Refusi. Diario di un editore incorreggibile 2560609029805

"Con il lavoro che ho scelto di fare, mi aspettavo che la mia vita sarebbe stata diversa. Mi immaginavo lunghe gior

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Marco Cassini Refusi. Diario di un editore incorreggibile

Marco Cassini

Refusi Diario di un editore incorreggibile

Editori Laterza

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8780-9

Quando abbiamo deciso di fondare la casa editrice [...] ci fu chiesto da molti di quanti capitali disponevamo. Nulla invece possedevamo: ma la fede, la volontà, la sicurezza erano nostre e siamo riusciti – al di là delle nostre aspettative. (dal diario di Ada Gobetti)

Indice

Antefatto 3

(dicembre, l’anno prima)

La sanità pubblica 7

(gennaio)

Soltanto un parere 13

(febbraio)

Come eravamo 21

(dicembre, tredici anni prima)

Il prezzo di copertina 29

(marzo)

Società a responsabilità illimitata 37

(aprile)

Domani nella battaglia pensa a me 45

(maggio)

Primavera a New York 53

(giugno)

La ricerca della felicità 59

(luglio)

L’età dell’innocenza 67

(agosto)

VII

Un tram che si chiama desiderio (settembre)

Lezioni di piano (ottobre)

Il catalogo è questo (novembre)

Uno sguardo dal ponte (dicembre, dieci anni prima)

L’anno che verrà

75 83 93 99

(dicembre)

105

Guida per riconoscere i tuoi santi

113

... and thanks for all the fish

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Refusi Diario di un editore incorreggibile

Antefatto (dicembre, l’anno prima)

A dicembre dello scorso anno mi sono finalmente deciso: la situazione andava affrontata. Con determinazione, e senza più perdere tempo. E allora mi sono armato di pazienza e, lungimirante, mi sono avventurato verso quelle che immaginavo sarebbero state file interminabili, con ampi fasci di fogli A4 sotto il braccio: se devo passare giornate intere a fare code per visite specialistiche, mi dicevo, tanto vale ottimizzare e non sprecare tempo, portandomi avanti col lavoro. Il sintomo era chiarissimo, meno chiare le cause. In mancanza di una diagnosi, col tempo avevo iniziato a definirla, per me e per il mio sparuto uditorio familiare, «sindrome di Cenerentola». A partire dal 18 agosto del 2006, primo mio giorno di vacanza dopo molti mesi di attività frenetica, ogni sera a mezzanotte spaccata comparivano puntualissime su tutto il mio corpo centinaia se non migliaia di piccole bollicine rosse e pruriginose come fossero altrettante punture di zanzara, con un percorso che ormai avevo imparato a riconoscere e perfino prevedere: 3

dal collo giù piano verso spalle, torace, braccia, fianchi, addome, bassoventre, inguine, cosce, il tutto con una simmetria rorschachiana fra parte destra e sinistra del corpo. Solo in nottate in cui si sentivano particolarmente avventurose le bolle si spingevano su territori inesplorati: polpacci, lobi delle orecchie, alluci, gomiti. Nel frattempo, costruivo ipotesi (e strategie di difesa) che mi sembravano ogni volta convincenti, tutte, anche quando si contraddicevano fra loro. Le bolle comparivano sicuramente perché avevo messo quel particolare maglione con un’elevata percentuale di sintetico (lo riponevo nel cassetto per settimane), o per colpa del nuovo shampoo mai usato prima (lo andavo a buttare immediatamente), o dopo aver bevuto una specifica marca di birra (non avrei mai più nemmeno osato toccarla sullo scaffale del supermercato), essermi lavato i denti con un nuovo dentrificio (adesso era sparito dalla mia lista dei preferiti), o addirittura un nuovo spazzolino (sostituito!), o successivamente a un pasto troppo carico di uova, di dolci, di farina, di latticini. O con troppo pochi latticini. Ogni sera la causa era stata trovata, e la malattia sconfitta. Ma il giorno successivo, fallita la prova del nove (le bolle erano tutte di nuovo lì), si doveva ricominciare daccapo. Dopo quattro mesi di quella che poteva ormai definirsi una routine, solo intorno alla metà di dicembre le bolle si erano palesate, con enorme sorpresa e prurito, anche sulle palme delle mani, e addirittura un giorno mi avevano coperto tutta la faccia; a differenza del solito, poi, non erano diligentemente, draculescamente scomparse subito 4

prima dell’alba per andare a rifugiarsi chissà dove, ma al mattino erano ancora al loro posto, visibilissime come un’esplosione (molto) tardiva di acne giovanile, il giorno della riunione di redazione. Bisognava correre ai ripari. Annunciai al mio socio di essere bloccato a letto da una terribile influenza di cui mi sforzai (per quell’invincibile senso di colpa che mi attanaglia quando devo ammettere che mi è necessario passare qualche ora lontano dal lavoro) di accentuare i segni – secondo un canovaccio consumato, una sorta di convenzione secolare accettata da entrambe le parti in scena, il finto malato calca il tono su una raucedine fasulla, con colpi di tosse da attore di terza categoria, cui l’altro interprete finge immancabilmente di credere. Rimandammo così la riunione di una settimana, e io potei intraprendere il mio salvifico pellegrinaggio alla volta della sanità pubblica.

La sanità pubblica (gennaio)

Solo di lì a poco avrei scoperto quali doppi sensi può malignamente nascondere l’espressione «la sanità pubblica». Per ora ero pronto a scoprire che almeno su una cosa l’ematologo, l’allergologo, il dermatologo e perfino il dottor Foglia, medico di famiglia, pur non conoscendosi fra loro, sarebbero stati pienamente concordi: il mio non era un problema fisico. Ecco come è andata. Fiero del mio comportamento da persona adulta e responsabile (l’aver cioè deciso di affrontare di petto il «problema»), nelle riunioni familiari durante le festività di fine anno ero andato raccontando il mio «caso», i miei misteriosi sintomi a zie, cognati e cugini (finalmente anch’io protagonista in prima persona, dopo che di Natale in Natale, di Pasqua in Ferragosto avevo sempre sentito narrare epopee di vicende ospedaliere altrui) e ogni zia, ogni cognato, ogni cugino aveva detto la sua, rispondendo a tono e rigurgitando la propria malattia, il suo personalissimo malessere, in confronto al quale il mio era di certo co7

sa da poco, e dispensando consigli e diagnosi inappellabili, che a Santo Stefano erano però decisamente contrastanti con quelli sussurrati con estrema convinzione alla Vigilia, e che a San Silvestro avrebbero definito, loro stessi, una cazzata madornale. Passate le feste, e finita quindi la sequela di forzate riunioni parentali, avevo ora potuto riprendere il mio tragitto verso la chiarezza. E dopo aver visto un numero sufficiente di persone in camice bianco (confortandomi dunque anche sul fatto che l’immaginario televisivo non ha ancora vinto del tutto sulla realtà, e i camici verdini li indossano apparentemente solo i medici delle fiction infrasettimanali) adesso ero vicino a ottenere una risposta. La mia sindrome, descritta ai vari specialisti con grande scialo di particolari, e anzi con una perizia via via crescente a ogni incontro, non è né un’allergia, né una irritazione della pelle, né un problema del sangue. Non è insomma una malattia. Perciò l’hanno riassunta tutti e quattro (l’ematologo, l’allergologo, il dermatologo e anche il dottor Foglia, medico di famiglia) in una parolina facile facile, piena di consonanti e con una sola vocaletta schiacciata lì nel mezzo: stress. E tutti si sono sentiti in dovere (tutti premettendo che certo non era compito né interesse loro fare di questi commenti – «anzi mi scusi se mi permetto» – ma tutti puntualmente li hanno fatti) di chiedermi qual è il mio mestiere, se ho una posizione di responsabilità, se ho dipendenti, se gli affari vanno bene, se lavoro molte ore al 8

giorno. «Perché sa, lo stress dipende soprattutto da questi fattori». Faccio l’editore; e, sì, si può dire che ho un ruolo di responsabilità perché sono uno dei due proprietari della casa editrice; sì, abbiamo una quindicina fra dipendenti e collaboratori continuativi; quanto agli affari, be’, per il nostro settore, e il nostro tipo di azienda, succede che ogni anno se non ogni mese dobbiamo star lì a valutare la nostra sopravvivenza; e infine, effettivamente, sì effettivamente lavoro molte ore al giorno, anzi in pratica è quasi come se non smettessi mai1. Nel vedere la faccia compiaciuta del medico che di volta in volta avevo di fronte, la faccia di quello che aveva capito la diagnosi sin dall’inizio, di quello che ne era certo, di quello, oltre tutto, che gliel’avevo-detto-io; un compiacimento che se fossi stato un osservatore più profondo avrei riconosciuto essere adombrato da un appena percettibile accenno di livore, come se gli avessi fatto perdere tempo, del tempo che avrebbe potuto dedicare ai malati veri, malati gravi da curare, non come me che non avevo niente se non questa forma di stress facilmente identificabile – ecco, nel vedere quella faccia modificarsi come in un morphing emotivo dall’autocompiacimento annuente e 1 E devo aver raccontato a tutti questi medici l’aneddoto – divertentissimo solo per me – di quando ero andato da un oculista il quale, nel darmi la notizia che avrei dovuto iniziare a portare gli occhiali, mi aveva rassicurato aggiungendo: «Ma non si preoccupi, eh, deve portarli solo per leggere e per lavorare al computer». Il che è davvero rassicurante perché in pratica mi permette, almeno, di non doverli tenere quando dormo...

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sicuro di sé all’orrore totale nel sentire la mia bocca pronunciare quella bestemmia, quella mia naturalissima ammissione di colpa nel dire che in pratica non smetto mai, mai, mai di lavorare, mi sono sentito in dovere tutte e quattro le volte (davanti all’ematologo, all’allergologo, al dermatologo e infine davanti al dottor Foglia, medico di famiglia) di aggiungere una frase di difesa, come fossi l’accusato in un processo: «Be’ per fortuna il mio lavoro mi piace davvero tanto, e se non smetto non è perché ho un carico di lavoro eccessivo e pesantissimo, ma perché il piacere è tale che a volte quasi non mi accorgo di star lavorando». (Li ho fatti fessi tutti e quattro.) «Ma perché, lei che lavoro fa?» «Faccio l’editore, ho una piccola casa editrice.» «Ah, bello! E cosa pubblicate?» «Mah, pubblichiamo per lo più narrativa, ma anche saggistica, e libri di musica, libri sul cinema...» «Narrativa, eh? E che tipo di narrativa?» «Romanzi, raccolte di racconti... Sia italiani che stranieri.» «Ah, senta... Ma allora se io volessi pubblicare un mio libro... lei forse è la persona giusta... Guardi, è una cosa che ho scritto soprattutto per me stesso, ma poi i miei amici che l’hanno letto, e mia moglie, mi hanno detto tutti che è molto bello, che bisognerebbe pubblicarlo...» Se volete sapere come è finita questa mia piccola via crucis di specialisti ecco la risposta: nessuna cura, nessuna diagnosi illuminante, nessuna certezza terapeutica, nessun 10

riscontro clinicamente provato. Però, ho portato a casa due romanzi, una raccolta di racconti e una di poesie. E così proprio loro – l’ematologo, l’allergologo, il dermatologo e pure il dottor Foglia, medico di famiglia – invece di comportarsi come quegli specialisti di cui parlano gli avvisi dei pacchetti di sigarette («il tuo medico può aiutarti a smettere») mi hanno aiutato a ricordare perché, se uno fa l’editore, non smette mai, nemmeno un istante, di esserlo.

Soltanto un parere (febbraio)

Durante il mese di febbraio, due miei amici di vecchia data, pur non conoscendosi fra loro, hanno smesso di chiamarmi, quasi simultaneamente. Non di punto in bianco, però: solo dopo avermi mandato delle email o degli sms in cui si faceva leva sull’amicizia, sul senso di colpa, sulla mia irreperibilità leggendaria. Uno fa l’avvocato, l’altra è un’attrice. Ora non ci sentiamo più: né con l’attrice, né con l’avvocato. Hanno probabilmente un forte rancore verso di me, e io mi sento paralizzato e incapace di scambiare anche una sola parola con loro. In pratica, senza che succedesse veramente, abbiamo litigato. E questo litigionon-litigio ha a che fare con il mestiere che faccio, con il fatto che loro – tutti e due, ma ognuno per fatti suoi – hanno scritto un romanzo, e me lo hanno mandato. Anzi, me lo hanno portato1. La mia paralisi in questi casi è una sin1 La differenza non è di poco rilievo. L’incontro con l’amico che ti consegna il suo romanzo avviene tipicamente di persona, e secondo una tempistica più o meno formalizzata: prima ci si sente al telefono, e con la felice sorpresa di quando un amico che non vedi da tempo ti cerca con insistenza (cosa vorrà dirmi? aspetta un bambino? ha fatto il salto di carriera

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drome che conosco bene e che non ha bisogno del parere di un medico specialista per essermi chiarita: ho il terrore di leggere il romanzo inedito di una persona che conosco bene da tanto tempo, di un amico. Perché in ogni caso ne uscirò sconfitto. Se non mi piace non avrò mai il coraggio di dirglielo fino in fondo (ma se non gli dico fino in fondo che non mi piace come potrei poi giustificare il fatto che non sono interessato a pubblicarlo? E come la penserebbe la mia coscienza di editore?). Se mi piace, avrò paura di trasformare il nostro rapporto di amicizia in una relazione professionale. Senza poi contare il senso di responsabilità nei loro confronti che mi attanaglierà senza scampo: sia se dovessi decidere di pubblicare il loro romanzo e per una delle mille possibili ragioni (incluso il fatto che glielo pubblico per amicizia, un’amicizia che non mi permetterà di esprimere giudizi e compiere azioni in maniera incondizionata) il libro dovesse andare male, o che attendeva con ansia? ha bisogno di un prestito e sta disperatamente sfogliando vecchie rubriche telefoniche?). Poi si fissa un incontro, al quale si va volentieri perché è da tanto tempo che non ci si vede. Ci si prende un bel caffè, o un più calzante aperitivo, in nome dei vecchi tempi, ci si raccontano rispettivamente le ultime vicende – la casa nuova, un lutto in famiglia, ti ricordi la mia ex fidanzata?, i progetti per le vacanze imminenti – e alla fine un imbarazzo ormai riconoscibile si fa strada nello sguardo del tuo interlocutore. Ecco, pensi: allora c’era una ragione più seria per questo incontro: magari il mio amico vorrà indagare circa delle voci arrivategli sul mio conto, oppure dovrà confessarmi una scappatella extraconiugale, o cerca un lavoro per sé o per qualcuno a lui vicino. Niente di tutto questo. «Marco, la vera ragione per cui ti ho chiesto di incontrarmi...» – una pausa di una lunghezza esasperante accompagna i movimenti impacciati del tuo amico mentre tira fuori dalla borsa un plico di cui hai ormai imparato fin troppo bene a conoscere – e temere – forma, peso e dimensioni. Ma non ancora il contenuto...

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avere risultati deludenti per loro e per me, sia se dovessi pubblicarlo e andasse bene. Non attirerei gelosie da parte di altri autori che potrebbero sospettare un trattamento di favore riservatogli non per meriti letterari ma in virtù del legame di amicizia? In definitiva: perderei in ogni caso, e per questo davanti al manoscritto di un amico mi blocco come un motore grippato. Come risulta chiaro da quello che mi è successo a gennaio con i quattro medici-scrittori, e poi a febbraio coi miei due (forse ex) amici, uno dei principali (o quanto meno dei più frequenti) problemi pratici con cui si trova ad avere a che fare un editore è la innumerevole (e a pensarci bene, incredibile) quantità di persone che scrivono e che mandano il loro testo in lettura. Il problema infatti non è tanto la gestione di quei circa duemilacinquecento dattiloscritti l’anno che ti arrivano da persone che non conosci, che vivono disseminate lungo tutta la penisola, che scrivono romanzi racconti saggi poesie favole testi teatrali sceneggiature, li stampano, li confezionano e li spediscono a noi che facciamo gli editori (o, più pigramente, li mandano per email lasciando a te anche l’onere, e il costo, di stamparli per poterli leggere). No, quello anzi, a dire il vero, non sarebbe nemmeno giusto considerarlo un problema: anche se è motivo di un enorme monte-ore lavoro di editor e redattori, di collaboratori o dipendenti, di una serie lunghissima di lettere di rifiuto, di animati dibattiti durante riunioni in casa editrice, la gestione dei dattiloscritti è qualcosa che fa naturalmente parte del nostro mestiere, un mestiere che ci siamo 15

scelti con la consapevolezza che leggere molti o anche moltissimi testi non richiesti ma inviati alla nostra attenzione sarà una delle fasi del nostro lavoro. A voler essere del tutto sinceri (pur sapendo che la percentuale di ciò che pubblicheremo di questa massa di dattiloscritti inviatici spontaneamente sarà molto vicina allo zero) dovremmo considerarla una risorsa. Il problema vero sono i dattiloscritti che arrivano da due categorie temibili: gli amici e i parenti; e dagli incroci di queste fra loro: amici di amici, parenti di parenti, parenti di amici, amici di parenti. Perché tutti questi ti chiamano – e in forza del loro status amical-parentale si sentono ovviamente liberi, anzi in pieno diritto, di farlo sul cellulare, o a casa, nei giorni di festa, in orari in cui la privacy andrebbe rispettata (del resto non ti stanno mica chiamando per lavoro – e forse, diabolicamente, dal loro punto di vista proprio per questo evitano accuratamente gli orari di lavoro! – loro sono i cugini dei tuoi compagni di liceo, sono i colleghi di ufficio dei tuoi cognati, sono gli ex fidanzati delle ex fidanzate dei nipoti dei vicini di casa dei proprietari del negozio che un tempo era gestito dalla parrucchiera di tua zia) – insomma ti chiamano infrangendo la tua intimità: e infatti mentre ti chiamano sono intimamente convinti che quello non sia il tuo lavoro: loro vogliono, sempre (e a un certo punto della telefonata questa frase arriva immancabilmente, può solo arrivare subito oppure dopo un po’ che la conversazione è andata avanti, ma possiamo starne certi, prima o poi arriverà), loro vogliono «soltanto un parere». 16

Ebbene, anche io quando sono andato dall’ematologo, dall’allergologo, dal dermatologo e poi dal dottor Foglia, medico di famiglia, non volevo in fondo altro che questo: un parere. Il parere di un medico specialista, di uno che quel parere me lo può dare perché è professionalmente in grado di darmelo, perché dopo anni di studi, di nottate sui libri e versamenti di tasse universitarie via via sempre più care, e poi di corsi di specializzazione fuori sede, e di tirocini dove la concorrenza con i colleghi tirocinanti era spietata, e di esperienza acquisita su testi scritti in altre lingue perché introvabili in italiano, e poi in convegni in giro per il mondo, e poi sul campo finalmente facendo per la prima volta il mestiere dopo aver con emozione scandito le parole «per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio», si è conquistato una posizione dall’alto della quale quel parere ora può darmelo. Ed è proprio in virtù di questo loro status (oltre che del fatto che i medici, come gli editori, sono numericamente di molto inferiori ai pazienti e agli scrittori) che io ho pagato ogni volta somme discrete, sono stato sottoposto ad attese di settimane per ottenere un appuntamento, ho preso dei numerini da un apposito distributore di numerini, ho fatto file in ambulatori affollati di persone malate di malattie per me (e magari perfino per i medici stessi) difficili da identificare, o forse di non-malati come me affetti «solo» da stress, e ho immancabilmente sbagliato giorni oppure orari delle visite, mi sono assentato dal lavoro per giornate o mezze giornate, mi sono sollevato con un certo imbarazzo magliette e felpe per mostrare parti del mio corpo, ho dovuto ogni volta limitarmi a descrivere astrattamente, anziché 17

mostrare, dei sintomi perché nessuno di questi medici aveva orari di visita compresi fra mezzanotte e le cinque del mattino (unico intervallo di tempo in cui le bolle comparivano sul mio corpo). Ma non ho mai, nemmeno una volta, dato per scontato che dal momento che quello che chiedevo era «soltanto un parere» loro me lo potevano dare facilmente, in quattro e quattr’otto, addirittura gratis, o fuori dell’orario di lavoro; o che quello che chiedevo loro era una bazzecola, una cosa da niente, qualcosa che mi era per certi versi dovuto e che se non mi davano subito dovevo farli sentire in colpa, mandargli email e sms minatori. In fondo non gli chiedevo di farmi guarire ma «soltanto» di conoscere la diagnosi. Il fatto è che darmi la diagnosi è proprio il loro mestiere. È ciò per cui io ho pagato, fatto file, preso numerini, sollevato felpe (e per cui loro hanno studiato, faticato, fatto esperienza, per cui i loro genitori si sono commossi nel sentire il figliolo ormai adulto giurare con le parole di Ippocrate: è la ragione per cui loro portano un camice bianco e io una felpa). Invece ognuno dei parenti e degli amici, come pure ognuno dei quattro medici che ho incontrato e che avevano il manoscritto nel cassetto, dà quotidianamente per scontato che lo stesso non è vero anche per me, o insomma non proprio per me ma per un editore. Il mestiere dell’editore è pubblicare libri, quindi se io ti sto sollecitando «soltanto un parere» sul mio romanzo o sulla mia silloge 18

di poesie (i poeti tendono – poeticamente, è chiaro – a definirle «sillogi», non «raccolte») non ti sto facendo fare il tuo mestiere, ti sto solo chiedendo un favore (alcuni, anzi molti, addirittura ribaltano il tutto e pensano con grande convinzione di essere loro a fare un favore a te) che in virtù del forte legame che ci unisce – passando per compagni di banco ormai dispersi, parenti mai visti, o bolle sul tuo corpo – tu ti sentirai necessariamente obbligato a darmi. E per questa ragione ti continuerò a telefonare, scrivere email, mandare messaggi via via sempre più astiosi, perché sono passate già due settimane e nonostante la nostra amicizia, addirittura parentela, tu non mi hai ancora dato quello che ti ho chiesto, che in fondo, in fondo cos’era?, era soltanto un parere. Niente di più.

