Raffaello. Una vita felice 9788842087472

Avido di piacere non meno che di conoscenza, Raffaello Sanzio intuisce molto presto che soltanto nella Roma libera, feli

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Italian Pages 374 Year 2010

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Raffaello. Una vita felice
 9788842087472

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Economica Laterza 480

Antonio Forcellino

Raffaello Una vita felice

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2008 Terza edizione 2010 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2006 www.laterza.it Progetto grafico di Silvia Placidi/Graficapuntoprint L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8747-2

INDICE

INTRODUZIONE

IX

1

IL FIGLIO DI GIOVANNI 1. UNA BELLA CASA BORGHESE

5

2. UNA CORTE RAFFINATA

10

3. CASA E BOTTEGA

16

4. GARZONI E MAESTRI

25

5. UN MAESTRO PRECOCE

31

2

DA URBINO ALL’UMBRIA 1. LA PRIMA PROVA

37

2. CONFERME

43

3. SFIDARE I MAESTRI

53

4. PAESAGGI INQUIETI

59

5. LA FINE DEL TERRORE

67

V

3

IL PERIODO FIORENTINO 1. NELLA CITTÀ DEI GIGANTI

77

2. UN MONDO NUOVO

89

3. L’ASCESA

98

4. CRONACA DI UNA TRAGEDIA

102

5. UNA PARTENZA IMPROVVISA

113

4

A ROMA 1. UNA IMMENSITÀ SOMMERSA

121

2. DAI CALICI AGLI ELMI

128

3. LA GUERRA DELLE IMMAGINI

134

4. IL PRIMATO

143

5. LA SCUOLA DI RAFFAELLO

151

5

TRA IL PAPA E IL BANCHIERE 1. LA BARBA DEL PAPA

163

2. LA STANZA DI ELIODORO

169

3. PER LE STRADE DI ROMA

177

4. IL BANCHIERE DEL PAPA

184

5. «AMOR VINCIT OMNIA»

190

6. LA VENERE DELL’ACQUA

194

7. MORTE DI UN PAPA GUERRIERO

199

6

GLI ANNI DEL TRIONFO 1. UNA NUOVA ERA

VI

205

2. FESTA CONTINUA

210

3. AL SERVIZIO DEL SOGNO

214

4. CAPELLI E OCCHI DI PECE

219

5. RITRATTI DI STATO

230

7

LA SCOPERTA DELL’ARCHITETTURA 1. LE DONNE DELLA DEVOZIONE

243

2. LA FORTEZZA ESPUGNATA

255

3. IL VOLO DI ICARO

260

4. PIACERI PRIVATI

268

5. TRA IL TEVERE E MONTE MARIO 2 7 5 8

UN ARTISTA NUOVO 1. IL PALAZZO INACCESSIBILE

283

2. INVIDIE

296

3. IL RITORNO DI VENERE

300

4. VILLA MADAMA

310

5. LA STELLA CADUTA DAL CIELO

315

NOTE

321

REFERENZE ICONOGRAFICHE

343

INDICE DEI NOMI

345

VII

Tav. 1. Veduta del Colosseo ai primi del Cinquecento. Codex Escurialensis, f. 24v.

VIII

INTRODUZIONE

Quando il centurione romano Longino, nel suo mantello rosso, ebbe finito il lamento straziante, cominciò la deposizione di Cristo dalla croce e per le arcate del Colosseo rimbombò la musica luttuosa dei tamburi, moltiplicata all’infinito dagli archi e dalle volte buie appena rischiarate dalla luce tremolante delle fiaccole. La folla si riversò lentamente sulla spianata terrosa che sommergeva il primo anello dell’anfiteatro fino quasi all’imposta degli archi, mescolandosi ai bovari che rientravano nelle loro tende e agli animali tenuti a bada da recinti improvvisati. Le ruote di metallo cominciarono a cigolare calando in basso gli angeli sospesi alle impalcature di legno dietro la croce, arrivati in miracoloso volo a mostrare il corpo di Cristo e a gridare insieme «ecce Agnus Dei». Pilato poté finalmente abbandonare il suo tribunale di legno, realizzato «con quattro colonne tonde davanti et quattro meze quatre derieto, con cielo, cornice et tutti altri soi fornimenti». Lasciò lo stendardo di seta gialla con in mezzo lo scorpione nero, da cui pendevano le frange con le lettere S.P.Q.R. IX

Anche Caifa ed Erode, lì vicino, si spogliarono dei broccati e dei panni neri. Giuda si liberò dalla cinghia che lo teneva appeso al ramo del finto albero a cui poco prima, per la disperazione, si era impiccato nella soddisfazione generale1. Più complicata fu la svestizione del Cristo, coperto per esigenze sceniche e di decenza da una veste di camoscio color carne foderata all’interno di pelle, e da una mutanda bianca. Le tuniche dei farisei, le calze dei ladroni e i preziosi manti celesti e rosa della Madonna e della Maddalena vennero riposti nelle ceste insieme alle parrucche e alle barbe finte, nere come la pece. Uno a uno gli attori vennero a depositare i vestiti e gli oggetti nei cesti guardati dai membri della Confraternita del Gonfalone. Operai della Confraternita cominciavano ad arrotolare i fondali dipinti con la Betania e il Golgota, a scucire i vecchi sacchi che avevano finto la roccia ai piedi delle croci piantate nelle volte dell’anfiteatro. Con colpi secchi che si allontanavano con un’eco cupa tra le grotte di travertino, iniziarono a schiodare i tralicci di legno e ferro con cui durante la rappresentazione erano stati sollevati angeli e diavoli, nuvole e cieli stellati. Soprattutto i diademi dorati degli apostoli e di Cristo vennero riposti accuratamente, in attesa di essere ripresi nella prossima rappresentazione sacra. Uno a uno i figuranti si avviarono presso le case della Confraternita, dove sarebbero stati offerti loro del vino e delle ciambelle. Gli altri, uomini e donne e bambini che avevano assistito alla rappresentazione della Passione di Cristo quel venerdì santo del 1520, 6 aprile, avevano ancora la possibilità di compiere ulteriori devozioni nella città sprofondata nel buio e nel lutto. Qualcuno si avviò verso la basilica di San Pietro, dove quel giorno si mostravano le reliquie più sacre della cristianità: la lancia di Longino che aveva trapassato il costato di Cristo, un frammento della Vera Croce, il telo del Volto Santo. La folla nera passò accanto a un ricco palazzo X

che affacciava quasi sulla piazza, di quelli costruiti dai nuovi architetti alla moda e che tutti gli stranieri venivano ad ammirare. Lì, quella stessa sera, il lutto si era fatto molto più concreto di quello simbolico celebrato in tutta la cristianità. Era un palazzo con un alto basamento bugnato e un piano nobile con doppie colonne che separavano finestre incorniciate da timpani sporgenti. Bugne e colonne erano state realizzate in stucco ma sembravano di pietra. Il palazzo, che sembrava una piccola reggia, per tutto il giorno era stato frequentato da uomini di ogni condizione in preda a una crescente disperazione. Più volte si erano visti entrare e uscirne sconsolati gli emissari del papa, impegnato nelle funzioni liturgiche che lo sfinivano, ma non per questo distratto da quanto accadeva in quel palazzo proprio ai piedi del Vaticano, prolungamento ideale della sua corte e dei suoi appartamenti. La mattina, come ogni venerdì santo, aveva baciato la croce nella Cappella Sistina. Scalzo e in ginocchio, aveva atteso che il celebrante, il cardinale Aginense Leonardo Grosso della Rovere, interamente vestito di nero, liberasse lentamente da un velo scuro la reliquia sull’altare della cappella, per l’occasione spoglio di ogni paramento. Appena aveva potuto, aveva mandato un servitore in quel palazzo a informarsi dello stato di salute del suo inquilino, un uomo nel pieno della sua maturità, bello e amato, che da giorni era sfinito dalla febbre. Nella camera dove molti giovani lo accudivano era stato portato un grande quadro nel quale sembrava prolungarsi la loro disperazione. Nella parte bassa del dipinto, grandi al naturale, gli apostoli guardavano atterriti un ragazzo con il viso deformato dalla possessione del demonio. Sopra le loro teste, sul mitico monte Tabor, Cristo, vestito di un’accecante tunica bianca, si librava nell’aria tra Mosè ed Elia. I gesti concitati degli apostoli dipinti in quella Trasfigurazione, già drammatici per le sciabolate di luce che li sottolineavano, divenXI

nero disperati nei giovani che affollavano la stanza quando l’uomo chiuse per sempre gli occhi. Tre ore dopo il tramonto, mentre al Colosseo la Confraternita del Gonfalone finiva di smontare le scene servite per la rappresentazione della Passione di Cristo, mentre migliaia di cittadini sciamavano per la Roma incupita dalle celebrazioni del venerdì santo, in quel palazzo tra i più eleganti della città moriva Raffaello Sanzio da Urbino, pittore e architetto. Il papa Leone X lo seppe subito, giusto il tempo necessario al suo cameriere di percorrere i pochi metri tra la basilica di San Pietro e il Palazzo Caprini. Il dolore fu immenso, il suo e quello di tutta la sua corte. La notizia della morte si diffuse per la città e poi per l’Italia, annunciata come la morte di un gran principe, di un gran cortigiano e di un grandissimo artista, tre identità che in pochi anni si erano intrecciate in quel giovane proveniente da Urbino e che vennero piante a calde lacrime da tutti gli uomini delle corti italiane, come non accadeva quasi mai per un principe, un papa o un cardinale. Intorno a Raffaello, nel palazzo di Borgo, c’erano a vegliarlo i suoi allievi, che erano stati la sua famiglia al punto che avrebbero ereditato buona parte delle sue sostanze. Era morto tanto giovane da non aver avuto il tempo di costruirsi una vera famiglia, anche se non per questo aveva rinunciato al calore della passione amorosa. Chi gli stava vicino non ebbe dubbi, anzi, che a portarlo alla tomba era stato l’eccessivo ardore con cui aveva consumato i suoi amplessi nei giorni precedenti a quel 6 aprile. A Roma e in Italia, in quegli anni, si riteneva che l’eccessivo dispendio amoroso potesse procurare una morte certa. Ma quello che si rimproverò da subito a Raffaello fu l’eccessiva discrezione, che gli aveva impedito di dichiarare al medico chiamato al suo capezzale le estenuanti pratiche amorose dei giorni precedenti la malattia. Il giorno successivo la notizia corse per tutte le cancellerie italiane. Pandolfo Pico, l’ambasciatore di Isabella d’Este a XII

Roma, sintetizzò bene il lutto calato sulla città: «non sarà advisata d’altra cosa che de la morte de Raphaello d’Urbino, quale morite la notte passata che fu quella del Venere Santo, lasciando questa corte in grandissima et universale mestitia per la perdita de la speranza de grandissime cose che se expettavano da lui»2. La sensazione fu talmente forte che la semplice coincidenza della data di morte con quella di nascita (Raffaello era nato il venerdì santo del 1483) bastò da sola a evocare una natura fuori dal comune. Né mancarono segni di altro genere, sempre soprannaturali, come una crepa apertasi nel Palazzo Vaticano che obbligò il papa a lasciare i suoi appartamenti. Le aspettative, così ben sottolineate da Pandolfo Pico, aprivano immediatamente uno spiraglio sul ruolo originale che Raffaello aveva avuto per la corte romana e per la società contemporanea. Raffaello era stato non soltanto il pittore, l’architetto, lo scenografo che aveva creato immagini di sconvolgente bellezza. Era stato l’interprete di un mondo particolarissimo, di un sogno di rinascita aurea da realizzare attraverso gli studi letterari e le opere pittoriche, ed era stato essenziale nel convincere gli intellettuali del suo tempo dell’armonia, della civiltà, dell’equilibrio intellettuale e sensuale raggiunti a Roma negli anni in cui aveva occupato da protagonista la scena artistica. Senza di lui, che aveva reso credibili gli ideali di ritorno alla grandezza antica, quegli ideali sarebbero rimasti mutilati. La storia si sarebbe poi occupata di esaurirli per sempre nei mesi e negli anni immediatamente successivi, portandosi via gli altri grandi protagonisti di quella stagione: Agostino Chigi, il banchiere più ricco del mondo, sparito pochi giorni dopo la morte dell’amico, e Leone X, il papa Medici che aveva trasformato la corte pontificia nella corte più elegante d’Europa, alternando allo splendore delle liturgie quello dei conviti e delle cacce, per cui rimase celebre. Il sacco di Roma XIII

del 1527 e l’incalzare della Riforma protestante avrebbero fatto il resto, cancellando quel miracolo teatrale ma non per questo meno convincente che era stata la Roma di Raffaello e di Leone X. Nessun’altra epoca si avvicinerà più alla profonda libertà e sensualità di quegli anni. E l’arte di Raffaello comincerà da subito a perdere i suoi connotati rivoluzionari, le sue profonde radici intellettuali, per trasformarsi in una rigida etichetta di perfezione formale. A cicli intermittenti, questa identificazione di Raffaello e della sua pittura con l’espressione di un perfetto equilibrio raggiunto dalla forma, a cui non si poteva pervenire se non attraverso un equilibrio interiore molto vicino alla «grazia» concessa dalla fede, porterà alla imitazione e venerazione del suo stile. Ma segnerà anche, soprattutto in epoca moderna, la sua profonda sfortuna critica. Nell’Europa preindustriale, possedere un Raffaello significava trasformare la propria casa «in un luogo di culto», come osservò una ricca lady inglese. Ma l’avanzare del mondo industriale, con le sue contraddizioni e lacerazioni, con i suoi conflitti consapevoli e inconsapevoli, ha spinto gli artisti europei del XIX secolo a una ricerca di spiritualità e di purezza, di presunta semplicità arcaica, con cui l’arte avrebbe dovuto da sola combattere, in realtà ignorandola, la complessità del mondo in rapida evoluzione. Si è così lamentata la perdita di semplicità dell’arte rinascimentale, e proprio per colpa del grande Urbinate, che con la sua sensualità e la sua seduzione avrebbe corrotto quei valori morali che era invece il capitalismo nascente a calpestare. Raffaello è diventato per molto tempo il nemico, e gli artisti di tutta Europa si sono ispirati sempre più all’arte che lo ha preceduto. Oppure, non potendo cancellarlo dalla devozione mitica cui era assurto anche nel popolo minuto, si sono ispirati al suo primo periodo umbro e fiorentino, quando ancora sembrava esprimere al meglio l’integrità spirituale del mondo medievale. XIV

Tav. 2. Bramante, Palazzo Caprini, Roma, 1510 circa. Incisione di A. Lefréry, 1549.

Il periodo romano, quel sogno liberatorio che pure l’artista aveva incarnato con tutto se stesso, era ormai troppo lontano dalla portata delle società europee, avvitate sul doppio rigore religioso e sociale, perché potessero apprezzarlo. Quando poi le avanguardie si sono incaricate di frantumare per sempre il mito della semplicità perduta, è stata la leggenda sorta intorno a Raffaello, alla sua facilità e alla sua misura, a renderlo sospetto. André Chastel ne ha dato conto con estrema chiarezza qualche anno fa, commentando il sarcastico giudizio che un grande intellettuale del Novecento, André Malraux, ha allungato su Raffaello: «L’opera mi annoia, ma dietro c’è questa visione singolare dell’uomo riconciliato»3. L’uso che tre secoli di Accademia avevano fatto dell’arte di Raffaello aveva finito per appannare le lenti con cui il Novecento guardava all’artista. A salvarlo non intervenivano né l’eccentricità di Leonardo né il tormento di Michelangelo, XV

che li esaltavano e li rendevano affascinanti alla inquieta sensibilità dei moderni. La caduta critica di Raffaello è forse il frutto più amaro di una storia dell’arte che negli ultimi due secoli ha isolato l’opera dagli uomini e dai contesti, facendone un universo a sé stante interamente fruito e giudicato con lo strumento dell’analisi stilistica. Come se le immagini potessero essere qualcosa di diverso dall’espressione di una passione umana. Quelle perfette create da Raffaello sono state isolate e fruite in una freddezza intellettuale che le ha separate dall’uomo, facendole vivere nella storia come modelli compiuti a cui rivolgersi per attingere a un repertorio di modi ed espressioni psicologiche restituite dal perfetto disegno che le ha generate. Chiunque si avvicini all’opera di Raffaello rileva immediatamente come l’uomo sia rimasto indietro, sfumato rispetto all’opera, quasi non fosse stato all’altezza, nella sua breve vita, di quella perfezione raggiunta una volta per tutte nella sua pittura. Sfumato al punto che non esiste una sua biografia che metta seriamente in discussione la leggenda tramandata da Giorgio Vasari. Già dalle sue fasi iniziali, invece, l’indagine sull’uomo espone immediatamente dati scabrosi del suo percorso esistenziale, come la sfrenata sensualità, l’erotismo libero e felice, perfino l’ambizione grandissima, che ebbe già adolescente e che fu fatalmente esaudita dalla sua carriera prodigiosa. Tutti tratti imbarazzanti per una critica idealistica che nel corso del XX secolo si è premurata di spiegare come l’arte fosse, o necessariamente dovesse essere, l’espressione di sentimenti alti, quali la religiosità o la spiritualità intesa come indagine filosofica dell’animo umano. Perfino l’ultima generazione di studiosi, quella che ha sintetizzato gli studi in corso in occasione dei cinquecento anni della nascita dell’artista, ha lavorato intensamente per dimostrare che l’eros di Raffaello non era se non l’espressione di un eros spirituale, attraverso il quale l’artista e l’uomo si preXVI

figgevano di raggiungere la grazia divina e la conoscenza dello spirito. Il vertice di questa forzata «spiritualizzazione» di Raffaello è stato toccato dall’opera del suo massimo studioso e conoscitore contemporaneo, Konrad Oberhuber, di solida fede steineriana, che ha interpretato la vita e l’opera dell’artista alla luce di un progressivo sviluppo dell’anima nel suo percorso di avvicinamento a Dio. La scarsità di documenti biografici è diventata così lo spazio ideale per la costruzione di spessi filtri interpretativi, di pregiudizi, di presunte lenti per mettere correttamente a fuoco la vita e l’opera dell’artista. Negli ultimi anni questi pregiudizi si sono allentati con l’affiorare di nuovi documenti riferiti all’artista e al suo contesto, che impongono di cambiare le lenti di osservazione. Una compiuta identificazione della figura paterna, Giovanni Santi uomo e artista, impone ad esempio una revisione della leggenda vasariana, che pur non essendo basata su alcun documento certo è stata fino a oggi accettata dalla critica, collocando Raffaello tra gli allievi del Perugino e risolvendo in termini puramente stilistici una filiazione molto più complessa. La formazione legata alla straordinaria figura paterna permette invece di seguire diversamente gli sviluppi successivi dell’artista. A ciò si aggiungano le indagini molto avanzate sulla tecnica artistica di Raffaello, di cui la ricostruzione biografica consente di mostrare la grandissima rilevanza, aiutando a chiarire i passaggi fondamentali dell’apprendistato e della prima attività, quel momento oscuro che pesa sulla comprensione dell’uomo. Ma è soprattutto un approccio laico alla storia del Rinascimento e alla storia dell’arte che riserva le maggiori sorprese quando si ripercorre con occhi nuovi la biografia dell’artista. Un approccio che non presuppone più come condizione necessaria della creatività e della perfezione la motivazione spirituale o filosofica, ma si limita a registrare la forza potentissima di un eros felice e di una vita pienamente appagaXVII

ta, radici della creatività di uno dei massimi artisti di tutti i tempi. I risultati sono paradossali e capovolgono acquisizioni sedimentate. Nell’ultimo secolo intorno all’arte si è costruita la leggenda del tormento e della disperazione, da cui la creazione artistica riscatta con la sua forza di sublimazione. Letto senza pregiudizi, Raffaello smonta impietosamente l’ultima traccia di questo mito romantico e dimostra al contrario che proprio la felicità piena e l’appagamento delle pulsioni fondamentali possono dare luogo al raggiungimento dei massimi vertici della creatività. La moralità borghese dell’era moderna ha censurato queste fonti, orientando gli studi verso una ricerca di spiritualità di cui non c’è traccia nella vita dell’artista, capace comunque di produrre con la sua sensibilità e con una disinvoltura professionale senza confronti opere fruibili dalla devozione e dalla spiritualità degli altri. Insieme naturalmente a opere che sono pura espressione del suo eros libero e positivo. In questo modo, proprio l’artista che sembrava inutilizzabile per la modernità, perché privo di tormento e inquietudine, diventa l’espressione più forte e trasgressiva della modernità, perché mette al centro della nostra osservazione il prodotto di una vita che supera ogni conflitto, che ricompone ogni tensione culturale, sociale ed erotica, che approda a una grazia naturale senza necessariamente presupporre l’ispirazione divina, e tutto grazie alla felicità del proprio appagamento sensuale. Tutto ciò in una breve stagione della storia occidentale, quella del Rinascimento romano, nella quale i conflitti tra spirito e religione, individualità e collettività, restano miracolosamente sospesi, liberati da vincoli ideologici. Una stagione che appare molto più libera, da questo punto di vista, di quella attuale.

RAFFAELLO Una vita felice

CAPITOLO 1

IL FIGLIO DI GIOVANNI

1. UNA BELLA CASA BORGHESE

La casa acquistata nel 1463 dal nonno di Raffaello, Sante di Peruzzolo, sulla salita accanto alla bella chiesa di San Francesco a Urbino è ancora lì al suo posto. Intatta. La stanza Principale misura dodici passi sul lato lungo e dieci su quello opposto, perché una delle pareti corte è sbieca. La quarta trave del soffitto forma un angolo acuto con la parete sottostante e il rivestimento a lacunari di legno cerca di rendere meno vistoso quell’angolo, che dà alla sala un’asimmetria troppo evidente. Vi si accede da una porta che dà su un pianerottolo largo quanto la scala in pietra che porta giù all’ingresso. Accanto alla scala, sul pianerottolo, si aprono la porta della cucina e quella della dispensa, da cui si arriva al piccolo cortile chiuso dov’è un pozzo. Di fronte alla porta d’ingresso c’è la parete più lunga, dove si aprono due ampie finestre affacciate sulla strada ripida che da un lato porta «al monte», cioè si aggrappa fino alla cima della collina di Urbino, e dall’altro lato, dopo pochi pas5

si, porta al Palazzo Ducale. È una strada importante, che permette a due carri di passare insieme e che è sempre trafficata. Ma ariosa, perché tutte le case, le più importanti della città, sono della medesima altezza e non tolgono luce ai vicini. Quel giorno le donne facevano va e vieni dalla cucina, portando acqua calda dal grosso camino sempre acceso: attente a non farla cadere sul pavimento di cotto giallo e rosso, disposto lungo linee diagonali dentro una stretta cornice che fiancheggiava le pareti e che lì, sulla parete sbieca, cercava di assorbire alla bell’e meglio l’irregolarità della pianta. Le urla si intensificavano con il passare delle ore e di tanto in tanto le donne, sempre più agitate, gettavano uno sguardo furtivo alla strada animata. Poi entravano nella camera da letto con il soffitto a volta, dove c’erano panni di lino bianchi e puliti e diversi bacili sempre pieni di acqua calda, e dove la donna Magia di Battista Ciarla soffriva sul letto il travaglio del parto. Le dodici lunette che sorreggono la volta aprendosi da peducci di pietra scolpita sembravano assorbire le grida, mentre il soffitto in legno della sala grande le rimandava come la cassa armonica di una mandola. Dal pianerottolo che porta in cucina arrivavano i rumori della bottega che il padrone aveva proprio sotto la casa, aperta sulla strada con davanzali ampi e finestre per far entrare meglio la luce. E alla bottega, con il passare delle ore, arrivavano le grida sempre più lancinanti attraverso quella scala con i gradini di pietra di Cesana lucidata dall’usura. Cosa faceva Giovanni ascoltando quelle grida? Camminava per la bottega inseguendo le mani che non riusciva a fermare? Passava da una camera all’altra scendendo i gradini che allineavano il pavimento al piano ripido della strada? Afferrava un pennello, ne provava la morbidezza lisciando il dorso della mano con il ciuffo biondo del vaio. Sollevava il coperchio di pelle che chiudeva i barattoli di vetro pieni di pigmento colorato, trattenendo il respiro per non farlo volare 6

via. Li scuoteva leggermente e li rimetteva a posto, allineandoli lungo lo scaffale secondo la gradazione di colore e di preziosità. Prima il bianco di San Giovanni, ottenuto polverizzando il carbonato di calcio seccato dopo aver lavato per otto giorni la calce in acqua di fonte. Poi la terra di Siena, quella d’ombra, quella naturale e quella bruciata estratte nelle colline intorno alla città ghibellina. Quindi la terra sanguigna di Sinope sul Mar Nero, buona per tracciare i disegni su muro e su tavola. E ancora il celeste vivo dello smalto frantumato e il verde muschioso del verdigris, ottenuto raschiando una lastra di rame tenuta per giorni nell’orina di un neonato, lì nell’ampio retrobottega con il soppalco e la minuscola scala di pietra a chiocciola. Giovanni agitò con la mano la scatola del cinabro, ottenuto fondendo in un’ampolla di vetro lo zolfo e il mercurio, per ammirare la polvere rossa ondulare come il deserto sotto la bufera. Era perfetto, senza sfumature, rosso come il lino tinto dal sangue. Poi guardò da lontano il giallo orpimento, solfuro di arsenico, bello come l’oro ma velenoso come il morso di una vipera. «Guardati da imbrattartene la bocca, che non ne riceva danno alla persona», raccomandava Cennino Cennini1. La lacca di chermes color geranio, raccolta schiacciando insetti nell’India degli elefanti, era liquida e troneggiava in un vaso di vetro trasparente. Valeva una fortuna, anche se non quanto il prezioso blu oltremare, ottenuto frantumando i lapislazzuli di terre lontanissime, collocate proprio oltre il mare conosciuto. Era questo il pigmento più costoso, comprato quasi sempre direttamente dai committenti così come l’oro in foglia. Ma quale manto, quale cielo poteva dirsi luminoso senza la gemma orientale che aveva la profondità dello spirito? Qualche collaboratore dipingeva cautamente il fondo di una tavola o il vestito di un santo. Con mano più sicura i gar7

