critiche che vennero rivolte alla regina dei franchi Brunilde nel VI secolo, all’imperatrice Irene nell’VIII e alla contessa Ermengarda di Toscana nel X40. Nella pratica il potere e la forza militare delle donne, in tutta Europa, potevano essere molto temibili. Ermengarda di Toscana ottenne il controllo di tutta Italia, mentre senatrices come Teodora e Marozia parteciparono al governo di Roma. Nell’XI secolo Adelaide, madre di Berta, prima moglie di Enrico IV, fu descritta dal cronachista Arnolfo come una donna guerriera. La contessa Ermessenda di Barcellona comandò eserciti ed ebbe perfino una donna castellana come sua vassalla. Ma le donne erano più vulnerabili degli uomini e Liutprando da Cremona insinuò che Ermengarda avesse conquistato la sua posizione nell’alcova e det39   R. Balzaretti, «These are Things that Men do, not Women»: The Social Regulation of Female Violence in Langobard Italy, in Violence and Society in Early Medieval West, a cura di G. Halsall, The Boydell Press, Woodbridge 1998, pp. 175-199. 40   J.L. Nelson, Queens as Jezabels: The Careers of Brunhild and Bathild in Merovingian History, in Medieval Women, a cura di D. Backer, Blackwell, Oxford 1978, pp. 31-77; Id., Women at the Court of Charlemagne: a Case of Monstrous Regiment?, in Medieval Queenship, a cura di J. Carmi Parsons, St. Martins’ 13, New York 1993, pp. 43-60.

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te inizio a un genere destinato a grande fortuna, descrivendo il governo di Teodora e Marozia come «pornocrazia». Al tempo di Matilde, l’imperatrice Agnese era accusata di avere una relazione scandalosa col vescovo Enrico di Augsburg41. Anche in molte cronache le donne al comando erano descritte come prostitute che usavano il loro corpo per ottenere un potere illegale e funesto mentre Bonizone, vescovo di Sutri, nel Liber ad amicum – una sorta di storia universale delle persecuzioni contro la Chiesa –, descrivendo la reggenza dell’imperatrice Agnese per il figlio Enrico IV, disse di lei che con audacia femminile aveva fatto molte cose superando i limiti imposti al suo sesso. Il fatto che Bonizone parlasse dell’imperatrice con gli stessi termini denigratori – «feminea audacia, feminea licentia» – che avrebbe usato anche per Matilde rivela le profonde radici della sua misoginia, anche se nel caso della contessa fu tenuta a freno dalla gratitudine. Come altri autori legati in vario modo a Matilde che cercarono di far rientrare la sua esperienza negli stereotipi biblici, Bonizone la rappresentò come una donna virile e dai comportamenti inconsueti per il suo sesso. Da parte sua, il cronista Donizone sottolineò la mascolinità di Matilde invertendo gli attributi di genere del suo avversario sul campo: Donizone, enfatizzando la femminilità di Oberto, marchese d’Este e capo della lega imperiale, spiegò come nell’assedio di Sorbara, nel 1084, «lagnandosi come una suora», si fosse dato alla fuga con ignominia di fronte alle milizie di Matilde. In realtà il marchese era morto in combattimento, ma in questo caso l’ironia era un mezzo per depotenziare il disordine del capovolgimento dei ruoli di genere. Altri autori filomatildici scelsero invece esempi classici per far apparire i comportamenti della contessa meno fuori dalla norma, o per fare di lei un’eccezione positiva, celebrandola come nuova 41   P. Golinelli, De Liutprand de Crémone à Donizon de Canossa. Le souvenir de la reine Adelaïde en Italie (X-XII siècles), in Adelaïde de Bourgogne. Genèse et représentations d’une sainteté impériale, a cura di P. Corbet, M. Goullet, D. IognaPrat, Ed. Universitaires de Dijon, Dijon 2002, pp. 95-107. Si vedano anche M.C. De Matteis, Ruoli femminili della politica nel secolo XI, in La contessa Adelaide e la società del secolo XI cit., pp. 27-41; E. Artifoni, La contessa Adelaide nella storia della medievistica, ivi, pp. 7-25, in particolare sulla mitizzazione, in chiave encomiastica, del matrimonio di Adelaide, figlia del marchese subalpino Olderico Manfredi, che portò il Piemonte in dote alla dinastia Savoia.

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Pantasilea. Ma la regina delle Amazzoni, mitica e profana, si prestava anche alla derisione degli avversari. Meglio era forse sottolineare la debolezza di Matilde e spiegare la sua vittoria sull’imperatore con la grazia di Dio, la stessa che aveva permesso a Davide di sconfiggere Golia, ed enfatizzare il disonore di Enrico IV per essere stato sconfitto da una donna. Quando si trattava di invocare, da parte papale, la fedeltà di Matilde, le figure bibliche femminili alle quali si ricorreva erano sempre quelle di Marta e di Maria; quando invece si doveva giustificare la sua attività di guerriera, le eroine bibliche più citate erano Giaele, Debora e Giuditta, attraverso gli esempi delle quali si voleva esprimere la convinzione che la violenza delle donne poteva solo essere suscitata dalla volontà di Dio. In particolare, Matilde venne paragonata alla profetessa Debora, dando origine a una tradizione che le sopravvisse a lungo, a partire dalla Vita Mathildis di Donizone. La classica immagine di Pantasilea ebbe un revival nel Rinascimento, ma attorno al Cinquecento la contessa divenne anche un esempio di virtù per le donne. Il ricorso a figure mitiche o comunque lontane nel tempo era preferito ai precedenti, più vicini e più allarmanti, che offriva l’impero bizantino, dove il potere femminile aveva potuto affermarsi già nell’età tardoantica. Il riferimento più prossimo sembrava essere la reggenza assunta nel 780 dall’imperatrice Irene per il figlio Costantino VI, che all’epoca aveva nove anni. La posizione della reggente aveva però assunto connotati che travalicavano i limiti dell’autorità conferita alle madri nell’interesse degli eredi minorenni. Irene aveva infatti continuato a governare anche quando il figlio raggiunse la maggiore età, dopo averlo deposto, e contro di lei si concentrarono le ostilità per il controllo che esercitò sulle decisioni del Concilio di Nicea del 787, che ripristinò il culto delle immagini42. L’esempio di Irene costituiva un precedente allarmante: per esorcizzare la minaccia che le donne al potere si moltiplicassero, l’Opus Caroli, prodotto alla corte di 42   Per quanto precede si veda L. Garland, Byzantine Empresses. Women and Power in Byzantium AD 527-1204, Routledge, London-NewYork 1999. Questo libro non si pone il problema del potere femminile ma si limita a una compilazione biografica che non si interroga sulla contraddizione fra una società misogina e la presenza di donne sulla scena politica. Sull’imperatrice Irene si rimanda anche a J. Herrin, Women and the Transmission of Power in Medieval Bysantium, in Women Rulers in Europe cit., pp. 16-26.

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Carlo Magno, inserì una collazione di citazioni dei testi biblici e patristici che i primi concili medievali e i canonisti utilizzarono contro le iniziative politiche e militari delle donne. Bonizone di Sutri dettò, nell’ultimo capitolo del Liber de Vita Christiana, delle rigide regole per il comportamento delle donne, tra le quali il divieto di comandare truppe e giudicare i reati, in quanto attività proibite alle donne dalle leggi divine e umane. Il capitolo era ripreso dal canone 19 del Concilio di Nantes del 658, il quale a sua volta si rifaceva in parte al Codex Theodosii (439). Se questi divieti avevano bisogno di essere riportati in auge con tale rigore, non dovevano essere stati osservati alla lettera. In tutti i casi si tentava di impedire l’accesso delle donne alla proprietà, di limitarne le attività alla filatura e alla tessitura e di proibire loro di governare, tacciando di sfrontatezza quelle che rifiutavano di adeguarsi a queste restrizioni – con la specificazione, da parte di Bonizone, «ut non ducatus teneant nec iudicatus regant», cioè proibendo loro di governare feudi e di agire come giudici, appunto quello che invece aveva fatto Matilde. Ma Bonizone, nel precedente Liber ad amicum, aveva celebrato e difeso la contessa: per risolvere questa imbarazzante contraddizione tralasciò di nominarla ma soprattutto ammise che le donne possono «eccezionalmente» governare sugli uomini, ma solo provocando enormi danni ai sudditi, come avevano fatto Cleopatra, la regina dei franchi Fredegonda, e la regina longobarda Rosmunda. 4. Ruoli «per nascita e per natura» Giaele e Debora, nella revisione di Bonizone, venivano presentate come esempi della ύβρις femminile e come un monito alle vedove affinché restassero negli ambiti confacenti alla loro posizione. Le epigoni di Matilde erano avvertite. Comunque, la sua storia suggerisce che i ruoli di genere fra XI e XII secolo erano ancora flessibili e che una donna a capo di eserciti non era considerata particolarmente destabilizzante, almeno per i suoi alleati di parte; tuttavia, a guerra finita, ci si aspettava anche da parte loro che le donne tornassero nei loro ranghi. La lotta per le investiture e la convinzione della santità della guerra combattuta dalla parte del papa avevano dato alla contessa gli strumenti per

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smentire la presunta debolezza del suo sesso, ma nello stesso secolo XI le donne in armatura cominciarono ad essere considerate contro natura: Bonizone finì per conciliare questa contraddizione respingendo le accuse sessualmente infamanti nei confronti di Matilde ma disegnando il canone della femminilità «naturale»43. Paradossalmente, la filoimperiale Vita Henrici costituisce il solo tentativo di giustificare teoricamente il governo femminile, a proposito dell’imperatrice reggente Agnese e di molte regine che avevano amministrato i loro domini con saggezza: l’anonimo non disprezzava le donne al potere in sé, ma solo il potere di Matilde44. Tuttavia, l’immagine edificante della donna intenta a filare e a tessere, possibilmente ignorante anche se altolocata, non corrispose sempre alla realtà, perché i momenti di crisi e di lotta finirono spesso per strapparla dal rassicurante ambito domestico. È vero che iniziarono a diffondersi norme che proibivano alle donne di comandare uomini in armi, ma l’organizzazione militare secondo il modello «feudale» o «famigliare» continuò a fornire loro occasioni di intervenire sui campi di battaglia fino all’inizio del XIV secolo, quando il mestiere delle armi si organizzò professionalmente e dopo che già in precendenza Ivo di Chartres e Graziano (XII secolo) e altri canonisti avevano ripreso gli argomenti più genericamente proibitivi per le donne, diffusi già nei secoli precedenti. Nel 1173 Pietro di Blois scrisse per dissuadere Eleonora d’Aquitania dalla sua ribellione contro il secondo marito, il re d’Inghilterra Enrico II, affermando che una donna non sottomessa al suo sposo viola le leggi di natura, i comandamenti delle Scritture e dell’Apostolo. L’Apostolo era naturalmente il Paolo della Lettera agli Efesini [5, 22-24], che definisce l’uomo capo della donna come Cristo lo è della Chiesa: un passo che ricalca la visione aristotelica del mondo e che si addice a una società che, attraverso la stabilità famigliare, persegue la stabilità politica e sociale. Ma le donne al comando di eserciti non scomparvero, trovando nuovi varchi per emergere nei momenti di discontinuità, di assenza degli uomini, e nelle spinte centrifughe provocate dal processo di accentramento dei poteri del XIV e XV secolo.   Hay, The Military Leadership cit., p. 224.   R.J. Reynolds, Nobilissima Dux. Matilda of Tuscany and the Construction of Female Authority, University of California, Berkeley 2005, p. 84. 43

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In Scandinavia le donne potevano prendere le armi per fare vendetta in mancanza di uomini che vendicassero l’onore della famiglia. Nel tardo XIV secolo il chierico francese Honoré Bouvet nel suo Albero delle battaglie si chiedeva se una donna potesse fare da arbitro in un’ordalia, il giudizio di Dio che si esprimeva a favore del vincitore tra due litiganti che si battevano in duello. Bouvet escludeva che il diritto comune lo concedesse, ma affermava che per consuetudine poteva essere lecito e non escludeva nemmeno che una donna potesse combattere45. Vito Fumagalli ha parlato di una ripresa dell’immagine eroica di Matilde tra XVI e XVII secolo – sulla falsariga delle guerriere di Ariosto e Boiardo ma soprattutto della Gerusalemme Liberata –, come simbolo di virtù combattente a servizio del papato nei decenni delle guerre di religione e dell’acuirsi della lotta contro i turchi. Il suo cadavere fu traslato in San Pietro a Roma – e se ne poté così constatare lo stato –, dove nel monumento funebre fu rappresentata da Lorenzo Bernini come una donna vigorosa con le insegne della regalità: lo scettro che impugna saldamente con la mano destra e il triregno papale che avvolge nel braccio sinistro, in atto protettivo. Su questa figura si colloca un melograno, simbolo della ricchezza delle buone opere. Fumagalli ha segnalato anche il monumento di artista anonimo collocato al Palazzo degli Abati, a San Benedetto Po, alla fine del secolo XVII: qui Matilde è in versione decisamente virile. Spalle possenti, collo massiccio, braccia muscolose, la contessa indossa corazza ed elmo, si appoggia allo scudo, punta la spada. Nella secentesca opera del medico lucchese Francesco Maria Fiorentini il simbolo della spada, retta da un guerriero alla destra di Matilde in trono, si abbina, dal lato opposto, a quello delle Sacre Scritture in mano a un monaco che le porge alla contessa. 45   M. McLaughlin, The Women Warrior: Gender, Warfare and Society in Medieval­ Europe, in «Women’s Studies», 17, 1990, pp. 192-209; V. Eads, Mighty in War: The Role of Matilda of Tuscany in the War between Pope Gregory VII and Emperor Henry IV, UMI Dissertation Services, Ann Arbor 2007. Anche secondo la Eads le vittorie di Matilde non sono eccezionali: sono dovute alla serie di fortificazioni dalle quali attaccava gli alleati di Enrico, rimpiazzava le sue truppe, soccorreva i nemici e si sottraeva alla battaglia finché le condizioni non fossero divenute favorevoli. Fece la guerra come tutti i comandanti medievali, come Guglielmo il Conquistatore e Riccardo Cuor di Leone, e fu considerata per tutta la vita come temibile condottiera (pp. 28-29).

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Matilde regge nelle mani il giglio della purezza ed è avvolta da un manto nel quale sono ricamate delle api, simbolo per eccellenza di un’ampia scelta di virtù femminili e particolarmente adatto a lei in quanto alludeva alla castità, alla vita attiva e alla determinazione nell’attaccare gli aggressori. Alludeva anche agli intenti encomiastici di Francesco Maria Fiorentini, perché l’ape richiama lo stemma dei Barberini. L’immagine si ispira, per esplicita affermazione del curatore della seconda edizione delle Memorie di Matilda, alla miniatura del codice di Donizone, tranne ovviamente per la simbologia delle api, un omaggio di Fiorentini a Urbano VIII, di cui era stato protomedico46. Tuttavia quella secentesca non è stata l’ultima rivisitazione del mito di Matilde; nel 1862, all’indomani dell’Unità d’Italia, veniva pubblicata L’eroina italiana: vi si legge tra l’altro che la scena di Canossa basterebbe sola per fare di Matilde la più grande Eroina che abbia veduto Italia e il mondo, la domatrice degli Imperi, l’arbitra delle sorti della Chiesa e della società, la pacificatrice dell’universo, la donna degli Imperatori e de’ Papi. Enrico, imperatore di Germania, eroe dell’undecimo secolo, domatore de’ Sassoni, vincitore de’ Turringi e degli Ungheri, a’ piedi di Matilde, sospirante e piangente; Gregorio, il più terribile de’ Papi, vinto alle preghiere di questa Vergine, intenerito e commosso, sarà sempre il più bel fatto che ci raccontino le storie, che ci cantino i poeti, che ci dipingano i pittori47.

Eroina vergine, figlia spirituale di papa Gregorio e degli alti prelati che la sostennero, Matilde si accingeva a trovare una nuova legittimazione in un’Italia, unificata sì ma che aveva ancora aperta la questione di Roma. L’auspicio che, attraverso il ricordo della contessa, vista soprattutto in veste di mediatrice tra i due poteri, 46   Delle memorie di Matilda, raccolte da Francesco Maria Fiorentini, seconda edizione illustrata con Note Critiche e con l’aggiunta di molti documenti appartenenti a Matilda e alla di lei Casa da Gian Domenico Mansi, della Congregazione della Madre di Dio, in Lucca MDCLVI, nella stamperia di Vincenzo Giuntini. L’opera originale, che si servì con scrupolo filologico di documenti coevi alla contessa che il medico poté rinvenire negli Archivi Vaticani, era stata pubblicata nel 1645 ed era praticamente introvabile. 47   L’eroina italiana. Storia della contessa Matilde e de’ suoi contemporanei, Tipografia Francesco Monacelli & C., Fossombrone 1862, 2 voll., vol. II, p. 476. L’opera, anonima, è dedicata al vescovo di Fossombrone, Fabrizio Fratellini.

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esprimeva l’autore era quello che il suo ricordo ispirasse un accordo che salvasse il potere temporale del papa. Assai più esplicita è la conclusione di una dettagliata ricostruzione della vita di Matilde fatta tre anni prima da un monaco cassinese che scrisse come epitaffio della sua opera e bilancio conclusivo dell’esperienza umana della contessa: La Matilde, che salmeggia e digiuna, che difende con le armi i pontefici, che lascia a san Pietro i suoi Stati, è la donna clericale. La Matilde, che entra nel concetto d’Ildebrando [di Soana, papa Gregorio VII], che partecipa alle fatiche ed alla gloria della più grande epopea, è la donna della Storia48.

La morale era chiara: che le donne pregassero, sì, ma se fosse servito, che prendessero le armi, in imminenza di un nuovo assalto al trono di Pietro. 48   L. Tosti, La contessa Matilde e i Romani Pontefici, Barbèra, Bianchi & Comp., Firenze 1859, p. 383.

II La successione femminile e le peripezie conseguenti 1. L’eredità di Eleonora Nel 1122, a pochi anni dalla morte di Matilde di Canossa, in Aquitania nasceva Eleonora, figlia primogenita del duca Guglielmo X il Tolosano, e nipote di Guglielmo IX il Trovatore il quale, alla fine del secolo precedente, aveva fatto della corte di Poitiers un centro raffinato di arte e di poesia1. Cresciuta, Eleonora ricevette un’educazione adeguata al suo rango e in nulla inferiore a un gentiluomo, anzi in molti casi ben superiore, se si pensa ai rozzi costumi dei nobili di altri paesi e delle altre regioni della stessa Francia: imparò il latino, la musica, la matematica, la letteratura ma anche a cavalcare e a cacciare. Nel 1130 morì suo fratello Guglielmo l’Ardito e così, a otto anni, divenne l’erede del ducato. Sette anni dopo morì anche il padre ed Eleonora assunse i titoli di duchessa d’Aquitania e di Guascogna, e di contessa di Poitiers. Prima di morire, però, Guglielmo X fece in tempo a concludere il matrimonio fra la propria figlia e il figlio del re Luigi VI di Francia, temendo che Eleonora potesse essere spodestata da qualche vassallo ribelle o da un feudatario confinante. Il duca pensava che sarebbe stato meglio fare della figlia la regina dei due domini unificati: con l’eredità di Eleonora, il regno di Francia si sarebbe 1   Salvo citazioni più puntuali, la narrazione segue R. Pernoud, Eleonora d’Aquitania, Jaca Book, Milano 1989; A. Weir, Eleonora d’Aquitania. La regina di due nazioni, Rizzoli, Milano 2002; J. Flori, Aliénor d’Aquitaine. La reine insoumise, Payot, Paris 2004.

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esteso dalla Loira sino ai Pirenei e al Mediterraneo. Il matrimonio tra Eleonora e il futuro Luigi VII fu celebrato il 25 luglio 1137 a Bordeaux; la sposa aveva quindici anni e lo sposo diciassette. Nella cattedrale di Poitiers entrambi furono incoronati duchi d’Aquitania (Luigi non aveva ancora ereditato il titolo di re), ma il ducato rimase indipendente dalla corona di Francia. Non solo: Eleonora mantenne il titolo di duchessa e Luigi assunse quello di duca consorte; i patti matrimoniali prevedevano inoltre che il loro primo figlio sarebbe stato re di Francia e duca d’Aquitania, e cioè che la fusione dei due domini sarebbe avvenuta con una generazione di ritardo. Luigi VI morì il 1º agosto del 1137, quando gli sposi erano ancora in viaggio per Parigi. Il giovane principe divenne quindi Luigi VII re di Francia. Nel giorno di Natale del 1137 Eleonora venne incoronata a Bourges, mentre per il marito, essendo già stato incoronato a Reims il 25 ottobre 1131 all’età di undici anni, la cerimonia venne solennemente ripetuta. Da subito Eleonora, per il suo temperamento libero e indipendente, non fu ben accetta alla corte francese, estremamente formale: non sapremo mai se fu per questi malumori che le sue intenzioni furono travisate e quanto fondamento avessero le accuse di condotta indecente. Certo non piacevano i lussi che si concedeva, dai gioielli ai costosi arazzi, ma erano soprattutto i trovatori che lei invitava a corte a suscitare scandalo: uno di essi, Marcabru, fu cacciato dal re in persona per le canzoni passionali un po’ troppo esplicite che aveva dedicato alla sua dama, che si sospettava fosse la regina2. Ma se la corte di Parigi era refrattaria alla moda letteraria dell’amor cortese e forse la fraintendeva, Eleonora era certamente mal vista soprattutto per l’influenza che esercitava sul re. La giovane coppia (entrambi avevano meno di vent’anni) prendeva decisioni politicamente azzardate e potenzialmente destabilizzanti, come l’aver suscitato una contesa con papa Innocenzo III per la nomina del nuovo arcivescovo di Bourges; oppure l’aver esercitato pressioni su Rodolfo di Vermandois affinché ripudiasse la moglie, Eleonora di Champagne, per potersi risposare con la giovane Petronilla d’Aquitania, sorella della regina e, a quanto si diceva, invaghita di lui. Ne seguì un conflitto con i parenti della   Pernoud, Eleonora d’Aquitania cit., p. 42.

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sposa – che in effetti venne ripudiata – durante il quale fu conquistata la città di Vitry-en-Perthois; oltre un migliaio di abitanti della città si rifugiarono nella chiesa, alla quale fu dato fuoco. È probabile che, assecondando questa scriteriata passione adolescenziale, sfociata in un massacro che pesò sulla coscienza di Luigi VII, Eleonora più che ai sentimenti della sorella pensasse ad annettersi indirettamente un vasto feudo organizzato attorno ai due castelli di San Quintino e di Péronne. Sul regno di Francia e sulla coppia reale il papa scagliò l’interdetto e la scomunica; il fatto che la coppia principesca non avesse ancora avuto figli sembrava rafforzare l’idea di una disgrazia divina incombente su entrambi. La scomunica fu ritirata solo con l’intervento del venerabile monaco Bernardo di Chiaravalle, consultato di persona dalla regina, che rese così possibile ai sovrani accostarsi ai sacramenti. Quasi a conferma di un ritrovato stato di grazia, nel 1145 Eleonora e Luigi riuscirono ad avere una figlia, Maria. Tuttavia, la continuità dinastica richiedeva un maschio. Per giunta, l’interdetto non era ancora stato tolto. Questa punizione – che per una comunità o anche per un’intera nazione equivaleva alla scomunica per un individuo – sospendeva tutte le manifestazioni pubbliche di culto e faceva sì che tutte le chiese venissero chiuse e che non fossero suonate le campane per scandire le funzioni della giornata. Ancora una volta Eleonora sollecitò e seguì le raccomandazioni di Bernardo di Chiaravalle, e per acquistare meriti presso il papa spinse Luigi a partecipare alla seconda crociata; lei lo avrebbe accompagnato in Terrasanta come pellegrina. Col suo seguito di trovatori, di dame e di bauli, Eleonora salpò nel giugno del 1147. Con la crociata cominciarono le tensioni fra i coniugi, sembra anche per la parte avuta da Eleonora nella disfatta subita al monte Cadmo, dalla quale il re si salvò miracolosamente. Eleonora era alla testa dell’avanguardia composta da vassalli aquitani e avrebbe contravvenuto agli ordini di aspettare la retroguardia con il re e i pellegrini, che furono massacrati dai turchi. Non mancarono accuse di carattere sessuale (Eleonora era una donna di potere che doveva essere ormai invisa), e cioè di avere una tresca con lo zio Raimondo di Poitiers, ad Antiochia. D’altra parte, Raimondo mancò di rendere omaggio al re di Francia: in definitiva, Luigi sembra aver patito soprattutto per la sua scarsa attitudine milita-

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re e perché si rese conto di essere costantemente eclissato dalla brillante personalità della moglie. Il matrimonio, comunque, era in crisi e i due sposi non riuscivano a mantenere nemmeno un accordo di facciata: nel 1149 Luigi VII ed Eleonora ritornarono dalla crociata e arrivarono in Italia, via mare, separatamente. Nell’abbazia di Montecassino si ricongiunsero incontrandosi per iniziativa di papa Eugenio III, che riuscì temporaneamente a farli riconciliare. Rientrarono in Francia e nel 1150 nacque una seconda figlia, Alice, ma ciò non contribuì a consolidare l’unione, e i contrasti continuarono. L’11 marzo 1152 gli arcivescovi di Bordeaux, Rouen, Reims e il primate di Francia si riunirono nel sinodo di Beaugency, che il 21 marzo (un tempo record!) sancì con la benedizione papale la nullità del matrimonio per consanguineità di quarto grado. Le due figlie venivano dichiarate legittime e sarebbero rimaste presso la corte francese, mentre tutti i possedimenti di Aquitania e Guascogna venivano restituiti ad Eleonora. Con la sottrazione di questa parte non indifferente alla corona francese, la dinastia reale si ritrovava più povera mentre Eleonora acquistava un’arma potentissima da spendere sul piano internazionale. Appena giunta a Poitiers, inviò un messaggio al duca di Normandia, Enrico Plantageneto, erede al trono d’Inghilterra, affinché la raggiungesse e la sposasse. Sei settimane dopo l’annullamento del precedente matrimonio, il 18 maggio 1152, nel giorno di Pentecoste, si celebrarono le nozze tra Eleonora ed Enrico. Lei era più anziana di undici anni; alla morte del suocero Goffredo il Bello, del quale si mormorava che fosse stato uno dei suoi amanti, il 19 dicembre 1154 Eleonora divenne regina d’Inghilterra e il marito fu incoronato come Enrico II. Tra la fine del 1166 e il 1167 Enrico, che non aveva mai smesso di frequentare altre donne, lasciò che il suo rapporto con Rosamond Clifford divenisse di pubblico domino. Nel 1167 fu celebrato il matrimonio tra una figlia della coppia reale, Matilde, e il duca di Baviera e di Sassonia Enrico il Leone; Eleonora rimase in Inghilterra con Matilde per preparare le nozze, iniziando un periodo di separazione da Enrico. Con maggiore chiarezza rispetto a quanto era successo con il primo marito francese, quella fra il re e la regina di Inghilterra non fu una crisi matrimoniale ma una pericolosa crisi di successione alimentata dagli stessi famigliari di Enrico. Il figlio ed erede al

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trono Enrico il Giovane, debole di carattere e circondato da consiglieri nemici del padre, nel 1173 organizzò una ribellione contro di lui. Si recò a Parigi, da dove, aizzato da Luigi VII – certo antagonista di Enrico II in quanto partecipe della sovranità d’Aquitania e di Guascogna e forse anche non immune da qualche strascico di gelosia nei confronti di un uomo più giovane che aveva preso il suo posto a fianco di Eleonora –, lanciava accuse e calunnie contro suo padre. Enrico il Giovane si recò poi segretamente in Aquitania, dove i fratelli Riccardo e Goffredo vivevano alla corte di Poitiers, presso la madre, ormai apertamente separata dal secondo marito. Qui l’erede al trono d’Inghilterra incitò i fratelli, sembra col consenso di Eleonora, a unirsi a lui nella ribellione. Enrico II riuscì a sconfiggere i ribelli solo nel 1174, quando la regina, che ad aprile aveva lasciato Poitiers e si era diretta in abiti maschili verso Parigi, venne intercettata lungo la strada, arrestata e inviata al re Enrico a Rouen. L’8 luglio 1174 il re si imbarcò per l’Inghilterra portando con sé Eleonora, che, appena arrivati a Southampton, fu imprigionata. Poco tempo dopo i tre figli fecero atto di sottomissione al padre e l’insurrezione finì. Eleonora rimase in carcere in Inghilterra per poco meno di sedici anni, in luoghi diversi. Nel 1176 morì Rosamond Clifford, il grande amore di Enrico II. Il legame era nato nel 1166 e sembra che fin dal 1173 il re considerasse seriamente l’idea di divorziare da Eleonora, ma c’era il non piccolo deterrente della perdita dei domini francesi della moglie. Nel 1175 Enrico II pensò addirittura di chiudere Eleonora nel convento di Fontevrault, per farle prendere i voti di povertà e convincerla a rinunciare a tutti i suoi titoli e ai suoi feudi, ma evidentemente Eleonora non si lasciò piegare. È improbabile che – pur nel suo stato di reclusa – i figli non abbiano avuto un ruolo determinante nell’impedire che fosse costretta con mezzi brutali a decisioni contrarie ai suoi interessi, o semplicemente soppressa. Quando Rosamond morì per cause non chiarite, Enrico lasciò circolare la voce che fosse stata avvelenata con la complicità di Eleonora, la quale si professò sempre innocente affermando che, anche se lo avesse voluto, non avrebbe potuto farlo perché era sorvegliata costantemente. È evidente che il re voleva sciogliere con ogni mezzo il legame con la moglie, a prescindere dalla sincerità del suo attaccamento a Rosamond. Sullo sfondo delle tensioni con la Francia, che il

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matrimonio con Eleonora non aveva appianato, questa storia servì a dare una lettura passionale dei contrasti politici e del ruolo ambiguo che la regina giocava, divisa com’era fra due appartenenze, tanto da condividere la ribellione dei figli contro il padre, a sua volta fomentata da Luigi VII. A distanza di secoli, peraltro, questa leggenda di amore e di morte, che metteva in scena due tipi antitetici di donna, era ancora molto nota. La struggente ballata che venne diffusa a stampa a tiratura popolare, presumibilmente nei primi decenni del Cinquecento, non è datata ma certo era ancora ben conosciuta negli anni centrali del XVI secolo, nel vivo delle polemiche sulla malvagità delle regine Tudor. Quest’immagine postuma di Eleonora era diffusa da versi che raccontavano la sua ira e l’inutile tentativo di Enrico II di calmarla dopo che la regina aveva accertato la verità del tradimento. Il re aveva allora costruito una fortezza a Woodstock dove poter custodire la sua amata, che dovette presto lasciare per combattere sul suolo francese contro i ribelli fomentati dal suo stesso figlio. Dopo un accorato commiato, Enrico era partito non sapendo che non avrebbe mai più rivisto l’adorata Rosamond, perché Eleonora, divorata dalla gelosia, si era precipitata a Woodstock. Qui, il cavaliere al quale il re aveva affidato la chiave della fortezza l’aveva consegnata alla regina. Colpita e ferita dalla bellezza di Rosamond, Eleonora l’aveva costretta a spogliarsi delle sue ricche vesti e a indossare abiti da lutto, preannunciandole così la morte. La giovane si era buttata ai suoi piedi e aveva promesso di ritirarsi in monastero se le fosse stata risparmiata la vita, ma inutilmente: la regina l’aveva costretta a bere una coppa di veleno3. In una raccolta precedente, la stessa ballata era già inserita al primo posto con un titolo lievemente diverso – A mournefull Dittie on the death of faire Rosamond, King Henrie the seconds Concubine – che esprime in versi la gelosia di Eleonora e divulga la sua colpa4: 3   In T. Deloney (1543?-1600), The garland of good-will divided into three parts: containing many pleasant songs and pretty poems to sundry new notes: with a table to find the names of all the songs / written by T.D., 1678; la prima ballata è A Mournful Ditty on the Death of Rosamond, King Henry the Second’s Concubine. 4   Strange histories, or, Songs and sonnets, of kinges, princes, dukes, lords, ladyes, knights, and gentlemen and of certaine ladyes that were shepheards on Salisburie plaine: very pleasant either to be read or songe, and a most excellent warning for all estates, 1612.

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Sweete Rosamond that was so faire, out of her curious Bower I brought, A poysoned Cup I gaue her there, whereby her death was quickly wrought, The which I did with all despight, Because she was the Kings delight5.

La regina è a sua volta protagonista di un «lamento» sulla sua lunga detenzione6. Deloney continuò a riscuotere un largo successo popolare: le sue ballate venivano ristampate a molti decenni dalla sua morte con qualche modifica: nella Royal garland of love and delight, edita nel 1674, dopo l’immancabile Life and Death of Lady Rosamond, King Henry the second’s Concubine compariva ancora il «lamento» struggente di Eleonora, nel quale la duchessa d’Aquitania veniva presentata nell’infelice condizione alla quale l’avevano condotta le sue colpe: non solo la gelosia omicida, ma l’aver aizzato i figli contro il padre. La punizione: una prigionia lunga sedici anni, il rimorso, e il non aver più rivisto il re7. 2. La maledizione di Eleonora Nel 1183 Enrico il Giovane, nominalmente duca di Normandia, si ribellò nuovamente e con l’aiuto delle truppe del fratello Goffredo e di quelle del cognato, il re di Francia Filippo Augusto (1165-1223) – il sospirato erede che Luigi VII aveva avuto dalla seconda moglie, Adele di Champagne –, tese un’imboscata al 5   «La dolce Rosamond che era così bella / la portai fuori dal suo sicuro nascondiglio / là le diedi una coppa avvelenata / a causa della quale la morte la raggiunse presto / la qual cosa io feci con tutto il mio rancore / perché lei era il caro amore del re». 6   The imprisonment of Queene Elinor, wife to King Henrie the second, by whose meanes the King Sonnes so vnna|turally rebelled against their Father, & of her lamentati|on, being xvi. yeares in Prison, whom her Sonne Richard when he came to be King, released: and how at her de|liuerance, she caused many Prisoners to be set at libertie. 7   Royal garland of love and delight containing the lives of sundry kings, queens, and princes: with other love songs and sonnets full of delight / by T.D.; whereunto is added a rare new sonnet of the restauration of our royal soveragn [sic] Charles the Second.

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padre a Limoges. Enrico II assediò la città costringendo il figlio a fuggire e girovagare per l’Aquitania, dove si ammalò. Prima di morire domandò perdono al padre e gli chiese di liberare la madre e i suoi compagni ribelli. L’intreccio famigliare-patrimoniale fra i Plantageneti e il re francese continuava ad essere stretto e il duplice matrimonio di Eleonora lo aveva rafforzato. Alla morte di Enrico il Giovane, Filippo Augusto reclamò infatti, per conto della sorella Margherita, detta la Giovane regina (in quanto moglie di Enrico il Giovane) alcune proprietà in Normandia; ma il re Enrico non le consegnò, perché riteneva che alla morte del figlio dovessero ritornare in possesso di Eleonora, che in questa circostanza tornò a essere apertamente considerata come moglie del re, al cospetto del quale fu convocata alla fine dell’estate del 1183. I beni patrimoniali di Eleonora avrebbero potuto così, attraverso la successione dei figli di entrambi, essere incorporati nell’asse ereditario della dinastia dei Plantageneti. Iniziò per la regina, in Normandia, un periodo di sei mesi di semilibertà, alla fine del quale tornò in Inghilterra. Erano i primi giorni del 1184; negli anni seguenti Eleonora fu spesso in compagnia del marito, condividendo con lui anche atti di governo, ma non fu mai realmente libera, perché fu sempre sotto sorveglianza. Nel 1186 morì il figlio Goffredo, duca di Bretagna, durante un torneo alla corte di Francia. Il 6 luglio 1189 morì anche Enrico II e Riccardo, essendogli subentrato come sovrano d’Inghilterra, fece immediatamente liberare la madre. Quando Riccardo partì per la terza crociata, Eleonora governò in nome del figlio e sopravvisse anche a lui, che morì nel 1199, mentre i grandi d’Inghilterra e Normandia riconoscevano come re Giovanni, il figlio più giovane di Enrico ed Eleonora. Con la sua ascesa al trono venne stabilita una tregua tra Inghilterra e Francia che prevedeva un progetto di matrimonio tra il dodicenne Luigi, figlio di Filippo Augusto, e una delle due nipoti di Giovanni, Urraca e Bianca, figlie della sorella Eleonora (che aveva lo stesso nome della madre) e di Alfonso VIII di Castiglia. Giovanni incaricò la madre, che allora aveva settantasette anni, di recarsi in Castiglia per scegliere quale delle due nipoti proporre al re di Francia. Eleonora vi giunse, dopo non poche peripezie, nel gennaio del 1200, e vi trascorse due mesi, alla fine dei quali scelse la più giovane: Bianca (1188-1252). Nonna e nipote attraversarono i Pirenei e rientrarono in Francia arrivando

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a Bordeaux per la Pasqua. Affidata Bianca all’arcivescovo, Eleonora, ormai stremata, si ritirò nell’abbazia di Fontevrault, dove all’inizio dell’estate il figlio Giovanni le fece una visita. Nei primi mesi del 1201 Eleonora non aveva ancora del tutto recuperate le forze ma, quando riprese la guerra tra Giovanni e Filippo Augusto, sostenne il figlio; e quando il nipote Arturo – figlio postumo di suo figlio Goffredo –, alleato di Filippo Augusto, cercò di prendere il controllo dell’Aquitania, Eleonora lasciò l’abbazia per raggiungere Poitiers; Arturo lo venne a sapere e riuscì a bloccarla e ad assediarla nel castello di Mirabeau. Giovanni accorse allora in soccorso della madre, sconfisse gli assedianti e fece prigioniero il nipote che, incarcerato, morì nel 1203, forse avvelenato dallo zio. Eleonora, nel 1202, rientrò all’abbazia di Fontevrault, dove prese il velo, e nel 1204 morì, dopo aver sepolto otto dei suoi dieci figli: le sopravvissero solo Giovanni ed Eleonora. Il racconto della vita di Eleonora d’Aquitania, la «regina di due nazioni», rappresenta un concentrato di luoghi comuni che negli ultimi anni la storiografia ha cercato di decostruire. Uno dei temi scandalistici su cui si è esercitata Peggy McCracken è il presunto legame incestuoso con lo zio Raimondo ad Antiochia, avvalorato dalle cronache coeve, alcune delle quali davano credito anche alla diceria di una passione adulterina di Eleonora per il sultano mentre si trovava in Terrasanta8. Ma è soprattutto Martin Aurell che ha riesaminato le cronache senza alcun obiettivo di «ria­bilitazione della memoria» e ha discusso gli eventi alla luce delle categorie politiche dell’epoca. Aurell confronta infatti i racconti sui comportamenti sessuali della regina con le fonti sulle quali si basa la costruzione del mito della sfrenatezza di Eleonora, che è a sua volta fondato sul racconto dei due pretesi legami illeciti della regina: il primo già ricordato con lo zio Raimondo, nel marzo 1148, e l’altro con Goffredo il Bello, conte d’Angiò, futuro suocero di Eleonora, durante un soggiorno a Parigi nel settembre 1151. Il primo episodio, esposto come un conflitto coniugale, ha una forte connotazione politica: si sa che Luigi VII voleva marciare su Gerusalemme per adempiere a un voto ed espiare il massacro sacri8   P. McCracken, Scandalizing Desire: Eleanor of Aquitaine and the Chroniclers, in Eleanor of Aquitaine: Lord and Lady, a cura di B. Wheeler e J. Carmi Parsons, Palgrave Macmillan, New York 2002, pp. 247-263.

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lego di Vitry-en-Perthois di alcuni anni prima, nella speranza di far togliere l’interdetto alla Francia. Raimondo, miglior stratega, riteneva invece più importante puntare verso nord e realizzare l’obiettivo militare della spedizione, ossia la presa di Edessa. Nel luglio, il fallimento del breve assedio di Damasco aveva dato ragione a Raimondo. Infatti Luigi non riuscì a conquistare la città e a impedire il fallimento della seconda crociata. Eleonora aveva sostenuto la posizione dello zio contro quella del marito. Questo suo comportamento non poteva non apparire scandaloso agli occhi dei contemporanei e suscitare indignazione, configurandosi come un tradimento politico-sessuale: due piani che si intrecciano inevitabilmente quando le donne raggiungono livelli alti di esposizione pubblica. Tre anni dopo il suo soggiorno ad Antiochia, Eleonora incontrò per la prima volta Enrico, e suo padre Goffredo il Bello, a Parigi: questo evento, secondo le cronache di Guillaume de Newburgh e di Gervais de Cantorbéry, avrebbe accelerato la fine del matrimonio con Luigi VII. Ma mentre la prima cronaca insiste sulla passione che sarebbe nata tra Eleonora ed Enrico, l’altra sottolinea invece l’interesse che Eleonora avrebbe avuto a spostare l’asse di gravitazione dei suoi domini personali verso l’Inghilterra più che verso la Francia, forse anche mal tollerando l’inettitudine dimostrata dal marito nel corso della spedizione in Terrasanta. Il matrimonio, che avvenne pochi mesi dopo l’annullamento del vincolo con Luigi VII, fece nascere voci e pettegolezzi riportati da Gautier Map e Giraud de Barri, che scrissero trent’anni dopo la morte di Goffredo il Bello, preteso amante della regina. Gli eventi giustificavano il recupero tardivo – o l’invenzione – di quelle dicerie che i contemporanei non avevano ritenuto di divulgare ma che tornavano utili per demonizzare la regina, che avrebbe commesso così un «incesto di secondo tipo», ovvero l’unione carnale con un padre e con il figlio di lui. Inoltre, stando alle cronache di Guillaume de Newburgh e di Gervais de Cantorbéry, Enrico ed Eleonora sarebbero stati anche bigami perché la decisione dell’annullamento non sarebbe stata valida, come già aveva segnalato Giraud de Barri, secondo il quale Enrico II si era preso la donna di Luigi VII per combatterlo meglio, macchiandosi quindi di fellonia. Infine, eccezione immancabile, la non validità del matrimonio derivava anche dalla consanguineità fra i due sposi. Le nozze sarebbero state quindi doppiamente ince-

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stuose e la parentela fra i due coniugi, sia pure remota, costituiva un’aggravante dell’adulterio commesso con il suocero e seguito dalle nozze col figlio. Gautier Map e Giraud de Barri attribuiscono a queste colpe le sciagure della progenie «maledetta» di Enrico ed Eleonora, messa al mondo «contro natura» e caduta in disgrazia proprio nel momento della massima gloria dei Plantageneti, facendo derivare dall’incesto le lotte famigliari che seguirono: dei figli contro Enrico, fomentate dalla stessa Eleonora; dei fratelli tra di loro; di Arturo contro la nonna. Il rapporto fra l’odio per i genitori e l’incesto è un tema ricorrente della cronachistica medievale. Le accuse di Gautier Map e di Giraud de Barri a Eleonora s’inseriscono in questo contesto di lotte interfamigliari che vengono fatte risalire alla colpa della regina, adultera e seduttrice; appoggiandosi anche al preteso affaire di Antiochia con lo zio Raimondo, i cronachisti pronunciano la condanna morale della pratica dell’endogamia, della eccessiva confidenza tra parenti di sesso opposto e della sfrenata passione coniugale. Martin Aurell conclude che il valore di queste fonti, straordinario per la storia della mentalità e della religiosità medievale, è nullo come testimonianza sulla vita privata di Eleonora9, confermando che gli occhi dei contemporanei, più che essere puntati sul vero privato delle regine, sono impegnati a trasmettere un’immagine del loro ruolo pubblico costruita sui modelli culturalmente condivisi di femminilità. Da parte sua, Ralph Turner ha voluto sfatare il mito della frivolezza di Eleonora e del suo comportamento egoistico nei confronti dei figli, affermando che gli ultimi quindici anni della sua vita di vedova e madre furono dedicati senza risparmio a loro e che in tarda età essa spese ogni residua energia per mantenere l’integrità territoriale del regno di Enrico II, prima per Riccardo e poi per Giovanni10. Aurell osserva che, nel caso di Eleonora come in quello di altre regine, non si tratta di difenderle da accuse, che possono essere vere o no a seconda dei 9   M. Aurell, Aux origines de la légende noire d’Aliénor d’Aquitaine, in Royautés imaginaires (XIIe-XVIe siècles), a cura di A.H. Allirot, G. Lecuppre, L. Scordia, Brepols, Turnhout 2005, pp. 89-102. 10  R.V. Turner, Eleanor of Aquitaine in the Governments of Her Sons Richard and John, in Eleanor of Aquitaine: Lord and Lady cit., pp. 77-95.

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casi e che se fossero limitate alla sfera privata sarebbero del tutto marginali, ma di scoprire nel linguaggio del privato il messaggio politico che si è voluto trasmettere. 3. Bianca alla corte del re di Francia Che il ruolo politico di Eleonora nella missione che le fu affidata in Castiglia non fosse così nascosto è evidente: se Giovanni Senza Terra mandò una donna quasi ottantenne, d’inverno, a varcare i Pirenei per compiere una missione sulla delicatezza della quale non ci sono dubbi – si trattava di tentare un’alleanza con il re di Francia – significa che aveva un’opinione precisa sull’acume politico e sulla vitalità di sua madre11. Del resto Eleonora, come sua feudataria, si era subito affrettata a rendere omaggio a Filippo Augusto – figlio di Luigi VII e della sua seconda moglie Adele di Champagne – quando era diventato re. Giovanni e la madre volevano assicurare, attraverso un matrimonio, il diritto di una discendente dei Plantageneti alla successione in Francia (Giovanni, ultimo figlio maschio di Enrico II, non aveva ancora figli). La missione della vecchia regina consisteva nello scegliere come sposa per l’erede di Filippo Augusto una delle due figlie dell’unica figlia femmina che le era rimasta, Eleonora: abbiamo visto che la nonna preferì Bianca, la minore. Bianca e Luigi, l’erede al trono di Francia, si sposarono il 23 maggio 1200, quando Bianca aveva dodici anni. Le nozze furono celebrate in Normandia, territorio di sovranità inglese, perché la Francia era stata di nuovo colpita dall’interdetto (13 gennaio), avendo Filippo Augusto ripudiato la moglie danese e vivendo una condizione di bigamia dopo il matrimonio con Agnese di Meranie. È presumibile che il matrimonio non sia stato consumato subito, data la giovane età di Bianca. Non sappiamo se la regina avesse avuto precedenti aborti, in ogni caso la sua prima gravidanza portata a termine tardò: partorì un maschio, Filippo, solo 11   Il profilo che segue è ricalcato su R. Pernoud, Bianca di Castiglia. Una storia di buongoverno, ECIG, Genova 1994 (ed. orig. 1972). Il più recente E. Bonoldi Gattermayer, Bianca di Castiglia, regina di Francia e madre di un santo, Jaca Book, Milano 2005, non mi sembra aggiungere molto dal punto di vista interpretativo.

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il 9 settembre 1209. I rapporti di forza tra Francia e Inghilterra, negli anni successivi, si sarebbero capovolti e, mentre il bambino veniva alla luce, il nonno Filippo Augusto pensava già di forzare la mano e sbarcare in Inghilterra per subentrare a Giovanni, soprannominato allora Senza Terra, ormai privo di seguito, rivendicando i diritti della nuora e quindi di suo figlio e suoi sulla corona dei Plantageneti. Tuttavia, il piano fallì perché il re inglese, noto come miscredente (non si era accostato ai sacramenti neppure in occasione delle sue nozze), si era messo sotto la protezione del papa, rendendo i suoi domini inviolabili. Fu invece Giovanni ad approdare a La Rochelle, con un esercito di mercenari: all’erede al trono Luigi, che si era guadagnato il soprannome di Leone combattendo contro i catari, gli eretici della Francia del Sud, toccò affrontarlo fino a metterlo in fuga. Contemporaneamente, il 27 luglio 1214 Filippo Augusto aveva fermato a Bouvines12 l’attacco sferrato dalle Fiandre da Ottone di Brunswick, figlio di una sorella di Giovanni e quindi pretendente all’eredità dei Plantageneti allo stesso titolo di Bianca, che nell’aprile precedente aveva partorito un altro maschio che aveva chiamato Luigi, come il padre. Luigi il Leone sembrava soprattutto interessato a recuperare l’eredità della moglie e impaziente di sbarcare in Inghilterra contro Giovanni, accusato, in quell’occasione, di aver avvelenato il nipote Arturo che in verità, essendo nipote ex fratre e non ex sorore, come Bianca od Ottone di Brunswick, aveva probabilmente più diritti di tutti gli altri eredi e doveva apparire ingombrante più ai cugini che allo zio. Luigi entrò a Londra il 2 giugno 1216. Alla fine di luglio gli resistevano solo tre fortezze, di cui una difesa da una donna, Nicole de la Haie, «una vecchia vigorosa e di grande ingegno»13. Sembrava che l’Inghilterra fosse ormai saldamente in mano a Luigi. Ma oltre alla vecchia normanna Nicole, si opponeva al progetto dell’ambizioso principe capetingio l’esistenza di un giovane erede di Giovanni, il quale, dopo aver ripudiato la sterile Isabella di Gloucester, si era sposato una seconda volta nel 1200 e aveva avuto finalmente il primo figlio, Enrico, che nell’otto12   G. Duby, La domenica di Bouvines. 27 luglio 1214, Einaudi, Torino 1977 (ed. orig. 1973). 13   Pernoud, Bianca di Castiglia cit., p. 84.

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bre 1216, quando Giovanni morì, aveva nove anni14. L’intervallo, niente affato breve, fra il matrimonio e il concepimento doveva aver fatto sperare a Luigi il Leone che la sterilità fosse da attribuire al re (cosa peraltro smentita da numerosi figli bastardi). Nicole de la Haie, dopo lo sbarco di Luigi avvenuto il 22 aprile 1217, mobilitò nel suo castello di Lincoln tutti i baroni fedeli al piccolo re Enrico. Contro un esercito due volte più numeroso, l’ottuagenario tutore del re, Guglielmo il Maresciallo15, tra il 19 e il 20 maggio mise in fuga gli assedianti mentre Nicole catturava circa quattrocento prigionieri. La corona di Enrico III era salva grazie a un vecchio condottiero e a una vecchia feudataria bellicosa. Il 14 luglio 1223 morì Filippo Augusto e meno di un mese dopo Luigi VIII e Bianca furono incoronati solennemente a Reims. Fiandra e Normandia, la prima soggetta al re di Francia ma fedele ai Plantageneti, la seconda strappata da poco all’Inghilterra, facevano temere rivolte, ma al momento si era stabilita una tregua fra i due regni, sebbene Enrico III potesse far leva proprio su Fiandra e Normandia per conquistare i territori perduti. Luigi VIII, dopo aver dovuto rinunciare all’Inghilterra, si rivolse verso sud, in quella Linguadoca dove si era diffusa l’eresia dei catari, e assediò Avignone. Le fatiche di quella campagna gli furono fatali e morì l’8 novembre. Le numerose defezioni susseguitesi durante le operazioni di guerra lasciarono dietro questa fine improvvisa lo strascico di sospetti di morte violenta, forse per avvelenamento di una coppa di vino. La regina quasi impazzì per il dolore. Il 29 novembre, all’età di dodici anni, venne incoronato Luigi IX. Per volontà testamentaria il defunto re aveva affidato all’amatissima moglie l’amministrazione del regno e quindi Bianca avrebbe governato da sola: non si trattava di una reggenza, in quanto gli atti ufficiali venivano firmati indifferentemente da lei o dal figlio, e comunque fino alla maggiore età del re le decisioni furono prese esclusivamente da lei. Nel 1231, quando il figlio aveva vent’anni, Bianca provvide a dargli una moglie e anche in questo caso la 14   Sul secondo matrimonio di Giovanni si veda J.W. Chester. Isabelle d’Angoulême, By the Grace of God, Queen, in «Revue belge de philologie et d’histoire», 69, 1991, 4, pp. 821-852. 15   Su di lui vedi G. Duby, Guglielmo il Maresciallo. L’avventura del cavaliere, Laterza, Roma-Bari 1993 (ed. orig. 1984).

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sua scelta fu politica, cadendo su Margherita, figlia del marchese Raimondo VII di Provenza, feudatario fra i più indocili. Luigi e Margherita, che allora aveva tredici anni, si piacquero subito, ma nuora e suocera non si piacquero per niente: Bianca continuò a usare lo stesso pugno di ferro con cui aveva soavemente manovrato il marito e manovrava il figlio. La frase del cronista Joinville citata da Régine Pernoud è significativa: «la regina Bianca poteva ammettere che suo figlio s’intrattenesse con la moglie solo di sera, quand’essi si ritiravano nelle loro stanze»16 che si deve interpretare come il rifiuto di avere una rivale nel governo del regno e come l’espressione brutale della volontà di volerne circoscrivere il ruolo ai compiti «femminili» di moglie e madre, tanto più che Bianca era consapevole di essere di stirpe reale e quindi superiore per nascita alla nuora. Nel 1249 Luigi IX raggiunse i fratelli alla settima crociata, nel corso della quale fu fatto prigioniero e liberato dietro un riscatto, ma rimase a lungo in Terrasanta per organizzare una difesa che si capiva ormai disperata, nonostante la grande mobilitazione di tutta la cristianità e della Francia in particolare. Il fratello Roberto era morto a Mansurah. Margherita, la regina, aveva condiviso l’avventura in Terrasanta, vi aveva partorito tre figli, si era occupata del riscatto del marito. Nel 1252 Bianca era morta, senza rivedere il figlio. Margherita ora poteva aspirare a guidare lei la mano e i pensieri del re e non c’è dubbio che intendesse farlo, forse per imitazione della suocera, forse per rivalsa su di lei: nel 1263 Luigi IX venne a sapere che la moglie aveva imposto al principe ereditario Filippo di giurarle di rimanere sotto la sua tutela almeno fino ai trent’anni «e di ascoltare solo i suoi consigli, non ubbidendo a nessun altro»17. All’epoca Luigi IX aveva quarantanove anni e già Margherita si prefigurava la vedovanza come riscatto dal ruolo di secondo piano che aveva dovuto giocare nel regno, forse ritenendo imminente la morte del re, dato il grave stato di prostrazione a cui Luigi era stato ridotto dalla dissenteria durante la crociata. La reazione del re fu mite ma inesorabile: Margherita uscì dalla scena politica. Luigi invece partì nel 1270 per l’ottava crociata contro l’emirato

  Pernoud, Bianca di Castiglia cit., p. 172.   Ivi, p. 273.

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di Tunisi: fu un disastro per tutti, ma soprattutto per lui, che fu stroncato, questa volta mortalmente, dalla dissenteria. Come era prassi comune, il cadavere venne bollito e disossato: il cuore arrivò fino a Parigi, dopo un lungo viaggio contrassegnato da entusiastici omaggi a espressione della devozione popolare per la sua persona, alla quale furono attribuiti numerosi miracoli. Fu così confermata la fama di santità della quale il re aveva goduto anche in vita, grazie alla sua grande devozione e alla sua incondizionata partecipazione alle crociate. Luigi IX fu canonizzato nel 1297 da Bonifacio VIII con il nome di san Luigi dei Francesi. 4. La «quenouille» e la legge salica Il figlio di Luigi il Santo e di Margherita, divenuto re Filippo III (1245-1285), aveva sposato Isabella, figlia del re Giacomo d’Aragona. Nel luglio 1270, Isabella accompagnò il marito e il suocero a Tunisi per l’ottava crociata e nell’agosto dello stesso anno divenne regina, per la morte di Luigi IX, ma praticamente lo fu solo di nome: cinque mesi dopo, al suo ritorno in Francia, cadde da cavallo e morì insieme al quinto bambino che stava aspettando. Il suo primogenito, Luigi, sarebbe morto per avvelenamento, forse per mano della matrigna, Maria di Brabante, sposata da Filippo III nel 1274. Fu comunque un figlio di Isabella, Filippo IV detto il Bello (1268-1314) a succedere al padre sul trono di Francia, nel 1285, un anno dopo aver sposato Giovanna I, regina di Navarra. Il titolo di Giovanna le apparteneva per nascita e per eredità e non derivava dalla sua condizione di regina consorte: il suo regno, che comprendeva le regioni di Brie e Champagne, alla sua morte passò non al marito ma alla nipote Giovanna II, figlia primogenita di suo figlio, re Luigi X, detto l’Attaccabrighe, la quale ereditò la Navarra e le altre terre dopo la morte del padre, nel 1316. All’epoca Giovanna, orfana anche della madre Margherita di Borgogna, morta nel 1315, fu affidata alla tutela dello zio Filippo il Lungo, conte di Poitiers, nominato temporaneamente reggente in attesa della nascita del bambino che la sua matrigna, Clemenza d’Ungheria, avrebbe partorito, nel mese di novembre. L’Attaccabrighe non aveva perso tempo a piangere Margherita, ma è comprensibile: la Francia rischiava per la prima volta

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II. La successione femminile e le peripezie conseguenti Filippo III l’Ardito 1270-1285

Filippo IV il Bello 1285-1314

Luigi X l’Attaccabrighe 1314-1316

Giovanni I il Postumo 1316

Filippo V 1316-1322

Giovanna privata del diritto alla corona

Carlo di Valois † 1325

Carlo IV il Bello 1322-1328

Filippo III di Navarra 1328-1343

Carlo II il Malvagio 1349-1387

Isabella

Edoardo II 1307-1327

Edoardo III 1327-1377

Filippo VI 1328-2350

Giovanni II il Buono 1350-1364 Legenda: Re di Francia Re d’Inghilterra Re di Navarra

dopo secoli di non avere eredi maschi al trono e quindi di cadere nelle mani di una donna – tomber en quenouille – evento che fu fatto apparire come catastrofico non in sé ma perché offriva un varco alle pretese dei sovrani inglesi, che già possedevano l’Aquitania e altri feudi per eredità di Eleonora, e che stavano tentando di unificare le due corone. Il 15 novembre nacque effettivamente un maschio, Giovanni I il Postumo, che visse solo cinque giorni. Dopo la morte del fratellastro, Giovanna fu privata dei suoi diritti sulla corona di Francia e sulla corona di Navarra, a favore dello zio reggente, che fu incoronato il 9 gennaio 1317, come Filippo V di Francia e Filippo II di Navarra. Tale decisione fu presa dall’assemblea degli Stati Generali del 1317. Immancabile, tra le motivazioni a sostegno di questa posizione, l’accusa di illegittimità lanciata contro Giovanna, resa possibile dalla condanna postuma dei costumi sessuali di sua madre, riconosciuta colpevole di adulterio fin dal 1311 con il cavaliere normanno Philippe d’Aunay. In compenso a Giovanna furono concesse una rendita e la promessa di entrare in possesso delle contee di Champagne e di Brie – se Filippo fosse morto senza eredi maschi – e il matrimonio

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con un cugino di suo padre, Filippo, erede della contea di Évreux. Nel 1322, alla morte di Filippo V il Lungo, anche lui senza eredi maschi, ancora una volta i diritti di Giovanna non furono riconosciuti: Carlo il Bello, altro fratello del padre, fu incoronato sia re di Francia sia re di Navarra – come Carlo IV di Francia e Carlo I di Navarra. Nel febbraio del 1328 Carlo IV il Bello morì a sua volta senza lasciare un erede maschio, mentre la moglie, Giovanna d’Évreux, avrebbe dovuto partorire dopo poche settimane. Fu nominato reggente un cugino del re, Filippo di Valois, e non il parente maschio più prossimo, il re d’Inghilterra, Edoardo III, che era suo cugino primo in quanto figlio di Isabella di Francia, figlia di Filippo IV il Bello e sorella degli ultimi tre sovrani di Francia. Due mesi dopo Giovanna d’Évreux partorì una femmina, Bianca, e il reggente designato, esponente del ramo cugino dei Valois, diventò immediatamente re di Francia con il nome di Filippo VI. Un’assemblea di nobili giuristi approvò la successione, in conformità alla legge salica, secondo la quale l’ereditarietà del trono era riconosciuta solo agli eredi maschi. Filippo VI non poté però usurpare a Giovanna, la figlia primogenita di Luigi X l’Attaccabrighe e ultima esponente della dinastia dei Capetingi, i suoi diritti sulla corona di Navarra. Giovanna, in cambio, dovette rinunciare ad avanzare pretese sulla corona di Francia e fu costretta a cedere le contee di Champagne e di Brie al re di Francia. Pochi giorni dopo l’incoronazione a re di Filippo VI (28 maggio 1328), Giovanna fu acclamata regina di Navarra, assieme al futuro marito, Filippo, conte di Évreux, che sposò il successivo 9 ottobre: insieme furono solennemente incoronati il 5 marzo 1329 nella cattedrale di Pamplona. Il trono francese si trovò così ad essere conteso tra due pretendenti, entrambi nipoti di Filippo IV il Bello: Filippo di Valois e il re d’Inghilterra Edoardo III, figlio di Isabella di Francia. Secondo Ralph Giesey, sia nella crisi del 1316 sia in quella del 1328 il ricorso alla legge salica non deve essere interpretato in chiave misogina perché essa servì sia a sostenere i diritti della dinastia francese sia la causa di Enrico III, mentre il suo uso per l’esclusione delle donne dalla successione dinastica sarebbe stato esplicito solo nel XV secolo. Lo stesso Giesey afferma infatti che il ricorso alla legge salica rimase preponderante nell’arbitrare la contesa tra i due principi del sangue e che in quell’occasione non venne esclusa

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formalmente la possibilità per una donna di ereditare il regno, anche se questa eventualità fu resa impossibile nella pratica18. I giuristi avevano deciso di instaurare un regime successorio basato sul principio della mascolinità adattando arbitrariamente una legge consuetudinaria che regolava materie di diritto privato, mentre non faceva menzione del principio di sovranità e dei fondamenti del diritto pubblico19. Come conseguenza di una serie di crisi di successione che avevano indebolito la monarchia ereditaria per tutto il secolo XIV, la Francia si era trovata in una condizione di continua instabilità politica a cui fece fronte l’attività dei giuristi, diretta a rafforzare l’istituzione monarchica con il consolidamento del principio dinastico. Non si trattava solo di confermare la legittimità dei Valois a regnare ma anche di fondare il diritto del re alla corona su principi incontestabili. La necessità di giustificare l’esclusione delle figlie eredi del trono paterno spinse i giuristi oltre il dettato della legge salica, attraverso una profonda analisi del funzionamento della monarchia per colmare il vuoto giuridico che il «miracolo capetingio», cioè la nascita di un erede maschio a ogni generazione, aveva permesso che si creasse. Dal pensiero dei giuristi, completamente rivolto al bisogno di assicurare continuità e stabilità politica, nacquero e si sarebbero costitui­te più tardi (con l’ordonnance del 1407) le «leggi fondamentali del regno», basate sull’idea della perennità della monarchia e quindi della successione di primogenito in primogenito maschio, regola completata più tardi da quella dell’istantaneità della successione: «Il re è morto, viva il re», formula che permette il passaggio immediato della sovranità per legge e non per volere dei principi del regno né del sovrano stesso, che non può disporre della corona per testamento20.