Come eravamo (dicembre, tredici anni prima)

Decisi di voler fare l’editore una sera di dicembre del 1994, anche se, senza saperlo, forse già lo ero. Quella sera c’era l’open office delle edizioni e/o, la tradizionale festa natalizia della casa editrice romana, che stavolta celebrava anche il suo quindicesimo anno di attività. A quei tempi minimum fax già esisteva, ma non credo si potesse definire propriamente una casa editrice. Avevamo pubblicato – all’epoca di quella festa di dicembre – in totale quattro volumetti, che per timore reverenziale chiamavamo «quaderni» (definirli libri ci sarebbe sembrato eccessivo tanto quanto definire noi stessi una «casa editrice») e che erano distribuiti solo in poche librerie di Roma; le copertine, a cui per nostra ignoranza mancava perfino il codice a barre, avevano una grafica elegante, essenziale, ma erano stampate su una carta che solo a posarci gli occhi si macchiava in maniera indelebile; non avevamo un ufficio, e del resto non ne sapevamo niente della professione e del mercato, né tantomeno della gestione di un’impresa di qualunque forma e oggetto sociale. Ma procediamo con ordine. 21

Il tutto era cominciato quasi due anni prima. Ero al culmine di una lunga stagione appassionata che confondo nella memoria fin quasi a identificarla con l’atto finale della mia adolescenza, e fra i cui ingredienti c’erano state letture poetiche in umidi teatrini off costruiti rigorosamente sotto il livello del Tevere, presentazioni di nuovi (e quasi sempre, avrei scoperto in seguito, fatalmente ultimi) numeri di riviste ciclostilate che grazie alla mia mera presenza raddoppiavano il numero dei loro lettori, passando perfino per la partecipazione a sedicenti concorsi letterari che in modo sempre più sfacciato si palesavano ormai come nient’altro che una truffa ai danni di aspiranti scrittori, e poi la frequentazione domenicale per oltre due anni di un «laboratorio aperto di ricerca poetica», approdando infine io stesso alla creazione di un workshop di scrittura intitolato «Le parole di gomma» che si teneva negli orari di chiusura pomeridiana del pub che uno dei miei fratelli aveva aperto dopo essersi licenziato dalla concessionaria Ford in cui lavorava; ma una stagione che ricordo soprattutto come quella del mio innamoramento per i libri, e il conseguente accumularsi degli stessi, con il problema pratico della loro organizzazione e gestione in una stanza, e in una casa, quella della mia famiglia, tradizionalmente poco abituata a ospitarne, e quindi, insieme alla scoperta di librerie bancarelle mercatini dove procacciarmi qualunque cosa fosse stampata e tenuta insieme da una copertina, il moltiplicarsi delle mie visite al negozio che vendeva quelle belle mensole di legno laccato, fino alla decisione, l’unica economicamente alla mia portata, di fare un accordo con il fruttivendolo sotto casa che mi conservava le cassette più resi22

stenti da trasformare in una libreria impilabile, perché era il tempo, quello, in cui i libri si accumulavano e si leggevano avidamente, con una voracità simile forse solo a quella della prima scoperta del sesso, e più li leggevo più si faceva strada in me il pensiero che non tanto la figura dello scrittore andasse esplorata, essendo quella già abbondantemente rappresentata e studiata e perfino mitizzata, quanto quella di chi al talento altrui dedica energia e risorse per scovarlo, incoraggiarlo, sostenerlo: prendeva forma, ma forse avrei articolato questo pensiero solo in seguito, l’interesse per la figura dell’editore; e intanto che accumulavo libri e riviste, leggevo libri e riviste che parlavano di gente che faceva libri e riviste, sognando di essere loro... Il tutto, dicevo, era cominciato quando all’inizio del ’93 mi inventai una rivista letteraria, che era bene o male simile a ogni altra rivista letteraria che si potesse trovare in libreria, ma la cui caratteristica era proprio di non poter essere trovata in libreria dal momento che veniva spedita via fax direttamente a casa dei lettori. Ora, non pensate a oggi. Pensate invece all’anno del Signore 1993, quando internet nessuno sapeva ancora bene cosa fosse, quantomeno non io, e il fax sembrava già una formidabile conquista tecnologica: ebbene, avendo appena comprato il mio primo computer (un Powerbook 100 della Apple, con uno schermo grande poco meno, credo, di quello del nuovo videofonino di mia nipote minorenne, ma con una definizione decisamente peggiore) dotato di un programma che permetteva di spedire fax dal computer (miracolo!), pensai di improvvisarmi grafico, redattore, impaginatore, direttore e editore di rivista; misi insie23

me poesie, interviste, racconti, articoli scritti da amici, conoscenti, persone più o meno note (tutti, per statuto, della misura massima di una pagina) e pensai, chissà cosa mi passava per la testa quel giorno, di spedire questo numero zero di «minimum fax»1 alle redazioni culturali dei principali quotidiani italiani. Da allora la mansardina soprastante la casa di mia madre dove abitavo e dove fui costretto a far installare subito una nuova linea telefonica fu visitata quotidianamente, per almeno due settimane, da giornalisti, fotografi, troupe televisive, inviati di trasmissioni radiofoniche, tutti incuriositi da «questa idea così innovativa». Io stesso all’inizio non mi capacitavo del fatto – iniziai a comprenderlo mano a mano che limavo, cercando di migliorarle, le risposte per i giornalisti – che la vera novità non era tanto nello spedire letteratura attraverso gli stessi canali che normalmente venivano usati per inviare fatture o pubblicità violatrici della privacy, quanto nell’aver inconsapevolmente risolto alcuni dei principali problemi della piccola editoria indipendente: costi di stampa, distribuzione, magazzino. Ai giornalisti chiedevo solo che nei loro articoli e servi1 Questo insulso gioco di parole metteva insieme mcluhanianamente il mezzo (fax) e il messaggio che doveva essere per necessità breve (minimum): il mezzo insomma definiva le caratteristiche del messaggio. Ma questo credo di averlo capito solo dopo. All’inizio c’era solo un’assonanza con la famigerata minimum tax, «un provvedimento» – come racconta il sito della Confartigianato Novara – «varato per cercare di limitare l’evasione fiscale e che – come spesso accade – finisce con l’essere un grave freno per le imprese». La minimum tax viene abolita nella primavera del 1994, esattamente quando nasce la casa editrice che si porta dietro il nome assurdo di quella rivista. Oggi, quando mi chiedono perché la casa editrice si chiama così, cerco sempre di glissare e cambio velocemente discorso.

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zi segnalassero il numero di telefono con la dicitura «Chiunque voglia ricevere gratuitamente il primo numero della rivista può richiederlo telefonando al...», non immaginando la portata che potesse avere quel numero messo in grassetto sul «Corriere della Sera» o in sovrimpressione in un servizio al tigì dell’ora di cena. Il risultato fu l’arrivo di oltre duemila richieste (così tanta gente aveva un fax a casa? No, scoprii più avanti che molti volevano riceverlo in ufficio). Era un dato strabiliante, non capivo se di segno positivo o negativo, e pagai il prezzo di questa sete di letteratura via fax con alcune bollette salatissime, l’acquisto di due segreterie telefoniche, e intere giornate a rispondere a telefonate e fax, onere che condivisi con pochi amici che mi aiutarono a evadere tutte le richieste. Posso considerarlo l’investimento iniziale. Più avanti, quando si faceva tempo di preparare il numero successivo, avrei proposto a quegli stessi amici2 di 2 Di questi amici, uno, Daniele di Gennaro, diventò ben presto il mio socio e compagno di ogni avventura, passata presente e di là da venire. Gli altri (Luigi Amendola, Francesco Piccolo, Antonio Pascale), in tempi e modi diversi, hanno finito tutti con l’essere parte del progetto editoriale: Luigi divenne il direttore responsabile della rivista quando decidemmo di fare le cose in regola e registrarla al tribunale (dove rimanemmo «in attesa di registrazione» per oltre un anno perché nessuno alla Sezione Stampa del Tribunale di Roma sapeva in che categoria andasse inserita una pubblicazione via fax); Francesco è stato il primo a cui ci azzardammo a dare la definizione di «editor» quando ancora a noi stessi non erano forse del tutto chiare le implicazioni di quella parola straniera; Antonio fu il primo lettore di manoscritti – autore di memorabili lettere di rifiuto – sin dal 1994, e solo una dozzina di anni dopo avrebbe pubblicato un romanzo nella nostra collana di narrativa italiana, raggiungendo sulle pagine del nostro catalogo Luigi e Francesco, autori dei primi due «quaderni di minimum fax», tuttora sorprendentemente in commercio e ristampati più volte.

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condividere con me anche l’avventura della rivista. Ricambiarono con l’entusiasmo di farmi rivivere in prima persona (e ovviamente in formato «mignon»), insieme a loro, le esperienze che avevo studiato e che mi avevano appassionato, dal «Politecnico» a «Nuovi Argomenti», da «Solaria» a «Carte Segrete», da «Granta» a «Linea d’ombra». E con lo stesso entusiasmo, un anno dopo, ci mettemmo in testa a vicenda l’idea forse un po’ avventurosa che sarebbe stato bello produrre anche qualcosa che si potesse trovare in libreria, che non viaggiasse solo sulle linee telefoniche, che si potesse sfogliare normalmente, che non scolorisse subito (come succedeva ai testi scritti sulla carta termica di quei primi fax). Insomma, perché non pubblicare dei libri? Dall’istante in cui ci ponemmo quella domanda al momento in cui ci ritrovammo a scaricare i cartoni dei primi due «quaderni di minimum fax» al nostro stand al Salone del libro di Torino del 1994 passarono in tutto cinque settimane. Non chiedetemi come sia stato possibile. Era di maggio, e sette mesi dopo (con altri due volumetti stampati nel nostro brevissimo curriculum) mi aggiravo emozionato e raggiante con un bicchiere di vino rosso in mano fra le stanze della casa editrice e/o, felicissimo di dividere tartine e pasticcini con scrittori, traduttori, editor... Ero sicuramente un intruso, nel mondo dell’editoria, ma iniziavo a sentirmi quasi a casa. C’erano foto degli autori alle pareti, e alcune di quelle facce le avevo appena incrociate nel corridoio, e ovunque ti giravi c’erano libri. Scaffali con volumi stranieri divisi – 26

nelle mie sistemazioni nelle cassette della frutta non avevo mai pensato a questa opzione – per lingua, e poi in una stanza (era la stanza dove in quel momento stavo spalmando una squisita salsetta piccante su una tartina, ma normalmente, nei giorni in cui l’office non era open, doveva essere la redazione, o forse la sala riunioni della casa editrice) una cosa che mi fece venire i brividi: una libreria di legno chiaro con tutti i titoli pubblicati da e/o, in fila, numerati. Si potevano distinguere le macchie di colore delle varie collane, ripercorrere le evoluzioni grafiche (anche la loro collana praghese dei primi anni aveva copertine che si potevano facilmente macchiare!), il passaggio al formato tascabile... Devo essere sincero: non credo che quella sera davvero tornai a casa con una illuminazione, con la repentina chiarezza sul mio futuro, e non ebbi, cavalcando in groppa al mio Ciao bianco su sampietrini e scivolose rotaie di tram verso la mansarda dove abitavo, una folgorazione come sulla via di Damasco; nessun lampo quella notte squarciò le nubi facendo apparire un libro luminoso nella volta celeste. Ma sono certo che se sono diventato editore è anche perché quella sera, alla festa di e/o, qualcosa iniziò a prendere forma e coscienza dentro di me.

Il prezzo di copertina (marzo)

Quello che non ho avuto il coraggio di confessare all’ematologo, all’allergologo, al dermatologo e nemmeno al dottor Foglia, medico di famiglia (e del resto, me ne rendo conto, sto per confessarlo a me stesso solo ora), è che se le bolle sono un segnale dello stress, e se come credo lo stress è a sua volta il segnale di una insoddisfazione, l’insoddisfazione, detta in due parole, è probabilmente questa: con il lavoro che ho scelto di fare, mi aspettavo che la mia vita sarebbe stata diversa. Ecco, ora l’ho detto. Ma tutto, credo, nasce soltanto da un equivoco. Io infatti, a causa di questo equivoco, mi immaginavo una vita fatta solo di lunghe giornate su un divano a leggere libri e manoscritti alla scoperta del talento che avrebbe cambiato la storia della letteratura; di conversazioni rivoluzionarie in fumose bettole del centro storico di una qualunque capitale mondiale con scrittori leggendari o ancora sconosciuti ma alla cui leggenda avrei contribuito con il mio apporto decisivo; di illuminanti riunioni di redazione con collaboratori, consulenti, amici, traduttori 29

che sarebbero proseguite con memorabili serate in trattoria; di meravigliose sessioni di scrittura per comunicare (ovviamente con lettere che, nella mia visione romantica sarebbero state scritte rigorosamente a mano, su carte pregiate prodotte da storiche cartiere di provincia...) agli autori sparsi per il globo terracqueo che l’ultima edizione dei loro volumi di racconti ha avuto l’accoglienza che speravamo (e rispondendo che mi dispiace, ma la mia presenza è richiesta in redazione e quindi mi vedo costretto a declinare l’invito per il viaggio in barca fra le isole nella corrente – ma che allego l’assegno per le royalties maturate); di entusiasmanti viaggi per l’Italia, come Calvino nella sua Topolino, per conoscere librai gentilissimi che non vedono l’ora di incontrare la persona che si cela dietro il marchio, e per il mondo a conoscere colleghi editori e compagni di avventura; perfino di languidi pomeriggi di tarda primavera in cui decidere la giusta disposizione delle foto degli autori pubblicati sulla parete della sala riunioni dell’ufficio, o dei libri della casa editrice sugli scaffali della mia libreria. Insomma, mi ero lasciato convincere dalle saghe parigine hemingway-milleriane, o dal racconto in presa diretta degli scrittori beat, avevo creduto di poter ripetere facilmente l’esperienza, che so, del «New Yorker» di William Shawn, dell’Olympia Press di Maurice Girodias, della Shakespeare and Company di Sylvia Beach, della City Lights di Ferlinghetti, del Bloomsbury Group di Virginia Woolf, della «Paris Review» di George Plimpton, della «Rivoluzione liberale» di Gobetti, dell’Einaudi del tridente Vittorini-Calvino-Pavese... 30

E fantasticando su queste altre irripetibili esperienze – ecco dove sta l’equivoco – avevo dimenticato che l’editore non è solo un appassionato di libri, un animatore culturale, un filantropo che dedica la sua vita alla ricerca di un modo per aumentare la presenza di bellezza del mondo, ma è fondamentalmente un imprenditore. Un imprenditore! Tanto quanto lo è chi apre un’agenzia immobiliare in franchising, una tintoria, un negozio di parrucchiere o un ristorante. Che sono attività imprenditoriali proprio come (una casa editrice o) una società di produzione cinematografica, una libreria di quartiere, una compagnia teatrale o di danza, un’agenzia letteraria: attività in cui l’apporto delle persone che ci sono dentro è determinante, forse è tutto, ma pur sempre imprese, e quindi iscritte alla camera di commercio, e con tanto di partita iva, obblighi fiscali e bilanci depositati. Oggi, la gran parte del tempo che dedico al mio mestiere di editore (che senza alcuna esagerazione è di non meno di una dozzina di ore al giorno e quasi sempre sconfina nelle ore di sonno: molte delle idee poi realizzate mi sono arrivate in fase REM) è destinata a svolgere una o più delle seguenti attività: riunioni con il commercialista per aggiornamenti sulle ultime normative e tassazioni; trattative con il direttore della filiale di banca per far scendere il tasso d’interesse passivo; controllo delle vendite dei libri e discussione sul fatturato per periodo o per zona; incontro con uno o più dipendenti per valutare la loro richiesta di aumento della retribuzione; incontri con la rete dei venditori per comprendere le chance di un autore 31

esordiente di sfondare il muro delle duemila copie di prenotazione in libreria; visita alla tipografia per ipotizzare l’uso di una carta altrettanto elegante ma appena più economica; studio di nuove opportunità per riorganizzare la gestione del magazzino; trattative serrate a colpi di email per la conclusione di un contratto di edizione; riunioni con la responsabile amministrativa per sapere quali dei pagamenti sospesi siamo riusciti a fronteggiare questo mese; richiesta di preventivi da fornitori per cambiare i computer della redazione (che a me pareva di avere appena comprato ma invece sono già obsoleti), o la rete informatica, o la centralina telefonica, o le lampadine dell’ufficio ai fini del risparmio energetico... Per questo, ogni volta che mi trovo a riflettere sulla differenza tra le aspettative originarie (i pomeriggi sul divano, le serate in trattoria con gli scrittori) e la realtà della mia vita (commercialisti, banche, distributori, magazzini) mi chiedo dove ho sbagliato. Allora mi può capitare di sfogliare il catalogo dei libri pubblicati alla ricerca di una qualche verità nascosta, oppure mi rigiro fra le mani uno dei nostri volumi più recenti, mentre mi gratto il braccio martoriato dove iniziano a comparire le prime timide bolle (per la maggior parte delle volte, il momento riflessivo arriva a tarda sera, o nel pieno della notte) e rafforzo la posizione: sì, ci dev’essere senza dubbio un errore da qualche parte. Ma dove? Mi passo con scatti isterici i polpastrelli (non le unghie: me lo vieto) sulla nuca ormai arrossata e interrogo disperatamente il libro che ho davanti, una specie di Mosè su cui sta per abbattersi il mio martello rabbioso e impo32

tente (perché la colpa è sua di certo). Alla fine, dopo averlo squadrato con puntiglio per verificare la centratura millimetrica del dorso e del titolo su questo, e dopo aver fissato l’illustrazione fino a farmi lacrimare gli occhi, e il nome dell’autore ripetendolo al punto di assimilarlo ormai come un suono a un tempo familiare e senza senso, dopo aver passato quegli stessi polpastrelli sulla levigatezza quasi assoluta della plastificatura della copertina, e fatto frrrrrr (e ancora un più veloce, nervoso f-rr) con il pollice sul taglio delle pagine, analizzato a fondo i caratteri tipografici cercando insperate corrispondenze fra le loro forme astratte e le preghiere non esaudite del mio momento, controllato la simmetrica schiettezza dei risvolti, osservato da vicinissimo la rassicurante sequenza sinuosa degli archetti che i sedicesimi cuciti a filo fanno nel punto in cui si incontrano sulla rilegatura; dopo aver flesso il libro pressandolo fra i palmi di entrambe le mani per farne una esse, e poi una u, e poi se è un libro più sottile e lo permette anche un piccolo tubo-cannocchiale dentro cui guardare l’universo che sta dall’altra parte (un televisore spento, un divano ricoperto di cuscini, una pila di altri libri, il mio piede, due candele), e mentre anche l’altro braccio si popola di puntini rossi, un esercito che adesso sento posizionarsi silenzioso in attesa dell’attacco, anche sulle cosce, e sul torace, e sulla schiena, mi capita di accorgermi che sul retro, su quella che più comunemente chiamiamo «quarta», in posizione speculare alla finestra da cui si può guardare lo skyline vertiginoso del codice a barre, eccolo, sta lì – triste, solitario y final – il prezzo di copertina. È lui a darmi finalmente la risposta che cercavo. 33