zoni filtravano l’olio di lino che Giovanni avrebbe impastato ai colori in grumi brillanti. L’olio doveva essere limpidissimo e privo di ogni impurità: per questo veniva passato e ripassato dalle boccette di vetro attraverso la garza di cotone a maglie sempre più strette. Nessuno più a Urbino si accontentava delle tempere opache che per secoli avevano impreziositi gli altari delle chiese. Da quando erano arrivati i quadri fiamminghi, con i loro frutti carnosi e i fiori umidi ai piedi delle Madonne, tutti desideravano quei quadri che sembravano aprire le pareti su paradisi di sogno. Nello studio del duca, a un tiro di sasso dalla bottega di Giovanni, erano esplosi colori mai visti in Italia: lacche rosse profonde come rubini per il vestito di Cicerone; un mantello verde acido con riflessi cangianti gialli per la giubba di Boezio; e il blu ultramarino del mantello di san Gregorio, che sembrava smalto su una lastra d’argento. Perfino i bianchi erano diversi, abbaglianti come neve. Pio II sembrava immerso nella luce accecante della sua camicia bianca, che faceva contrastare i colori intorno. Ma era soprattutto con gli incarnati, sfumati senza che si riuscisse a vedere il limite di un’ombra, che Giusto di Gand e Pedro Berruguete avevano stordito i pittori italiani. Lo sguardo vuoto di Omero, la bellezza calma di un giovane re Salomone vestito di perle. Nello studio del duca era ormai impiantata una pietra di paragone da cui non si poteva scappare. Giovanni e i suoi assistenti, insieme ad altri pittori, soprattutto veneziani, erano tra i primi a cimentarsi con la nuova tecnica pittorica. E benché non riuscissero a fare ancora a meno della vecchia tempera, si sforzavano di sfumarla con l’olio, di rifinirla con velature a olio che lasciavano la tavola brillante come uno smalto. Fuori, la giornata invitava alla contemplazione. Quello era il periodo più fausto per i pittori marchigiani. Bastava uscire di casa, fare pochi passi e avvicinarsi al vicolo che precipitava a capofitto sulla campagna sottostante per vedere che la primavera si avvicinava al suo culmine, come annunziava 8

quell’odore pungente di melo e di mandorlo che superava i muri gialli degli orti. La nuova stagione trionfava, colorando i prati di un verde acquoso e schiarendo i cieli fino a renderli limpidi come il vetro arrivato da Venezia. Bastava ritagliarvi contro gli aghi scuri delle palme per ricreare l’Egitto dove era fuggito il povero Giuseppe con Maria e il Bambino ancora al collo. Se dal mare risalivano le nuvole sfilacciate e orlate di bianco, spinte dal vento freddo dell’est, l’Ostro gelido che attraversava l’Adriatico senza perdere il respiro delle nevi di Russia, il cielo diventava subito commovente e perfetto per una crocifissione o per un solenne ritratto di corte, e perfino per dei mercanti di grande ricchezza. Per tutto il resto dell’anno ci si sarebbe ricordati di quei cieli e di quei paesaggi primaverili. Ma non era stata quella la giornata da dedicare alla pittura all’aperto. La luce si abbassava ormai dopo l’ultimo trionfale guizzo dorato sulla cornice del palazzo di fronte. L’ombra prendeva possesso della bottega e della città arrampicata sulla collina. Quando il crepuscolo smorzò i contrasti di luce, l’aria si animò di fiammelle tremolanti in cima a canne di bronzo portate da uomini incappucciati in saioni bianchi, sui quali cominciavano ad allargarsi le macchie rosse del sangue. Le ferite erano provocate dalle corone di spine e dai colpi di frusta con cui gli uomini avevano cominciato a battersi dall’alba. Le fiammelle, sempre più vivide, si raccolsero sullo stradone che portava alla cattedrale. Si radunarono in due file immobili, sospese in aria così vicine da formare un unico fiume di luce arrampicato sulla strada ripida che passava proprio davanti alla bottega di Giovanni, a pochi passi dalla vecchia chiesa di San Francesco con il campanile ricamato di mattoni come un merletto di Bruxelles. Era ormai buio quando il portone della chiesa si aprì sulle navate rosse per le mille candele e apparve il catafalco d’oro dove il corpo martoriato di Cristo era vegliato da una Madonna vestita di nero. Nessun 9

rumore si sentiva per la città ora completamente al buio, e l’aria si fermò trattenendo il respiro primaverile. Poi, inaspettati e struggenti, esplosero il lamento cantato e la musica dei tamburi. Iniziava, come negli anni e nei secoli precedenti, la processione del venerdì santo2. Era il 28 marzo del 1483, ma l’ansia di Giovanni Santi, pittore e letterato della corte di Urbino, non era quella che accomunava i cristiani di tutto il mondo nel ricordo del sacrificio del Salvatore. Giovanni era in ansia perché stava per nascergli il suo secondo figlio, aspettato e desiderato con tutto il cuore, e l’attesa lo distraeva dai riti solenni e crudeli con i quali anche Urbino celebrava la morte di Cristo. Il suono ossessivo dei martelli di legno battuti fin dall’alba sulle tavole portate a spalla dai monaci e dai ragazzi per i vicoli e le strade non riusciva a emozionarlo. Né ci riuscivano i racconti dei massacri dei turchi che avevano sterminato cavalieri cristiani a Rodi, o le notizie della Madonna di Bibbona che cambiava colore dall’azzurro al rosso e poi al nero, diventata oggetto di pellegrinaggi popolari ma anche di curiosità per i pittori, che non potevano non chiedersi se non fosse una nuova miscela a consentire quegli effetti cangianti nell’arco della giornata. Lui pensava al figlio che sarebbe nato tre ore dopo il tramonto, quando gli altari sarebbero stati già nascosti da drappi viola. Lo chiamò Raffaello Sanzio, ma il mondo lo avrebbe ricordato soltanto come Raffaello da Urbino, pittore «divino».

2. UNA CORTE RAFFINATA

La casa dove Raffaello venne alla luce era a pochi passi dal palazzo costruito per il duca Federico da Montefeltro dall’ar10

chitetto dalmata Luciano Laurana. Era, in quegli anni, il palazzo più moderno d’Italia, con torri e perfetti archi tondi e cortili circondati da agili colonne di pietra bianca. Lorenzo il Magnifico ne aveva chiesto il rilievo e lo stesso aveva fatto il duca di Mantova, chiedendo specifiche e dettagliate informazioni perfino sul sistema delle canne fumarie, le migliori mai costruite. Ma nessuno avrebbe potuto imitare la luce che inondava il palazzo grazie ai molti cortili costruiti su diversi livelli: una luce che faceva risaltare i rilievi intagliati nella morbida pietra cavata nelle vicine colline di Cesana, una pietra avorio che si leviga come alabastro. Il palazzo, arrampicato sulla collina, aveva trasformato in corte l’intera città di Urbino: una città piccola con un’economia neppure avvicinabile a quella di molte altre città italiane, centri industriali e bancari, ma che poteva vantare la virtù e la ricchezza di un signore senza confronti in Italia, quel Federico da Montefeltro che portava con tale orgoglio le ferite che gli deturpavano il viso già non bellissimo da trasformarle in un attributo di dignità come medaglie di gloria guadagnate in guerra. Il suo mestiere, condottiero militare, gli aveva buscato non solo quelle ferite, ma anche un capitale enorme, che egli investì in un palazzo spropositato, una cittadella al tempo stesso forte e gentile che raccontava da subito l’origine virtuosa del suo potere e della sua ricchezza, diversi dal potere dei tiranni e dalla brutale volgarità dei banchieri arricchiti. Con i suoi cortili ariosi circondati da archi e colonne, il palazzo richiamava l’architettura antica, la evocava, ancora però cercando le regole e le leggi dell’architettura classica e i canoni rigorosi che entro pochi anni il bambino appena nato all’ombra di quelle mura avrebbe stabilito misurando le rovine di Roma. Ebbe dipinti alla moda realizzati dai primi pittori del tempo, finestre impreziosite dai profili di marmo, camini intagliati coperti d’oro. Ma rimase pur sempre un palazzo severo, l’abitazione di un guerriero illuminato, consapevole del 11

valore eterno della cultura al punto da investire ingenti capitali per raccogliere tra quelle torri dorate la biblioteca più fornita d’Italia, dove allineò manoscritti greci, latini ed ebraici. Quando al palazzo arrivò Elisabetta Gonzaga per sposare il figlio di Federico, Guidobaldo, i commenti della raffinata corte mantovana furono molto più che ammirati: La beleza et ornamento de questo palazo non scriverò perché pur a bocha non si potria exprimere: dirò solamente come è adornata la sala. Da man dritta ne l’intrare è la credenza da capo con li arzenti suoi solamente che non sono pocho a numero. Da l’altro è el tribunale ornato di veluto cremesi et certe peze de panno d’oro. Da un canto de la sala, da li capitelli de la volta fino a le banche sono tirate peze de veluto cremexi e verdi intorno, et sono compartite in quadri con colonne de ligno depinte; et da questo lato stanno le donne. Da l’altro sono baltresche con li scalini, dove stanno li homini a vedere, da le quale fin a li capitelli sono pur peze de veluto verde et alexandrino, tirato fra le colone como è da l’altro lato. El corpo de la sala rimane netto per ballare. Dal capo de la credenza è fatto uno pozzo dove stanno li piffari et donne che non intervengono in ballo, et da li capitelli poi sino a la volta sono certe feste antiche3.

Ma Federico non pensava soltanto ai balli e alla preziosità degli argenti. Pensò soprattutto a riunire intorno a sé una corte raffinata, composta da gentiluomini, intellettuali e artisti: una corte che ci è raccontata minutamente nel poema Cronaca Rimata composto proprio da quel Giovanni Santi che fremeva nell’attesa del figlio il venerdì santo del 1483. È lui a descrivere il palazzo di Federico come un edificio «non umano ma divino»; ed è sempre lui a raccontare in rima le virtù e l’eleganza di quella corte, lasciando una testimonianza che ancora oggi è il più vivido ritratto della vita di Urbino ai tempi dei Montefeltro. La passione per la pittura, che costituiva la sua principale attività professionale, traspare dalla lucidità con cui Giovan12

ni censisce i migliori artisti del suo tempo, sia quelli direttamente frequentati sia quelli conosciuti attraverso l’opera e la fama che li accompagnava. Il suo giudizio è puntuale come quello di un consumato conoscitore e precorre quello molto più facile che Vasari fornirà sessant’anni dopo a proposito degli stessi artisti, già consacrati ormai dal mercato e dalla critica. Giovanni lo anticipa con gusto sicuro nella sua rima ricercata, parlando di artisti «Nella cui arte splendida e gentile/Nel secul nostro tanti chiari son stati,/Che ciescuno altro far paren pon vile». Menziona Masaccio, Filippino Lippi, Andrea del Castagno, Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci. Ma diversamente dai fiorentini mostra di avere cognizione anche delle ricerche più avanzate di artisti collocati ben al di fuori dall’universo del capoluogo toscano, come Piero della Francesca, Melozzo da Forlì, Cosimo Tura, Perugino e Antonello da Messina, fino ai lontanissimi olandesi Rogier van der Weyden e Jan van Eyck, molto ben conosciuti a Urbino, per finire con i veneziani Gentile e Giovanni Bellini. Quella di Giovanni era una cultura aggiornata e sofisticata, che eleggeva in Andrea Mantegna il modello di pittore veramente eccellente. Un uomo in grado di valutare con tanta acutezza critica il lavoro dei suoi contemporanei era senza dubbio anche un uomo in grado di offrire al proprio erede la formazione più adeguata, il viatico più vantaggioso per una carriera che si rivelerà fulminante soprattutto grazie a quegli esordi. Ma Giovanni Santi andava molto al di là di una straordinaria sensibilità critica nei confronti della pittura. Travalicava ampiamente i confini dell’ambito professionale del pittore artigiano quattrocentesco. Era un uomo colto e attento agli sviluppi delle lettere e della filosofia, oltre che, fatto importantissimo, della pedagogia contemporanea. Il suo signore Federico era stato educato da Vittorino da Feltre, il più moderno degli educatori italiani, impegnato nella riscoperta dei precetti pedagogici degli 13

antichi, ma soprattutto ad assecondare la natura per arrivare a una condizione armonica che permettesse ai bambini di apprendere e sviluppare al meglio le loro facoltà. Vittorino prescriveva la semplicità del cibo e il beneficio degli esercizi fisici, del gioco e dell’allegria, al punto da battezzare «La Giocosa» la sua casa mantovana, dove proprio Federico da Montefeltro aveva studiato. In un’epoca nella quale l’infanzia era quasi invisibile, l’attenzione ai bambini non poteva non suscitare meraviglia. Ma, per fortuna di Raffaello e di molti altri bambini, Vittorino era riuscito in un’impresa che aveva del miracoloso e che gli aveva guadagnato la riconoscenza politica della corte gonzaghesca, permettendogli di irradiare la sua fama in tutt’Italia: aveva fatto dimagrire vistosamente Ludovico Gonzaga, che l’ansia materna e la debolezza del precettore stavano avviando a una morte precoce per manifesta obesità. Con buona ragione dunque i metodi naturali di Vittorino trovavano molto ascolto nelle corti italiane del nord, e in quella urbinate in particolare. Il duca Federico lo volle immortalare addirittura accanto a sé nello studiolo fatto dipingere nel suo palazzo da Giusto di Gand. Una conseguenza di questa attenzione ai processi naturali nell’educazione era tra l’altro che fosse la madre ad allattare i figli. Nonostante le abitudini correnti facessero affidare i neonati alle balie, Giovanni volle perciò che fosse la moglie Magia ad allattare il piccolo Raffaello. E questo accogliente seno materno fu senz’altro uno degli elementi che contribuirà nel futuro pittore a cogliere e restituire nella sua opera una femminilità generosa e felice, che altri, meno fortunati di lui, non ebbero modo di conoscere. A giudicare dai risultati, la madre di Raffaello fu molto felice di questa scelta. Di lei sappiamo pochissimo, perché le donne del Quattrocento difficilmente prendono sostanza nelle biografie dell’epoca. Ma sappiamo dall’entità della dote che la sua famiglia era di buona condizione e che il suo 14

guardaroba era splendidamente fornito. Del resto, se non fosse stata più che benestante, Magia non sarebbe entrata in quella casa che ancora oggi testimonia lo stato signorile della famiglia di Giovanni Santi, fatto per niente scontato per un pittore di quel tempo. Oltre alla dote, nel suo testamento redatto il 27 luglio 1494 Giovanni menziona anche i beni materiali della moglie, tra cui troviamo una «gamurra» di panno di Londra con maniche di raso cremisi e un’altra con maniche di raso paonazzo con i suoi fulcimenti, insieme a cuffie, veli e quattro anelli d’oro ornati di gemme preziose4. Certo Magia non dovette sfigurare nella corte di Urbino e la sua eleganza completò quella intellettuale del marito, che non fu soltanto pittore ma scenografo, poeta e cerimoniere. La «gamurra» era infatti un vestito di gran moda nell’Italia del Quattrocento. Lo indossò Battista Sforza, moglie di Federico, nel ritratto ufficiale dipinto da Piero della Francesca. E anche lei, come la madre di Raffaello, abbinò al vestito di panno nero le maniche di velluto operato. Probabilmente quelle che Magia conservava nel suo armadio, ottenute tingendo il velluto rasato, non potevano gareggiare in quanto a preziosità con le maniche di Battista, ricamate a filo d’oro con foglie larghe. Ma il nero e il rosso che Magia accostava nelle grandi occasioni denunciano uno stato sociale molto alto, se è vero che le leggi suntuarie di tutte le città italiane riservavano questi colori, simboli di eleganza estrema, soltanto ai personaggi più in vista delle corti, a cui erano invece preclusi i tessuti a filo d’oro riservati ai prelati e ai nobili. Magia dovette anche essere bella e amata, a giudicare almeno dallo scrupolo con il quale Giovanni fece celebrare i suoi funerali nell’ottobre del 1491, quando pagò alla chiesa di San Francesco, proprio di fronte a casa, quattordici libbre di cera, ben otto di più di quelle pagate per la commemorazione di sua madre. La vita della coppia nella bella e comoda casa di via Santa Margherita, acquistata dal padre di Gio15

vanni nel 1463 per duecentoquaranta ducati, doveva insomma essere molto piacevole5. Nell’elegante e raffinata corte urbinate, Giovanni fu senza dubbio una delle personalità di primo piano. Fu lui a scrivere e rappresentare la commedia più importante durante le nozze del figlio di Federico, Guidobaldo, con Elisabetta Gonzaga. E fu ancora lui a essere incaricato dei ritratti di Elisabetta e di altri cortigiani. La sua figura fu appannata dal Vasari, che per far meglio risaltare l’unicità del figlio avvilì forzatamente la figura del padre. E, pur di non smentire la mitologia vasariana, per secoli la critica ha preferito girare lo sguardo dall’altra parte, verso ipotetici maestri come Perugino o Pinturicchio. Ma i documenti raccolti rendono sempre più ragione a Giovanni e consentono ormai di collocare il suo insegnamento e la sua fortunata commistione di maestro, precettore e protettore amorosissimo alla base delle fortune del figlio.

3. CASA E BOTTEGA

Oltre che nell’allestimento di feste e scenari teatrali per la corte di Urbino, Giovanni era impegnato nella conduzione della più celebre bottega di pittura della città. E, come tutti gli altri pittori importanti d’Italia, si confrontava con i problemi di trasformazione della professione, imposti dai veloci cambiamenti nella struttura sociale e produttiva dell’Italia. La conquista della scena sociale da parte di una nuova classe di ricchi borghesi aveva frantumato le lenti mistiche e spirituali con cui il Medioevo aveva guardato il mondo. La natura, la sua concretezza e la sua complessità diventavano ora il traguardo da raggiungere. Per secoli i pittori avevano usa16

to un vocabolario rigido nel quale i colori e i gesti significavano la devozione religiosa condivisa da tutti, laici e secolari. L’azzurro del manto di Maria, il giallo dorato del manto di Giuseppe, il rosso della veste di Cristo erano immediatamente riconoscibili come attributi simbolici della purezza, della regalità, della passione, e i colori ritornavano identici a se stessi in ogni bottega e in ogni quadro. I committenti guardavano alla comprensibilità dei quadri molto più che alla loro singolarità, e non si sentiva ancora il bisogno di una valutazione tecnica ed estetica dell’opera d’arte indipendente dalla sua efficacia religiosa. La tradizione aveva perciò messo a punto una tecnica esecutiva affinata nei secoli e ormai al suo apice di perfezione. Ma nessuno si poteva più accontentare di quelle immagini. I cambiamenti stavano già da decenni trasformando la connotazione e le modalità delle botteghe dei pittori. Da attività decorativa, con finalità prettamente religiose, la pittura veniva ormai chiamata a soddisfare le richieste di committenti appartenenti alla classe dei nobili e a quella dei ricchi mercanti, che cominciavano ad attingere a una più vasta gamma di soggetti anche molto lontani dalla tradizione religiosa. L’Umanesimo riscopriva l’antico, le sue favole e i suoi miti, e, mentre i letterati traducevano e commentavano i testi antichi, i pittori erano chiamati a rappresentarli confrontandosi con l’enorme patrimonio figurativo pervenuto soprattutto attraverso la scultura e i rilievi dei monumenti romani. Per secoli il pittore aveva riprodotto le stesse immagini con le stesse tecniche, ora si poneva come obiettivo l’imitazione della natura, della sua complessità e delle sue leggi ordinatrici, di quell’armonia che tutti avvertivano e che cercavano adesso di ricreare attraverso lo studio delle proporzioni e della prospettiva. Per rispondere alla nuova esigenza di realismo, i mercanti fiamminghi avevano stimolato una mimesi naturale che si 17

serviva delle trasparenze dell’olio per avvicinarsi alle profondità e alle sfumature dei corpi nella luce. In Italia il realismo aveva preso un’altra strada: quella del controllo rigoroso dello spazio rappresentato attraverso un sistema geometrico e matematico, la prospettiva lineare, che aveva dato ai fiorentini un vantaggio inarrivabile nella riproduzione soprattutto degli interni. Queste due tendenze si erano incontrate intorno al 1470 proprio nell’Italia nord-orientale, e proprio a Urbino. Qui, attirati dalla raffinatezza di Federico da Montefeltro, erano confluiti infatti i maggiori esponenti della pittura italiana e fiamminga. Da una parte era arrivato Piero della Francesca, portando il nitore del suo disegno e delle sue architetture prospettiche. Dall’altra erano arrivate le opere di Rogier van der Weyden e Jan van Eyck, con le sfumature morbide ottenute grazie all’uso dell’olio. Giovanni Santi non aveva perso l’occasione di assorbire da questi pittori eccellenti tutto quanto poteva servire alla sua professione. Nel 1469, quando presumibilmente aveva venticinque anni (la sua data di nascita è incerta tra il 1440 e il 1445), la Confraternita del Corpus Domini aveva chiamato a Urbino Piero della Francesca per affidargli l’esecuzione di una pala raffigurante La comunione degli apostoli, in seguito affidata invece a Giusto di Gand, altro grandissimo pittore fiammingo. Giovanni venne incaricato dalla Confraternita di assistere Piero nel suo lavoro e di fornirgli quella che chiameremmo l’assistenza logistica di bottega, cioè preparargli i materiali e approntarli per la pittura. Questa occasione si rivelerà importantissima per Giovanni, che avrà modo di frequentare il grande maestro di Borgo San Sepolcro e cogliere i tratti fondamentali della sua pittura, che ritorneranno visibilissimi nella pala di Gradara commissionatagli dal priore della pieve Domenico de’ Domenici. All’improvviso, le tecniche che per dieci secoli erano servite a riprodurre la solennità dell’immagine religiosa non ba18

stavano più a rappresentare la natura che gli umanisti ponevano al centro delle loro riflessioni. Nel Medioevo era stata perfezionata la tecnica della tempera, che mescolava il pigmento polverizzato a un agglutinante colloso, quasi sempre costituito dal tuorlo o dall’albume dell’uovo. Sul monte Athos, dove la pittura a tempera continua ininterrottamente a produrre i suoi miracoli devoti, sono rintracciabili fin nel minimo dettaglio le procedure con le quali anche Giovanni operò certamente nella sua bottega accanto al palazzo dei Montefeltro. Quelle procedure erano state fissate per la posterità dai precetti zelanti del Libro dell’Arte di Cennino Cennini, un onesto pittore allievo di un allievo di Giotto, che poteva vantare quindi la migliore tradizione artigianale in fatto di pittura. Il tuorlo d’uovo veniva separato dall’albume e sciacquato e veniva poi messo in un’ampolla di vetro dove alcune gocce di aceto lo rendevano più fluido e meno deperibile. Sulle assi di legno ben stagionate e unite da chiodi e una tela incollata veniva preparato laboriosamente il fondo della pittura. Mani di gesso mescolato a colla proteica (di pelle di guanti, cartilagine di coniglio, ritagli di pergamena o lisca di pesce) venivano stese e rasate ripetutamente per ottenere una superficie via via più liscia. La perfetta regolarità della superficie era condizione essenziale alla riuscita di una buona tempera. Da tempo ne abbiamo perso cognizione per lo stato alterato in cui ci giungono le tempere antiche. Ancora oggi padre Gregoriou, nel monastero di San Paolo ad Athos, raccomanda ai suoi monaci pittori che l’eccellenza della pittura a tempera si ottiene quando riesce a essere liscia come il guscio di un uovo: non soltanto per accogliere un pigmento fino alla sua completa saturazione, ma per riflettere perfettamente quella luce spirituale che è il primo elemento costitutivo di una pittura religiosa. Quando il fondo era pronto, liscio e compatto, veniva tracciato il disegno preparatorio, trasportato da un disegno o 19

cartone in cui venivano bucati i contorni per far passare la polvere di carbone filtrata da un sacchetto sulla faccia esterna. In alternativa, si potevano incidere leggermente con una punta metallica i contorni del disegno sullo strato di gesso e colla della preparazione. Una imprimitura, o strato liquido di una sostanza trasparente, serviva a ridurre l’assorbimento dello strato stesso quando era destinato ad accogliere anche campiture a olio. Cominciava a quel punto la pittura vera e propria, mescolando il pigmento con la tempera a uovo. Piccole quantità di pigmento venivano bagnate con gocce di tempera e mescolate con il pennello per essere poi stese in campiture trasparenti. Per ottenere una campitura compatta, bisognava passare molte mani dello stesso colore aspettando che lo strato si asciugasse. La preparazione del colore avveniva di volta in volta e per non sbagliare il tono da rifare continuamente si preferiva non mescolare troppo le polveri, il che spiega la semplicità dei toni delle pitture a tempera e la mancanza di vistose vibrazioni. La mancanza di vibrazione è provocata principalmente da una stesura per sovrapposizione, non permettendo la tempera una stesura per mescolamento. Per costruire un volto si stendeva un fondo omogeneo di verde e nero (il verdaccio del Cennini), poi si preparava un colore di mezzo con bianco e ocra con poco rosso e si «spartiva» aggiungendo da una parte il bianco per le parti più in luce e dall’altra l’ocra o il nero per le parti in ombra: Abbi un poco di verdeterra con un poco di biacca ben temperata; e a distesa danne due volte sopra il viso, sopra le mani, sopra i piè, e sopra ignudi. Ma questo cotal letto vuole essere à visi di giovani con fresca incarnazione, temperato il letto e le incarnazioni con rossume d’uovo di gallina della città, perché sono più bianchi rossumi, che quelli che fanno le galline di contado o di villa, che sono buoni per la loro rossezza a temperare incarnazioni di vecchi e bruni. (...) Poi secondo che lavori e colorisci in mu20

ro, per quel medesimo modo fa’ tre maniere d’incarnazioni, più chiara l’una che l’altra; mettendo ciascuna incarnazione nel suo luogo delli spazi del viso6.

