Re-visione della psicologia 9788845976292

James Hillman ha sottratto la psicologia a coloro che l’avevano ridotta a una scienza del comportamento – con il corredo

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Re-visione della psicologia
 9788845976292

Table of contents :
Indice......Page 425
Frontespizio......Page 2
Esergo......Page 4
Tre termini di uso ricorrente......Page 5
Per cominciare......Page 6
Casa Gabriella, Moscia, Svizzera 29 Maggio 1974......Page 17
Un’anticipazione di questo capitolo......Page 18
Breve storia della tradizione depersonificatrice......Page 22
Digressione sull’allegorizzazione......Page 27
L'anima delle parole......Page 29
Dove siamo ora......Page 32
«Personificazione», «antropomorfismo», «animismo»......Page 34
Le ragioni della personizzazione......Page 37
Le persone archetipiche di Jung: «Il piccolo popolo»......Page 49
L’impero dell’io romano: declino e disgregazione......Page 53
Digressione sul «ritorno alla grecia»......Page 57
La personizzazione e la psiche politeistica......Page 62
Archetipi o dei?......Page 70
Le discipline moderne dell’immaginazione......Page 73
Anima......Page 80
Depersonalizzazione......Page 83
La fede psicologica......Page 92
2. Patologizzazione o disgregazione......Page 95
La psicopatologia in medicina e in religione......Page 97
1. Il nominalismo......Page 101
2. Il nichilismo......Page 104
3. La trascendenza......Page 109
Digressione sulle differenze tra anima e spirito......Page 114
La riunione di anima e sintomo......Page 118
Residui del modello medico......Page 122
Il professionismo e la patologizzazione errata......Page 125
La psicopatologia come fantasia archetipica......Page 130
La patologizzazione come linguaggio metaforico......Page 136
Digressione sull’errore naturalistico......Page 139
Il crollo della psicologia normale......Page 143
1. L'alchimia......Page 148
2. L'arte della memoria......Page 150
Digressione sulla patologia come crocifissione......Page 156
3. I miti......Page 162
La patologizzazione: una perorazione......Page 169
Le idee psicologiche......Page 183
La visione delle idee......Page 191
La psicologizzazione archetipica......Page 195
Digressione sull’idea dell’anima vuota......Page 198
Ci sono dei nelle nostre idee......Page 202
Riassunto e implicazioni preliminari......Page 204
Psicologizzazione, psicologia, psicologismo......Page 206
Che cos'è la psicologizzazione: alcune distinzioni......Page 212
Perché, come, che cosa – e chi......Page 217
Il processo della visione in trasparenza......Page 220
La psicologizzazione della psicologia......Page 227
La psicologizzazione: attraverso il letterale giungere al metaforico......Page 233
Digressione sulle finzioni......Page 236
La psiche e i miti......Page 242
Digressione sull’errare......Page 249
Il cavaliere errante......Page 252
Prologo: la psicologia politeistica, ossia una psicologia con dei, non è una religione......Page 257
La psicologia archetipica non è un umanesimo......Page 264
L'anima e il corpo......Page 267
La disumanizzazione dell'emozione e la de-moralizzazione......Page 270
Critica della psicologia dell’umanesimo moderno......Page 277
1. Il sentimento come dio......Page 278
2. L’insufficienza dell’amore......Page 281
3. L’egoismo del perdono......Page 286
La giusta misura del genere umano è l’uomo; quella della psicologia è l’anima......Page 289
L’inumanità dell’umanesimo greco......Page 292
Verso una psicologia del rinascimento......Page 295
Digressione sugli inizi del rinascimento (aprile 1336)......Page 299
Il neoplatonismo rinascimentale e la psicologia archetipica......Page 302
Marsilio Ficino, patrono rinascimentale della psicologia archetipica......Page 306
La patologizzazione rinascimentale......Page 310
Ade, Persefone e una psicologia della morte......Page 313
L’«anima» nel Rinascimento......Page 320
Digressione sulla prospettiva in pittura e sulla polifonia in musica......Page 323
La retorica della psicologia archetipica......Page 325
Tra fallimento e Rinascimento: la psicologia re-visionata......Page 333
Ancora una volta religione e psicologia......Page 344
Il corteo esce......Page 348
Note......Page 349

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James Hillman

Re-visione della psicologia Traduzione di Aldo Giuliani

Adelphi eBook

TITOLO ORIGINALE:

Re-Visioning Psychology Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata La cornice della copertina è ripresa dal fregio di una casa pompeiana. Prima edizione digitale 2015 (v. 2) © 1975 JAMES HILLMAN © 1983 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-7629-2

RE-VISIONE DELLA PSICOLOGIA

… l’uomo è ben misera cosa, giacca stracciata su uno stecco, a meno che l’anima non batta le mani e canti, canti più forte ad ogni strappo nella sua veste mortale, né vi è altra scuola di canto se non studiare i monumenti della sua magnificenza… YEATS, Sailing to Byzantium

A Rafael e Pat e Valerie e Bill e Van

Tre termini di uso ricorrente in questo saggio, to enact, to see through e insight, presentavano difficoltà di traduzione univoca. Per evitare frequenti note a piè di pagina e mantenere una certa uniformità, si è preferito tradurre to enact con «attuare», to see through con «vedere in trasparenza» e insight, a seconda dei casi, con «intuizione» e con «visione interiore». Là dove l’uso italiano imponeva un’espressione diversa, si è messo il termine inglese tra [ ]. Si è inoltre reso con «personizzazione» l’inglese personifying, attività personificatrice della mente, per evitare l’ambiguo «personificazione», che è stato riservato al senso specifico di idea o concetto personificato. Si veda a questo proposito il paragrafo «“Personificazione”, “antropomorfismo”, “animismo”».

PER COMINCIARE…

Questo libro parla del fare anima. Esso è un tentativo di elaborare una psicologia dell’anima, un saggio di re-visione della psicologia dal punto di vista dell’anima. È perciò un libro all’antica e radicalmente nuovo, perché riprende bensì le nozioni classiche dell’anima, ma avanza idee che la psicologia attuale non ha neppure cominciato a prendere in considerazione. Poiché non è possibile comprendere l’anima per mezzo della sola psicologia, la nostra visione abbandona addirittura il campo della psicologia com’è comunemente inteso, e spazia con libertà attraverso la storia, la filosofia e la religione. Pur mirando questo libro a un nuovo modo di pensare e di sentire psicologici, le sue radici affondano sempre nella zona centrale della nostra cultura psicologica; suo nutrimento sono le intuizioni accumulatesi nella tradizione occidentale a cominciare dai greci, attraverso il Rinascimento e i romantici, fino a Freud e Jung. L’espressione fare anima viene dai poeti romantici. L’idea, già contenuta nel Vala di William Blake, è chiarita da John Keats in una lettera al fratello: «Chiamate, vi prego, il mondo “la valle del fare anima”. Allora scoprirete a che serve il mondo…». Osservata da questa prospettiva, l’avventura umana è un vagabondare per la valle del mondo col fine di fare anima. La nostra vita è psicologica, e lo scopo della vita è quello di far di essa psiche, di trovare nessi tra vita e anima. Tuttavia, la nozione di fare anima esige più precisione quando a farne uso non è un poeta romantico ma uno psicologo terapeuta, giacché non basta evocare l’anima e cantarne le lodi. Il lavoro della psicologia è quello di offrire una via e di trovare un posto per l’anima nel campo che le è proprio. Per fare questo ci occorrono dei fondamenti psicologici. Nei quattro capitoli che seguono ho tentato di 1

elaborare quattro idee fondamentali indispensabili per il processo del fare anima. Mentre lavoravo alla prima stesura di questi capitoli – che vennero alla luce come le Dwight Harrington Terry Lectures del 1972 alla Yale University – avevo sul muro di fronte alla mia scrivania questa frase del filosofo e saggista psicologico spagnolo Ortega y Gasset: «A che pro scrivere, se questa fin troppo facile azione di spingere una penna su un foglio non è resa rischiosa come una corrida e se non affrontiamo argomenti che siano insieme pericolosi, agili e bicorni?». Il primo di tali argomenti bicorni è l’anima stessa: come definirla, come descriverla, come, anzi, scriverne alcunché? I libri di psicologia di solito evitano di raccogliere questa sfida, risparmiandosi così un bel po’ di rischi. Ma dal momento che l’«anima» è il tema dominante di tutta la mia opera, vorrei iniziare cercando di circoscrivere alcuni aspetti della questione. Per «anima» io intendo, prima di tutto, più che una sostanza, una prospettiva, più che una cosa in sé, una visuale sulle cose. Questa prospettiva è riflessiva; essa media gli eventi e determina le differenze tra noi stessi e tutto ciò che accade. Tra noi e gli eventi, tra l’agente e l’azione, c’è un momento riflessivo – e fare anima significa differenziare questa zona intermedia. È come se la coscienza poggiasse su un sostrato dotato di esistenza autonoma e di immaginazione – un luogo interno o una persona più profonda o una presenza costante – che continua a esserci anche quando tutta la nostra soggettività, il nostro io, la nostra coscienza si eclissano. L’anima si dimostra un fattore indipendente dagli eventi nei quali siamo immersi. Non posso identificarla con nessun’altra cosa, ma non posso neppure afferrarla da sola, isolata dalle altre cose, forse perché è simile a un riflesso in uno specchio fluido, o alla luna che trasmette soltanto luce non sua. Ma è proprio l’intervento di questa peculiare e paradossale variabile che dà all’individuo il senso di avere o di essere un’anima. Malgrado tutta la sua intangibilità e indeterminatezza, 2

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l’anima possiede una elevatissima importanza nelle gerarchie dei valori umani, spesso anzi viene identificata con il principio vitale o con lo stesso principio divino. In un mio precedente tentativo di definizione, ho detto che il termine potrebbe indicare quella componente sconosciuta che rende possibile il significato, che trasforma gli eventi in esperienze, che viene comunicata nell’amore e che ha un’ansia religiosa. Avevo già proposto queste quattro caratteristiche alcuni anni fa e allora avevo preso ad usare questo termine liberamente, per lo più in modo interscambiabile con psiche (dal greco) e anima (dal latino). Ora vorrei aggiungere tre indispensabili modifiche. In primo luogo, «anima» si riferisce all’approfondirsi degli eventi in esperienze; in secondo luogo, la densità di significato che l’anima rende possibile, nell’amore o nell’ansia religiosa, deriva dal suo speciale rapporto con la morte. In terzo luogo, per «anima» io intendo la possibilità immaginativa insita nella nostra natura, il fare esperienza attraverso la speculazione riflessiva, il sogno, l’immagine e la fantasia - in breve, quella modalità che riconosce ogni realtà come primariamente simbolica o metaforica. Altre e più specifiche implicazioni dell’anima risulteranno più chiare nei capitoli seguenti, i quali possono forse esser letti come un prolungato incontro con la nozione di anima e come un tentativo di scoprire e render viva l’anima attraverso il mio scrivere e il vostro leggere. Questo primo argomento bicorne ne invita un secondo e altrettanto ostico. Che cos’è la fantasia? Su questo punto io seguo molto da vicino C.G. Jung. Egli considerava le immagini fantastiche che attraversano i nostri sogni a occhi aperti e quelli notturni, e che sono inconsciamente presenti in tutta la nostra coscienza, come i dati primari della psiche. Ogni cosa che sappiamo e sentiamo, ogni nostro enunciato ha una base fantastica, deriva cioè da immagini psichiche. Queste non sono meri relitti mnestici alla deriva, la riproduzione di percezioni, gli avanzi riordinati di quanto è stato immesso nella nostra vita. 5

Al contrario, sulla scia di Jung, io uso l’espressione immagine fantastica in senso poetico, e considero le immagini come i dati basilari della vita psichica, aventi origine autonoma, ricchi di inventiva, spontanei, compiuti in se stessi e organizzati in configurazioni archetipiche. Le immagini fantastiche sono, a un tempo, le materie prime e i prodotti finiti della psiche, e costituiscono il modo privilegiato d’accesso alla conoscenza dell’anima. Non c’è nulla che sia più primario. Ogni nozione della nostra mente, ogni percezione del mondo e sensazione interiore, deve passare attraverso un’organizzazione psichica per poter anche solo «avvenire». Ciascun sentimento od osservazione si manifesta come evento psichico innanzi tutto attraverso la formazione di un’immagine fantastica. Mio scopo in questo libro è l’elaborazione di una psicologia dell’anima che abbia come suo fondamento una psicologia dell’immagine. Ciò che propongo è sia una base poetica della mente sia una psicologia che abbia il suo punto di partenza non nella fisiologia del cervello, non nella struttura del linguaggio, non nell’organizzazione della società o nell’analisi del comportamento, bensì nei processi dell’immaginazione. In questo iniziale richiamo a Jung, riconosco in parte il debito fondamentale che la psicologia archetipica ha verso di lui. Egli è l’antenato più prossimo in una lunga linea che, attraverso Freud, Dilthey, Coleridge, Schelling, Vico, Ficino, Plotino e Platone risale fino a Eraclito – e che ha molte altre ramificazioni ancora tutte da esplorare. Eraclito è vicino alle radici di questo ancestrale albero del pensiero, poiché egli fu il primo a fare della psiche il suo archetipico principio primo, a immaginare l’anima come flusso e a parlare delle sue insondabili profondità. «Psicologia del profondo», il nome del moderno campo di studio che ha per oggetto i livelli inconsci della psiche – cioè i più profondi significati dell’anima – non è a sua volta un termine moderno. «Profondo» risuona di significato, vi si avverte l’eco di uno dei primi filosofi dell’antichità. Tutta la 6

psicologia del profondo è già riassunta in questo frammento eracliteo: «Per quanto tu cammini, e anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima (psyché): tanto profonda (bathun) è la sua vera essenza (logos)». Dacché Eraclito riunì in un’unica formulazione anima e profondo, la dimensione dell’anima è la profondità (non l’ampiezza o l’altezza) e la dimensione in cui procede il nostro viaggio d’anima è verso il basso. L’opera di Jung, come del resto la sua vita, appartiene a questa grande tradizione di psicologia immaginativa. Così come Jung offre una via d’accesso a questo filone psicologico, il presente libro offre una via d’accesso a Jung – ma anche una via per uscire da Jung, soprattutto dalla sua teologia. Perché aderire in modo esclusivo a quest’unico pensatore significherebbe rimanere junghiani, il che, come ebbe a dire lo stesso Jung, è possibile soltanto per Jung. Essenziale per il fare anima è il fare psicologia, cioè dar forma a concetti e a immagini che esprimono i bisogni dell’anima come essi emergono in ciascuno di noi. Poiché la mia anima, la mia costituzione psicologica, è diversa da quella di Freud e da quella di Jung, anche la mia psicologia sarà necessariamente diversa dalle loro. Ogni psicologia è una confessione, e il valore che una psicologia ha per un altro non sta là dove egli può identificarvisi perché soddisfatto in certi suoi bisogni psichici, bensì là dove essa lo stimola a elaborare in risposta una psicologia propria. Freud e Jung sono due maestri della psicologia non nel senso che si debba seguirli e diventare freudiani o junghiani, ma nel senso che, seguendoli, possiamo divenire psicologici noi stessi. La psicologia viene qui concepita come un’attività necessaria della psiche, che costruisce contenitori e li infrange allo scopo di approfondire e intensificare l’esperienza. Questo dare importanza alla profondità e all’intensità rivela un’altra fondamentale angolatura di questo libro. Io vedo tutta la psicologia come psicologia del profondo. Di solito, la psicologia del profondo, o terapeutica, occupa 7

soltanto una zona marginale del campo accademico. L’area centrale è rivendicata da altri – psicologi sociali, behavioristi, psicologi dell’età evolutiva. Ma incominciare con l’anima significa che la psicologia va immediatamente nelle profondità e con conseguenze terapeutiche. La domanda che ci guida in questo viaggio è: che cosa implica per l’anima questa osservazione, questa ricerca? Dove c’è un nesso con l’anima, c’è psicologia; dove non c’è, meglio dare all’attività in corso il nome di statistica, antropologia fisica, giornalismo culturale o zootecnia. Terapia è una parola gravosa, che evoca le sofferenze della malattia e i patimenti della cura. Questo libro porta la terapia dentro le peculiarità sintomatiche di ciascun individuo, la consapevolezza dei propri complessi, ma la fa anche emergere dall’altra parte. La terapia, o l’analisi, non è solo qualcosa che gli analisti fanno ai pazienti, essa è un processo che si svolge in modo intermittente nella nostra individuale esplorazione dell’anima, negli sforzi per capire le nostre complessità, negli attacchi critici, nelle prescrizioni e negli incoraggiamenti che rivolgiamo a noi stessi. Nella misura in cui siamo impegnati a fare anima, siamo tutti, ininterrottamente, in terapia. Ciò che voglio dire è che, se siamo tutti pazienti psicologici, siamo anche tutti psicoterapeuti. L’analisi viene fatta non solo dentro le cliniche, ma anche nell’immaginazione dell’anima. Ed è questo senso interiore della terapia che vi chiedo di tenere presente mentre procediamo. Un’ultima parola che dobbiamo introdurre è archetipo. La curiosa difficoltà che si ha nello spiegare che cosa siano di preciso gli archetipi è indice di una loro specifica qualità. Essi tendono a essere, cioè, più metafore che cose. Ci accorgiamo di non saper parlare degli archetipi in termini letterali, e siamo come portati a descriverli con immagini. Ci è, a quanto pare, impossibile toccarli o indicarli in modo diretto, ne parliamo invece per mezzo di similitudini. Gli archetipi ci obbligano a un discorso di stile immaginativo. Jung anzi – che reintrodusse l’antica idea di archetipo nella

psicologia moderna – ne parla proprio come di metafore, insistendo sulla loro indefinibilità. Ne segue che la scelta d’una prospettiva archetipica in psicologia porta a una visione della fondamentale natura e struttura dell’anima secondo modalità immaginative, e a privilegiare l’immaginazione quale mezzo per accostarsi agli interrogativi fondamentali della psicologia. Immaginiamo quindi gli archetipi come i modelli più profondi del funzionamento psichico, come le radici dell’anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo. Essi sono le immagini assiomatiche a cui ritornano continuamente la vita psichica e le teorie che formuliamo su di essa. Assomigliano ad altri princìpi primi assiomatici, i cosiddetti modelli o paradigmi, che troviamo in altri campi. Perché «materia», «Dio», «energia», «vita», «salute», «società», «arte», sono a loro volta metafore fondamentali, forse archetipi anch’essi, che danno coesione a interi mondi e tuttavia non possono mai essere mostrati, motivati, o anche solo soddisfacentemente delimitati. Tutti i discorsi sugli archetipi sono traduzioni da una metafora ad un’altra. Anche le sobrie definizioni operative espresse nel linguaggio della scienza o della logica non sono meno metaforiche di una immagine che presenti gli archetipi come idee radicali, organi psichici, figure del mito, stili tipici d’esistenza o fantasie dominanti che governano la coscienza. Vi sono molte altre metafore per descriverli: potenziali immateriali della struttura, come i cristalli invisibili di una soluzione o la forma latente nelle piante, rivelantisi all’improvviso in determinate condizioni; modelli di comportamento istintuale che, come quelli degli animali, dirigono le azioni lungo percorsi immutabili; i generi e i topoi della letteratura; le tipicità ricorrenti della storia; le sindromi fondamentali della psichiatria; i modelli di pensiero paradigmatici della scienza; le figure, i rituali e le relazioni che l’antropologia trova presenti in tutto il mondo. Ma una cosa è assolutamente essenziale per la nozione di 8

archetipo: il loro effetto possessivo ed emotivo, quel loro abbagliare la coscienza fino a renderla cieca verso la propria posizione. L’archetipo, in quanto creatore di un universo volto a tenere sotto il dominio del suo cosmo tutto ciò che facciamo, vediamo e diciamo, è soprattutto paragonabile a un Dio. E gli Dei, come dicono a volte le religioni, più che ai sensi e all’intelletto, sono accessibili alla visione immaginativa e all’emozione dell’anima. La prospettiva archetipica offre il vantaggio di organizzare in fasci o costellazioni una moltitudine di eventi che provengono da aree diverse della vita. L’archetipo dell’eroe, ad esempio, appare innanzitutto nel comportamento, come pulsione ad agire, a esplorare il mondo esterno, a reagire a ogni sfida, ad afferrare, tener stretto, ampliare. Appare poi nelle immagini di Ercole, Achille, Sansone (o i loro equivalenti cinematografici) impegnati nelle loro specifiche imprese; in terzo luogo, si presenta in uno stile di coscienza caratterizzato da sentimenti di indipendenza, di forza, di ambizione, dalle idee di azione decisiva, resistenza alle difficoltà, progettazione, virtù, trionfo (sull’animalità), e infine nelle psicopatologie della battaglia, della mascolinità dirompente e della determinazione ossessiva. Ovviamente, questo esempio zoppica, perché l’archetipo dell’eroe appare non tanto in un elenco di contenuti quanto piuttosto nel persistere dell’atteggiamento eroico verso tutti gli eventi, un atteggiamento ormai così abituale che abbiamo finito per chiamarlo «io», dimenticando che si tratta di uno solo dei tanti stili archetipici. Avremo molte altre cose da dire sull’io eroico e contro di esso nelle pagine che seguono. Ma il nostro scopo in tutto questo libro è quello di aggirare l’io eroico e la sua psicologia egoica per lasciarceli definitivamente alle spalle. Sicché, questo è un libro di psicologia nel quale non si parla di sforzi conativi, di motivazioni o apprendimento, di libera volontà o scelta. L’esempio dell’eroe, tuttavia, serve a mettere in evidenza l’aspetto collettivo che è proprio di ogni archetipo.

Innanzitutto, per mezzo di esso possiamo raccogliere eventi personali disparati e scoprirvi un senso e una profondità che vanno oltre le nostre abitudini e bizzarrie individuali. In secondo luogo, la prospettiva archetipica dà modo di collegare quanto avviene in ogni singola anima a quanto avviene in tutti gli individui in ogni luogo e tempo. Essa permette una comprensione psicologica a un livello collettivo. In altre parole, archetipico significa fondamentalmente umano. Il lettore avrà notato che abbiamo sempre parlato di archetipi al plurale. Partiamo infatti dalla premessa che ogni evento psicologico può essere osservato da molti punti di vista, tutti egualmente validi, e che questi punti di vista hanno tutti una base archetipica. Per prima cosa, la nostra è una psicologia politeistica, non tanto per confessione religiosa quanto piuttosto per necessità psicologica. La multilateralità della natura umana, la varietà dei punti di vista compresenti persino entro un singolo individuo, richiede il più ampio spettro possibile di strutture fondamentali. Se una psicologia vuole rappresentare fedelmente la reale diversità dell’anima, non può cominciare con una petizione di principio e insistere, con pregiudizio monoteistico, sull’unità della personalità. L’idea di unità, dopo tutto, è solo una tra le tante prospettive archetipiche. Questo libro si distacca dalla tendenza monoteistica che ha governato il pensiero psicologico al quale siamo abituati, e va alla ricerca di nuove strutture e di miti più vasti. Le nostre confusioni interne sono una latente ricchezza. Per valutarle come meritano è necessario uno sfondo differenziato. Sovente condanniamo certe immagini ed esperienze come erronee, deboli, malate o folli semplicemente perché non ne abbiamo scoperto il senso archetipico. Il pregiudizio monoteistico che pesa sulla nostra mente ci fa dimenticare di vedere le cose anche attraverso altri colori dello spettro pluralistico. Il politeismo, che molti definiscono un’eresia, implica un relativismo radicale; è un altro argomento bicorne che ci incalzerà per tutto il

cammino. E ora alcune necessarie spiegazioni sulla struttura del libro. Le quattro parti in cui è suddiviso rappresentano le quattro conferenze originali, di cui riproducono i titoli, i temi e il movimento principale. Ciascuna si muove entro un’area tradizionale: mitologia, psichiatria, filosofia e le cosiddette discipline umanistiche. (Religione e psicologia sono sempre presenti, come deve essere in un libro sull’anima). Questa suddivisione, tuttavia, non è osservata rigorosamente, giacché l’approccio psicologico a questi campi non riconosce come suoi i vecchi confini. Vi sono, ad esempio, frequenti rimandi alla storia – della psichiatria, delle idee e di specifici periodi della nostra cultura. La storia percorre tutto il libro, così come percorre tutta la nostra vita. Pur rispettando il lavoro degli storici, leggiamo i loro resoconti con occhi diversi. La storia ha la funzione psicologica di offrirci una sorta di mito genealogico, di raccontarci gli inizi e lo svolgersi degli eventi. Osservate da un punto di vista psicologico, le figure della storia sono i progenitori, gli antenati culturali, delle idee della nostra mente. Il nostro rivolgerci alla storia, a questo deposito della memoria culturale, è in parte un esercizio terapeutico. Cerchiamo i miti che si celano nei fatti, i modelli archetipici capaci di ampliare e approfondire i nostri nessi interiori, offrendo alle nostre esperienze dolorosamente nude il calore della cultura. A differenza degli storici, nel servirci dei testi e nel redigere le note non ci limitiamo alle «fonti dirette»: il metodo psicologico, così come viene presentato nel terzo capitolo, ci obbliga a considerare come fonte diretta qualsiasi materiale. Un secondo esempio del nostro superamento dei confini tradizionali è quello della psichiatria. La psicopatologia non appartiene infatti a un campo di specialisti. Essa è qualcosa di cui soffriamo nella nostra personale esperienza e una prospettiva che adottiamo verso certi tipi di esperienze, talché può, a sua volta, aprirsi a una nuova intuizione psicologica. Questo è il tema principale del secondo capitolo.

Il movimento del libro è episodico e circolare; non ha un principio o una conclusione rigidamente fissati. Non procede in linea retta dall’inizio alla fine, poiché non è stato scritto come un ragionamento che muove verso una conclusione. La psicologia politeistica ha più d’una cosa da dire e più d’un modo per dirla, e le sue molte e diverse angolazioni possono essere meglio colte se non sono costrette in una struttura rigida. L’obiettivo di questi capitoli è di riaprire le questioni dell’anima e di aprire l’anima a nuove questioni. Io voglio fare luce su problemi oscuri, ma non la luce che mette fine alla ricerca. Nel porre le fondamenta di una psicologia archetipica, questi capitoli mostrano anche come lavorare questo nuovo campo. E quando insisto sul fatto che il libro non è l’elaborazione d’un singolo tema procedente in modo organico e lineare verso un punto d’arrivo, io sono in armonia con l’esperienza psicologica di base, cioè, che l’anima è impegnata in un continuo discorso su se stessa fatto di motivi perennemente ricorrenti con variazioni sempre nuove, come nella musica; che quest’anima è incommensurabilmente profonda e può essere illuminata soltanto da intuizioni, da lampi di luce in una vasta caverna di incomprensione; e che nel regno dell’anima l’io è ben misera cosa. Procederemo così a una vasta esplorazione, e con intento polemico. Polemos (la contesa), è sempre Eraclito a parlare, è il padre di tutto. Mi auguro naturalmente che queste pagine evochino il grande desiderio dell’anima per una psicologia del profondo fatta di comprensione, ma sono anche convinto che per ottenere una luce siffatta si debba battere con forza l’acciarino sulla pietra e provocare scintille irritanti. Perché sia necessario avventurarsi tanto lontano e con tanti compagni di viaggio è cosa che spero si chiarirà nel corso della lettura. La psicologia non ha confini quando è fedele all’anima senza confini di cui parla Eraclito. Tuttavia, anche se compiere una revisione della psicologia significa

percorrere grandi spazi, i miei viaggi non mi hanno portato in Oriente o tra i primitivi o tra le bestie selvagge, né sono stati una fuga nel futuro o una privata esplorazione interiore. Questo libro si muove nei limiti geografici, storici e religiosi della nostra tradizione occidentale, che oggi produce interrogativi d’anima sorprendenti. Proprio a questi interrogativi d’anima dell’Occidente contemporaneo io tento ora di parlare con la passione e l’immaginazione che i daimones vorranno mettere, benevolenti, in mio potere. Serio ludere. Ho più che un semplice debito verso Cynthia Owen Philip. Essa ha compiuto la re-visione del libro, lo ha pensato da cima a fondo con me per grandi linee e nei particolari, e ha reso possibile questa stesura finale delle mie disordinate conferenze. James Fitzsimmons mi ha generosamente messo a disposizione nel 1973 le pagine del suo «Art International» (Lugano) dove, in quell’anno, sono stati pubblicati in una prima stesura i capitoli secondo e terzo. Edward Casey a Yale e David Miller a Syracuse mi hanno incoraggiato nel momento del bisogno; Adam Diment mi è stato provvido di utili suggerimenti; Annabel Learned ha passato al vaglio un ultimo dattiloscritto ancora infestato dai miei tenaci errori. Lyn Cowan e Cornelia Schroeder hanno preparato l’indice, condensando quante più voci possibile nello spazio a disposizione. J.H. Casa Gabriella, Moscia, Svizzera 29 maggio 1974

I PERSONIZZAZIONE O IMMAGINAZIONE DELLE COSE

«molte sono le forme dei demoni» EURIPIDE, Alcesti UN’ANTICIPAZIONE DI QUESTO CAPITOLO

In questo libro userò frequentemente «psiche» o «anima» come soggetto della frase, e scriverò ad esempio: «la psiche afferma, brama, ha bisogno», «l’anima vede», «la psiche riflette su se stessa». Questo modo di parlare ha implicazioni che vanno oltre l’aspetto puramente retorico. Dare soggettività e intenzionalità a un sostantivo significa infatti qualcosa di più che prender parte a uno speciale tipo di gioco linguistico; significa entrare veramente in un’altra dimensione psicologica. Il sostantivo assume coscienza, diviene personificato. L’attività personificatrice, che è sempre stata fondamentale per l’immaginazione religiosa e poetica, è oggi fondamentale per l’esperienza – e per la riflessione sull’esperienza – della psicologia archetipica. Ma non possiamo neppure cominciare a comprendere perché questa attività, che io chiamo personizzazione, sia cruciale per l’esperienza religiosa e psicologica, né servirci liberamente del termine, se prima non dissipiamo parte dell’ombra gettata su di essa dalla nostra moderna visione del mondo. Tale visione limita l’idea della soggettività alle persone umane, uniche cui è permesso di essere soggetti, di essere agenti e creatori, di avere coscienza e anima. Essa poggia sull’idea cristiana della persona umana come vero centro focale del divino e sola portatrice di anima. Questo

concentrarsi della visione cristiana sulle concrete persone viventi ha inoltre portato a una troppo angusta identificazione della psiche con la personalità dell’io. Un altro fondamento dell’idea moderna di persona è la psicologia di Descartes, che immagina un universo suddiviso in soggetti viventi e oggetti morti, senza uno spazio per alcunché d’intermedio, di ambiguo e di metaforico. Questa prospettiva così ristretta ci ha portato a credere che tutte le entità diverse dagli esseri umani che assumano qualità soggettive interiori non siano nient’ altro che oggetti «antropomorfizzati» o «personificati», e non vere e proprie persone nel senso riconosciuto di questa parola. Se troviamo persone che non sono entro corpi umani viventi, ne concludiamo che tali persone sono state trasferite «là fuori» da «dentro di noi». Siamo convinti di aver messo in loro inconsciamente le nostre esperienze; sono persone fittizie o immaginarie. Le abbiamo fabbricate noi allo stesso modo che le persone dei nostri sogni sono, nell’opinione comune, esperienze del nostro io. Non crediamo che le persone immaginarie possano veramente essere così come si presentano, cioè dei validi soggetti psicologici con una propria volontà e con sentimenti simili, ancorché non riducibili, ai nostri. Diciamo che un siffatto modo di pensare è legittimo soltanto per i popoli animistici primitivi, per i bambini o per i folli. Inoltre, secondo questo punto di vista, ciascun corpo individuale non può contenere più d’una persona psichica: come abbiamo un corpo solo, così siamo una sola anima. Trovare altre persone entro di sé, essere divisi in numerose anime, un campo di personalità multiple – idea peraltro sovente avanzata anche nella nostra cultura occidentale – è una «aberrazione» chiamata pensare attraverso personificazioni. Le persone che, nel mondo o in me stesso, si manifestano come differenziate dalla mia personalità egoica, sono dette personificazioni: la loro vitalità è considerata un effetto della mia, la loro animazione un derivato del mio respiro.

La psicoterapia si affanna per riportare questi profughi dal mondo là fuori, o dall’inconscio entro di noi, al luogo che gli psicoterapeuti ritengono la loro vera dimora, cioè nell’essere umano conscio incentrato sull’io. Si è andati in tal modo sopprimendo la diversificazione della personalità e, con essa, anche la possibilità di differenziarla e di renderla viva. L’«integrazione della personalità» è diventata il compito morale della psicoterapia. Così come la tradizione cristiana e la filosofia cartesiana, anche la psicoterapia è scesa in guerra contro le personificazioni. Anzi, gli psicologi in generale denigrano il personificare etichettandolo di volta in volta modo difensivo di percezione, proiezione, «pathetic fallacy», regressione a modi di adattamento deliranti, allucinatori o illusori. Nel migliore dei casi, essi lo considerano un tropo fantasioso, una sorta di gioco, oppure uno strumento terapeutico per mezzo del quale l’io può imparare a conoscere le proprie paure e i propri desideri. La psicologia, che pure deriva il suo nome dall’anima (psyché), ha impedito a quella stessa anima di apparire se non dove sanzionato da questa moderna visione del mondo. Come la scienza e la metafisica moderne hanno bandito la soggettività delle anime dal mondo esterno degli eventi materiali, così la psicologia ha negato l’autonomia e la diversità delle anime al mondo interno degli eventi psicologici. Le intenzioni, i comportamenti, le voci, i sentimenti che io non controllo con la mia volontà o ai quali non posso collegarmi mediante la ragione sono dichiarati contrari, negativi, psicopatologici. Tutta la mia soggettività e tutta la mia interiorità debbono, alla lettera, essere mie, cioè proprietà della mia personalità egoica conscia. Tutt’al più, noi abbiamo delle anime; ma nessuno dice che noi siamo anime. La psicologia addirittura non usa la parola anima: una persona è detta un sé oppure un io. Tanto il mondo là fuori quanto quello dentro di noi hanno subìto il medesimo processo di depersonificazione. Siamo stati tutti privati di anima. Ovviamente, noi ci allontaneremo da questo troppo

battuto sentiero. Esploreremo la giungla animistica in accordo con le sue idee; presteremo ascolto alla molteplicità delle sue voci rispettandone l’autonomia e facendo attenzione a ciò che esse dicono, e poiché saremo privi degli strumenti interpretativi della moderna psicologia, forse perderemo ogni contatto con il grosso della comitiva. Ma in questa spedizione penetreremo nel regno interiore dell’animismo. Perché ciò che noi cerchiamo è anima, l’anima. Partiamo muniti del presupposto che la stretta connessione tra il mondo personificato dell’animismo e anima – l’anima – è più che verbale, e che personificare è un modo di fare anima. Presupponiamo cioè che il fare anima dipende dalla capacità di personificare, il che a sua volta dipende dall’anima. Quanto più ci addentreremo nel suo territorio, tanto più completa si farà la spiegazione di anima in quanto termine, funzione e figura. Rifiutando di avvalerci dei soliti argomenti contro il personificare, contiamo di trovare una strada nuova o di renderne nuovamente agibile una antica che ci porti: (a) a ridare vita ai nostri rapporti col mondo circostante, (b) a saper affrontare la nostra frammentazione individuale, le nostre molte stanze e molte voci, e (c) a stimolare l’immaginazione fino a che essa non ci mostri tutto lo splendore delle sue forme. Il nostro desiderio è di salvare i fenomeni della psiche immaginale. Perciò, dobbiamo liberare la visione della psiche dagli angusti pregiudizi della psicologia moderna, e mettere così in grado la psiche di percepire se stessa – i suoi rapporti, le sue realtà, le sue patologie – in un modo del tutto indipendente dalla prospettiva moderna della psicologia. La moderna visione dell’uomo e del mondo ha finito per incapacitare la nostra immaginazione. Essa ha dettato il nostro modo di vedere la personalità (psicologia), la follia (psicopatologia), la materia e gli oggetti (scienza), il cosmo (metafisica) e la natura del divino (teologia). Non solo, ha anche dettato i metodi di tutte queste discipline, le quali così ora presentano un fronte unico contro l’anima. C’è stato chi,

disperato, si è rivolto alla stregoneria, alla magia e e all’occultismo, agli stupefacenti e alla pazzia, disposto a tutto pur di riaccendere l’immaginazione e trovare un mondo infuso d’anima. Ma queste reazioni non sono sufficienti. Ciò di cui abbiamo bisogno è una revisione radicale, un fondamentale spostamento di prospettiva che ci faccia uscire da questo pericoloso stato di assenza d’anima che chiamiamo coscienza moderna. E ora possiamo cominciare. Per prima cosa dobbiamo fare un passo indietro e addentrarci nella storia dell’atteggiamento ostile alla personificazione, così da poter valutare appieno con quanta forza esso domini la nostra mente. BREVE STORIA DELLA TRADIZIONE DEPERSONIFICATRICE

L’opposizione cristiana al personificare si fonde con quella cartesiana in Marin Mersenne (8 settembre 1588 – 1 settembre 1648). Corrispondente, amico o nemico di Descartes, Galileo, Pascal, Fludd, Torricelli, Richelieu, Hobbes, Grozio, Huygens e di altri grandi contemporanei, egli fu una delle figure centrali dell’epoca e si oppose con grande vigore a una visione animistica e personificata della natura. Battezzato nello stesso giorno della sua nascita, educato dai gesuiti a La Flèche (dove era di otto anni avanti a Cartesio), membro dell’ordine dei minimi derivato dai francescani, vegetariano rigoroso al punto di non toccare carne, latte o uova, Mersenne aderì a quella guerra santa che continuava, mai sopita, fin dal tempo di Costantino: la battaglia per affermare la psicologia cristiana contro quella dell’antichità politeistica. Egli personifica uno stile di coscienza presente in ciascuno di noi allorquando ci opponiamo alle persone immaginarie in nome della ragione, della scienza o della fede. Il più vasto sfondo su cui va collocata l’opera di Mersenne è il pensiero rinascimentale del quindicesimo secolo, che si era diffuso servendosi in parte di immagini, restituite a 1

nuova vita, di potenze personificate. Astrologia, alchimia e medicina, le allegorie della pittura e della poesia, la letteratura latina e l’ermetismo greco, orfismo e neoplatonismo – ognuno di questi campi mostrava il mondo della natura e della psiche in termini personificati. Mentre i secoli precedenti avevano di solito confinato la loro folla di immagini personificate alle Scritture, ai Santi e alle Virtù e ai Vizi, il Rinascimento ritornò, per le sue immagini, alla tradizione «classica» e quindi anche pagana e politeistica. L’animismo rinascimentale portava al pluralismo, e questo rappresentava una minaccia per l’universale armonia cristiana, perché quando l’anima interna e il mondo esterno si riflettono l’un l’altra come anime e sostanze dotate di vita, e quando le immagini di queste anime e sostanze sono pagane, allora le familiari figure del cristianesimo si riducono a uno solo tra i molti sistemi possibili. Tra il 1619 e il 1648, con febbrile attività e personale tormento, Mersenne condusse una propria guerra dei trent’anni contro la minacciosa recrudescenza delle schiere del paganesimo. Avvolto nel suo lungo, nero abito talare, chiuso nella sua cella monacale parigina presso la Place Royale, ma anche impegnato in viaggi per discussioni e riunioni, egli divenne il centro della tela di ragno della cultura europea, sempre occupato ad attaccare il primo Rinascimento e la sua «magia» – soprattutto l’alchimia – nell’intento di promuovere il Rinascimento più tardo e la sua «meccanica». I suoi scritti, salvo che nell’àmbito della musica e della matematica, non apportarono molti contributi nuovi; il suo grande valore fu piuttosto nella perspicacia con cui egli presentì il pericolo intellettuale che l’animismo rappresentava per il cristianesimo e nell’ardore con cui sostenne ogni sorta di opere scientifiche che potessero contrastare con mezzi razionali quel pericolo. È precisamente la modalità letterale della sua mente ciò che fa di Mersenne un personaggio cruciale, sia per la religione sia per la scienza. Egli è inflessibilmente schierato dalla parte della conoscenza concreta dei fatti. Come 2

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Bacone, preferì l’esperienza empirica del suo tempo alle opinioni degli antichi. Convinto che solo i fatti avrebbero potuto aver ragione dello scetticismo nella religione e della magia nella scienza, egli affrontava a livello letterale enunciati che erano metaforici, per esempio domandandosi «scientificamente»: «Quanto è alta la scala di Giacobbe?». Anche la questione mistica dell’Unità e della Trinità di Dio fu da lui trasposta in un problema scientifico da risolversi mediante uno specchio parabolico in grado di ridurre immagini multiple e visibili a un punto unico. La sua dedizione alla scienza lo portò addirittura a lasciare istruzioni affinché il suo cadavere venisse sezionato per accertare le cause della morte. Il mondo del Seicento non aveva posto per una popolazione immaginale. E quella popolazione venne dannata e relegata nel demonismo che, in parallelo con la nuova scienza di Mersenne, raggiunse allora la sua più ricca fioritura. L’anima fu confinata alle persone di Cristo e dei battezzati in suo nome, ogni altra cosa venne ridotta alle ceneri del non essere o condannata a un moto meccanico in un’orbita prefissata. Gli animali furono privati della psiche, e i bambini, anche dopo essere stati battezzati, non avevano la piena realtà di anime. Sia la scienza moderna allora in via di formazione sia il cristianesimo moderno allora in via di riforma richiedevano che le soggettività fossero espurgate ovunque e da qualsiasi cosa eccetto il luogo autorizzato delle persone: l’adulto cristiano e razionale. Ogni esperienza non conforme era eresia e stregoneria. Mersenne è in effetti una personificazione della figura che ritroviamo e nella nostra storia occidentale collettiva e dentro di noi ogni volta che c’è esaltazione della ragione a spese dell’immaginazione. È la voce di Mersenne che udiamo quando chiediamo di conoscere i fatti, quando diciamo che le anime debbono essere ubicate in corpi letterali, quando cerchiamo di ridurre le immagini e le metafore della psiche a dogmi da un lato, o alla misurazione scientifica, dall’altro. Sua è la posizione che non ammette alcun terzo posto tra la 5

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teologia e la scienza, alcuno spazio per la psiche. Se Mersenne rappresenta l’attacco contro la realtà dell’immagine, un’altra forza intellettuale sta da tempo attaccando la realtà della parola. Mi riferisco al nominalismo, che ha collaborato anch’esso a depersonificare la nostra esistenza. Il nominalismo svuota le grandi parole del loro contenuto; i nominalisti considerano le leggi universali e i tipi generali come dei semplici nomi (nomina). Le parole non hanno nessuna sostanza intrinseca. A partire dal quattordicesimo secolo (o dall’undicesimo, se iniziamo con Roscellino) fino a Wittgenstein e ai suoi attuali eredi, assistiamo a una sempre più rapida decadenza delle idee ampie, astratte, polivalenti in favore di piccoli, concreti, particolari e univoci nomi. La parola s’è trasformata da potenza autonoma in uno strumento nelle mani di specialisti chiamati filosofi. Abbiamo sofferto «un’ondata di marea di nominalismo», come dice C.S. Peirce. Descartes, Locke, Berkeley, Hume, Leibniz, Kant e Hegel – «tutta la filosofia dell’èra moderna, di qualsiasi setta, è stata nominalista». Questa grande ondata, che è la nostra principale tradizione occidentale di pensiero, devastò la psiche ripetendo senza sosta che le grandi parole sono solo delle etichette attribuite dalla mente e hanno una realtà puramente soggettiva. Le parole non particolari, prive di referenti fisicamente additabili possono essere manipolate dai loro utenti in modo da significare qualsiasi cosa. Gli invisibili, i princìpi, i termini generali e le potenze universali – come Verità, Terrore, Tempo – sono dei semplici nomi, definiti in rapporto alle operazioni in cui li impieghiamo e tali da avere senso soltanto all’interno di giochi di parole mentali. Essi non hanno alcuna sostanza, diceva il nominalismo: non sono reali. L’anima finì così per diffidare del proprio linguaggio fatto di realtà spirituali e immaginali. Queste realtà, secondo il nominalismo, erano del tutto secondarie, ricavate per astrazione o per inferenza da casi particolari del mondo concreto e percettibile. Una posizione opposta, derivata soprattutto da Platone, rimase fedele alla 8

realtà di queste grandi parole, realtà che vide come qualcosa di insito in esse, e fu chiamata realismo. Ma nel corso del tempo il nominalismo arrivò perfino a dare un nuovo nome al realismo, sicché oggi «realista» è colui che punta il dito sui fatti senza curarsi delle idee che li concernono e guarda con sospetto le parole universali scritte con la maiuscola. Rifiutando di accordare a questi invisibili e a queste potenze universali una realtà equipollente a quella dei particolari concreti – equipollente anche all’esperienza che se ne ha (poiché Verità, Terrore e Tempo possono avere altrettanto impatto sull’anima quanto baccalà, liquore o vento) – il nominalismo privò le grandi parole della loro sanità mentale. Il comune uomo di buonsenso con le mani piene di fatti è un nominalista e la sua visione della realtà è quella che ha oggi prevalso. Di conseguenza, si ritiene che solo i folli considerino i fantasmi della mente come cose reali, e il contenuto della follia è ormai definito, in parte, da quei soggetti che il nominalismo ha respinto. Dopo che il Rinascimento aveva liberato la follia dai suoi ceppi medievali, il Seicento, il secolo di Descartes e di Mersenne, della scienza e della teologia nominalistiche, la imprigionò un’altra volta in nuovi e immensi reclusori. La psichiatria, la cui storia è stata scritta soprattutto da positivisti progressisti, ha celebrato questo sviluppo come un modo illuminato e caritatevole di guardare alla follia. Se tuttavia stabiliamo un parallelismo tra gli sviluppi avvenuti nel regno della ragione (scienza, filosofia e teologia) e lo sviluppo delle strutture di carcerazione dell’irrazionalità, vediamo che la battaglia tra nominalismo e realismo, tra il fatto e la finzione o tra ragione e immaginazione, venne dal Seicento in poi tradotta in azione, nella lotta tra professioni nominalistiche (giurisprudenza, medicina, teologia) e pazienti realistici. Uno di questi pazienti, John Perceval (ora sottratto all’anonimato della follia grazie all’opera di Gregory Bateson ), mentre era incarcerato nel 1831-32 conversava con quei veri e propri spiriti che sono Contrizione, Gioia, Letizia, Giovialità, Allegria, Derisione, 9

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Onestà, Sincerità, Semplicità, o dava questi nomi alle persone che gli erano vicine. Digressione sull’allegorizzazione C’era un altro luogo in cui le parole personificate e scritte con la lettera maiuscola erano ammesse, e cioè la poesia. Ma anche lì il pensare per personificazioni confinava con un pensare malato. Quando all’inizio del Settecento il critico letterario Joseph Addison prese in esame l’immaginazione scoprì che l’attività personificatrice tendeva a manifestarsi con sentimenti veementi, come prodotto del sogno o della trance, con irregolarità e sfrenatezza di immagini, in stati contraddistinti da pronunziata irrazionalità. Le personificazioni erano il risultato d’uno speciale stato della psiche, non più in possesso delle sue solite caratteristiche di razionalità e meccanicità. La psicologia di Addison era basata su quei sobri pensatori che erano Hobbes e Locke. Addison però aveva riconosciuto in gioventù l’importanza immaginativa della personificazione per la creazione d’un mondo ulteriore, fatato. Ma, invecchiando, egli stigmatizzò l’uso delle personificazioni pagane come «imperdonabile in un poeta che abbia passato i sedici anni». Quando la poesia del Settecento personificava, com’essa amava oltremisura fare, confinava le sue persone nel regno razionale dell’allegoria. Lo scopo ultimo d’un siffatto personificare illuminato era l’insegnamento: per mezzo della personificazione «le finzioni della mente» divenivano «oggetti visibili», cosicché il lettore diveniva anche spettatore. Le immagini personificate scritte con la maiuscola venivano usate per dar forza a idee astratte e universali: Giustizia, Armonia, Natura. Ma l’uso allegorico di tali immagini, mentre sembra dar loro nuova forza, in realtà le guasta. Come ogni sistema che spiega un mondo di immagini mitologiche, lo stesso allegorismo offerto a giustificazione di queste persone mitiche finiva di fatto per 11

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depotenziarle. E questo per due ragioni. In primo luogo, l’allegoria tiene a freno l’autonomia e la realtà degli Dei. In quanto «usati» in esempi morali o in omelie didascaliche, essi cessano di essere delle potenze e diventano piuttosto espedienti tecnici, categorie, concettosità. Invece di essere le forme stesse che organizzano la ragione, ne diventano gli strumenti. Ci soffermeremo in modo particolareggiato su tale questione nel terzo capitolo, e là vedremo che sono gli Dei a governare il modo in cui pensiamo, tanto che sono i nostri pensieri a diventare un’allegoria dei loro stili, e non essi delle allegorie del nostro pensiero. Che gli Dei non possano essere prigionieri della ragione, del tentativo allegorico di far di loro emblemi di concetti, è ampiamente dimostrato dalla poesia del Settecento: diventò Romanticismo, Blake, Keats, Shelley, gli Dei di nuovo all’attacco, Prometeo Liberato, non più allegorie. In secondo luogo, noi trattiamo le persone mitiche come allegorie ogni volta che desideriamo dimenticare o negare la loro peculiare natura patologica. Allora ne facciamo qualcosa di poetico. Diventano graziose, curiose, affascinanti – e perdono la loro efficacia. La mitologia, una volta privata del suo lato patologico fatto di mostri animali, crudeli uccisioni, progetti perversi, stupri lascivi, disastrose penitenze, non tocca più le passioni, non parla più dell’anima individuale e all’anima individuale nella sua angoscia. È la tesi che elaboreremo nel secondo capitolo. Per ora ci limitiamo a dire che l’allegoria è una reazione difensiva della mente razionale contro il pieno potere dell’irrazionale propensione dell’anima a personificare. Così, Dei e demoni diventando niente altro che allusioni poetiche. L’uso dell’allegoria come difesa continua ancor oggi nelle interpretazioni dei sogni e delle fantasie. Quando le immagini cessano di sorprenderci, quando possiamo prevedere il loro significato e conoscere le loro intenzioni è perché abbiamo le nostre «simbologie» dai significati ormai stabiliti. I sogni sono stati aggiogati ai sistemi che li 14

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interpretano, appartengono a scuole – ci sono «sogni freudiani», «sogni junghiani», eccetera. Se per i freudiani gli oggetti allungati sono peni, per gli junghiani le cose scure sono ombre. Le immagini vengono trasformate in concetti già definiti, come passivitia, potere, sessualità, angoscia, femminilità, in modo non dissimile dalle convenzioni della poesia allegorica. Come quest’ultima, e valendosi di analoghe tecniche allegoriche, anche la psicologia può diventare una difesa contro il potere psichico delle immagini personificate. Se nel nostro sogno la madre, la persona amata o il vecchio mentore dicono e fanno ciò che ci attendiamo da loro, o se l’analista interpreta queste figure in modo convenzionale, esse sono state private in ambedue i casi della loro autorità in quanto immagini e persone mitiche, sono state ridotte a pure convenzioni allegoriche e a stereotipi moralistici. Sono diventate le concettosità personificate di un’allegoria, puro strumento di persuasione che costringe il sogno o la fantasia a sottomettersi alla dottrina. L’immagine allegorizzata è ora immagine al servizio di un ammaestramento. La psicologia archetipica sostiene invece che il vero iconoclasta è l’immagine stessa, che frantuma la crosta della falsità dei suoi significati allegorici e libera nuove e sorprendenti intuizioni. Perciò, le immagini che nei sogni e nelle fantasie sono più angosciose, quelle dalle quali fuggiamo, tanto è il disgusto delle loro distorsioni e perversioni, sono precisamente quelle che spezzano l’intelaiatura allegorica di ciò che pensiamo di sapere su questa o quella persona, questo o quel tratto di noi stessi. Le immagini «peggiori» sono perciò le migliori, giacché sono quelle che restituiscono a una figura il suo originario potere di persona numinosa attiva nell’anima. L’ANIMA DELLE PAROLE

Una più generale conseguenza del nominalismo è la

«logofobia», una paura delle parole, specialmente delle grandi parole che potrebbero celare delle irrealtà. I nostri dubbi di fronte alla parola archetipo e all’aver visione della realtà delle immagini e delle idee archetipiche sono anch’essi un effetto del nominalismo. Siamo avvinti alle parole con un peculiare doppio legame: esse ci affascinano e insieme ci ripugnano. Questo perché, grazie al nominalismo, le parole si sono a un tempo gonfiate d’importanza e prosciugate di contenuto. Nei moderni giochi linguistici di Wittgenstein le parole sono i fondamenti stessi dell’esistenza conscia, e tuttavia sono anche disgiunte dalle cose e dalla verità. Esistono in un mondo tutto loro. Nella moderna linguistica strutturale le parole non hanno alcun senso intrinseco, dal momento che le si può ricondurre tutte quante a unità fondamentali con caratteristiche pressoché matematiche. La chimera dell’esistenza di un numero di elementi fondamentali non ulteriormente riducibili da cui sia possibile derivare la totalità del linguaggio è una tecnica notomizzante della mente analitica che applica l’atomismo logico al Logos stesso – in breve, un suicidio della parola. Ecco perché c’è un vuoto di credibilità: per noi più nessuna parola merita fiducia come vera portatrice di significato. Ecco perché in psichiatria le parole sono divenute schizogene, causa e fonte esse stesse di malattia mentale. Ecco perché viviamo in un mondo di slogan, di frasi fatte e di comunicati stampa, che ricordano da vicino la «neolingua» di Orwell in 1984. Mentre una dopo l’altra le arti e le discipline accademiche cadono nelle paralizzanti spire dell’ossessione per il linguaggio e la comunicazione, la parola soccombe a una nuova angoscia semantica. Persino la psicoterapia, che iniziò come «cura con le parole» – la riscoperta della tradizione orale di raccontare la propria storia – sta abbandonando il linguaggio in favore del contatto, del grido e del gesto. Non abbiamo il coraggio di essere eloquenti. Oggi la psicoterapia ci dice che per essere appassionati dobbiamo essere fisici o primitivi. Una psicoterapia siffatta incoraggia una nuova

barbarie. La nostra angoscia semantica ci ha fatto dimenticare che anche le parole bruciano e si fanno carne mentre parliamo. Abbiamo bisogno di una nuova angelologia delle parole, per poter avere di nuovo fede in esse. Senza l’inerenza dell’angelo nella parola – e angelo significa in origine «emissario», «portatore d’un messaggio» – come potremmo dar voce a cose che non siano opinioni personali, costrutti della nostra mente soggettiva? E come potrebbe alcunché dotato di valore e d’anima trasmettersi da una psiche all’altra, in una conversazione, ad esempio, in una lettera, o in un libro, se nelle profondità delle nostre parole non vi fossero pregnanze archetipiche? Abbiamo bisogno di ricordare l’aspetto angelico della parola, di riconoscere le parole come portatrici autonome di anima tra una persona e l’altra. Abbiamo bisogno di ricordare che le parole non sono solo qualcosa che noi inventiamo o impariamo a scuola, o che dominiamo pienamente in ogni momento. Le parole, come gli angeli, sono potenze che esercitano su di noi un potere invisibile. Sono presenze personali dotate di intere mitologie: generi, genealogie (etimologie concernenti le origini e le creazioni), storie e voghe; e hanno inoltre specifici effetti protettivi, blasfemi, creativi e annientanti. Perché le parole sono persone. Questo aspetto delle parole trascende le loro definizioni e i loro contesti nominalistici ed evoca nelle nostre anime una risonanza universale. Senza l’inerenza dell’anima nelle parole, il linguagio non potrebbe stimolarci, le parole non offrirebbero forme per sostenere la nostra vita e dar senso alla nostra morte. «Morte» stessa, «anima», «Dei», «persone» diverrebbero, come disse Antifonte il Sofista migliaia di anni fa, mere convenzioni e costrutti umani. Personificare sarebbe semplicemente un modo del linguaggio nominalistico. È questa persona nella parola, il suo potere angelico, che il nominalismo teme. Il nominalismo non è soltanto una posizione filosofica che vorrebbe sventrare le parole, 16

svuotarle e farne otri di cornamusa, flatus vocis; esso è anche una difesa psicologica contro la componente psichica della parola. La grandezza che teme e che vorrebbe ridimensionare riguarda la natura complessa delle parole, che agiscono su di noi come complessi e attivano complessi entro di noi. La filosofia lavora esclusivamente con le parole ed è perciò obbligata a imporre un ordine razionale alle loro complessità. Questo è il compito del linguaggio razionale, tanto nella logica e nella teologia, quanto nella scienza. Anzi, l’uso razionale delle parole era ciò che la parola «sanità» significava originariamente in latino. Perciò il nominalismo rifiuta di riconoscere la persona nella parola o di personificare la parola, il farlo è un segno di insania. Riconosco che il sentiero del personificare sul quale siamo incamminati è in effetti deviante, se non del tutto folle. Ma è da questa prospettiva psicologica che dobbiamo guardare tutti i giudizi contro il personificare. Perché questi giudizi nascono da una tradizione che ha progressivamente depotenziato tanto le immagini quanto le parole per poter difendere una particolare visione dell’uomo, della ragione e della realtà. Questa visione suddivide il mondo in oggetti e in io e accorda all’anima uno spazio non più grande di un pisello: tale è infatti la dimensione della ghiandola pineale, l’isola al centro del cervello dove Descartes esiliò la psiche agli inizi dell’èra moderna. DOVE SIAMO ORA

La spinta del progresso si è lasciata dietro una scia di cadaveri. I totem, gli idoli e i personaggi del mito furono i primi a essere derisi e disprezzati. Poi fu la volta delle immagini, di qualsiasi tipo: Dei, demoni, santi, le forze della natura, le qualità del carattere, i sostantivi della metafisica. A metà del Cinquecento, il Concilio di Trento, che stabilì la dottrina cattolica dell’èra moderna, privò tutte le immagini sacre di sostanza e di virtù. A meta del Seicento, i pii protestanti di Cromwell strapparono via dalle cattedrali

inglesi e fecero a pezzi le statue e i dipinti di Cristo, di Maria e dei Santi perché, per la loro mente puritana, le immagini non erano cristiane. Esse erano particolarmente esecrabili perché nelle immagini si può dare un aspetto visibile alla soggettività; farle a pezzi incoraggiava la distruzione dei portatori visibili dell’attività personificatrice. Questa venne espulsa dalle chiese e rinchiusa nei manicomi. Gli uomini di Cromwell avevano menti più concrete delle pietre che fecero a pezzi. Essi tradussero in atti concreti il nuovo letteralismo che stava perdendo il contatto con l’immaginazione metaforica. Il loro monoteismo astratto e la loro visione unilaterale della dottrina avevano alle spalle il concretismo psicologico. Ma essi avevano perduto l’immaginazione, poiché l’intolleranza delle immagini è anche intolleranza dell’immaginazione ed è la conseguenza d’una immaginazione ormai perduta. Per noi, oggi – soprattutto in un’epoca in cui siamo inondati di immagini (commerciali, cinematografiche, elettroniche, eccetera) e abbiamo incorporato la parola immagine nel linguaggio comune in sostituzione dei termini idea, nozione, stile – è difficile ricordare la lunga paura storica dell’immagine e della fantasia nella nostra tradizione. Lo svilimento dell’immagine nell’ebraismo monoteistico e della phantasia nella filosofia ellenistica riappare nella Riforma protestante e nella Controriforma cattolica, le quali non sono altro che due espressioni particolarmente violente di quella fobia dell’immagine che ritroviamo in tutta la produzione scritta teologica e filosofica dell’Occidente. I sistemi che operavano dentro e attraverso le immagini, come lo gnosticismo, il neoplatonismo, l’alchimia, il rosicrucianesimo e il pensiero di Swedenborg, non ebbero accesso alla principale corrente della nostra tradizione, vennero invece cacciati a forza nell’occulto o addirittura dichiarati eretici. Da una parte, la distruzione dell’immagine personificata condusse infine al disprezzo del Novecento per la pittura figurativa: nessuna presenza di immagini riconoscibili, di 17

persone – tutto, e indiscriminatamente, per l’occhio, niente per l’anima. Dall’altra, essa causò la distruzione della parola personificata: in una piena democrazia della parola le lettere minuscole sostituiscono le maiuscole: tutte sono eguali, nessuna è più nobile, più privilegiata, nessuna ha diritto divino. Oggi abbiamo perduto sia le maiuscole poetiche del Settecento sia quelle retoriche usate nell’Ottocento per infondere potere e sostanza in sciovinismi quali Libertà, Progresso e Impero. I nostri «dèi» si sono tutti rimpiccioliti, salvo uno, e fatta eccezione per poche residue convenzioni nei nomi propri e geografici e nei titoli, e per le maiuscole senza senso delle sigle sociali (il nominalismo è capitalismo, le lettere diventano unità di scambio), la sola esaltazione che continua ad essere maiuscola riguarda l’unica persona ancora in vita in un mondo depersonificato: Io. Soltanto Io e Dio, l’uno di fronte all’altro, e taluni dicono che Dio è morto. a

«PERSONIFICAZIONE», «ANTROPOMORFISMO», «ANIMISMO»

Con tutto il loro fare a pezzi l’immaginazione e svuotare le parole, riformatori e nominalisti scoprirono peraltro un modo per accogliere senza clamore l’attività personificatrice nella loro visione razionale. Essa ricevette descrizioni accettabili – personificazione, antropomorfismo, animismo – anche se la pratica in sé restava inaccettabile per l’uomo civile, lecita soltanto presso i feticisti, i mistici, i poeti; presso le «masse le cui facoltà mentali sono insufficienti a percepire le cose in modo chiaro e distinto» (Spinoza); presso coloro che, prigionieri della lingua, concretizzano i generi maschile e femminile e i soggetti di verbi d’azione; presso i bambini, come forma infantile di ragionamento (Piaget), e specialmente presso i «primitivi». L’antropomorfismo, cioè «l’attribuzione di forma o di carattere umano… il conferimento di un attributo o di personalità umani a cose impersonali o irrazionali», entra nella lingua inglese del 1753 attraverso il francese. 18

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L’animismo, cioè «l’attribuzione di un’anima vivente a oggetti inanimati e fenomeni naturali», fa la sua comparsa un secolo più tardi nel senso attuale reso familiare da Primitive Culture (1871) dell’antropologo Tylor. Il primo giunge all’inglese come emissario dell’Illuminismo francese, così pronto a reagire all’irrazionalità della religione e così ben disposto verso il mondo cartesiano di oggetti morti e impersonali. Il secondo è un prodotto dello scientismo progressista vittoriano. Sono entrambi un retaggio del nominalismo ed entrambi privano della sua originaria validità quella modalità di esperienza a cui professano di riferirsi. Noi perciò non useremo i termini antropomorfismo e animismo, useremo invece il termine personizzazione col quale indicheremo l’attività psicologica basilare – lo spontaneo avere esperienza, avere visione e parlare delle configurazioni, dell’esistenza come presenza psichiche – nella speranza di impedire che questa attività autentica venga condannata come personificazione. Personificazione è uno psicologismo. Dietro di essa c’è un essere umano che crea Dei a immagine dell’uomo, un po’ come uno scrittore crea personaggi traendoli dalla propria personalità. Questi Dei illustrano i suoi bisogni; sono sue proiezioni. La personificazione non riesce a immaginare che queste presenze psichiche (Dei, demoni e altre persone del regno mitico) siano dotate di una realtà sostanziale e autonoma. Non riesce a immaginare che uno scrittore, ad esempio, si trovi obbligato a portare i messaggi dei «suoi» personaggi, che sia la loro volontà quella che viene fatta, che egli sia il loro scriba e che proprio mentre è impegnato a crearli siano loro a creare lui. Le finzioni di uno scrittore sono spesso più significative della sua stessa realtà perché contengono più sostanza psichica, che perdura assai più a lungo del loro «creatore». Ciò che uno scrittore crea, lo crea soltanto su autorità loro. L’idea stessa dell’intrinseca autonomia delle finzioni letterarie vien fatta oggetto di visione con la sua personificazione in una Musa, senza il cui aiuto l’intera impresa dello scrivere diviene precaria. 21

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Tutti e tre i termini – antropomorfismo, animismo, personificazione – contengono un’unica idea basilare: esiste una «modalità di pensiero» che prende un evento interno e lo colloca all’esterno, facendo nello stesso tempo di questo contenuto qualcosa di vivo, di personale, addirittura di divino. Questi tre termini, in quanto dicono che gli esseri umani tendono a trasformare immaginativamente le cose in anime, descrivono di fatto una maniera di fare anima. Ma chiamare questa attività una «modalità di pensiero» ne fa un atto – conscio o inconscio – che noi compiamo, invece che qualcosa di cui abbiamo esperienza immediata. Questi tre termini presuppongono che è il pensiero a fare l’anima, la personizzazione invece riconosce che l’anima esiste prima della riflessione. La personizzazione è un modo di essere nel mondo e di avere esperienza del mondo come campo psicologico, dove insieme con gli eventi vengono date delle persone, talché gli eventi sono esperienze che ci toccano, ci muovono, ci attraggono. Ma, come ha detto van der Leeuw, cercare di confutare la teoria dell’animismo è fiato sprecato. Non di meno, possiamo riconoscerla per quello che è in realtà: un’asserzione psicologica rivelatrice, più che dell’anima dei primitivi, dell’anima primitiva di coloro che scrivono di essi. L’animismo è una descrizione antropologica dell’anima dell’antropologia. «Nella sua struttura e tendenza complessive» dice van der Leeuw «questa teoria si attaglia molto meglio alla seconda metà del diciannovesimo secolo che non al mondo primitivo». La teoria dell’animismo rappresenta una condizione dell’anima (anima) che può trovare anima soltanto se questa è proiettata nel comportamento infantile, nella psicopatologia del feticismo, nella gente comune del modo di pensare collettivo, o nei luoghi oscuri e nei comportamenti bizzarri di genti esotiche in isole lontane o nei manicomi. Attraverso questi concetti – personificazione, antropomorfismo, animismo – la ragione saprebbe davvero ridar vita alle pietre e persino creare anime e Dei. La 23

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tradizione razionale, perduto il suo fondamento nella psiche, tentava di riscoprirlo attraverso l’antropologia dell’animismo. LE RAGIONI DELLA PERSONIZZAZIONE

Vi era però un’altra tradizione, che continuò a considerare la personizzazione come modo necessario per comprendere il mondo ed essere in esso. Questa tradizione ebbe inizio con i greci e i romani, che personizzarono forze psichiche quali la Fama, l’Insolenza, la Notte, la Bruttezza, la Tempestività, la Speranza, per non nominarne che alcune. Esse erano ritenute «veri demoni da venerare e propiziarsi e non semplici invenzioni dell’immaginazione. E, com’è ben noto, erano effettivamente venerati in ogni città greca. Nella sola Atene troviamo santuari e altari della Vittoria, della Fortuna, dell’Amicizia, dell’Oblio, della Modestia, della Clemenza, della Pace e di molti altri…». Molti considerano questa pratica come puramente animistica, ma in realtà essa era un atto d’infusione di anima; giacché non v’è dubbio che la personizzazione dei greci e dei romani antichi offriva altari per le configurazioni dell’anima. Quando non si provvede loro, quando a questi Dei e demoni non viene accordato lo spazio e il riconoscimento dovuti, essi diventano malattie – come è stato sovente sottolineato da Jung. Il bisogno di fornire dei contenitori per le molte configurazioni dell’anima fu formulato nel terzo secolo d.C. Dal più grande di tutti i filosofi platonici, Plotino. In una sezione delle sue Enneadi intitolata appropriatamente «Problemi dell’Anima» troviamo questo passo: «Credo perciò che gli antichi saggi, che cercarono di ottenere la presenza degli esseri divini erigendo templi e statue, dimostrarono di aver ben visto nella natura del Tutto; essi intuirono che, pur se quest’anima è docile ovunque, è tanto più facile ottenerne la presenza là dove venga escogitato un ricettacolo acconcio, un luogo particolarmente 25

atto a ricevere una qualche porzione o fase di essa, qualcosa che la riproduca o la rappresenti e che riesca, come uno specchio, ad afferrare un’immagine di essa». 26

Quando, nel passo che segue (IV, 3, 12), Plotino parla delle «anime degli uomini, che videro le loro immagini nello specchio di Dioniso», egli sembra nuovamente alludere alla proprietà dell’anima di suddividersi in molte parti e a quella delle sue parti e fasi di riflettere le varie immagini delle persone divine. La personizzazione, oltre a favorire la discriminazione, offre anche un’altra via per amare, per immaginare le cose sotto forma personale, si che possiamo avere accesso a esse col cuore. Le parole con la lettera maiuscola possiedono una carica emotiva, saltan fuori dalle loro frasi e divengono immagini. La tradizione della depersonizzazione ebbe precisa consapevolezza che le parole personizzate tendono a divenire oggetto di culto e sacre, influenzando così la ragione del cuore. Perciò, i nominalisti disprezzano lo stile personificato d’espressione, considerandolo retorico e senza altro significato che quello emotivo. Ma questo stesso riconoscimento, che la personizzazione suscita emozioni, sposta la discussione dal nominalismo all’immaginazione, dalla testa al cuore. L’immagine del cuor fu una delle idee centrali dell’opera di Michelangelo, il quale subì fortemente l’influenza della tradizione platonica. Immaginare col cuore si riferisce a un modo di percezione che non si arresta ai nomi e all’aspetto fisico, ma penetra fino a un’immagine interiore personizzata, va, cioè, dal cuore al cuore. Quando Michelangelo ritrasse Lorenzo e Giuliano de’ Medici nella Sacrestia di San Lorenzo, le fattezze che egli diede loro erano innaturali, non quali apparivano nella vita, bensì trasfigurate così da diventare conformi alla vera immagine della loro persona nel cuore. Mentre il Rinascimento scientifico (Bacone e Galileo) insisteva sul primato della percezione sensoriale, l’immagine del cuor di Michelangelo intendeva dire che la percezione è 27

subordinata all’immaginazione. Spingendosi all’interno e al di là di ciò che vede l’occhio, l’immaginazione giunge alla visione delle immagini primordiali, le quali si presentano in forme personizzate. Più vicino ai nostri tempi, un altro mediterraneo, lo spagnolo Miguel de Unamuno, ritornò sul rapporto tra il cuore e le immagini personificate e spiegò la necessaria interdipendenza tra amore e personizzazione: «Per aver compassione di tutto, per amar tutto, l’umano e l’extraumano, il vivente e l’inesistente, bisogna sentir tutto dentro di sé, dar a tutto una persona. Poiché l’amore personifica ogni cosa che ama, ogni cosa di cui ha compassione… Si ama soltanto chi ci somiglia… è l’amore stesso… quello che ci rivela la nostra somiglianza con loro… L’amore personifica tutto ciò che ama. Ci s’innamora di un’idea unicamente personificandola». Unamuno così riassume il suo pensiero: «Il sentimento del mondo, su cui si fonda la sua comprensione, è necessariamente antropomorfico e mitopeico». Amare è un modo di conoscere, e per poter conoscere l’amore deve personizzare. La personizzazione è perciò un modo di conoscere; in particolare, di conoscere ciò che è invisibile, nascosto nel cuore. In questa prospettiva la personizzazione non è un modo di conoscenza inferiore e primitivo bensì un modo più sottile. Nella teoria psicologica essa presenta il tentativo di integrare il cuore nel metodo e di restituire i pensieri astratti e la materia senza vita alle loro forme umane. Poiché la personizzazione è una epistemologia del cuore, un pensare del sentimento, sbagliamo a giudicarla modo di pensare inferiore e arcaico, buono solo per coloro cui è consentito di esprimersi in termini emotivi e di seguire una logica guidata dagli affetti – i bambini, i pazzi, i poeti e i primitivi. Il metodo, in psicologia, non deve ostacolare le operazioni dell’amore, ed è stolto bollare di inferiorità i mezzi stessi 28

mediante cui l’amore comprende. Se non abbiamo compreso la personizzazione, è perché la tradizione dominante si è sempre sforzata di spiegarla invece che di comprenderla. Questa distinzione tra il conoscere attraverso la comprensione e il conoscere attraverso la spiegazione ha il suo grande inizio col berlinese Wilhelm Dilthey (18331911). Egli rilevò che mentre declinava l’immaginazione religiosa personificata, cresceva al suo posto, e a sue spese, l’oggettività scientifica. E vide altresì che siamo passati dai metodi che ci aiutavano a comprendere ad altri che ci aiutano a spiegare. Dilthey tentò di rifondare la psicologia sulla base della comprensione: la psicologia deve trovare il proprio fondamento fuori del laboratorio e all’interno della comprensione soggettiva. Malgrado l’ostilità esistente tra di essi, Dilthey condivise con Nietzsche una radicale idea psicologica: che la soggettività occupa un posto fondamentale in tutto il pensiero umano. La mia anima non è il risultato di fattori oggettivi che richiedono una spiegazione; al contrario, essa riflette esperienze soggettive che richiedono comprensione. Per poter comprendere alcunché, dobbiamo riuscire ad averne visione come di cosa dotata di un’esistenza interiore indipendente e soggettiva, capace di fare esperienze, strettamente legata a una storia e motivata da propositi e intenzioni. Dobbiamo sempre pensare antropomorficamente, o addirittura personalmente. «Il segreto della “persona”,» scrisse Dilthey «stimola a compiere, per amor suo, sforzi di comprensione sempre nuovi e sempre più profondi». Persino le intenzioni, i propositi e gli altri processi secondari che intervengono nell’esperienza non possono soggiacere a spiegazioni; anch’essi si schiudono soltanto a una comprensione antropomorfica. Perciò, gli studi dell’essere umano, tutti gli studi umani, per conoscere il loro soggetto debbono necessariamente essere antropomorfici. Nel suo denso stile tedesco Dilthey ricapitolò ponderosamente la visione personizzata della psicologia ricavata dalle sue ricerche sui greci, sul Rinascimento e su Giambattista Vico. 29

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Vico (1668-1744) – voce solitaria contro le potenti influenze parigine diffuse dall’opera di Mersenne fu il primo dei moderni a cogliere il nesso tra il pensiero personizzato e la comprensione «mitopeica», come la chiamo Unamuno. Ovunque questa tradizione emerge, nella Napoli di Vico o nella Berlino di Dilthey, ovunque fiorisca, nel pensiero neoplatonico di Michelangelo, in quello romantico di Blake o in quello critico di Cassirer, ciò che essa sottolinea soprattutto è la necessità della personizzazione per la prospettava mitica. Per entrare nel mito dobbiamo personizzare; personizzare ci trasporta nel mito. Alla prospettiva mitica il mondo si presenta personizzato, il che significa intensa partecipazione a esso. Noi non chiediamo: «Le cose sono vive o morte?» oppure: «Gli Dei sono reali o sono invece delle proiezioni simboliche?». Siffatte domande «sono da considerarsi illegittime» dice il più psicologo di tutti i classicisti, E.R. Dodds «fintantoché la creazione di miti è un modo vivente di pensiero, il porla di fronte a questa sorta di brutale ‘aut-aut’ significa obbligarla a una scelta che distrugge il suo stesso essere». La coscienza mitica risponde con Cassirer: «Certamente qui non vi è un ‘esso’ come morto oggetto, come ‘semplice’ cosa». Soggetto e oggetto, uomo e Dei, Io e Tu, non sono separati e isolati l’uno dall’altro, ciascuno con una differente sorta di essere, l’una vivente o reale, l’altra morta o immaginaria. Il mondo e gli Dei sono morti o vivi a seconda della condizione delle nostre anime. Una visione del mondo che percepisce il mondo come morto, o che dichiara gli Dei proiezioni simboliche, deriva da un soggetto percipiente che ha cessato di far esperienza in modo personizzato, che ha perduto la propria immagine del cuor. Per riaccendere questa vita, noi prendiamo le mosse dall’anima e reimmaginiamo i suoi processi interni in termini antropomorfici. Questo conduce alla inevitabile conclusione che, in realtà, non siamo affatto noi che personizziamo. La coscienza mitica è un modo di essere nel mondo che porta con sé persone 32

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immaginali. Esse sono date insieme con l’immaginazione stessa e sono i suoi dati. Dove regna l’immaginazione, lì avviene anche la personizzazione. Di questo noi abbiamo esperienza spontanea di notte nei sogni. Come non siamo noi a creare i nostri sogni, ma essi, per così dire, avvengono a noi, parimenti non inventiamo neppure le persone del mito e della religione; anch’esse sono qualcosa che ci avviene. Le persone si presentano come esistenti prima di ogni nostro sforzo di personificare. Per la coscienza mitica, le persone dell’immaginazione sono reali. Walter F. Otto, il filologo classico tedesco che con maggiore perspicuità colse la natura delle persone mitiche, ribadisce questo medesimo principio in un attacco contro i suoi colleghi razionalisti e riduttivi: «La personificazione non esiste, esiste solo una depersonificazione – così come non esiste una mitologizzazione (in senso autentico), ma solo una demitologizzazione. Schelling disse che domandarsi come abbia mai fatto l’uomo ad arrivare a Dio non ha senso; esiste unicamente la domanda: come ha mai fatto l’uomo ad allontanarsi da Dio? I cosiddetti concetti e termini astratti non avrebbero mai potuto avere accesso alla sfera personale se fin dall’inizio non fossero stati essi stessi personali, cioè forme divine». Tuttavia non fu attraverso i classici o la filosofia, così come non lo fu attraverso lo studio dei primitivi, dell’umanesimo rinascimentale o della poesia romanitica, che la personizzazione venne ripristinata come idea valida. Essa si aprì la strada da sola nel nostro tempo attraverso la psicopatologia, attraverso l’opera di Freud e di Jung. Fu riscoperta quale fondamentale idea psicologica non nelle aule del sapere ma nel gabinetto del medico e nel manicomio. All’estrema importanza della psicopatologia per la nostra visione della psiche e della sua psicologia sarà dedicato tutto il prossimo capitolo, ma i pensieri che presenteremo là vengono già adombrati qui di seguito nelle 35

testimonianze sulla personizzazione. Fu infatti la psicopatologia – personalità multiple, dissociazioni isteriche, allucinazioni – che sollecitò l’attenzione di Freud e Jung, e attraverso di essi quella della nostra epoca, sulla tendenza della psiche a personizzare. Le personificazioni della psicoanalisi ci sono familiari, ancorché dissimulate: il Censore, il Super-io, l’Orda Primitiva e la Scena Primaria, l’Angoscia liberamente fluttuante, il Bambino perverso polimorfo. Altre personificazioni si introducono in modo più sottile. Ad esempio, i ricordi infantili non sono propriamente quelle reminiscenze di persone reali che sembrano essere. Questa fu una delle prime scoperte di Freud. I ricordi di un bambino sono sempre inestricabilmente mescolati a immagini fantastiche e da esse ingigantiti. Le scene e le persone che «ricordiamo dall’infanzia sono propriamente complessi, desideri e timori personizzati che noi situiamo in quell’epoca lontana e che chiamiamo Madre e Sorella, Padre e Fratello. Queste persone non sono tanto esseri umani storici appartenenti a un passato storico, quanto piuttosto fantasie dell’anima che ritornano con sembianze umane. Noi però preferiamo prenderle alla lettera e credere che siano «realmente esistite», che la madre nell’immagine del mio ricordo sia la mia madre reale, perché questo permette di evitare il disagio della realtà psichica. È più facile sopportare la verità dei fatti che la verità delle fantasie; preferiamo letteralizzare i ricordi. Perché riconoscere che la psiche costruisce ricordi significa accettare la realtà del fatto che le esperienze stesse sono qualcosa che l’anima crea traendolo da se stessa e indipendentemente dalle operazioni svolte dall’io nel suo cosiddetto mondo reale. Significa, in breve, che esiste un contino processo di personizzazione; l’anima «inventa» continuamente persone e scene e ce le presenta con le sembianze di ricordi. La memoria non si limita a registrare, essa confabula, cioè inventa avvenimenti immaginari, eventi interamente psichici. Il ricordo è una forma che l’immaginazione può

prendere in prestito per far sembrare del tutto reali le sue immagini personizzate. E poiché l’esperienza che abbiamo di questi eventi è nel «passato», li crediamo fatti realmente accaduti. Riconoscendo questa facoltà inventiva e immaginativa della memoria, Freud riscoprì la realtà psichica. Essenziali a tale scoperta furono le persone psichiche. Freud comprese che, pur non avendo una realtà letterale e fattuale, esse nondimeno presentavano la verità e la validità della realtà psichica. Così come la memoria si dibatte tra il fatto e la fantasia, anche Freud si trovò dibattuto tra i due grandi modi del pensiero, il concettuale e il mitico, che, specialmente all’inizio di questo secolo, si opponevano l’uno all’altro. Egli tentò di costruire una psicologia concettuale scientifica ma, come Platone, presentò le sue intuizioni psicologiche servendosi di procedimenti mitici. Ad esempio, egli credeva che le persone dei sogni fossero travestimenti di processi istintuali. Cercò quindi di ridurre la naturale personizzazione del sogno a termini concettuali: libido, esaudimento di desideri, protezione del sonno; ma espresse questi termini concettuali per mezzo di animismi antropomorfici, il più famoso dei quali è il complesso di Edipo. La sua scienza divenne, volente o nolente, una mitologia. La psicoanalisi è un vasto racconto, una finzione fantastica che abbraccia l’anima umana, la sua genealogia, i suoi cataclismi preistorici, i suoi regni transpersonali e le potenze che governano il suo destino. E i suoi successi li ha non come scienza, ma come finzione cosmologica. Giovanni Papini in una intervista immaginaria con il maestro viennese riferisce questa «confessione» di Freud: «Letterato per istinto e medico per forza concepii l’idea di trasformare un ramo della medicina – la psichiatria – in letteratura. Fui e sono poeta e romanziere sotto figura di scienziato. La Psicanalisi non è altro che il transferto di una vocazione letteraria in termini di psicologia e di patologia». 36

Freud, va ricordato, non vinse il premio Nobel per la medicina, bensì il premio Goethe per la letteratura. Questo dibattersi di Freud tra formulazione concettuale della psicologia e formulazione mitica appare, personizzato, nel contrasto tra lui e Lou Andreas-Salomé, che fu la sua allieva più vicina per un breve periodo negli anni della sua tarda maturità e continuò ad essergli amica intima fino alla vecchiaia. L’antropomorfismo divenne il punto focale dell’influenza di lei sullo spirito di Freud. Durante il loro cruciale primo anno (1912) essa gli portò le idee di Nietzsche e di Dilthey, sottolineando l’essenziale dipendenza metodologica della psicoanalisi dal pensiero antropomorfico, e si batté per una psicologia che mirasse alla comprensione e che non si limitasse a spiegare (come era costume di Freud) per mezzo di costrutti astratti, quantitativi e topografici in un linguaggio «oggettivo». Come Diotima con Platone, Lou Salomé insegnò a Freud che l’amore esige la personizzazione. Essa era convinta che si potesse stabilire un rapporto emotivo «soltanto con quelle cose che sperimentiamo antropomorficamente, le sole che possiamo racchiudere nel nostro amore. Se, viceversa, esploriamo la natura in termini oggettivi e scientifici, ci alieniamo gli oggetti» e vanifichiamo l’intento stesso della psicoanalisi. Essa sottopose a psicologizzazione la psicologia di Freud, vedendo oltre lo schermo delle sue spiegazioni concettuali e sforzandosi di mantenerla antropomorfica, ricca d’amore e di vita. I concetti di Freud, ad esempio la libido – e specialmente Eros, Thanatos ed Edipo – sono in verità immagini antiche apertamente attinte da una lunga storia di personificazione mitologica. (Il mondo greco esercitò sempre un grande fascino su Freud che, da ragazzo, tenne addirittura un taccuino scritto in greco). Altri suoi termini – proiezione, sublimazione, condensazione – appartenevano un tempo alla poetica dell’alchimia. Freud stesso scrisse: «La teoria degli istinti è, per così dire, la nostra mitologia. Gli istinti sono esseri mitici, grandiosi nella loro indeterminatezza». E l’Es 37

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di Freud, «sottoposto al dominio di muti ma possenti istinti di morte», può essere paragonato, come io ho fatto in modo più particolareggiato in altra sede, al mondo infero dell’invisibile Ade. La valutazione che Wittgenstein dà dell’opera di Freud ne individua chiaramente il fondamento mitico: Freud «non ha dato una spiegazione scientifica dell’antico mito: ha proposto un nuovo mito». La sua traduzione delle immagini personizzate in processi e funzioni concettuali non riesce di fatto a farci dimenticare le radici mitiche della psicoanalisi. I concetti sono miti espressi in altri termini. L’angoscia di castrazione, l’invidia del pene, la coazione a ripetere – tutti agiscono su di noi come una volta facevano gli invisibili daimones. Noi cadiamo in loro potere e siamo sotto il loro dominio. Oggi i dinamismi sono depersonizzati e ubicati sotto la pelle o dentro il cranio, oppure intorno agli orifizi del corpo (le zone erogene). E come un tempo i vecchi demoni venivano esorcizzati, adesso i nuovi possono essere abreagiti. Una delle principali differenze sta nella loro visualizzazione come personificazioni: una volta vedevamo emergere dagli orifizi creature alate e lunghi serpenti, oppure minuscole persone-anima; adesso invece per descrivere i dinamismi della psiche abbiamo diagrammi geometrici o formule algebriche. Quel che qui ci interessa non è ridurre i demoni a complessi o ricondurre i complessi a una vecchia demonologia, bensì sottolineare il fatto che la psicologia ha un tale bisogno di mitologia che ne crea una a mano a mano che procede. Parlare per miti è fondamentale per il modo in cui l’anima esprime se stessa. E, in verità, Papini e Wittgenstein hanno ragione in questo senso: la psicologia del profondo è la forma attuale della mitologia tradizionale, la grande portatrice della tradizione orale, il racconto di storie inverosimili. I nomi dati da Jung sono anche più radicalmente animistici: l’Ombra, il Vecchio Saggio, la Grande Madre, l’Anima e l’Animus, sono vere e proprie persone. «Il fatto che l’inconscio personifichi spontaneamente… è la ragione per 44

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cui ho ripreso queste personificazioni nella mia terminologia e le ho formulate come nomi». Per alcuni, la più importante scoperta di Jung è quella del complesso psicologico, per altri quella dell’archetipo, ma forse il suo contributo principale sta non tanto in queste idee quanto nella loro radicale formulazione personizzata. È ben vero che a partire da Leibniz e Kant il pensiero filosofico aveva accettato l’esistenza, nei recessi della mente, di un campo di rappresentazioni confuse e di motivi sconosciuti. Ma mentre i filosofi avevano concepito tali forze alla stregua di eventi mentali, Jung li descrisse come persone. Egli riprese le forme del pensiero rinascimentale, ellenico e arcaico; la sua, più che una scoperta fu una riscoperta: la personizzazione ritrovata. L’opera giovanile di Jung sulle associazioni verbali non si arrestò alla quantificazione dei risultati; egli li personizzò. Scoprì complessi dotati di sentimenti, di intenzioni, di autonomia e di frammenti di coscienza. Erano entità indipendenti perché come tali si comportavano. Uno stesso complesso può alterare l’associazione verbale, manifestarsi sotto forma di sintomi sgradevoli e apparire come persona in un sogno. Le persone dei sogni sono complessi che camminano e agiscono; i sintomi sono l’irruzione di queste persone nella nostra vita normale. Le nostre complessità personali sono veramente le persone dei nostri complessi. Laddove altri psicologi per spiegare quegli stessi disturbi avrebbero potuto valersi di un linguaggio cosiddetto oggettivo e neutrale a base di numeri, strutture o funzioni, Jung ritornò coraggiosamente al modo diretto della personizzazione. Egli difese con fermezza il suo metodo terminologico, paragonandolo esplicitamente al discorso spontaneo del folle e del primitivo. Ciò che allora fu un atto di inaudita audacia, ora ci appare scontato, tanto facilmente riusciamo a immaginarci come impegnati in una rappresentazione scenica o in un gioco, o come un composto di personaggi diversi. Forse l’animismo di Jung è più radicale di quello di Freud 47

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a causa dei loro differenti retroterra clinici. Jung proiettò le proprie idee sullo sfondo dei casi limite di psicosi di un manicomio, mentre Freud rifletté le sue intuizioni sui nevrotici di uno studio di analisi. I soggetti di Jung erano più estraniati, più posseduti; come la psicosi può essere distinta dalla nevrosi in parte per la forza con cui si crede nei deliri e nelle allucinazioni, così il diverso valore che Freud e Jung attribuiscono alla personificazione esemplifica la differenza dei loro rispettivi ambienti di partenza. La predilezione di Jung per l’animismo da un lato e la ricerca di una psicologia scientifica da parte di Freud dall’altro, possono essere altresì viste come espressioni particolari della psicologia archetipica di ciascuno di essi: Freud più governato dal monoteistico paterno e dal maschile, Jung dal politeistico femminile e dall’«anima»» (immagine-anima). Nella fantasia freudiana l’io eroico, così come Edipo, si sviluppa attraverso l’uccisione del padre; nella fantasia junghiana l’io eroico combatte per affrancarsi dalla madre. Freud inventò il padre primitivo e l’orda primitiva, l’inflessibile super-io, la paura della castrazione e il censore con la sua funzione protettiva. In vecchiaia, Freud scrisse su Mosè; Jung nei suoi ultimi scritti esalta Maria e Sofia. I primi e principali allievi di Freud furono uomini. Jung inventò la Grande Madre, scrisse solo un saggio poco rilevante sul padre, ma ne dedicò vari e importanti alla madre e all’anima. I suoi primi e principali allievi furono donne. L’animismo di Jung è strettamente legato alla sua nozione di anima, termine che egli usa per indicare l’immagineanima personale e personizzata. L’Anima è una persona, anima è una nozione concettuale e «anima» significa appunto anima. Jung ne parla usando il pronome riservato alle persone di sesso femminile; essa è colei che crea confusioni e attrazioni conflittuali, che ci porta umori e desideri e sintomi neurovegetativi, che accende quelle peculiari fascinazioni della fantasia che ci fanno girar la testa, e tuttavia comunica anche un vago senso di interiorità, 50

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un senso di anima. Con lei si può conversare: un poeta, ad esempio, parla con la propria musa, un filosofo col suo daimon, un mistico col suo angelo protettore, un pazzo con la sua allucinazione. La troviamo in mitologia sotto innumerevoli forme, la più esplicita delle quali è la fanciulla Psiche. Jung ha definito l’anima «una personificazione dell’inconscio in generale», talché essa è quella particolare figura archetipica operante nell’attività della personizzazione e nelle confusioni psicologiche che accompagnano l’attività stessa». Esamineremo le implicazioni di ciò quando discuteremo l’esperienza dell’immaginazione.