Il libro ha un prezzo per me (le riunioni, i venditori, i bilanci e tutto il resto) così come ha un prezzo per il pubblico, per i lettori. E questo prezzo di vendita è ciò che in maniera più trasparente, senza infingimenti e ipocrisie, mi dice che dentro ci saranno pure delle storie, qualcosa di etereo e intangibile, ma in fondo tutto (no: quasi tutto) è finalizzato a una vendita, a un risultato economico. E allora, quando smetto di grattarmi, quando mi risveglio da sonni agitati, ed è mattina, e mi compiaccio appena un po’ del lento scomparire delle bolle, con gli ultimi ineffabili rimasugli di un qualche sogno che sto già dimenticando, inizio finalmente a capirci qualcosa. Mi ricompongo e comprendo che ogni cosa ha un prezzo, e il prezzo del libro che ho fissato inebetito fino a poco prima è quello che mi permette di andare avanti. È l’impresa, parola da interpretare in ogni senso: l’impresa di riuscire a far quadrare i conti. Quella che in distinzioni di scuola fa stare da una parte l’editore industriale (vendere libri e fare profitto è il fine ultimo della sua impresa) e dall’altra l’editore culturale o di progetto, l’editore indipendente (vendere libri e fare profitto è il mezzo necessario per andare avanti e perseguire il progetto che è il suo sogno). Il prezzo, quel numeretto di due cifre al di qua e due al di là dello spartiacque di una virgola (ma anche il prezzo mio: tutto quel tempo passato a fare dell’altro che non sembra far parte di un’attività culturale), è una unità di misura, anzi la misura stessa di tutte le cose. Misura il risultato della mia attività. Se riuscirò a vendere un numero sufficiente di copie del libro pubblicato questo mese (se 34

un numero sufficiente di persone pagheranno quel prezzo per comprarlo) potrò pubblicare un altro libro il mese prossimo, e via di seguito. Non è così semplice, certo, c’è una infinità di altre variabili da rendere fluide come quel frrrrr di poco fa. Ma per ora mi basta, è stato sufficiente a far sparire il prurito, e la paura, e il senso di inadeguatezza che a volte mi opprime.

Società a responsabilità illimitata (aprile)

Ancora a caccia delle possibili cause dello stress che mi è stato diagnosticato a inizio anno, mi sono imposto di fare almeno ogni tanto una lettura che non abbia un diretto interesse lavorativo1. Per esempio, il libro che ho letto a bordo piscina dell’hotel Capizzo di Ischia dove sono andato a passare il weekend di Pasqua con la mia fidanzata e un gruppetto di amici: è un romanzo americano, un classico contemporaneo, la cui lettura ho rimandato per anni. Mi ero finalmente ritagliato il momento perfetto per leggerlo, ma 1 Ecco una piccola lista di alcuni fra gli altri correttivi che ho recentemente apportato al mio stile di vita, cercando di accerchiare lo stress mettendolo con le spalle al muro, intimandogli di arrendersi e andare via portandosi dietro queste fastidiosissime bolle: mi sono iscritto a un corso di spagnolo, scegliendone deliberatamente uno le cui lezioni si tengono in giorni infrasettimanali e orari tardopomeridiani, costringendomi così a lasciare l’ufficio alle 17 (anziché le solite 20) due volte a settimana; ho limitato allo stretto necessario l’atto di staccare il computer portatile dalla presa elettrica dell’ufficio e portarmelo a casa; mi sono imposto di non leggere, la sera prima di dormire, testi da editare o correggere, ma vecchi numeri di «Topolino» comprati su una bancarella, o la mia rivista preferita «Vanity Fair» (ogni tanto mi concedo uno strappo col «New Yorker», ma in quei casi cerco di limitarmi alle vignette).

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questa gioia tanto attesa si è rivelata effimera quando è stata funestata dalla mia deformazione professionale. Non ho potuto fare a meno di notare, fino a ossessionarmene, che si trattava di un’edizione carica di errori, refusi, incongruenze, calchi di traduzione, perfino svarioni ortografici e grammaticali; dopo nemmeno cento pagine avevo già contato almeno sei «un» con l’apostrofo dove non ci voleva o viceversa; punteggiatura errata in una infinità di frasi; i capitoli avevano a volte il numero romano e altre il numero arabo e quest’ultimo era spesso sbagliato (formidabile la sequenza: XIII, 14, 15, XV, 17, XIII, XIX). Il tutto in un libro che, dal momento della sua prima apparizione italiana, ha avuto già quattro diversi editori, più numerose ristampe di cui almeno una di enorme diffusione. Sta di fatto che, pensando a quel romanzo e ai suoi editori, la lettura per mero svago si è trasformata in una serie di riflessioni sul mio mestiere, così che più volte mi sono distratto e ho dovuto chiudere il libro perché i pensieri si facevano troppo insistenti e quel loro rumore, come il continuo ronzio di fondo di un frigorifero o di un televisore, mi distoglieva dagli avvenimenti del campus universitario dove è ambientato il romanzo. E così ho iniziato a interrogarmi su un tema che mi sta a cuore, un tema complesso che potrei racchiudere nella parola «responsabilità». Ora ovviamente io non credo affatto che il mio sia il mestiere più importante che esista: se solo iniziassi a fare un 38

elenco, l’editore finirebbe inesorabilmente in fondo alla classifica, di sicuro dopo insegnante, medico, politico, e chissà quanti altri. Però, anche se da un editore certo non dipende la sopravvivenza di altri esseri umani, o la pace nel mondo, il governo di un paese, la soluzione di conflitti sociali, la formazione spirituale dei popoli, io ritengo tuttavia che sia un mestiere in cui si avverte, forte, il senso di responsabilità. Credo anzi che se non ne sentissi il peso, e anche l’orgoglio, non avrebbe senso andare avanti. La responsabilità dell’editore, per lo meno così la vedo io, ha diverse forme, e vari destinatari: i lettori e gli autori innanzi tutto, come soggetti a diverso titolo interessati alla «filiera» del libro. Ma poi c’è una responsabilità forse meno concreta, meno definibile, che è quella che l’editore ha verso se stesso e, attraverso se stesso, verso la società. Ma andiamo per ordine. Leggendo quel romanzo a bordo piscina, ho pensato alla responsabilità dell’editore che – per distrazione, fretta o poca cura, per approssimazione o superficialità, per mancanza di mezzi o viceversa per massimizzare i profitti tagliando su quei costi che garantiscano un controllo della qualità – compromette un’adeguata fruizione del libro da parte del lettore, che in fondo dovrebbe essere, e forse è, il giudice ultimo e supremo del lavoro della casa editrice. Deludere il lettore è quasi un peccato mortale, che andrebbe punito con un’ammenda: ma in fondo la punizione l’editore se l’infligge da sé, perché, dopo la rottura del patto implicito che ha come stretta di mano l’acquisto del libro, il lettore deluso difficilmente rinnoverà la sua fidu39

cia alla casa editrice2. Mi sono spinto a considerare le possibili implicazioni nei casi in cui non si tratti di narrativa ma di testi accademici o scolastici, in cui ben altre possono essere le ragioni di un lavoro editoriale inaccurato se non addirittura disonesto, e ben peggiori le conseguenze: ma mi è venuto quasi mal di testa a pensarci. Quanto invece alla responsabilità che un editore ha nei confronti degli scrittori, il caso più lampante è quando si tratta di pubblicare un esordiente. Per un editore, l’atto di scegliere fra le migliaia di aspiranti scrittori quei pochissimi a cui attribuire lo stato civile di autore pubblicato, e scommettere su coloro che sembrano destinati – in grado variabile – a incidere sullo stato delle cose (a incidere sulla realtà e modificarla, anche solo di un millimetro), è la parte più emotivamente impegnativa del mestiere. Ricordo almeno un paio di casi in cui, durante delle lunghe sedute di editing, ho trovato il coraggio di dire all’autore che avevo accanto di ritenere quel debutto letterario troppo bello e importante e di conseguenza l’editore (io) non degno di pubblicarlo: quel romanzo, quei racconti meritavano una casa editrice più grande, più prestigiosa, con le spalle più larghe, in modo da consegnare l’opera, e l’inizio di una carriera luminosa, a un pubblico più vasto, a una critica più attenta e, quindi, a un destino migliore. Col tempo ho poi imparato che quasi sempre l’esordio con una casa editrice più piccola è invece una condizione 2 Diceva Bompiani: «Se mai il gesto è maldestro e la voce (il libro) sbagliata, basta che io sia il primo a pagare l’errore e mi assolveranno».

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preferibile: lo scrittore – che deve affrontare un cambio di status che non si ripeterà mai più3, dall’anonimato della pila dei manoscritti all’esistenza in vita sugli scaffali delle librerie – è accolto in un ambiente intimo, protettivo, il più delle volte amichevole, senza dispersioni, ha un contatto diretto con la casa editrice che è un gruppo di persone e non un organigramma di ruoli – persone che hanno letto quelle pagine e se ne sono innamorate – e dove tutti, ognuno per la propria competenza e per il proprio compito, stanno lavorando per trasformarle in un libro. La casa editrice dal canto suo sta pubblicando un lavoro che, non essendo uno fra tante migliaia ma uno dei pochi titoli annui da cui dunque dipende direttamente la sua sopravvivenza e sussistenza sul mercato, farà di tutto per rendere visibile, vendibile, vivo. Nella maggior parte dei casi verrà a crearsi una complicità fra scrittore e casa editrice che potrà assumere le differenti forme della stima, dell’amicizia, della dipendenza, fino a diventare magari un’aderenza perfetta, e alla fine se il rapporto così iniziato sarà duraturo, si alimenterà vicendevolmente, nella forma, se vogliamo, del mutuo soccorso, e con la sostanza, nella maggior parte dei casi, di una reciproca soddisfazione che può arrivare vicina a definirsi felicità. Infine, la responsabilità verso se stessi, e forse anche verso (l’espressione non sembri eccessiva) la società civi3 Come scrisse Italo Calvino nella famosa prefazione all’edizione del 1964 del suo primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno: «Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita».

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le, è principalmente quella di produrre e diffondere buoni libri, e cioè di fare bene il proprio mestiere, secondo coscienza. Credo che agire con coscienza significhi anche saper dimenticare – almeno quando si è nudi di fronte al nudo testo – le implicazioni economiche del libro, e decidere solo in base a un criterio etico. Pur senza prendersi eccessivamente sul serio, come diceva Giangiacomo Feltrinelli, con l’umiltà e la consapevolezza di essere «un veicolo di messaggi», l’editore deve essere in grado di «incontrare e smistare i messaggi giusti, ricevere e trasmettere scritture che siano all’altezza della realtà. E quindi: l’editore deve gettarsi, tuffarsi a rischio di annegare, nella realtà [...] può anche affrontare il proprio lavoro sulla base di un’ipotesi molto azzardata: che tutto, ma proprio tutto, deve cambiare, e cambierà». Tutto questo, tutte queste implicazioni che riguardano parole grosse come «etica», «società civile», «coscienza», «realtà», «cambiamento», passa poi anche per delle pratiche molto concrete, molto quotidiane. Sono queste a fare il mestiere, ed è poi il mestiere a farsi responsabilità. Perciò sono convinto che anche la scelta di un’immagine da mettere in copertina, il tono usato nel risvolto redazionale di un libro, il rifiuto dell’enfasi a tutti i costi in un comunicato stampa, la correttezza nei confronti di dipendenti e collaboratori, la tutela del diritto d’autore, il rispetto dei lettori, la coerenza delle scelte editoriali, perfino l’attenzione alla tradizione letteraria e al canone, allo stile e alla grammatica, tutto contribuisca a determinare una responsabilità dell’editore. 42

Quando penso al modo in cui si sono formati i gusti, i criteri, i principi; quando ripercorro le scelte editoriali e mi accorgo che la politica di un editore è spesso definita con più efficacia dalla decisione di non pubblicare qualcosa, di non cadere nella trappola della via più breve, soprattutto di non cedere alla tentazione del libro facile4; quando mi guardo intorno nell’ufficio e vedo le persone che lavorano con me, che hanno scelto o sono state scelte dalla casa editrice, e il cui contributo è ormai inestricabile, indistinguibile dal mio; quando a fine giornata chiudo la porta della redazione e ripercorro l’innumerevole quantità di gesti e operazioni, minuscole o complesse, che stanno dietro alla realizzazione di un libro, e che nel libro finito saranno impercettibili, eppure capisco che meno si vedranno, come i complicati meccanismi che manovrano uno strumento di precisione, e migliore sarà l’effetto finale; quando penso al momento in cui, come è successo per 4 È «facile» qualunque libro non comporti, azzerandolo programmaticamente, un rischio per l’editore, qualunque libro venga pubblicato non per il suo valore intrinseco ma per interessi che esulano da quello specificamente editoriale. È facile dunque il libro dell’autore «disposto a contribuire alle spese di pubblicazione»; dell’autore-giornalista che si impegna a farlo recensire a tutti i suoi colleghi disseminati nelle redazioni di quotidiani e periodici; del politico di turno, che è sempre bene tenersi amico; del divo del momento che garantisce la scalata alla vetta delle classifiche; del direttore di biblioteca che sottoscrive un acquisto di copie; del professore universitario che ne dà per certa l’adozione di massa; del dirigente di istituto o fondazione pronto a mettere per iscritto che userà il suo ruolo (e i soldi altrui, se non addirittura pubblici) per promuovere il libro. È ovvio che possono esserci, e sicuramente ci sono, ottimi libri e ottimi scrittori fra tutte le categorie citate, ma l’appartenenza alla categoria non può essere il solo criterio di valutazione del libro: sarebbe come usare la corsia d’emergenza dell’autostrada solo perché si ha voglia di arrivare a casa presto.

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ogni libro pubblicato, le parole lette su un foglio dattiloscritto a un certo punto, prima di diventare libro, sono diventate una voce, un volto, un’espressione, una persona che porta in sé un universo, una vita, un’esistenza, e ognuna di queste esistenze ha cambiato un po’ la mia, come in qualche modo la mia si è intrecciata alle loro; e anche quando con sorpresa si rinnova il miracolo per cui quest’incrocio di esistenze ha prodotto un libro che in modi diversi andrà a finire nelle vite e nelle giornate di altre persone, che non conosco e forse mai conoscerò, e verso le quali quindi mi sento paradossalmente più responsabile ancora, perché non ci lega alcun vincolo se non il patto tacito del libro – quando mi succede come adesso, che penso a tutte queste cose insieme e i pensieri mi affollano la mente, ecco che mi rendo conto di come si sia creato in me questo senso di responsabilità. E adesso, come ogni volta che ci penso, riesco a dare un significato a quello che faccio, e ritrovo il giusto equilibrio tra subire il peso e assecondare il fascino del sentirmi responsabile.

Domani nella battaglia pensa a me (maggio)

Per anni, quando in occasioni pubbliche, interviste, presentazioni, conferenze mi hanno chiesto di raccontare la storia della mia casa editrice, l’ho fatto iniziando con una battuta: «Nella primavera del 1994 anche minimum fax decise di scendere in campo». Ciò che voglio lasciar intendere citando la famigerata espressione con cui Silvio Berlusconi annunciò il suo debutto in politica è che se verso la metà degli anni Novanta c’è stato in Italia un fermento editoriale di enorme rilevanza, personalmente intravedo fra le cause che hanno scatenato l’esplosione dell’editoria indipendente – oltre a motivazioni da ricercare all’interno del mercato editoriale stesso – anche una forte pulsione esterna, di matrice politica. Ora per esempio mi trovo, come ogni maggio, fra gli stand della Fiera del libro di Torino e, come ogni maggio, faccio la piacevole scoperta di decine e decine, forse centinaia di nuove case editrici. Marchi, progetti, libri, autori che solo un anno prima, alla precedente fiera, non esistevano. E allora penso a quando anche noi abbiamo co45

minciato. Come eravamo? Avevamo la stessa faccia rilassata, lo stesso entusiasmo? Eravamo anche noi un po’ spaesati, con così pochi libri, e con uno stand così piccolo? Eravamo chiari oppure confusi circa il nostro progetto editoriale? Sgomitavamo per farci notare da un giornalista o uno scrittore famoso che passava davanti al nostro stand? E dovevamo spiegare a tutti i visitatori chi eravamo, cosa facevamo, e perché? Lo facevamo solo per amore dei libri o per altre ragioni? E che anni erano quelli? Be’, quelli intorno alla metà dei Novanta erano anni in cui le concentrazioni editoriali catapultavano l’Italia in coda alle graduatorie sulla libertà di stampa e di opinione. L’informazione veniva consegnata alle mani di pochi, pochissimi soggetti, e il panorama già così fortemente caratterizzato dal duopolio televisivo Rai-Mediaset si complicò ulteriormente quando, alle lottizzazioni della tv pubblica a cui siamo stati abituati per decenni, si aggiunse l’ulteriore paradosso dell’accentramento dei grandi network televisivi nazionali nel portafoglio di un solo uomo, che per di più, appunto nella primavera del ’94, scende nell’arena politica. Questo solo basta, per me, a dare necessariamente una connotazione (anche) politica al gesto di un minuscolo imprenditore con pochi mezzi che sceglie la strada dell’editoria indipendente nelle stesse settimane in cui l’Italia diventa, sotto il profilo della libertà di stampa e di opinione, terzo mondo1. 1

A questo proposito, in tempi non sospetti, e cioè prima della famosa

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Erano tempi duri per il settore editoriale: come ricorda Giovanni Peresson nel suo intervento incluso in Tirature ’94, nel triennio 1990-93 il mercato librario italiano aveva «presentato un saldo negativo globale del 6,95%. In una parola: crisi». Era in crisi il mercato, certo, ma erano in crisi proprio i modelli di editoria culturale: gli anni Ottanta erano stati attraversati dai fallimenti (in senso finanziario o progettuale) di marchi-faro come Feltrinelli, Einaudi, Editori Riuniti. L’acquisizione di Einaudi (forse l’editore indipendente per antonomasia) da parte di Mondadori, oltre a costituire uno shock culturale, era solo il segno più evidente di un processo di concentrazione: al giro di boa degli anni Novanta ben più di metà dell’intero mercato librario era appannaggio di pochissimi gruppi editoriali. Insomma, si vendeva ancora meno in un Paese già tradizionalmente agli ultimi posti nelle classifiche europee della lettura, e come se non bastasse il gioco si faceva ancora più difficile perché c’era sempre meno spazio per emergere. Come si spiega allora quel proliferare di tanti nuovi marchi, che Gian Carlo Ferretti nella sua Storia dell’editoria letteraria in Italia definisce «un processo che è iniziato già negli anni Settanta, e che è continuato nei successivi primavera del 1994, è stato detto che «le concentrazioni in atto nell’editoria libraria potrebbero essere paragonate alla fusione tra Motta e Alemagna nell’industria del Panettone: aprì una grande stagione per quei produttori medi che badarono, più che a far pubblicità, a far panettoni buoni» (Miro Dogliotti e Federico Enriques, Genere: impresa; specie: editoriale. Ovvero: note di editoria comparata, in Calvino e l’editoria, Marcos y Marcos, Milano 1993).