La pittura seguiva questa meccanica molto rigida che contribuiva a rendere l’immagine un sistema rigorosamente chiuso per quanto perfettamente comprensibile ai fruitori. Per ottenere infine quella smaltatura lucida, gli strati di colore venivano ripassati sempre uguali a se stessi e sempre dopo pause molto lunghe, con pennelli finissimi di vaio per evitare che grosse quantità di colore formassero grumi che interferivano con la compattezza lucida delle superfici. Il tuorlo dell’uovo o le colle animali, che si usavano per fissare i pigmenti con la tempera, davano opacità alle velature riducendone la profondità. La lucentezza finale era affidata alle verniciature, eseguite stendendo sul dipinto uno strato di resina disciolta in solventi. La più raccomandata era la resina di ginepro chiamata «sandracca», che veniva disciolta in acqua ragia, oppure l’albume d’uovo. Questa tecnica era lenta e portava a risultati fissi: campiture opache ben separate tra loro e soprattutto tinte primarie, in cui i pigmenti erano raramente mescolati per evitare la loro reazione chimica. Le sfumature erano molto difficili e i pittori agivano con piccole quantità di pigmento puro mescolato continuamente all’uovo che asciugava in pochissimo tempo. L’unione di pigmenti diversi era quindi sconsigliata, anche per non dover tentare ogni giorno una nuova unione. La meccanicità di questa produzione era stata divulgata dal Cennini come apice di mestiere sicuro. Perfino nella costruzione di un volto si seguiva una procedura rigida e sempre uguale a se stessa. La pittura aveva un connotato meccanico legato alla tecnica esecutiva, ma la tecnica esecutiva rispondeva a una esigenza di rappresentazione fissa, che nel corso del Quattrocento finì per lasciare insoddisfatti artisti e committenti. 21

Da secoli, in alternativa, si conosceva il vantaggio dell’olio come legante dei pigmenti. Ma era un procedimento lungo, perché l’olio asciugava lentissimamente, impiegava intere giornate e non permetteva di lavorare sulle parti dipinte fino alla completa essiccazione. Con la scoperta degli olii essiccativi, di lino e di papavero soprattutto, furono i pittori fiamminghi a capire che i tempi di asciugamento potevano ridursi a ore o al massimo a giornate. In compenso, l’uso dell’olio come legante permetteva di mescolare pigmenti diversi e ottenere tonalità, sfumature e morbidezze molto più vicine a quelle naturali. La lucentezza era il pregio principale della velatura oleosa, insieme alla sua profondità immateriale e alla possibilità di mescolare liberamente tra loro pigmenti diversi, quasi in assenza di un medium che interferisse con la variazione dei toni cromatici. La ricerca divenne spasmodica e con l’arrivo dei primi stupefacenti lavori fiamminghi in Italia anche i pittori locali si avvicinarono a questa tecnica. Vasari menziona Antonello da Messina come uno tra i primi a dipingere a olio, insieme ai veneziani. Ma proprio a Urbino la presenza di Giusto di Gand, Pedro Berruguete e di opere di altri artisti fiamminghi negli anni Settanta del Quattrocento aprì nuovi squarci sulle tecniche pittoriche. Insieme a numerosi vantaggi, l’uso dell’olio comportava però anche inconvenienti, poiché alcuni pigmenti venivano resi eccessivamente trasparenti dall’olio e occorreva ricorrere ancora alla tempera. Nello scorcio del Quattrocento molti pittori usarono entrambe le tecniche con modalità ancora in parte sconosciute, accostando le campiture a olio con quelle a tempera, ma spesso velando con olio trasparente una base di tempera già compatta. Giovanni Santi fu tra i più sensibili a questa nuova maniera e i suoi dipinti sono molto vicini alla tecnica e al gusto fiammingo. Le sue radici italiane si manifestavano comunque nell’apprezzamento e nella cura per il disegno, che in tutta l’Ita22

lia centrale era ritenuto il principio basilare della pittura. Il trono del San Girolamo, oggi alla Pinacoteca Vaticana, così come l’edificio della Visitazione di Fano sono costruiti con il rigore di un teorema geometrico. I suoi risultati nella rappresentazione architettonica furono così convincenti che si può dire che Giovanni non sfigurava accanto a nessuno dei grandi pittori italiani di quegli anni. Di certo, giustificavano i frequenti incarichi per allestimenti teatrali ricevuti dalla corte urbinate. Sebbene le sue figure stentassero ancora ad assumere posizioni naturali nelle costruzioni architettoniche, egli si impegnò al massimo grado nella costruzione dello spazio prospettico, dimostrando un approccio profondamente razionale e intellettuale al mestiere di pittore. Nello stesso tempo accoglieva gli insegnamenti dei pittori fiamminghi transitati da Urbino o conosciuti nei frequenti viaggi nell’Italia nordorientale. La cura dei dettagli, rappresentati con rigore botanico, i cieli perfettamente sfumati fino all’orizzonte luminosissimo che guida l’occhio nella profondità della scena erano frutto della frequentazione dell’arte fiamminga. Perfino l’irrealtà delle nuvole striate di luce e poggiate con la base piatta come su un piano di vetro trasparente manifestavano un debito con l’arte nordica. In più Giovanni, grazie soprattutto alla frequentazione diretta di Piero della Francesca, aveva colto il significato dell’elemento centrale della rinascita figurativa italiana: quella solennità della figura umana che rimaneva ancora ignota agli artisti nordici e che nulla aveva a che fare con il sistema geometrico di costruzione dello spazio, ma moltissimo invece con un’idea di superiore dignità che rivendicava all’uomo la misura di tutte le cose. Se di lui ci fosse rimasta anche soltanto la Sacra conversazione [Fig. 1] di Montefiorentino, basterebbe a documentare il valore estremamente aggiornato della sua pittura. Per il resto, i modi ripetitivi delle sue fisionomie, il naso pronunciato e triangolare, l’inclinazione manierata e rigida 23

del collo e soprattutto le mani quasi sempre prive di vera vita manifestavano un attardarsi nella cultura quattrocentesca, più attenta al decoro del racconto che alla sua spontaneità. Ma la bottega di Giovanni era senza dubbio il luogo migliore dove nascere e crescere per chi, nelle Marche, avesse potuto scegliere di nascere pittore. Una bottega quattrocentesca era un luogo più simile a una piccola fabbrica che a uno studio come lo conosciamo noi moderni. Nella bottega si dipingeva soltanto alla fine di un lungo e laborioso processo creativo, durante il quale si preparavano i materiali e si organizzavano le idee da mettere in opera: un luogo fortemente gerarchizzato, dove ognuno aveva mansioni precise ed era responsabile di un piccolo frammento dell’impresa, sotto la guida attenta del maestro responsabile. In una bottega così, piena di colori e di immagini, il piccolo Raffaello passò i suoi primi dieci anni, prendendo dimestichezza con i colori e con le matite, osservando quotidianamente la nascita lenta delle immagini dipinte e gli sforzi di suo padre per avvicinarsi ai brillanti risultati della pittura moderna. Perché la bottega di Giovanni era attaccata alla comoda abitazione dove la famiglia viveva: solo un portico separava le due fabbriche acquistate e unificate dal padre di Giovanni nel 1463, e il bambino avrà certamente potuto raggiungerla appena in grado di camminare, attirato dai colori e dal lavoro dei garzoni. Il successo raggiunto da Giovanni alla corte di Urbino è provato non solo dai fastosi allestimenti teatrali che creò nelle grandi occasioni celebrative, come la visita di Federico d’Aragona nel 1474, quando mise in scena Amore al tribunale della Pudicizia. Esso è testimoniato anche dalle cariche politiche altissime ricoperte, come quella del 1487 di priore della città per i mesi di agosto e settembre. Il vertice fu toccato alla fine degli anni Ottanta, quando il padre di Raffaello fu chiamato ad allestire una propria commedia, la Contesa tra Giunone e Diana, per le nozze di Elisabetta Gonzaga con Gui24

dobaldo da Montefeltro. «Durò questa representatione dalle XXI hore fino a le II de notte per molte altre (...) ma ho detto con Zohanne de Santo, che è stato l’autore, per havere il tutto in un compendio che portarò poi a la S.V.»7. Negli stessi anni Giovanni fu impegnato nella decorazione della Cappellina delle Muse, all’interno del Palazzo Ducale. Nel 1489 eseguì a Monteoliveto, nel convento di Montefiorentino, la pala per la cappella dei conti Oliva, dove fortissimo ritornava il ricordo di Piero della Francesca, al punto che il conte Carlo era ritratto nello stesso atteggiamento che ha Federico nella celebre pala di Piero. Si trattava di opere rigorosamente alla moda, anche se solo con il passare del tempo, al di là di una standardizzazione delle fisionomie che restava il suo limite maggiore, nella pittura di storie si fece strada con sempre maggiore forza la qualità che lo avrebbe reso il pittore più affermato agli occhi della corte. Era la veridicità dei suoi ritratti, tanto che la duchessa Elisabetta Gonzaga, nella primavera del 1493, lo avrebbe mandato a Mantova a ritrarre Isabella d’Este e Ludovico Gonzaga. A Mantova Giovanni si ammalò. E si trascinò la malattia tanto a lungo che ancora nell’aprile successivo non riusciva a licenziare i ritratti, che andranno in seguito perduti. Morì il primo agosto del 1494, lasciando orfano un ragazzo di appena undici anni, il cui apprendistato si poteva però già dire a buon punto, considerata la particolare condizione in cui era avvenuto.

4. GARZONI E MAESTRI

Tre anni prima della morte del padre, nel 1491, era morta anche la madre di Raffaello, Magia, insieme alla sorellina. Mol25

to prima, nel 1485, era morto il fratello. Per il bambino fu un colpo durissimo. A soli otto anni, si trovava ad affrontare il mondo accanto a un padre amoroso, ma sempre molto impegnato. Per fortuna i parenti erano molto affezionati al bambino, unico maschio della schiatta in un secolo che non mostrava grande apprezzamento per le figlie femmine, considerate poco meno di un guaio economico per la loro improduttività e per i pericoli attribuiti alla loro natura debole e più esposta al peccato. Il fratello di Giovanni, Bartolomeo, arciprete, si prese cura del piccolo insieme ad altri della famiglia, e non smise di occuparsene fino alla sua morte. I nonni materni lasciarono al nipote piccole eredità. Com’era abitudine, Giovanni si risposò prestissimo con una giovane donna, Bernardina di Piero Parte, da cui ebbe una figlia, Elisabetta, che purtroppo non sopravvisse a lungo e morì poco dopo il 1499. Al piccolo Raffaello non mancarono quindi le guide affettive, con una famiglia tanto estesa e premurosa decisa da subito a coltivare un talento che si mostrava evidentissimo già nella prima infanzia. Proprio per questo possiamo immaginare che dopo la morte della madre il ragazzo diventò una cosa sola con la bottega del padre: curato, se non altro per reverenza, anche dai suoi dipendenti. Così i primi passi fermi del bambino dai bei lineamenti aggraziati, che lui stesso avrebbe fermato poco dopo nel suo primo autoritratto a matita, lo portarono facilmente alla bottega del padre dall’altra parte del cortile. Le due stanze larghe coperte a volta affacciavano sulla strada piena di gente e al bambino sembrarono subito create apposta per lui. Colori, rumori e odori davano vita a quelle stanze molto più di quanto potesse averne la casa elegante al piano superiore. Qui le donne scivolavano silenziose per attendere alla cucina e alle pulizie, nella bottega ragazzi, uomini e giovani si davano da fare senza sosta per giocare con mille stranezze colorate. 26

Vicino alle finestre c’erano i maestri maturi che dipingevano le grandi tavole scintillanti d’oro, di azzurro e di rosso. Tutt’intorno gli apprendisti di ogni età preparavano il laborioso processo che si concludeva con le pennellate lente dei maestri. Senza dubbio Giovanni mise subito in guardia suo figlio sulla difficoltà dell’apprendimento del mestiere, ripetendo gli stessi avvertimenti che Cennino aveva indirizzato a tutti i pittori d’Italia: Sappi che non vorrebbe essere men tempo a imparare: come prima studiare da piccino un anno a usare il disegno della tavoletta; poi stare con maestro a bottega, che sapesse lavorare di tutti i membri che appartiene di nostra arte; e stare e incominciare a triare dè colori; e imparare a cuocere delle colle, e triar dè gessi, e pigliare la pratica dell’ingessare le ancone, e rilevarle, e raderle; mettere d’oro; granare bene; per tempo di sei anni. E poi, in praticare a colorire, a ornare di mordenti, far drappi d’oro, usare di lavorare di muro, per altri sei anni, sempre disegnando, non abbandonando mai né in dì di festa, né in dì di lavorare8.

Lo sapeva bene un altro bambino che negli stessi anni veniva avviato alle stesse pratiche: Michelangelo Buonarroti, che nel giugno del 1487, ad appena dodici anni, era già impegnato nella bottega dei fratelli Ghirlandaio nella vicina Firenze. Per motivi diversi, anche lui si sarebbe sottratto con ampio anticipo a quei dodici lunghi anni che servivano a formare un pittore. A Urbino, il piccolo Raffaello non poteva credere che quei bambini di dieci anni o anche meno, che pestavano il colore e il gesso battendo un mortaio di porfido rosso, stessero facendo qualcosa che lui non poteva fare. Per ore e per giorni, raccoglievano la polvere inzuppata d’acqua con un’asticella di legno e la riportavano sotto il pestello fino a che il pigmento non diventava polvere impalpabile. Quelli poco più grandi, con i primi peli intorno alle labbra rosse, mescolavano intanto il gesso e la colla, rivestendo 27

con il pennello le tavole di legno piallate e inchiodate l’una accanto all’altra. Poi con un raschietto affilatissimo radevano il gesso appena asciutto e con il pennello lo riapplicavano di nuovo, sempre più sottile fino a che la superficie della tavola non diventava liscia come un uovo. E che timore quando il maestro si avvicinava per sentire con il dorso delle dita, con una carezza leggera, se la superficie era liscia come doveva! Un sorriso di compiacimento o un urlo di rabbia poteva decidere in un attimo il lavoro di settimane. I ragazzi più grandi, a cui era spuntato tutto ciò che doveva, avevano gli occhi immalinconiti dal desiderio e li strizzavano mentre passavano il carbone sulla carta pecora per disegnare. Oppure trasportavano il disegno sulle tavole, bucandone i contorni e lisciandoli con un sacchetto di carbone per imprimere sulla tavola i profili che fermavano poi con il pennello. Gli occhi del piccolo Raffaello cominciarono a familiarizzarsi con quei gesti, ma il bambino dovette aspettare di aver imparato a trattenere il respiro per avvicinarsi ai giovani che doravano le tavole, e che ai suoi occhi compivano una vera e propria magia. Sembravano avere il dono del mitico re Mida, capace di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Prendevano un pezzo di oro sottilissimo e lo facevano scivolare sulla carta per avvicinarlo alle tavole da indorare. Non bisognava respirare, perché bastava l’alito sfuggito per l’apprensione alle labbra a far volare la foglia d’oro e rovinarla per sempre. Arrivati alla tavola, i garzoni la lasciavano cadere sulla superficie preparata con il bolo, un’argilla rossa molto elastica capace di comprimersi e compattarsi sotto la pressione meccanica senza frantumarsi. Con un gesto rapido, che sembrava un rito scaramantico, si passavano il pennello tra i capelli. Era il modo di elettrizzare il pelo di vaio per attirare l’oro e trasportarlo. Appena deposto sul bolo, l’oro veniva attratto come da una calamita e aderiva perfettamente ad ogni tipo di superfi28

cie, trasformando per incanto ogni oggetto in oro massiccio. Il tocco finale sarebbe stato dato dalla bacchetta magica, che si custodiva gelosamente in ogni bottega come uno degli attrezzi più preziosi del maestro: un’asta di legno saldata sulla punta a una pietra preziosa che poteva essere di «zaffiri, smeraldi, balasci, topazi, rubini e granati; quanto la pietra è più gentile tanto è migliore, ancora è buono dente di cane, di leone, di lupo, di gatto di leopardo e generalmente di tutti animali che gentilmente si pascono di carne»9. Quale fantasia avrebbe mai potuto inventare un migliore incantesimo per incatenare al mestiere del padre il figlio di Giovanni Santi? Il pugno caldo del padre stringeva quello del bambino e guidava lo stilo di carbone ricavato dai rametti dritti di salice, messi a cuocere nella pentola del fornaio dopo che ne era stato tolto il pane la mattina all’alba. Al figlio del padrone non si potevano rifiutare ritagli di carta. Né si rifiutarono i pennelli sottili fatti con le punte della coda del vaio, legate con filo di seta cerata dentro il baccello delle penne di falco o di anatra, o quelli fatti con setole di porco. E non si rifiutarono nemmeno i rimasugli di colore nei vasetti di vetro e le piccole tavolette ingessate dagli apprendisti ancora bambini. Presto nell’angolo soppalcato della seconda camera della bottega, dove una scala a chiocciola portava al deposito dell’ammezzato, il piccolo Raffaello ebbe una sua propria bottega, dalla quale pian piano cominciò a stupire e ammirare e allarmare la popolazione di quell’antro magico. Gli scherzi preziosi del figlio di Giovanni cominciarono a circolare fuori della bottega e presto cominciarono ad arrivare nel vicino Palazzo Ducale. Le stagioni si alternavano rapidamente così come le attività della bottega, sempre piena di vita e di odori non tutti gradevoli ma che diventavano rassicuranti al naso di chi vi spendeva gli anni più fertili dell’apprendimento. D’inverno, quando il fuoco era perennemente acceso, veniva sfruttato 29

per far bollire i ritagli di pelle o le lische di pesce per intere giornate. La stanza si riempiva della puzza dolciastra della decomposizione e a nulla servivano i grani d’incenso, le bucce d’arancia e altre erbe profumate che ogni tanto una mano pietosa gettava nel fuoco per alleviare il disgusto dei garzoni. La bottega era più ospitale in primavera, quando la resina odorosa degli alberi veniva scaldata e disciolta per verniciare i dipinti. Allora l’aria si impregnava dell’aroma pungente di alberi che crescevano lontanissimi dalle foreste nere di Urbino e portava nelle stanze il ricordo dei paesaggi esotici che i maestri tentavano di fermare sulla tela. Ancora più festosa era l’atmosfera in estate, quando la luce dei giorni lunghi scintillava dell’oro brunito applicato sulle tavole e si approfittava dei tempi asciutti che permettevano al maestro di governare il bolo e i mordenti che accoglievano le sottili foglie d’oro. Ma fu nell’autunno malinconico che Raffaello imparò da suo padre a studiare con calma le fisionomie degli uomini e i loro moti dell’anima e a restituirli con minuzia fiamminga. L’autunno era un momento di stasi per gli approvvigionamenti della bottega, un momento che con la sua calma sospesa favoriva quella pittura riflessiva di cui era diventato campione Giovanni Santi. Non fu la tecnica né l’esperienza precoce dei materiali a fecondare Raffaello e a gettare le premesse per il suo futuro strepitoso. Fu la passione bruciante del padre per gli impasti e le sfumature, la profondità impalpabile delle velature a olio e, sopra ogni cosa, l’acutezza della sua osservazione psicologica: una qualità che gli fu riconosciuta universalmente dai contemporanei. Negli anni che precedettero la sua morte, Giovanni aveva raggiunto una posizione di grandissima eccellenza nel ritratto naturale, anche questo un regalo della sua passione per l’arte fiamminga e per la maniacale cura del dettaglio. Perfino Isabella d’Este, a quel tempo già conosciuta nelle corti per la sua passione di collezionista dei maggiori maestri italiani, lo 30

chiamò a Mantova. Per eseguire i ritratti dei Gonzaga puntava su Giovanni come vent’anni dopo avrebbe puntato sul figlio Raffaello per i ritratti del proprio, il bellissimo Federico. Quei ritratti, che Giovanni aveva impostato a Mantova cercando di dare il meglio di sé, vennero finiti in bottega a Urbino sotto gli occhi ormai consapevoli di un Raffaello undicenne già divorato dalla passione, che osservava il padre scavare negli incarnati d’avorio, addolcire i lineamenti spigolosi delle fisionomie, tentare di fermare un sentimento interiore, un fremito dell’anima che desse vita oltre che nobiltà ai marchesi di Mantova, così come aveva fatto con i suoi padroni i duchi di Urbino. Lo vedeva dubitare per ore con la punta del pennello di fronte alla piega di un sorriso e alla cupezza di uno sguardo. Lo vedeva osservare il chiarore dell’incarnato nella luce morbida dell’autunno. Ne comprendeva l’esplorazione psicologica. Da quell’esperienza, negli ultimi mesi di vita del padre, trasse l’impagabile capacità di far affiorare dai ritratti la personalità degli uomini e delle donne. Se è vero che molti suoi contemporanei furono eccellenti nel restituire sulla tela il corpo in ogni attitudine, lui fu il solo pittore della sua generazione in grado di fare affiorare sulle tele l’anima di uomini e donne di ogni condizione.

5. UN MAESTRO PRECOCE

La favola di quella bottega piena di colori, del portico di pietra grigia ombroso e accogliente, prolungamento della sua casa di ragazzo, finì amaramente per Raffaello nei giorni soffocanti dell’estate del 1494. Il padre si era ammalato l’anno prima durante la trasferta mantovana, vittima della leggenda31

ria insalubrità delle terre paludose nella laguna del Mincio. Tornato a Urbino, non si rimise mai del tutto e il primo agosto 1494 morì, lasciando un figlio nel suo undicesimo anno di età, addolorato e oppresso dalla difficile condizione familiare in cui si veniva a trovare. La matrigna, Bernardina di Piero Parte, creò subito problemi legali riguardo al testamento di Giovanni. A difendere Raffaello, che aveva ereditato anche da parte dei nonni materni, intervenne lo zio paterno Bartolomeo. Lo scontro non fu morbido e il primo giudizio emesso dal tribunale di Urbino il 17 giugno 1495 condannò Bartolomeo al mantenimento della seconda moglie del fratello e della nipote Elisabetta. Ma la lite non si ricompose neppure dopo quel pronunciamento. Nel dicembre del 1497 fu il vicario del vescovo di Urbino a ingiungere a Bartolomeo di rispettare il più possibile le volontà del defunto e i diritti della vedova e della sorellastra di Raffaello. In un piccolo centro come Urbino, non fu gradevole dare in pasto alla pubblica opinione una lite familiare che coinvolgeva due delle famiglie più abbienti della città. Si sarebbe dovuto aspettare il 13 maggio 1500 perché un accordo definitivo venisse stipulato a favore della seconda moglie di Giovanni. Raffaello, che proprio in quel momento entrava nella delicatissima stagione dell’adolescenza, cercò di sfuggire a quel clima turbolento dedicandosi convulsamente alla bottega paterna. Ancora giovanissimo, era già in grado di eseguire con una certa fermezza dipinti sempre più complessi. Niente è più confortante di un lavoro creativo, visibile ad ogni momento, eseguito in compagnia di uomini riconosciuti come maggiori. E tali dovettero necessariamente sembrargli gli assistenti di cui il padre si era circondato negli anni precedenti. Nelle intenzioni di tutta la famiglia il giovane doveva comunque prendere in mano al più presto quella piccola impresa redditizia. A soli dodici anni, la sua attitudine al mestie32

re si mostrava già in tutta la sua evidenza. Se non avesse avuto né il talento né la voglia di occuparsi della bottega, alla morte del padre sarebbero stati per primi i parenti e lo scaltro zio Bartolomeo a vendere l’impresa o a cederla al principale assistente di Giovanni, Evangelista da Pian di Meleto. Questi aveva avuto tutto il tempo di compiere un maturo apprendistato e aveva curato la bottega durante i lunghi periodi di assenza del padrone. E poi Raffaello non aveva né fratelli maschi né cugini per parte di padre. Sembrava non avere molto senso lasciare l’impresa nelle mani di un ragazzo dodicenne. Ma Bartolomeo ebbe occhio lungo e fece di tutto perché Raffaello crescesse in fretta e rilevasse la bottega paterna. Aveva visto bene. Mentre lui continuava a battersi per il nipote, il giovane già seguiva Evangelista nella realizzazione di imprese che lo portavano spesso anche fuori Urbino. Ma la prova indubitabile della sua precocità e della sua responsabilità verso l’eredità paterna è un contratto stipulato insieme al socio Evangelista il 10 dicembre 1500, a soli diciassette anni: un contratto con Andrea Baronci per una pala d’altare nella chiesa di Sant’Agostino in Città di Castello [Fig. 48].