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LE PERSONE ARCHETIPICHE DI JUNG: «IL PICCOLO POPOLO»

Nella pratica junghiana i termini Ombra, Sé, Io, Anima e simili indicano le componenti strutturali della personalità. Queste strutture basilari sono sempre immaginate come delle personalità parziali, e i loro rapporti vengono immaginati in una forma che è più quella del racconto o del romanzo che quella della scienza fisica. Più che un campo di forze, noi siamo ciascuno un campo di rapporti personali interni, una sorta di comunità interiore, di organismo politico. La psicodinamica diventa psicodrammatica; la nostra vita non è tanto la risultante di pressioni e di forze, quanto piuttosto l’attuazione di scenari mitici. Inoltre, queste componenti della personalità recitanti le loro scene mitiche, che noi chiamiamo i nostri problemi di vita, noi le indichiamo con dei pronomi personali. Ne parliamo con familiarità: «Lei (il complesso materno) mi paralizza», «Lui (il complesso paterno) non la smette mai di assillarmi, mi vuole perfetto». E lottiamo con una personalità nascosta e complementare, che Jung chiamò Ombra perché la releghiamo nell’oscurità; essa getta ombra sulla nostra vita con le sue intenzioni segrete. Jung chiamò tutte queste figure «il piccolo popolo». Tuttavia, a dispetto del nome un po’ ironico, egli riconobbe

che la loro importanza nell’orientare il destino è maggiore di quella del nostro usuale «Io». Approfondendo le sue intuizioni su queste complesse persone, le persone dei nostri complessi, Jung scoprì che la loro autonomia e intenzionalità deriva da figure più profonde dotate di un significato molto più ampio. Queste figure sono gli archetipi, cioè quelle persone cui dobbiamo in ultima istanza la nostra personalità. Parlando di esse, egli dice che «siamo costretti a invertire la nostra serie causale razionalistica e a derivare, non tali figure dalle nostre condizioni psichiche, ma piuttosto queste da quelle… Non siamo noi che le personifichiamo; esse hanno fin dall’inizio una natura personale». L’avere Jung fondato la psiche su strutture personizzate – invece che su concetti mutuati dalla scienza o dalla filosofia – mantiene la sua metapsicologia nella sfera della psicologia. Egli non abbandona mai la psiche per ricercare princìpi esplicativi esterni al suo mondo immaginale. Anche al livello più astratto di discussione si parla sempre di persone poiché questi fondamenti sono anch’essi delle persone archetipiche. La posizione di Jung qui dichiara che i fatti fondamentali dell’esistenza sono le «immagini fantastiche» della psiche. La coscienza dipende interamente da queste immagini. Ogni altra cosa – idee della mente, sensazioni del corpo, percezioni del mondo circostante, credenze, sentimenti, appetiti – per poter essere oggetto di esperienza, deve presentarsi sotto forma di immagine: «Nella sua forma più elementare, l’“esperienza” è una struttura estremamente complicata di immagini mentali». Se ci domandiamo: che cosa è la psiche, precisamente? Che cosa si intende per esperienza psichica e realtà psichica? La risposta è: immagini fantastiche. «l’immagine è psiche» dice Jung. «La psiche è formata essenzialmente di immagini… è una “raffigurazione” di attività vitali». In principio è l’immagine; prima viene l’immaginazione e poi la percezione; prima la fantasia e poi la realtà. O, come dice Jung: «La psiche crea giorno per giorno la realtà. A 53

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questa attività non so dare altro nome che quello di fantasia». L’uomo è in primo luogo un artefice di immagini e la nostra sostanza psichica è formata di immagini; il nostro essere è un essere immaginale, un’esistenza nell’immaginazione. Siamo davvero fatti della stessa sostanza di cui son fatti i sogni. Giacché in modo diretto e immediato noi possiamo conoscere soltanto le immagini della fantasia, ed è a partire da queste immagini che creiamo i nostri mondi e li chiamiamo realtà, noi viviamo in un mondo che non è né «interno» né «esterno». Il mondo psichico è piuttosto un mondo immaginale, così come l’immagine è psiche. E, paradossalmente, queste immagini sono in noi e, nello stesso tempo, noi viviamo in mezzo a loro. Abbiamo esperienza empirica del mondo psichico come presente dentro di noi e tuttavia esso ci avvolge con le sue immagini. Io sogno e ho esperienza dei miei sogni come presenti dentro di me, ma, in pari tempo, io mi muovo all’interno dei miei sogni e sono dentro di essi. Poiché la nostra sostanza psichica è composta di immagini, fare immagini è una via regia per fare anima. La produzione della sostanza dell’anima richiede il sogno, il fantasticare, l’immaginare. Vivere psicologicamente significa immaginare le cose; essere in contatto con l’anima significa vivere in un rapporto sensuoso con la fantasia. Essere nell’anima significa avere esperienza della fantasia in ogni realtà e della fondamentale realtà della fantasia. Le immagini della fantasia, che sono la sostanza e i valori dell’anima, sono strutturate dagli archetipi. Essi «dirigono tutta l’attività della fantasia lungo i suoi sentieri prestabiliti» dice Jung. Questi sentieri sono mitologici; o piuttosto, vediamo che la fantasia sfocia in particolari motivi (mitologemi) e in particolari costellazioni di persone impegnate in azioni (mitemi). Queste conformazioni si trovano nei miti di tutto il mondo e nella letteratura, nell’arte, nelle teorie scientifiche e nelle dottrine teologiche; e inoltre nei sogni, persino in quelli dei bambini, e nei 58

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sistemi deliranti dei folli – in breve, ovunque l’immaginazione si manifesti nei prodotti della mente. Dentro queste immagini fantastiche ci sono le persone archetipiche dei miti. Le loro interrelazioni sono i princìpi strutturali della vita psichica. Questa interrelazione tra i miti e l’anima verrà esaminata più avanti nel terzo capitolo, che è dedicato all’attività della psicologizzazione o del «vedere in trasparenza»» gli eventi fino ad arrivare ai loro miti. Va a lode di Jung, quando si trovò di fronte alla personizzazione nel contesto patologico della molteplicità schizoide, essersi mantenuto, per spiegarla, entro il medesimo contesto. Egli non abbandonò la patologia dalla quale erano nate le sue intuizioni – né la patologia sua propria, né quella del suo paziente, né il campo stesso della patologia. Mi riferisco qui ai suoi primi casi e al suo primo grande libro, Simboli della trasformazione (1912), che porta come sottotitolo «Analisi del preludio a un caso di schizofrenia». E mi riferisco anche alla discesa dello stesso Jung nel mondo infero (così vividamente descritta nella sua autobiografia), dove egli incontrò una moltitudine di figure – dapprima un nano, poi il vecchio Elia, che ben presto si trasformò nel pagano Filemone immerso in un’«atmosfera egiziano-ellenistica», e la fanciulla cieca Salomè – e tutti questi personaggi egli li considerò con la stessa serietà che dedicava alle figure incontrate dai suoi pazienti; dipinse le loro forme nei suoi taccuini, parlò alle voci che gli parlavano e mise per iscritto quello che esse dicevano. Anche se la personizzazione si presentava in quello che allora era considerato un contesto patologico, Jung non ne diede un giudizio preconcetto secondo parametri psichiatrici. Al contrario, ne fece esperienza immaginale e in questo modo l’aprì alla visione interiore. La via aperta da Jung in questo territorio immaginale ha dischiuso una nuova visione della personalità, non più monocentrica ma policentrica. Grazie alle psicologie del profondo di Freud e di Jung, disponiamo di un più completo modello di noi stessi. Ora concepiamo la nostra natura 60

psicologica come qualcosa di naturalmente suddiviso in parti e in fasi, come un composto di livelli storici antichi e più recenti, di varie zone e strati evolutivi, di molti complessi e persone archetipiche. Non siamo più esseri singoli fatti a immagine di un singolo Dio, bensì sempre composti da una molteplicità di parti: bambino malizioso, eroe o eroina, autorità vigilatrice, psicopatico asociale e così via. E avendo infine compreso che ciascuno di noi è normalmente un flusso di figure, non dobbiamo più sentirci minacciati dall’idea di personalità multipla. Io posso vedere visioni e udire voci, posso parlare con loro e sentirle parlare tra di loro senza per questo essere minimamente folle. L’IMPERO DELL’IO ROMANO: DECLINO E DISGREGAZIONE

Nei primi anni di questo secolo, i casi di personalità multipla provocarono notevole sensazione. Ma non certo perché fossero cosa nuova. L’esser posseduti da un diavolo, la glossolalia, la scrittura automatica, l’esperienza del Doppelgänger e del déjà vu ed altre forme di «dissociazione della personalità» erano da lungo tempo fenomeni ben noti. L’idea di un’anima divisa, l’idea stessa di smembramento, è anche più antica del mito greco; eppure fu soltanto nei primi anni di questo secolo che venne coniato il termine «schizofrenia» e che questa sindrome ricevette una descrizione accurata. Soltanto a questo estremo livello di sofferenza psichica la personizzazione poteva di nuovo imporsi alla nostra coscienza monocentrica. La personalità multipla metteva fine al regno della ragione, sicché era naturale che questo fenomeno divenisse il punto focale dei difensori della ragione: gli psichiatri. Essi debbono spesso affrontare le preoccupazioni critiche di una cultura nella loro manifestazione estrema, cioè sotto forma di sintomi. Durante gli Anni Trenta e Quaranta abbiamo vissuto in quella che è stata chiamata l’Età dell’Ansia. Di recente, le «allucinazioni» (LSD) hanno messo in dubbio la nostra teoria materialistica della percezione e la visione del

mondo costruita su di essa; la «depressione» ci ha aperto gli occhi sul totale asservimento della nostra cultura a una maniacale superficialità di crescita e di movimento; e l’«autismo» ci ricorda che la psiche può rifiutarsi del tutto di entrare nel mondo, può rinserrarsi nel castello interiore. Il termine «schizofrenia» fu coniato ufficialmente nel periodo immediatamente precedente la prima Guerra Mondiale, un periodo che vide una corrispondente frammentazione in pittura, in musica e in letteratura, e una analoga relativizzazione della posizione dell’io nelle scienze naturali. I casi di personalità multipla furono importanti perché comprovavano la molteplicità dell’individuo in un’epoca in cui il medesimo fenomeno stava venendo alla luce nella cultura in generale. Attraverso questa prospettiva schizoide multipla, noi vedemmo un mondo non più tenuto insieme dalla ragione, un mondo che aveva ormai completamente perduto coesione e centro. Al suo posto c’erano spontaneità perturbatrice, relatività, discontinuità, disarmonia e una sovrappopolazione di spiriti e di immagini d’anima viventi – il ritorno delle persone archetipiche. I fenomeni di dissociazione – distacco, scissione, personificazione, moltiplicazione, ambivalenza – sembreranno sempre una malattia all’io, così come esso è venuto definendosi. Ma se prendiamo il contesto del campo psichico nella sua totalità, questi fenomeni di frammentazione possono essere intesi come rivendicazioni dell’individualità delle parti contro l’autorità centrale. Avvertiamo una «intenzionalità» ostinata di fare e dire cose che sono estranee all’io, come acquistare oggetti che non vogliamo, mangiare più di quel che intendiamo, adottare le abitudini della madre o del padre o di un nuovo, improvviso amico. Nascono nuove personalità parziali, ciascuna con propri sentimenti, opinioni e bisogni. Un sociologo parlerebbe di sottoculture, uno studioso di scienze politiche di diritti degli stati o di governo delle forze di base. Quale che sia la categoria in questione, il comando centrale sta perdendo il controllo. 61

Se oggi sono frequenti le fantasie che proiettano la nostra cultura sullo sfondo di quella dell’antica Roma, ciò avviene in parte perché la nostra psiche ha subìto una prolungata Pax Romana. La graduale estensione e civilizzazione di remote province barbariche non è altro che sviluppo dell’io. La descrizione classica di questo processo di romanizzazione della psiche ci è stata data da Freud: «… rafforzare l’Io,… renderlo più indipendente dal Super-Io,… ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. È un’opera di civiltà…». Egli conclude questa lezione col paragone del prosciugamento delle paludi per bonificare il territorio, che era anche una delle preoccupazioni degli antichi romani. Otto Fenichel, il brillante allievo di Freud, il cui autorevole testo offre un compendio della teoria psicoanalitica della nevrosi, conferma questa fantasia imperialistica: «Il comune denominatore di tutti i fenomeni nevrotici è una carenza del normale apparato di controllo». L’io debole è un io nevrotico; la nevrosi è un io difettoso; la cura sta nel controllo esercitato dal quartier generale. Dall’alto del bastione di Roma, le reazioni (che io non ho ordinato) da parte di altre persone nella mia psiche appaiono come straniere e verranno registrate dal compilatore del caso clinico come peculiari personificazioni dei miei entroterra primitivi, bizzarri comportamenti in onore di Dei bizzarri. Inoltre, la fantasia della «decadenza romana», ivi comprese la disintegrazione e la paganizzazione della società, descrive ciò che accade alla psiche allorché il suo vecchio io si indebolisce e la coscienza non è più schiava del centro egoico. Allora la coscienza viene liberata dalla sua identificazione romana, dal governo centralizzato diretto dalla volontà e dalla ragione. Questa identificazione va a tutto danno della psiche, perché le erige contro la nozione dell’inconscio come frammentazione e disintegrazione. Ambedue queste posizioni sono degli stereotipi e debbono essere sottoposte a una revisione che le mostri come stili di 62

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coscienza diversi. Il centro e la periferia, Roma e le province, presentano sistemi di valore, modelli di fantasia e gradi di forza diversi. Ma l’io romano con la sua centralità non è affatto più «conscio» di quanto lo siano gli stili esotici degli altri complessi. La coscienza può essere ridistribuita senza per questo venirne sminuita; può far ritorno alla boscaglia e ai campi, alle sue radici policentriche situate nei complessi e nei loro nuclei personizzati, cioè a una coscienza fondata su una psicologia politeistica. La psicologia politeistica rimanda all’intrinseca dissociabilità della psiche e all’ubicazione della coscienza in figure e centri multipli. Un politeismo psicologico offre contenitori archetipici per differenziare la nostra frammentazione e, cosa questa di estrema importanza, anche una nuova prospettiva da cui guardare la patologia. L’interconnessione esistente tra le «psichi frammentate» delle nostre persone multiple e i molti Dei e Dee del politeismo è messa in luce in questo passo di Jung: 64

«Se nella psiche umana non fossero insite delle tendenze dissociative, non si sarebbero mai distaccati in essa dei sistemi psichici frammentari; in altre parole non sarebbero mai nati né spiriti, né dèi. È per la stessa ragione che il nostro tempo è divenuto così radicalmente ateo e profano: siamo privi di qualsiasi conoscenza della psiche inconscia e perseguiamo il culto della coscienza escludendo ogni altra cosa. La nostra vera religione è un monoteismo della coscienza, è un venir posseduti da essa, e insieme una fanatica negazione dell’esistenza di sistemi frammentari autonomi». 65

Quando il monoteismo della coscienza non è più in grado di negare l’esistenza di sistemi frammentari autonomi e non sa più come far fronte alla condizione effettiva della nostra psiche, allora nasce la fantasia d’un ritorno al politeismo greco. Perché il «ritorno alla Grecia» ci offre un modo di far fronte all’indebolimento del nostro centro e alla

disgregazione delle cose. L’alternativa politeistica non impone una conflittualità tra la bestia e Betlemme, tra caos e unità; al contrario, essa favorisce la coesistenza di tutti i vari frammenti psichici e offre loro dei modelli nell’immaginazione della mitologia greca. Un «ritorno alla Grecia» fu vissuto in tempi di rivoluzione nella stessa Roma antica, nell’Italia rinascimentale e nella psiche romantica. In anni recenti è stato una parte intrinseca nella vita di artisti e pensatori quali Strawinsky, Picasso, Heidegger, Joyce e Freud. Il «ritorno alla Grecia» è una risposta psicologica alla sfida del collasso; esso offre un modello di disintegrata integrazione. Digressione sul «ritorno alla Grecia» Molto si è scritto per offrire una giustificazione filosofica, estetica e culturale del «ritorno alla Grecia». È di tutti la tendenza a guardare alla Grecia per trovarvi la gloria del passato, la perfezione, la bellezza formale e la lucidità dello spirito. E ad essa ci siamo rivolti anche quando eravamo alla ricerca delle «origini», poiché è in Grecia che la nostra cultura ebbe inizio. Ma qui ci rivolgiamo alla Grecia per trovarvi comprensione psicologica: qui tenteremo di capire che cosa sia questa «Grecia» che tanto attrae la psiche e che cosa la psiche trovi in essa. Quando la visione dominante che tiene unita un’epoca culturale si incrina, la coscienza regredisce in contenitori più antichi, in cerca di fonti di sopravvivenza che offrano anche fonti di rivitalizzazione. I critici hanno ragione quando vedono il «ritorno alla Grecia» come un regressivo desiderio di morte, come una fuga dai conflitti contemporanei alle mitologie e alle speculazioni di un mondo fantastico. Ma guardare indietro rende possibile andare avanti, perché guardare indietro ravviva la fantasia dell’archetipo del fanciullo, fons et origo, il quale è sia il momento dell’inerme debolezza sia il dischiudersi del futuro. «Rinascimento»

sarebbe una parola priva di significato senza l’implicita dissoluzione, la morte stessa da cui quella rinascita proviene. I critici non colgono la validità e la necessità della regressione. Essi non colgono neppure la necessità d’una regressione che sia peculiarmente «greca». La nostra cultura mostra due vie alternative di regressione, alle quali è stato dato il nome di ellenismo ed ebraismo; esse rappresentano le alternative psicologiche della molteplicità e dell’unità. Le vediamo nei momenti critici della storia occidentale, ad esempio al tempo del declino di Roma che accompagnò Costantino nel cristianesimo (tale era il nuovo nome dell’ebraismo). Le vediamo di nuovo al tempo del Rinascimento e della Riforma, quando l’Europa meridionale ritornò all’ellenismo e l’Europa settentrionale all’ebraismo. L’ebraismo riafferma il monoteismo della coscienza egoica. Questa via è appropriata quando la coscienza di un’epoca o d’un individuo sente di aver soprattutto bisogno, per la propria sopravvivenza, di un modello archetipico di eroismo e di unità. Nelle prime raffigurazioni di Cristo confluivano il militaresco Mitra e il muscoloso Ercole, e la conversione di Costantino, che volse infine il corso degli eventi contro il politeismo classico, fu annunziata da una visione marziale che egli ebbe prima di scendere in campo. Similmente, l’ebraismo della Riforma, pur con la sua tolleranza per la protesta, la varietà e le scissioni, è archetipicamente ispirato dalla fantasia d’una energia eroica unificata; l’individuo è concepito come un’indivisa unità di responsabilità armata, ritta davanti a Dio, faccia a faccia, in un incontro primario. Oggi ci troviamo a seguire la via monocentrica ogni volta che cerchiamo di risolvere una crisi dell’anima per mezzo della psicologia dell’io, ogni volta che tentiamo di «riformare». La psiche in crisi ha, ovviamente, anche altre fantasie. Le molte strade dell’ellenismo e la strada unica dell’ebraismo non sono le sole vie d’uscita dal dilemma patologico della psiche. C’è la fuga nel futurismo e nelle sue tecnologie, il

viaggio in Oriente e dentro di sé, la scelta di una vita primitiva e naturale, e l’ascesa fino alla totale scomparsa nella trascendenza. Ma queste alternative sono meno autentiche. Sono semplicistiche; trascurano la nostra storia e la presa che le sue immagini hanno su di noi; inoltre, sollecitano a fuggire le difficoltà, invece di approfondirle fornendo loro uno sfondo culturale e una struttura differenziata. Le fantascienze e le fantasie della scienza, gli insegnamenti di maestri pellerossa o orientali, per brillanti e saggi che siano, non ci aiutano a ricordare la nostra storia immaginale occidentale, le immagini operanti nelle nostre anime. Eludendo la nostra tradizione immaginale, ce ne distaccano ancor di più. E allora le vie alternative all’ebraismo e all’ellenismo operano come rimozioni, complicano la condizione di assenza d’anima che i loro messaggi vorrebbero aiutare a risolvere. L’ebraismo non riesce a fronteggiare il dilemma attuale semplicemente perché è troppo ben radicato, troppo identico alla nostra visione del mondo: sul comodino di ogni vagabondo c’è una Bibbia, mentre assai meglio vi figurerebbe l’Odissea. Nella tradizione conscia del nostro io non troviamo nessun rinnovamento, solo un rinforzo per le aride abitudini di una mente monocentrica che vorrebbe tenere assieme il suo universo con sermoni colpevolizzanti. L’ellenismo invece porta la tradizione dell’immaginazione inconscia; la complessità politeistica greca è indizio delle nostre complicate e inesplorate situazioni psichiche. L’ellenismo favorisce la rivitalizzazione offrendo un più ampio spazio e una benedizione di altro genere all’intera gamma di immagini, sentimenti e peculiari princìpi morali che sono la nostra vera natura psichica. Essi non hanno bisogno di essere liberati dal male se non li immaginiamo già all’inizio come maligni. Se nella nostra disintegrazione non possiamo mettere tutti i nostri frammenti in un’unica psicologia egoica monoteistica, o non riusciamo più a illuderci col futurismo

progressivo o col primitivismo naturale che un tempo funzionavano così bene, e se abbiamo bisogno di una complessità che sia pari alla nostra raffinatezza, allora ci rivolgiamo alla Grecia. «Nessun’altra mitologia a noi nota – evoluta o primitiva, antica o moderna – può vantare un grado di complessità e sistematicità pari a quello della mitologia greca». La Grecia offre una struttura policentrica formata dal politeismo più riccamente elaborato di tutte le culture, e può così contenere il caos delle personalità secondarie e degli impulsi autonomi di una disciplina, di un’epoca o di un individuo. Questa varietà fantastica offre alla psiche fantasie multiformi con cui riflettere le sue molte possibilità. Dietro e dentro tutta la cultura greca – nell’arte, nel pensiero e nell’azione – c’è il suo sfondo mitico policentrico. Questo era il mondo psichico immaginale da cui venne la «gloria che fu la Grecia». Questo sfondo mitico era forse meno legato al rituale e agli effettivi culti religiosi che non le mitologie di altre culture superiori. In altre parole, il mito greco serve non tanto, specificamente, come religione, quanto, più generalmente, come psicologia, operando nell’anima in pari tempo come stimolo e come contenitore differenziato della straordinaria ricchezza psichica dell’antica Grecia. Ma la «Grecia» alla quale noi ci volgiamo non è letterale; essa comprende tutte le epoche dalla minoica all’ellenistica, tutte le località dall’Asia Minore alla Sicilia. Questa «Grecia» rimanda a una regione storica e geografica psichica, a una Grecia fantastica o mitica, a una Grecia interiore della mente che è soltanto indirettamente connessa con la geografia e la storia effettive – talché queste finiscono per perdere il loro valore: «… prima del Romanticismo, la Grecia era soltanto un museo, abitato da gente cui si guardava con assoluto disinteresse». Petrarca, che nel quattordicesimo secolo si adoperò più di chiunque altro per riportare in vita la letteratura classica, non leggeva il greco. Winckelmann, nel diciottesimo, che più d’ogni altro si batté per riportare in vita il classicismo e che 66

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inventò il moderno culto della Grecia, non vi mise mai piede e con ogni probabilità non ebbe mai occasione di vedere un solo originale delle grandi sculture greche. Né vi andarono Racine, Goethe, Hölderlin, Hegel, Heine, Keats e neppure lo stesso Nietzsche. Nondimeno essi tutti ricostituirono nelle loro opere la «Grecia». Byron è l’assurda – e fatale – eccezione. Naturalmente in quei secoli la lingua e la letteratura greca erano conosciute, si venerava Socrate, si copiavano la statuaria, l’architettura e la metrica, ma furono pochi quelli che si recarono nella Grecia empirica o che anche solo arrivarono a consultare i testi greci nell’originale. Era l’«immagine sentimentale della Grecia» a dominare. E quest’immagine ha mantenuto la sua carica d’emozione per mezzo di un corpo ininterrotto di miti (i «miti greci» e la metafora «Grecia») che perdura nella coscienza dai tempi post-ellenici fino ad oggi. La «Grecia» permane come paesaggio interiore piuttosto che come paesaggio geografico, come metafora del regno immaginale ove sono stati collocati gli archetipi sotto forma di Dei. Possiamo perciò leggere tutti i documenti e i frammenti del mito rimasti dall’antichità anche come resoconti o testimonianze dell’immaginale. L’archeologia diventa archetipologia, più che una storia letterale essa rivela le eterne realtà dell’immaginazione e ci parla di ciò che è in atto ora nella realtà psichica. Il ritorno alla Grecia non è un ritorno né a un tempo storico passato né ad un tempo immaginario, a una utopica Età dell’Oro che fu o può ancora ritornare. La «Grecia», al contrario, ci offre la possibilità di rivedere la nostra anima e la psicologia per mezzo di luoghi e di persone immaginali invece che di date e di personaggi storici, ci delinea uno spazio piuttosto che un tempo. Noi usciamo completamente dal pensiero temporale e dalla storicità, e muoviamo verso una regione immaginale, verso un differenziato arcipelago di ubicazioni, dove sono gli Dei e non quando essi furono o saranno. La Grecia come fatto potrà scontrarsi con la Grecia come 69

fantasia, perché la cultura storica e letteraria considera per tradizione la sua Grecia in termini letterali, e ciascuna generazione di studiosi si diletta a smascherare la fantasiosa interpretazione dei fatti perpetrata dalla generazione precedente. In verità, si può dire che la Grecia interiore dell’immaginazione esercita un’influenza sulle prospettive della filologia classica – una disciplina così assorta in ciò che è sepolto, mutilo, residuo, in radici e origini sconosciute, in miti e Dei, da essere particolarmente soggetta all’influenza degli archetipi nell’organizzazione e interpretazione dei suoi «fatti». Gli Dei sembrano darsi battaglia proprio in questo campo, e grazie a questa passione archetipica le lingue morte, che durano fatica a provare razionalmente la loro pertinenza all’età presente, sono tenute in vita dalla psiche stessa a causa della loro importanza per l’immaginazione. Noi ritorniamo alla Grecia per poter riscoprire gli archetipi della nostra mente e della nostra cultura. La fantasia vi ritorna per diventare archetipica. Rientrando nel mitico, in quello che è non fattuale e non storico, la psiche può reimmaginare le proprie difficili situazioni fattuali e storiche da una diversa angolazione. La Grecia diventa una serie di specchi di ingrandimento nei quali la psiche può riconoscere le proprie persone e i propri processi in configurazioni che escono dai confini della natura, ma che tuttavia concernono la vita delle nostre personalità secondarie. 70

LA PERSONIZZAZIONE E LA PSICHE POLITEISTICA

Dopo questo esame retrospettivo della personizzazione e delle controversie da essa suscitate nella storia della coscienza occidentale, possiamo ora esaminarla sotto il profilo più strettamente psicologico e domandarci: Qual è il servizio più profondo che la personizzazione rende all’anima? Trattandosi di una attività così strettamente associata alla psicopatologia, da quale particolare angolatura essa fa sì che l’anima veda se stessa? E se è tanto

spontanea, tanto basilare sia alla comprensione sia all’amore, perché l’abbiamo abbandonata? Dove possiamo trovarla ora nella nostra vita? Il punto di partenza per alcune delle nostre risposte sta nella psicopatologia, e precisamente nel fenomeno della molteplicità psichica, in cui la personizzazione si presenta spontaneamente. La moltiplicazione delle persone può presentarsi in due diversi tipi di condizioni cliniche. Primo, quando un dato individuo assume agli occhi d’un paziente un’importanza così soverchiante da obbligarlo a scinderne l’immagine, moltiplicandola in parti più facilmente controllabili. Il paziente si trova così ad avere due o più dottori con lo stesso nome (oppure una serie di nomi per lo stesso dottore), due o più amate o spose defunte, o anche due o più sé. Qui la personizzazione ha una funzione protettiva, perché impedisce la concentrazione in un’unica figura di una quantità intollerabile di potere numinoso. Secondo, la moltiplicazione delle persone può essere utilizzata come strumento terapeutico per far comprendere che «il complesso dell’io non è il solo complesso della psiche». Immaginando attivamente la psiche in una configurazione di persone multiple, impediamo all’io di identificarsi con ciascuna figura del sogno o della fantasia, con ciascun impulso e voce. Perché l’io non è tutta la psiche, bensì soltanto il membro di una comune. La terapia opera attraverso un paradosso: ammettere che tutte le figure e tutti i sentimenti della psiche sono interamente «miei», ma nello stesso tempo riconoscere che queste figure e sentimenti sono indipendenti dal mio controllo e dalla mia identità, insomma, che non sono affatto «miei». La personizzazione ci aiuta a situare le esperienze soggettive «là fuori»; in questo modo possiamo escogitare sistemi per proteggercene e per stabilire dei rapporti con esse. La molteplicità ci permette di raggiungere una maggiore differenziazione interiore e di acquistare così la consapevolezza della pluralità delle nostre parti. E quand’anche l’obiettivo da conseguire fosse l’unità della 71

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personalità, sappiamo dagli antichi psicologi alchemici che «soltanto ciò che è separato può essere unito». Prima viene la separazione, che è un modo per guadagnare distanza. Questa separatio (nel linguaggio dell’alchimia) consente un interno distacco, come se si creasse più spazio interiore dove muoversi e situare gli eventi, mentre prima c’era un tenace agglomerato di parti o una monolitica identificazione con tutte quante, la sensazione di essere bloccati nel proprio problema. Essenziale per questa separazione interna è l’attribuzione di nomi alle varie personalità; come se soltanto dando il nome agli animali nell’Eden Adamo fosse potuto divenire quello che era. Attraverso il nome, gli animali divennero loro; sicché Adamo poté riconoscerli e distinguere le proprie caratteristiche da quelle di ciascuno di essi. I suoi aspetti leonino, lupesco e scimmiesco non erano più «lui», ovvero suoi, ma stavano «là fuori», abitanti del medesimo giardino. Questo modo personizzato di oggettivare ci evita di ricorrere ad altri metodi oggettivi che la psicologia impiega per scopi analoghi. La denominazione per immagini e metafore ha il vantaggio, rispetto alla denominazione per concetti, che i nomi personizzati non si riducono mai a strumenti privi di vita. Le immagini e le metafore si presentano sempre come soggetti psichici viventi con cui io sono obbligato a rimanere in rapporto. Essi mantengono viva in me la consapevolezza del potere delle parole di cui mi servo, laddove i concetti rischiano di farmi cadere nel nominalismo. Lo scopo della personizzazione, avvenga essa nel paziente come protezione oppure in un terapeuta come mezzo per operare delle distinzioni, è sempre lo stesso: salvare la diversità e l’autonomia della psiche dal dominio di un qualsiasi potere singolo, si tratti di una figura del proprio ambiente da cui emana un senso di soggezione archetipica oppure della propria egomania. La personizzazione è la risposta dell’anima all’egocentrismo. Oltre alle sue manifestazioni cliniche, la personizzazione avviene in ciascuno di noi, ogni notte, nei sogni. Il sogno è il 73

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miglior modello dell’effettivo aspetto della psiche, perché mostra la contemporanea presenza in una singola scena di vari stili di coscienza. Questi stili si incarnano in persone legate tra loro in rapporti complessi. Sicché gli psicologi dicono: i sogni ti rivelano i tuoi conflitti. Ma i conflitti presuppongono desideri, punti di vista, interi stili di personalità diversi dal complesso egoico. E sono questi che noi vediamo nel teatro del sogno, che è anche una critica del complesso egoico fatta dal punto di vista di ciascuno degli altri attori della compagnia. Di solito, nella vita di veglia le personalità secondarie riescono a criticare il dominio dell’io soltanto per mezzo di interferenze di ordine sintomatico (psicopatologie), ma nei sogni esse, per così dire, rovesciano la situazione e mostrano all’io i suoi limiti. Ciascuna di queste persone oniriche influenza la personalità abituale, che anche noi, come Jung, chiamiamo «personalità Numero Uno». La Numero Uno di solito governa il mondo diurno; essa ha un buon senso di responsabilità, non è discontinua ed è accettata dalla società; quando si guarda allo specchio essa vede lo stesso corpo familiare di sempre. Le personalità secondarie tendono invece ad essere frammentarie, intermittenti, contraddittorie, e di solito non godono della sanzione sociale. Il sogno è lo specchio in cui esse si manifestano, e i loro corpi hanno molti e sorprendenti livelli di realtà. In quanto Numero Uno, noi abbiamo un nome, il diritto di esprimere un voto e un numero di previdenza sociale, e questo sebbene la nostra realtà psichica nel suo insieme sia multipla e possa essere frammentaria. Noi intuiamo la presenza di queste altre persone e le chiamiamo «ruoli» – madre, amante, figlia, strega, megera, nutrice, moglie, bambina, ninfa, locandiera, schiava, regina, prostituta, danzatrice, sibilla, musa. Ma possono esistere ruoli senza persone che li interpretino? Chiamarli ruoli e giochi è già di per sé un gioco mediante il quale la Numero Uno può negare l’autonomia di queste persone e tenerle tutte sotto il proprio controllo. Le molte personalità del mondo notturno si infondono 75

negli atteggiamenti che dominano la nostra vita diurna. Noi possiamo prevedere questo processo di infusione allorché una specifica figura comincia ad apparire con una certa frequenza nei sogni. Una figura della fantasia, divenendo un compagno notturno costante, comincia a influenzare la mia coscienza così come farebbe un amico col quale io vivessi durante il giorno. Come dice Jung: «Molto spesso l’attività di tali figure ha un carattere anticipatorio: viene cioè fatto qualcosa che il sognatore farà in seguito». Una definizione della mia persona che si basi sul mio stato di veglia trascura queste figure e le loro influenze. Quando ciò accade, io divento tirannico, perché rifletto il geloso monoteismo della Numero Uno, che non vuole riconoscere l’esistenza di personalità parziali indipendenti e, negandole, le situa nel mondo esterno, sicché le influenze interne dei complessi diventano paure paranoiche di invasioni nemiche. Da una parte, abbiamo l’alienazione mentale dell’individuo; dall’altra, abbiamo dissennate proiezioni collettive su altri individui, su intere razze e nazioni. Se invece accetto di essere definito anche dal piccolo popolo dei sogni, questo mi libera dall’autotirannia. È per questa ragione che i sogni hanno una cruciale importanza in ogni terapia del profondo, in ogni terapia il cui intento sia quello di fare anima e non soltanto di costruire l’io. I sogni sono importanti per l’anima non per i messaggi che l’io ne ricava, né per i ricordi che essi fanno riaffiorare o per ciò che rivelano; quello che soprattutto sembra interessare l’anima è l’incontro notturno con una pluralità di ombre in un mondo infero, come se i sogni fossero una preparazione alla morte, la liberazione dell’anima dalla sua identità con l’io e con lo stato di veglia. Si è detto spesso che nei sogni l’anima «vaga» intendendo con questo non un camminar letterale per il mondo, bensì l’abbandono del campo di attività dell’io. Nei sogni, i vari frammenti sono tenuti assieme dalle scene e intrecciati in un racconto. Quello che noi apprendiamo dai sogni è ciò che la natura psichica 76

veramente è, la natura della realtà psichica: non io, ma noi; non uno, ma molti. Non la coscienza monoteistica che volge in basso lo sguardo dall’alto della sua montagna, ma la coscienza politeistica che vaga dappertutto, nelle valli e lungo i fiumi, nei boschi, nel cielo e sotto la terra. Utilizzando il sogno come modello della realtà psichica e ideando una teoria della personalità basata sul sogno, noi immaginiamo la struttura basilare della psiche come un panorama interiore popolato di immagini personizzate. Considerata in tutte le sue conseguenze, questa struttura implica che la psiche presenta le proprie dimensioni immaginali, opera liberamente senza bisogno di parole ed è costituita di personalità multiple. Possiamo descriverla come un universo policentrico di immagini non verbali e non spaziali. I miti offrono il medesimo tipo di mondo. Anch’esso è policentrico, con uno spazio immaginale popolato di innumerevoli personificazioni. Così come le immagini oniriche non sono semplicemente delle parole travestite – ben di rado sogniamo con parole o testi, udiamo o leggiamo nei nostri sogni – neppure le antiche personificazioni dei miti sono dei concetti mascherati. Il sogno guaritore è un rituale esculapico di cura mediante il sonno entro il recinto del tempio. Nell’antichità esso richiedeva che si venisse toccati dal Dio, in persona o nella sua forma animale di serpente o di cane. La cura era la presenza del Dio in persona e la guarigione non richiedeva una traduzione di immagini in concetti, di cane in «istinto». Oppure, per dare un altro esempio, il Dio Pan suscitava panico quando appariva all’ora del meriggio o in una delle sue forme di incubo notturno. Ma Pan non era la personificazione del concetto di «panico», giacché egli stesso veniva visto in fuga precipitosa in preda al panico. La persona di Pan fu vista nello stato di panico prima dell’insorgere del concetto di «panico». Pan e il suo panico, Esculapio e la sua azione guaritrice compaiono simultaneamente; il Dio non è una concettualizzazione o un’allegoria successiva dello stato emotivo. Così, le figure 77

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che vediamo sui vasi greci coi nomi, ad esempio, di Fato, Morte, Vecchiaia, non sono parole raffigurate come persone, atti antropomorfici di personificazione. Queste figure sono enunciati immaginali che riconoscono la natura immaginale della parola, e le iscrizioni sottolineano che nella prospettiva mitica anche le parole sono persone. Queste persone continuano ad apparire nei nostri sogni. Ninfe e sirene, eroi e demoni, satiri priapici, mostri, animali parlanti, non si trovano soltanto sull’urna greca; essi attraversano tumultuosi i nostri sogni vestendo abiti moderni. E similmente nei complessi dei nostri sogni appaiono anche gli aspri scontri tra Dei e Dee contrapposti e le tragedie che essi creano. Quando un complesso viene immaginato come una entità nettamente separata, come una vera e propria «persona», pari per intenzioni, umori e caparbietà alla mia nozione di io, solo allora i miei rapporti con i miei complessi sono come quelli esistenti in un sogno, dove i complessi non sono né più né meno reali dell’«io» onirico. Quando il complesso è pienamente personizzato, posso percepire le sue specifiche qualità e accordargli lo specifico rispetto che esso richiede. Nel senso inteso da Lou Salomé, io ora posso amarlo. Quello che una volta era un’emozione, un sintomo, un’ossessione, adesso è una figura con la quale posso discorrere. Nel senso inteso da Jung, invertiamo la direzione della storia nella nostra anima, perché con la personizzazione io restituisco alla malattia il suo Dio e do al Dio quello che gli è dovuto. «Servire una mania è odioso e indecoroso, ma servire un Dio è cosa ricca di significato». Secondo Jung, questo Dio deve essere sperimentato come personificazione, «essenziale precondizione» dell’idea di un Dio. Attraverso la personizzazione, il Dio straniero di un complesso che mi invade può trovare quella comprensione di cui parla Dilthey. La comprensione può trasformare l’essere stesso di un complesso, consentendogli l’accesso alla realtà psicologica. Sicché ora possiamo vedere gli allucinati animismi della follia come tentativi di ricostruire, nel senso 79

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di Unamuno, un cosmo di amore e di compassione, di ristabilire un rapporto di sentimento con le immutabili personificazioni che, in ogni momento, governano tutta la vita. Ma debbo ripetere che questo ingresso della coscienza nella realtà psicologica viene vissuto all’inizio come fenomeno patologico; quando l’uno diviene molti le cose si disgregano. Il riconoscimento delle persone multiple della psiche è simile all’esperienza della personalità multipla. Personizzazione significa policentricità, personizzare è essere coinvolti in una rivoluzione della coscienza: dal monoteistico al politeistico. Ciò sarà sentito come collasso e regressione. A questo punto ci troviamo nella condizione del vecchio Crono che inghiottiva tutti i suoi figli, o in quella degli antichi Padri della Chiesa che «facevano prigioniero ogni pensiero per Cristo». La roccia si sgretola; dall’interno e dal fondo nasce ribellione. In termini clinici, questa policentricità verrebbe condannata come frammentazione schizoide, dimostrazione dell’ambivalenza di un centro che non tiene più. Ma in termini mitici potremmo cercare un Dio nella malattia, forse Ermes-Mercurio, oppure il Briccone. Perché la policentricità schizoide non è solo una malattia, bensì anche uno stile di coscienza; e questo stile prospera nella pluralità dei significati, nel discorso enigmatico e ambiguo, nell’evitare le definizioni, nel rifiuto di assumere posizioni eroiche e impegnate, nell’ambisessualità, nel distacco e nella separazione psichica delle parti corporee. Oppure, potremmo dare a questo stile di coscienza un altro nome clinico, cioè isteria. Allora potremmo andare in cerca di Dioniso e della sua comunità, in cui l’auto-divisione, lo smembramento e una fluida molteplicità fanno parte d’un modello mitico. Anche in questo caso, la coscienza non è eroica e localizzata, bensì diffusa, come per partecipazione mistica in una processione di personificazioni, mescolata, entusiasta, suggestionabile, labile. Sia essa schizoide e mercuriale oppure isterica e dionisiaca, nel suo interno 81

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operano modelli archetipici, Dei che agiscono sullo stile della nostra coscienza. ARCHETIPI O DEI?

Quando li consideriamo come Dei, gli archetipi personificati diventano qualcosa di più che inclinazioni costituzionali e forme istintuali di comportamento, qualcosa di più che strutture ordinatrici della psiche, fondamento delle sue immagini e organi vitali delle sue funzioni. Ora li riconosciamo come vere e proprie persone, ciascuna con suoi stili di coscienza o, nel linguaggio di Jung, «modi tipici di apprensione». Ciascuno di essi si presenta come uno spirito guida (spiritus rector) con posizioni etiche, reazioni istintuali, modi di pensiero e di parola, richieste di partecipazione emotiva. Queste persone governano i miei complessi e, attraverso di essi, la mia vita, la quale è la varietà dei miei rapporti con loro. Come persone, esse non differiscono dagli Dei, dagli eroi e dai demoni; è soltanto come concetti nelle astrazioni di una scienza che li possiamo distinguere dalle figure del mito e del culto. L’uomo inventa i concetti, essi sono i suoi strumenti per afferrare, classificare e smontare. Ma non inventa Dei e demoni, che possono essere anch’essi, in ultima istanza, come strutture di coscienza, all’origine di concetti. I concetti sono sostituibili, possiamo persino farne del tutto a meno, ma le persone archetipiche sono organi vitali, e «per l’archetipo non esiste alcun surrogato ‘razionale’, così come non esiste per il cervelletto o per i reni»). Essi sono altrettanto indispensabili per la vita della psiche quanto gli Dei lo sono per l’universo che tengono in vita. «Tutte le epoche che ci hanno preceduto hanno creduto in dèi aventi questa o quella forma. È stato necessario l’impoverimento senza precedenti del simbolismo per farci riscoprire gli dèi come fattori psichici, cioè come archetipi dell’inconscio». Ma oggi è precisamente lì che noi scopriamo gli Dei – nella psiche inconscia – e proprio perché si tratta di 83

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inconscio, siamo incapaci di distinguere gli Dei dagli archetipi o gli archetipi dagli eroi e dai demoni. Questo rende le nostre descrizioni degli archetipi necessariamente analoghe alle descrizioni classiche degli Dei, degli eroi e dei demoni. In ambedue i casi ci scontriamo con gli stessi interrogativi: Dove sono situati? È possibile conoscerli – e se sì con quali mezzi? E in che modo possiamo «dimostrare» la loro esistenza? Qual è la loro origine? Quanti sono? Sono ordinati secondo gerarchie e sottoclassi? Si trasformano, invecchiano, vivono la storia? Che tipo di «corpo» hanno? Con quale rapidità una psicologia degli archetipi finisce per somigliare a una mitologia di Dei! E com’è necessario parlare di ambedue in un linguaggio metaforico… Ogni volta che tentiamo di dare una definizione concettuale d’un Dio o d’un archetipo scopriamo che né l’uno né l’altro possono essere afferrati in modo soddisfacente con strumenti concettuali. In quanto princìpi metafisici essi eludono la nostra conoscenza. I greci imparavano a conoscere i loro Dei attraverso una mitologia non scritta. Noi impariamo a conoscere i nostri archetipi attraverso la psicologia vissuta. Gli uni e gli altri possono essere compresi meglio di tutto come persone. Oggi siamo talmente inconsci di queste persone che chiamiamo il loro regno l’inconscio. Un tempo essi erano il popolo dell’immaginazione, così come l’inconscio era una volta il regno immaginale della memoria. Ma ora non sappiamo distinguere tra fantasticheria arbitraria [fancy] e fantasia, tra immaginario, immaginativo e immaginale. E ci affanniamo inutilmente con la semantica concettuale dell’allegoria, della metafora, del modello, del paradigma, del simbolo. Esitanti tra delirio e profezia, tra visioni e illusioni, non riusciamo a discriminare le apparizioni le une dalle altre. I testi di retorica e di psichiatria contengono, è vero, definizioni di questi aspetti dell’immaginale, ma le definizioni non hanno segnato la tela dell’esperienza in cui questi eventi immaginali restano intessuti saldamente. Quello che un tempo era chiarissimo ai neoplatonici, agli 86

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gnostici, ai cabbalisti e agli alchimisti – e fors’anche al comune credente, col suo mondo di immagini e il suo calendario di santi – ciascuno dei quali disponeva di sistemi assai complessi per distinguere le persone dell’immaginale e discernere gli spiriti, quel sapere ci è ormai sconosciuto. Naturale, perciò, che gli Dei della mitologia divengano «fattori psichici» e gli archetipi della psicologia Dei mitologici. Ci troviamo a non saper cogliere le differenze tra le varie specie di navigazioni immaginarie. Non sappiamo distinguere e suddividere i pesci tirati a riva dagli avventurieri odierni. Come classificare gli abitanti delle profondità dell’anima? E questi avventurieri – sono i poeti visionari della nuova età dell’Acquario oppure dei drogati? Stanno esplorando o annegando nelle profondità di un’immaginazione mai percorsa prima – o forse annegano solo quando un suono di voci umane li ridesta? È così che apparirebbero oggi gli intrepidi Cortés e Cook, impegnati a tracciare mappe d’un mondo inesplorato di geografia interiore, d’una Atlantide sommersa? E perché le relazioni di questi viaggiatori nostri contemporanei sono sempre redatte nel linguaggio della «somiglianza» e non, invece, in quello del biologo marino, coi suoi sistemi linneiani di nomi, di misurazioni, di comportamenti? Essi riportano dai loro viaggi un linguaggio trasformato dal mare: ora parlano per analogie, per metafore, descrivono quel mondo col linguaggio dell’«è come». Sono forse stati con le sirene, vittime d’una allucinazione, perché la loro è stata una visione privata, che nessun altro ha visto, non prevedibile, né ripetibile a volontà, riservata solo a me? Ma che cos’è, infine, quest’idea del «solo a me»? Perché l’idea della realtà deve necessariamente essere correlata con la pubblica ripetibilità e sottomessa al controllo d’un io che esprime il potere della volontà; e che cosa sono le allucinazioni? Forse è un dare troppa fede e troppa realtà alle immagini, o forse invece è non dargliene abbastanza, costringendole a imporci a forza la loro realtà? Se non abbiamo fede in esse, allora

l’immagine spontanea, la visione incomparabile, la voce sommessa – quei lucignoli a cui s’afferra la fiamma di ogni vita individuale – ci sembreranno sempre delle fantasie inattendibili. Abbiamo bisogno d’un io immaginale che si senta a proprio agio nel regno immaginale, d’un io che possa intraprendere il compito principale oggi di fronte alla psicologia: la differenziazione dell’immaginale mediante la scoperta delle sue leggi, delle sue configurazioni e atteggiamenti di discorso e delle sue necessità psicologiche. Fino a quando non conosceremo queste leggi e queste necessità continueremo a dire che le attività immaginali sono «patologia», condannando in tal modo l’immaginazione alla malattia e le sue persone a manifestarsi quasi esclusivamente attraverso fenomeni patologici. D’altra parte, il fondamentale lavoro psicologico di differenziazione dell’immaginale può cominciare solo se lasciamo che quest’ultimo parli così come esso appare, e cioè personizzato. Quindi la personizzazione è, nello stesso tempo, un modo per fare esperienza psicologica e un metodo per afferrare e ordinare questa esperienza. LE DISCIPLINE MODERNE DELL’IMMAGINAZIONE

Lo sforzo per differenziare l’immaginale in epoca moderna ha inizio nel 1916 con l’«immaginazione attiva», il metodo ideato da Jung per impegnare le persone della psiche in un dialogo diretto. Da allora, altri in psicoterapia hanno seguito questa strada: basta pensare alle tecniche messe a punto da Desoille, Leuner, Assagioli e Gerard, e all’approccio al sogno della psicologia della Gestalt. Il merito di tali discipline sta nel fatto che esse incoraggiano l’esplorazione del mondo interiore e riconoscono l’esistenza delle nostre molte parti. Tuttavia, il punto da chiarire in tutti i metodi che promuovono una presa di contatto diretta con l’immaginazione è: Chi sta eseguendo l’attività? Se ad agire è la personalità dell’io col suo abituale atteggiamento, allora 89

si tratta di un’intrusione, che non può che turbare l’autonomia del campo in cui avviene. Le figure della psiche immaginale vengono costrette a reazioni conformi ai bisogni e ai modelli dell’io, a reazioni incentrate sull’io. Esse perdono così la loro autonomia, ovvero possono manifestarla soltanto scomparendo. Ercole, quando discese agli Inferi, costrinse il dio Ade a fuggire dal suo trono dopo avergli inflitto una ferita alla spalla. L’eroe penetrò nel regno delle ombre per prendervi qualcosa, e mentre si trovava laggiù, lottò, sguainò la spada, trucidò e fu perplesso sulla realtà delle immagini. Ciascuno di noi ha la tendenza a diventare Ercole nell’io allorché entra in contatto con le figure immaginali. La psicologia della Gestalt sembra aggirare questo ostacolo avvicinando tutte le figure attraverso l’empatia. Si penetra empaticamente in ciascuna persona e scena d’un sogno o d’una fantasia e si arriva a riconoscere che sì, anche questo è nostro. Identificandomi con i loro sentimenti, io li faccio miei, sicché posso attribuire senz’altro all’io le immagini autonome che non sono mie. Ma anche se questo approccio ci aiuta a superare la paura delle immagini e il nostro senso di estraniamento da esse, il suo scopo finale rimane pur sempre il loro depotenziamento e il rafforzamento dell’io e dei suoi sentimenti. Altri approcci offrono di solito un sistema per esplorare il «mondo interno». Vi sono discese nelle caverne o ritorni alle scene dell’infanzia, una guida interna con soste prestabilite durante il viaggio, modi per superare blocchi e shock, e il calmo consiglio del terapeuta che conosce il posto per esservi già stato. Questa via ci rinchiude di nuovo entro la posizione autoritaria, sia pure garbata e raffinata, tipica delle discipline spirituali. Torniamo ad essere prigionieri d’un io fatto di volontà e di ragione, che dall’alto d’una visuale superiore impone alla psiche un programma e governa e guida l’esperienza immaginale. Il fine è la realizzazione non tanto delle immagini (come, ad esempio, nell’arte) quanto piuttosto della personalità che esegue

l’esercizio, cioè l’io. L’importanza che la terapia attribuisce all’addestramento della personalità mediante il confronto diretto con le sue immagini è un modo preconcetto di accostarsi all’immaginale. L’idea stessa che l’immaginazione sia una giungla selvaggia e paurosa o una sorta di manicomio che solo una mano ben addestrata può tenere in ordine ci costringe in una fantasia eroica, così come l’idea che l’immaginazione sia un mistero profondo e irrazionale che richiede sagaci consigli ci situa nella fantasia del vecchio saggio. Il nostro approccio all’immaginazione è perciò determinato già dall’idea che abbiamo di essa. Le discipline dell’immaginazione si trasformano in strumenti per disciplinare le immagini. Senza neppure accorgercene, assumiamo già in partenza un atteggiamento prevenuto nei confronti del mondo nel quale vorremmo entrare. Così, l’immaginazione attiva si perverte in controllo della mente e ottiene conoscenza, forza e saggezza a spese delle immagini dell’anima. Il mio grido di protesta contro questi metodi non sarà mai troppo forte. In essi si annida l’abuso della prima libertà dell’anima: la libertà di immaginare. È questa la fonte della nostra peculiare individualità e della nostra arte, della nostra scienza e della nostra cultura. L’autonomia della fantasia è l’ultimo rifugio della dignità dell’anima, la sua garante contro tutte le oppressioni, l’unica cosa che possiamo portar con noi nelle baracche dietro il filo spinato. Se siamo disposti ad accettare dei controlli interni sull’immaginazione, significa che ci siamo già arresi nell’anima a quello stesso autoritarismo che vorrebbe dominare la vita pubblica. Il nesso tra la sottomissione alla manipolazione tecnica dell’immaginazione e la sottomissione ai controlli esterni è sottile, ma reale. I sistemi di meditazione trascendentale, le idee skinneriane di controllo e la Siberia sono molto più vicini tra loro di quanto non ci si renda conto, e si fanno più vicini a ciascuno di noi allorché trascuriamo l’importanza della libertà e della dignità della

fantasia. Noi pecchiamo contro l’immaginazione ogni volta che interroghiamo un’immagine per conoscerne il significato, pretendendo che le immagini siano tradotte in concetti. Il serpente attorcigliato nell’angolo non può essere tradotto nella mia paura, nella mia sessualità o nel mio complesso materno senza venirne ucciso. Quando ascoltiamo della musica, tocchiamo una scultura o leggiamo un racconto non lo facciamo per ricavarne un significato, ma per amore dell’immaginazione. Può darsi che l’arte nasconda in sé molta ignoranza psicologica, ma almeno non chiede alle immagini quale sia il loro significato. Le interpretazioni o anche solo le amplificazioni delle immagini, ivi compreso l’intero armamentario dei dizionari di simboli e di paralleli etnologici, diventano fin troppo spesso strumenti di allegoria. Invece di ravvivare l’immaginazione mettendo in relazione il nostro intelletto concettuale con le immagini dei sogni e delle fantasie, esse preferiscono all’immagine il suo commento o il suo riassunto. E queste interpretazioni dimenticano di essere loro stesse fantasie indotte dall’immagine, non più significative dell’immagine stessa. La disciplina dell’immaginazione non deve diventare un programma per l’immaginazione. Gli psicologi alchemici lavoravano con intensa disciplina e devozione etica alla loro opera, avvalendosi di formule accurate e perseguendo intenti elevati. E tuttavia, l’intera operazione alchemica è contrassegnata da libertà e diversità, con ampio spazio per il bizzarro e l’eretico. Ciascun alchimista lavorava con le sue immagini e a modo suo, e nessuno si sarebbe sognato di credere che il segno distintivo di un’operazione ben riuscita fosse la sua ripetibilità e conformità. Dagli psicologi alchemici impariamo a lasciare che le immagini operino sullo sperimentatore; impariamo a divenire noi stessi l’oggetto dell’opera, o addirittura un oggetto, o un’immagine oggettivata, dell’immaginazione. Si tratta perciò non tanto di una questione di programma quanto piuttosto di un atteggiamento, di un abbandonarsi

alle immagini e coltivarle per quello che sono. Il regno immaginale ha vie d’esplorazione sue proprie, che hanno inizio con qualunque cosa venga alla mente – qualsiasi fantasia o immagine – ed è assai simile in questo all’alchimia, che parte da una prima materia chiamata con almeno sessanta nomi diversi. E poiché può partire da un punto qualsiasi, può anche interrompersi in un punto qualsiasi. La fantasia non ha bisogno di raggiungere una meta. Essa si sottrae alle istruzioni precise delle discipline spirituali, che impongono intensa concentrazione, scelte in funzione di mete preordinate, impegno morale ed esercizi fortificanti. Nella prospettiva dell’anima, questo tipo di approccio può essere definito un errore spirituale, che s’avvale di discipline religiose o meditative come modelli per lavorare con le immagini. Il lavoro della fantasia, più che alla contemplazione e allo yoga, è vicino alle arti, allo scrivere, al dipingere e al far musica. L’attività immaginativa è insieme gioco e lavoro, un penetrare ed essere penetrati, e a mano a mano che le immagini acquistano sostanza e indipendenza, la forza e l’autocrazia dell’io tendono a dissolversi. Ma la dissoluzione dell’io non vuol dire disordine, giacché tutta la fantasia è guidata da un più profondo ordine archetipico. Del resto, l’ordine stesso dell’io è fondato sui princìpi archetipici del mito dell’eroe. Questi princìpi dell’immaginazione, che ne redigono le leggi sulla base di persone, temi e modelli mitici, elementi basilari, qualità e direzioni spaziali, sono stati descritti da Jung, da Gaston Bachelard e, più di recente, da Gilbert Durand e dalla sua scuola, nelle loro opere sulle tematiche dell’immaginazione. Essi hanno iniziato a tracciare mappe della archetipologia naturale dell’immaginale. L’esplorazione del mondo psichico interno ci stimola a diventare naturalisti dell’immagine o ritrattisti di angeli e di animali, a distinguere i vari complessi, le loro caratteristiche e i loro comportamenti e a discernere tra i componenti del piccolo popolo. Tuttavia, non si tratta di disegnare carte e mappe dei cieli o di terre selvagge in vista di una futura 90

colonizzazione, giacché le distinzioni che un giorno risaltano nitidamente possono, il giorno dopo, scomparire nel sottobosco o nascondersi dietro a una nuvola. Il fatto straordinario dell’immaginazione è appunto la sua straordinarietà; per quanto la si possa conoscere, essa mantiene inalterata la sua capacità di sorprendere, di sconvolgere, di colmare d’orrore o di esplodere in una bellezza incantevole. Le distinzioni che facciamo nell’esplorarla non possono mai essere fatte da postazioni già note; anzi, l’esperienza stessa dell’immaginazione abbatte queste postazioni. La miglior prova di autenticità per le nostre discipline di esplorazione dell’immaginale è il disagio che coglie l’io abituale e la sua incapacità di identificarsi con le immagini. Queste debbono essere straniere anche ove siano familiari, sconosciute ancorché amanti, arcane anche se a esse ci affidiamo. Debbono avere piena autonomia; l’io penetra nel loro regno dapprima come inseguitore furtivo, poi come allievo, e infine come manutentore dell’edificio, per qualche piccola modifica di assestamento, qualche riparazione, per ricaricare le caldaie e assicurarsi che ci sia sempre caldo. Avere questo rapporto con le immagini significa dar loro pieno credito; significa restaurare gli idoli caduti e le icone spezzate che riforme e controriforme hanno ridotto a pallide sembianze di nomi un tempo sacri. Tuttavia, la restaurazione dell’immagine non significa ripristino letterale dell’idolatria, bensì un riportare l’immagine entro il campo visivo – non tanto in quello che vediamo quanto piuttosto nel modo in cui lo vediamo. Significa portare in tutto ciò che vediamo la prospettiva immaginale, la fantasia. Allora ogni cosa viene trasformata in immagini ricche di importanza, e alla luce di questo mutamento possiamo vedere in modo diverso anche noi stessi; vedere, cioè, che anche noi siamo fondamentalmente una composizione di immagini e che la nostra persona è la personificazione della loro vita nell’anima. Una volta incamminati in questa direzione, dobbiamo 91

subito fare i conti con un primo ostacolo di ordine psicologico. Possiamo esplorare ben poco dell’immaginale fino a che non abbiamo superato il nostro egocentrismo, quell’Io maiuscolo che appare nel monoteismo della coscienza (Jung), nella scienza e nella metafisica monoteistiche e nella causa prima di tutto: il monoteismo dell’umanesimo cristiano con la sua tolleranza solo per un’unica, irripetibile personificazione storica del divino. La psiche egocentrica con il suo unico occhio fisso su ciò che è interezza e unità può forse ammettere a denti stretti la personificazione come operazione retorica, ma in nessun caso può concedere che il regno immaginale e le sue persone siano presenze reali e potenze vere. Siamo perciò costretti a trarre qualche insegnamento dalla psicopatologia e a trattare le persone immaginali altrettanto seriamente (se non con altrettanta letteralità) quanto colui che parla con i propri deliri e la propria allucinazione. In tal caso la nostra idea della personizzazione arriverebbe a includere le sue piene implicazioni «patologiche». Questo significa né più né meno che detronizzare la fantasia che ora ci domina facendoci vedere il mondo come qualcosa di fondamentalmente unitario, facendoci credere che il vero significato, la vera bellezza e verità presuppongono una visione unificata. Significa, inoltre, abbandonare l’idea di personalità come, in ultima istanza, unità del sé. In tal caso, invece di sforzarci di curare la frammentazione patologica ovunque essa si presenti, lasceremmo che fosse il contenuto di questa fantasia a curare la coscienza della sua ossessione per l’unità. Una volta che il punto di vista pluralistico delle «psichi scisse» fosse assorbito nella nostra coscienza, si creerebbe un nuovo rapporto con la molteplicità, e non saremmo più obbligati a chiamarla sconnessa frammentazione schizoide. La coscienza, e la nostra nozione di essa, rifletterebbero una visione del mondo non più unitaria, ma variata e mutevole. Non solo muterebbero le nostre idee psicologiche sul sé, sulla coscienza e su Dio stesso; non solo la precisa 92

distinzione delle qualità soppianterebbe la misurazione delle quantità come metodo di conoscenza psicologica; ma noi stessi ci scopriremmo non più soli nella nostra soggettività. Il nostro concetto possessivo di «ciò che è proprio», quello privatizzante di privacy – il sé privato – e il concetto stesso dell’unità come base della fantasia di noi stessi, non offrirebbero più il modello sul quale è edificata la nostra casa di frammenti. Tutto se ne andrebbe via insieme: unità e unicità, identità, integrazione e integrità intesa come semplicità, nonché l’individualità intesa come essere indivisi. Venendo meno il dominio della fantasia unitaria, cesserebbe anche la sua emozione dominante: la solitudine. Perché la casa nella quale veramente abita la psiche è un insieme di corridoi intercomunicanti, di vari livelli, con finestre ovunque e con ampie aggiunte perennemente «in costruzione» e improvvisi angoli ciechi e fori nell’impiantito; e questa casa è già piena di abitanti, di altre voci in altre stanze, che riflettono la natura viva e rimandano nuovamente l’eco del Grande Dio Pan vivente, un panteismo riacceso dalla convinta accettazione da parte della psiche delle proprie immagini personificate. Qui c’è spazio per accogliere l’immigrazione di massa, la resurrezione del rimosso, mentre Angeli e Arconti, Demoni e Ninfe, Potenze e Sostanze, Virtù e Vizi, liberati dalle riserve mentali che imprigionano queste primitività e dalle carceri concettuali delle descrizioni a lettere minuscole, ora ritornano per entrare di nuovo nel commercio della nostra vita quotidiana. ANIMA

Questa visione può essere attuata [enacted] solo se accettiamo l’assoluta realtà delle persone archetipiche. Per fare esperienza della realtà immaginale è necessario che sia attiva una funzione psichica, cioè la specifica funzione dell’anima immaginativa. Questa persona dell’anima è la persona dei nostri umori, delle nostre autoriflessioni e fantasticherie, del nostro sensuoso tendere a ciò che va oltre

il sensatamente concreto, è colei che svolge il filo della fantasia, la personificazione di tutte le facoltà psichiche ignote ancora in attesa, che con la loro enigmatica seduzione ci attirano entro l’oscurità della foresta intatta e nelle profondità sottomarine. Anima significa sia psiche sia anima, e noi l’incontriamo nelle sue numerose incarnazioni come anima delle acque senza le quali inaridiremmo, come anima della vegetazione che inverdisce la nostra speranza o colpisce con la lebbra dei sintomi, come Signora degli Animali che cavalca le nostre passioni. Essa è figlia del padre e figlia della madre e mia sorella e mia anima. Ed è anche il succubo tormentoso che succhia la nostra linfa vitale, un’unghiuta arpia, un freddo e bianco spettro dalle insane manie – ma in pari tempo una nutrice, un’ancella, una ninfetta Cenerentola, incerta e priva di storia, una tabula rasa in attesa della parola. Ed è anche la Sofia della sapienza, la Maria della compassione, la Persefone della distruzione, l’irresistibile Necessità e Moira e la Musa. La molteplicità delle sue forme nelle finzioni narrative e nella vita e la realtà intensamente personificata e intensamente soggettivizzata della sua natura rivelano un mondo nel quale essa ci chiama e sul quale essa regna. Vico, Cassirer e Otto hanno collegato la personizzazione col modo mitico, Dilthey e Unamuno con la comprensione e con l’amore. Lou Salomé ha personificato queste idee per Freud, e Jung ha dichiarato specificamente che l’anima è la personificazione dell’inconscio. Sotto quest’ultima forma, l’anima ha una serie di significati. Innanzitutto (a) essa è la personificazione della nostra incoscienza – le nostre stupidità, le nostre follie, i nostri problemi intrattabili. Poi (b) essa è una personificazione specifica che compare in un dato momento – ragazza squillo, commessa, studentessa – e che presenta un’immagine precisa delle emozioni esistenti in quel momento nell’anima. Essa è anche (c) il sentimento di interiorità personale. Trasformando gli eventi in esperienze che significano «me», mi dà il senso di avere una vita 93

interiore. Essa rende possibile il fondamento interno della fede in me stesso come persona, instillando la convinzione che quanto accade ha valore per l’anima e che l’esistenza individuale è personale e importante. Essa, perciò, (d) personalizza l’esistenza. L’anima, inoltre, è (e) la persona per mezzo della quale veniamo iniziati alla comprensione immaginale, la persona che rende possibile fare esperienza attraverso le immagini, poiché incarna l’attività riflessiva, reattiva e speculare della coscienza. Sotto il profilo funzionale, l’anima opera come il complesso che mette in rapporto la nostra usuale coscienza con l’immaginazione, stimolando il desiderio o incupendoci con fantasie e fantasticherie, oppure rendendo più profonda la nostra riflessione. Essa, in quanto personifica l’immaginazione dell’anima, è in pari tempo il ponte verso l’immaginale e l’altra sponda. L’anima è psiche personificata, così come Psiche, nell’antica storia narrata da Apuleio, personificava l’anima. Il movimento che conduce nell’esistenza psicologica procede dunque, in una forma o nell’altra, attraverso di lei. Il movimento che dal mondo sistematicamente ordinato dei concetti e delle cose morte conduce dentro una coscienza animistica, soggettiva e mitica, in cui la fantasia è viva in un mondo anch’esso vivo e significa «me», questo movimento segue l’anima. Essa insegna la personizzazione, e la sua primissima lezione concerne la realtà della sua personalità indipendente in contrasto con i modi abituali di fare esperienza, modi con i quali a tal punto ci identifichiamo che li chiamiamo «io». La seconda lezione è l’amore: essa torna in vita attraverso l’amore e gli rimane ostinatamente legata, proprio come Psiche nell’antica favola è per sempre la sposa di Eros. Ma forse l’amore viene prima. Forse, soltanto attraverso l’amore possiamo riconoscere la persona dell’anima. E questo legame tra amore e psiche significa amore per tutto ciò che è psicologico, per ogni sintomo o abitudine, significa trovargli posto nel cuore dell’immaginazione, trovare una 94

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persona mitica che ne è sostegno e fondamento. Il legame tra amore e psiche significa altresì guardare con occhio psicologico tutte le manifestazioni dell’amore – capire che tutte le sue brame folli e distorte sono in definitiva una ricerca del rapporto con la psiche. Sia che concepiamo questa persona interiore come Anima o come un Angelo, un Demone, un Genio o un Paredros, oppure come una delle anime personificate delle tradizioni dell’antica Cina e dell’antico Egitto, questa figura è indispensabile alla nozione di personalità umana. Alcune tradizioni, anzi, hanno asserito che un individuo privo della sua figura d’anima non è un essere umano. È uno che ha perduto anima. DEPERSONALIZZAZIONE

In termini clinici, la perdita dell’anima viene chiamata «depersonalizzazione», condizione in cui il «coefficiente personale» che sta dietro l’io e il suo rapporto con il sé e il mondo risultano d’un tratto assenti. Tutte le specifiche funzioni della coscienza dell’io operano come prima; le funzioni dell’associazione, del ricordo, della percezione, del sentimento e del pensiero rimangono intatte. Ma il proprio convincimento di essere persona e il senso della realtà del mondo sono scomparsi. Ogni cosa, compresi noi stessi, diviene automatica, irreale, svuotata. Il senso di quella che potremmo chiamare «meità», dell’importanza emotiva, si dissolve e il mondo appare come al di là di un vetro; la prospettiva della profondità sembra non funzionare più mentre il vicino e il lontano si fondono in un’unica distesa piatta. La depersonalizzazione non è specifica di alcune date condizioni psichiatriche. Essa compare nelle malattie organiche del cervello e negli stati tossici, nell’epilessia, nella melanconia e nell’isteria; nelle psicosi schizofreniche e maniaco-depressive, nelle nevrosi, e colpisce anche gli esseri umani normali. Può avere un decorso di pochi attimi o 96

perdurare come disturbo cronico; può verificarsi nella pubertà o in vecchiaia. La depersonalizzazione non appartiene a una sindrome ma a una persona – ovvero, all’assenza del senso di essere persona. Come prevedibile, lo stesso termine «depersonalizzazione» indica una «filosofia dell’universo, che non considera più le forze naturali come manifestazioni di agenti sovrannaturali o di Dei». Così come la stessa parola vale per ambedue i mondi, «dentro di noi» e «là fuori», parimenti uno stesso fattore, l’anima, anima il mondo (animismo) e dà il senso della personalità, trasformando gli eventi in esperienze che significano «me». La depersonalizzazione clinica, infatti, dimostra che, perché sia possibile avere esperienza della realtà del sé e del mondo, deve entrare in gioco un fattore diverso dall’io, un cosiddetto «coefficiente personale». Ecco la descrizione che ne dà Jung: 97

«l’anima è un fattore nel vero senso della parola. L’uomo non può farla; al contrario, essa è sempre l’elemento a priori dei suoi umori, delle sue reazioni e impulsi e di tutto ciò che vi è di spontaneo nella vita psichica. È qualcosa che ha una vita propria e che ci fa vivere; è la vita che è dietro la coscienza e che non può essere completamente integrata con la coscienza, la quale, anzi, proprio da lei ha origine». 98

L’anima non è qui una proiezione bensì il proiettore. La nostra coscienza è il risultato della sua preesistente vita psichica. L’anima diviene perciò la portatrice primordiale di psiche, l’archetipo della psiche stessa e il fattore cruciale della vocazione psicologica e di ogni psicologia che voglia fondarsi sulla psiche così come viene realmente sperimentata. L’essenza del suo lavoro in quanto «fattore» consiste nel suo fare persone. L’anima fa immagini in forma personificata; il coefficiente personale opera spontaneamente attraverso i sentimenti personali e le immagini personificate. Ciò è stato da tempo riconosciuto, al

negativo, dalla nostra tradizione di ostilità all’immaginale e alla personizzazione, che si è sforzata di tenere sotto controllo la spontaneità e il naturale politeismo dell’anima controllando l’uso delle immagini. I Padri della Chiesa, ad esempio, riuniti nel 787 nel secondo Concilio di Nicea, dichiararono che «la composizione delle immagini religiose non va lasciata all’iniziativa degli artisti, ma deve conformarsi ai princìpi enunciati dalla Chiesa Cattolica e dalla tradizione religiosa». I pittori dovevano essere dei semplici tecnici e seguire le istruzioni dei funzionari della chiesa circa il soggetto, la scelta e la disposizione delle immagini. Questo metodo rimase valido in via di principio e in generale per vari secoli. Ma, come è stato osservato dallo storico dell’arte E.H. Gombrich, l’anima, questa subdola signora, sgusciò tra le mani dei suoi carcerieri. Le immagini personificate continuarono ad apparire. 99

«… Noi di solito non vi badiamo neppure, mentre dovremmo essere incuriositi da questa straordinaria popolazione, in prevalenza femminile, che ci accoglie dai portici delle cattedrali, affolla i monumenti pubblici, contrassegna le nostre monete e le nostre banconote e fa la sua comparsa fin nei nostri fumetti e nei nostri cartelloni pubblicitari; queste figure femminili variamente abbigliate diventavano vive, naturalmente, nel teatro medievale; esse salutavano il Principe al suo ingresso in una città, venivano invocate in innumerevoli discorsi, litigavano o si abbracciavano in interminabili poemi epici dove lottavano per l’anima dell’eroe o per dare il via all’azione…». 100

La signora continuò le sue comparse in pubblico negli stupendi personaggi d’invenzione dei romanzi, nei nudi della pittura e nei ritratti del bel mondo, nel teatro; qualcosa del suo fascino ancora traluce nei film. Ma ora i nostri romanzi si sono spopolati, i nostri monumenti e le nostre tele sono astrazioni e i nostri edifici sono stati spogliati delle loro

sculture. Persino la pornografia ha sostituito l’eccitante immagine personificata con inquadrature di organi depersonalizzati. Se la personizzazione ha un’importanza così basilare per il nostro amore e per la nostra comprensione, ed è in un rapporto così stretto con l’anima nonché con l’esperienza della vitalità e della realtà nostre e del mondo, dove possiamo scoprirla in atto oggi nella nostra vita? Dove sono gli angeli e i demoni e le configurazioni archetipiche, ora che a queste persone è stato negato l’accesso al mondo teologico, a quello naturale e a quello psicologico? Ovviamente, queste persone scomparse le possiamo trovare nella psicopatologia dove, per quanto identificate con la malattia, sono se non altro riconosciute come autentiche. Ma oggi la personizzazione si trova soprattutto nella cosiddetta personalizzazione – nell’enorme importanza data alla vita personale – che, forse, è una malattia travestita da salute. Bandita dalla coscienza, la personizzazione ritorna di soppiatto come personalizzazione. Un assioma della psicologia del profondo dice che quello che respingiamo dalla nostra consapevolezza fa irruzione in modi crudi, ossessivi e letteralistici, influenzando la coscienza con quelle stesse qualità che essa si sforza di tenere lontane. La personizzazione che non è accolta come visione metaforica ritorna in forma concreta: ci attacchiamo alla gente, ci afferriamo alle altre persone. Esse vengono investite di immagini rimosse, talché crescono d’importanza, vengono idealizzate e idolizzate, e la psiche si trova a subire il fascino di questi individui concreti, a essere come incollata ad essi senza scampo, molto più di quanto non lo sarebbe stata con le persone metaforiche che stanno alla radice della proiezione sulla gente. Senza persone metaforiche, siamo costretti ad aggrapparci disperatamente ai letteralismi. Siamo così più ossessivamente asserviti alle forme sublimate della cultura che non alle stesse metafore originali. Viviamo il sesso in modi più pornografici della nostra stessa sessualità, siamo dominati da una visione del

potere che è più aggressiva della nostra stessa ambizione, siamo più affamati e condizionati di quel che non richiedano i nostri bisogni, vittimizzati con più masochismo di quanto non esigano le nostre sofferenze. I letteralismi in cui costringiamo le nostre pulsioni ci legano più solidamente delle pulsioni stesse. Il letteralismo ossessivo della nostra fede negli altri ci vincola più strettamente d’ogni totem o feticcio personificato. Come fanno presto gli altri a diventare angeli o demoni, ninfe o eroi! Quanto ci attendiamo da loro, e quanto ci deludono! Altri portano la nostra anima, altri diventano la nostra figura d’anima, fino a giungere a estremi tali che senza questi idoli cadiamo nella disperazione della solitudine e cerchiamo scampo nel suicidio. Gli altri, così usati da noi per restare vivi, prendono gradatamente il posto dei feticci e dei totem e diventano i veri e propri reggitori della nostra vita. Il culto del personale ha fatto dei rapporti personali il luogo in cui, così asserisce la nuova teologia, si può scoprire il divino. Quella stessa condizione dalla quale la moderna coscienza razionale vorrebbe distoglierci, cioè la personizzazione, ritorna nei nostri rapporti e crea un mondo animistico di idoli personificati. È naturale per ciò che, gravati di un peso archetipico, questi rapporti finiscano per rompersi, che richiedano una costante attenzione propiziatoria; è naturale che ci si rivolga ai sacerdoti di questo culto (analisti e consulenti specializzati) perché ci istruiscano sul giusto rituale da seguire nel rapporto con le persone. Queste ultime, infatti, non sono più dei semplici esseri umani; la loro deificazione le ha disumanizzate. I nostri fine settimana dedicati agli incontri, le nostre sedute di gruppo e le esercitazioni collettive per stimolare la sensibilità, sono fenomeni religiosi: sono la testimonianza che il luogo ove ora risiedono le persone divine sono gli esseri umani. Noi accettiamo senza discutere il luogo comune secondo cui la personizzazione è patologica, e poiché cerchiamo la redenzione nelle persone, finiamo per distruggere le nostre amicizie, i nostri matrimoni, i nostri amori e le nostre

famiglie. Cerchiamo la salvezza negli incontri personali, nei rapporti personali, nelle soluzioni personali. Le persone umane sono i templi e le statue in cui oggi abita la personizzazione. Il cenno di approvazione del vicino è un cenno divino. Il nostro culto adora o propizia persone concrete – la famiglia, la persona amata, la cerchia degli amici – e intanto ignora le persone della psiche che compongono l’anima e da cui essa dipende. Il culto del personale appare persino in filosofia, sotto il nome di «personalismo», emerso come forza intellettuale quando cominciò a declinare la personizzazione. Esso divenne basilare per tutti quei filosofi che ponevano la persona come supremo fondamento dell’essere, e vide la sua massima fioritura come fantasia filosofica nella coscienza postkantiana e protestante della Germania, dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, mentre in Francia mise fuori un vigoroso ramo nutrito di pensiero cristiano. Emmanuel Mounier, il personalista francese (1905-1950), disse senza mezzi termini: «Il personale è il modo propriamente umano di esistenza». Il suo contemporaneo americano E.S. Brightman pose il principio personale ancor più in alto: «Il personalismo considera la personalità del sé come il primo e autentico principio che unisce e spiega ogni altro principio primo». Il personalismo è una protesta contro i nuovi modelli sociali, biologici e meccanici dell’uomo; è un grido di aiuto della psiche contro la schiacciante impersonalizzazione dell’universo. Ma le alienazioni di cui soffriamo non si risolvono semplicemente col ridare un’energia meta-fisica alla personalità individuale. Il mondo là fuori, così come la mia vita interiore, resta depersonizzato fino a che non sia reso di nuovo vivo dal modo personizzato della coscienza mitica. Il personale può anche essere il principio primo e il modo più propriamente umano d’esistenza, in quanto esprimente l’anima personificata, ma il convincimento che le cose stiano proprio così non dipende da una posizione metafisica bensì da un fattore psicologico, l’anima, cioè dallo 101

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stato dell’anima stessa. Il culto della persona che la psicologia celebra in ognuna delle sue attuali manifestazioni – sviluppo della personalità, test della personalità, psicodinamica personale, ricerche sulle differenze e sulle opinioni personali e il fascino che esse esercitano come argomenti di ricerca – si fonda su un letteralismo ideologico: il personalismo. La psicologia ha preso la metafora della personizzazione e l’ha letteralizzata, facendone un’ontologia di persone. Noi abbiamo personalizzato l’anima, l’abbiamo spinta tutta quanta a forza dentro l’essere umano. La psicologia stessa è una parte di questo continuo ritrarsi dell’anima negli angusti confini della pelle umana. L’ultimo stadio di questo processo è la costrizione dell’anima entro il suo unico e più angusto spazio, l’io, e la conseguente dilatazione di questo «io» in quella inflazione chiamata «psicologia dell’io». Perché la psicologia dell’io è tutto ciò che oggi rimane alle nostre anime; si tratti di io corporeo, di io del sentimento o di io che si individua, la psicologia è tutta presa dal ‘fare io’ e non dal fare anima. Il campo che è dedicato fin nel nome alla psiche dissipa le sue risorse per rafforzare e sviluppare un fantasma che può in ogni momento cader preda della depersonalizzazione. Identificando l’anima e il lavoro psicologico con l’io soggettivo e con i suoi scopi, la psicologia diviene satanica. Perché proprio in questa identificazione dell’anima o della personalità con il soggetto che fa esperienza si trova, secondo lo psicologo visionario William Blake, la via di Satana. L’«io» [I] ha la sua funzione, espressa dall’iniziale maiuscola. Questa maiuscola è legittima non perché l’io sia la principale persona della psiche, ma perché anch’esso ha una sua parte mitica da recitare nel teatro della psiche, come unica personificazione la cui prospettiva necessaria consiste nel considerarsi letteralmente reale. La caratteristica specifica di un io, e la sua specifica funzione, è quella di rappresentare la visione letterale: esso considera 103

reali se stesso e la propria visione. Il letteralismo è un punto di vista egoico, significa esser rinchiusi in un io. La psicologia egoica deriva dall’essere intrappolati dall’io nella sua prospettiva, sicché gli altri personaggi sulla scena sono visti soltanto come mie qualità particolari, mie proiezioni. Soltanto «io» sono letteralmente reale. Tuttavia, da questo letteralismo possono salvarci i nostri sintomi. Ed è per questo che abbiamo verso di loro un grande debito, e li tratteremo con particolare considerazione nel prossimo capitolo. I sintomi ci dicono che non possiamo mai rivendicare la proprietà degli eventi causati dal piccolo popolo della psiche. I sintomi ci ricordano l’autonomia dei complessi; essi rifiutarano di sottomettersi alla visione egoica d’una persona unificata. Inoltre, niente mi rende più certo della mia esistenza metaforica – cioè di essere anch’io una personificazione, la cui realtà poggia su qualcosa di diverso dalla mia volontà e dalla mia ragione – della depersonalizzazione, cioè del sintomo che mi dà il senso di essere automazione, oppure – come dice Platone – di essere nelle mani degli Dei. La prospettiva mitica verso me stesso e la mia esistenza può aver inizio direttamente in psicopatologia, con la dissoluzione della mia persona e di tutte le sue passioni ed esperienze personali. Essa non dipende da «me». Questo «me», anche nell’esperienza più profonda che posso farne, come se salisse dalle fondamenta stesse dell’essere, in apparenza così unico, così veramente mio, è in realtà assolutamente collettivo. Perché la psiche non è mia, e gli enunciati che esprimono la mia più profonda persona, ad esempio «ti amo», «ho paura», «prometto», sono degli universali collettivi il cui valore risiede proprio nella loro impersonalità, nel fatto che sono detti da ognuno e dovunque. In quanto universali collettivi, queste dichiarazioni sono personali in senso archetipico, non in senso letterale. Parlare della «mia» anima e della «mia» anima significa dar voce all’errore personalistico. Anche se queste 104

esperienze archetipiche del personale danno sale e sostanza alla mia personalità individuale, facendomi sentire che c’è veramente un’anima, questa «meità» non è mia. Prendere tali esperienze alla lettera come mie situa l’anima dentro di me e la rende mia. Quanto più profondamente archetipiche sono le mie esperienze dell’anima, tanto più riconosco come esse siano al di là di me e mi vengano offerte come un presente, un dono, anche quando mi appaiono come mia proprietà massimamente personale. Sotto il dominio dell’anima, il nostro sentimento d’anima ci fa sentire unici, speciali, predestinati – e tuttavia, paradossalmente, questo accade proprio quando la nostra individualità è più debole e la nostra collettività più forte. Perché tali esperienze derivano dall’archetipo del personale e ci fanno sentire nel medesimo istante archetipici e personali insieme. Possiamo riassumere quanto abbiamo detto con queste parole di Jung: «l’uomo deriva la sua personalità umana… la sua coscienza di se stesso come personalità… Dall’influenza di archetipi a carattere personale». L’anima rappresenta «la natura personale» di questi sistemi autonomi; essa è la loro anima e la nostra. Persino le dimensioni dell’«io» – il fatto che esso possa restringersi e dilatarsi fino a raggiungere le proporzioni cliniche che chiamiamo depressione e inflazione – sono un suo dono: è una grandeur che essa conferisce alla personalità quando questa è infusa d’anima. L’anima amplifica con la bellezza, con la natura e con il passato arcaico a noi lontano e straniero, e ancora, col pandemonio del fantastico. Ciò fa parte del suo ruolo archetipico. Quando l’anima è assente, noi avvizziamo – non più bellezza, né natura, né fantasia. Una volta depersonalizzati, il sapore svanisce e con esso la fragranza, e il sale che preserva dalla corruzione. Con la sua presenza immaginale, invece, nella quale io interpreto una parte, «si stabilisce una psicologia delle maiuscole». L’importanza cresce. Perciò, quando le voci ci parlano, la nostra grandeur aumenta. E si tratta di megalomania, di folie de grandeur, soltanto quando a «mio» 105

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viene dato un valore letterale, invece che il senso del «come se». A volte queste voci mandano un chiacchierio stridulo, ma il loro silenzio è peggiore. Irridono, denigrano, ammoniscono, e nondimeno è a me che si rivolgono, me che significano. Esse vengono a vivere nella mia casa – o non sono piuttosto io che vivo nella loro casa e vi fisso la mia dimora? Senza queste visitazioni del piccolo popolo, chi c’è che mi sostenga? In casa non c’è che l’«io». Per mezzo delle personificazioni il mio senso di persona diventa più vivido, poiché io porto continuamente con me la protezione dei miei daimones: le immagini dei defunti che ebbero importanza per me, delle figure ancestrali della mia stirpe, le persone famose della cultura e della storia e le persone delle favole che forniscono immagini esemplari – una moltitudine di protettori. Essi proteggono il mio destino, lo guidano, probabilmente sono il mio destino. «Forse, chissà!» scrive Jung «queste immagini eterne sono ciò che noi intendiamo per destino». Noi abbiamo bisogno di questo aiuto; chi può, infatti, reggere da solo il proprio destino? Il fattore primario – e fattore significa artefice – che mi introduce a queste immagini è l’anima. Da essa dipende la mia fede nella realtà del mondo esterno e la mia fede in me stesso in quanto persona. La realtà del mondo e del sé dipendono dalla fede che quest’anima ripone in me. Non si tratta più di decidere se io credo nell’anima, ma se l’anima crede in me, se mi concede la capacità di aver fede in lei, cioè nella realtà psichica. 108

LA FEDE PSICOLOGICA

Il lavoro del fare anima si preoccupa essenzialmente di evocare la fede psicologica, quella fede che nasce dalla psiche e che si rivela come fede nella realtà dell’anima. Giacché la psiche è innanzitutto immagine e l’immagine è sempre psiche, questa fede si manifesta nell’accettazione della realtà delle immagini: essa è «idolatra», eretica, per i monoteismi aniconici della metafisica e della teologia. La

fede psicologica comincia nell’amore delle immagini e fluisce soprattutto attraverso le forme delle persone presenti nelle fantasticherie, nelle fantasie, nelle riflessioni e immaginazioni. Quanto più esse acquistano vita, tanto più cresce in noi il convincimento di avere, e poi di essere, una realtà interiore dotata di un significato profondo e che trascende la nostra vita personale. La fede psicologica è riflessa in un io che dà credito alle immagini e si rivolge ad esse nella propria oscurità. La sua fiducia è riposta nell’immaginazione come sola realtà incontrovertibile, offerta in modo diretto e immediatamente sentita. La fiducia nell’immaginale e la fiducia nell’anima procedono mano nella mano, come hanno riconosciuto gli psicologi del profondo. Ma anche il contrario è vero: quando l’immaginazione non viene evocata, si ha una profonda sfiducia nella possibilità di immaginare fantasie connesse ai propri problemi e di liberarsi dalle letteralizzazioni dell’io, dal suo senso di essere intrappolato nella «realtà». La mancanza di fede psicologica è compensata da un’esagerata personalizzazione, da un bisogno fantastico di gente (e da un bisogno di persone fantastiche), di cui il transfert sull’analista è soltanto una manifestazione. Il fare anima, come lavoro sull’anima per mezzo delle immagini, offre una via per risolvere le dipendenze del transfert. Perché il compito di preservare la mia anima da ogni tradimento non spetta né all’analista né a nessun altro, ma soltanto alle persone archetipiche degli Dei verso i quali l’anima agisce come un ponte. Dare forma ai suoi umori amorfi, alle sue sulfuree passioni, ai suoi amari risentimenti, alle sue ribollenti frenesie, facendone delle personalità distinte è il principale lavoro dell’analisi terapeutica o fare anima. Essa, perciò, lavora nell’immaginazione, con l’immaginazione o per l’immaginazione. Porta alla luce una personalità e le dà forma rivelando e plasmando le personalità multiple dell’anima celate nella massa confusa primaria fatta di voci litigiose e di richieste assillanti. 109

Prima di occuparci di questa massa confusa dell’anima – che d’ora in avanti chiameremo psicopatologia – ritorniamo sulla principale intuizione di questo capitolo. La psicologia ha sempre l’opportunità di vedere in trasparenza le sue convenzioni e i suoi postulati principali. Essa può dirigere la riflessione psicologica su se stessa e così dissolvere la fede letterale nelle persone ripersonizzandole in metafore. A questo punto è possibile immaginare la personalità in un modo nuovo: io sono una persona impersonale, una metafora che attua una varietà di personificazioni, mimesi di quelle immagini del cuore che sono il mio destino; e quest’anima di cui io sono la proiezione ha profondità archetipiche remote da me, inumane e impersonali. La mia cosiddetta personalità è una persona attraverso cui parla l’anima. Essa può cadere nella depersonalizzazione e non è mia, bensì dipende totalmente dal dono della fede in me stesso; una fede nel mio valore come portatore di anima, che mi arriva attraverso l’anima. Non sono io che personifico, ma è l’anima che personizza me, ovvero l’anima fa anima di se stessa attraverso di me, dando alla mia vita il suo senso – il suo intenso fantasticare è la mia «meità» e l’«io» è un ricettacolo psichico la cui esistenza è una metafora psichica, un «essere come se», in cui ogni singolo convincimento è un letteralismo, tranne il convincimento dell’anima, la cui fede mi postula e mi rende possibile come personificazione della psiche.

II PATOLOGIZZAZIONE O DISGREGAZIONE

«Signore e Signori, so che conoscete l’importanza che ha il punto di partenza nei vostri personali rapporti, siano essi con persone o con cose. Così è stato anche per la psicoanalisi: per lo sviluppo che essa ha avuto e per l’accoglienza che ha trovato, non è stato indifferente che abbia iniziato il suo lavoro con lo studio del sintomo, della parte più estranea all’Io». FREUD

La nostra indagine si svolgerà ora in un’area, quella della psicopatologia, che è al centro dell’esperienza dell’anima. In questo capitolo cercheremo di capire perché gli eventi patologizzati abbiano una funzione così essenziale per l’anima e, di conseguenza, per ogni psicologia che si fondi sull’anima. Affronteremo le confusioni che circondano le sofferenze, i disturbi e i sintomi psichici nella speranza di riuscire ad accostarci alla tendenza patologizzante della psiche in modo nuovo, e così comprenderla da una diversa angolazione. In breve, tenteremo di avere della patologizzazione una visione psicologica. Il punto di partenza della nostra ricerca è nella principale tradizione della psicologia del profondo; infatti, come Freud nell’epigrafe di questo capitolo, anche noi cominciamo non con il familiare io, ma con il sintomo stravagante, incomprensibile e straniero, e come in tutta la psicologia del profondo, anche noi ricaviamo le nostre intuizioni su ciò che è familiare da ciò che è straniero e diverso, secondo il principio che Erik Erikson ha così riassunto: «La patografia resta la fonte tradizionale dell’intuizione psicoanalitica». 1

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Le intuizioni della psicologia del profondo derivano dalle anime in extremis, dalle condizioni malate, sofferenti, anormali e fantastiche della psiche. La nostra anima rivela psicopatologie in privato, a noi stessi, o in un rapporto intimo con un’altra persona, o addirittura in pubblico. Ogni anima, in questa o quella circostanza, manifesta illusioni e depressioni, idee sopravvalutate, fughe e collere maniacali, angosce, coazioni e perversioni. Forse la nostra psicopatologia è intimamente connessa con la nostra individualità, sicché la paura di essere ciò che realmente siamo deriva in parte dal fatto che temiamo l’aspetto psicopatologico dell’individualità. Perché siamo tutti quanti peculiari, abbiamo tutti quanti dei sintomi, e tutti quanti, benché animati di speranza e di buone intenzioni, conosciamo l’insuccesso, senza riuscire a capire dove abbiamo sbagliato e perché. Non siamo capaci di mettere le cose a posto, di comprendere ciò che sta accadendo, e non siamo compresi da coloro che tentano di farlo. La nostra mente, i nostri sentimenti, la volontà e i comportamenti abbandonano i percorsi normali. Le nostre intuizioni sono impotenti, quando non del tutto assenti. I sentimenti scompaiono nell’apatia, ci angustiamo e al tempo stesso siamo indifferenti. Da noi trasuda, per sue vie, la distruzione e non sappiamo redimere le fedi, le speranze e gli amori infranti. Lo studio delle biografie e la cura delle anime significano soprattutto un incontro prolungato con ciò che distrugge e che viene distrutto, con ciò che viene infranto e fa soffrire – cioè, con la psicopatologia. Tra le righe di ogni biografia, nei segni di ogni volto possiamo leggere una lotta con l’alcool, con la disperazione suicida, con una spaventosa angoscia, con lascive ossessioni sessuali, con intime crudeltà, allucinazioni segrete, o spiritualismi paranoici. La vecchiaia porta con sé la solitudine dell’anima, momenti di acuto dolore psichico e ricordi ossessivi che accompagnano il disintegrarsi della memoria. Il mondo notturno nel quale sogniamo mostra l’anima scissa in antagonismi; notte dopo

notte siamo terrorizzati, aggressivi, colpevoli, falliti. Tali sono le realtà – la concreta confusione dell’esistenza psicologica nella sua fenomenicità, soggettività e individualità – in cui voglio situare questi capitoli. Attraverso di esse, spero di scoprire nell’attività di patologizzazione dell’anima una qualche necessità psicologica. LA PSICOPATOLOGIA IN MEDICINA E IN RELIGIONE

Il termine stesso patologia, che usiamo per indicare queste penose esperienze, mostra quanto sia presente la medicina nella concezione che la psicologia ha della psiche. La stragrande maggioranza dei termini specifici della psicopatologia, come paranoico, schizoide, psicopatico, sono entrati nel nostro linguaggio attraverso la medicina psichiatrica, cosicché quando pensiamo alla psicopatologia noi pensiamo immediatamente alla malattia. In questi ultimi anni, tuttavia, si è cominciato a dubitare della validità del modello medico per la psicologia del profondo. Si è detto che gli stati peculiari dell’anima e i disturbi che essa presenta potrebbero non essere condizioni di malattia in senso medico. Né, del resto, tali stati e disturbi reagiscono a trattamenti basati sul modello medico. A partire da Freud, ci siamo resi conto che il trattamento della psicopatologia richiedeva metodi psicologici e non le solite procedure mediche (esame fisico, prescrizioni farmaceutiche, eziologie fisiologiche). E, in realtà, nella psicologia del profondo è solitamente controindicato pensare al da farsi non solo in termini di prescrizioni mediche in generale, ma anche in termini di cause e sostrati materiali. Poco alla volta, abbiamo dovuto concludere che forse questi stati che da sempre chiamiamo psicopatologie non sono patologie vere in senso medico. Inoltre, in seguito alla mancata risposta della psiche alla nozione medica di trattamento, la psicoterapia ha cominciato a rifiutare il modello medico e con esso la sua idea fondamentale, la patologia. Oggi la psicoterapia si sforza di

intendere i disturbi dell’anima come un aggrovigliarsi di comunicazioni, o come un nesso sociale sconvolto, oppure come una realizzazione spirituale frustrata, e abbandona il modello medico in favore di altri modelli: linguistico, sociologico e soprattutto religioso. Nel panorama dei nostri tentativi di comprendere le afflizioni psichiche, il modello religioso vanta una storia ancora più lunga di quello medico; i due modelli di solito vengono accostati l’uno all’altro, oppure sono offerti come alternative. Noi soffriamo, si è sempre detto, o perché siamo malati o perché siamo peccatori, sicché la cura della nostra sofferenza deve venire o dalla scienza o dalla fede. Ma in entrambi i casi la patologizzazione ha avuto implicazioni negative. Perché sia la malattia sia il peccato implicano che la patologizzazione è male. Al fine di avviare un contatto nuovo con la psicologia della patologia, ho introdotto il termine patologizzazione, a indicare sia la capacità autonoma della psiche di creare malattie, stati morbosi, disordini, anormalità e sofferenze in ogni aspetto del suo comportamento, sia quella di avere esperienza della vita e di immaginarla attraverso questa prospettiva deformata e tormentata. Abbiamo bisogno d’un nuovo punto di partenza. Siamo stati così a lungo prigionieri di analogie mediche a religiose che la psicologia non è mai riuscita ad accostarsi a quelli che sono fenomeni essenzialmente psicologici da una prospettiva sua propria. E forse gli eventi patologizzati non apparirebbero così sbagliati se fossero osservati da prospettive non mutuate dal materialismo della medicina e dallo spiritualismo della religione. Non è qui nostra intenzione trovare un sostituto per il concetto di malattia o per quello di peccato, né mettere in dubbio l’autenticità delle percezioni medica e religiosa della psiche. Il nostro scopo è quello di vederle ambedue, cioè di rivelarle [see through], come prospettive, sostenendo al tempo stesso un’altra visione, diversa dalle loro e autenticamente psicologica. La patologizzazione, una volta scopertane la necessità

psicologica, non sarebbe più giusta o sbagliata, ma solo necessaria, legata a intenzioni che finora abbiamo percepito erroneamente e a valori che devono di necessità presentarsi in forma distorta. Questo è il genere di interrogativi che abbiamo di fronte. Il nostro tentativo di raggiungere una visione psicologica della patologizzazione significa trovarle un luogo, trovare un modo per poterla accettare, in generale e nella sua interezza. Vogliamo scoprire che cosa essa può dirci sull’anima e che cosa può dire l’anima attraverso di lei. E questo atteggiamento deve precedere ogni mossa intesa a trattarla, condannarla, giustificarla o comunque ad agire sia per lei sia contro di lei. Dobbiamo cominciare con la psicopatologia così com’è, il che significa non scartare il termine patologia né alcuna delle sue etichette e categorie diagnostiche, da autismo a zoofilia. Perché questi termini rappresentano un prolungato investimento psicologico i cui interessi vanno accumulandosi col passar del tempo. Gettarli via perché nati per lo più nel campo della medicina o perché spesso aureolati di implicazioni religiose – ricominciare da zero a coniare un nuovo vocabolario – significherebbe trascurare ciò che rende soprattutto importanti questi termini e la patologia in particolare; la parola «patologia» chiama direttamente in causa la malattia e la sofferenza, ed è precisamente questo che non vogliamo eludere. I termini di questo crampo – nevrosi, complesso, rimozione, anche qui per non menzionarne che alcuni – si riferiscono a una consapevolezza altamente differenziata delle condizioni dell’anima, che si è formata attraverso le osservazioni e le riflessioni psicologiche accumulatesi nel corso degli ultimi due secoli. Questi termini ci offrono strumenti per operare distinzioni e riflettono certe realtà dell’anima. Dobbiamo solo mettere da parte il modello medico dal quale essi provengono e nel quale permangono echi del modo di pensare della medicina. Perciò, in questo capitolo terremo bensì presenti le nostre malattie e i nostri peccati, ma non situeremo le nostre patologie né sullo

sfondo della medicina né su quello della religione. È giunto il momento di batterci per i diritti della psiche patologica: per farlo dovremo trattenerci in essa quanto basta per poter rivendicare la validità, l’autenticità e la necessità della patologizzazione. Perché negare od omettere la patologizzazione dallo studio dell’anima, rifiutando questa sua modalità di vita, questo suo linguaggio, questo mezzo di autoriflessione, significa negare all’anima quest’area della sua fenomenologia. Un libro di psicologia o un sistema psicologico che non riconoscano la piena validità della psicopatologia, o la collochino da un lato facendone un campo a sé chiamato «psicologia anormale», sono insufficienti, se non addirittura pericolosi. Essi dividono nella teoria ciò che non è diviso nella realtà. Trattare la patologizzazione come qualcosa di secondario e di estraneo invece che di primario e inerente trascura il fatto reale che la patologizzazione non è un settore ma un fondamento, un filo che percorre tutto il nostro essere ed è intessuto in ogni complesso. Essa è proprietà di ciascun pensiero e di ciascun sentimento, e volto di ogni persona della psiche. Non riconoscere la basilare validità delle immagini e dell’esperienza di malattia dell’anima deforma la nostra nozione di anima e il lavoro che facciamo con essa. L’affermazione di Erikson che «la patografia rimane la fonte tradizionale dell’intuizione psicoanalitica» e quella di Freud che «il punto di partenza» è il «sintomo» non sono semplicemente metodologiche, cioè funzionali all’analisi dell’anima. Esse sono asserzioni ontologiche, asserzioni che riguardano l’essere stesso dell’anima, che ha nella sua innata patologia una fonte per le sue innate intuizioni. Ma prima di portare avanti la nostra rivendicazione dobbiamo affrontare le principali opposizioni all’idea della sostanziale importanza della patologizzazione. Tali opposizioni sono anche i principali modi in cui viene oggi negata la psicopatologia.

TRE STILI DI NEGAZIONE

I. IL NOMINALISMO

Il primo di questi stili potremmo chiamarlo negazione nominalistica, giacché esso prende di mira le parole, ossia la denominazione e la classificazione dei disturbi psichici. Per tutto il Settecento e per tutto l’Ottocento fu di gran moda in psichiatria isolare specifici disturbi mediante l’invenzione di nuovi nomi. Quasi tutti i termini che oggi ci sono così familiari vennero coniati allora – alcolismo, autismo, catatonia, claustrofobia, esibizionismo, omosessualità, masochismo, schizofrenia e anche psichiatria, psicopatologia e psicoterapia. L’Illuminismo sognava – ed è il sogno di tutte le persone razionali di ogni epoca – di classificare per categorie il mondo della mente, analogamente al mondo delle piante e degli animali, con sottoclassi, generi e specie. L’uso di termini diversi da parte della psicologia medica francese, inglese e tedesca fece ben presto nascere dispute tra le varie scuole. Una tipica e famosa controversia, trascinatasi fino ai giorni di Freud, fu quella che oppose Francia e Germania a proposito dell’isteria: i tedeschi sostenevano che, dal momento che la parola hystera significa utero, questo disturbo poteva presentarsi soltanto nelle donne, e se la psichiatria francese scopriva l’isteria anche negli uomini, le conclusioni che se ne potevano trarre riguardavano assai più gli uomini francesi che non l’isteria. Come molte altre attività nate dallo sforzo umano di imporre un controllo razionale sulla natura, l’approccio classificatorio raggiunse il suo culmine, e in forme monumentali, all’epoca della prima Guerra Mondiale. In quel periodo il monacense Emil Kraepelin presentò una nuova edizione del suo esaustivo testo di psichiatria in quattro volumi, ove osservazioni e pregiudizi erano cuciti assieme con un filo così invisibile e al tempo stesso così resistente che il sistema da lui usato per classificare ogni forma conosciuta di psicopatologia ha permeato, se non proprio dominato, le nomenclature psichiatriche di tutto il mondo

fino ai nostri giorni. Ma nello stesso periodo, per bizzarria della sorte, Karl Jaspers, anch’egli tedesco e a quel tempo psichiatra, pubblicò la sua imponente critica filosofica della psicopatologia, mettendo radicalmente in dubbio categorie e classificazioni. Qual è il loro effettivo valore? A che cosa si riferiscono veramente? Quanta soggettività c’è in esse? Gli psichiatri sanno, ad esempio, che lo stesso paziente con lo stesso quadro clinico può ricevere diagnosi e prognosi diverse a seconda dello psichiatra e dei suoi metodi, della città in cui vive e della sua lingua. Inoltre, due psichiatri che usino definizioni rigorosamente identiche tratte da uno stesso testo possono dar loro connotazioni differenti, con effetti radicali sul paziente. Un’etichetta diagnostica è il frutto della particolare concatenazione di almeno quattro gruppi di circostanze: una nomenclatura, un ambiente, un dottore e un paziente. Le permutazioni sono sottili, e non si è mai sicuri dell’esatta natura di ciò che si nomina. Oltre a queste specifiche dispute sulla nomenclatura, altri critici, valendosi di argomenti di tipo semantico, politico o sociologico, hanno inferto duri colpi all’intero sistema della terminologia psichiatrica, ai suoi effetti sulla gente e all’idea stessa di classificazione. Ancor oggi la descrizione e la classificazione (nosologia e tassonomia) delle malattie e delle sofferenze dell’anima rappresentano un problema quanto mai tormentato. La nosologia e la tassonomia della patologia psichica sono state attaccate soprattutto nell’area del rapporto tra le parole usate e gli eventi che esse dovrebbero significare. A rigor di termini, queste parole sono, come abbiamo visto nel primo capitolo, dei vuoti nomina. Esse non hanno alcun legame intrinseco con gli stati che le etichette descrivono con tanta cura, né poggiano su ragioni profonde. D’altra parte, questa decisione di evitare le spiegazioni e le ragioni profonde e di attenersi piuttosto a una scrupolosa terminologia descrittiva ha le sue radici storiche. L’Illuminismo, dal quale deriva la moderna psicologia 3

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medica, aveva avuto a che fare con fin troppe spiegazioni e ‘cause profonde’ a base di streghe, maledizioni, umori e astri, ed era stato fin troppe volte testimone di terapie fondate su questi ‘princìpi’. Thomas Sydenham e John Locke (quest’ultimo medico, oltre che filosofo e pensatore politico) sostennero che il compito del medico è la terapia, e che la terapia è una pratica empirica in cui le idee più ampie sono solo d’ostacolo. La terapia non ha bisogno di conoscere le cause per poter produrre delle cure; tanto meno poi se queste ‘cause’ sono speculazioni fantasiose che distraggono l’attenzione dal quadro del caso che si sta trattando. Sia o no cinica, come taluno ha pensato, questa presa di posizione è l’atteggiamento fondamentale sotteso alle nomenclature psichiatriche. I termini tecnici (ora sovente in uso anche come insulti) descrivono accurati quadri clinici sintomatici, il loro esordio e decorso e il loro esito statisticamente prevedibile. Per applicare una di queste etichette psicopatologiche non è necessario sapere altro sulla natura della persona che esibisce la sindrome o sulla natura della sindrome stessa. Il comportamento schizofrenico può essere descritto con precisione e attribuito a una persona indipendentemente dall’esistenza di eventuali ragioni più profonde: genetiche, tossiche, psicodinamiche, biochimiche, sociali, familiari, semantiche. L’empirismo nominalistico non necessita di conoscenze più ricche o più profonde di quelle date dalla padronanza di un vocabolario tecnico. Scopriamo così che nell’approccio classificatorio la mano sinistra rinnega quello che sta facendo la destra. La negazione nominalistica, malgrado la sua ossessiva attenzione per la terminologia psicopatologica, non ha nessun fondamentale interesse per la psicopatologia, per la natura, le ragioni o il significato delle afflizioni che cataloga con tanto puntiglio. I suoi termini sono privi di intrinseca necessità psichica, giacché non si riferiscono né a ciò che una persona ha, né a ciò che una persona è. Le parole non si riferiscono a nulla che vada oltre le descrizioni, e le 6

descrizioni non descrivono alcunché di reale. Può anzi non esservi nessuna sottostante patologia, nessuna vera e propria malattia. Una logica delle descrizioni va bene per le cose inanimate e spersonificate, per il mondo della scienza, ma non per la psicopatologia, che si riferisce al mondo dell’anima. Le parole impiegate a descrivere le sue afflizioni, per poter veramente essere conformi a ciò che dichiarano di descrivere, richiedono una soggettività che esprima e contenga i dolorosi e bizzarri disturbi dell’anima. E per fare questo, abbiamo bisogno di una psicopatologia archetipica. Fino a che non scopriremo la persona archetipica insita in queste parole, dando loro quell’importanza che nasce dalla connessione delle sindromi con gli archetipi, il nominalismo continuerà a riempire i suoi termini vuoti personalizzandoli con persone concrete. Perché questo è quanto in effetti avviene. I termini, ancorché arbitrari e vuoti, vengono applicati alle persone, le quali, divenendo in tal modo «alcolisti», «suicidi», «schizofrenici», «omosessuali», sembrano appunto dare sostanza alle parole, conferire loro con la propria persona visibile una realtà psichica ed empirica. I termini ricevono così sostanza dai corpi cui danno nome, traggono vita, parassiticamente, da ciò che li esemplifica. E gli esempi, questi casi di «depressione paranoica», di «episodi psicotici acuti», di «personalità isterica», confermano e giustificano empiricamente il sistema terminologico. Etichette quali «psicopatico» o «maniaco-depressivo» portano chiarezza intellettuale e, nello stesso tempo, rinchiudono in vasi sigillati il contenuto di ciò che si nomina; e la persona così nominata viene relegata su uno scaffale contrassegnato «psicologia anormale». 7

II. IL NICHILISMO

La continua invenzione di neologismi vuoti porta infine a un secondo stile di negazione, il nichilismo anarchico. La negazione anarchica dice più o meno così: le classificazioni

sono delle convenzioni linguistiche derivanti la loro autorità esclusivamente dal consenso degli esperti, dalla tradizione e dai libri di testo. Queste parole diventano parole di potere, parole politiche, parole di una casta sacerdotale psichiatrica. Sono modi per avvolgere i pregiudizi in un camice bianco, così da poter condannare impunemente certi stili politici, medici e culturali. Esse giovano a chi dà i nomi e nuocciono a chi li riceve; sono importanti soltanto per coloro che vincono in quel gioco linguistico chiamato psicopatologia. Inoltre, poiché le vere cause, le vere condizioni e i veri significati dei malesseri dell’anima sono sconosciuti e probabilmente inconoscibili, e poiché tutti i nostri sistemi non sono niente altro che dei nomi che possiamo prendere e lasciare a volontà – nomi usati in senso generale, ma che a un attento esame si riferiscono soltanto ai particolari, essendo ciascun caso diverso dall’altro – perché mai, dichiarano questi nichilisti, avere una «psicologia anormale»? Tiriamo fuori il famoso rasoio filosofico di Occam e tagliamo via questo campo intrattabile. Togliamo di mezzo la psicopatologia una volta per tutte. Questa negazione trova rifugio nell’esistenzialismo. Trattiamo, esso dice, l’altra persona come fondamentalmente e rispettosamente altra, nella sua esistenza concreta. Le diagnosi debbono essere eliminate, perché non fanno altro che attirare una persona nella situazione esistenziale di malattia del dottore e in quella sua fantasia del futuro detta prognosi. Non ci sono nevrosi, soltanto casi; non ci sono casi, soltanto persone in situazioni. E allora, getta via tutto, parti dal nulla (nihil), sii semplicemente presente con semplice autenticità, comunica, incontra. Sii aperto, usa l’intuizione – ma, innanzi tutto, consenti all’altro di esistere in qualunque stile di vita, «folle» o «sano», egli preferisce. Il confine tra follia e sanità, che, situando alcuni eventi al di qua e altri al di là, ha creato il campo della psicopatologia, è una invenzione positivistica e non una realtà esistenziale. Così parlano i nichilisti esistenziali. Subito dietro la negazione anarchica c’è il filosofo

esistenzialista Karl Jaspers. La sua magistrale critica aveva messo in luce i profondi interrogativi sull’uomo sollevati dalla psicopatologia e messo in dubbio le possibilità del campo stesso; i pensatori meno validi che lo seguirono, piuttosto che procedere a una revisione totale, preferirono buttar via tutto. Altri ispiratori sono i filosofi che hanno rifiutato la validità del metodo oggettivo della scienza ai fini di uno studio dell’uomo. Essi sono convinti che in psicologia l’osservazione e la spiegazione oggettive di se stessi o degli altri sono un metodo errato per principio. Sono cose che abbiamo già ascoltato da Dilthey (e da Lou Salomé). E le ascoltiamo di nuovo da Nietzsche, il quale scriveva: «Mai osservare per osservare! Ciò determina un’ottica falsa, una vista obliqua, qualcosa di coatto e di iperbolico… Uno psicologo per costituzione si guarda istintivamente dal vedere per vedere…». Al posto delle categorie basate su scrupolose osservazioni cliniche deve esserci l’esperienza soggettiva e l’empatia intuitiva, il che conduce all’elaborazione personale della propria psicopatologia in anarchica libertà. Oggi gli impavidi fuorilegge del nichilismo, dell’anarchismo e dell’esistenzialismo abbondano in molti settori. In Francia c’è Michel Foucault, il quale vede nella psicopatologia soprattutto il risultato del sistema di potere della società strettamente connesso con la sua idea di ragione. Negli Stati Uniti c’è Thomas Szasz, il quale si è coraggiosamente battuto per denunziare i danni politici e sociali causati dalle classificazioni diagnostiche: «Classificare il comportamento umano significa metterlo in prigione». Ne segue, per alcuni, che liberare il comportamento umano significa abolire i termini psichiatrici e la psichiatria stessa. In Svizzera gli studi di Erwin Ackerknecht, brillante e rigoroso storico della medicina, hanno dimostrato il relativismo etnologico dei giudizi psichiatrici – ciò che è malato è malato soltanto in questa società e in questo periodo: i normali di un’epoca e di una cultura sono gli anormali di un’altra epoca e di un altro 8

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luogo. Spinto alle sue estreme conseguenze, questo relativismo potrebbe far concludere che se non esistono malattie mentali universalmente presenti, gli universali della psicopatologia svaniscono: resta solo un sacco vuoto detto «psicopatologia» in cui ciascuna società rinchiude, per sbarazzarsene, alcuni suoi membri, colpevoli di esibire classi disapprovate di eventi psichici. Il sacco peraltro non ha in sé alcun significato che vada oltre le occasioni che serve a contenere. Il più estremista di tutti è lo scozzese Ronald Laing, il quale capovolge l’intera questione e avanza l’ipotesi che la follia può essere per molti versi migliore della sanità, o è forse un tentativo di sanità o la vera via che conduce alla piena sanità, oppure è addirittura sanità in un mondo insano, rovesciando in tal modo il significato e l’importanza della psicopatologia. Proclamare con tanto vigore la positività della psicopatologia, giungere addirittura a raccomandare lo stile schizofrenico come terapia, comporta un radicale spostamento del valore della psicopatologia, e quindi la perdita del suo senso intrinseco. Laing trasferisce il fardello della follia schizofrenica dall’individuo alla società, dicendo ad esempio: «Se la formazione si trova fuori rotta, l’uomo che è veramente “sulla rotta giusta” deve lasciare la formazione». Ma il problema della psicopatologia resta; ha solo cambiato casa. Si prova, è vero, un gran sollievo a poter dire: io sono sano in un mondo pazzo, invece che: io sono pazzo in un mondo sano. Ma si è poi giunti con ciò alla radice del problema? Resta sempre qualcosa che è malato, che è folle, anche se ora si trova «là fuori» e si chiama società. Inoltre, l’attribuzione d’una tale virtù all’alienazione schizofrenica fa svanire nel nulla la bruttezza, l’infelicità e la follia della psicopatologia. Mentre è proprio questo ciò con cui dobbiamo misurarci, così com’è, senza nascondere nulla della sua disperazione. L’approccio di Laing può esser considerato un classico meccanismo di negazione, una proiezione della colpa dall’uomo sulla società, una forma di 11

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rimozione in senso psicoanalitico. Potrà sorprendere di trovare un profondo fondamento alla sanzione data da Laing all’alienazione nella filosofia di Hegel, il quale considerava la follia come un’inevitabile forma o stadio dell’evoluzione dell’anima, uno stadio nel quale «l’anima è in conflitto con se stessa, essendo, da una parte, già padrona di sé, dall’altra, non ancora tale…». Sono qui già prefigurati il «sé diviso» di Laing e il «doppio vincolo» di Gregory Bateson (al quale sovente Laing si richiama ). L’interna contraddizione che caratterizza la schizofrenia (e Laing, per inciso, parla di schizofrenia intendendo tutta l’alienazione mentale, così come Szasz si serve come modello dell’isteria) trova in Hegel una necessità più profonda di quanto non lo sia la ribellione sociopolitica di Laing. Per Hegel, l’alienazione non è un risultato o uno stratagemma, bensì qualcosa di intrinseco alla natura dell’anima. «Nella follia, l’anima lotta per uscire dal suo stato di contraddizione e ritrovare la perfetta armonia interiore». Sebbene entrambi vedano nell’alienazione mentale una necessità psicologica, Hegel, a differenza di Laing, dopo aver esortato l’anima a compiere questo viaggio, osserva però che la sua affermazione è generale e non riferibile a casi particolari, «come se sostenessimo che ogni mente, ogni anima debba passare attraverso questo stadio di estrema alienazione». Per Hegel la follia è vista come una sorta di esperienza dell’anima non altrimenti ottenibile. Questo è il punto fondamentale che si deve riconoscere. Solo allora la patologizzazione dell’«estrema alienazione» trova il suo autentico fondamento nell’essere stesso dell’anima. La politicizzazione della follia fatta da Laing diviene a questo punto irrilevante, deposta da una filosofia dove la follia abita di diritto. Prima di passare al terzo stile di negazione, dobbiamo chiederci se a questi critici esistenziali, politici e culturali non sia sfuggito qualcosa di molto importante. Essi hanno indubbiamente visto gli abusi della psicopatologia, argomento sul quale ritorneremo anche noi. E hanno 14