18   R.E. Giesey, Le rôle méconnu de la loi salique. La succession royale, XIVeXVIe siècles, Les Belles Lettres, Paris 2007. 19   R. Grand, La Société politique et la crise de la royauté sous Philippe de Valois, in «Journal des savants», 2, 1960, pp. 74-78. 20   F. Cosandey, De lance en quenouille. La place de la reine dans l’État moderne (XIVe-XVIIe siècles), in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 52, 1997, 4, pp. 799-820, p. 802.

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5. La Lupa di Francia Grazie al sostegno dei grandi feudatari di Francia, Filippo VI poté cingere la corona e inaugurare la dinastia dei Valois. Ma Edoar­do III non si arrese: lui stesso si proclamò legittimo successore al trono francese e mosse guerra a Filippo VI. Oltre all’obiettivo principale, rivendicare i diritti della madre Isabella, lo spinse a reagire anche la conquista, da parte dei francesi, delle Fiandre, territorio legato storicamente all’Inghilterra: in questo caso Edoardo III non agì direttamente ma finanziando la rivolta dei fiamminghi contro i francesi. Filippo VI, a sua volta, dispose la confisca dei feudi inglesi nella Francia settentrionale, colonizzati secoli prima da Guglielmo, primo re d’Inghilterra della dinastia dei Normanni. La madre di Edoardo, Isabella (1295-1358), che aveva sposato Edoardo II d’Inghilterra, si era guadagnata il soprannome di Lupa di Francia ed era l’unica superstite dei figli di Filippo IV il Bello e di Giovanna I di Navarra. La regina Isabella era nota per la sua bellezza, le abilità diplomatiche e l’intelligenza. Era arrivata in Inghilterra all’età di dodici anni durante un periodo di conflittualità crescente tra il re e le potenti fazioni baronali. Isabella sostenne Edoardo nel corso dei primi anni, sfruttando i propri legami con la monarchia francese per acquistare margini più ampi di autorità e affermare il proprio potere di fatto. Nel 1312 fu assassinato il favorito del re, Pierce Gaveston: i baroni, che l’avevano fatto uccidere, lo odiavano perché Edoardo sperperava per lui somme ingenti. Dopo la morte di Gaveston la ribellione non era cessata perché Edoardo II aveva subito sostituito il defunto con Ugo Spenser il Giovane e aveva tentato di vendicarsi dei ribelli procedendo a una forte politica di repressione interna. Isabella, non potendo tollerare l’ascendente che Ugo Spenser aveva sul re, entrò in conflitto con il marito e dal 1325 il suo matrimonio entrò in crisi. Mentre viaggiava in Francia, con il pretesto di una missione diplomatica, Isabella iniziò una relazione con Roger Mortimer, uno dei leader dei baroni ribelli al re d’Inghilterra: i due amanti decisero di deporre Edoardo II e cacciare la famiglia Spenser. La regina ritornò in Inghilterra con un piccolo esercito mercenario nel 1326. Il re venne abbandonato dai suoi soldati e, con un colpo di Stato, Isabella depose Edoardo, diventando reggente per conto

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di suo figlio, Edoardo III. Molti hanno creduto che Isabella avesse organizzato in seguito l’omicidio del marito. Il colpo di Stato non ebbe lunga durata e il regime di Isabella e di Mortimer iniziò a sgretolarsi, a causa sia delle spese incontrollate della sovrana sia della rovinosa conduzione della guerra con la Scozia. Nel 1330 Edoardo III depose Mortimer, riprendendo la sua autorità e facendolo in seguito giustiziare. La regina non venne punita e visse per molti anni nel lusso, seppur non alla corte del figlio, fino alla sua morte, avvenuta nel 1358. Nel corso dei secoli Isabella è divenuta una popolare femme fatale nelle cronache e nella letteratura di larga diffusione, dove è raffigurata solitamente come una bellissima e crudele manipolatrice21. Non poteva mancare una significativa produzione drammatica sulla crisi politica inglese incentrata sulla personalizzazione degli eventi interpretati come conseguenza delle passioni e dei vizi di entrambi i sovrani. Vari passi di Christopher Marlowe22 inducono a pensare alla relazione fra il re e Gaveston come un affaire di cuore, nascosto agli occhi di tutti, un immedesimarsi del re nel suo amante – «Here take my picture, and let me wear thine»23, esclama Edoardo in un impeto di desiderio. Le cronache alle quali attinge Marlowe fanno effettivamente riferimento a questa relazione, ma nel suo dramma l’amore è rilevante solo in termini di favoritismo politico e per il fatto che il suo fallimento come re sia stato effetto delle sue pratiche omosessuali24. In quel periodo l’omosessualità non escludeva rapporti eterosessuali o il matrimonio e quindi non era percepita come una minaccia sociale, ma poteva esserlo nel momento in cui scriveva Marlowe, nella prima età moderna, quando era associata a comportamenti lesivi della dignità e dello status, se praticata da personaggi investiti della sacralità regale. Nel dramma viene rappresentata la storia di un re inglese accusato di aver permesso al suo legame omosessuale di avere la precedenza rispetto ai suoi obblighi politici e sociali: 21   A. Weir, Queen Isabella: She-Wolf of France, Queen of England, Pimlico Books, London 2006. 22   C. Marlowe, The Troublesome Raigne and Lamentable Death of Edward the Second, King of England, 1594. 23   «Eccoti la mia immagine, e fa che la tua mi avvolga». 24   J. Parks, History, Tragedy, and Truth in Christopher Marlowe’s «Edward II», in «Studies in English Literature, 1500-1900», 39, 1999, 2, pp. 275-290, p. 282.

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l’accento non è prevalentemente sull’orientamento sessuale, ma sul venir meno della dignità del sovrano25. Forse il personaggio più importante attraverso il quale Marlowe mette in scena il ruolo politico dei comportamenti privati è però proprio Isabella, che nelle cronache è descritta come quella più dominata dalle passioni; il suo rifiuto di ritornare dalla Francia dà spunto alle Holinshed’s Chronicles, pubblicate nel 1577, per presentare la regina come misteriosa o, almeno, enigmatica26. Soprattutto, Isabella è una figura pubblica nelle cronache più vicine agli eventi, il personaggio più importante dopo il suo ritorno in Inghilterra alla testa di una milizia straniera, quando guidò i baroni che deposero il re. In Marlowe, invece, il ruolo di Isabella nella caduta del re non sembra essere stato attivo: si sarebbe ritirata nella foresta per affrontare in solitudine il suo dolore, piuttosto che vedere Edoardo schiacciato dalla ribellione civile. Roger Mortimer, il suo amante, l’avrebbe convinta a ritornare a corte: la loro relazione conferma la tesi di Marlowe che la scena politica è determinata da passioni private. Marlowe sottolinea di continuo il potere di Mortimer sulla scena pubblica proprio enfatizzando il suo controllo sessuale ed emotivo sulla regina e facendo di Isabella una vittima sia del re – che l’ha tradita sessualmente – sia dell’amante che l’ha soggiogata: una lettura della protagonista della vicenda più «femminile» e meno inquietante27. Le nozze di Edoardo e Isabella erano state celebrate a Boulogne-sur-Mer il 25 gennaio 1308. Erano state combinate da Bonifacio VIII nel 1298 per suggellare la pace fra i due regni ma non riuscirono a realizzare questo obbiettivo. Il progetto di papa Bonifacio VIII, condiviso da molti altri, fallì in primo luogo perché i feudi inglesi in Francia erano motivo di continui conflitti: nessuna alleanza matrimoniale poteva risolvere i problemi derivanti dalla soggezione di un duca, che era anche re, a un altro re. L’eventualità del passaggio del ducato a un erede dello stesso sangue di entrambi, eliminando i conflitti, non riuscì a ovviare all’anomalia costituita da un vincolo feudale che determinava l’inferiorità di 25   D. Stymeist, Status, Sodomy, and the Theater in Marlowe’s «Edward II», in «Studies in English Literature, 1500-1900», 44, 2004, 2, pp. 233-253, p. 235. 26   Parks, History, Tragedy, and Truth in Christopher Marlowe’s «Edward II» cit., p. 283. 27   Ibid.

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un monarca nei confronti dell’altro. Non solo: i legami di famiglia aggiungevano ragioni private ai conflitti di potere già esistenti28, in particolare per il rapporto fra Edoardo e l’amato Gaveston, al quale si diceva che il re avesse donato i magnifici regali ricevuti dal suocero quando aveva sposato Isabella, all’epoca poco più di una bambina. Malgrado ciò le nozze furono probabilmente consumate subito29 ma questo non sembra aver pregiudicato il rapporto coniugale, che in certi periodi fu buono, e in altri no: in definitiva quello che fece fallire l’unione, vanificando il progetto di Bonifacio VIII, furono i feudi inglesi sul suolo francese30. Non ci sono documenti attendibili su come Edoardo II avesse reagito alla sua deposizione: le uniche fonti sono tre cronache coe­ ve e il Lament of Edward II. Le cronache rappresentano il dolore e il pentimento del re e le speranze per suo figlio. Due sono molto brevi mentre la terza dà qualche elemento in più. L’autore è Adam Murimuth, che era un funzionario di corte negli anni Quaranta del XIV secolo e che può aver avuto informazioni dirette, almeno di ciò che si diceva nell’ambiente. Murimuth riferisce di pianti e sospiri del re e del suo pentimento, nonché della sua soddisfazione per la designazione del figlio come suo successore. La cronaca è stata scritta pressoché contemporaneamente al Lamento. Cronache più tarde, che ne possono essere state influenzate, hanno ampliato la descrizione del dolore del re e del suo pentimento per gli errori commessi per aver seguito cattivi consigli, la volontà di offrire la propria vita a Cristo per il bene di suo figlio e il desiderio di morire per porre fine alle proprie sofferenze31. Il Lamento di Edoardo II può essere stato influenzato dalla propaganda ufficiale, ma non è uno scritto di parte, come altri che vennero composti a favore di Isabella e di Roger Mortimer32: 28   E.A.R. Brown, The Political Repercussions of Family Ties in the Early Fourteenth Century: The Marriage of Edward II of England and Isabelle of France, in «Speculum», 63, 1988, 3, pp. 573-595, pp. 573-574. 29   Ivi, pp. 582-583. 30   Ivi, p. 589. 31   C. Valente, The «Lament of Edward II»: Religious Lyric, Political Propaganda, in «Speculum», 77, 2002, 2, pp. 422-439, p. 428. 32   Un esempio tardo, modellato sui temi propagandistici di Isabella e Mortimer e finalizzato a esorcizzare il potere destabilizzante dell’omosessualità di Edoardo, è Mortimeriados. The Lamentable Ciuell Vvarres of Edward the Second and the Bar-

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sebbene condivida la descrizione delle reazioni del re alla deposizione, è molto critico nei suoi confronti e nei confronti di coloro ai quali ha elargito doni e che ha amato. In particolare Edoardo lamenta il tradimento di Isabella, «the fair one», la bella dalla quale si aspettava totale lealtà33. Del Lamento di Edoardo II esistono varie versioni. Quella di sir Francis Hubert, The Deplorable Life and Death of Edward the Second, King of England Together with the Downefall of the Two Unfortunate Fauorits, Gauestone and Spencer. Storied in an Excellent Poëm, pubblicata nel 1628, calca molto la mano sulla malvagità di Isabella: There is more mercie in the Tigers Clawe, Lesse venome in the Scorpions sting doth lie More pittie in the hungrie Lions pawe, Lesse danger in the Basiliske his eye, [illeg.] Hyaena that doth call the goers by The Panthers breath, and Crocodiles false teares34.

Lo stesso autore l’anno successivo pubblicò una storia di Edoar­do in cui descriveva con analoghi accenti, e per bocca dello stesso sovrano, la crudeltà dell’amante del re35. Una versione più tarda si sofferma molto sulla passione di Edoardo per Gaveston, rons (1596), di Michael Drayton (1563-1631), dove il re è indicato come «Edward the Second, but the first of shame» [Edoardo, secondo di nome, ma primo per sconcezza]. Raccontando la presa del potere da parte di Isabella – «true vertuous lady» [dama davvero virtuosa] – e del suo amante, Drayton esalta la virilità di Mortimer: «No Apish fan-bearing Hermophradite / Coch-carried midwyfe, weake, effeminate / Quilted and ruft, which manhood euer hate» [la cui prorompente mascolinità non sopportava i fatui amanti di Afrodite, le mezze donne munite di fallo, deboli, effeminate, corrotte e permalose]. 33   Valente, The «Lament of Edward II» cit., p. 431. 34   «C’è più pietà nell’artiglio di una tigre / c’è meno veleno nel pungiglione di uno scorpione / più delicatezza nella zampa di un leone affamato / meno spavento incutono gli occhi del basilisco / il richiamo della iena per i viandanti / il fiato della pantera, le false lacrime del coccodrillo». 35   F. Hubert, The historie of Edward the Second, surnamed Carnarvan, one of our English kings together with the fatall down-fall of his two vnfortunate favorites Gaveston and Spencer: now published by the author thereof, according to the true originall copie, and purged from those foule errors and corruptions, wherewith that spurious and surreptitious peece, which lately came forth vnder the same tytle, was too much defiled and deformed: with the addition of some other observations both of vse and ornament, 1629.

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descrivendola con accenti patetici e attenuando i giudizi moralistici per l’omofilia del re, e reca in epigrafe il motto Qui nescit dissimulare, nequit vivere, perire, melius (‘Chi non sa dissimulare non può vivere: è meglio morire’). Dalle parole con le quali Isabella si rivolge al re di Francia per ricevere aiuto si ricava di nuovo, come in Marlowe, la ricaduta politica delle passioni private: la situazione è offensiva per la regina ma soprattutto è pericolosa per la pace e la stabilità dell’Inghilterra e della successione al trono di Edoardo III a causa degli «abbietti» favoriti36. Meno politiche e più adattate al gusto popolare – e per questo destinate a rimanere impresse nella memoria collettiva – sono le ballate di Thomas Deloney, delle quali furono fatte varie edizioni. La sesta ballata è A Song of Queen Isabel, Wife to King Edward the Second; how by the Spencers she was constrained secretly to go out of England with her eldest Son, Prince Edward, to seek for succour in France, and what happened [...]nto her in her Journey. In questa versione Isabella viene presentata come la giustiziera di Spencer – incolpato di tradimento, impiccato e squartato –: è lei l’artefice della destituzione del marito e della salvezza del trono per suo figlio. Di Mortimer non si fa cenno. 36   The History of the life, reign, and death of Edward II, King of England, and Lord of Ireland with the rise and fall of his great favourites, Gaveston and the Spencers / written by E.F.[Sir Henry Care Falkland] in the year 1627, and printed verbatim from the original, 1680.

III Regine cattive, regine buone 1. La ricerca della stabilità politica e il «disordine» femminile A partire dal XV secolo le possibilità delle donne di conquistare o ereditare posizioni di comando si ridussero sia in relazione al processo di aggregazione territoriale in atto su scala europea, sia in seguito all’affermazione della sovranità dinastica in quanto elemento di stabilizzazione politica sia, infine, in relazione all’importanza assunta dal diritto per la legittimazione del potere regio. Nella cultura giuridica tre-quattrocentesca, sfera privata, pubblica e penale erano connesse e contraddittorie: le incoerenze dei ragionamenti erano eluse da asserzioni assiomatiche che si accreditavano reciprocamente. Moralisti, giuristi, pensatori politici, ad esempio, raccomandavano un atteggiamento protettivo nei confronti delle donne, in nome di una fragilità che giustificava la loro esclusione dalla sfera pubblica, ma che non le rendeva esenti da condanne penali severe: una contraddizione che si manifesterà apertamente dalla fine del XV secolo, in un clima di instabilità dovuta ai contraccolpi di eventi eccezionali (dalla scoperta di nuovi mondi al trauma dello scisma religioso), affrontati in ambito sociale e famigliare con l’irrigidimento sulla tradizione misogina classica, scritturale, canonica e patristica. Il recupero di tale tradizione fu reso possibile dall’ambivalenza nei confronti dei ruoli delle donne propria della cultura giuridica: l’enfasi sulla loro incapacità e sulla loro necessità di tutela poteva infatti essere recuperata in ogni momento, per negare il riconoscimento all’autonomia e quindi alla cittadinanza in senso pieno1. 1   M. Graziosi, Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in «Democrazia e diritto», 2, 1993, pp. 99-143.

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Anche i limiti che furono imposti alle donne di stirpe reale e la fama che queste acquisirono presso i contemporanei e i posteri dipesero dalla disposizione delle regine ad accettare i modelli femminili considerati appropriati al loro rango – in definitiva, dalla loro capacità di farsi da parte, almeno come scelta di facciata, e di subordinare anche la qualità di regine sui juris al ruolo di mogli. Per quanto riguarda l’esclusione dalla successione dei feudi, furono recuperate le argomentazioni formulate da Baldo degli Ubaldi nel XIV secolo (incapacità di portare le armi, fragilitas consilii, mendacia, ecc.), che trovarono poche opposizioni. Girolamo Garzoni fu una voce isolata nel pieno Cinquecento: in un trattato edito nel 1581, sostenne che l’esclusione delle donne dalla successione nei feudi non aveva fondamento se non come pratica consuetudinaria; ma non per questo suggerì che l’uso dovesse essere modificato. In effetti anche un altro autore, Gregorius Rollbag, agli inizi del XVII secolo, affrontò il problema dei diritti ereditari delle donne, confrontando i casi della Francia, dell’Italia, della Spagna e della Germania, e concluse che poche argomentazioni potevano dirsi fondate sulla legge: la maggior parte degli autori si limitava a luoghi comuni derivati da esempi tratti dalla letteratura teologica, dalla medicina e dalla storia, nell’intento di rispondere alla domanda retorica se le donne si dovessero considerare superiori o inferiori agli uomini2. Non è affatto sorprendente che i trattatisti si preoccupassero di disciplinare il ruolo delle donne nel matrimonio ricorrendo agli esempi delle Scritture, alla letteratura moralistica e scientifica. Il sapere medico, in particolare, accreditava l’asserzione della debolezza fisica e psichica femminile: sia l’esclusione da un ampio campo di funzioni pubbliche e azioni legali sia la centralità attribuita al matrimonio per ribadire la posizione subalterna delle donne si giustificano con la presunzione della loro «naturale» debolezza. Gli usi e le convenzioni sociali rafforzarono gli elementi di ambiguità connessi al recupero della tradizione romanistica, combinandosi con gli aspetti discriminatori del diritto3. Natalie Zemon Davis ha scritto che l’inversione simbolica dei ruoli sessuali 2   I. MacLean, The Renaissance Notion of Woman: a Study in the Fortunes of Scholasticism and Medical Sciences in European Intellectual Life, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1980, pp. 71-75. 3  Ivi, pp. 76-81.

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fu interpretata in chiave di delegittimazione virulenta e misogina del potere femminile. L’immagine della donna disordinata venne infatti diffusa dalla fine del XV secolo per ribadire e rafforzare le gerarchie dei ruoli famigliari e non solo: «Il piccolo mondo della famiglia, con la sua lampante tensione tra intimità e potere, offriva [...] un pronto simbolismo ai più vasti problemi dell’ordine politico e sociale»4. Solo un accenno è riservato alla denigrazione sistematica della sovranità femminile: «Il governo di una regina era vietato in Francia dalla legge salica e schernito dal proverbio ‘tomber en quenouille’. Il pastore John Knox lo considerava ‘regime mostruoso’, ‘il sovvertimento del buon ordine [...] di ogni equità e giustizia’, mentre Calvino, più moderato, lo annoverava ‘tra le visitazioni dell’ira di Dio’, da sopportare peraltro con pazienza al pari di ogni tirannide»5. Non sorprende che proprio nel XV secolo la legge salica sia stata riscoperta, raccomandata, adottata o confermata per porre un argine alle successioni femminili; tale legge, tuttavia, ancora nel Cinque e nel Seicento non fu sempre efficace nel contrastare i capricci del caso che destinavano al potere figlie uniche superstiti di nidiate di eredi più o meno numerose: è quindi importante tener conto delle tendenze emerse dai trattati dei giuristi, ma soprattutto collegarle con la situazione politica del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento. Fanny Cosandey, a proposito dell’affermazione della legge salica in Francia, ha osservato come l’esclusione delle donne dal potere sia stata giustificata da una lunga instabilità, che cessò solo nel 1453, con la fine delle guerre con l’Inghilterra e il consolidamento della dinastia dei Valois, i quali riuscirono a estendere il loro potere sui feudi, prima in mano inglese. In questa prospettiva la Cosandey afferma che la legge salica per le donne non fu solo negativa: contestualmente alla sua applicazione, si consolidò anche la posizione delle regine vedove, per la prima volta destinate per legge come reggenti dei figli minorenni eredi al trono6. Insom4   N. Zemon Davis, Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento, Einaudi, Torino 1980, p. 178. 5   Ivi, p. 176. 6   F. Cosandey, De lance en quenouille. La place de la reine dans l’État moderne (XIVe-XVIIe siècles), in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 52, 1997, 4, pp. 799-820.

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ma, se le figlie furono sacrificate alla stabilità del paese e furono escluse dalla successione al trono, le donne in generale e le madri in particolare acquistarono un ruolo prima mai avuto – o almeno mai riconosciuto del tutto, e non solo in Francia – che aveva tratti inquietanti, e che doveva essere reso inoffensivo, confinandolo nel mondo dell’immaginario. È stato scritto che le pagine dei libri rinascimentali traboccano e risuonano di donne armate e pericolose, personificazioni dell’ordine sessuale invertito, temibili e ammirevoli insieme [...]. Se può sorprendere la presenza in letteratura di una così folta schiera di donne-uomo, è ancora più sorprendente che tali figure femminili siano esistite anche nella realtà: nei secoli del Rinascimento due vergini conclamate – Giovanna d’Arco che comandò un esercito ed Elisabetta Tudor che governò una nazione – suscitarono, come amazzoni viventi, la stessa mescolanza di timore e ammirazione7.

Si può aggiungere che è singolare che la comunicazione politica di parte e la trasposizione letteraria e simbolica di questi personaggi abbiano oscurato così a lungo la realtà dei numerosi esempi nel XVI secolo, nei secoli precedenti e in quelli successivi di donne alle quali per molto tempo si è stentato a riconoscere una capacità autonoma di azione politica, considerate, contro ogni evidenza, anomalie inquietanti e creature diaboliche (come nel caso della guerriera Giovanna d’Arco) o consigliere e reggenti orientate esclusivamente dall’«amore materno»8. Una delle prime monografie che hanno affrontato il tema del potere delle donne rinascimentali e che ha parlato di sovranità femminile (queenship) presentando l’esempio di Margherita Beaufort, infatti, spiegava il successo e l’influenza politica della regina non solo con le sue doti individuali ma soprattutto con la forza «naturale» dell’amore materno9. Restava sullo sfondo il non irrilevante dettaglio che Margherita Beaufort riuscì a mettere fine alla guerra delle Due Rose grazie alla sua abilità di negoziatrice e di combattente: l’attitudine all’uso   M. King, Le donne nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 220-221.   Ivi, pp. 24-29. 9   M.K. Jones, M.G. Underwood, The King’s Mother. Lady Margaret Beaufort Countess of Richmond and Derby, Cambridge University Press, Cambridge 1992. 7 8

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delle armi era inconsueta ma tutt’altro che unica in una Europa che aveva assistito all’impresa di Giovanna d’Arco e che, alla fine del XV secolo, avrebbe visto in Italia Caterina Sforza contendere il suo piccolo Stato romagnolo a Cesare Borgia e ai suoi alleati francesi. A proposito di Margherita, poi, sorprende che la King la consideri un’intrigante, piuttosto che una politica, definizione che sarebbe più nobile e appropriata: Ambiziosa e sollecita, [...] intrigò costantemente per porre sul trono il suo unico figlio, avuto all’età di quattordici anni, [...] unica gioia desiderata in questo mondo10.

L’affetto per il futuro Enrico VII Tudor è certamente un aspetto della personalità della regina ma non è l’elemento più significativo per valutare il ruolo da lei svolto nelle ultime fasi della guerra delle Due Rose: determinante per spiegare l’operato di Margherita è il fatto che fosse collocata autonomamente per diritto ereditario in una posizione di potere, in quanto discendente di John di Gaunt, duca di Lancaster. Margherita seppe far valere il suo privilegio con abilità, costruendo e consolidando alleanze a proprio vantaggio in uno dei periodi di maggiore instabilità della storia europea; il fatto che sia riuscita a porre le basi per l’affermazione della dinastia dei Tudor è ora riconosciuto come esperienza da valutare con le categorie della storia politica e non con quella, «femminile», dell’intrigo. Tuttavia, in questo come in tutti gli altri casi nei quali le circostanze portarono delle donne ad essere determinanti negli equilibri politici, la propaganda coeva alterò i connotati di Margherita sia esaltandola sia, da parte degli avversari, trasformandola da subito in un simbolo del male. Nel primo Cinquecento, accanto alla celebrazione di Margherita Beaufort come superiore al suo sesso, si diffuse la fama che fosse una donna dedita alle arti magiche. Come per molte altre sue contemporanee che, direttamente o indirettamente, esercitarono un importante ruolo politico, la sua attività fu considerata sospetta e infida; in particolare venne

  King, Le donne nel Rinascimento cit., p. 27.

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accusata di aver eliminato i pretendenti al trono che ostacolavano il successo del figlio con riti stregoneschi e con veleni. Sull’immagine della matriarca manipolatrice, ripresa nel XVI secolo anche da sir Francis Bacon11, prevalse poi la tradizione che la irrigidì nel ruolo di pia patronessa della cultura12. In un’altra variante dell’immagine della «cattiva regina», quella di Anna Bolena al momento della sua caduta in disgrazia, nel 1536, ritroviamo le stesse accuse infamanti alle quali si ricorreva tra Quattro e Cinquecento per delegittimare l’influenza politica femminile: non solo l’adulterio, ma anche l’incesto e la stregoneria13. È vero, come afferma Fanny Cosandey, che il potere delle madri fu formalizzato un po’ ovunque; ma mentre il sovrano veniva irrigidito nella fissità iconica del simbolo – diventando il vertice di un ordine, l’incarnazione del potere, il garante della giustizia, l’unto dal Signore –, la funzione della reggente, non sacralizzata da un rituale, e anche la sua persona, non «separata» nel simbolo dalla sua realtà fisica, restavano bersagli di attacchi, prevalentemente nella forma di ingiurie contro il sesso femminile. D’altra parte, proprio per la debolezza istituzionale della reggenza, l’accesso delle donne al potere richiese la capacità di annodare alleanze, coagulando fazioni di corte per sostenersi e acquistare autorità. Membri della famiglia naturale del sovrano, le reggenti dovettero collegarsi con le famiglie dei pari del regno, dei grandi nobili, entrando nella dinamica delle lotte di potere. Tuttavia l’enfatizzazione di questa diversità, che esaltava la sacralità del re, era relativamente recente: a proposito del rito degli anelli terapeutici (cramp-rings) consacrati dai sovrani, Marc Bloch già nel 1924 aveva scritto che «verso la metà del secolo XV, la cerimonia dei cramp-rings rivestì un carattere nuovo e la parte del re vi assunse un’importanza ben maggiore che per l’addietro, [e] dimenticarono tutti che le regine avevano potuto compierla efficacemente»14. Altrettanto significativo è il fatto che il trattato 11   F. Bacon, History of the Reign of King Henry the Seventh, a cura di R. Lockyer, Folio Society, London 1971, p. 130. La citazione è in Jones, Underwood, The King’s Mother cit., p. 4. 12   Jones, Underwood, The King’s Mother cit., pp. 171 sgg. 13   R.M. Warnicke, The Fall of Anne Boleyn Revisited, in «English Historical Review», n. 108 (1993), pp. 653-665. 14   M. Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 1989, p. 134.

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Du sacre du roy de France et de la royne, scritto nel 1372, fosse stato pubblicato a stampa e quindi ampiamente diffuso nel 1503: in un passaggio dedicato alla consacrazione delle regine, vi si sosteneva la loro esclusione dalla successione e dal potere di guarire la scrofola in quanto mai ammesse alla cerimonia dell’unzione15. 2. Le «signore» italiane del Quattrocento Christine de Pizan, vissuta tra il XIV e il XV secolo, aveva sostenuto nei suoi scritti la capacità delle donne di intraprendere qualsiasi professione – lei stessa, come scrittrice, ne era il migliore esempio –, compresi il governo degli Stati e la carriera delle armi, come aveva dimostrato la sua contemporanea Giovanna d’Arco. Nel sistema degli equilibri instaurato in Italia dalla metà alla fine del XV secolo, l’influenza di cui godevano le donne a corte dipendeva dall’intreccio tra funzioni pubbliche e funzioni private della famiglia dominante e dalla rete di alleanze che contribuivano ad annodare. A Mantova, nell’affresco della camera degli sposi di Mantegna, Barbara di Brandeburgo è al centro della scena. Donne nella sua posizione potevano governare al posto dei mariti, difendere gli interessi dei figli e della dinastia. Il ruolo politico che potevano ricoprire nelle strategie matrimoniali e nell’attività di patronage le esponeva alle lodi come alle critiche. Le loro raccomandazioni circolavano di corte in corte, orizzontalmente, attraverso le donne, come dichiarazioni di «servitù» fra mogli di signori locali, che ottenevano grazie dagli uomini. Il patronage femminile costituiva una sorta di filtro, di mediazione di quello maschile. Più esplicito il ruolo di potere esercitato da Bianca Maria Visconti, erede dello Stato di Milano e come tale considerata rispetto al consorte Francesco Sforza: quest’ultimo all’inizio governò Milano come marito di Bianca Maria, mentre a lui spettava il titolo di signore di Pesaro. Bianca Maria non governò direttamente ma il suo status di signora della città si esprimeva eleggendola a patrona di artisti e committente di architettura religiosa. Le sue scelte, anche in questi ambiti, oscillarono continuamente tra la volontà   Ivi, p. 382.

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di manifestare il proprio potere politico e la lealtà alla famiglia Sforza; è un’ambivalenza esemplificata dal numero equilibrato di conventi e committenze sacre, in rappresentanza simbolica di entrambi i padroni. La scelta di conservare un potere nella famiglia fu poi ostacolata dai figli: Galeazzo Maria cancellò il nome della madre dai documenti ufficiali. Invitata da Colleoni a occupare il potere, si ritirò invece a Cremona16. Battista I di Montefeltro resse per tre anni il ducato di Camerino al posto del marito; Battista II ebbe dal proprio consorte un mandato di procura amplissimo; Giovanna da Montefeltro governò per un certo periodo. Tutte queste donne erano educate in modo da essere in grado di padroneggiare l’oratoria a fini politici. Soprattutto, la loro attività non era considerata né eccezionale, né sconveniente. Antonio Cornazzano, un letterato che scrisse consigli per le donne in posizioni di potere, a metà del XV secolo entrò a servizio degli Sforza presso i quali rimase fino alla morte di Francesco. In seguito passò a Venezia e dal 1475 fino alla morte, nel 1484, fu impiegato da Ercole I d’Este. Nella sua vasta produzione figurano almeno quattro opere rivolte a donne di potere. Queste dediche sono forme di richieste di patronage, quasi allo stesso livello, come espressione retorica, delle dediche a uomini importanti, e confermano che le donne per lui erano tramiti migliori per ottenere favori. Nel Libro dell’arte del danzare si rivolgeva a Ippolita Sforza, moglie di Alfonso d’Aragona; ancora a lei Cornazzano dedicò versi iperbolici in lode della sua virtù, della sua attitudine agli studi, alla danza. Tuttavia in entrambi i casi l’obiettivo era accattivarsi il favore di sua madre Bianca Maria Visconti e rafforzare la propria posizione alla corte di Milano17. Come destinataria del De mulieribus admirandis, dedicato alle donne più degne di ammirazione, fu scelta direttamente Bianca 16   E. Welch, Women as Patrons and Clients in the Courts of Renaissance Italy, in Women in Italian Renaissance Culture and Society, a cura di L. Panizza, European Humanities Research Center, University of Oxford 2000. 17   Su Bianca Maria Visconti e le sue contemporanee si veda S. Ferente, «Naturales Dominae»: Female Political Authority in the Late Middle Ages, in Women Rulers in Europe. Agency, Practice and the Representation of Political Powers (XII-XVIII), a cura di G. Calvi, EUI Working Papers, HEC n. 2008/2, pp. 45-61, http://www.academia.edu/1791360/Women_Rulers_in_Europe_Agency_Practice_ and_the_Representation_of_Political_Powers_XII-XVIII_.

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Maria; probabilmente Cornazzano lasciò Milano prima di finirlo. Si tratta di un catalogo tradizionale, ma utile per capire perché avesse scelto quel soggetto e perché quella donna, soprattutto se si considera che il trattato pare fosse integrato da un lavoro, andato perduto, sulla genealogia di Bianca Maria in linea femminile. Questa peculiarità è resa più esplicita nell’opera maggiore, Del modo di reggere e di regnare, scritta a Ferrara attorno al 1478, pubblicata nel 1517. Eleonora d’Aragona d’Este, alla quale è dedicata, è rappresentata come destinataria di un potere trasmessole per via femminile, attraverso la linea di discendenza della nonna materna Bianca Maria Visconti18. L’ampiezza e i limiti del potere femminile nelle signorie italiane del secondo Quattrocento e l’intreccio tra dimensione privata e dimensione politica di una relazione d’amicizia, «fondata su legami di guerra e di matrimonio», sono esemplificati in uno studio del carteggio tra Bianca Maria e Barbara di Brandeburgo. Nel 1450, il marito di Barbara, Ludovico, firmò un contratto militare, o «condotta», con il marito di Bianca, Francesco [...] Di fronte a una Venezia ostile, il sostegno di Mantova fu decisivo per il mantenimento della posizione di Sforza, recentemente conquistata. Inoltre, i legami di Barbara con la Germania diedero allo Sforza la speranza di persuadere l’Imperatore a conferirgli l’investitura di Milano, legittimando così il titolo rivendicato per matrimonio e per conquista. [...] Le due donne si avvicinarono nello sforzo comune di mediare le dispute che inevitabilmente sorgevano fra i mariti [...]. Quando i rapporti tra Mantova e Milano cominciarono ad andare di male in peggio, Bianca fece il possibile per affermare la buona fede nei confronti dei Gonzaga.

Alla morte di Francesco, prima di ritirarsi a Cremona, «toccò a lei difendere lo Stato da sudditi riottosi e condottieri in cerca di fortuna»: si rivolse a Ludovico Gonzaga che alla fine accettò di firmare una nuova condotta19. 18   D. Zancani, Writing for Women Rulers in Quattrocento Italy: A. Cornazzano, ivi, pp. 57-74. 19   E. Ward Swain, Il potere di un’amicizia. Iniziative e competenze di due nobildonne rinascimentali, in «Memoria», 21, 1987, pp. 7-23. Il reticolo dei rapporti intrecciati nelle corti italiane del XV secolo tramite i matrimoni delle donne è ben più ampio degli esempi ai quali ho accennato. Occorre ricordare almeno la corte

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Di lì a pochi decenni il ricordo dei governi femminili e del reticolo politico-diplomatico costruito nell’intreccio dei matrimoni e delle relazioni femminili sarebbe stato cancellato. A Erasmo, nel 1517, i diritti accampati nel 1499 sul Milanese da Luigi XII come erede della nonna Valentina Visconti parvero «obsoletum ac putrem [...] titulum»20. Alla fine del Quattrocento la politica della parentela come sistema particolarmente rapido di scambi di donne e doti nelle dinastie regnanti non funzionava comunque più come garanzia di stabilità politica. Lo stretto legame tra relazioni famigliari e relazioni di potere, tra alleanze fra gli Stati e unione fisica degli individui nei matrimoni, si riflette nel linguaggio e nelle metafore che esprimono la crisi di questo sistema. La rottura degli equilibri politici coincide spesso con la rottura di accordi matrimoniali, ma nei carteggi e nelle relazioni diplomatiche come nella trattatistica misogina il conseguente «disordine» è imputato a un «difetto» femminile: la causa della rottura dei patti è il rifiuto del corpo deforme della donna, brutta, gobba e sterile. Si veda, ad esempio, il caso di Luigi d’Orléans che ottenne la dispensa di papa Alessandro VI per divorziare dalla moglie Giovanna, sorella di Carlo VIII e sua cugina, «sterile e mostruosa e che quasi violentemente gli era stata data da Luigi undecimo suo padre»21. L’enfasi negativa sulla «natura» femminile ricorre spesso nella narrazione storica di Guicciardini: nelle sue pagine non è rara l’equazione tra l’anarchia politica e la dissolutezza delle donne. Giovanna I, unica figlia di Roberto il Savio, regina di Napoli dal 1343 al 1382, «cominciò presto a essere dispregiata, non meno per l’infamia de’ costumi che per la imbecillità del sesso [...]. Da che essendo nate in progresso di tempo varie discordie e guerre [...] adottò per gonzaghesca di Isabella d’Este, ampiamente nota per gli studi di Maria Bellonci, ma studi recenti hanno messo in luce molti altri casi di protagonismo delle donne della famiglia Sforza nel Sud d’Italia. Citerò soltanto T. Mangione, Una milanese alla corte di Napoli. Ippolita Sforza principessa d’Aragona, in In assenza del re. Le reggenti dal XIV al XVII secolo (Piemonte ed Europa), a cura di F. Varallo, Olschki, Firenze 2008, pp. 361-453 e G. Cioffari o.p., Bona Sforza donna del Rinascimento in Italia e Polonia, Levante Editore, Bari 2000. 20   Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino 1990, p. 42. 21   F. Guicciardini, Storia d’Italia, Garzanti, Milano 1988, vol. I, p. 375. In seguito alla sua assunzione al trono come Luigi XII, il duca di Orléans sposò Anna di Bretagna, vedova dello stesso Carlo VIII, mantenendo così lo stato ereditario della moglie.

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figliuolo Lodovico duca di Angiò, fratello di Carlo quinto re di Francia»22. Questi scese in Italia dopo la morte violenta di Giovanna ma anche il suo regno fu di breve durata: a distanza di pochi anni, nel 1414, il potere passò di nuovo a una donna, Giovanna II, nome infelice a quel reame e non meno all’una e all’altra di loro, non differenti né di imprudenza né di lascivia di costumi. Perché, mettendo Giovanna il governo del regno nelle mani di quelle persone nelle mani delle quali metteva impudicamente il corpo suo, si ridusse presto in tante difficoltà che [...] fu finalmente costretta [...] ad adottare per figliuolo Alfonso re di Aragona e di Sicilia23.

Nel giudizio di Guicciardini, l’esecrazione delle regine di Napoli si estende alle sue contemporanee in tutte le analisi nelle quali la crisi politica può essere associata a una figura femminile. A proposito di Bona di Savoia Sforza, lo storico attribuisce il suo allontanamento dalla tutela del figlio Gian Galeazzo da parte dello zio Ludovico Sforza, detto il Moro, alla «imprudenza e impudichi costumi della madre»24. Le colpe attribuite al «disordine sessuale», alla sfrenatezza femminile, erano le più infamanti: stregoneria, incesto, eresia, topoi misogini strumentali che hanno radicato a lungo nel senso comune l’associazione tra crisi politiche e comportamenti irragionevoli e disordinati delle donne. Il caso di Lucrezia Borgia è esemplare: additata come oggetto di esecrazione per le sue presunte perversioni sessuali, attraverso la sua demonizzazione sono la famiglia del pontefice e il suo ruolo destabilizzante nel sistema degli Stati italiani ad essere condannati. È merito di Gabriella Zarri l’aver ripercorso le tappe della lunga fortuna della propaganda politica antiborgiana e la sua consacrazione ottocentesca. Unica eccezione a questa letteratura denigratoria, che includeva Lucrezia, è il ritratto che di lei ha tracciato il conte Arthur de Gobineau: questi attribuisce alla figlia di papa Alessandro VI, divenuta duchessa di Ferrara col terzo matrimonio con Alfonso d’Este, un ruolo di primo piano sia come donna di governo che come protettrice delle

  Guicciardini, Storia d’Italia cit., vol. I, p. 26.   Ivi, pp. 26-27.   Ivi, p. 5.

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arti25. Un’immagine che peraltro non è riuscita ancora per molto tempo a sostituire la leggenda della insaziabile lascivia di Lucrezia. Soltanto a metà del secolo XX, sulla scia di un romanzo di successo come quello di Maria Bellonci, che spostava l’interesse dell’indagine su Lucrezia Borgia dal periodo della giovinezza romana a quello della maturità ferrarese, la figlia di Alessandro VI cominciava a essere conosciuta come duchessa di Ferrara e studiata nel contesto della corte estense. Dopo l’opera letteraria di Maria Bellonci, gli studi su Lucrezia Borgia ebbero prevalente carattere biografico, a imitazione e integrazione di un modello così fortunato da rivestire anch’esso carattere di stereotipo26.

Le donne che si affollano sulla scena politica italiana nella prima metà del XVI secolo sono state o denigrate o dimenticate dal maggiore storico loro contemporaneo: Guicciardini è culturalmente incapace di riconoscere – o almeno è riluttante a farlo – la capacità di assumere un ruolo di governo da parte delle signore dei numerosi piccoli Stati italiani nella crisi politica degli ultimi anni del Quattrocento e dei primi decenni del secolo successivo. Isabella d’Este Gonzaga non viene neppure nominata nella Storia d’Italia; il giudizio più favorevole è riservato a Caterina Sforza, sopraffatta nell’assedio della rocca di Forlì da Cesare Borgia: «Essendo tra tanti difensori ripieni d’animo femminile ella sola di animo virile [...] [Cesare Borgia] considerando più in lei il valore che il sesso, la mandò in prigione a Roma, dove fu custodita in Castel S. Angelo»27. Caterina compare invece come una spietata virago in un notissimo passo che rappresenta uno dei pochi accenni alle donne in posizioni di potere rintracciabili nelle opere maggiori di 25   G. Zarri, Il Rinascimento di Lucrezia Borgia, in «Scienza & Politica», 37, 2007, pp. 63-75. La citazione delle Scènes historiques di de Gobineau (1816-1882) è a p. 64. Per un ulteriore ritratto di Lucrezia si veda anche, della stessa Zarri, La religione di Lucrezia Borgia. Lettere inedite del confessore, Union Printing Spa, Roma 2003. Prima della Zarri il ritratto più simpatetico e obiettivo lo aveva dato Maria Bellonci: la sua biografia Lucrezia Borgia è apparsa la prima volta nel 1939. Su questo tema e in generale sull’uso del genere biografico come forma letteraria nella storiografia sulle donne rimando a M. Bordin, Per una storia solidale: «Lucrezia Borgia» di Maria Bellonci e altre psicobiografie al femminile, in Lucrezia Borgia. Storia e mito, a cura di M. Bordin e P. Trovato, Olschki, Firenze 2006, pp. 345-399. 26   Zarri, Il Rinascimento di Lucrezia Borgia cit., p. 71. 27   Guicciardini, Storia d’Italia cit., vol. I, pp. 470-471.

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Machiavelli, nel quale la donna risponde alla minaccia dei congiurati forlivesi di ucciderle i figli piccoli se non si fosse arresa con un gesto impudico e con parole spavalde: «mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo di rifarne»28. La cessione di Imola – tolta a Taddeo e Astorgio Manfredi nel 1471 – a Girolamo Riario, nipote di Sisto IV della Rovere, per 40.000 ducati, era rientrata nelle clausole del contratto matrimoniale con il quale nel 1473 la decenne Caterina, figlia illegittima di Galeazzo Maria Sforza, era stata promessa a Girolamo, suggellando l’alleanza tra il papa e il duca. La piccola signoria divenne uno dei cardini del controllo sforzesco sulla Romagna e sulle Marche, insieme con Pesaro, acquistata nel 1444 come appannaggio dotale di Costanza Varano, moglie di Alessandro Sforza. Nel 1484 Sisto IV era morto senza che il potere del nipote fosse riuscito a radicarsi; la stessa conferma dell’investitura da parte del nuovo papa, Innocenzo VIII, era stata in buona misura dovuta al peso politico e militare degli Sforza, e alla capacità di Caterina di far valere la sua appartenenza alla famiglia. Venute meno la larghezza di mezzi di cui avevano goduto grazie ai favori di Sisto IV, Caterina e Girolamo avevano dovuto tornare in Romagna e ripiegare sulle risorse del loro minuscolo Stato. A Imola, che pure era stata fortificata e parzialmente ricostruita, l’aumento della pressione fiscale e il controllo monopolistico dei mulini da grano avevano contribuito però a rendere ancora più precario il consenso al governo dei Riario. Il 14 aprile 1488 Girolamo era rimasto vittima a Forlì dell’ennesima congiura contro di lui. Con l’appoggio di Ludovico Sforza, signore di Milano, e di Giovanni Bentivoglio, signore di fatto di Bologna, Caterina era riuscita a mantenere la signoria, ottenendo che il papa ne confermasse l’investitura al figlio Ottaviano, che aveva dieci anni, e governando come sua tutrice. Nel 1494 il re francese Carlo VIII aveva valicato le Alpi e il 9 settembre era giunto ad Asti, rivendicando i suoi diritti ereditari sul regno di Napoli. Il re arrivava anche in appoggio a Ludovico il Moro, assediato da Venezia e da Firenze. Il Moro, che poteva contare anche sull’alleanza con il suocero Ercole I d’Este e sul28   N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Il Principe e i Discorsi, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 407-408; il racconto è ripetuto da Machiavelli quasi alla lettera nelle Istorie fiorentine, Feltrinelli, Milano 1962, p. 571.

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la facilità di alloggiamento e di vettovagliamento nelle comunità della Romagna estense, aveva tempestivamente mandato parte del suo esercito nell’Imolese. Le truppe francesi, passate in Toscana senza incontrare opposizione da parte di Piero de’ Medici, avevano attraversato gli Appennini e assalito la contea di Caterina, espugnando i castelli di Bubano e Mordano. La ferocia con la quale avevano infierito contro gli abitanti aveva indotto Caterina ad accordarsi con i francesi, senza opporre ulteriore resistenza. Gli eventi successivi sono stati raccontati molte volte dai biografi di Caterina Sforza, a dispetto delle convinzioni, ampiamente diffuse, del giurista André Tiraqueau, che neppure la cita, come non cita Giovanna d’Arco, preferendo sorvolare su queste recenti, clamorose smentite della sua massima che le donne non sono atte alla guerra. È inconfutabile che Caterina si batté per la difesa dei suoi domini con le armi – così come era stata allenata a fare nella sua famiglia di condottieri e dalla stessa Bianca Maria Visconti, a sua volta capace di maneggiare le armi. Infatti Bianca Maria, che era stata «valorosa donna a cavallo tra gli armati e abile nell’arte di governo», aveva «educato Caterina al passato guerresco ed eroico dei suoi avi, le aveva insegnato a dimostrarsi impavida e a sentirsi fiera di essere una Sforza, le aveva inculcato la passione per le armi e il gusto di governare»29. Alla fine, Caterina non mantenne i suoi possedimenti ma dal suo terzo marito, Giovanni de’ Medici il Popolano, ebbe un figlio, Giovanni dalle Bande Nere, che sarebbe stato l’ultimo condottiero a continuare la tradizione famigliare ereditata dalla madre. Una biografia di qualche anno fa ha presentato Caterina, come nipote e bisnipote di Francesco Sforza e di Muzio Attendolo, capostipite della dinastia di guerrieri e, più ancora di loro, degna discendente di Elisa de’ Petrascini, madre di Muzio e di altri diciannove figli, descritta dalle cronache come «vera madre spartana» e «virago rude e coraggiosa»30. 29   C. Brogi, Caterina Sforza. La più bella, la più audace e fiera, la più gloriosa donna d’Italia, pari se non superiore ai grandi condottieri del suo tempo, Alberti & C. Editori, Arezzo 1996, p. 12. Sulle doti militari di Bianca Maria si soffermano anche N. Graziani, G. Venturelli, Caterina Sforza, Mondadori, Milano 2001 alle pp. 8 e 12. 30   Brogi, Caterina Sforza cit., p. 9. Su Caterina Sforza si rimanda alla vecchia ma documentatissima opera di P.D. Pasolini, Caterina Sforza, 3 voll., Loescher,

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Nel Trecento e nel Quattrocento italiano ci sono non solo donne a capo di signorie, ma anche regine di diritto proprio, già ricordate con i termini dispregiativi e denigratori di Guicciardini. La prima, Giovanna I d’Angiò, nata nel 1326, fu regina di Napoli dal 1343 al 1382, anno della sua morte, in deroga alla legge salica per un calcolo politico del nonno Roberto d’Angiò il Savio, il quale, alla morte del nipote Roberto, unico erede maschio superstite in linea diretta, preferì eludere i conflitti inevitabili tra i suoi possibili eredi maschi collaterali e designare al trono un discendente diretto, anche se femmina, riservandosi poi di «compensare» la inevitabile interruzione della continuità dinastica scegliendole un marito di un altro ramo del casato31. Nel 1333 Giovanna fu sposata ad Andrea d’Angiò d’Ungheria. Entrambi bambini, avrebbero consumato il matrimonio dieci anni dopo, alla morte di Roberto d’Angiò. Il testamento di Roberto stabiliva che Andrea fosse incoronato re di Napoli, ma la sedicenne Giovanna non fece rispettare le volontà del nonno potendo contare sull’appoggio della nobiltà napoletana e sull’intervento di papa Clemente VI; tale interferenza era dovuta al fatto che il re prestava al pontefice l’omaggio feudale. Clemente VI annullò il testamento di Roberto il Savio e nel 1343 incoronò la sola Giovanna. Tuttavia, le aspirazioni al potere del consorte della regina, nominato dal papa duca di Calabria, non erano state deposte, anche perché Andrea sapeva di poter contare sull’aiuto del fratello, Luigi d’Angiò detto il Grande, re d’Ungheria. Di Andrea, rozzo e brutale, poco amato dai napoletani, un secolo dopo l’umanista Pandolfo Collenucci (1444-1504) avrebbe scritto che come marito non era all’altezza delle esigenze di Giovanna: «ancor che fusse molto giovane, non era sì ben sufficiente a le opere veneree, come lo sfrenato appetito de la regina arìa voluto»32. Quella della estrema licenziosità di Giovanna era una voce popolare alimentata dalla sua bellezza, dal matrimonio

Torino 1893, e al recente E. Lev, The Tigress of Forlì. Renaissance Italy’s Most Courageus and Notorious Countess. Caterina Riario Sforza de’ Medici, Houghton Mifflin Harcourt, Boston 2011. 31   C. Raia, Giovanna I d’Angiò regina di Napoli, Tullio Pironti Editore, Napoli 2000, p. 61. 32   Ivi, p. 37.

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mal assortito e dalla sua posizione di regina, che viene recepita anche in alcune opere letterarie contemporanee. Comunque fosse, il matrimonio non aveva contribuito alla stabilità del regno, tradendo quelle che erano state le speranze di Roberto d’Angiò, e nel 1345 alcuni nobili che sostenevano Giovanna tesero un agguato ad Andrea, uccidendolo. Non mancò chi accusò la stessa regina di essere la mandante dell’omicidio e ci fu qualcuno che interpretò la sua spietatezza nella punizione dei congiurati come un mezzo per scagionarsi. Poco dopo l’assassinio di Andrea, Giovanna partorì Carlo Martello, destinato a morire prematuramente. Nel 1347 la regina aveva sposato Ludovico di Taranto, da molto tempo suo amante: anch’egli era un Angiò, discendente di Carlo II lo Zoppo. Luigi il Grande d’Ungheria invase il regno all’inizio del 1348, per vendicare il fratello: la lotta per il potere fra i vari rami degli angioini temuta da Roberto il Savio era stata solo ritardata. Iniziò un periodo di grande instabilità e Giovanna poté tornare a Napoli solo nel 1352, dove fu solennemente incoronata, questa volta associando al trono Ludovico. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1362, Giovanna ebbe altri due mariti ma come il primo dovettero accontentarsi del titolo di duca di Calabria, segno evidente che nelle scelte matrimoniali – tutte di Giovanna, tranne il primo, Andrea d’Ungheria – calcolo politico e inclinazioni affettive erano coincise solo in un caso, per Ludovico appunto, malgrado le parole della Nuova Cronica di Matteo Villani, continuatore del fratello Giovanni, dipingano Ludovico come un uomo arido, avido e vanaglorioso33. Ormai vecchia e priva di figli viventi, Giovanna designò suo erede il cugino e nipote Carlo di Durazzo. Ma ancora una volta la regina si trovò ad affrontare una grave crisi, quella che, come sostenitrice dell’antipapa Clemente VII, la contrappose allo stesso Carlo, fautore di papa Urbano VI, il quale non esitò a punire severamente Giovanna, vassalla della Chiesa di Roma, che venne dichiarata eretica, scismatica e deposta dal trono. Dopo un altro periodo di lotte fra Carlo di Durazzo e il nuovo erede designato dalla regina, Luigi d’Angiò, fratello del re di Francia, nel 1382

  Ivi, p. 139.

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Carlo fece assassinare Giovanna, epilogo tragico di una vita turbata da lutti e tradimenti. L’ultimo di questi tradimenti fu il più doloroso, perché veniva da un cugino che la regina aveva allevato come un figlio per riempire i vuoti – affettivi e politici – delle sue sfortunate maternità. Giovanna lasciava in eredità una discontinuità di successione destinata a strascichi futuri (le guerre d’Italia iniziate nel 1494 e le rivendicazioni di Carlo VIII) ma anche a uno più immediato, che nel giro di pochi anni avrebbe portato sul trono di Napoli un’altra donna, Giovanna II. Quest’ultima, ancora in un contesto di estrema instabilità, e priva di speranze di successione biologica in quanto sterile, cercò di dare continuità al governo ricorrendo ripetutamente a maternità fittizie. Giovanna II si servì dell’istituto dell’adozione – in un’epoca nella quale l’estrema scarsità delle fonti che vi fanno riferimento fa pensare che se ne facesse pochissimo ricorso, almeno formalmente – con successivi atti, conseguenti a ripetuti impegni poi disattesi dai successori designati, in corrispondenza con contrastanti valutazioni dell’opportunità politica delle scelte fatte. Quello di Giovanna II regina di Napoli è evidentemente un caso in cui le fonti ci hanno parlato apertamente di adozione ma non è sempre chiaro se e quali regole fossero state seguite: quelle del diritto romano, quelle religiose dell’adfiliatio cristiana34, o la consuetudine della contrattazione privata siglata da un notaio, adattata, nel caso di Giovanna, alla solennità cerimoniale della corte. Uno dei lavori più recenti sulle sovrane angioine lascia pensare che il cerimoniale descritto per l’adozione di Alfonso V d’Aragona fosse un unicum orchestrato dalla regina (che veniva ad esercitare una materna potestas) la quale convocò nel settembre 1420 gli ambasciatori del sovrano dichiarando loro «di voler adottare Alfonso come figlio ed erede». Nel luglio 1421, dopo i consueti festeggiamenti, la regina «ordinò che tutti i sudditi, baroni e popolani prestassero omaggio e giuramento di fedeltà ad Alfonso», il quale venne poi accolto da Giovanna, riccamente addobbata e ingioiellata; la regina «gli baciò la fronte e le guance ed allora 34   U. Gualazzini, Adozione (diritto intermedio), in Novissimo Digesto Italiano, vol. I, UTET, Torino 1957, pp. 288-290. L’adfiliatio (affiliazione), pur permettendo la successione ereditaria, non creava né patria potestas né vincoli agnatizi, e quindi l’esistenza di eredi di sangue non era un ostacolo a questa pratica.

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iniziarono i complimenti reciproci». In seguito, a Castelnuovo, «sedettero in trono e Pasquale di Campli redasse il verbale della solenne conferma da parte di entrambi dei patti relativi all’adozione. A garanzia del rispetto degli impegni assunti, i sovrani si diedero reciprocamente ipoteca sui loro Regni». Già nel 1423, tuttavia, il Consiglio generale della regina proponeva di revocare l’adozione di Alfonso in seguito a un disastroso saccheggio di Napoli da parte delle truppe del re. Con l’approvazione del papa e del duca di Milano, «dopo aver fatto studiare la questione a un collegio di giuristi», Giovanna revocò l’adozione di Alfonso e si preparò ad adottare Luigi III d’Angiò, il quale fu acclamato dalla folla; l’adozione venne formalizzata al cospetto dei baroni e dei funzionari di corte. Nel 1430, malata e indebolita dai contrasti tra i baroni, dall’impopolarità dovuta all’imposizione delle collette sulle famiglie del regno, dalla corruzione dei suoi favoriti e infine dall’allontanamento di Luigi, richiamato in Francia da Carlo VII, Giovanna, di fronte alla minaccia di un attacco di Alfonso, fu indotta a revocare l’adozione di Luigi e ad adottare nuovamente lo stesso Alfonso, «esortandolo a far ritorno nel Regno quale suo buon figlio, erede e successore legittimo»35. Quello di Giovanna II è un esempio di come un istituto che derivava dal diritto romano sulla base del principio normativo della potestas giuridica del pater, anche se caduto in disuso, potesse essere resuscitato e adattato da una donna con finalità politiche o dinastiche, in questo caso permettendo all’anziana regina, sterile e priva dell’appoggio di figli propri, di crearsi una filiazione di discutibile legittimità giuridica ma efficace per affrontare le spinte contrastanti che agitavano il suo regno: il vincolo veniva a creare per i sovrani successivamente adottati un obbligo di fedeltà che avrebbe dovuto imitare quello naturale del figlio nei confronti della madre. Da parte sua Giovanna, nelle trattative per la seconda adozione, fece sapere ad Alfonso che «lo amava come se fosse stato partorito da lei (com si fos son propri e natural fill)»36. 35   M. Gaglione, Donne e potere a Napoli. Le sovrane angioine: consorti, vicarie e regnanti (1266-1442), Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 366-367, 374-375, 378-379. 36   Ivi, p. 379.