CAPITOLO 2

DA URBINO ALL’UMBRIA

1. LA PRIMA PROVA

Prima di incresparsi nelle cime rocciose dell’Appennino casentinese, le colline delle Marche formano una valle ampia dove nasce il Tevere. Nera per le foreste di olmi e castagni, d’estate la conca si pettina d’oro per i campi di grano maturo, il più grasso e felice secondo Plinio il Giovane, che in questo paradiso costruì una villa dandole il nome più appropriato ai luoghi, Villa Felice. La valle non è lontana da Urbino e si trova lungo la strada che porta a Firenze e a Perugia. Nel corso dell’età comunale, alla fertilità delle foreste e dei campi di cereali si era aggiunta la ricchezza delle fabbriche dei tessitori, pronti a utilizzare per le loro botteghe l’acqua abbondante che serpeggia tra i boschi. Un tale vantaggioso ambiente produttivo non poteva non richiamare l’attenzione dei mercanti fiorentini, che arrivarono presto a offrire contratti favolosi alle industrie locali. Firenze fece di Città di Castello una sorta di colonia economica, dilatando così i suoi confini in quell’area strategica do37

ve si incontrano le Marche, la Romagna, la Toscana e l’Umbria, per dare ognuna il meglio dei propri mercati. La piccola città divenne molto prospera e molto toscana, come provano ancora i palazzi segnati dalla moda fiorentina, i blocchi chiusi, bugnati da macigni di arenaria e coronati dalle finestre gentili, che nel corso del Quattrocento abbandonarono le ghiere acute per le forme antichizzanti delle modanature rettangolari. Alla fine del Quattrocento anche la pittura di Firenze spingeva più di un’eco nella Città di Castello, ma i signori che la dominavano da più di un secolo, i Vitelli, nonostante l’attrazione economica del capoluogo toscano, preferivano consolidare i legami sempre più stretti con i Montefeltro di Urbino, patroni di Raffaello e del suo padre scomparso da poco. Fu a Urbino che nel 1474 aveva riparato Niccolò Vitelli, per fare ritorno in città con l’aiuto dei Montefeltro. E la gratitudine verso quei preziosi alleati non venne mai meno negli anni successivi, tanto che politicamente Città di Castello si considerò nell’ultimo quarto del Quattrocento un protettorato urbinate, almeno fino a quando non precipitò anch’essa nel mortaio tragico e inesorabile delle ambizioni del figlio del papa, Cesare Borgia, conosciuto come il Valentino. Recandosi a Città di Castello, Raffaello sapeva di rimanere ancora sotto la protezione dei Montefeltro, che avrebbero potuto, come fecero, introdurlo alla migliore società locale. Il giovane pittore si avvicinava in questo modo all’irresistibile calamita collocata tra Firenze e Perugia, dove gli artisti erano tenuti in grande considerazione, pur rimanendo però a casa sua, tra le mura di una città imprendibile ma anche estremamente isolata. Il favore incontrato a Città di Castello fu fulmineo. Appena mostrò i suoi disegni, le piccole tavole dipinte che si portava dietro a testimonianza del talento precoce, nessuno ebbe dubbi, tra i ricchi cittadini della «valle felice», che un artista di tale bravura non aveva mai appeso i dipinti alle mu38

ra delle loro case e delle loro chiese, pure notevoli per dimensioni e ricchezza. Incluso quel Luca Signorelli che era stato tanto apprezzato ma che ora, a confronto con il prodigioso ragazzo, sembrava aver dato di sé le prove peggiori. Il recinto possente delle mura di mattoni chiari che circonda la città si chiuse sul ragazzo venuto dalla corte del grande Federico e lo accolse incubandone il talento per quattro lunghissimi anni, fino a quando anche quelle mura sarebbero diventate troppo strette per lui, trasformatosi ormai in un talento celebrato nelle città vicine, pronto a proseguire la sua marcia trionfale verso Firenze e poi verso Roma. La prima testimonianza documentaria dell’attività di Raffaello a Città di Castello riguarda il suo rapporto con Andrea Baronci, uno degli uomini più influenti della città, di cui era stato priore nei due anni precedenti al 1500. La sua posizione sociale richiedeva l’impegno di maestri di provato mestiere quali erano indubbiamente i due eredi della bottega di Giovanni Santi, il suo primo assistente Evangelista da Pian di Meleto e il giovane Raffaello, un ragazzo poco più che adolescente. Il contratto stabiliva un prezzo considerevole per una pala d’altare che doveva rappresentare il trionfo di san Nicola da Tolentino sopra il diavolo: trentatré ducati da pagarsi in tre rate, un primo anticipo di undici ducati alla stipula del contratto, per permettere ai due pittori di comperare i costosi colori, e due rate successive, sempre di undici ducati, alla metà e alla fine del lavoro1. Nonostante la giovanissima età di Raffaello, il contratto lo cita come «maestro»: segno che era già in grado di esercitare pienamente il ruolo di pittore accanto a Evangelista, e segno che quello non doveva essere il primo contratto firmato dai due. Ma l’importanza del committente e della commissione meritarono certamente un festeggiamento generoso nella prima osteria della città, dove il vino era dei migliori e la norcineria già un vanto locale insieme alle confetture 39

dolci, con cui si celebravano le feste comandate dalla Chiesa e quelle meritate dai privati cittadini. Il ruolo di capo creativo di Raffaello in questa impresa è dimostrato dai disegni preparatori pervenutici per il dipinto (Lille, Musée des Beaux-Arts, inv. PL 474r ) [Fig. 47]. Il ragazzo aveva già idee innovative molto precise riguardo alla realizzazione di una pala di altare. Avrebbe potuto timidamente utilizzare figure standard del repertorio paterno o di altri artisti, ma procedette invece con molta originalità allo studio di nuove pose per i personaggi, che voleva rappresentare sviluppando quel senso di teatralità ereditato dal padre. Aveva talmente fiducia nel controllo del disegno da avventurarsi nella costruzione di un nuovo racconto, già insofferente dei modelli fissati dalla tradizione: una fiducia che a diciassette anni metteva in ombra il talento di vecchi maestri, che neppure alla fine della propria carriera si azzardavano a innovare i rassicuranti modelli ereditati dal passato. Per rappresentare il trionfo di san Nicola, Raffaello mise in posa i garzoni della sua bottega, che compaiono con i loro abiti e le loro volenterose espressioni semplici nelle vesti del santo, del Padreterno e persino della vergine Maria, come in una improvvisata recita alla buona. Perfino il diavolo steso a terra è un giovane garzone e nel disegno preparatorio si legge la sua aria perplessa, che nella pittura finale lascerà il posto all’espressione del male assoluto di un diavolo tutto nero. Il clima leggero e scherzoso della bottega del giovane maestro, che affronta la trasferta come un’avventura felice, traspare da un dettaglio che solo l’ingenuità di un adolescente poteva concepire. Il garzone in posa per l’immagine dell’Eterno ha una brachetta così attillata che vi si legge il pene in una discreta erezione, che non altera la posa solenne della figura, ma servì certamente a divertire quel gruppo di giovani che iniziava una vita nuova e attraente. Stavano rinnovando l’arte italiana, ma lo facevano come in un gioco di ragazzi in 40

cui proprio il più giovane li metteva in posa sistemandogli minuziosamente l’inclinazione di un braccio e l’intreccio delle dita e mimando sguardi devoti, per poi correre subito al tavolo e tracciare con linee sicure i contorni dei personaggi destinati a incarnare la corte celeste. I corpi sono ancora semplificati con un tratto quattrocentesco che li riassume in un contorno e li avvicina a un’astrazione geometrica, ma già nel nudo schizzato sopra il diavolo si intravede una ricerca di profondità spaziale e di congruità anatomica che portava Raffaello vicino a un altro maestro che in quegli anni ricercava una nervosa espressività corporea, Luca Signorelli, forse conosciuto di persona dal giovane urbinate ma certamente conosciuto attraverso le sue opere, abbondanti in quell’area. Quando furono pronti i disegni preparatori, Raffaello passò alla pittura della grande pala alta quasi tre metri. Disegnò con il compasso un arco visto dal basso, decorato sul fronte da delicate grottesche antichizzanti come imponeva la tendenza più alla moda in quel momento in Italia. Al centro di quest’arco mise l’Eterno con in mano una corona destinata alla testa del santo, collocato poco più in basso nell’atto di calpestare il diavolo affiancato da tre angeli. Accanto all’Eterno tra le nuvole, sono rappresentati la Vergine a destra e sant’Agostino a sinistra, con in testa la mitra e coperto da paramenti ecclesiastici. Le corone che le figure in alto sorreggono con le mani sono corone che Giovanni Santi aveva utilizzato in molte sue pitture. Non poteva essere altrimenti, visto che questa tavola può considerarsi appieno un frutto della tradizione di bottega del Santi, seppure già molto evoluto. Anche i colori e le attitudini delle figure richiamano le opere di Giovanni. Ma più di ogni altra cosa a richiamare la continuità paterna è la forma ancora poco fluida delle mani dei personaggi. Le dita allungate e dettagliatamente descritte dell’Eterno tentano uno 41

scorcio non proprio riuscito. Nel tentativo troppo ingenuo di articolare le mani, i mignoli arrivano a deformarsi con un gesto che vorrebbe essere elegante e che appare invece impacciato: un gesto tentato più volte da Giovanni Santi, quasi un marchio stilistico per cercare di ingentilire le sue figure femminili. I colori sono anch’essi vicinissimi alla tavolozza paterna. Nelle pieghe morbide del panneggio dell’Eterno si rivela anche il fulmineo superamento del modo in cui Luca Signorelli irrigidiva i panneggi, che il grande artista si porterà dietro fino alla morte e che il giovanissimo pittore ha già individuato come un’arretrata interferenza nella resa naturalistica della figura umana. Non per caso negli schizzi rimastici per la pala si trovano studi di panneggi, segno che Raffaello iniziava a provare insofferenza per quegli sbattimenti metallici che avevano reso celebre suo padre. La novità più sorprendente si incontra comunque nei visi, che hanno abbandonato la costruzione geometrica di quelli dipinti dal padre. È vero che Giovanni utilizzava una costruzione astratta soltanto nel dipingere figure letterarie, approfondendo invece le fisionomie naturali nei ritratti e nelle figure secondarie delle sue pale. Raffaello parte proprio dai ritratti per sperimentare una raffigurazione naturalistica che cerca la dignità dell’espressione lontano da un canone geometrico. Se Giovanni si rendeva subito riconoscibile per la regolarità dei suoi nasi pronunziati, triangolari come un cono, per le sue ciglia arcuate come segmenti di cerchio sulla fronte sempre molto prominente, Raffaello costruisce nel viso del Padreterno una fisionomia molto verosimile e un’espressione di solennità che non ha quasi più niente dell’astrazione iconografica. Persino il volto di Maria, molto semplificato, ha una dolcezza e una freschezza pacata nella bocca piena, che incantano come di fronte a una ragazza incontrata fortunosamente alla fontana a prendere acqua. 42

La tecnica pittorica è già molto matura, le sfumature sono unite con pennellate sottili e i colori dosati perfettamente: nei tre anni passati lontano dal padre, Raffaello si era subito impegnato con straordinaria intelligenza a migliorarne l’eredità.

2. CONFERME

La pala fu un grandissimo successo e tutti a Città di Castello invidiarono l’acume di Baronci, che era riuscito a celebrarsi con un’opera di grandissimo valore a un costo abbastanza contenuto. Aveva avuto il coraggio di affidarsi a un giovane emergente ed era stato ampiamente ripagato. Purtroppo la memoria di questo talento di collezionista sarebbe stata oscurata da una catastrofe abbattutasi su Città di Castello nel 1789. Un terremoto distrusse la chiesa di Sant’Agostino, in cui era ancora la pala, sfuggita alla prepotente avidità dei ricchi collezionisti, riducendola in frammenti poi dispersi per l’Europa. Il frammento più significativo si trova nel Museo di Capodimonte a Napoli. La buona riuscita dell’opera fruttò subito a Raffaello un altro incarico prestigioso: il Gonfalone della Confraternita della Santissima Trinità, sempre a Città di Castello. Gli stendardi portati in processione diverse volte all’anno erano considerati opere importanti, ma dovevano seguire una tecnica molto particolare. Dovevano essere molto leggeri per essere trasportati senza fatica nelle processioni e perciò erano realizzati su tela anziché su legno pesante. La pratica era quella di incollare due tele impregnandole poi di una preparazione molto ricca di colla. Non potendo usare una superficie rigi43

da come supporto, si utilizzava, al posto del rigido strato di gesso una colla che fungeva anche come legante per il colore. Una pratica che riduceva necessariamente le possibilità espressive della pittura, avvicinandola piuttosto a un alto artigianato, dove a vincere erano la freschezza e l’immediatezza della pennellata. L’altro elemento tecnicamente decisivo per la manifattura degli stendardi era la velocità della pittura. Occorreva dipingere mentre la tela era ancora umida, altrimenti il colore non si sarebbe incorporato bene sulla tela e si sarebbe distaccato facilmente in seguito. È facile intuire come per queste commissioni fossero ricercati soprattutto maestri di consumata esperienza e provata abilità, anche indipendentemente dalla qualità del loro stile. Velocità e mestiere facevano premio sullo stile in opere che non avevano poi un costo eccessivo date le finanze molto modeste dei committenti. Ma nella cittadina umbra l’apparizione del giovane prodigio aveva cambiato perfino il proverbiale buonsenso di un organismo burocratico come il consiglio della Confraternita. L’autoritratto di Raffaello, ascrivibile a questi stessi anni, ci mostra un giovane dalla bellezza quasi femminile, i tratti regolari e addolciti dall’adolescenza protratta nel fisico a dispetto della maturità del mestiere [Fig. 49]. Con questo ragazzo dai lineamenti delicati come quelli di un principe, la Confraternita stipulò un accordo per lo stendardo [Figg. 2 e 3], affascinata da quella rara dolcezza e dalla prodigiosa abilità mostrata nella pala Baronci. Nel 1500, anno in cui viene generalmente datato con buone ragioni lo stendardo, Raffaello esordiva così nella pittura compendiaria con uno degli stendardi più belli delle confraternite dell’Umbria. Su una faccia rappresentò la Trinità con ai piedi della croce san Rocco e san Sebastiano, mentre sull’altra faccia dipinse la creazione di Eva, con un 44

vecchio Padreterno che furtivamente estrae una costola a un Adamo addormentato in un quieto paesaggio primaverile2. Anche in quest’opera le citazioni paterne sono molte, soprattutto nel paesaggio azzurrato che si apre al centro della scena della Trinità con l’orizzonte luminoso che allontana l’occhio tra rocce scabre. Gli alberi, che in netto contrasto con il cielo limpido spingono in alto le chiome vaporose su tronchi sottili ed elastici, sono una cifra più volte rintracciabile nei dipinti del Santi. La velocità del dipinto si avverte nell’assenza di dettagli troppo elaborati, ma nella creazione di Eva le foglie di fico che coprono la nudità di Adamo sono così puntuali da costituire un rinnovato omaggio alla cultura fiamminga del padre. Ciò che però stupisce in quest’opera, nonostante il suo pessimo stato di conservazione, è la qualità altissima, degna di un dipinto su tavola. Dettagli curati come i filamenti della barba dell’Eterno, le luci d’oro che ricamano gli orli dei vestiti e perfino le foglioline degli alberi sono più vicini a una pala d’altare che a uno stendardo da portare in processione. Pur di mostrare il proprio talento, Raffaello mette in campo una qualità pittorica esagerata, al punto che lo stendardo potrebbe collocarsi prima della pala Baronci e dichiararsi come il cavallo di Troia attraverso il quale il giovane pittore, incaricato di un’opera di poca importanza, ne fa un abbagliante e seducente capolavoro. La pastosità degli incarnati visibile nel volto del Padreterno, il realismo con cui scava e ombreggia l’arcata sopracciliare, i colori ricercati come il lilla del perizoma di Cristo sono una novità assoluta nella pittura umbra e smentiscono definitivamente la leggenda vasariana di un discepolato presso il Perugino. Se in questa che possiamo considerare tra le sue prime opere Raffaello si dichiara già pittore maturo, stilisticamente lontano dal maestro umbro, non c’è davvero motivo di supporre un apprendistato successivo. La vicinanza allo stile del Perugino, di cui 45

Raffaello farà sfoggio in alcuni dipinti posteriori, va invece motivata con finalità concorrenziali, come vedremo. Il successo della pala Baronci attirò su Raffaello anche l’attenzione di un’altra potente famiglia di Città di Castello: i Gavari, che erano legati ai Baronci da strettissimi rapporti e che non persero tempo nel tentativo di emulare i concittadini, commissionando al giovane maestro una pala per la cappella di San Girolamo, adibita a cappella funeraria del capofamiglia, il banchiere Domenico, nella chiesa di San Domenico [Fig. 4]. La cappella, già riccamente decorata con un arco scolpito di pietra serena sorretto da due colonne corinzie, aspettava solo un quadro all’altezza del talento dell’architetto e del prestigio del committente. Non sembrò vero ai ricchi e oculatissimi principi della finanza locale di avere a disposizione un esordiente di tale capacità, ancora abbordabile a costi contenuti e che li avrebbe celebrati degnamente, senza dovere aspettare la disponibilità di maestri lontani, che frettolosamente esaudivano le richieste delle piccole città provinciali lasciando per lo più alla bottega l’esecuzione dei dipinti. Ora c’era quel ragazzo prodigio ed era opportuno sfruttarne al massimo il talento. Del resto, in un piccolo centro come Città di Castello le famiglie in grado di celebrarsi con una importante pala d’altare si contavano sulle dita di una sola mano, e Raffaello fece presto a stringere quella mano. La committenza stimolava il progresso della sua arte e l’età dinamica in cui era entrato gli assicurava una rapida evoluzione dello stile, sicché non perse occasione per mostrare con questo dipinto che era ormai in grado di competere con i maestri più affermati dell’Italia centrale. Con Perugino in particolare, che dovette conoscere in questo periodo perché nel dipinto iniziano a farsi sentire, accanto a tracce sempre più stemperate della pittura paterna, gli influssi del suo stile. Del resto il Perugino era il maestro che aveva in mano il mer46

cato umbro e le possibilità di Raffaello di accedere alla fetta ricca di quel mercato passavano per una competizione diretta con lui: una competizione che doveva mostrare ai committenti che il ragazzo era in grado non solo di emulare la composizione aggraziata e armonica con cui il Perugino aveva sedotto i borghesi dell’Italia centrale, ma anche, impresa non secondaria, di aggiungere qualcosa di nuovo e di maggiormente attraente a quello stile. Lo sguardo dolce e femminile di Raffaello, la fisionomia fragile di un principe allevato negli ozi, come ce lo mostra il ritratto del 1506 conservato agli Uffizi di Firenze3 [Fig. 50], nascondevano in realtà un competitore inesorabile, capace di cogliere perfettamente le questioni essenziali della professione e di elaborare le strategie vincenti per imporre la propria egemonia. Il soggetto commissionatogli, una Crocifissione, si prestava perfettamente a questa sfida radicale. Era l’immagine più antica, la più cara alla devozione cristiana e perciò stesso la più codificata nella tradizione occidentale, che racchiudeva il dramma della fede e che doveva essere capace di commuovere e salvare, di indurre alla preghiera ma anche di suscitare ammirazione per la sua raffinata eleganza, per la compostezza degli atteggiamenti, per la bellezza dei panneggi. In uno schema fisso che non prevedeva in genere più di cinque figure, inclusi gli angeli in volo, si condensava la capacità figurativa di una tradizione millenaria. L’occasione doveva essere colta in pieno, il successo del giovane e ambizioso pittore dipendeva dalla competizione con il vecchio maestro che da decenni ormai regnava incontrastato sulla scena umbra, fiorente e aggiornata al punto da poter competere da vicino con quella fiorentina e quella veneziana. Raffaello doveva creare un’opera che avrebbe lasciato in ombra il vecchio Perugino, senza però staccarsi troppo dal gusto ormai consolidato nel suo pubblico proprio dalla maniera dolce e sfumata del maestro di Città della Pieve. 47

Il meglio della tecnologia della bottega di suo padre doveva essere utilizzato nel dipinto commissionato dalla famiglia Gavari. Scelse con molta cura sei assi di pioppo stagionate a perfezione, così da non creare nessun movimento a contatto con l’umidità delle colle di preparazione. Le legò in senso verticale in modo da raggiungere al centro l’altezza molto considerevole di due metri e ottantatré centimetri, mentre la larghezza massima raggiungeva i centosessantasette centimetri. Sulle assi così giuntate stese in molte mani successive uno strato di gesso mescolato a colla. Aspettava ogni volta che lo strato asciugasse e poi lo radeva con una lama molto affilata in maniera da ottenere una superficie via via più liscia e smaltata come quella di un guscio d’uovo. Dopo aver creato un consistente spessore di gesso e di colla che attutiva le differenze di livello delle assi sottostanti, passò all’imprimitura, una impermeabilizzazione liquida che rendeva meno assorbente lo strato di gesso e faceva scivolare i pennelli senza ostacolo. Stese un velo di olio di lino mescolato a bianco di piombo, che con l’olio si legava benissimo, a un giallo di stagno e a polvere di vetro molto fine, un espediente cui soltanto in pochi ricorrevano per rendere il fondo traslucido e diminuirne ancora di più la permeabilità avvicinandolo a una lastra opaca. La presenza del pigmento giallo rivela che Raffaello preferiva dipingere su un fondo già leggermente colorato per smorzare i contrasti tonali provocati dal bianco troppo accecante del gesso e della biacca. Il giallo facilitava quell’accorpamento pastoso dei colori, quella delicata fusione delle campiture su cui già stava lavorando da anni. Quando la tavola fu pronta, si segnò con l’aiuto degli assistenti e di uno stilo molto appuntito le linee della grande croce che compartisce la scena. In quel modo, la tavola aveva un ordine geometrico in cui poteva collocare le figure. I cerchi del sole e della luna, a simmetrica distanza dalla croce, furono tracciati con compassi. Passò poi al disegno pre48

paratorio delle figure, tracciando a mano libera con un segno nero i loro contorni sul fondo. Solo la sua mano dotata poteva riportare il disegno sul fondo senza l’aiuto di uno spolvero, segno dell’eccellenza raggiunta nella pratica del disegno4. Dopo che lo schema della tavola fu completo, con le sagome nere collocate al loro posto, iniziò la pittura del cielo, per il quale stese un primo strato di azzurrite e biacca, il bianco di piombo che doveva fungere da supporto alle velature successive. Aveva intenzione di utilizzare il pregiato lapislazzuli. Per un banchiere della portata del Gavari non poteva certo accontentarsi di meno di una gemma frantumata. Ma anche per un banchiere e un grande maestro il lapislazzuli, indispensabile a dare profondità traslucida al cielo, era un pigmento troppo costoso, ed era meglio aiutarlo preparando il fondo con un colore meno caro. L’azzurrite faceva al caso. Si cavava da un minerale molto diffuso in Germania e aveva un bel colore celeste, benché in certe condizioni virava verso il verde, come accadde nel coro di Assisi dove i cieli sconvolgenti di Cimabue divennero verdi per l’effetto dell’alterazione del minerale. Prudentemente Raffaello stese un fondo di azzurrite mescolato al bianco, il tutto mescolato a olio di lino e di noce. Quando l’olio fu asciutto e stabilizzato, il cielo fu completato con una velatura del prezioso lapislazzuli, intensificato man mano che si saliva verso l’alto per lasciare all’orizzonte un chiarore di pura luce mattutina. Le velature di lapislazzuli saturarono gradualmente la parte alta della pala, che divenne corposa e lucida come uno smalto. Il mantello che copre la Vergine interamente, alle spalle del san Girolamo inginocchiato, abbandonò il consueto blu per tentare una trasparenza variata sui toni porpora. Per avere un colore raffinatamente setoso, che potesse ricordare le stoffe tessute nella vicina Firenze e indossate dai regnanti di tutto il mondo, Raffaello stese una prima mano di blu con l’azzurri49

te, coprendola poi di velature trasparenti ottenute mescolando il rosso vermiglione alle lacche più fredde. Nessuna tempera avrebbe permesso di sommare le trasparenze e le composizioni ottiche delle velature a olio sovrapposte. L’effetto all’inizio dovette essere di un viola purpureo, anche se con il tempo i pigmenti si sono ingrigiti. Le ombre furono tratteggiate con pennellate corpose di lacca mescolata con il nero, in maniera da non perdere il tono della porpora sottostante. Anche per il vestito di san Girolamo, oggi virato al grigio, furono utilizzate lacche rosse pregiate mescolate all’azzurrite e al bianco. Eliminando il bianco dall’impasto, le ombre del vestito sono tratteggiate con lacca e azzurrite, senza il nero che avrebbe intorpidito il colore. La stoffa acquista una profondità impalpabile fasciando il corpo del vecchio santo. In quel delicato viola pallido Raffaello accese per contrasto la fiamma rossa della sciarpa annodata in vita. Il vestito di san Giovanni Evangelista è un vero capolavoro di rosso cremoso. Un primo strato di vermiglione e lacca di chermes (quella ottenuta schiacciando la cocciniglia indiana) è rivestito successivamente dalla sola lacca traslucida, a cui nelle ombre è aggiunta una piccola quantità di nero. La tecnica sapiente della lavorazione dei pigmenti e dei leganti soccorreva una visione fantastica e una composizione rigorosamente equilibrata. Del resto, nella composizione iconografica i margini creativi dell’artista erano molto contenuti e la cura dei dettagli, insieme alla preziosità da gemma rara del dipinto, poteva fare quella differenza vincente che l’artista stava cercando. I pigmenti poveri come le terre sono molto scarsi nella pala, se ne trovano tracce nella croce mescolati al vermiglione e al nero. Perfino il paesaggio fa largo uso di giallo di stagno e verdigris. Anche nella ricercatezza e nella preziosità dei pigmenti, la pala doveva essere in tutto degna di un banchiere e non poteva mancare la profusione dell’oro in lamina, benché la moda recente delle pitture avesse di50