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indubbiamente conferito validità alla piena libertà dell’individuo, la libertà anarchica di scegliersi il proprio modo di esistenza. Così come va a loro merito l’aver sottolineato l’interdipendenza tra ciò che facciamo in psicologia e ciò che avviene nel mondo sociale e politico. Ma questo impone forse di sospendere ogni attività psicopatologica? Che cos’altro abbiamo per affrontare la patologizzazione della psiche? Perché qui occorre distinguere chiaramente tra la patologizzazione intesa come caratteristica universale e necessaria e la psicopatologia intesa come modo di affrontare la patologizzazione, differenza che in questi critici diventa assai sfumata. Essi considerano la malattia come un risultato del sistema che di essa si occupa: è la camicia di forza che rende pazzo il paziente; la patologizzazione è un prodotto della psicopatologia. In questo modo sottile, ancorché sovente chiassoso, questi critici negano tutti la patologizzazione e per disfarsene propongono di eliminare la psicopatologia. I loro attacchi contro la psichiatria, pur se diversi l’uno dall’altro, celano tutti in realtà la negazione dell’esistenza stessa della patologizzazione. III. LA TRASCENDENZA

Un terzo modo per rifiutare la psicopatologia è quello di mettersi al di sopra di essa, come fa la negazione trascendentale. Essa assume numerose forme, una delle quali, la psicologia umanistica, verrà trattata più in particolare nel quarto capitolo, ma la cui posizione nei confronti della psicopatologia ci obbliga ad aprire qui la discussione. Benché degna di lode per la sua opposizione alle denigrazioni di gran parte delle psicologie sperimentali, analitiche e behavioristiche, la psicologia umanistica si è spinta a un altro eccesso. Nel tentativo di restituire all’uomo la sua dignità, essa lo idealizza, spazzando sotto il tappeto, per così dire, le sue patologie. Ignorando le patologie o

tenendole ben nascoste, questo umanesimo favorisce un atteggiamento di nobile unilateralità, una sorta di sentimentalismo in cui William James avrebbe riconosciuto una forma di ottimismo illuso. Per rendersene immediatamente conto, basta guardare i termini più usati dall’umanesimo psicologico contemporaneo. A differenza di quelli della psicopatologia medica, essi diffondono un’aura rassicurante: salute, speranza, coraggio, amore, maturità, calore, interezza; la psicologia umanistica parla delle forze ascendenti della natura umana, che si manifestano nella dolcezza, nell’apertura e nella partecipazione e producono creatività, gioia, ricchezza di rapporti, gioco e peaks. Una eguale unilateralità distingue gli scopi a cui essa aspira: libertà, fede, equanimità, responsabilità, impegno. La psicologia umanistica non solo vede la crescita con occhi semplicistici, la natura con occhi idealistici e l’amore con occhi innocenti – giacché presenta una crescita senza decadenza, una natura senza catastrofi o inerte stupidità e amore senza il possesso – ma ha anche un’idea ingenua, se non addirittura delirante, della psiche. Dov’è infatti il peccato, dove sono la crudeltà, il fallimento e le vicissitudini distruttrici che il destino ci porta con la patologizzazione? Nella letteratura della psicologia umanistica si fa scarsa menzione di idee austere e severe, come la necessità, la limitatezza, il retaggio ancestrale, le carenze o i bisogni fondamentali – le basilari lacune di ogni personalità. Essa ignora del tutto la visione stoica e tragica dell’uomo esistenziale, irrazionale e patologico. Mentre l’umanesimo, con le sue illusioni ottimistiche, costruisce il proprio modello evolutivo dell’uomo rifacendosi al bambino nei suoi primi anni di vita, la tradizione della psicologia del profondo vede quello stesso bambino con occhio più perverso e crudamente realistico. La psicologia del profondo parte dalle percezioni più fosche di Freud e di Jung, dal loro ben temperato pessimismo e dal loro occhio per l’ombra. La psicologia umanistica invece, con il suo concentrarsi unicamente sul lato più chiaro della 19

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natura umana, dove persino la morte diviene «dolce», perde la sua ombra, è una psicologia senza spessore, le cui profonde parole restano superficiali proprio perché il suo fine è la trascendenza. Per trascendere, essa si lascia alle spalle tutto ciò che è più basso, vile, oscuro, giudicandolo un insieme di «valori regressivi». Il metodo che questo umanesimo segue per negare all’anima le profondità delle sue afflizioni è il seguente: È vero, si concede, la patologia esiste. Ma la psicopatologia indica un’esistenza impedita e una coscienza focalizzata sui propri impedimenti. Poiché la natura umana è fondamentalmente un organismo che sviluppa coscienza, costituito da un quantitativo crescente di informazioni, un campo energetico negentropico o positivo, la totalità della personalità, in quanto più vasta, può integrare le più piccole interferenze alle sue funzioni. L’attuazione e la realizzazione dei bisogni superiori comporta l’integrazione anche di quelli inferiori. L’ordine può sempre contenere il disordine, poiché le energie positive sono sintetiche e la loro attività creatrice si esplica nel corso dell’ascesa. Ciascuno di noi può trascendere le proprie condizioni patologiche, e così uscirne fuori. Questi disturbi richiedono soprattutto di essere sentiti, espressi e condivisi, o urlati in un primordiale esorcismo. Se invece di essere frustrati vengono capiti e accettati, si trasformano in buone e verdi energie di crescita che fanno ritorno, disciplinate e maturate, al giardino della nostra interezza. Il modello della trascendenza positiva delle nostre patologie è detto «peak experience». Il termine «peak» [vetta] evoca l’opera di Abraham Maslow, padre e tuttora esponente esemplare dei principali atteggiamenti dell’attuale umanesimo psicologico, che ritroviamo nei gruppi terapeutici, sui pulpiti, o nei vari sistemi usati individualmente per trascendere i propri conflitti. Ciò che alcuni critici, principalmente William Blanchard, hanno riconosciuto nelle peak experiences di Maslow è la presenza di fondo di un edonismo che offre una morale incentrata sulla ricerca del godimento nelle sue 21

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forme più intense. Highs e peaks nulla ci dicono del valore della persona che li prova, giacché possono manifestarsi anche in psicopatici e criminali e non hanno niente a che vedere con la creatività e la maturità, che sono le mete di Maslow. Qualsiasi testo di psicologia anormale offre esempi concreti di come la patologizzazione stessa possa portare a dei peaks: la cleptomania, la piromania, il sadismo, la profanazione delle tombe sono tutte cose che possono produrre gioie estatiche. C’è gioia estatica anche in un bombardamento o in un assalto alla baionetta, così come ce n’è nel seguirli sullo schermo televisivo. Dovunque l’importanza dell’esperienza sia determinata soltanto dall’intensità, dall’assolutezza, dall’estatica identificazione o approssimazione al divino e trovi in sé la propria convalida, c’è il rischio di cadere in balìa di una persona archetipica e di un’inflazione maniacale. La trascendenza raggiunta attraverso un high, idea assai diffusa in tutte le varie forme di pratica umanistica (body-high, weekend-high, LSD-high), si trasforma facilmente in una negazione di tipo maniacale della depressione. Invece di essere un nuovo mezzo per affrontare la psicopatologia, è essa stessa uno stato psicopatologico dissimulato. Un’altra forma di negazione trascendentale la troviamo nelle soluzioni orientali (occidentalizzate). Anche in questo caso la psicopatologia viene accettata come esistenzialmente presente, ma la si osserva da una angolazione diversa, più sottile. Le nostre patologizzazioni non sono che una parte delle diecimila illusioni che si incontrano necessariamente lungo il sentiero della vita, un’apparenza che può essere pungolo, o anche fardello di karman da soddisfare. Ma fondamentalmente gli eventi patologici rivelano i primi gradini della scala, i gradini non realizzati, che non toccheremo nel nostro percorso. La meditazione, la contemplazione, l’esercizio devono portarci al di là, devono allontanarci da loro. Fermarsi su di essi non porta alcuna intuizione. La loro analisi conduce in basso, nella frammentazione, nei brandelli, nelle funzioni e nei complessi 23

dell’uomo parziale e allontana dall’interezza e dall’unità. Questa negazione vede negli eventi psicopatologici delle energie fuori posto dalle quali si può esser tormentati, ma che alla fine, una volta trasformate, saranno al servizio dell’individuo per condurlo verso l’Uno. La psicopatologia, in sé e per sé, non è una espressione autentica della divinità dell’anima. La divinità sta in alto, sui peaks, e non nelle paludi delle nostre paure, nella fanghiglia della depressione e dell’angoscia, quelle profondità a cui la vita concreta fa regolarmente ritorno. Tutto ciò ben sapevano gli alchimisti che facevano anima, così come lo sanno pittori e scrittori e chiunque dipende nella sua attività dai moti dell’immaginazione. Se la divinità dimora nella nostra libertà dagli impedimenti, invece che nelle nostre inibizioni, nei nostri disturbi e tratti grotteschi, la trascendenza orientale non si rivolgerà certo alla patologia per scoprire ciò che potrebbe entrare in noi per suo tramite, non si domanderà quale porta viene aperta nell’anima attraverso le nostre ferite. Essa, al contrario, non fa che incitare: innàlzati, lasciati dietro gli affanni e i grovigli psicologici, sii saggio e non bestia in trappola, cerca la beatitudine e non l’afflizione. La mia è una descrizione occidentale della negazione orientale della patologizzazione, e riflette il modo in cui essa viene utilizzata dagli occidentali. Perché il modo in cui noi utilizziamo i metodi di trascendenza orientale è frutto della psiche occidentale almeno tanto quanto lo è dello spirito orientale. In oriente questo spirito è radicato nella densa argilla gialla di un mondo di immagini riccamente patologizzate – demoni, mostri, Dee grottesche, torture e oscenità. Esso nasce all’interno di un mondo patologizzato di bisogni e di disperazione, incatenato da obblighi, tormentato. Ma una volta sradicato di là e importato in Occidente, esso vi arriva sciolto dai vincoli del suo terreno immaginale, lindo e odoroso di legno di sandalo, un’altra visione ascendente che mostra come aggirare le nostre psicopatologie occidentali. Il contenuto archetipico delle

dottrine orientali così come viene mediato dalle strutture archetipiche della psiche occidentale diventa una possente e sistematica negazione della patologizzazione. Se ho parlato in modo così sprezzante degli approcci trascendentali della psicologia umanistica e orientale, l’ho fatto perché essi a loro volta disprezzano l’anima. Volgendo le spalle alle sue patologizzazioni, essi voltano le spalle alla sua grande ricchezza. Protendendosi verso le vette del miglioramento spirituale, abbandonano le sue afflizioni, cui attribuiscono meno validità e realtà che non alle mete spirituali. Così, nel nome dello spirito superiore, l’anima viene tradita. Digressione sulle differenze tra anima e spirito Qui dobbiamo ricordare che le vie dell’anima e quelle dello spirito coincidono solo a volte e che la massima divergenza si ha in rapporto alla psicopatologia. Uno dei principali motivi per cui insisto sulla patologizzazione è appunto l’esigenza di mettere in luce le differenze tra anima e spirito, per porre fine alle frequenti confusioni tra psicoterapia e discipline spirituali. Esiste una differenza tra Yoga, meditazione trascendentale, contemplazione e ritiro religiosi e finanche lo Zen da una parte, e la psicologizzazione della psicoterapia dall’altra. Una differenza che si fonda sulla distinzione tra spirito e anima. Oggi abbiamo pressoché perduto questa differenza, ben nota invece a quasi tutte le culture, anche a quelle di tipo tribale, che su di essa articolano la loro esistenza. Le nostre distinzioni sono cartesiane: tra la realtà esterna e tangibile e gli stati interni della mente, oppure tra il corpo e un confuso conglomerato di mente, psiche e spirito. Abbiamo perduto la terza posizione, quella mediana, che nella nostra passata tradizione, come anche in altre, era la sede dell’anima: un mondo fatto di immaginazione, passione, fantasia, riflessione, né fisico e materiale, né spirituale e astratto, e

tuttavia legato agli altri due. La psiche, avendo un regno suo, ha anche una sua logica, la psicologia, che non è né una scienza di cose fisiche, né una metafisica di cose spirituali. A questo regno appartengono anche le patologie psicologiche. Avvicinarsi a esse dall’uno o dall’altro lato, cioè vederle in termini di malattia medica o di sofferenza, peccato e salvezza religiosi, manca il bersaglio dell’anima. Ma la tripartizione si è ridotta a un’opposizione di due termini, perché si è finito per fare dell’anima un’unica cosa con spirito. Questo succede o perché siamo materialisti, sicché tutto quanto non sia fisico e corporeo appartiene a un’unica nebbia indifferenziata, oppure perché siamo cristiani. Già nel lessico usato da Paolo pneuma o spirito aveva cominciato a prendere il posto di psyché o anima. Il Nuovo Testamento non fa quasi menzione di fenomeni dell’anima come i sogni, mentre dà rilievo a fenomeni specificamente spirituali come i miracoli, la glossolalia, la profezia e le visioni. I filosofi hanno cercato di mantenere la distinzione tra spirito e anima escludendo quest’ultima dalle loro opere, oppure relegandola in una posizione inferiore. Descartes confinò l’anima nella glandola pineale, piccola enclave tra le opposte potenze della mente interiore e dello spazio esterno. Più di recente, Santayana ha ridotto l’anima al regno della materia e l’ha considerata un principio antimetafisico. Collingwood ha assimilato l’anima al sentimento, sostenendo che la psicologia non ha il diritto di invadere il regno del pensiero e delle idee. Il punto di vista spirituale si postula sempre come superiore ed è particolarmente a suo agio in una fantasia di trascendenza tra principi ultimi e assoluti. Per mettere in luce le differenze, dobbiamo quindi rivolgerci non alla filosofia, ma al linguaggio dell’immaginazione. Le immagini dell’anima mostrano innanzitutto delle connotazioni prevalentemente femminili. In greco, psyché indica non solo l’anima, ma anche una farfalla notturna e una fanciulla particolarmente leggiadra nella leggenda di Eros e Psiche. La nostra discussione 24

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sull’anima come idea femminile personificata, nel capitolo precedente, si colloca su questa linea di pensiero. Avevamo visto là molti dei suoi attributi ed effetti, e in particolare la relazione esistente tra la psiche e il sogno, la fantasia e l’immagine. Questa relazione è stata espressa anche mitologicamente, sotto forma di legame tra l’anima e il mondo notturno, il regno dei morti e la luna. Possiamo ancora cogliere la natura più essenziale della nostra anima nelle esperienze di morte, nei sogni della notte e nelle immagini «lunatiche» della follia. Il mondo dello spirito è quanto mai diverso. È pieno di immagini sfolgoranti, di fuoco, di vento, di sperma. Lo spirito è rapido e rende vivo quello che tocca. La sua direzione è verticale e ascendente; esso è diretto come una freccia, affilato come un coltello, arido come la polvere, fallico. È maschile, è il principio attivo che produce forme, ordine e distinzioni chiare. Sebbene vi siano molti spiriti e molti tipi di spirito, la nozione di «spirito» è venuta concentrandosi nell’archetipo apollineo, nelle sublimazioni delle discipline superiori e astratte, nella mente intellettuale, negli stati di raggiunta perfezione e purificazione. È possibile avere esperienza dell’interazione tra l’anima e lo spirito. Nei momenti di concentrazione intellettuale o di meditazione trascendentale, è l’anima che invade con impulsi naturali, ricordi, fantasie e paure. In momenti di nuove intuizioni o esperienze psicologiche, lo spirito vorrebbe immediatamente estrarre da esse un significato, metterle all’opera, concettualizzarle in regole. L’anima resta aderente al regno dell’esperienza e alle riflessioni entro l’esperienza. Si muove indirettamente, con ragionamenti circolari, dove le ritirate sono altrettanto importanti delle avanzate; preferisce i labirinti e gli angoli, dà alla vita un senso metaforico servendosi di parole come chiuso, vicino, lento e profondo. L’anima ci coinvolge nella massa confusa dei fenomeni e nel flusso delle impressioni; è la parte «paziente» di noi. L’anima è vulnerabile e soffre; è passiva e ricorda. Essa è acqua per il fuoco dello spirito, è come una

sirena che inviti lo spirito eroico nelle profondità delle passioni per estinguere la sua certezza. L’anima è immaginazione, è un cavernoso deposito di tesori – per usare un’immagine di sant’Agostino – confusione e ricchezza insieme. Lo spirito, al contrario, sceglie la parte migliore e si sforza di ricondurre tutto all’Uno. Guarda in alto, dice lo spirito, distànziati; c’è qualcosa al di là e al di sopra, e quello che sta sopra è da sempre e per sempre, ed è sempre superiore. Essi si distinguono anche per un altro aspetto: lo spirito ricerca le cose ultime e il suo viaggio si svolge lungo una via negativa. «Neti, neti,» esso dice «questo no, quello no». La porta è stretta, soltanto le prime o le ultime cose possono entrare. L’anima ribatte: «Sì, anche questo ha il suo posto, può trovare il suo significato archetipico, fa parte di un mito». Nel recipiente dell’anima tutto si cuoce, tutto viene accolto, tutto può divenir anima; e accogliendo nella propria immaginazione ogni sorta di eventi, lo spazio psichico cresce. Ho tenuto distinti anima e spirito per poterne far sentire meglio le differenze, e soprattutto per dare un’idea di che cosa accade all’anima allorché i suoi fenomeni vengono visti dalla prospettiva dello spirito: si ha l’impressione che l’anima debba venir disciplinata, i suoi desideri imbrigliati, l’immaginazione svuotata, i sogni dimenticati, la partecipazione inaridita. Perché l’anima, dice lo spirito, non può conoscere, né verità, né legge, né causa. L’anima è fantasia, tutta fantasia. Le mille patologizzazioni di cui l’anima è erede in virtù dei suoi attaccamenti naturali alle diecimila cose della vita mondana saranno curate facendo dell’anima un’imitazione dello spirito. La via classica era l’imitatio Christi; ora vi sono altri modelli, i guru indiani (orientali o pellerossa) che, se seguiti alla lettera, mettono la nostra anima su un sentiero spirituale che si presume conduca alla liberazione dalle patologie. La patologizzazione, così dice lo spirito, è per sua stessa natura limitata all’anima; soltanto la psiche può essere patologica, come è 27

attestato dalla parola stessa psicopatologia. Non esiste una «pneumopatologia» e, come ha sostenuto una tradizione tedesca, la malattia mentale («Geisteskrankheit») non può esistere, poiché lo spirito non può patologizzare. Perciò all’anima occorrono discipline spirituali che le permettano di conformarsi ai modelli enunciati per lei dallo spirito. Ma dal punto di vista della psiche il movimento ascendente, sia umanistico sia orientale, assomiglia alla rimozione. È assai possibile che vi sia più attività psicopatologica quando ci sforziamo di trascendere che non quando siamo immersi nella patologizzazione. Perché ogni tentativo di autorealizzazione senza un pieno riconoscimento della psicopatologia che risiede, come disse Hegel, intrinsecamente nell’anima, è già in sé patologico, una forma di autoinganno. Una siffatta autorealizzazione non è altro che un sistema paranoico delirante, o addirittura una sorta di ciarlataneria, il comportamento psicopatico di un’anima svuotata. LA RIUNIONE DI ANIMA E SINTOMO

Molti metodi moderni di psicoterapia vogliono mantenere lo spirito dell’analisi ma non la sua anima. Essi vogliono mantenere i metodi e le forme senza le patologizzazioni. In questo modo il dottore può avere l’autorità di maestro, mentre il paziente subisce una metamorfosi in allievo, cliente, partner, discepolo – tutto fuorché paziente. L’analisi stessa viene detta dialogo o transazione, giacché «terapia» sa di patologia. L’attenzione può essere sempre focalizzata sull’interiorità e sulla meta finale di un’integrazione della persona interiore, ma si tende a escludere la disintegrazione, cosicché l’integrazione che si raggiunge non ha senso. Secondo questi metodi, la frammentazione non è mai in funzione delle parti, di quelle persone multiple che sono la vera ricchezza della vita psichica; la frammentazione è solo una fase preliminare verso la ricostruzione di un io più forte. Questi approcci che preferiscono la sintesi all’analisi,

l’integrazione alla differenziazione, e che vogliono conservare i rituali terapeutici ma non i contenuti patologici, trascurano una delle più profonde intuizioni uscite da quest’ultimo secolo di psicoterapia. La psiche non esiste senza patologizzazione. Da quando si è scoperto che l’inconscio è un fattore attivo in ogni anima, si è anche riconosciuto che la patologizzazione è un aspetto intrinseco alla personalità interiore. Freud ha così riassunto questa idea: «Possiamo afferrare l’inconscio soltanto nel materiale patologico». E Lou Salomé, dopo la sua ultima visita a Freud nel 1913, scrisse: «… egli ha insistito energicamente sulla necessità di mantenere il più stretto e continuo contatto con il materiale patologico…». La patologizzazione non è solo presente in particolari momenti di crisi, ma esiste nella vita quotidiana di tutti noi. Essa si mostra in tutta la sua profondità nel senso della morte, che l’individuo porta con sé dovunque vada. È presente anche nel sentimento interiore che ciascuno ha della propria «diversità», il quale include (e su di esso anzi a volte si fonda) il senso della propria individuale «pazzia». Ciascuno di noi ha infatti una propria fantasia di malattia mentale; «pazzo», «matto», «folle» – con tutti i loro eufemismi, colloquialismi e sinonimi – fanno regolarmente parte dei nostri discorsi quotidiani. Quando espelliamo da noi la nostra devianza interna per mezzo di queste esclamazioni riferite agli altri, riconosciamo nello stesso tempo che ciascuno di noi ha una seconda (o terza) personalità deviante e bizzarra, che offre una diversa prospettiva sulla nostra vita normale. Anzi, la patologizzazione ci fornisce il materiale stesso con il quale costruiamo la nostra vita normale. Gli stili, gli interessi, gli amori della vita riflettono modelli in cui sono fittamente intessuti fili patologizzati. Quanto più profondamente conosciamo noi stessi e le altre persone dei nostri complessi, tanto più facilmente ci riconosciamo nelle descrizioni che i testi danno della psicologia anormale. Quei casi clinici sono anche le nostre biografie. In termini sociologici, quasi ogni 28

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individuo negli Stati Uniti è stato, si trova, o si accinge a mettersi, nelle mani d’un professionista della cura dell’anima, di questa o quella scuola, per un periodo breve o lungo, per questa o quella ragione. La scoperta dell’inconscio ha significato un generale e massiccio riconoscimento di quell’autonoma attività della psiche che è la patologizzazione. Questa scoperta e questo riconoscimento hanno condotto a un ritrovamento ancor più significativo: la riscoperta dell’anima. Ma, per nostra sfortuna, abbiamo erroneamente confuso tra loro le tre scoperte correlate: l’inconscio, la patologizzazione e l’anima. E in questa confusione crediamo che tutti abbiano bisogno della terapia d’un professionista, convinti che quello sia il luogo dove si può ritrovare l’anima. Ma non è così. Noi confondiamo la riscoperta dell’anima nel ventesimo secolo con il luogo in cui tale scoperta è avvenuta: l’analisi terapeutica. Ma il veicolo di questa scoperta non fu la terapia o l’analisi bensì la psicopatologia. Furono i sintomi, e non i terapeuti, a portare questo secolo fino all’anima. Le ostinate patologizzazioni di Freud e di Jung e dei loro pazienti – patologizzazioni che non accettavano di esser rimosse, trasformate o curate, o anche solo capite – guidarono i principali esploratori della psiche di questo secolo sempre più nel profondo. Il percorso che attraverso la patologia li condusse nell’anima è un’esperienza che si ripete in ciascuno di noi. E noi dobbiamo loro molto, ma più ancora dobbiamo alla nostra patologizzazione. Abbiamo un debito immenso verso i nostri sintomi. L’anima può esistere senza i suoi terapeuti, ma non senza le sue afflizioni. L’analisi diede semplicemente modo alla psicopatologia di essere ascoltata anche fuori dei manicomi, delle prigioni e delle istituzioni ecclesiastiche dove era stata rinchiusa; la nuova terapia era l’unico posto dove la sanzione laica permettesse un rapporto prolungato e intenso con la patologizzazione. I sintomi divennero il centro della sua attenzione. L’analisi offrì dunque un recipiente in cui versare la nostra patologizzazione inconscia e lasciarla cuocere fino

a che non ne emergesse il suo vero significato, fino a che essa non facesse anima. Da psyché-pathos-logos è venuto il significato di sofferenza dell’anima, o di paziente sofferenza di significato da parte dell’anima. Ma una nuova confusione ostacolò questa esperienza: per scoprire in tal modo l’anima attraverso la patologizzazione sembrava occorrere un particolare stato dell’essere – l’«essere-in-terapia» – sicché per molti la terapia divenne un rituale religioso, o addirittura un sostituto del rituale religioso. Si era «in» analisi e l’analisi era in. C’erano gli iniziati, coloro che erano stati analizzati. E c’erano gli altri, quelli che non erano mai stati in terapia o che non erano stati analizzati «come si deve» o «fino in fondo». Per ritrovare il senso dell’anima si doveva percorrere fino in fondo la via dell’analisi, con le sue sedute regolari, le sue tecniche e le sue fasi di «inizio dell’analisi», «approfondimento» e «termine». Inevitabilmente e inavvertitamente, il rituale dell’analisi aveva prodotto un nuovo culto dell’anima. Infine alcuni, prendendo alla lettera questa direzione religiosa, hanno affermato che la terapia è proprio questo, un’espressione dell’attività religiosa dell’anima; il movimento psicoterapeutico è a ben vedere movimento religioso e i terapeuti sono una nuova specie di addetti all’assistenza dell’anima, dei guru o dei sacerdoti. In questo movimento verso la religione c’è la tendenza a lasciarsi alle spalle la patologia. Col suo passaggio operativo dalla patologia all’autosviluppo, l’analisi ora non riconosce più il primato dell’afflizione. Si va in terapia non perché si è afflitti, ma per crescere – come se crescita e afflizione si escludessero a vicenda. Tra anima e sintomo si è aperto un abisso. Da una parte, l’analisi si considera come un contratto professionale il cui scopo è la risoluzione dei problemi, una varietà di scienza medica senza anima, rituale o mistero. Dall’altra, essa imita le discipline trascendentali, favorendo il rituale, la comunità e le dottrine. La patologizzazione si ritrova impantanata nella sua antica suddivisione, o malattia

o peccato, mentre ne sta emergendo un’altra. Ora, per intraprendere una terapia dell’anima che faccia crescere e realizzare la propria personalità, bisogna lasciar fuori i sintomi; per entrare in una terapia medica o comportamentale che liberi dalle afflizioni sintomatiche bisogna lasciar fuori l’anima. Anima e sintomo si sono spezzati in due. Questo capitolo e questo libro vogliono porre rimedio a questa divisione. Conservando la psicopatologia come linguaggio descrittivo della psiche che parla veramente all’anima e dell’anima, vorrei tenere unite psiche e patologia. Se può sembrare che l’accento da me posto sulla patologizzazione renda la psiche di nuovo malata, è però vero che nello stesso tempo io ridò un’anima alla malattia. Restituendo i sintomi all’anima, io tento di restituire un’anima ai sintomi ridando loro quel valore centrale nella vita che è proprio dell’anima. RESIDUI DEL MODELLO MEDICO

Vi sono alcune idee, retaggio dell’approccio medico alla psiche, che ancora si frappongono tra i nostri sintomi e la nostra anima. Un’idea particolarmente ostinata è quella del trattamento. Abbiamo ancora la tendenza a pensare che la patologizzazione richieda trattamento; se non un trattamento apertamente medico, quanto meno uno psicologico. Il trattamento, ovviamente, muove dal presupposto che qualcosa non funzioni, che quando la psiche patologizza in una fantasia, in un’emozione o in un sintomo, ciò debba essere corretto o alleviato facendo ricorso a misure pratiche. E poiché siamo portati a scoprire, in noi e negli altri, molte cose che psicologicamente «non funzionano», gran parte delle nostre giornate è occupata da una fantasia di trattamento. Se in risposta a un amico che non riesce a dormire io gli chiedo: «Ma fai qualcosa? Prendi qualcosa?», sono nella fantasia di trattamento. Lo stesso accade allorché mi impongo regole per vincere delle

abitudini psicologiche, per tenere a freno delle emozioni, o per bloccare delle fantasie ricorrenti. Una parte di me tratta l’altra parte come se fosse un paziente. Curando il mio sé malato, sono caduto a capofitto nella fantasia medica. La prospettiva psicologica è completamente diversa. Dal suo punto di vista, io sono il paziente non del mio dottore o dell’aspetto ‘dottore’ di me stesso, ma della mia psiche – sono insieme malato di psiche e il malato della mia psiche. L’anima è il paziente della sua patologizzazione, e io sono un paziente perché la mia anima patologizza. Il trattamento cerca di rimuovere la patologizzazione, di separarla dall’anima. Se seguiamo il punto di vista psicologico fino alle sue ultime conseguenze, ci rendiamo conto che se vogliamo considerare la patologizzazione in termini psicologici, dobbiamo probabilmente abbandonare tutti quegli atteggiamenti che ci spingono a «far qualcosa», a «portare aiuto» o a «prendere delle decisioni pratiche». Fino a che il nostro scopo rimane quello di alleviare o di correggere siamo impegnati in un trattamento preventivo. La ricerca del trattamento giusto ci porta a letteralizzare la patologizzazione e perciò a ridurla al suo significato medico. Il modello che è nel nostro pensiero crea il caso davanti a noi. Sarebbe perciò opportuno metter da parte l’idea del trattamento come attività letterale, perché a essere coerenti si deve concludere che il «trattamento psicologico» non può esistere. I due termini si escludono a vicenda: affrontare la patologizzazione psicologicamente significa non trattarla, e sottoporla a trattamento significa non considerarla in termini psicologici. È per questa ragione che la psicologia «clinica» è un residuo del modello medico. Essa può dimostrarsi valida caso per caso smantellando le strutture patologizzate. Ma il prezzo che si paga è la perdita del punto di vista psicologico. Perché giudicare in base ai risultati fa parte dell’empirismo medico; la psicologia clinica inoltre accetta come dato di fatto ciò che ancora deve essere dimostrato: la necessità di

demolire le patologizzazioni dell’anima. Prendendo alla lettera la fantasia di malattia dell’anima, ossia interpretandola come patologia clinica, l’approccio clinico crea ciò che deve poi trattare, crea cioè i pazienti clinici. «Psicologico» e «trattamento» non possono essere accostati a meno di non riconsiderare ciò che intendiamo per trattamento e vederlo come fantasia. Avremmo allora la fantasia della droga, la fantasia della dieta, la fantasia chirurgica, la fantasia dello shock, la fantasia delle vacanze, la fantasia del gruppo. E questi sarebbero modi psicologici di immaginare la patologizzazione: tutti parte della psicoterapia, non come trattamenti ma come fantasie che possono servire il fare anima. Con ogni mia nuova fantasia, ad esempio che dieta iniziare o a quale gruppo unirmi, la mia patologizzazione riceve un campo ben definito nel quale può elaborare e convalidare se stessa. La sua stessa attività fantastica è ciò che la nutre e la fa crescere. Tutto ciò avrebbe fine nel momento in cui uno di questi «trattamenti» fosse programmato come terapia letterale. È bene ricordare a questo punto che psicoterapia, secondo il significato etimologico delle parole «psiche» e «terapia» significa servire l’anima, e non sottoporla a trattamento. La psicologia che vado qui elaborando può essere fondamentalmente congiunta con la psicopatologia e inseparabile dal processo di patologizzazione, ma non intende essere un trattamento. Servire l’anima significa anche lasciarla comandare e lasciarsi condurre da lei. Adatto qui la famosa frase di Jung che l’analisi significa sognare per far avanzare il mito, trasponendola in «patologizzare per far avanzare il mito». Se seguirà la guida di questa peculiare attività disordinata la terapia avrà spazio per il bizzarro, il degradato, il fantastico. Così come il nostro modello di pensiero è che «il simile ha affinità col simile», anche la terapia dell’anormale dovrà essere a sua volta anormale. Poiché ciò di cui ci occupiamo sono soprattutto gli aspetti falliti della vita, dovremo metter da parte ogni idea di successo terapeutico. Poiché la patologizzazione è spaventosa, siamo obbligati a seguire la

paura, non con coraggio, bensì come un sentiero che ci conduce verso un centro di reverente timore per ciò che avviene nelle profondità dell’anima. Giunti a questo punto, non dobbiamo lasciarci afferrare dal panico e coagulare quelle spaventose stranezze con una interpretazione letterale, con una diagnosi che esige trattamento. «Patologizzare per far avanzare il mito» significa restare nel caos e, in pari tempo, considerare quello che succede secondo una prospettiva mitica. Noi ci sforziamo di seguire l’anima ovunque essa ci conduca e di apprendere ciò che l’immaginazione va facendo nella sua pazzia. Restare nel caos, nel morboso e nel fantastico non significa abbandonare ogni metodo, ma solo il modello medico. Al suo posto, adottiamo il metodo dell’immaginazione. Seguendo il viaggio della patologizzazione noi miriamo a scoprire appunto i metodi e le leggi dell’immaginale e a distinguerli da quelli del razionale e del fisico. È la follia che insegna il metodo. Prima di qualsiasi tentativo di trattare, o anche solo di comprendere, i fenomeni patologizzati, noi ci accostiamo a essi con un atto di fede, li consideriamo autentici, reali e validi esattamente quanto essi sono. Non riduciamo il loro valore considerandoli segni di malattia medica né lo ingigantiamo considerandoli segni di sofferenza spirituale. Essi sono modi della psiche e vie per trovare l’anima. IL PROFESSIONISMO E LA PATOLOGIZZAZIONE ERRATA

Vedere i nostri sintomi come gli accidenti che ci hanno portato in terapia, invece che come la via regia per entrare nell’anima, significa trascurare la loro importanza nel fare anima, importanza che invece viene trasferita alla terapia. Consegnare con leggerezza i nostri sintomi ai professionisti della terapia significa rafforzare il dominio del professionismo sulla psicopatologia. Qui i critici della psicoterapia hanno senza dubbio ragione: essi hanno capito quanto le professioni assistenziali dipendano dalla fantasia di malattia. Poiché gli stati dell’anima necessitano di aiuto

professionale solo se si accerta che sono malati, tra paziente e terapeuta si sviluppa una collusione riguardo alla psicopatologia. Entrambi ne hanno bisogno per giocare al gioco della terapia. La partita terapeutica è l’attuazione di un modello archetipico. Nel mondo antico si diceva che il Dio che costella una malattia è anche il solo che può toglierla. Il guaritore è la malattia e la malattia è il guaritore. È perciò di primaria importanza scoprire «chi», quale persona archetipica opera in una data psicopatologia, un punto, questo, che abbiamo già discusso nel precedente capitolo. Ma dacché questa antica idea psicologica è stata tradotta nella moderna terapia laica, il «chi» è divenuto il terapeuta professionista. Attribuendo alla specifica patologizzazione un nome clinico, il terapeuta professionista compie la prima mossa di questa partita terapeutica. La prima mossa non è la patologizzazione del paziente. I suoi disturbi e le sue stranezze non sono psicopatologia clinica fino a quando non ricevono questo nome. Fino a quel momento, i sintomi sono dimostrazioni della psiche, un modo del suo essere e del suo esprimersi, parte dalla sua fantasia e della sua afflizione. Ma la mossa che attribuisce il nome professionale crea, non appena compiuta, una entità distinta, dotata di realtà letterale. A questo punto io sono, da un lato, al sicuro da questa «cosa» per il fatto di esserne separato: essa ora ha un nome. Dall’altro lato, però, io ora «ho» qualcosa, o addirittura «sono» qualcosa: un alcolista, un nevrotico ossessivo, un depresso. Inoltre, il terapeuta è divenuto il Dio stesso che, avendo portato l’affezione, è anche il solo che può toglierla. Il paziente è portato a credere nel suo terapeuta: «Lui solo può aiutarmi, perché solo lui sa veramente che cosa non va». Ciò che «veramente» non va significa ciò che non va, ciò che è sbagliato «letteralmente», ciò che è stato letteralizzato e fatto diventare difetto, errore, dal gioco terapeutico professionistico. In questo modo analista e paziente rimangono bloccati in

un’analisi a lungo termine, giacché l’analista è l’unico, il Dio stesso, che è arrivato a vedere l’incurabile punto debole del paziente, il suo tallone d’Achille, il suo disastroso segreto. La visione interiore [insight] dell’analista e la ferita del paziente insieme incarnano la figura archetipica del Guaritore-Ferito, altro antico modo psicologico per dire che la malattia e la sua guarigione sono la medesima cosa. (Nella nostra patologizzazione c’è in effetti una sorta di salute che è connessa con l’anima, e nella nostra salute è in realtà presente un tipo dissimulato di patologizzazione). Ma anche qui, nella moderna terapia laica il Guaritore-Ferito è stato diviso a metà: la malattia sta tutta dalla parte del paziente e la salute tutta con il terapeuta. L’archetipo è scisso, e le due metà vengono tenute costrittivamente assieme in quello che viene chiamato transfert e controtransfert, avvinte in interminabili scontri erotici e di potere, il sado-masochismo del gioco terapeutico. Non meraviglia perciò che la terapia parli con tanta frequenza di «resistenza» e che si scrivano interi testi per spiegare come vincere o come penetrare i «meccanismi di difesa» del paziente. Né stupisce che sia tanto difficile concludere un’analisi a lungo termine, dato che ambedue i partner sono rimasti prigionieri di questa attuazione letteralizzata di un tema archetipico. L’analisi terapeutica ha effetti collaterali che sono non meno letali della droga. Perché patologizzare in modo errato, come fa il gioco terapeutico, significa uccidere. Lévi-Strauss ha osservato che i giochi asimmetrici, come quelli che si svolgono tra i partner ineguali della terapia, terminano con l’uccisione di uno dei contendenti. In psicoterapia l’uccisione avviene a livello psicologico: si crede di «avere eliminato» la nevrosi, il problema, mentre in realtà è l’anima ad essere uccisa – di nuovo in seguito a una patologizzazione errata, a un’errata comprensione dell’anima nel sintomo. La patologizzazione errata va ormai ben oltre le partite che si giocano nello studio dell’analista o nelle cliniche, è ormai diventata un occulto strumento politico dello stato. Si 30

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possono dichiarare malati di mente i dissidenti politici per metterli al bando – procedura che viene disinvoltamente giustificata invocando il bene del «paziente». E non culliamoci nell’illusione che ciò avvenga soltanto in Unione Sovietica. La patologizzazione errata compare sulla scena sociale anche quando ci si serve d’una difesa psichiatrica per giustificare un comportamento rivoluzionario, ad esempio affermando che la vera patologia si trova non nell’imputato ma nella società e nelle istituzioni che l’hanno prodotto, nella legge che non riconosce le realtà psichiatriche, nella morale culturale che non ammette la deviazione sottoculturale. Questa competenza psichiatrica non è impiegata solo per ottenere l’assoluzione dell’imputato o la prescrizione di un trattamento terapeutico invece che punitivo; essa maschera un attacco contro la morale istituzionalizzata in fatto di sessualità, di proprietà e di regolarità del procedimento legale. In questo caso le tesi psichiatriche sulla psicopatologia, soprattutto quelle di tipo anarchico già viste (Szasz, Laing), fanno parte di un programma rivoluzionario. Altro è però sostenere il bisogno di una simile rivoluzione, altro mascherarla con argomentazioni psicopatologiche. Particolarmente insidioso tra tutti questi abusi della psicopatologia è l’uso che ne viene fatto attualmente per mascherare una certa filosofia morale. I concetti di salute mentale e malattia mentale sono idee che riguardano la psiche, l’anima. Quando ci viene detto che cosa è sano, ci viene anche detto che cosa è giusto pensare e sentire. Quando ci viene detto che cosa è mentalmente malato, ci viene anche detto quali idee, quale comportamento e quali fantasie sono sbagliate. Con il concetto di salute mentale viene diffusa una ben precisa ideologia di placido umanesimo borghese che, sotto il vigile controllo dei professionisti, pervade la comunità, i suoi tribunali, le sue cliniche, i centri di assistenza sociale e le scuole. Ogni via di fuga è sbarrata dall’abuso professionale della patologizzazione. Rifiutare la filosofia della salute mentale 32

conferma l’esistenza della propria «malattia». Si ha allora bisogno di una «terapia», di soul sessions nella chiesa di stato, nel consultorio di conversione psicosanitaria finanziato dal denaro pubblico, dove i giovani sacerdoti di buona e seria volontà, la cui influenza sulla comunità incomincia già coi bambini «difficili», danno consigli a intere famiglie su problemi come il divorzio, il suicidio, gli orgasmi e la pazzia – in breve, su eventi cruciali dell’anima. Questi professionisti, veri e propri custodi dell’anima della nazione, debbono forse render conto a qualcuno di quello che accade durante i loro interventi nelle crisi dell’anima? Come sottrarre la terapia alla letale asimmetria del professionismo e agli abusi politici della patologizzazione errata, a un sistema che per poter promuovere la salute deve scoprire la malattia e che per poter ampliare l’area del suo intervento assistenziale è obbligato ad ampliare quella degli stati morbosi? Sacche sempre più fonde di patologia da analizzare, traumi sempre più precoci: primario, prenatale, nel mio corpo astrale; un numero sempre crescente di persone coinvolte nel rituale: la famiglia, i colleghi di lavoro; igiene mentale per la comunità, analisi per tutti. Con la perdita d’influenza della religione, dovuta in parte al suo aver trascurato il significato della patologizzazione dell’anima, e col subentrare alla religione della psicologia terapeutica, l’analisi può offrirsi come il metodo più vitale ed efficace per riscattare le aree condannate della psiche. La terapia è diventata la via del fare anima. Le sue forme pratiche possono variare – terapia di gruppo o individuale, di breve o lunga durata, fisica o verbale, meditazione, psicodramma, condizionamento del comportamento o immaginazione – ma la premessa resta la stessa. Il lavoro del fare anima richiede un aiuto professionale. Il fare anima è ormai circoscritto dalla terapia e nella terapia. E la psicopatologia è stata relegata alla definizione negativa che ne dà la terapia, ridotta al ruolo che essa occupa nel gioco terapeutico. Come togliere le restrizioni che la terapia ha imposto al

fare anima senza, nello stesso tempo, compiere il salto trascendentale che ci porterebbe al di fuori della psicopatologia? Come togliere la psiche dalla prigione della terapia professionale, conservando però la psicopatologia quale fonte e fondamento delle nostre intuizioni? Alla base di questo interrogativo c’è sempre la patologizzazione, perché è stata lei il pungolo che ci ha sospinto verso il professionale. Noi non possiamo liberare l’anima dal suo stato di alienazione nella terapia professionale fino a che non disponiamo di una visione della patologizzazione che, per cominciare, non necessiti di trattamento professionale. Abbiamo bisogno di una nuova visione del processo di patologizzazione dell’anima e di un nuovo sfondo su cui situare i suoi spaventosi fenomeni. LA PSICOPATOLOGIA COME FANTASIA ARCHETIPICA

Anche a voler prescindere dalle varie forme testé esaminate di negazione della psicopatologia, dai vari metodi di terapia medica o di nobilitazione mediante interpretazioni religiose e dalla questione, infine, di quanto sia ingiusto e prevaricatore l’uso della psicopatologia in terapia e in politica, non possiamo però sbarazzarci della patologizzazione come idea psicologica. Una fantasia di essa rimane non solo nei sistemi che ne fanno cattivo uso, ma anche in quelli che vorrebbero negarla o curarla. Questa fantasia è la prova della sua realtà come fattore psichico. La realtà della psicopatologia deve essere tenuta distinta dall’interpretazione che ne diamo e dal nostro comportamento verso di essa. E poiché questa fantasia è la prima realtà della psicopatologia, una visione psicologica della psicopatologia dovrà cominciare col considerarla una delle molte fantasie archetipiche dell’anima. Così come vi sono fantasie archetipiche di salute e di crescita, di salvazione e di ritorno a casa, esistono anche motivi immaginali analoghi di ammalarsi, di esser feriti, di impazzire. L’ammalarsi può far parte della medicina, ma la

sua fantasia appartiene all’anima, che può presentarci malattie nella fantasia, nelle paure e nei sintomi senza alcun segno concreto di malattia medica. E persino in quei casi in cui c’è un rapporto tra fantasia e malattie concrete, la cosiddetta psicosomatica, la fantasia non può essere considerata con letteralismo medico. Come la fantasia di malattia è prima di tutto fantasia (e non malattia), così il suo trattamento richiede una terapia incentrata sulla fantasia (e non sulla malattia). Alla patologizzazione si deve rispondere con un approccio immaginale, non con un approccio clinico. Poiché la patologizzazione è innanzitutto una realtà psicologica, essa richiede una comprensione psicologica. L’approccio psicologico incomincia sempre con la stessa premessa: ogni fantasia, quale che sia il suo contenuto, ci parla dell’anima. Si tratti di incesto, tortura o assassinio, di amore, rivelazione o beatitudine, ogni fantasia è prima di tutto, e indipendentemente dal suo contenuto letterale, un evento psicologico. La fantasia può utilizzare ogni sorta di contenuto, divino o morboso, e nessuna parte di tale contenuto dovrebbe esser presa alla lettera fino a che esso non sia riconosciuto nella sua totalità come fantasia. Prima di esaminare il contenuto patologizzato di una fantasia dobbiamo riconoscere la fantasia archetipica di patologizzazione. La psicopatologia intesa come fantasia archetipica significa che l’anima produce configurazioni e malattie di follia, perversioni e disfacimento nei sogni e nel comportamento, nell’arte e nel pensiero, in guerra, in politica e in religione, perché la patologizzazione è una attività psichica per sé. La malattia psichica resta comunque una categoria archetipica dell’esistenza, indipendentemente dai suoi contenuti. Qualunque definizione si dia della malattia psichica nelle varie epoche o culture, la fantasia di malattia è ininterrotta. I contenuti che la definiscono e la individuano cambiano, ma non devono esser confusi con la categoria stessa. Le definizioni di malattia mentale, che

variano in rapporto al tipo di società, offrono un contenuto specifico per l’idea archetipica di patologia. Queste descrizioni della natura del folle forniscono immagini di psicopatologia, ma non sono la vera descrizione della follia. Abbiamo visto infatti che la descrizione può variare e che i suoi contenuti dipendono in parte dall’idea di sanità che prevale in un dato momento. Le definizioni della psicopatologia non sono universalmente valide nel tempo e nello spazio. Ciò che giova a uno non giova a un altro, appunto perché la follia, come la sapienza, la bontà e la bellezza, è una categoria archetipica. Ed è la fantasia archetipica di follia che conferisce alle definizioni della psicopatologia il loro potere di persuasione; esse però non debbono venire prese come enunciati positivistici che definiscono la vera follia. Questa «vera follia» noi non la conosciamo e non la potremo mai conoscere, perché si tratta di uno pseudoproblema. Ci è dato solo sapere che la psiche definisce sempre folli alcuni aspetti di sé: perché lo faccia è uno degli eterni interrogativi che si offrono alla riflessione psicologica. La patologizzazione provoca la psicologizzazione. Così come l’amore, Dio, la morte, la natura dell’anima stessa, anche la follia è una delle fondamentali fantasie tematiche della psiche. La fantasia di patologizzazione governa soprattutto la pratica della psicoterapia. Non possiamo indagare sull’idea di guarigione o sul suo sfondo archetipico se prima non esaminiamo il paziente che manifesta la fantasia patologica. È il paziente che, incarnando la fantasia di patologizzazione, rende possibile l’applicazione pratica dei vari stili. Senza la fantasia archetipica di patologia non esisterebbero lo sciamano, il medicine-man, la psicofarmaceutica o l’analista. Prima di ogni altra cosa, lo ripetiamo, viene la fantasia. Anche nella rigorosa pratica medica d’oggi, come sembra già osservasse Thomas Sydenham nel diciassettesimo secolo, almeno due terzi delle persone visitate dal medico non hanno nulla di organicamente malato: nondimeno, essi hanno l’esperienza e la fantasia della malattia, ossia

patologizzano. La medicina chiama tale fenomeno «psicosomatica» oppure «disturbo funzionale», e tratta l’attività del patologizzare come stato patologico, ad esempio prescrivendo delle pillole. Medicina e farmacia si sviluppano come professioni grazie all’interpretazione clinica letterale di questo processo primario di patologizzazione. Esse traggono il loro sostentamento molto più dalla fantasia patologica che non dalla patologia organica. Servirsi di un modello medico per comprendere la patologizzazione è quindi una petizione di principio, poiché lo stesso modello medico è un risultato del processo primario di patologizzazione. La fantasia di malattia dell’anima rende in seguito necessarie le persone, i sistemi e la materia medica per reagire alla fantasia stessa. Il modello medico non è altro che uno dei vari modi di affrontare la fantasia di patologizzazione. Esamineremo tra breve altri modi che non considerano tale fantasia come fatto clinico. Poiché la realtà della fantasia viene prima della realtà della malattia, anche la malattia dovrà esser vista con occhio psicologico. Una malattia vera, che presenta una patologia organica ed è oggetto di diagnosi medica, non è solo un evento clinico. Essa è anche, per non dire innanzitutto, un evento psicologico i cui aspetti fisici richiedono un esame psicologico. Non possiamo più operare una separazione netta tra patologia organica e psicopatologia, in accordo con la vecchia distinzione cartesiana tra ciò che è fisico e ciò che è mentale. Ogni cosa, idee nella testa o ossa nel corpo, ha importanza per l’anima ed esprime le sue fantasie. Il corpo ha la sua dimora nell’anima e ogni patologia organica è il frutto di una cooperazione tra l’agente patogeno e la persona umana che lo ospita. Un’infezione deve trovare l’ospite ricettivo, passivo, forse anche accogliente. Persino le malattie provocate da un parassita, o quelle dovute a incidenti, a epidemie o a processi degenerativi, in apparenza organiche e quindi esterne e «non psicologiche», rappresentano la fantasia di patologizzazione e sono assorbite dalla psiche e riflesse in essa. Le componenti di

qualsiasi malattia – l’organo o il sistema colpito, l’agente causale, lo stile del processo morboso – hanno tutte dei loro significati nel linguaggio della fantasia di patologizzazione, oltre che in quello dei fatti patologici. Cuore, pelle, giunture, affezioni congenite, croniche o acute, accidentali, infettive o ereditarie – hanno tutte indistintamente un significato psicologico, sono anch’esse metafore; sono focalizzazioni della fantasia, oltre che focolai di malattia. In termini più soggettivi, la patologizzazione avviene in ciascuno di noi anche senza che vi siano malattie. Abbiamo tutti una predilezione per la patologizzazione. Essa si manifesta nelle nostre fantasie spontanee. Ogni volta che compare un sintomo, oppure un’apprensione per il nostro stato mentale o benessere fisico, la fantasia la traduce immediatamente nella sua ipotesi più grave, nella possibilità dell’incurabile: il torcicollo diventa di colpo meningite imminente, il piccolo ispessimento diventa cancro, l’incubo un presentimento di follia, d’un incidente o di rovina. Si ha l’impressione che ci sia un guasto assai più «profondo», che nel fondo del nostro essere stiano accadendo cose che esigono attenzione immediata. Alla patologizzazione si accompagna la sensazione della presenza di forze oscure nel profondo, sicché essa si manifesta nelle fantasie di psicosi latente, di omosesqualità latente, di criminalità latente, nella paura che in determinate situazioni io potrei crollare, spezzarmi, e allora dalla fenditura striscerebbero fuori i miei demoni patologici. Comunque noi reagiamo al sintomo, con la fortezza dell’eroe, l’umile e grata accettazione del martire o l’azione terapeutica del medico, patologizziamo pur sempre vivendo la parte [enacting] del paziente. L’evento sintomatico non può essere lasciato stare, lasciato così com’è: bisogna cominciare a ritualizzarlo. Esso diviene il simbolo di qualcosa di ulteriore, e noi, da parte nostra, cadiamo in tutta una serie di comportamenti bizzarri, improvvisamente impotenti come bambini o angosciati da idee di debolezza e di morte. La patologizzazione è all’opera.

Il naturale movimento della psiche nella fantasia verso la condizione malata è già stato etichettato dal linguaggio della psicopatologia, ove è chiamato ipocondria. Ma che cos’è l’ipocondria? A quali eventi dell’anima si riferisce questo termine? L’affermazione di Freud che nulla è più estraneo all’io del sintomo diviene più perspicua con l’esperienza dell’ipocondria. Quali monumenti di arroganza saremmo mai se non fosse connaturata in noi la fantasia di imperfezione! Le afflizioni ipocondriache agiscono come un feedback negativo, proteggendo l’io dai suoi deliri di grandezza. Chi è più sospetto di colui che dice: «Io sto benissimo», «mai stato malato», «non c’è assolutamente nulla di fuori posto»? L’ipocondria apre una porta che conduce fuori dall’io; di essa l’io si lamenta di continuo, ma non può richiuderla. O, per dirla in altro modo e non dalla prospettiva dell’io, la coscienza eroica non ha posto per l’afflizione. Durante la guerra di Troia gli eroi non sopportavano Filottete il quale, benché eroe come loro, lamentava una ferita al piede che non smetteva di suppurare. Perciò lo abbandonarono su un’isola, isolandolo da loro. Ma l’afflizione di Filottete era la sua ferita inguaribile, oppure la sua «ferita» era l’affliggersi (ipocondria) che lo separava dallo stile eroico? Per l’eroe una ferita o uccide o guarisce, non resta perpetuamente aperta. Ci è stato detto più volte che ipocondria significa soffrire di mali immaginari; ma non significa, piuttosto, soffrire i mali dell’immaginazione? Le afflizioni ipocondriache hanno a che fare con le ferite che l’io ha ricevuto attraverso l’immaginazione, e l’ipocondria riflette un processo di patologizzazione che costringe l’io a divenir consapevole dell’immaginale operante non solo nelle immagini della mente ma anche nelle sensazioni del corpo, nella psiche somatica. L’ipocondria rende l’immaginale dolorosamente reale, ci fa riconoscere che l’immaginale include la vita fisica e parla in essa e attraverso di essa. Possiamo perciò comprendere quanta e quale parte abbia avuto l’ipocondria nello sviluppo dell’idea di nevrosi, di disturbi puramente 33

psicologici. Essa è il prototipo dell’afflizione psicologica, della dolorosa protesta della psiche per essere considerata soltanto fìsicamente – e anche non abbastanza somaticamente. LA PATOLOGIZZAZIONE COME LINGUAGGIO METAFORICO

La psiche si serve delle afflizioni per parlare, in un linguaggio esagerato e deforme, delle proprie profondità. Noi sappiamo che un’improvvisa alterazione del polso non è un disturbo cardiaco, sappiamo di non aver inavvertitamente contratto la sifilide anni addietro. Sono paure stupide, ci ridiamo sopra, ma esse rimangono. C’è qualcosa che insiste a raccontarci queste storie strane e inquietanti. Iniziamo perciò la nostra revisione della patologizzazione considerandola come una maniera di raccontare, come un modo in cui la psiche parla a se stessa. Vediamola come uno stile di linguaggio. La psiche usa molte lingue per descriversi. Noi le vediamo con la massima chiarezza nei sogni, perché come abbiamo visto questi rappresentano il miglior modello dell’effettiva struttura della psiche. I sogni ci raccontano le storie dell’anima servendosi di persone, e usando anche un linguaggio fatto di animali e di paesaggi, così come gli Dei si servivano di persone, animali e paesaggi per raccontare le loro varie qualità archetipiche. L’anima può parlare di sé come di un deserto, di un’isola, di un aeroporto. Può essere una vacca o una tigre. I sogni usano anche elementi del corpo come parti del linguaggio onirico, e allora piedi, denti o cuore non si riferiscono alle parti del corpo concrete. Anche la famiglia viene usata come modo di linguaggio simbolico, e allora «fratello», «padre» o «figlio» comunicano messaggi emotivi che vanno al di là dei familiari reali. Oltre a servirsi di queste modalità, i sogni parlano con immagini psicopatologiche: il bambino idiota, il ragazzo affetto da paralisi infantile, la figura dagli strani occhi psicopatici, oppure distesa su un tavolo operatorio mentre le

viene asportato l’utero. Qui ci occorre lo stesso modo simbolico di intendere che ci ha insegnato come le modalità oniriche di linguaggio non si riferiscano a geografie e ad animali concreti, alle concrete parti del corpo o ai membri della famiglia. La psiche in questi momenti usa uno speciale sistema linguistico metaforico, assai particolareggiato e realistico, che sembra funzionale a uno scopo specifico. Le figure sofferenti – storpie, affette da una malattia venerea, vittime inarrestabili di incidenti, chiuse a chiave in una corsia d’ospedale – hanno un eccezionale potere di commuoverci. Ci ridestiamo di soprassalto, angosciati, il loro ricordo ci insegue per tutto il giorno, siamo psicologicamente tesi e irascibili. Le immagini patologizzate hanno mosso l’anima in svariati modi: abbiamo paura, ci sentiamo vulnerabili e in pericolo, la nostra stessa sostanza fisica e la nostra sanità mentale sembrano minacciate, sentiamo il bisogno di impedire o di correggere. Quest’ultimo impulso è particolarmente forte. Ci sentiamo in dovere di proteggere, siamo spinti a rettificare, a raddrizzare, a riparare. E ciò perché abbiamo confuso qualcosa di sofferente con qualcosa di guasto o di sbagliato. Le immagini patologizzate suscitano effettivamente colpa, e non solo per via della lunga tradizione storica che lega tra loro peccato e malattia. I sentimenti di colpa derivano da cause che vanno ben oltre le cause storiche: essi sono psicologicamente autentici perché l’afflizione ci raggiunge in parte attraverso il senso di colpa che essa provoca. La colpa appartiene alle esperienze di deviazione, alla sensazione di essere fuori strada, di venir meno, di «mancare il bersaglio» (hamartia). In effetti, è assai dubbio che colpa e patologizzazione possano essere così separate una dall’altra da rendere possibile sentirsi patologizzati e vulnerabili senza nello stesso tempo provare colpa. Tuttavia, si manca veramente il bersaglio se si prende la colpa in senso letterale, se le insufficienze diventano difetti, errori da correggere. La colpa allora viene addossata all’io, che «non avrebbe dovuto» venir meno, mancare. La 34

patologizzazione rafforza così lo stile dell’io e la colpa serve in aggiunta ad accrescere il senso d’importanza dell’io, che diviene super-io, incessantemente spinto a raddrizzare ciò che è storto. Un io colpevole non è meno egocentrico di un io gonfio d’orgoglio. Possiamo tuttavia liberarci da questo stile di colpa vedendolo in trasparenza come un’attività difensiva che impedisce l’emergere delle fantasie archetipiche. Perché dal punto di vista archetipico, ciò che importa non è tanto il fatto di sentirci colpevoli, quanto piuttosto verso chi ci sentiamo colpevoli: a quale persona della psiche appartiene la mia afflizione, entro quale mito si colloca, e rivela forse un obbligo? Quali figure, e in quali complessi, avanzano in quel momento le loro rivendicazioni? Considerata da questa prospettiva, la colpa portata dalla patologizzazione assume una radicale importanza. Essa, infatti, conduce fuori dell’io, fa riconoscere che in virtù di un’esperienza patologizzata io sono legato a delle persone archetipiche che vogliono qualcosa da me e alle quali io debbo reverente ricordo. Un’immagine malata non può non affliggerci in modo vitale perché la patologizzazione tocca appunto il nostro senso della vita. Essa guasta e rende vivi nello stesso tempo, è una stimolazione mediante distorsione. Il senso di vitale afflizione che proviamo ci conduce a una reazione naturale. Proprio perché la fantasia o l’immagine onirica è così concretamente vivida e noi la sentiamo così vitalmente, la nostra risposta è un’azione concreta di stile medico. Ma così facendo dimentichiamo che l’immagine fa parte del linguaggio onirico e che il senso di afflizione è parte altrettanto necessaria di quel linguaggio quanto l’aspetto sentimentale della metafora. L’afflizione riflette un pathos, un esser mossi o un movimento, che ha luogo in quell’istante nella psiche. Le categorie di negativo e positivo, di salute e malattia, sono qui del tutto irrilevanti. Al contrario, noi riteniamo che in questa maniera viene espresso qualcosa di essenziale per la sopravvivenza della psiche, per la sua vita stessa e la sua morte, qualcosa che non potrebbe essere

espresso con il medesimo sottile e vitale impatto in nessun altro modo. Sicché vorremmo conservare i fenomeni esattamente come sono, senza trattarli né curarli. Le fantasie di malattia sono considerate fin dall’inizio e nella loro interezza come parte della profondità della psiche – e noi siamo psicologi del profondo in virtù di questi enigmi patologizzati che forniscono la materia soggettiva della riflessione psicologica. La patologizzazione si serve del linguaggio degli eventi naturali, ma questo non significa che tali eventi debbano esser considerati naturalisticamente. Digressione sull’errore naturalistico Per errore naturalistico io intendo l’abitudine psicologica di paragonare gli eventi della fantasia con eventi analoghi in natura. Noi tendiamo a giudicare le immagini oniriche come giuste o sbagliate (positive o negative) soprattutto in base a parametri naturalistici. Quanto più un’immagine appare conforme a natura tanto più essa è positiva; quanto più è distorta, tanto più è negativa. Non dissimilmente dall’errore filosofico a esso affine, anche l’errore naturalistico in psicologia afferma che il modo in cui le cose sono in natura costituisce la norma per come dovrebbero essere nei sogni. Ma la natura non può essere la guida per comprendere l’anima. Comprendere i sogni in ragione della loro somiglianza con la natura semplifica sia la natura sia il significato spirituale e psichico dei sogni, giacché le analogie a ciò che è presentato nelle immagini oniriche vengono trovate soltanto nel regno della natura. In natura un evento può giustamente esser confrontato con un altro, il che ci consente appunto di vedere deformità e patologie. Un olmo ammalato su una strada viene a ragione rapportato a parametri ricavati da altri olmi. Ma un albero inaridito che si trova nella mente deve essere confrontato con altri fenomeni mentali, con alberi inariditi appartenenti ai regni della psiche e dello spirito. L’albero del sogno, infatti, è un albero

immaginale e i campi che contengono alberi utili a un confronto si trovano nell’immaginazione: pittura, letteratura, poesia, visione, mito, sogno. L’errore naturalistico è frequente perché richiede pochissimo sforzo da parte dell’interprete. Per trovare dei modelli è sufficiente che egli osservi intorno a sé gli eventi naturali di tutti i giorni. La stessa facilità d’interpretazione è un aspetto dell’errore: un seguire la natura per inerzia. Il naturalismo scade facilmente in materialismo, visione che mette al primo posto il modo in cui le cose sono nel mondo percettuale degli oggetti, dei fatti e delle realtà sensibili. Esso sostiene la precedenza della realtà materiale e il dovere della realtà psichica di conformarsi a essa: psyché deve obbedire alle leggi di physis e l’immaginazione seguire la percezione. Ma questa prospettiva non può render giustizia alla qualità condensata dei sogni, ai loro peculiari modi di negare i princìpi della materia, cioè spazio, tempo e causalità. Il linguaggio psichico è condensato e distillato, come quello della poesia. Si trova a un altro livello, da un significato naturale è salito a un significato immaginativo. La condensazione accresce e intensifica il significato. Questo vale anche per gli altri termini usati da Freud per descrivere il linguaggio del sogno: distorsione, spostamento, iperdeterminazione. Essi non sono mere modalità inferiori di pensiero (come appaiono dal punto di vista naturalistico), bensì modi di discorso poetico, retorico e simbolico. Per quanto il sogno, e il sintomo stesso, possano essere «la cosa più naturale del mondo», presenti come sono anche negli animali, essi non sono natura ma cultura. Sono natura che ha subìto un processo di trasformazione all’interno dell’immaginazione. Ricondurre i sogni alla natura misurando le loro immagini sulla norma degli eventi naturali significa non capire la straordinaria intensificazione della fantasia. Significa non capire che sogno e fantasia, e i sintomi stessi, sono impegnati a fare anima nel bel mezzo della natura.

A differenza del naturalismo in estetica o in filosofia e nelle scienze naturali, la convenzione naturalistica di cui fanno uso i terapeuti non è mai stata sottoposta a un esame critico. Lo psicologo che si fonda solitamente su questa o quella tra le oltre sessanta connotazioni del termine natura, non ha mai riflettuto pienamente su questa parola, i cui molti significati tradiscono la possibilità di differenti influenze archetipiche. Il naturalismo della grande Dea del grano e delle messi ha sottintesi psicologici diversi da quelli che la natura presenta per l’eroe, per il quale essa è un mondo di cose esterne o di impulsi interni da vincere e imbrigliare. E queste «nature» sono a loro volta diverse dalla verginale natura primigenia di Artemide, da quella di Pan, di Dioniso, o dalla razionale natura meccanicistica di Saturno. La pratica terapeutica tende a essere ‛naturalmente’ ingenua, a vedere solo il proprio volto di semplicità e fiducia, ignara del fatto che la natura assume il volto del Dio che in quel momento determina ciò che vediamo dal nostro punto di vista soggettivo. Se la guardiamo con l’adorante romanticismo di una ninfa della natura, essa ci mostra in risposta lo stesso volto. La semplicistica idea di natura usata in terapia induce a idealizzare il naturale, a vederlo come una natura senza deformità, irrazionalità e idiosincrasie individuali. Poi questo modello ideale viene usato a fini moralistici, per condannare ciò che nei sogni e nei sognatori devia dalla natura. L’errore naturalistico dà così il via a tutta una serie di errori concatenati: l’errore nomotetico (interpretare immagini oniriche particolari per mezzo di leggi generali), l’errore normativo (interpretare immagini particolari in base a parametri idealizzati, cioè, in base a come un’immagine sarebbe dovuta apparire in una situazione normale), l’errore moralistico (interpretare le immagini innaturali come anche immorali). Tutte queste prese di posizione trascurano il fatto fondamentale che gli eventi dell’immaginazione non accadono nella natura empirica. Un bambino multicolore, una donna con pene eretto, una quercia che produce ciliegie, 35

un serpente che diventa un gatto parlante, non sono immagini né sbagliate, né false, né anormali perché innaturali. Le tigri dell’immaginazione non sono relegate nelle giungle e negli zoo; esse possono acquattarsi sulla mia libreria oppure avanzare furtive lungo i corridoi del motel di ieri notte. Le immagini patologizzate debbono essere lette nello stesso modo: un bambino affogato, un animale scuoiato ma ancora vivo, oppure la perdita di denti, capelli o dita non si riferiscono a eventi analoghi nella natura empirica. Prendiamo l’esempio di un paziente che sogna un cavallo da corsa con una gamba spezzata. L’errore naturalistico procede così: comincia coll’andare alla ricerca di un cavallo del ricordo, risalente al giorno prima o all’infanzia, in modo da poter capire il cavallo del sogno in base ad associazioni personali con cavalli naturali. Poi confronta il cavallo del sogno con i cavalli naturali in genere. Poiché un cavallo naturale con una gamba spezzata starebbe molto male, anche il cavallo del sogno sta male. Inoltre, il cavallo del sogno non «dovrebbe» avere una gamba spezzata. E giacché un cavallo naturale in queste condizioni verrebbe probabilmente abbattuto, il cavallo del sogno rappresenta il pericolo di morte, oppure il desiderio di uccidere o il desiderio di autodistruzione. Quanto più letterale è il naturalismo, tanto più probabile è una interpretazione in termini di malattia grave o di serio pericolo. La terapia cercherà perciò di salvare il cavallo (errore medico), ove «cavallo» può significare qualsiasi cosa, dalla vitalità del paziente, la sua stessa vita, fino a una non meglio specificata carica libidica portata da un certo aspetto della sua vita. Il cavallo da corsa può essere invece interpretato amplificandolo con altri temi: la potenza equestre di Wotan e di Poseidone; il cavallo-eroe conquistatore dello spazio degli unni, dei mongoli, dei crociati, degli arabi, degli spagnoli; i motivi della velocità, della gara, della vittoria; i sacrifici equestri romani e vedici; il cavallo della morte; il motivo dell’«animale curato dall’uomo». Il cavallo del sogno è più eloquente del cavallo del ricordo o della natura. La ferita

dell’afflizione apre tutta una serie di percorsi simbolici, mitici e culturali di visione interiore. Possiamo così vedere come il cavallo ferito sia il «portatore» della vulnerabilità del sognatore. Egli è ora bloccato, aperto, chiede un significato. La ferita è ciò che permette alla psiche di spostarlo dalla sua posizione precedente – cavalcare verso la vittoria – a una nuova consapevolezza attraverso la caduta e la rottura. La gamba spezzata è il punto focale di tale mutamento da natura in cultura. Se riteniamo che il cavallo debba rimettersi sulle quattro gambe, guarito, abbandoniamo l’immagine com’essa è e andiamo contro il sogno stesso. Se, al contrario, rimaniamo con il cavallo così com’è, con la gamba spezzata, allora l’immagine patologizzata dà al sognatore una più chiara visione interiore: gli fa capire, ad esempio, che egli ha spronato la sua cavalcatura all’eccesso, che ha abusato della sua vitalità fisica per gareggiare e vincere orgogliosamente su un destriero purosangue. L’immagine patologizzata rende possibile una nuova riflessione che il sognatore sente intensamente perché è accompagnata dall’afflizione e tocca l’anima nel punto della morte. La ferita rappresenta il vero centro di questo movimento dalla vecchia posizione, eretta e altera sul cavallo che corre veloce con il flusso naturale dell’energia, a quella presente, che porta il riconoscimento di altre realtà, di realtà psichiche. Quanto all’immagine, essa rappresenta il repentino spostamento di prospettiva dalla vita alla morte, dalla realtà fisica alla realtà psichica, dalla natura all’immaginazione. IL CROLLO DELLA PSICOLOGIA NORMALE

Perciò, per comprendere il linguaggio metaforico della patologizzazione non dovremmo guardare ciò che è contorto, fallito o moribondo raffrontandolo implicitamente con ciò che è diritto, ideale o vitale. Scegliere una prospettiva diversa da quella presentata nelle immagini e nella fantasia significa creare una polarità. Questa polarità tra il diritto e il

distorto, attuata dal dottore e dal paziente, non fa che rendere più acuta la letale asimmetria del gioco terapeutico. Ma una volta respinte le ipotesi di erroneità, non dobbiamo certo passare a credere che le immagini di malattia non dovrebbero esistere del tutto, ovvero che richiedano un intervento in quanto sintomi di pericolo. Se vi è qualcosa di sbagliato o pericoloso riguardo alle fantasie patologizzate, è il nostro modo di trattarle, che può trasformarle precisamente negli eventi che temiamo. Il nostro atteggiamento verso la patologizzazione può risultare più distruttivo della patologizzazione stessa. Nondimeno si può sostenere che la nostra percezione del distorto è effettivamente condizionata dalla norma del diritto. Se anche è vero che la psicopatologia parla una lingua straniera cui si deve lo stesso rispetto che diamo a tutte le lingue diverse dalla nostra, questo linguaggio non è però soltanto straniero, è anche distorto. Esiste, a un certo punto, la presupposizione di un ideale o di una norma. Se non esistesse nessuna posizione naturale da cui partire per stabilire un confronto, non potrebbe esserci neppure fallacia; se non ci fosse letteralismo, come potremmo riconoscere la prospettiva simbolica metaforica? Parlare di distorsione e di deviazioni sottintende degli standard normali. A questo punto è necessario fare una distinzione. Ideali e norme forniscono i mezzi per vedere la patologizzazione, ma non li si deve considerare mezzi per misurare la patologizzazione. Dal punto di vista psicologico né la norma statistica né quella ideale sono in alcun modo pertinenti al valore intrinseco di una fantasia o di un’esperienza patologizzate. I miei incubi, le mie coazioni e angosce possono essere essenziali per il mio lavoro, per il mio stile di vita, per i miei rapporti con gli altri. Le norme sono modalità percettive per vedere i contrasti; sono metodi colorimetrici che ci aiutano a rilevare con più nettezza le deviazioni. Rendendoci conto della forza con cui un evento è patologizzato, percepiamo con più immediatezza la sua importanza. Ma il valore psicologico di ciò che avviene in un

dato momento non è stabilito né dalla norma né dalla deviazione, bensì dall’afflizione stessa. Essa comunica il proprio significato interiore nelle immagini fantastiche che l’accompagnano. La patologizzazione, perciò, affligge la stessa fantasia di norme, l’idea che vi siano parametri oggettivi, punti di riferimento per l’anima, per la sua fantasia, la sua follia, il suo destino. Quando un terapeuta sostiene che non vi sono due casi uguali, non pensa solo ai singoli particolari accidentali ma al senso più profondo che l’essere umano è essenzialmente un essere «differente», e che l’individualità viene data insieme con la particolare miscela d’anima, con la complessità della sua composizione. Sicché quando Jung definisce l’individuazione un «processo di differenziazione» e la differenziazione come «lo sviluppo delle differenze, la separazione delle parti dal tutto», ciò significa il rendere cosciente ciò che ci differenzia da ogni altra persona. Ma questo significa anche le nostre differenze interne derivanti dalle nostre multiple persone interne. Perciò, un individuo non può stabilire una norma neppure per se stesso. Le molte persone che agiscono in un individuo differiscono nei sentieri da seguire, hanno momenti diversi di ascesa e decadenza, Dei diversi a cui obbedire. La dottrina (presente in Cina, in Egitto, in Grecia) che vuole vari tipi di anima, di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, mostra anche come queste anime siano soggette a destini differenti. Alcune ascendono, altre affondano nella terra o più sotto ancora, oppure si riuniscono agli antenati, e così via. La disgregazione dell’individuo alla morte, la dissoluzione della sua complessità, che il Buddha insegnò nel suo ultimo enigma ammonitore – «La decadenza è insita nelle cose composite. Lavora con diligenza alla tua salvezza» –, indica l’assoluta non normalità di ciascuna persona individuale. Se il principio fondamentale della vita psicologica è la differenziazione, allora nessuna prospettiva singola può abbracciare la vita psicologica, e le norme sono le illusioni che le parti si prescrivono l’un l’altra. Ciò che è regola per 36

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una figura può essere patologia per un’altra, e ciò che per una parte è patologia può essere normalità da un’altra prospettiva sempre entro un medesimo individuo. L’anarchia, il relativismo assoluto di questo insistere sulle differenze, può essere risolto soltanto con una più profonda prospettiva che tenga pienamente conto degli incessanti collegamenti e fantasie in atto tra le persone della psiche. Intendo qui la prospettiva politeistica descritta nei miti, in cui le norme sono i miti stessi nella loro azione di strutturazione e guida dell’esperienza. Essi ci dicono dove siamo, ma non dove dovremmo essere; e neanche loro sono mai gli stessi, ma variano e deviano, talché non esiste per nessun mito un unico modello basilare, esistono soltanto delle variazioni. Ma abbiamo già accennato al posto del mito nella organizzazione della psiche, e ritorneremo più avanti su questo argomento. Adesso il problema è quello di riconoscere l’impossibilità di fissare delle misure per gli eventi psichici. Eraclito, Plotino, Agostino, Kant e Hegel hanno sostenuto, ciascuno a suo modo, che l’anima – la sua profondità, immaginazione, soggettività, interiorità – è immisurabile. Norme di misura e anima sono incommensurabili. Possiamo solo parlare di fantasia di misurazione e di fantasia normativa come modi in cui la psiche cerca di divenir consapevole delle proprie differenze guardando in specchi incapaci di rimandarle un riflesso veridico. Siamo costretti ad abbandonare completamente ogni idea d’una norma ideale e d’una norma statistica dell’uomo. Accettare fino in fondo la patologizzazione comporta il collasso di qualunque psicologia normativa derivata da standard esterni. Studi, eperimenti, risultati di ricerche, tipicità, riguardano il fare anima solo in quanto offrono materiali per la fantasia, mentre i tipi ideali di comportamento ricavati da santi, da sapienti o dalla statistica hanno valore non come norma di comportamento ma come modelli metaforici per l’immaginazione personificata.

Lasciamo perdere quindi l’ideale normativo di salute come equilibrata interezza, immagine che deriva da medie statistiche o da idealizzazioni del mens sana in corpore sano, l’immagine superomistica dell’uomo-Dio imperante nelle fantasie che il nostro io ha di se stesso: un eroe marmoreo senza scalfitture o difetti, scolpito in un blocco unico, perpetuamente in equilibrio sul proprio centro di gravità. Perché a noi interessa il sintomo, la cosa così estranea all’io, la cosa che mette fine all’impero normativo dell’eroe – il quale, come disse Emerson, è colui che è centrato immobilmente. La patologizzazione fa avanzare il mito dell’individuo facendo innanzitutto uscire quest’ultimo dall’io eroico. Riteniamo che questo linguaggio patologizzato non parli intenzionalmente di perfezione umana, e neppure dell’essere umano completo, con le sue ferite e la sua croce; la psiche ci parla invece delle sue lacune, dei suoi vuoti e dei suoi spazi incolti. E siamo persuasi che la storia raccontata in queste immagini non parla neppure di noi, uomini e donne, né in primo luogo dell’essere umano, ma parla invece di se stessa, dell’essere psichico; cosicché la deformazione delle immagini umane con mutilazioni, fratture e suppurazioni decompone la nostra icona umanistica e la nostra visione spirituale della perfettibilità dell’uomo, manda in pezzi tutte le sue immagini normative e presenta al loro posto una fantasia psicologica dell’uomo cui non sono pertinenti né il naturalismo né lo spiritualismo. Tanto l’uomo spirituale quanto l’uomo naturale vengono trasformati attraverso un processo di deformazione in uomini psicologici. La patologizzazione è un iconoclasma; come tale essa diviene una via primaria del fare anima. Essa libera l’anima dai vincoli della sua identificazione con l’io e la sua vita, con i luminosi eroi sovramondani e gli Dei superiori che forniscono all’io i suoi modelli e che hanno reso la nostra coscienza così angustamente unilaterale e repressiva nei riguardi della vita, della salute e della natura. La patologizzazione costringe l’anima a prender coscienza di se

stessa, come entità diversa dall’io e dalla sua vita – una coscienza che obbedisce a proprie leggi di attuazione metaforica in intimo rapporto con la morte. SFONDI IMMAGINALI PER LA PATOLOGIZZAZIONE I. L’ALCHIMIA

La psicologia può cercare altrove uno sfondo su cui situare la patologizzazione. Vi sono campi in cui fantasie bizzarre e figure afflitte sono la norma. Questi campi non pretendono che la psiche sia conforme ad altre prospettive – medica, religiosa, umanistica o altro. Poiché si mantengono completamente entro il regno dell’immaginazione, essi offrono un modo psicologico di vedere la patologizzazione. Nel guardare all’alchimia quale nostro primo esempio, teniamo a mente che essa era la psicologia del profondo di un’epoca più antica. Una sorta di stadio primordiale dell’analisi psicologica più che dell’analisi chimica. L’alchimista proiettava sui suoi materiali le proprie profondità, e mentre operava su di essi, operava in pari tempo sulla propria anima. Il mezzo di questo lavoro era l’immaginazione: l’alchimia era un esercizio immaginativo rivestito di un linguaggio fatto di sostanze concrete e di operazioni impersonali e oggettive. Ed è appunto perché l’alchimia presenta esempi così precisi, concreti e ricchi del processo immaginativo del fare anima che io ne parlo così sovente in questo libro. I materiali, i recipienti e le operazioni del laboratorio dell’alchimista sono metafore personificate di complessi, atteggiamenti e processi psicologici. Le operazioni che un alchimista eseguiva su cose come il sale, lo zolfo e il piombo erano, nello stesso tempo, operazioni sulla sua amarezza, la sua sulfurea combustione, la sua lentezza depressiva. Il fuoco che egli curava e regolava con minuziosa esattezza era l’intensità del suo spirito, il suo declinante o bruciante interesse. Per mezzo di fantasie concretamente fisiche, lo psicologo alchemico operava allo stesso tempo sull’anima dei 38

suoi materiali e sulla propria anima. Nelle profondità dell’anima c’era anche psicopatologia e, in effetti, le sostanze e i processi stessi venivano concepiti in un linguaggio patologizzato, cosicché in alchimia troviamo che la patologizzazione è un aspetto integrale e necessario del fare anima. Questo è talmente vero che allorché penetriamo nel pensiero dell’alchimia questi eventi perdono il loro stigma di malattia e diventano metafore di fasi necessarie del processo del fare anima. Troviamo così processi di smembramento, tortura, cannibalismo, decapitazione, scuoiamento, avvelenamento; immagini di mostri, draghi, unipedi, scheletri, ermafroditi; operazioni che portano il nome di putrefazione, mortificazione, polverizzazione, dissoluzione. Le xilografìe e i disegni degli alchimisti rappresentano questi processi con un’infinità di configurazioni bizzarre e oscene. Alla radice di queste immagini e attività intensamente patologizzate c’era l’idea fondamentale che l’anima è perduta nella sua prospettiva letterale, nella sua identità con la vita materiale. Essa è prigioniera di coagulazioni di realtà fisiche. Questa prospettiva della realtà deve decomporsi e disgregarsi, deve venir scorticata e sensibilizzata, oppure annerita dalla frustrazione melanconica. Abitudini e atteggiamenti che oscurano la visione interiore della psiche e hanno perduto significato psichico debbono esser dissolti o resi maleodoranti fino a diventare mostruosi e nauseabondi, o ridotti in polvere fino a scomparire. Queste operazioni facevano parte di quello che in alchimia era chiamato l’opus, l’operazione che oggi in psicologia viene indicata con l’espressione «penetrare le resistenze». Nello studio dell’analista abbiamo personalizzato le resistenze, mentre nel laboratorio dell’alchimista esse erano considerate qualità necessarie del materiale stesso, un aspetto del materialismo e del naturalismo in cui è imprigionata la psiche. Liberare la psiche dalla sua visione materiale e naturale di sé e del mondo è un opus contra naturam. Le esperienze di

patologizzazione sono essenziali per la trasformazione del punto di vista dell’anima giacché esprimono la decomposizione del naturale; esse presentano immagini che non hanno né possono avere posto nel mondo naturale. Pur lavorando con materiali naturali quali l’urina, il mercurio o l’antimonio, l’alchimia trasformava queste sostanze in fantasie. Essa riconosceva la natura sostanziale della fantasia e l’aspetto fantastico di tutte le sostanze naturali. Questo era il suo vero opus contra naturam: la trasmutazione, entro l’alchimista stesso, della prospettiva naturale in prospettiva immaginale. E per questo atto creativo era indispensabile la patologizzazione. Le patologizzazioni, in effetti, erano stadi necessari dell’anima nel corso del suo processo di trasmutazione. Il processo alchemico era un processo di patologizzazione: la trasformazione è una esperienza di patologizzazione. E nessuna di tali condizioni veniva immaginata in termini morali o medici. Perciò è prima di tutto all’alchimia che dobbiamo guardare per comprendere analoghi eventi distruttivi e deformati che si verificano oggi nella psiche. L’alchimia, come disciplina psicologica, ebbe termine molto tempo fa, ma i processi alchemici della psiche continuano a prodursi come allora. Oggi, perduto il modello alchemico, siamo obbligati a classificare molti di questi processi come psicopatologia. II. L’ARTE DELLA MEMORIA

L’arte della memoria offre un secondo esempio di sistema di immaginazione tecnico e oggettivato in cui è necessaria la patologizzazione. Quest’arte era una straordinaria tecnica impiegata ininterrottamente dall’epoca classica fino a tutto il Rinascimento per ordinare la memoria (o l’immaginazione, giacché questi termini rimandavano l’uno all’altro e in certi casi erano interscambiabili, pressappoco come oggi c’è la tendenza a comprendere entrambi sotto il nostro termine «inconscio»).

La memoria umana veniva concepita come una sorta di ricco museo o di teatro interiore, piuttosto che come un sistema di schedatura alfabetico o cronologico. Mentre un sistema di schedatura enciclopedico è un metodo mediante il quale si scrivono dei concetti, disponibili pagina dopo pagina, un teatro è un luogo nel quale si prende visione di immagini, disponibili tutte assieme. Nell’arte della memoria, gli eventi si raggruppano in fasci o costellazioni, perché condividono il medesimo significato o modello archetipico e non semplicemente perché iniziano tutti con la lettera A o B o perché sono accaduti nello stesso giorno o nello stesso anno. L’organizzazione della mente era basata su significati intrinseci, non su arbitrarie etichette nominalistiche. In quest’arena della memoria era possibile immagazzinare tutte le informazioni dell’universo, talché quest’arte metteva a disposizione di chi era in grado di padroneggiarne le tecniche un sapere universale. Era nello stesso tempo un sistema di ricupero e un modello strutturale per ordinare i fondamenti e le gerarchie dell’immaginazione secondo princìpi archetipici. Le rubriche ordinatrici che fornivano le categorie erano soprattutto gli Dei planetari e temi tratti dai miti classici. Essenziale per ricordare (a quale gruppo appartenesse una data idea o un dato evento naturale) era la distorsione, una «psicologia torturata», come l’ha chiamata Frances Yates. I volti, le posizioni e l’abbigliamento delle figure da ricordare venivano distorti in forme bizzarre e innaturali, divenendo «disgustose e orribili in modo impressionante». Erano, cioè, patologizzati. I maestri di quest’arte si servivano di rappresentazioni corporee al posto di concetti. Le nozioni acquistano particolare vividezza quando sono concretamente personificate, soprattutto se le sembianze del corpo sono comiche, mostruose, insanguinate e malate. Questi metaphorica (come li chiamava Alberto Magno) stimolano la memoria molto di più di quanto non facciano le immagini normali. Le immagini patologizzate erano imagines agentes, immagini attive, veri e propri sommovitori dell’anima. 39

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Se sostituiamo la parola memoria con «anima immaginale» o con «il regno dei ricordi, delle fantasie e delle emozioni inconscie», come venne a essere chiamata in seguito, riusciamo meglio a comprendere il funzionamento di quest’arte. Traducendo l’arte della memoria in una lezione sul fare anima, impariamo allora che per muovere veramente l’anima è necessaria una psicologia torturata. Perché l’anima venga colpita nelle sue profondità immaginali così da conseguire una certa intelligenza di sé – o, come diremmo con maggior distacco oggi, «per divenir consci dell’inconscio» – sono necessarie delle fantasie patologizzati. Un’immagine insanguinata o oscena in un sogno, una fantasia ipocondriaca, un sintomo psicosomatico, sono dichiarazioni fatte nel linguaggio immaginale che la psiche sta subendo un profondo rimescolamento, e queste fantasie patologizzate sono precisamente il punto focale dell’azione e del movimento nell’anima. L’importanza dell’immagine orripilante è ancor oggi riconosciuta in psicologia. È nei traumi (minacce di castrazione, scene primarie, parricidio, madri che respingono, fratelli e sorelle orribilmente gelosi e altre fantasie vivamente sconvolgenti) che la psicoanalisi ricerca tuttora i sommovitori primari dell’anima, le fonti della sua psicodinamica. L’arte della memoria è tuttora utile anche in un altro senso. Essa ci consiglia su come trattare le immagini interiori. Allorché si entra nell’immaginazione, sembra che ci si debba mantenere aderenti alle immagini, poiché, come dice Alberto Magno, quest’arte non dovrebbe «distendere l’anima» facendole attraversare «spazi immaginari, come un campo o una città». L’esplorazione dell’immaginale di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo trova qui una interpretazione assai diversa. Sia l’alchimia sia l’arte della memoria operano entro uno spazio minimo. Il processo alchemico viene immaginato in atto entro un recipiente chiuso. Giulio Camillo situa l’intero universo immaginale all’interno di una minuscola stanza di 42

legno, il suo teatro rinascimentale della memoria. Alberto Magno dice che l’intervallo tra le immagini non dovrebbe superare i trenta piedi. A suo parere, lo spazio interiore di maggiore efficacia per vivificare l’immaginazione è situato in luoghi «solenni e rari». Questi sono quelli che più «muovono» l’anima. Apprendiamo che per toccare l’anima nelle sue profondità non occorrono grandiosi viaggi sciamanici con voli e cadute precipitose. Questi sarebbero viaggi dello spirito che distendono l’anima, gonfiandola di aria o di gas, di inflazione. Il sommovimento dell’anima non lo si ottiene muovendosi in essa, attraversandola, cosa che non sarebbe altro che un esempio di viaggio eroico dell’io tradotto, questa volta, in uno spazio interiore. Quello che invece muove l’anima è l’immagine patologizzata solennemente pensata. Ci soffermiamo sull’afflizione o ci fermiamo con essa, a letto col lebbroso, nel suo abbraccio. E, come accade in alchimia o nel processo di memorizzazione, si percorre e ripercorre continuamente il medesimo terreno. Questa iteratio, come veniva chiamata, è l’itinerario: la fantasia ritorna sempre sul medesimo complesso, spostandolo ora di qua ora di là. Una virtù della patologizzazione è che essa non ci lascia fuggire dallo spazio chiuso necessario per fare anima, col suo calore, la sua oppressione e la sua intensità – tutti antidoti contro le inflazioni spirituali. Sì, abbiamo un estremo bisogno di estendere il nostro spazio psicologico. Questa è una delle preoccupazioni centrali della terapia. L’anima si è ristretta perché la sua immaginazione si è inaridita, sicché abbiamo scarso spazio psicologico per fantasticare, per conservare le cose e meditarvi su, per lasciarle essere. Gli eventi ci attraversano e scompaiono senza lasciar tracce. Oppure ci spingono in vicoli ciechi, dove non c’è spazio per muoversi con agio, dove non c’è distanza interna. La nostra mente può accogliere più cose che non la nostra anima, talché i contenuti della nostra mente sono in gran parte privi di importanza psicologica, cose ingerite e mai digerite. «Abbiamo avuto l’esperienza, 43

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ma il significato ci è sfuggito» (T.S. Eliot). La geografia immaginale, come è descritta nel precedente capitolo, non è l’unico modo per differenziare l’immaginazione in regioni qualitative o per ampliare lo spazio non fisico. «Conosci te stesso» significa anche conosci le immagini che ti sono peculiari, tienile in un vuoto interiore, vicine e familiari, senza far nulla a esse o per esse. Si tratta di una immaginazione inattiva e a volte questo è sufficiente, giacché nel momento in cui mettiamo gli eventi all’interno per portarli con noi e digerirli, si crea lo spazio per contenerli. L’arte della memoria ci mette in guardia contro l’estensione che diventa distensione. Anche internamente si può passare il limite, crescer troppo, come avviene nel mondo. Allora abbiamo miriadi di immagini, e l’anima si trasforma in una sorta di supermarket dove c’è un po’ di tutto, oppure in un vasto continente che ci incita a voli superficiali verso l’interno, da turisti dell’anima. Ma c’è meno probabilità che questo accada se ci ricordiamo che l’idea d’interiorità si riferisce al ricettacolo del corpo e che lo spazio psicologico è il regno della profondità e non dell’estensione. Paradossalmente, guadagniamo vastità di anima e orizzonti più ampi mediante la discesa verticale, attraverso l’interiorità dell’immagine. La sua sconcertante peculiarità ci risucchia verso l’interno. L’arte della memoria è un’arte del tempo, come sempre quando si lavora con la memoria. A differenza del viaggio spirituale nello spazio che va sempre più verso l’«esterno» e conosce vertigini, esaltazioni ed ebbrezze di velocità, l’approfondimento dello spazio psicologico cresce attraverso la lentezza. Gli alchimiasti parlavano della pazienza come della prima qualità dell’anima e consideravano il fare anima il più lungo dei viaggi, una via longissima. Il linguaggio è digestione, amore vegetale, depressione entro acque immobili. Mi rendo conto che l’alchimia e l’arte della memoria presentano idee difficili. Uno dei motivi della loro osticità è

che abbiamo perduto il contatto con questi due campi. E una ragione di questa perdita ci riconduce precisamente al nostro tema principale: la psicopatologia. Con la soppressione nella nostra immaginazione dei fili patologici e la trattazione di questa nostra parte in termini medici o teologici, abbiamo indebolito il suo potere: non toccandoci più con lo shock della patologizzazione, essa ha finito per ridursi a «mere fantasie». L’immaginazione s’è sbiadita, non sembra più pienamente reale, e perciò anche l’alchimia e l’arte della memoria, che si fondano e prosperano su ciò che è patologizzato, non sembrano più discipline valide. Via via che queste zone impallidivano, insieme con le immagini peculiarmente distorte dei periodi medievale e rinascimentale, il raccapricciante e il grottesco perdevano i contatti con l’anima. La patologizzazione fu costretta a comparire distaccata dalle principali immagini della cultura, attraverso il Marchese di Sade o il romanzo gotico, la pornografia vittoriana, il giornalismo scandalistico, i mali e le crudeltà del realismo sociale, il surrealismo, i film dell’orrore e, più recentemente, attraverso immagini televisive a colori naturali, sobriamente trasmesse «live», vive, dai fronti di guerra. Ma l’alchimia e l’arte della memoria ci raggiungono attraverso i secoli perché parlano alla nostra angoscia. Quando la nostra psicopatologia trova in un processo alchemico o in un’immagine torturata lo sfondo adatto, noi vediamo la nostra distorsione nello specchio di queste distorsioni. E, sempre per questo motivo, il modo migliore per avvicinarci a questi campi è passare attraverso la nostra angoscia individuale. Allora essi cessano di essere studi astratti di secoli andati, e diventano veicoli sempre presenti del fare anima. Tutto sommato, però, queste idee non sono poi così difficili. La nostra storia psicologica occidentale ha sempre riconosciuto l’importanza centrale della patologizzazione, giacché è proprio dalla patologia che viene l’immagine centrale della nostra cultura. Cristo – che l’iconografia

primitiva rappresentava in veste di guaritore e maestro, come pastore, come bambino sulle ginocchia della Madre – fu, alcuni secoli più tardi, orrendamente patologizzato sulla croce. La crescente insistenza sull’immagine della crocifissione può essere oggetto di svariatissime interpretazioni – storiche, mediche, teologiche – ma psicologicamente essa conferma che l’anima è mossa nel modo più profondo da immagini che sono sfigurate, innaturali e sofferenti. Digressione sulla patologia come crocifissione La tremenda immagine di Cristo domina il rapporto della nostra cultura con la patologizzazione. La complessità della psicopatologia, con la sua ricca varietà di sfondi, è stata assorbita da quest’unica immagine centrale e corredata d’un solo fondamentale significato: la sofferenza. La passio di Gesù sofferente – ed è come traduzione della passione di Gesù che suffering, sofferenza o sofferente, fece il suo ingresso nella lingua inglese – è fusa insieme a tutte le esperienze di patologia. La crocifissione presenta la patologizzazione in primo luogo sotto l’aspetto di tormento emotivo e fisico. Leggiamo questa sofferenza nel racconto (i giorni che conducono alla crocifissione e l’atto stesso del crocifiggere) e la vediamo nei dipinti (la tormentata agonia della scena). L’allegoria della sofferenza e le sue immagini hanno funzionato con tale efficacia come contenitori della patologizzazione che si è portati a non accorgersi della psicopatologia, in verità assai vistosa, di una configurazione che è, nello stesso tempo, distorta, grottesca, bizzarra e addirittura perversa: il Golgota, il luogo dei teschi; il tradimento per denaro, l’assassino Barabba, i ladroni, i soldati che giocano a dadi, il dileggio delle finte vesti di porpora e le risate di scherno; i chiodi, la lancia e le spine; le gambe spezzate, le ferite sanguinanti, la spugna imbevuta d’aceto; la vittimizzazione persecutoria lungo la via; le donne 46

che sostengono amorevolmente un cadavere dal pallore verdastro e le loro visioni allucinatorie dopo la morte. Una condensazione e iperdeterminazione veramente straordinarie di motivi psicopatologici. Non vorrei però esser frainteso. Io non sto né ipotizzando uno studio psichiatrico di Gesù né riducendo il mistero cristiano a psicopatologia. Queste stupidaggini le lascio alla folie raisonnante del secolo scorso. Io mi limito a sottolineare una verità ovvia: le religioni forniscono sempre dei contenitori per la psicopatologia. Le nostre psicopatologie possono essere contenute nella struttura narrativa di un’allegoria religiosa. Quello che in noi assomiglia agli eventi del racconto riceve significato dal suo esser collegato a un mito centrale in cui va a inserirsi. Di solito, ci rendiamo conto della capacità della religione di contenere la psicopatologia soltanto quando una religione va in frantumi. Allora i complessi si mettono in cerca di nuovi Dei o ritornano a quelli antichi addormentati dentro i loro modelli, e i libri di storia parlano di declino religioso accompagnato da degenerazione morale e da barbarie. Ma la psicopatologia è sempre presente nella religione, semplicemente noi non la vediamo fin tanto che la religione funziona. Quando critici come Marx, Nietzsche e Freud accusano la religione di renderci inconsci, essi intendono più precisamente che la religione getta un velo protettivo sulla psicopatologia. Si può anzi dire che più una religione ha successo, più ampia è l’area di psicopatologia che può essere accolta sotto la sua egida, che trova un fondamento razionale nei suoi dogmi e può operare attraverso i suoi riti. Ma una volta fuori dalla sfera della religione, la psicopatologia che vi era contenuta si manifesta apertamente. Quando cannibale e missionario si trovano faccia a faccia, chi dei due è religioso e chi folle? Ciascuno ha un suo universo religioso che ben contiene il suo stile di follia – mangiare la gente nell’un caso, convertirla nell’altro. Dal punto di vista di un’altra cultura religiosa, la crocifissione appare un’immagine malata e

orribile, così come dal nostro punto di vista la posizione centrale dello yoni e del lingam nelle pratiche religiose indiane o la repellente figura di Kali-Durga sembrano osceni compiacimenti psicopatologici. Per cominciare a comprendere i modelli di patologizzazione di una cultura, come sono vissuti e in che modo vengono giustificati, si guarda in primo luogo alla religione di quella cultura. Perché la religione, specialmente le sue bizzarre sette minori, è un enorme museo che conserva e organizza in modo funzionale sistemi deliranti, comportamenti stereotipi, idee sopravvalutate, ossessioni erotiche e crudeltà sadomasochistiche. Meno religione c’è, maggiore è la quantità di psicopatologia che si riversa all’esterno e necessita di assistenza laica. Tuttavia, nel contenere la patologizzazione, la religione la comprime entro il significato stabilito dall’allegoria. Il modello della crocifissione obbliga la patologizzazione ad aderire a quell’unico racconto e alla sua idea dominante di sofferenza, la teologia della passione. La terapia nella nostra cultura finisce inevitabilmente per scontrarsi con l’allegoria cristiana, sia o non sia consciamente cristiano l’individuo patologizzante. Per indagare un po’ più a fondo gli effetti di questa struttura, dobbiamo innanzitutto distinguere tra loro tre fili già identificati: (a) specifici contenuti e motivi patologizzati (persecuzione paranoica e martirio, sado-masochismo, deliri e allucinazioni connessi ai miracoli della resurrezione e alla negazione della morte, la psicopatia del tradimento, del latrocinio e dell’assassinio); (b) l’emozione della sofferenza che colora l’intero modello; (c) l’allegorizzazione teologica (condanna degli stili di comportamento dei nemici, valore della sofferenza, rinascita attraverso la vittimizzazione e tutte le altre esegesi ricavate dall’immagine centrale). Una volta distinti questi fili, saremmo forse in grado di osservare (a) i fenomeni patologizzati senza cadere subito (b) nell’emozione della sofferenza e (c) nelle interpretazioni allegoriche. In altre parole, potremmo essere e meno

vittimizzati dalla patologizzazione e meno teologici a proposito della sua virtù. Potremmo considerare con meno esagerazione l’amore, non dovendo venir crocifissi per provarlo veramente, e la morte, non dovendo più o negarla o subirla come martiri. Ritorneremmo così alla crocifissione come a un’immagine straordinaria, libera dalla sua allegorizzazione. La mia proposta è di ritornare al significato originario di pathos. In greco questo termine nella sua accezione più basilare significava «accadimento», «esperienze», un esser mossi e la capacità di essere mossi. I movimenti dell’anima sono pathe e, se seguiamo Aristotele, essi rivelano una capacità di mutamento oppure l’effettivo verificarsi di mutamenti qualitativi. Ovviamente, come nota altresì Aristotele, tali alterazioni sono a volte dolorose e vengono sentite come afflizioni. Nondimeno, è possibile distinguere tra pathos e sofferenza; l’anima può essere soggetta a mutamenti, siano pure mutamenti di patologizzazione, senza che queste alterazioni della sua qualità debbano necessariamente essere identificate con la sofferenza. Saremmo perciò in una posizione più vantaggiosa per aver visione di un fare anima in diretto rapporto con le immagini e le esperienze patologizzate, senza dover sostenere e sopravvalutare queste ultime con la sofferenza della Via Crucis, e per comprendere, inoltre, che anche l’immagine della crocifissione non è che una delle molte possibili fantasie di patologizzazione. Un tempo l’immagine di Cristo era maggiormente in grado di offrire una varietà di riflessioni, anche sul suo stesso mito. Nei primi secoli del cristianesimo, Cristo ebbe varie identificazioni pagane, principalmente con la figura di Ercole, e si trovò a competere, per così dire, sia con quell’eroe sia con Mitra. L’immagine di Cristo, inoltre, si sovrapponeva a quelle di Perseo, Asclepio, Orfeo e Dioniso, e più tardi di Eros, di Apollo e persino di Giove. Il vantaggio di immaginare queste persone pagane come volti della figura di Cristo sta nel fatto che ciò consentiva di vedere con più 47