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decenni, fino a costituire negli anni Novanta un panorama per molti versi eccezionale»2? Come si giustifica il fatto che, in quel 1994, ovunque mi voltassi c’era una casa editrice che stava nascendo? Nell’arco di pochi mesi, gli stessi in cui minimum fax pubblicò i suoi primi libretti, partiva l’avventura di editori come Castelvecchi, Fazi, Donzelli, Voland, Instar, Meltemi, Pequod e moltissimi altri. Come si può interpretare, alla luce di quella premessa («in una parola: crisi»), il fenomeno di massa secondo cui, stando alle cifre fornite dall’Istat, nella stagione 1993-94 nascono circa 300 nuovi marchi editoriali e, successivamente, in maniera esponenziale, dalle 2754 case editrici di quello stesso ’94, con un processo in crescendo si arriverà in soli sei anni alla cifra record di 4322? Proseguendo in questa direzione si arriva fino all’ultimo dato attualmente disponibile, di circa 8000 marchi attivi oggi in Italia3. In pratica, dal giorno in cui ho deciso di fare l’editore, il numero già altissimo di «concorrenti» si è addirittura più che triplicato. Peraltro, di tutte queste migliaia e migliaia di nuovi marchi nessuno è entrato a far parte di quella élite di grandi o grandissimi editori, che restano sempre gli stessi: la quota di mercato destinata ai «piccoli» è in pratica più o meno costante, ma va divisa fra un numero sempre crescente di soggetti. L’ultimo dato disponibile ci dice che 2 Ma non solo: «L’eccezionalità del fenomeno rispetto al passato lontano», prosegue Ferretti, sta «nella qualità di moltissime microstrutture». 3 L’ultimo dato Istat indica l’esistenza di 8373 editori censiti al 1° gennaio 2007.

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l’86% dei libri distribuiti in Italia è prodotto dal 10% degli editori. Sta di fatto che il mercato sembra «bloccato», pieno di soggetti che scalpitano e con un «tappo» impossibile da far saltare. Eppure ogni anno, che l’osservatorio sia fornito da dati statistici o da un giro fra i padiglioni della Fiera del libro, non si può fare a meno di notare quanti nuovi editori iniziano la loro avventura. Non so se, per spiegare il fenomeno, può bastare la massiccia diffusione dei personal computer avvenuta a partire dalla fine degli anni Ottanta, che ha reso idealmente possibile contenere un’intera casa editrice in un laptop di poche centinaia di grammi, dalle dimensioni non più grandi di un foglio A4 e dal prezzo assai accessibile. Un piccolo computer adeguatamente attrezzato con due o tre software essenziali fa andare avanti il lavoro del grafico, del redattore, dell’editor, del traduttore, dell’ufficio stampa, dell’amministrazione, del magazzino e così via. Una «microstruttura» composta idealmente anche di una sola persona che abbia a disposizione anche un solo computer (e, certo, il suo inestimabile patrimonio di idee...) può mandare avanti una piccola casa editrice. Del resto, per la sua conformazione, l’impresa editoriale è già naturalmente destinata a realizzare gran parte delle fasi del lavoro esternamente alla sua struttura. A partire dalla materia prima, i testi, che vengono scritti dagli autori che non fanno parte dell’organico della casa editrice (e i traduttori nel caso di libri scritti originaria49

mente in altre lingue; e così anche curatori, prefatori e via di seguito). La realizzazione del prodotto finito (cioè la stampa e l’allestimento dei volumi) è fatta presso una tipografia che nella quasi totalità dei casi, e cioè con l’eccezione di quei pochi colossi editoriali che possono permettersi di possedere macchinari di stampa propri, è anch’essa esterna alla casa editrice, come pure tutta la commercializzazione dei libri, attraverso la rete di agenti di vendita, i distributori, fino ai singoli librai e bibliotecari. Pertanto una conformazione ultraleggera sia in termini di «hardware» che di «risorse umane» rende oggi decisamente più bassa che nel passato la soglia economica di accesso al mercato (come dimostra appunto il nostro caso, di un’azienda nata, letteralmente, senza alcun capitale iniziale: anzi siamo partiti contraendo un debito con la tipografia...). Allo stesso modo, non so dire se sia sufficiente, per darci una ragione di questo boom editoriale, la rivoluzione di internet (e dell’email), che ha reso molto più fluidi certi processi di ricerca e di comunicazione, abbattendo anche buona parte delle gerarchie e rendendo accessibili informazioni, dati, contatti non necessariamente al più «ricco» o al più «forte» ma al più veloce, al più intuitivo, al più «sveglio». E spesso, appunto, un meccanismo meno complesso e senza troppi ingranaggi procede in maniera più spedita. Di fronte a queste possibili motivazioni pratiche, resta valida l’idea di una sempre più forte necessità e voglia di libertà di espressione: la stessa che in questi anni ha fatto 50

fiorire migliaia di nuove riviste fatte di una sola persona e il suo dominio internet, nuove compagnie teatrali fatte di una sola persona e la sua voce, nuove società di produzione cinematografica fatte di una sola persona e la sua videocamera... È per questa medesima ragione che, non appena se ne sono realizzate le condizioni (maggior consapevolezza professionale da parte nostra, maggior riconoscibilità e attendibilità del marchio, ma anche un ufficio nuovo con una stanza in più dove ospitare gli «allievi»), abbiamo cominciato a organizzare continuativamente, con impegno e senza sosta, una serie di seminari, workshop e laboratori per trasmettere il know-how appreso nei primi anni di attività a chi abbia intenzione di avviare una piccola impresa editoriale: con l’obiettivo di dare al maggior numero possibile di persone quelle poche chiavi pratiche necessarie a contribuire a mettere in moto nuovi nuclei di pensiero «resistente» e propositivo. Circa quindici case editrici in soli cinque anni sono nate finora da questa attività seminariale, e siamo orgogliosi di aver dato loro una mano, vedendole in alcuni casi diventare subito più efficienti di noi. Spesse volte ci è stato chiesto se non temiamo di far nascere così possibili concorrenti, ma la pensiamo in maniera diversa: crediamo di non aver fatto altro che dare una piccola spinta ad altri appassionati di libri come noi, e con questa spinta speriamo di aver contribuito, seppur in minima parte, a una consapevole e festosa condivisione dell’articolo 21 della nostra Costituzione. Come dice Umberto Eco: «Per una casa piccola che diventa media, e perde la propria libertà, una nuova piccola casa nasce, e que51

sta dinamica assicura all’universo librario un rinnovo continuo di energie, l’esistenza costante di piccoli editori che fanno le loro scelte in uno stato di ragionevole indipendenza dalle leggi del mercato»4. 4 Umberto Eco, Bompiani. Quando i libri avevano l’anima, in «la Repubblica», 28 ottobre 2001.

Primavera a New York (giugno)

A giugno sono andato a New York. E anche quest’anno, come ogni volta che mi sottopongo al noioso e invadente rito «indice sinistro, indice destro, guarda l’obiettivo» al banco del controllo passaporti alla frontiera dell’aeroporto JFK, è arrivato il momento in cui l’impiegato allo sportello mi ha chiesto: «Mi scusi, ma lei cosa ci viene a fare così spesso a New York?». Ora, a dire la verità, non è poi vero che ci vado così spesso, ma – sempre per dire la verità – non posso tacere il record personale del 2005, quando fra gennaio e ottobre ci sono stato ben cinque volte. Adesso ho ristabilito una più adeguata e accettabile media di 2,5 viaggi l’anno (cioè ci sono anni in cui vado due volte e anni in cui vado tre volte). Ci vado innanzi tutto perché è la città dove si concentra l’industria del libro americana: l’equivalente editoriale di Hollywood per chi lavora nel cinema. La misura standard dei miei viaggi newyorkesi è quella dei dieci giorni, e ora rispetto alle prime trasferte c’è una grande differenza: ho un appartamento. Lo prendo in affitto tutto l’anno e quando non sono lì – con l’autorizzazione del mio 53

amico Bob, il proprietario italoamericano che abita al piano di sotto della palazzina di tre piani di Brooklyn che considero «la mia casa di New York» – lo riaffitto (e abbastanza facilmente: è incredibile il numero di persone, nella sola cerchia ristretta degli amici che gravitano nell’editoria, che dall’Italia abbiano necessità o interesse o voglia di passarci un periodo). Il primo viaggio lo feci con Roberto, un amico fotografo: era il 1996, e dopo una settimana con lui a Manhattan (in cui conoscemmo Jay McInerney, Paul Auster, Susan Sontag e parecchi altri scrittori: mi ero provvidenzialmente fatto dettare da Fernanda Pivano, la sera prima di partire, la sua intera, preziosissima rubrica newyorkese) proseguii da solo per San Francisco (dove avrei dormito per poco meno di una settimana sul pavimento della casa del poeta-editore Lawrence Ferlinghetti), Port Angeles nello Stato di Washington (dove avrei dormito sul divano-letto della biblioteca di casa Carver, cioè nel posto in cui il mio scrittore preferito concepiva i suoi racconti), Seattle (dove, senza più un soldo, avrei passato una lunghissima notte da homeless cercando appoggio su panchine o scalinate e in parchi pubblici) per poi tornare qualche altro giorno a New York dove, a poche ore dalla partenza, dopo aver cenato con lui in uno squallidissimo ristorante cinese, avrei tentennato a lungo prima di decidermi a rifiutare l’offerta di un acido fattami da Allen Ginsberg, nell’ascensore che portava al suo nuovo loft nell’East Village. Quella sequela incredibile di incontri, per me che allora conoscevo la letteratura americana solo attraverso i libri, e non avevo mai visto uno 54

di quei miei amatissimi scrittori di persona, era per certi versi una sorta di lungo trip allucinogeno dal vivo: è questo il modo in cui ancor oggi giustifico di non aver accettato l’offerta dell’autore di Jukebox all’idrogeno... In ogni caso, da allora, e viste le premesse, non c’è stato anno senza che io passassi almeno una volta quella frontiera. Stavolta sono andato da solo, e per un periodo più lungo dei soliti dieci giorni. Quest’anno mi sono concesso tre settimane piene, per godermi finalmente l’appartamentino di Brooklyn, i tramonti primaverili sull’Hudson visti dal nuovo parco costruito nella ex zona navale di Red Hook a due passi da casa, e soprattutto per avere il tempo (senza la fretta di una permanenza breve) di sperimentare una nuova ipotesi di giornata-tipo newyorkese: appena sveglio, complice il fuso orario (e una rete wireless di qualche vicino a cui collegarsi gratuitamente), tre-quattro ore buone di lavoro quasi come se fossi in Italia (email, telefonate via internet, chiacchierate online con autori, colleghi, redattori) sorseggiando ovviamente caffè americano. Di seguito, una puntata in libreria: se l’obiettivo era uno sguardo alle novità sarebbero bastati i cinque minuti di passeggiata fino alla locale Book Court, se invece dovevo trovare un libro meno recente o addirittura di tanti anni fa, mi allungavo fino a Manhattan, sei fermate di metropolitana per arrivare dritto dritto alla Strand Bookstore, la mia libreria preferita di New York, dove non mi è mai capitato di non trovare il libro che cercavo, e dove quasi sempre mi è capitato di trovare il libro che non cercavo. Nel pomeriggio, ogni giorno due o tre appuntamenti: agenti letterari, editori, scritto55

ri, quelli con cui tutto l’anno si intrattengono laconiche comunicazioni via email o, peggio, frettolosissimi incontri alle fiere del libro internazionali, e con cui invece si ha qui la possibilità di fare una discussione un po’ più approfondita – a casa, in ufficio, al bar o al ristorante. In the evening – in quell’intervallo fra le diciotto e le venti prima che diventi night e che io, forse mediterraneamente, continuo a chiamare afternoon creando inevitabili equivoci sugli orari – c’è sempre almeno un evento letterario da seguire, e anzi immancabilmente più d’uno, e bisogna fare il gioco della torre: un reading, un booksigning, una conversazione, un aperitivo con l’autore, tutti alla stessa ora e ognuno in una zona diversa e irraggiungibile della città. Per finire, una cenetta con qualche amico, e se ci si trattiene con un paio di drink in più, riesco a tornare a casa tardi quanto basta perché dall’altra parte dell’Oceano la giornata lavorativa stia appena per cominciare: un saluto via email in ufficio, una chiamata alla fidanzata a casa, ed eccomi pronto per andare a letto con quello più appetibile fra i tanti libri comprati nelle ultime ventiquattro ore1, e addormentarmi pronto a ricominciare il ciclo sei-sette ore dopo. 1 Dopo i disagi delle prime trasferte americane, ho imparato ben presto a portarmi dietro una valigia in più, vuota, da riempire coi libri comprati a New York; ogni sera il viaggio di ritorno in metropolitana verso casa lo passo a sfogliare e spiluccare i libri accumulati nelle molteplici tappe della giornata, e chiedendomi quasi disperato come farò a riportare tutto a Roma: la novità appena uscita, il libro che mi sono fatto autografare al reading, le bozze rilegate che mi ha consegnato l’agente letterario, i libri di seconda mano comprati a una delle tante specializzatissime bancarelle, quelli di cui qualcuno in Italia mi ha commissionato l’acquisto, le curiosità da portare in regalo a qualche amico. In un viaggio-tipo di dieci giorni in genere me ne porto dietro una sessantina: nell’ultima trasferta ne ho messi insieme oltre cento.

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Insomma, queste mie frequenti «puntate» newyorkesi servono a restituirmi il senso del mio mestiere, quello che poco fa avevo confessato di temere di aver smarrito per sempre: giornate intere a leggere libri sdraiato sull’erba di un parco pubblico come riuscivo a fare solo da adolescente, pranzi con scrittori che ho la fortuna di pubblicare o che vorrei poter pubblicare (come in quell’adolescenza non mi azzardavo a immaginare), lunghi tragitti in metropolitana solo per ottenere l’autografo sulla prima pagina di un libro, ore e ore a guardare in libreria il patchwork dei dorsi sugli scaffali per familiarizzare coi nomi di autori contemporanei, passati, dimenticati, da riscoprire. Perfino il weekend di assoluto relax che durante questo viaggio ho fatto «upstate» (una definizione alquanto onnicomprensiva che indica qualunque posto nello Stato di New York a più o meno un paio d’ore di distanza dalla città) a casa di un amico, l’ho vissuto con l’occhio del lettore, attento alle geografie, alle architetture, alle scale sociali, cercando di capire di cosa parlano i John Cheever, i Richard Yates, i John O’Hara quando parlano delle loro famiglie benestanti dei decenni scorsi che cullavano sogni inconfessabili nel lusso della casa fuori città. Mi rigenero, c’è poco da fare. Sembra assurdo che io debba andare nella metropoli più frenetica del pianeta a trovare un po’ di pace, a debellare lo stress diagnosticatomi dal dottor Foglia e dai suoi colleghi, a cercare il tempo per stare in armonia coi miei pensieri, a rintracciare il desiderio che mi ha convinto una quindicina d’anni fa a intraprendere un’attività difficile e instabile, e ridare vigore al fuoco sacro che la tiene viva. Ma è così, e sembra fun57

zionare. O almeno, io – anche questa volta, anche in questo viaggio primaverile – mi sono convinto che funzioni. E non so se posso considerarlo un caso, ma – pur senza essere in grado di stabilire quando esattamente è successo – durante il mio viaggio a New York perfino le bolle sono scomparse. Sulle prime ho pensato che fosse un problema di fuso orario: non si palesavano più di notte perché forse erano bolle «italiane». Allora mi sono osservato attentamente le braccia nel pomeriggio, e poi la mattina, e la sera. Ma niente. Non c’erano più. Quando me ne sono reso conto, ho provato un misto di felicità e rilassatezza. E addirittura un pizzico di nostalgia.