chiarato desueto l’uso troppo «pacchiano» di grandi quantità di oro. Il valore della pittura si andava sempre più misurando non già con la preziosità fine a se stessa di materiali costosi come l’oro, ma con il genio degli artisti. Tuttavia Raffaello non rinunciò all’oro nel globo del sole e all’argento in quello della luna e nell’iscrizione sulla croce, ma soprattutto nelle lumeggiature, oggi poco visibili, che impreziosivano il drappo che ricopre Cristo e le ali degli angeli. Ma non rinunziò neppure al tossico e meraviglioso giallo di arsenico, l’«orpimento», con il quale tratteggiò i raggi del sole per dargli una lucentezza d’oro e una morbidezza di stesura che con la lamina metallica non avrebbe mai raggiunto. La pala manteneva un perfetto equilibrio tra la tradizione tecnologica e iconografica della pittura borghese del Quattrocento e la nuova avventura in cui Raffaello e gli altri artisti rinascimentali si stavano calando. Questo equilibrio, che già innovava inesorabilmente la tradizione, è ancora più comprensibile nella composizione e nel disegno delle figure. Il grande, altissimo crocifisso è collocato in un paesaggio aperto, limpido e luminoso, che colora di azzurro le montagne digradanti verso l’orizzonte. Ma già il paesaggio è lontano dalle secchezze geometriche quattrocentesche e dalle stesse montagne che Raffaello aveva dipinto nello stendardo di Città di Castello. Le forme e la luce sfumano dolcemente accompagnando colline e fiumi, e il verde trapassa nel blu delle ultime sagome, che rendono infinito lo spazio scenico. La figura del Cristo è portata in alto e isolata nel cielo perché il paesaggio non interferisca con la sua centralità. La testa si inclina appena senza mostrare un abbandono definitivo di morte che gli avrebbe tolto regalità. Il corpo è abbandonato ma non sofferente, bello di proporzioni seppure ancora nervosamente calligrafico. Le figure ai piedi della croce, disposte in perfetta simmetria, sembrano assorte in una meditazione più che in una tragedia. La loro compostezza non deve 51

interferire con la contemplazione del dramma di Cristo. Esse vivono in un mondo placato, dove manca perfino il vento che agita il paesaggio sulle loro teste, all’altezza del Cristo. Un lembo della veste rossa di Cristo si arrotola agitato come le sciarpe degli angeli, nei quali è fin troppo evidente l’omaggio agli angeli e alle Muse di Giovanni Santi. Tra il modello del Perugino e quello del padre la scelta di Raffaello è abbastanza determinata: i panneggi delle crocifissioni che in quegli stessi anni Perugino stava dipingendo erano già più placati, mentre le vesti degli angeli di Raffaello si agitano con increspature metalliche che sembrano ricalcate su quelle dipinte e disegnate da suo padre. Nelle espressioni psicologiche dei santi e della Vergine si fa strada la novità più significativa di Raffaello. La ricerca di una verosimiglianza spaziale che rifugge dallo stereotipo raggiunge ottimi risultati nella posizione obliqua del san Girolamo e nell’inclinazione della testa di Maria. Un’eccellente prova di congruenza anatomica è fornita invece dalla testa in scorcio di santa Maddalena. Per contrasto con questa puntuale e complessa elaborazione delle pose e delle fisionomie dei singoli personaggi, la fisionomia del san Giovanni è talmente vicina allo stereotipo dei santi del Perugino da sembrare un omaggio intenzionalmente voluto al vecchio maestro. O, forse, un avvertimento ai suoi committenti e ai conoscitori d’arte in genere che il ragazzo era in grado di rifare come e quando voleva quelle figure aggraziate fino alla artificiosità che avevano reso famoso e apprezzato il Perugino e di rifarle perfino meglio. Rispetto a quest’ultimo Raffaello già mostra una maggiore congruenza anatomica e un più studiato trattamento dei panneggi. Non c’è incertezza nella posa di tre quarti delle figure, che Perugino faticava a collocare in maniera credibile. Molto originale è il manto di san Girolamo che cade aperto sul torace, stretto in vita da una fascia, abbandonando per 52

sempre le tuniche irreali o i cenci lacerati delle rappresentazioni precedenti. Il bellissimo panneggio della Maddalena, delicatamente costruito con lacche cangianti, è così ben arrotolato sotto la vita che raggiunge un vertice incomparabile con la pittura dell’epoca. Gli studi accurati sul panneggio davano i loro frutti e Raffaello, a soli vent’anni, già estingueva il suo debito con la tradizione umbra, pronto a passare rapidamente a un altro tipo di ricerca. La conquista più matura della pala sta nella densità sfumata del colore, nei panneggi, nella scelta dei contrasti delicati ma anche nella lucentezza delle carni, per le quali ormai l’artista non utilizzava più le terre chiare ma il bianco scaldato dal vermiglione e le lacche che sfumano impercettibilmente, creando rossori deliziosi sui visi delle giovani donne. Gli effetti nell’ambiente colto di Città di Castello furono immediati e Raffaello, appena libero dall’impegno della grande Crocifissione, fu incaricato da Filippo Albizzini di eseguire una pala con lo Sposalizio della Vergine, per la sua cappella nella chiesa di San Francesco sempre a Città di Castello. Era l’occasione per una nuova, questa volta aperta ed esplicita, sfida al Perugino.

3. SFIDARE I MAESTRI

Un buon cavallo impiegava un pomeriggio a coprire la distanza tra Città di Castello e Perugia, tanto che i due centri potevano considerarsi i mercati meglio collegati dell’Umbria. Anche le famiglie e le invidie ci mettevano pochissimo a intrecciarsi tra i boschi neri della parte più settentrionale della regione. E agli inizi del XVI secolo la committenza di 53

opere artistiche a maestri famosi, la quantità di oro e di lapislazzuli che vi erano profuse erano la maniera più elegante di misurare il successo sociale. Non era un fenomeno nuovo in Italia. Nelle città del XIV e XV secolo la committenza artistica era già diventata un gioco mondano al quale tutti volevano partecipare appena ne avevano la possibilità. Ma la novità era valutare la qualità dell’artefice più della preziosità dei materiali, fatto che generò una gara d’ingegni disputata nelle cappelle delle chiese aperte al pubblico. La capacità del committente di cogliere il talento di un artista diventava un merito che si andava a sommare a quello dimostrato accumulando ricchezza. Molti principi incaricavano i propri cortigiani di selezionare gli artisti più alla moda d’Italia, capaci di fargli fare bella figura in questa singolare competizione. Nel 1490, il duca di Milano aveva scritto al suo ambasciatore fiorentino chiedendogli di segnalargli i migliori artisti sulla piazza. Al resto avrebbe pensato lui: la nascita di un’opinione critica complessa intorno agli artisti dell’Italia centrale stava diventando un elemento di grande stimolo per lo sviluppo dell’arte e una questione destinata a espandersi nel secolo successivo con il suo seguito di dibattiti accesi e scontri di gusto più violenti di duelli all’ultimo sangue. Nella piccola Città di Castello gli Albizzini possedevano un palazzo di pietra che avrebbe fatto bella figura anche nella più grande Perugia. Il clima ferocemente competitivo, tra i committenti prima ancora che tra gli artisti, spiega perché il ricco Filippo Albizzini chiese a Raffaello di dipingere una pala con lo stesso soggetto commissionato al Perugino solo pochi anni prima, nel 1499, per un altare del Duomo, il luogo pubblico più frequentato di Perugia [Fig. 6]. Attraverso la sfida tra Raffaello e il vecchio maestro umbro per la rappresentazione dello Sposalizio della Vergine, entravano in competizione i due committenti e perfino le due città vicine5. 54

Il bel giovane ventenne aveva del falco non soltanto le penne che stringevano le code di vaio dei pennelli, ma lo sguardo lunghissimo e un volo ancora più alto. Fu impietoso in un confronto che ancora oggi sembra pensato da una mente sadica per umiliare il vecchio maestro e le boriose famiglie patrizie della vicina e potente Perugia. Albizzini aveva certamente visto la pala del Perugino e volle offrire a Raffaello la possibilità di un confronto definitivo. Sta di fatto che Raffaello trasformò la competizione in uno scontro crudele e riprese nel dettaglio la composizione del Perugino, ma rielaborandola quel tanto che bastava a ricacciare il prototipo nella lontananza goffa della pittura del secolo precedente. La scena si svolge in entrambi i casi su una piazza vastissima chiusa da un edificio classicheggiante, con le figure tutte spostate sul limite del quadro più vicino all’osservatore. Ma mentre il gruppo del Perugino si allinea rigidamente su una fila parallela al bordo della tavola, quello di Raffaello si dispone in cerchio, penetrando lo spazio in maniera molto più plausibile [Fig. 5]. Le figure del Perugino sono addossate l’una all’altra in una ressa incongrua che fa spingere il braccio sinistro della Vergine da quello destro della donna alle sue spalle. Raffaello crea intorno ad ogni figura una circolazione aerea che ne sottolinea la singolarità e la spazialità. Anche le attitudini aggraziate del Perugino sono riprese nel dipinto di Raffaello, ma portate a un livello di dettaglio e chiarezza molto più alto: il sacerdote che nel dipinto del vecchio maestro officia il rito come un palo messo a spartire la scena nell’immagine dell’artista più giovane inclina il busto per creare l’effetto di una partecipazione commossa alla cerimonia. La bellezza mai vista fino ad allora della Vergine e di un san Giuseppe incredibilmente giovane fanno il resto, rendendo la scena indimenticabile e attraente come la più riuscita rappresentazione teatrale. La Vergine ha un incarnato di rosa appena sbocciata e lo scollo curvo della veste segue sinuosamente il profilo del collo e 55

del busto, mentre in quella dipinta dal Perugino il vestito ha un bordo squadrato sul petto che lo separa dal profilo della Madonna. Tra lei e san Giuseppe non corre nessun accordo sentimentale e partecipano separatamente alla cerimonia che li unisce. Invece i due sposi di Raffaello sono entrambi emozionati per quello che stanno facendo insieme. Nella costruzione della scena urbana, poi, Raffaello mostra un precocissimo talento di architetto, che annuncia quelle che saranno le sue meraviglie romane. L’edificio rozzo e squadrato che chiude la scena del Perugino si trasforma in quella di Raffaello a un corpo a pianta centrale circondato da un portico colonnato, raccordato a quello principale da mensole curve e vistosamente arricciate. L’edificio è studiato e rappresentato come un progetto esecutivo. Perugino ha disegnato una sagoma di cartone tagliata e giustapposta senza troppa cura e senza graduare le ombre che definiscono i diversi aggetti delle modanature architettoniche. Nella sua tavola Raffaello sposta leggermente in alto il punto di vista, in maniera da lasciare spazio alla visione della piazza ampia con le tarsie marmoree convergenti perfettamente nel centro dell’edificio aperto da una porta sull’orizzonte luminoso e lontano. Le scale che seguono l’andamento poligonale dell’edificio sono minutamente disegnate con rigore implacabile e sono in giusto rapporto proporzionale con le figure che vi si aggirano. Raffaello innova anche la scena ambientandovi piccoli episodi di vita quotidiana dell’epoca. Persino il paesaggio diventa meno astratto. Scompaiono gli alberelli convenzionali, ancora presenti nella pala del Perugino, sostituiti da uno scorcio paesistico degno di un quadro di genere. Il paesaggio viene illuminato attentamente da una luce naturale, laddove Perugino non si cura troppo di graduare le ombre proiettate dall’architettura e dalle montagne. La sfida era vinta clamorosamente. D’ora in poi persino la ricca Perugia, se voleva celebrarsi, doveva ricorrere al nuovo 56

astro urbinate. E infatti di lì a poco troviamo pronto per Raffaello l’appalto per una Incoronazione della Vergine 6 (pala Oddi) [Fig. 9]. A proporglielo erano gli Oddi, una delle prime famiglie della città, per la loro cappella in San Francesco a Prato. Anche questa volta l’iconografia presentava una sua tradizione rigorosa, che aveva prodotto modelli importanti nell’ultimo quarto del Quattrocento. Ce n’è uno in particolare a cui sembra ispirarsi Raffaello per soddisfare Leandra Oddi, la committente. Si tratta dell’Assunzione della Vergine dipinta da Pinturicchio e la sua scuola nella cappella di Santa Maria del Popolo a Roma, dove gli apostoli commentano intorno a un sarcofago all’antica il miracolo della Vergine assunta e incoronata nel cielo dove appare, tra angeli musicanti e una corona di cherubini. In quegli anni Raffaello stava lavorando proprio con Pinturicchio. Il maestro, a cui era stata affidata dal cardinale Francesco Piccolomini la decorazione ad affresco della Libreria nel Duomo di Siena, si era rivolto al più giovane e prodigioso talento perché gli fornisse disegni per i dipinti, in parte arrivati fino a noi. Mostrando grande elasticità mentale, Pinturicchio non disdegnava l’aiuto di un artista giovanissimo in cui riconosceva un grande talento soprattutto ideativo. Raffaello, dal canto suo, mostrò anche in questa circostanza una intelligenza professionale che sempre di più andava rivelandosi il fondamento vero del suo inarrestabile successo, insieme ovviamente a un innato talento manuale. Proprio nella Incoronazione Oddi si mostra in pieno come la vicinanza e la competizione con i due grandi maestri umbri si andasse ormai risolvendo brillantemente a favore del giovane. Nel lavoro comune per Siena, Raffaello studiò senza dubbio con Pinturicchio i vari possibili impianti scenografici passando in rassegna i disegni conservati in bottega, quel patrimonio inestimabile che ognuno custodiva gelosamente. Tra quei disegni, osservati alla luce delle candele o del sole che filtrava dalle piccole finestre di botteghe mai troppo 57

illuminate, c’erano senz’altro anche quelli redatti per la pittura romana, con il sarcofago che spartiva la profondità del dipinto risalendo dall’angolo sinistro a quello superiore destro. La separazione tra la scena terrena, con gli apostoli che contemplano il sarcofago vuoto, e quella celeste, con la Madonna e gli angeli che separano due aree ben distinte proprio al di sopra del profondo orizzonte collinoso, dovette convincere molto Raffaello. Quello che non poteva bastargli, invece, era la secchezza dei modi degli apostoli, che egli cominciò a ripensare servendosi ancora una volta di studi dal vivo. Era perfettamente consapevole, infatti, dei limiti dell’imitazione dello stile altrui. Sapeva cosa poteva essere riutilizzato per rendere un dipinto riconoscibile e apprezzato dai committenti. Ma a differenza di quasi tutti gli altri sapeva ancora meglio cosa doveva essere riformulato e riprogettato. Con gli occhi alle pitture del Perugino e del Pinturicchio, maestri celebrati per le attitudini dolci e per la congruità spaziale, Raffaello reinventa così gli apostoli, collocandoli sì intorno al sarcofago, ma dando a ognuno uno spazio e una fisionomia individuali che catturano lo sguardo dell’osservatore. Aggiornando con lo studio dal vero le fisionomie e i gesti, recupera una freschezza inedita che si comunica perfino all’aria, senza peraltro cambiare in niente la rigida iconografia dell’Assunzione. Il valore del disegno come strumento di indagine creativa e non come registrazione di prototipi di successo è ormai ben saldo nei processi ideativi di Raffaello. Vengono studiate soprattutto le mani, che con una mimica molto espressiva ci raccontano quanto sta succedendo. Il sarcofago della Vergine è vuoto: al posto del corpo si trova solo la cintola che san Tommaso regge commosso tra Pietro e Paolo, a testimonianza del miracolo avvenuto. Gigli bianchi e rose pure bianche escono dalla tomba a significare la purezza della Vergine e rafforzano il bianco del manto di Tommaso messo proprio al centro del dipinto. Proprio in questa cornice di bianchi luminosi, dispo58

sti sapientemente ad accoglierla e valorizzarla, spunta una rosa rossa simbolo della Passione e del dolore provato dalla Vergine per la morte di suo figlio Gesù, che la incorona in cielo tra gli angeli che suonano, mimando passi di danza. Nella scena inferiore il manto bianco di Tommaso attira subito l’attenzione sull’evento. Le mani studiatissime mostrano agli altri la cintola e lo scorcio dello sguardo rivolto al cielo sintetizza da solo lo stupore e la devozione degli apostoli. I vestiti di questi hanno toni molto equilibrati tra loro, per non interrompere la corrente psicologica che unisce tutti nel commento muto dell’evento, che disegna sui volti ben caratterizzati lo stesso sentimento di commozione. La solennità raggiunta dalle figure, il loro modo di essere in uno spazio non più angusto ma libero, e la maggiore naturalezza dei panneggi sui corpi provano stilisticamente che la Incoronazione è posteriore allo Sposalizio. Infine anche qui, come nel dipinto di Pinturicchio, a completare e dare equilibrio alla scena c’è un paesaggio collinoso e fertile attraversato da un fiume, che con la sua luce azzurrina conduce serpeggiando lo sguardo all’orizzonte, al mare lontano dove il verde sfuma nell’azzurro e nell’eternità della luce spirituale.

4. PAESAGGI INQUIETI

Come molti altri pittori dell’epoca, Raffaello inseguiva il successo nelle principali cittadine dell’Umbria spostandosi alla ricerca di nuove opportunità, che in quegli anni trova principalmente a Città di Castello, dove quasi tutti i più ricchi cittadini commissionavano qualcosa al giovane ragazzo 59

alla moda. Uno degli elementi che colpisce nella sua produzione di questi anni è la calma armoniosa in cui le sue scene si ambientano. I cieli tersi non promettono che bene ritagliandosi su paesaggi rassicuranti, offerti all’ammirazione incantata degli uomini quasi non avessero altro scopo che placare gli animi. Perfino la natura vergine si arrotonda, smussa e concorda come se una mano gentile l’avesse apparecchiata per la contemplazione. Le montagne mai aspre sfumano in valli scintillanti di fioriture primaverili, attraversate da fiumi placidi che arrivano qualche volta fino a un mare lontano, luminoso come il cielo che sfiora. L’impressione è che Raffaello fosse immerso in un senso di pace, in un mondo vicinissimo al paradiso terrestre. Le cronache contemporanee ci raccontano impietosamente una realtà tutta diversa, dove l’alba del secolo nuovo arriva portando drammi devastanti invece degli auspicati benefici dell’età dell’oro presagita dai filosofi e dagli astrologi italiani. Gli uomini sembravano essersi accordati per trasformare l’Italia in un inferno e anche la natura voleva fare la sua parte. Il re di Francia Carlo VIII, che aveva ereditato uno Stato che nei secoli successivi sarebbe rimasto pressoché immutato, era stato tentato dalla facile impresa italiana: la conquista del regno di Napoli e del ducato di Milano. Poco prima dell’anno 1500 iniziò la sua discesa in Italia con l’intenzione di conquistare quanto era possibile e la scusa di passare poi a Gerusalemme per strappare il santo sepolcro ai turchi. Questi, dal canto loro, non erano stati mai così forti e vicini alla conquista dell’Europa. Nel settembre del 1500 arrivò a Firenze la notizia che i turchi avevano sconfitto l’armata veneziana uccidendo trentamila persone. Nei mesi seguenti sarebbero sbarcati in Puglia e avrebbero minacciato molto da vicino le fortezze di Piombino. Il papa, Alessandro Borgia, sembrava a suo modo del tutto all’altezza dei tempi. Aveva tentato lui stesso, con una spre60

giudicata lettera al sultano Bajazet nel luglio del 1494, di accordarsi con i turchi pur di frenare la discesa del re di Francia, che metteva in pericolo le sue ambizioni nepotistiche. Le differenze incolmabili tra le religioni, chiamate con prediche esaltanti a giustificare da quattro secoli la conquista dei mercati orientali e a sostenere lo sterminio armato di interi popoli, diventarono in quei giorni ininfluenti. La cortesia con la quale il papa scriveva al sultano, chiedendogli alleanza contro il cattolico re di Francia, rivela quanto poco valesse la religiosità della curia a confronto degli interessi familiari del pontefice: Per questi motivi il suddetto re di Francia è divenuto nostro nemico. E non solo egli avanza per catturare il sultano Djem e occupare il regno di Napoli, ma – ciò che Sua Maestà deve sapere – intende anche passare in Grecia e soggiogare la patria della Sua Altezza Celeste: dicono perfino che intenda mandare il sultano Djem in Grecia con una flotta (...). Perciò dovrai persuadere ed esortare Sua Maestà che ci sentiamo tenuti a informarla di ciò in nome della vera e buona amicizia che ci lega, affinché Ella non debba subire alcun danno.

Per parte sua il sultano non si rivelava meno prodigo di affetto e amicizia: Il sultano Bajazet Chan, per grazia di Dio grandissimo re e imperatore di entrambi i continenti d’Asia e d’Europa, all’eccellente sacerdote cristiano il signore Alessandro, per volere della divina Provvidenza degnissimo Sommo Pontefice della Chiesa Romana, la dovuta benevola riverenza, unita a un sincero favore. Dopo averti salutato come si conviene, ti informiamo, Sommo Pontefice, relativamente alla missione del vostro degno e fedele uomo, il legato Giorgio Bocciardo (...)7.

La disinvoltura con cui il papa si buttava nelle braccia del nemico secolare della Chiesa di Roma è solo un segno di quanto fosse determinato a perseguire i propri progetti politici. Alessandro Borgia compilò il più accurato catalogo di 61

scelleratezze della storia occidentale nel tentativo di dare un regno alla propria progenie, a suo figlio Cesare, conosciuto come il Valentino, che sembrava liberato da una fantasia dell’Apocalisse. Si era impadronito dei piccoli Stati dell’Italia centrale con una spregiudicatezza e una rapacità che lasciavano esterrefatti quanti avevano visto le guerre degli anni precedenti. Quando fu in Toscana nel maggio del 1501, dopo aver conquistato Faenza e Pesaro, i suoi uomini si abbandonarono al saccheggio più sfrenato e a una violenza sadica che annunciava degnamente il carattere degli anni che stavano per venire: rubando e facendo quando più mal potevano; arrandellando la testa a questo et a quello; e chi impiccavono per li testicoli acciò insegnassino la roba. (...) E più si disse che furono parecchi, peggiori che ’l diavolo dell’inferno, e quali trovando una donna con un suo fratello di circa 17 anni (...) trovato quella donna e quel fanciullo di 17 anni, come è detto, e isforzando e l’una e l’altro disonestamente, e più di loro guastando el fanciullo e lei lasciando come morta8.