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chiarezza quale fantasia di Cristo fosse dominante in un dato momento. Ora che queste immagini pagane sono scomparse, Ercole, Apollo o Eros possono infiltrarsi di soppiatto nell’idea di Cristo e nell’imitatio del singolo credente senza che questi se ne renda conto. E allora la via cristiana diviene, ad esempio, un’imitazione di Ercole, attivata e giustificata dall’io eroico, ma chiamata azione, pulizia, riforma o crociata cristiana. Se, come dicono taluni, la figura di Cristo non è più portatrice delle esigenze religiose della nostra cultura, allora essa non può più contenere neppure le nostre patologizzazioni. La fantasia non si appaga più nell’imitatio Christi (dove peccato significa dolore o dolore significa peccato, dove amore significa tortura e bontà significa masochismo, ma tutto può esser redento perché non c’è vera morte, e così via). Al contrario, le fantasie sfuggite da questo ricettacolo cominciano a cercare nuovi modi per riflettere le confusioni psicologiche e le distorsioni patologiche. È perciò imperativo essere quanto più iconoclasti possibile verso i ricettacoli che non soddisfano più la loro funzione contenitrice e sono invece diventati degli impedimenti al processo di patologizzazione. Parlando di iconoclastìa, non intendo dire che si debba fare a pezzi il tremendo complesso di immagini patologizzate che caratterizzano la crocifissione, ma piuttosto che bisogna infrangere la crosta della sua allegorizzazione entro un significato troppo specifico che non ci lascia riconoscere le altre figure presenti nell’immagine di Cristo e le altre voci che parlano attraverso le nostre patologie, voci che non raccontano storie di peccato o di sofferenza, né offrono necessariamente testimonianze d’amore o vie di resurrezione. Consideriamo, ad esempio, la depressione. Poiché Cristo risorge, i momenti di disperazione, di ottenebramento e di abbandono non possono essere validi in se stessi. Il nostro modello unico sostiene fermamente che alla fine della galleria c’è la luce: è un programma unico che va dal giovedì

pomeriggio alla domenica e al sorgere d’un giorno completamente nuovo e di gran lunga migliore dei precedenti. Non solo la terapia imita, più o meno consciamente, questo programma (con metodi che vanno dalle positive e consolanti sedute di consultorio all’elettroshock), ma la coscienza stessa dell’individuo è, fin dall’inizio, allegorizzata dal mito cristiano, sicché egli sa già che cosa è la depressione e ne ha esperienza conforme. Essa è necessaria (perché è presente nella crocifissione), e deve essere sofferenza; ma persistere nella depressione deve essere negativo, giacché nell’allegoria cristiana il venerdì non ha mai valore per sé: nel venerdì preesiste fin dall’inizio, come parte integrante del mito, la domenica. A ogni fantasia di crocifissione fa riscontro una fantasia di resurrezione. Il nostro atteggiamento verso la depressione è un’aprioristica difesa maniacale contro di essa. Persino la nostra nozione di coscienza serve da antidepressivo: esser consci significa essere desti, vivi, attenti, in uno stato di attivato funzionamento corticale. Portate all’estremo, coscienza e depressione hanno finito per escludersi l’un l’altra, e la depressione psicologica ha preso il posto dell’inferno teologico. Nella teologia cristiana la greve indolenza della depressione, l’inaridente disperazione della melanconia, era il peccato di acedia (com’era chiamata nel latino ecclesiastico). È altrettanto difficile affrontarla oggi nella pratica terapeutica perché la nostra cultura, col suo stampo neotestamentario, può opporre alla sindrome quell’unico paradigma ascendente. Può darsi benissimo che il mito di Cristo non funzioni più, ma i nostri comportamenti verso la depressione ne conservano tenaci residui. La depressione è tuttora il Grande Nemico. L’energia personale spesa in difese maniacali contro di essa, in stratagemmi per evitarla e per negarla, è maggiore di quella che viene impiegata per combattere altre presunte minacce psicopatologiche contro la società: la criminalità psicopatica, il collasso schizoide, la droga. Fino a che rimaniamo 49

prigionieri della ciclica contrapposizione tra speranza e disperazione, in cui l’una produce l’altra, fino a che le nostre reazioni alla depressione hanno quale scopo la resurrezione, nel sottinteso che fermarsi in basso è peccato, noi rimaniamo cristiani in psicologia. Eppure, è attraverso la depressione che entriamo nelle profondità, e nelle profondità troviamo l’anima. La depressione è essenziale al senso tragico della vita. Essa inumidisce l’anima arida e asciuga quella troppo umida. Dà rifugio, confini, centro, gravità, peso e umile impotenza. Essa tien vivo il ricordo della morte. La vera rivoluzione comincia nell’individuo che sa essere fedele alla propria depressione. Che non si dibatte per uscirne, preso in un alternarsi di speranza e disperazione, né la sopporta pazientemente finché la marea non recede, né la teologizza, ma che scopre invece la coscienza e le profondità di cui essa ha bisogno. Così ha inizio la rivoluzione per il bene dell’anima. III. I MITI

Muovendo dal presupposto che una malattia psicologica è l’attuazione di una fantasia di patologizzazione, la psicologia archetipica passa a cercare le archai, i princìpi reggitori o metafore radicali di quella fantasia. La psicologia archetipica cerca di condurre al significato una data patologizzazione sulla base della sua somiglianza con un determinato sfondo archetipico, secondo il principio stabilito da Plotino: «Ogni conoscenza viene con la somiglianza», e seguendo il metodo che lui stesso formulò per primo e chiamò «ritorno» (epistrophé), cioè, l’idea che tutte le cose bramano ritornare agli originali archetipici di cui sono copie e da cui procedono. Anche le patologizzazioni debbono essere esaminate in termini di somiglianza e immaginate in possesso dell’intenzionalità di ritornare a uno sfondo archetipico. Quale modello archetipico somiglia a questo mio comportamento e a questa mia fantasia? A chi somiglio io 50

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quando agisco e sento in questo modo? «Somiglianza» qui si riferisce all’idea che ciò che si manifesta concretamente in una psiche individuale trova la sua somiglianza in un fascio di similarità anchetipiche nel quale la patologizzazione che io sto subendo trova il proprio posto, ha un senso, una necessità, e al quale può «ritornare». Queste similarità archetipiche sono presentate meglio che altrove nei miti, in cui hanno la loro autentica dimora le persone archetipiche alle quali io somiglio e i modelli che io sto attuando. È a questo regno mitico che io faccio ritornare tutte le fantasie. L’autenticazione delle fantasie di malattia non sta nella natura ma nella psiche, non nella malattia letterale ma in quella immaginale, non nella psicodinamica delle configurazioni concrete, passate o presenti, ma nelle figure mitiche che sono le metafore eterne dell’immaginazione, gli universali della fantasia. Queste figure mitiche, così come le mie afflizioni, sono «tragiche, mostruose e innaturali», e i loro effetti sull’anima, così come le mie afflizioni, «perturbano all’eccesso». È soltanto nella mitologia che la patologia riceve uno specchio confacente, giacché i miti parlano con il suo medesimo linguaggio distorto e fantastico. Patologizzare è un modo di mitologizzare. La patologizzazione ci toglie dalla cieca immediatezza, e obbligandoci a domandarci che cosa c’è dietro il naturale e il concreto, distorce la visione incentrata su di essi. La distorsione è nello stesso tempo un’intensificazione e una nuova chiarificazione, e ricorda all’anima la sua esistenza mitica. Mentre è in preda alla patologizzazione, la psiche compie un viaggio di ritorno a uno stile mitico di coscienza. Gli psicoanalisti hanno visto tutto ciò, ma lo hanno condannato come regressione a livelli magici e primitivi. Ma la psiche non «ritorna» semplicemente per sfuggire alla realtà, bensì per trovare un’altra realtà in cui la patologizzazione acquisti un nuovo senso. In questi ultimi anni ho compiuto varie incursioni nell’idea del «ritorno» quale metodo primario della psicologia archetipica. C’era grande urgenza di un nuovo 52

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metodo. Se una psicologia rifiuta di prendere a prestito, per accostarsi agli eventi psicologici, l’approccio evolutivo e storico, quello della scienza naturale e quello religioso, deve trovare un altro metodo fondamentale di comprensione. Comprendere gli eventi psicologici mediante il principio generale degli opposti, che è il principale metodo della psicologia del profondo, è troppo meccanico. Esso presenta tutti gli eventi dell’anima all’interno d’un sistema compensativo di coppie: mente e corpo, io e mondo, spirito e istinto, conscio e inconscio, interno ed esterno, e così via all’infinito. Ma gli eventi dell’anima non sono parte di un sistema di equilibrio generale o di un sistema energetico polare o di un sistema di informazione binario. Gli eventi dell’anima non sono parti di nessun sistema. Essi non sono reazioni e risposte ad altre specie di eventi all’estremità opposta di un fulcro. Sono indipendenti dai tandem in cui vengono situati appunto perché c’è un primato indipendente dell’immaginale il quale crea le sue fantasie in modo autonomo, incessantemente e spontaneamente. Il fare mito non è compensativo di nessun’altra cosa, così come non lo è il fare anima. Perciò, ho cominciato coll’esaminare varie sindromi psicologiche come se fossero delle attuazioni mitiche, come se fossero modi in cui l’anima imita un modello archetipico. Com’è noto, fu Freud a introdurre questo approccio, immaginando la psicopatologia sullo sfondo del mito di Edipo. Ma il metodo di «ritorno» di Freud seguì una via positivistica, divenne riduzione. Invece di ricondurre gli eventi alla loro base nel mito e di vedere che la patologizzazione era in definitiva comportamento mitico – il ritorno dell’anima al mito – Freud si sforzò di basare i miti sul comportamento concreto di concrete famiglie biologiche, finendo così per ridurre il mitico al patologico. Il mio primo assaggio di questo metodo fu un tentativo di deletteralizzare il suicidio comprendendone la fantasia di patologizzazione come una ricerca metaforica della morte da parte d’un’anima irretita in quel letteralismo naturalistico

che chiamiamo vita. Più mi inoltravo in questo argomento meno mi convincevano le spiegazioni positivistiche e più mi appariva chiaro che la patologizzazione nelle fantasie e nei comportamenti suicidi era una necessità a cui l’anima non poteva sottrarsi. Infine mi resi conto che è impossibile accostarsi con intento terapeutico all’atto letterale del suicidio, se prima non si comprende a fondo che la sua fantasia e le sue intenzioni di far ritornare l’anima dalla vita alla morte sono metafora per un’esistenza diversa. Ma l’impresa di ricondurre le sindromi dell’anima a miti specifici è complessa e densa di pericoli. Si debbono affrontare le critiche rivolte alla remitologizzazione dalla filosofia e dalla teologia, critiche che vorrebbero vedere il nostro approccio come una regressione al pensiero magico, a una nuova demonologia, e perciò non scientifico, non cristiano e erroneo. Bisogna affrontare inoltre i trabocchetti insiti nell’approccio stesso, come quelli che troviamo nell’opera di Philip Slater, The Glory of Hera, in cui l’autore, pur riconoscendo che la mitologia deve essere connessa alla psicologia perché i miti rimangano vivi, istituisce tra sindromi psicologiche e miti un rapporto che capovolge la questione. Egli compie un’errata patologizzazione sulla mitologia spiegando i miti greci per mezzo della cultura sociale e dei rapporti familiari. Così facendo cade nell’errore sociologico: leggere i miti greci per trovarvi allegorie della sociologia. Io invece vorrei leggere la sociologia come un’attuazione di miti. E proprio qui si riscatta l’opera di Slater. Essa ci rivela lo sfondo archetipico, non dei miti, ma della prospettiva sociologica dell’autore. Il tema di Slater è Era, Dea della famiglia, dello stato e della società; il suo approccio è quello della sociologia, la disciplina che è un tributo del nostro tempo a questa Dea, una gloria di Era. Tuttavia, il pericolo maggiore è che, proprio nello sforzo di interpretare le sindromi in senso mitico, si finisca per interpretare i miti in senso letterale. Se infatti vediamo nel «ritorno» un semplice atto di abbinamento, e con l’intelletto 56

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pratico del terapeuta ci diamo a collegare tra loro mitemi e sindromi, abbiamo ridotto gli archetipi ad allegorie di malattia; non abbiamo fatto altro che coniare un nuovo linguaggio di segni, un nuovo nominalismo. Gli Dei diventano niente altro che una nuova (o vecchia) rete di termini classificatori. Invece di immaginare la psicopatologia come un’attuazione mitica, abbiamo così perduto, horribile dictu, il senso stesso del mito, riducendolo a mera etichetta per sindromi. Questa prospettiva è diagnostica, non mitica, laddove noi siamo alla ricerca non di un nuovo modo di classificare la psicopatologia bensì di un nuovo modo di farne esperienza. Qui sono gli stessi greci omerici e dell’età classica a darci un indizio: benché il loro modo di pensare e di sentire l’afflizione e la pazzia fosse permeato di miti e di Dei, le loro diagnosi mediche non erano formulate in termini di miti e di Dei. Dobbiamo perciò stare attenti, e ricordare che il pensiero mitico non è un pensiero diretto e pratico. Le metafore mitiche non sono eziologie, spiegazioni causali o cartellini identificatori. Sono prospettive sugli eventi che modificano l’esperienza degli eventi; ma non sono esse stesse eventi. Sono somiglianze di accadimenti, rendono questi ultimi intelligibili, ma non accadono in concreto. Descrivono la storia archetipica che si trova dentro il caso clinico, il mito dentro il caos. Il «ritorno» fornisce anche un nuovo accesso ai miti: se questi hanno un rapporto diretto con i nostri complessi, è possibile arrivare ad afferrarli attraverso le nostre afflizioni. Essi non sono più racconti di un libro illustrato. Noi siamo quei racconti e li illustriamo con la nostra vita. A rischio di smarrire proprio quella prospettiva mitica che ci stiamo sforzando di raggiungere, vorrei indicare alcune potenzialità insite in questo approccio. Possiamo, per esempio, collegare le manifestazioni della depressione, unitamente agli stili di pensiero paranoico, a Saturno e alla psicologia archetipica del senex. Saturno, in mitologia e nel folklore, presenta come tratti dominanti la lentezza, l’aridità, l’ottenebramento e l’impotenza della depressione, i 59

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sentimenti difensivi dell’individuo estromesso dal gruppo, la prospettiva che fa vedere tutto in modo sghembo e tuttavia profondo, il continuo rimuginare, la concentrazione persistente sul denaro e la povertà, sul destino e su problemi fecali e anali. In uno studio successivo, ho esplorato l’isteria e i miti di Dioniso per mostrare la presenza del Dio in quella sindrome. Speravo in questo modo di riuscire a capire perché l’isteria sia sempre stata associata alle donne, soprattutto a quelle giovani, e perché questo Dio delle donne, nella cui schiera c’erano giovani e invasate danzatrici, venisse chiamato anche Signore delle Anime e fosse associato alle profondità del mondo infero. Ho avanzato l’ipotesi che fenomeni mitici analoghi fossero in atto agli inizi della psicologia del profondo, poiché fu proprio l’isteria in giovani pazienti donne che condusse alla scoperta della psiche inconscia. In un terzo studio ho esplorato la mitopatologia che circonda la figura di Pan e la fenomenologia, di pulsioni istintuali quali la masturbazione, lo stupro e il panico. Attraverso i miti del comportamento di Pan, soprattutto in rapporto con le figure-anima riflettenti che gli si sottraggono (Eco, Siringa e la Luna), possiamo apprendere molte cose sui modelli di coazione-inibizione dell’impulsività umana. Eros nel suo rapporto con Psiche, un mito rappresentato in sculture, pitture e racconti da più di duemila anni, offre uno sfondo alla divina tortura delle nevrosi erotiche – i fenomeni patologici di un’anima che ha bisogno di amore, e dell’amore in cerca di comprensione psichica. Questo racconto interessa particolarmente ciò che accade in quei rapporti che fanno anima chiamati tecnicamente «transfert». In aggiunta a questi esempi, si può entrare nel significato profondo dell’io, e della sua psicologia, «ritornandolo» ai miti eroici di Ercole, con la cui forza e missione ci siamo venuti identificando a tal punto che solo ora le sue configurazioni – uccidere animali a colpi di clava, rifiutare il femminile, lottare contro la vecchiaia e la morte, essere 61

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tormentato da Mammina ma sposarne una versione più giovane – cominciano a essere riconosciute come patologie. Molte sono le vie aperte a un collegamento tra mitologia e patologia. Quanto poco comprendiamo, ad esempio, del rapporto tra l’amore sensuale e l’attività guerresca, il ciclo patologizzato che va dalla battaglia al letto e viceversa. Ma i miti di Marte-Venere potrebbero far luce. E i miti di Era: quante cose potrebbero raccontarci sulle patologizzazioni del matrimonio; e quale sfondo offrirebbero i figli stessi di Era – Ares, Dio della furia guerresca ed Efesto, il fabbro zoppo – ai rabbiosi tentativi con cui una donna cerca di spezzare il legame del matrimonio per creare da sola. (Era, per inciso, partorì questi figli senza l’intervento di Zeus, per vendetta e da sola). Oppure potremmo guardare ai giovani eroi che sfidano i cieli – Bellerofonte che cade dal suo bianco cavallo alato, Icaro che precipita in mare, Fetonte in folle corsa tra le fiamme, incapace di dirigere il carro solare del padre – per comprendere il comportamento autodistruttivo dello spirito e dei giovani uomini nei quali lo spirito è forte. Le storie sono infinite e così le loro possibilità, ma non più infinite delle nostre patologie e delle loro possibilità. Questo primo ingresso nel mito richiede tuttavia un’importante correzione. Esso, infatti, è colpevole di errore egoico, giacché rapporta ciascun tema archetipico all’io. Noi cadiamo così nell’identificazione con una delle figure del racconto: io divento Zeus che inganna la moglie, oppure Saturno che divora i figli, o Ermes che deruba il fratello. Ma in questo modo si dimentica che per mito si intende tutto il mito, con tutte le sue figure: ingannando io vengo anche ingannato e divorato e derubato, e così via, per tutte le altre vicende dei diversi racconti. È egoistico riconoscersi in una sola porzione del racconto, scegliersi un unico ruolo. Assai più importante di questo riconoscersi nei miti, così semplicistico e appariscente, è l’esperienza del loro operare intrapsichico nelle nostre fantasie, e di lì nelle nostre idee, nei nostri sistemi di idee, valori sentimentali, atteggiamenti morali e stili basilari di coscienza. Qui i miti sono assai meno 64

evidenti che altrove, perché caratterizzano la nozione stessa di coscienza secondo prospettive archetipiche: è virtualmente impossibile vedere lo strumento con cui si vede. Tuttavia, la nostra nozione di coscienza può derivare dalla luce e dalla forma di Apollo, dalla volontà e dalla determinazione di Ercole, dall’unità ordinatrice del senex, dal flusso comunitario di Dioniso. Quando uno qualsiasi di questi stili è assunto dall’io come propria identità ed è dichiarato caratterestica che definisce la coscienza, gli altri stili archetipici sono visti di solito come psicopatologici. Questo porta a una conclusione: in base alla prospettiva archetipica psicopatologia significa che le specifiche psicopatologie appartengono ai vari miti e operano entro di essi come funzioni e immagini inalienabili; psicopatologia come termine generale indica l’intervento nella coscienza politeistica del punto di vista monoteistico, che costringe a quelle letteralizzazioni e identificazioni che tuttora chiamiamo comunemente io. La psicopatologia, in senso generale, è unicità di visione o ignoranza delle fantasie che sono sempre in azione per tutto il comportamento. LA PATOLOGIZZAZIONE: UNA PERORAZIONE

Siamo ora in grado di formulare tre idee sulla necessità della patologizzazione. Queste idee esprimono anche i temi dominanti di questo capitolo, e il libro nel suo insieme presenta delle variazioni su di esse. Primo, la psicologia archetipica situa la sua idea della psicopatologia in una serie di gusci, l’uno interno all’altro: dentro l’afflizione c’è un complesso, dentro il complesso un archetipo, il quale a sua volta rimanda a un Dio. Le afflizioni indicano gli Dei; gli Dei ci raggiungono attraverso le afflizioni. Le parole di Jung – «gli dèi sono diventati malattie; Zeus non regna più sull’Olimpo ma sul plesso solare e produce curiosi esemplari per il gabinetto del medico» – vogliono dire che gli Dei, così come nella tragedia greca, usano i sintomi per farsi riconoscere dall’uomo. La nostra 65

patologizzazione è opera loro, è un processo divino operante nell’anima umana. «Ritornando» la patologia al Dio, noi riconosciamo la divinità della patologia e diamo al Dio quanto gli è dovuto. In prospettiva archetipica, gli Dei si manifestano all’interno e per mezzo della vita umana, sicché il politeismo greco, come disse W.F. Otto, «non contraddice nessuna esperienza umana». Tutto vi trova posto, niente è negato o escluso. Psicopatologie di ogni tipo diventano parte della manifestazione divina. «Gli dèi» scrive H.D.F. Kitto «non sono mai trascendentali, esterni al nostro universo… essi sono come una forza dentro di noi, come un istinto divino…». Sono le fonti stesse delle nostre azioni e delle nostre omissioni, presenti, secondo Kerényi, anche senza essere invocati o glorificati. Per trovarli noi guardiamo ai nostri complessi, riconoscendo in ciascuno il suo potere archetipico. Perché, come dice Jung: «Non è affatto indifferente chiamare una certa cosa “mania” oppure “dio”. Servire una mania, è odioso e indecoroso, ma servire un dio è cosa ricca di significato…». Un complesso deve esser ricondotto all’altare che gli è proprio, perché c’è molta differenza, sia per la nostra sofferenza sia, forse, per il Dio che si manifesta in essa, tra il considerare la nostra impotenza sessuale, ad esempio, come effetto del Figlio della Grande Madre e perciò servire lui, e il considerarla effetto di Priapo che si vendica in questo modo di esser stato trascurato, o di Gesù la cui genitalità è semplicemente assente, o di Saturno che si prende il vigore fisico e dà in cambio una fantasia lasciva. Trovare lo sfondo all’afflizione richiede familiarità con lo stile di coscienza di un individuo, con le sue fantasie di patologizzazione e con il mito al quale lo stile e la fantasia possono «ritornare». Studiare il complesso o esaminare la psicodinamica e l’anamnesi solo in termini personali non è sufficiente, perché l’altra metà della patologia appartiene agli Dei. Le patologie sono insieme fatti e fantasie, somatiche e psichiche, personali e impersonali. Questa visione della patologia 66

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implica una visione della terapia come quella che si trova nel Rinascimento in Paracelso: «… Il medico deve aver conoscenza dell’altra metà dell’uomo, quella metà della sua natura che è legata alla filosofia astronomica; in caso contrario egli non potrà essere veramente il medico dell’uomo, perché il Cielo detiene nella sua sfera la metà di tutti i corpi e di tutte le malattie. Che specie di medico è quello che non sa niente di cosmografia?». 70

«Cosmografia» si riferisce qui al regno immaginale, alle potenze archetipiche che portano il nome dei pianeti e ai miti rappresentati dalle costellazioni celesti. Trascurare questa «metà», cioè la componente immaginale o psichica, il Dio nella malattia, è venire meno a ciò che è umano. Per occuparsi pienamente delle cose umane, bisogna dedicare la metà dei propri pensieri a ciò che non è umano. I «mali» risiedono anche negli archetipi e sono parte di essi. Se gli Dei ci raggiungono attraverso le afflizioni, allora la patologizzazione li rende immanenti, aprendo loro la psiche, ed è quindi un modo per passare dalla teologia trascendentale alla psicologia immanente. Perché l’immanenza è solo una dottrina fino al momento in cui queste potenze dominanti non mi bloccano coi sintomi, e io devo riconoscere che nei miei disturbi ci sono realmente delle forze che non so controllare e che tuttavia vogliono qualcosa da me e intendono fare qualcosa di me. Di tutti i miei eventi psicologici la mia patologizzazione sembra a volte essere il solo avvenimento che sia peculiarmente mio. Le afflizioni mi danno la persuasiva illusione di essere diverso. Le mie speranze e le mie paure, persino i miei amori, possono tutti essermi stati imposti dalle direttive del mondo, oppure dai miei genitori come residui e opzioni della loro vita non vissuta. Ma i miei sintomi indicano la mia anima così come la mia anima indica me attraverso di essi.

Tuttavia i miei sintomi e le mie stranezze sono insieme me e non me, sono cose quanto mai intime e vergognose e rivelazioni delle mie profondità, piloti del mio destino attraverso il carattere, tali quindi che non posso scrollarmeli di dosso. Tuttavia sono involontari; sono visitazioni, alienazioni, chiari indici del paradosso personale/impersonale dell’anima: ciò che è «me» è anche non «mio» – «io» e «anima» sono stranieri l’uno all’altra perché l’anima è sotto il dominio di potenze, di daimones e di Dei. L’esperienza patologica dà un senso indelebile di anima, diverso dal senso che si ottiene attraverso l’amore o la bellezza, attraverso la natura, la comunità o la religione. Il fare anima della patologia ha un sapore particolare, salso, aspro; esso «scortica», «ferisce», «dissangua», ci rende tormentosamente sensibili ai movimenti della psiche. La patologia produce una concentratissima coscienza d’anima, come quando si prova un dolore sintomatico – un’esperienza che sbaldanzisce, umilia, acceca. Essa fa sentire all’eroe una piccola fitta nel tallone, il punto debole che rammenta all’io la realtà della morte, dell’anima. Ricordate le parole di Zooey nel racconto di Salinger, quando sua sorella gli chiede dei suoi sintomi? «Sì, ho l’ulcera, santo Dio! Questa è Kaliyuga, sorellina: l’Età del Ferro. Chiunque abbia più di sedici anni e non abbia l’ulcera è una maledetta spia». Nel mio sintomo è la mia anima. Ciò che la patologizzazione fa per la psicologia individuale lo fa anche per la psicologia come campo di lavoro: mantiene vicini alla realtà della psiche, impedendo le fughe metafisiche e scientifiche. Già una generazione fa Eugène Minkowski aveva detto: 71

«… la psicopatologia ha avuto il grande merito di riportare ogni volta me e i miei colleghi psichiatrifilosofi sempre e di nuovo alla realtà vissuta dei nostri pazienti… proteggendoci così dai pericoli della filosofia pura. Infatti non si è mai trattato unicamente e semplicemente di

trasferire dei dati e dei metodi, usati da questo o quel filosofo, nel campo dei fatti psicopatologici. Ciò avrebbe inesorabilmente portato a “iperfilosofare” la psicopatologia… si sarebbe corso il rischio di deformare completamente la psicopatologia». 72

Questa realtà dell’anima basata sui sensi, concreta e fisica, fu riscoperta in questo secolo attraverso il lavoro psicologico con la patologizzazione. La discesa nell’anima attraverso la patologizzazione costituisce l’insegnamento degli ultimi settant’anni di analisi. È stata la principale lezione di tutto il movimento psicoterapeutico. Ogni ermeneutica post-analitica per l’anima deve aver appreso questa lezione così da includere in sé il suo significato. La riscoperta dell’anima attraverso la psicopatologia regna suprema su tutti gli altri risultati raggiunti dalla psicoterapia: culturali, sociali, metodologici, filosofici. Mentre la psicologia precedente cercò di mettere in luce il contenuto psicopatologico che si nascondeva nella religione, noi ora cerchiamo di scoprire il contenuto religioso celato nella psicopatologia. I nostri complessi non sono soltanto ferite che dolgono e bocche che raccontano i nostri miti, ma anche occhi che vedono ciò che le parti normali e sane non possono arrivare a vedere. André Gide disse che la malattia apre porte su una realtà che rimane chiusa a chi è sano. Ciò è stato capito come un commento alla penetrazione psicologica e alla ricchezza culturale dei periodi di decadenza storica; ma perché non viene considerato con pari rispetto lo stesso fenomeno di profondità psicologica in periodi di decadenza personale: l’invecchiamento, la nevrosi, la depressione? L’anima vede per mezzo dell’afflizione. Coloro la cui opera maggiormente dipende dall’immaginazione – i poeti, i pittori, i visionari – non hanno voluto che la loro patologizzazione venisse ridotta all’«inconscio» e sottoposta al letteralismo clinico. («l’inconscio» e l’intervento terapeutico sull’immaginazione patologizzata hanno trovato

favore nelle professioni meno immaginative: infermieri, pedagogisti, psicologi clinici, assistenti sociali). L’artista pazzo, il poeta folle, il professore matto non sono né cliché romantici né pose antiborghesi. Sono metafore dell’intimo rapporto che intercorre tra patologizzazione e immaginazione. I processi di patologizzazione sono una fonte di lavoro immaginativo, e il lavoro, l’opera, fornisce ad essi un contenitore. Questi due aspetti sono inestricabilmente intrecciati nell’opera di Sofocle e di Euripide, di Webster e di Shakespeare, Goya e Picasso, Swift e Baudelaire, O’Neill e Strindberg, Mann e Beckett – per non citare che i casi più ovvi. La ferita e l’occhio sono una sola e medesima cosa. Dal punto di vista della psiche, patologia e visione interiore non sono opposti – quasi che il nostro soffrire fosse dovuto a una mancanza di visione interiore e cessasse quando questa mancanza fosse colmata. No, la patologizzazione è essa stessa un modo di vedere; l’occhio del complesso è quello che dà la peculiare distorsione chiamata «intuizione [insight, visione interiore] psicologica». Diventiamo degli psicologi perché vediamo dal punto di vista psicologico, ossia grazie all’operato dei nostri complessi e delle loro patologizzazioni. La psicologia normale sostiene che questa visione interiore distorta è patologica. Ma la psicologia normale, ricordiamolo, ammette la patologizzazione soltanto se indossa l’uniforme del paziente. Essa ha una sua speciale casa chiamata ‘anormale’. E ricordiamoci anche che la visione normativa che l’io ha della psiche è una distorsione per contrazione. Se studiassimo l’anima attraverso l’arte, la biografia, il mito, o attraverso la storia delle guerre, la politica e le dinastie, il comportamento sociale e le controversie religiose, vedremmo che il normale e l’anormale dovrebbero forse scambiarsi le case. Ma la normale psicologia accademica non si occupa di questi campi e compila le sue statistiche per lo più su campioni di studenti universitari che non hanno ancora avuto modo di sperimentare tutta l’estensione della loro pazzia.

La ragione più profonda per tenersi ben lontani dall’analisi è che essa potrebbe disturbare il mito nella pazzia amputando le sue parti patologiche in nome del miglioramento clinico. Se la nostra vita psicologica è governata da modelli mitici perché nei nostri complessi agiscono degli Dei, allora non è possibile estrarre la patologizzazione in atto nella nostra vita senza nello stesso tempo deformare il mito e impedire il «ritorno» a esso. Questo implica che ciascun archetipo ha i propri temi patologici e che ciascun tema patologico ha una prospettiva archetipica. La psicopatologia archetipica trova che il patologico è intrinsecamente necessario al mito: Cristo deve essere crocifisso, Dioniso deve essere infantile e attirare nemici titanici, Persefone deve essere violentata, Artemide deve uccidere colui che le si avvicina troppo. I miti includono i fenomeni che sono screditati nella psicologia normativa, dove sono detti anormali, bizzarri, assurdi, autodistruttivi e malati. Se approfondiamo questa differenza tra la comune psicologia e la mitologia, vediamo chiaramente come la mitologia salvi i fenomeni della psicopatologia. La psicologia trova posto per questi fenomeni dell’anima soltanto screditandoli; la mitologia li accredita così come essi sono, trovandoli necessari al proprio rendiconto; non cerca giustificazione, perché non presenta niente di sbagliato. Non il mito è sbagliato, ma la nostra ignoranza del suo operare dentro di noi. Gli errori vengono evitati, anzi non si presentano neppure: né quello normativo, né quello clinico, né quello moralistico. La psicologia archetipica, in quanto cerca la propria base nel mito, considera anch’essa i fenomeni patologizzati della psiche come necessari per una completa descrizione d’ogni complessità psichica. Senza psicopatologia non c’è interezza; anzi, la psicopatologia è una differenziazione di quella interezza. Le parti sane e normali dell’anima – o quelle che, più propriamente, potremmo chiamare le sue fantasie non immaginative e letteralistiche – non sono mai del tutto

capaci di accettare la riflessione finale che ciascuno di noi fa sul proprio itinerario individuale di analisi del profondo. Nell’anima c’è una irreversibile corrente di patologizzazione. Io ne sono stranamente dipendente, e quando essa mi sfugge, anche il mio senso dell’anima vacilla e impallidisce. Io sperimento la necessità di patologizzazione come un bisogno dell’anima. Essa è come un nucleo immutabile e incorruttibile, perché pur muovendosi e subendo mutamenti, non è mai trasformata; è legata in modo permanente a tutta la mia vita psicologica e dà fondamento e materia prima a tutti i miei processi psichici, al fare anima stesso. È irredimibile perché la categoria della redenzione non la riguarda; appartiene autenticamente all’essenza mitica dell’anima e, come tale, è essenziale per i miei miti e per la mia anima. Secondo, queste conclusioni circa la patologizzazione riflettono la nostra cultura storica. Sebbene queste idee siano ricavate dalle medesime fonti di Freud e Jung e seguano a grandi linee il loro pensiero, esse però riflettono il movimento della patologizzazione oltre Freud e Jung. La coscienza è oggi più vicina alla sua patologia. La psicopatologia non è più relegata dietro i muri del manicomio. La fantasia di malattia è ora così dominante che, dovunque guardiamo, vediamo disintegrazione, inquinamento, follie, cancro e decadenza. La patologia è penetrata nel nostro linguaggio, giudichiamo i nostri amici e la nostra società con termini un tempo riservati alle diagnosi psichiatriche. E l’io si disgrega. L’io non sa più far fronte con la forza di volontà agli ardui problemi di un mondo reale fatto di solidi fatti. La nostra disgregazione è un processo immaginale, come il crollo delle città e la caduta degli eroi nei racconti mitici, come lo smembramento dell’abbandono dionisiaco che libera da lacci troppo stretti, come la dissoluzione e la decadenza in alchimia. Attraverso la fantasia patologizzata di disintegrazione, l’anima esce da strutture centralizzate e irrigidite ormai diventate ordinarie e normali, e così

normative che non corrispondono più al bisogno da parte della psiche di realtà immaginali non-egoiche che «perturbano all’eccesso». È stata la storia o la cultura o la società a costringerci al riconoscimento della patologizzazione? Sembra che sia la psiche stessa a insistere a patologizzare l’io forte e tutti i suoi modelli di sostegno, disintegrando l’«io» con immagini di vanità psicopatica nella vita pubblica, di frammentazione e depersonalizzazione in musica e in pittura, con allucinazioni e spettacoli pornografici nella vita privata, con la violenza, la crudeltà e gli assurdi surrealismi delle guerre urbane, i razzismi, le cause, le stramberie dell’abbigliamento e del linguaggio. Queste immagini, così come i patologizzati metaphorica dell’arte della memoria, dell’alchimia e dei miti, scuotono l’«io» e lo strappano dalla sua identità integrativa, dalla sua innocenza e dalla sua idealizzazione dell’essere umano, e lo aprono al mondo infero dell’essere psichico. Non è dunque la psiche stessa che insiste per una revisione della psicologia in termini non di peaks ma di parti? La disgregazione, la perdita di coesione delle parti, rende possibile nella psiche un nuovo stile di riflessione, che non è tanto una contemplazione focalizzata del sentimento raccolto intorno a un punto immobile, pensieri alti su un superbo stelo, quanto piuttosto uno scambievole rimbalzare di intuizioni. I movimenti di Mercurio tra le parti multiple, la frammentazione come attimi di luce. La verità è specchio, non ciò che è dentro o dietro lo specchio, ma il processo stesso di rispecchiamento: le riflessioni psicologiche. Una consapevolezza della fantasia che spezza il cemento normativo delle nostre realtà quotidiane e lo plasma in nuove forme. Questo stile, con cui siamo impegnati sia nella forma sia nel contenuto di questi capitoli, non sarebbe potuto nascere se i normali apparati di controllo del vecchio io non fossero andati in pezzi, rendendo possibile un affinamento nuovo, una molteplicità di superfici riflettenti, ove inizio e fine non hanno importanza, ove le premesse sono già conclusioni e le 73

conclusioni sfociano in discontinuità, ripetizioni con variazioni. Lo stile stesso del far psicologia – di pensarla e sentirla e scriverla – incorpora la patologizzazione. E così deve essere, se un libro di psicologia vuole riflettere ed evocare la psiche. Lo stile di coscienza è oggi patologizzato e ricava la sua consapevolezza da quella patografia che è il nostro vivere. «Coscienza» significa riflessione psichica del mondo psichico intorno a noi ed è parte dell’adattamento a quella realtà. E con l’oscurarsi e il dividersi di quella realtà, la coscienza non può più esser descritta con metafore eroiche di luce, decisione, intenzione e controllo centrale. La coscienza egoica cui eravamo abituati non riflette più la realtà. L’io è diventato un sistema delirante. La coscienza «intensificata» oggi non ci parla più dalla montagna del superuomo di Nietzsche, non è più una visione dall’alto. Ora è una visione dal basso, perché è giù che noi stiamo, presi negli innumerevoli irretimenti della palude, nel paese dell’anima, nella «valle del fare anima». Oggi, parlare di coscienza intensificata rimanda piuttosto a momenti di intensa incertezza, a momenti di ambivalenza. Perciò il compito della psicologia del profondo consiste ora nell’attenta esplorazione delle parti in cui ci disgreghiamo, nel liberare gli Dei che sono nei complessi, nel renderci conto che tutto il nostro conoscere è solo un conoscere in parte, perché noi conosciamo solo attraverso le parti archetipiche attive in noi, ora in questo complesso e in questo mito, ora in quello: la nostra vita un sogno, i nostri complessi nostri daimones. 74

Ho accennato in precedenza a come le nostre fantasie portino gli eventi a una possibilità incurabile, alla meningite o al cancro, oppure al suicidio. La «possibilità incurabile» è, niente di meno, la morte. Ecco perciò una terza ragione per considerare la patologizzazione una via reale al fare anima. Essa porta ciascun complesso al suo termine ultimo, al confine dell’ignoto, alle profondità ove non ci si può spingere oltre, talché non si saprà mai «che cosa c’è». Il complesso

che ci rode e ci rende peculiari ci rende anche individui particolari e distinti – giacché questo è ciò che significa «peculiare». Per la vita, il complesso non è altro che un sintomo del quale ci si deve liberare. Ma poiché l’inibizione, la distorsione e l’afflizione indicano la morte, il complesso diviene un centro attorno a cui si costella la nostra vita psichica. Non è sulla vita che s’incentra la nostra individualità ultima, ma sulla morte. Il suo regno, dicono i miti greci dell’Ade e del Tartaro, è il mondo che sta sotto e dentro tutta la vita, ed è là che le anime tornano alla loro dimora. Là l’esistenza psichica è senza la prospettiva naturale della carne e del sangue, cosicché la patologizzazione, portando gli eventi alla morte, li porta entro il loro estremo significato per l’anima. Tutti hanno una morte, ciascuno la propria, sola, singola, verso cui l’anima conduce ogni parte di vita patologizzandola. O forse è la patologizzazione che conduce infallibilmente l’anima nella più profonda riflessione ontologica. I sintomi sono i solenni ambasciatori della morte, degni d’onore per la loro posizione, e la vita rispecchiata nei propri sintomi vede in essi la propria morte e ricorda l’anima. La patologizzazione ci fa ritornare all’anima, e perdere il sintomo significa perdere questa strada verso la morte, questa via dell’anima. Platone e i suoi seguaci presentarono tre modalità principali di fare anima: eros, dialettica e mania. Ce n’è un quarto: thanatos. Troviamo un fondamento a questo legame tra fare anima e morte nella descrizione che Platone fa di Socrate morente in un dialogo (il Fedone) che, proprio nel soffermarsi sui dettagli patologizzati dell’avvelenamento da cicuta esamina la natura e la realtà di psyché. L’anima è condotta alla conoscenza di sé (alle vere idee, nel linguaggio platonico) attraverso l’amore, attraverso la disciplina intellettuale e, come vide anche Hegel, attraverso la pazzia. Ma pari ad esse è la patologizzazione come modalità di riflessione operante attraverso gli invisibili e gli inconoscibili, le fantasie dell’esistenza psichica, quello che sta sotto e che segue le azioni della vita ed è più profondo di 75

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esse – cioè, quello che viene simbolicamente attribuito alla morte. Come Socrate nel Fedone, ma per un periodo che si estese per tutta la sua vita adulta, anche Freud esaminò la natura e la realtà della psiche, riflettendo nel contempo sulla propria morte e su quella dei suoi amici e familiari, sulla natura della morte, sulla patologia fisica del proprio corpo e sulla patologizzazione in atto nei suoi pazienti e nei suoi colleghi. La sua patologizzazione fu contemporanea alla creazione della psicologia del profondo, che pose le basi per un ritorno al fare anima nella nostra epoca. Cominciando con il sintomo, «la cosa che è più estranea all’io», la patologizzazione fa ruotare l’intera psiche su un nuovo perno: il centro ora è la morte, e con essa le fantasie che conducono direttamente fuori della vita. La patologizzazione non è soltanto un linguaggio metaforico ma anche un modo di traduzione, una trasformazione di qualcosa di letteralmente noto, comune e banale, come le psicopatologie della vita quotidiana, in qualcosa di sconosciuto e di profondo. Come tale, la patologizzazione è un’ermeneutica che conduce gli eventi al loro significato. Soltanto quando si disgregano, le cose si aprono su nuovi significati; soltanto quando un’abitudine quotidiana diventa sintomatica, quando una funzione naturale diventa un’afflizione, oppure quando il corpo fisico appare nei sogni come un’immagine patologizzata, sorge un nuovo significato. E come la psiche non è mai invulnerabile a questi movimenti, così non ne guarisce mai. In tal modo possono entrare nuovi riconoscimenti archetipici. Per lo stesso motivo, una psicologia archetipica non potrà mai distaccarsi dal suo fondamento nella patografia. L’approfondimento e l’interiorizzazione che si producono mediante la patologizzazione conferiscono alla nevrosi uno straordinario sentimento di importanza: attraverso di essa ci sentiamo eletti, separati dalla gente comune. Una tale valutazione, derivante essa stessa dalla nevrosi, è ovviamente nevrotica (niente ci rende più piattamente 79

normali delle nostre «anormalità»). Ma il senso di importanza indica qualcosa che è al di là della nevrosi, al di là di questo sintomo e di quel disturbo comuni a tante altre persone. Sentirsi prescelti attraverso il complesso è in primo luogo un’asserzione psichica, la quale dice che una consapevolezza patologizzata è fondamentale al senso di individualità. Essa rivela una differenza, non tra tipi diversi di persone, ma tra stili di coscienza, naturale e psichico, letterale e immaginale. Una volta messi dalla patologizzazione faccia a faccia con la realtà dell’immaginale, si rimane segnati da questo marchio. Una parte della persona è stata colpita dagli Dei e attirata in un mito e ora non può più abbandonare le sue folli esigenze. Il cinghiale ha ferito Ulisse alla coscia; il demone del guado ha slogato l’anca di Giacobbe. Io sono un individuo, non in virtù delle mie comuni ferite ma di ciò che mi giunge attraverso di esse, gli archetipi dei miei miti in cui risiedono la mia follia, il mio destino e la mia morte. Tenendosi fedelmente vicina alla prospettiva patologica, che è la radice differenziale della sua disciplina e che la distingue da tutte le altre, la psicologia del profondo mantiene la propria integrità, evitando di diventare educazione umanistica, guida spirituale, attività sociale o religione laica. Essa respinge le tentazioni e i sentimentalismi che vorrebbero lasciarsi alle spalle malattia e stranezza, e anzi conserva la terminologia denigratoria dei suoi testi di studio. Perché abbandonare parole così cariche di malattia, così negativamente connotate, dissocierebbe di nuovo la psiche dalla sua patologia. Queste parole hanno valore appunto perché mantengono patologizzata la psiche. Non sono né realtà letterali, né i vuoti nomina di una convenzione professionale: sono espressioni metaforiche della nostra condizione psichica, fonti di riflessione, modi di trovarsi entrando in un mito. Ricordando il proprio mito genealogico – la propria nascita dalla psicopatologia dell’isteria francese e austriaca e dalla schizofrenia svizzera, afflizioni reiette allora ritenute

prive di senso e di interesse – la psicologia del profondo mantiene i contatti con le anime in extremis, con gli afflitti, gli anormali, gli emarginati. Mantenendosi in questa prospettiva attraverso la patologizzazione, in contatto con la fantasia di malattia che tutti gli altri preferirebbero curare o negare, la psicologia del profondo è inevitabilmente tradizionale e rivoluzionaria insieme. Noi siamo tradizionali perché riconduciamo tutte le cose ai loro più profondi princìpi, le archai, le radici limitanti che trattengono in basso e dentro. Esse determinano ricorrendo con fatale regolarità, senza curarsi del luogo o del tempo. Siamo rivoluzionari perché queste stesse archai sono i radicali dell’esistenza: presto o tardi vengono sempre alla luce e impongono alla coscienza dominatrice di ogni luogo e tempo le rivendicazioni dell’anima espropriata.

III PSICOLOGIZZAZIONE O VISIONE IN TRASPARENZA

«Il nostro generale istinto imparare ci spingerà, com’è indagare nella natura dello usiamo per ricercare». PLOTINO,

di cercare e di ragionevole, a strumento che Enneadi, IV, 3, 1

LE IDEE PSICOLOGICHE

Il problema che ci sta di fronte in questo capitolo è ancor più essenziale per la psiche di quelli che ci hanno occupato fin qui. La nostra domanda non sarà più solo che cosa sia la psicologia, questa disciplina che porta il nome dell’anima, ma anche che cosa sia la psicologizzazione, questa attività che è alle radici stesse dell’anima. La nostra indagine ora procederà per mezzo di idee piuttosto che di persone, anche se, nel corso del capitolo, dovrebbe venire alla luce il nesso archetipico tra persone e idee. Il rilievo che daremo all’ideazione indicherà l’appassionata importanza che attribuiamo alle idee psicologiche. Mostreremo che l’anima ha bisogno di idee sue proprie, anzi, che il fare anima è un prodotto dell’ideazione, oltre che dei rapporti personali o della meditazione. Uno degli scopi di questo libro è di riportare in vita le idee in un’epoca psicologica in cui esse sono in declino e vengono sostituite da progetti sperimentali, programmi sociali, tecniche terapeutiche. La cosa che più stupisce nel campo della psicologia è la sua povertà di idee interessanti. Intere scuole vengono edificate sulla base di un solo libro, un libro viene prodotto

sulla base di una sola idea, che oltretutto è sovente una semplificazione o un prestito. Il processo ideazionale in psicologia è molto arretrato rispetto alla sua metodologia, ai suoi strumenti e alle sue applicazioni – e molto, molto arretrato rispetto alla ricchezza insita nella psiche. In questo secolo, dopo la messe di idee introdotta da Freud e da Jung – da libido, proiezione e rimozione a individuazione, anima/animus e archetipo, per non nominarne che alcune – ben poche sono state le idee capaci di stimolare la riflessione psicologica. Il gergo professionale brulica di tecnicismi, ma si tratta di insetti effimeri che si alimentano del frutto sano. Le idee declinano per una varietà di motivi. Anch’esse invecchiano e si svuotano, diventano troppo personali e preziose o si distaccano dalla vita, ormai incapaci di salvare i suoi fenomeni. Oppure diventano monomaniacali: una particolare idea si attribuisce più valore di tutte le altre e si oppone ad esse. Oggi l’azione viene pensata all’interno di questa polarità che, se portata all’estremo, renderebbe cieca l’azione e impotenti le idee. Un vecchio cliché, la testa senza corpo della psicologia accademica, si sta mutando in un cliché nuovo, il corpo senza testa della psicologia terapeutica – esempio corrente di azione contro l’ideazione. Il pensiero francese, in particolare, si occupa da tempo del rapporto tra idea e azione, tra scrittore e combattente. «Scendere in piazza» oppure tenersi «au-dessus de la mêlée» è un dilemma che occupa oggi la fantasia di intellettuali francesi come Sartre non meno di quanto accadeva al tempo dell’affare Dreyfus. Anzi, il pensiero francese è paradigmatico per questo problema, poiché ogni qualvolta ideazione e azione si separano e si contrappongono, ci troviamo nella tradizione di Descartes, dove il regno del pensiero è separato nettamente da quello del mondo materiale. Le idee non producono effetti, perché esistono solo nella testa, e le azioni, descritte dai moderni marxisti o descritte da Monod, diventano meccanismi materialistici. Il pensiero francese moderno è tutto preso dallo sforzo di riunire le parti o di girarvi intorno. Sia che ci

si rivolga a Freud e al corpo, come fanno Merleau-Ponty, Ricoeur e Lacan, sia che, in questi stessi scrittori, si considerino le parole e il linguaggio identici all’azione, assistiamo alla ricomparsa del vecchio dualismo cartesiano all’interno degli stessi tentativi per superarlo. Il fascino esercitato su di loro dal nesso tra ideazione e azione, i loro approcci e le loro soluzioni, valgono in gran parte per coloro che si trovano in una situazione psicologica scissa uguale a quella rappresentata dal cartesianismo. Noi siamo abituati a contrapporre idea e azione, convinti che la riflessione soggettiva freni l’azione, tingendola col malsano pallore del pensiero psicologico. Siamo inclini a ritenere che la psicologizzazione si opponga alla partecipazione, che invece di agire per mandare avanti il mondo la psicologia con le sue interpretazioni lo veda in trasparenza. Ma quando questa opposizione si manifesta nella nostra vita, ciò non avviene per un’intrinseca inimicizia tra idea e azione, ma piuttosto perché l’azione ha una componente antipsicologica cieca e viene usata per evitare la riflessione psicologica. A volte agiamo per non vedere. Io posso benissimo agire e partecipare in modo attivo proprio perché non voglio sapere che cosa sta facendo la mia anima e quale persona interiore è impegnata nell’azione. La psicologia del profondo ha percepito questo comportamento di evitazione, questa fuga nell’attività, e l’ha condannata definendola una «messa in atto». Cercare l’azione, andare dove c’è azione, voler cogliere un pezzo di azione, sono spesso maschere dietro cui si nasconde molta patologizzazione. È sullo sfondo di questa maniacale iperattività che debbono essere considerate alcune delle paure che proviamo verso le idee, verso la riflessione e verso la depressione stessa. Senza idee, l’anima è più facilmente coartata, più costrittivamente attiva. Ma azione e idea non sono intrinsecamente nemiche, e non dovrebbero perciò esser contrapposte l’una all’altra. Da un lato, la psicologizzazione, come vedremo tra breve, è un’azione. La prima attività abituale dell’anima è la

riflessione, che, per usare una terminologia antiquata, appartiene all’essenza della coscienza come l’umidità all’acqua, come il moto al vento. E la riflessione fatta per mezzo delle idee è un’attività; formare idee e usare idee sono azioni. Dall’altro lato, l’azione è sempre l’attuazione di un’idea. Dimenticarsi di questo significa prendere l’azione alla lettera, cader preda dell’ideologia dell’attivismo (l’azione resa malsana da un rigonfiamento di muscoli). L’azione stessa è un’idea, e vi sono molte idee di azione. Dipende dalla nostra idea di azione se essa deve per forza essere cieca e opposta all’ideazione oppure, come sostengono gli attivisti politici, se prima deve venire l’azione e poi, dopo l’atto, la riflessione. Le idee psicologiche non sono contro l’azione; esse anzi la magnificano facendo del comportamento, di ogni tipo e in ogni momento, una significativa incarnazione dell’anima. E lo scopo che si prefigge questo capitolo è precisamente quello di portare l’anima nell’azione e l’azione nell’anima mediante la psicologizzazione. Perciò, noi affermeremo che il lavoro dell’ideazione psicologica non è diviso dall’azione. L’ideazione psicologica è pertinente a ogni sorta di azione ed è essa stessa un’azione appartenente a una classe in cui possono essere sussunte altre azioni. Ho inavvertitamente accennato a una delimitazione che non dovrebbe passare inosservata. Non tutte le idee sono appassionatamente importanti per l’anima, così come non tutte le idee le sono indistintamente utili; le idee che io dichiaro tali sono le idee psicologiche, giacché è per mezzo di esse che la psiche riflette su se stessa e promuove il fare anima. Per idee psicologiche io intendo quelle che ingenerano la riflessione dell’anima sulla propria natura, sulla propria struttura e il proprio scopo. A differenza di termini quali intelligenza, comportamento, motivazione, rafforzamento, le idee freudiane e junghiane della psicologia del profondo sono interne alla psiche. Più che l’uomo col suo funzionamento e le sue parti, esse

riguardano l’anima col suo funzionamento e le sue parti. (Questa distinzione tra uomo e anima, poiché merita un trattamento adeguato, la serberemo per l’ultimo capitolo). Le idee di Freud e di Jung sono insieme radicate nella psiche e rivolte alla psiche. Un’idea come quella di scambio può essere utile per la psiche, ma ha radici esterne, nell’economia. Oppure un’idea come repressione può aver radici nella psiche e risultare utile all’esterno per comprendere la società. Le vere idee psicologiche circolano all’interno di un campo psichico, nascono dalla psiche e ritornano a essa. Si riflettono in se stesse. Questa è, per così dire, la loro internalità ed è ciò che conferisce loro la capacità di interiorizzare gli eventi. Un evento che viene psicologizzato è immediatamente internalizzato: ritorna all’anima. Inoltre, le idee psicologiche più importanti echeggiano gli interrogativi più profondi dell’anima, portandola a riflettere intensamente sulla propria natura e sul proprio destino. Queste idee si prestano più di altre a esser chiamate archetipiche, perché ricorrono di continuo e con una potente carica di fascino tanto nella storia della psicologia quanto nella nostra storia psicologica individuale, dove si presentano come problemi cruciali e insolubili. Alcune di queste idee archetipiche nascono dal rapporto dell’anima con la morte, col mondo e con le altre anime; con il proprio corpo, il suo genere e la generazione; con la virtù e con il peccato, con l’amore, la bellezza e la conoscenza; con gli Dei, con la malattia, con la creazione e la distruzione, con il potere, il tempo, la storia e il futuro; con la famiglia, gli antenati e i defunti. Le idee archetipiche sono in primo luogo idee speculative, esse cioè incoraggiano la speculazione, parola che significa rispecchiamento, riflessione, visione. Poiché le idee archetipiche sono assai simili alle fantasie mitiche, anche la psicologizzazione che avviene per mezzo di esse è un’attività fantastica che vede nelle cose e specula su di esse mediante fantasie. Le idee o fantasie archetipiche appaiono in un’ampia

gamma di materiali – in arte, nelle religioni e nelle teorie scientifiche; nei sistemi deliranti del folle e nell’organizzazione personale della nostra vita. Tuttavia, non possiamo considerare un’idea archetipica di per sé psicologica se non è stata psicologizzata, cioè considerata in primo luogo come una manifestazione della psiche, come innanzitutto un problema archetipico dell’anima. Questo momento riflessivo mantiene le idee in rapporto con l’anima e l’anima in rapporto con le proprie idee. Una psiche con poche idee psicologiche diviene facilmente una vittima. Essa dispone di mezzi insufficienti per orientarsi come anima in un campo psicologico. Essa, inoltre, perde la capacità di vedere in trasparenza le idee che le vengono imposte. Pone le domande sbagliate e si dimentica di se stessa in quanto anima; si volge a idee che provengono da altri campi ed è accecata dalle abbaglianti illuminazioni che le arrivano attraverso teorie naturali, storiche o religiose. Concetti come evoluzione o energia o salvezza eterna, con la loro capacità di illuminare e chiarire le oscurità della storia, della religione, della filosofia o del mondo fisico, hanno la tendenza ad annettersi più territorio di quello che gli spetta originalmente – a inglobare la psiche stessa. Allora l’anima dimentica la sua natura distinta, il suo bisogno di avere idee proprie, dimentica che lo sviluppo evolutivo, le trasformazioni dell’energia, una dialettica degli opposti o una teologia della salvezza sono moneta presa in prestito da regni stranieri. Ed è allora che noi cominciamo a considerare l’anima come il riflesso di processi politici ed economici – psicologia marxista – o come risultato di un’evoluzione spirituale – psicologia chardinesca – oppure immaginiamo la psiche alla stregua di una macchina elettronica o di un primate poco peloso. Vorrei riassumere il modo in cui si produce questa alienazione: per prima cosa rifiutiamo l’importanza e il valore delle idee – di solito contrapponendole alle azioni. Ciò conduce a un agire irriflessivo a spese delle idee, il che favorisce un’anima iperattiva priva di un’idea di se stessa.

Indi prendiamo in prestito prospettive estranee e ci consideriamo consumatori, computer o scimmioni. Questo prendere in prestito prospettive estranee mette in moto un processo di alienazione in cui l’anima, non disponendo di un’adeguata idea di sé, perde il contatto con se stessa. Il risultato è la perdita non solo dell’anima, ma anche dell’idea di anima. Dov’è «l’anima» in un testo di psicologia, in una conferenza di psicologia o in una seduta psicoterapeutica? «l’uomo moderno in cerca d’un anima» significa anche che l’uomo è in cerca di un’idea di anima, di idee che possano dare anima, di idee che facciano anima. Senza di loro, i valori d’anima vengono riversati sulle idee non-psicologiche, e allora si insinuano in noi le ideologie. Le ideologie non nascono dalla forza o dalla verità delle idee, esse non hanno affatto bisogno di idee importanti e possono fondarsi piuttosto su slogan che su sistemi articolati. La loro vera origine è nelle anime che hanno perduto prospettive psicologiche valide. Un’idea si trasforma in ideologia a causa della convinzione di cui è fatta oggetto, della passione di cui viene investita da parte di un’anima perduta a se stessa. Ma la psiche priva di idee non si limita a rivolgersi a campi estranei e a ideologie. Essa si rivolge anche alle altre persone, chiedendo loro un’idea su questo o quel problema, cercando visione interiore, verità religiosa, guida spirituale. Una psiche priva di sufficienti idee ha bisogno di persone, è incapace di distinguere tra le persone e le idee che esse incarnano. Nella sua vittimizzazione essa cerca dei padroni. Da ciò nasce la dipendenza da ogni sorta di maestri psicologici, dallo psichiatra al guru e a tutti i vicoli ciechi dei falsi amori in nome delle idee, dove innamorarsi è un modo per cercare idee, e la battaglia tra gli amanti si rivela alla fine una incompatibilità di fantasie e uno scontro tra prospettive psicologiche. La nostra propensione per idee estranee, il nostro cader preda di ideologie per le quali siamo pronti a morire, la fiducia estatica che proviamo per chi crediamo capace di

aprirci gli occhi alla consapevolezza psicologica, dimostrano che l’anima non può fare a meno di idee. L’appassionata importanza delle idee psicologiche è dimostrata dalla psiche stessa nella sua ricerca di concetti, di intuizioni, princìpi, persone cui poi si aggrappa sperando così di riuscire a vedere se stessa. Per usare la metafora dell’istinto, la psiche è affamata di idee. È come se l’istinto di riflessione non potesse funzionare senza idee, come se le idee fossero i nostri strumenti per riflettere e fossero un’esigenza istintuale. La psiche sembra spinta all’ideazione per poter esercitare la sua funzione riflessiva, e questa pulsione o funzione ha altrettanta importanza per la sua sopravvivenza che la riproduzione, l’aggressione e il gioco. Tutto questo non implica forse che uno dei fondamentali doveri dello psicologo – e in particolare dello psicologo terapeutico, la cui prima preoccupazione è la psychēs therapeia o cura dell’anima, e che è il devoto o il servitore di Psiche – è di riconoscere questo bisogno di idee da parte dell’anima? Uno psicologo serve Psiche elaborandone le idee, e non è uno psicologo se non ha elaborato un logos della psyché, una propria rete di idee psicologiche che tentino di render giustizia alla varietà e profondità dell’anima. Se oggi siamo malati perché abbiamo perduto l’anima, e se questa alienazione deriva anche dalla scarsezza di idee psicologiche, parte della nostra guarigione procede attraverso l’ideazione. Nel lavoro da eseguire sulla nostra psiche c’è anche l’elaborazione di una nostra psicologia, la costruzione di modalità ideazionali che consentano una più differenziata riflessione sui suoi processi. Con l’avvicendarsi di questi ultimi, le idee dell’anima mutano, e di tali mutamenti occorre tener conto nel discuterle. La discussione delle idee in terapia non è perciò necessariamente una difesa contro l’emozione, quanto piuttosto il preludio all’emozione e il suo portatore. Questo vale tanto per l’individuo quanto per il campo stesso, che inaridisce e invecchia quando manca di nuove idee con cui promuovere 1

la propria vita emotiva. L’ideazione diviene perciò un’attività psicoterapeutica, parte del metodo di trattamento della psicologia archetipica. Vedremo, nel nostro procedere, in che modo essa opera. Di tutte le idee, è quanto mai essenziale, in terapia, scoprire quale idea dell’anima il paziente sta attuando: è materiale e fisiologica, cristiana e immortale, personale e posseduta da lui solo? E inoltre, problema altrettanto importante: quali idee dell’anima ha il terapeuta? Sotto quale idea archetipica della natura della psiche i due stanno congiuntamente attuando la terapia? Se la terapia è fare anima quale fantasia dell’anima stanno facendo? LA VISIONE DELLE IDEE

Ho usato con molta frequenza la metafora della visione: ho parlato di prospettive, di vedere, osservare, accecare, riflettere. Questa metafora visiva è consona alle idee. Esse infatti non sono semplici residui di indagini empiriche, concetti astratti da operazioni. Non sono, come credeva Locke, «fondate nelle cose particolari». Né sono la ragione che è nelle cose o delle cose, come pensavano Tommaso d’Aquino e Hegel. Parimenti, non c’è motivo di considerare le idee come categorie kantiane innate nella ragione, princìpi fissi che predeterminano tutta l’esperienza psichica. Possiamo accantonare le questioni filosofiche ove ci si chiede, ad esempio, se le idee sono costruite o date, se sono indotte, dedotte o addotte (Peirce). Poiché non le guardiamo da dentro una fantasia di processo, non dobbiamo esaminare le loro origini e il loro sviluppo. E soprattutto possiamo astenerci dal chiamarle oggetti esterni, alla maniera di Whitehead, e dall’esaminare il loro locus in un regno immanente di coscienza trascendentale, alla maniera di Husserl. Perché io non intendo minimamente separare le idee dalla psiche. Mia intenzione è spostare la discussione delle idee dal regno del pensiero al regno della psiche. Ciò su cui deve concentrarsi la nostra attenzione di psicologi è la

loro comparsa nella psiche, il loro significato in quanto eventi psichici, il loro effetto e la loro realtà psicologici come esperienze pertinenti all’anima. Per noi le idee sono modi di considerare le cose (modi res considerandi), prospettive. Le idee ci danno occhi, ci fanno vedere. La stessa parola idea rivela il suo intimo rapporto con la metafora visiva del conoscere, essendo connessa sia con il latino videre sia con il tedesco wissen [conoscere]. Le idee sono modi di vedere e di conoscere, o di conoscere mediante un’attività di visione interiore. Le idee ci permettono di aver visione e mediante la visione noi possiamo conoscere. Le idee psicologiche sono modi per vedere e per conoscere l’anima, talché un mutamento nelle idee psicologiche significa che c’è un mutamento rispetto all’anima e un rispetto verso l’anima. La nostra parola idea viene dal greco eidos, che in origine, nell’antico pensiero greco e in Platone, significava sia ciò che si vede – un fenomeno o una forma esteriore in senso concreto – sia ciò con cui si vede. Noi vediamo le idee e vediamo per mezzo di esse. Esse sono insieme la forma degli eventi, la loro costellazione in questo o quel modello archetipico e i modi che ci consentono di vedere in trasparenza gli eventi fino al loro modello. Per mezzo di un’idea possiamo vedere l’idea che si nasconde nella parata che ci sfila dinanzi. L’implicita connessione tra l’avere idee con cui vedere e il vedere le idee stesse suggerisce che quante più idee abbiamo, tanto più vediamo, e quanto più profonde esse sono, tanto più profondamente vediamo. Questo suggerisce anche che le idee generino altre idee, dando vita a nuove prospettive per vedere noi stessi e il mondo. Inoltre, senza di esse non possiamo «vedere» neppure ciò che percepiamo coi nostri stessi occhi, giacché le nostre percezioni sono modellate su idee. Un tempo ritenevamo che la terra fosse piatta, ora riteniamo che sia rotonda; un tempo vedevamo il sole ruotare attorno alla terra, adesso vediamo la terra girare intorno al sole; i nostri occhi, e le 2

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loro percezioni, non sono certo cambiati con il Rinascimento. Ma sono cambiate le nostre idee, e con esse anche ciò che «vediamo». Le nostre idee cambiano in ragione dei cambiamenti che avvengono nell’anima, perché, come disse Platone, anima e idea rimandano l’una all’altra, nel senso che un’idea è l’«occhio dell’anima», che ci apre con la sua penetrazione [insight] e la sua visione. Perciò l’anima si manifesta nelle sue idee, che non sono «soltanto idee» o «soltanto roba che si ha in testa», e non devono essere liquidate con un «bah!» di sufficienza, giacché sono i modi stessi attraverso cui noi prendiamo visione della nostra vita e la attuiamo. Noi le incarniamo mentre parliamo e ci muoviamo. Siamo sempre nell’abbraccio di un’idea. Il lavoro che la terapia deve svolgere con le idee ha la medesima importanza di quello svolto con i sintomi e i sentimenti, e l’investigazione delle idee di una persona è altrettanto rivelatrice della sua struttura archetipica quanto lo sono i suoi sogni e i suoi desideri. Nessuno che si occupi dell’anima può permettersi di dire: «le idee non mi interessano» oppure «le idee non sono pratiche». Le idee rimangono poco pratiche quando non le afferriamo o non siamo afferrati da esse. Quando non afferriamo un’idea, ci chiediamo «come» metterla in pratica, cercando in tal modo di trasformare le intuizioni dell’anima in azioni dell’io. Ma quando un’intuizione o un’idea ha trovato posto dentro di noi, anche la pratica muta impercettibilmente. L’idea ha aperto l’occhio dell’anima. Vedere in modo diverso ci fa anche agire in modo diverso. Viene così implicitamente eliminato il «come»; esso scompare a mano a mano che l’idea penetra all’interno, a mano a mano che noi riflettiamo su di essa piuttosto che sul come utilizzarla. Questo movimento per afferrare le idee è verticale o verso l’interno, e non orizzontale o verso l’esterno, verso il regno del «far qualcosa». Il solo «come?» lecito circa queste intuizioni psicologiche è: «Come posso afferrare un’idea?». Giacché le idee psicologiche, o intuizioni, come le ho 5

talvolta chiamate, riflettono l’anima, il problema di come comprenderle si incentra sul rapporto che si ha con l’anima e sul modo in cui la psiche apprende. La risposta a questo interrogativo è sempre stata «con l’esperienza», il che equivale a una vera e propria petizione di principio, giacché una delle principali attività dell’anima, così come le abbiamo definite all’inizio di questo libro, è appunto quella di trasformare «gli eventi in esperienze». Qui stiamo più specificamente indagando il modo in cui gli eventi diventano esperienze, e diciamo che l’azione di vedere in trasparenza gli eventi li mette in rapporto con l’anima e crea esperienze. La semplice partecipazione agli eventi, o il subirli intensamente, oppure l’accumularne un gran numero, non differenzia né approfondisce la nostra capacità psichica, non ne fa quella che solitamente viene detta un’anima saggia o vecchia. Gli eventi non sono essenziali al fare esperienza dell’anima. Essa non ha bisogno di molti sogni o di molti amori o delle luci della città. Abbiamo testimonianze di grandi anime fiorite in una cella di convento, in una prigione, o in un villaggio. Per creare esperienza ci vuole invece una visione di quanto sta succedendo, ci vogliono idee profonde. Altrimenti abbiamo bensì avuto gli eventi ma non ne abbiamo avuto esperienza; e l’esperienza di ciò che è accaduto arriva soltanto più tardi, quando ne acquistiamo un’idea, quando possiamo averne visione mediante un’idea archetipica. Più che nella psicologia, l’anima apprende nella psicologizzazione – differenza questa che spiegherò tra breve in dettaglio. Essa apprende ricercando se stessa in qualunque idea la raggiunga; acquista idee ricercandole, soggettivizzando tutti gli interrogativi, compreso il «come?». Dare una risposta diretta al «come?» tradisce l’attività del fare anima, che, con la psicologizzazione, attraversa lo schermo di qualsiasi risposta letterale. Così come acquista idee ricercandole, l’anima le perde mettendole in pratica in risposta al «come?». Esiste, anzi, un diretto rapporto tra la povertà di idee che

affligge la psicologia accademica e quella terapeutica e il loro insistere sulla pratica. Elaborare risposte agli interrogativi psicologici non solo impoverisce immediatamente il processo ideazionale, ma significa anche cadere nell’errore pragmatico, nel postulato che le idee sono valutate in base alla loro utilità. Questo errore nega la nostra fondamentale premessa: che le idee sono inseparabili dalle azioni pratiche e che la teoria stessa è pratica; non c’è nulla di più pratico che formare idee e divenir consapevoli di esse nei loro effetti psicologici. Ogni teoria che noi sosteniamo agisce su di noi praticamente, ci usa, ci manovra, in un modo o nell’altro, sicché le idee sono sempre in pratica e non hanno bisogno di esservi messe. Infine, l’apprendimento psicologico o psicologizzazione sembra rappresentare il desiderio che l’anima ha della luce, come la falena della fiamma. La psiche ha bisogno di trovarsi vedendo in trasparenza, anzi, ama essere illuminata vedendo in trasparenza se stessa, come se l’atto stesso del vedere in trasparenza rischiarasse l’anima e la rendesse limpida – come se psicologizzare con le idee fosse di per sé una terapia archetipica che fa luce, illumina. L’anima sembra soffrire quando il suo occhio interno è occluso, vittima di eventi soverchianti. Questo suggerisce che tutti i modi per illuminare l’anima – il modo mistico e meditativo, quello socratico e dialettico, quello orientale e disciplinato, quello psicoterapeutico, persino il desiderio cartesiano di idee chiare e distinte – nascono dal bisogno di visione della psiche. 6

LA PSICOLOGIZZAZIONE ARCHETIPICA

Naturalmente deve esistere un qualche nesso tra le idee esterne derivate da altri campi e le strutture indigene della psiche, perché altrimenti si cadrebbe in balìa delle ideologie e dell’alienazione. Esaminiamo dunque alcune di queste idee pseudopsicologiche. Ciò ci consentirà in pari tempo di mostrare il processo di psicologizzazione concretamente in

atto. Quando ad esempio consideriamo la psiche come vita, definendo l’anima come principio vitale insito in ogni individuo organico, e inoltre consideriamo la vita come un processo evolutivo – come una complessa crescita sviluppantesi dal meno al più – l’idea di crescita non potrebbe infettare la nostra comprensione dell’anima se non trovasse l’ospite ben disposto, se non fosse cioè presente una struttura di ideazione in grado di accogliere una formulazione dell’anima strettamente legata alla vita animale e vegetale, un offuscamento della distinzione tra lo sviluppo degli individui e quello della specie, tra crescita e movimento verso l’alto («venir su, crescere»), e una fiducia in un’oscura causazione materiale che non ha origine ma è origine. Mi riferisco alla prospettiva archetipica della Grande Madre e del suo bambino che cresce. In altre parole, quando concepiamo la vita psichica soprattutto come sviluppo e lo scopo dell’anima soprattutto come crescita, le nostre idee, ancorché sature di termini evolutivi mutuati dalla biologia darwiniana, risuonano della persona dell’archetipo materno. È la Madre che preferisce un olismo scivoloso e tentacolare alle distinzioni tra le parti. È lei, come Dea della vegetazione, che nutre un’idea di psiche tra una congerie di equivalenti confusionari – organismo, vita, élan vital, bios, zoē, il femminile, la natura – e nello stesso tempo mantiene aggrovigliate e sepolte le sottili differenze tra crescita, accrescimento, differenziazione, sviluppo, evoluzione, progresso, individuazione, mutamento, trasformazione, metamorfosi e simili. Questa prospettiva materna compare nelle ipotesi sull’origine della vita umana, sulla natura della materia e sulla generazione dell’universo. La prospettiva della Grande Madre compare anche nelle teorie sulla genesi della religione. Il lavoro di Margaret Murray, ad esempio, scopre che il potere creativo datore di vita che è alla base di ogni fede in Dio rimanda in ultima istanza al mistero della gravidanza e della fecondità. Il suo libro è una dimostrazione 7

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esemplare dello sfondo archetipico del pensiero. Gli argomenti che essa utilizza, i fatti che adduce, le situazioni che immagina nel passato preistorico e nella mente delle madri e dei bambini moderni, il suo stesso linguaggio (potere mistico, crescita, animali, ricerca delle origini) e i modi concreti di espressione appartengono già tutti proprio alla struttura archetipica (Grande Madre) che essa si sforza di stabilire. Per questo tipo di errore occorrerebbe forse una nuova categoria, la «petitio principii archetipica». Un secondo esempio di idee sulla psiche esterne alla psiche stessa lo possiamo ricavare dalla teologia cristiana, dove il fondamento primario dell’anima è l’amore perché, come ha detto Agostino, «Non v’è nessuno che non ami» e «ama e fa’ ciò che vuoi»: il primo comandamento è amore, poiché l’amore è l’essenza di Dio, a immagine del quale è fatta l’anima umana; l’amore da solo è sufficiente alla redenzione dell’anima, perché racchiude in sé ogni altra idea – verità, giustizia, la stessa fede, tutte le virtù e i peccati; e questo amore dona all’anima il suo fuoco immortale e la freccia della sua missione, che è di accrescere il regno dell’amore mediante unioni sempre più ampie. Nella sua stessa variante freudiana, la libido, questa idea non avrebbe potuto affermarsi con tanta forza se non fosse stata l’eco di una struttura archetipica. che immagina e ha esperienza di un cosmo governato da Dei di amore: Eros, Gesù, Afrodite. Così come è possibile vedere in trasparenza la crescita per quello che è, ossia una fantasia archetipica, allo stesso modo la psiche può vedere il dogma dell’amore per quello che è, e riconoscerne la validità archetipica come metafora più che come verità letterale. Oppure, per fare un altro esempio: come avrebbe potuto l’anima dare con tanta facilità una formulazione di sé mutuando dalla filosofia l’idea della tabula rasa – che non c’è niente nell’intelletto o nell’immaginazione o nel cuore che non provenga dall’esterno attraverso le porte della sensazione – se essa non avesse già perduto la visione di sé come una complessità di tendenze, reminiscente,

interiormente sensuosa e immaginativa, ricca dei doni di idee a priori? L’idea della natura della psiche come una lavagna vuota, cosí dominante nella nostra cultura, poteva essere accettata per vera soltanto da una psiche spogliata e senza nessuno specchio in cui vedere se stessa. La tabula rasa e l’associazione di informazioni sensoriali – e anche le varie speranze terapeutiche di ricominciare da capo, di ripulire la lavagna, di gridare e svuotarsi – tradiscono una povertà di ideazione psicologica, cioè proprio il problema di cui ci stiamo occupando, in una cultura che da gran tempo considera questa fantasia di vuoto passivo come la vera descrizione dell’anima. Anche qui la nostra idea dell’anima è influenzata da una persona archetipica: la persona della ninfa innocente, l’anima vergine alla quale non è ancora accaduto nulla, una Cenerentola, una Bella Addormentata, che non genera niente dentro se stessa – l’opposto della ricca fantasia di Pandora dell’anima platonica che entra nel mondo ricolma dei doni di tutti gli Dei. Digressione sull’idea dell’anima vuota L’idea di un’anima vuota non è solo un’idea moderna: cfr. Platone, Repubblica, IX, 585b, dove la vuotezza dell’anima è paragonata alla follia e all’ignoranza; e inoltre, Gorgia, 49394, dove il vaso vuoto viene di nuovo paragonato all’anima porosa dello stolto. L’attività socratica di cura dall’ignoranza ha anche il significato di curare l’anima della sua ignoranza di sé, portandola a comprendere (per es. nel Menone) che essa non è un vaso vuoto o una tabula rasa. Il lavoro dell’analisi terapeutica freudiana e quello dell’analisi junghiana, il primo con il suo accento sul ricordo, il secondo con il rilievo dato all’immaginazione, possono esser visti come ricapitolazioni del platonismo. Il riconoscimento della «realtà» dell’«inconscio» è un ri-conoscere la profondità, la pienezza e la ricchezza della psiche, ri-conoscere che essa ha dei contenuti, che non è una tabula rasa. Anche il compito di 9

coagulare la psiche o di costruire il vaso o di sviluppare spazio interno mediante l’internalizzazione è platonico. La metafora è simile a quella dei vasi del Gorgia. In analisi impariamo a conservare i contenuti psichici – emozioni, fantasie, impulsi – a trattenere i nostri sogni, a impedire che la nostra vita psichica coli via e si disperda. Ci sono state in filosofia confutazioni di Locke, dell’associazionismo, del meccanicismo, dell’anima vuota. Ma non ci sono mai stati dei metodi così efficaci come l’analisi del profondo per eliminare empiricamente la condizione di anima porosa, che è la premessa psichica dell’idea della lavagna pulita. In diretta contrapposizione alla tabula rasa è la mistica dell’anima oggi così diffusa nella nostra società. C’è stato un improvviso ritrovamento dell’anima e con essa della prospettiva psicologica verso ogni cosa: astrologia, allucinazioni psichedeliche, religioni orientali e vibrazioni eteree, fino alla medicina, al cibo e allo sterco. È impossibile metter ordine nella massa confusa dei contenuti della parola «anima» così come la si usa oggi, fino a che non elaboreremo da capo la nostra idea di anima, il che significa, in sostanza, elaborare una psicologia adeguata che si basi sulla metafora dell’anima. Ciò a sua volta esige una disciplina di chiusura dei vasi, per dare così inizio a un contenimento psichico ove la psiche possa separare gli elementi e far coagulare le sue fantasie di se stessa producendo intuizioni psicologiche.

In questi tre casi – le idee di crescita, di amore e di tabula rasa – noi vediamo ciò che le nostre idee ci lasciano vedere. Le prove che raccogliamo a sostegno di un’ipotesi e la retorica che usiamo per dimostrarne la validità fanno già parte della costellazione archetipica in cui ci troviamo. L’idea «oggettiva» che scopriamo nell’insieme dei dati è ancora una volta anche l’idea «soggettiva» per mezzo della quale vediamo i dati stessi.

Vediamo tanto più chiaramente la repressione nel mondo circostante quanto più siamo presi nel ruolo archetipico del suo redentore. L’eroe liberatore vede repressione ovunque, il vecchio re vede i medesimi eventi come ordine, dovere e tradizione. Egli ha un ruolo diverso da svolgere negli eventi perché ha di essi un’idea diversa; sia il ruolo sia l’idea sono governati archetipicamente. Se, per fare un altro esempio, condividessimo la prospettiva di Era, saremmo convinti di vedere in tutti gli impulsi creativi – così eccitanti per l’anima vergine, le ninfe mortali di Zeus – l’aspetto sfrenato e promiscuo di Zeus, che dovrebbe essere il legislatore e il marito, ma che si prende ciò che vuole e dove vuole, sconvolgendo nel contempo dall’interno la famiglia e la società. La stessa costellazione di Zeus ed Era vista invece dalla prospettiva di Zeus presenta la famiglia e la vita sociale come il giogo di Era, che inibisce la possibilità della fantasia procreativa e il libero movimento dell’immaginazione generatrice di nuove strutture. Tali sono le prospettive su cui si fondano i nostri giudizi e le nostre azioni. E senza questi tipi di prospettive rimaniamo entro un modello monoteistico di coscienza necessariamente unilaterale nei suoi giudizi e ristretto nella sua visione, inconsapevole com’è della ricchezza e della varietà delle idee psicologiche. Lo stesso tipo di accostamento vale per le idee psicologiche di base sulla natura dell’anima: l’anima è armonia oppure un’unità multipla e varia; è nata nel peccato; è divina e immortale; è una ricerca di significato e di autoconoscenza; la sua essenza è la vita e il calore; la sua essenza è la morte; è strutturata in tre o più parti impegnate in una psichomachia, in un conflitto di opposizioni; è in rapporti enigmatici con il corpo; è fondamentalmente un elemento simile all’aria o all’acqua oppure una loro vaporosa mescolanza. Ciascuna di queste idee classiche della psicologia sulla psiche, invece di venir presa così come si presenta, dovrebbe essere esaminata per trovarne il significato archetipico. Queste sono definizioni dell’anima date dall’anima, sono autodescrizioni rivelatrici dei vari modi

in cui la psiche guarda a se stessa, e di come deve raccontare la sua storia in molti modi. La sua natura ci spinge nella posizione politeistica, che offre una varietà di modelli ai fenomeni della psiche. La persistenza e l’ubiquità di queste idee psicologiche classiche, unitamente alla loro capacità di spingere una generazione dopo l’altra a occuparsi di psicologia, è indice della presenza attiva in esse di qualcosa che va oltre il loro semplice contenuto verbale. In primo luogo, la ricchezza stessa delle idee sull’anima ci dice quanto sia ricca la sua fenomenologia. È come se Psiche fosse naturalmente pagana a causa del naturale politeismo dell’anima. Queste ultime pagine hanno offerto una dimostrazione del metodo della psicologizzazione archetipica. Abbiamo visto che psicologizzazione significa analizzare non solo la nostra personalità e il nostro materiale psicologico, come i sogni e i problemi, ma anche le idee con cui guardiamo la nostra personalità, e il nostro materiale psicologico. Anzi, fare psicologizzazione archetipica significa esaminare archetipicamente le nostre stesse idee. Significa guardare alle strutture che racchiudono la nostra coscienza, alle gabbie entro cui siamo seduti e alle sbarre di ferro che formano le grate e le difese della nostra percezione. Rivedere, rappresentare [re-present] e re-visionare la nostra attuale collocazione ci fa scoprire la presenza della psiche e del suo linguaggio immaginale in quelle che avevamo tranquillamente accettato come descrizioni letterali e concrete. In ciascuna delle nostre idee c’è un fattore archetipico, una fantasia archetipica che può essere estratta mediante un’operazione di visione interiore. Questo interrogarsi psicologico, questa reflexio che rivolge le idee su se stesse per poter vedere in trasparenza fino a scorgere la loro portata per l’anima, fa anima. La psiche appare dove non era stata percepita, si viene più chiaramente separando dalle sue identificazioni letterali, e rende più chiaro lo specchio in cui si riflette la vita. Io considero questa attività di psicologizzazione il lavoro

primario del mio campo. La psicologizzazione, in quanto trasforma idee esterne in idee psicologiche, sussume tutte le altre azioni. Attraverso la psicologizzazione io trasformo l’idea di qualsivoglia azione letterale – politica, scientifica, personale – in un’attuazione metaforica. Io vedo l’atto, la scena, l’atteggiamento in cui mi trovo, e non più soltanto l’azione in cui sono impegnato. Riconosco che attraverso le mie idee io apprendo la mia più intima soggettività e sono da essa appreso, riconducendo ogni azione entro il ruolo di un’idea. CI SONO DEI NELLE NOSTRE IDEE

La psicologia archetipica ha visione delle idee fondamentali della psiche come espressioni di persone – Eroe, Ninfa, Madre, Senex, Fanciullo, Briccone, Amazzone, Puer e molti altri prototipi specifici che portano il nome e le storie degli Dei. Queste sono le metafore radicali. Esse forniscono i modelli del nostro pensiero, oltre che del nostro sentire e del nostro agire. Esse danno a tutte le nostre funzioni psichiche – pensare, sentire, percepire o ricordare – la loro vita immaginale, la loro coerenza interna, la loro forza, la loro necessità e la loro ultima intelligibilità. Queste persone mantengono l’ordine nella nostra persona, tenendo entro modelli ricchi di significato quei segmenti e frammenti di comportamento che noi chiamiamo emozioni, ricordi, atteggiamenti e motivazioni. Quando perdiamo di vista queste figure archetipiche diveniamo, in un certo senso, psicologicamente folli: cioè, non «tenendo a mente» le radici metaforiche noi «usciamo di senno», cioè di mente – usciamo all’esterno, dove le idee sono state letteralizzate in storia, società, psicopatologia clinica o verità metafisiche. Allora tentiamo di comprendere ciò che accade all’interno osservando l’esterno, esteriorizzando l’interiorità, sicché perdiamo sia la significativa interiorità che è in tutti gli eventi sia la nostra stessa interiorità. Quanto più deboli e vaghe sono le nostre nozioni delle 10

premesse archetipiche delle nostre idee, tanto maggiore è la probabilità che le nostre azioni si irrigidicano in ruoli. Cadiamo prigionieri di problemi tipici, non ci accorgiamo della fantasia archetipica che stiamo attuando. Neppure le migliori intenzioni morali, i migliori obiettivi politici e metodi filosofici, ci eviteranno di dar mostra di ingenuità psicologica. Persino quel prezioso strumento che è la ragione perde la sua libertà di visione interiore allorché dimentica le persone divine che governano le sue prospettive. Ho tentato in un altro saggio di mostrare questa ingenuità psicologica così come appare nella nostra fede nel futurismo, nel nostro culto dello sviluppo, della maturità e dell’indipendenza, nella nostra ricerca delle radici o dell’infanzia perduta in origini storiche, linguistiche e primitive, oltre che nelle ragioni quanto mai deboli che cercano di promuovere queste idee – tutte cose tipiche dell’archetipo del fanciullo. In un altro studio ho esaminato un’altra struttura specifica: lo sfondo archetipico della coscienza scientifica maschile, che ho chiamato apollinea e che rende cieco l’occhio dell’osservazione quando guarda l’anatomia femminile, le teorie della concezione e della riproduzione, l’embriogenia e l’isteria – vedendovi sempre la medesima inferiorità femminile a dispetto, e a causa, dei suoi metodi scientifici e delle sue intenzioni «oggettive». Anche in questo caso vediamo la ragione al servizio di una prospettiva archetipica. Un altro esempio è fornito da W.K.C. Guthrie, che connette «l’idea di progresso» con «il carattere mitologico pienamente personalizzato» di Prometeo, «Dio della preveggenza». Altri casi di persone archetipiche celate entro insiemi di idee sono stati studiati da Stein, da Miller e da Mayr. E tuttavia dove altro possiamo essere se non in uno dei tanti modelli archetipici, delle tante visioni che governano gli esseri umani, così come il mondo credeva un tempo di esser governato dall’alto dell’Olimpo e da demoni, potenze e princìpi personificati, che noi oggi chiamiamo «inconscio» – forse perché siamo divenuti così inconsci di essi? La scena 11

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delle nostre azioni e noi, gli attori, siamo ontologicamente necessitati, e delimitati, da queste idee di visione che la psicologia del profondo chiama «proiezioni inconscie» oppure «messe in atto» quando la cecità che esse cagionano viene penetrata [seen through] da qualcun altro: «Non vedi che cosa stai facendo?» gridiamo. «Non vedi il mio punto di vista?». Ma noi non ne siamo capaci, perché siamo prigionieri d’una visione particolare, che non è semplicemente frutto d’un insieme di valori, d’una condizione culturale o storico-sociale. Dentro e dietro queste idee, a renderle così istintualmente certe, così libidicamente cariche di entusiasmo e di resistenza, così universalmente familiari, così poche di numero e così ricorrenti nella storia, ci sono gli archetipi, che formano le strutture della nostra coscienza con tale forza e tale possessione che potremmo, come già abbiamo fatto in passato, chiamarli Dei. RIASSUNTO E IMPLICAZIONI PRELIMINARI

Siamo così giunti a una radura dove possiamo guardarci intorno e fare il punto. Abbiamo esposto gradatamente la psicologia degli archetipi per mostrare la natura della psicologia archetipica. Nel primo capitolo, che era soprattutto un riflettere della psiche immaginativa, è emersa la phantasia degli archetipi. Abbiamo visto le molte immagini delle loro persone, il loro apparire come figure mitiche, come daimones e Dei. Il secondo capitolo, che è stato soprattutto un riflettere della psiche affettiva, ha messo in luce il pathos degli archetipi. Abbiamo visto che gli Dei sono presenti negli stili della nostra sofferenza, nel casus, nel modo di accadere delle cose, che trasforma la nostra storia clinica nei loro miti. Il presente capitolo, che è soprattutto un riflettere della psiche intellettuale, presenta il logos degli archetipi affinché possiamo riconoscere gli Dei e i loro miti nelle nostre idee. Le implicazioni di questo capitolo, al punto in cui siamo giunti, sono assai vaste. In primo luogo, se gli Dei si

esprimono nella psiche attraverso le sue idee, ciò significa che il nostro lavoro con le idee è almeno in parte un’attività religiosa, un mezzo per rivolgerci alla faccia ideazionale degli Dei e per rivolgere in una più giusta direzione lo specchio in cui riflettiamo questa faccia. Per mezzo delle idee noi teniamo a mente gli Dei, ci rammentiamo costantemente di loro. In secondo luogo, se gli Dei sono immanenti nell’anima, nelle sue idee, allora psicologizzare le idee ci mette in rapporto col divino. Qui io non faccio altro che riaffermare un’antica idea della santità dell’intelletto e del dono supremo dell’ideazione in una società che impazza nel sentimento. Terzo, se riteniamo che gli Dei si esprimano in uno specifico modo di essere, ciascuno con attributi, paesaggi, animali e piante simbolici, modi d’azione, modalità etiche e psicopatologiche, allora parte dello specifico modo di essere di ciascun Dio è uno stile di riflessione. Un Dio è una maniera di esistenza, un atteggiamento verso l’esistenza e un insieme di idee. Ciascun Dio vorrebbe proiettare il proprio logos divino, aprire l’occhio dell’anima affinché essa consideri il mondo in un determinato modo. Egli forma la nostra visione soggettiva in modo da farci vedere il mondo secondo le sue idee. Come Saturno darà forma all’ordine attraverso il lento scorrere del tempo, così il puer aeternus, alato e ardente, trasformerà ogni cosa materiale in spirito – «Su, presto, qui, ora, disse l’uccello». Il fanciullo vedrà il futuro in ogni evento e in tal modo lo costringerà a venire, mentre ciascuna Dea darà forma a una visione distinta e diversa del rapporto, del nutrimento e dell’interiorità. Infine, poiché le idee presentano visioni archetipiche, io in realtà non ho idee; sono loro che hanno me, che mi tengono, mi contengono, mi governano. La nostra lotta con le idee è una lotta sacra, come con un angelo; i nostri tentativi di formulazione sono un’attività rituale per propiziare l’angelo. Le emozioni che le idee suscitano sono consone ad esse, così come del tutto autentici sono il nostro sentirci vittima delle idee, umiliati al cospetto della loro

grandiosa visione, la devozione che tributiamo loro per tutta la vita e le battaglie che dobbiamo combattere nel loro nome. PSICOLOGIZZAZIONE, PSICOLOGIA, PSICOLOGISMO

Vorrei sottolineare a questo punto che dichiarandomi per la psicologizzazione non ho nessun intento relativistico. Io sarò inflessibile, arrogante persino, nella mia rivendicazione della psicologia. Ma occorrerà vedere che cosa debba intendersi con questa parola. Molti sono i dipartimenti accademici, così come molte sono le facoltà dell’anima umana. La nostra casa ha molte stanze e ancor più finestre; noi percepiamo da una molteplicità di punti di vista: etico, politico, poetico. Ma la prospettiva psicologica è suprema e ha la precedenza perché la psiche ha la precedenza ed è necessariamente presente in ogni impresa umana. Il punto di vista psicologico non invade gli altri campi: è lì dall’inizio, anche se quasi tutte le discipline inventano metodi che hanno la pretesa di tenerlo fuori. Potrebbe forse essere meno offensivo considerare la psicologia un dipartimento tra i molti e un interesse tra gli altri, ma una siffatta presentazione eclettica e relativistica del punto di vista psicologico è un inganno, perché rifiuta il dovere stesso della psicologia, che è quello di parlare a nome della psiche. Che gli psicologi lo accettino o no, la psicologia postula implicitamente la sua superiorità sulle altre discipline, perché la psiche di cui essa è patrocinatrice precede effettivamente tutte le sue attività compartimentali, dipartimentalizzate in arti, scienze o mestieri. Questi dipartimenti sono ciascuno un riflesso di questo o quell’aspetto della psiche. In questo senso, ciascuno di essi riflette, alla base del proprio punto di vista e della propria conoscenza, premesse psichiche. Ma la psicologia non può essere un dipartimento tra gli altri, poiché la psiche non è una branca distinta del sapere. L’anima, più che un oggetto

di conoscenza, è un modo di conoscere l’oggetto, un modo di conoscere la conoscenza stessa. Prima di ogni conoscenza vi sono le premesse psichiche che rendono di fatto possibile il conoscere. Quasi tutte le discipline cercano, come dice Jung, «di dimenticare i loro princìpi esplicativi archetipici, cioè le premesse psichiche che sono il sine qua non del processo cognitivo». Queste premesse tengono la coscienza umilmente situata entro i confini della psiche, dove essa è legata a tutte le follie della soggettività umana, alle ironie della patologia, ma anche alla ricchezza immaginativa dell’anima. Queste premesse psichiche, o «componenti inalienabili del quadro empirico del mondo» come le chiama Jung, sono afflizioni per lo spirito intellettuale, il quale vorrebbe eliminarle con un atto del pensiero per poter avere l’intellectus purus (sant’Agostino), l’«atto puro» (san Tommaso), la «ragion pura» (Kant), l’«Essere puro (Hegel), la «logica pura» (Husserl), la «prensione pura» (Whitehead), o la «scienza pura». Ma le premesse archetipiche della cognizione si manifestano in stili di comportamento che includono i nostri complessi, oltre che le nostre modalità di pensiero. Non dovremmo dimenticare che il pensiero filosofico, ad esempio, deve parlare in termini di purezza. Il suo astratto ascetismo è parte della dignità puritana dello stile filosofico stesso. Ideazione e psicopatologia sono sposati indissolubilmente, nella buona sorte e non nella cattiva. Questa fu una delle più fruttuose intuizioni di Freud. Ordine, purezza, difensività ed economia – e analità – formano un fascio omogeneo, come Freud fu il primo a vedere. E, come ha aggiunto in seguito, la psicologia archetipica, l’intero complesso caratteriale, ivi compresa la sua modalità di pensiero, appartiene alle premesse psichiche dell’archetipo del senex o di Saturno. L’archetipo è una premessa psichica con molte teste: una la vediamo nelle nostre immagini oniriche, un’altra nelle emozioni e nei sintomi, un’altra plasma il nostro comportamento e le nostre preferenze, un’altra ancora appare nella nostra modalità di pensiero. Non possiamo 15

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tagliar via la testa ideazionale e chinamarla ragione «pura», negando così il suo corpo archetipico coi suoi accessori. Il medesimo archetipo domina le nostre scelte individuali, le nostre confusioni e le nostre idee. Questa interconnessione tra idea e patologia non riduce in alcun modo le idee alla malattia; non siamo impegnati in una psicoanalisi che vorrebbe presentare le forme superiori della cultura come patologia sublimata. Al contrario, la connessione tra idea e patologia va a beneficio di ambedue. In quanto esprimono i nostri complessi e i loro nuclei archetipici, le idee hanno sempre un aspetto psicopatologico. Alcune sono più depressive, altre più paranoiche, altre più inclini alla scissione schizoide. Tuttavia, poiché esprimono delle idee, i complessi hanno in sé delle filosofie e possono essere elaborati in termini filosofici. Le idee, inoltre, funzionano da argini e contenitori per i nostri complessi. Esse forniscono degli scudi che ci proteggono dal loro assalto. Sistemi ideazionali come le credenze religiose strutturate o gli atteggiamenti etici e scientifici, sono mezzi per mantenere in un certo ordine i complessi . Quando le credenze di una persona o di una nazione vanno in pezzi si produce un disordine psichico generale. Le idee che trattenevano i complessi non funzionano più come contenitori efficaci. La posizione archetipica implica che ogni atto di conoscenza può esser esaminato sulla base di queste premesse psichiche. Essa propone niente di meno che un’epistēmē archetipica, una teoria archetipica della conoscenza. Se dovessimo cominciare a muoverci in questa direzione, questa teoria della conoscenza seguirebbe l’implicita connessione tra l’epistēmē e l’eidos di Platone, cominceremmo cioè col guardare a tutta la conoscenza come espressione di idee che hanno premesse psichiche negli archetipi. Una prospettiva di questo tipo ci aiuterebbe a ripensare il problema morale nella scienza. Se le idee scientifiche fossero messe in rapporto con il loro significato psicologico,

verrebbe a cessare la drammatica opposizione tra i due regni della scienza oggettiva e dell’etica soggettiva. Se si riconosce che uno stile di pensiero esprime una modalità archetipica di coscienza, ivi compreso il suo stile di comportamento, il genere di morale che ci si può attendere dalle premesse psichiche della teoria scientifica sarebbe un corollario della teoria stessa. L’idea della scienza come oggettiva e amorale (o morale soltanto internamente, per ciò che concerne l’obbedienza ai dettami dei suoi metodi e delle sue convenzioni) ha essa stessa una premessa archetipica in Apollo, le cui fantasie di base sono distacco, imparzialità, mascolinità altera, chiarezza, bellezza formale, scopi lungimiranti ed elitismo. Esse sono state letteralizzate dalla scienza, e sono diventate la sua fede e il suo comportamento. Non è nostro scopo soffermarci sulla psicologia della scienza o degli scienziati, della filosofia o dei filosofi, o sull’epistemologia in generale. Nostro scopo è piuttosto quello di ricordare che tutta la conoscenza può essere psicologizzata. E che una volta psicologizzata, essa diviene anche un mezzo di riflessione psicologica. Sicché ogni dottrina è pertinente all’anima purché il suo letteralismo venga psicologizzato. Ogni enunciato, in ogni ramo del sapere, in ogni facoltà universitaria, è un enunciato fatto dalla psiche attraverso degli uomini e delle donne ed è un enunciato psicologico. La psicologia non viene insegnata solo nella facoltà che porta il suo nome. Essa è in atto ovunque. Anzi, può essere meglio in atto là dove la si nota meno, ad esempio nell’«apprendimento negativo», come sotterranea reazione interiore di «apprendimento dissonante», in cui la rabbiosità dello studente intacca gli enunciati positivi del sistema, corrode il loro valore apparente e produce una conoscenza aspra che è contro quella che viene data, una controeducazione. La psicologizzazione vede in trasparenza ciò che viene insegnato; è un apprendimento che supera qualsiasi insegnamento. Se la psicologia può essere appresa ovunque, allora non possiede un campo suo proprio. Essa è, piuttosto, una

prospettiva su tutti i campi, parassitaria di tutti i campi, che attinge le proprie intuizioni da tutto quel che esiste nell’universo. Essa ha però i suoi limiti invalicabili nell’individuo che ne è il portatore e nei punti di vista adottati da ciascuna persona. La psicologia non trascende mai le sue premesse soggettive nella psiche. O, come disse Jung nelle sue Terry Lectures, la psiche è insieme l’oggetto della psicologia e il suo soggetto. La psicologia ricava la propria definizione, più che dallo sviluppo di un campo oggettivo, dai limiti che definiscono la persona soggettiva dai cui sviluppi essa dipende. Sicché non è sorprendente che la psicologia del profondo di Freud e di Jung non abbia trovato spazio nelle università come una facoltà tra le altre. L’insegnamento della psicologia del profondo dovette svolgersi in privato, e in istituzioni didattiche separate, come avviene ancor oggi. Si rivela così la differenza tra l’attività della psicologizzazione e le altre attività. La psicologizzazione non è una tra le altre, e una psicologia che si sforzi di riflettere l’anima nella sua profondità non può mai limitarsi ad aggettivi come sperimentale, sociale, clinica o filosofica, giacché è essa stessa una universitas. Dobbiamo però affrettarci a precisare che psicologizzazione non significa soltanto psicologizzazione, né significa che i vari enunciati non possano avere contenuto, merito e valore nella sfera della loro espressione letterale. Le asserzioni filosofiche e scientifiche non sono, com’è ovvio, soltanto degli enunciati psicologici. Ridurre tali asserzioni interamente alla psicologia equivale a cadere nell’errore psicologistico, o «psicologismo». La cosa è importante. Psicologismo significa soltanto psicologizzazione, significa convertire tutte le cose in psicologia. La psicologia allora diventa la nuova regina e – prendendo alla lettera se stessa e le proprie premesse diventa una nuova metafisica. Allorché le intuizioni della psicologizzazione si cristallizzano in argomenti sistematici, diventando solide e opache o monocentriche, abbiamo l’atteggiamento metafisico dello

psicologismo: c’è un’unica disciplina fondamentale e un solo punto di vista supremo, la psicologia. È un fenomeno che si riscontra ogni volta che eventi religiosi, morali, estetici o logici ricevono (1) una spiegazione letteralizzata che ricorre unicamente, (2) a un sostrato di processi psicologici, e (3) quando tali processi sono resi personalmente umani; l’errore psicologistico si regge su tutte e tre queste gambe. La psicologizzazione archetipica esegue le prime due azioni cercando di vedere in trasparenza gli enunciati per individuarne il significato psicologico e mettendo le idee in rapporto con le loro premesse psichiche negli archetipi. Tuttavia, essa evita l’errore psicologistico perché queste premesse psichiche, gli archetipi, rimangono le prospettive di persone mitiche che non possono essere ridotte a esseri umani o situate all’interno della loro vita personale, della loro pelle o della loro anima. Gli archetipi sono strutture psichiche, ma non soltanto questo, poiché essi sono anche Dei che non possono essere interamente contenuti dall’anima individuale di nessuno. Ci salviamo dallo psicologismo ricordandoci non soltanto che la psiche in noi è come un fascio di dinamismi, ma che noi stessi siamo dentro la psiche. Perciò psicologizzazione non significa trasformare gli eventi in psicologia, sibbene fare psiche degli eventi – fare anima. Talché i metodi di psicologizzazione possono essere applicati alla psicologia stessa. Gli enunciati della psicologia possono infatti essere messi in discussione per le loro implicazioni teologiche o politiche. Herbert Marcuse, ad esempio, servendosi di strumenti politici, ha senza dubbio visto in trasparenza certa psicologia smascherandone molti suoi postulati. Egli ha però letteralizzato i suoi strumenti, ed è incapace di vedere in trasparenza le proprie idee sulla politica e sulla fantasia archetipica della liberazione dionisiaca. Ciò che fa anima non è lo strumento concettuale o il linguaggio specifico, ma la maniera e l’intento con cui lo 17

strumento viene impiegato. Da tutto ciò segue necessariamente il riconoscimento che ogni enunciato, in qualsiasi campo, è fatto dalla psiche e interessa l’anima e la sua psicopatologia. CHE COS’È LA PSICOLOGIZZAZIONE: ALCUNE DISTINZIONI

Ora, in che cosa consiste l’attività della psicologizzazione? Come possiamo delimitarla in modo più rigoroso? L’abbiamo considerata necessaria, dunque legittima; abbiamo sottolineato che essa avviene in modo spontaneo; e abbiamo concluso che sembra trattarsi d’un tentativo della psiche di realizzare se stessa ovunque possibile. Essa perciò avviene in molti modi e a molti livelli, dal più semplice «raccapezzarsi» alle domande di curiosità, ai ripensamenti paranoici su «Che cosa vogliono dire?» e «Che cosa c’è sotto?», fino alla riflessione in tranquillità, all’indagine più raffinata della significazione e al dubbio scientifico. C’è psicologizzazione ogni volta che la riflessione si allontana dai parametri di ciò che si presenta. La psicologizzazione sospetta la presenza di un’intenzione interiore, non evidente; ricerca un meccanismo nascosto, un fantasma dentro la macchina, una radice etimologica, qualcosa di più di quello che appare agli occhi, oppure vede con occhi diversi. C’è psicologizzazione ogni volta che ci muoviamo verso un livello più profondo. La psicologizzazione si sforza di rispondere al problema del momento non con una risoluzione, ma con la dissoluzione del problema nella fantasia che si è rappresa in «problema». In altre parole, noi partiamo dal presupposto che gli eventi abbiano un involucro esterno che definiamo duro, tenace, reale, e una materia interna che è epifenomenica, insostanziale, strana. I primi li chiamiamo problemi, le seconde fantasie. I problemi sono sempre «difficili» e «seri». Non ce li possiamo togliere di torno, non se ne vanno. Le fantasie invece sono difficili da afferrare. Le si chiama

«semplici fantasie» o «mere fantasie», «sciocche» o «campate in aria». Non le si considera mai «spinose», «ponderose» o «basilari» come i problemi. L’etimologia collega le fantasie con ciò che è visibile, con la luce, coll’esporre alla vista, come una processione di immagini offerte all’occhio della mente. La parola «problema» significa in origine qualcosa che sporge o avanza nel campo visivo, una barriera, un ostacolo, uno schermo. La parola in greco poteva riferirsi alle difese corazzate e agli scudi. Sicché i problemi sono una sfida all’io eroico, offrendogli progetti e proiezioni. Per mezzo della risoluzione dei problemi l’io arriva a una parziale definizione di se stesso. L’io eroico e i problemi ostici hanno bisogno l’uno degli altri; si temprano a vicenda in quel gioco di reciproca sopraffazione chiamato «realtà». Il nostro stile di coscienza è basato sull’eroe e centrato sull’io. Noi diamo credito ai problemi e non prestiamo fede alle fantasie, talché le fantasie si presentano innanzitutto proiettate sotto forma di problemi, che sono perciò fantasie letteralizzate. Il fare un problema di qualcosa piace all’io eroico, il quale ha bisogno della sua fantasia di problemi. Creare problemi o risolverli rafforza il letteralistico schermo difensivo contro le fantasie. Ma ogni volta che facciamo di qualcosa una fantasia, noi la rendiamo, come dice la parola stessa, visibile, perché la portiamo alla luce. Mentre i problemi richiedono la forza della volontà, le fantasie evocano la forza dell’immaginazione. Coloro che lavorano per professione con l’immaginazione riconoscono il valore delle fantasie e si oppongono ai tentativi di trasformarle in problemi psicologici da analizzare, perché questa è una cosa che mette in pericolo le loro realtà immaginali. Parimenti, coloro che per professione operano con la ragione pratica – scienziati o assistenti sociali – si oppongono a che i loro problemi siano trasformati in fantasie, perché questa è una minaccia alla loro realtà egoica. Vedendo in trasparenza al di là dell’illusione dei problemi la realtà delle fantasie, ci spostiamo dall’io eroico all’io dell’immaginale.