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3. La buona Isabella e la pazzia di Giovanna Dopo la morte di Giovanni II, re di Castiglia, sopravvenuta nel 1454, la regina vedova Isabella di Portogallo si ritirò dalla vita di corte insieme con i suoi due figli, Isabella, nata nel 1451, e Alfonso, di nemmeno due anni. Consapevole delle sue responsabilità, la regina madre si occupò di loro con grande dedizione e animata da una grande fede, che la spinse a curare soprattutto la loro educazione religiosa e morale. Il frate francescano Martín de Córdoba fu scelto come consigliere spirituale di sua figlia Isabella. Frate Martín aveva scritto il Jardín de las nobles doncellas (Giardino delle nobili donzelle), un manuale per raggiungere la perfezione spirituale dal quale la piccola futura regina poté imparare a comportarsi e a mettere in pratica le lezioni edificanti del suo mae­ stro37. Il fratellastro di Isabella, Enrico, frutto di un precedente matrimonio di Giovanni II, dopo la morte del padre era diventato re di Castiglia ed era noto come Enrico IV l’Impotente. Quando nacque Giovanna, la figlia che gli partorì Giovanna di Portogallo, le voci popolari ne attribuirono subito la paternità a un amante della regina, Beltrán de la Cueva: per tutta la vita la figlia del re fu detta «la Beltraneja». Nel 1468, quando Alfonso morì, i baroni del regno cercarono, senza riuscirci, di indurre Isabella a proclamarsi regina mentre il fratellastro era ancora vivo. Isabella venne designata erede al trono di Castiglia dallo stesso Enrico IV che però la diseredò quando la sorellastra, contro gli accordi, preferì Ferdinando d’Aragona al re del Portogallo Alfonso V e si sposò segretamente e senza il consenso del fratellastro il 19 ottobre 1469, dopo aver ottenuta una dispensa per consanguineità, che fu confermata nel 1471. 37   P. Demerson, La «Doncella a Dios» de Martín de Córdoba, in «Bulletin Hispanique», 86, 1984, 1-2, pp. 142-153. Per quanto segue si vedano W.H. Prescott, History of the Reign of Ferdinand and Isabella, the Catholic, John Foster Kirk, London 1892; L. Suárez Fernández, Claves históricas en el reinado de Fernando e Isabel, Real Academia de la Historia, Madrid 1998; Isabel la Catolica, Queen of Castile: Critical Essays, a cura di D.A. Boruchoff, Palgrave Macmillan, New York 2003; J.M. Javierre, Isabel la Católica, el enigma de una reina, Sigueme, Salamanca 2004; M. Fernández Álvarez, Isabel la Católica, Espasa-Calpe, Madrid 2006; B. Aram, Juana the Mad: Sovereignity and Dynasty in Renaissance Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2005 (ed. orig. spagnola 2001); C. Hernando Polo, Isabel la Católica, Nowtilus, Madrid 2007.

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Il re Enrico allora giurò pubblicamente, assieme alla moglie, che Giovanna la Beltraneja era sua figlia legittima e la proclamò erede al trono. Questa decisione provocò un conflitto tra coloro che sostenevano Giovanna e i fautori di Isabella. Il 13 dicembre 1474, due giorni dopo la morte improvvisa di Enrico IV, Isabella fu proclamata regina di Castiglia e Ferdinando divenne re consorte con il nome di Ferdinando V di Castiglia, mentre la Beltraneja, che continuava a rivendicare la sua posizione di erede al trono, fu data in sposa ad Alfonso V del Portogallo il quale, nell’estate successiva, invase la Castiglia per difendere i diritti di sua moglie. Ne seguì una sanguinosa guerra di successione, che durò finché i sostenitori di Isabella ottennero che fosse riconosciuto il suo diritto al trono al posto della Beltraneja, per difetto di prove di legittimità di nascita. Lo scontro decisivo avvenne nei pressi di Toro, la città in cui Giovanna si era insediata e teneva la corte. Ferdinando e Isabella furono appoggiati dalla maggior parte della nobiltà e dai rettori dei conventi e delle grandi abbazie, che volevano scongiurare il pericolo del dominio del re del Portogallo sulla Castiglia; il 1º marzo 1476 Ferdinando, comandante dell’esercito castigliano, mise in fuga Alfonso il quale, vedendo che in Castiglia il suo partito era in netta minoranza, ripiegò in Portogallo con la moglie. Il trattato definitivo di pace, che chiuse la questione della successione, fu stipulato solo nel 1480. Nel 1474, quando Isabella venne incoronata a Segovia, Ferdinando era assente, ma al suo ritorno reclamò i propri diritti di re consorte sulla corona di Castiglia. Isabella, tuttavia, si mostrò restia a una soggezione non contemplata dal diritto successorio castigliano38, finché nel 1475 fu stipulato fra i due sposi un accordo che venne applicato dal 1479, quando le corone di Castiglia e d’Aragona furono unificate: Ferdinando, per la morte del padre, era divenuto, oltre a re di Sicilia, anche re d’Arago38   Per una rassegna degli studi sui fondamenti giuridici che portarono Isabella a regnare sulla Castiglia si veda M. Galán, Estudios jurídicos sobre el papel de la mujer en la Baja Edad Media, in «Anuario Filosófico», 26, 1993, pp. 541-557. Tuttavia, le immagini che rappresentano Isabella o la figlia Giovanna mostrano in evidenza i rispettivi mariti con le insegne del potere bene in mostra e le parole loro attribuite dai contemporanei enfatizzano la priorità del loro ruolo di mogli su quello di sovrane. Si veda R.E. Ríos Lloret, Imágenes De Reinas: ¿Imágenes De Poder? (Siglos XV-XVII), in «Revista Pedralbes», 23, 2003, pp. 371-384.

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na. Il contratto di matrimonio prevedeva che i due Stati, benché uniti, mantenessero governi separati. Fu riconosciuto a Isabella il diritto di esercitare il suo potere regale in Castiglia ma non in Aragona, mentre Ferdinando, oltre a esercitarlo nei suoi domini, poteva amministrare la giustizia in Castiglia congiuntamente con la moglie – o separatamente, se non si fossero trovati fisicamente nello stesso posto. Inoltre, le ordinanze reali castigliane venivano firmate da entrambi, le monete recavano insieme le due effigi e i sigilli reali portavano le armi delle due casate; infine, Ferdinando si occupava della politica estera. Benché affermasse di governare insieme a Ferdinando, Isabella si faceva rappresentare come protettrice della comunità, una posizione allusiva a quella della Vergine Maria, e come discendente di una stirpe di sovrani guerrieri. Era infatti ritratta con la spada sguainata, simbolo del comando e dell’esercizio delle funzioni giudicanti: la santa croce era evocativa della missione dell’imperatore Costantino e della lotta contro gli infedeli in Spagna e alludeva all’impresa di Giovanna d’Arco, che la regina ammirava39. L’attività militare di Ferdinando, che aveva già dato prova di notevoli capacità come condottiero durante la guerra di successione, portò al compimento della Reconquista, con la caduta di Granada, ultima roccaforte musulmana in Spagna, il 2 gennaio 1492. Quanto a Isabella, la sua personalità, sostenuta da grandi convinzioni religiose e da una volontà inflessibile, avrebbe portato a decisioni – prese congiuntamente a Ferdinando – gravide di conseguenze, come l’istituzione dell’Inquisizione in Castiglia nel 1478 e successivamente in Aragona, e l’emanazione dell’editto di Granada, nel 1492, che avrebbe portato prima alla conversione forzata degli ebrei e dei musulmani e più tardi alla loro espulsione. Negli ultimi anni della sua vita, Isabella fu perseguitata dalla malasorte, tanto che alcune cronache dell’epoca paragonarono la virtuosa regina alla Vergine dei Sette Dolori. La perdita del suo unico figlio maschio e l’aborto postumo della vedova, la morte 39   P. Liss, Isabel of Castile (1451-1504). Her Self-Representation and Its Context, in Queenship and Political Power in Medieval and Early Modern Spain, a cura di T. Earenfight, Ashgate, Aldershot (GB)-Burlington (USA) 2005, pp. 120-144 e P.K. Liss, Isabel the Queen. Life and Times (1992), University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2004.

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della sua primogenita Isabella – che aveva sposato Manuel, secondogenito di Alfonso V di Portogallo – e di suo figlio Miguel, mediante il quale si sarebbe unificato il regno dei re cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona con quello del Portogallo, i primi, presunti segni di pazzia da parte di sua figlia Giovanna (che sfidò apertamente sua madre a Medina del Campo), il comportamento insolente di suo genero Filippo d’Asburgo detto il Bello, e l’incerta posizione di sua figlia Caterina dopo la morte del suo sposo inglese (Arturo, fratello maggiore di Enrico VIII Tudor), fecero precipitare Isabella in una profonda depressione e la indussero ad adottare il lutto stretto, anche se nel suo dolore fu sostenuta da una fede incrollabile. Il 26 novembre 1504 Isabella morì: un male incurabile ma non improvviso le aveva dato il tempo per meditare sulla sua vicenda terrena e sulle disposizioni che voleva lasciare dietro di sé. Dei cinque figli che aveva avuto, uno solo dei quali era maschio, le sopravvivevano Maria, sposata al vedovo della sorella, Manuel di Portogallo (una clamorosa deroga alle proibizioni canoniche dei matrimoni entro il quarto grado di affinità!) – segno di un’indomita volontà di perseguire il disegno dell’unificazione delle corone della penisola iberica; Caterina, che cinque anni dopo la morte della madre avrebbe sposato, derogando dalla stessa regola, Enrico VIII Tudor, il fratello del primo marito Arturo; e Giovanna la Pazza, l’erede al trono. Restava anche Carlo, un bambino di quattro anni, figlio di Giovanna. Forse si poteva scommettere su di lui e forse proprio a lui furono indirizzate le disposizioni testamentarie di Isabella, scritte non di suo pugno ma siglate con un imperioso «Io, la regina». Isabella sembrava prefigurare il sogno imperiale che avrebbe inseguito il nipote raccomandando la prosecuzione della Reconquista in Nord Africa e l’esplorazione dell’America, sostenendo la necessità di difendere i diritti «de sus súbditos americanos con los del Viejo Mundo», frase che le ha guadagnato da parte di certa storiografia, immemore delle conversioni obbligate di ebrei e musulmani, il titolo di «Precursora de los Derechos Humanos». È più probabile che con «sus súbditos» la regina intendesse i colonizzatori, non i colonizzati. Comunque, nel 1958 l’archidiocesi di Valladolid ha iniziato il processo di canonizzazione di Isabella,

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che è ancora in corso, per le sue non comuni qualità di fedele e amorosa figlia della Chiesa cattolica. Sua figlia Giovanna era nata nel 1479. Fin da piccola ebbe un’educazione adatta a una femmina, basata più sull’assoggettamento della volontà che sull’apprendimento delle qualità adatte a governare. Per la bambina fu curato soprattutto l’insegnamento della religione, per inculcarle un comportamento compunto e buone maniere adatte all’ambiente di corte, cosa che non si rivelò facilissima. Come precettore ebbe tra gli altri il domenicano Andrés de Miranda. Nell’agosto 1496 la diciassettenne Giovanna salpò da Cantabria su una caracca genovese seguita da un corteo di altre diciannove imbarcazioni con a bordo 3.500 uomini: si trattava di esibire la potenza dei re cattolici, ma anche di scoraggiare qualche colpo di mano da parte dei francesi, i quali sapevano che il matrimonio che Giovanna si apprestava a celebrare nelle Fiandre con Filippo d’Asburgo, arciduca d’Austria, detto il Bello, era stato programmato per contenere l’aggressività dei Valois. La traversata non fu tranquilla e durante una tempesta una caracca con 700 uomini e preziosi abiti e ornamenti della principessa naufragò prima di toccare terra in Zelanda. Quando si incontrarono, Giovanna e Filippo, che non si erano mai visti prima, si innamorarono perdutamente ma per lui la passione fu di breve durata (o almeno le fu spesso infedele) mentre per lei fu la fonte di una gelosia ossessiva. Tra il 1498 e il 1501 nacquero tre figli – tra i quali, il 24 febbraio 1500, Carlo – e per Giovanna le gravidanze e i parti acuirono il malessere e la consapevolezza di non essere più abbastanza attraente agli occhi dello sposo. Nel 1502, per la morte dei fratelli maggiori, Giovanna divenne erede al trono e come tale fu acclamata dalle Cortes castigliane nella cattedrale di Toledo insieme con Filippo. Nel 1503, incinta per la quarta volta e lasciata sola dal marito, dette segni preoccupanti di squilibrio mentale. L’anno successivo fu proclamata formalmente regina di Castiglia ma di fatto il padre Ferdinando prese saldamente possesso del governo. Filippo, però, non accettò di essere messo da parte e nel 1505 ottenne di essere associato al governo da Ferdinando (e, sempre formalmente, da Giovanna). La regina di Castiglia, nello stesso anno, partorì per la quinta volta. Nel giugno 1506 Ferdinando assunse il governo dell’Aragona e Filippo fu proclamato re di Castiglia dalle Cortes di Valladolid

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col nome di Filippo I; il 25 settembre dello stesso anno morì, forse avvelenato. Quando Giovanna decise di far traslare il corpo del suo sposo da Burgos a Granada, secondo quelle che erano state le volontà del re defunto, seguì il feretro, incinta, viaggiando sempre di notte per otto freddi mesi, seguita da una processione sterminata di nobili, dignitari, religiosi, dame di compagnia, servitori. Lungo la strada, il 14 gennaio 1507, partorì l’ultima figlia. Le voci sulla sua pazzia si fecero più insistenti. Non voleva cambiarsi d’abito, non voleva lavarsi. Bastarono questi segni evidenti di un grave stato depressivo, sommati alla gelosia morbosa degli anni precedenti e ai malesseri che avevano accompagnato le sue gravidanze e seguito i suoi parti per far risolvere Ferdinando il Cattolico a riprendere la reggenza della Castiglia e a segregarla in un monastero a Tordesillas nel febbraio 1509, per evitare che si costituisse un partito di nobili castigliani attorno a sua figlia. Ferdinando morì nel 1516; nel testamento aveva voluto che Giovanna fosse nominata formalmente regina d’Aragona ma la sua volontà non fu accettata dagli organi rappresentativi del regno e pertanto il figlio di Giovanna e Filippo, Carlo, si proclamò re insieme con la regina sua madre, assumendo il nome di Carlo I. Carlo, erede tramite la madre dei regni di Castiglia e d’Aragona, e Giovanna regnarono formalmente insieme: Giovanna non fu mai dichiarata incapace dalle Cortes castigliane che non le revocarono mai il titolo di regina. Mentre visse, nei documenti ufficiali il suo nome doveva essere anteposto a quello di Carlo. Carlo I di Castiglia e di Aragona (e di molte cose ancora), nel 1519 diventò imperatore del Sacro Romano Impero, col nome di Carlo V. Sua madre rimase sempre a Tordesillas dove morì nel 1555. La pazzia di Giovanna fu messa in dubbio da Gustav Adolf Bergenroth, un funzionario prussiano nato nel 1813, esiliato come rivoluzionario nel 1848 e morto a Madrid nel 1869, il quale sostenne, sulla base di un’imponente documentazione inedita40, che 40   Nel 1868 Bergenroth a Londra dette alle stampe, in copia integrale, i documenti raccolti con il titolo di Calendar of Letters, Despatches, & c., relating to Negotiations between England and Spain. Tra i documenti pubblicati diede particolare risalto ai centoquattro che riguardavano la vicenda storica di Giovanna di Castiglia, che ne provavano la sanità mentale in contrapposizione con la versione ufficiale che la voleva insana di mente. Fra questi uno riportava uno scritto di Adriano di Utrecht, il futuro papa Adriano VI, particolarmente legato a Carlo V,

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nel 1520 la regina era ancora in possesso delle sue facoltà mentali: sarebbe stato Ferdinando il Cattolico a diffondere la versione della follia della figlia, per estrometterla dal governo dopo la morte di Isabella. Suo nipote Carlo si sarebbe servito dello stesso pretesto, dopo la morte del nonno, per mantenere il dominio sulla Castiglia, vacillante per la rivolta dei Comuneros scoppiata in maggio. In agosto i ribelli occuparono Tordesillas, liberando Giovanna e cercando di farla passare dalla loro parte. Giovanna ricevette diverse volte i rappresentanti degli insorti ma non accettò mai di porsi in contrasto con il figlio e rifiutò sempre di firmare qualsiasi documento che legittimasse la loro azione. Proprio questo suo atteggiamento sarebbe stata la prova che Giovanna era in possesso delle sue facoltà mentali. Solo in seguito, per i maltrattamenti subiti nella lunga prigionia, si sarebbe manifestata la terribile malattia mentale che afflisse Giovanna fino alla morte. Un anno dopo, nel 1869, un altro studioso tedesco riprendeva la tesi di Bergenroth, pubblicando uno scritto sostenuto da nuovi documenti, Une énigme de l’histoire. La captivité de Jeanne la Folle d’après des documents nouveaux41, con cui contestò la follia della regina di Castiglia: Giovanna, lentamente, dopo una serie infinita di piccole e grandi angherie, sarebbe stata volutamente ridotta in uno stato di abbrutimento. Nel 1868 Aloïs Heiss respinse questa ricostruzione con varie argomentazioni ricavate da documenti ufficiali, fra i quali la più convincente è che la futura regina aveva dato segni inequivocabili di pazzia nel 1503 e che l’anno successivo tale stato di malattia mentale era stato formalmente riconosciuto nel testamento di Isabella42. Nel Novecento una studiosa americana, Amarie Dennis, dalla lunga vita avventurosa (1912-2010), che per ventotto anni ha lavorato negli archivi di Madrid, pubblicò cinque biografie, delle nel quale comunicava all’imperatore che tutti testimoniavano della sanità mentale di Giovanna, precisandogli anche la sua convinzione che il figlio avesse usurpato il titolo reale alla madre e che tenesse prigioniera a forza la regina, col pretesto della sua follia. 41   K. Hillebrand. Un enigma della storia, Sellerio, Palermo 1986 (ed. orig. 1869). 42   A. Heiss, La démence de la reine Jeanne de Castille, femme de Philippe le Beau et mère de Charles-Quint, in «Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», 33, 1889, 3, pp. 167-168.

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quali una sulla regina Giovanna. Nel libro, del quale ho visto l’edizione francese del 195643, la Dennis ritenne che la prova inconfutabile fosse quella del documento più ufficiale – il testamento di Isabella –, interpretato come un segno della consapevolezza della regina dello stato mentale della figlia, perché vi si accennava alla pazzia dandola per scontata, senza spiegazioni ulteriori. A questo si sarebbe aggiunta la prova ex silentio, costituita dall’assenza di obiezioni da parte dei rappresentanti delle comunità, dei prelati e dei grandi del regno riuniti nelle Cortes, come se da quel breve accenno fosse stata colta una realtà conclamata44. Più recentemente Bethany Aram ha riconsiderato la leggenda infamante della regina – uno dei personaggi più famosi ma meno studiati del Rinascimento –, ritratta convenzionalmente come una moglie pazzamente innamorata e succube della sua gelosia, una donna in preda a profonde crisi depressive, una regina incapace di governare. Aram riprende le argomentazioni e i documenti già esaminati centocinquant’anni prima chiedendosi se Giovanna fosse stata davvero pazza o se invece fosse stata vittima di una famiglia che sottoponeva i suoi membri a uno stretto controllo, reprimendone le pulsioni individuali. La tesi che viene sostenuta è che come regina Giovanna si adoperò senza risparmio per garantire la successione al figlio e imporre in Spagna la dinastia degli Asburgo: una donna la cui immensa importanza nella storia europea sarebbe stata misconosciuta. La sua pazzia, in definitiva, sarebbe stata l’indisciplina e l’incapacità di adattamento alle regole imposte al suo rango e al suo sesso, che erano iniziate con la ribellione alla madre nel 1503 e che, credo, aggravarono una forma maniaco-depressiva oggi spesso curabile, ma non allora e non nel ruolo chiave nell’evoluzione del sistema politico europeo che le toccò in sorte45.   A. Dennis, Jeanne la folle, mère de Charles V, Hachette, Paris 1956.   Ivi, pp. 122 sgg. 45   Aram, Juana the Mad cit. 43 44

IV Governare per amore: buone madri, care sorelle, amorose zie 1. Uno stile di genere? A partire dal XV secolo in Europa si afferma quasi ovunque la successione in linea maschile, sia nelle famiglie aristocratiche, sia nelle dinastie regnanti; in Francia la finzione giuridica che escludeva le donne dall’esercizio della sovranità fu avvalorata contro le rivendicazioni delle eredi collocando la legge salica in una dimensione atemporale, legandola alle origini della monarchia e facendo di essa una delle leggi fondamentali del regno. L’efficacia di questa esclusione si può verificare dal fatto che, quando facciamo riferimento alla regalità femminile, l’immagine più immediata non è quella di regina-regnante ma quella di regina-consorte1. I cerimoniali dell’incoronazione e dell’unzione della regina, complementari a quelli del re, sottolineano la mancanza di autonomia del suo ruolo. Anche in veste di reggente per i figli minori, la regina viene legittimata dalla presenza del re, e i governi di Caterina e di Maria de’ Medici e di Anna d’Austria sono conferme dei confini incerti del loro potere; tuttavia né questi né altri esempi autorizzano a valutare indifferentemente le reggenze come periodi di instabilità o di inerzia, conseguenti all’incapacità a governare delle donne: è 1   M.A. Visceglia, Politica e regalità femminile nell’Europa della prima età moderna. Qualche riflessione comparativa sul ruolo delle regine consorti, in Storia sociale e politica. Omaggio a Rosario Villari, a cura di A. Merola, G. Muto, E. Valeri, M.A. Visceglia, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 425-458, p. 427. Si veda inoltre M. Nassiet, Parenté, noblesse et étas dinastiques XVe-XVIe siècles, Editions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 2000.

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vero piuttosto che a tutte è toccato assumere il potere in periodi di particolare crisi dovuta alla morte del sovrano e alla minorità dei figli, soggetti alle pressioni dei principi e delle fazioni di corte. Quando si parla di queenship si deve distinguere tra coloro che erano regine sui juris da coloro che invece esercitavano il potere in qualità di reggenti, per la temporanea incapacità dei figli, o di affidatarie di delicate missioni per conto dei sovrani; se ci limitiamo al primo caso, la tendenza che si riscontra ovunque nel Cinquecento è indubbiamente quella di restringere – con maggiore o minore successo – le possibilità di successione femminile al trono, accreditando l’idea che il governo delle donne dovesse considerarsi un’anomalia, da valutare non in termini politici ma, nel migliore dei casi, nella sfera delle virtù eroiche – compresa la santità2. Proprio dal XVI secolo, tuttavia, la presenza di regine ai vertici del potere si manifestò in modo quasi spettacolare nei vari casi di reggenza: un ruolo che non forzava l’ordine «naturale» e le gerarchie tra i sessi, in quanto veniva ricoperto in nome dei sovrani legittimi, come estensione delle funzioni e delle relazioni famigliari al governo dello Stato3. Anche per questi casi, fino a tempi recenti, la storiografia ha sovrapposto al giudizio sulle capacità di governo quello sulle individualità, sui vizi e sulle debolezze, sulle virtù e sui meriti «femminili» delle reggenti, e sulla loro conformità ai ruoli assegnati alle donne nella sfera domestica4. In particolare, la formalizzazione e la ritualizzazione degli attributi di sovranità ha comportato un parziale distacco dalla concretezza delle singole personalità dei regnanti, con esiti diversi per uomini e donne. Mentre l’autorità del sovrano, trasfigurata dalle metafore della sacralità del potere, si è separata dalla sua persona fisica per affermare il principio astratto

2   S. Cabibbo, La santità femminile dinastica (1650-1650), in Donne e fede, a cura di L. Scaraffia e G. Zarri, Laterza, Roma-Bari 1994. 3   F. Cosandey, Quelques réflexions sur les transmissions royales maternelles: la succession de Catherine de Médicis, in Women Rulers in Europe. Agency, Practice and the Representation of Political Powers (XII-XVIII), a cura di G. Calvi, EUI Working Papers, HEC n. 2008/2, pp. 62-71, http://cadmus.eui.eu/bitstream/ handle/1814/9288/HEC_2008_02.pdf?sequence=1. 4   Per alcune considerazioni generali si veda K.A. Lynch, The Family and the History of Public Life, in «The Journal of Interdisciplinary History», 34, 1994, 4, pp. 665-684.

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della continuità del potere – «il re è morto, viva il re» –, la legittimazione delle regine, come quella delle altre donne, è rimasta legata e circoscritta alla sfera naturale e alla specificità sessuale dei loro ruoli ed è stata concomitante con la cancellazione dei loro diritti alla successione5. Così come la tutela dei figli veniva in genere riconosciuta alle vedove per garantire i loro interessi di eredi diretti in concorrenza con quelli dei collaterali, anche alle regine-vedove erano attribuite le funzioni di governo per conto della dinastia e degli eredi al trono: ciò avveniva in considerazione del vincolo affettivo che legava le vedove ai sovrani defunti, e della aspettativa, fondata sul loro amore materno, che esse avrebbero agito disinteressatamente, per il bene dei figli – e quindi dello Stato –, ma anche e soprattutto in considerazione della loro esclusione dall’esercizio del potere per diritto proprio. Le reggenti, tuttavia, in alcuni casi furono investite delle loro facoltà in momenti particolarmente critici, che le spinsero di fatto ad anteporre i loro obiettivi politici all’amore per i figli. La lezione di Machiavelli fu efficace anche per le donne: Caterina de’ Medici agì contro le inclinazioni della figlia Margherita per pacificare cattolici e ugonotti; Caterina Sforza si dichiarò pronta a cedere i figli per mantenere il suo Stato. Mentre il sovrano veniva irrigidito nella fissità iconica del simbolo, diventando il vertice di un ordine, l’incarnazione del potere, il garante della giustizia, l’unto dal Signore, sia la funzione della reggente, non sacralizzata da un rituale, sia la sua persona, non «separata» nel simbolo dalla sua realtà fisica, restavano bersagli di attacchi, prevalentemente nella forma di ingiurie contro il suo sesso. D’altra parte, proprio per la debolezza istituzionale della reggenza, l’accesso delle donne al potere richiese la capacità di annodare allean­ze, neutralizzando e manovrando le fazioni di corte, per sostenersi e acquistare autorità. Membri della famiglia naturale del sovrano, le reggenti dovettero collegarsi con le famiglie dei pari del regno, dei grandi nobili, entrare nella dinamica delle lotte di potere. La sintesi di Natalie Zemon Davis, del 1991, Donne e politica6, ha affrontato direttamente il tema dell’esercizio del potere da   Cosandey, Quelques réflexions cit.   In G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne. Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di N. Zemon Davis e A. Farge, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 201-219. 5 6

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parte delle regine, ponendo il problema di uno «stile di genere», chiedendosi cioè se si possa riconoscere una diversità specifica nel governo delle donne rispetto a quello degli uomini. La sua risposta, tuttavia, fondata sull’esame dei casi di Elisabetta Tudor, di Caterina de’ Medici e di Anna Stuart, è rimasta contenuta all’interno di una caratterizzazione sommaria delle singole personalità e limitata alle immagini simboliche che ciascuna regina avrebbe scelto per legittimare la propria sovranità. Il saggio della Zemon Davis ha costituito però una bussola preziosa per i molti studi che da allora sono stati pubblicati, soprattutto in ambito anglosassone e francese. Lo stile di Elisabetta è definito di austerità seduttiva: Quando era necessario la Regina Vergine appariva come una figura mascolina, capace di dare coraggio ai suoi soldati, ed era anche una figura iconica, una degna sostituzione dell’immagine cattolica della Vergine Maria [...]. Come Regina Vergine, essa poteva anche affermare di essere amante, moglie e madre per il popolo d’Inghilterra e per i suoi cortigiani, poteva parlare con loro ed essere desiderata da loro con il linguaggio dell’amore [...]. Elisabetta sviluppò uno stile di autocontrollo femminile che mantenne la sua autorità regale nel quadro del pensiero gerarchico del XVI secolo7.

La complessa esperienza di governo della reggente Caterina è ovviamente contrassegnata dallo stile materno: Pertanto non poteva avere un atteggiamento seduttivo verso il suo popolo, ma poteva almeno essere devota al loro ultimo re. Si immaginava come una donna che aveva dato dei re alla Francia [...]; ella poté, pertanto, porre la maternità al centro della sua regalità, facendone la fonte della sua protezione, della sua carità, della sua risoluta difesa dei figli maschi e della sua ricerca di ordine [...]. In questo può risiedere una parte delle sue difficoltà, in quanto la figura materna e il matriarcato erano immagini con una doppia valenza nel XVI secolo. Quando il delitto seguì la veglia matrimoniale, come accadde nel massacro del giorno di San Bartolomeo, la regina madre poté facilmente venir presentata come una strega (e una avvelenatrice italiana da cacciare)8. 7 8

  Ivi, p. 205.   Ivi, pp. 206-207.

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Quanto ad Anna, regina d’Inghilterra dal 1702 al 1714 insieme al marito Giorgio di Danimarca, sebbene disponesse di un proprio giudizio, spesso anche molto determinato, le sue relazioni con altre donne e le sue amicizie femminili facevano sì che ella fosse giudicata «debole» e dominata dalle sue favorite. Ma si potrebbe anche affermare che il suo stile muliebre fosse una strategia appropriata per rafforzare la sua idea di monarchia e di unità nazionale durante quel periodo di forte crescita dei partiti. Una regina più mascolina avrebbe potuto provocare una rivolta, una più matriarcale il disprezzo9.

Alcuni elementi della formazione intellettuale – soprattutto, una raffinata educazione umanistica – e non pochi atteggiamenti tendenzialmente favorevoli alla soluzione pacifica delle crisi interne e internazionali sono caratteristiche comuni a molte sovrane e governanti dei secoli XVI e XVII. Ma è davvero possibile riconoscere una tendenza irenica, una vocazione per la ricomposizione delle fratture, con esiti diversi, nell’operato di gran parte delle donne che assunsero il potere in Europa negli anni e nei luoghi di maggiore tensione? Un’interpretazione in chiave di mediazione/ pacificazione era già stata formulata da Frances Yates per la simbologia adottata da Elisabetta Tudor e da Caterina de’ Medici. Nel caso di Elisabetta, l’immagine di Astrea si prestava a una grande flessibilità: «Da Vergine apertamente protestante e antipapista, poteva diventare una dea più elusiva», in grado di attrarre nella propria orbita sia protestanti, sia cattolici ‘politiques’ [...] L’ambiguità della Vergine servì al doppio scopo di tenere a bada le potenze straniere, e di rendere confusa la questione religiosa nella mente dei suoi sudditi. Gli elementi mitologici, complessi e contrastanti, del simbolo Elisabetta Vergine costituiscono quindi un adeguato riflesso dei conflitti e delle antitesi che il compromesso elisabettiano cercò di superare. La ‘pace imperiale’ di Elisabetta copriva, non senza profonde tensioni interne, opinioni religiose contrastanti10.   Ivi, p. 208, corsivo mio.   F.A. Yates, Astrea. L’idea di impero nel Cinquecento, Einaudi, Torino 1978 (ed. orig. 1975), p. 103. 9

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Per quanto riguarda Caterina, la Yates si è soffermata in particolare sulla rappresentazione «di una donna, nei sembianti della regina madre, che regge una mappa della Gallia» e sulle decorazioni che alludono ai suoi sforzi per giungere alla pacificazione [...]. Era un giusto riconoscimento assegnare l’immagine di pacificatrice delle guerre di religione a Caterina de’ Medici, la cui politica era sempre stata erasmiana e tollerante; era stata fautrice dei colloqui di Poissy, durante i quali si era tentato di dare una soluzione al problema dello scisma, e si era circondata di aderenti al partito ‘politique’, quello moderato propenso alla conciliazione11.

Una peculiarità che sembra costituire un filo conduttore per interpretare esperienze di governo femminili anche molto diverse tra di loro può essere riconosciuta nei comportamenti che molte donne al potere o vicine ai vertici del potere per legami di sangue o di matrimonio manifestarono nel clima di rinnovamento religioso della prima metà del Cinquecento. Per l’Italia centro-settentrionale, Silvana Seidel Menchi ha accertato che l’erasmianesimo era rappresentato da gentildonne ricche e colte, legate come mogli o figlie a famiglie di primo piano nella politica ed esse stesse patronesse del vasto reticolato del dissenso religioso12. Nello stesso clima di rinnovamento, anche se in parziale distacco da Erasmo, era maturata l’esperienza culturale e spirituale di Margherita d’Angoulême, regina di Navarra, sorella di Francesco I. Autrice nel 1531 di quel Miroir de l’âme pécheresse (Specchio dell’anima peccatrice) che fu tradotto in inglese dall’undicenne Elisabetta Tudor13, fu anche lei vittima di una leggenda infamante, inventata da François Génin nel 184214 e accolta da Jules Michelet, come sorella incestuosa15. 11   Ivi, p. 160. L’immagine alla quale si allude è la fig. 46, riprodotta nel libro della Yates. 12   S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia. 1520-1580, Bollati Boringhieri, Torino 1987. 13   B.S. Anderson, J.P. Zinsser, Le donne in Europa, vol. III, Nelle corti e nei salotti, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 87. 14   Nouvelles lettres de la Reine de Navarre adressées au roi François Ier, son frère / publiées d’après le manuscrit de la Bibliothèque du Roi par F. Génin, Renouard, Paris 1842. 15   L. Febvre, Amor sacro, amor profano. Margherita di Navarra: un caso di psico-

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Durante la campagna in Italia di Francesco I, dal 1524, Margherita d’Angoulême aveva governato la Francia con la madre Luisa di Savoia. Dopo la cattura del re seguita alla battaglia di Pavia, nel febbraio 1525, Margherita avviò le trattative per la sua liberazione e in settembre raggiunse la Spagna, incontrando il fratello e Carlo V. Fu [...] necessario [...] negoziare, contendere la libertà del re all’imperatore, ai suoi ministri, ai suoi consiglieri [...]. Margherita fece del suo meglio. Assicurò allo sfortunato re la simpatia delle donne, di Eleonora del Portogallo, sorella di Carlo V, scelta come sposa per Francesco, che romanticamente si innamorò del prigioniero. Margherita [...] però [...] si era trovata [...] inaspettatamente di fronte alla volontà ben calcolata di continuare a tenere Francesco prigioniero.

Successivamente a un fallito tentativo di far evadere il fratello, Margherita lasciò la Spagna con un documento del re che «le conferiva, nel caso che sua madre Luisa non avesse potuto esercitarlo, l’incarico di condurre gli affari di Francia con ogni autorità». Francesco fu liberato pochi mesi dopo16. Se la riforma protestante si diffuse in Francia negli anni Venti del Cinquecento fu in gran parte grazie al fatto che i principali esponenti del movimento e le loro pubblicazioni furono favoriti dalla sorella del re, che divenne regina di Navarra nel 1527. Myra Orth ha studiato uno scritto rimasto inedito, L’Initiatoire instruction en la religion Chrestienne pour les enffans. Pensato per i gusti della regina, il manoscritto è raffinato e prezioso ed è risultato essere il primo catechismo riformato francese. In quegli stessi anni Margherita diventava madre e sicuramente si servì di questo manuale per l’educazione della figlia Giovanna17. Lucien Febvre si è chiesto come potessero convivere nella stessa persona questa devota regina e l’autrice di una famosa raccolta di logia nel ’500, Cappelli, Bologna 1980, p. 193. L’opera di Michelet a cui si riferisce Febvre è l’Histoire de France, t. VII, Renaissance, P. Chamerot, Paris 1855, cap. XVI. 16   Febvre, Amor sacro, amor profano cit., pp. 50-51. 17   M.D. Orth, Radical Beauty: Marguerite de Navarre’s Illuminated Protestant Catechism and Confession, in «The Sixteenth Century Journal», 24, 1993, 2, pp. 383-427. Si veda anche N.L. Roelker, The Appeal of Calvinism to French Noblewomen in the Sixteenth Century, in «The Journal of Interdisciplinary History», 2, 1972, 4, pp. 391-418.

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scritti licenziosi, l’Heptaméron: un’apparente contraddizione che il grande storico ha cercato di sciogliere calandosi nella psicologia degli uomini e delle donne del tempo e soprattutto riscoprendo il profondo valore morale delle novelle di Margherita, veri e propri caustici ma indulgenti ritratti delle debolezze umane e in particolare delle contraddizioni insite nel matrimonio. Tali contraddizioni sono denunciate soprattutto nelle forme che potevano assumere nelle unioni regali, unioni quasi mai emotivamente partecipate, fatte per calcolo politico e che per questo richiedevano compensazioni al di fuori del rapporto di coppia. Anche la storia delle donne della sua famiglia lo aveva insegnato a Margherita, una parvenue, come la definisce Febvre, che però si rapporta al re non solo come una sorella, ma come una duchessa e una regina per diritto proprio e come una protagonista politica del suo tempo18. Margherita era nata nel 1492 da Luisa di Savoia, figlia a sua volta del conte di Bresse, un mediocre esponente di un ramo cadetto dei Savoia. Il padre, Carlo conte d’Angoulême, era stato praticamente costretto a sposare Luisa da Luigi XI, perché il re non voleva che la posizione di Carlo in linea successoria mettesse a rischio la propria e che per il conte d’Angoulême le chances di ereditare il trono diventassero troppe, sposando una donna di condizione più elevata. Da parte sua Luisa, sposa a dodici anni, da donna paziente e convinta dei suoi scarsi mezzi aveva accettato un marito scomodo, colto e distratto da troppi interessi, accogliendo anche numerosi figli bastardi avuti dall’intraprendente conte d’Angoulême, il quale peraltro morì a trentaquattro anni, lasciandola vedova a diciotto, con la figlia Margherita di tre e con il figlio Francesco di uno19. Carlo VIII non lasciò dopo di sé eredi diretti. Nel 1498, alla sua morte, si scontarono anche gli effetti delle decisioni che a suo tempo erano state prese da Luigi XI, quando si era preoccupato di ostacolare anche Luigi d’Orléans – così come aveva fatto con 18   B. Stephenson, The Power and the Patronage of Marguerite de Navarre, Ashgate, Aldershot (GB)-Burlington (USA) 2004, pp. 114-115. Per una biografia recente su Margherita si veda P.F. Cholakian, R.C. Cholakian, Marguerite de Navarre. Mother of the Renaissance, Columbia University Press, New York 2006. 19   Su Luisa e il suo ruolo nell’ascesa al trono di Francesco si veda J.F. Freeman, Louise of Savoy: A Case of Maternal Opportunism, in «The Sixteenth Century Journal», 3, 1972, 2, pp. 77-98.

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Carlo d’Angoulême – imponendogli un matrimonio che non gli desse speranza di successione con sua figlia Giovanna, deforme e presumibilmente non in grado di procreare (quella che Guicciardini descriveva «brutta, gobba e sterile»), perché non desse discendenza agli Orléans20. Tuttavia restava la vedova di Carlo VIII, la duchessa Anna di Bretagna, ricca, giovane e bella. Luigi d’Orléans, diventato Luigi XII, ottenne dal papa Alessandro VI un rapido annullamento del suo matrimonio con Giovanna di Valois e la sposò. La storiografia ottocentesca ha accolto incondizionatamente la giustificazione del matrimonio come coronamento dell’amore del re per Anna21. In ogni caso, come aveva voluto Luigi XI, il ramo degli Orléans non ebbe successione maschile. Infatti Anna di Bretagna, che aveva dato a Carlo VIII quattro figli morti in fasce, con Luigi XII partorì due figlie, Claudia e Renata. Mentre l’erede maschio non arrivava – due figli erano morti appena nati – e dopo varie trattative matrimoniali condotte da Luigi XII per Margherita (colta ma povera e non particolarmente avvenente), nel 1506 aveva concluso il fidanzamento tra l’altro figlio di Carlo d’Angoulême e Luisa di Savoia, Francesco – che aveva sette anni – e una figlia sua e di Anna di Bretagna, Claudia. Questa scalata sociale del fratello permise anche a Margherita di trovare, diciassettenne, un partito conveniente che accettò di sposarla, Carlo duca di Alençon. Nel 1514 moriva Anna di Bretagna senza aver dato al marito un erede maschio. Luigi si sposò per la terza volta a cinquantatré anni con Maria Tudor, sorella di Enrico VIII d’Inghilterra, ma 20   Giovanna, dopo aver dedicato la vita alla devozione alla Vergine Maria, fondò a Bourges nel 1502 un ordine di contemplative francescane, le Annunziate, e fu sepolta nel 1505 nella cappella del loro convento. Poco dopo la sua morte si parlò di miracoli e guarigioni per sua intercessione. La sua tomba fu profanata dagli ugonotti nel 1562. Nel 1742 Benedetto XIV la proclamò beata e fu canonizzata nel 1950 da Pio XII come santa Giovanna di Valois. Si vedano S. Bertière, Les Reines de France au temps des Valois, 3 voll., Éditions de Fallois, Paris 1994, vol. I, pp. 101 sgg., dove si parla di Le calvaire de Jeanne de France. 21   A. Le Roux De Lincy, Détails sur la vie privée d’Anne de Bretagne, femme de Charles VIII et de Louis XII, in «Bibliothèque de l’École des chartes», 11, 1850, pp. 148-171. Sugli onori resi alla regina al suo ingresso a Parigi e in occasione della sua sepoltura si veda C.J. Brown, The Parisian Entry (1504) and Funeral (1514) of Anne of Brittany, in «Yale French Studies», numero monografico, Meaning and Its Objects: Material Culture in Medieval and Renaissance France, 110, 2006, pp. 75-91.

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morì l’anno dopo. Alla fine Margherita si trovò sorella del re di Francia, Francesco I, anche se Maria Tudor aspettò la fine di un ciclo mestruale prima di tornarsene in Inghilterra, sperando di essere incinta. La morte della regina Claudia, moglie di Francesco I, nel 1524, fece di Margherita la responsabile dell’educazione delle figlie del re. A Lione, dove si era sistemata con la madre e con le nipoti per avere notizie più rapide, durante l’ultima fase delle guerre d’Italia, nel 1525, la raggiunse la notizia che Francesco era stato fatto prigioniero dall’imperatore Carlo V d’Asburgo. Quasi contemporaneamente Margherita rimase vedova. Su di lei e sulla madre Luisa era ricaduto per questo tutto l’onere del governo del regno e l’iniziativa di una trattativa per la liberazione del fratello. Dopo una burrascosa traversata per mare e un estenuante viaggio a cavallo a tappe forzate, Margherita attraversò mezza Spagna e raggiunse Madrid. Qui confortò Francesco, febbricitante e stremato per la prigionia, e poi avviò le trattative per la sua liberazione. Carlo V pretendeva un matrimonio tra Francesco e sua sorella Eleonora, che avrebbe esteso anche alla Francia la sua già smisurata potenza, e la cessione della Borgogna. Margherita cercò di organizzare la fuga del fratello, ma il tentativo fallì per il tradimento di un valletto, e Margherita fu costretta a tornare in Francia. Fu preceduta comunque dalla fama di donna eccezionale, capace di governare il regno con l’amplissimo mandato di procura ricevuto. Francesco fu rilasciato di lì a poco e il credito acquisito permise alla sorella di trovare presto un nuovo marito: si era parlato addirittura di Enrico VIII e dello stesso Carlo V come pretendenti, ma lei scelse Enrico d’Albret, nominalmente re di Navarra, dominio che il re aveva recuperato nel 1520 dalla Spagna ma che poco dopo gli era stato tolto di nuovo da Carlo V. Un re e una regina senza regno, dunque, ma che conducevano una vita di corte brillante al seguito di Francesco I. 2. L’evangelismo dei circoli di corte Margherita si formò negli stessi anni e all’interno dello stesso contesto culturale di Renata di Francia, sorella di Claudia, la prima moglie di Francesco I. Entrambe furono influenzate dall’insegnamento del teologo e umanista Jacques Lefèvre d’Étaples,

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uno dei maggiori esponenti dell’evangelismo francese. Gli studi di Delio Cantimori hanno messo in evidenza il gran movimento di calvinisti attorno alla corte estense e il viaggio a Ferrara di Calvino stesso nel 1536 su invito di Renata, che nel 1528 aveva sposato Ercole II d’Este, duca di Ferrara. Il duca, troppo legato all’ortodossia cattolica e all’opportunità politica per tollerare la presenza a corte di Calvino, lo allontanò ma la duchessa continuò la corrispondenza con lui e la sua opera di protezione a favore dei centri di diffusione di opuscoli protestanti. Confinata dal marito dal 1554, nel 1559 Renata fu costretta a tornare in Francia dall’ostilità del figlio Alfonso, divenuto duca di Ferrara, ferventissimo cattolico e soprattutto condizionato dalla rigidità degli equilibri politici sancita proprio in quell’anno dalla pace di Cateau-Cambrésis22. Eppure, anche l’esperienza di Renata dimostra che fino alla metà del secolo XVI secolo restarono in essere quei rapporti femminili ramificati su tutta Europa e connotati, più che dal rigore dottrinale, dalla comune adesione alle aspirazioni condivise di rinnovamento spirituale che collegarono le principali corti, trasversalmente alle fratture imposte dallo scisma religioso. Attorno al 1540, quando aveva perso buona parte del suo ascendente sul fratello, Margherita di Navarra, entrò in relazione con Vittoria Colonna, che Juan de Valdès guidava verso un misticismo erasmiano e riformato insieme. Allora Margherita si lega d’intenti a quest’élite di uomini e soprattutto di gran dame e principesse: Renata di Francia, duchessa di Ferrara; Eleonora Gonzaga, di Urbino23.

Questi contatti allargati, questo rinnovamento spirituale e culturale che avevano segnato la formazione di molte nobildonne europee, nella seconda metà del secolo furono messi alla prova dalla brutalità delle contrapposizioni religiose e politiche. In queste condizioni dovettero agire l’«intrigante» Caterina de’ Medici 22   D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Einaudi, Torino 1992, pp. 527-528. Su Renata ed Ercole II si veda C. zum Kolk, Les difficultés des mariages internationaux: Renée de France et Hercule d’Este, in Femmes et pouvoir politique. Les princesses d’Europe, XVe-VIIIe siècle, a cura di I. Poutrin e M.-K. Schaub, Bréal, Rosny-sous-Bois 2007, pp. 102-119. 23   Febvre, Amor sacro, amor profano cit., p. 307.

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e la «vergine» Elisabetta Tudor, incalzate dalle pressioni egemoniche di Filippo II. Tuttavia, la vocazione mediatrice delle donne fu probabilmente messa alla prova non solo ai vertici del potere. Per capire i contesti nei quali si è potuto affermare il protagonismo politico delle donne è indispensabile indagare i periodi di transizione e di rottura di equilibri consolidati e di forti tensioni sociali. Uno studio su Jeanne de Gontault, una dama appartenente a una famiglia molto potente, estende dalle regnanti alle aristocratiche il raggio di azione delle donne attive nel mezzo secolo di guerre di religione e di fazioni di corte che sconvolsero la Francia. Nata nel 1520, Jeanne fu per molti anni dama di Caterina de’ Medici, poi di Margherita di Valois; usò le sue ricchezze e la capacità di annodare relazioni politiche sia tra i cattolici che tra gli ugonotti a favore del marito; in seguito, ormai vedova, fece pesare tutta la sua influenza per vendicare l’uccisione di uno dei figli, ottenendo una punizione esemplare per il colpevole, uno dei favoriti di Enrico III24. Ricerche successive hanno ricostruito la ramificazione internazionale di regnanti e aristocratiche, colte e tendenzialmente tolleranti, la quale penetrava anche nel reticolo delle parentele degli Asburgo, come già era evidente anche dai lavori di Lucien Febvre. Maria d’Ungheria fu educata come i fratelli Carlo (il futuro imperatore Carlo V), Eleonora e Isabella alla corte rinascimentale di Malines, nel Brabante, dalla zia Margherita d’Austria, governatrice dei Paesi Bassi; durante la sua reggenza si diffusero l’evangelismo umanista e la dissidenza religiosa, nei confronti dei quali Margherita avrebbe però finito per assecondare la politica repressiva dell’imperatore25. La sua azione di governo è stata qualificata come «prudente»26, anche se questo giudizio non le rende giustizia, quasi che la governatrice non avesse mai voluto prendere l’iniziativa per inerzia piuttosto che optare volutamente per 24   R.J. Kalas, The Noble Widow’s Place in the Patriarchal Household: the Life and Career of Jeanne de Gontaut, in «The Sixteenth Century Journal», 24, 1993, 3, pp. 519-539. 25   B.J. Spruyt, «En bruit d’estre bonne luteriene»: Mary of Hungary (1505-58) and Religious Reform, in «The English Historical Review», 431, 1994, pp. 275-307. 26   L. Febvre, Filippo II e la Franca Contea. La lotta fra nobiltà e borghesia nell’Europa del Cinquecento, Einaudi, Torino 1979 (ed. orig. 1970), p. 40.

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una neutralità tempestiva. Scelta dai rappresentanti della contea di Borgogna, di cui divenne signora a vita nel 1508, con grande entusiasmo dei suoi abitanti [...] li fece vivere una vita feconda di lenta ricostruzione e di arricchimento, in pace e in prosperità [...] Alla «buona Margherita» la Contea dovette un saggio governo

grazie a due patti di neutralità stipulati con la Francia «in un’età agitata più d’ogni altra»27. Maria, sposata sedicenne con Ludovico d’Ungheria, rimase vedova dopo quattro anni e rifiutò di contrarre seconde nozze. Nel 1531, dopo la morte della zia Margherita, cedette alle pressioni di Carlo V e si trasferì a sua volta nei Paesi Bassi come governatrice per conto del fratello. Fino a quella data Maria aveva manifestato un’inequivocabile adesione all’evangelismo. Contrariamente alle opinioni più diffuse, che sostengono che vi sia stata una frattura con gli ambienti riformati in seguito all’incarico ricevuto, sembra che Maria abbia seguito una corrente del riformismo evangelico che fondamentalmente non entrava in conflitto con la sua lealtà nei confronti degli Asburgo. Nel 1528 il suo cappellano, Henckel, la descrisse a Erasmo come una donna colta e molto amante della pace, e nel 1529 le venne dedicato da Erasmo stesso il De vidua christiana. Come governatrice, i due incarichi più importanti che le vennero affidati furono il consolidamento del potere degli Asburgo e la lotta contro la Riforma. Maria avrebbe mantenuto il potere nei Paesi Bassi fino al 1555. La situazione che dovette affrontare fu, da una parte, l’emergente movimento popolare rivoluzionario; dall’altra, il radicalizzarsi della dissidenza religiosa. Nei confronti degli anabattisti Maria adottò un atteggiamento attivamente persecutorio, che culminò nel 1550, quando i colpevoli d’eresia furono stigmatizzati come sediziosi e sovvertitori dello Stato e condannati a morte senza eccezione, così come era già avvenuto a Zurigo e a Münster. In particolare, il rigore di Maria si accentuò quando le accuse di eterodossia e resistenza al centralismo antiasburgico 27   Ivi, pp. 34, 36-37. Un giudizio positivo sul governo di Margherita d’Austria, che si mostrò abile nei negoziati internazionali «più di molti uomini» è ora in S.L. Jansen, The Monstrous Regiment of Women. Female Rulers in Early Modern Europe, Palgrave Macmillan, New York 2002, p. 90.

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erano rivolte alla nobiltà. Ma non fu un segreto che lei stessa fece fuggire il suo cappellano, il carmelitano Pierre Alexandre, prima che fosse inquisito per eresia e che il frate fu accolto a Heidelberg, alla corte della contessa palatina Dorotea, figlia di Cristiano II di Danimarca e della sorella di Maria, Isabella. Le inclinazioni di Maria per le posizioni di rinnovamento religioso furono tanto esplicite quanto lo consentiva il suo ruolo pubblico. Tuttavia, non sembra che abbia avvertito alcuna contraddizione nella sua posizione28. Negli anni successivi al 1531 dovette affrontare manifestazioni di radicalismo che erano in contrasto sia con i suoi obblighi verso la propria famiglia sia con le sue simpatie umanistico-evangeliche. Fu solo dopo il 1535, quando il fanatismo dell’Inquisizione si scatenò contro un umanista erasmiano come Grapheus, che Maria cercò di imporre un atteggiamento tollerante nei conflitti religiosi, impedendo che le tensioni esplodessero. Il suo intervento riuscì a evitare che le forze antiasburgiche si coagulassero attorno ai movimenti per la Riforma, e che le numerose forme di opposizione antimperiale trovassero una comune ispirazione ideologica. Comunque, nell’ultimo periodo della sua reggenza, fu chiaro che anche lei stava perdendo il controllo sull’opposizione, che la sua capacità di mediazione stava esaurendosi. Nel 1555, quando Carlo V maturava la scelta di abdicare, sapendo che il fratello si aspettava che lei continuasse a mantenere il governo dei Paesi Bassi, Maria compose un lungo memoriale nel quale espose i motivi per i quali aveva a sua volta deciso di lasciare il governo. La ragione principale era la consapevolezza che stavano imponendosi uomini che ad atteggiamenti ereticali univano il fanatismo rivoluzionario. Insomma, la congiuntura politica europea, che Maria recepiva come contraria alla sua volontà di mantenersi fedele «sia al suo Dio che al suo principe»29, annunciava quell’inasprimento dei conflitti che avrebbe contrassegnato la seconda metà del secolo. Più recentemente, un saggio di Daniel Doyle ha messo nuovamente in luce l’intuito politico, lo stretto rapporto con il fratello e 28   Sulla corte ungherese di Maria e la sua attività di patronage artistico e religioso si veda O. Rethelyi, Mary of Hungary in Court Contest (1521-1531), tesi di dottorato in Studi medievali, Central European University, Budapest 2010. 29   Spruyt, «En bruit d’estre bonne luteriene» cit., pp. 275-307.

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l’oculato uso delle relazioni di patronage che resero Maria una delle figure chiave nel sistema di governo di Carlo V e una consigliera molto ascoltata, come molte altre donne di stirpe reale chiamate a sostituire i loro congiunti durante le loro assenze. Nonostante il modello ideale di regina continuasse ad essere quello della consorte, molte donne degli Asburgo e di altri casati dovettero affrontare da sole periodi particolarmente difficili per assicurare la continuità dinastica. Malgrado Maria avesse svolto questo ruolo nei Paesi Bassi in anni densi di eventi cruciali, le sue qualità di governatrice sono state trascurate e le biografie più accreditate si sono soffermate solo sugli aspetti privati della sua vita esposti con profusione di aneddoti, senza quasi far cenno alla sua capacità di costruire una rete di relazioni influenti in grado di sostenere la sua gestione del potere30. Nella complessa «età di Filippo II» si può valutare, alla luce di studi successivi, quanto abbiano contato nell’insieme le donne regnanti e le reggenti per determinare gli indirizzi politici internazionali. Se fu, in definitiva, l’atteggiamento «irenico» di Elisabetta e di Caterina de’ Medici ad arginare la dilagante reazione ortodossa di Filippo, l’assunzione del potere, alla metà del secolo, di due sovrane cattoliche, Maria Tudor regina d’Inghilterra dal 1553 e Maria di Guisa reggente di Scozia dal 1554, esasperò le divisioni all’interno dei loro Stati e polarizzò gli schieramenti nella politica internazionale; il matrimonio della sovrana Tudor con Filippo II e quello di Maria di Scozia con l’erede di Francia, entrambi di breve durata, resero evidenti i rischi impliciti nelle successioni femminili e furono oggetto della sistematica condanna da parte di John Knox31. Nei primi anni del regno di Elisabetta, che successe a Maria Tudor, fu soprattutto la feroce propaganda di Knox a rendere la difesa dei diritti delle donne di governare uno dei problemi più urgenti per la regina32. 30   D.R. Doyle, The Sinews of Habsburg Governance in the Sixteenth Century: Mary of Hungary and Political Patronage, in «The Sixteenth Century Journal», 31, 2000, 2, pp. 349-360. Le biografie alle quali si fa riferimento sono quelle di J. de Iongh, Mary of Hungary, Norton, New York 1958 e il più recente L.V.G. Gortervan Royen, Maria van Hongarije, Verloren, Hilversum 1995. 31   R.M. Healey, John Knox and Four Ruling Queens, in «The Sixteenth Century Journal», 25, 1994, 2, pp. 371-386. 32   M. Christian, Elizabeth’s Preachers and the Government of Women: Defining­ and Correcting a Queen, in «The Sixteenth Century Journal», 24, 1993, 3, pp. 561-576.

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L’accumularsi, a metà del Cinquecento, di tensioni internazionali nelle quali le crisi politico-dinastiche si intrecciarono con i conflitti religiosi – nel 1560, dopo la morte di Enrico II e, a distanza di un anno, di Francesco II, iniziò anche la lunga reggenza di Caterina de’ Medici – può dare l’impressione che l’espressione polemica dell’ostilità nei confronti del governo delle donne coincidesse con l’effettiva «mostruosa» eccezionalità del potere di alcune. Gli esempi più illustri – Maria ed Elisabetta Tudor, Maria Stuart, Caterina de’ Medici – che hanno catalizzato l’attenzione degli storici (le ultime due prevalentemente sulla falsariga dell’aneddotica) hanno fatto trascurare del tutto la presenza di altre donne in posizioni di potere. Spesso, anche quando sono state ricordate, le esperienze politiche delle regine non sono sembrate meritevoli di alcun approfondimento, prima delle innovazioni di prospettiva tardonovecentesca introdotte dalla storia delle donne; anzi, nella maggioranza dei casi affiora una delegittimazione pregiudiziale. Filippo II affidò il governo dei Paesi Bassi e della Franca Contea alla sorellastra Margherita, duchessa di Parma, nel 1559, conferendole «pieno, libero e assoluto potere» anche se, di fatto, introdusse molte limitazioni all’esercizio della sua sovranità33. Il complesso sistema di controlli incrociati predisposto da Filippo II si spiega davvero, come affermava Febvre, con il «carattere di Margherita, le sue dissimulazioni, le sue astuzie, le sue abilità di semitaliana»?34 In realtà, fin dall’inizio la reggente seppe mediare con particolare abilità le pressioni contrastanti della grande nobiltà, in particolare di Guglielmo d’Orange, dimostrando non solo di essere «lungimirante», ma comunicando di se stessa l’immagine di una donna che non tollerava che nella Franca Contea la sua autorità – e quindi quella del re – non fosse rispettata35. E non fu forse dovuto all’abilità di Margherita se, a metà degli anni Sessanta, «che si trattasse della gestione del demanio o dell’amministrazione dei baliaggi, nella Contea si manifestavano e si realizzavano nella pratica le stesse idee di regolarizzazione, di concentrazione,

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  Febvre, Filippo II e la Franca Contea cit., pp. 242-243.   Ivi, p. 243.   Ivi, p. 246.

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di centralizzazione»?36 A conclusione di quasi un ventennio attraversato dalle rivolte e dal dilagare della riforma calvinista – contrastata con singolare irresolutezza – il bilancio al 1586 «dal punto di vista amministrativo [...] segna la consacrazione definitiva, la conclusione finale di quell’opera di regolarizzazione, di perfezionamento delle istituzioni giudiziarie e finanziarie già progettato e preparato da Margherita»37. Una considerazione sintetica del suo operato in relazione alla situazione dei Paesi Bassi è in La Méditerranée di Fernand Braudel: Bisognerebbe distinguere tra le correnti che agitavano i Paesi Bassi. Non tutte erano della medesima origine: c’era un’agitazione popolare, soprattutto religiosa, spesso anche sociale, e un’agitazione aristocratica [...]. Essa precedette di quattro mesi il moto della seconda metà di agosto [1566], che, popolare e iconoclasta, sboccò nel sacco delle chiese e nella distruzione delle immagini, diffusasi con spaventosa rapidità da Tournai ad Anversa, su tutta la distesa dei Paesi Bassi. Due movimenti differenti, insomma. L’abilità di Margherita di Parma consistette nel metterli in contrasto. Essa volse i nobili – fuorché Guglielmo d’Orange e il Brederode, che raggiunsero la Germania – contro i popolani e contro le città. E così ristabilì, se non l’autorità, per lo meno l’ordine: senza spese, senza spiegamento di forze, con una certa abilità38.

Se la situazione, eccezionalmente complessa, rende impossibile a uno storico dell’acutezza di Braudel ignorare l’opera della reggente e non darne un giudizio positivo, sia pure con un margine di riserva, del tutto in secondo piano rimane invece un’altra circostanza singolare, cioè il fatto che dal 1556 Giovanna, anche lei sorella di Filippo II, governava la Spagna in assenza del re. Gli accenni alla sua politica interna sono scarsi, ma sembrano indicare un esercizio del potere non puramente di facciata, capace di misurarsi con i privilegi delle città e della grande nobiltà, e con la grave crisi finanziaria dello Stato39. Nel 1559 Filippo II mise la   Ivi, p. 274.   Ivi, p. 453. 38   F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1976, p. 1113. Si tratta della traduzione italiana della seconda edizione del libro, pubblicata nel 1966; la prima risale al 1949. 39   Ivi, pp. 750, 1025, 1030-1031. 36 37

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sorella a parte delle difficoltà della situazione internazionale, e in particolare del problema costituito dall’Inghilterra, dopo la morte di sua moglie Maria Tudor, e dei diritti di successione che poteva vantare il delfino di Francia, Francesco, dopo il matrimonio, avvenuto nell’aprile del 1558, con Maria Stuart40. Pur senza voler sopravvalutare questo episodio, è comunque singolare l’affermazione di Braudel che «Filippo II credeva poco all’efficacia della principessa Giovanna, dedita alle sue liberalità, alle devozioni, ai sogni ambiziosi». Sembrano riemergere le consuete riserve della storiografia politica del Novecento nei confronti del governo delle donne: questo giudizio negativo, riferito al 1559 senza altro fondamento che la consapevolezza da parte del re della crisi dei Paesi Bassi e dell’opportunità di concentrarsi sulla Spagna, per tentare di arginarne la disastrosa situazione finanziaria, è in realtà dedotto da una ambigua annotazione di Filippo II, costretto ad aprire gli occhi sul suo clamoroso fraintendimento della realtà spagnola41. Da questo breve sguardo sul XVI secolo sembra di poter concludere che uno stile di genere ci sia stato: un’impressionante serie di donne collocate ai vertici del potere – spesso per un’esplicita scelta dei loro consanguinei – fa pensare a un’interpretazione del loro ruolo essenzialmente rivolta a obiettivi di stabilità e di pacificazione dei conflitti, cosa che non escludeva, quando era necessario, il ricorso anche spietato alla forza. Se per stile di genere intendiamo invece ciò che i contemporanei ripetevano compulsivamente – debolezza di corpo e di ingegno, vanità, incapacità di decidere – allora si può dire senza incertezze che no, questa categoria interpretativa non è utile. 3. Donne in tempi di crisi È stato osservato sia da Fanny Cosandey sia da André Corvisier che è paradossale che le regine di Francia, proprio quando la manipolazione della legge salica le aveva escluse dalla successione 40 41

  Ivi, p. 1013.   Ivi, pp. 1032-1033.