Machiavelli racconterà in un apposito trattato, con lucidità, gli assassinii cui ricorse il Valentino per liberarsi di alleati scomodi o nemici pericolosi. Ma tutta la regione subì la violenza di quelle campagne di occupazioni. Lungo i sentieri verdi dell’Umbria, file di contadini, con le loro miserabili cose, cercavano riparo nelle città all’avvicinarsi degli eserciti. I campi venivano bruciati quando il raccolto non era ancora pronto. Di notte le lanterne rimanevano accese nelle case, perché neppure allora ci si sentiva sicuri dall’aggressione. Nessuno, tra l’Adriatico e il Tirreno, si sentiva più sicuro di arrivare all’anno nuovo. Le signorie locali fecero il resto, consumando in faide intestine i delitti più efferati che proprio Raffaello ricorderà in uno dei suoi capolavori meglio riusciti, la Deposizione Baglioni. Le campagne devastate dai 62

soldati dovettero fare i conti, nell’anno 1500, con un accanimento della natura che non diede tregua ai poveri uomini straziati dalle guerre. A Roma, dove il papa fu costretto più volte a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo per i torbidi fomentati dai Colonna e dagli Orsini, con una tempestività che si prestava alle più infauste interpretazioni, il giorno di San Pietro si scatenò una tale tempesta di grandine e di vento che fece rovinare parte del palazzo apostolico in Vaticano. Fu colpita proprio la sala dove stava il papa Borgia, che tuttavia riemerse miracolosamente illeso da quella catastrofe volgendo a suo favore il significato dell’incidente, che per molti era stato invece l’annuncio della collera celeste contro i delitti efferati del pontefice e della sua famiglia. Tre persone morirono accanto a lui, ma una nicchia fortuitamente creata dalle travi cadute lo preservò dalla morte. Già il giorno seguente poté rientrare con maggior vigore nella fase decisiva di quella guerra di annientamento che con suo figlio stava combattendo contro gli Stati dell’Italia centrale. A settembre piovve tanto che l’Arno straripò danneggiando tutti i territori circostanti. Ma il colpo più duro arrivò a fine novembre, quando nevicò sull’Italia centrale per cinque giorni interi. Fece tanto freddo che neppure una goccia cadde dai tetti coperti di ghiaccio per i giorni a venire. La gente si votò alla devozione e molte processioni di battenti attraversarono l’Italia con centinaia di uomini che si massacravano le reni con la disciplina di ferro. Il giorno del Corpus Christi del 1501 il re di Napoli Federico, minacciato dal re di Francia, dai turchi e da un papa che se avesse potuto avrebbe occupato anche il suo regno, organizzò una processione ciclopica che seguì scalzo per tutto il percorso in segno di devozione. Alla fine, disperato si rivolse ai napoletani annunziando la sua decisione di chiedere aiuto ai turchi contro i propri nemici: i napoletani sostennero con entusiasmo quella eventualità, tanto forte era l’esasperazione verso i regnanti d’Italia. 63

L’Italia, insomma, era vicina al collasso e il terrore assediava ognuno. Anche Città di Castello, dove Raffaello continuava a dipingere i suoi cieli tersi, il 5 gennaio del 1502 subì l’abbraccio mortale del Valentino, che vi compì uno degli assassinii più efferati strangolando Vitellozzo Vitelli e un suo fratello prete. E perfino la corte di Urbino, che nel ricordo di Raffaello rimaneva il luogo di ogni armonia e felicità, era caduta vittima della furia del figlio del papa. Sembrava non esserci luogo dove si potesse immaginare di trovare scampo. In mano ai Borgia la città eterna, dove nei decenni precedenti ogni artista aveva ambito lavorare, pareva diventata il luogo più infame del mondo. Le sciagure che battevano l’Italia non scoraggiavano Alessandro e la sua corte. Nonostante l’età, i suoi appetiti sessuali e le sue fantasie perverse lasciavano sbalordite le corti italiane, più ancora del ricordo di quelli dei grandi imperatori romani. Negli stessi giorni nei quali Raffaello consegnava al Baronci la sua prima importante pala d’altare, ad esempio, a Roma il papa e suo figlio trovavano un modo molto originale di festeggiare la vigilia di Ognissanti. Il maestro di cerimonie del papa, Giovanni Burcardo, integerrimo tedesco, annotava sul suo diario la cronaca di una festa che avrebbe fatto presto il giro dell’Italia attraverso i dispacci degli ambasciatori presenti a Roma: La sera si è svolto nel palazzo apostolico, nella camera del duca Valentino, un banchetto cui hanno preso parte cinquanta meretrici oneste, quelle dette cortigiane. Finito di cenare, hanno danzato con i servitori e con altre persone che si trovavano lì: da principio vestite, poi nude. Sempre dopo cena i candelabri con le candele accese che illuminavano la mensa sono stati posati per terra: dove sono state sparse delle castagne che le meretrici, nude, hanno raccolto passando fra i candelabri sulle mani o sui piedi. Questo alla presenza e sotto lo sguardo del Papa, del duca e di sua sorella Lucrezia. Infine sono stati mostrati mantelli di seta, sandali, berretti e altri doni che sarebbero stati assegnati a quanti avessero 64

avuto il maggior numero di rapporti carnali con queste meretrici. Con le quali in quella stessa camera, sotto gli occhi degli altri, ognuno ha fatto quel che ha voluto: dopo di che sono stati distribuiti i premi ai vincitori9.

La coreografia erotica mostra una raffinatezza che difficilmente altri principi e altri spiriti dissoluti avrebbero raggiunto in seguito. I candelabri poggiati sul pavimento provvedevano a rendere meglio visibili le natiche e la natura delle donne, offerte agli ospiti in piena fioritura dalla posizione carponi. L’eccitazione era incontenibile e la promessa del premio finale rendeva ancora più appassionato e furioso l’amplesso consumato sui pavimenti tra i piedi del papa e della sua famiglia. Qualche dubbio rimane riguardo alla possibilità di vigilare sull’effettiva quantità di rapporti carnali avuti dagli ospiti più vigorosi e più dotati. Meno scandalo provocò la presenza di Lucrezia e di suo fratello in quella sala riempita dalle grida strozzate degli orgasmi e dagli odori della carne eccitata. Lucrezia era stata già posseduta dal padre e dal fratello e non era nuova all’eccitazione di giochi tanto particolari. Tutta Italia lo sapeva, e lo ricordò quando il papa la impose al recalcitrante erede del duca di Ferrara Ercole d’Este, che per convincere il figlio Alfonso dell’utilità di quel matrimonio lo minacciò di sposare lui stesso Lucrezia, che dopotutto aveva certamente molte sorprese in serbo per il terzo marito. Come potessero i committenti di Raffaello separare la loro devozione dal comportamento del capo spirituale della Chiesa di Roma rimane ancora oggi uno dei grandi misteri del Rinascimento italiano. Sta di fatto che niente di quanto vediamo nei contemporanei dipinti religiosi di Raffaello porta il segno della brutalità di quegli anni. L’artista continuava a celebrare la devozione dei signori più ricchi delle città umbre, rassicurandoli con le sue immagini di perfetto equilibrio che esisteva ancora se non la certezza, almeno la 65

speranza di un mondo di grazia dal quale venisse cancellato ogni segno della brutalità del tempo. Lungo uno di quei sentieri persi nel verde delle montagne marchigiane, la sera del 21 giugno 1502 una nuvola di polvere si sollevò per la cavalcata forsennata di cinque cavalieri che speronavano a sangue i cavalli per raggiungere al più presto le terre dei Gonzaga a Mantova e mettersi lì in salvo. Li guidava Guidobaldo da Montefeltro, figlio di Federico ed erede del ducato di Urbino, patria di Raffaello che vi tornava appena poteva per seguire le vicende della famiglia e della proprietà. Aveva addosso soltanto il giubbone, come notò subito l’elegante Isabella d’Este. E non perché facesse caldo, ma perché era dovuto scappare con furia dal palazzo per sfuggire a uno di quegli attacchi fulminei e spietati del figlio del papa che generalmente non lasciavano prigionieri sul campo e che per maggior sicurezza si concludevano con l’eliminazione fisica dei regnanti a cui espropriava i possedimenti. A raccontare il fatto con toni secchi e drammatici fu proprio Isabella d’Este, cognata della moglie di Guidobaldo Elisabetta Gonzaga, a cui era legata da profonda amicizia e con la quale si era illusa di poter trascorrere un’estate di felicità nella tenuta fresca e accogliente di Porto Mantovano. L’arrivo del fuggiasco cancellò ogni speranza di pace anche per quell’estate: «Nui quà siamo stati un tempo assai quieti et contenti, dove ritrovandosi dal Carnevale fin adesso la Ill.ma Ma Duchessa de Urbino (...) habiamo cercato conservarsi in consolatione, augurandoli molte volte V.S. per compimento del piacer nostro. Ma essendo novamente successo lo inopinato et nefando caso de la perdita del Ducato de Urbino, e la gionta quà in giupone del S. Duca cum quattro cavalli solamente, quale per essere stato con tradimenti acolto a l’improviso con gran periculo ha servato la vita, siamo remasti tuti tanto atoniti, tanto confusi et tanto adolorati che nui medesmi non sapiamo dove se retrovamo (...)»10. 66

Isabella d’Este aveva tutti i motivi del mondo per trovarsi imbarazzata oltre che addolorata. Suo marito era il fratello di Elisabetta, moglie del fuggiasco e sua amica sincera per tutta la vita. Ma d’altra parte il suo stesso fratello, Alfonso d’Este, aveva appena sposato la sorella del Valentino, Lucrezia Borgia, con la quale era dunque imparentata in un intreccio spaventoso di affetti e politica che soltanto con una intelligenza raffinatissima si poteva governare. Appena tre mesi prima, lei ed Elisabetta erano state le protagoniste più eleganti delle cerimonie nuziali tenutesi a Ferrara per il matrimonio tra la bella Lucrezia e il suo sfortunato fratello, deriso dalle corti di tutta Europa per avere accolto nel suo letto la concubina del papa e del duca Valentino. Erano state cerimonie difficili, perché in tutte le corti si sapeva della disinvoltura con cui Lucrezia aveva solcato i letti dei suoi familiari maschi e di molti altri ancora, in una sequenza di matrimoni conclusasi con l’assassinio dell’ultimo marito a opera del Valentino. Quale sposa, dai tempi degli Atridi che imbrattarono di sangue le mura odorose di mirto della reggia di Micene, poteva vantare una dote altrettanto infausta? Eppure le necessità dinastiche ebbero la meglio non soltanto sulle resistenze di Alfonso d’Este, ma anche sulle corti italiane, che si avviarono a quelle nozze stando ben attente a non lasciarsi sfuggire nessuna facile ironia sul candore della sposa. Per molto meno, si poteva essere privati di un regno e della vita11.

5. LA FINE DEL TERRORE

Nella tarda primavera del 1502, dunque, Urbino si trasformò in una città svuotata del legittimo potere e abitata dal terrore 67

del figlio del papa, che tutti gli italiani avevano imparato ormai a conoscere perfettamente. Come stupirsi che Raffaello si allontanasse sempre più dalla sua città natale e da quella casa paterna dove nessuno più l’aspettava, se non lo zio che continuava scrupolosamente a curare i suoi interessi economici? Nel 1502 lo troviamo a Siena con Pinturicchio. Nonostante la giovanissima età, il talento di Raffaello per il disegno, a cui suo padre l’aveva iniziato già da ragazzo, si imponeva anche sull’esperienza del vecchio artista: i suoi schizzi rivelano quanto effettivamente fosse avanti nell’organizzazione di uno spazio tridimensionale in cui il racconto sembrasse più naturale. Una delle scene certamente progettate da Raffaello rappresentava Enea Silvio che accompagna Domenico Capranica al Concilio di Basilea [Fig. 7]. Entrambi sono mostrati in una cornice grandiosa con cavalli in movimento visti di scorcio. Pinturicchio però trasformò il modello nell’esecuzione del dipinto, semplificando la complessa spazialità del giovane [Fig. 8]. Ma la scena in cui c’è traccia dell’intervento di Raffaello risulta ad ogni modo la più riuscita, grazie alla concezione di una profonda spazialità diagonale che si distanzia dalle altre confinanti dove irrimediabilmente le figure si dispongono frontalmente allo spettatore allineate su registri sovrapposti. La collaborazione col Pinturicchio si estese anche a una predella per una pala nella chiesa di San Francesco, sempre a Siena. Erano tempi così turbolenti che il lavoro doveva accettarsi dove capitava. Nel gennaio del 1503 Raffaello era di nuovo a Perugia, dove doveva fronteggiare una controversia con un creditore che rifiutava di pagargli un mulo. Poco distante da Perugia, in quegli stessi mesi, cominciò a dipingere la Crocifissione per Domenico Gavari, che per la sua bellezza lo proiettò nelle grazie della committenza più raffinata e colta dell’Umbria. 68

Mentre continuava la sua fulminante ascesa verso la ribalta artistica umbra, nell’autunno del 1503 Raffaello fu certamente raggiunto dalle notizie provenienti da Roma, destinate a cambiare radicalmente la prospettiva del secolo nascente. Anche se l’armonia e la misura erano state fin dall’inizio cifre caratteristiche dei suoi dipinti, nelle due opere portate a termine tra la seconda metà del 1503 e la prima del 1504, lo Sposalizio della Vergine e l’Incoronazione della Vergine, emerge, forse solo per caso, una visione particolarmente felice, una ritrovata speranza nella vita a venire. A cambiare la prospettiva del secolo era arrivata la morte di Alessandro VI, con la quale il terrore dei Borgia si dissolse come nebbia primaverile. Nessuno avrebbe mai immaginato che la violenza e la prepotenza di quella famiglia si potessero trasformare nel giro di pochi giorni nella miserabile disfatta di un uomo in fuga braccato da un numero infinito di nemici. Il venerdì 18 agosto 1503 il papa morì nel suo letto in Vaticano dopo sei giorni di agonia. Il suo cadavere non fece in tempo a raffreddarsi che gli uomini di suo figlio, trattenuto anche lui a casa da una malattia, irruppero a palazzo con i pugnali sguainati minacciando i cardinali presenti di consegnare subito le chiavi della cassaforte. Sotto gli occhi atterriti dei cinque cardinali, che avevano assistito il papa nel trapasso, portarono via i gioielli e molte migliaia di ducati. Appena gli uomini del Valentino lasciarono il palazzo, fu la volta dei servitori, che saccheggiarono tutto quanto trovavano negli appartamenti. Il segretario pontificio Giovanni Burcardo annotò con il suo zelo teutonico: «non hanno lasciato nulla, se si eccettuano i seggi pontificali, qualche cuscino e le tappezzerie delle pareti»12. Fu lo stesso segretario a vestire il papa morto e a prepararlo per le esequie con i paramenti rossi e cremisi poggiati su cuscini di broccato d’oro. Non andò nessuno, nessun cardinale, nessun nobile. Le mura vaticane non riuscirono a trattenere il caldo che accelerò la decomposizione del cadavere. 69

A stento la salma del papa fu portata nella Sala del Pappagallo, sopra un tavolo coperto con un tappeto antico. Si rimediarono due torce, ma nessuno fu disposto a vegliarlo. Il cadavere rimase solo per l’intera notte, e solo l’intervento armato della guardia convinse i principali esponenti del clero romano a presentarsi il mattino successivo per scortare il feretro fino alla basilica di San Pietro. Su una lettiga coperta da un drappo viola e dalle insegne papali quel che rimaneva di Alessandro VI, del «Toro» di Spagna, fu accompagnato da un corteo disordinato formato più che altro dai servi e dai penitenzieri, che arrivavano in tutto a portare centoquaranta torce. Arrivati in basilica, non si poté recitare neppure il Non Intres perché non si trovava il libro. Si intonò un canto improvvisato, subito coperto da una rissa tra i servitori per rubare le torce. La chiesa venne rapidamente abbandonata e il segretario costretto di persona, con l’aiuto di due uomini, a spostare il feretro vicino alle scale, dietro una grata di ferro, per poterlo meglio difendere da quanti fuori dalle porte aspettavano di poter entrare per oltraggiarlo. Nessuno vegliò il cadavere quella notte. Il corpo si gonfiò mostruosamente e si annerì. Ci fu chi vide affiorare in quella orribile trasformazione il male che impregnava Alessandro Borgia e con il quale aveva sommerso l’Italia. Chi invece, con maggior senso pratico, vi vide l’effetto del veleno che lo stesso figlio avrebbe somministrato al padre. Durante tutta la malattia il Valentino si era tenuto lontano dal palazzo, evitando accuratamente perfino di chiedere informazioni sulla salute del padre, che a sua volta si era disinteressato di quella del figlio. Tra i due, più che un legame di sangue, sembrava esserci soprattutto un progetto dinastico. Il giorno successivo i falegnami approntarono la cassa funebre, e siccome le misure non corrispondevano vi fecero entrare il cadavere a forza di pugni e di calci. Fu l’ultimo viatico del popolo romano a quello spagnolo arrogante che ave70

va sprofondato la città nel delitto e nell’infamia pur di conquistare uno Stato alla propria discendenza. Con quella scena grottesca si chiudeva il regno di uno dei papi più odiati e certamente più temuti della cristianità. Ma i problemi, per Roma e per l’Italia, rimanevano aperti. L’elezione di un papa considerato universalmente buono e generoso, il cardinale Piccolomini, sembrava volere esorcizzare le paure più che fronteggiare la crisi. E l’illusione durò solo qualche giorno. Il nuovo papa, eletto nel settembre del 1503, morì nell’ottobre successivo e il popolo di Roma, pur di potergli baciare i piedi nella basilica di San Pietro, sfidò un diluvio torrenziale che rese ancora più triste il commiato da quella speranza. Fu solo a questo punto che si fece avanti l’uomo destinato a portare la Chiesa fuori dalla crisi: Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, sessant’anni vissuti con l’energia di un generale. La sua opposizione ai Borgia lo aveva costretto a un lungo esilio in Francia, ma appena tornato in Italia chiarì subito a tutti la sua ferma intenzione di recuperare allo Stato della Chiesa i territori e la dignità temporale dilaniati dai Borgia13. La sua contrattazione politica fu tanto scaltra che il conclave della sua elezione è ricordato come il più breve della storia del papato. La notte del 31 ottobre 1503 Roma aveva già un nuovo papa, che l’avrebbe governata con la fermezza di un condottiero. L’elezione di Giuliano della Rovere provocò l’immediata restituzione del ducato di Urbino a Guidobaldo da Montefeltro. Iniziò, per quel ducato, una nuova stagione felice, segnata dalla protezione del nuovo papa. La moglie di Guidobaldo, Elisabetta Gonzaga, si era rassegnata all’impotenza del marito, ma indirizzò le sue energie alla costruzione di una corte che da quel momento in poi sarebbe tornata a essere uno dei centri della civiltà intellettuale italiana. Non sembrava pesarle molto l’astinenza sessuale, anche se il rimpian71

to per una vita non vissuta nella sua pienezza non l’abbandonò mai, facendole chiedere almeno una volta a sua nipote Eleonora sul letto dove era stata appena deflorata se davvero erano tanto belle quelle gioie a cui aveva rinunciato per tanti anni. Ma se la rinuncia all’amore carnale poteva sublimarsi in un affinamento dello spirito, le esigenze dinastiche richiedevano la designazione di un erede. La sorella di Guidobaldo, Giovanna di Montefeltro, aveva sposato un fratello del papa, Giovanni della Rovere, nominato, com’era abitudine, prefetto di Roma. I due avevano un figlio, Francesco Maria, che fu scelto come figlio adottivo di Guidobaldo ed Elisabetta per ereditare il ducato di Urbino. Con questa parentela il ducato veniva a trovarsi sotto la diretta protezione del papa e la famiglia dei Montefeltro conquistò presto un ruolo di primo piano sulla scena politica e mondana d’Italia. Raffaello, spinto ormai dal suo talento riconosciuto, non meno che dalla circostanza incredibilmente fortunata, non tardò a giovarsi di questa nuova condizione dei suoi protettori. Ma non pensò di tornare a Urbino, dove le commissioni importanti scarseggiavano perché il ducato era minuscolo. La sua ambizione lo spingeva a progetti di maggiore sostanza e la sua intelligenza gli consigliava il percorso giusto per arrivare ai suoi obiettivi. Nel 1504, a soli ventuno anni, aveva già in mente di diventare il miglior pittore d’Italia. Le condizioni c’erano tutte. Era stato un ragazzo prodigio, si era avvalso degli insegnamenti elargitigli in età precoce nella bottega del padre, i traguardi con cui aveva debellato la concorrenza umbra erano sotto gli occhi di tutti. Ma sapeva che era di altro che aveva bisogno. Suo padre gli aveva insegnato che l’arte è frutto di studio e apprendimento, oltre che di un naturale talento. E c’era un luogo dove l’arte stava progredendo a balzi furiosi grazie a una serie di coincidenze che ne avevano fatto la culla di una rinascita paragonabile a quel72

la dell’antichità. Quel luogo era Firenze, e Raffaello comprese al momento giusto che le sue ricerche non potevano ormai che confrontarsi con quelle dei massimi artisti fiorentini, ancora tutti vivi e tutti presenti miracolosamente sulle sponde dell’Arno nell’autunno del 1504. Raffaello chiese dunque a Giovanna Feltria della Rovere una lettera di raccomandazione che gli aprisse le porte della città bellissima e crudele, dove sembrava in corso una gara all’eccellenza a cui lui non poteva mancare. Giovanna era la persona giusta per patrocinare quell’esordio fiorentino. Il giovane ambizioso non voleva perdere tempo nelle difficoltà di un inserimento in un mercato feroce come quello del capoluogo toscano. E Giovanna lo aiutò volentieri. Il primo ottobre del 1504 scrisse direttamente alla massima autorità della città, il gonfaloniere a vita Pier Soderini, per raccomandargli quel ragazzo di straordinario talento. Sarà lo esibitore di questa Raffaelle pittore da Urbino, il quale avendo buono ingegno nel suo esercizio, ha deliberato stare qualche tempo in Fiorenza per imparare. E perché il padre so, che è molto virtuoso, e è mio affezionato, e così il figliolo discreto, e gentile giovane; per ogni rispetto io lo amo sommamente, e desidero che egli venga a buona perfezione; però lo raccomando alla Signoria Vostra strettamente, quanto più posso; pregandola per amor mio, che in ogni sua occorenza le piaccia prestarli ogni aiuto, e favore, che tutti quelli e piaceri, e comodi, che riceverà da V.S. li riputerò a me propria, e lo averò da quella per cosa gratissima, alla quale mi raccomando, e offero14.

La lettera racconta con immediatezza lo stato dell’artista e le ambizioni dei suoi vent’anni. Una raccomandazione così calorosa e così potente presupponeva il rapporto di alta considerazione in cui il padre Giovanni era stato tenuto alla corte di Urbino dalla famiglia regnante, ma rivela anche che a Urbino si erano tenuti perfettamente al corrente dei conti73

nui successi del ragazzo, che in quegli anni mantenne i rapporti con la corte producendo alcuni quadretti di carattere raffinatamente cortigiano, come il Sogno del cavaliere, oggi alla National Gallery di Londra, il San Giorgio che combatte contro il drago del Louvre e Le tre Grazie del Musée Condé di Chantilly: quadretti raffinati nei quali l’artista scioglieva in grazia decorativa le sue conquiste pittoriche, per destinarle a una corte che andava sperimentando in quegli anni il valore della grazia intesa come una virtù di civiltà e intelligenza intorno a cui costruire i rapporti di convivenza tra uomini e donne, signori e cortigiani. Il destinatario della lettera, Pier Soderini, prova inoltre che Raffaello aveva ben chiaro che a Firenze, repubblica del denaro e del diritto, la scena artistica era egemonizzata in quel momento dalle committenze pubbliche. Fu certo lui a suggerire la strategia di approccio alla «Prefettessa», come veniva chiamata Giovanna, sapendo che se la introduzione del giovane fosse partita dalle massime autorità pubbliche non avrebbe trovato ostacoli tra gli artisti locali. Persino quell’accenno alla discrezione e alla gentilezza del giovane, in aggiunta al suo talento, sembra già a questa data identificare una di quelle qualità mondane che avrebbero contribuito non poco al suo successo. Discreto, gentile, giovane: così appariva Raffaello agli occhi dei principi e così apparve sulle sponde dell’Arno di lì a qualche giorno anche ai mercanti e ai banchieri di solide fortune che intrattenevano rapporti con la corte urbinate.