Ma la psicologizzazione può seguire molte vie. Può procedere attraverso l’esame storico del sostrato di cause, attraverso l’analisi linguistica, la formulazione di nuove ipotesi sui dati empirici, o la dialettica filosofica. Può procedere anche attraverso l’ironia e l’umorismo, capaci di toglier via la maschera, o per mezzo dell’arte, che ci porta al di là di ciò che è immediatamente evidente. Anche l’amore può essere un mezzo di psicologizzazione, di veder dentro e di vedere in trasparenza, di andare sempre più a fondo. Il vedere in trasparenza non dipende dal campo della psicologia e non richiede il linguaggio della psicologia – né i suoi termini né i suoi strumenti; perché la psicologizzazione non è ristretta a nessun singolo metodo, dal momento che è l’attività originaria, precedente e interna a tutti i metodi testé passati in rassegna. Le riflessioni critiche, storiche, sperimentali, artistiche sono ciascuna un’espressione dell’occhio affamato della psiche che vorrebbe vedere in trasparenza. Essenziali a questo fine sono quelle qualità della riflessione che sono conscie, intenzionali, soggettive, dotate di significato, interiori e profonde. Come tutte le attività della psiche, anche la psicologizzazione ha la sua ombra in una esagerazione psicopatologica: la paranoia. L’occhiata in tralice che sospetta intenzioni segrete, che soggettivizza gli eventi ed è sempre all’erta per cogliere significati nascosti, trova in effetti un suo piacere paranoico nella psicologizzazione. Ma la visione paranoica è tale precisamente perché essa non vede affatto in trasparenza. Essa si arresta alla risposta letterale, ancor più solida e incrollabile della crosta esterna dell’evento in questione. Essa «sa», mentre la vera psicologizzazione non sa mai. L’occhio paranoico dissolve ciò che è evidente facendone una fantasia, ma prende la fantasia per una verità letterale. Stabilendo questo rapporto con la psicologizzazione, otteniamo una nuova prospettiva da cui osservare la visione della paranoia: essa vorrebbe vedere in trasparenza; come dice il suo stesso nome, è un’attività noetica che vorrebbe andare al di là del dato. Cercar di

correggerla col ragionamento o col ricorso all’evidenza dei fatti viene meno alla sua intenzione di psicologizzazione. La tendenza paranoica ha bisogno piuttosto d’essere incoraggiata a spingere il suo sguardo sempre più a fondo e sempre più in là fino a che non riesca a vedere in trasparenza se stessa e oltre. Sebbene il vedere in trasparenza sia un processo di deletteralizzazione e una ricerca dell’immaginale nel cuore delle cose per mezzo di idee, non dobbiamo pensare che sia soprattutto intellettuale, o un’operazione di astrazione intuitiva. Psicologizzazione non significa semplicemente passare dal concreto all’astratto. È bene a questo punto chiarire ciò che distingue il letterale dal concreto. Prima di tutto, la letteralità può presentarsi in modi altamente astratti. Noi possiamo prendere in senso letterale delle astrazioni, come la verità, le regole, le leggi. Il pensiero metafisico è un esempio di letteralità astratta; e così pure il pensiero teologico, in cui i concetti più astratti sulla divinità sono considerati dogmi letterali. È per tale ragione che la metafisica e la teologia diventano facilmente dei modi per evitare la psicologizzazione. Proprio quando parlano dell’anima esse la stanno forse fuggendo, cercando scampo nella visione letterale dei suoi problemi, della sua verità, della sua redenzione. Ogni volta che diciamo «l’anima è» questo o quello, vuol dire che ci siamo imbarcati in una speculazione metafisica e abbiamo letteralizzato un’astrazione. Queste asserzioni metafisiche sull’anima possono produrre psicologia, ma non psicologizzazione, e in quanto modi di evitare la psicologizzazione esse sono un’astratta messa in atto, che si manifesta non soltanto come fuga nella vita concreta, ma anche come fuga verso l’alto, coi voli nelle astrazioni della metafisica, delle filosofie superiori, delle teologie e persino del misticismo. L’anima perde la sua visione psicologica nei letteralismi astratti dello spirito, oltre che nei letteralismi concreti del corpo. In secondo luogo, sebbene la vita del corpo sia sempre concreta, essa non è però necessariamente letterale. Noi

eseguiamo atti concreti di ogni sorta, mangiare e ballare, combattere e amare, il cui significato va oltre il loro letteralismo. L’anima e il corpo sono distinti, ma non necessariamente opposti. Né sono opposti l’anima e gli eventi concreti. L’alchimia offre un eccellente esempio del fare anima per mezzo di eventi concreti. Gli alchimisti avevano a che fare quotidianamente con il concreto – fuochi, miscele e liquidi – ciò nonostante facevano un lavoro psichico. Essi tenevano un occhio fisso sulla psiche nei materiali concreti con i quali lavoravano, e questo per non prendere il sale e lo zolfo, il riscaldamento e la dissoluzione, solo in senso fisico, solo in senso letterale. Essi ammonivano: «Guardati dal fisico nel materiale». I materiali concreti erano indispensabili; tuttavia, prenderli fisicamente, letteralmente, significava perdere la psiche. Il fisico, che è presente anche nel metafisico, rimanda a un letteralismo, alla fantasia di una sostanza reale, di una materia, o di un problema che è ciò che è, impenetrabile alla visione in trasparenza. La nemica di psyché è physis, comunque essa si presenti, in modo concreto o astratto. Nemiche della psiche non sono mai le cose materiali o la vita concreta, salvo dimenticare che anch’esse sono sempre soggette all’esser penetrate dalla visione in trasparenza. La distinzione tra concreto e letterale, così importante per l’alchimia, è la distinzione essenziale del rituale. Il rituale del teatro, della religione, dell’amore e del gioco richiede azioni concrete che non sono mai soltanto ciò che appare letteralmente. Il rituale offre un modo primario di psicologizzazione, un modo per deletteralizzare gli eventi e vederli in trasparenza mentre li «eseguiamo». Quando entriamo in un rituale, l’anima delle nostre azioni «viene fuori»; oppure, per ritualizzare un’azione letterale, noi «vi immettiamo anima». Qui a indicare la strada non sono soltanto il sacerdote e l’alchimista, ma anche l’attore, il comico e il giocatore di calcio. Essi sanno, infatti, spogliare il concreto del suo letteralismo per mezzo dello stile

psicologico che impongono a un’azione. Il rituale unisce azione e idea in una attuazione. PERCHÉ, COME, CHE COSA – E CHI

Se ora ritorniamo alla nostra domanda «Che cos’è la psicologizzazione?», vediamo che essa chiede il significato in modo diverso e probabilmente più profondo del filosofico «perché?» e del pratico «come?». La psicologizzazione chiede «che cosa?». Noi chiediamo: «Che cosa è accaduto?», «Che cosa provi?», «Che cosa vuoi?». Da queste domande si passa poi al «Che cosa significa?», intendendo «Che idea è questa?», «Che modello è in atto?». Cerchiamo di identificare la costellazione degli eventi precisandone la natura. Indaghiamo con precisione il sogno, le sue reali sequenze, il senso dei suoi movimenti, i particolari delle sue immagini. Il «che cosa?» va dritto nell’evento. La ricerca della «cosità» o quiddità, dell’interiore identità di un evento, della sua essenza, ci porta in profondità. È un interrogativo che nasce dall’anima dell’interrogante alla ricerca dell’anima dell’avvenimento. Il «che cosa?» sta ben aderente al fatto, gli chiede di riformularsi, di riproporsi in altri termini, di rappresentarsi (ripresentarsi) per mezzo di altre immagini. Il «che cosa?» implica che ogni cosa, dovunque, è affare della psiche, ha a che fare con essa – è significativo, offre una scintilla, libera l’anima o la nutre. Perché, come e che cosa, presi assieme, coprono larga parte degli impulsi insiti nella psicologizzazione. Vi sono tuttavia delle forti differenze tra queste domande. Il perché ci conduce verso le spiegazioni o le intenzioni; il come ci porta verso un insieme di condizioni, o di cause, o di soluzioni, o di applicazioni. Ambedue ci allontanano da ciò che ci sta davanti, da ciò che è presente e che si sta realmente verificando. A certi filosofi la domanda che cosa non piace, altri neppure la pongono. Il pensiero scientifico preferirebbe risolvere tutti i che cosa, e anche i perché, in 18

come. Il che cosa appartiene alla tradizione essenzialista che va da Aristotele a Husserl, il padre della fenomenologia moderna. Ma il che cosa psicologico si differenzia anche da questo sfondo. Sicché è necessario chiarire la differenza tra fenomenologia e psicologizzazione archetipica. Quando ci rivolgiamo agli eventi e lasciamo che ci dicano che cosa sono, l’operazione che compiamo è fenomenologica. E la nostra operazione è fenomenologica allorché ricerchiamo l’essenza di ciò che è in atto nel senso di un’idea essenziale o di uno stile di coscienza, lasciando da parte tutti i perché e i come. Ma a questo punto le nostre strade si separano perché la fenomenologia si arresta nel suo esame della coscienza, senza comprendere che l’essenza della coscienza sono le immagini della fantasia. La psicologia archetipica porta avanti le conseguenze della fantasia fino alle loro piene implicazioni, trasponendo l’intera operazione della fenomenologia nel regno dell’irrazionale, del personizzato e dello psicopatologico, cioè una trasposizione dal logico all’immaginale. La riduzione fenomenologica diviene un «ritorno» archetipico, un ritorno a modelli e persone mitiche. Noi vediamo in trasparenza il logico per mezzo dell’immaginale; abbandoniamo l’intenzionale in favore dell’ambiguo. Questo è ciò su cui la psicologia del profondo ha sempre insistito: guardare gli eventi e le intenzioni consci dall’inconscio, da sotto. Guardare il mondo diurno dal lato notturno, dalla fantasia e dalle sue archai. Freud, Jung e Husserl guardano in trasparenza i fenomeni in modi diversi. Freud iniziò in neuropatologia, Jung in archeologia e in psichiatria e Husserl in matematica. I loro metodi e le essenze a cui essi arrivano tradiscono i loro rispettivi punti di partenza. Inoltre, la psicologizzazione archetipica, a differenza della fenomenologia, non s’avvale di concetti per le categorie della sua visione. Il che cosa della psicologizzazione si dissolve, a mano a mano che diviene più specifico, dapprima nel «quale?» – quali tra i molti tratti e umori vengono dimostrati in questo momento? – e poi infine nel «chi?» – chi in me dice

che sono brutto, mi fa sentir colpevole? Chi nella mia anima ha questo disperato bisogno di te? Il vedere in trasparenza fino a questo chi dissolve l’identificazione con una tra le tante voci insistenti, che ci riempiono di idee e di sentimenti, guidando il destino a proprio vantaggio. Queste persone, che stanno al centro di ciò che sentiamo, diciamo e facciamo, appaiono dapprima come frammenti interiorizzati della nostra storia personale. Ma ben presto esse rivelano la loro impersonalità. Perché in ultima istanza il chi si riferisce a una figura archetipica presente nel complesso, nel sogno e nel sintomo. Con la dissoluzione del che cosa nel chi, noi seguiamo uno dei principali stili di interrogazione usati per gli oracoli di Delfi e di Dodona: «A quale dio o eroe devo offrire preghiera o sacrificio per ottenere il tale scopo?». Le domande sul perché le cose sono come sono, su come esse si determinarono e come metterle a posto – anche quelle su che cosa sta succedendo e che cosa significa – vanno tutte a sfociare nella rivelazione della particolare persona archetipica operante negli eventi. Quando sappiamo a quale altare dobbiamo rivolgere la domanda, sappiamo anche meglio come procedere. Se il principale responsabile del caos in cui mi trovo è la Dea dell’amore, allora troverò più facilmente una via d’uscita seguendo la sua prospettiva, e lasciando per il momento da parte le gesta eroiche di Ercole, la sicurezza matrimoniale di Era o le sagge riflessioni di Atena. Ciò che gli Dei notoriamente vogliono è che ci si ricordi di loro, non che si scelga tra loro, sicché ogni conflitto – e la stessa domanda «chi?» – chiedendo chi tra i tanti, li indica tutti. Tutti sono implicati e tutti vengono ricordati. La consapevolezza che, come vi sono molti complessi nei nostri conflitti, così vi sono molti Dei presenti immaginalmente nelle nostre anime, sposta la questione dalla scelta al sacrificio, dove sacrificio significa ricordo di uno perché ve ne sono molti. Un tempo questo compito psicologico della scoperta apparteneva al poeta. «Egli vede fino in fondo gli 19

avvenimenti, anche quando i partecipanti non ne vedono che la superficie. E sovente quando costoro hanno solo la sensazione di essere sfiorati dalla mano divina, il poeta sa dire il nome del dio e conosce il segreto delle sue intenzioni». 20

IL PROCESSO DELLA VISIONE IN TRASPARENZA

Condensiamo ora il processo della scoperta psicologica in una serie di fasi. Per prima cosa, c’è il momento psicologico, un momento di riflessione, di stupore, di perplessità, iniziato dall’anima che interviene e contrasta ciò che stiamo facendo, ascoltando, leggendo, osservando. Esitanti di sospetto o con un’improvvisa intuizione, noi attraversiamo il visibile e arriviamo al meno apparente. Il processo di chiarificazione si accompagna all’uso di metafore di luce – barlume, farsi luce, lampo d’illuminazione. Quando la chiarezza è divenuta ovvia e trasparente, una nuova oscurità sembra crescervi dentro, un nuovo interrogativo o dubbio che richiede un nuovo atto di visione interiore che di nuovo penetri verso il meno apparente. Il movimento diventa un regresso all’infinito che non s’arresta alle risposte coerenti o eleganti. Il processo di psicologizzazione non può essere arrestato in nessuno dei punti d’approdo della scienza o della filosofia: ossia, la psicologizzazione non si accontenta che vengano soddisfatte delle condizioni necessarie e sufficienti o che venga stabilita la verificabilità. Essa si soddisfa soltanto del proprio movimento di visione in trasparenza fino in fondo. Il movimento dall’esterno all’interno è un processo di interiorizzazione; il movimento dalla superficie delle cose visibili a ciò che è meno visibile è un processo di approfondimento; il movimento dai dati di eventi impersonali alla loro personificazione è un processo di soggettivizzazione. In una seconda fase, la psicologizzazione si giustifica. Alla nostra penetrazione o al tentativo di portar fuori, di rivelare o di mostrare il perché, si accompagna la convinzione che

ciò che sta dietro o dentro è più vero e più reale, più potente, o più prezioso di ciò che è evidente. Si tratta di una giustificazione basata sulla profondità; noi giustifichiamo la nostra attività facendo appello a un valore ultimo nascosto che non può mai emergere completamente ma deve, anzi, rimanere occultato nelle profondità per poter giustificare il movimento. Questo valore ultimo nascosto che giustifica l’intera operazione può essere chiamato anche il Dio nascosto (deus absconditus), che si manifesta soltanto nell’occultamento. In una terza fase, all’evento presente, al fenomeno che ci sta dinanzi, viene data una narrazione. Esso viene raccontato con le metafore della storia, o della causalità fisica, oppure della logica. Noi ci raccontiamo qualcosa nel linguaggio del «poiché». L’immediato viene elaborato dalla fantasia, cosicché nel divenire esso parte di una spiegazione, si verifica una metamorfosi. Si tratta di un processo di mitologizzazione. E tutte le spiegazioni, quali che siano, possono essere considerate fantasie di narrazione ed essere esaminate come miti. In quarto luogo, ci sono gli strumenti con cui viene eseguita l’operazione. Qui torniamo ancora una volta alle idee, perché le idee sono gli strumenti dell’anima. Senza di esse non possiamo vedere e men che mai vedere in trasparenza. Le idee sono gli occhi dell’anima e danno alla psiche il suo potere di visione interiore, i suoi mezzi per scoperchiare, mettere a nudo, penetrare. Ancora una volta l’anima senza idee è vittima degli aspetti letterali ed è soddisfatta delle cose così come si presentano. Non ha alcuna idea che esista qualcosa di ulteriore, è priva di dubbi e di incitamenti a vedere in trasparenza. Ma il discredito che colpisce la psicologizzazione può essere attribuito soprattutto alla confusione degli strumenti – le idee – con l’attività. La psicologizzazione diviene illegittima quando si semplifica in psicologismi, quando non distingue più tra l’attività della visione in trasparenza e le singole idee per mezzo delle quali essa vede. Ad esempio:

per mezzo dell’idea di inconscio noi possiamo veder dentro, dietro e sotto il comportamento manifesto. Ma l’inconscio è solo uno strumento per approfondire, interiorizzare e soggettivizzare ciò che è apparente. Se prendessimo l’inconscio alla lettera, anch’esso diverrebbe un guscio che imprigiona la psiche e che deve essere visto in trasparenza, deletteralizzato. Senza l’idea dell’inconscio non potremmo vedere in trasparenza il comportamento fino ai suoi aspetti sconosciuti nascosti. Però l’inconscio in quanto tale non lo vediamo. Si tratta qui dell’antico problema dell’idea che viene ipostatizzata in cosa letterale. Il nostro caso però non è semplice superficialità di pensiero, poiché esso è inerente all’eidos stesso, all’idea. Come ha mostrato la discussione precedente, l’idea contiene sia lo strumento mediante cui vediamo sia la cosa che vediamo. La psicologizzazione si trova in pericolo quando dimentica che il letteralismo è inerente alla nozione stessa di idea, perché allora noi vediamo le idee invece di vedere per mezzo di esse. Prima di procedere, desidero fare un passo indietro. Queste quattro fasi possono essere corredate di alcune precisazioni che ci eviteranno di immaginarle in modo troppo angusto. La più importante è che il vedere in trasparenza richiede tutte e quattro le cosiddette fasi e che tutte e quattro possono avvenire simultaneamente. Noi penetriamo all’interno per mezzo di idee, e intanto ci raccontiamo una storia giustificatrice. Oppure può essere un’idea a dare il via alla psicologizzazione, oppure ancora è una fantasia su un dato evento che può indurre il momento della riflessione e la ricerca di qualcosa di più profondo. Per quanto concerne la prima fase, i sogni – che sono tentativi di raggiungere un posto di osservazione diverso da quello solito della vita desta – manifestano il momento riflessivo mediante una varietà di motivi. I mutamenti di posizione corporea o di atteggiamento possono essere metafore della visione in trasparenza. Per psicologizzare abbiamo bisogno di «avvicinarci», ovvero dobbiamo «fare

marcia indietro» per cercare una prospettiva diversa o per guardare le cose da una nuova angolazione. Altri motivi sono: accendere o spegnere le luci, entrare, discendere, arrampicarsi e salire oppure volare per guadagnare distanza, tradurre, leggere o parlare in un’altra lingua, gli occhi e gli strumenti ottici, essere in un altro paese o in un altro periodo storico, impazzire, ammalarsi, ubriacarsi – tutte immagini concrete che indicano uno spostamento della propria prospettiva su eventi, scene e persone. Anche osservare immagini su uno schermo oppure scattare immagini fotografiche è indice di una modalità di psicologizzazione. Ma l’immagine migliore di tutte è il vetro. Il vetro nei sogni, sotto forma di finestre, lastre, specchi, presenta il paradosso di una trasparenza solida; suo scopo è appunto quello di permettere la visione in trasparenza. Il vetro è la metafora per eccellenza della realtà psichica: non è di per sé visibile, ha lo stesso aspetto del suo contenuto, e quando il contenuto della psiche è posto dentro o dietro a un vetro, ciò significa che è stato trasferito dalla realtà palpabile alla realtà metaforica, estratto dalla vita e situato in un’immagine. Soltanto quando l’alchimista riusciva a mettere le sue sostanze d’anima in un vaso di vetro e a tenervele, aveva effettivamente inizio il suo lavoro psicologico. Il vetro è l’immagine concreta della visione in trasparenza. Per ciò che riguarda la seconda e la terza fase, è bene rendersi conto che giustificare le nostre intuizioni psicologiche e mitologizzarle in un racconto non significa conoscere meglio o con più certezza quanto sta effettivamente accadendo. Noi giustifichiamo il nostro attraversamento del dato con il convincimento che ciò che troviamo al di là è più reale o più genuino, ma questa giustificazione e il mito che raccontiamo non debbono essere considerati letteralmente veri e reali. Se io vedo in trasparenza il tuo comportamento mediante l’idea del complesso del salvatore, convinto che tale descrizione sia più basilare e più valida delle apparenze, non c’è tuttavia

alcuna certezza che quello e il complesso del salvatore e che adesso lo conosco perché l’ho visto. La mitologizzazione degli eventi e dei comportamenti in racconti, descrizioni e spiegazioni non porta a spiegazioni più valide, non rende più certi di ciò che è. Non esiste alcun «più». Il «più» appartiene al linguaggio dell’oggettività; la psicologizzazione invece procede verso l’interno, soggettivizzando. La rivelazione del mito entro gli eventi conferma l’ambiguità, non la risolve. Il mito porta dentro il significato semplicemente perché ci estrae dalle oggettività letterali, anzi il luogo dove ci porta non è neppure un significato centrale, o quel centro di significato ove si dovrebbe manifestare la certezza delle cose. Al contrario, restiamo sospesi e perplessi sull’orlo delle vere profondità. Invece di un aumento di certezza c’è una estensione del mistero, che è insieme la precondizione e la conseguenza della rivelazione. Talché quanto più chiaramente vedo il mito in atto negli eventi che sto psicologizzando, tanto più misteriosi ed enigmatici essi diventano, proprio nel loro progressivo rivelarsi. Inoltre, per quanto concerne la terza fase, c’è distinzione tra la narrazione della psicologizzazione e quei tipi di descrizione chiamati Sprache (gioco linguistico) da Wittgenstein e la parole (termine dotato di significato) da Merleau-Ponty. Sprache è innanzitutto una descrizione analitica che situa l’evento in un nesso di rapporti verbali; la parole è innanzitutto una descrizione sintattica che estrae significato dalle parole in base ai loro rapporti all’interno delle frasi. Viceversa, una narrazione è innanzitutto una fantasia poetica. Il racconto e le sue frasi poggiano su un modello archetipico, un mitologema. Laddove le prime due fasi si occupano prevalentemente dell’aspetto linguistico, promuovendo la coscienza analitica, la terza – la mitologizzazione – tende a essere teatrale e ritualistica. L’intrinseco ritmo del movimento narrativo traspone e trasforma gli eventi, li inventa addirittura. Alla fine della storia noi siamo diversi perché l’anima ha subìto

un processo nel corso del racconto, indipendente dalla sua sintassi e dalla piena comprensione delle sue parole. Inoltre, una descrizione narrativa è irreversibile: una volta che l’evento è stato raccontato in un racconto, non è facile rimuoverlo dalla dimora che vi ha fissato, esso porta sempre con sé echi del suo primo farsi racconto. Attraverso il farsi racconto degli eventi – che è il significato originale di mythos –l’anima prende a caso immagini e avvenimenti e ne fa specifiche esperienze vissute. L’anima ha bisogno di qualcosa di più che giochi linguistici, che parole e linguaggio. Il vivere psicologico significa vivere in una fantasia, in una storia, esser raccontati da un mito. La fantasia non deve essere sempre necessariamente verbale, né debbono esservi immagini visive. La descrizione che traduce un evento in esperienza può essere inclusa a livello corporeo attraverso lo stile, la mimica o il rituale, ad esempio incominciare a usare le cose in modo più sottile o più abile. Nel fantasticare su noi stessi uno stile nuovo, ci sentiamo prossimi a penetrare il segreto dell’arte culinaria, della diteggiatura d’uno strumento, del gioco del pallone. La psicologizzazione spezza la ripetitività; essa è particolarmente efficace quando eseguiamo un’attività come se si trattasse d’un’altra, scriver romanzi come se fossero musica (come Thomas Mann). Arriviamo ora ad alcune delle conseguenze della quarta fase: l’uso delle idee come strumenti per vedere in trasparenza. Anche gli strumenti appartengono agli Dei. Tutti gli strumenti hanno una vita che è al di là della nostra moderna fantasia tecnologica, che li vede come arnesi freddi e passivi. Uno strumento ideazionale può possedere il suo possessore e trasformare tutti gli eventi nella propria forma e somiglianza, fissandoci così nel suo letteralismo. Quando lo strumento è più semplice della materia sulla quale viene impiegato, ne risulta una riduzione psicologica. Quando mi servo dell’idea di sviluppo per afferrare i molti e vari temi che si svolgono nell’anima durante l’adolescenza, lo strumento ideazionale organizza gli eventi della giovinezza

sacrificandone la complessità per renderli maneggevoli all’idea. In tal modo le complessità diventano semplici, il ricco diventa più povero e il difficile facile, perché abbiamo confuso ciò che troviamo con lo strumento che lo trova. Sicché se le mie idee sono freudiane, diciamo, o junghiane, scoprirò che ciò che metto in luce è conforme alle idee che lo hanno rivelato, che la materia che sto esplorando si riduce alle dimensioni dello strumento. Un corollario della riduzione psicologica è il dogmatismo psicologico. Un’idea che è dapprima un modus res considerandi diviene una forma che segna della sua impronta l’intuizione. Cominciamo a guardare le cose in modo tipico: prima come tipi, e poi come stereotipi. Dimenticando il garbato ammonimento del vescovo Butler – «ogni cosa è ciò che è, e non un’altra cosa» – rispondiamo alla domanda «che cosa?» con risposte dalla forma prefissata. Vedere che cosa è una cosa richiede una nuova percezione per ciascuna immagine, laddove i tipi modellano comodamente ogni cosa a loro propria immagine. Soltanto l’immagine può liberarci dalla tipizzazione, poiché ciascuna immagine ha la propria peculiarità che non trova posto in nessuna struttura preconcetta. Non ci può essere un dogmatismo dell’immagine, e il più grande nemico del dogma è la spontanea libertà dell’immaginazione. Quando trascura l’immagine in favore dell’idea, la psicologia archetipica corre il pericolo di diventare una psicologia stereotipa, dove un elemento particolare di un’idea, così com’esso è, viene sostituito da una sua idea generale. Ad esempio, ogni giovane donna che appare in sogno non è semplicemente l’anima, così come ogni vecchio non è semplicemente una figura paterna. Queste persone immaginali noi le vediamo davvero nei nostri sogni: l’una che a piedi nudi nell’acqua del fiume, presso la riva, ci fa cenni di invito; l’altro, in un’aula universitaria, impegnato a eseguire con perizia dimostrazioni chimiche. Ora, la loro immagine, il loro comportamento e il loro stato d’animo ci inducono bensì a riconoscerli come «anima» e «padre», e

tale riconoscimento archetipico ci consente anche una più chiara visione interiore, ma noi non vediamo letteralmente l’anima o il padre. Queste sono idee psicologiche per mezzo delle quali noi vediamo e che tendono a imprigionare nel loro stampo ciò che vediamo. Le idee rappresentano inevitabilmente un pericolo per la psicologizzazione. Le conseguenze di ciò vanno assai oltre i pericoli connessi alla interpretazione dei sogni. Per esempio: psicologizzare la storia politica moderna vedendola come un caso di repressione dell’istinto in senso freudiano può produrre delle intuizioni, poiché dissolve un problema politico letterale in una fantasia psicologica. Ma il processo di psicologizzazione viene arrestato da un nuovo letteralismo, quello della politica sessuale. Invece di psicologizzare sia la politica sia la sessualità mediante l’idea della repressione, nel momento in cui l’idea di repressione si trasforma da modalità di visione in trasparenza degli eventi in descrizione degli eventi stessi, noi politicizziamo la sessualità e sessualizziamo la politica. L’errore consiste nell’identificare l’attività di psicologizzazione con una psicologia specifica (la teoria della repressione); perché noi non vediamo la repressione, bensì vediamo per mezzo dell’idea di repressione. Quando dimentichiamo di psicologizzare gli strumenti che ci servono per vedere, le intuizioni che riceviamo si fanno confuse, opache e si coagulano in un nuovo letteralismo. La psicologizzazione si irrigidisce in psicologia. LA PSICOLOGIZZAZIONE DELLA PSICOLOGIA

Perciò la psicologia è il peggior nemico di se stessa, giacché può facilmente restar prigioniera dei propri strumenti, dei propri metodi e intuizioni psicologici. Quindi il compito della psicologia deve cominciare nel suo stesso territorio: vedere in trasparenza i propri strumenti – l’inconscio, l’io, la storia clinica, l’etichetta diagnostica – ciascuno dei quali può ostacolare l’anima col suo letteralismo.

Ogni psicologia che crede in se stessa, che si prende in parola, cessa di riflettere la psiche o di servire il fare anima. Più concrete sono le prove, più saldi i punti d’appoggio che una psicologia trova per le sue ipotesi, minore sarà la capacità delle sue idee di aprire l’occhio dell’anima a intuizioni concretamente specifiche. Quanto più essa diventa esatta, tanto più produrrà effetti sbagliati; quanto più è dimostrata, tanto meno è vera. I nostri strumenti costruiscono teologie in una idolatria di concetti e di metodi. Forse non può esistere una disciplina di psicologia terapeutica, ma soltanto un’attività di psicoterapia. Forse la psicologia terapeutica si vanifica da sola; una volta che le intuizioni diventano «psicologia» e vengono usate come strumento interpretativo, come uno specchio ben fermo che getta luce su tutti gli eventi dal medesimo angolo, la particolarità, la molteplicità e la spontaneità delle riflessioni dell’anima diventano un sistema codificato. Una psicologia articolata e pienamente sviluppata va vista piuttosto come una teologia, o una filosofia, o un movimento, e l’attività eseguita in suo nome e chiamata «terapia» (freudiana, junghiana, rogeriana, reichiana) è in verità più un indottrinamento o una conversione. È assai più probabile che si tratti di ideologia che non di psicologizzazione. La psicologizzazione è sovente un breve atto che scuote, stimola e riscalda. Ma non c’è motivo di letteralizzare questa esperienza dinamica in una energetica di forze, né di dimostrare la dinamica della psiche ricorrendo a una psicodinamica. Il processo di visione in trasparenza non richiede né un sistema di termodinamica (entropia), come troviamo in Jung, né di idrodinamica (marginatura, incanalamento, allagamento), come troviamo in Freud. Né c’è bisogno di campi elettrici (cariche, conversione, trasformazione), o di un sistema di energetica teleologica in cui tutte le parti vengono attirate come limatura di ferro dal magnete della meta. Queste sovrastrutture della psicodinamica debbono esser viste a loro volta in trasparenza per mettere in luce le loro metafore radicali e

l’eventuale inattività o paura dell’inerzia che esse mascherano. Esprimere la propria vita psichica in un linguaggio fortemente dinamico a base di forze, di potenze e di cariche non garantisce affatto della presenza d’un movimento. Anzi, la fantasia dinamica può offrire una poltrona falsamente comoda per la stasi stigia di sei o sette anni di terapia settimanale. Reimmaginiamoci le psicodinamiche come racconti mitici invece che come processi fisici: come l’ascesa e la caduta di temi drammatici, come genealogie, come viaggi e conflitti e tregue, come interventi degli Dei. Ma se proprio dobbiamo ricorrere a delle analogie fisiche per convincerci della sostanziale realtà delle dinamiche della psiche, riduciamone almeno la scala. Immaginiamoci una «micro-fisica» e parliamo della visione in trasparenza come di salti quantici di miniintuizioni. Se il nostro modello dei movimenti dell’anima venisse ridotto, le nostre attese terapeutiche potrebbero mostrare meno speranza e meno disperazione – e più precisione su ciò che sta effettivamente accadendo. Le nostre riflessioni mostrerebbero allora proporzioni più personificate. Invece del linguaggio del prosciugamento e degli iceberg (Freud) o degli scavi archeologici e dei poli positivo/negativo (Jung), le nostre riflessioni corrisponderebbero alla modestia dell’anima. Poiché la psiche è assai sovente raffigurata come un uccellino, una farfalla, una figurina nascosta nel petto o che spunta da una narice, anche i suoi movimenti richiedono una descrizione ad essa proporzionata. L’analisi è stata sfarzosa ed esibizionistica nelle tematiche mitiche o «mitemi» del suo lavoro, più simili alle grandiose imprese di Ercole o di Teseo che non al ricamo, all’intrecciatura del vimine, alla lenta cottura alchemica che avviene nel vero fare anima, dove non regna soltanto l’eroe, ma dove sono soprattutto Atena e la sua tessitura, Demetra e la sua lenta digestione, Artemide e la sua cura dei bambini e Priapo e il suo giardinaggio a governare le sue lunghe

giornate. Nel suo rifiuto della psicodinamica come necessaria per una descrizione della psiche, la psicologia archetipica ha un punto di vista in comune con la psicologia esistenziale. Vi sono, peraltro, grandi differenze tra la terapia esistenziale e quella junghiana. Per cominciare, le sottostrutture della terapia esistenziale, quelle scritte con la maiuscola, sono concetti, non immagini e persone. La psicologia esistenziale trasforma piccoli eventi quotidiani – con l’aggiunta del suffisso tedesco keit o heit o sein – in grandi nomi capaci di reggere sul capo interi regni uno sull’altro. Essendo priva di Dei o archetipi o di altri sostanziali divini, essa divinizza i sostantivi. Una siffatta terapia esistenziale non può che essere essenzialmente un’attività metafisica, il che va bene per chi segua Heidegger; non può essere un’attività psicologica, come invece deve per chi segua Jung. In secondo luogo, i terapeuti esistenziali non apprezzano la «simbologia» nella stessa misura degli junghiani, i quali danno molta importanza all’amplificazione delle immagini attraverso il mito, la religione, l’arte, il folklore. Gli junghiani, d’altra parte, non apprezzano le «situazioni» come i terapeuti esistenziali, i quali le amplificano e le esplorano per trovare il loro significato così come gli junghiani fanno con i simboli. Terzo, e cosa questa per noi di grande importanza, la terapia junghiana è chiaramente concepita secondo un modulo evolutivo processionale, mentre la terapia esistenziale non lega tra loro le situazioni dell’esistenza in un processo di individuazione o in una narrazione del divenir consci. Alchimia, favole, mito – così importanti nel pensiero junghiano – sono tutti processi personificati, piuttosto che situazioni concettualizzate. A questo punto la psicologia archetipica, che io vado elaborando in questi capitoli, diverge da ambedue le prospettive, esistenziale e junghiana, circa la questione stasi/processo, che talvolta viene espressa in termini di essere contro divenire. Il modello esistenziale è statico. Mettendo l’accento sugli stati e le situazioni dell’essere, esso

non tiene conto della constatabile esistenza di un processo entro i modelli archetipici e non riconosce che il processo è esso stesso un’idea archetipica. Lo troviamo espresso in descrizioni della natura e della storia e in sistemi filosofici contrastanti tra loro, come sono ad esempio quelli di Aristotele, Comte, Hegel, Whitehead e Teilhard. Il processo è altresì evidente nell’organizzazione del dramma e del racconto, nell’esperienza dei sogni visti come una sequenza narrativa e nel movimento delle figure oniriche attraverso le situazioni. Mentre gli esistenzialisti trascurano il processo, gli junghiani lo letteralizzano. In quanto fantasia archetipica, il processo di individuazione è, naturalmente, onnipresente e può esser «dimostrato» nei testi e nei casi, così come ogni fantasia archetipica ha la propria manifestazione negli eventi storici. Ma questo processo non è la legge assiomatica della psiche, l’unico scopo o meta degli esseri infusi d’anima. Asserirlo, sia pure come ipotesi, oppure stabilirlo con degli esempi significa abbandonare la psicologizzazione in favore della metafisica. Significa letteralizzare e imporre un carattere sistematico a una sola idea psicologica, dimenticando che l’individuazione è una prospettiva. È uno strumento ideazionale: noi non vediamo l’individuazione, vediamo per mezzo di essa. Inoltre, le descrizioni di questo processo sono determinate archetipicamente, cosicché la nozione di individuazione può rivelare il fanciullo e fantasie di maturazione evolutiva, oppure l’eroe e fantasie di illuminazione e di rafforzamento, oppure la madre e fantasie sulla ciclicità della natura. Possiamo tener conto del processo senza elevarlo a principale fantasia esplicativa dell’anima, si tratti di individuazione o di sviluppo, e senza cadere nel consolante errore teleologico secondo il quale siamo portati da un processo complessivo su una strada solida come roccia verso la Grande Stazione Finale. Un modo più preciso di tener conto del processo senza prenderlo alla lettera (e senza dover parlare perciò di modelli lineari, dialettici o a spirale) consiste nell’esplorare il

carattere processionale degli archetipi. I loro racconti e le loro figure attraversano delle fasi, come i drammi teatrali, e si intrecciano, e si dissolvono gli uni negli altri. Si esprimano come istinti oppure come Dei, gli archetipi non sono mai nettamente distinti tra loro. Un istinto ne modifica un altro; un racconto conduce a un altro; un Dio ne sottintende un altro. Il loro processo sta nella loro complicazione e amplificazione, e il processo psichico di ciascun individuo è anche il tentativo di seguire, discriminare e raffinare le loro complicazioni. Si tratta d’un continuo movimento proteiforme, il quale però si arresta se si cerca di fissare questi movimenti identificandoli con la trasformazione, il progresso o la regressione, o se, con un esagerato affinamento, se ne fa delle certezze nette. Tutto quello che possiamo dire è che gli archetipi sono strutture in processo, che questo processo è multiforme e mitico e né la «psicodinamica» né l’«individuazione» possono rendergli giustizia. La psicodinamica e il processo di individuazione sono soltanto due delle molte idee fondamentali che possono essere re-visionate dalla psicologizzazione. Gli interrogativi classici della psicologia – il rapporto mente-corpo e quello Dio-anima, se sia primaria la natura (biologia) o l’educazione (sociologia), che cosa vuol dire esser consci e quale sia la definizione della vera pazzia, che cosa sia l’emozione e come spiegare le differenze umane, che cosa siano la percezione e la percezione extra-sensoriale – non sono questioni cui accostarsi nei loro termini letterali. Esse sono insolubili salvo che nel senso limitato di ciascun particolare sistema di psicologia, e questi approcci letterali conducono a tutta una serie di risposte contrastanti. Tali interrogativi, nel diventare problemi, diventano anche asserzioni su aree in cui la psicologizzazione si è dovuta arrestare. Siamo arrivati a prenderli alla lettera e ora cerchiamo delle soluzioni. Ma l’anima cerca veramente la soluzione di questi problemi in quanto problemi? O non è piuttosto intrappolata nelle attività di un dipartimento di psicologia (dove gli

enigmi metaforici sono visti come problemi empirici da risolvere), magari proprio per una ragione psicologica? Probabilmente questi stessi luoghi in cui la psicologia si è inceppata a dispetto delle ricerche, degli esperimenti e delle teorizzazioni di generazioni su generazioni, offrono il materiale fantastico fondamentale per la patologizzazione. Da questi ostinati e intrattabili problemi nasce la storia della psicologia, che è un flusso continuo di idee psicologiche. La psiche sembra provare più interesse per il movimento delle proprie idee che non per la risoluzione dei problemi. E questo vuol dire che nessun problema psicologico classico può mai esser risolto, né può, in alcun modo, esser fatto scomparire dalla scena. Gli ostinati problemi della psiche offrono un centro d’attenzione per la fantasia. Essi sono la terra immutabile a cui la psicologizzazione ritorna sempre, come Anteo, per trarne la propria energia. I problemi particolarissimi di ciascuno di noi, problemi che noi chiamiamo specificamente nostri – che cosa vuol dire essere veramente umani, come amare, perché vivere, e che cosa sono nella nostra vita l’emozione, il valore, la giustizia, il mutamento, il corpo, Dio, l’anima e la follia – sono anch’essi insolubili. Devono forse essere risolti? E noi, dobbiamo forse eliminare o dominare i problemi del sesso, del denaro, del potere, della famiglia, della salute, della morale e della religione? Essi ci portano a psicologizzare, ad andare più a fondo nella nostra sollecitudine per l’anima, che è psicoterapia, cura dell’anima. E lo scopo di questi eterni problemi psicologici? Fornire la base per il fare anima. LA PSICOLOGIZZAZIONE: ATTRAVERSO IL LETTERALE GIUNGERE AL METAFORICO

Può sembrare che io abbia fin qui parlato, per così dire, con due lingue, giacché ho detto che la psicologia è la più importante tra tutte le discipline perché parla in nome della psiche, e nello stesso tempo, che essa non può parlare in

nome della psiche; che il suo primo interesse è la terapia, e che una psicologia terapeutica vanifica se stessa; che le idee psicologiche sono essenziali per l’occhio dell’anima, e che esse bloccano la sua visione. In breve, ho detto che la psicologia è il peggior nemico di se stessa. La causa di queste opposizioni interne è il letteralismo. Il letteralismo impedisce la psicologizzazione trasformandola in psicologia. Qui io mi unisco a Owen Barfield e Norman Brown in una mafia della metafora che vuol proteggere i semplici e gli schietti dal letteralismo. Barfield scrive: «… il peccato imperante oggi è il peccato del letteralismo». E Brown dice: «La cosa da abolire è il letteralismo; … L’adorazione delle immagini false; l’idolatria…. La verità è sempre in forma poetica; non letterale ma simbolica; si nasconde, o è velata; luce nell’oscurità… L’alternativa al letteralismo è il mistero». Ora, il mistero non è una classe di eventi diversi dagli eventi letterali, ma sono quegli stessi eventi letterali che, considerati sotto una luce diversa, sono visti come schermi ambigui e danno il via alla nostra psicologizzazione. Come dice Wittgenstein: «… Nessun fenomeno… è in sé particolarmente misterioso, ma ciascuno lo può diventare per noi, e ciò che contraddistingue lo spirito umano al suo risveglio è appunto questo…». Il letteralismo impedisce il mistero restringendo la multipla ambiguità dei significati entro un’unica definizione. Il letteralismo è la naturale concomitante della coscienza monoteistica – sia in teologia sia nella scienza –, la quale vuole unicità di significato. Ed è proprio questo monoteismo di significato che impedisce il mistero, come dice Brown. Inoltre, esso indurisce il cuore, impedendo una più profonda penetrazione dell’immaginazione, come dice Barfield. E, come dicono entrambi, i significati letterali diventano nuovi idoli, immagini fisse che dominano la nostra visione e che sono intrinsecamente false perché uniche. Barfield, inoltre, dimostra accuratamente come «la letteralità è una qualità che alcune parole hanno raggiunto 21

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nel corso della loro storia, e non una qualità che le parole già avevano alla nascita». Trattare le parole che usiamo come ambiguità, vederle di nuovo come metafore, significa restituire a esse il loro mistero originario. Il vedere in trasparenza i nostri letteralismi è un processo di risacralizzazione della parola. Ma stiamo attenti a non prendere alla lettera anche il letteralismo. Dopo tutto, anche gli idoli sono immagini di Dei, e per la psicologia non esistono immagini «false», né falsi Dei, ma soltanto modi erronei di accostamento a essi. Il letteralismo è anch’esso un genere di mistero: un idolo che dimentica di essere un’immagine e si crede un Dio, che si considera metafisicamente, si prende sul serio, condannato all’adempimento del suo compito di coagulare i molti in quella unicità di significato che noi chiamiamo fatti, dati, problemi, realtà. La funzione di quest’idolo – lo si chiami io o lo si chiami letteralismo – è di tenere bene in vista davanti ai nostri occhi la banalità, perché noi ci ricordiamo di vedere in trasparenza, perché il mistero divenga possibile. Se le cose non si coagulano non c’è neppure bisogno di intuizioni. La funzione metaforica della psiche dipende da quel letteralista che è sempre presente in ciascuno di noi. A quanto pare, dunque, una psicologia soddisfacente deve essere una psicologia che non può prendere alla lettera né se stessa né alcuna delle sue idee. La fantasia che essa ha di sé deve consentire lo svolgersi della psicologizzazione come un processo aperto di ideazione. Non dovrebbe perciò esser fondata su assiomi e su leggi, e neppure affidarsi a ipotesi. Al contrario, dovrà esser fatta di finzioni. Laddove le ipotesi possono esser rese solide da prove e saggiate dall’esperienza, divenendo verità pel fatto di poter essere verificate o falsificate, le finzioni sono contraddistinte dalla loro «inconcepibilità». Esse sono piene di contraddizioni e di «impossibilità logiche». Non possono mai essere prese alla lettera per quello che dicono: il loro biglietto da visita reca il prefisso del loro marchio di classe, «come se». 24

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Digressione sulle finzioni Una finzione non può essere dimostrata errata: «… la contraddizione con l’esperienza e le obiezioni della logica non la toccano». «Le finzioni… sono supposizioni fatte con la piena coscienza della loro «impossibilità». La principale caratteristica delle finzioni è «la coscienza, precisamente espressa, del fatto che la finzione è appunto una finzione, e dunque questo tratto distintivo implica la coscienza della fittizietà, senza la pretesa della fattità» – fin qui il filosofo tedesco Hans Vaihinger, il quale ha esaminato a fondo il ruolo delle finzioni nel pensiero. Vaihinger vede le finzioni come «strutture mentali» e «l’attività finzionale dell’anima come una manifestazione della forza psichica». Ma a questo punto egli cade in uno psicologismo. Poiché sono psichiche, esse sono personali, umane. E poiché sono personalmente umane, esse sono soltanto di utilità circoscritta, enunciano soltanto verità pratiche e relative, valide solo in rapporto alla persona che ne fa uso. Per Vaihinger esse diventano mere finzioni, invenzioni soggettive di una mente umana. Ma la finzione degli archetipi è proprio il loro postularsi come più che personali e umani, poiché la psiche è nello stesso tempo immanente nelle persone, interpersonale e trascendente le persone. Gli archetipi sono strutture mentali, ma non lo sono in modo esclusivo. Le nostre finzioni archetipiche mantengono il loro carattere mitopoietico e autenticamente finzionale al di là di ciò che noi facciamo o diciamo di esse. Non possiamo mai esser certi se siamo noi che immaginiamo loro o se sono loro che immaginano noi, perché i miti della creazione situano sempre gli Dei prima degli uomini. Tutto ciò che sappiamo è che senza di loro noi sembriamo incapaci di immaginare; esse sono la precondizione della nostra immaginazione. E se le inventiamo, allora le inventiamo coerentemente con i modelli che esse stesse formulano. Per poter veramente pensare in una maniera «come se» 27

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dobbiamo mantenerci sull’orlo di questa sorta di paradosso. Non dobbiamo, come fa Vaihinger, letteralizzare anche le finzioni e prendere troppo sul serio la loro «inconcepibilità» e impossibilità», imbottendole fino a irrigidirle di eruditi esempi tedeschi. Le prove stesse che egli accumula per dimostrarne la non-esistenza conferiscono loro uno status metafisico. In altre parole, anche il suo «come se» deve esser visto in trasparenza, giacché tende a divenire un nuovo modello che, come tutti i modelli, tende a sua volta a solidificarsi, a convalidare. Come dice Braithwaite a proposito dei modelli esplicativi scientifici: «… “l’ultima traccia del vecchio, duro e compatto atomo è scomparsa”; ma esso rimane latente ogni qualvolta venga usato un modello. Pensare le teorie scientifiche servendosi di modelli è sempre un pensare come se... Il prezzo dell’impiego dei modelli è un perpetuo stare all’erta». Non dobbiamo perciò usare le finzioni «come se» come princìpi esplicativi, come l’opposto degli assiomi e delle verità, giacché in questo caso esse diventano un’altra varietà di assiomi o di verità. Ciò significherebbe dar loro un potere sostanziale. Le trasformerebbe in modelli che debbono essere visti in trasparenza. Il nostro desiderio di trovare un qualche solido punto d’arresto deve conciliarsi con l’idea di Eraclito che la profondità dell’anima non ha mai fine. Se richiediamo al pensiero «come se» questi punti d’arresto, siamo obbligati ad accettare, come osserva Black, che i modelli «come se» e il pensiero «come se» hanno un minore potere esplicativo. Ma la nostra non è una ricerca di spiegazioni, giacché queste comunque risultano soddisfacenti soltanto nei termini delle premesse archetipiche che portano con sé. Poiché alle finzioni non compete un grande potere esplicativo, esse non danno risposte definitive a una mente che ricerchi solidità e stabilità. Offrono invece un luogo di sosta a una mente che ricerchi ambiguità e profondità. In altre parole, le finzioni soddisfano l’immaginazione estetica, religiosa e speculativa molto più di quanto non soddisfino 32

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l’intelletto. Le personificazioni dovrebbero sempre essere considerate in questa luce ambigua: anche là dove esse appaiono in modo vivido, la definizione della loro realtà resta aperta. Oppure, dalla prospettiva del «come se», il tipo di realtà che attribuiamo alle personificazioni degli archetipi dipenderà da «chi» defìnisce in quel momento la realtà e da «quale» fantasia archetipica opera in quel momento nella psiche. Una realtà che sia definitiva, assoluta e determinata e che trascenda questa o quella prospettiva archetipica è di nuovo un’altra finzione.

Come le verità sono le finzioni del razionale, così le finzioni sono le verità dell’immaginale. Le finzioni soddisfano il bisogno di psicologizzazione, offrendo una base interamente psicologica, un’invenzione completamente psichica che, postulandosi come tale, non può prendersi alla lettera. Non una sola delle sue premesse è una realtà, un avvenimento dimostrabile, un fatto del mondo, appartenente alla fantasia dell’oggettività, del positivismo, dell’empirismo. Inoltre tali premesse, avendo un’esistenza interamente metaforica, non possono essere scambiate per realtà metafisiche. Esse sono figurazioni oggetto di visione, costellazioni o idee psicologiche personificate, non reali metafisici o sostanze spirituali. Le nostre premesse presentano un mondo che sfugge sia alle esigenze di definizione della logica sia a quelle di dimostrazione della scienza empirica. Le finzioni si collocano nel regno tradizionalmente riservato all’anima, tra il mondo dello spirito (metafisica e intelletto) e il mondo della natura (scienza e percezione sensoriale). Esse forniscono alla psicologia le sue premesse psichiche, che non sono prese a prestito dalla metafisica e dalle scienze e offrono un modo per vedere in trasparenza la metafisica e le scienze. Se si accetta la presenza del fattore immaginativo finzionale in tutto l’intelletto e in tutta la percezione sensoriale, queste 34

due facoltà dell’anima possono diventare strumenti della psicologizzazione, invece che suoi antagonisti. Cosicché non c’è più necessità di contrapporre il pensiero «puro» e le osservazioni «oggettive» al pensiero e alle osservazioni psicologiche. Tutte le attività della psiche, quale che sia la facoltà psichica da cui hanno origine, quale che sia la facoltà accademica in cui si manifestano, diventano mezzi per fare anima. Noi abbiamo qui portato all’estremo l’impossibile natura finzionale degli archetipi personificati, ma la loro stessa impossibilità fornisce il fondamento della possibilità di psicologizzazione. In virtù della loro inconcepibilità, della loro natura enigmatica e ambigua, queste premesse metaforiche eludono ogni letteralità, talché l’impulso primario di vedere in trasparenza tutto ciò che è fisso, postulato e definito comincia archetipicamente in queste stesse premesse finzionali. Qui io sto tentando di radicare la possibilità nell’impossibile, sto cercando un modo per spiegare l’ignoto con l’ancor più ignoto, ignotum per ignotius. Più che spiegare vorrei complicare, più che definire vorrei comporre, più che risolvere vorrei confermare l’enigma. Ricordiamoci qui di ciò che Paul Ricoeur disse nelle sue Terry Lectures: «l’enigma non blocca la comprensione, la provoca… Ciò che desta la comprensione è precisamente il significato doppio, l’intenzione del secondo significato dentro e attraverso il primo». Abbiamo, inoltre, dalla nostra parte in questa presa di posizione contro la definizione un razionalista responsabile, Karl Popper, il quale scrive che «al di fuori della matematica e della logica, i problemi di definibilità sono pressoché ingiustificati. Ci occorrono infatti numerosi termini non definiti, il cui significato… sarà dunque mutevole. Ma lo stesso è per tutti i concetti, compresi quelli definiti, dato che una definizione può soltanto ridurre il significato del termine definito a quello di termini non definiti». E «… tutte le definizioni devono, in ultima analisi, ricondursi a termini non 35

definiti». Forse il nostro ricorso all’ignotum per ignotius non è un trucco mercuriale dell’alchimista, non è affatto una mistificazione, ma ha davvero la sua giustificazione intellettuale. La metafora comprensiva, che risponde alle nostre esigenze di problematicità e di spiegazione intellettuale per mezzo dell’enigma offrendoci finzioni «come se» ricche di profondità, complessità e raffinate distinzioni, è il mito. Soprattutto nella mitologia classica la modalità metaforica si manifesta con grande magnificenza e precisione di dettaglio. Questi miti presentano i drammi archetipici dell’anima, tutti i suoi problemi ritratti come finzioni, «il tragico, il mostruoso, e l’innaturale» dotati di senso e di importanza, che danno un cielo a ciò che accade in terra. Il regresso all’infinito della psicologizzazione, il suo processo di interiorizzazione dal visibile all’invisibile che abbiamo testé descritto (e che nel secondo capitolo descrivemmo come la patologizzazione che accelera le fantasie verso la morte, termine ultimo e prima metafora) – questo regresso all’infinito si posa qui perché qui incontra la permanente ambiguità della metafora, dove «pausa» e «permanenza» sono anch’esse finzioni «come se». Perché questi concetti intellettuali, come tutti i concetti intellettuali, si «posano» o trovano un «fondamento permanente» e una «base» nella metafora e possono essere «stabiliti» soltanto previo consenso della metafora. È l’immaginale che dà certezza alle nostre sicurezze intellettuali, accrescendo l’intelletto al di là di se stesso – a dispetto dei suoi tentativi di vincolare con definizioni – per connotare, implicare, suggerire sempre più di quanto denoterebbero i suoi termini. Perché anche l’intellettuale esprime fantasie che sono radicate nei miti, fantasie che possono essere rivelate dall’occhio psicologizzante dell’anima. Nunquam enim satiatur oculus visu, disse Cusano. «l’occhio, in quanto organo sensibile, non è mai soddisfatto, né mai può venir limitato da alcunché di visibile; perché 36

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l’occhio non si sazia mai di vedere; parimenti la visione intellettuale non è mai soddisfatta dalla vista della verità… La tensione verso l’infinito, il non poter posare su nulla di ciò che ci è dato o si è raggiunto, non è né una colpa né un difetto della mente, bensì l’impronta della sua origine divina e della sua indistruttibilità». Perciò il regresso all’infinito non dovrebbe turbarci; esso ha luogo anche nell’empirismo allorché si cerca di seguire a ritroso una sequenza di idee fino alla loro «origine» nell’osservazione di un «duro fatto». Psicologizzare per mezzo del regresso all’infinito significa altresì regredire verso l’infinito, verso il Dio che è dentro. Ogni passo di questo percorso produce intuizioni. È come sbucciare la cipolla del mistico, ma non perché si vuole trovarvi al centro un vuoto esoterico, bensì perché ci si vuole muovere in perpetuo verso l’interno, così come Ficino disse che il «perpetuo raziocinio» era la vera attività dell’anima. In virtù del suo perpetuo muoversi verso l’interno e portar fuori nascoste immagini fantastiche, la psicologizzazione diventa, non un’attività esoterica, ma l’attività che rende esoterici gli eventi. Con la ricerca e la scoperta di ciò che sta dentro e dietro gli eventi, il loro senso letterale diventa evidente, svelato e banale. Nello stesso tempo, quando gli eventi sono rivolti verso l’interno, acquistano l’elemento di importanza per l’anima. Entro la prospettiva metaforica, entro il campo immaginale, nulla è più certo dell’attività dell’anima che segue la sua capricciosa inerzia di intuizione in intuizione; nulla è più vero, più saldo, o più eterno dell’anima e della sua fantasia, dell’anima che esercita questa fantasia in libertà da restrizioni logiche, sentimentali o morali, e che estende la sua comprensione vedendo in trasparenza le coagulazioni di ogni sorta di forme solidificate. Sicché l’anima trova psiche ovunque, si riconosce in tutte le cose, poiché tutte le cose danno riflesso e riflessione psicologica. E l’anima si accetta nelle sue attuazioni mitiche come metafora anch’essa. Qualcosa che sia più reale di lei, più 38

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finale della sua metafora psichica, non esiste. LA PSICHE E I MITI

I miti parlano alla psiche nel suo stesso linguaggio; essi parlano emotivamente, drammaticamente, sensuosamente, fantasticamente. Attraverso la prospettiva mitica noi percepiamo significati e persone, non oggetti e cose: «Il primato della percezione d’espressioni sulla percezione di cose è ciò che caratterizza la visione mitica del mondo». Attraverso il mito i particolari concreti vengono universalizzati; i miti ci parlano degli universali mediante immagini specifiche di figure e di luoghi, avvenimenti precisi che non sono mai avvenuti e che tuttavia avvengono sempre. Gli avvenimenti hanno bisogno di esser riflessi e ordinati in qualcosa che è al di là dell’avvenimento e appartiene a un altro ordine ontologico, in cui le meraviglie dei non-eventi sono eventi. O, come disse Karl Otto Müller, il mito è dove «il meraviglioso è verità», talché la sua straordinaria e strana meraviglia sta dietro ogni sorta di verità. «Il mito»» dice Hermann Broch «è l’archetipo di ogni conoscenza fenomenica di cui sia capace l’uomo. Archetipo di ogni conoscenza umana, archetipo della scienza, archetipo dell’arte, il mito è conseguentemente anche l’archetipo della filosofia». Perciò, il mito è anche metapsicologia e metapsicopatologia. E questo misero in luce, ciascuno a suo modo, sia Freud sia Jung: questi semplicemente descrivendo i propri processi psicologici ideativi come «mitologizzazione», Freud con la creazione di quella che Wittgenstein ha chiamato «una mitologia che ha molto potere» e che deve essere guardata in trasparenza. Dapprima, la vediamo in trasparenza fino ai suoi aspetti più ovvi – Edipo, Eros, Thanatos. Ma poi vediamo in modo più sottile e significativo quel «fanciullo» mitico sulle cui piccole spalle possenti poggia l’enorme macchina idraulica della psicoanalisi. Ricordiamoci che la teoria freudiana della sessualità 41

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infantile non si fonda concretamente sul bambino empirico. Freud non analizzò mai dei bambini, e i ricordi d’infanzia che confermavano la sua teoria furono presi da adulti le cui reminiscenze erano finzioni o miti, cioè «percezioni d’espressioni» piuttosto che letterali «percezioni di cose». La figura del bambino perverso polimorfo descritta nel suo Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) è perciò una creazione mitica (nel senso di non empirica, non fattuale, non letterale). Questo bambino non soltanto è mitico ma ha anche il carattere di mito, perché si è creduto in esso, perché la sua realtà è stata «confermata» da «studi» e dalla rivelazione personale (testimonianza) e fa da sostegno a una scuola di pensiero e a una visione del mondo, così come fa qualsiasi persona del mito. Il mito che è vivo non si rivela mitico fino a che non è visto in trasparenza. Noi analisti continuiamo a mitologizzare, derivando i nostri ben concreti fatti empirici da una straordinaria forma di finzione: la storia del caso, l’anamnesi, il «rapporto», mediante il quale i particolari di una vita vengono composti in un racconto, dotati di una visione: in tal modo una persona mitica (non letterale) diviene la personificazione di un destino che sfocia nel processo terapeutico. Una delle bellezze delle metafore del mito è che esse eludono il letteralismo. Noi sappiamo fin dall’inizio che si tratta di verità impossibili. Come la metafora stessa, il cui potere non può essere spiegato in modo soddisfacente, anche un mito parla contemporaneamente con due lingue, divertente e terrorizzante, serio e ironico, sublimemente immaginativo e tuttavia segnato dalle sparse minuzie di un capriccio ridicolo. Le metafore del mito fondono assieme passato e presente, talché il passato è sempre presente e il presente può esser percepito col distacco consentito dal passato. I miti, inoltre, trasformano i particolari concreti in universali, sì che ogni immagine, nome, cosa della mia vita, quando è oggetto di esperienza mitica, assume un senso universale, e tutti gli universali astratti, le grandiose idee del destino umano, sono presentati come azioni concrete. E 47

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sempre un mito è la psiche che racconta di se stessa sotto altre sembianze, come se non avesse nulla a che fare con la psicologia, come se tutti i miti riguardassero «realmente» la cosmogonia, oppure il viaggio di ricerca e l’avventura, o le origini e i peccati delle dinastie, o le stragi e gli amori, come se il mito parlasse letteralmente delle sembianze di cui si riveste e che contengono la sua interiorità psichica. Il mio modo di vedere la metafora deriva da Vico, il quale la considerava una sorta di mini-mito, «una picciola favoletta». Poiché la metafora «alle cose insensate dà senso e passione», essa è un modo di personizzare, e perciò di mitologizzare. Fondendo in questo modo mito e metafora, Vico accoglie nella sua superba mente la mia frequente mancanza di distinzioni tra i due. Nel mio approccio io considero la metafora affine alle finzioni «come se» di Vaihinger, ma non tanto in senso semantico, come una figura retorica, quanto in senso ontologico, come un modo di essere, oppure in senso psicologico, come uno stile di coscienza. Le metafore sono più che modi di parlare: esse sono modi di percepire, di sentire e di esistere. Ho considerato la metafora come particolarmente psicologica perché, per così dire, essa si vede in trasparenza. L’opposizione binaria (le tesi di Lévi-Strauss sul mito e quelle di Harald Weinrich sulla metafora) contenuta in essa è, in effetti, contenuta da essa. I conflitti diventano paradossi. Le posizioni che essa esprime sono modulate da una voce che dà loro rilievo mettendole tra virgolette. Nello stesso momento essa dice qualcosa e vede in trasparenza ciò che dice. Non possiamo mai prendere una metafora da un solo lato, né possiamo mai esser certi a quale lato essa si riferisca. Riccardo il leone è un leone chiuso in una gabbia di nome Riccardo, oppure è un re coraggioso? Siamo turbati; avvertiamo echi di pensiero schizofrenico; spuntano fantasie. Questo ben noto esempio è troppo semplice, giacché sono state differenziate e descritte molte specie di metafore; ma esso, nondimeno, serve a illustrare l’idea di base: la coscienza psicologica, poiché vede in trasparenza, e poiché 50

prospera nell’ambiguità, è metaforica. Gli archetipi, in termini semantici, sono metafore. Essi possiedono una doppia esistenza che Jung ha presentato in vari modi: (1) sono pieni di opposizioni interne, di poli positivi e insieme negativi; (2) sono inconoscibili e insieme sono noti attraverso le immagini; (3) sono istinto e insieme spirito; (4) sono congeniti, e tuttavia non ereditati; (5) sono strutture puramente formali e insieme contenuti; (6) sono psichici e insieme extrapsichici (psicoidi). Questi accoppiamenti e molti altri simili a essi che troviamo nella descrizione degli archetipi non debbono essere risolti filosoficamente o empiricamente, e neppure semanticamente. Essi appartengono all’interna autocontraddizione e duplicità delle metafore del mito, sicché ogni enunciato riguardante gli archetipi deve essere preso metaforicamente, deve esser fatto precedere dal prefisso «come se». Questo è quanto dice lo stesso Jung: «Ogni interpretazione rimane necessariamente un “come se”». 51

«I princìpi basilari, le archai, dell’inconscio sono indescrivibili a causa della loro ricchezza di riferimenti… L’intelletto discriminante, com’è naturale, si sforza costantemente di stabilire la loro unicità di significato e non coglie perciò il punto essenziale; perché ciò che possiamo stabilire sopra ogni altra cosa essere l’unico tratto coerente con la loro natura è il loro molteplice significato, la loro quasi illimitata ricchezza di riferimenti, che rendono impossibile qualsiasi formulazione unilaterale». 52

La metafora del mito è il modo giusto di parlare degli archetipi, perché essi, come gli Dei, non stanno mai immobili. Come gli Dei, non possono essere definiti se non attraverso e con le loro reciproche complicazioni. Gli archetipi sono le strutture scheletriche della psiche le cui ossa sono però mutevoli costellazioni di luce: scintille, onde, moti. Essi sono princìpi di incertezza. Il fatto che non

possano essere affrontati direttamente porta a definirli, come Jung ha sempre ripetuto, «inconoscibili in se stessi». Ma la loro inconoscibilità dipende unicamente dal metodo col quale vorremmo «conoscerli». Non abbiamo nessuna conoscenza chiara e distinta di ciò che sono in sé e per sé, nel senso cartesiano di certezza; però li conosciamo indirettamente, metaforicamente, miticamente. Incontriamo la realtà archetipica attraverso la prospettiva offerta dai miti, poiché «lo scolorire nell’incertezza appartiene alla natura stessa del mito». Noi parliamo degli archetipi come Platone parlava dei miti: «Questo o alcunché di simile è vero», e «io non mi ostinerò a sostenerlo», perché ciò che uno dice «non venga racchiuso in una rigida corazza». La coscienza mitica non ha bisogno di un «come se». Fintanto che le idee non sono fissate in una unicità di significato, non abbiamo bisogno di aprirle a forza con lo strumento del «come se». Vaihinger dopo tutto deriva da Kant ed esprime una reazione al suo spirito monoteistico categorico. Il «come se» è un atto filosofico necessario per riconoscere il carattere metaforico di tutte le certezze presenti in ciò che vediamo, diciamo e crediamo. Ma se cominciamo già dentro la coscienza mitica, allora non abbiamo bisogno del prefisso. Esso è implicito in tutte le parti, sempre. Se i miti sono le narrazioni tradizionali dell’interazione tra gli Dei e gli umani, se sono una cronaca in forma drammatica «delle imprese dei daimones», allora per trovare gli Dei nella nostra vita concreta dobbiamo entrare nei miti, giacché è lì che essi stanno. «Entrare nei miti» significa riconoscere la nostra esistenza concreta come una serie di metafore, di attuazioni del mito. L’iniziazione in questa via passa attraverso i daimones, il «piccolo popolo» dei complessi di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Questa prospettiva multipla trova espressione negli Dei politeistici, i quali sono tutti imparentati tra loro, e i cui regni si mescolano e si penetrano reciprocamente. Nella raffinata psicologia della mitologia orfica e neoplatonica 53

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rinascimentale, la duplicità e triplicità di ciascuna immagine e di ciascun tema era un punto fermo di tutta la comprensione mitica. Perciò la domanda che discerne, quella che mantiene consapevole la coscienza nella confusione e nella profusione, è l’eterno «chi?» al quale non risponde mai un unico archetipo o un unico Dio, ma sempre un archetipo o Dio nella sua particolare costellazione con altri archetipi o Dei. Queste costellazioni sono precisamente ciò che è descritto dai mitologemi: esse sono descrizioni non di Dei, ma di configurazioni, di interazioni, di Dei nelle loro complessità. Gli Dei tolti dai miti sono astrazioni frutto di una coscienza monoteistica che immagina Dei e archetipi come unità monolitiche. Ma gli Dei sono rapporti, si sottintendono sempre l’un l’altro; soltanto quando è concepito dalla coscienza monoteistica, un Dio o un archetipo appare unico e solo. Si parla allora dell’archetipo della madre, oppure, ad esempio, di Dioniso; ma l’archetipo della madre non esiste fenomenologicamente senza un consorte, un figlio o una figlia, e inoltre una collocazione e un insieme di attributi, e Dioniso appare o con un seguito o con una moglie, oppure con Ermes o con Zeus o con i Titani, nonché con tutti gli specifici tratti che lo contraddistinguono. Presentando tutto questo, i miti offrono la molteplicità di significati inerente alla nostra vita, mentre teologia e scienza cercano l’unicità del significato. Forse è per questo che la mitologia è la modalità del parlare religione nella coscienza politeistica, mentre la coscienza monoteistica scrive teologia. Il mito rammenta sempre alla coscienza l’ambiguità dei significati e la molteplicità delle persone presenti in ogni momento in ogni evento. A dispetto delle loro vivide descrizioni di azioni e di particolari, i miti non si lasciano tradurre in applicazioni pratiche. Essi non sono allegoria di psicologia applicata, soluzioni per problemi personali. Così li vedeva il vecchio errore moralistico, ora diventato errore terapeutico, che ci dice quali devono essere il passo o l’azione successivi, a che 56

punto l’eroe ha sbagliato e ha dovuto pagarne le conseguenze, quasi che una siffatta guida pratica fosse ciò che significa «vivere il proprio mito». Vivere il proprio mito non significa semplicemente vivere un solo mito. Significa vivere il mito; significa vivere mitico. Come io sono molte persone, così io attuo parti di vari miti. Poiché tutti i miti sono avvolti l’uno nell’altro, non se ne può estrarre nessuna parte e dichiarare: «Ecco il mio mito». Ricordiamolo: il mitico è una prospettiva, non un programma; voler fare un uso pratico del mito trattiene nel modello dell’io eroico, a imparare come attuare correttamente le sue imprese. I miti non ci dicono come. Essi si limitano a offrirci lo sfondo invisibile che ci stimola a immaginare, a far domande, ad andare più a fondo. L’atto stesso del far domande è già un passo che ci allontana dalla vita pratica, una deviazione che si diparte dalla sua strada maestra di continuità, che ce la mostra da un’altra prospettiva. Ma come potrebbe avvenire questo spostamento di prospettiva se non ci fosse un qualche altro luogo, un qualche altro fondamento nascosto su cui poggiare, un luogo mitico che offre un altro punto panoramico e che perciò ci situa in due posizioni ontologiche contemporanee, divisi in un conflitto che tuttavia è contenuto, noi stessi già metafore? Così come le metafore parlano tra virgolette, dando a una parola semplice una nuova interiorità doppia, un’eco, quando noi incominciamo a mitologizzare la nostra semplice vita, essa assume un’altra dimensione. Siamo più distanziati perché siamo più riccamente coinvolti. Una definizione semantica di metafora è «discorso deviante», cui corrisponde, come termine opposto, «letterale». Il dizionario dice che le metafore trasferiscono significato. Se la psicologizzazione procede vedendo in trasparenza ciò che è pianamente letterale, allora l’attività di psicologizzazione è un continuo dar vita, giacché trasferisce il significato dentro e fuori il discorso diretto. La psicologia indica perciò non tanto un insieme di conoscenze quanto una prospettiva parallela ad altri insiemi di conoscenze, un 57

commento interlineare al loro discorso diretto e letterale. La psicologia non potrà dunque essere diritta e ben strutturata. Sarà invece diffusa, non diretta, non un Eroe proteso verso la sua meta sibbene un Cavaliere Errante che raccoglie intuizioni lungo il cammino. Digressione sull’errare Prima di seguire il Cavaliere Errante fino alla fine del capitolo, soffermiamoci un poco sull’errare e l’errore. La «fantasia errante» fa la sua prima importante comparsa in Platone (Timeo 47e-48e), dove troviamo due princìpi opposti attivi nell’universo: Intelligenza o Ragione (nous) e Necessità (anànkē), chiamata anche la Causa Errante. Francis Cornford, uno dei grandi commentatori di Platone, descrive anànkē come «disordinata», «senza scopo», «irresponsabile». La Ragione non riesce a imporsi completamente al principio errante o necessità. L’errare sembra contrapposto all’ordine e all’intenzione intelligente e, secondo Cornford, lo incontriamo nelle coincidenze e nella spontaneità; esso è segno dell’elemento irrazionale dell’anima. Paul Friedländer, un altro maestro del pensiero platonico, dice che anànkē la si può anche immaginare fisicamente ubicata al centro dell’uomo e dell’universo, ove opera come principio di indefinitezza, irrazionalità e caos. L’anima ha un qualche speciale rapporto con questo principio errante di necessità senza scopo, giacché, come dice Platone nella Repubblica (621a), l’anima entra nel mondo passando sotto il trono della dea Anànkē, le cui tre figlie governano il destino di tutte le anime. Per Platone la verità della ragione intelligente non bastava a spiegare l’uomo e l’universo. C’era bisogno di qualcos’altro, soprattutto per dar conto di ciò che governa la psiche. Entra in gioco anche una qualche forza necessaria e vagabonda, anzi, è attraverso l’errare che vediamo all’opera la Necessità. Sicché lo sfondo archetipico dell’errore è la 58

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Necessità; la Necessità irrompe nel mondo attraverso gli eventi causati dall’errore. Se questa causa errante o necessità è il principio insito negli errori, consideriamo allora l’errore come necessario, come una via attraverso la quale l’anima entra nel mondo, una via attraverso cui l’anima raggiunge verità che non sarebbe stato possibile incontrare servendosi della sola ragione. La consapevolezza psicologica nasce dagli errori, dalle coincidenze, dall’indefinitezza, dal caos che è più profondo del controllo intelligente. Questo approccio all’errore è una pietra angolare del metodo della psicologia del profondo: è basilare nelle indagini di Freud sui lapsus e gli errori della vita quotidiana e nell’esame di Jung degli errori dell’attenzione negli esperimenti associativi. La necessità spezza il controllo della ragione e rivela in un momento casuale la «causa errante» attiva nell’anima. Storicamente, la psicologia del profondo incomincia da questa prospettiva e in linea di principio continua a ricercare le sue verità in errori ove giacciono necessità più profonde e più centrali. Essa, inoltre, considera la ragione stessa da un punto di vista basato sugli errori, e vede tutte le duplicità – falsificazioni, mezze verità, menzogne – come un discorso mendace che è psicologicamente necessario. Un equivoco è un opus contra naturam, un punto in cui la psiche parla contro il flusso naturale delle attese ragionevoli e prevedibili, della verità di come sono le cose. Ermes, che appena nato inganna suo padre Zeus, è l’ingannatore congenito che con divina autorità introduce l’equivoco nel mondo. Egli è il Dio dell’equivoco così com’è la guida dell’anima. Ciascuno di noi lo percepisce allorché cerca di parlare nel modo più profondo della propria anima, poiché è precisamente allora che noi sentiamo la presenza dell’errore, della mezza verità, dell’inganno in quanto stiamo dicendo. Questa non è malafede, purché non ci dimentichiamo che Ermes opera tanto attraverso i messaggi delle menzogne quanto attraverso le verità. Nessuno può dire la verità vera,

la verità intera sull’anima salvo Ermes, il cui stile è quello della duplicità. La psicologia non è perciò una disciplina della verità, come lo sono la scienza o la filosofia o la teologia. Per la psicologia, mentire e dire la verità non sono categorie valide; ambedue hanno bisogno di psicologizzazione, e le verità più delle menzogne perché offrono una maggiore resistenza alla visione in trasparenza. In altre parole, l’errore non è presente soltanto là dove la verità ha sbagliato strada, ma dove è in atto un’altra sorta di verità, una verità finzionale. Vaihinger stesso sottolinea «l’analogia linguistica della finzione con l’errore… il quale è contrassegnato dalla medesima formula, e ha la stessa formazione psicologica della finzione che, infatti, è soltanto un errore consapevole, pratico, utile». Anche le finzioni seguono il sentiero errante; esse richiedono, dice Vahinger, uno stile di coscienza «indiretto» e «deviante». È chiaro che una psicologia che adotti un siffatto stile di pensiero circa la verità e l’errore, che non corregga gli errori portandoli più vicino alla verità, abbandona sia l’idea di psicologia empirica sia quella di progresso psicologico. Popper scrive: «E facciamo progressi se (e soltanto se) siamo disposti ad imparare dai nostri sbagli, ossia riconoscere i nostri errori, e, invece di insistere in essi dogmaticamente, utilizzarli con giudizio critico. Questa analisi potrà sembrare banale, ma credo che descriva il metodo di tutte le scienze empiriche». Esprimendoci nei nostri termini: la fantasia del progresso e la fantasia dell’empirismo richiedono la fantasia della rettificazione dell’errore. Invece di situare l’errore entro la fantasia empirica del «procedere per tentativi», che si avvale di progressive correzioni per estirpare se stessa (riducendo il fattore errante e accrescendo il fattore razionale), in cui l’errore è inevitabilmente condannato a far la parte del nemico ombra della verità, dobbiamo situarlo entro la «fantasia errante». Facciamo questo perché, come dice Dufrenne, «i vagabondi fittizi sono veri per il semplice fatto di essere testimoni di un mondo errante». 61

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IL CAVALIERE ERRANTE

Il Cavaliere Errante è un vagabondo e il suo sentiero è stato deviante fin dai tempi in cui Parmenide condannò il vagabondare dinoccolato come la via dell’errore, dell’opinione ingannevole e dello smarrimento. Per la possente tradizione razionale, la via della psicologizzazione è troppo vicina alla phantasia e ai sensi, si è allontanata dalla rotta del vero logos del ragionamento intellettuale, della rivelazione intuitiva e delle cose eterne dello spirito. Il Cavaliere Errante segue la fantasia, cavalcando le sue emozioni; egli si attarda e insegue l’anima con il proprio eros, considerando il desiderio come anch’esso sacro, e presta ascolto al discorso deviante dell’immaginazione. Le sue discussioni fanno uso dell’«uomo di paglia»; egli personifica, rende viva e presente l’altra posizione, così da poterla affrontare come corpo e non soltanto come pensiero. Così come uno dei principali compiti del Cavaliere Errante era quello di aiutare i poveri, anche la psicologizzazione libera le parti dell’anima intrappolate nella povertà delle prospettive materialistiche. Ma il Cavaliere Errante è anche un emarginato, un vagabondo rinnegato come Caino, che in realtà non potrà più ritornare nelle strutture del letteralismo, che vede in trasparenza le loro pareti, le loro definizioni, ed è perciò escluso dalle loro norme – come Bellerofonte che, caduto dal suo bianco cavallo alato dell’ascesa diretta, attraversò zoppicando la «pianura del pellegrinare», costretto ad andare avanti, a diventare, da eroe che era, vagabondo e poi furfante. Il Cavaliere Errante della psicologia è in parte il furfante picaresco, l’abitatore del mondo infero dei bassifondi, un eroe ombra dalla paternità sconosciuta, il quale dal di sotto vede in trasparenza le gerarchie. Egli è un mediatore, un mezzo e mezzo, senza tetto e senza fissa dimora. Oppure abita, come Eros, nel regno dei demoni, del metaxy (la regione intermedia), in mezzo, avanti e indietro. Oppure abita nello spirito che soffia senza posa, così come Ficino situò la 64

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dimora del pensiero nell’anima e quella dell’anima nello spirito. «Per cui soltanto l’uomo, mentre riveste questo aspetto di essere vivente, non si acquieta mai; egli solo non è contento del luogo in cui si trova. Pertanto soltanto l’uomo si trova in questo mondo come pellegrino e non trova pace nel corso del suo viaggio…». Sempre in cammino come il Cavaliere Errante e il furfante picaresco, la psicologizzazione nei suoi vagabondaggi senza meta è sempre alla ricerca di qualcosa; la narrazione del suo procedere è episodica, non epica. E intanto essa vede in trasparenza ciò che sta dentro e dietro le ipocrisie, le posizioni fisse di tutte le convenzioni, così come i classici picari spagnoli Lazzarillo e Guzmán e i personaggi di Cervantes vedono dentro e dietro la giustizia e l’ardimento, la famiglia e la carità, la classe e il denaro, la religione e l’amore. Questo spirito vagabondo interno diviene il maestro privato del sapere negativo e la psicopatia individuale riceve una funzione psichica. Giacche in verità il vagabondare è un tratto psicopatico. La beffarda ombra dissonante che deve vedere in trasparenza perché è anche Cavaliere Errante, appassionato e idealistico è in effetti una figura psicopatica. È lei quell’essere interiore costretto ad abbandonare le associazioni durature, incapace di sistemarsi in un luogo, di adattarsi, perché spinto a sommuovere tutte le forme. Ma questa fuga nell’anima non deve essere necessariamente condannata al ruolo del criminale antisociale, giacché sono precisamente le sue caustiche intuizioni che riescono a destare l’imberbe innocente non psicologico – che vive anch’esso entro di noi – e a portarlo a discernere tra le varie idee, a scoprire nuove prospettive e a sopravvivere. Questo è ciò che il briccone errante può insegnare – la sopravvivenza psicologica. In questo modo la nostra ombra psicopatica può divenire una guida, uno psicopompo, e operare una riforma degl’innocenti dal basso, attraverso l’ombra – l’agnello riformato dal lupo. Ed ora ritorniamo a Plotino, il quale concepiva l’anima 66

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come la «vagabonda del mondo metafisico», il cui posto era la posizione intermedia. Così la psicologizzazione trae le intuizioni dell’anima dalla posizione intermedia: interlineari, inframmezzate, intermittenti, commento tra le righe, note a piè di pagina che accompagnano l’opera della mano. Vedere nelle profondità e guardare dal basso e da sotto è fonte di quel gusto bricconesco per lo psicologico che troviamo sia in Freud sia in Jung – il gusto per l’aspra ironia nel bel mezzo delle nobili imprese terapeutiche e a dispetto della dedizione alla coscienza, alla cultura e all’anima. Come il Cavaliere Errante, anche la psicologizzazione è eccezionalmente individualistica, parla in prima persona, come fa il briccone: sia l’autore della psicologia sia la psicologia stessa sono fondamentalmente soggettivi. E questo briccone è anarchico, è un trasgressore della legge, non conosce confini alla sua natura. Non criminale, no, ma neppure morale. Malgrado la profondità della ricerca dello spirito, o a causa di essa, la psicologizzazione sfrutta la teologia, la scienza, la letteratura, la medicina, è parassitica e si insinua dappertutto, recita la parte del rinnegato predatore tra le facoltà, sempre illegittima e insieme arrogante, e tuttavia anche servitrice di molti padroni, ancella ora della filosofia o della teologia, ora della fisiologia o della biologia. È Ermes il Dio che è in essa? Ermes, che guida i ladri e i sogni e le anime, che trasmette i messaggi di tutti gli Dei, l’ermeneuta politeistico? Non appare egli forse dove i campi si incontrano e i sentieri si intersecano o dove i pensieri incrociandosi mandano uno sprazzo di luce? Ermes è il collegamento, fratello di Apollo e tuttavia il primo che prende in braccio Dioniso. A causa di Ermes, la psicologizzazione è sempre in movimento tra visioni opposte, come l’atteggiamento apollineo e quello dionisiaco, si situa sempre ad ambedue le estremità del suo spettro – in parte Cavaliere apollineo, in parte briccone dionisiaco, entrambi e nessuno dei due. Ciascuno vede nella psicologizzazione l’errore del suo contrario. Dalla prospettiva apollinea la 68

psicologizzazione appare ingannevole, umbratile, notturna, priva di distanza oggettiva, indifferente alla guarigione o alla bellezza. Dalla prospettiva dionisiaca essa appare troppo individualistica, intellettuale, elitaria: in lei non c’è abbastanza natura, comunità, abbandono. Ermes tiene questo ponte, e inoltre collega alla notte, alla morte e al messaggio ermetico celato in tutte le cose. «Il mondo di Ermes non è affatto un mondo eroico». Né, d’altra parte, la psicologizzazione può, in alcun modo, far la pace con l’io eroico. Il suo potere fallico risiede nella parola più che nella spada, procede a forza di colpi di fortuna e di occasioni colte al volo, di opportunità, dove opportunitas significava un tempo il rapido movimento del vedere attraverso [seeing through] un’apertura. Veder attraverso, vedere all’interno, è un’attività che apre; qualunque cosa diviene un’opportunità per fare anima. La psicologizzazione è sempre in disaccordo con le posizioni altrui; è una controeducazione, un apprendimento negativo, che sbilancia tutti i punti di vista e li spinge ai loro limiti, ai confini, agli estremi. Ai confini regna Ermes, e in queste regioni che sono terra di nessuno non può esserci nulla di forestiero, di estraneo, nulla che sia escluso. La psicologizzazione non conosce perciò nessun isolamento tra parentesi, nessuna epoché, come la chiamano i fenomenologhi. Isolare tra parentesi innalza solide mura intorno a un contenuto metafisico o scientifico, crea un recinto sacro in cui le idee possono conservarsi nella loro integrità letterale, al riparo dalla psicologizzazione. Ma ogni enunciato è opera della psiche e offre un’opportunità per «fare anima». Qui gli errori sono altrettanto proficui delle verità, perché ogni singola frase narra una storia dell’anima. Ermes, che non è vincolato dall’errore moralistico, può comprendere le confabulazioni e le circonlocuzioni delle finzioni ingannatrici. Esse son modi di fare metafore, perché gli errori e gli inganni dicono «questo» come se fosse «quello». La psicologizzazione non arriva a nessuna conclusione, 69

perché mirare al bersaglio e colpirlo significa metter punto. Sicché il sentiero errante segue anche Platone e Plotino, che descrivono il percorso dell’anima come circolare. Il ragionamento psicologico tende a esser circolare, prospera sulla coazione a ripetere e sui ritorni ciclici sopra i medesimi temi insolubili. Se il suo sapere procede attraverso l’errore, errore non significa rettificazione degli sbagli e miglioramento, bensì apprendimento attraverso ciò che è deviante, bizzarro, dispari, spostato in sé, dove psicologizzazione è patologizzazione. La via errante conduce sicuramente al meno noto e al meno certo, a una minore conoscenza in quanto fondata, accumulata nella sicurezza. Essa arriva a dissolvere il conosciuto nel dubbio, nella libertà dell’incertezza. Non si dice forse che la conoscenza rende liberi? La conoscenza ci consente di abbandonarla per via, di svoltare giù per la strada dei trabocchetti, in piena stoltezza, rischiando mulini a vento ancor più grandi e più lontani, vecchio cavaliere sempre più ardito, vecchio briccone sempre più strambo, ed entrare col passare degli anni nella libertà della nostra psicologia. Le riflessioni psicologiche vengono colpite dalla luce sempre da un angolo peculiare; sono a un tempo irritanti e percettive. La psicologizzazione vede le cose in modo peculiare, è una prospettiva deviante che riflette la devianza del mondo circostante. Lo specchio psicologico che scende la strada, il Cavaliere Errante che vive la sua avventura, il briccone furfantesco, è anche un tuttofare come Eros il Falegname che mette insieme pezzi disparati, uno che sa fare un po’ di tutto, un bricoleur – come «la palla che rimbalza, il cane che si distrae, il cavallo che scarta dalla linea diritta» – che psicologizza su e intorno a ciò che è disponibile al momento; non un architetto con i suoi sistemi, un progettista con le sue direttive. E se ne va, prima di aver finito, lasciandosi dietro, a mezz’aria, un accenno, una direttiva ambigua, una frase aperta… 70

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IV DISUMANIZZAZIONE O FARE ANIMA

«E ciò che veramente desideriamo e di cui abbiamo bisogno è l’anima – un’anima che abbia peso e sostanza». MIGUEL DE UNAMUNO, Il sentimento tragico della vita PROLOGO: LA PSICOLOGIA POLITEISTICA, OSSIA UNA PSICOLOGIA CON DEI, NON È UNA RELIGIONE

Parlando di Dei come siamo venuti facendo in tutto questo libro, potremmo dare l’impressione di non saper più distinguere tra religione e psicologia. Poiché il movimento della nostra psicologizzazione archetipica è sempre diretto verso i miti e gli Dei, la nostra psicologizzazione può sembrare in effetti una teologizzazione, e questo libro un’opera tanto di teologia quanto di psicologia. In un certo senso è così, e così deve essere, perché la fusione di psicologia e religione, più che la confluenza di due correnti, è il risultato della loro comune origine: l’anima. È la psiche che tiene legate l’una all’altra psicologia e religione. Perciò, il nostro parlar di Dei non è uno sconfinamento abusivo; né si tratta di un ricorso all’iperbole personificata per intensificare il valore degli archetipi, i quali, come funzioni e strutture psichiche, potrebbero essere egualmente ben descritti in modo più concettuale, oppure ricorrendo ad analogie con organi fisiologici, forze fisiche o categorie filosofiche. No – noi parliamo di Dei perché il nostro lavoro tende a una psicologia non agnostica, una psicologia che non sia costretta a operare nella fossa lasciata dalla separazione tra domenica e giorni feriali, tra chiesa e stato interiore della mente. 1

Più avanti in questo capitolo, quando esamineremo il Rinascimento, scopriremo che è possibile avere una psicologia che sia teistica e tuttavia diversa dalla religione. Questa psicologia politeistica entro cui operiamo e che deriva da posizioni rinascimentali e greche, non può spaccarsi in religione da una parte e psicologia dall’altra. Poiché la sua origine e la sua dimora sono nella nativa policentricità dell’anima, nelle molteplici presenze archetipiche, la psicologia deve esser sempre memore dell’autorità degli Dei. Se manteniamo il fare anima al centro della nostra visione, non possiamo non riconoscere che gli Dei nell’anima richiedono religione in psicologia. Ma la religione richiesta dalla psicologia deve riflettere lo stato dell’anima così com’è, autentica realtà psichica. Ciò significa politeismo. Perché l’intrinseca molteplicità dell’anima esige una fantasia teologica ugualmente differenziata. Nella nostra cultura la religione più che dall’anima deriva dallo spirito, e perciò la nostra cultura non ha una religione che rifletta la psicologia o il cui principale interesse sia il fare anima. Abbiamo invece una psicologia che riflette la religione. Poiché la religione nella nostra cultura è stata monoteistica, anche le nostre psicologie sono monoteistiche. Come abbiamo visto, i pregiudizi contro la frammentazione, l’autodivisione e l’animismo possiedono un’intensità fanatica che è tipicamente religiosa. Il pensiero psicologico impone sempre alla pletora dei fenomeni psichici di seguire le leggi di modelli unificati. Il modello monoteistico può essere scopertamente religioso, come il sé di Jung, oppure dissimulato, come nel tentativo di Freud di elaborare un sistema onnicomprensivo. Organicismo, olismo, teoria del campo unificato, materialismo monistico e altre psicologie esprimono il loro fondamentale monismo nel loro esigere chiarezza, coesione o interezza. Volgendoci al politeismo ci lasciamo alle spalle i tormentosi rompicapo costruiti sul monoteismo: religione o psicologia, uno o molti, teologia o mitologia. Entriamo in uno stile di coscienza in cui psicologia e religione non sono definite l’una in contrapposizione

all’altra e possono perciò più facilmente confluire l’una nell’altra. Se guardiamo a quei periodi profondamente psicologici e religiosi che sono il Rinascimento e la Grecia, scopriamo che il Rinascimento non aveva una disciplina chiamata psicologia e che i greci non avevano teologia – non avevano neppure un termine per religione. Ma sia i fiorentini sia gli ateniesi avevano anima, psyché, miti e immagini, e avevano Dei. Forse è per questa ragione che quando ci si tiene vicini all’anima e al suo processo di psicologizzazione i problemi religiosi, intesi come una serie di ben precisi quesiti teologici, tendono a dissolversi. La realtà teologica degli Dei cessa di apparire un fatto eminente, quando essi diventano più psicologicamente evidenti nelle immagini e nei miti della nostra vita. La psicologizzazione sposta la psicologia in un luogo in cui questa non appartiene soltanto alla domenica o ai giorni feriali, al pensiero religioso o a quello laico. In una visione politeistica è sottinteso che tutti i giorni si riferiscono agli Dei, come attestano i nomi stessi dei giorni della settimana, e che gli Dei sono presenti nella vita quotidiana. La psicologia è perciò sempre religiosa e teistica; la teologia, lo studio degli Dei, è sempre psicologica, vincolata alle realtà del secolare, dove i miti si svolgono ogni giorno. In altre parole, il pensiero politeistico sposta tutte le nostre abituali categorie e suddivisioni. Esse non sono più tra Dio trascendente e mondo secolare, tra teologia e psicologia, tra divino e umano. Le distinzioni politeistiche sono invece tra gli Dei come modi di esistenza psicologica operanti sempre e ovunque. Non c’è nessun luogo che sia senza Dei e nessuna attività che non li attui. Ogni fantasia, ogni esperienza ha la propria ragione archetipica. Non c’è niente che non appartenga a questo o a quel Dio. L’idea di una psicologia secolare diventa impossibile. L’idea che contrappone il secolare al religioso è responsabile della fantasia scientifica della psicologia. Il primo passo verso una psicologia non-agnostica consiste

necessariamente nel vedere in trasparenza l’ostinata fede con cui la psicologia si considera una scienza. Com’è evidente dalle idee che siamo andati modellando, la psicologia archetipica non immagina se stessa o la psiche come appartenenti alla scienza, neppure alle scienze sociali o alla scienza comportamentale. Una mitologizzazione che preferisce molte prospettive alle definizioni operative, una psicologizzazione che domanda «chi?» e «che cosa?» invece che «come?» e «perché?», una personizzazione che soggettivizza, un errare circolare che non si deve correggere e una patologizzazione che non si deve trattare (per tacere degli «errori» naturalistico, pragmatico ed empirico): son tutte cose che rendono impossibile per una psicologia basata sulla psiche di immaginarsi come scienza. La fantasia della scienza con la sua fiducia nell’oggettività, nella tecnologia, nella verifica, nella misurazione e nel progresso – in breve, nel suo necessario letteralismo – più che un mezzo per esaminare la psiche è un mezzo per esaminare la scienza stessa. A noi interessa non applicare i metodi della scienza alla psicologia (cioè, situarla su un «solido fondamento scientifico»), bensì applicare alla scienza il metodo archetipico della psicologizzazione, per scoprirne le metafore radicali e i miti operativi. La scienza non è affatto senz’anima. Anch’essa è un’attività della psiche e degli archetipi che sono in essa, è uno dei modi di attuare gli Dei. Mediante la psicologizzazione dei problemi, dei metodi e delle ipotesi della scienza possiamo individuare le loro fantasie archetipiche. Perché anche la scienza è un campo per fare anima, a patto che non la si prenda alla lettera. La differenza tra psicologia e religione è in sostanza la stessa che c’è tra psicologia e scienza: il letteralismo. La teologia prende gli Dei alla lettera e noi no. Ma questo è troppo schematico: la distinzione richiede una maggiore sottigliezza. Si potrebbe presentare la cosa in un altro modo e dire che la differenza tra religione e psicologia sta non in come descriviamo gli Dei, bensì in come agiamo verso di 2

essi. Religione e psicologia hanno a cuore gli stessi princìpi ultimi, ma la religione si accosta agli Dei con il rituale, la preghiera, il sacrificio, il culto, il credo. Gli Dei sono oggetto di fede e ad essi ci si accosta con metodi religiosi. Nella psicologia archetipica gli Dei vengono immaginati. Ci si accosta ad essi con metodi psicologici di personizzazione, patologizzazione e psicologizzazione. Gli Dei sono formulati in modo ambiguo come metafore per modalità di esperienza e come persone numinose «al limite». Sono prospettive cosmiche a cui l’anima partecipa. Sono i signori dei suoi regni d’essere, i modelli della sua mimesi. L’anima non può esistere se non in uno dei loro modelli. Tutta la realtà psichica è governata da questa o quella fantasia archetipica, è sanzionata da un Dio. Io non posso che essere in loro. Questa visione degli Dei, pur non violando la realtà che essi hanno per la fantasia teologica – che, come la scienza, è una fantasia dell’anima – mette però in dubbio la loro sostanzialità teologica ed esistenza letterale, il loro porsi come realtà ultime al di là della portata dell’anima. Poiché la nostra psicologia politeistica non avanza rivendicazioni teologiche, né s’accosta agli Dei in uno stile religioso, la teologia non può ripudiare il politeismo psicologico come eresia o come falsa religione con falsi Dei. Noi non ci proponiamo di adorare gli Dei greci – o quelli di qualsiasi altra grande cultura politeistica, egiziana o babilonese, indù o giapponese, celtica o scandinava, inca o azteca – per riportare alla memoria ciò che il monoteismo ci ha fatto dimenticare. Non stiamo resuscitando una fede morta. Perché a noi non interessa la fede o la vita o la morte di Dio. Psicologicamente, gli Dei non sono mai morti; e ciò che interessa alla psicologia archetipica non è la rinascita della religione, ma la sopravvivenza dell’anima. Quando i fenomeni dell’anima vengono messi in rapporto psicologico con gli Dei, ciò non significa che ne debba nascere un nuovo politeismo. Così come la psicologia archetipica, pur parlando di archetipi come se fossero Dei, non per questo diventa religione. Perché è possibile 3

immaginare in uno stile e adorare in un altro. I filosofi psicologici greci, come per esempio Socrate, praticavano la religione politeistica offrendo preghiere agli Dei, e intanto immaginavano monoteisticamente l’Uno, il Bello e il Buono. Analogamente, ma in forma rovesciata, gli psicologi filosofici del Rinascimento praticavano il monoteismo. Sia Petrarca sia Ficino (i cui rispettivi ruoli nella tradizione della psicologia politeistica saranno discussi più avanti) avevano preso gli ordini e offrivano le loro preghiere a Cristo, ma immaginavano servendosi delle immagini e dei miti del politeismo. Non lasciamoci dunque intrappolare in una scelta tra due stili di religione o tra psicologia e religione. Una scelta tra alternative già presuppone un dualismo, che archetipicamente porta con sé la spada che divide. (Nessuna divinità olimpica greca, per inciso, aveva per emblema una spada; la lancia della visione interiore che penetra in profondità, sì; ma non la spada che taglia in due). La fantasia del dualismo in ultima istanza si riferisce al monismo ed è perciò assai diversa da quella del politeismo. Le dualità o sono facce diverse della stessa cosa, oppure presuppongono un’unità come loro precondizione o meta ultima (identità degli opposti). Persino un dualismo radicalmente irreconciliabile è solo una lotta tra Uni paralleli. Monismo e dualismo condividono il medesimo cosmo. La fantasia del politeismo non permette che un singolo venga elevato letteralisticamente al rango di Uno. Zeus si postula al di sopra di tutti gli altri perché l’idea archetipica dell’unicità si presenta come prima, superiore, progenitrice. Ma Zeus è soltanto un individuo in un gruppo di eguali, un primus inter pares, e i miti ce lo mostrano limitato dagli altri Dei. In questa visione politeistica il conflitto tra l’uno e i molti, tra il bene e il male, e tutti i problemi di tipo dilemmatico della fantasia monoteistica perdono ogni interesse. Il pensiero mitico politeistico sembra del tutto indifferente alle opposizioni binarie. Quando Lévi-Strauss avanza l’idea che gli opposti binari siano l’unico principio

esplicativo del pensiero mitico, con che voce parla? Con quella genuina del mito, oppure con quella di Descartes e del suo dualismo? Immaginiamoci una mescolanza senza turbamenti di stili politeistici e monoteistici, come nel Rinascimento. Anche per il cristianesimo medievale «gli dèi pagani godevano di una esistenza altrettanto vera che la Trinità o la Vergine Maria». Ovviamente, in quanto pagani, erano di solito malvagi. Ma una virtù caratteristica del pensiero rinascimentale era di lasciar interagire le immagini di miti diversi senza far intervenire considerazioni teologiche, e di lasciar proclamare l’importanza psicologica delle immagini politeistiche senza condanna per il loro «paganesimo». Questo atteggiamento è profondamente psicologico, perché consente alle varie prospettive dei miti e delle loro figure di vedersi reciprocamente in trasparenza. Nessuna di esse può essere assunta come letteralmente reale; nessuna può rivendicare la precedenza. Come nel Rinascimento, «ci si può spostare con facilità da un sistema di valori paganoumanistici a un altro derivato dalla tradizione cristiana, senza preoccuparsi di conciliare le contraddizioni». Finché domina la prospettiva archetipica dell’unità e dell’ordine sistematico, vi saranno sempre tentativi di conciliazione tra il monoteismo cristiano e il politeismo pagano, tra teologia e psicologia. Ma la prospettiva politeistica non richiede nessuna «conciliazione» poiché in essa c’è spazio per tutto fin dall’inizio. Il monismo invece non può sopportare l’ambiguità della diversità. Esso la sente come una tensione di opposti che deve essere composta attraverso un unico principio superiore. Questa operazione di sintesi, col suo moto verso ciò che sta più in alto, è sempre un esercizio inflazionistico, un’identificazione con un unico Dio superiore che da una varietà di punti di vista crea un ordine stabile. Ma questo capitolo si lascia alle spalle siffatte preoccupazioni. Come saggio di psicologia politeistica, la discussione che segue tenta di allontanare il fare anima dai preconcetti della psicologia monoteistica. 4

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LA PSICOLOGIA ARCHETIPICA NON È UN UMANESIMO

La psicologia archetipica così come non è una scienza o una religione, non è neppure un umanesimo: è il tema che svilupperemo in questo capitolo. Nell’abituale suddivisione dei poteri accademici, la scienza è situata da un lato, gli studi umanistici dall’altro e la psicologia viene a trovarsi in una zona centrale alquanto vaga, oppure riceve il mostruoso titolo composito di «scienze umane». Anche durante il Rinascimento, quando le scienze naturali e gli studi umani fecero il loro ingresso nella nostra cultura, essi erano due fratelli in opposizione a un terzo, la religione teologica, che cercava di impedire alla scienza di volgersi verso la natura e agli studi umanistici di volgersi al passato politeistico. In questo conflitto emersero tre distinte fantasie con tre diversi centri: un logos della natura (scienza), un logos dell’uomo (studi umanistici), un logos di Dio (teologia). E il logos della psiche? Dove va situata la psicologia? Secondo la storia del nostro campo, il termine psychologia fa la sua prima comparsa in ambiente teologico. I libri dicono sempre che fu introdotto da Melantone, intimo amico e collaboratore di Lutero. Esso fa la sua comparsa insieme alle nuove nozioni della Riforma: self-regard [stima di sé], self-love [amore di sé], self-conceit [presunzione], self-destruction [autodistruzione]. Il nuovo termine selfness, concentrazione su se stessi, egoismo, e self come pronome riflessivo intensivo, esprimevano un nuovo stile di riflessione, una nuova interiorità e intensificazione della persona. Melantone era incline ad assegnare la psicologia alle scienze naturali, classificando lo studio dell’anima sotto la physiologia assieme alla fisica e alla matematica. Ma il contesto religioso in cui essa era nata finì per prevalere, e la direzione interiore e personale della psychologia venne rafforzata nei secoli successivi, specialmente ad opera dell’introspezione del pietismo tedesco e dell’accuratamente elaborata fantasia kantiana della persona morale, dell’anima 6

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umana come centro della creazione. La psicologia era sfuggita alla teologia e si era unita agli studi umani. Kant la chiamò antropologia. Oggi, dopo un lungo periodo durante il quale la psicologia medica, quella sperimentale e quella statistica hanno tentato di farne una scienza, lo studio dell’anima è ancora una volta considerato come studio dell’uomo. La psicologia archetipica però si discosta da questa nozione – anzi, da tutte e tre le posizioni – e riconosce allo studio dell’anima un indirizzo suo proprio. Si possono tuttora condividere le prospettive della religione, della scienza e dell’umanesimo, ma senza bisogno di accettare le loro premesse o di giungere alle loro conclusioni: è possibile personizzare e immaginare intorno alle persone divine senza con ciò essere teologi, patologizzare ed esaminare i sintomi senza essere medici scienziati, e psicologizzare sul linguaggio e le immagini, la storia delle idee e il metodo della conoscenza, senza essere umanisti o filosofi. Se tuttavia fossimo costretti a un’alleanza con uno dei tre gruppi, allora la psicologia archetipica è altrettanto vicina al servizio e allo studio degli Dei quanto lo è al servizio e allo studio dell’uomo. Gran parte della stretta interrelazione tra psicologia archetipica e religione politeistica è stata esposta nei capitoli precedenti. Ora ciò che ci preme sottolineare è la distinzione tra la psiche e l’umano. Questo, tuttavia, non implica una divisione tra l’umano e la psiche, una separazione tra l’uomo reale e l’anima reale. La distinzione, per quanto possa apparire radicale, si limita a riproporre quella venerata idea religiosa secondo cui un uomo può perdere la vita e non l’anima, oppure perdere l’anima e conservare la vita. Questo è confermato da altre tradizioni religiose che parlano di anime senza corpo, di anime esterne (come quelle che abbiamo discusso a proposito dell’animismo), di esseri umani che vendono o riscattano la propria anima o che addirittura non hanno mai avuto un’anima. Queste tradizioni accentuano ancor più la distinzione dicendo che l’anima è immortale o che è giudicata in un aldilà, cioè, che essa ha un’esistenza 8

oltre la vita e indipendente dall’essere umano. La filosofia, da Platone e dai suoi seguaci neoplatonici (specialmente Plotino) fino a Hegel e ai suoi neohegeliani, ribadisce a sua volta questa idea. La sua tesi tradizionale è che la psiche, anche se rimanda a un’anima individuale vissuta qui e ora da un essere umano, nondimeno rimanda anche sempre a un principio universale, a un’anima del mondo o psiche oggettiva, distinta dalla sua individualità negli esseri umani. Tuttavia, di queste due nozioni, psiche e umano, la più comprensiva è la psiche, giacché non c’è nulla dell’uomo che l’anima non contenga, non tocchi, non influenzi o non definisca. L’anima penetra in tutto l’uomo ed è presente in tutto ciò che è umano. L’esistenza umana, prima di essere qualunque altra cosa – economica, sociale, religiosa, fisica – è psicologica. Se si parla di priorità logica, tutte le realtà (fisiche, sociali, religiose) sono dedotte da immagini psichiche o da presentazioni fantastiche a una psiche. Se si parla di priorità empirica, prima ancora di nascere in un corpo fisico o in un mondo sociale, la fantasia del nascituro è una realtà psichica, che influenza la «natura» degli eventi successivi. Ma l’affermazione che l’anima penetra in tutto ciò che è umano non può essere capovolta. L’umano non penetra in tutto ciò che è anima, né è vero che tutto quello che è psicologico è anche umano. L’uomo esiste in mezzo alla psiche; ma non è vero il contrario. Perciò, l’anima non è limitata dall’uomo, e vi è molta parte della psiche che si estende al di là della natura dell’uomo. L’anima ha estensioni inumane. Dire che l’anima è vissuta come «mia» e «interna» è un modo di riferirsi alla privatezza e all’interiorità della vita psichica. Questo non implica una proprietà letterale o un’interiorità letterale. Il senso di «internità» non si riferisce né a un’ubicazione né al contenimento fisico. Non è un’idea spaziale, ma una metafora immaginale dell’inerenza non visibile e non letterale dell’anima. L’uomo non può mai

essere ampio tanto da possedere i propri organi psichici; può solo riflettere le loro attività. L’ANIMA E IL CORPO

Prendere alla lettera il senso di internità equivale a impigliarsi nell’antico dilemma circa l’ubicazione dell’anima: si trova nel cuore, negli umori, oppure nel sistema nervoso? È nella ghiandola pineale, nell’arteria carotidea, oppure sparpagliata nelle cellule del tessuto vivente? È l’informazione contenuta nei geni? Questi interrogativi, apparentemente così sciocchi e superati, ebbero un’importanza cruciale per la psicologizzazione perché condussero a una più profonda interiorizzazione. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, il senso di internità è fondamentale per tutta la psicologizzazione. L’anima ci attira dentro e attraverso il labirinto dei letteralismi per condurci sempre più all’interno, e si realizza retrocedendo. La ninfa che arretra e fugge è una perenne immagine di anima nel mito. Il fatto che la psiche non possa mai essere identificata con nessuna delle sue ubicazioni o incorporazioni e che debba sempre essere distinta dal corpo non è un tragico disastro, risultato delle due nature dell’uomo. Qui non siamo impegnati a fare né una teologia dell’uomo che lo situi a mezza strada tra la scimmia e l’angelo, né una filosofia o una scienza dell’uomo che lo divida tra spirito e materia. L’anima è distinta dal corpo perché non può essere identificata con nessuna presentazione o prospettiva letterale. In quanto prospettiva che vede in trasparenza, la psiche non può essere anch’essa una visibilità. Come anello di congiunzione, o come tradizionale terza posizione, tra tutti gli opposti (mente e materia, spirito e natura, intelletto ed emozione), l’anima si distingue dai termini che congiunge. La sua distinzione dal corpo è soltanto letteralistica, la nozione letterale di corpo, racchiuso nella pelle, là fuori. Questa nozione, inoltre, deforma l’anima facendone una sorta di pio

vapore spettrale, che fa funzionare la macchina fisiologica come un esserino invisibile all’interno di una torre di controllo. Ma nel momento stesso in cui comprendiamo anche il corpo come un corpo sottile – un sistema fantastico di complessi, di sintomi, di gusti, di influenze e di rapporti, di zone di godimento, di immagini patologizzate, di intuizioni prigioniere – allora corpo e anima perdono i loro confini, nessuno dei due è più letterale o metaforico dell’altro. Ricordate: il nemico è il letterale, e il letterale non è la carne concreta ma il non tener conto della visione che la carne concreta è una splendida cittadella di metafore. Quando si situa l’anima dentro l’uomo, inoltre, si trascura il fatto che anche l’uomo è un letteralismo personificato, un contenitore non più vero e reale dell’anima. Nel primo capitolo ci siamo accorti a poco a poco che la singola vita umana è in realtà una personificazione dell’anima, una proiezione di essa e contenuta da essa. Noi siamo pronti ad accettare la nozione che l’energia umana e la natura, la vita e gli Dei non sono privilegi specificamente umani e che esistono «al di fuori» degli esseri umani, però curiosamente recalcitriamo allorché ci vien chiesto di distinguere l’anima dall’essere umano. È forse perché non accordiamo all’anima la sua indipendenza? Si tratta forse della fondamentale intolleranza della psicologia umana, la sua incapacità ad ammettere la realtà distinta, la piena realtà, dell’anima, talché tutto il nostro umano lottare con l’immaginazione e le sue folli incursioni, con i sintomi dei complessi, con le ideologie, le teologie e i loro sistemi, sono fondamentalmente ed essenzialmente gli imprevedibili contorcimenti di Psiche che cerca di liberarsi dall’imprigionamento nell’umano? La nostra distinzione tra psiche e umano ha numerose e importanti conseguenze. Se riteniamo che ciascun essere umano sia definito nella sua individualità e distinzione dall’anima e ammettiamo che l’anima esiste indipendentemente dagli esseri umani, allora la nostra individualità umana essenzialmente diversa da tutte le altre

in realtà non è affatto umana, ma piuttosto il dono di un daimon inumano che richiede il servizio umano. Non si tratta della mia individuazione, ma di quella del daimon; non è il mio destino che interessa agli Dei, ma il modo in cui mi prendo cura delle persone psichiche affidate alla mia assistenza durante la mia vita. Non è la vita che conta, ma l’anima e il modo in cui la vita viene usata per aver cura dell’anima. Questo ci riconduce ai sogni. I sogni, abbiamo detto più indietro, sono il miglior modello della psiche reale, perché la mostrano personificata, patologizzata e multiforme. In essi l’io è soltanto una figura in mezzo a molte persone psichiche. Niente è letterale; tutto è metafora. I sogni sono il miglior modello anche perché mostrano l’anima separata dalla vita: riflettono quest’ultima ma altrettanto spesso non si curano affatto della vita dell’essere umano che li sogna. Il loro principale interesse sembra rivolto non verso il vivere ma verso l’immaginare. Pur con questo centro «irreale», i sogni non sono però meno preziosi e ricchi di emotività. Ma il loro valore e la loro emozione sono in rapporto con l’anima e con il modo in cui la vita è vissuta in rapporto all’anima. Quando trasferiamo le intuizioni d’anima dei sogni nella vita per risolvere problemi e rapporti col prossimo, noi derubiamo il sogno e impoveriamo l’anima. Più sfruttiamo un sogno per faccende umane, più ostacoliamo il suo lavoro psicologico, ciò che esso è occupato a fare o a costruire notte dopo notte, nell’interiorità, lontano dalla vita, in un mondo non umano. Questo continuo immaginare notturno, che dura quanto la vita, è distinto da ciò che facciamo durante il giorno con le stesse immagini, servendoci di tutti gli errori umanistici: l’egoistico, il naturalistico, il moralistico, il pragmatico. Forse è meglio vedere l’attività onirica come un fare anima, o, con le parole di D.H. Lawrence, un costruire la Nave della Morte.