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al trono, abbiano avuto amplissimi poteri come reggenti durante la minore età dei figli42. Non meraviglia quindi che contro di loro siano state scagliate accuse infamanti come donne e che a lungo sia mancato un giudizio politico sul loro operato come governanti. Su Caterina de’ Medici si sono succedute generazioni di storici e anche di romanzieri (se si fa eccezione per Balzac) che hanno continuato ad attribuirle ogni sorta di vizi e di nefandezze, ripetendo alla lettera le accuse più infamanti divulgate mentre la regina era ancora in vita dai libelli propagandistici dei suoi avversari, mentre è a lungo mancato un giudizio sulle sue capacità di governo. Questa tendenza fu capovolta da una biografia pubblicata in Francia da Fayard nel 1979 e tradotta in Italia l’anno successivo43 nella quale si sosteneva che la regina aveva salvato la monarchia francese riuscendo a farla sopravvivere a un periodo di gravissima crisi. Non molto tempo dopo apparve un’altra biografia di Caterina, scritta anch’essa da un francese, Jean Orieux44. La sua analisi minuziosa dimostra che personalmente la regina non nutriva particolare ostilità nei confronti degli ugonotti: ai suoi occhi l’estremismo delle posizioni confessionali appariva soprattutto come il più grave ostacolo all’opera di pacificazione del paese che lei perseguiva, insieme con il partito dei politiques che aspirava alla concordia nazionale e alla tolleranza religiosa contro gli eccessi degli schieramenti cattolico e ugonotto. La cosiddetta «guerra dei tre Enrichi» – il re Enrico III di Valois, Enrico di Guisa leader della Lega cattolica ed Enrico di Navarra, marito della sorella del re, Margherita di Valois, e capo degli ugonotti – scoppiata nel 1588, un anno prima della morte della regina, dimostrò quanto fragili fossero le difese che Caterina aveva cercato instancabilmente di erigere contro l’odio tra le opposte fazioni. Sarebbe stato il re di Navarra, diventato re di Francia col nome di Enrico IV, a portare 42   F. Cosandey, La reine de France, symbole et pouvoir, XVe-XVIIIe siècles, Gallimard, Paris 2000; Id., Puissance maternelle et pouvoir politique. La régence des reines mères, in «Clio. Histoire, femmes et sociétés», 21, 2005, pp. 69-90; A. Corvisier, Les régences in Europe. Essai sur les délégations de pouvoirs souverains, Presses Universitaires de France, Paris 2002; Id., Pour une enquête sur les régences, in «Histoire, économie et société», 21, 2002, 2, pp. 201-226. 43   I. Cloulas, Caterina de’ Medici, Sansoni, Firenze 1980. 44   J. Orieux, Caterina de’ Medici. Un’italiana sul trono di Francia, Mondadori, Milano 1987.

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a termine l’opera di Caterina, ripristinando la lealtà alla corona e promuovendo la coesione interna del paese, anche se l’equilibrio che la sua abiura dalla fede riformata era riuscito ad attuare fu di breve durata e la sua esperienza politica fu troncata, insieme alla sua stessa vita, da un sicario fanatico. La biografia di Jean Orieux è documentatissima e mette in evidenza aspetti poco noti della vita di corte, come lo stretto rapporto fra Caterina e Margherita di Navarra, che qui appare nell’insolita veste di combattente. Ma lo stesso Orieux non sfugge alla tentazione di riferire particolari poco attendibili su Margherita di Valois e sulla presunta relazione incestuosa con il fratello Enrico, mentre nei confronti di Francesco, duca d’Alençon e ultimo figlio maschio di Caterina, usa espressioni francamente sconcertanti come «mostricciattolo» o «nanerottolo». Questa narrativa biografica, che continua ad avere molti lettori, che nel caso di Cloulas e Orieux aspira a «riabilitare» Caterina, non mi sembra aggiunga niente a quanto già aveva detto Honoré de Balzac45. In anni più recenti Leonie Frieda si è a sua volta cimentata con una ricostruzione della vita di Caterina che, pur attenta a non appiattire la sua interpretazione al livello di giudizi acriticamente apologetici, le attribuisce qualità (intuito politico, coraggio, clemenza) che furono in realtà di Enrico IV, che col risanamento delle finanze realizzato dal ministro Sully e con la libertà religiosa concessa nel 1598 con l’editto di Nantes salvò la Francia e la monarchia46. Il matrimonio di Margherita di Valois, combinato con spregiudicatezza politica da due regine – Caterina de’ Medici, madre di Margherita, e Giovanna d’Albret, regina di Navarra, unica figlia di Margherita d’Angoulême, e madre di Enrico di Borbone – per consolidare la pace religiosa appena stipulata, fu la vigilia del gran45   H. de Balzac, La Comédie Humaine. Études Philosophiques Sur Catherine De Médicis, 1842. Balzac scrive nell’Introduzione che Caterina de’ Medici è stata una reggente eccezionale che ha salvato la Francia in circostanze che avrebbero piegato anche i re più forti e che lei stessa si deve considerare un grande re. Anche in Italia non è mancato chi precocemente ha ricostruito sulla base delle relazioni degli ambasciatori l’esperienza politica della regina senza concessioni all’aneddotica. Mi riferisco alla Vita di Caterina de’ Medici. Saggio storico di Eugenio Albèri, pubblicata nel 1838 a Firenze da V. Batelli e Figli. 46   L. Frieda, Catherine de Medici: Renaissance Queen of France, Weidenfeld & Nicolson, London 2003.

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de massacro della notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572)47. Anche Margherita, nei decenni successivi, tentò di assumere un ruolo di mediazione, appoggiando la posizione moderata dei politiques, il terzo partito, favorevole al superamento delle divisioni tra cattolici e ugonotti nell’interesse del paese e a una più attiva politica antispagnola, al quale era stata vicina, come abbiamo visto, anche sua madre Caterina. Con questo obiettivo le fu affidata una missione diplomatica non ufficiale: col pretesto di doversi sottoporre alla cura delle acque, nel 1577 Margherita si recò a Spa, nel territorio dell’attuale Belgio, e da lì nelle Fiandre, dove cercò di sostenere la candidatura del fratello Francesco d’Alençon presso i nobili in rivolta contro Filippo II e dove seppe condurre i negoziati malgrado la presenza come governatore di Don Giovanni d’Austria. Questo incarico, che non dette risultati concreti, è comunque un esempio dell’attivo ruolo politico riconosciuto alle donne di famiglia reale. Nel 1584, dopo la morte di Francesco d’Alençon e la radicalizzazione degli scontri, gli spazi per il partito dei politiques si chiusero e Margherita si trovò schierata sul fronte ugonotto di cui era a capo il marito; fu fatta prigioniera dal fratello Enrico III e dalla madre. Quando Caterina iniziò a trattare con Enrico di Borbone proponendogli di ripudiare la moglie, che avrebbe dovuto chiudersi in convento, Margherita sembrava essere diventata ormai merce senza valore nelle trattative dei contendenti. Dopo la morte di Enrico III (1589), Margherita, nominalmente regina di Francia ma ormai da tempo lontana dal marito, il nuovo re Enrico IV, si mantenne ritirata nella fortezza d’Usson, dove riuscì a raccogliere intorno a sé un vivace cenacolo culturale. Pochi anni dopo, tuttavia, sarebbe diventata un anello importante del passaggio di dinastia, accettando il divorzio da Enrico di Borbone, dal quale non aveva avuto figli, solo quando si presentò l’opportunità di un’unione del re con Maria de’ Medici48. Margherita, tornata in grande considerazione a Parigi – Enrico IV le mantenne il titolo di regina – si impegnò affinché i beni di 47   É. Viennot, Margherita di Valois. La vera storia della regina Margot, Mondadori, Milano 1994. 48   É. Viennot, Autour d’un «démariage» célèbre: dix lettres inédites de Marguerite de Valois, in «Bulletin de l’Association d’étude sur l’humanisme, la réforme et la renaissance», 43, 1996, pp. 5-24.

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sua madre Caterina de’ Medici passassero al bambino nato dal nuovo matrimonio (il futuro Luigi XIII), istituendolo proprio erede universale. Il gesto, di alto valore simbolico, fu interpretato come la legittimazione della dinastia dei Borbone da parte dell’ultima esponente della dinastia dei Valois. Dopo l’assassinio di Enrico IV (1610), Margherita assicurò il suo sostegno alla reggente Maria e si adoperò per contrastare le congiure contro il suo governo da parte dei principi. Fino alla sua morte (1615), Margherita godette di grande credito proprio per il fatto di aver assicurato la continuità del potere, accettando di annullare il suo matrimonio e manifestando apertamente il suo attaccamento al piccolo Luigi. Questa breve sintesi è ricavata da un difficile e puntiglioso lavoro di collazione e restauro, dal quale Éliane Viennot ha fatto riemergere non solo la vicenda personale e privata di Margherita, ma soprattutto le ha restituito quello spessore politico che, già pochi anni dopo la sua morte, era stato annullato dalla libellistica e dalle «storie di regime». Proprio questa parte del lavoro della Viennot è illuminante per capire come siano stati costruiti i ritratti infamanti di Margot e la sua fama di dissolutezza e di leggerezza che è arrivata fino a noi ed è ancora popolare nelle trasposizioni cinematografiche recenti, così come lo era stata, nell’Ottocento, attraverso la diffusione delle opere di Jules Michelet e Alexandre Dumas. I primi due libelli scritti contro Margherita sono di poco posteriori alla notte di San Bartolomeo e alla strage degli ugonotti compiuta dai cattolici. Già allora, nell’intento di infamare tutta la famiglia reale, Margherita fu accusata d’incesto49. A partire dal 1585, con l’inizio della guerra della Lega cattolica, riprese una produzione di stampe che attaccarono solo marginalmente la regina, ma nella quale si manifestò una caratteristica del genere: «accusare un personaggio di dissolutezza e di lussuria è il sistema più adatto per screditarlo, uomo o donna che sia; se invece bisogna difendere qualcuno, la componente sessuale scompare, senza la minima considerazione per la verosimiglianza della cosa»50. Nel 1592 un predicatore leghista avrebbe parlato di Margherita come «quella buona regina, quella santa regina [...]   Viennot, Margherita di Valois cit., pp. 245-246.   Ivi, pp. 247-248.

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rinchiusa fra quattro mura [...] [mentre] suo marito aveva una scuderia di donne e di puttane»51. Contro ogni verosimiglianza, d’altra parte, i cattolici leghisti accusavano la veneranda madre del re di Navarra, Giovanna d’Albret, di essere «tanto pubblica che si concedeva a tutti, e che c’erano cinquanta o sessanta ministri che ci andavano normalmente uno dopo l’altro»52. Tornata a Parigi dopo lo scioglimento del matrimonio, la posizione inconsueta di Margherita suscitò reazioni contrastanti: ci fu chi ne celebrò le virtù, chi ne fece oggetto di maldicenza; già nel 1607, comunque, fu pubblicato quel Divorce satirique di Théodore Agrippa d’Aubigné sul quale si sarebbe fondata la leggenda della sua mostruosa lussuria, arricchito di particolari destinati a incontrare un favore praticamente incondizionato tra storici e romanzieri. Il fatto che il bersaglio principale dell’attacco, screditato dalle inqualificabili bassezze della moglie, fosse Enrico IV, colpevole di non aver difeso fino in fondo la causa degli ugonotti, non toglie che fu proprio dal Divorce che si attinse in seguito a piene mani per deformare fino a rendere irriconoscibile l’ultima dei Valois53. Mentre i resoconti storici ufficiali, prima della morte di Enrico IV, citavano l’ex moglie del re con molta moderazione e con rispetto, il magistrato Jacques-Auguste de Thou, in una voluminosa Historiarum sui temporis, scritta fra il 1604 e il 1608, manifestava già «la disapprovazione costante [...] per l’intervento delle donne nel gioco politico», l’idea che le donne in politica sono un abominio [...]. Invece di stare al loro posto, e cioè in disparte, si immischiano per capriccio, per «vendetta», parola che torna spesso, in questioni che non capiscono, imbrogliando tutte le carte. Sono dannose per il loro operato, per l’esempio che danno alle altre, e per il potere di perpetuare questo anomalo stato di cose: tant’è vero che l’indecente libertà di Margherita le deriva da Caterina54.   Ivi, p. 249.   Ivi, p. 437, n. 16. 53   Ivi, pp. 250-253. 54   Ivi, pp. 258-259. 51 52

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Al momento, l’opera ebbe scarsa influenza: suscitò polemiche e ne venne proibita la diffusione. Tutto sommato, alla sua morte Margherita godeva di popolarità e stima, non compromesse dai rari scritti contro di lei: i più ingiuriosi ebbero una circolazione assai ristretta. La sua persona tornò d’attualità, come esempio di grande regina, nel 1618, per rispondere alla ripresa della polemica misogina, che aveva come bersaglio indiretto la reggente Maria de’ Medici55. Alla fine del 1630 si conclusero i tentativi di esautorare Richelieu, contro il quale la regina madre Maria de’ Medici e la nuora Anna d’Austria si erano coalizzate ritenendo che il cardinale avesse «un nefasto ascendente sul re [...] e condannando la sua politica estera aggressiva». Richelieu coglie subito nelle due regine l’anello debole della fronda principesca di cui vuole limitare il potere: Quindi non si accontenta di veder fuggire la regina madre e Anna d’Austria ridotta al ruolo di moglie del re. Mobilita drammaturghi e storiografi per organizzare un’offensiva ideologica generalizzata contro la convinzione che la presenza delle donne sulla scena sia legittima. Naturalmente, il bersaglio principale di questi attacchi è Maria de’ Medici, nemica ancora in vita, e pericolosa; ma durante quel processo che è appena iniziato, e prosegue fino al trionfo della monarchia assoluta, vengono prese di mira e colpite molte altre donne. Quanto a Margherita [...] le sue Memorie hanno appena ricordato in modo plateale quale possa essere il ruolo politico delle principesse [...]. Perciò non è inutile screditarla insieme alle altre56.

Nella prima metà dell’Ottocento le donne di potere diventarono soggetti per librettisti d’opera e romanzieri, acquistando una popolarità che, a maggior ragione, le avrebbe trasfigurate in personaggi di fantasia. Il macabro culto di Margherita per la testa del proprio amante sottratta al boia è una delle invenzioni riprese da Stendhal in Il rosso e il nero, ma fu Alexandre Dumas, nel 1845, a fissare la leggenda, destinata a influenzare anche gli storici, della   Ivi, pp. 265-266.   Ivi, pp. 275-276. Per la contestazione degli storici di regime, vedi le pp. 275-278. 55 56

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regina Margot. Nella seconda metà dell’Ottocento, in concomitanza con la diffusione dei primi movimenti femministi, vi fu un recupero di biografie e scritti di donne «illustri», di dame di corte, operato soprattutto da storici di origine nobile. Anche nelle loro interpretazioni, tuttavia, le individualità che intendevano valorizzare rimasero separate dagli avvenimenti del loro tempo e le loro azioni furono fraintese57. Tuttavia fu proprio in questo periodo, nel 1887, che venne pubblicata un’opera di grande erudizione: una biografia di Margherita di Valois che per la prima volta correggeva le invenzioni e le leggende infamanti che si erano trasmesse in tutti i lavori precedenti e considerava, oltre ai suoi comportamenti privati, l’azione politica e pubblica della regina. Da parte sua, anche l’autore dell’Histoire de Marguerite de Valois, il conte Léo de Saint-Poincy, non immune da pregiudizi moralistici e animato dalla volontà di assolvere il suo personaggio, finì per cadere in errori e anacronismi per i quali sarebbe stato attaccato, rendendo meno incisivo il suo lavoro di restauro storiografico58. Dopo l’Histoire, nei vent’anni precedenti la prima guerra mondiale, sarebbero uscite altre tre grandi biografie di Margherita di Valois: se cessarono le fantasie pruriginose e le dame del Rinascimento diventarono oggetto di ricerche accurate in rapporto con l’importanza assunta, in quel periodo, dal problema del potere politico delle donne, questi studi continuarono comunque ad essere marginali, senza influenza sui grandi testi di storia della Francia e della letteratura contemporanea59. Attorno agli anni Trenta del Novecento il discredito riservato dagli storici alla biografia ebbe come effetto di moltiplicare e rilanciare la versione deteriore, romanzata o comunque travisata, del genere biografico. Questo «folklore storico», che si impose fino a metà del Novecento, assecondava i gusti del grande pubblico al quale il mercato editoriale offriva in abbondanza opere di infimo livello. Se regine e principesse erano un soggetto di grande richiamo, non venne «nemmeno presa in considerazione l’idea che queste donne abbiano esercitato davvero il potere o svolto un   Ivi, p. 356.   Ivi, pp. 362-365.   Ivi, p. 366.

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ruolo nella vita politica del loro tempo»60. Nel 1947 dal romanzo di Dumas su Margot venne tratta una prima versione cinematografica61. Nei decenni successivi le sempre numerose varianti del genere biografico si caratterizzarono per la tendenza a scivolare nella pornografia, perdendo contemporaneamente qualsiasi residua preoccupazione di attendibilità storica. È del 1985 un saggio che alla pessima reputazione di Margherita di Valois ha aggiunto un’accusa inedita, quella di omosessualità62.   Ivi, p. 388.   Ivi, p. 390. 62   Ivi, p. 403. 60 61

V Quattro regine e un’isola 1. Nove giorni di regno Il 10 luglio 1553, quattro giorni dopo la morte del cugino, re Edoardo VI, Lady Jane Grey si rivolgeva come regina d’Inghilterra ai suoi sudditi. La nonna di Lady Jane era Maria Tudor, sorella di Enrico VIII, cosa che faceva di lei una legittima aspirante al trono, quarta in linea di successione dopo i figli del sovrano d’Inghilterra1. L’altra sorella di Enrico VIII, Margherita, aveva sposato il re di Scozia Giacomo IV ma la sua discendenza era stata esclusa dalla possibilità di subentrare a quella dei Tudor dalle disposizioni testamentarie di Enrico perché avrebbe portato al governo dell’Inghilterra una dinastia straniera. L’esclusione da parte di Edoardo VI delle sorellastre Maria ed Elisabetta Tudor e la preferenza riconosciuta a Jane Grey si fondavano sulla tesi che le prime fossero di nascita illegittima. Il discorso di insediamento della sedicenne Jane riprendeva queste argomentazioni specificando che Maria era diventata illegittima dopo lo scioglimento del matrimonio del re con sua madre Caterina d’Aragona mentre Elisabetta lo era diventata in seguito alle accuse di adulterio e in1   Maria, diciannovenne, era stata sposata contro la sua volontà e per ragioni di politica dinastica col re francese Luigi XII, di cinquantadue anni, non attraen­te e malato. Maria ottenne dal fratello Enrico, in cambio del suo consenso al matrimonio, di poter scegliere il proprio sposo in caso di vedovanza. Il 13 agosto 1514 furono celebrate le nozze e il 31 dicembre il re morì. Maria ottenne così di sposare il trentunenne e aitante Charles Brandon, duca di Suffolk. Vedi B.J. Harris, Power, Profit, and Passion: Mary Tudor, Charles Brandon, and the Arranged Marriage in Early Tudor England, in «Feminist Studies», numero monografico, Women, Family,­and Work, 15, 1989, 1, pp. 59-88.

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V. Quattro regine e un’isola Enrico VII d’Inghilterra

Margaret Tudor 1) Giacomo IV Stuart 2) Archibald Douglas

Giacomo V Margaret di Scozia Douglas Matthew Stuart Maria, regina di Scozia Lord Darnley

Henry Stuart (Lord Darnley)

Enrico VIII d’Inghilterra

Elisabetta di York

Maria Tudor 1) Luigi XII di Francia 2) Charles Brandon

Maria I Elisabetta I Edoardo VI Frances d’Inghilterra d’Inghilterra d’Inghilterra Brandon Filippo II Henry d’Asburgo Grey

Charles Stuart

Eleanor Brandon Henry Clifford

Jane Catherine Mary Margaret Grey Grey Grey Clifford Henry Dudley

Giacomo I d’Inghilterra

cesto rivolte a sua madre Anna Bolena, che era stata condannata e decapitata. In seguito Enrico VIII, con l’Atto di successione del 1544, aveva reintegrato le due figlie nei loro diritti. La tradizione vuole che fosse stata soprattutto la fervente fede anglicana di Lady Jane ad aver spinto il cugino, coetaneo e cresciuto insieme a lei, a non rispettare la volontà del padre. Sembra che Edoardo, presentato dalla storiografia come un giovane cagionevole, in realtà fosse stato colpito improvvisamente a metà febbraio 1553 dalla malattia che lo avrebbe portato rapidamente alla morte – un’infezione polmonare poi degenerata in setticemia2. L’improvviso allarme per la propria salute spinse lo stesso re, a metà marzo, a progettare un piano per modificare le disposizioni successorie del padre. La strategia fu messa a punto alla fine dello stesso mese. Il 12 giugno Edoardo VI rese pubblica la sua intenzione di escludere Maria e di ignorare completamente Elisabetta a favore 2   J. Loach, Edward VI, Yale University Press, London-New Heaven 1999, pp. 162-169.

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di Jane Grey. Edoardo morì il 6 luglio. Aveva informato Maria dei suoi progetti tra fine marzo e inizi aprile, quando le aveva donato due vaste tenute per indurla ad accettare la perdita della corona. Pensando di aver acquisito il consenso della sorella, Edoardo procedette con il duca di Northumberland, John Dudley, il suo consigliere, a consolidare la candidatura di Lady Jane alla successione, facendola sposare al figlio di Northumberland, Guilford Dudley, il 25 maggio; il re chiese poi il parere dei giuristi per sostenere la candidatura di Lady Jane a metà giugno e subito dopo sottoscrisse gli atti che consolidavano la nuova successione. L’idea che Maria potesse essere compensata per la perdita della corona da un paio di tenute, per quanto vaste, potrebbe stupire ed essere considerata poco credibile. In realtà anche Margherita Beaufort aveva rinunciato in passato ai propri diritti in cambio di terre. Tuttavia la storiografia ha accreditato un’immagine di Edoardo ammalato cronico, manipolato dal subdolo consigliere Northumberland che sarebbe stato così in grado di condizionare il debole re e la sprovveduta Maria a favore della nuora, tenendo quest’ultima all’oscuro dei suoi piani3. Questa interpretazione, peraltro, presuppone che Maria fosse un’ignorante sempliciotta allevata in campagna e che né Edoardo né Northumberland si aspettassero grandi fastidi da lei. Di conseguenza, la vittoria di Maria è stata in genere presentata come un evento stupefacente, assolutamente non previsto dai contemporanei. Questa ricostruzione dei fatti è in buona parte basata sulla testimonianza degli ambasciatori di Carlo V che esprimevano una 3   I contemporanei di John Dudley hanno dipinto il duca, al servizio prima di Enrico VIII poi del figlio Edoardo, salito al trono a nove anni, come un politico ambizioso e spregiudicato che causò la morte di Lady Jane Grey. La sua reputazione è basata sull’accusa, rivoltagli sin dal 1553, di aver diviso, indebolito e disonorato il paese. Imputato senza prove di crimini e tradimenti – tra i quali il preteso avvelenamento di Edoardo VI –, la storiografia ne ha fatto, fino alla fine dell’Ottocento, uno dei più noti furfanti della sua epoca. È stato tuttavia sostenuto che la crisi creata dall’improvvisa malattia di Edoardo VI non fu provocata da Northumberland e che egli dovette agire in un clima di grande incertezza. L’aver assecondato il progetto del re di nominare Lady Jane alla sua successione fu un enorme errore ma non ci sono prove che gli altri membri del Consiglio privato avessero proposto soluzioni migliori per mantenere il protestantesimo in Inghilterra. Vedi B.L. Beer, Northumberland: The Myth of the Wicked Duke and the Historical John Dudley, in «Albion: A Quarterly Journal Concerned with British Studies», 11, 1979, 1, pp. 1-14.

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comprensione solo superficiale della situazione politica inglese e della personalità della stessa principessa, la quale rappresentava spesso se stessa agli inviati imperiali come una fanciulla indifesa, con un disperato bisogno della protezione di Carlo V, nipote di sua madre Caterina d’Aragona. L’autoritratto di Maria in veste di vittima del machiavellico fratellastro Edoardo ha continuato a ingannare parecchie generazioni di studiosi. Se si rifiuta il presupposto dell’ignoranza politica di Maria, l’interpretazione dei documenti e la ricostruzione degli eventi sono molto diverse. Tra febbraio e marzo 1553, l’entourage del re fu costretto ad affrontare l’emergenza politica determinata dalla malattia di Edoar­do, che non era sposato e non aveva figli. Secondo l’Atto di successione del 1544, che era ancora in vigore, il prossimo sovrano sarebbe stata la temibile e cattolica Maria. Sia Edoardo sia il suo Consiglio privato si aspettavano che Maria avrebbe perseguitato con grande accanimento lo schieramento protestante al quale il re era strettamente legato. Inoltre i consiglieri di Edoardo avevano una ragione particolare per temere l’eventualità dell’ascesa al trono della principessa perché era del tutto plausibile che covasse un forte rancore per un recente confronto con loro sulla sua fede religiosa, durante il quale lei e i più fedeli membri del suo seguito erano stati arrestati e imprigionati nella Torre di Londra. L’idea di evitare la sua presa di potere, comunque, doveva aver trovato vasto consenso tra i principali esponenti del Consiglio privato. Maria, naturalmente, era ben informata sulle condizioni di salute di Edoardo né poteva essere rimasta all’oscuro dei suoi progetti per la successione: solo una incredibile ingenuità avrebbe potuto impedirle di capire il significato dell’alleanza stretta a fine maggio tra la famiglia Grey e la nobiltà protestante con il matrimonio di Jane e Guilford Dudley. Soprattutto, i documenti ufficiali che dichiaravano la revisione dell’Atto di successione furono pubblicati verso la fine di giugno: Maria non avrebbe potuto non sapere che cosa stava accadendo nemmeno se l’avesse voluto. Gli storici si sono interrogati sul perché Maria, che non poteva non essere a conoscenza delle decisioni prese da Edoardo, non abbia protestato pubblicamente e ancora di più sul perché la principessa non sia stata imprigionata preventivamente con un pretesto, per non lasciarla libera di organizzare l’opposizione contro Jane Grey. Una risposta può essere che non solo Maria conosceva il pro-

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getto ma che avesse anche dato il suo consenso (almeno apparentemente) per ottenere Framlingham e altre tenute in cambio della sua apparente acquiescenza. Che gli scambi di proprietà fossero un elemento per consolidare accordi di potere lo dimostra la rete di supporto che venne costruita da Edoardo e Northumberland per garantire a Lady Jane la lealtà dei signori protestanti come i conti di Huntingdon (il cui figlio sposò in maggio Catherine Grey, sorella di Jane), Bedford, Pembroke (il cui figlio fu fidanzato in maggio con Mary Grey, sorella minore di Jane), Shrewsbury, tutti magnati il cui controllo delle campagne sarebbe stato indispensabile per mantenere l’ordine quando fosse venuto il momento di assicurare il sostegno politico alla regina Jane. Tra giugno e luglio questi e altri importanti signori politicamente influenti ricevettero terre e incentivi da Edoardo VI e da Northumberland proprio perché garantissero il successo del progetto. Il 6 luglio Edoardo morì e Jane Grey fu proclamata regina. Con costernazione da parte di Northumberland e degli altri firmatari delle lettere patenti di successione, Maria Tudor sconfessò l’accordo che aveva accettato, organizzò l’opposizione a Jane Grey e si proclamò regina. Quando il Consiglio privato ebbe dato l’annuncio ufficiale della morte del re l’8 luglio, due giorni dopo dal suo castello di Norfolk Maria fece pervenire allo stesso Consiglio l’ordine di riconoscerla come regina. Alla testa di proprie forze la principessa si mosse il 12 luglio e nel giro di due giorni si unirono a lei Henry Ratcliffe, conte del Sussex, John Bourchier, conte di Bath, Lord Thomas Wentworth e sir Thomas Cornwallis. Cinque navi della flotta reale disertarono per unirsi a lei. Il 14 luglio il duca di Northumberland lasciò Londra alla testa di un’armata per contrastare quella di Maria e arrestarla come traditrice della regina Jane. Mentre lui si dirigeva verso Cambridge, il 19 luglio a Londra il Consiglio privato aveva proclamato Maria regina. Il duca fu arrestato due giorni dopo e poi decapitato, mentre Jane Grey e suo marito furono chiusi nella Torre di Londra con i riguardi riservati ai prigionieri di Stato. La crisi era finita, Maria era regina e pronunciò lo stesso giorno un breve discorso, ricordando la legittimità della sua posizione di erede designata dal padre. Subito dopo ricevette la sua vecchia amica, Frances Brandon, duchessa di Suffolk, ga-

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rantendole il perdono per il marito: sembrava certo che la figlia di Frances, Jane Grey, potesse a sua volta ottenere clemenza, a tempo debito; ma nel febbraio successivo Lady Jane, che si era rifiutata di convertirsi al cattolicesimo, fu giustiziata insieme al marito4. Se la crisi politica si consumò in pochi mesi, che cosa rimase della regina Jane? La storia ufficiale del XVI e XVII secolo la nomina appena ma la sua vicenda si è subito prestata per trasfigurarla in patetica eroina della fede protestante, immagine che dura tuttora5. Quattro giorni prima della sua esecuzione, avvenuta il 12 febbraio 1554, il decano di St. Paul, il cattolico John Feckenham, cappellano della regina, si era recato alla Torre di Londra dove aveva avuto un colloquio con lei per sondare le sue convinzioni religiose. La discussione sui sacramenti che ebbe luogo tra di loro fu data alle stampe come scritta di proprio pugno dalla stessa Lady Jane e come tale in seguito fu compresa in una raccolta pubblicata nel 16156. Il giorno prima dell’esecuzione Jane inviò una lettera alla sorella Catherine che si concludeva con alcune considerazioni sulla propria morte imminente che sono servite ad accreditare la sua fama di martire: «Ora, venendo a parlare della mia morte, rallegrati, come faccio io (mia carissima sorella) perché io sarò libera dalla corruzione del mondo e messa in condizione di vivere in perfetta integrità»7. Infine, davanti al patibolo, Lady Jane avrebbe affermato di non aver mai voluto offendere la regina, ma di essere

4   Per la ricostruzione dei fatti che portarono alla designazione e alla proclamazione della regina Jane mi sono servita di J.L. McIntosh, From Heads of Household to Heads of State. The Preaccession Households of Mary and Elizabeth Tudor, 1516-1558, Columbia University Press, New York 2008, in particolare il capitolo IV. 5   Si veda ad esempio il libro recente del pastore evangelico svizzero P. Castellina, La vicenda di Lady Jane Grey, e-book pubblicato dal sito Tempo di Riforma, 2009. 6   The life, death and actions of the most chast, learned, and religious lady, the Lady Iane Gray, daughter to the Duke of Suffolke Containing foure principall discourses­ written with her owne hands. The first an admonition to such as are weake in faith: the second a catechisme: the third an exhortation to her sister: and the last her words at her death, 1615, copia della British Library, STC 955:16. L’editore, anonimo, dichiara in apertura di aver riportato alla luce le testimonianze superstiti di una vicenda quasi del tutto dimenticata. 7   «Now as touching my Death, reioyce as I doe (my dea|rest Sister) that I shall be deliuered of this corruption, and put on incorruption», pubblicata ivi.

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stata costretta a fare qualcosa di cui non era consapevole ma che si pentiva di aver assecondato la sua vanità e la sua lussuria8. La vicenda di Lady Jane Grey ebbe un breve ma intenso revival in un altro momento di crisi politica, quello della successione degli Hannover che fece emergere ancora una volta anche le divisioni religiose. Per il partito che appoggiava re Giorgio I, la regina Jane era un fulgido esempio delle virtù protestanti contrapposte ai vizi dei pretendenti cattolici, i seguaci di Giacomo, figlio di Giacomo II Stuart. Tra il 1714 e il 1715 ci fu una torrenziale produzione a stampa su di lei, che culminò con la rappresentazione dell’opera teatrale di Nicholas Rowe, The Tragedy of Lady Jane Grey, per la quale il compositore tedesco Johann Christoph Pepusch, che si era stabilito in Inghilterra dal 1700, mise in musica una cantata. Sebbene la ribellione giacobita del 1715 non avesse mai seriamente minacciato il regno di Giorgio I né la Chiesa anglicana, lo spauracchio dell’assolutismo cattolico era un argomento di propaganda politica molto efficace per gli scrittori di parte whigs9. La vicenda è stata affrontata con rigore scientifico nei primi anni del XX secolo, sottolineando le tensioni non esclusivamente religiose ma soprattutto politiche che spiegano la fine repentina del regno di Lady Jane. In particolare, tale fine viene attribuita all’arroganza, alla disonestà e al discredito del duca di Northumberland, l’ostilità contro il quale sarebbe stata accresciuta dal matrimonio del figlio Guilford con una fanciulla di sangue reale e dalla diffusa convinzione che la designazione di Jane a regina fosse dovuta alle sue pressioni sul re. Sia la sorte di Jane sia quella di Maria sarebbero dipese dai rapporti di forza tra Inghilterra, Francia e impero: che trionfassero o meno cattolicesimo o protestantesimo era una considerazione di secondaria importanza. Lo stesso Carlo V sarebbe intervenuto solo quando Maria era già riuscita a organizzare l’opposizione con le sue forze. Quindi, la caduta di Lady Jane non dipese dal trionfo della cattolicità ma dalla impopolare politica del «dittatore» Northum  Ibid.   J.I. Marsden, Sex, Politics, and She-Tragedy: Reconfiguring Lady Jane Grey, in «Studies in English Literature, 1500-1900», numero monografico, Restoration and Eighteenth Century, 42, 2002, 3, pp. 501-522. 8 9

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berland10. Un libro recente è ritornato su questa vicenda, il cuore della quale sarebbe invece nella continuità della politica religiosa protestante che era stata fortemente voluta nei pur pochi anni del regno di Edoardo VI11. L’interpretazione di Eric Ives, inoltre, propone alcune tesi radicalmente diverse da quelle tradizionali: il «malvagio» duca di Northumberland non manipolò affatto Jane Grey per ambizioni personali né tantomeno Edoardo VI, del quale assecondò la volontà per senso di lealtà al sovrano che aveva servito fin dai primi anni del regno. Quanto al re, la sua decisione di escludere Maria dal trono fu dettata, più che da motivi religiosi, dalla convinzione dell’illegittimità delle sorellastre. Per quanto tali tesi siano fondate su una vasta conoscenza delle fonti disponibili, il mistero non viene sciolto, poiché molte affermazioni dell’autore si basano su una lettura psicologizzante degli stessi elementi disponibili ai suoi predecessori, considerati da una prospettiva capovolta; malgrado ciò, l’accurata contestualizzazione dei protagonisti rende il libro apprezzabile. 2. I sei anni di Maria Tudor Nel 1523 l’umanista spagnolo Juan Luis Vives dedicò il De institutione feminae Christianae a Caterina d’Aragona, allora moglie di Enrico VIII, colta e legata agli intellettuali erasmiani, quando sua figlia Maria aveva sei anni. Il famoso trattato, uno dei pochissimi specificamente dedicato all’educazione delle donne, fornì la formazione di base della bambina, per la quale non si provvide a differenziare la sua istruzione da quella considerata appropriata per il suo sesso, perché il pensiero di prepararla a governare l’Inghilterra non sfiorò neppure il padre, sebbene all’epoca fosse la sua unica erede12. Ancora senza figli maschi, Enrico VIII già

10   R. Davey, The Nine Days’ Queen. Lady Jane Grey and Her Time, Methuen & Co., London 2009. 11   E. Ives, Lady Jane Grey: A Tudor Mystery, Wiley-Blackwell, Oxford 2009. 12   Sul trattato di Vives e la sua fortuna si vedano G. Kaufman, Juan Luis Vives on the Education of Women, in «Signs», 3, 1978, 4, pp. 891-896; B.S. Travitsky, Reprinting Tudor History: The Case of Catherine of Aragon, in «Renaissance Quarterly», 50, 1997, 1, pp. 164-174. Sull’educazione di Maria si veda T.J. Elston, Transformation or Continuity? Sixteenth-Century Education and the Legacy of Catherine

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dal 1527 aveva rivolto le sue attenzioni verso un’avvenente dama di corte, Anna Bolena. La rottura del matrimonio con Caterina d’Aragona nel 1533 fece di Maria una bastarda. Vent’anni dopo, il 19 luglio 1553, alla fine del breve regno di Jane Grey, a trentasette anni Maria si riappropriava del suo status di erede. Alla regina, anche se non specificamente preparata a governare, era stato proposto il modello della bisnonna Margherita Beaufort. A Maria fu presentata così l’immagine di una donna forte e coraggiosa che non aveva mai tollerato la corruzione e che aveva preso parte attivamente alla vita pubblica e agito politicamente senza abbandonare le sue convinzioni religiose. Margherita non aveva incoraggiato nessun compromesso in materia di fede, anche se era stata indulgente nei confronti delle debolezze e degli errori del suo popolo aiutandolo a conquistare la salvezza: l’orgoglio e l’arroganza di un governo senza vincoli dovevano essere sostituiti da equilibrio e moderazione13. Nel 1553 Maria Tudor fu la prima regina inglese ad essere consacrata con la cerimonia dell’unzione. Nel 1558, quando il trono passò a un’altra donna, Elisabetta, nel servizio funebre officiato per Maria, il celebrante aveva ancora difficoltà a definirne lo status: Maria Tudor, disse, era stata contemporaneamente sia una regina sia, allo stesso titolo, un re. Quando era stata proclamata regina d’Inghilterra dopo il fallimento dei sostenitori di Jane Grey, lo era stata con le parole che erano state usate per i suoi antenati (maschi) e le era stato riconosciuto «the crown imperial of the realms of England and Ireland» – il diritto ad esercitare la sovranità sull’Inghilterra e sull’Irlanda. In quanto prima regina effettivamente regnante promise a tutti i suoi «buoni sudditi» di essere la loro «benign and gracious sovereign lady, as other our most noble progentors have heretofore been»14, una sovrana piena di benevolenza che in nome della sua appartenenza alla dina-

of Aragon, Mary I and Juan Luis Vives, in High and Mighty Queens of Early Modern England: Realities and Representations, a cura di C. Levin, D. Barrett-Graves e J. Eldridge Carney, Palgrave Macmillan, New York 2003, pp. 11-26. 13   L. Attreed, A.Winkler, Faith and Forgiveness: Lessons in Statecraft for Queen Mary Tudor, in «The Sixteenth Century Journal», 36, 2005, 4, pp. 971-989. 14   «Benevola e graziosa sovrana, nobile come e anche più di tutti i suoi predecessori».

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stia Tudor avrebbe dimostrato la naturale interscambiabilità fra una «sovereign lady» e un «sovereign king». Il 3 agosto 1553 Maria aveva fatto il suo primo ingresso solenne a Londra, la città scelta come sede del governo da Jane Grey per il suo regno di nove giorni, e fu un’esibizione spettacolare del suo potere e delle sue prerogative di sovrana. Nella storia dei Tudor il problema del diritto delle donne a regnare non si era mai posto perché era sempre stato disponibile un pretendente maschio. La situazione che si venne a creare a metà del XVI secolo non aveva precedenti. Tutte le potenziali eredi erano donne: Jane Grey, Maria ed Elisabetta Tudor, Maria Stuart. Per sostenere la legittimità del governo di Maria Tudor si richiamò addirittura l’esempio della leggendaria e controversa regina Semiramide15. Tuttavia, i dubbi che si nutrivano sullo status di un sovrano di sesso femminile divennero ancora più pressanti quando si seppe che la regina Maria si sarebbe sposata e per di più con un principe straniero, Filippo d’Asburgo, figlio dell’imperatore Carlo V. Se la corona si poteva considerare un bene trasmissibile agli eredi, come la proprietà fondiaria, allora poteva passare a una donna quando la linea maschile si fosse esaurita. Tuttavia, per i sudditi dei Tudor nessun paragone era possibile tra le conseguenze politiche di un matrimonio fra un re e una principessa straniera e quelle che sarebbero derivate dal matrimonio di una regina regnante con un principe straniero. Che Maria dovesse sposarsi non era in discussione: il consenso era semplicemente dovuto alla convinzione che sarebbe stato troppo difficile per lei governare da sola. Questa idea dipendeva sia dalla diffusa opinione che le donne fossero inadatte a esercitare il potere sia, per qualcuno, dalla personalità di Maria16. Durante i festeggiamenti in occasione del matrimonio fra Maria e Filippo, le scelte cerimoniali e la gerarchia delle precedenze manifestarono l’attaccamento della regina alla tradizione castigliana ereditato dalla madre. «La regina era seduta sul trono più alto e per tutta la durata della celebrazione era visibile la precedenza 15   J.M. Richards, «To Promote a Woman to Beare Rule»: Talking of Queens in Mid-Tudor England, in «The Sixteenth Century Journal», 28, 1997, 1, pp. 101-121. 16   J.M. Richards, Mary Tudor as «Sole Quene»? Gendering Tudor Monarchy, in «The Historical Journal», 40, 1997, 4, pp. 895-924.

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su Sua Maestà [Filippo] anche perché lo scanno del re era color argento e quello della regina dorato»17. I racconti del loro ingresso solenne a Londra il 18 agosto 1554 sottolineano come anche in quell’occasione Maria occupasse la posizione dominante al posto del marito: la regina stava a destra e il re a sinistra e le posizioni che rispettivamente occupavano in chiesa erano scelte per enfatizzare la precedenza della regina su Filippo come sovrana d’Inghilterra, anche in occasione del suo matrimonio, collocandola nel posto riservato al re mentre Filippo occupava quello destinato alla regina consorte. Peraltro, l’ostentazione della superiorità gerarchica della regina contrastava con altri particolari della cerimonia nuziale. Infatti, al momento dello scambio delle solenni promesse di rito, Maria giurò di assecondare il marito e di obbedire alla sua volontà sia con la mente sia col corpo. D’altra parte, la sua superiorità su Filippo era stata ripetutamente ribadita nel contratto matrimoniale sottoscritto nel gennaio 1554 e poi solennemente convertito in legge dall’Atto che definiva il potere della regina approvato nella successiva primavera dal Parlamento18. Il preambolo dell’Atto con il quale fu stilato il trattato di alleanza matrimoniale si spinse molto oltre nell’affermare che il potere e lo status di Maria non avrebbero dovuto assolutamente essere limitati o compromessi dal matrimonio19. Alla sua cerimonia funebre White, il vescovo di Winchester, non solo disse che Maria era stata «a queen and by the same title a king also», ma sottolineò come avesse anticipato e reso possibile la legittimazione a regnare come un uomo per la sorella Elisabetta: «She was a syster to her that by the like title and wryght is both king and quene at this present of this realme»20. L’accordo matrimoniale prevedeva che Filippo avrebbe condiviso con la regina lo stile di governo, l’onore e il titolo di re. Sebbene gli fosse riconosciuto costituzionalmente solo un vago diritto 17   A. Samson, Changing Places: The Marriage and Royal Entry of Philip, Prince of Austria, and Mary Tudor, July-August 1554, in «The Sixteenth Century Journal», 36, 2005, 3, pp. 761-784, citazione a p. 762. 18   Ivi, p. 767. 19   Ivi, p. 773. 20   Maria era stata «allo stesso titolo regina e re»; «Ella era una sorella per lei che allo stesso titolo e a buon diritto può dirsi contemporaneamente sia re che regina di questo regno».

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di «aiutare» la sua sposa nell’amministrazione del paese restava il problema che, nella cultura del XVI secolo, i mariti erano superiori alle mogli. Per il semplice fatto che controllava la regina, si temeva che Filippo avrebbe governato il paese: occorreva separare l’identità di Maria come regina da quella di moglie. Quindi furono messe in atto limitazioni particolari alla possibilità di azione del re, negandogli di poter interferire sui decreti della moglie e sull’assegnazione di benefici, uffici, terre, rendite che dovevano essere elargiti solo a inglesi di nascita. Inoltre, non poteva portarla fuori del regno senza il suo consenso. Con tante prerogative maritali che gli erano state espressamente precluse, il re doveva limitarsi a fornire la mascolinità che mancava alla sovranità della regina, facendosi carico delle funzioni che erano considerate inadatte a una donna, come il comando militare. Tuttavia, se nella formulazione dell’accordo, Maria col matrimonio non aveva perso nessuna delle sue prerogative, si era però privata del suo strumento propagandistico più convincente, la purezza. Essendo la prima donna nella storia dell’Inghilterra a governare effettivamente e per proprio diritto, le immagini di regalità a cui poteva ispirarsi erano poche e lontane fra loro. La sua verginità per lo meno la legava al paese come sarebbe stato poi per Elisabetta. Ma non appena Maria divenne la moglie di Filippo il suo status, secondo la cultura patriarcale, cessò di essere quello di figlia di Enrico VIII. Era tale la scarsità di immagini celebrative del potere della regina che, molto tempo dopo il suo matrimonio, si dovette far ricorso ancora all’esaltazione della sua verginità, come fece il cardinal Reginald Pole in un discorso pronunciato in Parlamento, evocando come fosse salita al trono vergine, indifesa, spogliata di tutto, e disarmata. Persino dopo la sua morte il poeta George Cavendish continuò a celebrare il suo accesso al trono come vergine21. Il potere della regina era kingly, definito cioè sulla base della sovranità maschile, ma la riconosciuta legalità dei diritti di Maria sarebbe stata un precedente per il governo femminile della sorella. Anche l’immagine della regina vergine fu ripresa da Elisabetta 21   G. Redworth, «Matters Impertinent to Women»: Male and Female Monarchy under Philip and Mary, in «The English Historical Review», 112, 1997, 447, pp. 597-613.

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come elemento propagandistico per la legittimazione della sovranità femminile e reso più convincente dalla sua rinuncia al matrimonio. Agli inizi del suo regno l’ambasciatore scozzese Melville aveva previsto che non si sarebbe mai sposata perché così le sarebbe stato possibile governare come regina. In continuità con Maria, alla sua persona era riconosciuta la sovranità maschile insieme con quella femminile, ma l’esempio della sorella aveva reso evidenti le insidie che avrebbe comportato rinunciare a questa duplice natura del potere trasferendo su un’altra persona fisica l’elemento maschile della sovranità. Infatti la superiorità riconosciuta ai mariti aveva minacciato di erodere anche le ferree limitazioni opposte a Filippo il quale, a partire dal 1556, aveva premuto insistentemente su Maria per farsi incoronare. E avrebbe anche potuto riuscirci, se la regina non fosse morta presto: lo dice il cambiamento avvertibile nella simbologia. L’immagine che apparve nelle monete e nei documenti ufficiali invertiva i segni di precedenza tra i due re: Filippo era ora collocato alla destra della moglie, in una posizione di superiorità. Il regno troppo breve di Maria, che sarebbe morta due anni dopo, nel 1558, non rende possibile capire se la regina avrebbe effettivamente acconsentito a innalzare il marito al suo livello; Filippo non fu mai incoronato e il suo status rimase fino alla fine quello di re consorte22. L’attenzione degli storici sul regno di Maria fino a non molto tempo fa è stata scarsa e insoddisfacente dal punto di vista interpretativo, sia perché quell’esperienza di governo è stata considerata non abbastanza prolungata per darne un giudizio comparativo fondato in rapporto a quella di Elisabetta, sia soprattutto perché gli opposti intenti apologetici o accusatori erano in entrambi i casi inadeguati a cogliere la complessità di un passaggio – quello della legittimazione della sovranità femminile – che in Inghilterra si attuò nel XVI secolo con modalità che recentemente hanno indotto non pochi studiosi a coniare per il regime di Maria l’espressione «monarchia repubblicana» per il controllo esercitato dal Parlamento sui suoi atti. Una rassegna del 1989 rilevava come solo negli ultimi anni il giudizio sul governo della regina Maria avesse cominciato a demo-

  Samson, Changing Places cit., p. 782.

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lire molti luoghi comuni, ad esempio ridimensionando l’influenza di Filippo sulle sue scelte politiche23. L’opera alla quale David Loades fa risalire la demonizzazione della regina come espressione del cattolicesimo trionfante era stata pubblicata nel 1563 da John Foxe: da essa nacque la fama di Maria la Sanguinaria, «Bloody Mary»24; ma appena un anno dopo la morte della regina, Thomas Brice aveva dato alle stampe un libretto in versi che celebrava l’avvento della gloriosa Elisabetta ed elencava le sofferenze inflitte ai quasi trecento protestanti condannati a morte, la maggior parte al rogo, per volontà di Maria25. Naturalmente c’era stata anche una pubblicistica elogiativa, per la quale Maria era un’eroina le cui virtù erano state sprecate da una nazione di eretici. Nel 1643 Henry Clifford descrisse Maria come una triste e gentile creatura che aveva regnato come meglio poteva, date le circostanze avverse26, mentre per gli storici protestanti la regina si era alienata i sudditi non comprendendo le loro aspirazioni e andando contro la volontà di Dio. Essi identificavano l’attaccamento di Maria a Filippo – assolutamente non ricambiato – come una delle cause dei suoi fallimenti, dipingendo la regina come una sciocca infatuata del marito. Sia la tradizione interpretativa cattolica, sia quella protestante, entrambe radicate nell’apologetica religiosa, si protrassero fino al XX secolo. L’umana e gentile Maria di Henry Clifford ricomparve nella biografia – o piuttosto agiografia – di Jean Stone i cui capitoli avevano titoli come Via Dolorosa e La regina negletta27. 23   D. Loades, The Reign of Mary Tudor: Historiography and Research, in «Albion:­A Quarterly Journal Concerned with British Studies», 21, 1989, 4, pp. 547-558. 24   J. Foxe, Actes and Monuments of these Latter and Perillous Days, Touching Matters of the Church, John Day, London 1563. 25   A Compendious Register in Metre conteinyng the names and pacient suffrynges of the membres of Jesus Christ, afflicted, tormented, and cruelly burned here in Englande since the death of our late famous kyng of immortall memorie Edwarde the sixte, to the entrance and beginnyngn of the reigne of our soveraigne and derest Lady Elizabeth of England, France, and Ireland, quene defender of the Faithe, to whose highnes truly and properly apperteineth, next and immediately vnder God, the supreme power and authoritie of the Churches of Englande and Ireland. So be it. Anno 1559. 26   H. Clifford, The Life of Jane Dormer, Duchess of Feria, a cura di J. Stevenson, Burns & Oates, London 1887. 27   J.M. Stone, Mary the First, Queen of England, Sand & Co., London 1901.

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Più recentemente, David Loades ha respinto come revisioniste le argomentazioni di coloro che rivalutavano la personalità di Maria e ipotizzavano che solo la sua morte precoce le aveva impedito di acquistare consenso. Secondo Loades, non il destino avverso ma la regina stessa – con la sua patologica indecisione, la sua ingenuità associata a un’indole sospettosa fino alla nevrosi, la sua rigidità morale mai aperta ai compromessi – avrebbe portato il paese sull’orlo del collasso; solo su di lei ricadrebbe la completa responsabilità per i roghi dei protestanti, fatti eseguire con un accanimento animato più da spirito di vendetta che di giustizia28. Tuttavia, uno degli ultimi lavori pubblicati, quello di Eamon Duffy, si impernia sulla figura del cardinale Reginald Pole, al quale andrebbe attribuito il progetto di restaurazione del cattolicesimo in Inghilterra. Quanto al problema dei roghi dei protestanti, l’autore tenta di assolvere la regina richiamando sia i 270 cattolici giustiziati nei Paesi Bassi negli anni Sessanta del Cinquecento, sia i 200 impiccati e squartati per ordine di Elisabetta, tentando di minimizzare le esecuzioni ordinate da Maria e di accreditare l’opinione che tali comportamenti non debbono essere valutati con la nostra sensibilità. La conclusione è anche in questo caso ipotetica: se la regina fosse vissuta più a lungo il cattolicesimo avrebbe trionfato29. Nel 2010 Anne Whitelock ha pubblicato ben due volumi allo scopo di assolvere Maria. Nel primo presenta la politica della regina come pionieristica, stimolata in questo dall’esempio di sua madre, la coraggiosa e combattiva Caterina d’Aragona. La regina diede prova di coraggio e determinazione quando difese i suoi diritti alla corona contro i sostenitori di Jane Grey, incitando i londinesi a difenderla. Ai tentativi della Whitelock di riabilitarne la memoria si oppongono però i roghi e la sottomissione a Filippo, che la spinse a una guerra impopolare con la Francia30. Nel secondo libro della Whitelock, è di nuovo raccontata la storia di una donna che

28   D. Loades, Mary Tudor: A Life, Basil Blackwell, Cambridge (Mass.) 1989, p. 236. 29   E. Duffy, Fires of Faith: Catholic England Under Mary Tudor, Yale University Press, New Haven 2009. 30   A. Whitelock, Mary Tudor: Princess, Bastard, Queen, Random House, New York 2010.

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nell’estate del 1553, superando tutti gli ostacoli, fu la prima a essere incoronata regina d’Inghilterra, dopo essere stata principessa erede, poi una bastarda diseredata. L’autrice si sofferma ancora sul rapporto strettissimo di Maria con la madre spagnola, sull’infanzia e sull’adolescenza, sulla sua rivalità con la sorella Elisabetta e sulla sua vita adulta. La tesi sostenuta è la stessa, e cioè che per tutta la vita Maria è stata una combattente che si è battuta per mantenere la sua integrità e il suo diritto a partecipare alla Messa cattolica. La Maria che emerge da questa biografia recente non è una donna debole e dalla politica fallimentare ma una complessa figura di immenso coraggio e umanità31. Le pregiudiziali confessionali, come si vede, sono ancora ben vive nel XXI secolo. 3. Elisabetta, o il trionfo della regalità femminile Dopo la morte di Maria, il vescovo protestante John Aylmer, che era stato esiliato durante il suo regno, rispondendo al famoso libello di John Knox, The First Blast of the Trumpet against the Monstrous Regiment of Women, che si opponeva a qualsiasi governo femminile32, nel 1559 aveva sostenuto la legittimità della successione al trono di un’altra donna, Elisabetta, dalla quale si aspettava la restaurazione della Chiesa anglicana33. Benché anche secondo il vescovo Aylmer il ruolo di regina sui juris in generale non si addicesse alle donne, ci potevano essere però eccezioni quando esse erano chiamate a ricoprire questa posizione dalla divina provvidenza. Inoltre, questo era possibile e non rischioso per l’Inghilterra, dove il potere monarchico del re o della regina era

31   A. Whitelock, Mary Tudor: England’s First Queen, Bloomsbury, London 2010. 32   The First Blast of the Trumpet against the Monstrous Regiment of Women, 1558. Su questo libello si vedano R.M. Healey, Waiting for Deborah: John Knox and Four Ruling Queens, in «The Sixteenth Century Journal», 25, 1994, 2, pp. 371386 e E. Gusberti, The Star of England. La concezione della regalità in Inghilterra e il mito di Enrico V (secoli XIV-XVII), Bononia University Press, Bologna 2009, particolarmente a p. 97, dove osserva come la successione di due donne sul trono inglese abbia rafforzato i poteri del Parlamento. 33   An Arborovve for Faithfull and Trevve Subiectes agaynst the Late Blowne Blaste concerning the Governement of VVemen..., 1559.

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limitato in quanto condiviso sia con la nobiltà, che rappresentava l’oligarchia, sia con cavalieri e i cittadini che rappresentavano la democrazia. Non era la regina ma il Parlamento che approvava statuti e leggi. Aylmer concludeva dicendo che, se la monarchia fosse stata assoluta e non un governo misto dove in definitiva il controllo era saldamente in mano maschile, anche lui avrebbe temuto e cercato di ostacolare l’ascesa al trono di una donna. Questa difesa fortemente condizionata da parte di Aylmer rappresenta bene le aspettative dei protestanti, che erano i più convinti sostenitori di Elisabetta, soprattutto se si pensa che An Arborovve for Faithfull and Trevve Subiectes fu l’opera a stampa più divulgata agli esordi del suo regno. Che il Parlamento fosse lo strumento per legittimare ma anche per condizionare la monarchia fu quindi affermato senza equivoci all’inizio del regno di Elisabetta, anche se la cultura politica che si esprimeva nella costituzione mista della monarchia inglese a tutela delle libertà dei sudditi era di origine molto più antica: poiché l’erede dei Tudor era un’altra donna, era stata adattata a una specifica questione di genere. Aylmer sostenne con forza che l’autorità della corona non derivava dalla persona della regina Elisabetta ma dalla sua unione col Parlamento e l’effetto di questo principio fu quello di aumentare di fatto il potere collettivo di quegli uomini che per nascita, ruolo e cultura potevano avere un peso politico e voce in capitolo nel governo dello Stato34. Michèle Vignaux ha sottolineato come Elisabetta I abbia aggirato le difficoltà di riconoscimento di legittimità che poteva aspettarsi per il suo sesso diffondendo la sua immagine di regina gloriosa più di quanto avessero mai fatto i sovrani della dinastia Tudor che l’avevano preceduta. Nel poema di Edmund Spenser, The Faerie Queene, fu rappresentata allegoricamente come Gloriana35. In un discorso al Parlamento del 1559 la regina aveva presentato se stessa come traboccante d’amore per i propri sudditi. In un altro discorso, pronunciato due anni prima della morte, nel 1601, definì il suo stile di governo come manifestazione di una pietas che si rivelava nell’esercizio equanime della giustizia. 34   A. McLaren, The Quest for a King: Gender, Marriage, and Succession in Elizabethan England, in «Journal of British Studies», 41, 2002, 3, pp. 259-290. 35   J.M. Walker, Spenser’s Elizabeth Portrait and the Fiction of Dynastic Epic, in «Modern Philology», 90, 1992, 2, pp. 172-199.

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Nel 1559 la giovane regina dichiarò al Parlamento il valore della sua condizione di vergine, ma negli interventi pubblici degli anni successivi al 1563 il riferimento all’amore femminile materno sarebbe stato prevalente: la verginità come oggetto di venerazione da parte dei sudditi sarebbe diventata l’elemento propagandistico dominante solo dal 1584, in coincidenza con la morte del principe francese Francesco Ercole, col quale fu a lungo in corrispondenza36. Sia nel discorso del 1559 sia in quello del 1601 le sue parole rivelano anche la debolezza degli equilibri sui quali si fondava il suo potere; per superare tale debolezza, Elisabetta dette prova di una abilità retorica consumata, cominciando con il ringraziare i membri del Parlamento per la devozione che le dedicavano, mentre disinnescava le loro velleità di protesta spronandoli a mostrarsi degni della fiducia che la regina concedeva loro37. Non diversamente dalla sorellastra Maria, Elisabetta I manifestò il suo amore per i sudditi anche in altri modi, sebbene più propri della sensibilità cattolica, come la pratica di lavare i piedi ai poveri il Giovedì Santo38: Louis Montrose ha definito queste modalità l’immaginario politico dell’età elisabettiana, costituito dal repertorio di forme di simbologie mitologiche che pervadevano la produzione letteraria e figurativa mediante le quali furono sostenuti i diritti dinastici dell’erede dei Tudor39. È difficile cogliere l’essenziale nella soverchiante letteratura propagandistica che ha accompagnato tutti i quarantaquattro anni di regno di Elisabetta I (1558-1603) e quella, altrettanto scoraggiante, prodotta da storici, letterati, storici dell’arte. Senza alcuna pretesa di completezza mi limito a citare alcuni esempi dell’interesse che nel caso di Elisabetta, soprattutto negli ultimi anni, si è concentrato – più che sull’esercizio del potere in ambito nazionale e internazionale da parte della regina – sulla propaganda e sulle sue

36   M.B. Rose, The Gendering of Authority in the Public Speeches of Elizabeth, in «PMLA», 115, 2000, 5, pp. 1077-1082. 37  M. Vignaux, Gloriana: Elisabeth Ire d’Angleterre ou la gloire incarnée, in «Histoire, économie et société», 20, 2, 2001, pp. 151-161. 38  C. Levin, «Would I Could Give You Help and Succour»: Elizabeth I and the Politics of Touch, in «Albion: A Quarterly Journal Concerned with British Studies», 21, 2, 1989, pp. 191-205. 39   L.A. Montrose, Spenser and the Elizabethan Political Imaginary, in «ELH», 69, 2002, 4, pp. 907-946.