CAPITOLO 3

IL PERIODO FIORENTINO

1. NELLA CITTÀ DEI GIGANTI

Nel 1504 Firenze era in piena fioritura. Usciva dalla crisi apertasi con la cacciata dei Medici e cercava di consolidare la sua posizione nella geografia italiana rafforzando quelle istituzioni repubblicane che consentivano la migliore gestione delle enormi ricchezze prodotte dalla sua borghesia imprenditoriale, ben decisa a non lasciarsi travolgere dalle mire egemoniche di gruppi oligarchici o addirittura di esponenti di una sola famiglia. La sperimentazione di regole di governo allargate si manifestava anche nella politica culturale della signoria, che celebrava con il talento dei propri artisti la condizione di unicità e solidità che era riuscita tra alterne fortune a mantenere nei tre secoli precedenti. Non c’era ricchezza che non si mostrasse a gloria dell’intera città attraverso palazzi e chiese che non avevano confronti nel resto dell’Italia: neppure nella città eterna, che pure poteva vantare glorie vecchie di millenni. I palazzi più belli erano ormai tutti costruiti. L’ultimo e il più grandioso era 77

stato il palazzo degli Strozzi, gonfio nelle bugne giganti scolpite nella bionda pietra arenaria cavata intorno a Firenze, la cui costruzione era stata seguita con apprensione dall’intero popolo fiorentino. La competizione tra le famiglie ricche si rifletteva in quella tra gli architetti che le servivano, e i modelli dei nuovi edifici si avvicinavano sempre di più alla gentilezza e alla regola classica che il più illustre dei fiorentini di adozione, Leon Battista Alberti, aveva sfiorato nel raffinato palazzo costruito per i Rucellai poco lontano dalla chiesa di Santa Maria Novella, dove pure aveva progettato una facciata che sposava la ricerca antiquaria con la geometria medievale. La mole portentosa del Palazzo Vecchio e della sua torre altissima segnava il perno della città, intorno a cui ruotavano le scelte politiche e quelle destinate a rappresentarle con le immagini. Nella piazza l’aggiornamento del gusto si coglieva nelle nuove sculture che la andavano decorando proprio in quei mesi su delibera di una commissione voluta dalla signoria, che raccoglieva i migliori artisti del momento. Così, nel maggio del 1504, anche la collocazione del David di Michelangelo Buonarroti in quella piazza diventò il segno di una volontà politica che assumeva l’arte come strumento di identificazione collettiva. Da almeno un secolo, la pittura aveva fatto a Firenze i suoi progressi più evidenti, arrivando alla rappresentazione credibile di uno spazio controllato dalle rigide regole della geometria prospettica. Le ricerche della nuova generazione di pittori, Andrea del Sarto e Filippino Lippi, oltre ai fratelli Ghirlandaio e a Fra Bartolomeo, si concentravano ora sulla costruzione di una nuova monumentalità della figura umana, collocata in uno spazio sempre più vicino a quello naturale. Tutto ciò era noto a Raffaello, che aveva avuto modo di ammirare i dipinti mobili degli artisti toscani già in Umbria e nelle Marche, oltre che nei suoi soggiorni senesi. Ma quando mise piede a Firenze stava succedendo qualcosa di ancora 78

più straordinario: qualcosa che non sarebbe mai più accaduto in nessun’altra parte del mondo per molti secoli ancora. La signoria di Firenze aveva commissionato la decorazione delle pareti della Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Vecchio, il cuore del potere politico cittadino, a due artisti che si erano nettamente distaccati da tutti gli altri e che per la prima volta si affrontavano in una competizione diretta: Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti, i due giganti dell’arte italiana. Leonardo aveva cinquantadue anni quando il giovane Raffaello lo incrociò nelle strade di Firenze. Aveva lineamenti bellissimi, il naso sottile sulla bocca regolare con il labbro inferiore svogliatamente sporgente e un fisico poderoso che tradiva una forza atletica del tutto fuori del comune. Camminava per le strade sempre circondato dalla premura dei suoi allievi e dallo sguardo ammirato e inquieto dei concittadini, ma ad ogni modo camminava per le strade come un’apparizione e così la fermò un fiorentino del suo tempo: «Era di bella persona, proportionata, gratiata et bello aspetto. Portava uno pitocco rosato corto sino al ginocchio che allora s’usavano i vestiri lunghi: haveva sino al mezzo il petto una bella capellaia et inanellata et ben composta»1. Ma l’eccentricità del suo abbigliamento era solo l’ultima delle stranezze che impressionavano i fiorentini. Mercanti molto pratici, avevano imparato a convivere con uno spirito tanto intelligente quanto irrequieto e ad amarlo e rispettarlo, riconoscendolo come un maestro di vita e di sapienza nonostante un processo pubblico per sodomia che nel 1476 aveva rischiato di portarlo al patibolo e ne aveva comunque increspato l’immagine. Non che la sodomia fosse rara a Firenze. Ma quello che era raro a quei tempi era la sfrontatezza e la libertà con cui Leonardo la esibiva insieme a un gruppo di amici. Lo zelante accusatore anonimo che sentì il bisogno di avvertire l’autorità che il bel Jacopo Saltarelli, apprendista orafo, offriva generosamente la freschezza dei suoi diciassette anni sodomiz79

zando uomini più maturi, come il ventiquattrenne Leonardo di Ser Piero da Vinci, non manca di sottolineare che Jacopo «veste nero» e anche il suo cliente più abbiente, «Lionardo Tornabuoni dicto il teri; veste nero»2. Il colore nero era molto difficile da ottenere nelle stoffe, che andavano scurite gradualmente sovrapponendo diverse tinte. Per la laboriosità legata alla tintura le stoffe nere erano quindi considerate di grande pregio e identificavano l’estrema raffinatezza di chi le portava. All’anonimo cittadino dovette sembrare ignobile non tanto la pratica sodomitica, quanto quell’ostentata eleganza che a essa si accompagnava in una città che non esibiva mai un lusso eccessivo per non disperdere le risorse che la rendevano libera e invidiata. L’eleganza di uomini come Leonardo e l’originalità del suo stile di vita potevano così apparire minacciose alla disciplinata comunità fiorentina. Fin dal suo esordio Leonardo era apparso come una figura incomprensibile ai più. Il biografo che meglio di tutti lo conobbe per averlo frequentato in vita, Paolo Giovio, lo descrive con una secchezza che ancora oggi rimane la migliore difesa contro il mito che circondò il personaggio mentre ancora viveva e che lo ha reso incomprensibile dopo la morte: «nato a Vinci oscuro borgo toscano, Leonardo aggiunse grande splendore alla pittura col sostenere che non può esercitarla rettamente chi non si sia impadronito di quelle scienze ed arti liberali che sono ancelle alla pittura (...) nulla ritenne più importante delle regole dell’ottica, di cui si servì per osservare esattamente e minutamente le leggi della luce e delle ombre (...). Aveva anche imparato nelle scuole di medicina a sezionare con fatica disumana e ripugnante i cadaveri dei malfattori, allo scopo di riuscire a dipingere le varie riflessioni e tensioni delle membra per forza di nervi e di giunture seguendo fedelmente l’ordine della natura»3. Le parole di chi lo conobbe e che ebbe i migliori strumenti per capirlo delimitano un fragile recinto intorno all’inaffer80

rabile figura dell’artista che fu filosofo e scienziato al tempo stesso. L’approccio scientifico allo studio naturale finalizzato alla pittura, alla scultura e all’architettura non era una novità. Lo raccomandavano i capi bottega e cominciarono a raccomandarlo tutti i grandi trattatisti del Quattrocento, dall’Alberti al Filarete. Ma per Leonardo lo studio della natura e delle sue leggi diventò ben presto un istinto cannibale che divorò gran parte del suo talento: uno studio empirico ossessivo e sterminato, che purtroppo non si poté avvalere di una formazione sistematica almeno in geometria e aritmetica, discipline che avrebbero potuto aiutarlo ad approdare con maggiore concretezza alla fine dei troppi progetti iniziati. Così, quando intorno al 1482 arrivò a Milano per offrirsi a Ludovico il Moro con il beneplacito di Lorenzo il Magnifico, declamò le proprie eccellenze e le proprie conoscenze in un catalogo che nulla ha a che vedere con l’arte come generalmente veniva intesa i quegli anni: Ho modi di ponti leggierissimi e forti, e atti ad portare facilissimamente, et con quelli seguire e alcuna volta fuggire li inimici (...) ho ancora modi di bombarde commodissime e facili a portare; Et con quelle buttare minuti sassi a similitudine quasi di tempesta: E con il fumo di quella dando grande spavento al’inimico (...)4.

Solo alla fine del catalogo, con un rapido accenno, Leonardo faceva riferimento ai servigi che avrebbe potuto rendere in tempi di pace, se mai fossero arrivati, in quell’Italia che con la discesa degli eserciti stranieri scopriva la guerra e le nuove devastanti tecniche belliche come il vero fondamento della storia moderna: «Item condurrò in scultura di marmore, di bronzo et di terra, similiter in pictura, ciò che si possa fare a paragone di ogni altro, e sia chi vuole». Perso nella grandezza e vaghezza dei suoi pensieri, Leonardo non poteva vantare una vasta produzione artistica. An81

che lì, a Milano, nella pittura non riuscì a fissare con continuità una visione all’altezza della straordinaria perfezione delle sue comprensioni ottiche. Ma pure fece abbastanza, tanto da essere riconosciuto come portatore di uno stile inarrivabile. La prova ce la forniscono le molestie con cui Isabella d’Este, persecutrice inesorabile degli artisti famosi e indubbiamente il più raffinato e agguerrito critico e collezionista d’arte del Quattrocento, lo assediò per avere qualcosa di sua mano, accordandogli una libertà che non era disposta a concedere ad altri artisti. Con determinazione inesorabile, attraverso i suoi agenti o scrivendo direttamente a Leonardo, tra il 1500 e il 1504 Isabella reclamò almeno un disegno se non un dipinto del maestro, mostrando di aver colto l’essenza particolare della sua arte prima di molti altri. Nella lettera del 14 maggio del 1504 la marchesa di Mantova implorava «uno Christo giovenetto de anni circa duodeci, che seria de quella età che l’haveva quando disputò nel tempio, et facto cum quella dolceza et suavità de aiere che haveti per arte peculiare in excellentia»5. Dolcezza e soavità del sentimento, che si stempera nell’aria che avvolge i suoi dipinti: questo il centro della poetica leonardesca che non era sfuggito alla marchesa e che non sfuggirà a Raffaello, il quale ne sarà stordito al punto da imprimere al proprio stile un nuovo balzo in avanti. Nella città che aveva fatto del disegno il massimo strumento di espressione, Leonardo, inseguendo gli studi ottici, aveva cancellato il disegno per sfumarlo in una trasparenza aerea, in una delicatezza chiaroscurale che diventava immediatamente sentimentale e che era capace di esprimere quei moti dell’anima che erano il vero obiettivo della sua pittura. Gli studi di ottica lo avevano convinto che era la luce, la sua incidenza sui corpi, a determinare la percezione prima ancora della visione delle cose. E avvalendosi delle nuove tecniche di pittura a olio tentò di riprodurre quella percezione complessa e inafferra82

bile che affascinava gli uomini. Mentre altri artisti cercavano di cogliere un frammento credibile di realtà fissando un gesto o un’attitudine nel disegno, Leonardo aveva studiato così bene l’anatomia, la meccanica e la diffusione della luce naturale da poter ricreare la natura sulla tela assoggettandola alla narrazione di un sentimento o di uno stato d’animo. La sua ricerca era incentrata sulla disposizione dei corpi nello spazio, sulla loro rotazione e intersezione: di volta in volta poteva trattarsi di cavalli, Madonne con sant’Anna e Bambino, architetture e paesaggi [Fig. 51]. Quando Raffaello arrivò a Firenze, Leonardo era impegnato in due imprese molto lontane tra loro: l’espugnazione della città di Pisa, che si era ribellata a Firenze, e la rappresentazione sulla parete di Palazzo Vecchio della battaglia di Anghiari, durante la quale le truppe fiorentine si erano scontrate con quelle milanesi riportandone una vittoria fulminante che nella mitologia cittadina si voleva accreditare come la vittoria della ragione e del controllo emotivo sulla furia bestiale dei nemici. Per espugnare Pisa Leonardo studiava il modo di deviare il corso dell’Arno, e la credibilità di cui godeva presso l’amministrazione cittadina conferma in quanta considerazione fossero tenute le sue ricerche ingegneristiche e militari. Per rappresentare la battaglia sulle pareti intonacate senza sottostare alla schiavitù dei tempi fulminei dell’affresco, stava invece sperimentando una pittura a olio che potesse incorporarsi a un intonaco isolato con materiali resinosi come la pece greca e la biacca, di cui ci rimangono i conti dei generosi approvvigionamenti fatti a spese dell’erario fiorentino. Le due imprese ebbero un esito diversamente disastroso. Pisa non capitolò. La pittura fu realizzata solo in parte e sotto gli occhi del gonfaloniere Soderini, disperato per la fiducia che aveva ingenuamente riposto nell’artista, iniziò un rapido degrado. Intanto nel 1506 Leonardo si allontanò di nuovo dalla città per recarsi a Milano dietro nuovi miraggi e poi a 83

Roma, alla corte papale, per ripartire ancora, spinto dall’irrequietezza fino all’ultimo giorno e raggiungere la Francia, dove morì nel 1519. Quel poco di Battaglia che era riuscito a fissare sul muro del Palazzo Vecchio, e soprattutto il cartone preparatorio furono però sufficienti a suscitare una nuova straordinaria ondata di ammirazione verso l’artista. Stimolarono anzi nuove ricerche iconografiche, a partire dalla naturalezza con cui Leonardo aveva fatto scontrare cavalli e cavalieri in un furore vivo, mai prima rappresentato. Quello che Raffaello certamente vide e ammirò di Leonardo furono anche due opere che Firenze custodiva gelosamente: il Ritratto di Ginevra Benci e il cartone con la Madonna, sant’Anna e il Bambino con un agnello, che fu esposto nella chiesa della Santissima Annunziata nel 1501 provocando una interminabile processione di ammiratori che spingevano e sgomitavano per sostare di fronte a quei sorrisi inafferrabili6. A Firenze anche l’ultimo conciatore di pelli aveva imparato a guardare e commentare l’arte come e meglio di un dotto studioso o di un elegante cortigiano. Raffaello fu talmente colpito dai cartoni di Leonardo che ne iniziò a imitare la tecnica disegnando cartoni a matita nera con lumeggiature, come nella Santa Caterina [Fig. 52] e nella Belle Jardinière, il dipinto più vicino a Leonardo nella produzione raffaellesca [Fig. 53]. Leonardo aveva usato massicciamente la matita nera e la sanguigna a partire dagli anni Novanta, perché questa tecnica gli permetteva di sfumare le ombre meglio della punta metallica e della penna, che tracciavano segni netti sul foglio. Sfumando le matite con i pennelli umidi, con i polpastrelli o con pezzette di lino, otteneva trapassi chiaroscurali impercettibili, mai visti prima, molto vicini ai vapori atmosferici che lo avevano incantato da bambino tra le forre e le gole dei torrenti intorno al suo piccolo paese di Vinci. Questa rivoluzione tecnica fu colta immediatamente da Raffaello. Quei soli cartoni, insieme alla Madonna del Fiore (la Ma84

donna Benois oggi all’Ermitage di San Pietroburgo) [Fig. 10], furono sufficienti a chiarirgli perfettamente quale dovesse essere il punto di partenza della sua nuova pittura. Anche il ritratto della Gioconda, o gli studi preparatori per esso, impressionarono radicalmente Raffaello, che nei suoi ritratti di donna riprese l’impostazione obliqua data da Leonardo alla figura femminile contro un paesaggio aperto. Nelle sue opere Leonardo faceva compiere ai suoi personaggi gesti che non erano in nessun rapporto con l’osservatore, né con i «cataloghi» fissi della tradizione iconografica. Anche Raffaello cominciò a spiare l’intimità della Madonna con il Bambino, non più messi in posa davanti all’osservatore ma colti in un gioco reciproco in cui dialogavano serenamente ignorando di essere osservati. Nella Madonna dei Garofani [Fig. 11], il gesto del Bambino che ferma con la mano sinistra quella destra della Madonna, per strapparle il fiore, è il gesto naturale che un neonato compie per sottrarre un oggetto alle mani materne. La sacralità dell’immagine viene celebrata attraverso la sua perfezione e non più attraverso attributi di astratta regalità. La Madonna e suo figlio abbandonano il trono sacro per traslocare nella camera di una casa borghese dove il pittore ne spia l’emozione. Nel Ritratto di Ginevra Benci [Fig. 54] Leonardo avvia l’esplorazione di un altro elemento tipico e straordinario: il sorriso inafferrabile della donna, che si affaccia con tutta la sua complessità sulla scena dell’arte italiana. Non più mortificata da una devozione che diventava cifra decorativa, seria e rigida sottomissione dello sguardo, la Ginevra di Leonardo, prima di una galleria di donne inquietanti e intelligenti, appare ambigua per svelare un frammento di mondo che per primo l’artista intuì nella femminilità liberata dal pregiudizio religioso. Non sappiamo in che modo arrivò a penetrare questa femminilità, lui che amava gli uomini e che riteneva addirittura ripugnante il rapporto carnale con le donne. Ma certamente 85

riuscì a coglierne i tratti enigmatici dell’animo anche grazie all’amore di quella madre naturale da cui Ser Piero, suo padre, l’aveva lasciato allevare nei primi anni di vita. Quel sorriso inquietante, quella finestra che si cominciava a spalancare su un mondo tenuto fin ad allora prudentemente chiuso all’arte italiana sarebbero tornati nei volti della Madonna e di sant’Anna così come li conosciamo dalle più tarde elaborazioni del cartone dell’Annunziata, approdate poi al dipinto oggi conservato al Louvre, dove Maria e sant’Anna sono unite in un’intesa sentimentale che lascia fuori tutto il resto del mondo. Sembra quasi che Leonardo desse il maggior corpo possibile a questo sentimento dipingendo donne lontane da quelle reali, con una fisionomia specialissima: fronte alta, naso dritto e zigomi larghi; tutte identificate nella propria anima, motivo per il quale diventano ancora oggi immediatamente riconoscibili come donne partorite dal solo Leonardo e da nessuna madre. Anche quest’occhio acuto, che aveva penetrato le cortine sociali che relegavano le donne dietro maschere prive di vita, era stato colto dalla marchesa Isabella d’Este, allora trentenne nel pieno della sua fioritura fisica e intellettuale. Era una donna accompagnata da una rara autoconsapevolezza, che le dava molti vantaggi sui contemporanei rendendola singolare ai loro occhi. In un’altra lettera chiese a Leonardo una Madonna «devota e dolce come è il suo naturale». Purtroppo per lei, lo fece in un momento in cui Leonardo, perso dietro alle sue fantasie scientifiche, aveva addirittura in odio la pittura, come le scrisse amaramente da Firenze il suo agente Pietro de Nuvolaria: «Insumma li suoi esperimenti matematici l’hanno distratto tanto dal dipingere che non può patire il pennello»7. La luce sfumata, l’anatomia perfetta, i muscoli e la carne rigorosamente indagati, servivano a Leonardo per rappresentare sentimenti che gli uomini avevano potuto cogliere sol86

tanto nell’esperienza quotidiana e mai avevano visto rappresentati in pittura. La ricerca della perfezione del sentimento divenne quasi una ossessione, che gli impedì di portare a termine molte opere e che lo obbligò a lavorare ad altre per decenni. Ma Raffaello era abbastanza svelto per cogliere e isolare del delirio leonardesco gli aspetti che nella sua pittura poteva sviluppare praticamente, quelli in sintonia con la propria sensibilità creativa. Leonardo, da parte sua, fu certamente felice di incontrare quel ragazzo dal collo lungo e dai lineamenti aggraziati di un efebo greco, che portava un cappello nero e basso e un giubbone anch’esso nero, da cui lasciava uscire intorno al collo un filo di lino abbagliante per smorzare il contrasto della blusa con l’incarnato pallido e i capelli castani che ricadevano a ciocche morbide fino al collo. La sua bellezza era certamente, agli occhi di Leonardo, lo specchio della sua armonia interiore, poiché era convinto che un aspetto disordinato fosse inconciliabile con un’intelligenza armoniosa capace di penetrare i segreti della natura e della mente umana come doveva fare l’artista. Michelangelo, però, sembrava creato apposta per smentire le sue convinzioni e rimaneva per Leonardo un enigma impenetrabile, per il contrasto tra la sua rozzezza fisica e il deliquio aggraziato che riusciva a imprimere ai volti di marmo. Invece il ragazzo appena arrivato dall’Umbria era forse la prova migliore delle convinzioni che per tutta la vita avevano sotteso a quella cura maniacale del corpo che impensieriva i fiorentini. Raffaello si calò con entusiasmo nel mistero di quell’uomo e di quell’artista, ritenendone un’impressione fortissima che sarebbe riaffiorata pochi anni dopo durante la decorazione della Stanza della Segnatura in Vaticano, quando darà a Platone il volto magnifico di Leonardo. Tra le Madonne dipinte nel periodo fiorentino, la Madonna dei Garofani, oggi alla National Gallery di Londra, ripercorre fedelmente il modello dell’artista più anziano, pur semplificato e adeguato al87

la poetica espressiva del più giovane. Raffaello coglieva la corrente sentimentale dei dialoghi leonardeschi tra madre e figlio, coglieva la naturalità del gesto e la carnalità dell’espressione e le riversava nella grazia più contenuta del suo disegno e nella sapienza raffinata del suo cromatismo. La sua luce dorata scaldava i capelli e le carni di madre e figlio, schiarendo i contrasti che Leonardo aveva addensato nella camera cupa della sua Madonna Benois. La luce di Raffaello è il primo indizio dei mutamenti impostigli dal contatto con l’arte del più vecchio maestro. La chiara, semplice luce dell’Umbria diventava finalmente la luce creativa e intellettuale del tardo Umanesimo fiorentino. Era come se Raffaello avesse avuto bisogno di ripercorrere minuziosamente la via di Leonardo per appropriarsi dei suoi risultati. Dopo quell’incontro, era ormai pronto per fare della Madonna con Bambino una nuova icona: un’icona dolce e naturale che diventerà in seguito, perfino troppo forzatamente, la sua cifra riconoscibile agli occhi di contemporanei e ammiratori. Del resto Raffaello aveva un vantaggio speciale nella penetrazione dell’animo femminile e nella complessità del mondo femminile in generale. A differenza di Leonardo, che non si era mai congiunto alle donne, e di Michelangelo, che non volle mai neppure accostarle, Raffaello amava le donne anche di una passione carnale, che lo seguirà in tutta la sua vita. La comprensione della femminilità diventò così subito espressione di una profonda ammirazione, di un desiderio mai completamente trattenuto, che recuperava le donne da quell’atmosfera irreale e sentimentale in cui le aveva collocate Leonardo per riportarle in una dimensione di sensualità tutta terrena, che darà i suoi frutti nelle opere romane di qualche anno posteriori.

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2. UN MONDO NUOVO

Su un piano completamente diverso si collocava l’altro gigante con cui Raffaello era destinato a incontrarsi a Firenze e poi in seguito a scontrarsi a Roma. Poco più anziano di lui, Michelangelo Buonarroti era nato nel 1475 e si era già imposto in tutta Italia con due sculture di inarrivabile perfezione, che avevano oscurato perfino gli esempi antichi: la Pietà di Roma e il David di Firenze, collocato trionfalmente di fronte al Palazzo Vecchio come simbolo del genio e della fierezza della città. Il gigantesco giovane nudo che ripone o srotola la fionda con cui ha ucciso Golia fu tra le prime cose viste a Firenze da Raffaello, che lo disegnò minuziosamente. Ma il suo interesse si rivolse anche al cartone che Michelangelo stava disegnando per il dipinto dell’altra parete di Palazzo Vecchio. In quell’opera, che doveva rappresentare la battaglia di Cascina, Michelangelo attaccava violentemente, disintegrandole, tutte le speculazioni leonardesche sul furore, i sentimenti e le attitudini, nonché l’atmosfera sfumata della nuova visione ottica. Lui era concentrato sull’anatomia maschile e sulla sua capacità di esprimere la forza e il sentimento della virilità attraverso la bellezza delle proporzioni. La sua era una visione terrificante nella propria perfezione. I giovani artisti di Firenze, appena partito Michelangelo per Roma nel febbraio del 1505, si dannarono per spiare e copiare quel cartone, tanto da distruggerlo con la loro avidità. Se non ce ne fosse rimasta una copia ritratta da Aristotile da Sangallo, oggi a Norfolk, nemmeno sapremmo qual era e com’era fatta l’opera che cambiò la rappresentazione del nudo maschile a Firenze. Michelangelo aveva lavorato gelosamente isolato nelle camere messegli a disposizione dalla signoria di Pier Soderini, 89

che nell’autunno del 1504 gli fece recapitare i fogli reali bolognesi da incollare insieme per l’immenso cartone preparatorio. Non voleva che nessuno vedesse l’opera senza il suo permesso, ma tutte le sue precauzioni furono vane. L’ammirazione e la competitività dei giovani artisti non si fermarono di fronte a niente, soprattutto dopo che si diffuse rapidamente un giudizio popolare che dava a Michelangelo la palma della vittoria su Leonardo8. Raffaello, poi, non dovette certo sfidare la legge come gli altri per introdursi furtivamente a spiare il grande cartone che raffigurava gli uomini nudi in riva all’Arno. Lui poteva contare sulla protezione di Pier Soderini, che fu uno dei pochi amici a cui Michelangelo rimase fedele per tutta la vita, ben oltre la fine del suo successo politico. Così l’inverno freddo del 1504 fu riscaldato dalla sfida tra i due giganti, di cui si parlava in ogni angolo di Firenze, intorno al fuoco e alle castagne delle bettole dove si mesceva a poco prezzo vino buono per gli artigiani e i pittori delle botteghe. Se ne parlava sui sedili di pietra addossati ai palazzi dove gli uomini di buona condizione e buona cultura discutevano di filosofia e di poesia come in una nuova Atene, aprendo la discussione a tutti e incappando qualche volta in incresciose liti tra celebrità. Lo ricorda un testimone di una di quelle dotte discussioni degenerata in lite. Il luogo era vicino al corso fresco dell’Arno, la «pancaccia degli Spini» nel quartiere di Santa Trinita. I signori discutevano di Dante e interpellarono Leonardo, che apparve con la consueta eleganza insieme ai suoi discepoli. Il caso volle che sopraggiungesse in quel momento Michelangelo, al quale Leonardo girò la domanda che il più giovane raccolse come una sfida. Ossessionato dalla paura di essere schernito, Michelangelo interpretò l’invito di Leonardo come una trappola per mettere a nudo la propria ignoranza e partì violento con le parole, proprio come stava facendo con il disegno per fare a pezzi l’anziano maestro e la riverenza di cui era circondato in città. 90