La ricerca della felicità (luglio)

Il primo film che ho visto quest’anno, era proprio l’inizio di gennaio, mi ha rovinato la coda delle vacanze natalizie. Per quale motivo quel film mi torna alla mente ora, nel periodo dell’anno agli antipodi del Natale, mentre nel pieno dell’estate sono venuto a trovare mia madre a Roccamonfina, la località della Campania dove da una vita viene a passare le sue vacanze estive? Ecco la risposta. Perché durante una di quelle cene di fine luglio abbondanti e molto frequentate a cui partecipano parenti, amici, vicini di casa, e ospiti che non ho mai incontrato prima, qualcuno, a cui era arrivata notizia del mio mestiere, mi ha chiesto, forse solo per tener viva la conversazione, o magari animato da sincero interesse: «E qual è il vostro best seller?». Ora, non c’è niente da fare, quando so di avere (cerco di trovare adesso le parole giuste per non far sembrare questa mia affermazione frutto di uno snobismo che non mi appartiene) un interlocutore che, da quanto posso capire o immaginare, non ha molta dimestichezza con libri, 59

editoria, letteratura, io cerco sempre di glissare, di essere vago, reticente, nebuloso, per poi cambiare argomento appena me ne è data occasione (e per fortuna a tavola di argomenti per svicolare non ne mancano mai). Non perché io ritenga indegna della mia attenzione una persona che non sappia cosa sia un trentaduesimo o un risvolto, che non conosca i meccanismi della distribuzione editoriale o che ignori le regole dei premi letterari. Al contrario: apprezzo tantissimo chi è curioso delle passioni e degli interessi altrui, ma cerco di immedesimarmi nel prossimo. E basta poco: se a questa tavola l’otorino che ho seduto di fronte dovesse passare mezz’ora a spiegare dettagliatamente a chi come me non ne sa nulla il funzionamento dell’udito umano, o il viceprefetto che poco fa mi ha riempito il bicchiere dell’ottima Falanghina locale volesse intrattenermi sulle beghe della burocrazia in tema di sicurezza, non sarebbe lo stesso anche per loro? Sapendo di essere al cospetto di un pubblico non esperto, certamente non utilizzeranno il gergo tecnico che condividono coi loro colleghi, non mi spiegheranno davvero fino al minimo particolare qual è la reale funzione della tuba uditiva detta anche tromba di Eustachio, o cosa impone l’articolo 150 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza. E così, consapevole della mia ignoranza circa la materia frequentata da altri, do quasi sempre (e, forse, quasi sempre erroneamente) per scontata l’ignoranza altrui del mio settore: non perché io creda di appartenere a una fantomatica «élite», ma al contrario proprio perché sono certo di non appartenere a tutte le altre possibili élite (e solo in questa tavolata rumorosa ne saranno rappresentate una 60

buona dozzina). Allora, quando mi chiedono qual è il best seller della mia casa editrice, loro staranno presumibilmente immaginando volumi di cui tutti hanno – se non comprato una copia – acquisito una qualche conoscenza almeno approssimativa, mentre nel mio caso si tratterà di libri che loro non hanno letto, scritti da autori che non hanno mai sentito nominare; e parlando di best seller si riferiscono senza dubbio a libri da milioni di copie, mentre il mio best seller resterà nell’area ristretta delle poche migliaia, o in casi fortunati delle decine di migliaia di copie; e preferisco evitare a loro e a me quelle facce di finta approvazione che spesso tradiscono, e mal celano, un dubbio profondo e inestinguibile. Ma torniamo al film di Natale: una storia che ti coinvolgeva e che in alcuni punti era perfino commovente, anche perché la forte campagna pubblicitaria da cui era stato preceduto non aveva mancato di sottolineare in ogni possibile modo che il film racconta Una Storia Vera, e inevitabilmente questa consapevolezza che non si tratta di finzione ma di cose successe veramente a qualcuno in qualche parte del mondo ci rende inermi, indifesi, vulnerabili e, come corollario pressoché inevitabile, ci rende parte della storia. E in più, il film era girato bene, e recitato ancor meglio. Il fatto è che negli ultimi due minuti tutti questi pregi si sono sbriciolati al cospetto della morale, francamente terribile, che risulta dal racconto. Fino al penultimo minuto del film abbiamo visto il povero e bellissimo Chris Gardner – che ha investito sull’affare sbagliato, in una specie di 61

sogno americano all’incontrario – faticare in una maniera tremenda a tenere insieme la sua famiglia in modo onesto e dignitoso, a raggranellare quei pochi dollari che gli servono per nutrire il figlio Christopher, ancora più povero e ancora più bello, farlo andare a scuola, e dargli un tetto dopo che la moglie Linda (anche lei bellissima e, in quanto bellissima, destinata a un avvenire più fulgido di quello che può offrirle Chris) lo ha lasciato per cercare la fortuna – e il fulgido avvenire che si merita – a New York, e il padrone di casa li ha cacciati dopo l’ennesima mensilità scaduta. Lo abbiamo visto arrancare per le strade perennemente in salita di Milwaukee e di San Francisco, bussando a mille porte, cercando di vendere uno di quegli assurdi e pesantissimi scanner ossei che si deve trascinare dietro, dei macchinari medici su cui ha investito tutti i suoi averi e che sono diventati subito obsoleti, lo abbiamo visto dormire col piccolo Christopher nei ricoveri per homeless e la mattina dopo, sull’orlo della perdita di ogni dignità, rimettersi invece in cammino ottimista, sbarbato ed elegante verso l’ennesima porta sbattuta in faccia. Tutta questa disperazione dura fino a circa un minuto e mezzo prima del termine del film, quando d’improvviso il sogno americano fa un’inversione a U sulla highway della sceneggiatura e riprende la giusta direzione: Gardner finalmente trova un lavoro e ben presto diventerà ricco. Sì, ricco, ricchissimo! L’ultimo fotogramma del film è una scritta, e la scritta ci informa che Chris ha trovato la felicità. E la felicità consiste in null’altro che questo: nella ricchezza, una ricchezza banalmente materiale, quantificata anche in un ben preciso numero di milioni di dollari. È il sogno americano. È una 62

storia vera. E nelle storie vere, è risaputo, i soldi fanno la felicità, eccome. La ricerca della felicità non è altro che la ricerca della ricchezza materiale. Fine. Titoli di coda. Ecco, nel ripetermi tutta la notte quella domanda, con la stessa intonazione con cui mi è stata fatta – «E qual è il vostro best seller?» – ho pensato e ripensato al film natalizio, non sono riuscito a prendere sonno, mi sono ritrovato persino a grattarmi delle bolle (vere o immaginarie non so dirlo) sulla pelle; e mi sono chiesto se, per me che faccio l’editore, la ricerca della felicità non debba consistere – almeno stando al sogno americano che è poi il sogno universale, e quindi stando a quello che tutti, dentro e fuori la mia stessa ipotetica «élite», forse credono sia l’obiettivo ultimo – se la mia ricerca insomma non debba puntare fondamentalmente a questo solo: trovare il best seller. E rigirandomi nel letto ho pensato a quello che ha detto una volta Antonio Franchini, che oltre a essere scrittore è editor per Mondadori: «Le piccole e medie case editrici sono alla ricerca di quello che cercano anche le grandi: libri da vendere, possibilmente best seller»1. Mi sono chiesto una intera notte d’estate, così come del resto mi sono chiesto per tutti questi anni, se anche io e la mia casa editrice non cerchiamo altro che libri che vendano, potenziali best seller. E lo so, ne sono consapevole che la mia risposta alla domanda è essenzialmente «volpeuve1 Giovanni Battista Tomassini, È il momento degli esordienti. Intervista ad Antonio Franchini, consultabile all’indirizzo http://www.treccanilab. com/franchini.htm.

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sca», dal momento che la mia casa editrice non ha mai pubblicato un libro da un milione di copie (ma nemmeno da centomila, se è per questo). Ma, con il giusto rispetto per le convinzioni di Franchini, e per il lavoro di quegli editori che cercano solo best seller, io non posso far altro che rispondere: no. Ho visto più d’una casa editrice di dimensioni piccole o medie, anche in tempi recenti, correre il rischio di deragliare a causa dell’improvviso, inatteso successo clamoroso di un best seller a cui l’azienda, o le persone dentro l’azienda, non erano strutturalmente preparate. E ho anche notato che è molto più rumoroso lo schianto di un editore schiacciato dal peso repentino delle troppe vendite che lo scricchiolio lento e tutto sommato tranquillo di uno che è destinato a chiudere per l’esiguità del proprio fatturato. Il mercato, l’universo editoriale si abitua presto ai numeri a più zeri, e se dopo un best seller non ne sforni subito un altro e poi un altro ancora c’è il rischio che si dimentichi di te, almeno se sei un piccolo editore e non un marchio dalle spalle forti, dal catalogo sconfinato, dalla produzione massiccia, dalla storia lunga e dalla presenza stabile. E la ricerca forsennata, scriteriata del blockbuster ti farà azzardare più di quanto non saresti disposto a fare. Al contempo, per cercare quel titolo da classifica, magari trascurerai di rispettare la linea editoriale fatta di tanti piccoli libri per un numero ristretto di lettori, quei lettori che si fidano di te e che eri riuscito a mettere in fila come tante formichine, uno dopo l’altro, con anni e anni di scelte oculate, indovinate, basate sul gusto e non sui numeri. (E che magari in quel best seller non si ritrovano – e non ti ritrovano – più, 64

e abbandoneranno quella casa che per anni avevano sentito come propria, che gli aveva dato sicurezza, calore, conforto, per andare a cercare dimora altrove.) E allora ben venga un onesto bestsellerino da poche migliaia o decine di migliaia di copie, dal titolo che non è familiare alle masse, un buon libro solido, che rimane nel tempo e non per il breve volgere della durata di una moda. E ancor più di questo, ben venga che nei conti di fine anno le perdite dovute al libro che di copie ne avrà vendute poche centinaia siano pareggiate da un titolo di ottima qualità che te ne fa vendere non un milione ma «solo» qualche migliaio, anziché da un successo cospicuo in termini di fatturato però effimero o debole per tenuta. Purché questi risultati mi permettano di andare avanti nel mio lavoro di ricerca, di ideazione, di costruzione di un progetto duraturo, che è ciò che più mi interessa e mi tiene vivo come editore. Uno «tra i compiti dell’editoria per i prossimi vent’anni», diceva (appunto vent’anni fa) Giulio Einaudi conversando con Severino Cesari, «è il recupero della felicità». E per me, che mi sento più vicino al signor Einaudi che a Mr. Gardner, la felicità non è nel risultato della ricerca. La felicità è nella ricerca stessa della felicità.

L’età dell’innocenza (agosto)

Quest’estate ho letto l’autobiografia di Diana Athill, che racconta il suo mezzo secolo vissuto nell’editoria al fianco di André Deutsch, un intellettuale ungherese che nel secondo dopoguerra fondò a Londra la casa editrice che porta il suo nome. Parlando dei primi anni di lavoro, e di uno dei primi libri scelti per la pubblicazione, la Athill ricorda: Perfino in giorni in cui c’era così tanta fame di libri, sarebbe stato davvero difficile trovare un’opera più evidentemente invendibile di quella. Eppure, una volta stabilito che si trattava di bei racconti, non ci pensammo su due volte a pubblicarli. [...] È triste ricordare quanto poco apprezzassimo il lusso di non doverci chiedere: «È un libro commercialmente valido?». Erano i giorni felici prima che questa domanda facesse ingresso nella nostra vita.

Il dilemma dell’editore si può riassumere tutto nella dualità fra il progetto culturale (che quasi tutti gli editori tendono a considerare una sorta di missione, in nome della quale si possono quindi compiere atti di insensato ma67

sochismo finanziario) e le molteplici implicazioni commerciali che un imprenditore sano di mente e attento alla propria attività dovrebbe anteporre agli aspetti romantici del mestiere. Un dilemma che può essere riassunto nella continua partita a scacchi fra direttore editoriale e direttore commerciale. E sintetizzato nella domanda (il cui ingresso nella vita di un editore può appunto, come dice Diana Athill, determinare la fine dell’età dell’innocenza) «È un libro commercialmente valido?». O, per dirla con la frase che più spesso viene pronunciata in una riunione in casa editrice, quando si parla di un libro che si vorrebbe pubblicare, e dalla parte descrittiva si passa a quella decisionale: «Sì, ma questo libro quanto vende?». Forse non si tratta che di due diversi punti di osservazione dello stesso fenomeno. Valentino Bompiani, nel suo Il mestiere dell’editore, ha scritto: «La validità economica di un editore non può prescindere dalla validità culturale», dando così per scontata, necessaria, la riflessione sul risultato economico, e solo eventuale quella sul valore culturale. Personalmente, ribalto il concetto: la validità culturale (necessaria) di un editore non può prescindere dalla validità economica (da raggiungere e per ciò stesso eventuale). Si può dire che buona parte dell’editoria indipendente viva ancora – e forse costantemente – nell’età dell’innocenza, e così è di certo anche per la mia casa editrice. Uno degli aneddoti ricorrenti fra le stanze del nostro ufficio quando si tocca l’argomento è quello secondo cui a un certo punto si decise che fosse il caso di iniziare a calcola68

re il cosiddetto «break even point» o punto di pareggio (ossia il numero di copie da vendere a un determinato prezzo di copertina perché le vendite ripaghino i costi di realizzazione del libro) perché era diventato necessario dotarci di strumenti di controllo e previsione, ma ben presto si smise di fare questi calcoli perché inevitabilmente, per ogni libro, i numeri ci portavano alla conclusione che sarebbe stato meglio non pubblicarlo. E altrettanto inevitabilmente, nonostante mancasse l’imprimatur del direttore commerciale, il direttore editoriale (cioè io) decideva di pubblicarlo ugualmente. Cosa racconta questo aneddoto? Racconta di tre fasi della vita della casa editrice: l’età dell’innocenza, l’età della ragione, e il ritorno all’età dell’innocenza. Questo ritorno però non è una «perdita della ragione», così come l’età della ragione non era una irreversibile perdita d’innocenza. È piuttosto come tornare, da adulto, a visitare la casa dove sei stato adolescente. Una scena che esiste molto più nei film di quanto non accada nella realtà è quella in cui si ritrova la propria stanza intatta, come se quel passaggio di età fosse stato cristallizzato a futura memoria (nei film americani c’è sempre: il gagliardetto triangolare di una qualche squadra sportiva attaccato alla parete di fronte, ben visibile appena entri; il letto singolo con il copriletto di ciniglia; i libri di scuola ancora allineati; i giocattoli tutti in ordine e senza un solo granello di polvere; la piccola scrivania da studente intatta come fosse stata lasciata lì non per decenni ma per i pochi minuti della pausa-merenda in un pomeriggio di studio). Rivedi insomma quello che eri, ma con la consapevolezza di quel69

lo che sei. L’innocenza rivive in quei momenti, anche se il punto di osservazione è quello dell’età della ragione. Nessuna delle due ha mai completamente ceduto il passo all’altra. Questa terza fase – e credo di poter dire che si tratta della fase in cui si trova ora la mia piccola impresa editoriale – è quella in cui la casa editrice, avendo a disposizione gli strumenti forniti dalla ragione, rinnova costantemente se stessa grazie alla forza insopprimibile della propria «innocenza». Credo si tratti più propriamente di una ragionevole innocenza: la consapevolezza cioè che avere a disposizione degli strumenti forniti dalla ragione non ti farà mai abbandonare quell’approccio parzialmente incosciente grazie al quale creare una deviazione dall’ovvio, dal garantito, dal previsto, dal «facile»: è qui che sta la forza di un imprenditore che lavora con materie prime altamente gassose, eteree come sono i libri, inidonei per loro natura a sottostare a regole rigidamente predefinite. Si dice quasi sempre del successo di un libro che è determinato «dal passaparola». Il più sofisticato dei metodi di analisi non potrà mai prevedere gli scambi disinteressati di pareri, per lo più non professionali, ma quasi sicuramente determinanti, che avvengono negli spogliatoi di un campo di calcetto, nelle sale d’attesa di un oftalmologo, alla cassa di un megastore di elettrodomestici, in metropolitana, in ascensore, in autogrill, su uno skilift. È ovvio che qui non sto dicendo che, dal momento che il successo di un libro è spesso imprevedibile, quindi non 70

ha alcun senso la figura del direttore commerciale, o che non serve possedere e saper maneggiare strumenti o competenze che ti permettano di vendere i tuoi libri. Il tuo libro dovrà certo essere reperibile nel punto vendita accanto a quella fermata di metropolitana e a quel campo di calcetto, e addirittura sognerai, come ogni editore, il momento in cui sarà visibile perfino sugli scaffali del megastore o dell’autogrill. O anche semplicemente (ma non è affatto così semplice) essere «al momento giusto nel posto giusto», ossia («semplicemente») in libreria il giorno in cui («semplicemente») uscirà una recensione su un quotidiano di larga diffusione. Ciò che invece sto dicendo, e che affermo con convinzione, è che – almeno per un tipo di editoria di ricerca, di progetto, alla quale appartiene anche la mia casa editrice – questi strumenti non devono diventare la tua unica ossessione. Sopra ogni cosa il mero risultato economico non può diventare il criterio unico in base al quale decidere della pubblicazione di un libro, come invece tende a succedere (e come è forse giusto che sia) nelle grandi aziende editoriali1. 1 Ecco un’acuta riflessione di Carmine Donzelli in proposito: «Naturalmente la distinzione tra editoria commerciale ed editoria di progetto esiste ed è sotto gli occhi di tutti. È anche vero però che ad alcuni editori l’insuccesso commerciale non lasci altro scampo che definirsi ‘editori di progetto’. Se per editoria di progetto si intende un’editoria che non badi ai propri equilibri d’impresa, è chiaro che ogni editoria seria deve essere anche ‘commerciale’. Ma l’editoria commerciale a cui ci stiamo riferendo è un’altra cosa. È quella che insegue, e non precede, le ondate mediatiche; è quella che fa prevalere gli uffici marketing sulle redazioni editoriali, è quella che costruisce a tavolino strategie basate sull’effetto di ripetizione, sul messaggio subliminale, sull’imbonimento del lettore. Soprattutto, è quella che fa

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L’altro aneddoto che ripetiamo spesso nel nostro ufficio è questo: quando si trattò di decidere se fare o meno il passo di acquistare i diritti sull’opera omnia di un certo autore, io e il mio socio (in piena età dell’innocenza) capimmo che era necessario chiedere il parere di qualcuno che potesse aiutarci con gli strumenti della ragione: il direttore commerciale, il distributore e il promotore dell’epoca ci sconsigliarono all’unisono, in maniera definitiva e inappellabile, quell’investimento. Ovviamente, e per fortuna, l’incoscienza condivisa da me e dal mio socio ci fecero decidere altrimenti, e i libri di quell’autore sono tuttora i best seller della nostra casa editrice. Ci saranno, questo è chiaro, anche aneddoti in senso contrario, e ogni direttore editoriale tralascerà sempre di citare il caso di quel libro che il suo direttore commerciale gli aveva sconsigliato e che poi è stato effettivamente un fiasco. Ma d’altro canto, come non mi stanco mai di ripetere alle riunioni commerciali, il successo di una casa editrice è dato anche dalla somma di alcuni risultati che – presi per se stessi – sono da considerare commercialmente o economicamente negativi e che servono però a creare, individuare, delineare o ribadire una linea editoriale; e il successo di un singolo libro è spesso dovuto – oltre che leva sullo strapotere promozionale e distributivo, che inonda i punti di vendita con quantità spropositate, che si illude di ‘semplificare’, a vantaggio del lettore, le sue stesse domande di lettura. L’imperativo categorico dell’editoria commerciale si può riassumere in un aggettivo che deve conquistare magicamente il potere di acquisto del lettore. Il libro commerciale deve essere necessariamente ‘facile’». (Tratto da Nicola Tranfaglia, Editori italiani ieri e oggi, Laterza, Roma-Bari 2001.)

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ai suoi intrinseci meriti – anche al lavorio di quei libri-gregari che gli avranno spianato la strada fino al traguardo. Ed è per questo che non solo bisogna sopportare, ma addirittura conviene che l’editore ogni tanto dimentichi la ragione e la ragionevolezza delle scelte «adulte», e vada a visitare quella cameretta adolescenziale dove ritrovare l’innocenza con cui fare una scelta azzardata, contrastata, apparentemente fallimentare di cui solo lui magari può aver intuito la piena portata.