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varie espressioni simboliche, le quali hanno costituito una sorta di schermo protettivo che ha spostato l’attenzione dei contemporanei dalle polemiche sulla dubbia legittimità, dal sesso, dalla condizione nubile della regina alla sua trasfigurazione allegorica. In buona misura anche gli storici di oggi continuano a essere condizionati in gran parte dall’immaginario politico dell’età elisabettiana, con la rilevante eccezione di Christopher Haigh, il quale invece si concentra sulle relazioni della regina con i vari centri del suo potere, dalla Chiesa al Parlamento, dal Consiglio privato alla nobiltà maggiore, dai comandanti dell’esercito a quelli della marina40. Prendendo in considerazione lavori più recenti, due fili conduttori essenziali possono essere individuati nel rapporto tra la regina e le sue trasfigurazioni simboliche e – tema connesso al primo – nell’efficacia del mito della verginità come strumento di propaganda politica e di legittimazione della sovranità femminile. Due libri, uno di Ilona Bell, l’altro di Anna Riehl, usciti nello stesso anno nella stessa collana, «Queenship and Power», pubblicata dall’editore Palgrave Macmillan41, costruiti sulla base degli approfondimenti sempre più raffinati di questi temi, sviluppati a partire dagli anni Novanta del Novecento, si possono considerare fra le sintesi interpretative più convincenti in un panorama editoriale che si è arricchito in occasione del quarto centenario della morte della regina42. Ilona Bell sostiene che la prima metà del regno di Elisabetta I fu dominata dai suoi tentativi di decidere in prima persona se e chi sposare, in aperta contraddizione con l’idea che legava ogni donna al suo destino matrimoniale e costringeva una regina a nozze dettate dall’opportunità politica. La sua insistenza nell’affermare la propria autonomia nella scelta del marito influenzò l’opinione pubblica, stimolando cambiamenti negli atteggiamenti misogini della corte e della gente comune. Questa impostazione si basa sia sulla trattatistica che a fine Cinquecento iniziò a esprimere posizioni favorevoli   C. Haigh, Elizabeth I. Profiles in Power, Longman, London 1988.   I. Bell, The Voice of a Monarch, Palgrave Macmillan, New York 2010; A. Riehl, The Face of Queenship: Early Modern Representations of Elizabeth I, Palgrave Macmillan, New York 2010. 42   Fra le raccolte di saggi pubblicate in quell’occasione ricordo Elizabeth I: Always Her Own Free Woman, a cura di C. Levin, J. Eldridge Carney, D. BarrettGraves, Ashgate, Aldershot (GB)-Burlington (USA) 2003 e Queen Elizabeth I: Past and Present, a cura di C. Jansohn, LIT Verlag, Münster 2004. 40 41

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sull’indole e sulle capacità femminili43, sia sui discorsi e sui versi con i quali Elisabetta I fece sentire la sua voce di sovrana e di donna, in particolare le poesie d’amore, nelle quali la regina sovvertì il canone della lirica petrarcheggiante che ne faceva uno strumento di espressione esclusivamente maschile. Anna Riehl rovescia la prospettiva e invece di tentare di cogliere le espressioni dirette della personalità della regina ripropone il volume, pubblicato nel 2006 da Louis Montrose sulla base di importanti saggi precedenti44, e quelli di altri storici che, dopo Roy Strong e Frances Yates45, hanno ripreso a studiare negli ultimi decenni del Novecento il simbolismo legato alla persona della sovrana46. L’originalità del libro di Anna Riehl consiste nel concentrarsi sul viso della regina e sulla sua raffigurazione nella poesia, nei ritratti, nelle relazioni ufficiali e nei rapporti degli osservatori estranei all’ambiente di corte, per far emergere la tensione tra l’immagine reale del volto trasformato dal passare degli anni e l’immutabilità della rappresentazione della sua regalità, con un ritorno, negli ultimi anni di regno, alla effigie giovanile dei primi. Questa miracolosa freschezza, riscontrabile nelle tavole degli anni Novanta del Cinquecento, non è però senza eccezioni: il famoso Ritratto dell’arcobaleno, attribuibile a Marcus Gheeraerts il Giovane, dipinto nel 1592, della donna effigiata coglie soprattutto la dignità e la saggezza conquistate nel corso degli anni. 43   Si veda, ad esempio, Penelopes vveb VVhere, in a christall mirror of feminine perfection represents to the view of euery one those vertues and graces, which more curiously beautifies the mind of women, then eyther sumptuous apparell, or iewels of inestimable value: the one buying fame with honour, the other breeding a kinde of delight, but with repentance. In three seuerall discourses also are three speciall vertues, necessary to be incident in euery vertuous woman, pithely discussed: namely obedience, chastity, and sylence: interlaced with three seuerall and comicall histories. By Robert Greene Master of Artes in Cambridge, 1601. 44   L.A. Montrose, The Subject of Elizabeth: Authority, Gender, and Representation, University of Chicago Press, Chicago 2006; Id., Idols of the Queen: Policy, Gender, and the Picturing of Elizabeth I, in «Representations», 68, 1999, pp. 108161; Id., Spenser and the Elizabethan Political Imaginary cit. 45   R. Strong, The Cult of Elizabeth: Elizabethan Portraiture and Pageantry, Thames & Hudson, London 1977; F.A. Yates, Astrea. L’idea di impero nel Cinquecento, Einaudi, Torino 1978 (ed. orig. 1975). Il libro di Strong è il primo catalogo delle immagini riferibili a Elisabetta che ne esplora il significato simbolico e allegorico alla luce dei documenti che ne contestualizzano l’esecuzione. 46   Cito per tutti Strong, The Cult of Elizabeth cit. e Id., Gloriana: The Portraits of Queen Elizabeth, Random House, London 2003.

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Nel 1995 Susan Doran aveva pubblicato un importante articolo sui progetti matrimoniali di Elisabetta I e la tarda affermazione della simbologia della regina vergine47. Sebbene la sovrana avesse precocemente manifestato la sua inclinazione a governare da sola, per oltre vent’anni fu disponibile a valutare l’opportunità di sposarsi, come dichiarò espressamente alla Camera dei Comuni nel febbraio 1559. Nel 1560 Robert Dudley, conte di Leicester – che era notoriamente il favorito della regina – per la morte della moglie divenne libero di sposarsi e, mentre non era ancora trascorso il periodo prescritto di lutto, cercò di ottenere la mano di Elisabetta I. Questo progetto, al quale lei era molto favorevole, fu ostacolato da quasi tutti gli alti dignitari di corte. Per questo motivo Dudley cercò di ottenere l’appoggio politico di Filippo II in cambio dell’impegno a far sì che un rappresentante dell’Inghilterra partecipasse alle ultime sessioni del Concilio di Trento e che un nunzio papale fosse ricevuto in Inghilterra. La regina, comunque, nella primavera del 1561 decise che non poteva sposare Dudley a queste condizioni. Il favorito non si lasciò scoraggiare e non perse la speranza che questa decisione potesse essere modificata, perché vedeva che tutte le proposte alternative alla sua venivano scartate. Cominciavano a nascere preoccupazioni sulla successione alla regina, ancora nubile e trentenne, e nel gennaio 1563 la Camera dei Comuni le presentò una petizione affinché scegliesse un gentiluomo onorato e di suo gradimento come sposo. Lei ringraziò per la richiesta e si impegnò a considerare seriamente le possibilità di matrimonio. L’anno successivo fu chiaro che la regina non avrebbe sposato Dudley e che stava prendendo in considerazione l’unione con un principe straniero. Inizialmente si orientò verso la casa d’A47   S. Doran, Juno versus Diana: The Treatment of Elizabeth I’s Marriage in Plays and Entertainments, 1561-1581, in «The Historical Journal», 38, 1995, 2, pp. 257274. Della necessità di considerare l’abbandono delle trattative matrimoniali agli inizi degli anni Ottanta come un punto di svolta dopo il quale trionfò l’immagine della regina vergine è convinta anche H. Hackett, Virgin Mother, Maiden Queen: Elizabeth I and the Cult of the Virgin Mary, Macmillan Press, Basingstoke-London 1995. In buona parte dedicati alle immagini allegoriche di Elisabetta I ma più innovativi di altri, poiché pongono il problema di quanto la regina fosse eterodiretta nell’avallarle sono i saggi raccolti da S. Doran e T.S. Freeman, The Myth of Elizabeth, Palgrave Macmillan, New York 2003. Sui progetti matrimoniali che occuparono oltre un ventennio del regno di Elisabetta I si veda anche McLaren, The Quest for a King cit.

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sburgo: sebbene nel 1559 avesse rifiutato la proposta di Filippo II, da poco vedovo di Maria, Elisabetta I trattò per vari anni con il cugino di Filippo, l’arciduca Carlo d’Austria. Il progetto fallì per motivi religiosi ma soprattutto perché il padre dell’arciduca, l’imperatore Ferdinando I, pretendeva che nel trattato matrimoniale fosse inserita una clausola per la quale Carlo, nel caso fosse restato vedovo, sarebbe succeduto alla moglie sul trono d’Inghilterra nell’eventualità che questa non avesse avuto figli. Alla fine del 1567, falliti i negoziati con gli Asburgo, la questione del matrimonio della regina fu fortemente determinata dallo scenario politico internazionale. Per breve tempo, nel 1571, i consiglieri di Elisabetta sostennero la proposta di un matrimonio con uno dei figli di Caterina de’ Medici, Enrico, duca d’Anjou, ma quando anche questa ipotesi fallì in pochi ormai credevano che si sarebbe potuto trovare un pretendente gradito alla regina, alla corte e ai protestanti. Ci fu qualche discorso di matrimonio con Francesco Ercole, duca di Alençon, il fratello minore di Enrico, di ventidue anni più giovane di Elisabetta, ma anche se la regina sembrava gradire il «mostricciattolo» che lei chiamava affettuosamente «ranocchio»48 e anche se Francesco non era allineato alle posizioni radicali del partito cattolico, il massacro degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo a metà degli anni Settanta aveva reso il progetto politicamente improponibile in Inghilterra. Inoltre, quando la regina aveva superato la soglia dei quarant’anni ed era prossima alla menopausa, l’interesse per un suo matrimonio era molto diminuito dal fatto che le aspettative in un’erede non potevano essere più molto fondate. Nello stesso periodo le rappresentazioni di corte criticavano implicitamente i progetti di unione con i principi francesi e la spingevano a rimanere nubile, 48  Sui rapporti affettuosi di Elisabetta con Francesco Ercole, duca di Alençon, ci sono testimonianze nelle lettere della regina. Vedi J. Mueller, «To My Very Good Brother the King of Scots»: Elizabeth I’s Correspondence with James VI and the Question of the Succession, in «PMLA», 115, 2000, 5, pp. 1063-1071. Quanto al soprannome affettuoso, si veda una lettera scritta tra il 1579 e il 1580, nella quale – come in altre successive – Elisabetta esprimeva la sua passione e il suo impegno a concludere il matrimonio, qualora fosse stato possibile superare l’ostilità dei sudditi a un’unione della loro regina con un cattolico. Terminava dicendo di pregare Dio «affinché vi conceda vita lunga e dolce; i miei saluti al carissimo Ranocchio»: Elisabetta I d’Inghilterra. Lettere ai fidi e agli infidi, a cura di N. Gruppi, Archinto, Milano 1988, p. 57.

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mettendo una grande enfasi nella celebrazione del suo stato di regina vergine come di qualcosa di soprannaturale e miracoloso e rivolgendosi a lei come a una «casta Pallade», una «Vergine incontaminata», una «Regina inviolabile». Sebbene alla fine degli anni Settanta l’immagine della divina Astrea non fosse stata ancora divulgata – nei ritratti e nelle opere letterarie si affermò nel decennio successivo –, a Elisabetta erano già attribuite tutte le virtù delle divinità dell’Olimpo: la saggezza di Pallade, la bellezza di Venere, l’eloquenza di Mercurio e altre ancora. Nelle commedie e negli spettacoli rappresentati davanti alla regina dal 1561 al 1578 la verginità di Elisabetta non era idealizzata e proposta alla adorazione dei sudditi ma, al contrario, il matrimonio era elogiato come una condizione preferibile alla castità. Specialmente Robert Dudley aveva finanziato lavori teatrali di questo genere per rendere più efficace il suo corteggiamento, ma il conte di Sussex e altri usarono rappresentazioni allegoriche e mitologiche per sostenere la trattativa con l’arciduca Carlo d’Austria. L’iconografia della castità fu usata per la prima volta nel 1578, quando Elisabetta era coinvolta nella ripresa delle trattative con il duca d’Anjou – Francesco Ercole, che aveva assunto il titolo dopo l’incoronazione del fratello Enrico. Durante una sua visita a Norwich nell’estate di quell’anno le furono dedicati festeggiamenti che implicitamente criticavano quel progetto di matrimonio celebrando la castità. Per i successivi tre anni coloro che si opponevano alle trattative col «Ranocchio» seguirono questo esempio e perfezionarono l’immagine della regina vergine per sabotarle. In seguito Elisabetta sfruttò la stessa simbologia per le proprie finalità politiche49, ma secondo Susan Doran essa fu proposta la prima volta a Norwich come conseguenza diretta delle inclinazioni della regina per il cattolico duca d’Anjou, che erano contrastate da molti in Inghilterra. Per i successivi tre anni questa opposizione fu espressa in pamphlet, sermoni, poesie, ballate, versi latini e negli stessi ritratti della regina, la quale fu costretta a prendere atto che quel matrimonio l’avrebbe messa in contrasto con la grande maggioranza dei suoi consiglieri e con i suoi sudditi protestanti. Nel gennaio 49   Sul tema dell’immagine propagandistica si è soffermata P. Berry, On Chastity and Power. Elizabethan Literature and the Unmarried Queen, Routledge, London-New York 1989.

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1580 Elisabetta cominciò a tergiversare di fronte alle richieste dei suoi interlocutori francesi di firmare l’accordo e subito dopo sondò gli ambasciatori sulla possibilità che Enrico III e Caterina de’ Medici accettassero un’alleanza offensiva e difensiva contro la Spagna non garantita da uno sposalizio50. La rappresentazione che ebbe luogo davanti ai delegati francesi nel giorno di Pentecoste, nota come The Fortress of Perfect Beauty or the Four Foster Children of Desire, la cui creazione fu attribuita a sir Philip Sidney51, fu un elaborato trionfo allegorico che doveva comunicare ai francesi e a tutta la corte inglese la decisione della regina. Elisabetta era rappresentata come un irraggiungibile oggetto di desiderio per il principe francese, sia in continuità con la tradizione cavalleresca del fin’amour sia perché, come incarnazione miracolosa dell’immagine sublimata della donna che le tendenze neoplatoniche avevano diffuso nelle corti cinquecentesche, era del tutto al di sopra della sua portata. Lo stesso Sidney avrebbe partecipato al torneo indossando i panni di uno dei quattro figli allevati dal Desiderio accompagnato da quattro paggi, trenta gentiluomini e possidenti, quattro trombettieri. Ciascuno portava sulla giacca ornamenti d’argento con il motto «Sic Nos Non Nobis», uno degli elementi dell’allegoria. Anche gli altri tre figli del Desiderio avevano un seguito numeroso. Assisteva al corteo il duca di Anjou accompagnato, oltre che dai delegati alle trattative, da cinquecento gentiluomini. Così fu costruito il mito della regina che si mostra come una divinità che elargisce un beneficio a tutti i sudditi piuttosto che seguire una propria inclinazione privata52. Va detto comunque che, come ha sostenuto Ilona Bell, la questione del matrimonio della regina aveva, da un lato, stimolato 50   Doran, Juno versus Diana cit. Si veda anche J.N. King, Queen Elizabeth I: Representations of the Virgin Queen, in «Renaissance Quarterly», 43, 1990, 1, pp. 30-74, secondo il quale l’immagine della verginità sarebbe stata proposta da Elisabetta stessa e quindi non «costruita» a posteriori per ragioni di opportunità politica: in quel modo la regina seppe usare come un elemento di forza la sua apparente debolezza di donna sola. 51   A.C. Hamilton, Problems in Reconstructing an Elizabethan Text: The Example of Sir Philip Sidney’s «Triumph», in «English Literary Renaissance», 26, 1996, 3, pp. 451-481. Si veda anche G. Wickham, «Love’s Labor’s Lost» and «The Four Foster Children of Desire», 1581, in «Shakespeare Quarterly», 36, 1985, 1, pp. 49-55. 52   N. Council, «O Dea Certe». The Allegory of «The Fortress of Perfect Beauty», in «Huntington Library Quarterly», 39, 1976, 4, pp. 329-342.

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l’immaginario popolare sulla società di corte e sull’amore cortese, mentre dall’altro aveva suscitato anche un diffuso allarme per la possibilità che un altro sovrano straniero sedesse accanto a una regina inglese, timore che però era attenuato dalla volontà che Elisabetta I aveva espresso pubblicamente in varie occasioni di voler mantenere i suoi diritti di governare da sola, fosse o non fosse sposata53. Il culmine dell’eccitazione dei sudditi per l’intenzione della regina di sposarsi si era manifestata nel 1579 quando il duca Francesco Ercole era arrivato in Inghilterra per corteggiarla durante l’ultimo periodo nel quale era ancora possibile che lei potesse partorire un erede. Secondo il libro di Susan Doran e altri lavori recenti54 le ricerche pioneristiche di Roy Strong e l’analisi della Yates sul culto di Astrea debbono essere rivisti, così come le letture di Marie Axton – la quale ritiene l’immagine della vergine Astrea, dea della giustizia, come un successo personale tenacemente perseguito da Elisabetta I e felicemente raggiunto55 – e di Christopher Haigh – che attribuisce queste rappresentazioni alla volontà della regina stessa di destreggiarsi nelle trattative per il matrimonio56. Secondo Susan Doran, si tratta invece di una simbologia impostale dagli scrittori, dai pittori e dai suoi sostenitori durante le trattative per il matrimonio con Francesco Ercole. Elisabetta poté decidere in prima persona soltanto quando si rese conto che il matrimonio con un principe cattolico – per quanto non ostile verso i protestanti – non sarebbe mai stato accettato dai suoi sudditi e che, data l’età, sarebbe rimasta nubile per il resto della vita; al tempo stesso, 53   I. Bell, Elizabeth and the Politics of Elizabethan Courtship, in Elizabeth I: Always Her Own Free Woman cit., pp. 179-191. 54   Oltre a quelli già citati si vedano S. Frye, Elizabeth I. The Competition for Representation, Oxford University Press, New York 1993; C. Levin, The Heart and Stomach of a King: Elizabeth I and the Politics of Sex and Power, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1994; M. Axton, The Queen’s Two Bodies: Drama and the Elizabethan Succession, Humanities Press, London 1977. Per una revisione delle posizioni di Yates, Strong e Montrose, i quali hanno studiato la regina come un’eccezione rispetto alle condizioni delle altre donne, senza prendere in considerazione la complessità dei rapporti politici che derivarono dalla mancanza di eredi maschi nella discendenza dei Tudor, si veda P. Berry, Of Chastity and Power: Elizabethan Literature and the Unmarried Queen, Routledge, Chapman & Hall, New York 1989. 55   Axton, The Queen’s Two Bodies cit. 56   Haigh, Elizabeth I cit.

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realizzò che poteva ottenere dei vantaggi politici dalla idealizzazione della sua condizione di donna sola. In questa, come in altre decisioni politiche, Elisabetta non godeva di grande autonomia, come è stato quasi sempre dato per scontato, ma era una scaltra esecutrice che sapeva volgere a suo vantaggio anche situazioni fuori dal proprio controllo57. Se questo è vero, dobbiamo considerare la celebrazione shakespeariana della Golden Age del regno di Elisabetta, corrispondente alla seconda parte della sua vita, come una consacrazione definitiva del mito della regina che solo gli studi più recenti hanno cominciato a decodificare, imponendo per secoli agli scritti celebrativi e alle ricerche storiche una gamma di simboli ricalcata sulla iconografia divulgata dagli artisti che gravitavano attorno alla corte. Certo, questo non fa che confermare l’abilità con la quale la prima regina sui juris d’Inghilterra per esercitare il potere senza la presenza di un uomo seppe dissimulare la sua vera identità e travestirla con rutilanti immagini che in definitiva dovevano servire a distogliere sudditi, sostenitori e avversari dagli argomenti della letteratura misogina, nella quale si esprimeva il tradizionale rifiuto ad associare una donna al potere. Scrivendo sull’età elisabettiana in controluce, dentro a storie che parlavano di epoche remote58, Shakespeare ha suggerito un modo di rappresentare la realtà che Roland Mushat Frye ha definito «aesthetic epistemology», condiviso anche da altri artisti minori e nelle figurazioni pittoriche coeve59. È stato affermato anche che le commedie storiche di Shakespeare realizzano in pieno tutte le potenzialità espressive con le quali il medium teatrale può essere usato per imporre un codice maschile pur mettendo apparentemente in scena discorsi e personaggi femminili60. Il ruolo centrale

  Doran, Juno versus Diana cit.   N.S. Levine, Women’s Matters. Politics, Gender and Nation in Shakespeares Early History Plays, University of Delaware Press, Newark 1998. 59   R.M. Frye, Ways of Seeing in Shakespearean Drama and Elizabethan Painting, in «Shakespeare Quarterly», 31, 1980, 3, pp. 323-342. 60   K. Eggert, Showing Like a Queen: Female Authority and Literary Experiment in Spenser, Shakespeare, and Milton, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2000, p. 101. Si veda anche M.L. Kaplan, K. Eggert, «Good Queen, My Lord, Good Queen»: Sexual Slander and the Trials of Female Authority in «The Winter’s Tale», in «Renaissance Drama», 25, 1994, pp. 89-118. 57

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della cultura nella costruzione dell’immaginario collettivo sulla regina è stato ripetutamente sottolineato in opere più o meno recenti. Da ultimo è stata messa in evidenza la partecipazione dei testi letterari scritti dalla stessa Elisabetta I alla costruzione del suo mito, rappresentando così una pluralità di ruoli – donna e regina, «madre» dei suoi sudditi, scrittrice e ispiratrice di molte delle opere più importanti della sua epoca61 – che si integravano con gesti, immagini, oggetti, rituali, in un campo semantico nel quale le rappresentazioni della regalità di Elisabetta si adattavano alla cultura maschile, al cerimoniale di corte, alla sensibilità per la dimensione etica ed estetica presente in tutti gli aspetti della vita62. Che la regina non possa essere considerata separatamente dalla dimensione culturale dalla quale la sua persona si è proiettata all’esterno lo ha dimostrato anche recentemente un saggio nel quale si sostiene l’impossibilità di capire Elisabetta senza Shakespeare e Shakespeare senza Elisabetta63. 4. Il sacrificio di Maria Il 9 agosto 1588 al campo di Tilbery dove erano concentrate le sue truppe per respingere l’attacco dell’Invincibile Armata del re di Spagna Filippo II, Elisabetta I tenne alle truppe un discorso che ci è stato tramandato da varie fonti, anche se non è del tutto certo, mancando una versione ufficiale, che si tratti delle precise parole pronunciate dalla regina. Janet Green, basandosi su di un’attenta collazione dei manoscritti esistenti, sostiene che l’autrice non potesse essere che lei. Comunque sia, è senz’altro verosimile che il tipo di retorica del discorso ricalchi quella abitualmente usata in altre occasioni: «So di avere solo un debole corpo di donna, ma so anche di avere il cuore e il coraggio di un re, di un re d’Inghilterra, 61   A. Petrina, L. Tosi, Representations of Elizabeth I in Early, Modern Culture, Palgrave Macmillan, New York 2011. Importante anche A. McLaren, Political Culture in the Reign of Elizabeth I: Queen and Commonwealth 1558-1585, Cambridge University Press, Cambridge 1999. 62   M.E. Hazard, Elizabethan Silent Language, University of Nebraska Press, Lincoln-London 2000, p. 17. 63   H. Hackett, Shakespeare and Elizabeth: The Meeting of Two Myths, Princeton­ University Press, Princeton (NJ) 2009.

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per giunta [...]. Io stessa metterò in gioco il mio sangue reale, io stessa sarò il vostro comandante e giudice, e il premio del vostro valore sul campo»64. La vittoria contro il re di Spagna consacrò definitivamente il mito di Elisabetta I. L’occasione di tentare di invadere l’Inghilterra, sulla quale per breve tempo aveva regnato con Maria Tudor, fu offerta a Filippo II dall’esecuzione di Maria Stuart, avvenuta l’anno precedente, la quale, dopo essere stata per due anni regina di Francia come moglie di Francesco II, il maggiore dei figli di Caterina de’ Medici, era tornata in Scozia dopo essere rimasta vedova il 5 dicembre 1560, per assumere effettivamente – il 9 agosto 1561, alla morte della madre – il ruolo di regina che le spettava come figlia unica di Giacomo V Stuart. Al suo posto, mentre Maria era in Francia, aveva governato come reggente la madre Maria di Guisa, la quale apparteneva al più importante lignaggio dello schieramento cattolico che in Francia si stava battendo contro gli ugonotti; fino alla morte di Francesco II, Maria di Guisa aveva sostituito la figlia da quando, neonata, aveva ereditato il regno dal padre. Maria Stuart era stata consacrata regina per diritto divino a soli nove mesi, in quanto unica discendente legittima degli Stuart. Inoltre, dall’età di cinque anni, quando era stato stretto il patto matrimoniale fra Enrico II e Maria di Guisa, Maria era andata in Francia per essere educata alla vita di corte. Qui aveva appreso varie lingue classiche e moderne, la musica, la danza, l’equitazione e l’arte della conversazione. La giovanissima regina fu attratta dalla raffinata cultura cavalleresca e dalla «cortesia» italiana che Baldassar Castiglione e monsignor Giovan Battista della Casa avevano portato in Francia. Francesco I, con la madre Luisa di Savoia e la sorella Margherita di Navarra, e poi Enrico II, insieme con Diana di Poitiers, sua amante, e con la regina Caterina de’ Medici avevano promosso queste aperture nei confronti dell’innovazione del gusto e del cerimoniale di corte per «civilizzare» la nobiltà e raffinare le loro maniere65, e da questa 64   J.M. Green, «I My Self». Queen Elizabeth I’s Oration at Tilbury Camp, in «The Sixteenth Century Journal», 28, 1997, 2, pp. 421-445: «I know I have ye body butt of a weak and feble woman, butt I have ye harte and stomack of a kinge [...] I myself will ventir my royall blood, I myself will bee your generall, judge, and rewarder of your vertue in ye field» (p. 443). 65  Per la sterminata bibliografia consultata e per le originali proposte interpretative faccio riferimento a C. Allard, La galanterie italienne, la galanterie française:

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esperienza dei suoi anni di formazione Maria fu indotta ad abbandonare la forma scozzese del suo cognome – Stewart – a favore della variante francofona Stuart. Maria avrebbe dimostrato in seguito che l’educazione ricevuta non era stata sufficiente per prepararla ad affrontare la pericolosa e complessa situazione politica nella Scozia, dove nel frattempo si era diffuso il calvinismo. Tollerante per natura, non perseguitando i calvinisti si inimicò parte della nobiltà cattolica senza essersi guadagnata il favore dei protestanti. Alexandre Dumas padre ha scritto nell’incipit dell’opera che le avrebbe dedicato nel 1840, nella serie Delitti celebri, che come ci sono nomi regali di cattivo auspicio, ad esempio Enrico in Francia – quattro re che portarono questo nome morirono di morte violenta: avvelenato il primo, per un incidente in un torneo il secondo, pugnalati il terzo e il quarto –, così il lignaggio scozzese degli Stuart sorprende per la sequenza di malattie, assassini, morti premature. Di questa stirpe infelice, la più infelice di tutti fu proprio, secondo Dumas, Maria Stuart66. La maggior parte delle narrazioni della storia della regina affondano le radici nelle opere pubblicate durante gli anni della sua prigionia o dopo la morte di Lord Darnley, suo secondo marito, per l’esplosione della casa nella quale si trovava. John Leslie, nel 1569, pubblicò una difesa della regina, che era accusata di aver fatto assassinare Darnley, sostenendo che le prove testimoniali addotte non erano attendibili67 e che questo evento non ne offuscava la reputazione né pregiudicava i suoi diritti sulla corona inglese, in quanto unica discendente legittima dei Tudor come nipote diretta di Margherita, sorella di Enrico VIII. Il 24 febbraio Elisabetta aveva scritto a Maria: le franchissement des Alpes au XVIe siècle, sous la direction de F. Gauthier, Master 2 d’Histoire et Civilisations Comparées, spécialité Identités-Altérités, parcours franco-italien, et de C. Casanova, Laurea magistrale di Scienze Storiche, Université Paris VII e Università di Bologna, aa. 2010-2011. 66   Per una recente edizione italiana si veda A. Dumas, Maria Stuarda, Sellerio, Palermo 2009. 67   A defence of the honour of the right highe, mightye and noble Princesse Marie Quene of Scotlande and dowager of France with a declaration aswell of her right, title & intereste to the succession of the crowne of Englande, as that the regimente of women ys conformable to the lawe of God and nature, Imprinted at London in Flete strete, at the signe of Iustice Royall against the Blacke bell, by Eusebius Dicaeo|phile, Anno Dom. 1569.

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Signora, le mie orecchie sono talmente sconvolte, e il mio cuore talmente spaventato dalla notizia dell’orribile, abominevole omicidio di colui che era a voi marito, e a me cugino, che quasi non riesco a trovare la forza di scrivere: ciononostante, non posso fare a meno di dirvi che mi addoloro più per voi che per lui. Non mi comporterei né da buona parente né da buona amica se non vi esortassi ad avere maggior riguardo per il vostro onore, invece che vendicarvi solo per modo di dire su coloro che vi hanno reso questo servizio, come dice la maggioranza della gente68.

Si era sparsa la voce che a capo degli assassini di Lord Darnley ci fosse James Hepburn, conte di Bothwell, ma questi fu scagionato nell’aprile 1567 e il mese successivo sposò Maria col rito protestante. I cattolici considerarono il matrimonio non valido, in quanto non riconoscevano il divorzio di Bothwell dalla prima moglie e la legittimità del rito; inoltre, sia i cattolici che i protestanti furono scandalizzati dal fatto che la regina avesse sposato l’uomo che era stato accusato dell’omicidio di suo marito. Per Maria e il suo nuovo consorte la situazione precipitò rapidamente: venti pari scozzesi si ribellarono contro di loro con le armi, affrontandoli il 13 maggio sul campo di battaglia dove la regina fu abbandonata dai suoi sostenitori. Bothwell ottenne un salvacondotto che gli permise di portare la moglie a Edimburgo, dove la folla inveì contro Maria accusandola di adulterio e di assassinio. La stessa notte la regina fu imprigionata e il 24 luglio fu costretta ad abdicare a favore del figlio Giacomo, che aveva due anni e che rimase affidato alla tutela di James Stewart, Lord Morley, fratellastro di Maria in quanto figlio naturale di Giacomo V. Bothwell fu costretto all’esilio in Danimarca dove venne imprigionato e morì pazzo nel 1578. Nel maggio 1568 Maria fu aiutata a fuggire dalla sua prigione e riuscì a raccogliere seimila uomini che però furono sconfitti dalle forze, numericamente inferiori, messe in campo da Lord Morley, a tutela del piccolo sovrano. Maria si rifugiò in Inghilterra dove, il 18 maggio, fu posta sotto custodia in attesa del giudizio sul suo operato. La commissione alla quale fu affidato il compito di giudicare la regina terminò i suoi lavori il 22 gennaio 1569. Era stato lo stesso Lord Morley a produrre le presunte prove dell’adulterio   Elisabetta I d’Inghilterra. Lettere cit., p. 43.

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e dell’assassinio di Lord Darnley: si trattava di lettere, dalle quali Maria risultava implicata nell’assassinio del marito, e di alcuni sonetti d’amore, prove che furono a lungo dibattute dagli storici69. Antonia Fraser e Alison Weir propendono per considerarle contraffatte, se non del tutto false70. La commissione d’inchiesta decise a maggioranza che tali prove fossero autentiche, sulla base del contenuto e della perizia calligrafica su altri scritti di Maria. Tuttavia ragioni politiche spingevano Elisabetta, che non aveva l’intenzione di sottoporre la cugina a un processo, a concludere per una formula dubitativa. La sorte della regina restò però incerta e, mentre Morley ritornava in patria come reggente, Maria rimaneva in Inghilterra, sotto custodia. Elisabetta riuscì a sostenere un governo protestante in Scozia, mantenendo sospesa per altri vent’anni la sorte della cugina. Nel gennaio 157 il reggente Morley fu assassinato, in coincidenza con una ribellione di nobili cattolici nell’Inghilterra del Nord; Elisabetta cominciò a ritenere che Maria fosse una minaccia per la stabilità del suo stesso potere, ma già dal 1569 aveva posto la cugina sotto una sorveglianza più severa perché le pretese di Maria al trono inglese avevano ripreso a trovare sostenitori71. Negli anni successivi vari complotti vennero orditi e scoperti e l’11 agosto 1586, dopo un’ultima congiura per assassinare Elisabetta72, Maria venne messa sotto processo, al quale, come regina, si rifiutò di partecipare73. Riapparvero e furono divulgati i documenti che nel 1569 non erano stati ritenuti sufficienti per condannarla. Non le fu possibi-

69   S. Bell, «The Queen’s Desire»: George Buchanan reading Mary Queen of Scots, in The Rituals and Rhetoric of Queenship: Medieval to Early Modern, a cura di L. Oakley-Brown e L.J. Wilkinson, Four Courts Press, Dublin 2009, pp. 192-210. 70   A. Fraser, Maria Stuarda regina di Scozia, Sansoni, Firenze 1974 (ed. orig. 1969), pp. 415-440; A. Weir, Mary, Queen of Scots and the Murder of Lord Darnley, Random House, London 2008 (prima ed. 2003), pp. 465-474. 71   Leslie, A defence of the honour of the right highe, mightye and noble Princesse Marie Quene of Scotlande cit. 72   J.H. Pollen S.J., Mary Queen of Scots and the Babington Plot, Scottish History­ Society, Edinburgh 1922; Trial of Mary Queen of Scots, a cura di A.F. Steuart, Hodge, Edinburgh 1923. 73   Sul processo si veda J.E. Neal, Proceedings in Parliament Relative to the Sentence on Mary Queen of Scots, in «The English Historical Review», 35, 1920, 137, pp. 103-113.

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le difendersi e in ottobre fu incriminata. Elisabetta continuava ad essere restia a emanare una sentenza di morte alla quale la spingeva la stragrande maggioranza dei membri del Parlamento, perché avrebbe suscitato l’ostilità di tutti i sovrani cattolici d’Europa, in particolare del re di Spagna Filippo II. Dopo che venne sventato un tentativo di liberare Maria da parte del figlio, il giovane re di Scozia Giacomo VI, la sentenza di morte fu firmata il 1° febbraio 1587. Nell’ottobre 1586 Elisabetta le aveva scritto una breve, durissima lettera che però non ebbe effetto: Maria non si presentò davanti ai suoi giudici. Avete cercato in vari modi e maniere di togliermi la vita e di far piombare il mio regno nella distruzione e nel sangue. Io non ho mai agito a questo modo contro di voi, al contrario, vi ho protetto e difeso al pari di me stessa. Questi tradimenti verranno provati e ogni cosa sarà manifesta. È comunque mia volontà che voi rispondiate ai nobili e ai pari di questo regno come se anch’io fossi presente. Di conseguenza io chiedo, esigo e impongo che vi presentiate al processo, perché sono pienamente informata della vostra arroganza. Agite apertamente senza riserve e vi sarà più agevole ottenere favore da me74.

La regina di Scozia fu decapitata l’8 febbraio 1587. La sua vicenda fu raccontata a lungo in chiave propagandistica: la parte anglicana sostenne le accuse più infamanti in merito alla sua slealtà politica nei confronti di Elisabetta, costretta a farla processare e condannare a morte; la parte cattolica offrì al figlio ed erede della corona di Inghilterra, Giacomo, designato dalla stessa Elisabetta a succederle come Giacomo I Stuart, una versione celebrativa del sacrificio della madre. The Historie of the Life and Death of Mary Stuart di William Camden può essere considerata la realizzazione di un difficile compromesso – esaltare la madre del re senza però pregiudicare lo sforzo compiuto dall’ultima regina Tudor denigrandola come assassina – per salvaguardare l’immaginaria continuità tra dinastia Tudor e dinastia Stuart, costruita dai fragili giochi di specchi degli ultimi drammi di Shakespeare75. William Camden

  Elisabetta I d’Inghilterra. Lettere cit., p. 84.   F.A. Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare. Un nuovo tentativo di approccio, Einaudi, Torino 1979 (ed. orig. 1975). Il dilemma del re, dilaniato dal rimorso 74 75

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riporta una lettera scritta da Elisabetta l’11 ottobre 1586, «with a Princely countenance and quiet minde» (‘con compostezza regale e animo sereno’). In essa avrebbe affermato di essere molto dispiaciuta che la regina («my most deare sister») avesse un’opinione errata di lei e, nonostante i molti pericoli ai quali Elisabetta l’aveva sottratta per tanti anni, non si fidasse di lei e le si rivolgesse con arroganza nelle sue lettere, come se la regina d’Inghilterra fosse stata una sua suddita, rifiutando di obbedire all’ordine di presentarsi al processo. Elisabetta dichiarò di non avere alcuna responsabilità per quello che sarebbe stato l’esito del processo, che aveva affidato a un consiglio di nobili e pari del regno. The Fairie Queene di Spencer, edito incompiuto nel 1590 dopo la morte prematura del poeta, non dovette mascherare nessuna censura all’operato di Elisabetta perché la sua vita e la produzione letteraria si concentrarono negli anni della maggior glorificazione dell’ultima dei Tudor. Nel poema Maria Stuart, rappresentata simbolicamente dalla regina Duessa, è una donna all’apparenza bellissima (come di fatto era la regina di Scozia) ma che finisce per essere smascherata come una creatura ripugnante, in ossequio a Elisabetta-Gloriana. Dopo Spencer, che riuscì a portare a termine solo sei libri dei dodici progettati per celebrare la sua sovrana come Regina delle fate, la storia tragica di Maria Stuart ha ispirato una produzione letteraria assai ricca nella quale prevalgono le biografie76. Fra le opere perdute di Tommaso Campanella, Luigi Firpo menziona una tragedia ispirata alla regina di Scozia, che il filosofo calabrese rappresentò come una martire sacrificata dall’Inghilterra scismatica. Citandola durante il suo quinto processo, celebrato

per le sue responsabilità nell’allontanamento definitivo della madre dal trono di Scozia e tormentato dal dubbio che lei fosse responsabile della morte di suo padre, era ulteriormente complicato dal fatto che la sua lealtà a Elisabetta doveva essere costantemente esibita. Con la costruzione di un monumento funebre che raccoglieva in due tombe separate ma vicine le spoglie di entrambe, secondo Peter Sherlock il re fece il tentativo più riuscito di conciliare la sua complessa storia famigliare (The Monuments of Elizabeth Tudor and Mary Stuart: King James and the Manipulation of Memory, in «Journal of British Studies», 46, 2007, 2, pp. 263-289). 76  N. Kerby, The Faerie Queene and the Mary Stuart Controversy, in «ELH», 2, 1935, 2, pp. 192-214. Sulle interpretazioni «politiche» in chiave misogina della storia di Maria Stuart fino al XIX secolo, sia di parte cattolica che protestante, si veda N. Cadène, L’histoire au féminin: la «vie» de Marie Stuart par Agnès Strickland, in «Romantisme», 115, 2002, pp. 41-52.

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tra il 1599 e il 1600, Campanella affermò di averla scritta con finalità politiche, attribuendo per convenienza all’opera – che era stata perduta al tempo della cattura in Calabria, tra 1598 e 1599 – un esplicito significato antinglese che la tragedia sembra non avere mai posseduto77. Composta tra il settembre 1598 e i primi mesi del 1599, si sarebbe trattato del primo esempio di una lunga tradizione da parte cattolica di trasfigurazione di Maria in martire a fini apologetici, una celebrazione postuma che poi ebbe varie altre versioni in opere pubblicate un po’ ovunque in Europa, la maggior parte delle quali apparve nel XVII secolo. I maggiori esempi di apologetica anglicana sono invece più tardi: Mary Queen of Scots (1789) di John Saint John; la tragedia omonima di Mary Deverele (1792) e Mary Stewart Queen of Scots (1807) di James Graham. La prima opera su Maria Stuart veramente libera da intenti encomiastici o denigratori è la tragedia Maria Stuart (1801) di Friedrich Schiller, nella quale la regina è immaginata come vittima della sua bellezza e della sua passionalità, che la trascinarono alla rovina. Tuttavia Maria si riscattò al momento della morte, che affrontò coraggiosamente riabilitandosi di fronte a Elisabetta, rappresentata come una donna meschina, gelosa e vendicativa. Sia Elisabetta sia Maria, malgrado la mole torrenziale di opere loro dedicate nel corso dei secoli, anche oggi rischiano l’una di restare nascosta dai simboli trionfali della sua regalità, continuamente rivisitati anche dalla storiografia recente, l’altra di essere ancora imprigionata negli stereotipi della santa cattolica e della donna dissoluta78. Sia pure in misura diversa per entrambe, dopo

77   Sull’opera perduta del filosofo calabrese si veda L. Firpo, Bibliografia degli scritti di Tommaso Campanella. Pubblicazione promossa dalla R. Accademia delle Scienze di Torino, nel III centenario della morte di T. Campanella, Bona, Torino 1940, p. 141. Per le tumultuose peripezie che portarono alla carcerazione di Campanella per ventisette anni si veda, sempre di Luigi Firpo, I processi di Tommaso Campanella, Salerno, Roma 1998. Campanella, per tentare di sottrarsi alla pena per aver organizzato una congiura, pochi mesi prima aveva firmato una confessione nella quale faceva i nomi dei principali cospiratori, negando ogni sua partecipazione. Ma le testimonianze dei suoi complici furono concordi nell’indicarlo come loro capo. 78   Si veda ad esempio A. Plowden, Elizabeth Tudor and Mary Stewart: Two Queens in One Isle, Barnes & Noble, Totowa (NJ) 1984, che riprende in un libro divulgativo, nel quale ricorre ripetutamente a consunti cliché letterari, il gusto

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la morte, i racconti dei contemporanei contribuirono a condizionare per secoli i giudizi sulla loro esperienza politica. Se Elisabetta ebbe i suoi cantori e i suoi pittori e una storiografia anche oggi quasi esclusivamente costituita da un raffinato lavorio filologico sui testi e da minute decodificazioni dei simboli e delle allegorie celate nei suoi ritratti, con i quali scelse o fu indotta a scegliere di proiettare verso l’esterno la sua interpretazione della regalità femminile, per Maria il «femminile», inteso come debolezza e inettitudine a esercitare il potere per «natura»79, è stato l’elemento che, con finalità opposte, ha dominato sia l’immaginario cattolico sia quello protestante; la storiografia ha superato tale posizione solo nel XX secolo80, con il contributo anche di opere non riservate ai circuiti accademici, come le biografie di Antonia Fraser, di John Guy81 e di Alison Weir. Soprattutto la prima si può considerare una delle più accurate ricostruzioni contemporanee della vita di Maria Stuart, sia per il rigore critico della Fraser sia per la capacità di tradurlo in una forma narrativa in grado di evitare le banalizzazioni sentimentali o scandalistiche82.

popolare per la contrapposizione della personalità delle due regine. Sul «racconto della Passione di Maria Stuart» e sulla necessità di inquadrare la vicenda della regina di Scozia in una prospettiva politica si veda P.-A. Alt, Der Tod der Königin. Frauenopfer und politische Souveränität im Trauerspiel des XVII Jahrhunderts, W. De Gruyter, Berlin 2004, che titola un paragrafo del suo libro, appunto, Maria Stuarts Passionsgeschichte (pp. 188-195). 79   G. Pomata – in La storia delle donne. Una questione di confine, in Il mondo contemporaneo, Gli strumenti della ricerca, vol. 2, Questioni di metodo, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 1433-1460 – ha scritto che nella storia le donne sono state relegate in una «enclave di primitivo, di non storico, all’interno del mondo storico» (p. 1435), trasmettendo fino al XX secolo una cultura che le sottrae alla sfera del razionale – e del politico – per confinarle nella sfera immutabile della natura. 80   Un giudizio impietoso sulle responsabilità politiche della regina di Scozia, oltre la contrapposizione tra l’immagine di martire innocente e quella di perfida assassina, fu espresso in occasione del quarto centenario della sua esecuzione in un libro di Jenny Wormald, Mary Queen of Scots: A Study in Failure, George Philip, London 1988. Nello stesso anno, per iniziativa della Scottish Catholic Historical Association, vennero pubblicate in Inghilterra nove opere dedicate alla regina, recensite in L.G. Schwoerer, Mary Stewart: Queen in Three Kingdoms, in «Renaissance Quarterly», 43, 1990, 3, pp. 625-627. 81   J. Guy, Queen of Scots: The True Life of Mary Stuart, Houghton Mifflin, Boston 2004. 82   A queste biografie si può aggiungere quella di R.M. Warnicke, Mary Queen of Scots, Routledge, New York 2006 che, sebbene recente, non sfugge alla tentazione di «riabilitare» Maria, riproponendo argomenti già assodati, tra i quali la dubbia

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Secondo una felice espressione di Peter-André Alt, che adatta la notissima definizione della regalità di Kantorowicz83 alla queenship, la morte della regina interrompe quella eternità simbolica che non appartiene alle donne. Infatti, una regina non è che un re dimezzato, un «re senza il secondo corpo», cioè quello rappresentato idealmente dalla possibilità di rinascere di maschio in maschio, rendendo possibile l’immortalità della propria stirpe84. Di Elisabetta rimase un corpo imbalsamato e un sepolcro ma, in mancanza del riconoscimento del potere di riprodursi in un erede biologico, l’ultima dei Tudor aveva saputo o dovuto provvedere in vita a dissimulare questa pecca della natura femminile, facendosi rappresentare come reincarnazione delle divinità dell’Olimpo per assicurare stabilità all’Inghilterra. Drammaturghi, poeti e scrittori più o meno noti, così come i quadri che la ritraggono, contribuirono a creare il mito della ininterrotta continuità del suo potere. Tra il 1612 e il 1613 Shakespeare scrisse l’Enrico VIII nel quale una visione preannuncia la morte e la resurrezione di Elisabetta come Fenice che si rinnova dalle ceneri attraverso il corpo di Giacomo I85. autenticità dei documenti sui quali si fondò la sua condanna, o la sua incapacità di intendere e di volere perché affetta da porfiria. Di taglio non biografico è il saggio di A. Findlay, «Highe excellente Queene»: the Rhetoric of Majesty in Diplomatic Letters Relating to Mary Queen of Scots, in The Rituals and Rhetoric of Queenship cit. 83   E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, Einaudi, Torino 1989 (ed. orig. 1957). 84   Nel paragrafo Die Königin: ein König ohne zweiten Körper, in Alt, Der Tod der Königin cit., pp. 18-28. 85   Alt, Der Tod der Königin cit., in particolare pp. 170 sgg.

VI La regalità femminile nel Grand Siècle 1. Da Giacomo ad Anna Stuart, collasso e ripresa della monarchia inglese Esmé Stewart, conte di Lennox e cugino di Lord Darnley, il padre di Giacomo Stuart, nel 1579, quando il re di Scozia aveva tredici anni, divenne il primo e il più potente dei suoi favoriti. Il 5 agosto 1581, Giacomo, diventato re di Scozia, lo creò duca di Lennox. Il giovane re sarebbe stato influenzato da lui ancora per un anno. Sebbene il duca si fosse convertito al protestantesimo, i calvinisti scozzesi non si fidavano di lui, e disapprovavano le esplicite effusioni che lui e il re si scambiavano, nella convinzione che Lennox lo stesse corrompendo1. Nell’agosto 1582 il duca fu arrestato e costretto ad allontanarsi dalla Scozia nel giugno successivo. Giacomo VI, ormai sottratto alla sua influenza, riuscì a pacificare i grandi del regno. Nel 1587 Giacomo condannò apertamente la decapitazione della madre, considerandolo un atto contro natura e inaudito; ma la morte di Maria rese più probabile la sua successione al trono inglese, essendo lui il parente più prossimo della regina Elisabetta I. Malgrado il lutto, durante la crisi politica del 1588, provocata dalla spedizione della flotta spagnola come rappresaglia per l’esecuzione di Maria Stuart, Giacomo si schierò dalla parte di Elisabetta I comportandosi come erede in pectore: 1   Sull’orientamento sessuale di Giacomo I ha scritto P. Croft, King James, Palgrave Macmillan, New York 2003, citazione a p. 15; cenni alla sua omofilia sono anche in R.O. Bucholz, N. Key, Early Modern England, 1485-1714. A Narrative History, Blackwell, Oxford 2004, pp. 208 sgg.

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espresse la sua lealtà alla sovrana «come fosse stato un suo figlio carnale» e la sua affezione all’Inghilterra «come fosse stata la sua patria». Elisabetta, da parte sua, dopo l’esecuzione di Maria, gli aveva scritto, dichiarandosi del tutto innocente e non responsabile della condanna di sua madre2. A Giacomo conveniva credere a queste affermazioni di Elisabetta, e anche trovare una moglie adeguata al suo rango, sebbene non avesse particolare trasporto né per le donne né per il matrimonio. Nel 1589, a ventitré anni, scelse di sposare Anna, figlia del re protestante Federico II di Danimarca, pur non cessando mai di legarsi a giovani favoriti3. La sposa, che aveva quattordici anni, si dimostrò adatta all’austero e coltissimo sovrano, al quale diede tre figli prima di morire nel 16194. Di essi sopravvissero Elisabetta, che sarebbe diventata regina di Boemia, e il futuro re Carlo I, destinato ad essere decapitato dai rivoluzionari protestanti nel 1649. Con questo evento epocale si sarebbe aperta una soluzione di continuità nella successione degli Stuart e per la monarchia inglese, una pausa che durò per undici anni. Carlo II, il figlio del sovrano deposto, tornò in Inghilterra solo il 25 maggio 1660; dopo aver garantito il perdono a quanti avevano partecipato alla guerra civile – eccetto che per le famiglie più compromesse – e aver promesso il mantenimento di un Parlamento libero, che rappresentasse il popolo e garantisse la tolleranza religiosa. Carlo I aveva sposato Enrichetta Maria, sorella di Luigi XIII di Francia e figlia di Enrico IV e di Maria de’ Medici. La regina era cattolica fervente e si era circondata di francesi e correligionari. Questo la rese subito malvista a corte e non ebbe la consacrazione rituale a regina con la cerimonia anglicana. Enrichetta Maria e Carlo I si erano conosciuti nel 1623, a Parigi. Lui aveva ventitré anni, lei quattordici, esattamente quanti ne avevano avuti rispettivamente re Giacomo I e Anna di Danimarca quando si erano sposati. Carlo I era affascinato dalla moglie, malgrado i giudizi sul suo aspetto fossero contrastanti. Il più severo fu quello espresso anni 2   Elisabetta I d’Inghilterra. Lettere ai fidi e agli infidi, a cura di N. Gruppi, Archinto, Milano 1988, p. 89, lettera del 14 febbraio 1587. 3   D.H. Willson, King James VI & I, Jonathan Cape, London 1956. 4   J.L. Barroll, Anna of Denmark, Queen of England: A Cultural Biography, University of Pennsylvania, Philadelphia 2001.

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dopo dalla nipote del re, Sofia di Hannover – la figlia dell’elettore palatino Federico V, re di Boemia, e di Elisabetta Stuart – la quale scrisse al fratello, il principe Rupert, di aver visto bellissimi ritratti di lei dipinti da Van Dyck che l’avevano convinta che fosse una delle dame più seducenti d’Inghilterra ma che, di persona, le era apparsa come una donna non più nel fiore degli anni con «braccia lunghe e scheletriche, spalle curve e denti che le sporgevano dalla bocca come zanne». Ammetteva però che aveva begli occhi e una carnagione luminosa5. Negli ultimi anni la storiografia ha dedicato molta attenzione al ruolo politico assunto da Enrichetta Maria prima e dopo la guerra civile inglese6. La regina aveva una fede incrollabile che non si accontentava di praticare in privato, tanto che una larga parte dei sudditi la chiamava «Queen Mary», un soprannome certo non lusinghiero perché richiamava alla memoria i precedenti non molto remoti di Maria I Tudor. Il matrimonio di Carlo I ed Enrichetta Maria non era iniziato bene, anche perché la particolare confidenza del re con il duca di Buckingham contribuiva a mantenere le distanze fra di loro. Nell’agosto 1628, quando il duca fu assassinato, le cose cambiarono e la regina assunse il ruolo che prima Buckingham aveva avuto come il più fidato confidente e consigliere del re; la conseguenza fu che l’entourage di francesi e di cattolici acquistò a corte un peso eccessivo. L’interpretazione prevalente fino agli anni Settanta del Novecento ha rappresentato la regina come una donna dal carattere forte, una dominatrice che fu responsabile della rovina del marito. Cicely Veronica

5  C. Spencer, Prince Rupert: The Last Cavalier, Phoenix, London 2007, p. 33. Il libro è stato recensito da Antonia Fraser su «The Guardian» del 23 luglio 2007 e racconta la storia affascinante del terzo figlio di Elisabetta, regina di Boemia e figlia di Giacomo I: a ventidue anni, nel 1541, Rupert mise la sua esperienza militare al servizio dello zio materno, Carlo I Stuart, agli esordi della guerra civile che avrebbe portato all’esecuzione del sovrano. 6   Lavori più recenti su Enrichetta Maria sono D. Purkiss, The English Civil War: A People’s History, Harper, London 2007; M.A. White, Enrichetta Maria and the English Civil Wars, Ashgate, Aldershot (GB)-Burlington (USA) 2006; Henrietta Maria: Piety, Politics and Patronage, a cura di E. Griffey, Ashgate, Aldershot (GB)-Burlington (USA) 2008; G. Raatschen, Merely Ornamental? Van Dyck Portraits of Henrietta Maria e M. Smuts, Religion, European Politics and Henrietta Maria’s Circle, 1625-41, entrambi in Henrietta Maria: Piety, Politics and Patronage cit., rispettivamente pp. 139-164 e 13-38.

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Wedgwood,­ad esempio, era sicura dell’ascendente che la regina ebbe su Carlo I e che lui seguisse pedissequamente le indicazioni della moglie in ogni occasione7. In ricerche successive questo ruolo quasi dispotico è stato ridimensionato ed è stata riconosciuta al re una maggiore autonomia di giudizio. Quentin Bone afferma ad esempio che, sebbene i rapporti con Enrichetta Maria fossero molto intimi, Carlo raramente l’ascoltava per decisioni relative al governo dello Stato8. Un’interpretazione più recente riconosce alla regina di aver avuto un ruolo politico durante la guerra civile, perché le sue azioni ebbero conseguenze che danneggiarono Carlo I. Enrichetta Maria agì infatti in favore dei cattolici e tentò di contrastare i rivoluzionari, fornendo ai primi uomini e denaro, senza alcun successo; ma la propaganda protestante la dipinse come un’icona del mostruoso potere delle donne. La regina consorte è un esempio di come l’opinione pubblica aborrisse l’attivismo politico delle mogli dei re quando non si limitava al ruolo di mediatrici e patronesse9. Insomma, Enrichetta Maria avrebbe svolto un ruolo politico come molte altre donne che nel XVII secolo si fecero forti delle alleanze famigliari e si trovarono in difficoltà per questioni religiose, sebbene non si possa ignorare come in questo caso la regina non tenne conto della sensibilità degli inglesi – era ancora fresco il ricordo di Maria Tudor –, e provocò la cacciata dalla sua corte e dal paese di molti sacerdoti cattolici10. Dopo la Restaurazione, con il figlio di Enrichetta Maria, Carlo II, la dinastia Stuart ritornò sul trono di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Tuttavia, poiché la regina, Caterina di Braganza, non riusciva a dare un figlio a Carlo, l’erede più probabile divenne suo fratello, il cattolico Giacomo, duca di York, uno dei membri più impopolari della famiglia reale. Per rassicurare Parlamento e popolo Carlo II,

7   C.V. Wedgwood, The King’s Peace: 1637-1641, Collins, London 1966; Id., The King’s War: 1641-1647, Collins, London 1968. 8   Q. Bone, Henrietta Maria: Queen of the Cavaliers, University of Illinois Press, Chicago 1972. 9   C. Levin, R. Bucholz, Introduction: It’s Good to be Queen, in Queens and Power in Medieval and Early Modern England, a cura di C. Levin e R. Bucholz, University of Nebraska, Lincoln 2009, pp. xiii-xxxiii. 10   «High and Mighty Queens» of Early Modern England: Realities and Representations,­a cura di C. Levin, J. Eldridge Carney, D. Barrett-Graves, Palgrave Macmillan, New York 2003.

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malgrado le proteste del fratello, fece educare Maria e Anna, le figlie di Giacomo, come principesse protestanti e nel 1672 strinse un patto matrimoniale fra la maggiore, Maria, e il principe Guglielmo d’Orange, Stadtholder d’Olanda, in modo che il discendente di Giacomo non fosse di fede cattolica. Anche se Giacomo avesse avuto un figlio maschio – effettivamente nel 1688 al fratello di Carlo II nacque un erede – poiché avrebbe voluto educarlo alla fede cattolica fu previsto che sarebbe stato escluso dal trono. Dunque, per assicurare la continuità della dinastia Stuart, Carlo II derogava dalla preferenza per la successione maschile, anche in presenza di un candidato maschio, e la difesa del protestantesimo prevalse sulla diffidenza pregiudiziale nei confronti delle donne. D’altra parte molti membri del Parlamento non avevano intenzione di accettare come re d’Inghilterra Giacomo e votarono una legge, l’Exclusion Bill, che doveva impedire al fratello di Carlo II di essere ammesso alla linea di successione, preferendogli il protestante duca di Monmouth, il maggiore dei numerosi figli illegittimi di Carlo II. Coloro che non furono d’accordo con questa legge presero da allora il nome di Tories, mentre coloro che l’avevano sostenuta presero il nome di Whigs. Da parte sua Carlo II ebbe un comportamento oscillante: nell’estate del 1679 il re sciolse il Parlamento perché l’Exclusion Bill non fosse approvato e, non riuscendo a ottenere alcun controllo sulle decisioni dell’assemblea neppure in seguito, per il resto del suo periodo di regno Carlo II governò da monarca assoluto. La forte opposizione del re nei confronti dell’Exclusion Bill indusse un gruppo di protestanti nel 1683 a tentare di assassinare sia lui sia Giacomo, ma il complotto fallì. Il comportamento di Carlo II si spiega alla luce della sua conversione al cattolicesimo in punto di morte, nel 1685, e del fatto che avesse cercato in tutti i modi di convincere il fratello a dichiararsi formalmente protestante. Enrichetta Maria, fervente proselita della Chiesa di Roma, aveva evidentemente avuto un’influenza profonda sui propri figli, i quali, senza valutare le conseguenze politiche della loro scelta di fede, in modo diverso aprirono la strada a una nuova rivoluzione, questa volta incruenta. Nel settembre 1688 Guglielmo d’Orange, da undici anni sposato con Maria Stuart, si preparò a invadere l’Inghilterra. Nei tre anni trascorsi dalla sua ascesa al trono di Inghilterra e Irlanda

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come Giacomo II e di Scozia come Giacomo VII, il successore di Carlo II aveva destituito il vescovo di Londra, espulso alunni protestanti dai collegi, licenziato i magistrati anglicani, manipolato il Parlamento. In novembre, in imminenza di uno scontro frontale, gli alti ufficiali volsero le spalle al re, a cui non restò che abdicare e andare in esilio. Il 13 febbraio successivo il Parlamento approvò il Bill of Rights. La corona non fu offerta al neonato Giacomo Francesco Edoardo, figlio di Giacomo, ma congiuntamente a Guglielmo d’Orange e Maria. Il Bill of Rights del 1689 stabilì l’ordine di successione: dopo Guglielmo e Maria il trono – se non avessero avuto eredi – sarebbe toccato ad Anna e ai suoi discendenti, e in mancanza di questi ai figli che Guglielmo avrebbe potuto avere da un successivo matrimonio. Maria II Stuart, dovendo decidere se essere deferente nei confronti di Guglielmo o rivendicare i suoi diritti di regina regnante, scelse il ruolo di moglie, in accordo con gli ideali di femminilità condivisi da molte donne dell’aristocrazia. Eppure, come reggente in assenza del marito, fu sorprendentemente abile nelle decisioni politiche. Fu l’ascendente di Maria II a stabilizzare la nuova dinastia e ottenere dai sudditi la fedeltà alla monarchia. Dopo la sua morte furono diffuse parecchie opere che discutevano della condizione delle donne, fra cui quella di Mary Astell, Serious Proposal to the Ladies (1697), la seconda parte della quale è dedicata alla regina Anna. Parecchie poetesse durante il suo regno si dedicarono a legittimare la sovranità femminile11. Lois Schwoerer pensa invece che, anche se di nome Maria II fu una regina, i suoi poteri furono molto limitati e nel 1690 fu necessario il Regency Act per darle l’autorità di governare mentre re Guglielmo, sovrano d’Inghilterra come Guglielmo III, era lontano. Perfino come reggente, Maria non aveva realmente potere di decidere da sola; inoltre, il Regency Act specificava che anche in sua assenza gli ordini del re sovrastavano i suoi e che dopo il suo ritorno il dominio effettivo sarebbe tornato a lui. Sebbene il ruolo di Maria II fosse superiore a quello di una consorte di re, tuttavia era inferiore a

11   Queenship in Britain. 1660-1837. Royal Patronage, Court Culture and Dynastic­ Politics, a cura di C. Campbell Orr, Manchester University Press, Manchester 2002.