LA DISUMANIZZAZIONE DELL’EMOZIONE E LA DE-MORALIZZAZIONE

Se le nostre anime non sono nostre, ne segue che anche le nostre afflizioni ed emozioni psicologiche non sono veramente nostre. Esse vanno e vengono, non per nostra volontà o per nostro desiderio inconscio, ma per fattori indipendenti dal nostro potere. Esse appartengono agli archetipi, i quali agiscono su di noi attraverso il centro emotivo del complesso. Perciò la terapia degli affetti non può in alcun caso esaurirsi nell’esame e nella cura della vita umana, ma è invece obbligata dalla natura dell’afflizione psichica a divenire una terapia archetipica. Ci si rivolge agli archetipi non tanto per arrivare alle cause o alle radici della patologia, quanto per trovare quelle ragioni di fondo che rendono importante la patologia. Guardiamo agli archetipi per trovare in essi il significato formale e lo scopo degli eventi, non la loro origine causale o la loro base materiale. Ovviamente, se il nostro è un fine medico, la precedenza va all’alleviamento della sofferenza, al trattamento e alla cura, e le ragioni di fondo assumono rilievo solo ove siano d’aiuto a queste intenzioni. Ma se il nostro scopo è psicologico, cioè trovare un rapporto tra quanto accade e l’anima – allora andremo in cerca del significato ultimo degli eventi nei loro modelli archetipici o mitici. Come le afflizioni, anche le emozioni mi situano nel centro delle cose; dànno importanza e rassicurazione esistenziale all’essere umano. Mi appaiono come fondamentalmente mie, e tuttavia sono esterne alla persona individuale. Noi condividiamo le emozioni e partecipiamo in loro: esse trascendono la storia e il luogo, le leggiamo su un altro volto superando lingua e cultura, le sentiamo nelle configurazioni dei paesaggi e delle cose naturali, le riceviamo da immagini sepolte migliaia di anni fa e dai suoni, dalle forme e dalle parole di oggetti d’arte inorganici. Dolore, gelosia, comicità hanno immagini loro proprie, che non abbisognano di apparati interpretativi; sono portatrici d’un significato archetipico che trascende le esperienze personali che voi e 9

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io abbiamo di esse. La psicologia scientifica a volte ha dato allo sfondo transpersonale dell’emozione il nome di istinto, termine (o fantasia) sul quale ci siamo già soffermati (p. 212 e nota 1). Mettendo in luce le fonti filogenetiche dell’emozione e le espressioni a essa parallele negli animali, la psicologia riconosceva indirettamente lo sfondo non personale dell’affetto umano . Le spiegazioni teologiche hanno attribuito l’emozione a un’essenza peccaminosa o a un cataclismico evento preumano (la Caduta), oppure al principio generativo dell’animale, la cui presenza nell’uomo non è essenziale, ma solo accidentale. Questo modo di vedere l’emozione, che in un modo o nell’altro ne tiene l’origine o essenza distinta dall’essere umano, ha condotto alla elaborazione di numerosi metodi pratici che incoraggiano ancor di più la fantasia della separabilità dell’emozione dall’uomo. L’ataraxia (tranquillizzare), l’apathia (liberare dalle passioni) e la katharsis (gettare via o lavar via) sono tutti metodi che operano sulla premessa di questa distinzione: gli eventi psichici dell’emozione possono essere separati dall’essere umano. Noi non abbiamo bisogno di questi travestimenti per ciò che vogliamo dire. Essi sono comunque peggiorativi: il loro modo di operare la distinzione usa un linguaggio valutativo: l’emozione è arcaica, inferiore, peccaminosa, fonte di disordine. Viceversa, quando noi distinguiamo tra umano ed emozione, trattiamo quest’ultima come un «influsso divino», per dirla nel linguaggio poetico che piaceva a Blake. L’emozione è un dono che giunge di sorpresa, un enunciato mitico più che una proprietà umana. Essa annunzia un movimento nell’anima, è l’enunciazione del processo in atto in un mito che noi possiamo percepire nelle immagini fantastiche che accompagnano l’emozione. Questo significa che gli esseri umani non sono responsabili dei loro enunciati d’emozione. Ciò è riconosciuto dall’estetica, che vede nell’emozione un’espressione artistica incompleta cui occorre un’impronta personale per poter essere considerata 11

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arte valida. Altrettanto riconoscono e la legge e il linguaggio comune. Quando proviamo dei forti affetti noi non siamo completamente noi stessi e perciò non siamo umanamente responsabili di ciò che non è nostra proprietà. Ma la terapia clinica, che commercia in emozioni, insiste a dire che esse appartengono alla natura umana; la terapia tiene i suoi pazienti individualmente responsabili e personalmente colpevoli di archetipi universali. Noi dobbiamo render conto non solo di noi stessi, ma anche delle azioni degli Dei. La terapia archetipica invece cerca di avere delle emozioni una visione ove esse non siano così personali, non siano semplicemente le risultanti di forze umane. Perché le emozioni, quando sono liberate dalla centralità umana, quando sono restituite alle fantasie e poi ai modelli mitici, mostrano una diversa qualità di esperienza. I litigi in famiglia, gli entusiasmi degli amanti, le esplosioni in ufficio, hanno tutti dei retroterra profondi: epici, tragici o comici che siano, essi sono sempre mitici, incontenibili dalla vita e distanziati da essa. Non diamo quindi per scontata l’umanità delle nostre «facoltà umane». Teniamo vivo il dubbio se ciò che noi proviamo sia o no veramente una proprietà umana, parte del proprium, come lo chiama la psicologia. Se non altro, lasciando aperta la questione, c’è meno rischio di appropriarci di qualcosa che alla fine potrebbe non appartenere affatto alla natura umana. Questo implica inoltre mantener vivo il dubbio su chi registri e coordini l’esperienza. Chi fa l’esperienza è un essere umano, oppure una facoltà psichica che è «come se» fosse umana – una persona interiore che intende, seleziona e organizza le esperienze ma che è anche in una fantasia mitica che «io» chiamo la «mia» soggettività? La psicologia scolastica, richiamandosi ad Aristotele, ha sempre fondato la registrazione dell’esperienza su un senso interiore unificatore collegato con l’immaginazione. L’immaginazione è l’organizzatrice. Se è così, allora le nostre esperienze sono organizzate da immagini mitiche, poiché è per mezzo 13

dell’immaginazione che il regno immaginale degli archetipi agisce nella psiche. Se la natura umana è un composto di più persone psichiche che riflettono le persone dei miti, allora anche colui che fa l’esperienza è in un mito. Non è uno ma molti, un flusso di vicissitudini. Un centro di registrazione stabilmente situato in mezzo a loro è l’illusione archetipica dell’identità di sé. Questa illusione deriva da esperienze che ad un primo livello ancora non psicologizzato appaiono sempre letterali, che sembrano essere letteralmente ciò che sono. La letteralizzazione dell’esperienza si risolve nella letteralizzazione di colui che fa l’esperienza. Ma se si riesce a vedere in trasparenza le esperienze per quello che sono, fantasie archetipiche, anche il loro soggetto non ha più identità stabile di loro. Vorrei anche proporre di far nostro il seguente drastico punto di vista: che il concetto dell’essere umano localizzato nella persona morale della libera volontà è anch’esso una fantasia mitica, una prospettiva archetipica data da un singolo Eroe o da un singolo Dio; la nostra libertà di scelta, il nostro centro e la nostra capacità di decisione morale, la nostra libera volontà – sono tutti parte del codice di una dominante transpersonale. I codici morali, compresi quelli che tentano la semplificazione dell’universalità (il giudaico, il cristiano, il kantiano o il delfico), sono la letteralizzazione di una posizione archetipica. Il mio è un tentativo di de-moralizzare la psiche dall’errore moralistico che legge gli eventi psichici come buoni o cattivi, giusti o sbagliati. Questo richiede la finzione di un soggetto fisso, lo Sceglitore, o di un soggetto che sceglie, il Riparatore, che sa riparare, emendare, fissare, pacificare. L’errore moralistico è centrale al mito dell’uomo situato nel mezzo, nella psicologia umanistica di un io autoidentificato, l’Eroe la cui spada risolutiva divide in due affinché egli possa scegliere tra bene e male. Il moralismo assilla la psicologia, e non potrebbe essere diversamente se ricordiamo le origini della psicologia nella

Riforma e nel tentativo di Melantone di dar vita alla cultura etica della Germania. Persino la psicologia empirica ha il suo tono moralistico, vuole essere insieme descrittiva e normativa. Si tratti della fantasia di Watson, di Skinner e di Mowrer, o di quella di Freud, di Maslow, di Laing e di Jung, la psicologia vuol far vedere nella medesima dimostrazione come siamo e come dovremmo essere, dissimulando il «come dovremmo essere» con le parole: «È così che il genere umano è veramente; qui sta la nostra fondamentale natura; questo è ciò che vuol dire essere umani». Quanto non si concilia diventa inumano, psicopatico o malvagio. Ogni studente di psicologia è costretto entro posizioni moralistiche e ogni paziente di psicologia è imprigionato in giudizi morali sull’anima. Ancora una volta, è Blake che vede oltre [sees through] lo schermo dell’errore moralistico. Kathleen Raine così descrive il suo punto di vista: «La prima mossa di Satana consiste nell’inventare un codice morale basato sulla falsa credenza che gli individui possano da soli essere buoni o cattivi. Ciò è in chiara contraddizione con la vera natura delle cose, secondo cui il proprium è semplicemente ciò che riceve l’influsso divino. Lo spettro moralmente “buono” è in ogni senso tanto satanico quanto quello moralmente “malvagio”, giacché in ambedue è egualmente presente la negazione dell’Immaginazione». Come le emozioni, anche gli atteggiamenti morali sono «influssi divini». Essi sono effetti di Dei che strutturano la nostra coscienza secondo ben precisi princìpi. C’è una morale di Ermes, cui s’addice l’inganno, una morale di Ares, cui s’addice la furia di distruzione; una morale di Dioniso, cui s’addice la vittimizzazione. La necessità che governa gli Dei dà una necessità a ciascuna delle loro posizioni immaginali e fa sì che nessuno di essi varchi i limiti presentati dalle immagini stesse. I princìpi di una prospettiva mitica non vanno oltre il mito stesso e non sono regole generali per tutti i tipi di condotta. I conflitti tra queste prospettive sono i temi della 14

commedia umana e della sua tragedia. Non c’è nessun luogo dove possiamo metterci al di là del bene e del male, fuori della portata dei miti che ci coinvolgono nelle loro posizioni. La cosiddetta amoralità è anch’essa un’attuazione archetipica, si tratti di Caino, di Prometeo, del Briccone o d’un’altra figura mitica. Il punto di vista archetipico tenta di distogliere completamente la nostra concentrazione monoculare dalla questione del bene e del male. Abbiamo bisogno di vedere in trasparenza la questione stessa, giacché stare «al di là di essa» e lottare con essa sono entrambi modi di rafforzare la psicologia dell’io eroico. Invece di guardare i miti moralmente, la psicologia archetipica guarda gli atteggiamenti morali miticamente. Se si considerano gli atteggiamenti morali come rivendicazioni delle potenze immaginali, la morale stessa diviene immaginale. La morale è radicata nelle immagini psichiche e le immagini psichiche sono potenze morali. Queste immagini ci ricordano che quando scegliamo e decidiamo non siamo soli, che nelle nostre scelte e decisioni riflettiamo sempre delle posizioni mitiche. Seguire una morale alla lettera significa cadere nell’errore che dimentica lo sfondo immaginale della morale; è addirittura una posizione immorale o empia, perché dimentica il Dio che è nella morale. Perciò, quando Blake dice che la scelta in base a un giudizio di bene e di male nega l’Immaginazione, ne consegue che il primo passo verso il recupero della prospettiva immaginale consiste nell’accantonare tutte le prospettive morali verso le immagini della fantasia, del sogno e della patologia. Le immagini debbono restar libere dai giudizi, buoni o cattivi, positivi o negativi che siano. Siamo da così lungo tempo sotto il dominio dell’io eroico che i problemi della libera volontà e dell’autodeterminazione sono ormai preoccupazioni centrali del pensiero occidentale. E allora: riportiamo la morale all’immaginazione, e preoccupiamoci piuttosto del libero gioco di questa e delle sue libere operazioni, così da comprendere le immagini e i mutamenti dell’anima non più gravati dai carichi dei

moralismi. Parte del movimento per de-moralizzare la psicologia consiste nel disconoscere la responsabilità. Di nuovo Melantone alza il suo dito ammonitore, e noi siamo arrivati a credere che responsabilità, impegno, il farci carico d’ogni nostra parola e azione siano nozioni psicologiche, mentre si tratta di ideologie morali. Come abbiamo visto nel primo capitolo, le persone della psiche non sono mie. Io non le possiedo, e perciò non possiedo neppure i loro sentimenti e le loro azioni. Queste altre persone mi danno dilemmi etici e crisi di coscienza; ma quando io accetto tutti i loro eventi come miei in nome della responsabilità morale, cado in quel peccato ancora più grave che è l’egoismo satanico: l’io che si impadronisce di ciò che è archetipico. Il riconoscimento stesso degli «altri» come non miei, il disconoscerli, limita il loro raggio d’azione. Possono essere uditi, ma non obbediti in modo letterale. Sapere «chi» ha a che fare con un impulso già inibisce l’impulso stesso attraverso l’aspetto immaginale di esso. Questo vale anche per i giudizi morali, le cui voci riflettono anch’esse immagini e persone non egoiche. Il disconoscimento perciò impedisce che si compia un altro «peccato» psicologico, quello dell’identificazione. L’unico dovere della psicologia è quello di vedere in trasparenza, cioè, di pensare e sentire psicologicamente. È questo il solo obbligo cui essa non può mancare, e tanto basta per farle meritare il nome di psicologia. Il riflesso archetipico di ciascun movimento psichico rimanda la morale delle azioni agli Dei, dai quali si suppone provenga tutta la moralità. Restituire le questioni morali alla loro base archetipica approfondisce il nostro senso morale perché ci ricorda che le morali sono transpersonali. Infine, come possiamo definire umana la psiche se le sue fantasie, le sue emozioni, la sua morale e la sua morte stanno al di là della nostra portata umana? L’anima ci può essere data in prestito dai nostri antenati allorché viviamo i loro modelli nel nostro mito genealogico; oppure dagli Dei allorché attuiamo i loro drammi con la loro bizzarra

patologia, oppure dai nostri sogni, i quali ci ricordano all’inizio del nuovo giorno l’esistenza diversa e infera dell’anima; oppure da qualcosa che deve ancora accadere e che si sta aprendo la strada attraverso di noi – lo Zeitgeist, il processo evolutivo, il karman, il ritorno di tutte le cose ai loro artefici – ma le nostre vite sono temporaneamente distaccate presso la psiche. Durante questo tempo noi siamo i suoi custodi che cercano di fare per lei quanto è in loro potere. CRITICA DELLA PSICOLOGIA DELL’UMANESIMO MODERNO

La psicologia come campo indipendente è possibile soltanto se ci concentriamo sulla psiche, e non su quello che noi oggi crediamo sia umano. Quando perdiamo questa concentrazione sulla psiche, la psicologia diventa medicina o sociologia o teologia pratica o altro ancora, in ogni caso non è più se stessa. Come ben si sa l’anima in tutti questi campi è cosa secondaria oppure è assente; la psiche è ridotta a un fattore o a una funzione di qualcosa di più letterale. La psicologia cade prigioniera di queste varie strutture umanistiche quando perde il coraggio di essere se stessa, cioè il coraggio di compiere un salto qualitativo fuori dai propri presupposti umanistici, fuori dall’uomo inteso in senso personale, fuori dalla psiche intesa in senso umanistico. Fare anima significa disumanizzare. Con una psiche disumanizzata, non parleremmo più con tanta possessività, con tanto rapace soggettivismo, della mia anima, dei miei sentimenti, delle mie emozioni, afflizioni e sogni. Potremmo smettere di ricorrere solo alle persone umane per avere intuizioni, di vedere patografia solo nella vita umana, di usare per la psicologizzazione solo gli esseri umani. La psiche si manifesta in tutte le zone dell’essere. Oltre agli esseri umani, anche il presente e il passato, le idee e le cose, offrono immagini e abitazioni sacre di persone. La dimora dell’anima non sono solo il mio petto e le mie emozioni, ma anche il mondo. Il fare anima diventa più

possibile quando la sua concentrazione si allontana dall’esclusivamente umano; a mano a mano che estendiamo la nostra visione oltre l’umano, l’anima ci si rivela più vasta e più ricca, la possiamo riscoprire anche come interiorità del mondo oggettivo svuotato e privo di anima. L’orizzonte della psiche oggigiorno si è contratto, si è ridotto al personale, e la nuova psicologia dell’umanesimo incoraggia l’omuncolo presuntuoso in riva al grande oceano, che si rivolge a se stesso per domandarsi come si sente oggi e riempie il suo questionario, calcola il suo test della personalità. Egli ha abbandonato l’intelletto e ha interpretato l’immaginazione per potersi identificare tutto con le sue «esperienze viscerali» e i suoi «problemi emotivi»; la sua anima ha finito per assimilarsi ad essi. La sua fantasia di redenzione si è ridotta a dei «modi per farcela»; la sua ostinata patologia, vera via regia per le profondità dell’anima, viene buttata fuori con urla janoviane, porco gettato ai piedi di Perls, o dissolta in una chiusa Gestalt di intimità di gruppo, o lasciata cadere in un abisso di regressione nel corso dell’affannosa scalata ai peaks masloviani. Il sentimento è tutto. Scopri i tuoi sentimenti, abbi fede nei tuoi sentimenti. Il cuore umano è la via che conduce all’anima e l’unico oggetto della psicologia. 1. Il sentimento come Dio La fede nel sentimento umano non è altro che una nuova religione, una religione con maestri e terminologia, rituali e dottrine, ma senza Dei. Che origine ha e che posto occupa nella nostra comprensione della psiche la sua centrale fantasia del sentimento? La base storica della religione umanistica non è l’umanesimo del Rinascimento, come vedremo tra breve, bensì l’intellettualismo dell’Illuminismo. Quando venne messa sul trono la dea Ragione, i sentimenti soggettivi furono ridotti al suo contrario irrazionale e inferiore. Oggi

essi sono tanto ideativamente vacui quanto lo erano quando videro la luce tra le braccia di Rousseau. Hegel vedeva il sentimento in modo assai diverso: «Sentimento e cuore non sono la forma che può rendere le cose legittime, morali, vere, giuste, ecc., e appellarsi al cuore e al sentimento non significa niente, oppure significa qualcosa di cattivo… “Dal cuore vengono pensieri malvagi, assassinio, adulterio, fornicazione, blasfemia, ecc.”. In tempi come questi, quando la teologia e la filosofia [e la terapia] “scientifiche” fanno del cuore e del sentimento il criterio di ciò che è buono, morale, religioso, è necessario ricordar loro queste trite esperienze…». 15

Hegel qui ricorda il lato d’ombra del sentimento che l’umanesimo contemporaneo, da gran tempo vittima sofferente del lato d’ombra dell’intelletto scientifico, ha dimenticato nella sua conversione ad un nuovo estremo. Il terrorista e la ragazza che uccide per il suo eroe-profeta (Charles Manson) credono anch’essi nei loro sentimenti. Il sentimento, quando è preso alla lettera, può divenir posseduto e cieco né più né meno di qualsiasi altra funzione umana. Anche i sentimenti sono metafore, espressioni della fantasia, indici di immagini psichiche. Essi non sono immuni all’io e alle sue letteralizzazioni; non sono verità più di quanto non siano idee, non sono fatti più di quanto non siano percezioni. Sono soggetti anch’essi a potenze archetipiche che governano i loro valori etici, i loro giudizi estetici, i loro stili di rapporto, di espressione e di assimilazione. I sentimenti non sono una bussola infallibile, crederli tali significa farne degli Dei, e per di più soltanto Dei Buoni, dimenticando così che il sentimento può essere altrettanto strumentale all’azione distruttiva e a ideologie male intese di qualsiasi altra funzione psicologica. Esso impedisce la nostra patologizzazione, e perciò può essere patogeno per gli altri, come ci hanno indubbiamente detto le fantasie messe in luce dagli studi sulle «madri cattive» e sulle «famiglie

schizogene». I vincoli di fedeltà all’interno di un gruppo possono farci commettere spergiuro; la solidarietà di classe e l’orgoglio militare possono renderci intolleranti e crudeli; l’attaccamento personale può renderci difensivi, possessivi e sentimentali. Questi non sono giudizi sui sentimenti buoni e cattivi, bensì un ulteriore svolgimento del pensiero di Hegel. Le sue osservazioni saranno sicuramente viste in trasparenza e considerate come reazione tipologica di un pensatore ostile al sentimento. Ma se ci fermiamo qui, rimaniamo in uno psicologismo che lascia inascoltato il contenuto dell’intuizione hegeliana. Anche l’opposizione di pensiero e sentimento deve essere vista in trasparenza, specialmente perché ha sempre ossessionato in Occidente ciò che si pensa del sentimento e ciò che si prova verso il pensiero, dall’Illuminismo (quando queste facoltà assunsero per la prima volta rilievo come contrari) agli Anni Venti col sistema junghiano dei tipi, fino ai giorni nostri. Perché vi sono specie di sentimento che, riemergendo da una prolungata rimozione, instaurano un nuovo stile di rimozione in nome appunto del sentimento, e stavolta contro la «testa», le «parole», la riflessione distaccata. Invece di lasciare che la tipologia ci imprigioni in queste opposizioni di contrari, possiamo vedere in essa uno strumento che relativizza le posizioni, un modo per fare di qualunque funzione una metafora, così che non si possa più presentare in forma unilaterale ed esclusiva. In tal modo ogni tipologia viene liberata dal letteralismo in cui si presenta e diventa una metafora dell’ambivalenza psichica sotto forma di spiegazione sistematica. Persino Nietzsche, che era un filosofo del sentimento, o quanto meno che parlava seguendo i propri sentimenti, sa essere scettico verso di essi, sottoporli a critica, così come Kant fece con la ragione. Nietzsche ha detto: «“Abbi fiducia nel tuo sentimento!”. Ma i sentimenti non sono niente di ultimo, di originario. … Aver fiducia nel proprio sentimento, significa obbedire al proprio nonno e alla propria nonna e ai loro progenitori, più che agli dèi che sono in noi: la nostra 16

ragione cioè e la nostra esperienza». Nietzsche qui riconosce la presenza degli Dei nelle nostre idee e negli eventi psichici. Ma non si accorge che essi governano anche i sentimenti, che egli presenta come i cliché di una cultura, i suoi atteggiamenti radicati, trasmessi e inculcati fin dalla primissima infanzia. Intuizioni e percezioni balenano all’improvviso; le idee li seguono più lentamente; ma i sentimenti sono conservatori. Essi sono impressi nei gusti, negli stili, nei valori, nel costume, i quali hanno le loro mode e rivoluzioni in superficie, ma durano come ordito di fondo d’una cultura, determinandone l’inclinazione e i motivi ricorrenti. Gli eterni ricorsi della storia avvengono direttamente nei nostri sentimenti. Quelle che sembrano le realtà più personalmente differenziate e individualizzate sono variazioni nel tempo di determinanti di sentimento ancestrali, etniche, geografiche e religiose: i nostri nonni e le nostre nonne, secondo i termini di Nietzsche, gli archetipi secondo i nostri. I ciclici passaggi della storia attraverso il sentimento sono dimostrati dalla nuova terapia del nuovo umanesimo e dalla sua fede nel sentimento, e soprattutto dalle diramazioni californiane con le loro missioni di fine settimana e i loro parroci viaggianti. L’idea stessa che il sentimento è buono e salutare, che la comparsa dei sentimenti in terapia è un magnifico evento soggettivo e un segno di miglioramento oggettivo e che il sentimento è la miglior guida, tutte queste valutazioni sono espressioni della tradizione cristiana. Sincerità, schiettezza, comunione con gli altri in mezzo agli altri appartengono tutte a questo contesto, come, del resto, vi appartiene l’importanza data al cuore, alla bontà della natura interiore e all’archetipo del fanciullo. La fede convince; vi sono testimonianze dei suoi effetti – non tanto perché si tratta della Nuova Terapia quanto perché questo è il Nuovo Testamento, il ricorso d’un modello archetipico. 17

2. L’insufficienza dell’amore

Un certo umanesimo ha spinto più a fondo il suo sentimento fino alla centralità dell’amore, ed ha trovato qui il punto di incontro tra uomo e anima. Ma di che genere d’amore si parla? Qui lo psicologo archetipico cerca di distinguere tra i molti modelli dell’amore. Eros, Gesù, Afrodite, la Magna Mater – chi è stato, insomma, a mandare il valentino? Non c’è dubbio che l’amore sia divino, ma da quale divinità è in questo caso pilotato? Quando la psicologia archetipica parla di amore, essa procede in modo mitico perché è obbligata a ricordare che anche l’amore è non umano. Il suo potere cosmogonico, al quale partecipano anche gli esseri umani, è personificato da Dei e Dee dell’amore. Quando le cosmogonie situano l’amore al principio, esse si riferiscono a Eros, a un daimon o a un Dio, e non semplicemente a un sentimento umano. Il potere cosmogonico dell’amore di strutturare un mondo attira in esso gli esseri umani in conformità con i vari stili degli Dei dell’amore. Vi sono, inoltre, stili d’amore che si manifestano in divinità apparentemente estranee all’amore: Atena ama Ulisse coi suoi consigli, con la sua protezione e il suo aiuto a riunirsi con Penelope; Ermes ama Priamo col suo intervento nel furtivo accordo notturno per riottenere il corpo del figlio ucciso. Ciascun Dio ama a suo modo: quando Zeus dà il suo amore a una donna mortale avviene uno splendido disastro con un risultato eccezionale, a sua volta ben diverso dai disastrosi effetti degli inseguimenti di Apollo. L’amore di Arianna può abbracciare sia il duro guerriero Teseo sia Dioniso molle di vino. Ciò di cui abbiamo bisogno è una psicologia archetipica dell’amore, un esame dell’amore alla luce del mito. Anche se ci limitiamo alla sola Afrodite, o Venere, com’essa è chiamata dal tempo dei romani, scopriamo che il suo amore è un complicato gruppo di miti, che essa è legata ora ad Ares, ora alle altezze di Urano, ora alle onde di Posidone, o ai manufatti di Efesto; ora in opposizione con Artemide oppure con Era e Atena, ora in un triangolo con

Eros e perciò nemica di Psiche. Essa ha una progenie degna di nota: figli del suo amore sono Priapo dalla possente erezione (e del resto anche Eros) ed Ermafrodito, che spinge all’estremo l’attività materna. Ma anche lei ha i suoi lati bizzarri: a volte appare nera, barbuta e con l’elmo, segretamente innamorata della guerra, e il suo amore è ulteriormente complicato dalla sua genealogia, che ne rivela i più profondi rapporti di parentela, le vere «somiglianze». Scopriamo così che essa nasce dalla schiuma delle emozioni quando al vecchio Urano vengono tagliati i genitali (la sessualità rimossa di ogni rigido atteggiamento senex); scopriamo la sua passione per la vendetta e le sue sorelle: Nemesi e le Furie; la scopriamo inoltre attuata nelle Regine di Bellezza, nelle Elene di questo mondo, con le loro mille navi vendicatrici, le loro guerre che si trascinano per dieci anni, le furie e i tradimenti. Per comprendere il logos dell’amore, sia pure solo quello presentato attraverso Afrodite, è necessario seguirne l’intero corso fino in fondo. Il suo corteo di miti è assai più eloquente sulla realtà psichica che non le definizioni dell’amore in filosofia, teologia e psicologia. Le immagini dell’amore di Afrodite sono innumerevoli e tuttavia caratterizzate con esattezza dalle ubicazioni dei suoi templi, dalle sue feste e dalle regioni, località, animali, piante e persone mitiche a lei cari. Altre lingue, a volte, se non altro tentano di afferrare qualcuna di queste distinzioni e usano parole diverse per descrivere l’amore. Noi ne abbiamo soltanto una. Sicché, quando diciamo che Dio è Amore, di chi parliamo? La divinità che sta dentro le belle illusioni della terapia umanistica potrebbe benissimo essere Afrodite. Il suo ruolo nel pensiero psicoterapeutico non è stato ancora esaminato in modo soddisfacente. Non dimentichiamo che fin dai primissimi tempi della psicologia del profondo nella clinica parigina di Charcot il contenuto del rimosso era afroditico: «la chose génitale». Freud, che osservò i comportamenti di quelle ragazze in posizioni di trance, ritornò a Vienna con l’abbozzo della sua teoria erotica delle nevrosi. La parola che 18

egli scelse per indicare il movimento e l’energia dell’anima, «libido», deriva dal vocabolario dionisiaco-afroditico e risale etimologicamente a lips, lo scorrere dei liquidi sessuali. Afrodite continua ad apparire nel lavoro terapeutico, non solo nelle rose e nei passerotti del transfert o nella porne della terapia (il racconto sessuale, i particolari piccanti), ma anche come Afrodite kalé, gli abbellimenti delle dolci illusioni che nascondono cosmeticamente le patologie. Possiamo rintracciarla in altri due dei suoi epiteti classici: peitho, la persuasione soave e insinuante che ha indotto taluni critici della psicoanalisi a vedere in tutta la terapia un raffinato metodo di suggestione retorica; e praxis, il consiglio pratico sul comportamento nei rapporti umani, soprattutto riguardo al letto, al corpo e alle rivalità nascoste. Nella storia di Eros e Psiche (alla quale ho fatto sovente riferimento perché presenta una lunga serie di temi e di immagini del rapporto di amore e anima ) Afrodite ostacola Psiche. Essa vuole tenere Eros per sé, tenerlo lontano da Psiche, impedirgli di diventare psicologico. Questo succede forse perché Afrodite è troppo letteralistica, troppo innamorata della superficie sensibile e della visibilità delle cose, troppo preoccupata dell’armonia (anch’essa figlia sua) e dell’aspetto pratico? Se è così, allora la terapia che segue il suo stile può insegnarci molto su come godere e affrontare con successo i problemi letterali, e intanto impedire che l’eros trovi l’anima. E la loro unione è essenziale per il fare anima. Anche se i miti di Afrodite sono una ricca miniera di tesori, non si possono assegnare a un solo Dio tutto l’amore e tutta la terapia. Da quando Freud introdusse nel suo campo d’azione la morte, la psicoterapia s’è resa conto che il fare anima conduce al di là del principio del piacere e che l’amore non è sufficiente. Come ha scritto Norman Brown: «l’amore è un breve momento nella vita degli amanti; e rimane un’esperienza soggettiva interiore che non tocca il macrocosmo della storia. La storia umana non può essere considerata come lo svolgersi dell’amore umano». L’amore 19

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sviluppa la propria storia e controstoria, nei gruppi, nelle famiglie, nel transfert e nell’histoire d’una relazione, con date e pegni d’amore nel suo museo degli oggetti ricordo. Questa storia si situa al di fuori dell’arena degli eventi, ad essi oppone il proprio calendario privato di anniversari e celebrazioni, che comincia nell’ora in cui nacque l’amore. L’amore soddisfa i bisogni dell’anima solo entro specifiche configurazioni archetipiche in casi particolari. Allora questa o quella sua fantasia mitica parla direttamente alla mia situazione. Può essere Era in un eterno abbraccio con Zeus nel letto matrimoniale, o Eros imbronciato e cieco alla reale condizione dell’anima, oppure Gesù morbosamente vivido sulla croce. È l’amore in questa o quella forma immaginale che opera su noi. Ma prendere l’amore come il principio primo della psicoterapia significa di nuovo trovare una panacea monoteistica per la complessità immaginativa della nostra vita psichica. Blake deve aver sentito l’insufficienza dell’amore come redentore, perché chiamò Gesù l’Immaginazione, intendendo amore dell’immaginazione, o amore che opera dentro e attraverso l’immaginazione. L’amore, perciò, non è più un fine ma un mezzo per il ritorno dell’anima attraverso l’umano e per mezzo dell’umano all’immaginale, il ritorno della psiche umana alla sua essenza immaginale non umana. L’amore, in questo modo di vedere, è una delle molte modalità dell’emozione e della fantasia archetipiche, uno stile di follia non più privilegiato di qualsiasi altro. La terapia non ha come fine l’amore ma l’anima; lo scopo del gioco non è che la psiche trovi l’eros, l’amore come meta, bensì che l’eros trovi la psiche – l’anima come punto d’arrivo. La freccia dell’amore, perciò, deve colpire l’anima e ferire la sua vulnerabilità: solo così può incominciare quello stato di profonda patologizzazione che chiamiamo essere innamorati. La psiche non vuole essere amata fuori della sua patologia, né vuole esser perdonata. Grazia e caritas, sì, fate pure discendere ciò che volete, ma non perdonatemi i mezzi con cui le potenze divine entrano in rapporto e diventano 22

reali: i miei complessi, che sono i miei sacrifici a queste potenze. Finché non li percepisco nelle mie confusioni, gli Dei rimangono astratti e irreali. Il perdono delle confusioni in cui sono immerso, delle ferite che mi dànno occhi con cui vedere, di tutto ciò che è errante e rinnegato nel mio comportamento, cancella la principale via di accesso degli Dei. 3. L’egoismo del perdono Il perdono è l’altra faccia della colpa che abbiamo discussa nel terzo capitolo. Anche il perdono appartiene all’io: è il grido dell’io che vuole esser sollevato dal peso del mondo intero che regge sulle sue spalle. Vorremmo esser perdonati perché siamo troppo carichi, e la psicologia dell’umanesimo vorrebbe accrescere ancora il fardello della nostra capacità personale, rafforzando l’io, ampliando le regioni della nostra responsabilità e del nostro impegno, sviluppando la nostra sollecitudine, facendo crescere nuovi sentimenti e nuove sensibilità, irradiando sempre nuovi rapporti, in vista d’una totalità che copra tutto il globo. Noi siamo il centro dell’esistenza, o come Sartre descrive l’umanesimo esistenziale: «… L’uomo non è altro che ciò che si fa… L’uomo è responsabile di quello che è. Così il primo passo dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza». Ovviamente, noi veniamo meno a quest’obbligo, e poiché oltre questo io non esiste nessun altro potere cui fare appello, imploriamo il perdono. E, ovviamente, le interazioni umane non possono sostenere questi fardelli sovrumani. Maggiore è l’attenzione con cui li alimentiamo, secondo le raccomandazioni della psicologia dell’umanesimo, più essi ci chiedono. Perché le loro richieste sono sovrumane, archetipiche. Sicché i nostri rapporti umani, sovraccarichi di significato archetipico, finiscono per crollare. Noi non possiamo portare gli Dei 23

perché siamo esseri umani. Se però non fossimo noi i soli responsabili, ma fossimo sostenuti dalle loro persone e partecipi dei loro miti, allora i fardelli, il biasimo e il perdono non sarebbero più tanto centrali. Così come le cose stanno ora, è inevitabile che le nostre madri non siano all’altezza: esse devono essere sempre Grandi, devono essere un archetipo, devono prendere il posto del mondo ormai morto e depersonificato, essere le stagioni e la terra, la luna e le vacche, gli alberi e le loro foglie. Ecco quello che ci aspettiamo dalle persone quando abbiamo perduto i miti. E chi può essere un Dio? Per forza i nostri amanti, costretti a essere degli Eroi, non riescono a liberarci dal drago, né riescono a essere Eros e fiamme di fuoco, a essere meravigliosamente saggi, o ad accenderci con la parola divina. Tutti falliscono, tutti sono colpevoli, tutti vorrebbero essere perdonati. Noi riversiamo i nostri cuori umani, con i loro sentimenti, le loro reazioni e speranze, nel vuoto lasciato dalla perdita del pantheon della realtà archetipica. Siamo destinati a fallire, non solo, ma a personalizzare anche la colpa che ne deriva, mettendola di peso sulle spalle dell’io responsabile, cercando rimedio e perdono nel rapporto umano. Ma la questione non è affatto umana. Se elaboreremo una psicologia non centrata sull’io, non centrata in nessun posto, ci allontaneremo dalla fantasia di colpa dell’io, nonché dalla sua fantasia di perdono. Lo sfondo classico al quale facciamo ritornare gli eventi psichici non aveva alcun concetto di «peccato» e di «redenzione». Lì, perdonare significa piuttosto dimenticare. Invece d’essere una virtù, confina con quell’empietà che è la negligenza. Gli Dei perdonano poco e di rado. L’amore di Afrodite non dimentica. Essa accampa diritto di proprietà su coloro che la dimenticano, risponde all’offesa attraverso le Furie sue congiunte, che – come il ritorno del rimosso, che è il loro nome in psicoanalisi – non dimenticano mai niente. Gli Dei vogliono essere ricordati e non chiedono perdono per le loro devastazioni, che vengono così anch’esse ricordate. Sia gli 24

ebrei sia i greci nutrivano i loro ricordi per generazioni. La continuità di una maledizione e di un’offesa conservano nella coscienza il valore degli antenati, dei nemici e degli amici e della natura archetipica delle dispute e dei torti. L’esser perdonati elimina tutto questo e cancella la storia. Si ricomincia da capo, come un bambino con la lavagna pulita, ignoranti della natura dell’uomo, delle profondità dell’anima, degli Dei. La psicologia dell’umanesimo incomincia col perdono e con l’oblio. L’uso stesso che essa fa della parola «umano» dimentica ciò che la parola significa. Con l’attribuzione del significato di «umanitario», viene perdonata l’ombra contenuta nella parola. Ma il tocco umano è anche la mano che regge il lanciafiamme e che getta la granata. Se si vuol essere esatti, umanizzare non significa solo amare e perdonare; significa anche torture e vendette e tutte quelle vigliaccherie che la storia ci impedisce di dimenticare. (Ovviamente, i Figli dell’Amore insistono nel mantenersi innocenti della storia; la storia ha preso il posto di tutte le precedenti rimozioni ed è divenuta oggi il primordialmente rimosso. Nessuno vuole guardare indietro, se non con nostalgia sentimentale, perché in quello specchio noi vediamo il Vietnam, l’Algeria, i campi di concentramento – tutti fenomeni umani). Hitler era umano, e anche Stalin lo era, e i soldati che spezzarono le gambe di Cristo erano altrettanto umani della loro vittima e sapevano quello che facevano. L’odierno eufemismo «umano» chiude perversamente gli occhi davanti a questa misantropia, che è anch’essa umana. Anche se lasciamo da parte la storia e ci limitiamo a osservare gli eventi contemporanei, la nostra visione dell’umano deve includere l’effettiva realtà del comportamento umano, deve includere la sua patologia. Se vogliamo realizzare l’ideale umanistico diventando pienamente umani, dobbiamo necessariamente ricordare che il processo di quel divenire significa salvare l’imperdonabile. Per salvare io intendo ricordare, mantener salde nella

memoria l’esperienza patologizzata e le sue immagini. Il processo di individuazione o lavoro del fare anima è il lungo sforzo terapeutico di togliere il peso della rimozione dagli aspetti inumani della natura umana. Questo processo include alla fine anche la patologia non trasformata. L’autorealizzazione comporta la realizzazione nella coscienza del potenziale psicopatico che si preferisce chiamare inumano. Includendo questo potenziale psicopatico in un più ampio campo di spazio psichico, possiamo legare la sua natura sfrenata a delle immagini fantastiche. Le nostre inumanità hanno in sé delle fantasie e quando riconosciamo queste immagini scopriamo che cos’è quello che le nostre inclinazioni psicopatiche stanno tentando di attuare. Anche la psicopatia ha il suo sfondo mitico; la nostra inumanità può essere domata col sogno. In altre parole, fare anima significa sottoporre gli eventi a un processo immaginale. Si tratti di arte, di alchimia, di speculazione mitica, della patologizzazione della depressione o del libero corso della fantasia attraverso i recinti dello spazio psichico, questo processo richiede in ogni caso lavoro immaginativo. Nessuna delle soluzioni umanistiche ammette la necessità di questo requisito. Il perdono è completamente cieco all’orrore, il sentimento perde l’aspetto immaginativo del compito. Le terapie del sentimento, che deviano le immagini in rapporti e le sfruttano per ricavarne intensità emotive, violano l’immaginazione tanto quanto l’intelletto che trasforma le immagini in idee. Né le une né l’altro cercano la fantasia nell’interesse della fantasia stessa. E l’amore non è sufficiente; o meglio, l’amore è soltanto un’altra forma di travaglio immaginativo. L’amore perciò non può essere visto né come meta né come via, ma come uno dei molti modi per sottoporre la nostra inumanità a un complicato processo immaginale. LA GIUSTA MISURA DEL GENERE UMANO È L’UOMO; QUELLA DELLA PSICOLOGIA È L’ANIMA

Se mi sono espresso con tanta durezza contro l’umanesimo in psicologia, l’ho fatto per ricordare il confine tra la psiche e l’umano. La linea che li divide è sottile, e le nostre nozioni di uomo tendono a invadere la psiche. L’anima e le sue afflizioni, le sue emozioni, i suoi sentimenti e varietà d’amore sono tutti senza dubbio essenziali per la condizione umana. Ma sono tutti condizionati archetipicamente. Non possiamo trattarli come semplicemente umani, come semplicemente personali, senza cadere in sentimentalismi, in moralismi, in egocentrismi umanistici. Perché allora il fare anima diventa crearsi migliori rapporti umani, mentre la vera ragion d’essere del sentimento – discriminare tra i vari archetipi e stabilire rapporti con essi – rimane ignorata. La sentimentalità umanistica infiacchisce e intorpidisce la nostra sensibilità alle realtà archetipiche e rende miope la nostra percezione, che resta concentrata solo su noi stessi e sul prossimo. Inoltre, questo falsifica il fare anima. L’anima viene fatta nella valle del mondo, come scrisse romanticamente Keats. Ma non si tratta di quella valle, né di quel mondo. Né il fare anima mira direttamente al miglioramento delle persone nella società. Tali eventi, ove si verifichino, sono dei sottoprodotti, il risultato della re-visione del mondo e dell’infusione di anima in esso. Il sentiero della psicologia del profondo rimane tuttora la psiche individuale. La «sinistra» freudiana della psicologia del profondo, a orientamento socioculturale, opera sul mondo e sulla valle, letteralizzati nel ghetto come residenza dell’anima e non come luogo del suo farsi. Il fare anima è anche diverso dal miglioramento della personalità. L’idea di sviluppo della personalità punta il suo obiettivo sull’uomo e sull’accrescimento dei suoi potenziali, e anche qui gli ideali di crescita umana, di risorse umane e di creatività vincolano l’anima al movimento dei sentimenti entro l’orizzonte umano. Ogni area del sentimento si riduce di importanza e significato quando l’uomo diventa la misura, quando i

sentimenti diventano soltanto un problema su cui lavorare e da cui crescere. Il sentimento che è semplice funzione umana perde il suo potere di riflettere la psiche al di là dell’umano fin nelle cose sconosciute dell’anima. Perciò è necessario disumanizzare, spersonalizzare e de-moralizzare la psiche se si vuole approfondire il significato delle sue esperienze umane oltre la misura dell’uomo. A partire da Aristotele, l’essenza dell’uomo viene definita dal suo primo motore, cioè l’anima. Nella nostra tradizione l’essenza della psiche non è l’uomo, giacché il primo motore dell’anima è espresso in una fantasia di potenze transumane. E perciò cominciare con l’uomo significa cominciare dalla parte sbagliata. Ovvero, per dirla in modo più logico, l’umano è necessario alla psicologia, ma non è sufficiente. L’insufficienza dell’approccio umanistico si manifesta in tutta la sua gravità nella riduzione dei grandi eventi transpersonali a dinamiche personali: i miti diventano prodotti umani. Questo fraintendimento del mito attraversa tutto l’umanesimo dal suo inizio nel sofista Protagora (al quale è attribuito il detto «l’uomo, misura di tutte le cose») all’allegorizzazione illuministica dei miti come lezioni umanistiche, fino alle sue note morenti nell’esistenzialismo umanistico di Sartre. Il depotenziamento del mito è a tal punto la costante preoccupazione dell’umanesimo che ne diventa la definizione: la psicologia dell’umanesimo è il mito dell’uomo senza miti. I miti che modellano la vita umana diventano nell’umanesimo strumenti che la mente inventa per spiegarsi a se stessa. L’intrinseca alterità del mito in un immaginale «altro» regno, la creativa spontaneità di queste storie e il fatto che essi siano racconti di Dei e dei loro rapporti con gli esseri umani – tutto diventa qualcosa di inventato da un uomo. Perdiamo l’esperienza della loro primaria realtà e del nostro attraversarli, del nostro esser vissuti da loro, e del fatto che i «miti comunicano tra di loro attraverso gli uomini senza che questi ne siano consapevoli». Come ha notato il perspicace filosofo Charles Hartshorne, 25

l’ascesa dell’umanesimo è collegata al «crollo dell’animismo primitivo, che è la forma mitologica della fratellanza tra uomo e natura». Sia questo storicamente dimostrabile o no, la fantasia d’un rapporto di compensazione tra umanesimo e pensiero mitico personificato è proprio ciò che noi intendiamo. La perdita del senso mitico e perciò degli Dei incomincia con Protagora, il prototipo dell’umanista, per il quale «il pensiero domina completamente il mito». Il mito diventa un modo per parlare dei processi mentali dell’uomo, un’allegoria delle nostre psicodinamiche; il pensiero plasma il mito a suo volere. Dove la psicologia archetipica, ad esempio, vede Ercole o Edipo che fanno attuare e adempiere alla mia anima un modello mitico, l’umanesimo della demitologizzazione vede invece l’individuo che crea Ercole o Edipo dalle sue personali psicodinamiche. Da questa posizione, i miti insegnano all’uomo cose che riguardano l’uomo, e nulla che riguardi gli Dei. Una siffatta visione demitologizzata conduce direttamente nell’umanesimo dei nostri giorni. «l’esistenzialismo non è altro che uno sforzo per dedurre tutte le conseguenze da una posizione atea coerente», dice Sartre. Ma gli Dei, lo si voglia o no, ritornano sotto la veste della centralità umana eroica, infiltrandosi nella struttura della coscienza umanistica stessa, nei suoi ideali e nelle sue formulazioni sulla responsabilità dell’uomo che deve farsi carico del mondo e sulle scelte del suo io che creano l’esistenza. 26

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L’INUMANITÀ DELL’UMANESIMO GRECO

Se guardiamo al di là di Protagora al più ampio contesto della cultura greca, vediamo chiaramente che l’anima non dipende dalla vita personale, e che i rapporti personali non offrono alcuna garanzia contro la tragedia psicologica. I rapporti personali nella famiglia di Teseo, Fedra e Ippolito, o in quella di Alcesti, persino i rapporti tra Edipo e Giocasta, non difettano certo dei valori umanistici della carità, della dignità, della sollecitudine e dell’umana benevolenza. Ma la

tragedia arriva, e arriva mandata dagli Dei. L’umano in questa visione greca dell’uomo non dipende dai rapporti personali bensì dai rapporti con potenze archetipiche che hanno i loro aspetti inumani. L’umanesimo greco «rimase sempre in certa misura inumano, non nel senso di barbaro, ma nel senso di proprio agli Dei». Essi forniscono la prospettiva inumana, talché le penetranti intuizioni dei greci provengono da una psiche, e da una psicologia, in cui l’inumanità divina ha la propria dimora. Uno studio dell’uomo non può mai dare una prospettiva sufficiente, perché l’uomo è fondamentalmente limitato, è un fragile brotos, thnetos, una povera cosa mortale, non pienamente reale. Gli Dei sono reali. E questi Dei sono dovunque, in tutti gli aspetti dell’esistenza, in tutti gli aspetti della vita umana. In questa visione greca – e «Grecia», come abbiamo visto, sta a indicare l’immaginazione politeistica – non c’è luogo, atto, momento in cui essi non siano presenti. Gli Dei non potevano assentarsi dall’esistenza nel senso teologico protestante; essi erano l’esistenza. Non potevano esserci due mondi, uno sacro e l’altro profano, uno di Cristo e l’altro di Cesare, poiché il mondano era precisamente la scena dell’attuazione divina. Oggi possiamo esprimere quest’idea in termini psicologici e dire che noi siamo sempre in questa o quella prospettiva archetipica, sempre governati da questa o quella dominante psichica. Anche il profano è portatore di anima, perché anche il profano ha il proprio sfondo archetipico. Tale prospettiva comincia in una coscienza politeistica, sia essa quella della religione greca o quella della psicologia archetipica. La difficoltà che incontriamo quando cerchiamo di comprendere la visione greca del mondo è data dal fatto che mentre noi incominciamo sempre con un io, i greci incominciavano sempre con gli Dei. Quando l’oracolo delfico o Socrate o un’analisi moderna esorta al «conosci te stesso», si tratta della conoscenza dei limiti umani, di una umanità limitata dalle potenze nell’anima che sono inumane e divine. Avere a cuore e prendersi cura di queste potenze è la 29

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vocazione dei therapeutes. Questo termine significava in origine «servitore degli Dei». (Esso indica anche «chi si occupa di qualcosa» e «colui che assiste i malati»). Il terapeuta è colui che presta attenzione, offre i suoi servigi al «Dio nella malattia», ma non possiamo accettare la definizione umanistica di Laing: «Gli psicoterapeuti sono degli specialisti in relazioni umane», senza aggiungere a questa definizione quanto Laing dice più avanti: «Io sono uno specialista, Dio m’aiuti, di ciò che accade in uno spazio e in un tempo interiori, in esperienze che prendono il nome di pensieri, immagini, fantasticherie, ricordi, sogni, visioni, allucinazioni… Viviamo in egual misura estranei ai nostri corpi e alle nostre menti». La specializzazione del terapeuta qui non riguarda certo i rapporti umani. La specializzazione è l’interiorità e le realtà psichiche che stanno al di là del corpo e della mente visti nel loro ristretto senso umano. La terapia dell’anima allontana necessariamente dalla vita personale con le persone. Nella psicologia politeistica greca l’individuo, uomo o donna, situava il personale in prospettiva attraverso il culto, l’iniziazione e il sacrificio, o attraverso le attività della vita pubblica, o la catarsi della tragedia, o la mania erotica e la sua disciplina, o attraverso la vittoria sull’ignoranza e sull’opinione del personale con la ragione e la dialettica – ma mai, mai il rapporto umano era fine a se stesso. L’intimità tra le persone nell’ambiente ristretto della vita greca, persino il rilievo dato all’amore e all’amicizia in Platone e in Aristotele, non sono mai fine a se stessi. L’uomo e il suo amore non potevano salvare, perché l’uomo non era divino. L’uomo non era diventato il Grande Dio, fronte e centro, forse perché Dio non era diventato uomo. Inoltre, come scrive Dodds: 32

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«Aristotele nega che possa esistere philia tra uomo e Dio, la disparità essendo tra loro troppo grande; e… uno dei suoi allievi osserva che sarebbe stravagante (atopon) per

chiunque affermare di amare Zeus. La Grecia classica non aveva anzi parole che indicassero una tale emozione: philotheos [amore di Dio] fa la sua prima apparizione alla fine del quarto secolo e rimane una rarità negli autori pagani». 35

A questo possiamo aggiungere alcune osservazioni di W. Otto: «l’immagine della divinità allontana l’uomo dal personale» e accentua la «superiorità dell’essenziale sul personale». L’inumanità degli Dei greci «deve sempre essere una delusione per le anime desiose d’amore che vorrebbero essere intimamente legate» a una persona divina. In questa prospettiva il compito dell’uomo era quello di portare l’anima, attraverso una reale conoscenza, più vicino agli Dei, i quali non sono umani ma alla cui inumanità l’anima è intrinsecamente e primordialmente legata. Trascurare o dimenticare queste potenze – credere che la propria vita appartenga a se stessi, o che i propri sentimenti siano personali, o che i rapporti personali da soli possano dare comunità, e sostituire i rapporti con gli Dei – significava la perdita dell’umanità. L’umano era impensabile senza il suo sfondo inumano. Esser tagliati fuori dalla realtà archetipica personificata significava un’anima amputata. L’umanesimo greco riflette questo politeismo pagano. Per la psicologia, questo paganesimo politeistico significa una psiche disumanizzata, consapevole soprattutto dei limiti umani, dove conoscere me stesso significa riconoscere che essi, il «piccolo popolo» della mia psiche, sono nello stesso tempo i megaloi theoi, i Grandi. È la loro partecipazione ai complessi dell’anima che conferisce a complessi banali il loro potere, consentendogli di porre dei limiti al «me» e nello stesso tempo di ampliare la sfera della psiche, affinché questa possa riflettere l’immenso universo mitico dell’immaginazione politeistica. 36

VERSO UNA PSICOLOGIA DEL RINASCIMENTO

Qui, dove la psicologia del fare anima si protende per unirsi all’immaginazione politeistica, i principali temi di questo libro convengono in un punto critico. Il luogo del loro convergere è il Rinascimento, e lì ci troviamo anche nel cuore dell’umanesimo, perché proprio al Rinascimento guardano tutte le discipline umanistiche per trovarvi il loro moderno luogo d’origine e d’ispirazione. Poiché il nostro proposito di disumanizzare nasconde il tentativo di riumanizzare in un altro e più classico senso di «umano», diventa necessaria, per l’importanza che ebbe in essa il termine «umano», una esplorazione della psicologia del Rinascimento. Questo richiede tuttavia che si comprenda che cosa intendano tali discipline con questo termine. Quanto alla prima domanda, la si evita da secoli. Come fu possibile questa fioritura di arte, di letteratura, di musica, di politica, di scienza, di scoperte – questa nuova visione dell’uomo e del mondo, a cui ancor oggi guardiamo per trovarvi le nostre fonti e i nostri modelli – come fu psicologicamente possibile questo rinascimento? L’epoca è stata indagata a fondo per ciò che riguarda la storia economica e politica e quella dell’arte e della scienza, ma non esiste a tutt’oggi nessuno studio intitolato La psicologia del Rinascimento. Anzi, la parola «psicologia» appare assai raramente quando si discute di Rinascimento. Eppure, finché non entreremo in contatto con la psiche del Rinascimento, non potremo scendere oltre la superficie. Dobbiamo chiederci quale fermento interiore rese possibile una tale ripresa di vita in un così gran numero di campi. Io ritengo che la psicologia sia assente dagli studi sul Rinascimento perché essa è il loro stesso contenuto, il latente fondamento inconscio sul quale è stato edificato tutto il resto. Ritengo anche che se riuscissimo a conoscere meglio la psicologia del Rinascimento, potremmo trovare sia il fondamento sia l’ispirazione per un rinascimento della psicologia. Se esista o no «il Rinascimento» e, posto che esista, che cosa significhi, quando ebbe inizio e perché, sono tutti 37

problemi al centro di accesi dibattiti fra gli studiosi, i quali sembrano voler riprodurre tra di loro le guerre rinascimentali tra minuscoli principati. In termini psicologici non potrebbe essere diversamente, giacché la parola stessa che indica quel periodo appartiene anche alla psicologia e non solo alla storia. A differenza di altri nomi di epoche storiche (classica, moderna, medievale, normanna); «rinascimento» tocca l’anima nella sua fantasia di rinascita, attorno alla quale si costella sempre una grande quantità di passione e di simbolismo. L’idea del Rinascimento è una fantasia con radici archetipiche nella psiche. Essa è presente nel linguaggio prima delle moderne ricerche di Burckhardt e prima ancora della stessa Italia del Trecento. Non è l’invenzione d’uno storico: Rinascimento è una parola usata proprio dalla gente di quell’epoca per parlare di se stessa, così come noi usiamo rinascita. Un secondo interrogativo fondamentale per l’esplorazione della psicologia rinascimentale è: che cosa intendeva il Rinascimento per «humanitas». A prima vista il suo significato sembra piuttosto circoscritto: semplicemente studia humanitatis, lo studio della letteratura del passato, le opere degli scrittori classici che erano rimasti a lungo trascurati per via della concentrazione della chiesa sulla teologia aristotelica. Gli umanisti italiani (come li chiamiamo ora), specialmente i fiorentini, amavano la poesia classica, i trattati morali, la storia e le biografie e la filosofia platonica. Ma se psicologizziamo il loro amore, vediamo che dentro gli argomenti manifesti c’era un latente e possente contenuto psicologico: i miti pagani. Apparentemente, essi studiavano la retorica, lo stile e il materiale della lingua. Ma fin dai primi inizi in Petrarca il contenuto intimo di quei materiali erano le persone e le idee mitiche provenienti da un mondo politeistico pre-cristiano. La humanitas rinascimentale nasce tra lettori e scrittori come sollecito interesse per i contenuti dell’immaginazione intellettuale. Questa humanitas era anzi un esercizio dell’immaginazione, un’esplorazione e una disciplina 38

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dell’immaginale, attraverso la scienza, la magia, lo studio, l’amore, l’arte o i viaggi. Essa cercava lo sviluppo della mente immaginativa e il suo potere di comprensione immaginativa, che la distinguevano sia dallo spirito teologico della filosofia ecclesiastica sia dall’emotività degli ordini religiosi mendicanti e monastici. Sentimenti, compassione, philanthropia, rapporti personali (nel nostro senso moderno) occupavano naturalmente un posto importante nei loro interessi, ma non erano la loro fonte primaria di ispirazione, come invece lo erano le parole e le immagini. I regni del sentimento e della caritas erano già stati ampiamente sviluppati in contesti cristiani, e perciò la nuova humanitas non significava solidarietà umana. Né la humanitas rinascimentale significa «umanesimo», termine coniato nel 1808 da un maestro di scuola tedesco. Poiché le parole portano con sé l’aura delle loro origini, il nostro «umanesimo» diffonde tuttora questo sentimento pedagogico e romantico di un mondo mediterraneo e classico dal quale è sempre stato lontanissimo. La «cura dell’anima del Rinascimento cercava i suoi modelli e le sue intuizioni illuminatrici dell’anima non tanto nel contesto sociale e nelle esperienze umane, quanto negli archetipi dell’immaginazione che si celavano sotto altre spoglie nei testi antichi. Fin dall’inizio, e sempre in Petrarca, lo studio rinascimentale degli scrittori antichi fu considerato «cura dell’anima». Esso era, perciò, una psicoterapia. Petrarca è stato considerato il primo uomo moderno, il che forse significa il primo uomo psicologico. In questa psicologia, il fare anima è indissolubilmente legato alla ricerca di un mondo immaginale rappresentato dalla fantasia dell’antichità. Queste due cose – anima e antichità – erano i suoi interessi più vivi. Era come se il mondo del passato fosse per lui lo spazio immaginale sul quale egli edificò la propria vita interiore. Persino la sua meticolosa erudizione e la sua passione per lo stile nascevano dall’amore per l’anima. La giusta espressione e la giusta psiche erano una sola cosa: 42

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«Né il discorso può avere dignità, se l’animo non la possiede». Il suo interesse per l’uomo derivava dal suo interesse per l’anima. La psiche, non l’«umanesimo», veniva per prima. Così, anche il suo amore per Laura, durato tutta la vita, fu quasi completamente immaginario – egli l’aveva vista una volta quando essa era ancora una fanciulla, da lontano. Era amore per una figura immaginale, una vera devozione all’anima. Perché non letteralizzata in un amore concreto, questa immagine vivificò la sua intera vita e i suoi numerosi e profondi rapporti umani. 45

Digressione sugli inizi del Rinascimento (aprile 1336) Petrarca ha per noi una importanza fondamentale. La confusione di psiche e umano, che questo capitolo si propone espressamente di eliminare, ha inizio in quel simbolico momento in cui «ha inizio» il Rinascimento stesso, cioè la discesa di Petrarca dal Mont Ventoux (aprile 1336, quando egli non aveva ancora trentadue anni). Sulla cima del monte, con lo stupendo panorama della Provenza, delle Alpi e del Mediterraneo che gli si apriva davanti, egli aveva aperto il suo volumetto delle Confessioni di sant’Agostino. Sfogliando a caso fino al libro X, capitolo 8, lesse: «E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’Oceano, il corso degli astri, e non pensano a se stessi…». Petrarca rimase attonito di fronte alla coincidenza tra le parole di Agostino e il tempo e il luogo in cui esse venivano lette. La sua emozione annunziava la rivelazione della sua vocazione personale e, nello stesso tempo, era araldo del nuovo atteggiamento del Rinascimento. Allorché, poco tempo dopo, egli scrisse un resoconto di questa esperienza disse che gli uomini trascurano se stessi (relinquunt seipsos). E anche nel suo Secretum, scritto più tardi, il personaggio di Agostino parla dell’inutilità di conoscere 46

tutte le cose se si rimane ignoranti di se stessi. Petrarca ricava questa cruciale conclusione da ciò che accade sul Mont Ventoux: «Niente è degno d’ammirazione fuorché l’anima» (nichil preter animum esse mirabile), Il volgersi verso l’interno di Petrarca fu il simbolico inizio non solo del Rinascimento, ma anche della fantasia interpretativa del Rinascimento. Commentatori e traduttori interpretano l’«anima» e il «sé» dei suoi scritti come «l’uomo»; per essi, l’episodio del Mont Ventoux sta a indicare il ritorno dal mondo di Dio o dalla natura all’uomo. Ed è qui che ha inizio l’errore umanistico. È essenziale tenere bene a mente questo fatto. Se guardiamo di nuovo il passo che Petrarca stava leggendo e che tanto lo sconvolse, scopriamo che Agostino stava discutendo della memoria. Il capitolo 8 del libro X delle Confessioni è importante per l’arte della memoria. Esso tratta della facoltà immaginativa dell’anima. 47

«Grande è questa virtù della memoria [immaginazione], o mio Dio, grande assai, ricettacolo di ampiezza illimitata: e chi potrebbe toccarne il fondo? È una forza del mio spirito, fa parte della mia natura, ma neppure io riesco a contenere tutto quello che sono. O che l’animo è troppo ristretto per contenere se stesso?». 48

Queste parole vengono subito prima del passo che Petrarca lesse sul monte. In esse Agostino affronta i problemi classici, enunciati da Eraclito per primo circa l’insondabile profondità dell’anima, il luogo, la grandezza, la proprietà e l’origine delle immagini della memoria (l’inconscio archetipico, se si preferisce). Fu la meraviglia di questo corso di pensieri che impressionò Petrarca, la meraviglia della personalità interiore, che è, a un tempo, interna all’uomo e molto più grande dell’uomo. Inoltre, questa personalità interiore, soggetta al controllo del ricordare, può, come dice Agostino, estrarre e allontanare le immagini «con la mano del cuore» – e tuttavia io posso 49

penetrare in essa come in una stanza sconfinata e perfino incontrare me stesso come immagine tra le altre. Il dilemma di Agostino era il rapporto paradossale tra uomo e anima. La rivelazione del Mont Ventoux aprì gli occhi a Petrarca sulla complessità e sul mistero del rapporto uomopsiche e lo mosse a scrivere delle meraviglie dell’anima, non delle meraviglie dell’uomo. Il nostro capitolo prosegue nella tradizione di Petrarca e accetta la natura del paradosso che afferma insieme due fattori come simili e tuttavia distinti, in tensione tra loro. C’è un me e una memoria; questa regione psichica è in me e in pari tempo io sono in essa. C’è l’uomo e c’è l’anima, e i due termini non sono identici, sebbene siano internamente e intrinsecamente connessi. Accanto a loro, separato, c’è il mondo esterno della natura. Agostino e Petrarca parlano di tre termini distinti: uomo, natura e anima. L’uomo può volgersi all’esterno verso le montagne e le pianure e i mari o all’interno verso le immagini a loro corrispondenti, ma né quelle là fuori né quelle dentro di me sono mie, o sono umane. La psicologia del Rinascimento incomincia con la rivelazione dell’indipendente realtà dell’anima – la rivelazione a Petrarca sul Mont Ventoux della realtà psichica. Le montagne fisiche non erano sue in virtù del fatto che egli le vedeva; le immagini interne delle montagne non erano sue in virtù del fatto che egli le immaginava. Gli eventi immaginali possiedono la medesima validità oggettiva degli eventi della natura. Né gli uni né gli altri appartengono all’uomo; né gli uni né gli altri sono umani. L’anima non è mia; esiste una psiche oggettiva, non umana. L’errore umanistico, in cui cade la maggior parte degli interpreti del Rinascimento, mancando di una psicologia più consona, continua a identificare sia gli eventi immaginali sia l’«anima» e il «sé» di Petrarca con «l’uomo». Esso non può accogliere il paradosso agostiniano che vede la psiche e l’umano come due fattori l’uno «dentro» l’altro in virtù dell’immaginazione. Per questo all’errore umanistico sfugge il vero senso di ciò che scrisse Petrarca: ciò che è mirabile è 50

l’Anima. Non è il ritorno dalla natura all’uomo che mette in moto il Rinascimento, ma il ritorno all’anima. L’esperienza di Petrarca è chiamata l’Ascesa al Mont Ventoux. Ma l’evento cruciale è la discesa, il ritorno nella valle dell’anima. Egli rifiutò deliberatamente il sentiero spirituale (rappresentato per lui da Sant’Agostino), e rimase fedele al suo attaccamento allo scrivere, all’immagine di Laura e alla propria reputazione tra gli uomini – incapace «di innalzare», com’egli dice, «le parti inferiori della mia anima». Questo va a ulteriore conferma, io credo, della nostra ricostruzione della psicologia del passo, dell’esperienza di Petrarca sul monte e della metafora che sta alle radici del Rinascimento. IL NEOPLATONISMO RINASCIMENTALE E LA PSICOLOGIA ARCHETIPICA

Sovente nel corso di una analisi terapeutica si verifica una rivoluzione dell’esperienza. Si riscopre l’anima, e con essa si riscoprono l’umanità, la natura e il mondo. Si comincia a vedere tutte le cose psicologicamente, dal punto di vista dell’anima, e il mondo sembra recare una luce interiore. La libertà dell’anima di immaginare diviene allora preminente, mentre tutte le precedenti suddivisioni della vita e aree di pensiero perdono le loro rigide strutture categoriali. Politica, denaro, religione, gusti e rapporti personali, non sono più divisi gli uni dagli altri in compartimenti separati: ora sono aree del riflettere psicologico; la psiche è dovunque. Questa rivoluzione dell’esperienza si verificò su larga scala durante il Rinascimento e trovò la propria espressione nella filosofia del neoplatonismo; fu un «panpsichismo», la psiche era ovunque. Vi sono sorprendenti somiglianze tra i principali temi del neoplatonismo e quelli della psicologia archetipica. La più importante è la somiglianza tra i rispettivi stili di attività fantastica. Ciò è ovviamente dovuto in parte al fatto che il neoplatonismo tradizionale ha 51

influenzato la psicologia archetipica, e in parte al fatto che noi interpretiamo il neoplatonismo alla luce del nostro bisogno d’un retroterra tradizionale. Ma in massima parte le coincidenze tra neoplatonismo rinascimentale e psicologia archetipica hanno un punto di partenza comune: l’anima. Il neoplatonismo definisce «l’essenza dell’uomo nel concetto dell’anima inteso come qualcosa di concreto e sostanziale…». Questo insieme di idee risponde appieno al desiderio vivissimo di un’«anima che abbia peso e sostanza», il grido con cui si è aperto questo capitolo. Esso è sottile, complesso e ambiguo, un composto di pensiero, sentimento erotico e immaginazione. È più mitico ed esortativo che non espositivo e discorsivo; preferisce la persuasione retorica alla dimostrazione logica, preferisce essere evocativo e visionario più che esplicativo. Il neoplatonismo aborriva l’esteriorità, l’errore letteralistico e naturalistico. Esso cercava di vedere in trasparenza significati letterali fino a giungere a significati occulti, andava in cerca della profondità esplorando il perduto, il nascosto, il sepolto (testi, parole, avanzi dell’antichità). Gioiva delle giustapposizioni sorprendenti e dei rovesciamenti di idee, giacché vedeva l’anima in perpetuo movimento, senza posizioni definite, un concetto al limite tra spirito e materia. In pari tempo, questa filosofia restava vicina all’alienazione, alla tristezza, alla consapevolezza della morte, senza mai negare la depressione o separare la melanconia dall’amore e l’amore dall’intellezione. Si disinteressava spesso sdegnosamente della scienza e della teologia contemporanee, convinta che sia l’evidenza empirica sia i sillogismi scolastici avessero un rapporto solo indiretto con l’anima. Riconosceva invece la posizione esemplare, nella coscienza umana, dell’immaginazione, che considerava l’attività primaria dell’anima. Perciò, ogni psicologia che sceglie come sua meta l’anima deve parlare in termini immaginativi. Si richiamava frequentemente alle figure mitiche greche e 52

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romane, non come allegorie, ma come modi di riflessione. I neoplatonici rinascimentali evocavano nelle loro immagini personificate anche i pensatori antichi. I grandi uomini del passato erano per loro realtà viventi, perché personificavano il bisogno dell’anima di avere degli antenati spirituali, dei tipi ideali, delle guide e mentori interiori capaci di condividere la nostra vita e di ispirarla a trascendere i nostri limiti personali. Era allora pratica diffusa di intrattenere colloqui immaginativi con personaggi dell’antichità. Petrarca scrisse lunghe lettere ai suoi familiari interiori, Livio, Virgilio, Seneca, Cicerone, Orazio, e mandò saluti a Omero e a Esiodo. Erasmo pregava il divino Socrate. Ficino fondò un’accademia simile a quella di Atene e in onore del compleanno di Platone, che si presumeva cadesse il 7 novembre, organizzava una rappresentazione drammatica del Simposio. Machiavelli cercava conforto nella compagnia di antichi eroi, poeti e figure leggendarie quali Mosè, Romolo e Teseo. E scriveva: «Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; e in su l’uscio mi spoglio quella vesta cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli della ragione delle loro actioni, e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro». 56

Oggi, le abitudini di fine giornata di Machiavelli verrebbero forse giudicate bisognose di assistenza psichiatrica; allora, egli aveva dalla sua la psicologia neoplatonica. Non era solo il neoplatonismo a dare spazio all’immaginazione nell’uomo e nella sua psicologia: il Rinascimento in generale riconosceva il diritto

dell’immaginazione a un proprio spazio, a un regno per le sue visioni, come le «antique corti degli antiqui huomini» di Machiavelli. Il luogo dell’immaginazione poteva essere il cielo notturno degli astronomi o degli astrologi rinascimentali, oppure i continenti geografici degli esploratori. Poteva anche essere la gigantesca costruzione mitologica dei mondi di Dante, i complicati fornelli e recipienti dei laboratori degli alchimisti, il teatro della memoria di Giulio Camillo, oppure il passato immaginale dell’antichità greca e romana. L’immaginazione deve disporre di spazio per uno svolgimento differenziato. Questa insondabile profondità d’anima o sterminata caverna di immagini, come la chiamò Agostino, o «oscura fossa», secondo le parole di Hegel, deve avere un contenitore. Anche noi oggi, se vogliamo restituire l’immaginazione al suo pieno significato, abbiamo bisogno d’una specie di enorme stanza che funzioni da suo «realistico» contenitore. Per noi, è il Rinascimento stesso a offrirci un siffatto magnifico teatro per l’anima immaginale. Accostandoci ad esso, sia come periodo storico trascorso e lontano, sia come storia che parla della psiche del nostro presente, noi lo abbracciamo più o meno allo stesso modo in cui gli uomini del Rinascimento abbracciavano la storia antica. Nei loro studi anch’essi vivevano una metafora: il mito dell’antichità classica. Anch’essi erano in un mondo trascorso… e presente, lontano… e vicino. Questo mito dell’antichità classica in cui era situato il mondo immaginale degli archetipi consentiva di costruire una vita «presente» su dei modelli archetipici posti nel «passato». Non era la storia come tale che dava sostegno alla loro vita presente, giacché la loro consapevolezza della storia e il loro interesse per l’archeologia – per il mondo classico della civiltà romana tra le cui rovine concrete essi vivevano – furono all’inizio del tutto insignificanti. Era invece una fantasia della storia, nella quale erano modelli veri di persone, di luoghi e di stili. La storia offrì all’immaginazione rinascimentale uno spazio 57

in cui situare le strutture archetipiche – le diede una struttura entro cui fantasticare. Il contenitore filosofico della loro metafora fu, come abbiamo visto, il neoplatonismo, secondo il quale, tra l’altro, i loro testi erano insegnamenti d’un Dio o d’un saggio, Ermes, «più antico» – e perciò anteriore e più puro – di Platone e forse anche della Bibbia. Offrendo alle fantasie della psiche una psicologia di grande profondità culturale e ampiezza intellettuale, il neoplatonismo rinascimentale dava modo all’anima di accogliere tutte le sue figure e le sue forme e incoraggiava l’individuo a partecipare alla feconda natura dell’anima e ad esprimere l’anima in una insuperata fioritura di attività culturale. Ecco dunque una prima risposta all’interrogativo essenziale: come fu possibile il Rinascimento? Fu possibile perché la nuova vita vissuta nell’Italia settentrionale nel corso del quindicesimo secolo nasceva dalla riscoperta della psiche immaginale; le scoperte sull’uomo, la natura, l’arte e il pensiero derivano dalla rinascita dell’anima così come venne formulata dal neoplatonismo. 58

MARSILIO FICINO, PATRONO RINASCIMENTALE DELLA PSICOLOGIA ARCHETIPICA

Il neoplatonismo rinascimentale è in gran misura opera d’un uomo: Marsilio Ficino, insegnante e traduttore, gobbo, melanconico e senza amore, vissuto a Firenze, tuttora una delle più misconosciute tra le personalità che determinarono il corso delle idee occidentali. Un’indagine sulle ragioni della sua importanza e della sua scarsissima fama ci aiuterà forse a conoscere meglio la psicologia del Rinascimento. Ogni sistema psicologico si fonda su una metapsicologia, su un insieme di assunti impliciti circa la natura dell’anima. Ai behavioristi occorre la teoria associazionista della mente, che va dalla sua prima elaborazione in Aristotele a Locke e di lì fino all’attuale teoria dell’informazione; gli junghiani si fondano su Kant e sulla tradizionale concezione protestante 59

di un inconoscibile trascendente, i freudiani su una metapsicologia derivata dagli assunti ottocenteschi sulla scienza, la materia e l’evoluzione. La metapsicologia rinascimentale, cioè il neoplatonismo, era basata in gran parte sulle traduzioni e sulle rielaborazioni fatte da Ficino degli scritti di Platone, di Plotino, di Proclo e di altri autori neoplatonici in lingua greca. Ficino stesso osservò le somiglianze che accomunavano la sua ripresa del platonismo con «la rinascita della grammatica, della poesia, della retorica, della pittura, scultura, architettura, musica e astronomia avvenuta nel suo secolo». Fare di Ficino la sola fonte della rinascita del Quattrocento sarebbe senz’altro eccessivo, ma non v’è dubbio che a lui vada attribuita la formulazione della sua idea centrale. Quest’idea era l’anima, la quale, per Ficino «congiunge tutte le cose, è il centro della natura, il termine medio di tutte le cose». La psiche, e non l’uomo, era centro e misura. «Il fascino dell’opera ficiniana è proprio qui: nell’invito a guardare al di là della superficie opaca del reale… nel vedere… non il corpo ma l’anima… Come… solo chi vede quest’anima vede l’uomo, così tutte le cose hanno una loro verità, ed è l’anima loro, siano esse piante o sassi, o stelle in cielo». «Perciò il filosofare ficiniano è tutto e solo un invito a vedere con gli occhi dell’anima l’anima delle cose… una spinta a tuffarsi nelle profondità della propria anima perché nella luce interiore tutto il mondo si faccia più chiaro». La sollecitazione di Ficino a vedere psicologicamente è una vera e propria rivoluzione in filosofia. La centralità dell’anima fa sì che ogni pensiero abbia un’implicazione psicologica e che tutto abbia il proprio fondamento sull’anima. Noi pensiamo nel modo in cui le nostre anime ci inducono a pensare, talché la filosofia diviene un riflesso di quello che avviene nell’anima e un modo di operare sul suo destino. Come «le esperienze umane conducono a certe conclusioni filosofiche», così le conclusioni filosofiche conducono a certe esperienze umane. La filosofia è 60

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un’attività psicologica. Perciò, il fondamento dell’educazione filosofica diviene una rieducazione all’anima. Questo, agli occhi di Ficino, è una sorta di controeducazione, ovvero «l’introspezione d’una esperienza interiore che insegna l’esistenza indipendente del funzionamento psichico ». Gli eventi sono connessi prima d’ogni altra cosa all’anima, e non alla teologia di Dio, alla scienza della natura o alle discipline umanistiche della lingua, della poesia e della storia. Domandarsi quale relazione un dato evento abbia con l’anima significa vedere in trasparenza e interiorizzare: ecco perché il pensiero di Ficino è stato chiamato una «filosofia dell’immanenza». Esso è anche una forma di psicologizzazione. Ma ancor più precisamente possiamo dire che la controeducazione ficiniana è propriamente una psicoterapia, giacché è rivolta all’anima. L’immanenza dell’anima in tutti gli oggetti e i campi di studio dissolve i confini tra le facoltà e ne deletteralizza i contenuti. Quando ci rivolgiamo alla psicologia di una filosofia, di una teologia o di una scienza, cessiamo di studiare quel campo in modo letterale, perché questa attività psicologica ci insegna a uscire dal contenuto e dalla nozione letterale di campi e dipartimenti separati. Per questo motivo il metodo della psicologizzazione rappresenta una minaccia soprattutto per la rigida strutturazione d’un campo che guardi al proprio corpus di conoscenze come a una verità dottrinale. Il «trionfo della decompartimentalizzazione» di Ficino si scontrò con ogni sorta di interessi corporativi della scienza, della tradizionale filosofia accademica e della religione. Il neoplatonismo rendeva pericolosamente relativa la superiorità assoluta della rivelazione cristiana, che, a causa della psicologia neoplatonica, diventava una prospettiva tra molte altre. In termini storici, il metodo del pensiero ficiniano, con la sua straordinaria influenza, e l’Accademia platonica ficiniana a Firenze possono essere meglio immaginati come una sorta di movimento sotterraneo, clandestino, creato in un breve 65

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periodo di tempo da un piccolo gruppo di conversatori e scrittori che vivevano in stretta prossimità geografica e che conservavano una parvenza di rapporto con le vicissitudini della vita politica che si svolgeva intorno a loro. Le dottrine della Chiesa, fatta eccezione per una momentanea capitolazione, e l’indottrinamento dell’educazione, eccettuati alcuni nuovi testi e nuove traduzioni, furono scarsamente influenzati dalle attività di Ficino. Le ufficiali ortodossie aristoteliche dell’educazione psicologica continuarono a funzionare come prima, così come avviene oggi per le ortodossie psicologiche, incapaci di incorporare nelle strutture accademiche il punto di vista che situa la psiche in posizione primaria. Nondimeno, come ha scritto Eugenio Garin, dopo Ficino non c’è testo di pensiero in cui non si trovi, diretta o indiretta, traccia della sua attività». Le sue idee si diffusero per tutta l’Europa rinascimentale come un vero e proprio movimento. Questo movimento quattrocentesco, alimentato da un ristretto cenacolo formatosi attorno a un uomo e coltivato in discussioni, corrispondenze epistolari e lavoro durissimo a dispetto della depressione e dei pensieri di morte, il suo contenuto rivoluzionario e l’impatto che ebbe sull’anima delle generazioni successive, è in tutto assai simile alla psicoanalisi del nostro secolo. Ed è proprio qui che sta l’importanza di Ficino: egli fu un Medico dell’Anima, definizione che egli stesso usò per Platone e che si dice gli abbia predetto come vocazione il suo protettore Cosimo de’ Medici quando, durante il loro primo incontro, dichiarò che se il padre del giovane Marsilio era medico del corpo, lui avrebbe curato e guarito l’anima. Ed è proprio nella sua qualità di Medico dell’Anima che Ficino è misconosciuto; perché nel suo senso più profondo il suo pensiero è una psicologia del profondo, sia per la sua costruzione di un punto di vista sistematico per comprendere l’anima, sia per la sua cura di questa attraverso rapporti con i princìpi archetipici personificati dai pianeti del pantheon pagano. Ficino scriveva non una filosofia, come si è sempre 68

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ritenuto, ma una psicologia arche tipica. La sua premessa e il suo interesse fondamentali erano l’anima, e perciò egli va letto dall’interno della sua stessa prospettiva, ossia psicologicamente. Fino ad allora l’anima era stata solo uno tra i tanti argomenti d’una grande summa, e l’anima soltanto una tessera nel grande mosaico dell’universo. Ma attraverso il neoplatonismo di Ficino, la psiche assurse all’onore di non esser più solo un oggetto di studio, ma il soggetto che studia. La psiche è un universo, e qualsiasi studio, come abbiamo già detto nel terzo capitolo, è in ultima istanza psicologia. LA PATOLOGIZZAZIONE RINASCIMENTALE

Il personaggio mitico forse più popolare nel Rinascimento fu Proteo. Il suo aspetto continuamente mutevole capace di assumere ogni forma o natura rappresentava la forma multipla e ambigua dell’anima. «Abbiamo visto» disse Pomponazzi «che la natura umana è multipla e ambigua», e questa natura «viene dalla forma dell’anima stessa». (Pomponazzi stesso amava l’ambiguità, al punto da far inscrivere sul suo medaglione personale una gloria duplex, la doppia immagine dell’aquila e dell’agnello). «l’anima può esser modellata su ogni varietà di forme… e da ogni cosa, senza distinzione, essa ricava il proprio vantaggio. Sogni ed errori sono per essa egualmente utili…» scrisse Montaigne. La proteiforme natura dell’uomo deriva dall’intrinseca polivalenza della psiche, che include il grottesco, il vizioso e il patologico. Ora, poiché un’immagine mitica è una presenza contenitrice, un mezzo per dare forma e significato alla fantasia e al comportamento, l’idea di Proteo poteva mantenere in relazione intrinseca i molti daimones dell’anima. Essa era simile ad un’altra immagine assai cara, quella di Fortuna, sulla cui grande ruota erano innumerevoli direzioni in ogni senso, alla cui molteplicità la Dea stessa conferiva coesione. Proteo e Fortuna erano esaltazioni del principio dei Molti. 74

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Perché le molteplicità dell’anima hanno bisogno di contenitori archetipici adeguati, altrimenti, come angeli caduti in un labirinto, esse vagano in piena anarchia. L’anarchia ha inizio quando perdiamo l’archetipo, quando diventiamo an-archetipici, privi di figure immaginative ove collocare gli aspetti assurdi, mostruosi e intollerabili della nostra proteiforme natura e della nostra fortuna. In Proteo e in Fortuna c’è posto per ogni cosa, non c’è forma e posizione che sia intrinsecamente inferiore o superiore, morale o immorale, giacché la ruota gira e l’ambiguità dell’anima significa che vizio e virtù non sono tra loro separabili più di quanto lo siano l’aquila e l’agnello. Accade assai sovente di trovare storici che parlano dell’immoralità del Rinascimento. In una immagine patologizzata degna dell’arte della memoria, Voltaire scrive: «questa cortesia scintillava in mezzo ai delitti; era una veste di seta e d’oro coperta di sangue». Una fantasia di decadenza e di degenerazione accompagna l’archetipo della renovatio: la rinascita si presenta insieme alla putrefazione. L’immaginazione della rinascita, la fantasia che sta avvenendo un Rinascimento, ha inizio nella rinascita dell’immaginazione, i cui agenti più forti sono nelle immagini patologizzate. Non sorprende perciò sentir dire da Northrop Frye che «gli scrittori del Rinascimento, quando parlano dell’immaginazione, si interessano soprattutto della sua patologia, dell’isteria e dell’allucinazione…». In termini statistici, i temi favoriti nell’arte erano la seduzione, lo stupro e l’ubriachezza. La patologizzazione era una metafora fondamentale alla condizione della vita, e offriva una base esistenziale di passione per la psicologia che senza di essa, come disse Nietzsche, diventa semplice introspezione o osservazione. Nietzsche disse anche che non possiamo parlare del Rinascimento se non riusciamo a re-immaginare l’intensa presenza in ciascun individuo dei sentimenti di sopravvivenza e di morte. I libri di storia traducono invariabilmente questa consapevolezza patologizzata in 79

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termini letterali: la peste nera, la malaria endemica, la sifilide improvvisamente comparsa a Napoli nel 1485, i pirati, i briganti e i mercenari, la minaccia rappresentata a Oriente dai turchi. Ma la patologizzazione era una parte essenziale della fantasia rinascimentale e compariva in ogni sorta di forme immaginarie, ad esempio nella ricerca paranoica di nuovi sistemi di difesa che portò alcune tra le migliori menti dell’epoca (Albrecht Dürer, Leonardo da Vinci) a occuparsi di cinte murarie e di artiglieria. C’erano gli intrighi politici, le trame di sospetti e le persecuzioni concrete, e soprattutto la paura delle streghe e l’inizio dell’Inquisizione (Malleus maleficarum, 1486). La depressione, di cui non possono certo essere incolpati la «durezza dei tempi» di cui soffre ogni epoca, o un tratto melanconico del carattere che ogni persona porta con sé, sembra seguire come un’ombra la vita di uomini del Rinascimento ricchi di successo e di creatività come Dürer, Savonarola, Machiavelli, Ficino, Leonardo e Michelangelo. Petrarca confessa nel suo Secretum che l’acedia depressiva lo torturava a volte per giorni e giorni gettandolo nell’oscurità infernale e nell’«odio e nel disprezzo per la condizione umana». Montaigne scrive: «Fin dalla tenera età, nulla ha occupato di più la mia mente delle immagini di morte». Per immaginare la psiche del Rinascimento dobbiamo fantasticare accoltellamenti per strada e avvelenamenti, assassinii durante la messa solenne, vendita di figlie, incesto, tortura, vendetta, sicari, estorsione, l’usura che s’accompagna alla magnificenza. Si studiava la discordia e si coltivavano i nemici, ritenuti necessari per la completa fenomenologia psichica dell’essere umano. Troviamo non meno numerosi esempi di inimicizia che di comportamento umano e di umanitarismo. Shakespeare ambientò molte delle sue scelleratezze in Italia, forse perché egli fu anche un realista sociale, un semplice cronista degli avvenimenti: il padre di Petrarca fu condannato al taglio d’una mano; Cesare da Castel Durante fu pugnalato a morte in San 83

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Pietro; Antonio Cincinello, che già aveva il padre e il nonno in carcere, fu fatto a pezzi in casa sua da una folla inferocita; Cola di Rienzo fu ucciso anche lui dalla folla inferocita; Peruzzi, l’architetto, fu avvelenato da un collega geloso; Dante fu minacciato di mutilazione e fuggì in esilio; Michelangelo lasciò precipitosamente Firenze temendo per la sua vita; Campanella fu imprigionato per eresia e Torrigiano venne condannato a morte per aver bestemmiato. Bruno e Savonarola furono arsi sul rogo, Cellini fu incarcerato per due volte, Galileo venne sottoposto a un minaccioso processo, e Tasso – ormai pazzo – fu rinchiuso in prigione. Papa Alessandro VI fece avvelenare tre cardinali. E per uscire dall’Italia, Cervantes perdette una mano in guerra e fu venduto come schiavo dai pirati, Camôes perdette un occhio, Valdés morì di peste. Giovanni Hus morì sul rogo, così come Serveto e il padre di Vives; Tommaso Moro fu decapitato, Colombo venne ricondotto in Spagna in catene, Zwingli fu trucidato in battaglia, Marlowe finì accoltellato in una rissa. La psicologizzazione non era una «mera fantasia», non era un metodo o un progetto di ricerca, ma una questione di sopravvivenza. Si doveva vedere in trasparenza nelle profondità d’ogni cosa e d’ogni persona, tenendo la propria morte e la propria anima sempre davanti agli occhi. Era un modo di vivere la vita. ADE, PERSEFONE E UNA PSICOLOGIA DELLA MORTE

In un mondo di tali oscure profondità, non sorprende trovare che Ade ha un ruolo significativo nella fantasia neoplatonica. In questa fantasia, il Dio nascosto (deus absconditus) che regna sul mondo infero della morte e oscura ogni esistenza vivente con l’interrogativo delle conseguenze finali, giunge anche a significare il Dio del nascosto, il significato infero nelle cose, le loro più profonde oscurità. Mondo infero, clandestinità, segretezza, occultamento e morte, nella chiusa stanza dei cospiratori o nell’interiorità psichica degli studiosi, riflettono l’invisibile 85

dio Ade. È su questo sfondo che dobbiamo situare anche quelle grandi preoccupazioni rinascimentali che erano la reputazione (fama), la nobiltà e la dignità. Esse assumono un ulteriore significato allorché se ne ha visione all’interno di una psicologia sempre memore della morte. Considerare la fama semplicemente come fama nel nostro senso romantico situa la psicologia del Rinascimento nell’io inflazionato della very important person o della stella del cinema. Ma quando è la morte a dare la prospettiva basilare, allora magnificenza, reputazione e nobiltà di stile sono tributi all’anima, parte di ciò che si può fare per essa nella breve ora che l’io trascorre in scena. Allora la fama si riferisce al valore durevole dell’anima e la psicologia può permettersi di trattare i grandi temi: la perfezione della grazia, la dignità dell’uomo, la nobiltà dei prìncipi. Con la morte sullo sfondo – e Ade è chiamato anche Plutone, Dovizia o Dispensatore di abbondanza – la magnificenza rinascimentale celebra la ricchezza, la meravigliosità, l’esotica alterità dell’anima e la vastità della sua immaginazione. Quanto è difficile per noi, con la nostra tradizione nordica, riunire in un solo pensiero l’anima, la fama e lo splendore! Com’è diventata verginalmente pura, slavata e spoglia la nostra idea di anima! Mi sia concesso a questo punto fare una pausa e ricordare che l’idea di rinascita si riferisce a un fenomeno interamente psichico, che non ha paralleli nella natura animale. Rinascimento è una potenzialità dell’anima, non della natura, ed è perciò un opus contra naturam, un movimento che va dalla natura all’anima. Questo movimento di rinascita dall’esistenza naturale all’esistenza psicologica esige un precedente o simultaneo morire. Le fantasie di rinascita si presentano assieme a fantasie di morte; Rinascimento e morte sono intrinsecamente legati. Gli studiosi hanno situato la fantasia di morte in certi periodi storici, ad esempio l’«autunno» del Medio Evo di Huizinga, riconoscendo così indirettamente che la morte è una parte integrante della

fantasia di rinascita, e che perciò la rinascenza appartiene archetipicamente ad Ade. È mio convincimento che noi fraintendiamo il Rinascimento vedendolo come un turbolento tributo a Dei dell’amore, della luce, della vita e della natura. Io credo che il Dio del Rinascimento e di tutte le rinascenze psicologiche sia Ade, il principio archetipico dell’aspetto più profondo dell’anima. Gli stessi umanisti del Rinascimento sentirono evidentemente il bisogno d’una fantasia di dolore e di catastrofe per poter contenere la rinascente energia da cui erano portati. Ficino non cessò mai di lamentare le sue sofferenze e la sua melanconia, e tuttavia questa «amara disperazione» fu la fonte della sua filosofia psicologica. Petrarca teneva bene a mente la «grande realtà che sovrasta la vita dell’uomo: la sua morte». Nondimeno questi umanisti, quanto più si concentravano sulla morte, tanto più pensavano, costruivano, scrivevano, dipingevano e cantavano. Questa costante attenzione alla morte ci offre un indizio per comprendere come mai l’umanesimo rinascimentale sentì il bisogno d’evocare le figure di Socrate e di Platone e di svalutare Aristotele. La definizione aristotelica dell’anima come vita del corpo naturale inseparabile dalla vita individuale non lascia sufficiente spazio per l’altro lato della vita, la morte, o per il rapporto della psiche con la morte. La tradizione poetica greca da Omero a Platone compreso concepiva la psiche innanzi tutto in rapporto alla morte, cioè in relazione con il mondo infero o l’aldilà. Quando l’anima è descritta solo in rapporto alla vita, e questa vita è identificata con le singole persone umane, non c’è altro modo di «disumanizzare» l’anima, di accostarsi alla psiche, che quello biologico e analitico preferito da Aristotele. La fantasia aristotelica domina la psicologia occidentale così come dominava la visione di Melantone; e lo fa ancor oggi ogni qualvolta la psicologia guarda gli eventi dell’anima con l’occhio della biologia e delle scienze organiche, oppure esige un approccio empirico.

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Bisogna assolutamente vedere in trasparenza l’«errore organico» aristotelico nei riguardi della psiche, o l’anima resterà imprigionata nell’ambito della vita, dove cura dell’anima significa solo venerazione per la vita e rispetto per gli esseri umani individuali nei quali l’anima è incarnata. È precisamente qui che l’aristotelismo non si cura di ciò che i platonici invece ricordano: la psiche è sì l’essenza dei corpi viventi, ma i corpi viventi sono anche corpi che muoiono. Insistendo sull’immortalità dell’anima i platonici insistono sulla dissociazione dell’anima dalla vita e sul suo aprioristico rapporto con la morte. Da questo punto di vista, la definizione aristotelica dell’anima può essere riformulata in termini più psicologici: l’anima è la realtà prima d’ogni corpo che porti dentro di sé la morte. L’anima rimanda a quella fantasia di morte operante, in innumerevoli modi, all’interno della posizione organica e naturale. Ci avviciniamo di più a un rinascimento psicologico, vuoi nella nostra vita individuale vuoi nel campo della psicologia, se rammentiamo che la psicologia rinascimentale non perdette mai il contatto con la disintegrazione e la morte. La reviviscenza emerge dalla minaccia portata alla sopravvivenza e non è la scelta di qualcosa di preferibile. La reviviscenza ci viene imposta dall’atroce patologizzazione delle necessità psichiche. Un rinascimento sbuca da dietro l’angolo, dalla peste nera e dai suoi ratti, dalle tenebre della morte presenti nell’ombra. Allora anche Amore diviene un Dio di morte, proprio com’era nella raffigurazione rinascimentale. A gambe incrociate, la torcia rivolta in basso, l’amore funerario era una delle figure predilette, insieme a Plutone-Ade che regge le chiavi del regno. Siamo ben lontani dall’ottimistico umanesimo della nostra psicologia nordica, col suo amore che eleva, i suoi peaks e le sue resurrezioni. Qui l’umanesimo rinascimentale condivide veramente la visione omerica dell’umano: brotos, thnetos. Ciò che è umano è anche fragile, soggetto alla morte. Essere umani significa non potersi sottrarre al ricordo della morte e avere 89

una prospettiva modellata sulla morte. Essere umani significa essere incentrati sull’anima, il che a sua volta vuoi dire essere incentrati sulla morte. O, in altre parole: essere incentrati sulla morte significa essere incentrati sull’anima. Questo perché il regno di Ade rimanda a una prospettiva archetipica che è interamente psicologica, in cui le esigenze della vita umana – le emozioni, i bisogni organici, i rapporti sociali della psicologia umanistica – non hanno alcun valore. Nel regno di Ade esiste solo psyché; tutti gli altri punti di vista svaniscono. La mitologia greca a riprova della prospettiva totalmente psicologica di Ade dice che egli non ha templi sulla superficie della terra e non riceve libagioni. È come dire che la prospettiva di Ade riguarda solo l’anima, solo ciò che accade «dopo la vita», cioè i riflessi, le immagini, le umbratili riflessioni fuori e al di sotto della vita. Qui la morte è il punto di vista «al di là» e «al di sotto» delle preoccupazioni della vita, è deletteralizzata, non più morte medica ed escatologia teologica di paradiso e inferno. La morte nell’anima non è vissuta come proiezione nel tempo, prorogata a un «al di là della vita»; essa è simultanea alla vita d’ogni giorno, così come Ade sta fianco a fianco con suo fratello Zeus. La ricchezza di Ade-Plutone si riferisce in termini psicologici alle ricchezze che vengono alla luce allorché si riconoscono le interiori profondità dell’immaginazione. Perché il mondo infero era concepito nella mitologia come un luogo popolato solo di immagini psichiche. Dalla prospettiva di Ade noi siamo le nostre immagini. La prospettiva immaginale assume priorità sulla prospettiva naturale organica. Se la psicologia dell’umanesimo segue Aristotele, identificando psiche con vita e la psicologia con lo studio della natura umana vivente, quella archetipica segue Platone e l’esame dell’anima in rapporto alla morte, la psicologizzazione del morire dalla vita. Ma non il nostro morire dalla vita o rinnegare la vita, non certo la morte letterale, bensì il movimento che porta ciascun evento fuori

dalle sue difensive identità con la vita. È un movimento che procede verso il basso e verso l’interno, una psicologizzazione che s’addentra sempre più nell’Ade, poiché è soltanto lì che la psiche trova «permanenza» e «riposo». E c’è una particolare gioia in questo. Perché col divenire l’anima un’indipendente realtà vivificata, una scopritrice e artefice d’immagini, anche la vita cessa di dover essere una vasta impresa difensiva contro le realtà psichiche, una maniacale propiziazione per tenere a bada Ade. In termini mitici, Persefone rappresenta questo movimento dell’anima (anima) dalla difesa contro Ade all’amore per lui. Ciascuno di noi attua Persefone nell’anima, fanciulla in un campo di narcisi o di papaveri, cullata e quasi assopita nell’innocenza e nei dolci agi fino a che all’improvviso ecco Ade che ci afferra e ci tira verso il basso, e la nostra intatta coscienza naturale è violata e aperta alla prospettiva della morte. Una volta che questo sia accaduto – attraverso una disperazione suicida, un improvviso arrestarsi di una facile carriera, un’invisibile depressione da cui cerchiamo invano di liberarci – allora nell’anima regna Persefone e noi vediamo la vita attraverso il suo occhio più scuro. Sembra proprio che sia necessario sottostare a un’esperienza di morte per riuscire ad abbandonare la nostra presa sulla vita e sui punti di vista del mondo umano e della sua psicologia aristotelica. Sembra proprio che non si possa riconoscere la piena realtà dell’anima fino a che non si è attaccati da Ade, fino a che invisibili forze del mondo infero inconscio non sopraffanno e catturano la nostra normalità. Solo allora, a quanto pare, noi riusciamo a distinguere la psiche dall’umano, sentendo con le viscere stesse del nostro essere che la psiche ha legami che sono ben lontani dalle preoccupazioni umane. Allora vediamo le preoccupazioni umane in modo diverso, cioè le vediamo psicologicamente. Il ratto di Persefone non avviene una sola volta nella vita. Poiché quest’esperienza d’anima, questo radicale mutamento nell’anima è un avvenimento mitico, esso è sempre in atto come modello basilare di psicodinamica.