Un tram che si chiama desiderio (settembre)

Sono un lettore disordinato, lo so. Dipende in buona parte dal mio lavoro, e in parte minore, immagino, dal mio carattere. D’altro canto, questo non vuol dire che io non legga con amore. Riesco ancora a innamorarmi dei libri, grazie al cielo. E a non rivolgere la parola ad anima viva (ed essere anche parecchio sgarbato con chi la rivolge a me) fino a che non sono arrivato all’ultima pagina, o almeno a fine paragrafo. Ma resto un lettore disordinato. Per uno che fa l’editore e che per mestiere punta tutto sulla lettura degli altri (coloro i quali sperabilmente sceglieranno di leggere i libri della mia casa editrice, e che io con buona dose di ottimismo, e ingenuità, mi immagino tornare a casa dopo aver comprato un nostro volume, sedersi in poltrona e tracciare diligentemente e senza interruzione una linea retta dalla prima pagina all’ultima) per uno che fa l’editore, dicevo, essere un lettore disordinato può sembrare un paradosso. Ma forse non è così, e anzi è proprio la natura del mio lavoro, credo, a farmi essere curioso di più cose contemporaneamente: perché ancora 75

non so cosa voglio trovare e, quasi sempre, ancora non so nemmeno cosa voglio cercare. Spesso spilucco, assaggio appena, intingo solo il dito per verificare il sugo della storia, per assaporarne la temperatura, la densità, il grado di cottura. O invece divoro, azzanno, mi immergo da capo a piedi nelle pagine senza indugi né timore di scottarmi o di gelare, come se entrassi in una piscina a trentasette gradi. Ho da tempo, per fortuna, superato il senso di colpa da abbandono e – proprio perché devo e voglio leggere tanto, e tanto più di quanto non mi consenta il tempo a disposizione – se trovo un freno, se c’è un ostacolo di qualsivoglia origine o natura, una monetina incastrata nel binario che non consente al tram della lettura di procedere spedito, o anche una distrazione (e quasi sempre la distrazione che mi fa interrompere una lettura è un’altra lettura), io, sì, lo confesso, abbandono. Abbandono il libro, è vero, ma non vuol dire che lo stia lasciando per sempre: come si dicono due fidanzati che si separano senza rancore, «restiamo amici». Magari semplicemente non è il momento giusto, o il mio umore del periodo non è il più adatto per un determinato genere di lettura. Forse non sono riuscito a uniformare il mio ritmo, il mio respiro, la mia andatura a quelli del romanzo, del saggio, dei racconti in questione. Oppure (certo) il libro semplicemente non mi piace: in questo caso, be’, c’è poco che io possa fare (ma non è detto: perché ciò che non mi piace ora potrà piacermi fra dieci anni, o fra una settimana. O magari mi sarebbe piaciuto qualche an76

no fa ma ci sono capitato troppo tardi). Poi c’è da considerare le interruzioni dovute a necessità o urgenza (c’è qualcosa che va letto al più presto: un libro che deve andare in stampa, o un testo su cui la casa editrice deve prendere una decisione in pochi giorni) che sconvolgono gli ordini di priorità. Sta di fatto che spesso e volentieri diventa necessario tendermi delle trappole da solo, farmi fesso per così dire: lasciare a me e al libro l’occasione per riprendere il filo del nostro discorso amoroso, rimetterne insieme i frammenti. Ed ecco allora – e vorrei tanto farlo capire alla mia fidanzata che abita con me e se ne dispera, o alla ragazza che una volta a settimana viene a fare le pulizie e vorrebbe giustamente poter svolgere il suo compito con diligenza ma ha ricevuto una rigida consegna circa l’intangibilità e inamovibilità di qualunque libro in casa – ecco che dissemino l’appartamento di libri, in ogni stanza, in ogni punto, in ogni angolo: in particolare quelli iniziati e non finiti, quelli con un biglietto timbrato dell’autobus, uno scontrino di supermercato, una ricevuta di pizzeria a fare da segnalibro e al tempo stesso da promemoria sull’epoca in cui sono passati per le mie giornate. Li lascio in giro, quei libri e i loro improvvisati segnalibri, come memento, per ricordarmi che poi devo (voglio) finirli, o perché so che dovrei (vorrei) andare avanti, per impormi o suggerirmi di trovarne il tempo e l’occasione; e se li rimettessi a posto con cura nella libreria, al giusto ripiano per genere/lingua/ordine alfabetico, sarebbero, lo so, irrimediabilmente perduti: archiviati, sistemati, per chissà quanto tempo non mi capiterebbe più di riprenderli in mano, di ricadere nel loro contenuto, 77

nella felice trappola che ogni scrittore tende al suo lettore e nella quale ogni lettore sogna di cadere, vittima di un agguato letterario ben congegnato. Senza esagerare, credo che non siano mai meno di dieci o forse quindici – ma in determinati momenti anche molti di più – i libri che posso dire di «star leggendo». Mi capita un sacco di volte di sentire qualcuno che nomina un titolo e rendermi conto di rispondere «ah, sì, lo sto leggendo» anche se in realtà l’ho iniziato mesi prima, anni prima, e non l’ho terminato. Ma credo sia davvero così: un libro iniziato e non finito è sempre un libro iniziato e non ancora finito. È una porta aperta che resta aperta fino a che non arrivi all’ultima pagina. E se ci penso rivedo decine, centinaia di porte rimaste aperte, e che un giorno si chiuderanno. Quando voglio prendermi in giro dico che più che un lettore sono un grande iniziatore di libri. Ma è successo tante volte che quel libro cominciato l’ho finito molto tempo dopo. Sono andato a chiudere quella porta che avevo lasciato interamente spalancata, oppure solo accostata, o di cui c’era appena un piccolo spiraglio: ho dato un’occhiata alla stanza dov’ero già stato, per vedere se tutto era come ricordavo, ogni cosa al posto dov’era, ho afferrato la maniglia e via. A ripensarli ora, tutti i libri non ancora finiti della mia vita, tutte quelle porte aperte, li vedo creare corrente, agitare l’aria delle storie accumulate nella mia testa, nei miei ricordi: decine di saggi, poesie, romanzi e racconti, centinaia di ambientazioni, migliaia di città, milioni di personaggi, forse più delle persone vere che ho conosciuto in 78

tutta la mia vita1. E si agitano, sollevano le tende alle finestre, fanno perfino dondolare pericolosamente qualche lampadario. Mi piace tenere queste porte, queste storie aperte, così come mi piace poi trovare il momento giusto, il momento perfetto per chiuderle: mi fa venire in mente un ricordo dell’infanzia, mia madre nella casa di Napoli dove abitavamo (una di quelle case delle nostre infanzie, delle infanzie di tutti, case grandi, con il decumano massimo del corridoio e stanze che si aprono su un lato e sull’altro), mia madre che passa, come fosse vento anche lei, e chiude tutte le porte e tutte le finestre di tutte le stanze, lasciate aperte per «far prendere aria» alla casa. Nella mia casa di Roma, la mia casa di adesso, c’è il libro per il comodino, di cui leggere una manciata di pagine prima di dormire – ed è una pila di una quindicina di volumi quella che al momento si erge traballante accanto alla luce da notte – quello per il viaggio in autobus da casa all’ufficio (e spesso uno diverso per il viaggio di ritorno: influisce sulla scelta pure il grado di stanchezza, l’orario, la luce, la direzione di marcia e la rispettiva vista dal finestrino, la disponibilità o meno del posto a sedere...), la lettura frettolosa della mattina nei pochi minuti in cui si raffredda la tazza di tè, il libro per il bagno (pochi giorni fa ho chiamato un falegname perché l’accumulo di volumi in quella stanza ha reso necessaria la creazione di una piccola libreria di tre scaffali) e quello appoggiato sul di1 Al punto che sarebbe interessante scoprire se è la mia vita di lettore a essere un universo parallelo o se non sia una second life questa, questa qui che conduco ogni giorno da trentott’anni, e che reputo la mia vera vita.

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vano, da leggiucchiare la sera, al ritorno dal lavoro, in attesa del telegiornale; c’è qualcosa da sfogliare sulla sedia arancione accanto alla cucina, e una piletta consistente sulla vecchia panca di legno a tre sedili – reperto da vecchio cinema parrocchiale acquistato al mercato di Porta Portese – che sta nel corridoio; sulla cassettiera in camera da letto ce n’è uno aperto a cui dare un’occhiata mentre scelgo il maglione da indossare, e almeno un paio sulla cassapanca dei liquori, come a ricordarmi che in fondo un vizio vale l’altro; un mucchietto consistente anche all’ingresso, libri appoggiati lì al ritorno da una puntata a qualche bancarella oppure pronti per essere presi al volo prima di uscire di casa. Ce n’è più di qualcuno che è rimasto, per dimenticanza o con l’intenzione di rinnovare un appuntamento al buio, in borse o valigie, e che ritrovo – insieme a penne, attaches, monetine, oggetti da tempo dati per dispersi – quando mi preparo a un altro viaggio. E nei viaggi questa mania diventa un’ossessione. Che sia un weekend, una permanenza lunga o la trasferta di una sola giornata, devo essere sicuro di avere più libri di quanti riuscirei a leggerne anche se non dovessi fare altro per ogni istante del viaggio; e poi non potrei convivere con un libro che non fosse adatto a quel momento, quindi mi devo dare sempre per lo meno un’altra chance: devo insomma avere la sicurezza, come si dice in gergo calcistico, della panchina lunga, cioè la possibilità di mettere in campo un gran numero di riserve qualora ce ne sia la necessità2. 2 Inutile dire, poi, che quasi sempre tutti i libri che mi porto nella borsa resteranno intatti perché magari alla stazione pochi momenti prima di

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So che, confessando questo mio peccato, sto infliggendo un colpo mortale a un bel po’ di persone che mi sono vicine in virtù del mio mestiere di editore: dagli scrittori, la cui ambizione è tenere in scacco il lettore fino all’ultima riga, agli altri editori che, come me, vorrebbero che ogni singola copia dei propri libri non andasse solo a far numero fra le statistiche dei libri venduti ma di quelli letti. Ma io so anche che questo è il modo in cui riesco ad affrontare un universo che è troppo più grande di me: ci sono milioni di libri scritti da milioni di scrittori, e in così tanti paesi, in così tante lingue e in così tante epoche, che non mi riuscirà mai di salire nemmeno un centimetro dell’Everest che ho di fronte. Mi illudo che zigzagando, prendendo una strada meno convenzionale, farò un tragitto originale, creativo, che potrò definire mio. Lascio un libro a metà perché una frase, un passaggio di questo mi ha fatto venir voglia di ricercare qualcosa che potrò trovare in un altro testo, e quello mi porta inevitabilmente altrove. Poi ritorno al primo, e finisco il secondo, e così via. Ho trovato una soddisfazione diversa e particolare, ho messo in relazione opere e autori vissuti in secoli e continenti diversi, ho creato un ponte fra un saggio sulla regia cinematografica e un romanzo in versi, fra l’autobiografia di un premio Nobel e i racconti di un amico che mi ha dato da leggere il suo manoscritto. Del resto, se fare l’editore è il mio mestiere, come partire, o in una libreria della città della mia destinazione, avrò trovato un altro libro da cui mi lascerò rapire senza difese. Salvo poi, ovviamente, lasciare a metà anche quello, abbandonarlo nella valigia per ritrovarlo alla prossima trasferta...

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lettore mi considero giustamente un dilettante, un nonprofessionista. E allora è naturale che mi ritagli un metodo non scientifico, non rigoroso ma che mi metta a mio agio: e, in fondo, credo di aver trovato il mio, un metodo di cui esploro continuamente, e felicemente, i limiti e le virtù. Mi porta a conoscere più cose, cose che spesso poi finiranno col diventare parte del mio lavoro (testi che diverranno libri, dattiloscritti che arriveranno in libreria), mentre diventano anche parte della mia vita. E poi c’è comunque la mia ultima dea, la certezza che un giorno, chissà quando, andrò finalmente in pensione, e passerò gli anni migliori della mia vita a riacciuffare tutti i bandoli, a leggere tutti i libri non ancora finiti, insieme a tutti quelli non ancora iniziati, non ancora comprati, non ancora pubblicati, non ancora scritti. E allora, quando avrò saziato la sete che ora mi affligge – quest’ansia di non aver letto abbastanza, di non poter leggere mai a sufficienza, il timore che la parte migliore del libro sia al capitolo successivo (o la paura che il capitolo migliore sia quello appena finito), che l’opera più riuscita di quell’autore sia un suo altro libro, e che in ogni caso ce ne sia da qualche parte un altro che mi darà ancora più soddisfazione, e l’idea che dei libri più belli di tutti vorrei essere non solo il lettore appagato ma anche, soprattutto, l’editore orgoglioso, perché il ruolo dell’editore è di trovare i bei libri e di offrirli, come un iniziatore di catena di sant’antonio, a decine di altri lettori da far innamorare di quell’amore che ha catturato anche me – allora, solo allora sarò rigoroso, e andrò dritto e spedito dalla prima all’ultima pagina, come un tram sulle sue rotaie. 82

Lezioni di piano (ottobre)

C’è un giorno dell’anno, tutti gli anni, in cui ogni cosa è illuminata proprio della luce giusta, e tutto sembra in armonia con il gioco del mondo. È il giorno in cui so con certezza di aver riempito l’ultima casellina del piano editoriale dei prossimi dodici mesi. Oggi, per esempio, è una domenica di fine ottobre: ha fatto buio presto perché, come giornali, telegiornali e amici premurosi non hanno mancato di ricordarci, la notte scorsa bisognava spostare le lancette dei nostri orologi. Arrivano dal balcone socchiuso i rumori di piazza Costaguti, le voci festose di un paio di ragazzini, qualche sparuta marmitta di motorino «truccato», e la colonna sonora delle evoluzioni di nugoli di storni che si annidano fra i rami della vicina piazza Cairoli. Sono seduto sul divano, e ho un’emozione di quelle da sera prima della gita scolastica, quando andavo alle medie. Domani mattina alle dieci ho convocato una riunione generale per illustrare, a tutte le persone che con me fanno la casa editrice, il piano editoriale dell’anno prossimo (e anche un’anticipazione di quello dell’anno ancora successivo). 83

D’accordo, detta così sembra una sciocchezza. E infatti a chi, preoccupato che la riunione possa rubare tempo alle incombenze quotidiane (qualche file da mandare in tipografia, gli ultimi dettagli per il tour dell’autore americano in arrivo, le copie omaggio da spedire ai giornalisti, gli aggiornamenti del sito internet e così via), mi ha chiesto quanto durerà la riunione, ho risposto che non ci vorrà più di un’ora, un’ora e mezza al massimo. Ma in quell’oretta è racchiuso il lavoro di chissà quanto tempo e di chissà quante persone: tutta la fatica che ci è voluta per mettere insieme quello specchietto che a vederlo sembra una battaglia navale con tanto di cacciatorpedinieri ben in vista, oppure uno schema di parole crociate lasciato a metà, da finire domenica dopo pranzo. E tutta l’ulteriore fatica che ci vorrà (e cioè appunto gli interi prossimi dodici mesi) per trasformare questo brogliaccio sghembo in trentadue libri divisi in sei collane. Tanto per cominciare, si è dovuto decidere di pubblicarli, quei trentadue libri, e, prima ancora, trovarli. Letture di pile e pile di manoscritti, che più ne leggevi e più risalivano, svettando ancora verso il soffitto; appuntamenti con agenti letterari che ti propongono con entusiasmo il nuovo talento della scuderia; i progetti portati avanti dai direttori di collana, i libri commissionati dalla casa editrice, le proposte arrivate in via spontanea dai traduttori, i suggerimenti di lettori sconosciuti e disinteressati, i libri non più editi che giacciono nei cataloghi altrui e a cui si pensa di dare nuova vita. E poi ovviamente il grande oceano di tutto ciò che viene pubblica84

to nel resto del mondo, o in quelle poche porzioni di mondo sulle quali abbiamo deciso di puntare il nostro cannocchiale editoriale, i bollettini dei colleghi stranieri, i resoconti delle fiere internazionali in cui si scambiano diritti d’autore. E i nomi nuovi su cui si fa scouting, rovistando fra riviste letterarie, siti, blog, antologie, per non parlare di scrittori da tenere d’occhio che ci sono stati consigliati da chi è già stato pubblicato da noi, o da chi è a vario titolo vicino alla casa editrice. Ecco, fra tutto questo, che proprio non è poco, scegliamo ciò che ci piace e ci convince al punto tale che vorremmo pubblicarlo. Che ci convince perché corrisponde a un’idea estetica condivisa dalle persone che lavorano nella casa editrice, ossia quanto viene abitualmente definito la «linea editoriale». Fra tutto ciò che vorremmo pubblicare, c’è poi quello che saremo in grado di pubblicare, e qui interviene un’ulteriore selezione dovuta a una quantità e varietà innumerevole di fattori: ci saranno testi che – proprio mentre noi ci interrogavamo sulla loro rispondenza alla nostra linea editoriale – hanno nel frattempo trovato la propria strada e quindi diventeranno libri per un altro editore (concorrenza); quelli i cui diritti costano troppo per noi (economia); quelli che ci interessavano un mese fa ma nel frattempo abbiamo deciso di farne un altro che è troppo simile, o troppo diverso (coerenza); quello per cui c’era uno spazio giusto nella collana giusta, ma quello spazio è stato già riempito da un’altra scelta (programmazione). Insomma, la nostra volontà si scontra con la realtà esterna e 85

interna alla casa editrice e con delle questioni a volte anche molto pratiche. Una volta trovata una serie di libri che vorremmo pubblicare, e verificato che siamo in grado di pubblicarli, e dopo che si sarà proceduto all’acquisto dei diritti, solo allora il libro diventa una delle tante tesserine che andranno a comporre il puzzle del piano editoriale. E a quel punto il gioco del programmare un’annata di libri entra nel vivo. C’è innanzi tutto da distribuire equamente i titoli di ciascuna collana nell’arco dei dodici mesi per creare un giusto equilibrio (ed evitare, per esempio, che due libri «simili» escano a intervalli troppo ravvicinati). Il calendario va poi incrociato con gli impegni contrattuali per ciascun libro: ogni cessione di diritto d’autore ha anche una clausola in cui l’editore si impegna a pubblicare entro una determinata data. Se dello stesso autore si hanno già altri titoli in catalogo non si vorrà farne uscire due a breve distanza l’uno dall’altro; o viceversa, esigenze di mercato potrebbero suggerire di insistere a tambur battente su quello scrittore – o su quel tema – visto il buon esito del suo precedente libro. Non solo; anche per autori diversi bisognerà comunque fare attenzione sulla scelta di chi li traduce: magari due scrittori stranieri sono stati affidati alle mani del medesimo traduttore, il quale difficilmente potrà consegnare due lavori a distanza ravvicinata. E in più, se per caso si tratta di libri per le cui traduzioni si intende richiedere un sussidio da fondi ad hoc che finanziano la circolazione di testi di determinate lingue o paesi, anche per questi ci sarà una tempistica fissata dal bando di riferimento. 86