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quello di una regnante: l’autrice definisce quella che venne instaurata in Inghilterra come una «monarchia duale»12. Maria II morì nel 1694, senza aver avuto figli; Guglielmo III la pianse sinceramente e a sua volta morì, nel 1702, senza essersi risposato. Le regole di successione previste dal Bill of Rights destinavano ad essere regina sua cognata Anna. Su di lei non si è scritto molto. Robert Bucholz si è chiesto quale sia stato il motivo della sua sottovalutazione e del tradizionale misconoscimento delle capacità di governo della regina, dipinta per secoli come una massaia sovrappeso, nonostante il suo regno abbia portato alla stabilità interna ed elevato l’Inghilterra al rango di maggiore potenza mondiale. L’autore attribuisce questa mancanza di apprezzamento non solo ai pregiudizi sul ruolo pubblico e privato delle donne, ma soprattutto al fatto che ad Anna non si potesse attribuire nessuna «maschia» virtù. Si sposò con Giorgio di Danimarca nel 1683 e partorì quindici figli, nessuno dei quali le sopravvisse. La sua castità e la sua devozione di moglie divennero proverbiali. Bucholz mette in evidenza sia la sua attività come promotrice delle arti, in particolare della musica, sia il suo acume politico e l’autonomia delle sue decisioni: Anna non si lasciò pilotare dai ministri di nessun partito13 e non permise ai cortigiani di controllare la sua attività di patronage14. La regina seppe subito rendersi popolare. In un discorso al Parlamento prese le distanze dal cognato olandese, dicendo che, a differenza di Guglielmo III, lei era inglese di nascita e quindi non avrebbe mai fatto nulla che potesse danneggiare il suo paese; soprattutto, non lasciò che il suo affetto per il marito la trasformasse da regina sui juris a regina consorte, e si limitò ad affidare al marito, peraltro amatissimo, il comando della marina15. La consapevolezza del suo ruolo si manifestò anche col fatto che volle ripristinare il rituale del tocco 12   L.G. Schwoerer, Images of Queen Mary II, 1689-95, in «Renaissance Quarterly», 42, 1989, 4, pp. 717-748. 13   G. Curtis, The Life and Times of Queen Anne, Weidenfeld & Nicolson, London 1972, p. 107; E. Gregg, Queen Anne, Yale University Press, New HavenLondon 2001, pp. 162-163. 14   R.O. Bucholz, Queen Anne. Victim of her Virtues?, in Queenship in Britain cit., pp. 94-129. 15   D. Green, Queen Anne, Collins, London 1970, p. 91; M. Waller, Sovereign Ladies. The Six Reigning Queens of England, John Murray, London 2006, p. 313.

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dei malati di scrofola, prerogativa regale sia in Inghilterra sia in Francia, che era stata abolita da Guglielmo III come pratica superstiziosa papista16. Alla morte di Anna nel 1714 salì al trono Giorgio, primo sovrano d’Inghilterra della dinastia Hannover. Sua madre Sofia, protestante, era stata designata come legittima continuatrice della dinastia regnante dall’Act of Settlement del 1701, in quanto figlia di Elisabetta, regina di Boemia, figlia a sua volta di Giacomo I Stuart. Nel Seicento la linea di successione degli Stuart fu interrotta due volte ma non per mancanza di eredi maschi: sia nel caso di Carlo I, sia in quello di Giacomo II, i rivoluzionari rifiutarono di essere governati da re cattolici e la monarchia fu restaurata con l’assunzione al trono di esponenti della stirpe in linea femminile. In Inghilterra dalla metà del XVI secolo il governo delle donne – condiviso o no con principi consorti – consentì di superare i momenti più critici per il paese. Le polemiche sulla successione femminile, messa in discussione nel Cinquecento durante il regno di Maria e di Elisabetta Tudor come monstruum, fenomeno contro natura, nella seconda metà del XVII secolo furono superate e rese inattuali dalla necessità di ricucire la continuità del governo monarchico. Questo rovesciamento dei ruoli per genere non fu sempre univoco: fu infatti una donna, Enrichetta Maria, che contribuì a rendere acuti i conflitti religiosi con il suo proselitismo; soprattutto, aveva instillato nei figli la sua fede cattolica. Se Carlo II cercò di conciliarla con i suoi doveri di re fino in punto di morte, Giacomo II rimase inflessibilmente legato alle sue convinzioni. Fu solo la lungimiranza di Carlo II, meno influenzato dal fanatismo della madre e che allontanò dal fratello le figlie, a permettere alla dinastia di sopravvivere, ancora per linea femminile. Tuttavia, la sterilità di Maria II e l’incapacità di Anna di portare a termine una gravidanza o di partorire figli sani minarono questa volta le capacità di sopravvivenza della monarchia e agli Stuart subentrarono gli Hannover. Ma se la continuità del nome veniva interrotta quella del sangue no, con il tramite delle figlie di Elisabetta, regina di Boemia.

  Green, Queen Anne cit., p. 105; Waller, Sovereign Ladies cit., pp. 316-317.

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2. Il corpo di Cristina La storiografia non ha dedicato molta attenzione alle ragioni politiche della scelta di Cristina, unica figlia del re di Svezia Gustavo Adolfo II, allevata come un maschio dal padre. Di fatto, soprattutto in Italia, le ricerche su di lei si sono concentrate sulla sua cultura e sul suo mecenatismo artistico, oppure sulla sua sessualità e quindi sul suo corpo. Quando nacque, nel 1626, fu scambiata per un maschio, secondo una versione perché era molto pelosa e vagiva con una voce potente17. Ma il padre, quando l’equivoco fu chiarito, fu comunque contento perché la neonata aveva saputo ingannare. Cristina era l’unica figlia sopravvissuta di Gustavo Adolfo in un momento nel quale la guerra teneva suo padre lontano e le possibilità che nascesse un erede maschio erano scarse. Sei anni dopo, infatti, Gustavo Adolfo morì in battaglia a Lützen. Consapevole della precarietà del suo futuro, il re aveva ordinato di allevare la piccola come un principe e aveva ottenuto dai nobili del regno l’abolizione della trasmissione della sovranità esclusivamente per linea maschile fin dal 1627. Così, nel 1632, Cristina divenne regina. A partire dal 1650 il problema della successione la costrinse ad affrontare l’eventualità del matrimonio. La scelta più ovvia sarebbe stata quella per il cugino Carlo Gustavo Vasa, figlio della sorella di Gustavo Adolfo. La regina ostentava le sue preferenze per il conte Magnus Gabriele de La Gardie, suo favorito, ma siccome – come scrisse lei stessa nella sua autobiografia – aborriva l’idea del matrimonio, lo fece sposare con Maria Eufrosina, sorella di Carlo Gustavo. Nel 1651 Cristina manifestò l’intenzione di abdicare e ottenne che la Dieta designasse il cugino come successore e principe ereditario. La rinuncia al trono fu successiva di tre anni, durante i quali Cristina aveva perfezionato il suo percorso di avvicinamento alla Chiesa cattolica. Sulle ragioni di questa conversione si è discusso molto, e di volta in volta è stata interpretata come una protesta contro la rigorosa educazione protestante, come una conseguenza 17   L.H. Zirpolo, Christina of Sweden’s Patronage of Bernini. The Mirror of True Revealed by Time, in «Women’s Art Journal», 26, 2005, 1, pp. 38-43, citazione a p. 38.

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del fascino esercitato su di lei dalla cultura barocca o come atto di ribellione individuale. Il 3 febbraio 1660, re Carlo Gustavo morì improvvisamente lasciando come erede della corona di Svezia un bimbo di cinque anni. Il 2 luglio Cristina lasciò Roma, dove viveva, per tornare a Stoccolma, dove arrivò il 12 ottobre chiedendo che fossero ristabiliti i propri diritti alla corona in caso di morte del piccolo re, ma incontrò l’opposizione della nobiltà e del clero luterano e dovette tornare in Italia. Cristina fece un altro tentativo nel 1666, ma il Consiglio di reggenza proibì al suo cappellano cattolico di entrare in Svezia e lei non poté proseguire. Nel 1668, in seguito alla rinuncia al trono del re di Polonia Giovanni Casimiro, Cristina pensò di avere una chance di farsi eleggere al suo posto, ma andò incontro a un altro insuccesso e tornò definitivamente a Roma dove rimase fino alla morte, avvenuta il 19 aprile 1689. La storiografia recente ha considerato Cristina una delle donne più importanti del suo tempo. Le sue scelte personali sono state oggetto di discussioni, sia su giornali sia in saggi accademici, e ancora mentre lei era in vita furono pubblicate opere che divulgarono i pettegolezzi di corte: i racconti su Cristina costituivano un corpus di testi disomogenei tra di loro che circolavano largamente in Europa nella seconda metà del XVII secolo18. La maggior parte di essi erano basati su poche fonti ma vennero tradotti, pubblicati e riscritti più volte e ciò fece sì che fosse divulgata una tradizione testuale molto contraddittoria. I numerosi aneddoti relativi alla regina Cristina le assicurarono una duratura notorietà, trasformandola però in un’icona, che come tale rappresenta solo ciò che gli autori vogliono vedervi19. Il disprezzo per il matrimonio e le conversazioni femminili, il suo abbigliamento maschile e i suoi atteggiamenti anticonformisti nonché alcune velate allusioni sulla 18   Si veda ad esempio C. Meyer, Kristina, the Girl King, Sweden, 1638. Questi testi costituiscono la base documentaria anche di studi recenti, fra i quali alcuni, come C. Meyer, Kristina, the Girl King [Sweden 1638], Scholastic, New York 2001, e Cristina di Svezia, La vita scritta da lei stessa e dedicata a Dio, traduzione di Maria Conforti, Antonella Moscati, Marina Santucci, Cronopio, Napoli 1998, si basano anche su fonti autobiografiche. 19   N.E. Wåghäll, Writing Life, Writing News: Representations of Queen Christina of Sweden in Early Modern Literature, in «Renaissance Studies», 23, 2009, 22, pp. 221-239.

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sua ambiguità sessuale – che sarebbe consistita in una ipertrofia della clitoride che alla nascita sarebbe stata la vera ragione per la quale era stata scambiata per un maschio – furono i soggetti di una produzione sterminata di romanzi, biografie, opere liriche, film e hanno anche alimentato l’idea di una sua instabilità psichica, che avrebbe potuto essere stata ereditata dalla madre. Nel 1965, sulla base di questi indizi, si arrivò a riesumarne i resti per una perizia che dette risultati non definitivi. L’antropologo fisico che condusse questa ricerca, Carl-Herman Hjortsjö, spiegò che «le nostre conoscenze limitate in merito agli effetti dell’ermafroditismo sulla formazione dello scheletro rendono impossibile stabilire sulla base dei reperti ossei quale in particolare si dovrebbe esaminare per formulare la diagnosi di ermafroditismo». Nonostante ciò, Hjortsjö ipotizzò che Cristina dovesse avere organi femminili abbastanza sviluppati da essere compatibili con il menarca, che è documentato dalle fonti20. Tuttavia, il gusto dei lettori per i dettagli piccanti anche in seguito ha trovato riscontro in lavori che offrivano loro in pasto il corpo della regina e le sue – vere o presunte – stravaganze e sembra che la bisessualità non possa essere accettata per una donna, come invece lo era stata per molti sovrani, se non ipotizzando una anomalia fisica. Senza arrivare ai livelli della macabra inchiesta del 1965, anche in anni più recenti l’attenzione per la regina di Svezia si è concentrata infatti soprattutto sugli aspetti più scandalistici della sua vita: si è continuato a riproporli senza un’analisi rigorosa dell’autenticità delle fonti primarie ma solo sulla base della produzione letteraria sedimentata nel tempo. Se si considerano i principali centri culturali europei, il panorama non varia molto. Mentre la produzione storiografica sulla vivacità intellettuale di Cristina è piuttosto ricca, specialmente in Italia, manca quasi del tutto un’attenzione alle 20   C.-H. Hjortsjö, Queen Christina of Sweden: A Medical/Anthropological Investigation of Her Remains in Rome (Acta Universitatis Lundensis), C.W.K. Gleerup,­Lund 1966, pp. 1-24; si veda anche C.-H. Hjortsjö, The Opening of Queen Christina’s Sarcophagus in Rome, Norstedts Hjortsjö, Stockholm 1966. Peraltro questo è confermato anche da documenti citati in lavori più recenti, come quello di Verena von der Heyden-Rynsch, Christina von Schweden. Die rätselhafte Monarchin, Piper, München 2002, che riporta il risultato delle due autopsie fatte dopo la morte sul cadavere della regina che non avevano riscontrato alcuna anomalia sul suo corpo.

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ripercussioni delle sue scelte in ambito politico. La storiografia francese ha offerto recentemente due lavori sul solco della tradizione della biografia divulgativa e la storiografia anglosassone ha dimostrato un picco d’interesse in occasione della traslazione dei suoi resti. Solo la storiografia tedesca ha dedicato a questo caso l’attenzione che merita21. Sulla «Repubblica» del 24 agosto 2006 Barbara Briganti ha recensito il libro di Veronica Buckley. L’attenzione sull’articolo veniva attirata da un titolo che solleticava la curiosità morbosa dei lettori: Aveva fascino e suscitò roventi passioni. Ma la sua vita fu costellata da scandali e omicidi. Come quello alla corte di Francia. Ecco allora che, più che sui maneggi politici della regina alla corte di Francia, dove cercava incautamente di manovrare Mazzarino per ottenere il regno di Napoli, l’attenzione viene attirata sul fatto che «la messe di particolari che Buckley cita nel libro è esilarante. Come avrà reagito l’altera e bigotta Anna d’Austria sentendosi dire che ‘scopare è ciò per cui sono nate le belle ragazze?’. E cosa sarà successo quando in un teatro parigino la regina, che per una volta indossava un abito vagamente femminile, completamente affascinata dallo spettacolo, si abbandonò su una poltrona alzando le gambe sopra i braccioli, ‘svelando ciò che anche la donna più svergognata dovrebbe celare?’». In un articolo di Corrado Augias comparso ancora sulla «Repubblica» il 26 febbraio 2012, col titolo Cristina di Svezia. Il segreto della regina che rinunciò al trono, si è finalmente sottolinea­ ta l’importanza dell’abdicazione come evento politico: commen21   Gli ultimi lavori pubblicati in Italia sulla vita di Cristina sono Cristina di Svezia. La vita scritta da lei stessa, Cronopio, Napoli 1998; D. Pizzagalli, La regina di Roma, Rizzoli, Milano 2002; A.M. Trivellini, Cristina di Svezia, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 2004; la traduzione dall’inglese di V. Buckley, Cristina regina di Svezia. La vita tempestosa di un’europea eccentrica, Mondadori, Milano 2006. Per la Francia si vedano D. des Brosses, Christine de Suède: La fascinante et scandaleuse reine du Nord, AKR, La Courneuve 2006 e la recente riedizione di B. Quillet, Christine de Suède, un roi exceptionnel, Fayard, Paris 2007. Per l’area tedesca si possono ricordare J.P. Findeisen, Christina von Schweden. Legende durch Jahrhunderte, Societäts-Verlag, Frankfurt a.M. 1992; S. Grabner, Die Rebellin. Königin Christine von Schweden; historischer Roman, Ullstein, Frankfurt a.M. 1995; G. Kaiser, Die Amazone von Rom. Das abenteuerliche Leben der Christina von Schweden, Verlag Seifert, Wien 2005; N. Blazon, Der Spiegel der Königin, Ravensburger Buchverlag, Ravensburg 2006.

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tando alcuni documenti dell’Archivio Segreto Vaticano, esposti nella mostra Lux in arcana, che è stata inaugurata il 29 ottobre dello stesso anno, Augias ha scritto infatti che l’atto di abdicazione, riprodotto in queste pagine, dice tutto quello che un documento ufficiale può dire, ed è molto. Però non è tutto, poiché la storia di Cristina va molto al di là delle prerogative che le vennero conservate in base alla considerazione che «i privilegi e i diritti di un sovrano sono conferiti da Dio e dalla natura», e che per conseguenza non possano essergli sottratti nemmeno dopo che abbia cessato la sua funzione. Rex in aeternum, si potrebbe dire parafrasando la condizione dello status sacerdotale. Altrettanto impressionante il paragrafo che rende l’ex sovrana responsabile delle proprie azioni unicamente al cospetto di Dio concedendole dunque la facoltà di continuare «a far ricorso al diritto alla libertà e alla indipendenza che sono nostre secondo natura». Una facoltà di cui l’irrequieta Cristina certamente approfittò spesso.

Subito dopo però l’articolista sottolineava come, al di là dell’atto ufficiale, rimangano oscuri molti aspetti del carattere di Cristina e i motivi che l’avevano indotta a rinunciare al trono. Augias riportava anche alcune dicerie che, da consumato divulgatore, sapeva bene che avrebbero avuto presa sul pubblico. Che cosa aveva spinto Cristina ad abdicare? E che cosa l’aveva spinta a farsi cattolica e a stabilirsi nella città dei papi? Ambigui presagi avevano accompagnato la sua nascita l’8 dicembre 1626. Si notò subito che aveva voce forte, molta vitalità e probabilmente un’ipertrofia clitoridea per cui le levatrici, confuse, la presero per un maschio. Solo il giorno dopo, a un più attento esame dei genitali, si scoprì il suo vero sesso. Pare che il re suo padre, Gustavo II Adolfo il Grande, se ne dispiacesse molto perché un figlio maschio avrebbe meglio assicurato la continuità della dinastia. Comunque, si riprese commentando con un sorriso: «Sarà abile, poiché ci ha ingannato tutti...». L’episodio che allontanò per sempre Cristina dal trono fu l’ennesima richiesta dei dignitari di Stato di trovarsi un marito per dare al regno un erede. «Mi è impossibile sposarmi, esclamò. Non intendo spiegarne i motivi, si sappia che il matrimonio suscita in me una forte ripugnanza». In un’altra occasione dichiarò: «Non sopporto l’idea di essere usata da un uomo nel modo in cui un contadino usa i suoi campi».

L’autore non sembra avere dubbi sul fatto che

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il suo lesbismo era ormai dichiarato. Uno dei suoi amori più lunghi fu con la bellissima contessa svedese Ebba Sparre, che presentò un giorno all’ambasciatore inglese definendola con spregiudicatezza: «L’amata compagna del mio letto». Dopo parecchi anni da Roma le inviava ancora lettere di questo tenore: «Ti appartengo, non potrai mai perdermi, cesserò di amarti solo alla mia morte».

Se la nostra cultura ha sostanzialmente accettato il non conformismo nelle scelte sessuali, paradossalmente l’immagine di Cristina continua ad essere deformata e le stesse fonti che un tempo erano maneggiate con cautela, per nascondere una «colpa», oggi diventano prove di un outing non equivoco. Che fosse o no bisessuale – come forse si potrebbe sostenere anche per Elisabetta I – o lesbica, questo non avrebbe impedito la sua permanenza sul trono. Che cosa spinse Cristina di Svezia ad abdicare rimane ancora non del tutto chiaro. Certo è plausibile che, come Elisabetta, non volesse accettare il matrimonio per non voler dipendere da un uomo, anche se nel suo caso avrebbe potuto semplicemente sposare un carissimo cugino rafforzando la dinastia dei Vasa; inoltre non c’era alcuna guerra di religione in atto in Svezia, dove il luteranesimo si era affermato e per il quale il padre di Cristina aveva combattuto nella guerra dei Trent’anni. La conversione al cattolicesimo è stata considerata una risposta, comprensibile per il fascino che la cultura controriformistica esercitava su di lei. Ma come conciliare questa ipotesi con il fatto che, a distanza di tempo, Cristina tentò per due volte di rientrare in patria da regina col suo seguito di letterati e preti senza riuscirci? Può essere che i suoi sudditi ne avessero avuto abbastanza di lei – donna e con le mani bucate – e che l’alternativa che lei stessa aveva resa possibile fosse ritenuta molto migliore, tanto più perché in Svezia il cattolicesimo era un corpo estraneo e tale era anche la regina. Il potere, al quale aveva rinunciato, continuò a solleticarla ancora e a farle tessere fragili accordi per ottenere il trono di Polonia (dove il re era elettivo e quindi non aveva nessun obbligo di assicurare la continuità dinastica) o quello di Napoli. Aveva sbalzi d’umore e comportamenti folli come la madre Maria Eleonora di Brandeburgo che, quando la regina era piccola, venne allontanata da corte perché non avesse una cattiva influenza sulla figlia.

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Le persone non sono tutte razionali, sono gli storici che cercano di renderle tali. Per non tornare a violare Cristina anche psicologicamente, accontentiamoci di questo22. 3. Margherita di Valois e Maria de’ Medici: la legittimazione di Luigi XIII Dopo la morte di Enrico III, nel 1589, Margherita di Valois, nominalmente regina di Francia ma ormai da tempo lontana dal marito, il nuovo re Enrico IV, si mantenne ritirata nella fortezza d’Usson, dove riuscì a stimolare un vivace cenacolo culturale. Pochi anni dopo, tuttavia, sarebbe diventata un anello importante del passaggio di dinastia, accettando il divorzio da Enrico di Borbone, dal quale non aveva avuto figli, quando si presentò l’opportunità di un’unione del re con Maria de’ Medici. Dopo lo scioglimento del matrimonio, la posizione inconsueta di Margherita a Parigi suscitò reazioni contrastanti: ci fu chi ne celebrò le virtù, chi ne fece oggetto di maldicenza. Benedetta Craveri ha scritto che Margherita, vittima della legge salica che l’aveva esclusa dal trono – lei, che era l’ultima erede dei Valois – si comportò con la saggezza politica, il senso dello Stato, la generosità, l’eleganza morale di un’autentica sovrana [...]. Ma ella non poteva immaginare che il tempo tenesse in serbo per lei anche un’altra corona. A partire dall’età romantica [...] Margherita diventò regina di un paese senza confini e senza tempo, situato ai margini della storia, il regno del romanzo e dell’avventura, in cui non sarebbero mai mancati sudditi fedeli, pronti a renderle un omaggio entusiasta di simpatia e ammirazione23.

Eroine da romanzo, eroine soprattutto di Alexandre Dumas padre, sono anche le reggenti – in particolare Anna d’Austria –, che vissero i convulsi anni della minore età dei rispettivi figli, i fu22   Cosa che è stata fatta. Si veda M.L. Goldsmith, Christina of Sweden: a Psychological Biography, A. Barker, London 1935. 23   B. Craveri, Amanti e regine. Il potere delle donne, Adelphi, Milano 2005, p. 85.

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turi Luigi XIII e Luigi XIV, mentre il loro ruolo politico ha avuto e continua ad avere un risalto marginale. Nel caso di Maria de’ Medici, dal Settecento la sua reggenza è stata cancellata dalla memoria nazionale e anche ora quello che sappiamo di lei si basa su di una lettura delle fonti ostili. Dopo essere giunta a Parigi, Maria de’ Medici rimase sconvolta nello scoprire che il marito aveva un’amante, Enrichetta d’Entragues, marchesa di Verneuil, che per di più era incinta. Enrichetta si riteneva la vera sposa del re, poiché gli aveva concesso i suoi favori solo in cambio di una promessa scritta di matrimonio, stipulata prima delle nozze con Maria. Il 27 settembre 1601 la regina partorì l’erede al trono mentre poco dopo nacque il figlio di Enrichetta, Gastone Enrico: da quel momento la marchesa cominciò a sostenere che la corona sarebbe spettata a suo figlio e che i veri bastardi erano i figli della «grassa banchiera». Era peraltro vero che il re aveva sposato Maria soprattutto per la ricchezza della famiglia de’ Medici. Quanto alla sua tendenza alla pinguedine, più tardi Maria avrebbe scelto il talento di Peter Paul Rubens per farsi ritrarre come una dea voluttuosa24. In seguito le tensioni e le antipatie per il suo entourage di italiani in parte si ricomposero e la regina si adattò agli usi di corte, assumendo anche un atteggiamento più morbido nei confronti della marchesa di Verneuil25. Nel 1610, prima dell’assassinio del marito, Maria riuscì a ottenere il riconoscimento solenne del suo ruolo con la cerimonia di consacrazione in Saint-Denis, il 13 maggio; il giorno successivo Enrico IV veniva pugnalato. Come regina consorte consacrata, Maria poté ottenere la reggenza per il piccolo Luigi, che aveva nove anni, ma non fu mai amata, anche per i suoi orientamenti filoasburgici – sua madre era Giovanna d’Austria, ultima figlia dell’imperatore e nipote di Carlo V – che nel 1615 furono rafforzati da due matrimoni incrociati fra due coppie di fratelli: la figlia Elisabetta sposò Filippo, figlio ed erede di Filippo III di Spagna, e Luigi, sovrano di Francia, portò all’altare Anna, infanta di Spagna. La reggenza di Maria era politicamente   Ivi, pp. 106-107.   A. Castelot, Maria de’ Medici. Un’italiana alla corte di Francia, Rizzoli, Milano 1996, pp. 33-36. Su Maria si veda anche il più recente S. Tabacchi, Maria de’ Medici. Regina e ribelle. Gli intrighi e la caduta dell’ultima italiana sul trono della Francia di Enrico IV e Richelieu, Salerno editrice, Roma 2012. 24 25

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invadente e due anni dopo il sedicenne Luigi XIII fu costretto a una decisione drastica. Maria si era circondata di consiglieri italiani, come l’amica d’infanzia Leonora Galigai e suo marito Concino Concini, invisi a una parte della nobiltà francese, guidata da Enrico, principe di Condé, che aveva organizzato la rivolta contro la reggente. Fu quando si diffuse il malcontento per il suo governo e per la sua avidità, per l’influenza del suo entourage e per la sua politica corrotta che il re l’allontanò dal potere e la costrinse con la forza a ritirarsi nel castello di Blois, dopo aver fatto assassinare Concino Concini il 24 aprile 1617. Due anni dopo la regina fuggì dal castello di Blois calandosi con una scala di corda da un muro di quaranta metri (sembra una invenzione da romanzo di Alexandre Dumas!); da qui si rifugiò nel castello di Angoulême dove una coalizione nobiliare l’appoggiò nel suo tentativo di esautorare il re suo figlio. Sconfitta, fu riammessa a corte e al Consiglio privato del re per l’intervento del cardinale di Richelieu; Maria de’ Medici assunse allora un ruolo di mecenate di artisti come Guido Reni e soprattutto Rubens. Fra il 1622 e il 1625 il pittore fiammingo realizzò un ciclo di quattordici grandi tele per la galleria del palazzo di Luxembourg, per celebrare la regalità della committente. Il culmine della gloria di Maria può essere rappresentato dalla iconografia della sua consacrazione, ma gli intenti autocelebrativi sono forse più evidenti nella scena della sua fuga da Blois, che viene idealizzata in solenni forme classiche, del tutto priva di qualsiasi riferimento alla sua rocambolesca avventura. Tornata a corte, i complotti della regina madre non cessarono, soprattutto contro Richelieu, che inizialmente era stato un suo sostenitore nel corso della ribellione del principe di Condé e della maggiore nobiltà di Francia e che lei stessa aveva fatto entrare nelle grazie di Luigi XIII. Il cardinale era però contrario alla politica filoasburgica di Maria la quale, nel 1630, dopo il fallimento dell’ultimo dei suoi tentativi di condizionare la politica del regno, si vide di nuovo costretta all’esilio. Fuggita a Bruxelles nel 1631 e sostenuta dai nemici della monarchia francese, fu privata del suo status di regina e perse i suoi ricchi appannaggi. Nei suoi ultimi anni viaggiò per le corti europee, al seguito delle figlie e dei generi, ma senza poter mai tornare in Francia dove i suoi sostenitori ve-

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nivano imprigionati, messi al bando o condannati a morte. Il suo ultimo rifugio fu la casa di Rubens a Colonia, dove morì il 3 luglio 1642, poco prima di Richelieu26. Il giudizio dei contemporanei fu pesantemente influenzato dalla propaganda negativa del cardinale Richelieu. Anche in seguito, i quattordici anni di potere più o meno assoluto della regina – dal 1610 al 1630, escludendo gli anni di esilio a Blois – sono stati omessi dalla storiografia ufficiale francese. Il regno di Maria de’ Medici non si limitò infatti ai sette anni della sua reggenza (16101617). La sua caduta in disgrazia del 1617 durò infatti solo cinque anni: entrata a far parte del Consiglio privato del re, a partire dal 1623, ricominciò a regnare ufficialmente insieme a suo figlio Luigi XIII fino al 1630, finché la regina cadde in disgrazia una seconda volta, ma definitiva. In tutto, Maria de’ Medici dunque rimase al potere appunto per quattordici anni: all’inizio fu potere assoluto, in seguito condiviso col re. 4. Due stili di reggenza? Recentemente Marc Fumaroli27 ha scritto che in un compendio anonimo della storia di Francia del 1774, redatto per la sorella di Luigi XVI da un suo precettore, non veniva menzionato neppure una volta il nome di Maria de’ Medici, né la sua reggenza, né il colpo di Stato del re quindicenne che nel 1617 aveva fatto assassinare il maresciallo d’Ancre, il favorito della regina madre, né tutti gli eventi successivi fino alle disavventure da esiliata. La damnatio memoriae ha cancellato quello che provocatoriamente Fumaroli ha chiamato «il secolo di Maria»: un modo per designare un’epoca, nel bene e nel male. La prima vera offensiva ideologica contro la regina venne attuata dal vecchio ugonotto Maximilién de Béthune, duca di Sul26   J.F. Dubost, Marie de Médicis. La reine dévoilée, Payot, Paris 2009; P. PachtBassani et al., Marie de Médicis, un gouvernement par les arts, Somogy, Paris 2004. 27   M. Fumaroli, La regina italiana ripudiata dai francesi, in «la Repubblica», 27 marzo 2003; è la prefazione del volume Le siècle de Marie de Médicis. Actes du séminaire de la chaire Rhétorique et Société en Europe (XVIe-XVIIe siècles), a cura di F. Graziani e F. Solinas, Edizioni dell’Orso, Torino 2002.

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ly, già soprintendente alle finanze di Enrico IV, il quale nei suoi Mémoires descrisse Maria come «un’imprudente e una litigiosa», accusandola di tremende scenate di gelosia negli anni della relazione del re con la marchesa di Verneuil, e di aver tentato di picchiare il sovrano durante uno di questi litigi. Sully, che non aveva voluto servire la regina quando era diventata reggente, scrisse di lei che aveva come «unico scopo» quello di «elevare» i coniugi Concini «alle più alte cariche dello Stato», raffigurandola negli anni del suo governo come «un’indolente» manovrata dai Concini. La campagna diffamatoria di Sully ebbe successo perché, al momento della stesura dei Mémoires, Maria era caduta in disgrazia e i Concini erano morti da tempo. Questi scritti denigratori ebbero subito un’ampia diffusione e furono la base sulla quale sarebbe stato costruito e tramandato il ritratto di Maria che, a dispetto di testimonianze di pugno di Enrico IV e dello stesso Richelieu, che smentivano le dicerie più infamanti, trasmetteva di lei l’immagine di una donna che si abbandonava «a bizze, irruenze e trasporti d’ira», ma che era anche pigra e frivola, preoccupata eccessivamente delle sue acconciature e interessata solo ai «suoi cagnolini, alle sue scimmie ed ai suoi pappagalli»28. È stato però soprattutto nel XIX secolo che la vita di Maria de’ Medici è stata irrigidita in un racconto romanzato che ha ricalcato sostanzialmente l’Histoire de France di Jules Michelet. Meriterebbe almeno di essere ricordato che con Maria e con il suo seguito di italiani nel Seicento approdò a Parigi la cultura raffinata della corte di Toscana e della curia romana post-tridentina, e un adattamento da parte della reggente del mecenatismo artistico della sua famiglia d’origine. Nel 2009 Jean-Françoise Dubost ha osservato come alla regina venisse ancora negato di aver avuto acume politico: le venivano riconosciuti solo i suoi talenti di mecenate, mentre la si condannava per la sua scelta filospagnola e sostanzialmente pacifista e per aver rischiato di compromettere la vocazione all’espansione e alla guerra della monarchia francese, che si sarebbe espressa pienamente con il nipote Luigi XIV. Dubost sostiene – sulla base di fonti inedite, poco note o utilizzate finora in maniera parziale, tendenziosa e non di rado xeno  M.L. Mariotti Masi, Maria de’ Medici, Mursia, Milano 1994.

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foba nei confronti della «grassa banchiera» – che, in un contesto politico ancora dominato dalla sostanziale indocilità dei grandi casati principeschi di Francia, a Maria si deve l’aver perseguito il riconoscimento della legittimità monarchica, mentre è indubbio che abbia fallito nelle sue vesti di capo del partito ultracattolico e filospagnolo. Proponendosi di restare fedele all’esempio di Enrico IV, pacificatore delle guerre di religione, Maria abbracciò però la causa sbagliata con l’adesione totale alla politica e al rigorismo religioso di casa d’Asburgo e all’interno della Francia rimase vittima delle opposizioni all’assolutismo monarchico (aprendo però la strada a Luigi XIV)29. Benedetta Craveri ha scritto che le due reggenze che in Francia si succedono nella prima metà del Seicento rappresentano due opposte maniere di intendere il duplice compito di regine e di madri [...]. Maria amava più di tutto il potere, e voleva conservarlo ad ogni costo e il più a lungo possibile; Anna venerava suo figlio e si adoperò con tutte le energie a trasmettergli intatta l’autorità reale30.

Questa diversità si sarebbe riflessa indelebilmente nei caratteri dei rispettivi figli. Per quanto riguarda Luigi XIII, all’indomani dell’assassinio del padre Enrico IV, egli sarebbe stato per tutta la vita irretito «nel freddo, infido, pauroso mondo materno»31. L’implacabile e ottusa regina, nel 1631, quando il figlio tentava una composizione del suo conflitto con Richelieu, rifiutò ogni compromesso «dando prova di irresponsabilità politica» e spingendosi a sobillare contro il re il suo secondogenito, condannandosi a un definitivo esilio e a una vita raminga32. Pur riconoscendo che la censura ha condizionato e continua a condizionare il giudizio sulla vita della sovrana, anche Benedetta Craveri finisce per rien­trare nella stessa tradizione, argomentando questa scelta con valutazioni sui «sentimenti» materni di Maria che non reggono al vaglio della moderna storiografia delle donne e dei generi:   Dubost, Marie de Médicis. La reine dévoilée cit.   Craveri, Amanti e regine cit., p. 115. 31   Ivi, p. 117. 32   Ivi, p. 125. 29

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Come non riconoscere che i suoi meriti di reggente furono irrimediabilmente compromessi dal rifiuto di passare, venuto il momento, le redini del governo a Luigi XIII; che il suo egocentrismo, il suo feroce egoismo l’avevano resa incapace di volere il bene del figlio e che la loro incomprensione reciproca era stata fonte di una catena di delitti, di violenze e di scandali per l’intero paese?33

André Corvisier ha affermato che le reggenze femminili, malgrado la loro debolezza, in opposizione alla logica dei clan, dei lignaggi, hanno costituito dei reticoli più adatti a tutelare gli interessi della dinastia, mentre i principi del sangue avrebbero difeso l’opposizione dei loro casati all’assolutismo dei sovrani. In Francia, la reggenza della madre del re si è imposta grazie all’esempio del saggio governo di Bianca di Castiglia mentre il pessimo governo di Luigi d’Angiò aveva dimostrato come fosse consigliabile tener lontano dal potere il primo principe del sangue in ordine di successione dopo l’erede primogenito34. Le grandi differenze che si possono riscontrare tra le diverse reggenti si spiegano col fatto che le monarchie europee hanno origini diverse e tipologie diverse a seconda delle proporzioni con le quali si radicano nella cultura politica germanica, romana o giudaico-cristiana. Uno dei pochi punti in comune delle reggenze è che sono ovunque considerate periodi di debolezza e di disordine, perché l’autorità di chi governa diminuisce. Ma le conseguenze di questa situazione non sono le stesse: a volte la reggenza è un periodo di distensione, di trasformazione, di sperimentazione politica. Nel 1643, quando Luigi XIII morì, lasciò il regno al figlio Luigi XIV, nato quando la madre Anna d’Austria era quasi quarantenne, appena cinque anni prima, e lasciò la reggenza alla moglie spagnola e al suo ministro, il cardinale italiano Giulio Mazzarino. Nel gennaio 1648 lo scontro fra il potere monarchico e quello 33   Ivi, p. 126. L’autrice riconosce però i meriti di protettrice delle arti di Maria e il valore inestimabile del ciclo pittorico di Rubens, peraltro monumento alla sua propria ambizione (pp. 126-128). 34   A. Corvisier, Les régences in Europe. Essai sur les délégations de pouvoirs souverains, Presses Universitaires de France, Paris 2002. Alla reggenza di Bianca di Castiglia si è fatto cenno nel capitolo II di questo libro. Quanto a Luigi d’Angiò, è stato reggente per il nipote Carlo VI dal 1380 al 1381, ma poi lasciò la Francia per il regno di Napoli dove diventò re dopo la morte della regina Giovanna I che lo aveva designato come successore.

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dei Parlamenti dette origine a una sanguinosa guerra civile che proseguì dal 1649 come fronda dei principi e che cessò nel 1653. In ruoli diversi magistrati, nobili, popolo, capitale e province furono gli elementi convergenti dell’opposizione al governo della reggenza. Denunciando l’inviso ministro Mazzarino, i finanzieri speculatori, gli intendenti intriganti, i magistrati che sedevano nelle alte corti di giustizia – i Parlamenti – e i principi del sangue difendevano i loro privilegi garantiti dalle antiche tradizioni della monarchia francese. Essi reclamavano il tradizionale equilibrio fra autorità del re e rappresentanti dei ceti, che ritenevano fondamento della giustizia regia in quanto limitava il dispotismo sovrano, facendo circolare tra il largo pubblico libelli e manifesti nei quali esponevano le ragioni delle loro proteste. Gli scrittori di pamphlet approfittavano dell’allentamento della censura per reclamare il diritto di criticare i loro padroni senza essere puniti, del quale avevano goduto gli schiavi romani durante i Saturnalia. Essi inondarono Parigi di centinaia di opuscoli che divennero subito noti come Mazarinades. Alcuni di essi non seguirono i modelli satirici e caricaturali di opposizione al governo delle donne e nel caso di Anna d’Austria la descrissero come una reggente eccezionalmente capace e degna di governare come un uomo e sopra gli uomini. La dipinsero come un’amazzone, un’eroina biblica, una rediviva Christine de Pizan, paragonandola ad altre figure che facevano eccezione alla innata debolezza femminile. Molti altri pamphlet, peraltro, descrivevano la regina vedova come una tipica donna, limitata nelle capacità e sfrenata nella lussuria: non per nulla Pharamond, il leggendario fondatore della monarchia francese che sarebbe vissuto tra il 370 e il 42735, aveva promulgato la legge salica per tenere il sesso femminile alla larga dal potere. Quando il Parlamento di Parigi non seguì le raccomandazioni che Luigi XIII, prima di morire, aveva espresso affinché i poteri della moglie fossero limitati, senza volerlo scatenò una serie di reazioni imprevedibili. L’ingenua e incompetente regina fu subito sedotta, se non letteralmente almeno metaforicamente, dall’ambizioso Mazzarino 35   Su di lui ha scritto recentemente R. McKitterick, History and Memory in the Carolingian World, Cambridge University Press, Cambridge 2004.

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che senza farsi alcuno scrupolo l’aveva plagiata tanto che, secondo alcuni contemporanei, sembrava posseduta dal demonio. La letteratura pornografica diffusa dai contemporanei contro Maria Antonietta, assai più studiata in anni recenti, ha riutilizzato – adattandole – le stesse accuse di incapacità, credulità, dipendenza sessuale che erano circolate per screditare Anna d’Austria e il cardinale Mazzarino: si tratta di una delle tante riproposizioni in chiave politica della polemica misogina, che in entrambi i casi in Francia acquistò la massima virulenza durante le crisi della monarchia. Come Caterina de’ Medici, Maria de’ Medici e Anna d’Austria, Maria Antonietta era straniera. A differenza delle altre, che furono reggenti e quindi dovettero per forza di cose partecipare al governo dello Stato e alla politica estera – a dispetto di una più o meno effettiva incapacità, Maria Antonietta non doveva dimostrare nessuna dote di amazzone e, di conseguenza, non aveva nessuna giustificazione per ingerirsi in politica: di fatto non lo fece, ma i suoi atti spesso non appropriati a una principessa e alla sua appartenenza alla casa reale ebbero con il paese e con la corte un impatto, suo malgrado, politico36. 36   J. Merrick, The Cardinal and the Queen: Sexual and Political Disorders in the Mazarinades, in «French Historical Studies», 18, 1994, 3, pp. 667-699.

VII Il secolo delle imperatrici 1. Elisabetta e Caterina Per tutta la prima metà del XVIII secolo gli Stati dell’Europa centrale ed occidentale furono sconvolti da guerre che ebbero come oggetto del contendere la legittimità della successione al trono in circostanze nelle quali la filiazione diretta maschile venne a mancare. La crisi più grave si verificò nel caso degli Asburgo d’Austria quando tutte le maggiori potenze europee si opposero al riconoscimento dei diritti ereditari di Maria Teresa; ne scaturì una guerra che impegnò le forze dell’arciduchessa per otto anni. Nello stesso periodo quattro imperatrici si succedettero al potere in Russia: Caterina, seconda moglie dello zar Pietro I il Grande, era stata associata al governo dal marito come zarina nel 1724. L’anno successivo lo zar era morto dopo aver invitato i reggimenti della guardia imperiale ad acclamarla imperatrice. Caterina aveva avuto con lo zar Pietro undici figli dei quali erano sopravvissute solo due femmine. Una di esse era Elisabetta, nata nel 1709, quando i suoi genitori non erano ancora sposati – la madre fu amante di Pietro I per un decennio prima del matrimonio, celebrato nel 1712 – e per questo la sua illegittimità venne in seguito utilizzata dai suoi oppositori per tentare di escluderla dalla successione al trono. Pietro II, nipote di Pietro il Grande, fu per poco tempo (17271730) l’unico erede in linea maschile dei Romanov dopo la morte di suo padre Aleksej, nato dal primo matrimonio dello zar; nel 1718 Aleksej aveva pagato con una condanna alla pena capitale per cospirazione l’odio implacabile che sua madre Eudossia gli aveva instillato contro il padre, che l’aveva ripudiata per sposare

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Caterina. Aleksej era il figlio maggiore dello zar; suo figlio Pietro era nato a San Pietroburgo il 23 ottobre 1715. Durante la sua infanzia il piccolo orfano fu trascurato dal nonno e abbandonato alle cure di servitori – anche se Pietro il Grande aveva avuto grande considerazione per la nuora Carlotta Cristina di BrunswickWolfenbüttel, cognata dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo, che era morta partorendo Pietro1. Anche durante il regno di Caterina I l’unico discendente maschio dello zar Pietro I venne sistematicamente ignorato ma, pochi anni prima della morte della zarina, divenne chiaro che il bambino non poteva essere tenuto in prigionia ancora per molto. La maggioranza della nazione e i tre quarti della nobiltà erano dalla parte del piccolo erede dei Romanov, mentre suo zio, l’imperatore Carlo VI, presentò ripetutamente i propri reclami alla corte russa per come venivano calpestati i suoi diritti. Queste pressioni ebbero effetto nell’ultimo scorcio della vita della zarina: il 18 maggio 1727 il dodicenne Pietro, ignorante e non preparato in alcun modo al suo ruolo, per volontà di Caterina I fu proclamato zar col nome di Pietro II. Egli fu fidanzato dopo neppure due anni con la figlia del proprio tutore, la principessa Caterina Vasiljevna Dolgorukova, e il matrimonio fu fissato per il 30 gennaio 1730. Ma il giorno precedente Pietro morì di morbillo. Anche sul letto di morte venne fatto ogni sforzo per tentare di far rimanere incinta la principessa e dare quindi un erede alla Russia, ma senza successo: la linea di discendenza maschile diretta dei Romanov si estinse2. Alla morte prematura di Pietro II, nel 1730, divenne imperatrice Anna, figlia di Ivan V, fratellastro di Pietro il Grande, instabile mentalmente e infermo. Ivan V aveva governato sotto la tutela di Pietro prima che, dal 1696, questi divenisse zar a pieno titolo. Nonostante la sua salute precaria Ivan V si era sposato e aveva procreato. Il Consiglio privato scelse come imperatrice Anna Ivanovna: i membri del Consiglio, tutti appartenenti all’a1   W. Marshall, Pietro il Grande e la Russia del suo tempo, Il Mulino, Bologna 1999 (ed. orig. 1996), pp. 122-127. 2   Sulla discendenza dei Romanov e sulla breve vita dello zar Pietro II si vedano E.M. Almedingen, Die Romanows. Die Geschichte einer Dynastie. Russland 16131917, Verlag Ullstein, Frankfurt a.M. 1992 e Die russischen Zaren 1547-1917, a cura di H.-J. Torke, Beck, München 1995.

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ristocrazia terriera, pensavano di porre sul trono una donna facilmente influenzabile che avrebbe accettato di sottoscrivere decreti che limitassero il potere imperiale. Anna stravolse questi piani e, sfruttando le simpatie di cui godeva presso la guardia imperiale e la piccola nobiltà, si impose come una vera autocrate fino al 1740, anno della sua morte3. Durante il regno della cugina Anna Ivanovna, Elisabetta – emarginata come figlia di dubbia legittimità – fu una presenza secondaria; alla morte della zarina seguì la reggenza di Anna Leopoldovna, figlia di Caterina Ivanovna, sorella della zarina Anna, e madre del piccolo Ivan, che aveva avuto dal duca Brunswick-Wolfenbüttel col quale si era sposata nel 1739. Nel 1740 il neonato era stato adottato dalla sua prozia, la zarina Anna, in punto di morte. La reggenza di Anna Leopoldovna per conto del piccolo zar Ivan VI suscitò opposizioni per l’eccessiva pressione fiscale che impose e perché la sua politica economica era inadeguata ad affrontare i gravi problemi del paese. Fu in questa situazione che Elisabetta rivendicò i suoi diritti alla successione come figlia di Pietro il Grande, ottenendo grande sostegno da parte del popolo russo e riuscendo ad attuare un colpo di Stato che spodestò Ivan VI e la madre. Il terrore di essere catturata dai suoi oppositori e di essere confinata a vita in un monastero (sorte che era toccata alla prima moglie di Pietro il Grande, Eudossia) indussero Elisabetta ad agire con spregiudicatezza, arrestando tutti i ministri fedeli alla memoria della zarina Anna: con un audace e fortunato colpo di mano sorprese Anna Leopoldovna insieme con il figlio nei loro letti e li destinò entrambi alla prigionia e all’esilio. Subito dopo Elisabetta convocò alla sua presenza tutti i notabili laici ed ecclesiastici. Elisabetta, come la sua omonima inglese, non si sposò ma le furono attribuiti numerosi amanti e un matrimonio segreto, i documenti del quale furono distrutti per ordine di Caterina II, ma non ebbe nessun erede – almeno riconosciuto (a lungo si speculò in Russia su suoi figli ignoti)4. Il 5 gennaio 1762 la zarina moriva lasciando un grande vuoto: suo padre le aveva trasmesso le doti 3   G. Fussenegger, Herrscherinnen. Frauen, die Geschichte machten, Verlag Albatros, Düsseldorf 2003. 4   Mancano lavori accurati e recenti su Elisabetta. In italiano è stato tradotto il mediocre D. Olivier, Elisabetta di Russia, Dall’Olio, Milano 1964 (ed. orig. 1963).

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di governante illuminato ed Elisabetta aveva rilanciato la politica di riforme economiche che aveva avviato Pietro il Grande durante la guerra dei Sette anni (1756-1763), un conflitto dominato dalle spinte espansionistiche delle maggiori potenze sia per ottenere l’egemonia in Europa, sia per monopolizzare i commerci attraverso il controllo sui traffici marittimi. Nei due schieramenti in lotta Austria, Francia, Russia, Polonia e Svezia si contrapponevano all’alleanza fra Gran Bretagna e Prussia, la nuova potenza europea che disponeva di una formidabile macchina da guerra al servizio delle ambizioni di Federico II, il sovrano emergente in Europa centrale. Elisabetta aveva contribuito ad affermare la potenza del suo paese tenendo testa strenuamente alla Prussia, sia con azioni militari sia con trattative diplomatiche, fino al gennaio­1762, quando la zarina era morta. La sua popolarità era stata grande sia ai vertici della società, sia tra i ceti popolari. La mancanza di un erede diretto poteva annullare i benefici delle riforme avviate durante il suo governo e mettere in grave crisi il paese, ma l’impasse fu superata rapidamente e il 26 giugno dello stesso anno una donna di circa trent’anni venne acclamata da ufficiali e soldati e dai cosacchi dell’Ucraina che le giurarono fedeltà con la benedizione di un prete ortodosso. Sofia Federica Augusta era nata il 21 aprile 1729 a Stettino, in Pomerania, da Cristiano Augusto di Anhalt-Zerbst, generale prussiano, e da Giovanna di Holstein-Gottorp, una principessa tedesca. Educata da una istitutrice francese ugonotta, Sofia ne beneficiò dal punto di vista culturale ma non si adeguò ai modelli di comportamento ritenuti appropriati a una fanciulla e privilegiò sempre le doti intellettuali ai vezzi che venivano apprezzati nel suo sesso. Alta e ben fatta, Sofia era attraente, anche se non bella secondo i canoni classici: colpivano la franchezza del suo sguardo e la piacevolezza del suo sorriso. Nel 1744 la zarina Elisabetta scelse Sofia, che allora aveva quindici anni, come moglie per suo nipote Carlo Pietro, che voleva designare come suo erede. Carlo Pietro era figlio di Carlo Federico di Holstein-Gottorp, nipote di Carlo XII di Svezia, e di Anna Petrovna Romanova (1708-1728), sorella di Elisabetta e la seconda delle figlie sopravvissute dello zar Pietro il Grande e di Caterina I di Russia. Le trattative di matrimonio erano state avviate nei primi mesi del 1744, quando Sofia era quattordicenne e Carlo Pietro aveva

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sedici anni. Sofia era accompagnata dalla madre Giovanna alla quale il conte Cristiano Augusto di Anhalt-Zerbst aveva affidato un memoriale da consegnare alla figlia, nel quale fra i consigli e le raccomandazioni che le dispensava c’era la richiesta di mantenersi fedele al luteranesimo. Tuttavia Sofia cambiò simultaneamente sia il suo nome in Caterina sia la sua confessione, quando si convertì solennemente alla fede russo-ortodossa il 18 giugno 1744. Analogamente, per ragioni di opportunità politica, anche al riluttante Carlo Pietro fu imposta dal suo precettore la rinuncia al luteranesimo. Da adolescenti, nei primi anni del loro fidanzamento, i granduchi Caterina e Carlo Pietro ebbero rapporti di amicizia e di complicità e ricevettero la stessa educazione. Dopo una grave malattia che compromise seriamente la salute di Carlo Pietro e che lo rese repellente agli occhi della fidanzata, le nozze furono comunque celebrate il 21 agosto 1745. Il matrimonio si rivelò presto infelice: Carlo Pietro, uomo di carattere violento e dedito ad eccessi nel bere, si dimostrò ostile verso la moglie, evitando rapporti fisici con lei e maltrattandola in pubblico. Dopo otto anni di matrimonio non consumato e una gravidanza – frutto di una relazione adulterina di Caterina – interrotta con un procurato aborto, la governante Marija Čoglocova, una nobildonna che doveva sorvegliare i comportamenti della giovane granduchessa, fu edotta sui veri motivi per i quali il matrimonio non aveva ancora dato frutti: una volta accertato che Caterina non era sterile, la Čoglocova cercò una donna navigata che iniziasse il giovane Carlo Pietro ai piaceri del sesso ma, a ogni buon conto, incitò la granduchessa a continuare il suo rapporto extraconiugale. Insomma, dell’amante o no, si voleva che un erede fosse presentabile come legittimo e che lo stesso Carlo Pietro potesse ritenerlo tale. Dopo una nuova interruzione di gravidanza – in questo caso non provocata –, il 20 settembre 1754 la granduchessa dava alla luce Pavel Petrovič. Il patronimico ufficialmente attribuito al bambino non dissipò i dubbi che del resto la stessa Caterina non ci aiuta a chiarire, non ricordando nelle sue memorie se la tanto attesa consumazione col marito fosse veramente avvenuta. D’altra parte la maggiore biografa della futura zarina osserva come fosse plausibile che il granduca fosse sterile perché nessuna delle numerose amanti che

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gli vennero attribuite in seguito lo rese padre5. Caterina, una volta dato un erede ufficiale alla stirpe dei Romanov, fu relegata a una posizione di secondo piano dalla zarina Elisabetta, che l’allontanò dal bambino per farlo educare come richiedeva il ruolo che avrebbe dovuto assumere. A ogni buon conto il presunto padre naturale del bambino fu allontanato e Caterina iniziò dopo poco una nuova relazione con un giovane diplomatico, il conte Stanislas­ Augustus Poniatowki, il quale descrisse Caterina, che allora aveva venticinque anni, come una donna dai capelli neri, grandi occhi azzurri, una bocca sensuale e una figura alta e slanciata, ma anche singolarmente colta; si tratta di una delle poche testimonianze dirette del suo fascino6. La relazione amorosa non suscitò indignazione a corte e non diminuì il consenso del quale Caterina godeva, perché non contrastava con l’orientamento filobritannico prevalente: Poniatowki infatti era rappresentante del governo inglese e in una situazione politica europea potenzialmente esplosiva l’orientamento personale e politico della granduchessa suscitò grandi aspettative di una sua assunzione al trono – la salute della zarina Elisabetta nel 1756 preoccupava le ambasciate europee – o almeno di una sua coreggenza per il figlio Pavel insieme con Carlo Pietro, filoprussiano ed erede legittimo. Per alcuni anni la posizione di Caterina fu minacciata dagli intrighi che si venivano ordendo per scongiurare l’assunzione al trono di Carlo Pietro e fu anche chiamata a rispondere sulla parte da lei giocata nello schieramento ostile al granduca. Ma la vecchia zarina Elisabetta non apprezzava molto l’erede designato, che continuava a condurre una vita dissipata e soprattutto assumeva posizioni politiche da irresponsabile. Il 25 dicembre 1761 la zarina morì e Pietro III iniziò il suo breve regno. Noto per le sue bizzarrie, per gli scherzi grossolani con i quali si divertiva a scandalizzare la corte e per la sua incostanza, lo zar diede tuttavia prova di tolleranza – concedendo subito un’amnistia per i reati politici – e con i primi suoi proclami pose le basi per la successiva politica illuminata di Caterina II. In particolare, Pietro III pubblicò il proclama del 18 febbraio 1762 con cui si aboliva per 5   I. de Madariaga, Caterina di Russia, Einaudi, Torino 1988, p. 16 (ed. orig. 1981). 6   Ivi, p. 17.

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i nobili l’obbligo di servire lo Stato, purché si presentassero come volontari in tempo di guerra7; un atto ancora più importante fu la secolarizzazione delle terre della Chiesa il 21 marzo 1762. In politica estera si verificò quanto avevano temuto i generali negli anni precedenti: tra aprile e maggio 1762 Pietro III firmò la pace con la Prussia, preparando così la Russia a entrare in guerra con la Danimarca. Malgrado le esortazioni di Federico II di Prussia, che gli raccomandava di aspettare la consacrazione solenne a zar prima di porsi alla testa dell’esercito russo – prevedendo che durante la sua assenza avrebbe potuto essere detronizzato più facilmente – Pietro III proseguì per la sua strada. Peraltro si era attirato anche l’ostilità dei militari: aveva disposto che l’esercito dovesse essere riorganizzato secondo il modello prussiano anche nelle uniformi, cosa che ferì il senso di appartenenza dei soldati. In previsione della sua assenza durante la campagna in Danimarca, il 18 maggio 1762 Pietro III nominò un consiglio informale, in buona parte costituito da tedeschi, fra i quali lo zio Giorgio Ludovico di Holstein-Gottorp, diminuendo le competenze del Senato e rafforzando i poteri della polizia. Tuttavia, l’errore più grosso fu quello di minacciare Caterina, l’unica in grado di contrastarlo. Al posto suo poteva essere candidato solo l’imperatore detronizzato e prigioniero da sedici anni, Ivan VI, che era appena nato quando Elisabetta aveva preso il potere e che era assolutamente incapace, per mancanza di educazione o forse anche per tare ereditarie, di governare. L’altro candidato era naturalmente Pavel Petrovič, che aveva sette anni ma che Pietro III non aveva voluto nominare suo erede, come del resto aveva espressamente fatto con Caterina, riservandosi – con una formula generica – di designare chi avesse voluto, secondo la legge di successione di Pietro il Grande8. Tuttavia, mentre lo zar aveva fatto il possibile per alienarsi i dignitari, Caterina in ogni occasione pubblica si era comportata con sagacia e con dignità, ma non poteva candidarsi direttamente al trono perché era nuovamente incinta: il 10 aprile 1762 partorì segretamente un figlio del suo nuovo amante, Grigori Orlov, e non poteva aspettarsi che lo zar, dal quale era separata di fatto e che tentava di trovare 7 8

  Ivi, pp. 28 e 30.   Ivi, p. 34.

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l’occasione giusta per divorziare da lei e sposare la sua favorita, anche questa volta fosse disposto a riconoscere il bambino. L’astio dello zar nei confronti della moglie arrivò al punto di ordinarne l’arresto e, anche se poi non fu eseguito, la minaccia fu sufficiente a coalizzare un ampio fronte favorevole a lei. Uno dei primi che prese l’iniziativa di una cospirazione per incoronare Caterina fu un aristocratico, Nikita Ivanovič Panin, tutore del piccolo granduca Pavel, che aveva soggiornato a lungo in Svezia e aveva preso come modello quella monarchia i cui poteri erano limitati da un consiglio di aristocratici e da una Dieta che rappresentava le altre componenti della società. Tra i più accesi fautori di Caterina c’era soprattutto il suo amante Orlov, con i suoi quattro fratelli. Il 28 giugno gli Orlov al cospetto dei soldati di tre reggimenti la fecero proclamare sovrana di tutte le Russie; fra i militari che l’acclamarono molti si presentarono indossando le vecchie divise che erano stati costretti a sostituire con quelle prussiane. I partigiani della reggenza per conto dell’erede Pavel Petrovič erano stati presi alla sprovvista dall’iniziativa degli Orlov, che avevano presentato Caterina II come sola e unica sovrana. La cerimonia di fedeltà alla nuova imperatrice fu benedetta nella cattedrale e l’arcivescovo di Novgorod raccolse il giuramento delle truppe. L’azione che coronò la scenografia del colpo di Stato fu l’arresto del marito, compiuto da Caterina che montò a cavallo indossando una uniforme della guardia insieme a una dama del suo seguito abbigliata come lei, ottenendo da Pietro III, dopo alcuni tentativi di trattare, l’abdicazione. Anche se non è accertato che l’esecuzione fosse ordinata dalla zarina, lo zar detronizzato morì in circostanze poco chiare durante una rissa, il 5 luglio 1762, mentre si trovava confinato sotto la sorveglianza di una pattuglia di soldati. In ogni caso, la sua morte fu molto vantaggiosa per Caterina II. L’omicidio venne tenuto nascosto: secondo un proclama del 7 luglio la morte improvvisa di Pietro venne attribuita a emorroidi e colica e soprattutto alla «volontà di Dio», che aveva «spianato la via per l’assunzione di Caterina al trono»9. L’esperienza di Caterina pose, agli occhi degli osservatori occidentali, molti interrogativi. Brenda Meehan-Waters ha osservato 9

  Ivi, p. 42.