Poiché questo mito è al centro del principale culto misterico greco di trasformazione psicologica, quello di Eleusi, la violenza di Ade sull’anima innocente è una necessità centrale per la trasformazione psichica. Noi proviamo questo sconvolgimento e la gioia che l’accompagna ogni volta che un evento viene repentinamente strappato via dalla vita umana e dal suo stato naturale e trasportato in una realtà più profonda e più immaginalmente «irreale». Fino a che Persefone non è stata rapita e stuprata, fino a che la nostra coscienza naturale non è stata patologizzata, le nostre anime ci proiettano come realtà letterali. Crediamo che vita umana e anima siano naturalmente una cosa sola. Non ci siamo ancora risvegliati alla morte. Cosicché rifiutiamo quella che è la metafora prima dell’esistenza umana: che noi non siamo reali. Rifiutiamo, anche, di ammettere che la realtà umana dipende interamente dalle realtà che accadono nell’anima. Sostenere che «noi non siamo reali» significa allentare la nostra presa su tutte le apparentemente irriducibili oggettivazioni della personalità umana, si tratti del corpo organico, della personalità umana o della consapevolezza soggettiva (Descartes), e avere coscienza di esse come fantasie della psiche. Sostenere che «noi non siamo reali» significa che la realtà delle persone e ogni atto della coscienza è il riflesso d’una immagine fantastica: perché queste sono i soli veri esistenti che non siano riducibili a qualcosa di diverso dalle loro immagini; solo esse sono quali appaiono letteralmente, solo le fantasie sono completamente, incontrovertibilmente reali. Rifiutando la natura fantastica della nostra vita, noi stessi come metafore e immagini fatte dall’anima, ci siamo rinchiusi in un perdurante e forzato letteralismo, reali noi, morti gli Dei. Rifiutando la fragilità del «come se» della nostra vita e negando che nella nostra essenza c’è un’invisibilità, come Ade, che è insieme unica prevedibile certezza e indefinibile per sé, noi situiamo gli Dei dentro di noi o crediamo di essere noi a inventarli come proiezioni di bisogni umani. Presumiamo che i bisogni umani siano i

letteralismi della biologia, dell’economia e della società, invece che la perpetua insistenza della psiche a immaginare. Il rifiuto di riconoscersi come «irreali» ci impedisce di psicologizzarci. Perché, se vedessimo in trasparenza, manderemmo in pezzi il letteralismo primario, l’illusione umanistica riguardo a ogni senso della realtà diverso da quello psichico. Invece, ci aggrappiamo agli errori naturalistici e umanistici – fatti, materialismo e storicismo evolutivo, empirismo, positivismo, personalismo – qualunque cosa pur di puntellare e rendere solida la nostra fragilità. La psicologia dell’umanesimo intravede questa irrealtà al centro stesso della nostra resistenza. Quando la psicologia umanistica parla in modo così deciso di autorealizzazione e autoconcretizzazione, essa dice, in effetti, che noi non siamo del tutto reali o concreti, che siamo ancora non fatti. Ma poi la psicologia dell’umanesimo non riesce a trattenere questa visione in ombra dell’uomo e lo esorta invece a farsi, a costruire col suo io o il suo sé una realtà capace di contrastare la sua fragilità. Essa volge le spalle ai miti che offrono un contesto significativo alla nostra irrealtà. Ignorando la natura mitica dell’anima e il suo eterno impulso a uscire dalla vita e a volgersi verso le immagini, la psicologia dell’umanesimo costruisce un uomo forte con un’anima fragile che trema nella valle del timore esistenziale. Quando non riconosciamo la nostra fragilità umana, è Persefone, immagine dell’anima, che deve portarla su di sé al nostro posto. Allora tocca a lei essere fragile e insostanziale. L’anima è allora un fantasma che non riusciamo mai ad afferrare, una figlia in eterna fuga e disperatamente sconvolta, sintomatica, al limitare del campo della coscienza, mai in grado di discendere nel luogo interno e infero della sua legittima ascesa al trono. Allora entriamo nel buio con paura, senza un’anima che abbia peso e sostanza. L’«ANIMA» NEL RINASCIMENTO

La psicologia del Rinascimento non finisce nella morte, lì essa ha solo il suo inizio. Da questa posizione viene il balzo nella vita e l’abbraccio di ombra e anima. Il pensiero continuo dell’ombra, il profondo senso del male, del dolore, della breve candela della vita, si univa, nella filosofia fiorentina, con la sua idea dominante: il benessere dell’anima. Che curioso matrimonio, che doppia verità straordinaria: inumanità e anima insieme! Può esservi un più acuto contrasto tra umano e psiche? La morale rinascimentale non divideva il fare anima dalla profonda inumanità e dai processi di patologizzazione presenti nell’anima stessa. Questa più profonda psicologia, in cui i primi motori erano il patologizzato e l’ombra inumana, venerava le immagini dell’anima con una passione feconda che siamo giunti a considerare unica nella storia. l’anima regnava nell’Italia rinascimentale. Essa appare in una superba varietà di personificazioni che evocano le emozioni dell’anima e, nello stesso tempo, presentano all’occhio immaginale l’anima incarnata. Le immagini vanno da quelle per noi familiari delle raffigurazioni rinascimentali di Maria, soprattutto come Vergine, alla dea Flora e alla sua gemella e contraria, la Vergine della Peste, spargitrice di veleno. Boccaccio scrisse un istruttivo compendio di femminismo usando come modelli le biografie di tutte le donne leggendarie del mito e della storia. Per Petrarca l’anima appare in Laura, per Dante in Beatrice, alle quali sono da aggiungere le meravigliose figure di Armida (pagana) in Tasso e di Angelica (che se ne va con i pagani) in Ariosto. E le deliziose divinità (pagane) che Botticelli dipinse «perché» come egli disse «esse non erano reali», e la passione d’anima delle liriche di Michelangelo. L’anima ispirò addirittura un movimento di massa: le strade d’Italia che scendevano verso Roma si affollarono di turisti-pellegrini che volevano vedere «Giulia, figlia di Claudio», la bellissima quindicenne scoperta nella primavera del 1485 durante alcuni scavi, che, sebbene morta da almeno

un millennio, si favoleggiava fosse fresca e leggiadra nelle labbra e nei capelli come una fanciulla vivente e, in quanto incarnazione tangibile dell’antichità, assai più bella di qualsiasi creatura viva. Lo zelo religioso riformatore di Savonarola a Firenze riconobbe il potere della fantasia dell’anima e tentò di cancellarlo col fuoco. Egli ordinò una grande pira funeraria a forma di piramide, una ripetizione del rogo di Giovanna d’Arco, ma ora sotto forma di emblemi dell’anima. La base di questo rogo spirituale era costituita da maschere e altri travestimenti carnevaleschi. Poi il frate vi accumulò sopra i manoscritti dei poeti, quindi i cosmetici, gli specchi, gli ornamenti e le parrucche delle dame e più in alto ancora liuti, arpe e carte da gioco. Sulla cima di questa torre fiammeggiante c’erano dipinti di bellezze femminili mitiche e reali e antiche sculture di teste femminili. L’ossessiva preoccupazione per l’amore e la bellezza, comprese le banalità e le oscenità che l’ossessione porta con sé, gli innumerevoli dialoghi sull’amore e la grande infiuenza del commento di Ficino al Simposio, diventano meglio comprensibili se osservati dalla prospettiva del fare anima, che avviene con la copulazione di anima ed eros. Perché allora noi non vedremmo queste ossessioni semplicemente come un effimero irrompere di frivolezze poetiche e di filosofia dilettantesca, o come pornografia rinascimentale. Sono cose che tutti noi facciamo. Sono intrinseche al movimento dell’anima, sono l’attività dell’anima che ricerca l’eros. Se vogliamo trovare il corollario di ciò, se vogliamo trovare un eros con anima, un erotismo psicologico che è stato giustamente chiamato platonico, possiamo rivolgerci a questi scritti e a questi dipinti. Questo stile di dialoghi d’amore e questa ossessione per la bellezza sono ormai cose del passato. Noi soffriamo invece della divisione tra eros e psiche, di un erotismo senz’anima, di un’anima non amata e desessualizzata. Poiché «la sola fondamentale scienza umana del Rinascimento era la conoscenza dell’anima», è 90

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comprendibile che il pensiero rinascimentale sia rimasto a lungo ignorato come filosofia, e anzi disprezzato perché ritenuto dispersivo, asistematico e retorico. Il suo pensiero non è filosofia ma psicologia, esso è radicato non nell’intelletto ma nell’immaginazione. È pensare anima – pensiero che riflette l’anima. Il suo scopo era il fare anima; di qui la sua concentrazione sul regno dell’anima: trattati sull’amore, sulla bellezza, sul mito, sulle macchinazioni politiche, sullo stile di vita, le belle maniere e l’espressione estetica e, in seguito, sulla musica, oltre ad opere quali la filosofia di Ficino che si occupa specificamente dell’anima. L’interesse per la prospettiva, e forse per la polifonia in musica, può anche essere collegato con la sua psicologia dell’ambiguità, nata dalla gloria duplex – avere più d’un punto di vista, veder dietro e in trasparenza, e udire le molte voci dell’anima. 93

Digressione sulla prospettiva in pittura e sulla polifonia in musica Ancora una volta, dobbiamo porci la medesima domanda: che cosa rese possibile la scoperta della prospettiva proprio in questo momento storico? Evidentemente, deve esserci stata una trasformazione della coscienza che consentì la nuova visione, la nuova capacità di vedere in modo diverso, più profondo, con ombra. Secondo alcuni, questo spostamento della visione è parallelo all’orientamento dell’occhio empirico rivolto alla natura; costoro stabiliscono un nesso diretto tra l’occhio osservatore che si stava sviluppando in quel tempo nelle scienze naturali e l’emergenza della prospettiva nell’arte. Essi citano il trattato sulla pittura dell’Alberti (1435-36) e sottolineano la sua fantasia matematica. Ma poiché sappiamo che il vedere non è indipendente dalle idee archetipiche della psiche, dobbiamo sempre portare la nostra analisi un passo più addentro, ed esaminare la prospettiva che determina la 94

prospettiva. Ritengo perciò che la nuova prospettiva della pittura rinascimentale nasca su uno sfondo psicologico. Alludo, cioè, ad una nuova e più complessa coscienza insita nella psiche stessa, che si riflette all’esterno nel modo di dipingere e di costruire la sua immagine del mondo. Questa nuova e complessa coscienza richiede una doppia verità nello spazio (gloria duplex), così come la prospettiva richiede una focalizzazione dei due occhi. Il secondo punto di vista» che approfondì la visione rinascimentale era quello dell’antichità classica – pagana, politeistica, neoplatonica. Esso offrì un’altra angolazione da cui vedere tutte le cose del mondo presente. La conquista rinascimentale della prospettiva spaziale riflette perciò i temi principali di questo capitolo: (a) la dimensione di profondità dell’anima, che stava entrando nelle strutture soggettive della coscienza; (b) un nuovo rapporto con l’immagine e un più diretto intervento «nella» sua «realtà»; (c) l’appercezione simultanea della molteplicità dell’anima, e quindi la fusione dei suoi numerosi punti di vista nella prospettiva. Anche in questo sviluppo, il pensiero rinascimentale credette di ricatturare il passato, cioè il modo in cui vedevano gli antichi. La prospettiva non si sviluppò all’interno della fantasia di progresso o di quella di osservazione oggettiva della scienza, ma piuttosto come imitatio dell’antichità pagana. Il rapporto tra la prospettiva nello spazio e la polifonia nel suono è stato sottolineato da Lowinsky, il quale ci ricorda che molte espressioni musicali sono mutuate dallo spazio (alto, basso, ascendente, altezza, scala, ecc.). Analogamente, molti problemi musicali si riferiscono al rapporto tra l’uno e i molti, o ai rapporti delle molteplicità tra di loro (dissonanza, armonia, contrappunto, moto parallelo), sicché la loro risoluzione sottintende soluzioni psicologiche ai problemi delle tensioni policentriche nell’anima. La polifonia, che si dice abbia raggiunto la sua perfezione nella musica sacra di Palestrina (1526-1594), può anche esser vista come un trionfo della coscienza politeistica 95

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in cui, a dispetto del contenuto e del fine dichiaratamente cristiani, la struttura della musica è tale «che è impossibile decidere a quale voce è assegnato il compito più importante, giacché tutte sono egualmente necessarie all’effetto generale». Un altro esempio di politeismo in musica, questa volta però nel contenuto, lo troviamo nelle canzoni astrologiche inventate e suonate da Ficino nell’intento di ripristinare l’armonia con i pianeti che governavano i suoi melanconici stati psichici. Due fattori contribuirono alla condizione psicologica che rese possibile la nuova musica: le idee del platonismo e i miti dell’immaginazione classica. Quando nel 1607 Monteverdi scrisse l’Orfeo, prima vera opera della nostra tradizione occidentale, lo fece con l’idea di ricostituire la tragedia antica – e quest’opera riflette la storia della discesa di un amante nel regno della morte per trovare l’anima. Il mio punto di vista in questa digressione sulla pittura e sulla musica è un tentativo di imitare il Rinascimento stesso. Anch’io cerco di comprendere la prospettiva e la polifonia situando la psiche al centro delle mie considerazioni. 98

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LA RETORICA DELLA PSICOLOGIA ARCHETIPICA

In modo non dissimile da questa esposizione, lo stile dei «filosofi» rinascimentali segue un percorso errante. Se lo stile è ripetitivo, ciò è perché la via dell’anima, secondo Plotino, è la via del circolo. Se lo stile è erroneo nei suoi fatti, nella sua logica e nelle sue conclusioni, ciò è perché, come disse Montaigne, l’anima è utilmente servita dall’errore. E se questo stile si contraddice è perché, come disse ancora Montaigne, l’anima ha una innumerevole varietà di forme, cosicché «… a guardar bene, non ci troviamo mai due volte nella stessa condizione. Io do alla mia anima ora un aspetto ora un altro,… tutti i contrari si ritrovano in me per qualche verso e in qualche maniera… Non posso dir niente di me, assolutamente, semplicemente e solidamente, senza confusione e mescolanza, né in una sola

parola. Distingo è l’articolo più universale della mia logica». Questo è uno stile che si sforza di distinguere con precisione tra le facce dell’anima, e che nello stesso tempo fa appello a quest’anima dalle molte facce parlando in linguaggio figurato alle emozioni, ai sensi e alla fantasia, manipolando abilmente la propria forza persuasiva a rischio di divenire a volte altisonante, artificioso e fors’anche bigottamente nebuloso. Tutto questo è stato chiamato retorica. Nella retorica rinascimentale l’anima fa ancora una volta la sua comparsa, questa volta come Afrodite Peitho, la Venere persuasiva che con un bel giro di frase ci fa girar la testa. La retorica ebbe un ruolo tanto importante nella scrittura rinascimentale perché essa è la forma di discorso dell’archetipo dell’anima, lo stile delle parole quando sono infuse d’anima. La nostra tradizione accademica non ha capito la psicologia del Rinascimento in parte perché non s’è sufficientemente armonizzata con quest’uso del linguaggio, del quale ha invece aspramente denunciato la mancanza di prove concrete e di argomentazioni ordinate. Ma la logica e le prove non convincono l’anima, né allora né oggi, cosicché per udire realmente il linguaggio del Rinascimento noi dobbiamo ascoltarlo attraverso l’anima, che è portata in vita da figure del discorso personificate e patologizzate, dall’iperbole e dalla metafora, dall’espressione indiretta, dalla ripetizione, dall’allusione, dal concetto ricercato, dal sottinteso. È un parlare vigoroso, seducente e convincente – fino a quando non lo si esamina come analisi scientifica o come discorso teologico. Allora non è più «filosofia seria». La retorica, col suo linguaggio di perorazioni, rimostranze e ripetizioni, parla come parlano i nostri sintomi, come parlano i nostri sogni. È la discussione di uno stato d’animo; o meglio, l’immaginazione non discute, immagina. La retorica non potrebbe mai persuadere la mente se questa non fosse fin dall’inizio suscettibile alla passione e alle immagini; il suo principale interesse discriminatore non è di 100

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dar forma a definizioni, ma di plasmare l’immaginazione facendone parole. Oggi la psicologia del profondo si trova invischiata nel problema del linguaggio, sottoposta a due spinte contrastanti: basare tutta la terapia su strutture linguistiche, oppure lasciar perdere del tutto il linguaggio e optare per versi e gesti preverbali. La terapia ritorna o allo strutturalismo cartesiano che astrattizza il linguaggio in impronunciabili unità radicali, o al risveglio pietistico in cui tutto ciò che conta è il suono neonato e informe del sentimento. Né queste strutture né questi sentimenti possono portare la psicologia a dar parole alla piena grandezza dell’anima, giacché manca loro la principale caratteristica della retorica: l’eloquenza. Noi abbiamo di nuovo bisogno di una cosa che era comune nel Rinascimento: la fede nell’immaginazione verbale e nel potere incantatore e terapeutico delle parole. Oltre alla Francia dell’intelletto di Lacan, oltre alla Germania dei sentimenti di Reich e di Perls, c’è il Mediterraneo dell’immaginazione, un mare interno di retorica dalla cui spuma sorge Venere. La terapia trarrebbe vantaggio da una nuova attenzione alla retorica. Se questo è il linguaggio della psicologia rinascimentale, può forse essere un modo per fare psicologia: la retorica come metodo. Se il metodo della psicologia non appartiene più all’empirismo, alla teologia o alla filosofia, lo stile in cui la psicologia parla può cessare di imitare quegli stili. La continua battaglia che abbiamo fin qui tenuto viva tra la psicologia archetipica e le attività più prossime a essa – la psichiatria pratica e la filosofia accademica – esplode in tutta la sua violenza nel campo del linguaggio. Noi non possiamo parlare di casi come fa la psichiatria oppure di idee come fa la filosofia, anche se possiamo usare parole psichiatriche e termini filosofici. I contenuti della psichiatria e della filosofia sono di primaria importanza, ma il linguaggio che esse usano per esprimere questi contenuti uccide l’anima. Qui noi 102

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reagiamo come Petrarca, il quale delineò la disciplina dell’umanesimo rinascimentale battagliando con i «medici» e i «dialettici», cioè con i professionisti e con i pensatori accademici del suo tempo. Anch’egli combatté la battaglia per il linguaggio. Tanto il loro vuoto nominalismo senz’anima quanto la loro «infantile incapacità di parlare» sgomentavano il suo senso dell’eloquenza, ove cura per le parole significava cura dell’anima. Le somiglianze tra la retorica e lo stile appropriato alla psicologia del profondo possono essere molto più accentuate di quello che abbiamo messo in luce. Panofsky ha paragonato il neoplatonismo alla forza della psicoanalisi, nonostante che il pensiero di Ficino non sia considerato «filosofia seria». Anche un altro vasto sistema di pensiero, la letteratura della psicologia del profondo, non può esser considerato come filosofia seria. Esso viene incessantemente demolito da critiche filosofiche, e tuttavia continua a esistere illeso. La psicologia del profondo non ha solo una sua specifica materia, la psiche, ma anche un suo stile d’approccio, la scrittura psicologica: storie di casi, miti di psicodinamica, rituali di ore confessionali, epiche familiari, fantasie sessuali e sogni. La scrittura psicologica si sforza d’essere scientifica e razionale, accumula prove e trae conclusioni. Essa viene così sovente confusa, e si confonde essa stessa, con la fantasia che offre spiegazioni razionali di tipo discorsivo. Invece ciò che facciamo in psicologia somiglia piuttosto alla filosofia rinascimentale, a proposito della quale Kristeller dice che «il contenuto e il compito della filosofia, e il suo rapporto con le altre discipline, quali la teologia e la letteratura, la matematica e la medicina, erano concepiti in modo notevolmente diverso da altri periodi della filosofia…». Qui lo stile di Jung è più vicino alla retorica rinascimentale di quello di Freud. La misurata chiarezza di Freud rimane sempre mirabilmente coerente, che egli scriva sull’afasia, sulla cocaina, sulle esperienze sessuali femminili, su Mosè o sulla follia del giudice Schreiber. Jung, al 104

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contrario, è variato. A volte scrive come uno gnostico, a volte come un guru orientale, o uno statistico, o un predicatore domenicale. Egli è stato accusato di gran parte dei difetti attribuiti a uno dei principali modelli dell’umanesimo rinascimentale, Plutarco: cattiva filosofia, cattiva teologia, cattiva storia e cattivo stile. Il neoplatonismo, come la scrittura di Jung, è stato chiamato «quello strano miscuglio di pensiero e mistero, di pietà, magia e assurdità». Come il neoplatonismo, anche il pensiero di Jung viene raramente studiato nelle facoltà di filosofia. Per la mente accademica la sua retorica, così come quella del neoplatonismo, semplicemente non è «filosofia seria», al contrario della scrittura lucidamente monoculare di Descartes, Locke o Bertrand Russell. Perché non possiamo parlare la psicologia così come la pensiamo, invece di tradurla nella lingua straniera del razionalismo concettuale? Se pensiamo la psicologia come fantasia, come personificazioni, patologizzazioni e proposizioni «come se», è necessario che il nostro linguaggio diventi eloquente in queste modalità. La retorica può aiutarci a trovare la via giusta, giacché, come la psicologia del profondo, essa mira a muovere le immagini e le passioni dell’anima. Per muovere il pensiero della psicologia, per farlo avanzare, dobbiamo prima muovere l’anima che è la dimora del pensiero. Forse lo stile di Jung è proprio quello necessario per fare anima. La sua varietà riflette il bisogno di stili diversi per le diverse costellazioni archetipiche. Uno dei metodi retorici del Rinascimento distingueva gli stili dell’espressione letteraria in base ai sette pianeti, personizzando la Bellezza, la Verità, la Velocità, la Gravità e così via. Si usavano generi diversi per creare effetti diversi nell’anima. Perché alla fin fine la domanda della retorica in psicologia è: «chi parla e a chi?». Se il nostro intento è quello di impegnare le molte persone della psiche, e soprattutto l’anima, allora le nostre parole debbono tener conto di una varietà di modalità archetipiche, debbono essere uno «strano miscuglio» di 106

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pensiero, pietà e assurdità. La retorica della psicologia archetipica vorrebbe spingersi ancor più in là. Il suo interesse per il linguaggio non ha come scopo di migliorare la comunicazione tra gli uomini, ma di seguire l’intenzione di Platone là dove dice che la perizia che una persona può acquisire nell’arte del linguaggio «va esercitata non per parlare e operare tra gli uomini, ma per poter dire cose gradite agli dèi». È per stare in rapporto diretto con le dominanti archetipiche che si lotta per trovare la parola giusta. La retorica porta alla luce uno dei principali stati d’animo di questi capitoli, nati come conferenze, come lingua parlata e udita; la retorica porta anche a conclusione il tema del linguaggio che ci ha inseguito fin qui. Prima è stato il modo personificato di parlare, poi la questione della classificazione e del nominalismo in psicopatologia, infine, l’incessante scontro tra letterale e metaforico. Abbiamo dedicato una particolare attenzione al linguaggio perché riconosciamo che esiste un particolare rapporto tra anima e parola, tra psiche e logos, e che la loro unione è il nostro stesso campo, la psicologia. Idealmente, psicologia significa dare anima alla lingua e trovare una lingua per l’anima. La psicologia del profondo dedica tanta attenzione alla parola non solo perché si comincia con quella che Freud per primo chiamò «cura con le parole», ma, soprattutto, perché si comincia nell’essere umano: l’uomo come voce dell’anima. La parola è il punto di partenza tanto dell’umanesimo rinascimentale quanto della psicoterapia, giacché dare forma alla fantasia con le parole è un cruciale tratto distintivo degli esseri umani – tanto in Grecia, dove «barbaro» indicava chi parlava un altro linguaggio, quanto nel Rinascimento, dove chi non conosceva la retorica non era un essere civile, oppure ai giorni nostri, nelle recenti speculazioni sulle differenze essenziali tra l’uomo e la scimmia circa l’anatomia del linguaggio e le zone vocali della bocca e della gola. Persino un metafisico così astratto come Whitehead 109

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riconobbe il primato del linguaggio sul gesto per eccitare le «… intimità dell’esistenza organica…. E così il suono prodotto dalla voce rappresenta un simbolo naturale delle più profonde esperienze dell’esistenza organica». Se vogliamo andare in profondità, dobbiamo andare alla poetica dell’anima incarnata e delle sue grida. Non la carne o le grida, ma le loro immagini in parole sono fare anima. Il cristianesimo ha sempre insistito su questo punto: la parola come carne, la carne come parola; le mie parole sono gli organi del corpo e il mio corpo è un’enciclopedia, una summa di parole. La «cura con le parole» di Freud è anche la cura del nostro parlare, un cimentarsi col più difficile dei compiti culturali, la rettificazione del linguaggio: la parola giusta. L’estrema difficoltà del comunicare l’anima parlando assume una realtà schiacciante allorché due persone siedono ciascuna su una sedia, faccia a faccia, ginocchia contro ginocchia, come in un’analisi con Jung. Allora comprendiamo quale miracolo sia trovare le parole giuste, le parole che comunicano anima in modo accurato, dove si intrecciano pensiero, immagine e sentimento. Allora comprendiamo che l’anima può esser fatta lì per lì, semplicemente attraverso la parola. Un simile parlare è la più complessa impresa psichica che si possa immaginare – il che spiega in parte perché la psicologia di Jung rappresentò un progresso culturale rispetto allo stile di Freud e alla sua cura con le parole, libere associazioni autistiche sul divano. Tutte le moderne terapie che affermano che l’azione cura meglio delle parole (Moreno) e che sono alla ricerca di tecniche diverse dalle parole (invece che di tecniche da aggiungere alle parole) reprimono la più umana di tutte le facoltà: raccontare le storie della nostra anima. Queste terapie sono forse efficaci sul bambino che è in noi, che non ha ancora imparato a parlare, o sull’animale, che non può farlo, o magari su uno spirito-daimon, al di là delle parole perché al di là dell’anima. Ma solo uno sforzo continuo di parlare un linguaggio d’anima accurato può curare il nostro 111

linguaggio delle sue vuote chiacchiere e restituirlo alla sua funzione prima, la comunicazione dell’anima. Un’anima che abbia peso e sostanza può essere evocata dalle parole ed espressa in parole; perché il mito e la poesia, così totalmente verbali e «senza carne», echeggiano delle più profonde intimità dell’esistenza organica. Un contrassegno dell’uomo immaginale è il linguaggio della sua anima, e l’ampiezza di questo linguaggio, la sua spontaneità autogenerantesi, la sua precisa sottigliezza e allusività ambigua, la sua abilità, come disse Hegel, «di ricevere e riprodurre ogni modificazione della nostra capacità ideativa», non possono essere soppiantate né dalla tecnologia dei mezzi di comunicazione, né dal silenzio della contemplazione spirituale, né dalla gestualità fisica. Quanto più ci sottraiamo al rischio di parlare per l’angoscia semantica che tiene l’anima segregata nel silenzio, privata e personale, tanto più si allarga lo iato tra ciò che siamo e ciò che diciamo, la scissione tra psiche e logos. Più ci impastoiamo nelle riflessioni della lingua su se stessa, più abdichiamo al principio che governa l’esistenza psicologica. Il fatto che poi ci si rivolga ai ratti di Skinner e ai cani di Pavlov, alle oche e ai lupi di Lorenz, che si fraternizzi coi delfini e si consideri l’uomo una scimmia nuda per trovare dei prototipi del comportamento umano indica fino a che punto stiamo perdendo la parola e con essa il nostro senso d’una natura distintamente umana. Non di prototipi animali abbiamo bisogno per scoprire i nostri modelli originali, ma di archetipi personizzati, ciascuno dei quali parla, ha un nome e ha la propria esistenza nel mondo linguistico del mito. Senza la parola noi perdiamo l’anima e l’essere umano assume l’essere fantastico degli animali. Ma l’uomo è metà angelo perché può parlare. Più diffidiamo della parola in terapia o della capacità della parola di essere terapeutica, maggiore è il nostro rischio di venire assorbiti nella fantasia del subumano archetipico, e più vicino è l’ingresso imperioso del barbaro archetipico tra rovine del sistema comunicativo d’una cultura che ha rifiutato l’eloquenza come specchio 112

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della propria anima. TRA FALLIMENTO E RINASCIMENTO: LA PSICOLOGIA RE-VISIONATA

Ora, giunti alla fine dei nostri quattro capitoli, abbiamo voltato le spalle all’odierno umanesimo e siamo ritornati al Rinascimento per trovare una visione della psiche che in pari tempo offra lo sfondo per una re-visione della psicologia. Volgendo il nostro sguardo all’indietro, a quel «collasso creativo» chiamato Rinascimento, possiamo vedere meglio come la psiche attuale si trovi coinvolta in processi analoghi. Abbiamo usato la storia come strumento per psicologizzare il presente. Abbiamo proiettato le realtà attuali dell’anima su uno schermo storico lontano, leggendo l’oggi come storia e la storia come oggi, in modo assai simile a come il Rinascimento immaginava se stesso rispetto alla sua fantasia dell’antichità classica. Perciò, il Rinascimento e la sua psicologia sono una fantasia sulle possibilità d’una psicologia rinascente nel nostro tempo. Malgrado le nostre ripetute sconfessioni dell’eroe, la psicologizzazione di queste pagine ci conduce in un’ultima fantasia eroica: Noi cerchiamo nella fantasia del Rinascimento un punto archimedeo sul quale poter fare tanta forza da sollevare questo vasto campo della psicologia, ingombro e appesantito, prossimo a inaridirsi in una distesa di polvere – tanto a lungo è stato arato dagli accaniti lavoratori puritani con le loro bestie e le loro macchine – sollevarlo e svellerlo dalle sue vecchie fondamenta riformistiche e andare a posarlo in groppa al toro mediterraneo, il pericoloso toro bicorne di Ortega, col suo stile di follia e il suo stile di fertilità. Io sono in cerca del mito capace di portare il peso della psicologia, che consenta alla psicologia di portare il peso dell’anima. Perché la questione che vorrei sollevare ora che siamo alla fine, quando è ormai troppo tardi per dare una risposta, è se l’anima che oggi ritorna ad agitarsi possa esser

servita dalla psicologia tradizionale, se quella che oggi chiamiamo psicologia si accordi coi bisogni della psiche. L’anima si agita e l’ombra è nei paraggi. Transizione, crisi e la spada di Damocle del collasso, individuale e collettivo, riempiono l’aria di interrogativi sulla sopravvivenza simili a quelli del Rinascimento. Alla psiche non bastano più i vecchi ricettacoli della cultura cristiana. C’è recrudescenza ed ebollizione della fantasia individuale, del mito pagano, dell’anima. Con essa marciano i medesimi stendardi spiegati nel nome dell’anima dai suoi devoti del Rinascimento e dai romantici: libertà di immaginare, di esser belli, di manifestare stranezze e varietà patologizzate. Sul trono è di nuovo la comunione con l’anima nella natura intatta, nella poesis della musica, nell’evocazione di Eros e nel ricordo della morte. La rivoluzione a favore dell’anima può forse non dimostrare queste qualità, ma dimostra comunque in loro favore. E col ritorno dell’anima, il letterale può perdere il suo dominio. L’immaginale è diventato reale; per molti è il reale. Eppure solo una generazione è passata dacché Jung si trovò, nelle sue Terry Lectures, a dover stabilire la prima premessa, la realtà della psiche, che oggi noi diamo così tranquillamente per scontata. Le precedenti definizioni dell’esistenza umana – l’uomo religioso, l’uomo politico, l’uomo scientifico, l’uomo economico – hanno improvvisamente ceduto il posto all’uomo psicologico, e questo significa che il fare anima è divenuto di nuovo una preoccupazione generale. L’anima è ritornata al centro della scena storica, del tutto indipendentemente dalla psicologia. La psiche si muove; ma la psicologia fa altrettanto? E può muoversi, data la concezione che essa oggi ha di sé? Abbiamo visto che la psicologia è emersa dal protestantesimo dell’Europa settentrionale e occidentale e dalla sua ramificazione nel Nord America. Leggere psicologia, trovare psicologi, fare della ricerca psicologica ha significato finora venire in questa zona geografica. Quasi che i giapponesi, i russi, gli arabi, gli africani e i latini non avessero psicologia. Inoltre, questo suolo è sempre stato

soprattutto tedesco. La psicologia è stata soprattutto una creazione della lingua tedesca ricavata dall’anima tedesca. Come William Cullen di Edinburgo, inventore della parola «nevrosi», guardava a Göttingen nel Settecento; come Coleridge, i trascendentalisti del New England e gli herbartiani dell’inizio dell’Ottocento guardavano a Königsberg, a Wittenberg e a Weimar; come William James andò a Lipsia alla fine del secolo, così la nostra èra si rivolse a Vienna e a Zurigo, e a Husserl, Heidegger, Binswanger, a Rorschach, a Stern, alla psicologia teologica di Tillich, Bultmann, Brunner e Barth, o ancora a Marx ed Engels, oppure all’ermeneutica di Gadamer, o a Koffka e Kohler, a Konrad Lorenz, a Marcuse e Reich, alla Horney, a Moreno, Erikson, Fromm e Perls, o a Wittgenstein, o a Nietzsche e Hesse. L’elenco è troppo lungo per continuare. L’universo che partorì e continua a partorire quella che chiamiamo psicologia e da cui riceviamo le nostre prospettive psicologiche, è sempre stato a nord, di là dalle montagne, mai del tutto raggiunto dalla tradizione classica mediterranea. La «psicologia» deriva da una visione data dalla sua ubicazione storica, geografica e culturale. Quando domandiamo: «Che cos’è la psicologia? Definiscimela, dimmi la sua materia, i suoi problemi, i suoi metodi», tutte le risposte, qualunque scuola le dia, fanno ancora e sempre riferimento a quelle medesime fondamenta. Incontriamo sempre lo stesso letteralismo e volontarismo che apparvero con la Riforma. Intenzionalità, volontà, pulsione, motivazione sono altrettanto cruciali oggi quanto allora, e cruciale è il sé riflessivo, il carattere anale, l’io indipendente al centro, sia esso esaminato nel comportamento oppure adorato come interiorità. Un medesimo zelo informa l’apprendimento, ora diventato teoria dell’apprendimento, proprio come al tempo di Melantone – «maestro della Germania», come venne chiamato – il quale vedeva la salvezza della sua nazione anche nell’applicazione d’una giusta teoria dell’apprendimento. Perché non importa se siamo 114

behavioristi o freudiani ortodossi, se scegliamo la padronanza di noi stessi o la resa, l’introspezione o la statistica, o se cerchiamo la via della liberazione con la glossolalia, la pittura creativa e gli incontri spontanei: la psicologia rimane fedele al suo sfondo riformato. E questa psicologia, per la quale costruiamo grandi palazzi dove gli studenti arrivano a frotte, con le sue biblioteche, le sue conferenze e i suoi laboratori, le riviste e le terapie, le cliniche di igiene mentale e i fondi per l’igiene mentale, è stata ed è tuttora impotente. Niente, niente, niente. Che therapeia ha offerto all’anima della nostra civiltà nei quattro secoli da Melantone a oggi? Che cosa abbiamo da mostrare noi psicologi che riguardi l’ombra della civiltà, la sua inumanità, o l’anima e il declino della sua bellezza, della sua natura, persino dei suoi desideri? La psicologia s’è disinteressata del mito e dell’immaginazione e ha mostrato scarsa attenzione per la storia, la bellezza, la sensualità o l’eloquenza – i temi del Rinascimento. Il suo pragmatismo, nella clinica come nel laboratorio, uccide la fantasia o la stravolge mettendola al servizio di scopi pratici. L’amore diventa un problema sessuale, la religione un atteggiamento etnico, l’anima un emblema politico. Non ci sono capitoli più aridi e banali nei testi del pensiero psicologico di quelli sull’immaginazione, sull’emozione e sul vivere della vita e il morire della morte. La psicologia non è stata quasi toccata dall’anima fino a pochissimo tempo fa, quando l’anima ha cominciato ad agitarsi e a esigere da essa pertinenza e profondità. Le origini della psicologia nella Riforma continuano a determinare il suo corso. Da un lato, essa si presenta come terapia, un modo di autoriflessione e automiglioramento. Questo soggettivismo introspettivo (qualunque sia la scuola di terapia) è sostenuto da profonde speranze pietistiche di salvezza personale e dal vantaggio morale di lavorare su se stessi. Il peso e la serietà della psicoterapia (anche nelle solari scuole californiane) crea in chi vi partecipa nuovi carichi di colpa, riguardanti questa volta la moralità dei suoi

scopi terapeutici. Oggi ci viene detto che ci difendiamo o che resistiamo al processo terapeutico, un tempo avremmo potuto esser incolpati di chiuderci alla grazia di Dio o di allontanarci dalla Sua volontà. dall’altro lato, contro i giudizi di valore e l’introspezione della terapia, prodotti anch’essi del medesimo volontarismo e letteralismo eroico – poiché è stato sempre il Nord a creare e il pietismo psicologico e i laboratori psicologici, tutti e due metodi per prendere le misure all’uomo – s’è scatenata una furiosa battaglia reattiva per essere empirici, fisici e segmentali. L’animale, il laboratorio e la statistica sono diventati mezzi per salvare la psicologia dal soggettivismo e dalla moralizzazione intrinseci in ogni sistema psicologico. La ricerca sperimentale ha offerto una difesa maniacale contro la ricerca interiore, così come la ricerca interiore clinica ha offerto una ritirata paranoica dalla responsabilità pubblica. Che scelga l’una o l’altra di queste due strade, la psicologia non abbandona la propria radice protestante. Arriviamo così a dover riconoscere questo fatto importante: che le molte scuole della psicologia appartengono al più ampio regno del protestantesimo, qualunque sia il loro stile o la loro diramazione. I sistemi dottrinali della psicologia sono equivalenti secolarizzati del pensiero religioso sull’anima, e le molte varietà di psicologia che prendono il nome da personalità guida e da luoghi geografici corrispondono esattamente alla proliferazione delle sette protestanti. Ne segue che la rivoluzione che fermenta nell’anima del monoteismo nordico e da cui è nata la credenza nella morte del suo Dio deve necessariamente essere in atto anche nella psicologia. Anch’essa deve essere afflitta dalla morte di questo stesso Dio. Questo è perciò un momento psicologico in cui è possibile un rinascimento in psicologia. Perché abbiamo appreso dalla psicologia rinascimentale che la rinascita si accompagna alla sconfitta, che la sua precondizione è il fallimento e Ade il suo più profondo segreto. Andare verso una rinascenza, una re-

visione, della psicologia significa innanzitutto riconoscere la morte del Dio della psicologia e la conseguente morte nell’anima della psicologia come vitale portatrice del fare anima. La psicologia intuisce il proprio fallimento e brancola alla ricerca di nuove modalità per re-visionarsi mediante una nuova riflessione religiosa. Ma la saggezza del cacciatore yaqui o i sorrisi indù d’un fanciullo divino non sono specchi meno semplicistici di quelli già preferiti dalla psicologia – le macchine, le scimmie, i neonati. La primitività dei suoi specchi riflette la primitività della concezione psicologica dell’uomo e dell’anima: ingenui, inarticolati, incolti, quasi che la complessità umana o la diversità dell’anima potessero venir contenute in proverbi e omelie. La psicologia è rimasta talmente intrappolata nelle letteralizzazioni della sottigliezza che ora cerca una via di uscita nella stupidità. Perché finora essa aveva mescolato la precisione con la misurazione, il discernimento con la segmentazione, la raffinatezza con la tecnologia e la differenziazione con la compartimentalizzazione. Nella nostra re-visione della psicologia ci siamo invece rivolti ai periodi più complessi e più ricchi della nostra civiltà e alle loro più raffinate rappresentazioni – in immagini, idee e persone – al fine di riportare la complessità e la sottigliezza a un senso interamente psicologico. Cruciale in questa nostra mossa è stata l’insistenza sulla prospettiva mitica politeistica. Una rinascenza della psicologia può aversi solo se si dà modo alla psiche di ritrovarsi sul più ampio degli sfondi possibili. La complessità psichica richiede tutti gli Dei; la nostra totalità può essere contenuta in modo soddisfacente soltanto da un Pantheon. Deve esservi posto per ogni cosa – altrimenti ricominceremo di nuovo alla vecchia maniera, avremo bisogno di sacchi chiamati patologia, eresia, Es, per tutto ciò che non trova posto. Inoltre, uno spettro policromo offre una modalità culturale di fare anima. Ampliando e complicando le nostre immagini e i nostri miti potremo disporre di più

numerosi e più profondi ricettacoli culturali per l’enorme ondata di fantasie del nostro tempo. In caso contrario, sarà la barbarie, l’anarchia o lo statalismo monolitico. La ragione non può farlo – la mente, a sentire H.G. Wells, era già ridotta agli estremi anni fa – né può farlo l’io, per forte, sviluppato e maturo che sia. La storia della psicologia dalla Riforma in poi mostra il movimento della sua ragione e il rafforzamento del suo io, ma la storia della civiltà mostra anche il movimento dell’irragionevolezza, le potenze immaginali che fanno irruzione nella ragione, la gonfiano di ideologie e così finiscono per determinarne il corso. La psicologia non ha avuto alcun mezzo per riflettere tali potenze immaginali, e questa è la causa principale del suo fallimento. Una psicologia con poco spazio per l’immaginazione ha poco spazio per le immagini che governano la nostra vita. Trascurando le immagini, essa diviene, volente o nolente, un moralismo, si concentra sulla ragione e sulla volontà, il vecchio io. Ecco quindi la psicologia ossessionata da un’unica idea esagerata: l’uomo, un’ideologia che nasce dall’eroe della Riforma, sordo a ogni richiamo che non sia quello della tromba, che lottando si fa strada tra scelte binarie e avanza, responsabile e impegnato, verso la luce, ricacciando via da sé l’anima e l’oscurità. Se la nostra civiltà soffre di hybris, di inflazione dell’io e di superbia, la psicologia ha fatto la sua parte. Essa ha sempre guardato l’anima nello specchio dell’io, senza mai vedere la psiche, vedendo sempre l’uomo. E quest’uomo è l’uomo monoteistico della Riforma, nemico delle immagini. Ma per andare verso un rinascimento, la psicologia dovrà abbandonare una delle sue più tenaci convinzioni riformate. Dovrà passare dalla preoccupazione per la dimensione morale alla preoccupazione per la dimensione immaginale: l’immagine prima del giudizio, l’immaginazione prima dell’umano, Psiche prima di Prometeo e di Ercole, prima di Mosè, prima di Cristo. La psicologia non può spogliarsi della sua storia, ma può vederla in trasparenza. Essa allora non

avrebbe più bisogno di opporsi in nome della morale e della civiltà allo scontento dell’anima, ma potrebbe volgersi all’anima, nei cui semi immaginali è contenuto il rinascimento, non solo della psicologia, ma forse anche della civiltà. Tutto comincia nella fantasia. Con questo voglio indicare quella che, a mio parere, è la ragione archetipica della mancata risposta della psicologia ai bisogni dell’anima. Perché questo contrasto – geografico, storico, archetipico – fra Riforma e Rinascimento, fra transalpino e cisalpino, fra la coscienza monoteistica ebraica e la coscienza politeistica ellenica, ha diviso la psiche in due metà che ora chiamiamo «conscio» e «inconscio». Il contrasto, anche se simboleggiato dall’Europa, si trova nell’anima di ogni individuo appartenente alla cultura occidentale, e la psicologia ha lavorato solo da un lato della montagna. La psicologia del profondo, che dovrebbe esser fedele alle attività dell’altro lato, è anch’essa una fantasia originata sul suolo dell’Europa settentrionale e centrale. Non abbiamo ancora visto una psicologia delle profondità elaborata dall’altro lato delle montagne, dall’immaginazione dell’ellenismo, del neoplatonismo rinascimentale e del politeismo. Quella che siamo giunti a chiamare coscienza «occidentale» è in verità una coscienza settentrionale. E falsifichiamo la situazione psicologica se immaginiamo la fondamentale opposizione nell’interno dell’anima come una opposizione tra l’orientale e l’occidentale. Questo accoppiamento, essendo orizzontale, tende a proiettare le sue opposizioni al di fuori, nella geografia letterale dello spazio esteriore, e ci irretisce in identificazioni con l’Oriente o l’Occidente e in fantasie di riunificazione delle anime attraverso un incontro di Est e Ovest. L’altro accoppiamento nelle nostre anime è quello di Nord e Sud, luce ed ombra, conscio e inconscio, una divisione verticale tra ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, un riflesso nella geografia immaginale della nostra storia culturale. Avventurarsi al Sud è un’impresa per esploratori. È la 115

direzione che scende in profondità, diversa dal viaggio in Oriente, dalla corsa d’una gioventù dorata occidentale verso pacifiche armonie, dalle ascese nordiche verso una osservazione fredda e oggettiva. Andare verso il Sud significa abbandonare il nostro territorio psichico e correre il rischio d’un disorientamento archetipico. Quando Jung tentò d’avventurarsi al di là dei suoi confini psichici in direzione di Roma, svenne alla stazione ferroviaria. Un analogo evento di patologizzazione accadde a Freud ad Atene. «Roma» e «Atene» erano oltre il limite di tollerabilità dei fondatori della psicologia del profondo. Avventurarsi al Sud può significare il distacco da tutto ciò che abbiamo imparato a considerare «psicologia». Geografia culturale e geografia immaginale si fondono nella scoperta dell’inconscio, giacché quando la psicologia scese per la prima volta nelle profondità della psiche, la sua prima scoperta fu una deformazione rimossa dell’uomo rinascimentale. La sua proteica natura politeistica ora venne chiamata perversità polimorfa. Il suo bisogno di esplorazione, di feste e di liturgia divenne messa in atto o coazioni rituali; il suo ritorno a modelli classici di comportamento riapparve come arcaismo regressivo, e il suo sguardo rivolto alla morte era adesso, nella terminologia della psicologia del profondo, l’atteggiamento autodistruttivo della pulsione di morte. La sola grande concessione all’immaginazione mitica – la fantasia edipica di Freud – rimase entro il regno del monoteismo. Un solo mito per spiegare la psiche di tutto il genere umano. Ma noi non ci siamo sbarazzati dell’uomo rinascimentale. Egli vive ancora con noi, ma non nelle nostre ambizioni egoiche. Egli vive nei nostri sogni. Il ritorno del rimosso è anche il ritorno del Rinascimento nella nostra coscienza nordica – e questo ritorno viene dall’altro versante di ogni montagna, di là da ogni confine, ed è italiano, arabo, messicano, ebreo, caraibico, o è il Moro rinascimentale. Scurito da un lungo confino nei buchi neri della nostra coscienza nordica, l’uomo rinascimentale viene ora chiamato 116

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l’ombra, o l’Es, o il naturale, l’istintivo e creativo lato oscuro. Nelle sue mani sono le chiavi del regno terapeutico. Perché trovare la via verso l’interezza significa, per tutte le scuole di psicoterapia moderna, sollevare la rimozione dall’oscuro lato inferiore. L’essenziale fantasia della rinascita nella pratica terapeutica è la riunione con l’uomo rinascimentale, con la sua vitalità, la sua libertà e la sua diversa morale. È difficile trovare una fantasia più pericolosa. La terapia non si rende pienamente conto di quello che sta suggerendo. Perché il proteico uomo rinascimentale non è altri che il bicorne toro Dioniso di Ortega, il nostro Diavolo, pagano, perverso, psicopatico, onnipotente non appena valicata la muraglia delle montagne. Il più grande baluardo della coscienza nordica era il suo Dio ormai morto, che comandava battaglioni di luce – filosofi morali, predicatori, psicologi. Ma essi sono in preda allo scompiglio e la tenda del comandante sbatte nel vento. Lasciar insorgere le profondità senza i nostri sistemi di protezione è quello che la psichiatria chiama psicosi: le immagini, le voci, le energie invadono le svuotate città della ragione che sono state depersonificate e demitologizzate e perciò non hanno più contenitori per ricevere gli influssi divini. Gli Dei diventano malattie. Non possiamo comandare il comandante, e neppure rimpiazzarlo col suo sergente, l’io forte. Ormai è troppo tardi; l’Ottocento è finito, e comunque le fantasie, sbandate al saccheggio, non danno più ascolto all’io. La fuga verso l’Oriente, la fuga verso l’alto, nella trascendenza, o quella verso l’esterno, nella futurologia, lasciano il paese nel caos, non ci sarà più terra cui far ritorno, suolo da cui trarre nutrimento. Rimane un’alternativa, e cioè la via del Sud, incoraggiare le immagini ritornando al suggerimento di Plotino e sviluppando «templi e statue» per «le porzioni e le fasi» e le patologizzazioni dell’anima: l’elaborazione di «ricettacoli acconci» per la psiche nella psiche. Allora potremo mettere il tumulto delle nostre fantasie nel più ampio deposito dei miti, e dando loro il mito quale centro potremo toglierle dalle

strade, dove si limitano a far tumulto seguendo gli impulsi del momento. Parlo di una ininterrotta attenzione all’immaginazione, dalla prima storia raccontata a un bambino fino alle ultime conversazioni della vecchiaia. Parlo del recupero dello spazio psichico perduto per contenere e degli specchi perduti per riflettere. Il nostro campo ha bisogno di costruire di nuovo psicologie ricche e fantastiche come la mitologia classica, le arti della memoria e l’alchimia; come la psicologia di Jung, come il neoplatonismo, che diede ordinamento e cultura alla pazzia del Rinascimento e dei romantici. Perché quello che accade alla nostra cultura è quello che accade alla nostra cultura, alle nostre fantasie e immagini individuali, vengano esse da noi moralizzate e represse, o diagnosticate e imprigionate, oppure sfruttate e tradite, o drogate e derise. L’anima della nostra civiltà dipende dalla civiltà della nostra anima. L’immaginazione della nostra cultura richiede una cultura dell’immaginazione. Dovremo costruire nuove arene immaginali per il toro, nuovi circhi immaginali per la folla delle persone e teatri per le immagini, nuove processioni immaginali per le dinamiche fantasie mitiche che ora ci sorpassano, scorrazzando nelle nostre notti su motociclette psicopatiche. L’uomo del Rinascimento, l’ombra, deve essere affrontato col suo stesso stile e nel suo territorio. L’integrazione dell’ombra è un’emigrazione. Non è lei che deve venire a noi, siamo noi che dobbiamo andare da lei. La sua incursione è barbarie, la nostra discesa è cultura. Ho fermato così a lungo l’attenzione sul Rinascimento allo scopo di offrire uno sfondo adeguato alle forze che minacciano il nostro benessere psichico individuale e la nostra civiltà. La nostra epoca e la sua coscienza sono per molti aspetti simili a quelle del Rinascimento, così come ce lo immaginiamo. Adesso, come allora, nel mezzo della frammentazione si offre l’opportunità di re-visionare il mondo. Ma soprattutto abbiamo l’opportunità di re-visionare la psicologia affinché essa possa offrire comprensione e forma al caos del brulicante lato inferiore dell’uomo nordico.

Questa zona si trova da lungo tempo sotto la maledizione dell’unicità di visione della coscienza monoteistica, sicché gli approfondimenti di Persefone e le ricchezze di Plutone, la diversità di Proteo e la naturalità di Pan, si sono fusi in una singola e mostruosa figura, il Diavolo. Ma ora che la coscienza si disintegra in molti modi di visione, anche la sua ombra si differenzia in immagini multiple. Come accadde durante il Rinascimento, stiamo scoprendo che nascosti nell’ombra ci sono i vecchi Dei. Riconoscere queste potenze immaginali e trovare dei modi precisi, intelligenti e culturali per provvedere a loro – «o non essere, questo è il dilemma». «Conosci o va in rovina» scrisse Nietzsche. E proprio per dare il via a quel conoscere, e dunque distinguere, le immagini dalle quali può dipendere la nostra sopravvivenza, io ho gettato una radice in una tradizione che offre alla nostra originaria polifonia di voci un’alternativa politeistica. 119

ANCORA UNA VOLTA RELIGIONE E PSICOLOGIA

L’occupazione – o si tratta, piuttosto, d’una vocazione? – che emerge dal nostro lavoro in queste pagine è quella di ritrovare il ricordo degli Dei in ogni attività psicologica. Questo è ciò che la psicologia archetipica più fondamentalmente comporta, ed è per questo che essa è necessariamente non-agnostica e politeistica. Le immagini alle quali si rivolge e che danno la fede nella realtà psichica invocano le potenze della religione così come hanno sempre fatto le immagini. Entrando nell’immaginazione noi penetriamo in recinti numinosi. E dall’interno di questo territorio tutti gli eventi dell’anima richiedono riflessione religiosa. Quando abbiamo immagini e persone religiose, quando siamo consapevoli del rituale, del sacrificio e degli insegnamenti del credo, siamo meno portati ad attuarli ciecamente. Quando non abbiamo idee religiose, siamo loro preda altrove, nelle ideologie. Fu proprio per aver trascurato la riflessione religiosa che la psicologia poté essere

facilmente presa alle spalle dalla religione e legata all’orizzonte delle ideologie riformate. Essa ha bisogno degli strumenti della religione per psicologizzare le proprie azioni e le proprie credenze. La psicologia ha fallito anche perché ha preso i suoi strumenti ovunque salvo che dalla religione – tecnologie scientifiche, osservazione biologica, economia e medicina – una negligenza sorprendente se si considera che l’anima è appartenuta da sempre alla religione. E tuttavia non così sorprendente, giacché la psicologia s’è anche dimenticata di essere lo studio dell’anima. Ritrovare il ricordo degli Dei riapre i testi fondamentali che Freud e Jung scrissero in vecchiaia, Mosè e il monoteismo e Risposta a Giobbe. Questi libri, scritti da due vecchi ultrasettantenni che avevano passato anni a districare le maglie di centinaia di vite aggrovigliate, furono il riconoscimento che il lavoro psicologico, essendo il lavoro del fare anima, conduce inevitabilmente alla riflessione religiosa. Ma la modalità della loro riflessione ha ormai fatto il suo tempo. Nati nel diciannovesimo secolo, Freud e Jung sono probabilmente stati gli ultimi psicologi in grado di sviluppare le loro intuizioni sulla base della Bibbia, che non è una mitologia ma un libro sacro, e perciò si presta meglio al letteralismo che alla psicologizzazione. Pur avendo molte figure e molte storie, essa ha un solo punto di vista e un solo Dio. Il principale bisogno della psiche non è più quello di sostenere l’unità della personalità contro le incursioni degli Dei nel nostro pluralismo. Adesso il nostro interesse è per uno stile di riflessione religiosa che renda, nello stesso tempo, più ampio e più differenziato il raggio del nostro discernimento. Ritorniamo così al rapporto tra religione e psicologia. Questa volta, l’ultima, prendiamo lo spunto da William James, il quale nel suo Varieties of Religious Experience trattò la religione come un fenomeno dell’anima. Col suo esame delle posizioni religiose mediante osservazioni psicologiche, egli aprì un nuovo campo: «la psicologia della religione». In seguito, il James ormai vecchio di Pluralistic

Universe (pubblicato l’anno precedente alla sua morte) riconobbe che l’indagine psicologica conduce necessariamente a una varietà di premesse a base soggettiva, autosufficienti e valide. Se ora immaginiamo, come fa la psicologia archetipica, che gli Dei sono le premesse archetipiche insite in tutte le esperienze e in tutti gli atteggiamenti, allora la religione politeistica diviene un principio primo della psicologia. In tal modo il nostro approccio alla stessa fantasia che occupò James – il rapporto tra religione e psicologia – è il capovolgimento di James. Noi esaminiamo le osservazioni psicologiche servendoci di posizioni religiose, e ci domandiamo: quale Dio è all’opera? E qui, avanzando la nostra tesi che la psicologia è una varietà dell’esperienza religiosa, entriamo nella dimensione della «religione della psicologia». Psicologia come religione significa immaginare tutti gli eventi psicologici come effetti degli Dei nell’anima, e tutte le attività che hanno a che fare con l’anima, ad esempio la psicoterapia, come operazioni rituali connesse a questi Dei. Le nostre teorie sull’anima sono allora anche miti e la storia della psicologia del profondo una sorta di storia della Chiesa: i primi discepoli e le storie di martiri; la ricerca d’una preistoria in zone extraterritoriali; la lotta con i non credenti e le eresie; l’apologetica e i biografi ufficiali; la letteratura patristica, le scuole di interpretazione e i commenti; i tentativi di ecumenismo, il grande scisma; i luoghi santi, le loro leggende e le loro cure; il movimento missionario e, soprattutto, l’impeto di salvazione della psicologia del profondo. Il fatto che il clero contemporaneo sia attratto con tanta forza dalla psicologia verso una nuova fratellanza di psicologia e religione nelle parrocchie, nei centri d’igiene mentale e nella ricerca individuale riflette l’attuale movimento ecumenico, che cerca di raccogliere insieme tutte le ramificazioni. Non è che la religione si rivolga alla psicologia – no, è la psicologia che sta semplicemente

tornando a casa. Se questa casa è il Nord o il Sud, la Riforma monoteistica o il Rinascimento politeistico, è ancora da vedere. Ma la via sbagliata potrebbe di nuovo condurre all’imprigionamento dell’anima in un universo senza immagini, alla sua lacerazione tra le barricate da una parte e i barbari dall’altra. Inoltre, la religione potrebbe aiutarci a diventare più consapevoli dell’aspetto non-agnostico della terapia, del fatto che essa è un lavoro che invoca gli Dei. Non deve perciò meravigliare che essa sia piena di magia, di ciarlataneria e di poteri sacerdotali. Così come non deve meravigliare che le emozioni legate all’inizio della terapia e alla sua conclusione, e alla esperienza centrale del transfert, non ricevano spiegazioni soddisfacenti nei libri di psicologia. Il livello di tali spiegazioni è incredibilmente banale se paragonato alla profondità delle esperienze. La religione non soltanto ci darebbe immagini primarie del fare anima, ma aprirebbe anche gli occhi della psicologia alla profondità religiosa delle sue attività, facendole vedere come fin dall’inizio essa abbia attivamente praticato la religione. A questo punto dobbiamo psicologizzare più a fondo nella mossa con cui Freud condannò la religione come «illusione» e considerò invece la psicoanalisi come realtà. È un passo necessario, quando ci si accinge a fondare una religione. Potremmo inoltre vedere in una nuova luce gli sforzi incessanti di Jung di reinterpretare non tanto la scienza, la filosofia, la società, o anche la psichiatria, quanto la teologia. La psicologia del profondo è legata strettamente e aprioristicamente alla religione perché è una psicologia dell’anima. Come tale, la psicologia è spinta dalla «volontà di credere» (come la chiamò James), di cui la sua fede nella sessualità o nell’umanismo o nel sé sono altrettanti idoli. Compiere una re-visione della psicologia significa riconoscere che non può esserci psicologia senza religione, perché in ciò che noi facciamo è sempre presente un Dio. Il primo passo è consistito nel riconoscere il protestantesimo della psicologia. L’ultimo sarà di ammettere che la psicologia

archetipica è teofanica: personizzazione, patologizzazione, psicologizzazione e disumanizzazione sono le modalità della politeizzazione, i modi per rivelare gli Dei in un universo pluralistico. IL CORTEO ESCE

Sebbene questo scritto sia stato un terreno fertile di insostituibili intuizioni, esse non debbono venir considerate né come fondamenti per una teoria sistematica né, tanto meno, come prolegomeni per una qualche futura psicologia archetipica. Il fare anima ha bisogno di recipienti ideazionali adatti, e ha anche bisogno di disfarsene. In questo senso, tutto quello che è scritto nelle pagine precedenti è una confessione creduta appassionatamente, da difendere come gli articoli di una fede, e nello stesso tempo da ripudiare, fare a pezzi, lasciarsi alle spalle. Se non ci si aggrappa a niente, niente può trattenere il movimento del fare anima nel suo continuo processo, che ora, come un lungo corteo rinascimentale, scivola via da noi ed entra nella memoria, esce dal palcoscenico, scompare alla vista. Se ne vanno tutti, anche il Bricoleur e il Briccone Errante che misero assieme l’opera e ne tracciarono la rotta; ecco che escono Mersenne, con la sua tonaca, e Lou, e Hegel; si allontanano i cartesiani e, con essi, i negatori trascendentali della patologia, e l’Io Eroico che ha dovuto subire gli attacchi più pesanti; ed ecco l’Anima che avvolta nei suoi veli meravigliosi muove sorridendo verso il Sud; anche Freud e Jung se ne vanno, fianco a fianco, psicologizzati, e si perdono in lontananza, e i personaggi mitici della Grecia, le parole greche e i detti latini, le autorità apparse in nota, i nemici letteralistici e il loro seguito di errori; e quando l’ultima immagine svanisce, quando tutte le icone se ne sono andate, l’anima incomincia di nuovo a popolare i regni ora silenziosi con figure e fantasie nate dall’immaginazione del cuore.

NOTE

ABBREVIAZIONI

CW

C.G. Jung, Collected Works, trad. ingl. di R.F.C. Hull, Bollingen Series XX, Princeton, N.J. e London, 1953. [Per facilitare al lettore italiano l’identificazione degli scritti di Jung citati, nei casi in cui non vi sia una traduzione italiana diamo il titolo originale del testo e la data in cui fu pubblicato per la prima volta].

LS

H.G. Liddell e R. Scott, A Greek-English Lexicon, Oxford, 1968 . 9

MA

J. Hillman, The Myth of Analysis, Evanston, 1972.

MDR

C.G. Jung, Memories, Dreams, Reflections, a cura di A. Jaffé, trad. ingl. di R. e C. Winston, London, 1963. PER COMINCIARE…

1 The Letters of John Keats, a cura di H.B. Forman, London, 1895, da una lettera datata 19 marzo 1819 (trad. it. Lettere, a cura di L.S. Mazzolani, Torino, 1945). Keats così prosegue: «… dico fare anima e intendo per anima una cosa ben diversa dall’intelligenza. Vi possono essere milioni di intelligenze o scintille della divinità – ma esse non sono anime fino a che non acquistano identità, fino a quando ciascuna non è personalmente se stessa… E allora, come si formano le anime?… Come potranno se non per il tramite d’un mondo come questo? Desidero sinceramente riflettere su questo punto perché lo ritengo un sistema di salvezza più nobile che non quello della stessa religione cristiana».

2 Lo spirito e lo scopo di questo libro sono in armonia con l’Atto di Fondazione del Dwight Harrington Terry Lectures Fund, 1 novembre 1905: «Scopo di questa fondazione non è di promuovere la ricerca e la scoperta scientifica, ma di assimilare e interpretare quanto è stato scoperto o lo sarà in futuro, e di metterlo a frutto per l’umano benessere… I conferenzieri non dovranno superare nessun esame di natura filosofica o religiosa, e nessun sincero ricercatore della verità verrà escluso perché le sue idee appaiono radicali o eversive rispetto alle credenze del tempo. Il fondatore riconosce che il liberalismo di una generazione è spesso il conservatorismo della successiva, e che molti sono stati gli apostoli della vera libertà che hanno subìto il martirio per mano dei seguaci dell’ortodossia. Perciò, egli attribuisce una particolare importanza alla totale libertà di parola, ed è pronto a dare il benvenuto a tutte quelle dichiarazioni che nascono da un intimo convincimento… anche quando esse si oppongono alle idee comunemente e generalmente accettate». 3 J. Ortega y Gasset, On Love, trad. ingl. di T. Talbot, Cleveland, 1957, p. 121 (trad. it. Saggi sull’amore, Milano, 1982). 4 Cfr. Eric A. Havelock, Psyche or the Separation of the Knower from the Known, in Preface to Plato, Oxford, 1963, pp. 197-214; Havelock però situa la psiche dalla parte di colui che conosce, mentre io la considero il fattore separante, l’intermedio. 5 J. Hillman, Suicide and the Soul (1964), New York, 1973, pp. 44-47 per le varie implicazioni della parola «anima» (trad. it. Il suicidio e l’anima, Roma, 1972, pp. 33-35). 6 Collected Works, vol. VI, parr. 743, 722, 78 (trad. it. Tipi psicologici, in Opere, Torino, 1969, vol. VI).

7 Philip Wheelwright, Heraclitus, Princeton, N.J., 1959, fr. 42 (Diels, fr. 45; Burnet, fr. 71; Colli 14 [A55]). M. Marcovich, Heraclitus, Merida, Venezuela, 1967, pp. 366-70, discute succintamente le molte traduzioni e soprattutto il significato di bathun, che come il latino altus può riferirsi anche all’altezza. (La nostra cultura cristiana ha polarizzato in modo radicale queste direzioni facendone il paradiso e l’inferno). Marcovich sottolinea la differenza tra la profondità e la direzione orizzontale sulle superfici della terra. L’anima non è nella superficie delle cose, nelle superficialità, bensì tocca profondità nascoste, una regione che rimanda anche all’Ade e alla morte. 8 CW, vol. IX, t. I, par. 267 (trad. it. Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in Opere, Torino, 1980, vol. IX, t. I). I. PERSONIZZAZIONE O IMMAGINAZIONE DELLE COSE

1 Su Mersenne si veda R. Lenoble, Mersenne ou la naissance du méchanisme, Paris, 1971 . Per un elenco dei visitatori all’abitazione parigina di Mersenne si veda «Note sur la Vie de Mersenne», in Correspondance du P. Marin Mersenne, a cura di P. Tannery e C. de Waard, 11 voll., Paris, 1945, vol. I, pp. 364-78. 2 Per un lungo elenco di personificazioni nell’arte rinascimentale, si veda E. Panofsky, Studies in Iconology, New York, 1962, pp. 257-59 (trad. it. Studi di iconologia, Torino, 1975, pp. 381-83); per una «nuova» personificazione (non elencata da Panofsky), si veda A. Perosa, Febris: A Poetic Myth Created by Poliziano, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», IX, pp. 74 sgg. 3 L’attacco contro l’alchimia si trova in gran parte in La verité des sciences, Paris, 1625. Per una discussione degli 2

argomenti usati da Mersenne contro Robert Fludd, Giordano Bruno e la scuola di Ficino, si veda F.A. Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, London, 1964, pp. 432-39 (trad. it. Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari, 1969, pp. 465-73). La Yates a p. 435 (trad. it. cit., p. 468) scrive: «Mersenne è un moderno; ha scavalcato, per così dire, la barricata e si trova sulle nostre stesse posizioni; credere nel potere delle immagini magiche delle stelle gli sembra del tutto pazzesco… E non condanna queste immagini perché ne tema il potere, ma perché esse, per lui, sono prive di senso. Mersenne, che ripudia completamente l’astrologia, naturalmente ripudia anche la magia astrale, le virtù miracolose attribuite a piante, pietre, immagini, e l’intero apparato sul quale si fonda la magia naturalis». 4 Sulla importanza di Mersenne per la scienza si veda, oltre a Lenoble, Mersenne…, cit.; L. Thorndike, «Mersenne and Gassendi», cap. XVI di A History of Magic and Experimental Science, vol. VII, New York-London, 1958. D.P. Walker, The Ancient Theology, Ithaca, N.Y., 1972, pp. 189-93, avanza l’ipotesi che Mersenne, proprio coi suoi attacchi contro la tradizione animistica, favorì il rinfocolarsi di controversie che la tennero viva. Walker scopre anche (pp. 168-75) una curiosa ombra platonica in Mersenne: la sua segreta traduzione e diffusione di un libro all’indice di Herbert of Cherbury. 5 Mersenne, Correspondance…, cit., vol. V, pp. 283-89. La riduzione della «Scala di Giacobbe» a un semplice oggetto da misurare è un esempio classico di come si distrugge un’immagine tradizionalmente centrale del misticismo mitico ponendosi la domanda sbagliata. Cfr. A. Patrides, Renaissance Interpretations of Jacob’s Ladder, in «Theologische Zeitschrift», 18, 1962, pp. 411-19. In modo simile, l’uso della geometria per risolvere il mistero teologico della Trinità (nella quale, ovviamente, come Mersenne sapeva, permangono tracce di un precedente politeismo)

mostra ancora una volta la divinizzazione della scienza matematica. È curioso vedere come l’ideale francescano della renovatio riesca a trasformarsi attraverso il francescano (minimo) Mersenne in uno scientismo meccanico e in una psicologia cartesiana senz’anima. 6 H. Hastings, Man and Beast in French Thought of the Eighteenth Century, Baltimore, 1936, Introduzione e cap. I. 7 Se un bambino muore prima di essere stato battezzato va nel Limbo. L’anima del bambino non è pienamente equivalente alle anime delle altre persone battezzate. Nel protestantesimo e nel cattolicesimo la dottrina del Limbo è ancor oggi un argomento spinoso; per una discussione esauriente, anche se non recente, sulla questione della morte dei bambini non battezzati si veda A. Vacant ed E. Mangenot, Dictionnaire de théologie catholique, Paris, 1910, vol. II, pp. 364-78. Le infuocate controversie teologiche sul battesimo dei neonati hanno il loro sfondo psicologico nell’archetipo del fanciullo e in ciò che esso evoca nella psiche. Ho discusso questo punto in un altro mio saggio vedendolo alla luce del latente paganesimo e politeismo costellati dal «bambino», e che oggi il linguaggio freudiano ha formulato come sua natura polimorfa e perversa. Il battesimo impediva la regressione della psiche infantile al suo livello pre-cristiano. Si veda il mio Abandoning the Child, in «Eranos», 40, 1971, pp. 369-70, ora in Loose Ends, Spring Publications, 1975, pp. 16-17. 8 C.S. Peirce (1903), citato in The Problem of Universals, a cura di R.J. van Iten, New York, 1970, pp. 152 sgg. 9 Cfr. M. Foucault, Madness and Civilization: A History of Insanity in the Age of Reason, trad. ingl. di R. Howard, New York, 1965 (trad. it. Storia della follia nell’età classica, Milano, 1976). 10

Cfr. Perceval’s Narrative, a cura di G. Bateson, Stanford, Calif., 1961, p. 286. 11 C.F. Chapin, Personification in Eighteenth-Century English Poetry, New York, 1955, p. 16; M.H. Abrams, The Mirror and the Lamp (1953), New York, 1971, pp. 274-79, 288 (trad. it. Lo specchio e la lampada, Bologna, 1976, pp. 297-99, 310); D.C. Allen, Mysteriously Meant, Baltimore, 1970, cap. x. Per una presentazione più favorevole delle idee di Locke, si veda E.L. Tuveson, The Imagination as a Means of Grace (1960), New York, 1974. 12 D.C. Allen, Mysteriously Meant, cit., p. 308. 13 C.F. Chapin, Personification…, cit., cap. III. Questa antica idea estetica è brillantemente discussa da Mario Praz nel cap. I, «Ut Pictura Poesis», del suo Mnemosyne: The Parallel Between Literature and the Visual Arts, Bollingen Series, Princeton, N.J., 1970 (ed. it. Mnemosine – Parallelo tra la letteratura e le arti visive, Milano, 1971). 14 Cfr. Frank E. Manuel, The Eighteenth Century Confronts the Gods, cap. V, «The New Allegorism», Cambridge, Mass., 1959; J. Seznec, The Survival of the Pagan Gods, trad. ingl. di B.F. Sessions, New York, 1961, pp. 263-323 (trad. it. La sopravvivenza degli antichi dèi, Torino, 1981). 15 Sulla personizzazione tra i romantici, ove «la personificazione venne ora ad essere un segno distintivo della sovrana facoltà dell’immaginazione», si veda Abrams, The Mirror and the Lamp, cit., p. 55, e inoltre pp. 64-68, 288-93 (trad. it. cit., pp. 98, 109-13, 310-13). Per un analogo tentativo da parte dei poeti francesi di reimmaginare il mondo attraverso la personizzazione, si veda R. Marquardt, Die Beseelung des Leblosen bei französischen Dichtern des XIX Jahrhunderts, Halle, 1906. 16

Mario Untersteiner, The Sophists, trad. ingl. di K. Freeman, Oxford, 1954, p. 243 (ed it. I sofisti, Torino, 1949, pp. 289-90). 17 Tre eccellenti saggi sul problema dell’immaginazione nel pensiero occidentale sono: M.W. Bundy, The Theory of Imagination in Classical and Medieval Thought, in «University of Illinois Studies in Language and Literature», XII, 1927; Gilbert Durand, Défiguration philosophique et figure traditionnelle de l’homme en Occident, in «Eranos», 38, 1969, pp. 45-94; Edward S. Casey, Toward an Archetypal Imagination, in «Spring», 1974. 18 Spinoza, Tractatus theologico-politicus, III, 83 (trad. it. Trattato teologico-politico, Torino, 1972), citato da Allen, Mysteriously Meant, cit., p. 301. 19 Cfr. J. Piaget, A Child’s Conception of Physical Causality, trad. ingl. di M. Gabain, London, 1930 (trad. it. Causalità fisica nel bambino, Roma, 1977). Che tutto il pensare attraverso personificazioni sia un residuo dell’infanzia della razza o dell’individuo è un dogma di qualsiasi razionalismo, persino in Platone e in Vico, e ha il suo esito contemporaneo nella svalutazione marxiana e freudiana del pensiero mitico e religioso. 20 Oxford English Dictionary (OED). 21 Ibid. 22 Questa posizione nel pensiero religioso ha il suo miglior rappresentante in Martin P. Nilsson, Kultische Personifikationen, in Opuscula Selecta, Lund, 1960, vol. III, p. 237, il quale scrive: «Si aveva bisogno di qualcosa di corrispondente ai bisogni degli uomini, d’un potere specifico e definito che fosse conforme a specifici bisogni umani – così nacque la personificazione, attraverso la quale si poteva

descrivere ciò di cui si aveva bisogno: era una sezione specifica e limitata del potere divino, e venne chiamata Dio». Nel pensiero letterario il miglior esempio è dato da Edmund Wilson in Axel’s Castle, New York, 1936, p. 176 (trad. it. Il castello di Axel, Milano, 1965, p. 160): «Naturalmente, gli elementi reali di ogni opera narrativa sono gli elementi di cui si compone la personalità dell’autore… I suoi personaggi sono personificazioni dei diversi impulsi ed emozioni dell’autore: e i rapporti tra quelli, nelle vicende narrate, corrispondono in realtà ai rapporti tra questi ultimi», citato in Abrams, The Mirror and the Lamp, cit., p. 227 (trad. it. cit., p. 358). 23 Cfr. E. Renner, Eherne Schalen: Ueber die animistische Denk- und Erlebnisformen, Bern-Stuttgart, 1967, pp. 205208. 24 Gerardus van der Leeuw, Religion in Essence and Manifestation, trad. ingl. di J.E. Turner, New York, 1963, vol. I, par. 9, 1 (ed. it. Fenomenologia della religione, Torino, 1960). 25 R. Hinks, Myth and Allegory in Ancient Art, London, 1939, p. 109. Un esauriente elenco di queste personificazioni e dei loro luoghi di culto è fornito da L. Deubner, in W.H. Roscher, Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie, vol. III, t. II, pp. 2068-69, Leipzig-Stuttgart, Hildesheim, 1965. Per alcune più recenti considerazioni sulla personificazione greca, si veda T.B.L. Webster, Personification as a Mode of Greek Thought, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XVII, 1954, pp. 1012. 26 Plotino, Enneadi, IV, 3, 11 (The Enneads, trad. ingl. di Stephen Mackenna, London, 1956). 27 Joseph Gantner, L’Immagine del Cuor, in «Eranos», 35,

1966, pp. 267-72. Si confronti con Henry Corbin, Theophanic Imagination and Creativity of the Heart, nel suo Creative Imagination in the Sufism of Ibn ’Arabi, trad. ingl. di R. Manheim, Princeton, N.J., 1969, p. 221, dove troviamo questo passo: «In Ibn ’Arabi, come nel sufismo in generale, il cuore (qalb) è l’organo che produce vera conoscenza, intuizione comprensiva, la gnosi (ma ’rifa) di Dio e dei misteri divini, in breve, l’organo di tutto ciò che è connotato dal termine “scienza esoterica”». I paralleli col misticismo occidentale sono descritti in Le Coeur (miscellanea di scritti), Études Carmélitaines, Bruges, 1950. Per i rapporti col cuore fisiologico nelle teorie dell’emozione, si veda il mio Emotion: A Comprehensive Phenomenology of Theories and their Meanings for Therapy, Evanston, III., 1961, pp. 98 sgg., 153, 62, e inoltre p. 182 su Paracelso e l’immaginazione del cuore. 28 Miguel de Unamuno, Tragic Sense of Life (1921), trad. ingl. di J.E.C. Flitch, New York, 1954, p. 139 (trad. it. Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, Firenze, 1937, pp. 156, 161). 29 W. Dilthey, Gesammelte Schriften, 12 voll., Stuttgart, 1962, soprattutto voll. V e VII; per un indice ragionato degli argomenti, si veda U. Herrmann, Bibliographie Wilhelm Dilthey, Weinheim, 1969. Per delle opere su Dilthey in inglese si veda H.A. Hodges, The Philosophy of Wilhelm Dilthey, London, 1952; H.N. Tuttle, Wilhelm Dilthey’s Philosophy of Historical Understanding – A Critical Analysis, Leiden, 1969; R.E. Palmer, Hermeneutics: Interpretation Theory in Schleiermacher, Dilthey, Heidegger, and Gadamer, Evanston, III., 1969. 30 Sul rapporto Dilthey-Nietzsche, si veda J. Kamerbeek, Dilthey versus Nietzsche, in «Studia Philosophica», 10, 1950, pp. 52-84, unitamente alla critica sprezzante che ne fa G. Misch (curatore delle opere di Dilthey) in Dilthey versus

Nietzsche, in «Die Sammlung», 7, 1952, pp. 378-95. Nei suoi scritti, Nietzsche non menziona mai Dilthey, il quale, a sua volta, menziona raramente Nietzsche. 31 Citato e tradotto da Palmer, Hermeneutics…, cit., p. 115 (da Dilthey, Gesammelte Schriften, cit., vol. V, p. 212). Palmer mette in luce il rilievo dato da Dilthey alle persone; nondimeno l’azione di Dilthey rimane nei limiti della fantasia del «personalismo» (si veda sopra, pp. 52-53). Il suo approccio rappresenta un progresso rispetto ai metodi oggettivi della scienza positivistica; tuttavia, Dilthey tende ancora a letteralizzare la personificazione in persone concrete. Egli non fa il passo che lo porterebbe nella personizzazione; perché è quest’ultima, e non le persone come tali, ciò che favorisce la nostra comprensione. Con tutto ciò Dilthey fu un precursore della psicologia archetipica. Egli muoveva nella direzione del mitopoietico, di cui riconosceva il ruolo per la comprensione psicologica, suo fondamentale interesse. Prima però egli dovette confrontarsi con la psicologia nella sua definizione positivistica. Questo confronto lo portò a riconoscere che la psicologia, sulla quale egli voleva basare ogni studio umano che impiegasse il metodo della comprensione, era più vicina all’arte, alla poesia, alla biografia e alla narrativa che non alla scienza sperimentale. Egli riconobbe inoltre che la «patologizzazione dell’immagine» era il punto nodale in cui s’incontravano sogno, fantasia, follia e poesia (Dilthey, Dichterische Einbildungskraft und Wahnsinn [1886], in Gesammelte Schriften, cit., vol. VI, pp. 139, 90 sgg.). In vecchiaia, Dilthey progettò una revisione della sua Poetik. Essa avrebbe avuto importanti componenti di psicologia archetipica, perché si sarebbe fondata sulle tipicità, sul modo simbolico di apprensione, e avrebbe inevitabilmente condotto a una rivalutazione della posizione romantica riguardo alla natura delle immagini poetiche e dei loro aspetti bizzarri e psicopatologici. Cfr. K. Müller-Vollmer, Towards a Phenomenological Theory of Literature: A Study of Wilhelm

Dilthey’s ‘Poetik’, Stanford Studies in German and Slavics, vol. I, The Hague, 1963. 32 Giambattista Vico, La scienza nuova seconda, a cura di F. Nicolini, 2 voll., Bari, 1953, p. 90, par. 205. Quando si cita Vico, bisogna ricordare che, malgrado la sua nozione di sviluppo storico dalle antiche personificazioni poetiche alla moderna concettualità razionale, per lui sono il mitico e il poetico a occupare la posizione più elevata. La personificazione era la modalità dell’originario «parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine» (par. 401). Questo parlare presentato nel mito era vera narratio, ossia «parlar vero», e la logica della poesia o la saggezza della poesia era necessaria, vera, spontanea, economica e universale. Si veda A.R. Caponigri, Time and Idea: The Theory of History in Giambattista Vico, cap. IX, London, 1953; Notre Dame, Ind., 1968. Nella Scienza nuova, i passi più pertinenti a questa discussione sono ai parr. 205-209, 317, 381, 401; sui rapporti tra Vico e Dilthey, cfr. il saggio di H. Hodges, in G. Tagliacozzo e H.V. White, Giambattista Vico: An International Symposium, Baltimore, 1969. 33 E.R. Dodds, The Ancient Concept of Progress, Oxford, 1973, p. 6. 34 E. Cassirer, The Philosophy of Symbolic Forms, trad. ingl. di R. Manheim, New Haven-London, 1957, vol. III, p. 71 (trad. it. La filosofia delle forme simboliche, Firenze, 196166, vol. III, t. I, p. 95). 35 W.F. Otto, Mythos und Welt, Stuttgart, 1962, p. 261. 36 Giovanni Papini, Visita a Freud, in Gog, Firenze, 1931, p. 126 (trad. ingl. A Visit to Freud, in «Review of Existential Psychology and Psychiatry», IX, 1969, pp. 130-34). 37

K.M. Abenheimer, Lou Andreas-Salome’s Main Contributions to Psycho-Analysis, in «Spring», 1971, pp. 2237. Il conflitto tra l’approccio oggettivo e quello antropomorfico è epitomizzato nel contrasto sorto tra Lou e Freud a proposito dell’elogio che essa gli dedicò nel saggio dal titolo Mein Dank an Freud, Wien, 1931. «Freud le disse per ben due volte che bisognava “assolutamente modificare il titolo troppo personale”, proponendo di sostituire “Freud” con “psicoanalisi”; essa rispose di no tutte e due le volte, perché “l’opera è in realtà proprio quel nome, è la mia esperienza dell’uomo con quel nome; non so neppure immaginare che cosa sarebbe stata come pura conoscenza oggettiva senza questa esperienza umana (dopo tutto, sono anche donna)”» (R. Binion, Frau Lou, Princeton, N.J., 1968, p. 464). 38 Lou incontrò Nietzsche quando era ancora una studentessa, e per un certo tempo viaggiò e visse con lui. Per un confronto delle idee di Lou con quelle di Dilthey, si veda Abenheimer, Lou Andreas-Salome…, cit.; Binion, Frau Lou, cit., p. 465, non traccia un rapporto diretto con Dilthey ma riconosce il carattere diltheiano della sua tenace difesa dell’«esperienza vissuta». Tuttavia «Dilthey era il più illustre professore di filosofia di Berlino nel periodo in cui Lou frequentava le lezioni in quell’università (1883-87) [e Lou aveva un debole per gli uomini illustri]… Lou condivideva (a un livello molto più ridotto) tutti i suoi principali interessi… Tutte le critiche metodologiche che Lou rivolse a Freud derivano chiaramente dalle idee di Dilthey». (Comunicazione privata di K.M. Abenheimer). 39 Il paragone con Diotima trova una suggestiva conferma in una lettera inviatale da Freud (1931), in cui egli scrive della sua «superiorità su tutti noi – in armonia con le altezze dalle quali tu sei discesa a noi» (S. Leavy nella sua introduzione a The Freud Journal of Lou Andreas-Salome, New YorkLondon, 1964-65, p. 20). La corrispondenza tra Freud e Lou

durò fino al 1936 (sei mesi prima della morte di lei, avvenuta nel febbraio del 1937, quando Freud aveva ottant’anni). Cfr. Sigmund Freud-Lou Andreas-Salomé, Briefwechsel, a cura di E. Pfeiffer, Frankfurt a.M., 1966 (trad. it. Eros e conoscenza: lettere 1912-1936, Torino, 1983). Essa suscitò qualcosa di simile in Martin Buber, che intitolò una delle opere di lei Die Erotik, dichiarandola «un lavoro fondamentalmente puro e possente» (Binion, Frau Lou, cit., p. 327). Leavy, The Freud Journal…, cit., p. 207, scrive: «In lei, l’associazione di spiritualità ed erotismo era integrale e onnipresente». Si dice che durante il loro primo incontro (1882) in San Pietro, Nietzsche le abbia rivolto queste parole: «Da quali stelle siamo caduti per venire a incontrarci qui?» (Ibid., p. 6). Secondo Binion, Frau Lou, cit., p. 464, l’analogia DiotimaLou era già stata sottolineata nel 1932 da Sarasin. 40 Abenheimer, Lou Andreas-Salome…, cit., pp. 26-27. 41 Cfr. la mia nota sull’etimologia e la personificazione del dio Libero (che fa parte della configurazione di DionisoBacco) nel termine libido in Emotion…, cit., pp. 76-77. 42 Cfr. G. Tourney, Freud and the Greeks: A Study of the Influence of Classical Greek Mythology and Philosophy upon the Development of Freudian Thought, in «Journal of the History of Behavioral Sciences», I, 1965, n. 1. 43 S. Freud, New Introductory Lectures on Psycho-Analysis, trad. ingl. di H. Sprott, London, 1933, p. 124 (trad. it. in Opere, Torino, 1979, vol. XI, p. 204). 44 S. Freud, The Ego and the Id, London, 1961, vol. XIX, p. 59 (trad. it. L’Io e l’Es e altri scritti, in Opere, Torino, 1977, vol. IX, p. 520). 45 Hillman, The Dream and the Underworld, in «Eranos», 42, 1973. (Il saggio, ampliato, è ora disponibile come volume

a sé con lo stesso titolo, New York, 1979; trad. it. Il sogno e il mondo infero, Milano, 1984). 46 L. Wittgenstein, Lectures and Conversations on Aesthetics, Psychology and Religious Belief, a cura di C. Barrett, Oxford, 1970, p. 51 (trad. it. Lezioni e conversazioni, Milano, 1967, p. 137). 47 CW, vol. IX, t. I, par. 514 (trad. it. cit., vol. IX, t. I). 48 Ibid., vol. II, Association, Dream and Hysterical Symptom (Assoziation, Traum und hysterisches Symptom, 1906). Inoltre, vol. VIII, par. 203 (trad. it. La dinamica dell’inconscio, in Opere, Torino, 1976, vol. VIII); vol. IX, t. I, par. 507 (trad. it. cit., vol. IX, t. I). 49 Ibid., vol. VIII, parr. 593, 217 (trad. it. cit., vol. VIII); vol. IX, t. II, par. 25 (trad. it. Aión: ricerche sulla storia del simbolo, in Opere, Torino, 1982, vol. IX, t. II). 50 Aniela Jaffé, The Creative Phases in Jung’s Life, in «Spring», 1972, pp. 171-72. 51 CW, vol. XIII, par. 58 (trad. it. Il segreto del fiore d’oro, Torino, 1981). 52 Ibid., vol. XIII, par. 62 (trad. it. cit.); vol. VII, par. 314 (trad. it. L’io e l’inconscio, Torino, 1967); vol. IX, t. II (trad. it. cit., vol. IX, t. II). 53 Ibid., vol. VIII, par. 209 (trad. it. cit., vol. VIII). 54 Ibid., vol. XIII, parr. 299, 62 (trad. it. nell’ordine, in La simbolica dello spirito, Torino, 1975; Il segreto…, cit.). 55 Ibid., vol. VIII, par. 623 (trad. it. cit., vol. VIII). 56

Ibid., vol. XIII, par. 75; vol. XI, parr. 889, 769 (trad. it. nell’ordine: Il segreto…, cit.; Psicologia e religione, in Opere, Torino, 1979, vol. XI). 57 Ibid., vol. VIII, par. 618 (trad. it. cit., vol. VIII). 58 Ibid., vol. VI, par. 78; cfr. vol. VI, par. 743 (trad. it. cit., vol. VI). 59 Ibid., vol. IX, t. I, par. 136 (trad. it. cit., vol. IX, t. I). 60 MDR, pp. 181-85 (trad. it. Ricordi, Sogni, Riflessioni, Milano, 1965, pp. 209-13). 61 È soprattutto l’intenzionalità delle potenze personificate che van der Leeuw sottolinea. «Che cosa desiderate, o potenze? E perché lo desiderate?» è la domanda che viene rivolta loro (Religion in Essence…, cit., vol. I, par. 19, 4; ed. it. cit.). Cfr. la descrizione del complesso offerta da Jung, CW, vol. XIII, par. 48; vol. VIII, par. 580 (trad. it. Il segreto…, cit.; cit., vol. VIII). 62 S. Freud, New Introductory Lectures on Psycho-Analysis, trad. ingl. cit., p. 106 (trad. it. cit., vol. XI, p. 190). 63 O. Fenichel, The Psychoanalytic Theory of Neurosis, New York, 1945, p. 19 (trad. it. Trattato di psicoanalisi, Roma, 1951, p. 29). 64 J. Hillman, Psychology: Monotheistic or Polytheistic?, in «Spring», 1971, pp. 193-208. Cfr. A. Brelich, Der Polytheismus, in «Numen», 7, 1960, p. 129; van der Leeuw, Religion in Essence…, cit., vol. I, par. 19, 1 (ed. it. cit.), sul rapporto tra politeismo e personizzazione. 65 CW, vol. XIII, par. 51 (trad. it. Il segreto…, cit.). 66

G.S. Kirk, Myth, Its Meaning and Function in Ancient and Other Cultures, Cambridge e Berkeley, Calif., 1970, p. 205 (trad. it. Il mito: significato e funzioni nella cultura antica e nelle culture altre, Napoli, 1980). 67 Van der Leeuw, Religion in Essence…, cit., vol. I par. 19, 4. 68 Roberto Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, Oxford, 1969, p. 140. Sui rapporti tra Rinascimento e Grecia si veda la Bibliografia citata più avanti al quarto capitolo; inoltre, Deno John Geanakopolos, Byzantium and the Renaissance, Hamden, Conn., 1973. 69 J.M. Osborn, Travel Literature and the Rise of NeoHellenism in England, in «Bulletin of the New York Public Library», 67, 1963, p. 300. Osborn passa in rassegna la letteratura sull’argomento del «ritorno alla Grecia» e i resoconti dei viaggiatori, soprattutto dal Rinascimento in poi. 70 B. Snell, The Discovery of the Mind, trad. ingl. di T.G. Rosenmeyer, New York, 1960, pp. 258-61 (trad. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, 1963, pp. 348 sgg.). Cfr. J. Ortega y Gasset, Meditations on Quixote, trad. ingl. di E. Rugg e D. Marin, New York, 1963, p. 76 (trad. it. Meditazioni del Chisciotte, Napoli, 1986). Sulla storia del rapporto con la Grecia si veda anche R. Pfeiffer, Von der Liebe zu den Griechen, in «Münchener Universitätsreden», N.F. 20, München, 1957. 71 CW, vol. IV, par. 106 (trad. it. Freud e la psicoanalisi, in Opere, Torino, 1973, vol. IV). 72 Ibid., vol. XIV, par. 502 (Mysterium Coniunctionis, 195556); vol. IX, t. I, parr. 507-508 (trad. it. cit., vol. IX, t. I). 73

Ibid., vol. XIV, par. 671. 74 Ibid., vol. V, par. 274 (trad. it. Simboli della trasformazione, in Opere, Torino, 1970, vol. V). 75 MDR, p. 45 (trad. it. cit., p. 65). 76 CW, vol. XII, par. 65 (trad. it. Psicologia e alchimia, Torino, 1981). 77 Cfr. K. Kerényi, Asklepios, trad. ingl. di R. Manheim, New York, 1959, specialmente pp. 18-46; C.A. Meier, Ancient Incubation and Modern Psychotherapy, Evanston, 111., 1967, p. 59. 78 Cfr. W.H. Roscher e J. Hillman, Pan and the Nightmare: Two Essays, New York-Zürich, 1972 (trad. it. del saggio di Hillman: Saggio su Pan, Milano, 1977). 79 CW, vol. XIII, par. 55 (trad. it. Il segreto…, cit.). 80 Ibid., vol. VIII, par. 129 (trad. it. cit., vol. VIII). 81 Gregorio di Nazianzio, In lode di Basilio (Patr. Gr. 36, 508), cit. in J. Shiel, Greek Thought and the Rise of Christianity, London, 1968, p. 76. 82 Cfr. MA, Parte Terza, sull’isteria e Dioniso (trad. it. Il mito dell’analisi, Milano, 1979, Parte Terza). 83 CW, vol. VIII, par. 280 (trad. it cit., vol. VIII). 84 Ibid., vol. IX, t. I, par. 272 (trad. it. cit, vol. IX, t. I). 85 Ibid., par. 50 (trad. it. cit., vol. IX, t. I). 86 Questa mancanza di distinzione tra le figure immaginali

sembra essere un tratto basilare del regno immaginale stesso. Infatti, persino un uomo così attento nelle sue distinzioni come Plotino sovente confonde «gli Dei» con i daimones e con gli archetipi, cfr. Plotino, trad. ingl. di S. Mackenna, cit., p. XXVII. 87 CW, vol. IX, t. I, par. 271 (trad. it. cit., vol. IX, t. I). 88 Il termine «immaginale» per indicare il regno delle immagini, che è anche il regno dell’anima, viene da Henry Corbin. Cfr. il suo Mundus Imaginalis, or the Imaginary and the Imaginal, in «Spring», 1972, pp. 1-19. 89 Mary Watkins, The Waking Dream in European Psychotherapy, in «Spring», 1974 e il libro della stessa autrice Waking Dreams, New York, 1976. 90 Cfr. (in inglese) G. Durand, Exploration of the Imaginal, in «Spring», 1971, pp. 84-101. In francese i suoi principali scritti sono pubblicati annualmente nell’«Eranos Jahrbuch» (1964-1973); si veda inoltre il suo libro Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Paris, 1963 (trad. it. Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari, 1972). 91 «L’immagine non è quello che è presente alla consapevolezza – questo è il contenuto vero e proprio – ma come questo contenuto viene presentato» (E.S. Casey, Toward a Phenomenology of Imagination, in «Journal of the British Society for Phenomenology», 5, 1974, p. 10). 92 R.G. Collingwood, «Polytheistic and Monotheistic Science», cap. xx di An Essay on Metaphysics, Oxford, 1940; sulla metafisica monoteistica si veda George Boas, «Monotheism», cap. IX del suo The History of Ideas, New York, 1969. 93 Per una esauriente rassegna su Anima, si vedano le due

parti del mio saggio Anima, in «Spring», 1973, pp. 97-132 e «Spring», 1974, pp. 113-46. 94 Cfr. il concetto di «importanza» in A.N. Whitehead, Modes of Thought (1938), New York, 1958, pp. 159-60: «L’importanza si rivela in transizioni di emozione» e «La mia importanza è la mia validità emozionale ora…» (trad. it. I modi del pensiero, Milano, 1972, p. 169). 95 Cfr. MA, Parte Prima, per una lunga discussione del rapporto tra l’anima (Psiche) e l’amore (Eros), della letteratura su questo tema e della sua importanza per la psicologia del profondo (trad. it. cit., Parte Prima). 96 Depersonalization, a cura di J.-E. Meyer, Darmstadt, 1968, una raccolta di importanti saggi tutti in tedesco. 97 J. Drever, A Dictionary of Psychology, London, 1953, p. 62. 98 CW, vol. IX, t. I, par. 57 (trad. it. cit., vol. IX, t. I). 99 Citato da Emile Male, The Gothic Image (1913), trad. ingl. di D. Nussey, New York, 1958, p. 392; cfr. Otto von Simson, The Gothic Cathedral, Bollingen Series, New York, 1956, pp. 183-231. 100 E.H. Gombrich, Personification, in Classical Influences on European Culture, a cura di R.R. Bolgar, Cambridge, Engl., 1971, p. 248. 101 E. Mounier, Personalism, trad. ingl. di P. Mairet, New York, 1952, p. XI (trad. it. Il personalismo, Roma, 1964, p. 14). 102 E.S. Brightman, Personality as a Metaphysical Principle, in Personalism in Theology. Essays in Honor of Albert

Knudson, Boston, 1943, p. 43. La migliore discussione delle varie sfumature di significato della parola «personalità», unitamente a una introduzione storica a questo concetto e alla sua letteratura, è tuttora quella di Gordon Allport nel suo Personality, cap. III, New York, 1937. Wilhelm Stern riassume l’approccio tedesco nel suo General Psychology from the Personalistic Standpoint, trad. ingl. di H.D. Spoeri, New York, 1938. Né Allport né Stern si soffermano sulla questione che è oggetto della nostra indagine e che è inevitabile in ogni discussione della personalità: la tendenza della psiche a personizzare e ad avere esperienza degli Dei come persone. 103 Cfr. Kathleen Raine, Blake and Tradition, Princeton, N.J., 1968, vol. II, pp. 215-17. 104 Platone, Leggi, I, 644d; VII, 803c; Rep., VII, 514b, in Platone, Tutte le opere, Firenze, 1974, nell’ordine pp. 1189, 1290, 1018. 105 CW, vol. V, par. 388 (trad. it. cit., vol. V). 106 Ibid., vol. XIII, par. 61 (trad. it. Il segreto…, cit.). 107 Gaston Bachelard, The Poetic Reverie, trad. ingl. di D. Russell, Boston, 1971, p. 173 (trad. it. La poetica della rêverie, Bari, 1972): «… si stabilisce una psicologia delle maiuscole. Le parole di chi sogna divengono nomi del Mondo. Acquisiscono il diritto alle maiuscole. Allora il mondo è grande e l’uomo che lo sogna è un Grande. Questa grandezza dell’immagine è spesso un’obiezione per un uomo di buon senso». È difficile per noi, oggi, avere di nuovo accesso alla «psicologia delle maiuscole». Essa fa parte della coscienza mitica, o di quella che Bachelard chiama la coscienza «del sognatore». L’uso delle maiuscole è diventato un problema puramente tecnico per tipografi e redattori. Non così per gli antichi greci, i quali potevano mantenere

l’ambiguità del «come se», la natura «quasi personale» delle loro figure archetipiche. H.J. Rose ne dà una splendida descrizione in un suo passo sulle personificazioni greche. Egli dice che oggigiorno uno scrittore «che scriva in inglese o in francese contrassegnerà le sue personificazioni con una iniziale maiuscola. Un poeta greco, in special modo Pindaro, può dire nella medesima frase che Themis… è la consigliera di Zeus e che themis senza maiuscola (a confusione dei moderni curatori, che non possono stampare la stessa parola in due modi diversi contemporaneamente) viene praticata con zelo a Egina (VIII Olimpica, vv. 21-22)». Lezione introduttiva, in La Notion du Divin, Fondation Hardt I, Genève, 1954, p. 26. 108 CW, vol. VII, par. 183 (trad. it. in La psicologia dell’inconscio, Torino, 1968). Sul rapporto tra daimon, destino ed esperienza personale, si veda B.C. Dietrich, Death, Fate and the Gods, London, 1967, p. 319; E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational, Berkeley, Calif., 1951, pp. 23, 42, 58 e note (trad. it. I greci e l’irrazionale, Firenze, 1959, pp. 17 nota 4, 44, 58 e nota 5); Paul Friedländer, Plato, 3 voll., trad. ingl. di H. Meyerhoff, Bollingen Series, New York e Princeton, N.J., 1958-69, vol. I, cap. II, «Demon and Eros», e W.K.C. Guthrie (sul daimon in Empedocle) nella sua History of Greek Philosophy, Cambridge, 1965, vol. II, pp. 263 sg. 109 Cfr. A.B.J. Plaut, Reflections about not being able to Imagine, in «Journal of Analytical Psychology», 11, 1966, p. 130; R. Grinnell, Reflections on the Archetype of Consciousness: Personality and Psychological Faith in «Spring» 1970, in particolare pp. 36-37. Grinnell parla della fede come d’un «dono della colomba», facendo riferimento a un sogno di Jung nel quale una colomba si trasforma in una bambina. Questo sogno confermò in Jung la sua fede nella propria personalità dopo la rottura con Freud e il suo susseguente isolamento, durante il quale egli si era rivolto

alle persone della sua psiche e aveva fatto i primi esperimenti con l’immaginazione attiva. Come suggerisce Grinnell, la scoperta della personalità, oltre alla fede in essa e nella realtà della psiche, è un dono della colomba-fanciulla. L’implicazione è che immaginare è fede psicologica. È una fede nelle immagini e gli atti di fede psicologica sono attività immaginative. II. PATOLOGIZZAZIONE O DISGREGAZIONE