Ci sono poi da tener presenti per i testi italiani i tempi della fase di editing, e per i testi stranieri quelli della traduzione (e a sua volta dell’editing, o revisione, della traduzione). Per alcuni libri sarà necessario programmare la lavorazione in base all’esigenza di apparati redazionali (testi introduttivi, indice dei nomi e così via), che hanno bisogno del loro tempo. Il tutto cercando di valutare l’imponderabile ai fini di ridurre il rischio: si sa – per esperienze passate – che quel traduttore è bravo ma consegna sempre in ritardo, o viceversa che quell’altro è velocissimo ma ci sarà bisogno di una maggior attenzione sul suo testo; che un libro di cinquecento pagine necessiterà di tempi redazionali più lunghi di uno di centoventi, ma che anche un testo breve può avere illustrazioni, note a piè di pagina o altri elementi per i quali occorrerà prevedere tempi più dilatati; che per il tale libro converrà commissionare una lettura esterna all’esperto su quell’argomento specifico, e così via. Infine, ci sono fattori del tutto estranei al lavoro redazionale che pure esercitano la loro influenza sulla formazione del piano editoriale: un determinato libro non potrà «bucare» l’anniversario prossimo venturo che riguarda il suo autore o gli eventi di cui tratta; la disponibilità di un certo scrittore straniero a venire in Italia per presentare il suo libro farà sì che il volume non possa che uscire in quel periodo; la concomitanza con una fiera o un evento o un festival letterario può spingere la casa editrice a lanciare un libro a ridosso di una certa data (che magari al momento della programmazione non è ancora stata fissata, e la cui determinazione dipende da altri); una testata naziona87

le può essere interessata a dedicare ampi spazi di commento a un libro, ma a condizione che questo venga pubblicato non prima o non dopo un certo periodo. E addirittura: altri libri di altri scrittori di altre case editrici potrebbero creare le condizioni perché diventi necessario, o consigliabile, pubblicare (o non pubblicare) qualcosa in un periodo particolare dell’anno. E se già tutte queste variabili che riguardano il lavoro di programmazione di un piano editoriale basterebbero da sole a giustificare le bolle o altri sintomi di stress per chi lavora in una casa editrice, c’è di più. Va ricordato infatti che nell’editoria non bisogna solo considerare il calendario gregoriano, ma è quasi più importante il calendario commerciale, cioè quei periodi di uscita previsti dal distributore, i «lanci», che a loro volta vengono raggruppati in «giri». I giri sono generalmente sei o sette in tutto l’anno e riguardano il lavoro dei promotori, cioè le persone che (prima che i libri escano) vanno a presentarli ai librai di tutta Italia per convincerli a prenotarne un certo numero di copie. I lanci riguardano invece l’effettiva distribuzione dei libri nei negozi, e indicano le date precise di uscita dei singoli titoli nell’arco dell’anno. L’incrocio fra i due calendari produce poi riflessioni ulteriori. Per esempio: pubblicare un libro «a Natale», cioè a fine dicembre secondo il calendario solare, in realtà per il calendario commerciale significa farlo uscire non più tardi di metà novembre (gli ultimi lanci sono abitualmente previsti a fine novembre, per dar agio ai librai di mettere in evidenza i «libri di Natale» con almeno un mese di anticipo). Op88

pure: anche se si tende a pensare che ad agosto molti lettori facciano la scorta di «libri per l’estate», in realtà questi vengono venduti ben prima che abbia inizio la stagione, essendo le librerie concentrate in misura molto maggiore nelle città che nei luoghi di villeggiatura (tanto è vero che il calendario commerciale non prevede lanci per tutto il mese di agosto). Di conseguenza si sarebbe portati a pensare che a settembre ci possa essere una forte ripresa dopo la pausa estiva, ma anche questo ragionamento ha come risultato due calendari che si comportano in maniera opposta: a settembre si vende bene in libreria ma una buona fetta dei negozi si riempie di testi scolastici, diminuendo quindi lo spazio dedicato alla cosiddetta «varia». Altro dilemma è gennaio: si tenderebbe a credere che dopo la scorpacciata natalizia, con i portafogli vuoti, meno gente sia disposta a spendere per un bene superfluo come il libro. Forse è vero, ma il referente primario dell’editore non è tanto il lettore finale quanto il libraio, il quale, se ha fatto un buon Natale, avrà i banconi e gli scaffali mezzo vuoti (e il registratore di cassa invece piuttosto pieno...), dovrà quindi fare grandi rifornimenti e pertanto comprerà molti libri. Insomma, a fare questo mestiere si inizia a ragionare con scansioni temporali differenti, e in fase di programmazione bisognerà considerare in maniera schizofrenica che da una parte ci sono lettori, autori, redattori, giornalisti che lavorano seguendo un calendario, e dall’altra librai, distributori, venditori che seguono altre logiche (i cui effetti sull’andamento finanziario della casa editrice sono imprescindibili per chi deve programmare un’annata editoriale). 89

E così, oggi, dall’osservatorio privilegiato del divano – due mesi abbondanti prima che inizi davvero a succedere tutto quello che il mio schemino mi ricorda e mi fa prefigurare – controllo che ogni casellina sia messa al posto giusto, che ciascuna collana abbia il numero esatto dei titoli previsti, che nessun titolo sia in conflitto con un altro, che ogni giro abbia i suoi lanci, che ogni mese abbia proprio quel numero di uscite, e che tutte rispecchino e rispettino scadenze, impegni, necessità, previsioni. Ripasso a mente, come fossero figurine su un album dei calciatori, le facce di agenti letterari editor autori traduttori consulenti direttori di collana illustratori coinvolti in questa delicata architettura, mi immagino per ogni casellina – circa due centimetri di larghezza per mezzo centimetro di altezza – quanto lavoro ci sia dietro, e quanta passione e sacrificio e amore, e quanto impegno da parte di così tante persone, ciascuna con la sua professionalità individuale e con un desiderio condiviso; e per ogni nome o titolo del mio specchietto immagino fin d’ora il momento in cui, fra qualche mese, un tasto sarà spinto da un computer per mandare il file in tipografia, e come quel file ci tornerà indietro qualche settimana dopo sotto forma di pacchi avvolti in carta marrone, pacchi che un furgoncino ci avrà recapitato e che in tre o quattro di noi dal primo piano dov’è il nostro ufficio scenderemo a raccogliere – facendoceli mettere sulle braccia sollevate come quando si prende la legna tagliata in ciocchi da far bruciare in un fuoco – e sistemare in magazzino, e uno di quei pacchi verrà per tacita tradizione appoggiato sul piano del mobile nero e lungo dell’ingresso, così che qualcuno di noi pos90

sa aprirlo e, scartandolo piano, tirar fuori una copia, quella che dal mucchio viene dunque eletta convenzionalmente a «prima copia», passare una mano sulla copertina liscia, mettere un secondo il naso dentro le pagine perdendosi nell’odore di inchiostro e colla e cellulosa, controllare bene il taglio della carta, il colore dell’illustrazione, e dunque sorridere compiaciuto del risultato... E poi tornare alla propria postazione, perché ci sarà un altro libro su cui lavorare, un altro quadratino da riempire in questo schema, un’altra porzioncina di progetto editoriale da realizzare. E proprio come l’ora legale che oggi mi offre una manciata di minuti in più, questo progetto mi allunga la vita. È il mio progetto per l’anno che viene, e lo vedo scritto chiaro su un foglio a quadretti, il foglio che mi sto rigirando fra le mani da tempo e che ha già subìto innumerevoli modifiche prima di raggiungere la forma definitiva che ha adesso. Il foglio che ho in mano è una cartomante che mi legge il futuro, e oggi questo futuro mi piace, mi piace da impazzire.

Il catalogo è questo (novembre)

Una volta chiuso il piano editoriale, nella mia casa editrice si passa a programmare come sarà il catalogo: si inizia a pensarci a fine anno (che formato avrà il catalogo? cosa ci mettiamo in copertina? con quale ordine vogliamo presentare le diverse collane? chi scrive le brevi schede di presentazione dei libri? quante pagine abbiamo a disposizione per tutto questo?), in modo da averlo pronto in primavera. E se il piano editoriale è il riassunto di un anno di lavoro passato a scegliere, proporre, decidere, programmare e al tempo stesso un’accurata anteprima di come sarà l’anno successivo, la pubblicazione del catalogo è invece il momento in cui un editore si ritrova fra le mani, in un opuscoletto di poche decine di pagine, tutto il lavoro fatto fin dall’inizio della propria attività. Se prendo in mano uno dei cataloghi della mia casa editrice, sfogliandolo rifaccio a ritroso il suo percorso: dai libri ancora in lavorazione fino ai primissimi, usciti nel 1994. 93

E così rivedo e riscopro l’aggiornarsi della grafica, dei caratteri, dei formati; l’allargarsi degli orizzonti geografici e di quelli tematici, con l’aggiungersi nel tempo di nuovi autori e di nuove collane, o anche con la chiusura di collane che col passare degli anni non rispecchiavano più i nostri interessi o i nostri gusti; il passaggio dalla lira all’euro con quei ridicoli prezzi «tradotti» (i 10,33 e gli 8,26). E poi gli altri passaggi, quelli leggibili solo in filigrana e solo da chi conosce la nostra piccola avventura per averla vissuta in prima persona: dal periodo in cui pubblicavamo tre libri all’anno all’attuale produzione di tre libri al mese, dal microeditore inizialmente introvabile in libreria all’attuale gruppo di lavoro che oltre a pubblicare libri è anche produttore di documentari e spettacoli, possiede una libreria, organizza eventi, e ha al suo interno un workshop sull’editoria e sulla scrittura. E, del resto, lo stesso catalogo col passare degli anni ha cambiato forma e, soprattutto, consistenza: nel 1994 era un bugiardino della misura di un foglio A4 ripiegato su se stesso, col tempo la lista dei contenuti si è andata infittendo fino a rendersi necessario un formato più ampio prima, e il passaggio alla versione opuscolo poi. Oggi è un vero e proprio libretto tutto a colori di un centinaio di pagine, in cui l’indice dei nomi degli autori è una specie di albero genealogico, quello dei titoli è la lista degli invitati a una riunione familiare, e la giustapposizione delle copertine è proprio come l’album delle foto di famiglia. Ci sono dentro tutto il nostro lavoro e i nostri sogni, i temi prediletti, le fissazioni e gli innamoramenti, le cose belle e gli errori. Ci si trovano i casi letterari, i libri amati 94

dal pubblico e dalla critica, quelli che hanno vinto premi, che hanno viaggiato per mezzo mondo o che sono addirittura diventati film; così come ci sono quei libri passati inosservati, le cui copie giacciono ancora, invendute, nel nostro magazzino, che pochissimi giornali hanno recensito. Insomma, ci sono libri che hanno contribuito al risultato economico positivo dell’anno di pubblicazione (e magari anche degli anni successivi), e quelli che hanno portato un segno «meno» nei riepiloghi di fine stagione. Non si può che concordare con Roberto Calasso, il direttore editoriale di Adelphi, quando dice che «il traguardo più audace e ambizioso per un editore» è che i suoi libri siano visti «come anelli di un’unica catena, o segmenti di un serpente di libri, o frammenti di un singolo libro formato da tutti i libri pubblicati»1, e del resto bisognerebbe – come suggerisce Sandro Ferri delle edizioni e/o – riuscire a giudicare i singoli libri del proprio catalogo senza farsi influenzare dalla «pesante sanzione del mercato», dallo «spietato giudizio (o, il più delle volte, l’indifferenza) dei lettori»2. Perché nel momento in cui li abbiamo scelti – e proprio perché la nostra è un’editoria libera, indipendente – lo abbiamo fatto solo in base a un criterio di gusto e passione personali, il più delle volte condivisi da tutti i soggetti a 1 Roberto Calasso, L’editoria come genere letterario, in «Adelphiana», n. 1, 2001. Il testo è scaricabile gratuitamente a questo indirizzo: http:// www.adelphiana.it/sommario2001.htm. 2 Sandro Ferri, Uno sguardo indietro, nel blog della casa editrice, 4 luglio 2006. Il testo è scaricabile gratuitamente a questo indirizzo: http:// www.edizionieo.it/post_visualizza.php?Id=29.

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vario titolo interessati a quel libro. Bisognerebbe dunque rifare il percorso della propria casa editrice riuscendo a svincolare il giudizio su un determinato libro dalla consapevolezza di come sono successivamente andate le cose, insomma senza il senno di poi che ci fa giudicare il libro anche in base al suo esito. E valutarlo invece ancora oggi, magari a distanza di parecchi anni dalla sua pubblicazione, con lo stesso animo che avevamo quando per la prima volta ne parlammo ai nostri colleghi durante una riunione di redazione, o a cena con dei nostri amici: «Ragazzi, ho appena finito di leggere un libro bellissimo che...». Il catalogo – grazie alla sua sinteticità, e al criterio democratico della mera (appunto) catalogazione – permettendoci di ripercorrere il tragitto fatto negli anni passati, e quindi di valutare la coerenza delle scelte, ci mette in condizione di soppesare un risultato che qui non è economico ma meramente, squisitamente editoriale. E pertanto ci dà gli strumenti per verificare se davvero il nostro è un unico grande libro le cui pagine sono i singoli libri via via pubblicati. Oltre a indicare il listino che riassume tutta la produzione di una casa editrice, il termine «catalogo» viene usato, in gergo più tecnico, per designare l’insieme dei libri pubblicati dall’editore negli anni precedenti quello in corso. Si tende infatti a definire come «editori di catalogo» quelle case editrici il cui fatturato è costituito in parte rilevante da vendite di titoli non recenti. E per raggiungere questo obiettivo diventa necessario avere un catalogo «vivo», sempre in movimento, che sia attivo, per esempio, at96

traverso continue ristampe, aggiornamenti e nuove edizioni, o riproponendo in versione tascabile i successi del proprio marchio; soprattutto, facendo attenzione che i titoli «forti» siano sempre disponibili sul mercato. È importante per una casa editrice (e a maggior ragione lo è per un’azienda piccola che voglia creare solide fondamenta per il proprio futuro) anche riuscire a praticare una valida «politica degli autori», cioè costruire dei rapporti quanto più possibile duraturi con quegli scrittori con cui intende identificare la sua proposta culturale. Questa è una delle maggiori difficoltà per una casa editrice di piccole dimensioni, dal momento che ci sarà sempre un editore più grande, e con maggiori mezzi a disposizione, in agguato con l’intento di sottrarle quel «valore» al fine di portarlo all’interno del proprio catalogo. Non solo: anche sul singolo titolo già pubblicato capiterà di ricevere offerte apparentemente allettanti, magari per una licenza temporanea, o per la cessione dei soli diritti tascabili. Ma anche questo è un rischio, perché a fronte dell’immediato introito di una somma magari anche consistente l’editore si priverà del suo bene più prezioso, e cioè la possibilità di crearsi un catalogo riconoscibile, che è poi il percorso individuabile anche dai lettori. Parecchie volte ho avuto offerte da gruppi editoriali per i quali qualche migliaio di euro sono una cifra irrisoria (e forse anche consapevoli che per un piccolo editore come me quella somma avrebbe potuto invece essere significativa), ma pur sapendo di rinunciare a quell’entrata certa – rispetto all’aleatorietà delle sperate vendite future – che avrebbe potuto farmi comodo, ho detto di no proprio con l’obiettivo di 97

consolidare il catalogo. Che è, in fin dei conti, il mio patrimonio economico oltre che il mio patrimonio genetico, il mio Dna: ciò che fa di me non un editore, ma esattamente e unicamente quell’editore. Se sfoglio il catalogo, oggi, ecco cosa ci trovo. Una serie di tasselli, ognuno con una sua forma e un suo colore, e quella forma e quel colore hanno già un significato e un senso. Ma poi messi uno accanto all’altro formano una figura, una figura intera, grande. Ognuno è un pezzo intero, ma insieme è una porzione del tutto. Sono contento di aver avuto tutti e ciascuno di quei compagni di strada, e non rimpiango certo di aver pubblicato uno di quei libri solo perché ha avuto meno attenzione di altri una volta che ha iniziato a camminare sulle sue gambe. Da parte mia, di attenzione ne hanno avuta tutti, un’attenzione completa e una passione incondizionata. E hanno avuto uguale importanza, perché ognuno di quei libri ha contribuito a fare di me l’editore che sono, e la persona che sono.

Uno sguardo dal ponte (dicembre, dieci anni prima)

Quando supero l’imbarazzo e riesco a raccontare l’aneddoto a qualcuno, mi viene da ridere pensando a quanto sia stata assurda quella mia visione. Eppure mi è successo proprio così. Erano i giorni in cui la mia piccola casa editrice – infinitamente più piccola di quanto lo sia adesso, considerando che si trattava di una decina di anni fa – era impegnata in una sfida davidgoliesca: l’avversario in questione era, ed è, la più importante casa editrice letteraria italiana, che all’epoca era da poco entrata a far parte del gruppo editoriale più grosso del paese, e l’oggetto del contendere erano i diritti sulle opere di Raymond Carver1. Insomma, sta1 Non so quante volte ho usato lo stesso paragone, ma non fa niente, mi ripeto: per me avere la possibilità di pubblicare Carver – l’autore americano i cui racconti sono un punto di riferimento per diverse generazioni di lettori e di scrittori, e che io considero da sempre Il Mio Scrittore Preferito – è stato come se quando avevo sedici anni mi avessero offerto l’occasione di giocare a pallone con Diego Maradona. Quando avevo sedici anni, il Napoli (una piccola «provinciale», come dicono le cronache sportive per definire una squadra minore, non blasonata, senza tanti mezzi economici, e che si contrappone ai grandi squadroni dell’asse calcistico-industriale TorinoMilano: se pensate che sia una metafora sull’editoria, fate pure) vinse il suo primo scudetto proprio grazie al colpaccio di aver acquistato Maradona.

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vamo affrontando una battaglia che, per come la vivevamo noi, in confronto quella di Costantino del 28 ottobre 312 a.C. – che si era svolta a Ponte Milvio, a due passi da dove ora c’è il nostro ufficio – era impegnativa come un paio di mani a briscola. Ebbene, c’erano state offerte e contro-offerte, rilanci e contro-rilanci; da una parte un enorme gruppo industriale dalla tradizione prestigiosa e dall’altra un minuscolo editore poco noto con (allora) nemmeno cinquanta titoli in catalogo; da un lato chi poteva accedere a ingenti risorse finanziarie e dall’altro io e il suo socio Daniele, due ex studenti di giurisprudenza non ancora trentenni e senza alcun reddito, che avrebbero dovuto chiedere un prestito a Fabio, un amico di vecchia data, e alla banca, per poter pagare l’anticipo nel caso la battaglia fosse stata vinta. Anche per questo – per l’emozione e insieme paradossalmente per il timore di «vincere» e indebitarsi forse a vita – ci fu più di una notte insonne. E dopo le nottate e le trattative, quel giorno di dieci anni fa, nell’attesa che scoccasse l’ora in cui doveva arrivarci la risposta definitiva, per rilassarmi un po’ andai a fare una passeggiata sul ponte, subito fuori l’ufficio della casa editrice, forse in attesa di una visione mistica o solo per allentare la tensione: era la prima volta che giocavamo a un tavolo serio, e con parecchie fiches in ballo, e non posso negare di essere stato piuttosto nervoso. Era dicembre, una giornata fredda ma assolata, e mi affacciavo di qua e di là dal parapetto (era, per fortuna, un’epoca in cui i lampioni non erano ancora un ricettacolo di lucchetti incatenati tre metri sopra il fiume) perché mi è sempre piaciuto il fatto che proprio sotto quelle arcate succede qual100

cosa, un salto nel fondale o chi sa cos’altro, per cui se guardi il Tevere affacciandoti a ovest è un pericoloso corso d’acqua dolce in piena (dove più di un avventuroso canoista in questi anni si è trovato in difficoltà sotto i miei occhi impotenti), ma se lo osservi a est sembra immobile come i laghi dolomitici dei puzzle Ravensburger, e con tanto di cormorani a pesca di prede. E insomma, mentre mangiavo mandarini senza semi comprati al mercato del rione, il sole alle mie spalle produsse un’ombra, un’ombra proiettata sul grigio-verde del fiume, l’ombra di Ponte Milvio sull’acqua. Provate a immaginare la visione (mentre io provo a superare l’imbarazzo nel raccontarla): riflesse sul fiume, si stagliavano visibilissime le tre arcate, seguite dal pezzo di stradina a un’estremità. Ecco invece cosa ho visto io (soltanto io) quel pomeriggio di fine 1998: le tre arcate erano le curve sinuose di una «m» gigante, e il pezzo di strada era l’ultima zampetta della lettera che finisce a formare la punta di una penna stilografica. In pratica, io ho visto un enorme marchio di minimum fax, la mia casa editrice, sul Tevere (e a cavallo di quella «m» extralarge potevo scorgere l’ombra di me stesso, con un sacchetto di clementine da finire). «In hoc signo vinces», pensai, e tornai in ufficio a conquistare il mondo, o quanto meno pronto a perdere con onore... In ufficio ci fu l’atto estremo della «sfida», ultimi scambi di telefonate da una parte all’altra dell’oceano, ultime rassicurazioni; iniziammo a convincerci che fosse giusto, anzi addirittura auspicabile, che un autore importante dovesse per forza di cose andare in un catalogo importante, 101