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come le trasfigurazioni negative degli attributi femminili della zarina fossero generalmente prese per buone e fondamentalmente si riducessero alle fantasie sui suoi presunti omicidi o sulle sue aberrazioni sessuali: il contrasto fra le dicerie che avevano per oggetto Caterina II e l’immagine che è stata trasmessa della sua contemporanea, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, non potrebbe essere più forte. Quello che si chiede Meehan-Waters non è tanto quale delle due imperatrici abbia esercitato effettivamente più potere, quanto piuttosto quale abbia minacciato di più la cultura maschile dominante. È significativo che l’immagine più popolare di Maria Teresa fosse quella di moglie e madre, accreditata dalla sua straordinaria prolificità, e soprattutto dal fatto che l’imperatrice austriaca governò sempre congiuntamente con il marito e, dopo la morte di questi, con suo figlio, il futuro imperatore Giuseppe II, dichiarandosi debole in quanto donna e inadatta a sostenere i suoi pesanti doveri da sola10. Come e perché si interruppe la lunga serie di zar maschi non è del tutto chiaro, ma rimane il fatto che quando questo successe non provocò le discussioni che si erano verificate in Occidente nei secoli passati: in Russia non ci furono i feroci attacchi contro il governo delle donne a cui abbiamo assistito nell’Inghilterra di metà Cinquecento. Caterina I, dopo la morte di Pietro il Grande, fu la prima zarina di Russia per volontà del marito, senza nessuna legittimazione di tipo dinastico. Ai suoi sostenitori bastò l’intenzione espressa formalmente dallo zar due anni prima della sua morte, con la quale egli le aprì la strada a un riconoscimento ufficiale, lodando il coraggio e le gesta della moglie sui campi di battaglia e il suo carattere forte, per nulla incline alle debolezze femminili. A differenza di quello che sarebbe successo nell’Europa occidentale a Maria Teresa, questo atto da autocrate del vecchio zar non venne sconfessato e il paese accettò il fatto che la nuova zarina fosse una donna di bassa estrazione piuttosto che una discendente dei Romanov. Durante la crisi politica del 1730 praticamente nessuno si oppose al fatto che di nuovo l’impasse politica venisse superata con l’acclamazione di una donna11. I rituali religiosi e in particolare 10   B. Meehan-Waters, Catherine the Great and the Problem of Female Rule, in «Russian Review», 34, 1975, 3, pp. 293-307, citazione a p. 300. 11   Ivi, pp. 303-304.

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la cerimonia dell’incoronazione esaltavano l’immagine del potere autocratico e si definirono nel XVIII secolo, recependo e interpretando la nuova svolta autoritaria impressa da Pietro il Grande. Nel 1723 la cerimonia fu celebrata per la prima volta in occasione dell’incoronazione solenne di Caterina I. Il rituale si differenziava da quello che era usato in precedenza, per la diminuzione del ruolo della Chiesa e appunto per la corrispettiva esaltazione della figura dell’autocrate. Il problema avrebbe potuto essere costituito dal fatto che le cerimonie cristiane in genere comprendono una simbologia che fa riferimento ad azioni liturgiche – e quindi maschili – dei sovrani, in contrasto con il divieto di accedere al sacerdozio per le donne. L’incoronazione della zarina Anna, nel 1730, costituì un importante precedente nella definizione del rituale dell’incoronazione: Anna salì sull’altare, a lato del sacerdote, per essere consacrata, e ricevette la Comunione secondo il rito riservato ai chierici. Nel 1742 la zarina Elisabetta aggiunse alla liturgia un ulteriore gesto senza precedenti, mettendosi da sola la corona in testa e indossando il mantello, senza l’aiuto del metropolita: tale atto rivestiva un forte significato simbolico che alludeva alla sua autonomia dalla Chiesa. Caterina II avrebbe seguito lo stesso rituale, che rimase invariato anche nel secolo successivo. Quando il figlio di Caterina salì al trono come Paolo I nel 1796, cambiò la legge di successione e stabilì che non fosse più legata alla volontà del sovrano: anche se formalmente non ci fu un’esclusione delle donne dal trono, fu deciso che i maschi dovessero essere preferiti e lo furono, per gli imprevedibili accidenti della catena delle generazioni. Comunque, in Russia non ci fu una legge salica che escludesse le donne dal trono e il potere degli zar aveva una consacrazione solenne in una cerimonia che nel Settecento aveva permesso a Caterina I e a Caterina II, ad Anna e a Elisabetta, di essere formalmente riconosciute come sovrane12. Brenda MeehanWaters cita un articolo di Dean Miller nel quale questi sostiene che la concezione altomedievale e bizantina vedeva il sovrano come un essere bisessuato e che la polarizzazione sulla mascolinità sia un fenomeno più recente. L’autrice ne deduce che i russi del XVIII secolo, con la loro accettazione non polemica del governo femminile,   Ivi, pp. 305-306.

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si possano considerare epigoni di una concezione premoderna del potere e si chiede se l’antica immagine russa dello zar fosse diventata un’astrazione che soverchiava in modo così forte la realtà delle persone fisiche da poter essere adattata a una principessa tedesca, priva di legami dinastici con i Romanov13. 2. Maria Teresa, buona moglie e buona madre Maria Teresa è forse il primo esempio di sovrana che dalla sua immagine celebrativa, che la esaltava come emblema dell’unità austriaca, fu trasfigurata senza però essere deformata. Allo stesso modo, nel suo caso il sesso a cui apparteneva, da millenario stigma di debolezza, si trasformò in un simbolo di forza: la sua capacità di governo ha saputo liquidare la letteratura sui limiti delle capacità femminili, annullata dai risultati delle campagne di guerra e delle opere di pace. Maria Teresa è nota infatti come riformatrice – si pensi al catasto teresiano da lei voluto nella Lombardia austriaca per una più equa ripartizione fiscale che fosse in grado di rilanciare gli investimenti produttivi14 – anche se non nutrì alcuna simpatia per le idee innovative del suo tempo. È stato scritto che il tradizionalismo dei suoi principi – a differenza di Caterina II non fece alcuna concessione all’idea di tolleranza che i philosophes illuministi avevano fatto circolare in Europa – e le sue convinzioni di cattolica strettamente osservante le ispirarono «una concezione matriarcale del potere»: si fece ritrarre e si esibì al pubblico come madre di famiglia (ebbe sedici figli, dieci dei quali le sopravvissero) e madre dei popoli e questa immagine è rimasta fissata come cliché nella storiografia posteriore15. Maria Teresa era l’unica figlia sopravvissuta dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo d’Austria e di Elisabetta Cristina di BrunswickWolfenbüttel, la quale, durante gli ultimi due anni della guerra di successione spagnola, aveva sostituito il marito sui luoghi delle ope  Ivi, p. 307.   Sull’importanza dei catasti nell’attuazione di una politica riformatrice nell’Italia del Settecento si veda R. Zangheri, Catasti e storia della proprietà terriera, Einaudi, Torino 1980. 15   J.-P. Bled, Maria Teresa d’Austria, Il Mulino, Bologna 2003, p. 10. 13 14

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razioni belliche. Infatti Carlo aveva combattuto senza successo per raccogliere l’eredità del ramo iberico degli Asburgo ed era dovuto rientrare a Vienna, ma aveva affidato a Elisabetta Cristina l’onere di continuare la lotta come suo «capitano generale». A guerra finita e tornata a sua volta in Austria, l’imperatrice consorte non avrebbe più assunto alcun ruolo politico ma avrebbe trasmesso alla figlia Maria Teresa, oltre alla bellezza, la sua determinazione. Inoltre, dalla vita privata caratterizzata da affettività e semplicità che aveva sperimentato in famiglia, Maria Teresa avrebbe tratto un modello per la sua stessa famiglia, a cominciare dall’inconsueta determinazione a concludere il proprio matrimonio per amore. Nel 1724 il duca Francesco Stefano di Lorena prese il posto del fratello primogenito Leopoldo Clemente, promesso da Carlo VI a Maria Teresa e improvvisamente stroncato dal vaiolo, e si diresse con un numeroso seguito verso Praga dove, lui quindicenne, vide per la prima volta la piccola fidanzata, di appena sette anni. Francesco Stefano sarebbe stato educato alla corte di Vienna e i due ragazzi avrebbero avuto modo di conoscersi meglio; col tempo, Maria Teresa non nasconderà la sua attrazione per il giovane duca. Come elemento di primo piano nel gioco degli equilibri politici internazionali, Francesco Stefano fu indotto a cedere la Lorena in cambio del granducato di Toscana dove la dinastia de’ Medici si sarebbe estinta nel 1737 con Gian Gastone. Poco prima, il 31 gennaio 1736, Carlo VI aveva concesso ufficialmente la mano della figlia ed erede a Francesco Stefano e il 12 febbraio successivo era stato celebrato il matrimonio. Nel breve intervallo di tempo intercorso il promesso sposo aveva dovuto allontanarsi da corte – come voleva il cerimoniale – e Maria Teresa gli fece giungere un messaggio in risposta a un suo biglietto nel quale dichiarava di essere stata «in pena come una cagnolina» aspettando notizie del suo «caro viso» e del suo «topolino»16. In attesa della morte di Gian Gastone e di prendere possesso del granducato di Toscana, Francesco Stefano ricevette un incarico di governo nei Paesi Bassi e poi di comandante in capo, nel 1737, in una ripresa della guerra contro i turchi nel corso della quale dette prova di essere un capitano mediocre, finendo per abbandonare il comando ai   Ivi, p. 23.

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generali subalterni più esperti di lui. Comunque questo impegno impedì a lui e alla consorte di prendere possesso del granducato prima del 1739. Gli sposi erano da poco arrivati a Firenze, dove erano stati accolti con grandi manifestazioni di entusiasmo quando, nell’aprile 1739, furono richiamati a Vienna dall’imperatore Carlo VI, in costante attesa di un nipote maschio. Francesco Stefano mantenne il titolo di granduca ma non tornò più in Toscana. Maria Teresa avrebbe dovuto succedere al padre quando questi morì il 20 ottobre 1740 per cause che i medici non seppero identificare né tantomeno curare. Fin dal 1709 Carlo VI aveva voluto assicurare la successione alla linea femminile della sua discendenza e il 19 aprile 1719 aveva emanata la Prammatica Sanzione, che impegnava l’Europa ad accettare la figlia come sua erede, anche se all’epoca la possibilità per l’imperatore di avere un figlio maschio non era ancora del tutto esclusa. La Prammatica Sanzione aveva capovolto i termini stabiliti da un precedente patto di famiglia, del 1703, alla fine del regno del padre di Carlo VI, Leopoldo I, che prevedeva la successione delle femmine in mancanza di eredi maschi, ma dava la precedenza alle due figlie dell’imperatore Giuseppe I, fratello maggiore di Carlo. Dopo l’improvvisa morte di Giuseppe e l’accesso al titolo imperiale da parte di Carlo VI, questi aveva stabilito la precedenza delle sue figlie su quelle del fratello. Con il mutare del quadro politico europeo Carlo VI si era preoc­cupato di ottenere l’adesione alla Prammatica Sanzione della Spagna (1725), della Russia (1726), dell’Inghilterra (1731), della Francia (1735), nonché degli Stati tedeschi e in particolare della Sassonia e della Baviera, i cui principi avevano sposato rispettivamente Maria Giuseppa e Maria Amalia, le due figlie dell’imperatore Giuseppe I, figlio maggiore di Leopoldo I, e fratello di Carlo VI, che quindi, come cugine di Maria Teresa e discendenti dal primogenito, potevano aspirare a contestarle l’eredità. Tuttavia l’approvazione dei due matrimoni era stata condizionata, da parte di Carlo VI, dall’espressa rinuncia a tali diritti e dall’accettazione della Prammatica Sanzione. Anche la Prussia la riconobbe, nel 1728, e nel 1732 tutti i principati tedeschi rappresentati nella Dieta del Sacro Romano Impero fecero altrettanto17.

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  Ivi, p. 47.

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Queste precauzioni, tuttavia, furono inutili: alla morte dell’imperatore gli elettori di Baviera e di Sassonia affermarono che l’impegno riguardava le proprie mogli e non loro stessi, come mariti. Subito dopo il riconoscimento della sovranità di Maria Teresa alla successione sui regni di Boemia e di Ungheria, fu sollevata la questione dei suoi diritti nei termini stabiliti dalla Prammatica Sanzione. Maria Teresa affrontò la situazione con un eccezionale coraggio che le avrebbe permesso di uscire vincitrice da una guerra che sarebbe durata otto anni (1740-1748) dalla quale il suo prestigio sarebbe stato rafforzato. Come scrisse Paolo Frisi nel 1780, nell’elogio funebre dell’imperatrice, Maria Teresa a ventitré anni si era trovata contro la maggior parte dei sovrani europei, tutti con rivendicazioni di diritti di successione sulla sua eredità: non solo i principi di Baviera e di Sassonia, ma i re di Prussia, di Polonia, di Spagna e di Sardegna, con l’appoggio del re di Francia: «L’Europa intera era allora innondata di manifesti: vi si facevano dappertutto i più terribili preparativi, dappertutto risuonava lo strepito delle armi [...]. Pareva che quella dovesse essere l’epoca più funesta alla Casa d’Austria, e fu invece la più gloriosa». Federico II di Prussia invase la Slesia con 40.000 uomini ma «la giovane sovrana non si sgomentò punto da quei primi accidenti della guerra. La sua intrepidezza doveva ritrovarsi in cimenti molto maggiori [...]. I grandi del Regno tirarono le loro sciabole e gridarono: moriamo tutti per il Re nostro Maria Teresa»18. I discorsi che teneva alle truppe sollecitavano l’attaccamento e la devozione alla sua persona ed erano resi persuasivi dalla sua bellezza e dalla consumata oratoria con la quale esortava i soldati a dar prova delle antiche virtù cavalleresche. Non solo nelle dure contingenze della guerra ma anche nel rapporto quotidiano con i sudditi, la sovrana riusciva a stabilire un rapporto affettivo profondo, favorendo un culto della sua persona che non aveva paragoni nel Settecento. Solo nel suo caso le immagini della sovranità esaltavano l’appartenenza al genere femminile come elemento di forza e non di debolezza, mentre la sua prolificità biologica evocava un amore materno che dal suo nucleo domestico si estendeva a tutta la 18   P. Frisi, Elogio di Maria Teresa imperatrice, a cura di G. Barbarisi, Biblioteca Comunale, Milano 1981, pp. 11, 14, 19.

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famiglia allargata del suo popolo. La devozione fervente la rendeva oggetto di una venerazione, ancora in vita, che secondo Bled potrebbe essere una versione secolarizzata del culto della Vergine19. Tuttavia, se Maria Teresa poteva essere re, non fu però imperatrice sui juris ma lo fu in quanto consorte dell’imperatore. Secondo la clausola della pace di Füssen del 22 aprile 1745 l’elettore di Baviera Massimiliano Giuseppe, che aveva posto fine al suo intervento nella guerra di successione austriaca, aveva rinunciato ad aspirare al titolo di imperatore del Sacro Romano Impero e aveva riconosciuto la validità della Prammatica Sanzione austriaca. L’Austria dal canto suo rinunciava alle richieste di risarcimenti di guerra, ritirava le sue truppe dalla Baviera e riconosceva postuma la dignità di imperatore del Sacro Romano Impero a Carlo VII (Carlo Alberto di Baviera, morto il 20 gennaio 1745). Suo figlio Massimiliano Giuseppe si impegnava a sostenere l’elezione di Francesco Stefano a imperatore e la sua nomina a principe elettore del Palatinato e di Colonia. Il 13 settembre 1745 a Francoforte sul Meno Francesco Stefano ottenne i voti di sette dei nove elettori imperiali e il 4 ottobre fu incoronato imperatore come Francesco I. Maria Teresa, dunque, regina di Boemia e di Ungheria, arciduchessa d’Austria, non fu eletta imperatrice ma fu solo moglie dell’imperatore. Questo non le impedì di governare e di prendere le decisioni più importanti in sostituzione di Francesco I, che si riservò il disbrigo degli affari correnti. Maria Teresa, come sempre, seppe valutare l’opportunità politica delle sue scelte: L’attribuzione della corona imperiale è un fatto secondario della guerra di successione austriaca, che era arrivata addirittura a mettere in forse l’esistenza stessa della monarchia, dal momento che i suoi nemici si erano ripromessi di spartirsene le spoglie. Allontanando quel 19   Bled, Maria Teresa d’Austria cit., p. 352. L’«identità monarchica» con la quale Maria Teresa ha presentato la sua immagine pubblica attraverso l’iconografia dei ritratti ufficiali e altre forme di rappresentazione della sua persona è stata studiata recentemente da Michael Yonan in Empress Maria Theresa and the Politics of Habsburg Imperial Art, Pennsylvania State University Press, University Park 2011; Yonan tra l’altro osserva come la storiografia recente non ha dedicato all’imperatrice l’attenzione che ci si aspetterebbe, in particolare in una prospettiva di genere (p. 8).

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pericolo, Maria Teresa non salva soltanto la monarchia, ma dimostra a tutti, alleati e nemici, che i suoi possedimenti non costituiscono un insieme artificiale. Anche nella guerra dei Sette Anni [1756-1763] che in Europa centrale mette di fronte due stati, Austria e Prussia, per il possesso di una provincia [la Slesia] e per l’egemonia sulla Germania, i problemi del Sacro Romano Impero sono del tutto marginali. In entrambi i casi Maria Teresa tratta gli affari dell’Impero come un mezzo e non come un fine20.

Dopo la guerra dei Sette anni, una rinnovata rete diplomatica fu tessuta da Maria Teresa attraverso l’inesauribile risorsa dei suoi figli, soprattutto delle sue figlie femmine, anche se tre di esse dovettero uscire dal mercato matrimoniale per difetti fisici congeniti o contratti come conseguenza del vaiolo. Uno di questi matrimoni, quello di Maria Cristina con Alberto di Sassonia, fu un’inconsueta concessione di Maria Teresa ai desideri della figlia. Per le altre non fu così e la scelta dipese sempre da calcoli politici. Maria Carolina, non ancora sedicenne, fu destinata a re Ferdinando IV di Napoli e la giovane arciduchessa si dispose di buon grado ad amare il marito, «bruttissimo» a suo dire, «per dovere», per ubbidienza filiale e da buona cristiana. Così l’esortava a fare la madre che le scrisse le sue raccomandazioni, che includevano quella di stare al suo posto di moglie rispettosa e devota; in seguito Maria Teresa avrebbe fatto lo stesso, seguendo la falsariga delle raccomandazioni impartite a Maria Carolina, per tutte le altre figlie destinate al matrimonio. Nell’aprile 1768 l’imperatrice ricordava a Maria Carolina il dovere della sottomissione «ai mariti, alla loro volontà e perfino ai loro capricci, se sono innocenti»21. Se rassicurava la madre sulla propria docilità, sulla capacità di dissimulare le proprie frustrazioni e sulla cristiana rassegnazione alla volontà di Dio, la regina di Napoli rivelava i propri sentimenti in una lettera meno sorvegliata, diretta alla contessa Lerchenfield, alla quale confidava di vivere «in un inferno» e di aver pensato al suicidio per la frustrazione e l’avvilimento dei primi giorni di convivenza con lo sposo.   Bled, Maria Teresa d’Austria cit., p. 349.   Maria Teresa d’Austria, Consigli matrimoniali alle figlie sovrane, a cura di A. Frugoni, Passigli, Firenze 2000, p. 57. 20 21

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Tuttavia l’educazione ricevuta ebbe la meglio e presto la regina riuscì a sostituire il marito nella direzione degli affari di Stato, attitudine che l’avrebbe portata a organizzare dalla Sicilia, allo scorcio del secolo, la resistenza antinapoleonica22. Nel 1765, quando furono avviate le trattative matrimoniali fra la sua figlia minore, Maria Antonietta, e il delfino di Francia, la diplomazia di Maria Teresa raggiunse il suo apice: sembrava infatti che fosse consolidata in questo modo un’alleanza preziosa, dopo la fine della guerra dei Sette anni. Il patto venne reso ufficiale solo quattro anni dopo, in considerazione della giovane età dei fidanzati. Arrivata a quindici anni, la bellissima e vivace Maria Antonietta venne preparata dalla madre per assumere il ruolo al quale era destinata, ma la sua istruzione non fu molto curata. All’opposto lo sposo predestinato, Luigi, era brutto e introverso ma coltissimo. Le nozze furono celebrate per procura il 19 aprile 1770 e due giorni dopo la giovane sposa partiva verso la Francia, accompagnata dalle raccomandazioni della madre23. 3. Le prediche inutili dell’imperatrice In una lettera del 30 luglio 1775 – Luigi XV era morto e Luigi XVI era diventato sovrano di Francia da poco più di un anno – Maria Teresa rimproverava aspramente la figlia per la leggerezza del suo contegno e per la sua debolezza nei confronti dei numero22   Bled, Maria Teresa d’Austria cit., pp. 318-320. Sul ruolo politico di Maria Carolina si vedano O. Browning, Queen Caroline of Naples, in «The English Historical Review», 2, 1887, 7, pp. 482-517 e R.M. Johnston, A Memoir of Queen Mary Caroline of Naples, in «The English Historical Review», 22, 1907, 86, pp. 315-324; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari 1924, pp. 180-186, 210-232 (cito dall’ediz. del 1972). Sull’onda dell’immancabile trasfigurazione ottocentesca della vicenda di Maria Carolina da parte dell’infaticabile Alexandre Dumas padre, che tra il 1864 e il 1865 scrisse due romanzi sull’epopea del regno di Napoli – La Sanfelice e Le confessioni di una favorita –, alla regina sono stati attribuiti i tratti forti dell’eroina o della spietata artefice delle repressioni della rivoluzione partenopea del 1799. Fra gli ultimi esempi si vedano A. Coletti, La regina di Napoli. La vita appassionata di Maria Carolina protagonista di splendori e miserie del Settecento napoletano, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1986; C. Erickson, Maria Antonietta, Mondadori, Milano 1997. 23   Maria Teresa d’Austria, Consigli matrimoniali alle figlie sovrane cit., pp. 113 sgg.

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si adulatori che la circondavano, dai quali la esortava a guardarsi. Le parole conclusive suonano retrospettivamente profetiche. La vostra sorte dovrà cambiarsi e precipitarvi per colpa vostra nelle più grandi disgrazie: è l’effetto di quella terribile dissipazione, che non vi fa applicare a niente [...]. Voi lo riconoscerete un giorno, ma troppo tardi. Non mi auguro di sopravvivere a questa catastrofe e prego Dio di troncare al più presto i miei giorni, non potendo più esservi utile e non potendo sopportare di veder perdersi la mia cara bambina, che amerò, fino all’ultimo respiro, teneramente24.

Il re e la regina di Francia consumarono il matrimonio solo dopo sette anni dalle nozze, come annunciò finalmente alla madre la stessa Maria Antonietta, in una lettera del 3 ottobre 177725: un intervento chirurgico aveva risolto l’impedimento fisico e psichico di Luigi XVI, mettendo la moglie in condizione di adempiere al suo primo dovere nei confronti del paese, dando un erede al trono. Tuttavia i due sposi non ebbero mai esperienza dell’intimità affettuosa che Maria Teresa aveva augurato alla figlia e che la stessa imperatrice aveva vissuto fino al 1765, alla morte di Francesco Stefano. La madre disapprovava soprattutto l’abitudine di dormire in letti separati; se la vecchia imperatrice poteva sembrare insistente e indiscreta agli occhi di Maria Antonietta, il 19 dicembre 1778 si giustificava dicendosi inesauribile nelle attenzioni come nell’affetto: Non ho altra occupazione più cara di quella di occuparmi dei miei cari figli. Sono i soli momenti felici della mia vita penosa26.

Dopo la nascita della piccola Maria Teresa, nel dicembre 1778, l’imperatrice incalzò ancora la figlia per una seconda gravidanza   Ivi, p. 122.   Ivi, pp. 125-126. 26   Ivi, p. 127. Nei primi anni della vita di corte di Maria Antonietta, l’imperatrice si esprimeva anche sull’opportunità per la figlia di tingersi le guance col belletto (P. Saint-Amand, Terrorizing Marie Antoinette, in «Critical Inquiry», 20, 1994, 3, pp. 379-400, pp. 388-389). Più tardi Maria Teresa arrivò persino a dedicare alcuni passi delle sue lettere alle acconciature di Maria Antonietta, imponendole (invano) di adottare uno stile meno eccentrico: D. Hosford, The Queen’s Hair: Marie-Antoinette, Politics, and DNA, in «Eighteenth-Century Studies», 38, 2004, 1, pp. 183-200, p. 189. 24 25

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che si augurava permettesse questa volta di garantire la successione (maschile) al trono. Nel giugno 1780, cinque mesi prima di morire, Maria Teresa ripeteva ancora che «ci vuole un delfino. Finora sono stata discreta, ma a lungo andare diventerò importuna»27. Maria Teresa morì prima di dover soffrire per la fine della figlia e di un sistema politico europeo, quell’ancien régime aristocratico che nel XVIII secolo l’aveva vista protagonista, e prima di vedere il fallimento dei progetti che le figlie, nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto realizzare, interpretando quel modello di sovranità femminile e di armonia domestica che la madre aveva cercato di inculcare loro. Maria Antonietta e Maria Carolina furono entrambe al centro degli eventi rivoluzionari. Alla regina di Napoli, nei suoi primi anni di regno, il marito Ferdinando aveva lasciato ampio spazio nel governo, che lei utilizzò promuovendo una politica di riforme economiche. A Maria Carolina è legata soprattutto l’istituzione della colonia di San Leucio, nel quale uomini e donne lavoravano, impegnati nella fabbrica della seta, ricevendo la stessa educazione, gli stessi salari e i diritti alla eredità, alla proprietà, all’educazione dei figli e alla scelta del compagno28. L’eco della rivoluzione francese non smorzò lo zelo riformatore di Maria Carolina ma la notizia dell’esecuzione dell’adorata sorella Maria Antonietta (16 ottobre 1793) aizzò il suo odio e il suo desiderio di vendetta, che si espressero al massimo nella repressione della Repubblica partenopea del 1799. La famiglia reale fu costretta all’esilio nel 1806; Maria Carolina morì a Vienna l’8 settembre 1814. In confronto con quella di Maria Antonietta, la vita della sorella maggiore non ha avuto rivisitazioni storiografiche recenti e la sua immagine resta legata alla spietatezza con la quale sacrificò i repubblicani e in particolare Luisa Sanfelice e l’amica Eleonora Pimentel Fonseca, con le quali aveva condiviso per alcuni anni idee di riscatto per le donne: per molti versi la complessità del personaggio meriterebbe maggiore attenzione. L’immagine di Maria Antonietta, invece, rimane occultata da una esagerata esposizione che rende difficile caratterizzarla se non come vittima innocente degli eccessi rivoluzionari o come model  Bled, Maria Teresa d’Austria cit., p. 331.   L’utopia di Carolina. Il Codice delle leggi leuciane, a cura di N. Verdile, Regione Campania, Stamperia Digitale, Napoli 2007. 27 28

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lo di frivolezza femminile e di egoismo aristocratico. Cécile Berly ha sottolineato la rilevanza della comunicazione e della deformazione mediatica della figura storica di Maria Antonietta: di questo fenomeno alcuni siti internet sono l’espressione più recente che si manifesta in un’accozzaglia di stereotipi della regalità, della femminilità e della maternità. Ne risulta un ritratto largamente assolutorio che non tiene conto di dibattiti storiografici secolari e che privilegia gli aspetti psicologizzanti che enfatizzano i caratteri inscindibili della grandezza e della meschinità di Maria Antonietta. Sono alcuni decenni che la regina di Francia è comparsa nei film di animazione di produzione giapponese nella serie delle avventure di Lady Oscar, esempio estremo di manipolazione di modelli di femminilità, di distorsione del personaggio e di riduzione degli eventi più importanti della storia francese degli ultimi secoli a una serie a cartoni animati per bambini. Più recentemente il medium per eccellenza, internet, ha amplificato l’impatto di questi miti storiografici e li ha fissati efficacemente e durevolmente, accontentandosi di divulgare un sapere ampiamente condiviso, servendosi delle regole semplici del genere biografico (sostanzialmente, in questo caso, quella della sovrapposizione delle due personalità di Maria Antonietta, contraddittorie fra di loro29). Se si può sostenere che il web è l’estrema manifestazione delle capacità di manipolazione del senso comune storiografico, la figura di Maria Antonietta è certamente un test per questa storia «volgarizzata» e commerciale, aggettivi che la comunità degli storici deve imparare a non considerare senza eccezione negativi30. La regina, suo malgrado icona di questi storici 29   Un modello della doppiezza come cifra interpretativa della personalità della regina circolato in Italia nel primo Novecento è in E. e J. de Goncourt, Maria Antonietta, Sonzogno, Milano 1940 (ed. orig. Parigi 1858), dove si legge: «Per un contrasto singolare, ma non raro nelle donne, la gaiezza copriva questo fondo sentimentale e quasi malinconico della Delfina. Era una gaiezza un po’ folle, leggera, petulante, che s’agitava continuamente e che riempiva tutta Versailles di gaiezza e di vita» (p. 18). Un carattere che mal si adattava all’apatia e alla goffaggine del delfino. Ormai regina, nel 1774, i suoi modi liberi non furono contrastati dal re, né lo furono «le inconsideratezze, le innocenti follie, le innocenti fanciullesche alle quali Maria Antonietta si abbandonava anche nelle grandi esibizioni della regalità e nelle cerimonie del lutto [che] erano purtroppo altrettante terribili armi contro di lei, fra le mani delle vecchie principesse astiose e implacabili» (p. 27). 30   Lo stesso discorso sulla «volgarizzazione» della figura della regina si può

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di largo consumo, si sottrae dunque al giudizio della storia. Per questo il mondo virtuale non si può né sottovalutare né ignorare né tantomeno deridere: conoscerlo dà conto di quanti siano gli errori, i luoghi comuni e le distorsioni storiche che ancora fissano Maria Antonietta nel fotogramma della sua esecuzione (lo schizzo di Jacques-Louis David), sullo sfondo tragico e glorioso della rivoluzione31. Un aspetto della polarizzazione dei giudizi sulla regina che non si limita alle discussioni sul web ma che caratterizza anche il dibattito storiografico riguarda i suoi costumi sessuali e la pubblica condanna della sua sfrenatezza: un luogo comune che percorre tutta la letteratura sulle donne di potere al quale la figlia dell’austera Maria Teresa – immune da attacchi sulla sua sessualità – non riuscì a sottrarsi e che ha come variante positiva più recente quella dell’indomita indipendenza della figlia dell’imperatrice32. In un saggio interessante Véronique Campion-Vincent e Christine Shojaei Kawan hanno dimostrato come anche l’esempio più noto della sua stupidità – la famosa frase che la regina avrebbe pronunciato sul popolo affamato – fosse una vecchia facezia già riadattata in varie occasioni. Nonostante questa non sia del tutto una novità, le autrici sottolineano come a tutt’oggi l’aneddoto del pane e delle brioche sia ripreso dai manuali in chiave pedagogica e politica, per insegnare ai ragazzi valori come la giustizia, l’uguaglianza e la solidarietà sociale. La complessità del periodo e il ruolo giocato fare per la più recente trasposizione cinematografica Marie Antoinette di Sofia Coppola: nel film, uscito nel 2006, la regista tiene volutamente separata la sua intenzione di rappresentare emozioni dalla realtà dei fatti, comunque vagliati attraverso la Maria Antonietta di Antonia Fraser, uscita in Italia da Mondadori nel 2002 e apparsa l’anno prima nell’edizione originale; un’opera biografica di prim’ordine che accentua gli aspetti psicologici del personaggio ma senza tradire il rigore storiografico. 31   C. Berly, Marie-Antoinette sur le Net: de l’usage de la reine ou des usages d’une mémoire royale et féminine, in «Annales historiques de la Révolution française», 333, 2003, pp. 85-101, citazioni alle pp. 87 e 101. Non è comunque un fenomeno, quello della popolarità della regina e della deformazione della realtà, che è nato di recente né ha avuto bisogno dei moderni media per trovare un terreno fertile nella suggestione popolare. Un interessante articolo di T. Castle, Marie Antoinette­ Obsession, in «Representations», 38, 1992, pp. 1-38, dà esempi impressionanti delle pretese apparizioni di Maria Antonietta registrate da testimonianze tra Otto e Novecento e diagnosticate come manifestazioni di manie ossessive. 32   S. Bertière, Marie-Antoinette l’insoumise, De Fallois, Paris 2002.

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in quel contesto da Maria Antonietta vengono condensati in una risposta lapidaria – «Che mangino le brioche!» – semplice, facile da ricordare e che sintetizza da una parte i problemi del popolo – la fame e la mancanza di lavoro –, dall’altra la leggerezza e la mancanza di coscienza sociale della nobiltà. A poco a poco, la ripetizione della frase si è trasmessa e l’ha resa vera – fino al punto che feroci critiche si sono appuntate anche di recente verso libri di storia che non la menzionavano –, ha cancellato i problemi impliciti nell’esempio, ha neutralizzato la possibilità di potersi accostare alla complessità della storia e della vita di Maria Antonietta33. Un altro luogo comune storiografico vuole che il comportamento della regina abbia contribuito al diffondersi della protesta popolare un decennio prima dell’esplosione rivoluzionaria, screditando definitivamente la monarchia. Simon Burrows ha esaminato i pamphlet politico-pornografici che l’attaccavano, confutando le posizioni di storici come Robert Darnton34, Chantal Thomas35 e Lynn Hunt36 che hanno attribuito a queste accuse un ruolo decisivo nel minare la fiducia nella monarchia. Burrows ha dimostrato che nessuno degli attacchi alla regina, sebbene scritti e pubblicati attorno al 1780, circolò prima della presa della Bastiglia, quando furono divulgati per aizzare gli animi contro l’influenza nefasta di Maria Antonietta sulle scelte del marito e sulla sua inaffidabilità in quanto straniera37. Il fatto che la coppia rimase senza figli per sette anni non aiutò Maria Antonietta a guadagnare popolarità, tanto che, come abbiamo già visto, l’imperatrice intervenne più volte deplorando il fatto che il re e la regina dormissero separati. Burrows ha ripreso la tesi di Vivian Gruder, la quale ha esaminato la libellistica di pornografia politica negli stessi anni: in quel periodo vennero resi pubblici, tra gli altri suoi comportamenti 33   V. Campion-Vincent, C. Shojaei Kawan, Marie-Antoinette et son célèbre dire, in «Annales historiques de la Révolution française», 327, 2002, pp. 29-56. 34   R. Darnton, Libri proibiti: pornografia, satira e utopia all’origine della rivoluzione francese, Mondadori, Milano 1997. 35   C. Thomas, La Reine scélérate: Marie-Antoinette dans les pamphlets, Seuil, Paris 1989. 36   L. Hunt, The Many Bodies of Marie Antoinette: Political Pornography and the Problem of the Feminine in the French Revolution, in Eroticism and the Body Politic, a cura di L. Hunt, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1991, pp. 108-130. 37   S. Burrows, Blackmail, Scandal, and Revolution: London’s French «libellistes», 1758-92, Manchester University Press, Manchester 2006, pp. 151 sgg.

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moralmente ripugnanti, i presunti orientamenti omosessuali di Maria Antonietta, tendenze alle quali sarebbe stata attribuita la vana attesa di un erede al trono di Francia. Burrows ha sostenuto che questi scritti scabrosi trovavano un terreno fertile nell’ambiente aristocratico che circondava la regina, ma avevano poco impatto sulla gente comune e quindi, come sostiene anche Vivian Gruder, non è corretto fare riferimento ad essi come elementi decisivi della propaganda antimonarchica e del crescere di un odio popolare contro i sovrani38. Ma uno scandalo che fece molto scalpore investì la corte nel 1785, quando il gioielliere Charles-Auguste Böhmer chiese alla regina che gli fosse pagata una collana, acquistata per lei dal cardinale di Rohan, del valore di 1.600.000 lire39. Il gioielliere vi aveva impegnato tutto il suo capitale e da sei mesi aspettava di essere ricompensato. Si trattava di una macchinazione ordita dal cardinale e da Jeanne de Saint-Remy, contessa de la Motte, discendente da una linea spuria dei Valois, per screditare Maria Antonietta, la quale disse di non aver mai commissionato l’acquisto del gioiello, scandalosamente costoso; la regina agì contro i suoi nemici come ci si poteva aspettare. Il preziosissimo collier era stato ritirato dal cardinale di Rohan e poi consegnato alla contessa de la Motte, la quale l’aveva trafugato smontando e vendendo tutti i 647 diamanti che lo componevano e fuggendo poi col marito. Il cardinale era stato convinto 38   V.R. Gruder, Où va le révisionnisme? Perspectives politiques sur l’Ancien Régime, in «Annales historiques de la Révolution française», 310, 1997, pp. 567584, citazione a p. 578. Le accuse di omosessualità rivolte a Maria Antonietta ne hanno fatto in tempi recenti una figura popolare nella cultura gay. Su questo si veda Fraser, Maria Antonietta cit., che a p. 491 ricorda la citazione degli amori della regina e della principessa di Lamballe nel romanzo di Radclyffe Hall (pseudonimo di Marguerite Radclyffe-Hall), Il pozzo della solitudine (The Well of Loneliness), considerato il primo romanzo di orientamento esplicitamente lesbico, pubblicato originariamente nel 1928 e tradotto in Italia nel 1930. La prima interpretazione del rapporto fra Maria Antonietta e la principessa di Lamballe come legame di tipo sessuale risalirebbe alla poco nota Rose Laure Allatini, che nel 1918 pubblicò Despised­and Rejected, con lo pseudonimo di A.T. Fitzroy. Per questo si veda ancora l’ottimo articolo di Castle, Marie Antoinette Obsession cit., in particolare a p. 25. 39   F. Furet, La rivoluzione francese, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1991, usa a p. 40 l’espressione «lire tornesi» e ci dà un’idea della enormità del valore della collana offrendoci un termine di paragone: per l’abbigliamento di un anno dell’intera corte di Versailles si spendevano 100.000 lire.

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a partecipare all’impresa dalla intraprendente dama, la quale gli aveva esibito false firme della regina, e da una figura velata vestita come Maria Antonietta, che Rohan aveva incontrato di notte e che gli aveva frettolosamente consegnato una rosa come segno di riconoscimento. Stando a questa versione, anche il cardinale era vittima dell’inganno mentre la regina era convinta che tutto fosse stato ordito da lui, e lo aveva fatto arrestare. Il re, in appoggio alla moglie, lo fece processare dal Parlamento di Parigi, suscitando l’indignazione del clero, la vendetta del ceto dei togati e la reazione della famiglia dei Rohan. Il cardinale fu assolto e l’opinione pubblica trasse dalla rocambolesca vicenda la convinzione che tutta la responsabilità fosse della frivolezza e dell’amore sfrenato per il lusso di Maria Antonietta40. C’è poi l’ultima fase della vita della regina, quella della cattura e del martirio, sulla quale si sono fondati il suo riscatto e la sua leggenda malinconica, l’aura di eroina vittima della bestialità rivoluzionaria e la devozione dei cattolici di buon cuore. Anche per questa strada l’umanità di Maria Antonietta rimane inafferrabile. Lynn Hunt, a proposito della sua esecuzione, ha parafrasato la definizione di Kantorowicz parlando della sua morte non in riferimento ai due corpi dell’uomo e del re – il primo effimero, il secondo «politico» e immortale – ma a un corpo «misterioso» che non permette di attribuire alcuna sacralità oltre la vita alla sovrana ma che si manifesta, come ha intuito Louis Marin, dando di Kantorowicz una lettura più libera41, nei simboli dell’iconografia e nella trasfigurazione letteraria. Il corpo della regina è innanzitutto un crocevia di segni intenzionalmente offerti all’immaginazione dei sudditi: questo corpo dove40   La vicenda è diventata oggetto della letteratura romanzata a iniziare da A. Dumas padre, autore di La collana della regina, pubblicato nel 1850; ma si veda anche F. Funck-Brentano, L’affaire du collier, Hachette, Paris 1901, che esalta questo scandalo come preludio alla rivoluzione e dedica il libro ad Albert Sorel. Un lavoro recente ben documentato è quello di B. Craveri, Maria Antonietta e lo scandalo della collana, Adelphi, Milano 2008. Quanto alla maggior parte delle biografie più popolari, in esse prevale la caratterizzazione della regina come leggera e frivola, ma sostanzialmente immune da colpe per la sua stessa mediocrità, capace di essere grande solo nel momento della disgrazia. Il modello ancora più seguito è quello di S. Zweig, Maria Antonietta. Una vita involontariamente eroica, Mondadori, Milano 1933. 41   L. Marin, Le portrait du roi, Éditions de Minuit, Paris 1981.

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va solleticare la fantasia popolare sulla ambigua regalità femminile e aveva sia un significato politico sia una attrattiva erotica. La giovane austriaca aveva manifestato insieme ribellione e soggezione alle regole di corte. La sua insofferenza all’etichetta, accoppiata con il suo coinvolgimento entusiasta e maldestro nei piccoli e grandi intrighi di palazzo, furono le condizioni che lei stessa creò per diventare un facile bersaglio di attacchi e di libelli pornografici che ne svilirono il ruolo politico di consorte del re, mentre la sua sovresposizione in pubblico oscurò l’immagine dello stesso Luigi XVI. Il Terrore, da parte sua, riprendendo la pamphlettistica precedente e amplificandola per aizzare l’odio contro di lei e contro la monarchia, ha rappresentato Maria Antonietta in una veste così orribile che la stessa regina ne fu soggiogata, finendo per aver paura di se stessa. Questo cambiamento è simbolicamente rappresentato dal sacrificio della sua bellezza seduttiva, colto da David prima del rituale dell’esecuzione. Nello stesso modo, la sua condanna come austriaca e straniera la privò dei benefici che le erano stati elargiti a quattordici anni quando fu accolta festosamente appena giunta a Parigi42. A proposito della sua debolezza – dovuta al fatto che Maria Antonietta non era perfettamente assimilata al regno e non si dimostrava all’altezza dei progetti di alleanze dinastiche – Fanny Cosandey ha osservato che la valenza negativa dell’estraneità della principessa crebbe di pari passo con l’irritualità dei suoi comportamenti rispetto alle tradizioni di corte e ha proposto un’altra accezione della metafora della debolezza del corpo della regina, questa volta declinata nella non coincidenza, nella sua persona, delle due diverse appartenenze nazionali, quella di origine e quella acquisita: La debolezza della regina di Francia deriva dal fatto di essere mantenuta all’interno di un duplice registro, di sovrana e di suddita, di identità francese e di radici straniere. In questo caso, a ritrovare le proprie origini e la propria identità non è tanto la regina come figura regale, quanto la regina come vivente, come persona. Questo aumenta la sua esposizione perché rende meno legittimo il posto che occupa. Ricordare il suo essere straniera può allora facilmente volgere a suo danno [...] tutte [le] condotte irregolari [che sono] riconducibili al carattere di straniera della regina.   Saint-Amand, Terrorizing Marie Antoinette cit., pp. 388 sgg.

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La stessa cosa d’altra parte era già avvenuta per Caterina e Maria de’ Medici e per Anna d’Austria43. Chantal Thomas ha pubblicato un libro in occasione del secondo centenario della Rivoluzione44 – quando si moltiplicarono le ricerche al femminile su quegli eventi45 – che riprendeva per vari aspetti molta letteratura precedente, in particolare ritornando sui pamphlet che sono all’origine della fama di scelleratezza della regina. È quasi impossibile trovare saggi dedicati a Maria Antonietta che non affrontino il problema della enorme manipolazione politica della sua immagine: proprio la sua distorsione, peraltro, ha reso praticamente ininterrotta la ripresa, nella letteratura storiografica, soprattutto biografica, degli stessi temi e argomentazioni. Pregiudizi ideologici o un’eccessiva simpatia o antipatia per il personaggio hanno continuato a proporre letture specularmente diverse ma sempre uguali di documenti che sono sostanzialmente gli stessi da oltre due secoli: lettere private e ufficiali, relazioni diplomatiche, testimonianze di contemporanei, atti di processi (come quello contro il cardinale di Rohan). L’enfasi cade così a seconda dei casi sulla corruzione di un sistema politico che stava crollando, sull’esemplare compunzione e la santa rassegnazione di Maria Antonietta davanti al patibolo, sulla sua innocenza e sulla sua semplicità di cuore fraintese e corrotte dalla tentacolare Parigi (malgrado le pressanti raccomandazioni dell’imperatrice), sulla sua vera o presunta bisessualità, su cui come abbiamo visto è stato scritto dall’inizio del Novecento e che è stata riscoperta ai giorni nostri per avvalorare una politica di riconoscimento dei diritti dei gay. Certo, come scrivono in molti, i libelli hanno «costruito» Maria Antonietta finendo per condizionarla: non a caso Chantal Thomas non parla di storia, ma di «mito» di Maria Antonietta, paragonandola a Lady Diana, vittima della sovraesposizione mediatica e del suo stesso glamour. Come esempio di superamento della fatica di uscire dai binari tradizionali e dalla difficoltà di tro43   F. Cosandey, Francese o straniera? La regina di Francia tra dignità regale e successione ereditaria, in «Genesis», 1, 2002, 1, pp. 35-60, citazione alle pp. 59-60. 44   Thomas, La Reine scélérate cit. 45   Si veda ad esempio C. Marand-Fouquet, La femme au temps de la Révolution, Stock-Laurence Pernoud, Paris 1989.

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vare una soluzione non psicologizzante e sentimentale al dilemma «storia o mito», «biografia letteraria o ricostruzione storica», ho scelto alcune frasi di Benedetta Craveri: la scrittura dell’autrice è suggestiva e solo questo riesce a ricomporre nel suo testo una frattura che continua ancora a tener lontana Maria Antonietta dalla sua concretezza di persona e di regina: Limitiamoci a una semplice constatazione. Mentre la libellistica rivoluzionaria inseriva la cittadina Capeto, accanto a Messalina, ad Agrippina, a Fredegonda e a Caterina de’ Medici, nella lista delle regine scellerate, Maria Antonietta, di fronte alla prova di una via crucis a cui nessuna sovrana francese era mai stata sottoposta, rivelava di possedere tutte le virtù che avevano connotato le regine esemplari della tradizione giudaico-cristiana – quelle virtù che due secoli prima il celebre padre Caussin aveva celebrato nella Cour sainte per incitare le donne ad essere forti: la dedizione alla famiglia, la dignità, il coraggio, la costanza nelle avversità, la determinazione, l’eloquenza [...]. Fu come regina e martire cristiana che Maria Antonietta, unica eletta della lunga schiera di sovrane che si sono succedute sul trono di Francia, diventò negli anni della Restaurazione oggetto di un culto che resiste tenacemente a tutte le revisioni storiche. Era entrata nel mito prima ancora di morire, nel tragitto che la conduceva dalla Conciergerie alla Piazza della Ghigliottina: ma la smorfia che David fissò sulla carta è ancora lì a testimoniare che, non meno potente delle virtù cristiane, il disprezzo aveva armato fino alla fine il coraggio di una autentica Asburgo46.

Un’altra considerazione che s’impone è che, mentre sovrane come Elisabetta Tudor, Caterina e Maria de’ Medici e molte altre, ma soprattutto Maria Teresa, ebbero un controllo sull’immagine che offrivano di loro stesse e della propria regalità, la figlia dell’imperatrice si mise in balia di una opinione pubblica che non fu mai in grado di influenzare, lasciandosi «cucire addosso» immagini diverse. Allo stesso modo, Maria Antoniettta non seppe neppure approfittare dell’occasione che tutte le regine consorti si erano riservate: stringere rapporti di patronage e clientelari da poter giocare a proprio vantaggio.

46   B. Craveri, Amanti e regine. Il potere delle donne, Adelphi, Milano 2005, pp. 372-373, 375.

Per concludere Il fascino indiscreto della biografia Nel XIX secolo la scena europea e internazionale è dominata – come già era accaduto tre secoli prima con Elisabetta I – da una regina sui juris, Vittoria, la quale ereditò la corona inglese a diciotto anni, per una serie di coincidenze fortuite, e la mantenne per lunghissimo tempo, stabilendo un record di permanenza al governo dell’Inghilterra che è stato quasi eguagliato nel nostro secolo da un’altra sovrana sui juris, Elisabetta II. Il padre di Vittoria era Edoardo, duca di Kent, quartogenito di re Giorgio III. I suoi fratelli maggiori non ebbero figli che potessero succedere al padre, e quando questi morì Edoardo fece un matrimonio tardivo – aveva cinquant’anni – con la principessa di Sassonia-CoburgoSaalfeld. A otto mesi dalla nascita di Vittoria – che fu battezzata Alexandrina Vittoria in onore dello zar Alessandro e chiamata in famiglia Drina, anche se negli atti pubblici figura sempre come Vittoria – morirono successivamente, a distanza di pochi giorni, suo padre Edoardo e suo nonno, re Giorgio. Erede del trono inglese fu Giorgio IV, primogenito di Giorgio III e zio di Vittoria. Sebbene la bambina avesse molte possibilità di salire a sua volta sul trono d’Inghilterra, non fu preparata a farlo dall’educazione che le venne impartita dalla sua inflessibile madre, la quale aveva un’opinione ristretta su quello che convenisse o non convenisse a una donna. Certo, Drina prese lezioni di musica e di danza e imparò, oltre al tedesco, l’inglese; diventata adolescente, era in grado di esprimersi anche in italiano e in francese. Il 26 giugno 1830 re Giorgio IV morì e gli successe un altro zio di Vittoria, che assunse il nome di Guglielmo IV. Questo evento avvicinava ancora di più l’undicenne Drina al trono e l’Inghilterra all’eventualità che una regina bambina

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fosse incoronata. Per evitarlo il Parlamento votò preventivamente, nel 1831, il Regency Act con il quale si assegnava, in caso di morte improvvisa di re Guglielmo IV, la reggenza alla duchessa vedova di Kent, madre di Vittoria. L’educazione della figlia continuò ad essere sorvegliata in maniera opprimente da lei che, malgrado il suo destino fosse ormai chiaro, non le concesse di prendere familiarità con gli ambienti di corte né di ingerire nelle questioni politiche. In compenso, la giovane Vittoria poteva coltivare le sue fantasie sul passato leggendo volumi di storia e soprattutto romanzi storici, tra i quali prediligeva quelli di sir Walter Scott. Il 13 luglio 1837, alla morte dello zio Guglielmo IV, Vittoria lasciò il palazzo di Kensington per trasferirsi a Buckingham Palace come regina. L’incoronazione solenne sarebbe avvenuta però solamente un anno dopo, il 28 giugno 1838, per osservare il periodo di lutto in rispetto del re defunto. Dall’inizio del suo apprendistato come sovrana, Vittoria si consultò e seguì i consigli dello zio, re Leopoldo del Belgio, supplendo alla sua iniziale inesperienza nelle questioni di Stato. Intanto continuava a coltivare la sua passione per i romanzi: fra le sue letture più amate figura Olivier Twist di Charles Dickens1. Due anni dopo la regina sposò Alberto di Sassonia-CoburgoGotha. Ronald Marx ridimensiona la leggenda, alimentata dalla stessa vedova dopo la morte dello sposo, di un immediato colpo di fulmine fra i due che invece non sarebbe stato così folgorante nei loro primi incontri: lo nega lo stesso Lytton Strachey, il quale anzi afferma che il loro rapporto fosse, soprattutto da parte del principe, piuttosto freddino2. Quello che importa, comunque, è che Vittoria fosse ben padrona di se stessa, tanto da porre dei limiti precisi alle ingerenze del marito nel governo, al punto che, come afferma lapidariamente Strachey, Alberto «politicamente non contava [...]. Negli affari di Stato non pareva che vi fosse posto per lui» anche secondo la costituzione inglese, e la regina stessa «sperava che egli sarebbe stato un marito perfetto, ma che, 1   R. Marx, La regina Vittoria e il suo tempo, Il Mulino, Bologna 2001, p. 58. Di questa eccellente biografia storica mi sono avvalsa ampiamente anche in altri passaggi. 2   Ivi, pp. 62-64; L. Strachey, La regina Vittoria, Mondadori, Milano 1985 (ed. orig. 1921), p. 91-98.

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quanto a governare il paese, avrebbe riconosciuto che lei e Lord M[elbourne] potevano sbrigare benissimo la faccenda senza il suo aiuto»3. Fu solo col tempo che il timore di Vittoria di perdere le proprie prerogative venne a ridursi di molto, e come conseguenza della caduta in disgrazia di Lord Melbourne e l’ascesa di Lord Peel crebbe l’influenza di Alberto nella vita pubblica4. Tuttavia, solo nel 1857 si deciderà a conferirgli il titolo di principe consorte. Tanto più stupisce constatare che, per tutta la durata del suo regno, si sia ostinatamente rifiutata di prendere atto delle rivendicazioni delle donne, le quali chiedevano maggiore libertà e indipendenza all’interno della famiglia e della vita pubblica5.

In realtà, l’atteggiamento di Vittoria si spiega considerando quanto fosse elitario il movimento femminista e come a lei premesse non assumere atteggiamenti che potessero minare il largo consenso di cui godeva6. Ronald Marx cita una bellissima riflessione scritta dalla regina nel 1856 accingendosi a conferire al marito un riconoscimento ufficiale, che però non era previsto dalla costituzione inglese: in contraddizione con quanto deliberava sui diritti delle mogli del re, lo sposo della regina in carica è totalmente ignorato dalla legislazione. La cosa appare ancora più straordinaria se si pensa che il marito, nel nostro paese, dispone di larghissimi diritti e poteri sulla moglie e che la regina, sposandosi come qualunque altra donna, promette obbedienza al suo signore e padrone mentre questi, giuridicamente, non ha un rango e una posizione definiti. [Dopo aver riflettuto per sedici anni] sono giunta alla conclusione che al consorte della regina dovrebbe essere assegnato una volta per tutte il titolo che ognuno oggi gli attri  Strachey, La regina Vittoria cit., p. 103.   Ivi, p. 127. Le barriere poste dalla regina avevano cominciato a cedere dopo il primo parto e nel novembre 1840 Vittoria aveva cessato di mettere in discussione il diritto di Alberto ad accedere ai segreti di Stato. Anzi, ricorse sempre più spesso a lui per alleviare il peso delle incombenze più delicate nei periodi critici delle sue frequenti maternità (Marx, La regina Vittoria e il suo tempo cit., p. 68). 5   Marx, La regina Vittoria e il suo tempo cit., p. 71. 6   Sulla reazione rabbiosa e feroce di Vittoria nel 1870, in occasione di un grande meeting di suffragiste, si veda Marx, La regina Vittoria e il suo tempo cit., pp. 367 sgg. 3 4

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buisce, e cioè quello di «principe consorte», unitamente al rango più alto dopo la regina e prima di ogni altro principe di sangue reale, sia nel Parlamento che fuori [...]. La regina ha il diritto di chiedere che il suo sposo sia inglese, che porti un titolo inglese e disponga di uno status giuridico, così che lei stessa non sia costretta a difenderlo, con tutto l’ardore di una moglie, dall’accusa di usurpazione a danno dei suoi stessi figli, dei sudditi e delle corti straniere7.

Nonostante il marito continuasse ad essere subordinato a lei come sovrana e fosse legato formalmente al ruolo di principe consorte, nella sfera domestica l’amore, o l’immagine dell’amore e dell’affiatamento che la coppia rifletteva all’esterno, divennero altrettanti elementi di consolidamento della monarchia. Con l’affermazione dei whigs sui tories Vittoria divenne il simbolo vivente delle classi medie che provavano viva simpatia per questo matrimonio d’amore, per questa famiglia che riuniva i pregi della regalità e della virtù, e in cui sembrava loro di vedere riflessa in un fulgido specchio l’immagine ideale della stessa loro vita [...] al confronto con l’orario mattutino, la regolarità della vita, i colletti lisci, i giochi innocenti, l’arrosto e la focaccia dello Yorkshire che si usavano a Osborne8,

la residenza prediletta della famiglia reale. La vita privata della regina, nella sua abilissima orchestrazione della propria immagine, divenne il modello dei valori borghesi della famiglia e dell’amore domestico. Fu così che Vittoria – insofferente prima del giogo materno, di cui si era subito liberata diventando regina, e poi gelosa della sua autonomia nei confronti del marito – si prestò a farsi rappresentare come austera matrona e sposa devota. Come nel caso dell’Elizabethan Age, l’epoca vittoriana rappresentò un periodo di particolare euforia e di innovazioni epocali, che portò qualcuno dei contemporanei a parlare di un «secondo Rinascimento». In realtà, luci e ombre si confondevano in un paese dal pauperismo dilagante e dall’ossessiva paura del crimine. Ma negli ultimi anni Vittoria sembrava lontana da quei generi letterari 7 8

  Ivi, pp. 123-124.   Strachey, La regina Vittoria cit., p. 130.

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di largo consumo che l’avevano messa almeno indirettamente in contatto con le sofferenze della popolazione. Lasciato da parte Charles Dickens, la regina non si preoccupava delle condizioni materiali dei suoi sudditi, anzi si spinse fino a sconfessare provvedimenti per migliorare le condizioni dei braccianti9. Il suo regno fu comunque una svolta dal punto di vista del riconoscimento del diritto delle donne a succedere al trono per diritto proprio. Vittoria infatti manifestò convinzioni sullo stile di governo e sulle attitudini rispetto al matrimonio e al ruolo del consorte di una donna regnante molto diverse da quelle che avevano caratterizzato i secoli che l’avevano preceduta. E non è un caso che sia proprio dall’«età vittoriana» che la biografia storica conobbe una fortuna popolare mai raggiunta prima. Sull’onda del successo di La regina Vittoria di Lytton Strachey nacque infatti un genere letterario che ha un valore ambivalente: nel caso di Strachey, quello di serissima e piacevole divulgazione, in molti altri casi quello di messa in scena della vita privata delle sovrane, delle reggenti e delle donne di potere. La cultura europea per molto tempo ha sottovalutato come episodi marginali non solo molte esperienze di governo di regine o reggenti, ma la biografia romanzata le ha rese di pubblico dominio, contribuendo però a far smarrire molte piste di ricerca sui contesti politico-istituzionali nei quali quelle esperienze si sono realizzate. Nella tradizione culturale italiana la biografia storica è poco rappresentata. Anche in questi ultimi anni l’offerta del mercato è consistita prevalentemente in traduzioni di opere straniere. L’industria editoriale diffonde però prodotti di livello molto diverso, provocando un certo disorientamento nel pubblico più avvertito e giocando sulla eterogeneità degli interessi che possono essere catalizzati dal racconto di una vita – dalla richiesta di un raffinato scavo psicologico al gusto del particolare piccante. Un settimanale di grande tiratura parecchi anni fa propose a un campione di lettori La regina Vittoria di Strachey. La maggioranza lo giudicò un «classico», un «modello definitivo del genere biografico», ma ci fu anche chi manifestò una reazione infastidita. «Una biografia questa? Diciamo piuttosto un pettegolezzo, un’informazione 9

  Marx, La regina Vittoria e il suo tempo cit., pp. 297-298.

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spicciola sull’epoca vittoriana che dal punto di vista storico offre ben poco»10. Questa radicale divergenza di vedute espressa dai lettori di un periodico rivolto a un pubblico per la maggior parte di discrete letture e di orientamento genericamente progressista rispecchiava una caratterizzazione del genere riconducibile a due modelli contrapposti: quello, screditato, della letteratura biografica di consumo, e quello, «scientifico», del saggio biografico-politico. Il modello del saggio biografico-politico italiano può essere già riconosciuto nella definizione crociana della biografia «veramente» storica, contrapposta alle pseudo storie «poetiche»11. Almeno due allievi di Croce (Federico Chabod in modo provocatorio, Delio Cantimori attraverso una riflessione complessa sui rapporti tra teoria e pratica nell’insegnamento di Croce), attribuivano a un’opera minore del maestro, la biografia del marchese di Vico, un valore esemplare12. Al disprezzo di Croce per i compilatori di biografie pseudo storiche – «servi che non si levano a fissare in viso la padrona, alla quale pure spazzano le vesti», più che probabile allusione allo stesso Strachey – si può far risalire l’assenza di ogni apertura divulgativa nella storiografia italiana. In Italia, infatti, la popolarità crescente della biografia non ha facilitato il confronto tra cultura accademica e circuiti di divulgazione storiografica. L’assenza del modello di narrativa biografica che, soprattutto nel mondo anglosassone, è strumento della migliore tradizione divulgativa, conferma il pregiudizio «scientifico» che lo assimila agli esempi più squalificati del genere: il racconto scandalistico e aneddotico, la banalizzazione psicologizzante, la retorica encomiastica. Dagli anni Cinquanta in Italia le condizioni, e la stessa legittimità, del riconoscimento della biografia come genere storiografico, piuttosto che controverse, potevano sembrare 10   La citazione si riferisce alla rubrica Wimbledon del «Venerdì» di «Repubblica» pubblicato il 13 maggio 1988. L’occasione dell’articolo era una ristampa di La regina Vittoria (Mondadori, Milano 1985). Come introduzione al libro era stato riedito anche il saggio di V. Woolf, L’arte della biografia. 11   B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari 1954 (7a ed.), p. 28. 12   D. Cantimori, Storia e storiografia in Benedetto Croce, in Storici e storia, Einaudi, Torino 1971, pp. 397-409. Sulla provocazione di Chabod, che avrebbe affermato di Croce che era stato un vero storico solo come autore di saggi biografici, si vedano in particolare le pp. 102 sgg.