1 Freud, New Introductory Lectures on Psycho-Analysis trad. ingl. cit., p. 78 (trad. it. cit., vol. XI, p. 170). 2 E.H. Erikson, Identity and the Life Cycle, Psychol. Issues, Monograph Series 1, New York, 1959, p. 122. 3 K. Jaspers, General Psychopathology, trad. ingl. di J. Hoenig e M.W. Hamilton della 7 ed. ted., Chicago, 1963 (trad. it. Psicopatologia generale, Roma, 1965). 4 E.H. Battenberg e E.G. Wahner, Terminologische Kommunikabilität zwischen Psychiatern und Psychologen, in «Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten», 215, 1971, n. 1, pp. 33-45. 5 Per una discussione dei problemi teorici e metodologici nella storia della psichiatria, si veda Psychiatry and its History: Methodological Problems in Research, a cura di G. Mora e J.L. Brand, Springfield, 1970; G.H. Frank, Psychiatric Diagnosis, Oxford, 1973, passa in rassegna l’intera questione delle classificazioni psichiatriche; cfr. anche S.L. Sharma, A Historical Background of the Development of Nosology in Psychiatry and Psychology, in «American Psychologist», 25, 1970, pp. 248-63. 6 E. Fischer-Homberger, Eighteenth-Century Nosology and a

its Survivors, in «Medical History», 14, 1970, n. 4, pp. 397 sgg. 7 Per l’esistenza di rapporti tra le sindromi e gli archetipi, si veda il mio An Essay on Pan, in Pan and the Nightmare: Two Essays, cit. (trad. it. cit.); MA, Parte Seconda, in cui viene esaminata in particolare la questione della psicopatologia e del suo linguaggio (trad. it. cit., Parte Seconda); e sopra, cap. I, sulla depersonalizzazione; si veda inoltre, N. Micklem, On Hysteria: The Mythical Syndrome, in «Spring», 1974, pp. 147-65. 8 F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, 1975 , vol. VI, t. III, p. 111. 9 M. Foucault, Madness and Civilization…, cit. (trad. it. cit.). 10 T.S. Szasz, The Myth of Mental Illness, New York, 1961 (trad. it. Il mito della malattia mentale, Milano, 1974); The Manufacture of Madness, New York, 1971 (trad. it. I manipolatori della pazzia, Milano, 1972); Ideology and Insanity, Garden City, 1970 (trad. it. Disumanizzazione dell’uomo, Milano, 1977 ). 11 E.A. Ackerknecht, Psychopathology, Primitive Medicine and Primitive Culture, in «Bulletin of the History of Medicine», 14, 1943, pp. 30-67; ora con una appendice nel suo Medicine and Ethnology, Bern, 1971, pp. 57-89. 12 Cfr. in particolare R.D. Laing, «The Schizophrenic Experience», nel suo The Politics of Experience, Harmondsworth, 1967, p. 95 (trad. it. La politica dell’esperienza, Milano, 1968): «… senza alcuna eccezione l’esperienza e il comportamento che vengono etichettati come schizofrenici costituiscono la strategia speciale che 2

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una persona inventa allo scopo di vivere in una situazione invivibile». È un tentativo di sopravvivere in un mondo folle chiamato «normale». 13 Ibid., p. 99 (trad. it. cit., p. 119). 14 G.W.F. Hegel, Philosophy of Mind, trad. ingl. di A.V. Miller, Oxford, 1971, p. 124. I passi che concernono le tesi di Hegel sulla follia (pp. 92, 123-93 e 143 della trad. cit.) si trovano negli «Zusätze» aggiunti dal curatore Boumann nell’edizione tedesca del 1845 e ricavati da lezioni che Hegel tenne nel 1817 e 1820 e da appunti presi da vari presenti (trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche, 2 voll., Bari, 1967). Cfr. Murray Greene, Hegel on the Soul, The Hague, 1972, pp. 121-25, per una esposizione delle idee di Hegel sulla follia. L’unica sorella di Hegel, Christiane, si gettò in un torrente gelato due mesi dopo che egli morì di colera. Essa aveva sofferto di «nervosismo» ed era stata per lungo tempo fonte di grave preoccupazione per Hegel, giacché visse per vari periodi presso il fratello e sua moglie. Poco prima di suicidarsi aveva preso a vestirsi in modo bizzarro, si era convinta che i medici volessero influenzarla con magneti e con l’elettricità, e aveva anche tentato di tagliarsi le vene. Cfr. K. Rosenkranz, G.W.F. Hegels Leben, Berlin, 1844, pp. 424 sg. (trad. it. La vita di Hegel, Milano, 1974, pp. 441-42). Come osserva Wolfgang Treher nel suo F. Hegels Geisteskrankheit oder das verborgene Gesicht der Geschichte, Emmendingen, 1969, questo aspetto della vita di Hegel è passato sotto silenzio da tutti i suoi biografi moderni, che invece lo esaltano come un modello di buon senso e di normale vita borghese. Per esempio, H.S. Harris, Hegel’s Development – 1770-1801, Oxford, 1972, p. 270, non ammette nulla di più grave di «attacchi di nera depressione» che colpirono il filosofo durante i generalmente accettati anni di crisi del suo terzo decennio. Treher preferisce vedere Hegel gravato da un tratto familiare schizofrenico, e

considera la sua filosofia sistematica, onnicomprensiva e autodifensiva come tipico prodotto di un pensiero paranoico. L’interesse che Hegel nutrì per la follia, le sue intuizioni sull’argomento e la validità che egli le riconosce nella vita dell’anima meritano di essere considerate con maggiore attenzione per quanto riguarda la sua biografia, soprattutto nel suo rapporto con la sorella. 15 Hegel, Philosophy of Mind, Zusatz, cit., p. 92. 16 Laing, The Politics of Experience, cit., p. 92 (trad. it. cit.); The Self and Others, London, 1961, pp. 134-41 (trad. it. L’io e gli altri, Firenze, 1969, pp. 118-25). 17 Hegel, Philosophy of Mind, Zusatz, cit., p. 143. 18 Ibid., p. 124. 19 Le parole chiave sono regolarmente stampate sulla copertina del «Journal of Humanistic Psychology» sono state formulate sotto forma di manifesto della «Terza psicologia» nella prefazione di Abraham Maslow al suo libro Toward a Psychology of Being, Princeton, N.J., 1962 (trad. it. Verso una psicologia dell’essere, Roma, 1971). Persino George A. Kelly nel suo Humanistic Methodology in Psychological Research, in «Journal of Humanistic Psychology», 9, 1969, pp. 53-65, è rimasto affascinato dalla lussureggiante fantasia dell’uomo, dal Dio illimitatamente creativo. Egli scrive (p. 65): «La ricerca umanista vuol trovare ciò che l’uomo è in grado di fare e che non ha mai fatto prima… le azioni dell’uomo diventano molto più perspicue in un contesto in espansione fatto di tutto ciò che si scopre essergli possibile, che non entro i confini della sua presunta natura, dei suoi riflessi, del suo cervello, dei suoi complessi, della sua età cronologica, della sua intelligenza, o della sua cultura». Una analoga fantasia portata all’estremo appare in H. Bonner, The Proactivert: A Contribution to the Theory of

Psychological Types, in «Journal of Existential Psychiatry», 3, 1962, pp. 159-66. Lo slogan di Bonner è: «Io sono quello che farò». Il proactivert non ha paure, né nevrosi, sintomi o difese. La sua vita è piena di peak experiences. «Egli affronta ogni sfida e ogni nuova condizione in uno spirito d’esultanza» ed è «il primum mobile di se stesso, fatto d’una psicologia dinamica ricca di energia e di movimento» (p. 164). Bonner presenta questo tipo «come una prefazione a una psicologia umanistica, che situa la persona proattiva nel centro stesso dello studio dell’uomo» (p. 166). Per esempi analoghi di questo linguaggio idealistico e trascendentale, si veda Humanitas, pubblicato da Duquesne Univ. Press, Pittsburgh. In K. Menninger, «This Medicine, Love», in Love Against Hate, New York, 1942, pp. 3-6, scopriamo che la patologia va affrontata nello stile del «combattimento» con le forze negative come una volta si affrontavano il Diavolo, l’aggressività e l’autodistruzione. Cfr. il suo Man Against Himself, New York, 1938, epigrafe introduttiva e pp. 367-86. La terapia della Gestalt si riconosce come appartenente alla negazione umanistica. Cfr. l’Introduzione a Gestalt Therapy Now a cura di J. Fagan e I.L. Shepherd, New York, 1971, p. 1: «Noi usiamo ora parole come accrescimento, intimità, realizzazione, creatività, estasi e trascendenza per descrivere ciò che desideriamo per noi stessi e per gli altri». Per gli autori tutto questo è confacente a una psicologia «che si interessa all’uomo nel suo essere umano…». Nello stesso volume (p. 78) A.R. Beisser spiega: «Il terapeuta della Gestalt ritiene inoltre che lo stato naturale dell’uomo sia quello d’un essere unico e intero – non frammentato in due o più parti opposte tra di loro». Altri che si riconoscono in questa tradizione sono Carl Rogers, Eric Berne e molti che in passato erano freudiani, come ad esempio Karen Horney, Erich Fromm, Fritz Perls, Abraham Maslow, ciascuno dei quali identifica Freud con la patologia, col pessimismo e con thanatos, e poi lo abbandona in cerca di più verdi pascoli. Questi pascoli sono stati letteralizzati dal continente americano: lasciare Freud, thanatos e il pessimismo significò

trovare l’America, l’amore e l’ottimismo. Ma la patologizzazione può essere tenuta distinta tanto dall’ottimismo quanto dal pessimismo, tanto dall’America quanto dall’Europa. I passi e le opere citati sono ben lungi dall’esaurire i fermenti generati dalla parola «umanesimo nel suo rigurgitare e spumeggiare in così numerosi campi. Forse essa è la Weltanschauung dominante della metà del ventesimo secolo e come tale nasconde la patologia dominante di quel periodo, cioè l’euforia maniacale. Tenendosi a distanza da un simile umanesimo, la psicologia archetipica cerca di restare aderente alla depressione, convinta che lì vi siano maggiori possibilità di servire l’anima. Per un primo assaggio delle molte altre dicussioni dell’umanesimo, si veda la bibliografia curata da H.J. Blackham, A Guide to Humanist Books in English, London, 1962, e il libro di cui egli è curatore: Objections to Humanism, London, 1963. 20 A. Maslow, Naturalistic reasons for Preferring GrowthValues over Regression-Values under good conditions, Appendice H di Religions, Values, and Peak-Experiences, Columbus, 1964. 21 Ibid., p. 76. 22 W.H. Blanchard, The Psychodynamic Aspects of the Peak Experience, in «Psychoanalytic Review», 56, 1969, n. 1, pp. 87-112. 23 Cfr. ibid., e Maslow, Naturalistic reasons…, cit., p. 62: «La peak-experience è sentita come un momento autoconvalidante e autogiustificante che porta con sé il proprio valore intrinseco». 24 «Già nel Nuovo Testamento psyché è usata solo cinquantasette volte rispetto alle duecentosettantaquattro

volte in cui compare pneuma... Tanto consolidato è questo uso che san Paolo arriva a definire cattivi gli psychikoi e buoni i pneumatikoi (I Cor. 2, 13-15, cfr. I Cor. 15, 44-46)» David Miller, Achelous and the Butterfly, in «Spring», 1973, p. 14). 25 G. Santayana, Realms of Being, New York, 1952, pp. 32854. 26 R.G. Collingwood, An Essay on Metaphysics, cit., pp. 10142; The Principles of Art, Oxford, 1938, p. 164. 27 Tra le innumerevoli descrizioni della «via spirituale» quella di Roger Woolger, Against Imagination: The Via Negativa of Simone Weil, in «Spring», 1973, pp. 256-72, ha il pregio di evidenziare in modo succinto proprio questa differenza tra spirito e anima come differenza tra l’esser svuotati d’immaginazione (il mistico) e l’esser colmati d’immaginazione (il visionario), com’è il caso, rispettivamente, di San Giovanni della Croce e di William Blake. 28 Leavy, The Freud-Journal…, cit., p. 64. 29 Ibid., p. 131. 30 Adolf Guggenbühl-Craig, Power in the Helping Professions, New York-Zürich, 1971, ha messo in luce molti effetti che l’archetipo scisso può produrre sulla terapia, mostrando che a dispetto di ogni buona intenzione nei due partner, la divisione presente sullo sfondo getta una inevitabile ombra distruttiva su tutti i tentativi terapeutici. 31 C. Lévi-Strauss, The Savage Mind, London, 1966, p. 32 (trad. it. Il pensiero selvaggio, Milano, 1964, p. 45). 32 Szasz, opere citate, specialmente Ideology and Insanity,

cit. (trad. it. cit.). 33 E. Fischer-Homberger, Hypochondrie, Bern, 1970, offre una esauriente rassegna del bizzarro percorso semantico di questo termine lungo i secoli. 34 Secondo Galeno (circa 130-200 d.C.), uno dei padri della medicina, hamartia, tradotto a volte come colpa o peccato, rientra nella sfera d’azione del medico. Etimologicamente significa «mancare il bersaglio» e fa parte di quegli «errori» che discutiamo sotto l’«errare» (pp. 157 sgg.). Cfr. Philip Wheelwright, The Burning Fountain, Bloomington, Ind., 1968, pp. 174-81 su hamartia; sul rapporto tra patologia e colpa, si veda Pedro Laín Entralgo, Mind and Body, London, 1955, pp. 23, 66, 103-12. 35 Cfr. Arthur O. Lovejoy e George Boas, Some Meanings of ‘Nature’, in Primitivism and Related Ideas in Antiquity, New York, 1965, pp. 447-56; R. Lenoble, Esquisse d’une histoire de l’idée de nature, Paris, 1969 (trad. it. Per una storia dell’idea di natura, Napoli, 1974). 36 CW, vol. VI, par. 757 (trad. it. cit., vol. VI). 37 Ibid., par. 705 (trad. it. cit., vol. VI). 38 Sull’alchimia seguo l’interpretazione di Jung e di Bachelard: che essa è innanzitutto un sistema di descrizione della psiche immaginale. Riconosco che l’alchimia può esser vista anche in termini non psicologici. Si può considerarla come ciarlataneria, come una rudimentale tecnologia chimica, come una disciplina spirituale dedita all’occultismo. D’altra parte, nessuna di queste altre prospettive le impedisce di essere anche una psicologia. L’interpretazione di Jung è forse espressa più chiaramente nella sua autobiografia (MDR, pp. 193, 197, 210 [trad. it. cit., pp. 225, 231, 250]) che non nei suoi scritti sull’alchimia. Per una

recente discussione non junghiana della letteratura dell’alchimia, si veda di R.P. Multauf l’articolo Essays in Gold-making, in «lsis», 62, 1971, n. 2, pp. 233-38. Per un interessante confronto da un punto di vista junghiano tra la visione marxiana della materia e quella della psicologia alchemica, si veda D. Holt, Jung and Marx, in «Spring», 1973, pp. 52-66. 39 Frances Yates, The Art of Memory, London, 1966, p. 104 (trad. it. L’arte della memoria, Torino, 1972, p. 96). Cfr. L.J. Swift e L.S. Block, Classical Rhetoric in Vive’s Psychology, in «journal of the History of Behavioral Sciences», 10, 1974, pp. 74-83 sull’importanza delle immagini con forte carica emotiva. 40 F. Yates, The Art of Memory, cit., p. 96 (trad. it. cit., p. 88). 41 Ibid., pp. 64, 66, 74, 110, 193-94 (trad. it. cit., pp. 58, 61, 69, 102-103, 181-82). 42 Ibid., p. 63 (trad. it. cit., p. 58). 43 Ibid., pp. 29 sgg. (trad. it. cit., pp. 121 sgg.). 44 Ibid., p. 63 (trad. it. cit., p. 58). 45 Loc. cit. 46 Cfr. E. Auerbach, Gloria Passionis, in Literary Language and its Public in Late Latin Antiquity and in the Middle Ages, trad. ingl. di R. Manheim, New York, 1965, pp. 68-81 (trad. it. Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, 1974 , pp. 68 sgg.). Cfr. André Grabar, Christian Iconography: A Study of Its Origins, Bollingen Series, Princeton, N.J., 1968, pp. 131-32 (trad. it. Le vie della creazione nell’iconografia cristiana. Antichità e Medio Evo, 3

Milano, 1983). Walter Lowrie, Art in the Early Church, New York, 1947, pp. 98, 182-84, discute la più antica iconografia della passione, in cui colpisce l’assenza della crocifissione. Le primissime crocifissioni giunte fino a noi non risalgono probabilmente oltre il quinto secolo (la scatola d’avorio intagliato al British Museum e le porte di cipresso scolpito in S. Sabina a Roma); si veda inoltre J. Daniélou, Les symboles chrétiens primitifs, Paris, 1961, pp. 95-107 sull’immagine paleocristiana del vomere come croce. 47 LS, s.v. pathos; Aristotele, Metafisica, 1022b, 15 sgg.; F.E. Peters, Greek Philosophical Terms, New York, 1967, pp. 152-55; anche B.B. Rees, Pathos in the «Poetics» of Aristotte, in «Greece and Rome», 19, 1972, pp. 11 sg. 48 Per alcuni paralleli tra Ercole e Cristo, si veda J.M. Robertson, Pagan Christs, London, 1911, e Christianity and Mythology, London, 1910; altri testi utili sono: M.-R. Jung, Hercule dans la littérature française du 16e siècle, Genève, 1966; M. Simon, Hercule et le Christianisme, Paris, 1955. Per alcuni paralleli e identificazioni tra Ercole e Mosè si veda E.R. Goodenough, Jewish Symbols in the Greco-Roman Period, Bollingen Series, New York, 1964, vol. X, pp. 119-25, 136-37. Per l’identificazione Cristo-Sol Invictus, che fissò la celebrazione del Natale al 25 dicembre, cioè nel giorno in cui si celebrava Sol Invictus, si veda G.H. Halsberghe, The Cult of Sol Invictus, Leiden, 1972, pp. 162-71. D.C. Allen, Mysteriously Meant, cit., pp. 1-20, passa in rassegna la discussione patristica di questo tema e parte della più recente letteratura su di esso. 49 Cfr. S. Wenzel, The Sin of Sloth: Acedia in Medieval Thought and Literature, Chapel Hill, 1967. 50 Enneadi, I, 8, 1. Si confronti con l’idea di rassomiglianza o famiglia in Wittgenstein, cfr. F. Zabeeh, Resemblance, in Universals, The Hague, 1966, pp. 37-49, dove la somiglianza

perde la sua importanza archetipica per divenire solo un gioco linguistico nominalistico. 51 Proclo, Elementi di teologia, Bari, 1954, prop. 29 sgg. su epistrophé. 52 Uso il termine metaphorica nell’accezione impiegata da Alberto Magno nell’arte della memoria, vedi sopra pp. 169 sgg., con i riferimenti a Frances Yates. 53 G. Vico, La scienza nuova, cit., parr. 209 e 381, dove Vico parla delle figure mitiche come universali fantastici. 54 T. Taylor, An Apology for the Fables of Homer (1804), traduzione del saggio di Proclo sulle favole di Omero, in Thomas Taylor, the Platonist, a cura di K. Raine e G.M. Harper, Bollingen Series, Princeton, N.J., 1969, p. 460. Taylor (come molti altri moralisti e pensatori cristiani) tenta di trovare una spiegazione dell’evidente paradosso d’una filosofia e poesia (Omero) religiosa sublime gremita di immagini patologizzate. L’intero brano dice: «Mi sembra altresì che quanto nelle finzioni poetiche è tragico, mostruoso e innaturale, ecciti gli ascoltatori nei modi più svariati alla ricerca della verità, ci attiri verso una conoscenza recondita, né ci consenta con sembianze di probabilità di tenerci soddisfatti di concezioni superficiali, ma ci costringa a penetrare nelle parti più interne delle favole, a esplorare l’oscura intenzione dei loro autori e a indagare quali nature e quali poteri essi intesero significare ai posteri con l’uso di quei simboli mistici». 55 G. Vico, La scienza nuova, cit., par. 376. Il fine di queste immagini, secondo Vico, è quello di «perturbare all’eccesso». 56 J. Hillman, Suicide and the Soul, cit. (trad. it. cit.). 57 Uno dei principali attacchi contro la remitologizzazione

attraverso la psicologia del profondo è quello di Jaspers, le cui tesi vengono presentate e respinte nel mio Deep Subjectivity, Introspection and Daemonology, che sarà pubblicato nelle Spring Publications. 58 P. Slater, The Glory of Hera, Boston, 1971. 59 Si è scritto molto su come i greci antichi pensavano la psicopatologia, ad esempio, E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational, cit. (trad. it. cit.); George Rosen, Madness in Society, London, 1968, pp. 71-136; B. Simon e H. Weiner, Models of Mind and Mental Illness in Ancient Greece, in «Journal of the History of Behavioral Sciences», 2, 1966, pp. 303-14. 60 J. Hillman, On Senex Consciousness, in «Spring», 1970, pp. 146-65. 61 MA, Parte Terza (trad. it. cit., Parte Terza). 62 J. Hillman, An Essay on Pan, in Pan and the Nightmare: Two Essays, cit. (trad. it. cit.). 63 MA, Parte Prima (trad. it. cit., Parte Prima). 64 J. Hillman, Senex and Puer, in «Eranos», 36, 1967, pp. 301-60 (trad. it. Senex et Puer, Padova, 1974), e The Great Mother, Her Son, Her Hero, and the Puer, in Fathers and Mothers, New York-Zürich, 1973, pp. 75-127. 65 CW, vol. XIII, par. 54 (trad. it. Il segreto…, cit.). 66 W.F. Otto, The Homeric Gods, trad. ingl. di M. Hadas, New York, 1954, p. 169 (trad. it. Gli dèi della Grecia, Firenze, 1968, p. 209). 67 H.D. Kitto, The Idea of God in Aeschylus and Sophocles,

in La Notion du Divin, Fondation Hardt I, Genève, 1954, p. 188. 68 K. Kerényi, Geistiger Weg Europas, Zürich, 1955, pp. 3940. 69 CW, vol. XIII, par. 55 (trad. it. Il segreto…, cit.). 70 Citato in J. Seznec, The Survival of the Pagan Gods, cit., p. 58. 71 J.D. Salinger, Franny and Zooey, Boston, 1961, p. 140 (trad. it. Franny e Zooey, Torino, 1963). Zooey (devo far notare che in greco il suo nome significa vita?) non vuole che il suo sintomo venga trasformato in spiegazione dalla psicoanalisi. Si confronti con Jung, The Symbolic Life (trascritto da note stenografiche raccolte da D. Kitchin, Guild Lecture 80, London, 1954, p. 17): «Così togliamo di mezzo la nostra anima – “Oh, una fissazione mi lega a mia madre, e se mi rendo conto d’aver su di lei fantasie impossibili d’ogni genere, sarò libero da questa fissazione”. Se il paziente vi riesce, perde la propria anima. Ogni volta che si accetta questa spiegazione, si perde la propria anima. Così non si è aiutata l’anima, la si è sostituita con una spiegazione, con una teoria». 72 Eugène Minkowski, Le temps vécu: études phenomenologiques et psychopathologiques, Paris, 1933 (trad. it. Il tempo vissuto, Torino, 1971, p. XIX). 73 Vico, La scienza nuova, cit., par. 376. C’è una differenza tra il mettere in atto «verità sconvolgenti» che perturbano la psiche all’eccesso e la modalità metaforica d’immaginazione. Per muovere la psiche non c’è bisogno di fare cose violente ed esagerate. Questo è il modo romantico di ricercare la perturbazione e l’eccesso – «vivere pericolosamente». Né, d’altra parte, si deve permettere che la psichiatria

letteralizzi la fantasia sconvolgente e la traduca in trattamenti fisici violenti, come quelli suggeriti da Celso (che ci diede il termine «insania») nell’antica Roma e da Cerletti (che inventò l’elettroshock – e anche, per inciso, un tipo di spoletta d’artiglieria) nella Roma moderna. È curioso notare come la terapia consideri terapeutici gli shock fisici mentre insiste a considerare patologici gli eventi scioccanti del mito, dei sogni e delle fantasie. Un’immagine patologizzata troppo forte che fa violenza alla nostra natura potrebbe esser meglio compresa se vista come un trattamento da shock autoindotto dalla psiche, certamente preferibile alle più crude modalità della sua attuazione clinica. 74 Si veda sopra, pp. 13-14, per le origini di questa espressione in Keats e anche in Blake. 75 Cfr. M. de Unamuno, Tragic Sense of Life (1921), cit., p. 269 (trad. it. cit., p. 291). 76 Ho descritto in modo dettagliato parte della fenomenologia del regno di Ade e il suo significato psicologico in The Dream and the Underworld, in «Eranos», 42, 1973. 77 Cfr. Paul Friedländer, Plato, cit., vol. I, pp. 29-31. 78 Vedi sopra, pp. 124 e 400 nota 14. 79 Cfr. M. Schur, Freud: Living and Dying, New York, 1972 (trad. it. Il caso Freud: biografia scritta dal suo medico, Torino, 1976). Le patologizzazioni di Freud comprendevano: svenimenti, difficoltà del colon e dell’intestino, disturbi cardiaci, il vizio del fumo e il dolorosissimo tumore alla bocca; il suo periodo della cocaina, le afflizioni di cui parla nella corrispondenza con Fliess, l’esperienza di «depersonalizzazione» sull’Acropoli – e le idee ossessive circa la data della propria morte. Al di là di tutte queste

manifestazioni concrete, c’era il suo «occhio patologizzato»; la sua immaginazione speculativa richiedeva la patologizzazione. III. PSICOLOGIZZAZIONE O VISIONE IN TRASPARENZA

1 Per «istinto» intendo un impulso originario. Uso il termine in una accezione più ampia di quella dell’etologia («meccanismi innati scatenanti») poiché l’istinto non si presenta necessariamente nel comportamento esteriormente osservabile, ma compare intrapsichicamente in immagini private e in altri eventi propriocettivi. Ritengo che l’istinto sia connesso a eventi psichici congenitamente dati, precedenti a ogni esperienza o comportamento simili, universalmente umani, precisamente modellati e provvisti d’una carica affettiva, nei quali «il corpo» è il referente supremo. (Immaginiamo il corpo quale luogo o dell’istinto o del suo significato – fame, riproduzione, difesa, eccetera – cosicché il termine, evocando in un modo o nell’altro il «corpo», è parte della riverberazione del corpo nella coscienza: la parola «istinto» è incline a sottintendere «corpo»). Seguendo Jung (CW, vol. VIII, parr. 371 sgg., 397 sgg., 270 sgg.; trad. it. cit., vol. VIII), situo l’istinto in continuità con le immagini archetipiche, connetto cioè le persone archetipiche dell’immaginale con l’esperienza corporea e con l’idea della necessità fisica. L’ininterrotta continuità che unisce istinto e archetipo suggerisce sia un inevitabile determinismo sia una illimitata libertà nella relazione tra corpo e immaginale: le nostre fantasie sono limitate dal corpo e i nostri corpi sono liberati dalla fantasia – e anche viceversa. Sempre seguendo Jung considero le attività sia della riflessione sia della religione (che Jung a volte chiama «spirito», «sé» e «creatività») come istinti (CW, vol. VIII, parr. 241 sgg. e il mio MA, pp. 31-40; trad. it. nell’ordine,

cit., vol. VIII, e cit., pp. 44-54). In questo modo Jung mantiene tutti i cosiddetti eventi psichici superiori o sublimati in diretto contatto con i cosiddetti eventi psichici inferiori o animali. Sostenere che la vita mentale della riflessione e la vita spirituale della religione sono istinti significa riconoscere che una pulsione coatta opera tanto al livello della mente e dello spirito quanto al livello della fame e della collera. La discussione di Jung dell’istinto della riflessione (CW, vol. VIII, parr. 241-43; trad. it. cit., vol. VIII), il quale, a suo parere, determina la ricchezza e il carattere essenziale della psiche, ha un chiaro parallelo nella descrizione di Konrad Lorenz delle reazioni di «fuga» negli animali. Riflessione significa ripiegarsi dallo stimolo percettuale verso una immagine psichica; è, cioè, un «volgersi all’interno». Sostenere, come facciamo noi, che mente e spirito sono aspetti della natura istintuale significa sostenere che la loro essenzialità per la vita psicologica è pari a quella dei cosiddetti impulsi più organici e fisici, che essi sono legati alla fisiologia e soggetti alle patologizzazioni tanto quanto qualunque altra configurazione istintuale. Possiamo lasciare aperti gli interrogativi classici sull’istinto, ad esempio quale sia il numero degli istinti, quali le loro reciproche relazioni, il loro rapporto con le necessità fisiologiche omeostatiche, la loro filogenesi ed eredità, il loro valore per la sopravvivenza, la loro suscettibilità all’apprendimento. Dal punto di vista della psicologia archetipica, prima di dare una risposta diretta a questi interrogativi classici, è necessario sottoporli a una riflessione ermeneutica che mostri il loro significato per la psiche. Benché la psicologia non sia soddisfatta del concetto di istinto, soprattutto perché si pensa che esso implichi vitalismo e olismo, è meno scomodo conservare l’«istinto» che abbandonarlo. Con che cosa potremmo sostituirlo, infatti? E soprattutto, quale altra parola rappresenta così bene la «psiche del corpo» nel parlare comune e in psicoterapia? L’«istinto» rappresenta il problematico corpo

animale nel linguaggio concettuale, e le discussioni su di esso rappresentano la lotta con il corpo animale. Nella misura in cui vediamo l’istinto in termini meccanicistici, siamo dei cartesiani che scindono la coscienza dal corpo e considerano l’animale alla stregua d’una macchina. L’accento messo da Adolf Portmann sulla natura non coattiva dell’istinto (a differenza di Lorenz e dei behavioristi più meccanicisti e deterministi nella visione del comportamento animale) riflette una coscienza in cui al corpo viene offerta una prospettiva più libera. Infine, negare l’«istinto» significa anche respingere una grande porzione di storia della psicologia per mezzo della quale possiamo esaminare le variazioni intervenute nella riflessione della psiche sul proprio corpo. Per parte di questa storia si veda S. Diamond, Gestation of the Instinct Concept, in «Journal of the History of Behavioral Sciences», 7, 1971, n. 4, pp. 323-36. 2 Per una elaborazione delle idee come prospettive, si veda J. Ortega y Gasset, Meditations on Quixote, cit., pp. 40, 44, 90 (trad. it. cit.), e la lunga nota del suo curatore J. Marías, pp. 170 sgg.; cfr. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere…, cit., vol. VI, t. II, pp. 322-23. 3 Paul Friedländer, Plato, cit., vol. I, p. 16. 4 Per una brillante e convincente valutazione del ruolo della visione (idea, complesso mentale, strutture percettive) nell’osservazione dei dati – da cui è tratto il mio esempio del levar del sole – si veda N.R. Hanson, Patterns of Discovery: An Inquiry into the Conceptual Foundations of Science, Cambridge, 1958 (paperback, 1969), capp. I e II (trad. it. I modelli della scoperta scientifica: ricerca sui fondamenti concettuali della scienza, Milano, 1978), e il suo Perception and Discovery, a cura di W.C. Humphreys, San Francisco, 1969. 5 Cfr. P. Friedländer, Plato, cit., vol. I, pp. 13 sgg. e note

per una discussione dell’«occhio dell’anima». La metafora ha delle analogie con «l’immaginazione del cuore» (vedi sopra, cap. I, pp. 50-51). Queste due espressioni per una modalità psichica di percezione si trovano condensate in un’espressione di Pindaro, «cieco cuore», e in una del sofista Gorgia, «gli occhi dell’immaginazione» (Friedländer, p. 13). Cfr. Iliade XXI, 61, che LS traduce con «to see in his mind’s eye» [vedere nell’occhio della sua mente] e R. Lattimore con «I may know inside my heart» [posso saperlo nell’interno del mio cuore]. 6 Il desiderio di chiarezza non implica in alcun modo un arido intellettualismo o un ritorno alle separazioni cartesiane che mettono in opposizione le chiare distinzioni e l’anima. La chiarezza intellettuale può essere di servizio all’anima, invece che di disturbo, a condizione che la fantasia che l’anima ha di se stessa non sia dominata da una vaporosa ninfa dei boschi o da altre crepuscolari vergini della natura ancora timorose di esporsi alla luce diurna. Solo quando la chiarezza si considera con letteralismo apollineo, quando si venera come Helios, facendo della chiarità un Dio, e richiede una distante superiorità, un distacco che uccide e un purificato formalismo, solo allora si contrappone necessariamente a Luna, che ha bisogno d’una difensiva lunarità fatta di fluttuazioni psichiche, di indefinitezza e di immagini fantastiche. Non c’è nessuna necessaria opposizione tra chiarezza e immaginazione, non c’è nessun bisogno di credere con Coleridge che le idee profonde debbano essere confuse, mentre la chiarezza ha fondamenta nella superficialità, o con Niels Bohr che c’è «una complementarietà tra la chiarezza d’una asserzione e la sua esattezza, al punto che un’asserzione troppo chiara contiene sempre qualcosa di falso» (citato, come discutibile difesa di Jung, da A. Jaffé, The Myth of Meaning, trad. ingl. di R.F.C. Hull, London, 1970, p. 28). Ne deriva che per essere fedeli alla psiche o alla natura dobbiamo essere oscuri. Questo non solo apre la porta all’oscurantismo ma trascura il desiderio

che l’anima ha dello spirito, d’una precisione concreta e poetica circa le sue immagini e le sue emozioni, che non richiede affatto riduzioni o limitazioni all’unicità di significato. 7 Cfr. W.K. Guthrie, In the Beginning: Some Early Greek Views on the Origins of Life and the Early State of Man, London, 1957, pp. 29-45. Per la prospettiva della madre sulle origini della coscienza si veda l’opera di Erich Neumann, specialmente The Origins and History of Consciousness, London, 1954 (trad. it. Storia delle origini della coscienza, Roma, 1978). Le migliori discussioni a me note del punto di vista organicistico sono: Owen Barfield, What Coleridge Thought, Middletown, Conn., 1972, nel capitolo «Life», e M.H. Abrams, The Mirror and the Lamp, cit. (trad. it. cit.). Ambedue mettono l’organicismo in rapporto con il Romanticismo, una delle cui immagini preferite è l’albero; l’idea dell’albero permette di rappresentare molte prospettive della grande madre. Si potrebbero riconsiderare le filosofie romantiche dell’organicismo nell’ottica della psicologia archetipica per esaminare con più precisione la persona della grande madre, ad esempio, nell’idea dei semi del genio che si individua nel terreno-anima dell’inconscio, nella venerazione per la natura e per lo svolgersi naturale, nell’indiscriminato entusiasmo per la integralità e la crescita, nell’interesse per la botanica, nella considerazione per i bambini. 8 M.A. Murray, The Genesis of Religion, London, 1963. 9 Per una discussione delle immagini del vaso, si veda I.M. Linforth, Soul and Sieve in Plato’s «Gorgias», in «University of California Publications in Classical Philology», XII, 1944, pp. 295-313. 10 L’espressione «metafora radicale» fu elaborata da S.C. Pepper dapprima in The Root Metaphor Theory of

Metaphysics, in «Journal of Philosophy», 32, n. 14, pp. 365 sgg. e poi ampliata nel suo World Hypotheses, Berkeley, Calif., 1942 (5 ed. paperback, 1966). L’idea della «metafora radicale» è essa stessa una metafora e si fonda su uno dei temi archetipici dell’immaginazione: quello delle radici. Nel linguaggio di Gaston Bachelard, essa appartiene all’immaginazione dell’elemento terra, sicché quando riusciamo a scoprire una metafora radicale ne ricaviamo il convincimento d’essere arrivati a un’idea che è basilare, fondata, solida e portante. 11 J. Hillman, Abandoning the Child, ora in Loose Ends, cit., pp. 5-49. 12 MA, Parte Terza (trad. it. cit., Parte Terza). 13 W.K. Guthrie, In the Beginning..., cit., cap. V. 14 Cfr. Murray Stein, Hephaistos: A Pattern of Introversion, in «Spring», 1973, pp. 35-51; David L. Miller, The New Polytheism, New York, 1974; F.K. Mayr, Der Gott Hermes und Hermeneutik, in «Tijdschrift v. Filosofie», 30, 1968, pp. 535-625; si vedano inoltre i miei tentativi in An Essay on Pan, cit. (trad. it. cit.), Senex and Puer, cit. (trad. it. cit.) e Dionysus in Jung’s Writings, in «Spring», 1972, pp. 191-205. 15 CW, vol. XIII, par. 378 (Der philosophische Baum, 1945 e 1954). 16 È vero che nel Quattrocento Ficino elaborò la relazione tra Saturno e la filosofia, e che nel Seicento Burton dedicò una particolare attenzione alla melanconia degli uomini di cultura, ma l’idea compare assai prima, in un’opera attribuita a Aristotele (Problemata, XXX, 1) in cui Empedocle, Socrate e Platone sono considerati dei melanconici; cfr. R. Klibansky, E. Panofsky e F. Saxl, Saturn and Melancholy, London, 1964, pp. 17 sgg. (trad. it. Saturno a

e la melanconia, Torino, 1983). Possiamo derivare un’idea analoga da Platone, essa però situa la filosofia sotto un altro Dio. Nel Filebo (30c-d) «saggezza e ragione» vengono attribuite a Zeus e nel Fedro (252c-e) i «seguaci di Zeus» scelgono i propri amanti e si comportano, come amanti, in accordo con la loro disposizione, conferita dal principio zeusiano della «saggezza». I filosofi (amanti della sapienza) sono chiaramente «seguaci» (o «figli», come si disse in secoli successivi) di Zeus. Il porsi della filosofia come depositaria della saggezza e superiore a tutte le altre scienze, le sue immagini di visione penetrante, di dominio generale sul mondo fenomenico, di duratura solidità sistematica (l’aquila e la quercia), la sua coazione verso una coerenza onnicomprensiva con mire unificatrici, il suo prudente equilibrio fra diverse posizioni, il tono apodittico della sua voce e il tuonante anatema dei suoi giudizi, l’importanza letterale che essa attribuisce alle astrazioni del principio, della legge e dell’assioma, in aggiunta, infine, ai suoi fecondi effetti su così tante zone dell’esistenza (le molte fertilizzazioni e i molti figli di Zeus) sono inerenti nelle premesse psichiche della filosofia se le leggiamo attraverso la persona di Zeus. Per quanto riguarda Saturno, oltre a Saturn and Melancholy, si veda il mio On Senex Consciousness, in «Spring», 1970, pp. 146-65. 17 Herbert Marcuse, «The Affirmative Character of Culture», nel suo Negations, trad. ingl. di J.J. Shapiro, Boston, 1968 (sull’anima come rifugio borghese). 18 Una difesa della tradizione essenzialista o del «che cosa» è data in una nota da P. Merlan nel suo From Platonism to Neoplatonism, The Hague, 1953, p. 7 (trad. it. Dal platonismo al neoplatonismo, Milano, 1990). E. Cassirer nel suo The Logic of the Humanities, trad. ingl. di C.S. Howe, New Haven, 1961, pp. 159 sgg. (trad. it. Sulla logica delle scienze della cultura, Firenze, 1979, pp. 82 sgg.) discute il «che cosa» e il «da dove» (e il «perché?») come ciò che

differenzia – e addirittura oppone – il concetto di forma e quello di causa. Egli propende per il «che cosa»; non così Karl Popper, cfr. il suo The Poverty of Historicism, London, 1969, p. 29 (trad. it. Miseria dello storicismo, Milano, 1975, pp. 37 sgg.) e Conjectures and Refutations, London, 1969 , pp. 104 sgg. (trad. it. Congetture e confutazioni, Bologna, 1972, pp. 118 sgg.). R.B. Braithwaite, in accordo col titolo del suo libro Scientific Explanation (1953), New York, 1960, neppure prende in considerazione il problema del «che cosa» (trad. it. La spiegazione scientifica, Milano, 1966). 19 H.W. Parke, Greek Oracles, London, 1967, p. 87; The Oracles of Zeus, Oxford, 1967, p. 111. 20 W.F. Otto, The Homeric Gods, cit., p. 195 (trad. it. cit., p. 242). Cfr. A. Cook, cap. VI, «Theos», nel suo Enactement: Greek Tragedy, Chicago, 1971, p. 119: «In molte tragedie, l’azione parte da una speciale situazione d’un dio – come avviene, ad esempio, nel Prometeo, nell’Ippolito, nell’Aiace e nelle Troiane – oppure da speciali parole divine, da un oracolo». Omero, i tragici e lo stesso Platone mostrano che conoscenza degli eventi significa conoscenza degli universali negli eventi, cioè, conoscenza degli Dei. Si potrebbero esaminare le opere di Platone per mettere in luce gli Dei presenti nel dialogo: il Fedone, per esempio, è dominato da Apollo; il Fedro, che si svolge sull’erbosa riva d’un fiume, evoca all’inizio le ninfe e Pan alla fine; il Simposio, una bevuta conviviale, si conclude con l’ingresso dionisiaco di Alcibiade accompagnato dalla suonatrice di flauto e col paragone tra Socrate e Sileno; Atena e Zeus, sia per il superiore numero di menzioni sia per lo stile e l’intento del dialogo, sembrano governare soprattutto le Leggi (cfr. XI, 921c). 21 Owen Barfield, Saving the Appearances: A Study in Idolatry, New York, s.d., p. 162. 22 3

Norman O. Brown, una replica a Marcuse nel suo Negations, cit., p. 244. 23 Ludwig Wittgenstein, Remarks about Frazer’s «The Golden Bough», trad. ingl. (a circolazione privata) di E. Strauss, K. Ketner e B. Ketner, da «Synthese», 17, 1967, pp. 233-53 (trad. it. Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, Milano, 1979 , pp. 15-53). 24 Owen Barfield, The Meaning of the Word ‘Literal’, in Metaphor and Symbol, a cura di L.C. Knights e B. Cottle, London, 1960, p. 55. 25 Sulla interdipendenza tra metaforico e letterale, si veda Patricia Berry, On Reduction, in «Spring», 1973, pp. 67-84. Questa interdipendenza è ulteriormente confermata da un’osservazione sul linguaggio primitivo. Quando è assente il significato letterale delle parole nel nostro senso moderno, è assente anche quello metaforico. «… Le affermazioni fatte dai primitivi non si possono dire in verità d’un tipo o dell’altro. Esse stanno a metà tra queste nostre categorie [letterale e metaforica]. Non hanno una collocazione precisa» (G. Lienhardt, «Modes of Thought», in The Institutions of Primitive Society, Oxford, 1959, p. 99). Forse la netta divisione tra letterale e metaforico nella nostra cultura è una manifestazione della coscienza monoteistica, in cui una cosa deve essere interamente «d’una specie o dell’altra». Forse nel pensiero politeistico la polisignificazione pervade tutta la comprensione. 26 Hans Vaihinger, The Philosophy of ‘As If’, trad. ingl. di C.K. Ogden, London, 1935 , p. 269 (trad. it. La filosofia del «come se», Roma, 1967, p. 239). 27 Ibid., p. 89 (trad. it. cit., p. 95). 28 Ibid., p. 90 (trad. it. cit., p. 96). 2

2

29 Ibid., p. 98 (trad. it. cit., p. 104). 30 Ibid., p. 12 (trad. it. cit., p. 24). 31 Ibid., pp. 88-89, 99, 265 sgg. (trad. it. cit., pp. 94-95, 105, 236 sgg.). 32 R.B. Braithwaite, Scientific Explanation, cit., p. 93. 33 Max Black, Models and Metaphors, Ithaca, N.Y., 1962, p. 228. 34 Barfield, Saving the Appearances, cit., p. 24, impiega il termine «figurazione» perché nuovo, neutrale e libero da presupposizioni. Non è gravato dalle posizioni teoriche della psicologia configurazionale (della Gestalt). Io preferisco «costellazione» perché il suo significato suggerisce la presenza della fantasia archetipica. In una costellazione astronomica, i nostri occhi vedono soltanto dei punti luminosi, mentre la nostra mente con un atto immaginativo trasforma le loro relazioni in una configurazione personificata. Ogni qual volta usiamo il termine «costellazione» sono impliciti in esso gli spazi oscuri dell’infinitamente ignoto che vengono riempiti dalla fantasia, ricevendo così una configurazione particolare. 35 Paul Ricoeur, Freud and Philosophy (Terry Lectures), trad. ingl. di D. Savage, New York, 1970, p. 18. 36 K. Popper, Conjectures and Refutations, cit., p. 279 (trad. it. cit., p. 475). 37 T. Taylor, An Apology for the Fables of Homer (1804), in Thomas Taylor, the Platonist, cit., p. 460. 38 Da E. Cassirer, The Individual and the Cosmos in

Renaissance Philosophy, trad. ingl. di R. Domandi, Philadelphia, 1972, p. 69 (trad. it. Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Firenze, 1974, p. 114) dove è dato il passo latino di Cusano (Excitationes, in Opera, V [1514], fol. 488). 39 Cfr. Popper, Conjectures and Refutations, cit., pp. 21-23 (trad. it. cit., pp. 37 sgg.). 40 Cfr. M. Ficino, Comentarium in Convivium Platonis de amore, VI, 6 (testo, trad. ingl. e note in S.R. Jayne, Marsilio Ficino’s Commentary on Plato’s Symposium, Columbia, Mo., 1944, p. 189). 41 Cassirer, The Logic of the Humanities, cit., p. 94 (trad. it. cit., p. 36). 42 Cfr. Salustio, Concerning the Gods and the Universe (De diis et mundo), a cura e trad. ingl. di A.D. Nock (1926), Hildesheim, 1966, p. 9: «Tutto questo non accadde in un certo momento ma è sempre». 43 K.O. Müller, Introduction to a Scientific System of Mythology, trad. ingl. di J. Leitch, London, 1844, p. 44. Per delle opinioni contrarie a questa prospettiva da parte di critici settecenteschi che volevano eliminare il meraviglioso e il mitico dalla poesia affinché essa risultasse pienamente conforme alla moderna teoria della natura meccanica, si veda «Truth and the Poetic Marvelous» in Abrams, The Mirror and the Lamp, cit. (trad. it. cit., p. 413). 44 H. Broch, Introduzione a R. Bespaloff, On the Iliad, New York, 1947, p. 15 (trad. it. in Poesia e conoscenza, Milano, 1965, p. 320). 45 Aniela Jaffé, The Creative Phases in Jung’s Life, cit., pp. 179, 188.

46 L. Wittgenstein, Lectures and Conversations on Aesthetics, Psychology and Religious Belief, cit., pp. 43, 51 (trad. it. cit., pp. 129, 137); sulla psicoanalisi Wittgenstein dice (p. 52; trad. it. cit., p. 138): «… occorre esercitare una critica severa, acuta, continua, per riconoscere e guardare attraverso [see through] la mitologia che ci viene offerta o imposta. Qualcosa ci induce a dire “Sì, certo, dev’essere così”. Una mitologia che ha molto potere» (corsivo mio). Avrei preferito che Wittgenstein avesse detto: «per riconoscere e vedere in trasparenza fino a scorgere la mitologia». Ma Wittgenstein usa «mitologia» in implicita contrapposizione a «spiegazione scientifica». 47 Cfr. il mio Abandoning the Child, ora in Loose Ends, cit., e, per quanto riguarda Freud e l’analisi dei bambini, MA, p. 242 (trad. it. cit., p. 255). 48 Cfr. K. Kerényi, Die Eröffnung des Zugangs zum Mythos, Darmstadt, 1967, pp. 234-35. 49 Cfr. la discussione di P. Wheelwright dell’universalità concreta nel suo The Burning Fountain, cit., pp. 52-54. 50 Vico, La scienza nuova, cit., par. 404. 51 CW, vol. IX, t. I, parr. 265, 143 (trad. it. cit., vol. IX, t. I); ibid., vol. X, par. 681 (trad. it. Su cose che si vedono nel cielo, Milano, 1960). 52 Ibid., vol. IX, t. I, par. 80 (trad. it. cit., vol. IX, t. I). 53 P. Friedländer, Plato, cit., vol. I, p. 189. 54 Loc. cit. (da Menone, 86b e da Fedone, 114d). 55 J. Fontenrose, The Ritual Theory of Myth, Berkeley, 1971,

p. 55. 56 E. Wind, Pagan Mysteries of the Renaissance, Harmondsworth, 1967, pp. 199-209 (trad. it. Misteri pagani nel Rinascimento, Milano, 1971, pp. 126-36). 57 P. Ziff, Semantic Analysis, Ithaca, N.Y., 1960, cap. I. Cfr. «Metaphor», in The Encyclopedia of Philosophy, New York, 1967, vol. V, pp. 288-89, con bibliografia; OED; anche Black, Models and Metaphors, cit., pp. 25-47; e Wheelwright, The Burning Fountain, cit., pp. 84-88, su «indirezione» e «focalità morbida». 58 F.M. Cornford, Plato’s Cosmology, London, 1966, p. 164. 59 Ibid., pp. 165-66, 176. 60 P. Friedländer, Plato, cit., vol. III, p. 382. 61 H. Vaihinger, The Philosophy of ‘As If’, cit., p. 94 (trad. it. cit., p. 100). 62 Popper, Poverty of Historicism, cit., p. 87 (trad. it. cit., p. 85). 63 M. Dufrenne, The Notion of the A Priori, trad. ingl. di E.S. Casey, Evanston, III., 1966, p. 238. 64 Per una discussione di ciò che Parmenide intendeva con «molto erranti» si veda Popper, Conjectures and Refutations, cit., pp. 408-11 (trad. it. cit., pp. 283-85). 65 James J.Y. Liu, The Chinese Knight-Errant, London, 1967, p. 4. 66 Ficino, Theologia platonica, vol. II, cap. XIV, 7 (trad. it. Teologia platonica, Bologna, 1965, vol. II, p. 231). Sulla

dimora dell’anima nello spirito si veda Ficino, Comentarium…, cit., VI, 9, e Jayne, Ficino’s Commentary…, cit., p. 196, dove è anche detto che «la dimora dello spirito è il corpo». 67 Lazarillo de Tormes, trad. ingl. di T. Roscoe, e Guzmán d’Alfarache or the Spanish Rogue di Mateo Alemán, trad. ingl. di J.H. Brady, 2 voll., London, 1881 (trad. it. Lazzarillo de Tormes, di V. Bodini, a cura di O. Macrì, Torino, 1981); cfr. Pikarische Welt, a cura di H. Heidenreich, Darmstadt, 1969, una raccolta di capitoli, saggi e brani sul furfantetrickster (soprattutto nella letteratura spagnola) di F.W. Chandler, J. Ortega y Gasset, Leo Spitzer, Américo Castro, C.G. Jung e altri. Figure picaresche simili si trovano nelle opere di Smollett – e nella letteratura inglese soltanto in Smollett, secondo R. Giddings, The Tradition of Smollett, London, 1967, p. 21. Ma Smollett trascorse un importante periodo della sua vita a Cartagena in Spagna, visse sulla riviera francese ed è sepolto a Livorno. 68 Questa felice espressione, usata per la prima volta da W.R. Inge, in The Philosophy of Plotinus, London, 1929 , vol. I, p. 203, è ripresa sia da H. Blumenthal, Plotinus’ Psychology, The Hague, 1971, sia da E. Bréhier, The Philosophy of Plotinus, trad. ingl. di J. Thomas, Chicago, 1958, p. 54 (trad. it. La filosofia di Plotino, Milano, 1975). Per una lettura di Plotino in relazione alla psicologia archetipica, si veda il mio Plotino, Fucino e Vico, precursori della psicologia junghiana in «Rivista di psicologia analitica», 4, 1973, pp. 341-64. 69 Otto, The Homeric Gods, cit., p. 122 (trad. it. cit., p. 154). 70 Plotino, Enneadi, II, 2, 2. 71 Non sono riuscito a trovare altri riferimenti a «Eros il Falegname» oltre a quelli offerti da R. Klibansky, E. 3

Panofsky e F. Saxl, Saturn and Melancholy, cit., pp. 308-10 e ill. 15 (trad. it. cit.). Questo Eros ha effettivamente un’eco cristiana in quanto Gesù era un falegname, così come suo padre Giuseppe, cui la Chiesa ha dedicato il mercoledì, il giorno di Mercurio). 72 «Bricoleur», secondo C. Lévi-Strauss, The Savage Mind, cit., p. 16 (trad. it. cit., pp. 29-30) «si applica al gioco della palla e del biliardo, alla caccia e all’equitazione, ma sempre per evocare un movimento incidente: quello della palla che rimbalza, del cane che si distrae, del cavallo che scarta dalla linea diritta per evitare un ostacolo. Oggi per bricoleur si intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo del mestiere. Ora, la peculiarità del pensiero mitico sta proprio nell’esprimersi attraverso un repertorio dalla composizione eteroclita… perché non ha niente altro tra le mani. Il pensiero mitico appare così come una sorta di bricolage intellettuale…». IV. DISUMANIZZAZIONE O FARE ANIMA

1 Gilbert Durand, Similitude hermétique et science de l’homme, in «Eranos», 42, 1973, discute l’importanza dell’approccio non-agnostico per una nuova epistemologia. 2 Cfr. G. Holton, «The Thematic Imagination in Science», in Science and Culture, Boston, 1965. 3 La teologia politeistica è trattata in modo nuovo e assai stimolante da David L. Miller in The New Polytheism, cit. 4 G.G. Coulton, Medieval Faith and Symbolism, New York, 1958, p. 251. 5 Mario Praz, Mnemosyne: The Parallel Between Literature

and the Visual Arts, cit., p. 81 (ed. it. cit., p. 90). Cfr. George Holmes, The Florentine Enlightenment, 1400-50, New York, 1969, pp. 106-108. Per dei tentativi rinascimentali di riconciliazione, si veda Charles Trinkaus, In Our Image and Likeness, Chicago, 1970, pp. 553-774. 6 L’invenzione del termine psicologia da parte di Melantone è stata contestata, non essendone stata trovata alcuna prova incontrovertibile (F.H. Lapointe, Who Originated the Term ‘Psychology’?, in «Journal of the History of Behavioral Sciences», 8, 1972, pp. 328-35, e la mia nota in MA, p. 127 [trad. it. cit., p. 139]), ma io ritengo che la fantasia della «psicologia che ha inizio con Melantone» sia valida. Essa ci dice a quale persona (personificazione) e a quale condizione storica e geografica della psiche appartengono la parola e il suo stile operativo, e anche in quale stile di coscienza abbia origine la psicologia. Proclamando suo padre Melantone, la psicologia dichiara di essere figlia della Riforma. 7 Melantone reintrodusse la psicologia razionalistica e naturalistica aristotelica dei secoli precedenti, ma le diede una nuova accentuazione morale. Egli suddivise le discipline filosofiche in tre gruppi: artes dicendi (retorica e dialettica), physiologia (fisica, psicologia e matematica) e praecepta de civilibus moribus (etica); cfr. J. Rump, Melanchthons Psychologie, Kiel, 1897, pp. 3 sgg. Questo sistema ebbe una parte importantissima nella realizzazione del grande scopo di Melantone, cioè l’«educazione morale della Germania per mezzo d’un approccio idealistico agli eventi umani» (W. Dilthey, Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation, in Gesammelte Schriften, Stuttgart, 1969, vol. II, p. 163; ed. it. L’analisi dell’uomo e la intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII, Venezia, 1972). L’aver raggruppato la psicologia con la fisica e la matematica aprì la strada ai successivi importanti risultati tedeschi nella psicologia fisica. Con la rimozione dell’arte della memoria dal regno della retorica,

l’apprendimento divenne solo apprendimento meccanico privo di immagini o di valori. Era ormai aperta la strada per un intelletto senza immaginazione, per nomina senza persone, per concetti senza configurazioni e per classificazioni prive di senso intrinseco. La psicologia fu privata in un sol colpo dell’immaginazione: diventò scientifica e venne agganciata a un generale fine moralistico. 8 S.T. Coleridge, L’amico: «Concetti distinti non presuppongono cose differenti. Quando io opero una triplice distinzione nella natura umana, sono pienamente consapevole che si tratta d’una distinzione, e non d’una divisione…» (citato in Owen Barfield, What Coleridge Thought, cit., p. 19). Si tratta di un’idea neoplatonica, implicita in Plotino (Enneadi, VI, 3, 2) ed espressa da W.R. Inge, in The Philosophy of Plotinus, cit., vol. I, p. 214: «Ma nel mondo spirituale c’è distinzione senza divisione». Anche gli archetipi debbono essere considerati in questa maniera: distinti ma non separati l’uno dall’altro. 9 Mi riferisco qui alle quattro cause di Aristotele – formale, finale, efficiente e materiale – e ritengo che le prime due siano particolarmente importanti riguardo al modo di concepire il ruolo dell’archetipo. 10 Uso «importanza» qui e in seguito secondo l’accezione di A.N. Whitehead, Modes of Thought (1938), cit., pp. 1-17 (trad. it. cit., pp. 29-52), il quale la presenta come una nozione fondamentale e irriducibile, legata al sentimento e all’emozione cruciale per la nostra attenzione e le nostre prospettive, i nostri valori e interessi. L’espressione «rassicurazione esistenziale» a proposito del valore dell’emozione deriva da Gabriel Marcel; cfr. J.W. O’Malley, The Fellowship of Being: An Essay on the Concept of Person in the Philosophy of Gabriel Marcel, The Hague, 1966, p. 81. 11 Per un’ampia esposizione delle teorie dell’emozione e

delle metafore radicali che sono alla base delle loro fantasie, si veda il mio Emotion: A Comprehensive Phenomenology of Theories and their Meanings for Therapy, Evanston, Ill., 1961. 12 L’espressione «influsso divino» viene da Swedenborg; cfr. K. Raine, Blake and Tradition, cit., vol. I, pp. 4-6; vol. II, pp. 214-16. Anche William James scrisse sulle emozioni come doni dello spirito in The Varieties of Religious Experience, London, 1906, pp. 150-51 (trad. it. Le varie forme della coscienza religiosa, Roma-Milano, 1954). 13 G. Allport, Becoming, Terry Lectures (1955), New Haven, 1971, p. 61: «Proprium è un termine inteso a coprire quelle funzioni che costituiscono la peculiare unità e carattere distintivo della personalità e che, nello stesso tempo, appaiono alla funzione conoscitiva come soggettivamente intime e importanti». Il fatto che il proprium possa andar perduto nella depersonalizzazione (vedi sopra, pp. 135 sgg.) indica che esso non è completamente di proprietà dell’uomo e che dipende veramente da qualcosa di molto simile all’homunculus che Allport deride nello stesso paragrafo. I sentimenti di soggettività, di importanza e di intimità sono connessi all’anima (che Allport evita di prendere in considerazione o rifiuta, p. 55) o, come l’abbiamo chiamata, all’anima. Peccato che debbano esistere circonlocuzioni come proprium, e tutto per dare all’anima una rispettabilità accademica, in modo che i dipartimenti di psicologia possano continuare ad avere una «psicologia senz’anima»! (cfr. Allport, p. 36 a proposito di Wundt). 14 K. Raine, Blake and Tradition, cit., vol. II, p. 229. 15 G.W.F. Hegel, Philosophy of Mind, trad. ingl. cit., pp. 7374. Per un esauriente riassunto della hegeliana «anima che sente» e del suo rapporto col pensiero, si veda Murray Greene, Hegel on the Soul, cit., pp. 103-42.

16 L’opposizione in epoca moderna tra pensiero e sentimento ha inizio con Moses Mendelssohn (1755). Per una discussione della storia del sentimento in psicologia si veda H.M. Gardiner, R.C. Metcalf e J.G. Beebe-Center, Feeling and Emotion: A History of Theories, New York, 1937; e sull’aspetto conservatore del sentimento, si veda il mio The Feeling Function, in Lectures on Jung’s Typology, con M.-L. von Franz, New York-Zürich, 1971, specialmente pp. 114, 125, 142-43. 17 Nietzsche, Aurora, in Opere…, cit., vol. V, t. I, par. 35. 18 Cfr. E. Jones, The Life and Work of Sigmund Freud, London, 1953, vol. I, p. 273 (trad. it. Vita e opere di Freud, Milano, 1962, vol. I, p. 302). 19 Cfr. R.B. Onians, The Origins of European Thought, Cambridge, 1954, pp. 472-76. 20 Cfr. MA, p. 56 (trad. it. cit., pp. 69-70 e note) per i riferimenti a quanto è stato scritto sulla storia di Amore e Psiche nel romanzo di Apuleio, L’asino d’oro. 21 N.O. Brown, Life Against Death, New York, s.d., p. 102, su Hegel (trad. it. La vita contro la morte, Milano, 1978 , p. 157). 22 K. Raine, Blake and Tradition, cit., vol. II, cap. XXIV, «Jesus the Imagination». 23 J.-P. Sartre, Existentialism Is a Humanism, in Existentialism from Dostoevsky to Sartre, a cura di W. Kaufmann, New York, 1956, pp. 290-91 (trad. it. in L’esistenzialismo è un umanismo, Milano, 1963, pp. 36-37). 24 E.R. Dodds «The Religion of the Ordinary Man in 2

Classical Greece», in The Ancient Concept of Progress, Oxford, 1973, p. 140. 25 C. Lévi-Strauss, citato in Octavio Paz, Alternating Current, New York, 1973, p. 156. 26 C. Hartshorne, Beyond Humanism (1937), Lincoln, Nebr., 1968. Hartsthorne sottolinea sia la limitante esclusività del pensiero umanistico, dovuta alla sua razionalizzazione della propria limitatezza, sia la sua romantica esagerazione della bontà dell’uomo che lo porta a trascurare il male. Abbiamo già discusso questo romanticismo trattando dell’approccio umanistico alla patologizzazione. 27 M. Untersteiner, The Sophists, cit., p. 58 (ed. it. cit., p. 76). 28 J.-P. Sartre, Existentialism and Humanism, trad. ingl. di P. Mairet, London, 1948, p. 58 (trad. it. cit., p. 92). 29 K. Kerényi, «Humanismus und Hellenismus», nel suo Apollon, Düsseldorf, 1953, p. 252. 30 Snell, The Discovery of the Mind, cit., p. 246 (trad. it. cit., pp. 348-49). 31 Cfr. W.F. Otto, The Homeric Gods, cit., pp. 231-60 (trad. it. cit., pp. 283-319). 32 LS, p. 669; cfr. Fedro, 252c, Leggi, 740b. 33 R.D. Laing, The Politics of Experience, cit., p. 46 (trad. it. cit.). 34 Ibid., p. 50 (trad. it. cit.). 35 E.R. Dodds, «The Religion of the Ordinary Man in

Classical Greece», in The Ancient Concept of Progress, cit., p. 140. 36 W.F. Otto, The Homeric Gods, cit., pp. 236-38 (trad. it. cit., pp. 290-91). 37 Sebbene un testo del genere, che io sappia, non esista, è bene ricordare che tutti i libri sul Rinascimento possono esser letti psicologicamente ancorché non siano stati scritti come libri di psicologia. Le opere a mio parere più valide per una psicologizzazione del Rinascimento sono indicate nelle note qui di seguito. A una lettura veramente psicologica non interessa tanto una dottrina razionale dell’anima quanto il corso errante dell’immaginazione e della visione interiore psicologiche. Perciò, le opere più basilari sono quelle che trattano dell’immaginazione politeistica, la psicologia archetipica del Rinascimento, soprattutto: J. Seznec, The Survival of the Pagan Gods, cit.; e gli scritti di Frances Yates, Erwin Panofsky, Edgar Wind, Ernst Cassirer, D.P. Walker e D.C. Allen. 38 Per un indispensabile sfondo alla «controversia rinascimentale» si veda W.K. Ferguson, The Renaissance in Historical Thought, Cambridge, Mass., 1948 (trad. it. Il Rinascimento nella critica storica, Bologna, 1969), e il suo saggio The Reinterpretation of the Renaissance, in Facets of the Renaissance, a cura di W.H. Werkmeister, New York, 1963, pp. 1-18; Erwin Panofsky, «‘Renaissance’ – SelfDefinition or Self-Deception?» nel suo Renaissance and Renascences in Western Art, New York, 1969, pp. 1-41 (trad. it. Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, Milano, 1971, pp. 17-59); F. Chabod, «The Concept of the Renaissance» e la concisa e magistralmente analitica bibliografia nel suo Machiavelli and the Renaissance, trad. ingl. di D. Moore, New York, 1965 (ed. it. Scritti sul Rinascimento, Torino, 1967 ). J. Trier, Zur Vorgeschichte des Renaissance-Begriffes, in «Archiv für Kulturgeschichte», 33, 2

1950, pp. 45-63, utile perché consente di risalire al contesto botanico del termine nel latino classico dell’antica Roma. 39 Cfr. K. Burdach, Sinn und Ursprung der Wörter Renaissance und Reformation, Berlin, 1918, p. 17, sul Rinascimento come «fantasia» di rinascita. Sfortunatamente Burdach deve addurre prove letterali e restringe così la sua intuizione a san Francesco e alla renovatio spirituale cristiana. Cfr. il saggio di Jung Concerning Rebirth (Über Wiedergeburt, 1950), CW, vol. IX, t. I, parr. 199-258 (trad. it. cit., vol. IX, t. I), per una maggiore familiarità con gli atteggiamenti psicologici che vengono inevitabilmente provocati dall’idea d’un rinascimento. 40 L’edizione da me usata per l’insostituibile ed entusiasmante opera di Jacob Burckhardt è l’abbondante settima, con le note di Geiger, tradotta da S.G.C. Middlemore, The Civilisation of the Renaissance in Italy, London-New York, 1914 (trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, 1961). I capp. II e IV (sull’individualità dell’uomo) sono di solito considerati la parte psicologica dell’opera di Burckhardt; ma di maggiore importanza per la psicologia archetipica (perché meno personalisticamente e meno consciamente psicologici) sono i capp. V (soprattutto la parte sulle feste) e VI (sull’ombra morale e la disintegrazione). 41 Per la letteratura della parola humanitas, si veda la Bibliografia di Chabod in Machiavelli and the Renaissance, cit., pp. 207 sgg. (ed. it. cit., pp. 122-44); E. von Jan, Humanité, in «Zeitschrift für französische Sprache und Literatur», 55, 1932, pp. 1-66. Le distorsioni di questa parola nell’uso attuale vanno dalle società «umanitarie», la cui principale preoccupazione è quella di assicurare una serena vecchiaia agli asinelli e ai cani inglesi, al rigido dogmatismo marxista del quotidiano francese «L’Humanité». P.O. Kristeller, «The Philosophy of Man in the Italian

Renaissance», in Studies in Renaissance Thought, Roma, 1969, p. 261, scrive: «… “Umanesimo” è diventato uno di quegli slogan che con la loro stessa indeterminatezza emanano un’attrazione quasi universale e irresistibile. Ogni persona che abbia interesse per i “valori umani” o il “benessere umano” è oggidì chiamata un “umanista”… l’umanesimo del Rinascimento era qualcosa di completamente diverso dall’umanesimo odierno. È ben vero che gli umanisti rinascimentali si interessavano anche ai valori umani, ma si trattava di un aspetto incidentale della loro preoccupazione primaria, che era lo studio e l’imitazione della letteratura classica greca e latina». Più avanti (p. 264) aggiunge: «l’umanesimo ebbe origine e si sviluppò nella area ristretta degli studi retorici e filologici». 42 Snell, The Discovery of the Mind, cit., p. 246 (trad. it. cit., p. 348). 43 «Petrarca viene mostrando in che modo eloquenza, ossia disciplina letteraria, e filosofia, ossia cura dell’anima, si congiungano strettamente» (E. Garin, Italian Humanism, trad. ingl. di P. Munz, Oxford, 1965, p. 19; ed it. L’umanesimo italiano, Bari, 1964, p. 26). 44 Le amicizie di Petrarca e il suo interesse per la diplomazia politica e la società (sebbene egli fosse una sorta di eremita) erano, come egli confessa nel Secretum (trad. ingl. di W.H. Draper, London, 1911), la naturale conseguenza della cura dell’anima e non la sua precondizione. Egli metteva nel giardinaggio, nelle sue raccolte di testi, nei suoi rifugi in Vaucluse e Arquà, nei suoi scritti rivolti agli autori defunti dell’antichità e all’assente Laura, la stessa cura che usava verso gli amici viventi e gli eventi del suo tempo. Sebbene Garin insista sul «carattere civico e sociale dell’umanità di Petrarca» (p. 20; ed. it. cit., p. 27), Petrarca fu «per il suo tempo eccezionalmente introspettivo» (E.H. Wilkins, Life of Petrarch, Chicago, 1963, p. 259; ed. it. Vita del Petrarca e la

formazione del Canzoniere, Milano, 1964). 45 E. Garin, Italian Humanism, cit., p. 19 (ed. it. cit., p. 26). 46 Agostino, Confessioni, X, 8, 15, trad. ingl. di E.B. Pusey, New York, 1966. 47 Cfr. P.O. Kristeller, «Augustine and the Early Renaissance», in Studies…, cit., pp. 361-62, ove si traducono e si discutono i passi agostiniani in questione e dove «anima» e «sé» sono interpretati nel senso di «uomo». Perciò Kristeller dice (p. 362) che l’evento del Mont Ventoux si riferisce al rinascimentale «ritorno dalla natura all’uomo». 48 Confessioni, X, 8, 15. 49 Confessioni, X, 8, 12. 50 Confessioni, X, 8, 14. 51 Il termine neoplatonismo copre molti autori e molte idee di molti secoli (cfr. A.H. Armstrong, Later Platonism and Its Influence, in Classical Influences on European Culture, cit., pp. 197-201). Nondimeno, vi sono alcuni fili psicologici fondamentali e ininterrotti, derivanti soprattutto da Plotino, che, se letti alla luce della psicologia archetipica, hanno per quest’ultima una notevole importanza. Qui dobbiamo ricordare che Plotino è stato letto prevalentemente attraverso teologi cristiani (V. Cilento; il decano Inge; Paul Henry e R. Arnou, entrambi gesuiti; l’abate Trouillard). E questo ha fatto sì che venissero sottolineati soprattutto gli aspetti metafisici e spirituali del neoplatonismo. Viceversa, la psicologia vede in Plotino (e in Ficino) soprattutto un interesse per l’anima. Le Enneadi si aprono con dei problemi psicologici; «I problemi dell’anima» è la più estesa delle sue sezioni; si tratta di un libro di psicologia. Alcuni hanno letto il neoplatonismo in questa luce: Philip Merlan,

Monopsychism, Mysticism, Metaconsciousness, The Hague, 1963, pp. 55 sgg.; E.R. Dodds, Tradition and Personal Achievement in the Philosophy of Plotinus, nel suo The Ancient Concept of Progress, cit.; i contributi di Dodds e di H.-R. Schwyzer a Les Sources de Plotin, Fondation Hardt V, Genève, 1960; H.J. Blumenthal, Plotinus’ Psychology, cit. Un valore più generale per il neoplatonismo rinascimentale hanno: Nesca A. Robb, Neoplatonism of the Italian Renaissance, London, 1935, e Edgar Wind, Pagan Mysteries …, cit. (trad. it. cit.). Il neoplatonismo, per inciso, non appartiene solo ai dotti specialisti. Esso è vivo, ancorché solitario, non solo nella psicologia archetipica, ma soprattutto per merito della perizia e del vigore intellettuale di J.N. Findlay, il quale dice («Toward a Neo-Neo-Platonism», nel suo Ascent to the Absolute, London, 1970, p. 249): «E io sarò prevenuto, fino al punto di usare metafore offensive, giacché il miglior modo per far capire il senso e il valore del platonismo e del neoplatonismo è di contrapporlo a modi di pensiero insufficienti come l’individualismo aristotelico, il soggettivismo tedesco, la teologia semitico-protestante, per non parlare dell’empirismo spinto all’estremo di certe forme di analisi atomistica». 52 P.O. Kristeller, The Philosophy of Marsilio Ficino, trad. ingl. di V. Conant, New York, 1943; Gloucester, Mass., 1964, p. 203 (trad. it. Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Firenze, 1953, p. 216). 53 E. Garin, Portraits from the Quattrocento, trad. ingl. di V.A. e E. Velen, New York, 1972, p. 152 (ed. it. Medioevo e Rinascimento, Bari, 1976, p. 283): «[Ficino] ama esprimersi sempre in termini figurati, per immagini e miti, proprio perché la sua filosofia non è astratto ragionare, o scienza fisica…». Molte di queste immagini si possono trovare in Wind, Pagan Mysteries…, cit. (trad. it. cit.) e in E.H. Gombrich, Icones Symbolicae: The Visual Images in Neo-

Platonic Thought, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 2, 1948. 54 Cfr. Holmes, The Florentine Enlightenment, 1400-50, cit., p. 106. 55 Cfr. E.W. Warren, Consciousness in Plotinus, in «Phronesis», 9, 1964, pp. 88 fino alla fine, e il suo Imagination in Plotinus, in «Classical Quarterly», n.s. XVI, 1966, n. 2, pp. 277-79. Ficino non situò l’immaginazione così in alto come fece Plotino. Altre fondamentali divergenze tra il neoplatonismo ficiniano e la psicologia archetipica concernono l’importanza che Ficino attribuiva alla luce, alla gerarchia e all’amore. La sua era una psicologia più spirituale, una psicologia dell’altezza più che del profondo; per lui, la direzione verso il basso conduceva nelle tenebre. La psicologia archetipica riconosce la validità di tutta la fantasia e non solo di quella «più elevata», e dà alla patologizzazione un ruolo fondamentale e non semplicemente accidentale. Anche nella vita di Ficino la patologizzazione fu tutt’altro che incidentale. 56 Nicolò Machiavelli, Opere, Napoli, 1954, p. 1111 (da una lettera a Vettori del 10 Dicembre 1513). 57 Cfr. Roberto Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, cit., che mette in luce la curiosa mescolanza di interesse e di negligenza verso la storia, di cura antiquaria per i particolari che s’accompagnava a falsificazioni e speculazioni. Si veda inoltre Peter Burke, The Renaissance Sense of the Past, London, 1969. Sul ruolo della Grecia storica nel Rinascimento, si veda sopra la Digressione sul ritorno alla Grecia, pp. 70 sgg. 58 La questione dei testi ermetici e della convinzione dei pensatori rinascimentali che si trattasse di testi antichi è discussa da Frances Yates, Giordano Bruno and the

Hermetic Tradition, London, 1964, pp. 1-16 (trad. it. Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari, 1969, pp. 1332) e da D.P. Walker, The Ancient Theology, cit., pp. 1-21. 59 Vi sono solo due moderne opere basilari su Ficino: P.O. Kristeller, The Philosophy of Marsilio Ficino, cit. (trad. it. cit.), e R. Marcel, Marsile Ficin, Paris, 1958. Altri saggi su Ficino sono stati pubblicati da Kristeller nei suoi Studies…, cit., e lunghe citazioni dalle opere di Ficino si possono trovare in inglese in Trinkaus, In Our Image and Likeness, cit.; in D.P. Walker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, London, 1958; e in The Renaissance Philosophy of Man, a cura di E. Cassirer et al., Chicago, 1956. Per una traduzione inglese completa, si veda S.R. Jayne, Ficino’s Commentary…, cit. Si veda anche R. Marcel, Théologie platonicienne de l’immortalité des âmes, 3 voll., trad. franc. con testo latino a fronte, Paris, 1964-70. Per altre argomentazioni psicologiche ricavate dal pensiero di Ficino, si veda il mio Plotino, Ficino e Vico, precursori della psicologia junghiana, in «Rivista di psicologia analitica», cit. 60 P.O. Kristeller, Studies…, cit., p. 266. 61 Ibid., p. 268, in cui è dato il passo latino. Si veda anche la discussione di Kristeller del rapporto uomo-anima nel suo Marsilio Ficino, cit., pp. 328 sgg. (trad. it. cit., pp. 355 sgg.). Il luogo principale in Ficino in cui è esposta l’idea che la dignità dell’uomo deriva dall’anima è in Theologia platonica, XIII e XIV (trad. it. cit., vol. II). 62 Garin, Portraits from the Quattrocento, cit., p. 151 (ed. it. cit., p. 281). Quando in Ficino il «corpo» viene svalutato nell’intento di affermare l’anima, possiamo psicologizzare questo fatto e intenderlo come la prospettiva empirica, letterale e fisica, in particolare la prospettiva dell’azione pratica, che nell’universo ficiniano ha minore importanza di Venere e della sua voluttà. Cfr. Wind, Pagan Mysteries…,

cit., pp. 48 sgg., 55, 68 sgg. (trad. it. cit., pp. 47 sgg., 55, 70 sgg.). L’opposizione non è tanto tra anima e godimento sensuale della carne – giacché la voluttà in Ficino era un modello della gioia spirituale – quanto piuttosto tra interiorità ed esteriorità, o tra quelle che abbiamo chiamato le prospettive metaforica e letterale. 63 Garin, Portraits from the Quattrocento, cit., p. 153 (ed. it. cit., p. 283). È questa nozione ficiniana del vedere che influenzò Michelangelo. Cfr. R.J. Clements, Michelangelo’s Theory of Art, New York, 1961, pp. 3-13 (trad. it. Michelangelo, vol. I: Le idee sull’arte, Milano, 1964). 64 Trinkaus, In Our Image and Likeness, cit., vol. II, p. 470. Anche Kristeller, Marsilio Ficino, cit., p. 357 (trad. it. cit. p. 379). 65 Trinkaus, In Our Image and Likeness, cit., vol. II, p. 471. Cfr. Kristeller, Marsilio Ficino, cit., cap. «Internal Experience» (trad. it. cit., pp. 218 sgg.). 66 E. Panofsky, Renaissance and Renascences, cit., p. 183 (trad. it. cit., p. 213). 67 R.H. Bainton, Man, God, and the Church in the Age of the Renaissance, in W.K. Ferguson et al., Renaissance: Six Essays, New York, 1962, p. 87, osserva i pericoli dell’immanentismo neoplatonico per la teologia cristiana tradizionale: la visione psicologica di Dio o Dio nell’anima. Analoghe accuse vengono mosse oggi contro la psicologia di Jung. 68 Soltanto dopo la morte di Ficino (1499) la psicologia filosofica fiorentina conquistò Roma. Al Concilio Laterano del 1513 la Chiesa cattolica promulgò il dogma dell’immortalità dell’anima. Questo dogma, che è una delle fantasie essenziali del neoplatonismo rinascimentale e argomento del principale

scritto di Ficino, accordando l’immortalità all’anima afferma la psiche come equivalente di Dio. È l’apoteosi dell’anima, da umana a divina. 69 Garin, Portraits from the Quattrocento, cit., p. 156 (ed. it. cit., p. 287). 70 Panofsky paragona per due volte l’impatto del neoplatonismo con quello del movimento psicoanalitico, cfr. Renaissance and Renascences, cit., p. 187 (trad. it. cit., p. 218), e il suo Artist, Scientist, Genius: Notes on the ‘Renaissance Dämmerung’, in Ferguson et al., Renaissance: Six Essays, cit., p. 129. 71 R. Marcel, Marsile Ficin, cit., p. 161 (Ficino, Prefazione al suo De triplici vita). 72 Da Jayne, Ficino’s Commentary…, cit., pp. 16-19. 73 Le idee di Ficino sull’anima sono discusse, con importanti riferimenti, da Frances Yates nel suo Giordano Bruno, cit., pp. 62-83 (trad. it. cit., pp. 77-99). 74 Cfr. A.B. Giamatti, Proteus Unbound: Some Versions of the Sea God in the Renaissance, in The Disciplines of Criticism, a cura di P. Demetz, T. Greene, L. Nelson, New Haven, 1968, pp. 437-75. Cfr. CW, vol. IX, t. II, parr. 338-39 su Proteo (trad. it. cit., vol. IX, t. II); CW, vol. XIV, par. 50 (Mysterium Coniunctionis) e CW, vol. XIII, par. 218 (Paracelsus als geistige Erscheinung, 1942) dove Proteo è identificato con Mercurio, e parr. 239-303 su Mercurio (trad. it. in La simbolica dello spirito, cit., pp. 61-104). In quest’ultimo saggio Jung (par. 299 [trad. it. cit.]) considera Mercurio come «l’archetipo dell’inconscio» e dice che «invece di derivare queste figure dalle nostre condizioni psichiche dobbiamo derivare le nostre condizioni psichiche da queste figure». Perciò, il concetto di inconscio è il modo

in cui noi oggi formuliamo Proteo-Mercurio. Le connotazioni di questo termine, «inconscio», sono descrizioni di ProteoMercurio, e il nostro rapporto con «l’inconscio» mostra come noi oggi trattiamo e concettualizziamo questa figura. 75 Pietro Pomponazzi, De immortalitate animae, cap. II, trad. ingl. di W.H. Hay, in The Renaissance Philosophy of Man, a cura di S. Cassirer et al., Chicago, 1956, p. 283. Pomponazzi (1462-1525) non faceva parte dell’Accademia di Ficino, tuttavia anche lui, aristotelico e l’«ultimo scolastico» come è stato chiamato, assunse questa posizione polivalente. Cassirer lo considera con particolare attenzione in The Individual and Cosmos in Renaissance Philosophy, cit., pp. 80-83, 103-09, 136-40 (trad. it. cit., pp. 131 sgg., 165 sgg., 216 sgg.). 76 Montaigne, Apologie de Raymond Sebond, in Essais, II, XII, nella trad. ingl. citata da D.M. Frame, Montaigne on the Absurdity and Dignity of Man, in Robert Schwoebel, Renaissance Men and Ideas, New York, 1971, p. 132 (la trad. it. del testo di Montaigne è in: Montaigne, Saggi, Milano, 1966, vol. I, pp. 564-805). 77 Per dei riferimenti bibliografici su Fortuna e immagini di essa si veda l’indice di Wind, Pagan Mysteries…, cit. (trad. it. cit.); R.S. Lopez, Hard Times and Investment in Culture, in Ferguson et al., Renaissance: Six Essays, cit., p. 44; E.H. Gombrich, Personification in Classical Influences, a cura di Bolgar, cit., pp. 255-56; E.E. Lowinsky, The Goddess Fortuna in Music, in «Music Quarterly», 29, 1943, pp. 45 sgg. Montaigne, nello stesso capitolo citato alla nota precedente, considera l’anima signora della fortuna, poiché è in grado di trasformare (idea proteica) ogni nuovo evento secondo la propria luce. L’anima psicologizza, trasformando a proprio vantaggio ogni piega del destino e della fortuna. La ruota di Fortuna esprime un relativismo radicale: tutte le posizioni sono ugualmente valide. Nello stesso tempo esse

trascendono tutte la volontà umana. La ruota offre una visione comprensiva per inserire tutta la molteplicità archetipica in un’immagine contenitrice che dà a ciascuna cosa il proprio posto. Quando il «gioco d’azzardo patologico» del Rinascimento è situato contro lo sfondo di questa possente immagine, l’ossessivo giocare d’azzardo può esser visto in trasparenza e svelare ciò che esso offre all’uomo, al giocatore d’azzardo: un modo, grazie a Fortuna, di organizzare la propria vita in rapporto a tutte le possibilità del cosmo e di scoprire in qualsiasi momento e con esattezza dove si è. 78 Il mutamento del modo di guardare al pantheon di molti Dei è esemplificato dal mutamento d’opinione sull’omonimo monumento romano, che nel Medioevo era considerato un edificio diabolico la cui straordinaria cupola poteva esser stata portata a termine soltanto con l’aiuto del Diavolo. Nel Rinascimento vi fu un radicale mutamento d’atteggiamento (iniziato da Petrarca); esso fu ben presto (1446) considerato il più bell’edificio di Roma, e Raffaello «decise di esser sepolto non in Vaticano, ma nel Pantheon» (T. Buddensieg, Criticism and Praise of the Pantheon in the Middle Ages and the Renaissance, in Classical Influences, a cura di Bolgar, cit., p. 267). 79 Citato da Ferguson, Renaissance in Historical Thought, cit., p. 95 (trad. it. cit., p. 141). Nietzsche sfruttò a fondo la visione depravata del Rinascimento, capovolgendone il senso in modo da poterla usare per trionfare contro i suoi nemici: la debolezza, la Riforma e la morale cristiana (ibid., pp. 207208; trad. it. cit., pp. 294-95). Huizinga diede al tema dell’immoralità una angolazione diversa, trovando in essa non tanto un segno della virilità nietzscheana della nuova èra quanto piuttosto un sintomo dell’autunno e del declino del Medioevo (ibid., p. 375; trad. it. cit., p. 522). 80 Northrop Frye, Fables of Identity, New York, 1963, p. 137

(trad. it. Favole di identità, Torino, 1973, p. 204). Il grottesco giunse ad avere un ruolo importante nell’arte, particolarmente nel Quattrocento; cfr. N. Dacos, La découverte de la Domus Aurea et la formation des grotesques à la Renaissance, London-Leiden, 1969. «Grottesco» deriva etimologicamente da grotto, e si riferisce in particolare alle rovine sotterranee dell’antichità dove, sopra i muri di edifici riportati alla luce, gli uomini del Rinascimento scoprirono figure fantastiche di sirene, sfingi, centauri e altre ibride e innaturali creature. L’autorità del passato conferì autenticità a «questi capricci calcolati» dell’immaginazione, come li chiama Wind in Pagan Mysteries…, cit., p. 237 (trad. it. cit., p. 290). Esse rappresentavano le grottesche realtà dell’anima rinascimentale – e lo stesso Ficino mise in rapporto le immagini grottesche e gli stati disturbati dell’anima (Dacos, cit., p. 74). Mentre le antiche grottesche «nel Rinascimento erano considerate lo stile classico di una camera sepolcrale o di una stanza di misteri» (Wind, Pagan Mysteries…, cit., p. 237; trad. it. cit., p. 290), il cristianesimo medioevale aveva attribuito analoghe immagini al regno del Diavolo. Il Cinquecento ritornò a questa visione ortodossa, e giudicò le grottesche mostruose, animali e pagane, adatte solo a decorare l’inferno. 81 Seznec, The Survival of the Pagan Gods, cit., p. 5 e nota 6. Giamatti, in Proteus, cit., ne presenta altri. Sulle macabre e vistose eccitazioni delle esecuzioni pubbliche e il loro posto nella patologizzazione del Rinascimento, si veda S.Y. Edgerton, Maniera and the Mannaia: Decorum and Decapitation in the Sixteenth Century, in The Meaning of Mannerism, a cura di F.W. Robinson e S.G. Nichols, Hanover, N.H., 1972, pp. 67-103. 82 Cfr. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», in Opere…, cit., vol. VI, t. III, pp. 134-35: «È certo che non potremmo metterci nelle condizioni del

Rinascimento e nemmeno immedesimarci in esse con il pensiero […]. Non dubitiamo d’altra parte che noi moderni, con la nostra umanità ben ovattata, che non vuole assolutamente urtare contro nessuna pietra, avremmo offerto ai contemporanei di Cesare Borgia una commedia di matte risate». Si veda inoltre Charles Trinkaus, Adversity’s Noblemen: The Italian Humanists on Happiness, New York, 1940, sulla interrelazione tra gli atteggiamenti psicologici verso la vita e la povertà, l’avversità e l’insicurezza della vita effettiva degli umanisti. Gli scrittori rinascimentali composero trattati e dialoghi con questi titoli: Sulla miseria della condizione umana, Sulla vita di solitudine, Sull’infelicità degli uomini di lettere, Sull’infelicità dei prìncipi, Sui terremoti, Sulle cause delle nostre calamità, Consigli sulle avversità e le tribolazioni del mondo, Sermoni sulla stupidità e la miseria degli uomini. 83 Cfr. E.R. Chamberlain, «The Violent World», nel suo Everyday Life in Renaissance Times, New York, 1967, pp. 129-60. 84 I modelli degli umanisti – Cicerone, Seneca e Plutarco – scrissero sull’inimicizia, ed Erasmo tradusse di quest’ultimo Dell’utilità di avere dei nemici, dedicandolo al Cardinale Wolsey d’Inghilterra. L’inimicizia è uno dei temi più trascurati nell’attuale umanesimo, che la degrada alla fantasia animale dell’«aggressione» o la situa nella sfera materna dell’invidia e della frustrazione, dimenticando così che l’inimicizia fa parte della fenomenologia dell’eros, mentre Plutarco sostenne che essa è una necessaria controparte all’amicizia: non possiamo aver l’una senza l’altra. 85 Cfr. Wind, Pagan Mysteries…, cit., pp. 280 sgg., 262 (trad. it. cit., pp. 335 sgg., 308); nel mio The Dream and the Underworld, cit. (trad. it. cit.), discuto in modo più particolareggiato il significato psicologico di Ade.

86 E. Garin, Portraits from the Quattrocento, cit., p. 146 (ed. it. cit., p. 275). 87 J.E. Seigel, Renaissance Humanism: Petrarch and Valla, in Schwoebel, Renaissance Men and Ideas, cit., p. 10. 88 Cfr. Aristotele, De anima, II, 1 e 2. Come J.H. Randall dice per Aristotele: «Psyche ovviamente non può esistere senza un corpo vivente» (Aristotle, New York, 1962, p. 62). 89 Cfr. Wind, Pagan Mysteries…, cit., pp. 280-81, 218-35, 251 (trad. it. cit., pp. 335-36, 267-88, 305); Inno Orfico 18, «A Plutone»; Allen, Mysteriously Meant, cit., p. 172. 90 Questa storia è raccontata diffusamente in Burckhardt Civilisation…, cit., Parte Terza, par. 2 (trad. it. cit., pp. 17273). Sull’anima rinascimentale osservata da un punto di vista junghiano classico, si veda Linda Fierz-David, The Dream of Poliphilo, trad. ingl. di M. Hottinger, New York, 1950; si veda anche il Secretum di Petrarca che si apre con la visione d’«una bellissima donna» e con un dialogo con essa. 91 Condensato dal superbo paragrafo di Burckhardt, Civilisation…, cit., Parte Sesta, par. 2 (trad. it. cit., pp. 44243). 92 Robb, Neoplatonism…, cit., p. 43. 93 La svalutazione del pensiero rinascimentale è venuta soprattutto dalle due direzioni a cui abbiamo accennato all’inizio di questo capitolo: il logos di Dio (teologia), per esempio con Étienne Gilson nel nostro tempo, e il logos della natura (scienza naturale), rappresentato da George Sarton e Lynn Thorndike. Mersenne attacca contemporaneamente da entrambi i fronti. Quelli che sono per un logos dell’uomo (ad esempio, Dilthey e Cassirer) si schierano in difesa della

filosofia rinascimentale. R.R. Bolgar, The Classical Heritage and Its Beneficiaries, Cambridge, 1954, riversa sul pensiero di Ficino un fuoco di fila d’insulti: «… più leggiamo Pico e Ficino, più risulta evidente che la loro filosofia non era niente altro che un’apologia di atteggiamenti dell’epoca. I comportamenti che essi esaltano sono precisamente quelli che erano stati glorificati da Petrarca… Tutte cose filosoficamente senza valore… Questa preoccupazione per fisime mistiche e per il comportamento sociale indebolì l’impatto del platonismo fiorentino come filosofia seria» (pp. 287-88). La tesi di Bolgar ci trova del tutto d’accordo: non ha nessun valore leggere il neoplatonismo come filosofia. 94 Leon Battista Alberti, On Painting, trad. ingl. di J.R. Spencer, New Haven, 1971 (ed. it. De pictura, Bari, 1980). 95 Sul ruolo del neoplatonismo nello sviluppo della prospettiva in pittura, si veda E.H. Gombrich, Art and Illusion, Princeton, N.J., 1961 , pp. 52-56 (trad. it. Arte e illusione, Torino, 1972 ). 96 Sul ruolo dell’antichità classica si veda G.C. Argan, The Architecture of Brunelleschi and the Origins of Perspective Theory in the Fifteenth Century, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», IX, 1946, pp. 96-121. La letteratura precedente è menzionata nelle note ai testi di questi due autori. 97 E.E. Lowinsky, The Concept of Physical and Musical Space in the Renaissance, in «Papers of the American Musicological Society», 1946, pp. 57 sgg. 98 Grove, Dictionary of Music and Musicians, Philadelphia, 1926, vol. III, 786a, s.v. Poliphonia. 99 Sul platonismo nella musica, si veda di I. Horsley la recensione dell’edizione in facsimile di G. Zarlino, Le 2

2

Institutioni Harmoniche (1558), in «Music Library Association Notes», serie II, 23, 1966-67, pp. 515-19; G. Zarlino, The Art of Counterpoint, trad. ingl. di G. Marco e C. Palisca, New Haven, 1968; P.O. Kristeller, «music and Learning in the Early Italian Renaissance», nel suo Renaissance Thought II: Papers on Humanism and the Arts, New York, 1965, vol. II, pp. 156-59. 100 Montaigne, De l’inconstance de nos actions, in Essais, II, I, nella trad. ingl. di Charles Cotton, 4 voll., London, 1902, vol. II, p. 142 (trad. it. cit., vol. I, pp. 432-33). 101 Un punto di vista diverso è in Ch. Perelman e L. ObrechtsTyteca, The New Rhetoric, A Treatise on Argumentation, trad. ingl. di J. Wilkinson e P. Weaver, Notre Dame, Ind., 1969 (trad. it. Trattato dell’argomentazione, 2 voll., Torino, 1966). 102 Cfr. Pedro Laín Entralgo, The Therapy of the Word in Classical Antiquity, trad. ingl. di L. Rather e J. Sharp, New Haven, 1970. 103 Per una introduzione all’indagine dei nessi tra psicologia del profondo e retorica, si veda Kenneth Burke, A Rhetoric of Motives, Berkeley, Calif., 1969, pp. 19-46, 49-90; per i fondamentali testi di retorica, si veda T.W. Benson e M.H. Prosser, Readings in Classical Rhetoric, Bloomington, Ind., 1972, e J. Schwartz e J.A. Rycenga, The Province of Rhetoric, New York, 1965; le Terry Lectures e altri scritti di W.J. Ong, e di nuovo Frances Yates, The Art of Memory, cit. (trad. it. cit.), arte che apparteneva in origine alla retorica. Un utile articolo che passa in rassegna opere recenti sulla retorica rinascimentale è D. Weinstein, In Whose Image and Likeness? Interpretations of Renaissance Humanism, in «Journal of the History of Ideas», 33, 1972, pp. 165-76. Q. Breen, Giovanni Pico della Mirandola on the Conflict of Philosophy and Rhetoric, in «Journal of the History of Ideas»,

13, 1952, pp. 384-426, solleva la questione, essenziale allora come oggi, del rapporto tra parole vuote («mera retorico») e pensiero significativo, cioè la controversia nominalistarealista sotto altra veste. Cfr. N.S. Struever, The Language of History in the Renaissance, Princeton, N.J., 1970, pp. 539. 104 Cfr. Seigel, Petrarch and Valla, in Schwoebel, Renaissance Men and Ideas, cit., pp. 9-11. 105 Kristeller, Renaissance Platonism, in Facets, a cura di Werkmeister, cit., p. 104. 106 V.L. Johnson, The Humanism of Plutarch, in «Classical Journal», 66, 1970. 107 T.R. Glover, Conflict of Religions in the Early Roman Empire, Boston, 1960, cap. III. 108 A.M. Patterson, Hermogenes and the Renaissance: Seven Ideas of Style, Princeton, N.J., 1970. 109 Fedro, 273e. 110 Adolf Portmann, Der Weg zum Wort, in «Eranos», 39, 1970. 111 A.N. Whitehead, Modes of Thought, cit., p. 44 (trad. it. cit., p. 68). 112 Hegel, Philosophy of Mind (Zusatz 411), cit., p. 150. 113 Cfr. E.S. Casey, Toward an Archetypal Imagination, in «Spring», 1974, pp. 1-32, sulla fondamentale importanza del dare un nome alle figure dell’immaginazione, e del fatto che esse arrivino già con un nome. 114

Per aggiungere qualche altra figura settentrionale importante per la psicologia del profondo: Mesmer e il magnetismo; von Hartmann e Schopenhauer per l’idea dell’inconscio; Gall e Spurzheim per le ricerche sul cervello; Adolph Meyer per lo stile americano nella classificazione psichiatrica; Münsterberg … ma poiché ora entriamo nella psicologia sperimentale si deve osservare quanto segue: «Come si sarà notato, la nostra esposizione ha mostrato che nell’Ottocento la psicologia sperimentale fu una scienza quasi completamente tedesca e americana. Per quanto concerne le origini del metodo sperimentale, l’iniziativa fu quasi esclusivamente tedesca; anzi, l’opera di Galton fu l’unica eccezione d’una qualche importanza, e in Inghilterra non vi fu alcun tentativo di portare avanti quanto Galton aveva iniziato, fino a quando la sperimentazione non fu reintrodotta dalla Germania per merito di McDougall, Spearman e altri agli inizi del Novecento» (J.C. Flugel, A Hundred Years of Psychology, London, 1951 , p. 214). In un elenco di 538 figure importanti per il campo della psicologia (tra il 1600 e il 1967) un terzo erano di lingua tedesca, un terzo americani e un terzo era composto da inglesi e francesi insieme. Solo 11 italiani figuravano in questo elenco (Robert I. Watson e Marilyn Merryfield, Characteristics of Individuals Eminent in Psychology in Temporal Perspective: Part I, in «Journal of the History of Behavioral Sciences», IX, 1973, n. 4, pp. 339-59). 115 Questo contrasto tra Riforma settentrionale e Rinascimento meridionale, essendo archetipico, è irto di pericoli. Alcune di queste considerazioni archetipiche sono state notate da U.R. Ehrenfels, Nord-Süd als Spannungspaar, in «Antaios», 7, 1965, n. 2, pp. 101-25. La coppia nord-sud porta con sé il simbolismo psicologico della polarità superiore-inferiore, sicché l’opposizione di Riforma e Rinascimento assume immediatamente un significato che va oltre quello storico. Questa polarità è appunto una delle metafore radicali del campo degli studi rinascimentali; cfr. 2

Ferguson, Renaissance in Historical Thought, cit., pp. 25556, 363-68, et passim (trad. it. cit., pp. 367-68, 510-16, et passim). «Il Rinascimento» si trasforma facilmente in uno strumento per attaccare «il Nord»: Riforma, pietismo, modernità razionalità, praticità, super-io, e così via. Ancora una volta Nietzsche ci offre la turgida massima per questa idea del Rinascimento: «Si comprende infine, si vuole comprendere che cosa è stato il Rinascimento? La trasvalutazione dei valori cristiani, il tentativo intrapreso con tutti i mezzi, con tutti gli istinti, con ogni genialità, di portare alla vittoria gli anti-valori, i valori aristocratici... Non c’è stata fino a oggi […] nessun’altra posizione dei problemi più decisiva di quella del Rinascimento…» (Nietzsche, L’anticristo, in Opere…, cit., vol. VI, t. III, p. 258; cfr. Umano troppo umano, in Opere…, cit., vol. IV, t. II, par. 237, pp. 170-71). 116 MDR, p. 269 (trad. it. cit., p. 322). 117 Cfr. Freud’s Disturbance on the Acropolis (articoli di vari autori), in «American Imago», 26, 1969, n. 4, pp. 303-78. Inoltre Freud aveva «una misteriosa inibizione che gli aveva impedito di visitare Roma» (fino al 1901): H.F. Ellenberger, The Discovery of the Unconscious, New York-London, 1970, p. 447 (trad. it. La scoperta dell’inconscio, Torino, 1976, p. 515). 118 Nord e Sud ricapitolano due stili di psicologia: l’uno basato sul Melantone di questo capitolo, l’altro sul briccone errante del cap. III. Infatti, negli stessi anni in cui, introdotta dall’alto, la psicologia entrava come materia di studio nelle scuole tedesche del nord, a sud delle Alpi, in basso (e nei bassifondi, con un colpo basso) compariva, come arte, la psicologizzazione, nel nuovo romanzo picaresco: La lozana andaluza (1528) (trad. it. La lozana andalusa, Milano, 1970), e soprattutto Vida de Lazarillo de Tormes (1554) (trad. it. cit., vedi sopra, p. 278). L’approccio settentrionale viene

chiamato scopertamente «psicologia», è sistematico e scritto con voce oggettiva, e ha un autore famoso e assai considerato: Melantone. La psicologizzazione meridionale non ha di questi aggettivi: è episodica e scritta in modo soggettivo, e il suo autore è anonimo (Lazzarillo). Ambedue sono storie a sfondo morale in massima parte rivolte alla psiche della gioventù, e sono intimamente legate alla religione: quella settentrionale si sforza di allineare la psicologia ufficiale alla religione e alla sua morale, servendosi della psicologia per dar sostegno a canoni collettivi; quella meridionale tenta di vedere in trasparenza la religione ufficiale e la sua morale, così da sovvertire i canoni collettivi attraverso la psicologizzazione. 119 Nietzsche, Aurora, in Opere…, cit., vol. V, t. I, par. 460, p. 225: «Oggi tutti noi viviamo comparativamente in una sicurezza anche troppo grande, per poter diventare buoni conoscitori di uomini: c’è chi conosce per diletto, chi per noia, chi per abitudine. Non si dice mai: “Conosci o va’ in rovina”!».

a I («io») si scrive in inglese sempre con la maiuscola [N.d.T.].

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Frontespizio Esergo Tre termini di uso ricorrente Per cominciare Casa Gabriella, Moscia, Svizzera 29 Maggio 1974

1. Personizzazione o immaginazione delle cose Un’anticipazione di questo capitolo Breve storia della tradizione depersonificatrice Digressione sull’allegorizzazione

2 4 5 6 17

18 18 22 27

L'anima delle parole Dove siamo ora «Personificazione», «antropomorfismo», «animismo» Le ragioni della personizzazione Le persone archetipiche di Jung: «Il piccolo popolo» L’impero dell’io romano: declino e disgregazione

29 32 34 37 49 53

La personizzazione e la psiche politeistica Archetipi o dei? Le discipline moderne dell’immaginazione Anima Depersonalizzazione La fede psicologica

62 70 73 80 83 92

Digressione sul «ritorno alla grecia»

2. Patologizzazione o disgregazione

57

95

La psicopatologia in medicina e in religione Tre stili di negazione

97 101

La riunione di anima e sintomo Residui del modello medico Il professionismo e la patologizzazione errata La psicopatologia come fantasia archetipica La patologizzazione come linguaggio metaforico

118 122 125 130 136

Il crollo della psicologia normale Sfondi immaginali per la patologizzazione

143 148

1. Il nominalismo 2. Il nichilismo 3. La trascendenza Digressione sulle differenze tra anima e spirito

Digressione sull’errore naturalistico

1. L'alchimia 2. L'arte della memoria Digressione sulla patologia come crocifissione 3. I miti

La patologizzazione: una perorazione

3. Psicologizzazione o visione in trasparenza Le idee psicologiche La visione delle idee La psicologizzazione archetipica Digressione sull’idea dell’anima vuota

Ci sono dei nelle nostre idee Riassunto e implicazioni preliminari Psicologizzazione, psicologia, psicologismo Che cos'è la psicologizzazione: alcune distinzioni Perché, come, che cosa – e chi Il processo della visione in trasparenza La psicologizzazione della psicologia La psicologizzazione: attraverso il letterale giungere al metaforico Digressione sulle finzioni

101 104 109 114

139

148 150 156 162

169

183 183 191 195 198

202 204 206 212 217 220 227 233 236

La psiche e i miti

242

Il cavaliere errante

252

Digressione sull’errare

4. Disumanizzazione o fare anima Prologo: la psicologia politeistica, ossia una psicologia con dei, non è una religione La psicologia archetipica non è un umanesimo L'anima e il corpo La disumanizzazione dell'emozione e la de-moralizzazione Critica della psicologia dell’umanesimo moderno 1. Il sentimento come dio 2. L’insufficienza dell’amore 3. L’egoismo del perdono

249

257 257 264 267 270 277

278 281 286

La giusta misura del genere umano è l’uomo; quella della psicologia è l’anima L’inumanità dell’umanesimo greco Verso una psicologia del rinascimento

289 292 295

Il neoplatonismo rinascimentale e la psicologia archetipica Marsilio Ficino, patrono rinascimentale della psicologia archetipica La patologizzazione rinascimentale Ade, Persefone e una psicologia della morte L’«anima» nel Rinascimento

302 306 310 313 320

La retorica della psicologia archetipica Tra fallimento e Rinascimento: la psicologia re-visionata Ancora una volta religione e psicologia Il corteo esce

325 333 344 348

Digressione sugli inizi del rinascimento (aprile 1336)

Digressione sulla prospettiva in pittura e sulla polifonia in musica

Note

299

323

349