e che eravamo stati irresponsabili a pensare anche per un solo momento che ce la potessimo fare. Ancora più irresponsabili a rischiare una somma che non avevamo. Ma – anche se io e Daniele ci proclamavamo ormai fermamente decoubertiniani fino al midollo – amavamo l’idea di aver abbracciato per qualche settimana sia il rischio sia la responsabilità che l’aver partecipato a quell’asta comportavano, e ci eravamo convinti che, vincenti o perdenti, avevamo fatto comunque bene a provarci. Era l’ultimo giorno lavorativo dell’anno, il 23 dicembre: dall’agenzia letteraria americana ci avevano fatto sapere che non avrebbero più accettato offerte perché stavano per chiudere l’ufficio per la pausa natalizia. Si trattava di allungare la nostra giornata di altre sei ore in virtù del fuso orario newyorkese. Andammo a cena alla trattoria portafortuna di minimum fax ormai in bilico tra euforia e depressione, tornammo, perdemmo un altro po’ di tempo mandando qualche messaggio di auguri last-minute, mettemmo a posto le nostre scrivanie, facemmo ordine fra gli scaffali per ritrovare tutto a posto dopo Natale, archiviammo in un faldone tutta la corrispondenza della trattativa Carver. Il nostro fax aveva la particolarità di non possedere una qualsivoglia suoneria, chissà perché. Quando arrivava un fax si poteva avvertire solo il rumore del rullo della carta che iniziava a sputare un foglio, preceduto da un impercettibile «tic» che segnalava la connessione. Mentre io e Daniele mettevamo via le ultime cose, fummo scaraventati contro il muro dal frastuono assordante di un «tic» che sembrava essere di un milione di decibel, mentre era il solito impercettibile «tic». Il foglio uscì dalla macchina con 102

una lentezza esasperante, che ci diede modo di vivere la scena come al rallentatore. Sulle prime pensammo alla risposta di qualche amico agli auguri di Natale, perché vedemmo spuntare delle parole scritte a mano, con un pennarello dalla punta doppia. La prima riga («How does it feel») era decisamente una citazione da Like a Rolling Stone di Bob Dylan, e questo ci disorientò ulteriormente: chi poteva mandarci un augurio del genere a mezzanotte passata? La grafia, capimmo poi, era quella di Tess Gallagher, vedova di Carver e titolare dei diritti. La sua frase, ironica e laconica insieme, era questa: «Cosa si prova a essere l’editore italiano di Ray?». Quando nel 1994 il nostro amico Patrizio, una sera che lo andammo a trovare oltre l’orario di chiusura nell’ufficio della sua agenzia pubblicitaria, ci diede come regalo il marchio che avremmo usato prima per la rivista via fax e poi per la casa editrice dicendoci «se vi piace fatene quello che volete», io non sapevo quante e quali implicazioni aveva anche la sola parola «marchio». Ben al di là dei meri aspetti visivi e grafici, il marchio è quello che riassume un po’ tutto di un’azienda: la filosofia, la credibilità, la struttura, l’immagine, la politica... Oggi il marchio della mia casa editrice, come pure il suo nome curioso, sono un segno e un suono a cui ho talmente fatto l’abitudine da non capirne appieno tutti i possibili significati (e i significanti). È certamente la parte che riassume il tutto: mette insieme un certo tipo di gusto (condivisibile o meno, ma sicuramentee il nostro gusto), un modo di lavorare con dedizione e impegno, e d’altro 103

canto con una certa dose di improvvisazione; una particolare idea di intraprendenza e di divertimento del fare, anche se a volte quello che facciamo sono dei giri a vuoto. E c’è dentro la fatica quotidiana di chi porta avanti un progetto rischiando tutti i propri beni e mettendo in gioco se stesso, fisicamente e mentalmente, ben oltre i confini consigliati da qualunque medico curante; c’è dentro quello che ci si può aspettare da un nostro libro (e quello che sicuramente non ci si può aspettare); c’è in controluce la nostra faccia, il nostro cuore, e anche il nostro fegato; c’è una visione etica del mondo e un principio di giustizia che governa ogni azione di chi lavora con noi e per noi, che a volte è talmente rigoroso da non permetterci liberatorie deviazioni. Soprattutto, c’è dentro ogni nostro limite, di cui siamo assolutamente consapevoli, e anche tutti quei limiti che ancora non conosciamo bene; ma insieme c’è la sfrontatezza di non porsene, di limiti, anche quando (come nel caso di Carver) sarebbe ovvio, e consigliabile, oltre che lecito, abbandonare la partita.

L’anno che verrà (dicembre)

È un venerdì umido e grigio di dicembre inoltrato, ed è l’ultimo giorno di apertura dell’ufficio prima delle feste, prima cioè della fine dell’anno. Stiamo per chiudere la stagione con un ottimo risultato: le vendite sono cresciute del 29%, e non è un incremento che si ottiene ogni dicembre, soprattutto in tempi (eterni) di «crisi del libro». I tabulati che ci arrivano dal distributore indicano che abbiamo realizzato il miglior fatturato di sempre, e che non abbiamo mai venduto tante copie di nostri libri come quest’anno. Sono numeri per certi versi impressionanti. È chiaro, ci sono editori che con le vendite di un solo autore, o anche di un unico libro, e magari soltanto nella prima settimana dall’uscita, vendono tanto quanto tutta la produzione della nostra casa editrice in un anno intero1. Ma per noi, che sappiamo da dove veniamo, e che ogni singolo lettore è 1 Per fare un esempio – come ha notato Stefano Salis nel «Calendario editoriale» di Tirature ’08, nell’anno di pubblicazione del Codice Da Vinci nel nostro paese il suo autore, Dan Brown, avrebbe potuto essere considerato, da solo, uno dei primi cinque editori italiani per fatturato.

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una conquista, queste cifre hanno qualcosa di magico e di terribile insieme. Significano che molti hanno apprezzato la nostra proposta, seguito il nostro consiglio, accettato la nostra sfida. E hanno comprato un nostro libro: un gesto-sineddoche, che riassume, nell’atto consapevole del lettore che si avvicina con un volume alla cassa di una libreria, gran parte del senso del nostro lavoro, e quindi anche della nostra vita. Se con quei numeri mi viene voglia di giocare, mi accorgo che possono dirmi anche qualcos’altro: per esempio, che quel gesto è stato fatto ogni singolo giorno dell’anno da più di trecento persone; oppure che, calcolando gli orari e i giorni di apertura dei negozi, ogni singolo minuto dell’anno che si sta chiudendo c’è stata una persona che è tornata a casa con un libro pubblicato da noi, e allora addirittura mi tremano i polsi. Sono solo numeri, certo. Ma nella convenzione stipulata fra loro, i numeri, e noi che li interpretiamo, sono riassunti i pensieri, le certezze, le ansie, gli interrogativi di un gruppo di persone che hanno contribuito a creare un progetto, gli hanno dato forma e ci hanno creduto; e, nelle date fatidiche in cui ci si trova a fare bilanci, si confronta la loro speranza iniziale (che quel progetto venga recepito) con i dati finali (il risultato effettivo del periodo trascorso). L’anno passato, di questi tempi, ci ritrovavamo a fare i conti con una leggera flessione (-5% rispetto all’anno ancora precedente) che, pur non catastrofica, ci aveva però costretto a una dolorosa disamina, a un’analisi costruttiva di tutto il nostro progetto: era la prima volta dall’inizio 106

dell’attività che affrontavamo un segno negativo, e pesavano parimenti sulle nostre spalle la gestione emotiva di questo piccolo lutto e quella pratica, dell’emergenza finanziaria. Ma poi cosa vuol dire «crescere» e cosa il suo contrario? Cosa significano i segni positivo e negativo? Il mio progetto è meno valido, meno credibile se i miei libri hanno venduto meno? Sono «più editore» se un numero crescente di persone ha acquistato i libri della mia casa editrice? E viceversa: significherà, nel mio bilancio ex post, che ho forse operato delle scelte culturalmente meno rigorose e perciò ho «ceduto» di più al mercato? O non sarà piuttosto che ho imparato a coniugare la proposta culturale con una più attenta gestione imprenditoriale, ammorbidendo quel passaggio dall’età dell’innocenza all’età della ragione? E non potrebbe essere invece che io e il mio progetto siamo esattamente gli stessi, non ci siamo alterati di una virgola, siamo rimasti coerenti fino in fondo, ma che sono cambiati (crescendo, diminuendo, fluttuando, spostandosi altrove) dei fattori del tutto estranei, esterni alla mia sfera di azione (la politica, il potere d’acquisto, nuove mode, diversi interessi del pubblico), e su cui le mie mosse, le mie decisioni sono del tutto ininfluenti? Poi ritorno con i piedi per terra, e continuando a giocare con la matematica vengo a scoprire che la mia casa editrice ha un peso sul mercato compreso fra lo 0,04 e lo 0,05%. Forse non si può, dunque, nemmeno definirlo a rigore un «peso». Non so se una mosca pesi rispetto a una persona duemilacinquecento volte meno, ma so che que107

sto è il valore della mia casa editrice rispetto al mercato del libro in Italia. Tutto questo ridimensiona i miei ragionamenti, mi ricorda che ogni cosa è relativa: ciò che per me è una fatica immensa, tre lustri di lavoro, un continuo tirare la cinghia, un mero puntare alla sopravvivenza e, d’altro canto, soddisfazioni inenarrabili, gioie convulse, risultati miracolosi – tutto questo può essere recepito come nulla di più che un puntino scuro osservato con la coda dell’occhio e scacciato con un semplice gesto di fastidio dalla mano del gigante-mercato su cui io editore-mosca mi sono andato inopinatamente a posare per un breve istante della sua esistenza. Ma intanto la mattinata di questo venerdì si avvia alla conclusione. C’è un po’ di euforia nelle stanze della casa editrice, quell’euforia ridanciana con una punta di tristezza che ha in sé ogni cosa che finisce. Abbiamo deciso, complice il calendario, di chiudere l’ufficio per una lunga pausa natalizia che durerà fino a gennaio, forse è la prima volta che succede in tanti anni: oggi si chiude, e ci si rivede l’anno nuovo. L’atmosfera quindi si tinge anche un po’ di ultimo giorno di scuola prima delle vacanze: tu parti, io resto, per le feste che fai? Abbiamo invitato tutta la casa editrice a pranzo, alla vicina trattoria Pallotta, per festeggiare la fine di un anno che ha portato grande fatica per tutti, e la gioia effimera di questo bel risultato. Stamattina, poco prima di questo pranzo, io e il mio socio abbiamo dovuto affrontare un’emergenza: una questione che richiederà l’intervento di un avvocato, e una spesa ingente, una faccenda che ci ha rabbuiati perché ci 108

è stato fatto un torto da qualcuno che credevamo ci fosse vicino, ma che rafforza la nostra unione perché sappiamo di essere pienamente nel giusto. Ma anche se l’umore non è dei migliori, c’è il convivio di fine anno che ci aspetta, la tavola è lunga, berremo del vino, diversamente da come ci imponiamo di solito alla pausa-pranzo, e passeranno proprio tutti, anche solo per un saluto, o per il caffè. Allora ci diciamo che non fa niente, meglio non far parola di questo mattone che ci impedisce di essere del tutto felici: festeggiamo, salutiamo gli amici, i colleghi, brindiamo all’anno che finisce e a quello che arriva. Alti e bassi d’umore: la perdita di un autore straniero che ci è appena stata comunicata, uno scrittore importante che viene da una grande casa editrice e vuole pubblicare con noi, l’inatteso prezioso risultato di un libro aggiunto all’ultimo momento nel piano editoriale, un redattore che annuncia di andar via per mettersi in proprio, nuove assunzioni e congedi per maternità. Il dato positivo ottenuto dall’imprenditore si scontra (e inevitabilmente perde la partita) con l’insoddisfazione che è propria dell’intellettuale. Il pranzo si allunga oltre misura, con piacere di tutti, e rosicchia minuti, ore al pomeriggio. Quando rientriamo in ufficio è già quasi buio, mi metto al computer e provo a concentrarmi ma subito mi lacrimano gli occhi. Mentre rispondo a una telefonata mi sento tremare le gambe, battere i denti. Forse non è il caso di continuare, del resto la giornata ha avuto la sua conclusione, con il pranzo e il brindisi 109

finale, perché prolungarla? Decido di tornare a casa, c’è il rito dei saluti, gli auguri, e varcando il portone sono già certo di avere la febbre. Quando arrivo a casa tremo così tanto che fatico a infilare la chiave nella serratura, abbandono dietro di me una scia di vestiti nel dedalo curioso del corridoio, e mi faccio inghiottire dal letto, sotto il piumone. Mi risveglio che è sabato mattina, ho dormito qualcosa come quattordici ore, non mi succede da anni. Il termometro afferma perentorio che la temperatura del mio corpo è di 38.9°. Fatico perfino a sopportare il peso quasi impalpabile delle piume che mi ricoprono dalla punta dei piedi fino al naso. Per due giorni prendo medicine, io che non ne ho mai fatto uso. Piano piano sento ogni forma di fatica abbandonare il mio corpo. Con la temperatura scende la tensione, ho quasi dieci giorni di riposo davanti a me, e con i muscoli che si rilassano, i neuroni che si abbandonano, percepisco davvero la testa diventare più leggera, ho la sensazione che da qualche parte dentro di me si stiano sciogliendo dei nodi. Allentando ogni forma di tensione, finalmente, me ne rendo conto solo adesso, mi ritrovo coperto per intero di bolle. Le mie bolle, che non mi venivano a trovare da un po’. Le saluto con una forma di rabbia mista a nostalgia. Eccovi qui. Dove eravate andate a finire? Non siete mai state così tante, così invadenti: vi sento perfino dietro le orecchie, sulla testa, se fosse possibile giurerei di avere bolle perfino sulle unghie, sui denti, sui capelli. Non credevo, davvero, di essere così sensibile agli umori e alla fatica. Mi sono preso gioco così tante volte di chi 110

non riesce a reggere l’urto delle emozioni e le trasforma in eventi fisici percepibili, visibili, tangibili. Invece eccomi qua, facile da leggere come un libro aperto: il mio corpo non è altro che la cartina di tornasole dei miei mille dubbi, è la carta carbone del mio umore. Sono come un libro aperto, e mi rileggo, sfoglio a ritroso le pagine chiare e le pagine scure di questi dodici mesi. Un anno passato più di altri a interrogarmi sul senso del mio mestiere, e sul perché il mio mestiere sia così indissolubile dalla mia vita. La risposta non arriva, non la conosco, non potrebbe darmela nessuno, se non forse un libro. Sapendo che riuscirò a leggere poche parole prima che gli occhi mi brucino, prima che la testa mi pesi di nuovo, pesco dal comodino. Allungo la mano sinistra, sfioro qualcosa, d’istinto ritraggo il braccio che ha urtato la lampadina ma in realtà non mi sto bruciando perché, avendo scelto la via del risparmio energetico, il bulbo non è incandescente; faccio cadere a terra l’astuccio del termometro, che per fortuna è vuoto, ma faccio in tempo a pensare che sarebbe divertente adesso poter giocare, come mi è successo più volte da bambino, con l’argento vivo di un termometro rotto. Alla fine a tentoni le dita riescono ad afferrare uno dei libri impilati sul comodino. Piego in due il cuscino dietro la testa, mi sollevo appena per poter vedere di che libro si tratta. È di Valentino Bompiani, si chiama, figuriamoci, Il mestiere dell’editore. E la pagina-oracolo che mi parla dice: «Voglio trasformarmi in libro, sentirò la mia pelle tutta picchiettata dai caratteri di stampa: un’orticaria di segni». Allora capisco il senso di tutto, il significato di queste bolle sul mio corpo-libro, e il senso di quest’anno, un altro 111

anno passato in mezzo ai libri e via via, riavvolgendo la pellicola, di ogni anno precedente, di ogni mese, ogni giorno, ogni minuto. Comprendo il senso delle mie fallimentari ricerche ospedaliere, dei miei tentativi di capire e affrontare lo stress che mi è stato diagnosticato; del timore di non essere un buon lavoratore o un buon datore di lavoro, e più di tutto di non essere un buon editore; della paura di non saper gestire preoccupazioni e gioie, lasciarmele scivolare addosso con una qualche forma di cinismo, senza dargli il giusto peso o senza riuscire a condividerle nella giusta misura con i compagni di viaggio. Ma non era vero niente. Non ci sono terapie, non ci sono sintomi, non ci sono paure né tanto meno ci può essere alcuna certezza, se non questa: mi sto trasformando in un libro, e quel libro che sono io si sta trasformando a sua volta in un uomo.

Guida per riconoscere i tuoi santi

AA. VV., Farsi un libro, Stampa alternativa & Graffiti, Roma 1990 Diana Athill, Stet. An editor’s life, Granta Books, London 2000 Sylvia Beach, Shakespeare and Company, Sylvestre Bonnard, Milano 2004 Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, Milano 1997 Luciano Bianciardi, La vita agra, Bompiani, Milano 2001 Valentino Bompiani, Vita privata, Mondadori, Milano 1973 Valentino Bompiani, Dialoghi a distanza, Mondadori, Milano 1986 Valentino Bompiani, Il mestiere dell’editore, Longanesi, Milano 1988 Italo Calvino, Saggi, Mondadori, Milano 1995

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Luciano Canfora, Libro e libertà, Laterza, Roma-Bari 1994 Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Einaudi, Torino 2007 Giulio Einaudi, Frammenti di memoria, Rizzoli, Milano 1988 Jason Epstein, Il futuro di un mestiere, Sylvestre Bonnard, Milano 2001 Carlo Feltrinelli, Senior Service, Feltrinelli, Milano 1999 Gian Carlo Ferretti, L’editore Vittorini, Einaudi, Torino 1992 Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Einaudi, Torino 2004 Piero Gobetti, L’editore. Commiato, Dante & Descartes, Napoli (senza indicazione di data) Vito Laterza, Quale editore. Note di lavoro, Laterza, RomaBari 2002 Silvana Mauri, Ritratto di una scrittrice involontaria, a cura di Rodolfo Montuoro, Nottetempo, Roma 2006 Mimma Mondadori, Una tipografia in paradiso, Mondadori, Milano 1985 «Panta» n. 19: Editoria, a cura di Laura Lepri ed Elisabetta Sgarbi, Bompiani, Milano 2001 Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Einaudi, Torino 1952

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Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1966 Cesare Pavese, Lettere 1945-1950, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1966 Lillian Ross, Here but not here. My life with William Shawn and «The New Yorker», Counterpoint, New York 2001 André Schiffrin, Editoria senza editori, Bollati Boringhieri, Torino 2000 André Schiffrin, Il controllo della parola, Bollati Boringhieri, Torino 2006 Vittorio Spinazzola, Tirature ’08, il Saggiatore, Milano 2008 (l’annuario di Spinazzola è stato pubblicato nel 1991 da Einaudi, tra il 1992 e il 1995 da Baldini & Castoldi, dal 1998 in poi da il Saggiatore) Elio Vittorini, Diario in pubblico. Autobiografia di un militante della cultura, Bompiani, Milano 1957 Elio Vittorini, Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, Einaudi, Torino 1977

... and thanks for all the fish

Nonostante l’idiosincrasia che provo per le pagine dei ringraziamenti sottopostemi di volta in volta dagli autori della mia casa editrice, o forse proprio per questo (perché ora a ruoli invertiti posso assaporare il piatto freddo della vendetta), ecco i miei special thanks. Sento il bisogno di ringraziare Nicola Lagioia e Martina Testa che mi hanno aiutato a capire cosa stessi scrivendo. E poi devo ringraziare Sena, che – a seconda dei momenti – ha sostenuto, costretto, incoraggiato, e sopportato lo scrittore della domenica che è in me, e che (in quanto tale) ha rovinato molti weekend. Questo libro è dedicato a mia madre, che chiude le porte, e a Daniele, che le apre; alla mia famiglia che è la mia casa, e alla mia casa editrice che è una specie di famiglia.