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questioni accantonate come intramontabili ma inequivocabilmente fuori moda. Anche gli occhi inglesi di Edward H. Carr, del resto, si soffermarono di sfuggita sulla storiografia del cattivo re Giovanni e della buona regina Bettina, debolezza di anziane signorine13. D’altra parte la voga della biografia, al massimo della sua fortuna negli anni Trenta del Novecento, era ancora considerata, retrospettivamente, sinistra, perché in essa si erano incrociate l’immaturità culturale delle masse e la perdita di schemi interpretativi delle élites intellettuali travolte da segnali allarmanti. «Si è creduto di liquidare sbrigativamente come una moda la tendenza al genere della biografia», scriveva Kracauer sulla «Frankfurter Zeitung», nel 1930. «Le sue cause vanno ben oltre la moda, sono piuttosto da ricercare negli avvenimenti della storia mondiale degli ultimi quindici anni»14. Croce pensava che il successo dei libri di Emil Ludwig, prolifico autore tedesco di biografie, e dei suoi imitatori nascesse da «un certo indebolimento e infrivolimento mentale, che la guerra ha prodotto nel mondo», e che non meritasse attenzione15. Per Gramsci, come per Kracauer, il fenomeno sollevava invece la questione dei rapporti tra élites intellettuali e cultura di massa: «Nel dopoguerra è affiorato al mondo della cultura e dell’interesse per la storia uno strato sociale abbastanza importante, del quale gli scrittori tipo Ludwig sono l’espressione letteraria». La fortuna della «belletristica storica», delle opere dilettante  E.H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966, pp. 50-61.   S. Kracauer, La biografia come forma d’arte della nuova borghesia, in La massa come ornamento, Prismi, Napoli 1982, p. 143. 15   L’intervento di Croce sulla «Critica» del 1930 è citato da A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 688. Di Ludwig, Gramsci conosceva la biografia di Guglielmo II nella traduzione francese del 1927 (cfr. Quaderni del carcere cit., vol. IV, p. 2527) e la versione italiana dei Colloqui con Mussolini, pubblicata da Mondadori nel 1932 (tra i libri del Fondo Gramsci, cfr. Quaderni del carcere cit., vol. IV, p. 3133). Di Strachey compare, tra i titoli del Fondo, la seconda edizione della traduzione italiana della Regina Vittoria, del 1932 (cfr. Quaderni del carcere cit., vol. IV, p. 3138). La Vie de Disraeli di André Maurois (Gallimard, Paris 1927) è citata più volte nei Quaderni (cfr. Quaderni del carcere cit., vol. IV, pp. 2635, 2761, 2978). Nel 1930 Gramsci scriveva: «L’ultimo tipo di libro popolare è la Vita romanzata [...]. Anche questa letteratura non ha in Italia rappresentanti [...] o almeno non sono paragonabili per numero, fecondità, e anche dati di piacevolezza letteraria ai francesi, ai tedeschi, agli inglesi. Il letterato italiano non scriverebbe una biografia romanzata senza inzepparla di stucchevoli pezze d’appoggio retoriche» (Quaderni del carcere cit., vol. I, p. 358). 13 14

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sche disprezzate da Croce, si imponeva all’attenzione e suscitava un interrogativo: «Il fenomeno Ludwig significa progresso o regresso intellettuale?». Per Gramsci tale fortuna denunciava un salto di qualità nei gusti del pubblico, che in Italia aveva avuto come unico accesso alla storia i romanzi di Dumas e di Hugo. Il fenomeno, però, poteva essere considerato un successo a condizione che servisse a mettere in discussione rapporti reciproci tra cultura accademica e divulgazione storiografica16. Tra il 1911 e il 1938 nella sola Germania le biografie popolari di Ludwig furono diffuse in 1.200.000 copie; all’estero erano abbastanza note, tanto che i doganieri inglesi chiesero al giovane Mosse se la sua professione di storico facesse di lui «un altro Emil Ludwig»17. Nel 1918, quando Strachey pubblicò Eminent Victorians, Virginia Woolf riconobbe che i ritratti che il suo amico Lytton aveva dato alle stampe avevano suscitato molte discussioni e che conservavano ancora «qualcosa dell’enfasi esagerata e dello scorcio della caricatura», ma era stata la prima prova, dalla quale l’autore sarebbe partito per misurare «tutte le libertà che la biografia si era conquistata»18. Questa apertura, se mai c’era stata, era destinata a durare solo un decennio, non oltre il momento della massima affermazione. Nel 1941 la moda delle biografie storiche stava passando: «Sembra che il loro orribile tanfo abbia finito col mettere in fuga i lettori»19. Forse la ragione del successo delle biografie sta nella comune dignità di classici inattuali, continuamente riproposti sul mercato editoriale, e Strachey può essere considerato un modello del genere.   Gramsci, Quaderni del carcere cit., vol. II, pp. 688-689.   G.L. Mosse, Il dialogo ebraico-tedesco. Da Goethe a Hitler, Giuntina, Firenze 1988, p. 41. 18   V. Woolf, L’arte della biografia, prefazione a Strachey, La regina Vittoria cit., pp. vi-viii. 19   L. Febvre, Come ricostruire la vita affettiva di un tempo: la sensibilità e la storia, in Studi su Riforma e Rinascimento e altri scritti su problemi di metodo e di geografia storica, Einaudi, Torino 1966 (ed. orig. 1938 e 1941), pp. 509-510. Il libro di Febvre nel quale l’attenzione alla psicologia del personaggio è più accentuata, quasi esasperata è Amor sacro, amor profano. Margherita di Navarra: un caso di psicologia nel ’500, Cappelli, Bologna 1980. L’obiettivo dichiarato è «tirar fuori una persona viva», «cogliere il riflesso di un’anima», contemplare «lo spettacolo» della vita degli uomini e delle donne del passato. Nell’introduzione all’edizione italiana Adriano Prosperi ha rilevato i limiti di questa ricerca (in particolare a p. 17), come già aveva fatto Delio Cantimori (Storici e storia cit., pp. 213-254). 16 17

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Lo Strachey, naturalmente, della Regina Vittoria, dove «aveva trattato la biografia come una tecnica», dove si era sottomesso «alle condizioni», attenendosi scrupolosamente ai documenti e ai fatti, dove aveva esaurito le possibilità della biografia «classica». Virginia Woolf immaginava già quali nuovi percorsi avrebbero potuto essere aperti: Poiché viviamo in un’epoca in cui sono puntate mille macchine fotografiche, da giornali, lettere e diari, su ogni personaggio da ogni angolo, il biografo dev’essere pronto ad ammettere versioni contraddittorie dello stesso volto. La biografia allargherà il proprio campo appendendo specchi ad angoli obliqui. Eppure da tutta questa diversità porterà fuori non un’orgia di confusione, ma un’unità più ricca. E di nuovo, poiché si sa tanto che prima era sconosciuto, la domanda che inevitabilmente ora si pone è se si debbano registrare solo le vite dei grandi. Non è degno di biografia chiunque abbia vissuto una vita, e ne abbia lasciato un documento – chi fallì come chi ebbe successo, gli umili come gli illustri? E che cosa è la grandezza? E che cosa la piccolezza? Il biografo deve rivedere i nostri criteri di merito e proporre alla nostra ammirazione nuovi eroi20.

Negli ultimi anni la ricerca si è inoltrata in queste direzioni, modificando il discorso storiografìco, oltrepassando il problema dei rapporti tra biografia e storia e rendendo sempre più labile la distinzione dei generi come criterio discriminante di una specifica scientificità disciplinare. Quanto al problema della divulgazione, le discussioni sulle integrazioni possibili di linguaggi diversi sembrano aprire nuove prospettive anche sul piano della comunicazione. La valorizzazione delle possibilità offerte dalla narrazione storica ha scardinato le distinzioni gerarchiche che separavano lo specifico terreno dell’indagine storiografica da quelli riservati ai generi «minori». La narrazione biografica, come la narrazione dell’evento singolo, sono modalità possibili di ricostruzione della complessità dei processi sociali. Eppure, le riflessioni che il dibattito italiano degli anni Ottanta sulla biografia aveva sollecitato mi sembrano ancora estremamente attuali, anche alla luce delle tante cose che si sono scritte e dette nel frattempo21.   Woolf, L’arte della biografia cit., p. 12.   C. Casanova, Il revival biografico: tra autori e lettori, in «Movimento operaio e socialista», 1-2, 1989, pp. 119-128. 20 21

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Già nel 1994 Bernard Pudal parlava di «inflation methodologique» e di un gran chiacchierare di biografie, più che produrne22. Agli esordi del XXI secolo, tuttavia, anche in Francia la «belletristica» saturava il mercato rispondendo a una domanda di storia che evidentemente trovava degli estimatori con gusti non diversi dal passato o da altre realtà culturali nazionali23. Chiedendosi come classificare questa produzione diversificata, atomizzata, quasi impossibile da circoscrivere a un genere univoco, Daniel Madelénat finiva per riproporre il vecchio dualismo tra la continuità con la biografia tradizionale e un fenomeno nuovo, una biografia postmoderna trasversale ai confini disciplinari, al punto da essere definita trasgressiva (anche politicamente) e intrusiva nel geloso recinto del privato che è tornata in auge come «histoire par cas» o «case-history»24. Recentemente, negli Stati Uniti, nel corso di una tavola rotonda, sono stati presentati contributi fortemente orientati da una dichiarata militanza femminista. Si tratta di interventi che esprimono scelte teoriche e di metodo che da una parte riprendono la distinzione fra biografia accademica e «belletristica», dall’altra declinano la nuova biografia degli anni Novanta accentuandone il carattere interdisciplinare, ma non tanto in relazione alla ricostruzione storica del contesto culturale dei personaggi quanto piuttosto a quella letteraria e psicanalitica, e soprattutto in quanto influenzata «by feminist, postmodern, and race theorists»25.

22   B. Pudal, Du biographique entre «science» et «fiction». Quelques remarques programmatiques, in «Politix», 7, 1994, 27, pp. 5-24: «Les contributions méthodologiques et épistémologiques sur ‘la/les’ biographies sont aujourd’hui légion à tel point qu’on peut s’étonner du /déséquilibre entre les travaux de recherche et les prises de position théoriques ou méthodologiques dont elles font l’objet» (pp. 6-7). 23   D. Madelénat, La biographie aujourd’hui: frontières et résistances, in «Cahiers de l’Association internationale des études françaises», 52, 2000, pp. 153-168: «Les biographies nous assaillent et nous racolent; en crue, elles inondent les présentoirs des librairies, s’imposent au ‘hit parade’ des meilleures ventes, donnent lieu à colloques, dossiers de revues, débats et disputes dans la grande presse» (p. 153). 24   Ivi, pp. 155, 158, 164. Si veda anche G. Piketty, La biographie comme genre historique? Étude de cas, in «Vingtième Siècle. Revue d’histoire», 63, 1999, pp. 119-126. 25   Tra i numerosi contributi pubblicati dall’«American Historical Review», 114, 2009, 3, segnalo quelli di Lois W. Banner, Biography as History, pp. 579-586 (dal quale è tratta la citazione, p. 580); di Kate Brown, A Place in Biography for Oneself, pp. 596-605; di Barbara Taylor, Separations of Soul: Solitude, Biography, History, pp. 640-651; di Robin Fleming, Writing Biography at the Edge of History,

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Quanto di più lontano dal mio tema, ma pur sempre una recente legittimazione a riproporre profili biografici come chiave di lettura di specifici contesti storici e a scavare nelle «diversità» e nelle «devianze» di donne che uscirono dai limiti dei loro ruoli. Tra le tante voci che nel Duemila avevano ripreso a discutere sulla biografia, lo storico anglo-francese Robert J. Knecht, dichiarandosi equidistante tra le sue due patrie, aveva sottolineato, con poche fumosità e molta concretezza, alcuni aspetti dei problemi comuni alla storiografia francese e a quella italiana: se da un lato, infatti, in Inghilterra la biografia storica rimane circoscritta a un pubblico di media cultura e quindi ristretto, in Francia – come in Italia – si rivolge a un mercato di più largo consumo. Inoltre, gli inglesi amano la storia solo a patto che non sia troppo noiosa. A lungo gli storici francesi che hanno avuto come riferimento la veneranda rivista «Annales» si sono limitati, da parte loro, a lasciare la biografia ai divulgatori che, assai numerosi, sono stati capaci di soddisfare i gusti più popolari. Quanto agli italiani, la saldatura tra divulgazione e cultura storiografica è riuscita solo di rado. D’altra parte, realizzare tale saldatura non è facile. Le individualità non si lasciano afferrare e dunque la biografia deve tentare di districarsi tra un’accozzaglia di maldicenze e di adulazioni che si sono accumulate nel corso dei secoli. Se non rimane aderente alle fonti e non le vaglia con rigore critico, la biografia storica non farà che ripetere delle frottole. La prima vittima di questa deformazione citata da Knecht è Francesco I, ma Caterina de’ Medici, che è stata perseguitata da una stampa contemporanea molto malevola, è la seconda. Come italiana e «borghese» – la famiglia de’ Medici non faceva parte della ristretta cerchia dei sovrani europei –, Caterina era un bersaglio perfetto degli attacchi misogini, xenofobi e dello snobismo aristocratico. La pretesa «leggenda nera» è emblematicamente rappresentata dai Discours merveilleux de la vie, actions et déportements de Catherine de Médicis, Royne mère, pubblicati nel 1574 da un anonimo, mai identificato. Si tratta probabilmente di un mécontent, di un insoddisfatto che desiderava un accordo fra ugonotti e cattolici moderati. Il suo ritratto di Caterina, anche pp. 606-614. Dello stesso anno si veda anche la breve riflessione di Alice KesslerHarris, Why Biography?, in «The American Historical Review», 114, 2009, 3, pp. 625-630.

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se poco verosimile, ha avuto tuttavia una grande influenza sulla storiografia posteriore. La Reine Margot di Dumas e l’Histoire de France di Michelet nell’Ottocento sono stati i tramiti fra quella pamphlettistica denigratoria e molte recenti biografie. Negli ultimi anni parecchi storici si sono impegnati a riabilitare la regina madre, ma secondo Knecht si sono spinti troppo oltre, senza chiedersi se i Discours fossero del tutto privi di fondamento: Caterina resta una figura discussa, certamente non una santa, e anche oggi dobbiamo resistere alla tentazione della parzialità, attingendo a nuove fonti o rileggendo in altro modo quelle disponibili26. Il dibattito sul valore della biografia per la comprensione del passato, tuttora in corso, non ha evitato il recupero in chiave melodrammatica e romanzata di vite di donne illustri diffuse nel secondo Ottocento: un recupero che ha solo reso più pesante il silenzio calato sul loro ruolo pubblico, mettendo in scena gelosie, dolori, amori, tradimenti vissuti più o meno segretamente nello spazio della corte. Per alcune figure come Caterina de’ Medici, ma anche per altre donne di potere, rappresentate dai contemporanei, con intenti ora encomiastici ora calunniosi, come esponenti tipiche dei vizi o delle virtù femminili, ancora oggi rimangono nella valutazione corrente – alimentata dalla pubblicazione e ripubblicazione di ricostruzioni biografiche spesso ripetitive e scadenti – gli strascichi di antichi pregiudizi sulla loro incapacità «per natura» di gestire il potere. Eppure, da almeno trent’anni la storiografia internazionale, e più di recente anche quella nazionale, hanno prodotto solidi lavori biografici radicati sulle fonti e sulla decostruzione storica delle immagini encomiastiche, polemiche o semplicemente pettegole prodotte a caldo dalla propaganda politica. 26   R.J. Knecht, La biographie et l’historien, in «Cahiers de l’Association internationale des études françaises», 2000, 52, pp. 169-181.

Indici

Indice dei nomi

Accursio, vii. Adelaide d’Angiò, 12. Adelaide di Borgogna, 14-15, 20. Adelaide di Susa, 23, 24n. Adele di Champagne, 37, 42. Adriano VI (Adriano di Utrecht), papa, 79n. Agnese di Meranie, 10, 20, 42. Agnese di Poitou, 15, 16 e n, 22, 24, 27. Ago, R., xivn. Agrippina, 193. Airlie, S., 11n. Alberto di Sassonia, 182. Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, xxi, 196, 197 e n. Aleksej Petrovič, Carevič (Aleksej Petrovič Romanov), 167-168. Alessandro I Romanov, 194. Alessandro VI (Rodrigo Borgia), papa, 65-67, 90. Alexandre, Pierre, 95. Alfonso d’Aragona, 63, 66. Alfonso d’Este, 66. Alfonso II d’Este, 92. Alfonso V d’Aragona, 72-73. Alfonso V di Portogallo, 74-75, 77. Alfonso VIII di Castiglia, 38. Alfonso XII di Borbone, xix. Alfonso XII di Castiglia, 74. Alfonso XIII di Borbone (Alfonso Carlos), xix. Allard, C., 135n. Allirot, A.H., 41n. Almedingen, E.M., 168n. Alt, Peter-André, 142n, 143 e n. Anderson, B.S., 87n. Andrea d’Angiò (o Andrea d’Ungheria), 70-71. Andrea da Bergamo, 16.

Andreolli, B., 18n. Andrés de Miranda, 78. Anjou, duca di, vedi Enrico III di Valois. Anna Bolena, 61, 109, 116. Anna d’Austria, xiv, 82, 105, 155, 158159, 163-166, 192. Anna di Bretagna, 65n, 90. Anna di Danimarca, 145. Anna I di Russia (Anna Ivanovna Romanova), xii, 168-169, 176. Anna Leopoldovna, reggente di Russia (Anna Leopoldovna Romanova), 169. Anna Petrovna, granduchessa di Russia (Anna Petrovna Romanova), 170. Anna Stuart, xiii, 85-86, 148-151. Anno di Colonia, 16. Ansa, regina dei Longobardi, 7. Anselmo da Lucca, 19, 22. Antonio Ulrico di Brunswick-Wolfenbüttel, 169. Aram, Bethany, 74n, 81 e n. Ariosto, Ludovico, 28. Aristofane, vi. Aristotele, vi. Arnaldo da Brescia, 18. Arnolfo, 23. Artifoni, E., 24n. Arturo I di Bretagna, 39, 41, 43. Asburgo, dinastia, 81, 93-94, 96, 129, 167, 178. Astell, Mary, 149. Attendolo, Muzio, 69. Attreed, L., 116n. Aubigné, Théodore Agrippa d’, v e n, 104. Augias, Corrado, 155-156. Aurell, Martin, 39, 41 e n.

210 Axton, Marie, 132 e n. Aylmer, John, 123-124. Backer, D., 23n. Bacon, Francis, 61 e n. Baddo, regina visigota, 6n. Baldo degli Ubaldi, vii, 57. Balzac, Honoré de, 100, 101 e n. Balzaretti, R., 23n. Banner, Lois W., 204n. Barbara di Brandeburgo, 62, 64. Barbarisi, G., 180n. Barberini, famiglia, 29. Barrett-Graves, D., 116n, 126n, 147n. Barroll, J.L., 145n. Bartolo da Sassoferrato, vii. Bath, John Bourchier, conte di, 112. Battista I di Montefeltro, 63. Battista II di Montefeltro, 63. Beatrice di Lorena, 19-20. Beaufort, Margherita, 59-60, 110, 116. Bedford, conte di, 112. Beer, B.L., 110n. Bell, Ilona, 126 e n, 131, 132n, 138n. Bellonci, Maria, 65n, 67 e n. Beltrán de la Cueva, 74. Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini), papa, 90n. Bentivoglio, Giovanni, 68. Bergenroth, Gustav Adolf, 79 e n, 80. Berly, Cécile, 186, 187n. Bernadotte, dinastia, xviii. Bernardo, re d’Italia, 17. Bernardo di Chiaravalle, 33. Bernini, Lorenzo, 28. Bernoldo di Costanza, 22. Berry, P., 130n, 132n. Berta da Torino, 23. Bertière, S., 90n, 187n. Betsabea, regina d’Israele, ix. Bianca, figlia di Carlo IV il Bello, 48. Bianca di Castiglia, 38-39, 42-45, 164 e n. Bisson, T.N., 6n. Blazon, N., 155n. Bled, J.-P., 177n, 181 e n, 182n, 183n, 185n. Bloch, Marc, 61 e n. Böhmer, Charles-Auguste, 189. Boiardo, Matteo Maria, 28. Bolena, Anna, vedi Anna Bolena. Bona di Savoia Sforza, 66.

Indice dei nomi Bone, Quentin, 147 e n. Bonifacio di Toscana, 20. Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa, 46, 52. Bonizone di Sutri, 24, 26-27. Bonoldi Gattermayer, E., 42n. Borbone, dinastia, xii, xviii-xix, 103. Bordin, M., 67n. Borgia, Cesare, 60, 67. Borgia, Lucrezia, 66, 67 e n. Boruchoff, D.A., 74n. Bosone I di Provenza, 14. Bothwell, James Hepburn, conte di, 137. Bouvet, Honoré, 28. Braudel, Fernand, 98 e n, 99. Bresse, conte di, vedi Filippo II di Savoia. Brice, Thomas, 121. Bridenthal, R., xn. Briganti, Barbara, 155. Brogi, C., 69n. Brosses, D. des, 155n. Brown, C.J., 90n. Brown, E.A.R., 53n. Brown, Kate, 204n. Browning, O., 183n. Brunilde, regina dei franchi, 23. Bucholz, Robert O., 144n, 147n, 150 e n. Buckingham, George Villiers, duca di, 146. Buckley, Veronica, 155 e n. Bureau, P., vn. Burrows, Simon, 188 e n, 189. Cabibbo, S., 83n. Cadène, N., 140n. Calvi, G., 5n, 63n, 83n. Calvino, Giovanni, 58, 92. Calzona, A., 21. Camden, William, 139. Campanella, Tommaso, 140, 141 e n. Campbell Orr, C., 149n. Campion-Vincent, Véronique, 187, 188n. Canossa, famiglia, 20-21. Cantarella, Glauco Maria, 13n, 21 e n. Cantimori, Delio, 92 e n, 200 e n, 202n. Canuto VI di Danimarca, 9-10. Capetingi, dinastia, 48. Capeto, cittadina, 193.

Indice dei nomi Capeto, Ugo, vedi Ugo Capeto. Caracciolo Galeazzo, marchese di Vico, 200. Carlo d’Angoulême, 89-90. Carlo d’Austria, 129-130. Carlo di Durazzo, 71-72. Carlo il Bello (Carlo IV di Francia e Carlo I di Navarra), 48. Carlo il Calvo, 8, 14. Carlo il Grosso, 8. Carlo I Stuart, 145, 146 e n, 147, 151. Carlo II lo Zoppo, 71. Carlo II Stuart, 145, 147-149, 151. Carlo IV di Alençon, 90. Carlo V d’Asburgo, xviii, 77-79, 80 e n, 88, 91, 93-96, 111, 114, 117, 159. Carlo V di Francia, 66. Carlo VI d’Asburgo, 168, 177-179. Carlo VI di Francia, 164n. Carlo VII (Carlo Alberto di Baviera), 181. Carlo VII di Francia, 73. Carlo VIII di Francia, 65 e n, 68, 72, 89-90. Carlo XII di Svezia, 170. Carlo Federico di Holstein-Gottorp, 170. Carlo Gustavo Vasa, 152-153. Carlo Magno, 11, 17, 26. Carlo Pietro Ulrico di Holstein-Gottorp, vedi Pietro III di Russia. Carlos Luis di Borbone (poi Carlo VI di Spagna), xix. Carlos María Isidro di Borbone (poi Carlo V di Spagna), xviii-xix. Carlotta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel, 168. Carmi Parsons, J., 23n, 39n. Carolingi, dinastia, 6, 8. Carr, Edward H., 201 e n. Casanova, Cesarina, 136n, 203n. Castellina, P., 113n. Castelot, A., 159n. Castiglione, Baldassar, 135. Castle, T., 187n, 189n. Caterina d’Aragona (o Caterina d’Asburgo), 77, 108, 111, 115-116, 122. Caterina de’ Medici, v, xii, xiv, 82, 8487, 92-93, 96-97, 100, 101 e n, 102104, 129, 131, 135, 166, 192-193, 205-206. Caterina di Braganza, 147.

211 Caterina I di Russia, xii, 167-168, 170, 175-176. Caterina II di Russia (Sofia Federica Augusta di Anhalt-Zerbst), xii, 169177. Caterina Ivanovna di Russia (Caterina Ivanovna Romanova), 169. Caussin, Nicolas, 193. Cavendish, George, 119. Celestino III (Giacinto di Pietro di Bobone), papa, 10. Cenerini, F., viin. Chabod, Federico, 200 e n. Chamerot, P., 88n. Chester, J.W., 44n. Cholakian, P.F., 89n. Cholakian, R.C., 89n. Christian, M., 96n. Christine de Pizan, 62, 165. Cioffari, G., 65n. Claudia di Valois-Orléans, 90-91. Clemente VI (Pierre Roger), papa, 70. Clemente VII (Roberto di Ginevra), antipapa, 71. Clemenza d’Ungheria, 46. Cleopatra, 26. Clifford, Henry, 121 e n. Clifford, Rosamond, 34-36. Clodoveo, 5. Cloulas, I., 100n, 101. Čoglocova, Marija, 171. Coletti, A., 183n. Collenucci, Pandolfo, 70. Colleoni, Bartolomeo, 63. Colonna, Vittoria, 92. Concini, Concino, 160, 162. Condé, Enrico, principe di, 160. Conforti, Maria, 153n. Coppola, Sofia, 187n. Corbet, P., 24n. Cornazzano, Antonio, 63-64. Cornwallis, Thomas, 112. Corrado, figlio di Enrico IV, 21. Corsi, P., 16n. Corvisier, André, 99, 100n, 164 e n. Cosandey, Fanny, 49n, 58 e n, 61, 83n, 84n, 99, 100n, 191, 192n. Costantino I, imperatore, 76. Costantino VI, imperatore, 25. Costanza d’Arles, 12 e n. Council, N., 131n.

212 Craveri, Benedetta, 158 e n, 163 e n, 190n, 193 e n. Cristiano II di Danimarca, 95. Cristiano XII di Svezia, xvii. Cristiano Augusto di Anhalt-Zerbst, 170-171. Cristina di Svezia, xi, xvii e n, 152, 153 e n, 154, 155n, 156-158. Croce, Benedetto, 183n, 200 e n, 201 e n, 202. Croft, P., 144n. Curtis, G., 150n. Darnley, Henry Stuart, 136-138, 144. Darnton, Robert, 188 e n. Davey, R., 115n. David, Jacques-Louis, 187. della Casa, Giovan Battista, 135. Deloney, Thomas, 36 e n, 37, 55. De Matteis, M.C., 24n. Demerson, P., 74n. Dennis, Amarie, 80, 81 e n. Desiderio, re longobardo, 7. Deverele, Mary, 141. Diana, dea, ix. Diana di Poitiers, 135. Dickens, Charles, 196, 199. Dolgorukova, Caterina Vasiljevna, 168. Donizone, 20-21, 24-25, 29. Doran, Susan, 128 e n, 130, 131n, 132, 133n. Dorotea del Palatinato, 95. Doyle, Daniel R., 95, 96n. Drayton, Michael, 54n. Dubost, Jean-Françoise, 161n, 162, 163n. Duby, G., 43n, 44n, 84n. Dudley, Guilford, duca di Northumberland, 110 e n, 111, 114. Dudley, John, duca di Northumberland, 110 e n, 112, 114-115. Dudley, Robert, conte di Leicester, 128, 130. Duffy, Eamon, 122 e n. Dufour, J., 7n. Duggan, A.J., 6n. Dumas, Alexandre, 103, 105, 107, 136 e n, 158, 160, 183n, 190n, 202, 206. Dumézil, Georges, 3 e n. Eads, V., 28n. Earenfight, T., 76n.

Indice dei nomi Edoardo II Plantageneto, 50, 52, 53 e n, 54 e n. Edoardo III d’Inghilterra, 47-48, 5051, 55. Edoardo VI Tudor, 108, 109 e n, 110 e n, 111-112, 115. Edoardo Augusto di Hannover, duca di Kent, 194-195. Eggert, K., 133n. Eldridge Carney, J., 116n, 126n, 147n. Eleonora d’Aquitania, x, 12, 27, 31-42, 47. Eleonora d’Aragona d’Este, 64. Eleonora d’Asburgo, 91, 93. Eleonora d’Inghilterra, 38, 42. Eleonora del Portogallo, 88. Eleonora di Champagne, 32. Elisa de’ Petrascini, 69. Elisabetta di Borbone, 159. Elisabetta di Russia, xii, 167, 169 e n, 170, 172-173, 176. Elisabetta I Tudor, xiii, 59, 85-87, 93, 96-97, 108-109, 116-126, 127 e n, 128 e n, 129 e n, 130, 131 e n, 132136, 138-139, 140 e n, 141-145, 151, 157, 193, 195. Elisabetta II, regina del Regno Unito, xiii, 195. Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel, 177-178. Elisabetta Stuart, 146 e n, 151. Elston, T.J., 115n. Engelberga d’Alsazia, 13. Enrichetta Maria di Borbone-Francia, 145, 146 e n, 147-148, 151. Enrico d’Albret, 91. Enrico di Augsburg, 24. Enrico di Borbone, vedi Enrico IV di Francia. Enrico di Brederode, 98. Enrico di Guisa, 100. Enrico il Giovane, 35, 37-38. Enrico il Leone, 34. Enrico II di Valois, v, xii, 97, 135. Enrico II Plantageneto, 27, 34-36, 38, 40-42. Enrico III d’Inghilterra, 43-44, 48. Enrico III di Valois, xii, 93, 100-102, 129-131, 158. Enrico III il Nero, 15, 20-21. Enrico IV di Francia, 100-104, 145, 158-159, 162-163.

213

Indice dei nomi Enrico IV di Franconia, xiv, 15-16, 2125, 28n, 29. Enrico IV l’Impotente, 74-75. Enrico VII Tudor, 60. Enrico VIII Tudor, 77, 90-91, 108 e n, 109, 110n, 115, 119, 136. Erasmo da Rotterdam, 65 e n, 87, 94. Ercole I d’Este, 63, 68. Ercole II d’Este, 92 e n. Erikson, C., xxn, 183n. Ermengarda, figlia di Ludovico II, 14. Ermengarda de Hesbaye, 16. Ermengarda di Toscana, 23. Ermessenda di Barcellona, 23. Esiodo, vi. Ester, vii, 13. Eudossia, madre di Aleksej Petrovič Romanov, 167, 169. Eugenio III (Pietro Bernardo dei Paganelli), papa, 34. Farge, A., 84n. Febvre, Lucien, xvi e n, 87n, 88 e n, 89, 92n, 93 e n, 97 e n, 202n. Feckenham, John, 113. Federico d’Assia-Kassel (poi Federico I di Svezia), xvii. Federico II di Danimarca, 145. Federico II di Prussia, 170, 173, 180. Federico V di Wittelsbach-Simmern, 146. Felipe di Borbone, xix. Ferdinando I d’Asburgo, 129. Ferdinando II d’Aragona (Ferdinando V di Castiglia), detto il Cattolico, xviii, 74-80. Ferdinando IV di Napoli, 182, 185. Ferdinando V di Castiglia, vedi Ferdinando II d’Aragona. Ferdinando VII di Borbone, xviii. Ferente, S., 63n. Fernández Álvarez, M., 74n. Filippo, figlio di Bianca di Castiglia, 42. Filippo d’Asburgo il Bello (poi Filippo I di Castiglia), 77-79. Filippo di Valois, 48. Filippo il Lungo (Filippo V di Francia e Filippo II di Navarra), 46-47. Filippo II d’Asburgo, 93, 96-99, 102, 117-122, 128-129, 134-135, 139. Filippo II di Savoia, 89. Filippo III di Francia, 45-46.

Filippo III di Navarra, 48. Filippo III di Spagna, 159. Filippo IV d’Asburgo, 159. Filippo IV il Bello, 46-48, 50. Filippo V di Borbone, xviii-xix. Filippo VI di Valois, 47-48, 50. Filippo Augusto, 8-11, 37-39, 42-44. Findeisen, J.P., 155n. Findlay, A., 143n. Fiorentini, Francesco Maria, 28-29. Firpo, Luigi, 140, 141n. Fitzroy, A.T. (pseud. di Rose Laure Allantini), 189n. Fleming, Robin, 203n. Fleury, Helgaud de, 12n. Flori, J., 31n. Fössel, A., 16n. Foxe, Thomas, 121 e n. Francesco d’Assisi di Borbone-Spagna, xix. Francesco I di Valois, 87-88, 89 e n, 9091, 135, 205. Francesco II di Valois, 97, 99, 135. Francesco Ercole di Valois, duca d’Alençon, 101-102, 125, 129 e n, 130, 132. Francesco Stefano di Lorena (Francesco I), 178-179, 181, 184. Franco, Francisco, xix. Fraser, Antonia, 138 e n, 142, 146n, 187n, 189n. Fratellini, Fabrizio, 29n. Fredegonda, 26, 193. Freeman, J.F., 89n. Freeman, T.S., 128n. Frieda, Leonie, 101 e n. Frisi, Paolo, 180 e n. Frugoni, Arsenio, 18 e n, 19, 182n. Frye, Roland Mushat, 133 e n. Frye, S., 132n. Fuente, M.G., 6n. Fumagalli, Vito, xivn, 8n, 18 e n, 1920, 28. Fumaroli, Marc, 161 e n. Funck-Brentano, F., 190n. Furet, F., 189n. Fussenegger, G., 169n. Gaglione, M., 73n. Galán, M., 75n. Galetti, P., 18n. Galigai, Leonora, 160, 162.

214 Garland, L., 25n. Garzoni, Girolamo, 57. Gastone Enrico di Borbone, 159. Gauthier, F., 136n. Gaveston, Pierce, 50-51, 53-54. Génin, François, 87. Gerratana, V., 201n. Gervais de Cantorbéry, 40. Gévaudan, Etienne de Brioude, conte di, 12. Gheeraerts, Marcus il Giovane, 127. Giacomo d’Aragona, 46. Giacomo I Stuart (Giacomo VI di Scozia), 137, 139, 143, 144 e n, 145, 146n, 151. Giacomo II Stuart (Giacomo VII di Scozia), 114, 147-149, 151. Giacomo IV di Scozia, 108. Giacomo V Stuart, 135, 137. Giacomo VI di Scozia, vedi Giacomo I Stuart. Giacomo VII di Scozia, vedi Giacomo II Stuart. Giacomo Francesco Edoardo Stuart, 114, 149. Gian Gastone de’ Medici, 178. Giesey, Ralph E., 48, 49n. Giorgio di Danimarca, 86, 150. Giorgio I di Hannover, 114, 151. Giorgio III di Hannover, 194. Giorgio IV di Hannover, 194. Giorgio Ludovico di Holstein-Gottorp, 173. Giovanna d’Albret, vedi Giovanna III di Navarra. Giovanna d’Arco, x, 59-60, 62, 69, 76. Giovanna d’Asburgo, 98-99. Giovanna d’Austria, 159. Giovanna d’Évreux, 48. Giovanna da Montefeltro, 63. Giovanna di Castiglia, detta la Pazza, xviii, 75n, 77-78, 79 e n, 80 e n, 81. Giovanna di Holstein-Gottorp, 170171. Giovanna di Portogallo, 74. Giovanna di Valois, 65, 90 e n. Giovanna la Beltraneja, 74-75. Giovanna I d’Angiò, xiv, 16, 65-66, 7073, 164n. Giovanna I di Navarra, 46, 50. Giovanna II d’Angiò, xiv, 16, 66, 7273.

Indice dei nomi Giovanna II di Navarra, 46-48. Giovanna III di Navarra (Giovanna d’Albret), 88, 101, 104. Giovanni d’Austria, 102. Giovanni dalle Bande Nere, 69. Giovanni de’ Medici il Popolano, 69. Giovanni Senza Terra, 38-39, 41-43, 44 e n. Giovanni I il Postumo, 47. Giovanni I Zimisce, 14. Giovanni II di Castiglia, 74. Giovanni XIII (Giovanni dei Crescenzi), papa, 14. Giovanni Casimiro di Polonia, 153. Giraud de Barri, 40-41. Girolamo, santo, 23. Giuditta, personaggio biblico, vii, 13. Giuntini, Vincenzo, 29n. Giuseppe I d’Asburgo, 179. Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, 175. Giustiniano, imperatore, 4. Gobineau, Arthur de, 66, 67n. Goffredo di Bretagna, 35, 37-39. Goffredo il Barbuto di Lorena, 20-21. Goffredo il Bello, 34, 39-40. Goffredo il Gobbo, 19-22. Goldsmith, M.L., 158n. Golinelli, Paolo, 21 e n, 22, 24n. Goncourt, E. de, 186n. Goncourt, J. de, 186n. Gonzaga, famiglia, 64. Gonzaga, Eleonora, 92. Gonzaga, Ludovico, 64. Gorter van-Royen, L.V.G., 96n. Goullet, M., 24n. Grabner, S., 155n. Graham, James, 141. Gramsci, Antonio, 201 e n, 202 e n. Grand, R., 49n. Grapheus, Cornelis, 95. Graziani, F., 161n. Graziani, N., 69n. Graziano, giurista, 27. Graziosi, M., 56n. Green, D., 150n, 151n. Green, Janet M., 134, 135n. Gregg, E., 150n. Gregorio VII (Ildebrando Aldobrandeschi di Soana), papa, 19, 22, 29-30. Grey, famiglia, 111. Grey, Catherine, 112-113.

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Indice dei nomi Grey, Jane, 108-109, 110n, 111-112, 113 e n, 114-117, 122. Grey, Mary, 112. Griffey, E., 146n. Gruder, Vivian R., 188, 189 e n. Gruppi, N., 129n, 145n. Gualazzini, U., 72n. Guelfo di Baviera, detto il Pingue, 1922. Guerra Medici, M.T., 14n. Guglielmo d’Arles, 12. Guglielmo d’Orange, 97-98. Guglielmo il Conquistatore, 28n, 50. Guglielmo il Maresciallo, 44. Guglielmo l’Ardito, 31. Guglielmo II di Prussia e Germania, 201n. Guglielmo III d’Orange, 148-151. Guglielmo III, conte di Poitou, 15. Guglielmo IV del Regno Unito, 194195. Guglielmo IX il Trovatore, 31. Guglielmo X il Tolosano, 31. Guicciardini, Francesco, xiv, 65 e n, 66 e n, 67 e n, 70, 90. Guillaume de Newburgh, 40. Gusberti, E., 123n. Gustavo II Adolfo di Svezia, 152, 156. Gustavo XVI di Svezia, xvii. Gutiérrez Lloret, R.A., xviiin. Guy, John, 142 e n. Hackett, H., 128n, 134n. Haigh, Christopher, 126 e n, 132 e n. Hakkon, re di Norvegia, xvii e n. Hall, Radclyffe (pseud. di Marguerite Radclyffe-Hall), 189n. Halsall, G., 23n. Hamilton, A.C., 131n. Hannover, dinastia, xx, 114, 151. Harris, B.J., 108n. Hartman, M., 6n. Hay, D.J., 22n, 27n. Hazard, M.E., 134n. Healey, R.M., 96n, 123n. Heiss, Aloïs, 80 e n. Henckel, cappellano, 94. Hernando Polo, C., 74n. Herrin, J., 25n. Heyden-Rynsch, Verena von, 154n. Hibbert, C., xxn. Hillebrand, K., 80n.

Hjortsjö, Carl-Herman, 154 e n. Hosford, D., 184n. Howlett, R., 9n. Hubert, Francis, 54 e n. Hugo, Victor, 202. Hunt, Lynn, 188 e n, 190. Huntingdon, conte di, 112. Igor di Kiev, 14. Incmaro, 7. Ingeburge di Danimarca, 9-11. Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni), papa, 9-11. Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo), papa, 68. Iogna-Prat, D., 24n. Iongh, J. de., 96n. Irene, imperatrice, 23, 25. Isabella d’Aragona, 46, 77. Isabella d’Asburgo, 93, 95. Isabella d’Este Gonzaga, 65n, 67. Isabella di Castiglia, detta la Cattolica, xiii, xviii, 74, 75 e n, 76-77, 80-81. Isabella di Francia, 47-48, 50-52, 53 e n, 54 e n, 55. Isabella di Gloucester, 43. Isabella di Portogallo, 74. Isabella II di Borbone, xviii e n, xix. Isabella, G., 13n. Isaia, profeta, 23. Ivan V Alekseevič Romanov, 168. Ivan VI Romanov, 169, 173. Ives, Eric, 115 e n. Ivo di Chartres, 27. Jägerskiöld, O., xviin. Jansen, S.L., 94n. Jansohn, C., 126n. Javierre, J.M., 74n. Jeanne de Gontault, 93. Jezabel, moglie del re Achab, ix, 22. Johnston, R.M., 183n. Joinville, Jean de, 45. Jones, M.K., 59n, 61n. Juan Carlos I di Borbone, xix. Juan de Valdès, 92. Kaiser, G., 155n. Kalas, R.J., 93n. Kantorowicz, E.H., 143 e n, 190. Kaplan, M.L., 133n.

216 Kaufman, G., 115n. Kelly-Gadol, J., xn. Kerby, N., 140n. Kessler-Harris, Alice, 205n. Key, N., 144n. King, J.N., 131n. King, M., 59n, 60 e n. Knecht, Robert J., 205, 206 e n. Knox, John, 58, 96, 123. Kolk, C. zum, 92n. Koonz, C., xn. Kracauer, Siegfried, 201 e n. La Gardie, Magnus Gabriele de, 152. Lancaster, John di Gaunt, duca di, 60. Landolfo di Milano, 21. La Rocca, C., 6n, 11n, 12n, 16n. Lazzari, T., 18n. Lecuppre, G., 41n. Lefèvre d’Étaples, Jacques, 91. Le Jan, R., 7n, 14n. Lennox, Esmé Stewart, conte di, 144. Léo de Saint-Poincy, 106. Leopoldo I d’Asburgo, 179. Leopoldo I del Belgio, 196. Leopoldo Clemente di Lorena, 178. Lerchenfield, contessa, 182. Le Roux De Lincy, A., 90n. Leslie, John, 136, 138n. Lev, E., 70n. Levin, C., 116n, 125n, 126n, 132n, 147n. Levine, N.S., 133n. Liss, Peggy K., xiii e n, 76n. Liutprando da Cremona, 23. Livia Drusilla, vii. Loach, J., 109n. Loades, David, 121 e n, 122 e n. Lockyer, R., 61n. Loraux, Nicole, vi e n. Lotario II d’Italia, 14, 20. Lotario II di Lotaringia, 11. Ludovico, duca d’Angiò, 66. Ludovico di Taranto, 71. Ludovico d’Ungheria, 94. Ludovico il Pio, 17. Ludovico II il Giovane, 13-14. Ludovico III Gonzaga, 64. Ludwig, Emil, 201 e n, 202. Luigi, figlio di Filippo III, 46. Luigi d’Angiò il Grande, 70-71.

Indice dei nomi Luigi d’Orléans, vedi Luigi XII di Francia. Luigi il Balbuziente, 8. Luigi I d’Angiò, 164 e n. Luigi III d’Angiò, 73. Luigi V l’Ignavo, 12. Luigi VI il Grosso, 31-32. Luigi VII il Giovane, x, 32-37, 39-40, 42. Luigi VIII il Leone, 38, 43-44. Luigi IX il Santo, 43-46. Luigi X l’Attaccabrighe, 46-48. Luigi XI di Francia, 65, 89-90. Luigi XII di Francia, 65 e n, 89-90, 108n. Luigi XIII di Borbone, 103, 145, 159161, 163-165. Luigi XIV di Borbone, 159, 163-164. Luigi XV di Borbone, 183. Luigi XVI di Borbone, 161, 183-184, 191. Luisa di Savoia, 88, 89 e n, 90-91, 135. Lynch, K.A., 83n. Machiavelli, Niccolò, 68 e n, 84. MacLean, I., viin, 57n. Madariaga, I. de, 172n. Madelénat, Daniel, 204 e n. Mainoni, P., 16n. Manfredi, Astorgio, 68. Manfredi, Taddeo, 68. Mangione, T., 65n. Mantegna, Andrea, 62. Manuel I di Portogallo, 77. Map, Gautier, 40-41. Marand-Fouquet, C., 192n. Marcabru, trovatore occitano, 32. Margherita d’Angoulême, regina di Navarra, xiii, xvi, 87-88, 89 e n, 9092, 101, 135. Margherita d’Austria (di Parma), 93, 94 e n, 97-98. Margherita di Borgogna, 46. Margherita di Navarra, vedi Margherita d’Angoulême, regina di Navarra. Margherita di Provenza, 45-46. Margherita di Valois, detta Margot, xiii, xv-xvi, 84, 93, 100-107, 158. Margherita la Giovane, 38. Margherita la Grande, xvii e n. Margherita Tudor, 108, 136. Margot, vedi Margherita di Valois.

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Indice dei nomi Maria d’Aragona, 77. Maria de’ Medici, xiv, 82, 102-103, 105, 145, 158, 159 e n, 160-163, 164n, 166, 192-193. Maria di Brabante, 46. Maria di Champagne, 33. Maria di Guisa, 96, 135. Maria d’Ungheria, 93-94, 95 e n, 96. Maria I Stuart, xiii, 96-97, 99, 117, 135139, 140 e n, 141, 142 e n, 144-145. Maria II Stuart, xiii, 148-151. Maria Tudor, sorella di Enrico VIII, 9091, 108 e n. Maria I Tudor, detta la Sanguinaria, xiii, 96-97, 99, 109-112, 114, 115 e n, 116-117, 118 e n, 119-123, 125, 129, 135, 146-147, 151. Maria Amalia d’Asburgo-Lorena, 179. Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, xiv, 166, 183, 184 e n, 185, 186 e n, 187-188, 189 e n, 190-193. Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, 182, 183n, 185. Maria Cristina d’Asburgo-Lorena, 182. Maria Cristina di Borbone, xviii. Maria Eleonora di Brandeburgo, 157. Maria Eufrosina di Zweibrücken, 152. Maria Giuseppa d’Asburgo-Lorena, 179. Maria Teresa d’Austria, x, xii, xiv, xxi, 167, 175, 177-180, 181 e n, 182 e n, 183 e n, 184 e n, 185-187, 193. Marin, Louis, 190 e n. Mariotti Masi, M.L., 162n. Marlowe, Christopher, 51 e n, 52, 55. Marozia, 19, 23-24. Marsden, J.I., 114n. Marshall, W., 168n. Martello, Carlo, 71. Martín de Córdoba, 74. Marx, Ronald, xxn, 196 e n, 197 e n, 199n. Massimiliano Giuseppe di Baviera, 181. Matilde d’Inghilterra, 34. Matilde di Canossa, xiv, xvi, 18-20, 21 e n, 22-27, 28 e n, 29-31. Maurois, André, 201n. May Farnborough, T.E., xxn. Mazzarino, Giulio, 155, 164-166. McCracken, Peggy, 39 e n. McIntosh, J.L., 113n.

McKitterick, R., 165n. McLaren, A., 124n, 128n, 134n. McLaughlin, M., 28n. Medici, famiglia, 159, 178, 205. Meehan-Waters, Brenda, 174, 175 e n, 176. Melbourne, William Lamb, visconte di, 197. Melville, ambasciatore scozzese, 120. Merola, A., 82n. Merrick, J., 166n. Messalina, 193. Meyer, C., 153n. Michelet, Jules, 87, 88n, 103, 162, 206. Miguel, figlio di Isabella d’Aragona, 77. Miller, D.A., 4n, 5n. Miller, Dean, 176. Monmouth, James Scott, duca di, 148. Montanari, M., 18n. Montrose, Louis A., 125 e n, 127 e n, 132n. Morley, James Stewart, 137-138. Mortimer, Roger, 50-52, 53 e n, 54n, 55. Moscati, Antonella, 153n. Mosse, George Lachmann, 202 e n. Motte, Jeanne de Saint-Remy, contessa de la, 189. Mueller, J., 129n. Murimuth, Adam, 53. Muto, G., 82n. Nassiet, M., 82n. Neal, J.E., 138n. Nelson, J.L., 5n, 23n. Nicole de la Haie, 43-44. Northumberland, Guilford Dudley, vedi Dudley, Guilford, duca di Northumberland. Northumberland, John Dudley, vedi Dudley, John, duca di Northumberland. Oakley-Brown, L., 138n. Oberto d’Este, 24. Olaf, re di Norvegia, xvii. Olderico Manfredi II, 24n. Olga di Kiev, 14. Olivier, D., 169n. Orieux, Jean, 100 e n, 101. Orléans, famiglia, 90. Orlov, fratelli, 174.

218 Orlov, Grigori, 173-174. Orth, Myra D., 88 e n. Ottaviano (Augusto), imperatore romano, vii. Ottone di Brunswick, 43. Ottone I di Sassonia, 14, 20. Ottone II di Sassonia, 14-15. Ottone III di Sassonia, 15. Pacht-Bassani, P., 161n. Pailler, J.M., 4n. Palk, D., viiin. Panin, Nikita Ivanovič, 174. Panizza, L., 63n. Pantasilea, regina delle Amazzoni, ix, 25. Paolo, apostolo, xi e n, 23, 27. Paolo I di Russia, vedi Pavel Petrovič Romanov. Parks, J., 51n, 52n. Pasolini, P.D., 69n. Pasquale di Campli, 73. Pavel Petrovič Romanov (Paolo I di Russia), 171-174, 176. Peel, Robert, 197. Pembroke, conte di, 112. Pepush, Johann Christoph, 114. Pernoud, Régine, 31n, 32n, 42n, 43n, 45 e n. Perrot, M., 84n. Petrina, A., 134n. Petronilla d’Aquitania, 32. Pharamond, leggendario fondatore della monarchia francese, 165. Philippe d’Aunay, 47. Piero de’ Medici, 69. Pietro di Blois, 27. Pietro I il Grande, 167-170, 173, 175176. Pietro II Romanov, 167, 168 e n. Pietro III di Russia (Carlo Pietro Ulrico di Holstein-Gottorp), 170-174. Piketty, G., 204n. Pimentel Fonseca, Eleonora, 185. Pio XII (Eugenio Maria Pacelli), papa, 90n. Pizzagalli, D., 155n. Plantageneti, dinastia, 38, 41-44. Platone, vin. Plowden, A., 141n. Pole, Reginald, 119, 122. Pollen, J.H., 138n.

Indice dei nomi Pomata, G., 142n. Poniatowki, Stanislas Augustus, 172. Poutrin, I., 92n. Prassede, moglie di Enrico IV di Franconia, 21. Prescott, W.H., 74n. Prezzo, R., xin. Prodi, P., xin. Prosperi, Adriano, 202n. Pudal, Bernard, 204 e n. Purkiss, D., 146n. Quillet, B., 155n. Raatschen, G., 146n. Raia, C., 70n. Raimondo di Poitiers, 33, 39-41. Raimondo VII di Provenza, 45. Rangerio da Lucca, 21. Recaredo, re visigoto, 6n. Redfield, J., vin. Redworth, G., 119n. Renata di Valois-Orléans, 90-91, 92 e n. Reni, Guido, 160. Rennell, T., xxn. Rethelyi, O., 95n. Reynolds, R.J., 27n. Riario, famiglia, 68. Riario, Girolamo, 68. Riario, Ottaviano, 68. Riccardo Cuor di Leone, 28n, 35, 38, 41. Richards, J.M., 117n. Richelieu, Armand-Jean du Plessis de, 105, 160-163. Richilde di Provenza, 14. Riehl, Anna, 126 e n, 127. Rinaldi, R., 18n. Ríos Lloret, R.E., 75n. Roberto d’Angiò il Savio, 65, 70-71. Roberto d’Artois, 45. Roberto II di Francia, detto il Pio, 12 e n. Rodolfo di Vermandois, 32. Roelker, N.L., 88n. Rohan, famiglia, 190. Rohan, Louis de, 189-190, 192. Rollbag, Gregorius, 57. Romanov, dinastia, 167, 168 e n, 172, 175, 177. Rose, M.B., 125n. Rosmunda, 26.

219

Indice dei nomi Rowe, Nicholas, 114. Rubens, Peter Paul, 159-161, 164n. Rupert del Palatinato, 146 e n. Saint-Amand, P., 184n, 191n. Saint John, John, 141. Salomone, re d’Israele, ix. Samson, A., 118n, 120n. Sanfelice, Luisa, 185. Santucci, Marina, 153n. Savoia, dinastia, 24n, 89. Scaraffia, L., 83n. Schaub, M.-K., 92n. Schiller, Friedrich, 141. Schwoerer, Lois G., 142n, 149, 150n. Scordia, L., 41n. Scott, Walter, 196. Seidel Menchi, Silvana, 87 e n. Semiramide, regina leggendaria, 117. Sforza, famiglia, 63, 65n, 68. Sforza, Alessandro, 68. Sforza, Caterina, 60, 67-68, 69 e n, 84. Sforza, Francesco, 62-64, 69. Sforza, Galeazzo Maria, 63, 68. Sforza, Gian Galeazzo, 66. Sforza, Ippolita, 63. Sforza, Ludovico, detto il Moro, 66, 68. Shakespeare, William, 133-134, 139, 143. Sherlock, Peter, 140n. Shojaei Kawan, Christine, 187, 188n. Shrewsbury, conte di, 112. Sidney, Philip, 131. Sisto IV (Francesco della Rovere), papa, 68. Skinner, P., 17n. Smuts, M., 146n. Socrate, v-vi. Sofia di Hannover, 146, 151. Sofia Federica Augusta di AnhaltZerbst, vedi Caterina II di Russia. Solinas, F., 161n. Sorel, Albert, 190n. Sparre, Ebba, 157. Spencer, C., 146n. Spencer, Diana, 192. Spencer, Edmund, 124, 140. Spenser, famiglia, 50. Spenser, Ugo, 50. Spruyt, B.J., 93n, 95n. Stendhal (Marie-Henri Beyle), 105. Stephenson, B., 89n.

Steuart, A.F., 138n. Stevenson, J., 121n. Stone, Jean M., 121 e n. Strachey, Lytton, xxi, 196 e n, 197n, 198n, 199-200, 201n, 202 e n, 203. Strong, Roy, 127 e n, 132 e n. Stuart, dinastia, 135-136, 139, 145, 147-148, 151. Stymeist, D., 52n. Suárez Fernández, L., 74n. Suffolk, Brandon Charles, duca di, 108n. Suffolk, Frances Brandon, duchessa di, 112-113. Sully, Maximilién de Béthune, duca di, 101, 161-162. Sussex, Henry Ratcliffe, conte di, 112, 130. Tabacchi, S., 159n. Taylor, Barbara, 204n. Teodora, imperatrice, 4, 23-24. Teofano, imperatrice del Sacro Romano Impero, 14-15. Teutberga, 11. Theis, L., 12n. Thomas, Chantal, 188 e n, 192 e n. Thou, Jacques-Auguste de, 104. Tiraqueau, André, viii e n, 69. Torke, H.-J., 168n. Tosi, L., 134n. Tosti, L., 30n. Travitsky, B.S., 115n. Trivellini, A.M., 155n. Trovato, P., 67n. Tudor, dinastia, 36, 60, 108, 117, 124125, 132n, 136, 139-140, 143. Tudor, Arturo, 77. Turner, Ralph V., 41 e n. Ugo Capeto, 8. Ugo di Provenza, 14, 20. Ulrika Eleonora di Svezia, xvii e n. Underwood, M.G., 59n, 61n. Urbano VI (Bartolomeo Prignano), papa, 71. Urbano VIII (Maffeo Vincenzo Barberini), papa, 29. Urraca di Castiglia, 38. Valdemaro IV, xvii.

220 Valente, C., 53n, 54n. Valeri, E., 82n. Valois, dinastia, xii, 47, 49-50, 58, 78, 103-104, 158, 189. Van Dick, Antoon, 146. Varallo, F., 65n. Varano, Costanza, 68. Vasa, dinastia, 157. Venturelli, G., 69n. Verdile, N., 185n. Vernant, J.P., vin. Verneuil, Enrichetta d’Entragues, marchesa di, 159, 162. Vico, marchese di, vedi Galeazzo Caracciolo. Viennot, Éliane, xv e n, xvi, 5n, 11n, 12n, 15n, 102n, 103 e n. Viewer, F., 13n. Vignaux, Michèle, 124, 125n. Villani, Giovanni, 71. Villani, Matteo, 71. Visceglia, M.A., xin, 82n. Visconti, Bianca Maria, 62, 63 e n, 64, 69 e n. Visconti, Valentina, 65. Vittoria, regina del Regno Unito, xiii, xx e n, xxi, 195-196, 197 e n, 198199. Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld, 195. Vittoria di Svezia, xvii. Vives, Juan Luis, 115 e n. Wåghäll, N.E., 153n.

Indice dei nomi Walker, J.M., 124n. Waller, M., 150n, 151n. Ward Swain, E., 64n. Warnicke, R.M., 61n, 142n. Wedgewood, Cicely Veronica, 146, 147n. Weintraub, S., xxn. Weir, Alison, 31n, 51n, 138 e n, 142. Welch, E., 63n. Wentworth, Thomas, 112. Wheeler, B., 39n. White, John, 118. White, M.A., 146n. Whitelock, Anne, 122 e n, 123n. Wickham, G., 131n. Wilkinson, L.J., 138n. William di Newburgh, 9. Willson, D.H., 145n. Winkler, A., 116n. Woolf, Virginia, 200n, 202 e n, 203 e n. Wormald, Jenny, 142n. Yates, Frances A., 86 e n, 87 e n, 127 e n, 132 e n, 139n. Yonan, Michael, 181n. Zancani, D., 64n. Zangheri, R., 177n. Zarri, Gabriella, 66, 67n, 83n. Zemon Davis, Natalie, v e n, 57, 58n, 84 e n, 85. Zinsser, J.P., 87n. Zirpolo, L.H., 152n. Zweig, Stefan, 190n.

Indice del volume

Introduzione. Donne al governo. Un malaugurato caso?

v

I.

3

Regnanti di diritto o di fatto. Matilde e le altre 1. I confini incerti della regalità femminile, p. 3 - 2. «Consortes», «matres amatissimae», regine «sui juris», p. 11 - 3. In cerca di Matilde, p. 18 - 4. Ruoli «per nascita e per natura», p. 26

II. La successione femminile e le peripezie conseguenti

31

1. L’eredità di Eleonora, p. 31 - 2. La maledizione di Eleonora, p. 37 - 3. Bianca alla corte del re di Francia, p. 42 - 4. La «quenouille» e la legge salica, p. 46 - 5. La Lupa di Francia, p. 50

III. Regine cattive, regine buone

56

1. La ricerca della stabilità politica e il «disordine» femminile, p. 56 - 2. Le «signore» italiane del Quattrocento, p. 62 - 3. La buona Isabella e la pazzia di Giovanna, p. 74

IV. Governare per amore: buone madri, care sorelle, amorose zie

82

1. Uno stile di genere?, p. 82 - 2. L’evangelismo dei circoli di corte, p. 91 - 3. Donne in tempi di crisi, p. 99

V.

Quattro regine e un’isola

108

1. Nove giorni di regno, p. 108 - 2. I sei anni di Maria Tudor, p. 115 - 3. Elisabetta, o il trionfo della regalità femminile, p. 123 - 4. Il sacrificio di Maria, p. 134

VI. La regalità femminile nel Grand Siècle 1. Da Giacomo ad Anna Stuart, collasso e ripresa della monarchia inglese, p. 144 - 2. Il corpo di Cristina, p. 152 - 3. Margherita di Valois e Maria de’ Medici: la legittimazione di Luigi XIII, p. 158 - 4. Due stili di reggenza?, p. 161

144

222

Indice del volume

VII. Il secolo delle imperatrici

167

1. Elisabetta e Caterina, p. 167 - 2. Maria Teresa, buona moglie e buona madre, p. 177 - 3. Le prediche inutili dell’imperatrice, p. 183

Per concludere. Il fascino indiscreto della biografia

195

Indice dei nomi 209