Invece di commentare Dante, aggredì Leonardo rinfacciandogli i suoi insuccessi artistici: «dichiaralo pur tu che facesti uno disegno d’uno cavallo per gittarlo in bronzo e non lo potesti gittare et per vergogna lo lasciasti stare»9. Senza tentennamenti, Michelangelo opponeva al vecchio filosofo la realtà cruda della sfida tecnologica su cui aveva scelto di giocare la sua partita di artista nuovo. Per fortuna il sole primaverile che sciolse l’ultima neve dell’inverno del 1505 dissolse come in una magia anche tutta la tensione dello scontro tra i due. Michelangelo volò a Roma chiamato da Giulio II, e a marzo era già nella città eterna. Leonardo ritornò nel 1506 in quella Milano dove aveva speso già quindici anni inseguendo imprese più vicine alla sua passione. La città, svuotata dei due antagonisti, si avviava a cogliere i frutti difficili del loro scontro. Purtroppo il dipinto di Leonardo cominciò quasi subito a svanire sul muro. Lui aveva sperimentato un consolidamento dell’elaborato stucco su cui aveva dipinto, con l’impiego del calore ed era sicuro di poterlo rifare anche sulle pareti del Palazzo Vecchio. Ma quando accese il fuoco sotto il grande dipinto nella Sala del Maggior Consiglio, il fuoco riuscì a scaldare soltanto la sua parte inferiore, la pittura in alto cominciò a piangere lacrime di ogni colore, provocando quelle di delusione di molti fiorentini. E di fronte a quel fallimento, che indeboliva l’intera teoria leonardesca e la sua autorità, la chiarezza e l’essenzialità di Michelangelo, la sua concentrazione su una ricerca ossessivamente fondata sul corpo maschile sembrarono avere ragione della vaghezza e dell’immensità delle pulsioni del rivale, che dissolsero in un progetto ancora una volta irrealizzabile la sua smania di perfezionismo. Tra gli artisti che cercavano di capire quale dei due giganti avesse avuto la meglio si aggirava in città anche Raffaello, che in quel vuoto di tensione trovò lo stato psicologico ideale per alimentare la sua ricerca, libero di osservare, copiare e 91

disegnare senza l’ingombro fisico della loro presenza. Anzi, proprio seguendo quello scontro, felice di non essere ancora in gara, Raffaello cominciò ad affilare le proprie armi. Capì subito che c’era moltissimo da imparare anche da quello scultore selvaggio e geniale, che oltre al cartone e al David aveva disseminato per Firenze altre opere che si potevano studiare e ricopiare attentamente. Mentre per il giovane urbinate c’erano poche possibilità di comprendere il bizzarro iter formativo di Leonardo, per Michelangelo era più facile: in quei luoghi Raffaello poteva rifare a ritroso il suo percorso, mettendo i piedi anche fisicamente lungo la strada che lo aveva portato a quella maniera tanto terribile con cui ora lui tentava di familiarizzarsi, scoprire quali opere lo avevano segnato. Formatosi alla bottega dei fratelli Ghirlandaio, Michelangelo aveva ricevuto una speciale educazione artistica nel giardino di San Marco, dove Lorenzo de’ Medici, evocando le antiche accademie, aveva raccolto i giovani più promettenti di Firenze per ricostruire con la loro arte la fisionomia di una corte che la politica gli negava di manifestare apertamente. Il ragazzo era di carattere ombroso e solitario, anche perché aveva alle spalle una storia familiare drammatica. Discendeva da una vecchia e solida famiglia borghese, che aveva partecipato nei secoli precedenti al governo della città con grande dignità ma che era caduta in disgrazia nella generazione precedente a quella di suo padre Ludovico. Il ragazzo era stato costretto ad avviarsi alla carriera artistica, che rispetto alle sue origini borghesi appariva come un ripiego e una mortificazione sociale. Nel giardino dei Medici aveva dato prova di grande talento come scultore, ma anche di un carattere instabile e angoscioso, scappando da Firenze appena i suoi protettori ne erano stati cacciati via dopo la morte di Lorenzo. Era quindi approdato a Roma, dove in soli quattro anni aveva meravigliato la corte papale con due statue che avevano fatto gridare alla rinascita della scultura antica: un Bacco per il 92

cardinale di San Giorgio, nemico giurato dei Medici, e una Pietà per un cardinale francese, che lo aveva rivelato come il massimo scultore del tempo. Dopo esordi così straordinari la sua città lo aveva richiamato indietro affidandogli la difficile esecuzione di un David alto sei metri in un blocco già intaccato e rovinato da scultori che avevano poi abbandonato l’opera disperati. Michelangelo aveva scolpito una statua tanto straordinaria che nel 1504 i principali artisti presenti a Firenze, celebri per la loro competitività non meno che per la loro bravura, si erano rassegnati a destinare a quella scultura un ruolo di grande rilevanza pubblica e simbolica, sollevando automaticamente il giovane al di sopra degli altri maestri. Ma i capolavori michelangioleschi sarebbero stati incomprensibili a Raffaello se prima non avesse studiato sui muri di Firenze la lunga e inarrestabile rinascita della pittura moderna. Visitò in Santa Croce la cappella Bardi, dove Giotto aveva ridato peso e concretezza al corpo dei monaci che vegliano san Francesco. Passò molto tempo nella Cappella Brancacci al Carmine, per ammirare come il giovane e folgorante Masaccio era riuscito a spogliare senza vergogna un garzone fiorentino e a metterlo in paradiso, dove si muoveva con tale naturalezza che ci si aspettava di vederlo scendere da quel muro insieme alla sua Eva, disperata e pentita per aver ceduto alla tentazione del maligno. Si fermò a Santa Trinita, dove Ghirlandaio aveva risuscitato il piccolo figlio di un notaio sulla piazza di una città bianca e ordinata come un teorema geometrico. Studiò la nuova grazia di Botticelli e di Filippino Lippi, la poetica dei gesti appena accennati e dei passi lievi delle donne fiorentine. Si fermò a guardare l’Arno scintillante e placido sotto la luce di primavera e comprese da dove arrivava il soffio di vento che solleva i veli leggeri tra i loro capelli di cui sembra di sentire il profumo. Vide sotto ogni luce l’oro delle pale lasciare il posto alla preziosità dei pigmenti rari e delle lacche trasparenti, alle foglie minute portate a Firen93

ze dai quadri a olio dei fiamminghi, alle trasparenze dei vasi di vetro con dentro gli steli dei fiori. Si meravigliò della ricchezza del corteo dei Magi dipinto da Benozzo Gozzoli nel palazzo dei Medici, i signori che attraverso la ricchezza dei re orientali ostentavano la loro di banchieri. Arrivò infine alle pale monumentali dipinte da Fra Bartolomeo, con il disegno perfetto e lo sfumato che spingeva le figure di santi in un mondo ultraterreno dove soltanto lo spirito poteva mostrarsi: figure solenni che ammutolivano i commercianti e i banchieri per la gravità dei gesti e l’armonia delle proporzioni, per la lucentezza delle stoffe e la verità delle loro pieghe. Sentì la freschezza di quell’aria nitida che sembrava impregnata delle parole e delle idee salvate nei libri che Firenze aveva accolto quando i turchi avevano cacciato da Costantinopoli la saggezza di due millenni di filosofia occidentale. Dopo il primo sbalorditivo approccio guidato dall’avidità del nuovo, Raffaello ritornò poi sul suo percorso per osservare con maggior calma i dettagli e le tecniche di quella pittura. Questa volta studiò le pale e i tondi messi accanto ai ritratti perfetti dei ricchi borghesi che cercavano nuovi modi di celebrarsi. Studiò con attenzione quei dipinti ormai lontani dallo spirito devozionale, costruiti su fondi di impeccabile verismo, squarci di quel mondo che i fiorentini controllavano con i loro libri di partita doppia. La pulitezza delle sfumature, le trasparenze delle pennellate, la grandiosità degli scenari architettonici: tutto era rigorosamente ordinato dalla geometria prospettica che si insegnava nelle botteghe insieme alla mestica per le tavole e alla macinazione dei colori. Il mondo nuovo della grande pittura era tutto raccolto in quelle mura lunghe soltanto poche centinaia di metri eppure aperte su spazi immisurabili. Un mondo, per giunta, incastonato in gioielli di architettura creati da scalpelli taglienti e precisi come il bisturi dei chirurghi. I fiorentini avevano perfino reinventato gli scalpelli per tagliare meglio i loro ricami 94

di pietra. A Roma e nel resto dell’Italia, quando si voleva costruire un’architettura che fosse almeno confrontabile con il magistero antico di cui Firenze era piena di vecchie e nuove testimonianze importate dai ricchi collezionisti, si ricorreva agli scalpelli toscani. Solo a Firenze i tagliapietre avevano riconquistato il controllo sui marmi più duri fino ad arrivare a lavorare il porfido ritenuto per molti secoli inavvicinabile. Solo a Firenze si vedevano passeggiare sulle pietre grigie di arenaria subbiate o sugli accoltellati di mattoni rossi uomini avvolti in tuniche e mantelli di broccati sete e velluti, rossi, neri, gialli ma tutti tanto solenni da potere entrare senza sforzo nelle pareti dipinte dei palazzi e delle chiese, dove altri uomini in tutto simili a loro li aspettavano fermati dai pennelli, abili in una immutabile eternità che li faceva sentire il centro del mondo. Ora tutto era davanti agli occhi del giovane Raffaello e gli cresceva dentro. All’inizio trovò la via degli schizzi rapidi, in cui era già imbattibile. Ma aspettava il confronto vero. Era stato facile competere con i maestri umbri, che ripetevano stili ormai vecchi e conosciuti. Qui a Firenze ogni giorno nasceva una novità che spostava più avanti il traguardo e creava un nuovo fragile mito, all’ombra dei due protagonisti, i due terribili e inavvicinabili maestri che avevano accettato di confrontarsi direttamente nello stesso luogo e sullo stesso tema. Raffaello fece quello che il buon senso avrebbe dettato a qualsiasi giovane dotato del suo stesso prodigioso equilibrio. Travolto dalle novità fiorentine, si aggrappò alla professione rinsaldando i rapporti con la committenza umbra. Nel dicembre del 1505, quando era arrivato a Firenze già da alcuni mesi, tornò a Perugia, dove stipulò il contratto per la Incoronazione della Vergine con le monache di Monteluce, che lo avevano scelto per essere il migliore dei pittori. Ma gli influssi fiorentini si sentono ancora più forti in un altro dipinto che in quegli anni Raffaello iniziò lasciandolo poi 95

incompiuto nella chiesa di San Severo a Perugia, con la Trinità e i santi seduti sulle nuvole come in un anfiteatro. Qui la monumentalità di ogni singola figura, la spazialità e la naturalezza di gesti ed espressioni dimostrano inequivocabilmente quanto Raffaello avesse già assorbito dalla cultura fiorentina e in particolare da Fra Bartolomeo, che aveva dipinto per l’Ospedale di Santa Maria Nuova un Giudizio Universale a cui Raffaello si richiama apertamente. Queste commissioni dimostrano, nello stesso tempo, anche quanto fosse prudente la sua politica professionale, tenuta al riparo da ogni azzardo con la cura della propria fetta di mercato, abbandonata in seguito soltanto di fronte a incarichi nuovi e ben più attraenti. La bella Firenze aveva sedotto Raffaello ma senza fargli perdere la testa. Pur deciso a conquistare la città, si sforzò comunque di produrre per Perugia opere di altissimo livello, fino a quando anche nella città toscana cominciarono ad arrivare le prime commesse di Madonne e la clientela cominciò a farsi di giorno in giorno più numerosa. Dopo l’incontro con Leonardo, il tema della Sacra Famiglia si rivelò subito congeniale all’artista, che riuscirà sempre a raggiungere quella profondità psicologica che per primo Leonardo aveva tentato. Ma Raffaello era anche pronto a piegare la lezione del grande maestro a una sua particolare interpretazione dell’anima femminile, trasformando in grazia il mistero sulla cui soglia si era fermato Leonardo. Egli sposò felicemente quel mistero con la potenza plastica delle Madonne scolpite nei tondi di marmo di Michelangelo. Li poteva vedere, quei tondi, nelle case dei ricchi committenti che anche lui cominciava a servire: Taddeo Taddei, che fu intimo amico di Michelangelo e con il quale Raffaello ebbe ottimi rapporti, e Agnolo Doni, ricco banchiere e indiscusso rappresentante dei raffinati collezionisti fiorentini. Lì Raffaello poté studiare indisturbato le opere di Michelangelo: meglio non poteva andare. 96

Agnolo Doni aveva in casa anche l’opera dipinta da Michelangelo in occasione delle sue nozze con Maddalena Strozzi [Fig. 55]. Nel dipinto, l’unico conosciuto, realizzato a tempera su tavola, si mostrava una Sacra Famiglia con una Madonna in torsione che prendeva il Bambino dalle braccia di Giuseppe. Fu questa certamente l’opera del Buonarroti che Raffaello poté studiare più da vicino e con più calma, illuminandolo di sbieco per vedere il corpo delle pennellate, l’incisione del disegno, il fitto incrocio del chiaroscuro. Poté quindi scoprire come lo scorcio della giovane Madonna misurasse lo spazio interno al dipinto, trasformando una tavola piatta in un cannocchiale aperto sulla campagna. A differenza della spazialità sfumata e atmosferica di Leonardo, quella di Michelangelo si serviva di un disegno metallico che contornava la torsione dei muscoli in scorcio, in particolare delle braccia e delle gambe, una posa nuova che portava a estrema perfezione la vista del corpo in prospettiva. Raffaello prese nota di quelle ricerche così come aveva fatto con quelle di Leonardo. E, nonostante andassero in direzione del tutto opposta a quella del vecchio maestro, riuscì ad assimilarle immediatamente, avvertendone la straordinaria modernità. Lui era fatto per questo, per cogliere nel talento degli altri il seme necessario a fecondare il suo. Appena poté riusò, reinterpretandolo, quel magnifico scorcio femminile, ma senza neppure ingegnarsi di simularlo, cosa del resto inutile in un mondo che non conosceva i confronti diretti tra opere collocate a distanza di chilometri. Nella Deposizione Baglioni [Fig. 12], dipinta a Firenze in quegli stessi anni, egli riprenderà la torsione della Madonna michelangiolesca nella figura di una donna inginocchiata che si avvita su se stessa per accogliere il corpo svenuto della Madonna. Il meglio della pittura fiorentina era ormai in suo pieno controllo. Il viaggio a Firenze aveva dato frutti insperati e l’artista cominciava a lanciare le sue opere in un circuito raffina97

tissimo che lo avrebbe portato presto fino a Roma, dove la lotta per il primato sarebbe stata condotta sotto gli occhi dei massimi intellettuali dell’epoca.

3. L’ASCESA

Arrivato a Firenze con la presentazione di un personaggio tanto importante quale era Giovanna Feltria della Rovere, Raffaello non poteva rimanere a lungo escluso dal ricco mercato cittadino. Fu proprio Agnolo Doni a fornirgli l’occasione per un debutto che fu pieno di conseguenze, commissionandogli il proprio ritratto e quello di sua moglie Maddalena10 [Figg. 13 e 14]. Quello del ritratto non poteva che essere il campo vincente della sfida di Raffaello, poiché proprio nel ritratto era stato eccellente suo padre Giovanni Santi, che era arrivato a ottenere l’incarico di ritrarre per conto di Elisabetta Gonzaga la cognata Isabella d’Este e ne aveva ricevuto plausi dall’intera corte. Raffaello impostò i due ritratti tenendo bene a mente la lezione fiamminga imparata dal padre, ma anche la lezione leonardesca che aveva sfumato l’oggettività dell’apparenza corporea in una sottile introspezione psicologica. L’atmosfera dei ritratti è chiara e solare, i dettagli restituiti sul limite di una contraffazione naturale piegata all’interpretazione dei moti dell’animo. Agnolo, ancora giovane, presenta i tratti forti e marcati dell’uomo d’azione, del banchiere deciso e consapevole del proprio ruolo sociale. Il vestito è severo come lo sguardo, rafforzato dal nero profondo del corpetto di velluto fermato dai bottoni d’oro. L’orlo bianco e luminoso della camicia raccoglie la luce del cielo terso rimandandola 98

sul viso minuziosamente scrutato. Il grande naso è abbastanza regolare da diventare nobile e la bocca sottile ben disegnata dal filo di luce sul labbro superiore ha una pienezza quasi femminile. Ma il viso appare un’isola incagliata in un mare di nero, il corpetto, il cappello e i capelli ricci tenuti faticosamente a bada dalle energiche spazzolature che li mostrano doppi come frange di stoffa contro l’orizzonte, anche questi segno di una forte energia vitale che avvicina l’uomo a un albero rigoglioso. La sensazione severa che doveva esaltare la dignità del banchiere è raggiunta in pieno e appena stemperata da quel cielo azzurro e quel paesaggio tranquillizzante. Maddalena, non bellissima, si avvantaggia della ricchezza dei gioielli, del paesaggio ammorbidito da una nebbia dorata di tramonto incipiente e di un vestito straordinariamente elegante. Sulle maniche di broccato, decorato a fiori scuri e ben visibili, scivola la luce accendendo il blu viola reso ancora più profondo al contrasto con gli sbuffi bianchi della camicia che si intravede all’attaccatura con il vestito rosso. Sul fondo brillante dell’oltremare, la lacca viola delle ombre del tessuto invade tutta la metà inferiore del quadro provocando nell’osservatore la piacevole sensazione di bellezza che si prolunga sulla giovane Maddalena. I capelli castani trattengono la luce calda intorno al viso immobile e largo scendendo a sinistra fino alle spalle. Sfuggono alla rigida acconciatura sfilacciandosi contro il cielo, come se un venticello dispettoso arrivasse a dare a quella fermezza un fremito di vita. Sono proprio le ciocche, che si librano nell’aria leggere come filamenti, ad avvicinare la donna all’osservatore e a trasportarla in un mondo quotidiano in cui si stempera la profusione di ricchezza e convenienza che la sommerge attraverso veli, nastri, gioielli e broccati pesanti. In entrambi i quadri lo sguardo diventa magnetico e assume una forza nuova nella ritrattistica laica, che mai fino a quel momento aveva raggiunto vette così raffinate. La posa di tre 99

quarti della donna ricorda quella della Gioconda, ma Raffaello rinuncia allo sfumato leonardesco usando la luce per esaltare la morbidezza degli incarnati e la preziosità tattile delle stoffe. La capacità di equilibrare una visione psicologica e ideale con una effettiva somiglianza somatica rendeva i ritratti dei due coniugi una novità assoluta per Firenze. Il tratto descrittivo mediato dalla pittura fiamminga risolveva l’atmosfera spirituale di Leonardo in una visione molto più concreta, che insieme al gusto aneddotico faceva dei due dipinti una scatola magica in cui un pezzo di mondo reale domato in perfetto equilibrio ed eleganza veniva intrappolato in una cornice d’oro e sospeso per sempre sotto gli occhi del committente. Una sintesi così felice non poteva non conquistare la società borghese di Firenze, che da due secoli faceva il possibile per razionalizzare il mondo circostante e metterlo concretamente a frutto. Raffaello arrivava dall’Umbria scintillante a regalare alla città sull’Arno la perfetta misura e l’eleganza di una realtà smussata da ogni volgarità. I ricchi banchieri cominciarono a scambiare giudizi sul giovane pittore marchigiano. Se ne parlò nei conviti nuziali e in coda alle trattative nei Banchi, sotto la loggia della mercanzia e sulle panche di pietra addossate ai palazzi. Se ne parlò anche nel palazzo che il Cronaca costruì in Borgo Santo Spirito per la famiglia Dei: una ricca famiglia di mercanti che erano riusciti a comprare nella chiesa di quartiere, costruita da Ser Filippo Brunelleschi, una delle cappelle disposte con rigore matematico a fianco delle navate, in modo che ognuno dei ricchi proprietari potesse farne la vetrina del proprio status a seconda delle possibilità e del gusto. Quando Rinieri di Bernardo Dei morì nel settembre del 1506, i suoi eredi erano abbastanza aggiornati da capire che la migliore celebrazione della propria ricchezza e della propria memoria non poteva che essere affidata al ragazzo di Urbino appena ventitreenne che stava meravigliando la città in100

tera [Fig. 57]. Affidarono quindi a Raffaello una Sacra conversazione con sant’Agostino, san Pietro, san Bernardo e forse san Rinieri. Raffaello la lascerà incompiuta per scappare di lì a poco a Roma in cerca di glorie principesche, ma nell’opera che lasciò era talmente visibile la distanza che aveva messo tra lui e i maggiori artisti della città, incluso il suo amico Fra Bartolomeo, la solennità dello spazio e la grazia dignitosa delle figure, che il dipinto incompiuto venne acquistato, alla morte di Raffaello nel 1520, da un grande collezionista del tempo, Baldassarre Turini, che la collocò senza timore di critiche nella sua cappella della cattedrale di Pescia. I rapporti strettissimi che Raffaello aveva intessuto con il mondo dell’alta finanza fiorentino sono certificati da lui stesso nella lettera con cui prega suo zio di accogliere a Urbino il suo caro amico Taddeo Taddei, recatosi in città per le esequie di Guidobaldo da Montefeltro. Taddeo Taddei non era solo un ricco banchiere. Era il più potente collezionista dell’epoca insieme ad Agnolo Doni, e nel suo palazzo di città poteva esibire uno dei due tondi di marmo scolpiti dall’inavvicinabile Michelangelo Buonarroti. Il Tondo Taddei [Fig. 56] era quello nel quale il Bambino disteso sulle gambe della Madonna cercava di scavalcarle con furia infantile: un’immagine che colpirà Raffaello così tanto da ritornare continuamente nelle sue opere anche ad anni di distanza, e per la prima volta in una delle più belle Madonne del periodo fiorentino, la Madonna Bridgewater, che guarda intenerita il Bambino divincolarsi dall’abbraccio e aggrapparsi nelle sue difficili evoluzioni alla sciarpa dorata che le copre le spalle. Taddei, Doni e Dei, giovani ricchi e intelligenti, rappresentavano la migliore committenza possibile per un artista alla ricerca della perfezione. E con acume imprenditoriale Raffaello seppe tessere con loro rapporti solidi, che prescindevano dalle protezioni cortigiane con cui si era presentato a Firenze quattro anni prima, sempre guardate con un certo so101

spetto in una città di spiccate inclinazioni repubblicane. Ora l’artista controllava la ricca scena cittadina, quella dei banchieri e dei mercanti, che insieme alla ricchezza potevano vantare gusto e cultura. Conquistare la stima e l’amicizia di uomini tanto potenti non era cosa facile per un artista straniero nella città che riteneva di avere da tempo il primato dell’arte. Si può facilmente immaginare l’ostilità dei pittori fiorentini, sempre in lotta tra loro e a maggior ragione con i forestieri per mantenere il controllo del florido mercato interno. Quando più tardi Raffaello tenterà di nuovo di conquistare il mercato cittadino e le commesse dei Medici, intorno al 1516, avrà la peggio: l’appalto di San Lorenzo rimarrà cosa esclusivamente fiorentina. Ma nella repubblica di Pier Soderini e dei mercanti che esportavano in tutto il mondo il giovane immigrato risalì rapidamente la scala gerarchica professionale, fino a diventare il protagonista assoluto della committenza laica.

4. CRONACA DI UNA TRAGEDIA

Ormai protagonista incontrastato della scena fiorentina, da acuto imprenditore Raffaello non smise di curare i rapporti con l’altra «piazza» che il suo talento aveva conquistato, la ricca Perugia. Fu a lui, al giovane astro nascente, che negli anni tra il 1500 e il 1506 vennero commissionate le pale d’altare più importanti, mentre al Perugino non venne allogato quasi più niente. La Incoronazione della Vergine, commissionatagli da Leandra Oddi intorno al 1503-1504, aveva dimostrato l’estrema maturità della sua pittura e aveva annunciato, con i due putti che 102

fanno capolino tra le nuvole, nascosti dai manti di Cristo e Maria, una brillante novità, destinata a diventare di lì a poco una cifra inconfondibile dell’iconografia devozionale e laica propria dell’artista. La tenerezza di questi personaggi solo apparentemente secondari condensa da sola la straordinaria grazia che Raffaello conferisce ai suoi dipinti per commuovere lo spettatore e trasportarlo più facilmente in quel mondo di puro spirito. Dopo una prova del genere non stupisce che gli arrivasse una commissione importantissima mentre ancora soggiornava a Firenze. Ancora una volta era una donna, toccata dalla tenerezza della sua arte, a chiedergli un’opera decisiva: una donna destinata a rimanere nei secoli successivi, anche grazie a Raffaello, il simbolo della crudeltà del Rinascimento italiano, Atalanta Baglioni. Nata nella famiglia che aveva dominato Perugia nel XIV secolo, Atalanta aveva sposato giovanissima un altro Baglioni, Grifone, suo parente e figlio di Braccio Baglioni, valoroso capostipite della casata. Ma poco dopo le nozze si era vista uccidere il marito, aveva rifiutato un nuovo matrimonio e si era dedicata all’unico frutto di quell’amore precocemente stroncato, il piccolo Grifonetto, in cui sembrarono fiorire la bellezza della madre e il valore del padre. Bello come Adone, Grifonetto ebbe anche lui il dono di un amore profondo, consumato con passione ammirata dall’intera città. Sposò a diciott’anni la bellissima Zenobia Sforza e in cinque anni di matrimonio fecero tutto quanto era possibile alla natura, mettendo al mondo quattro figli. Nell’estate del 1500, l’intero casato dei Baglioni si apprestava a celebrare un altro evento importante della sua ascesa, il matrimonio di un cugino di Grifonetto, Astorre, con una bella e nobile romana, Lavinia Colonna, che il 28 giugno arrivò in città con un vestito d’oro e maniche di seta ricamate con ricchissime perle che fecero sembrare il suo viso di ragazza più splendente di quello della luna. Astorre le andò incon103

tro anche lui vestito d’oro, seguito da tutta la città, che volle celebrare quel matrimonio come un evento regale spendendo non meno di sessantamila fiorini. Le strade percorse dal corteo nuziale furono coperte di fiori freschi, di gigli, rose e fiori di mirto che mandavano un odore estenuante. Archi di trionfi furono eretti in molti punti per celebrare la moda classica a cui Perugia si sentiva sensibilissima. Ce ne fu uno che costò addirittura mille e cinquecento fiorini. Nelle piazze, per un incantesimo dell’amore, fiorirono boschetti di leccio e corbezzoli resi magici dagli arazzi tessuti in Fiandra ed esposti pubblicamente tra i fiori e gli ori degli stendardi. Persino gli edifici furono ovunque restaurati affinché gli ospiti dell’Urbe non avessero a che dire sulla accoglienza riservata dalla città a una delle ragazze più nobili di Roma. Ogni rione approntò il suo calendario di festeggiamenti invitando nei giorni successivi la coppia a partecipare a grandi festini pubblici. Il più ricco e sontuoso fu quello offerto dal rione di Porta San Pietro, in cui le vivande furono così abbondanti che i vassoi non bastarono più e fu necessario servire i cibi sulle staia utilizzate per misurare il grano, mentre nel pomeriggio si vide arrivare Simonetto Baglioni in piedi su un carro pieno di confetti distribuiti alla folla con l’aiuto di una pala. A dispetto però della felicità degli uomini, la natura volle subito annunciare un epilogo tragico di quei festeggiamenti, scatenando la notte dell’arrivo di Lavinia a Perugia una tempesta terrificante. Mentre la sposa riposava sul letto coperto da liste d’oro intrecciate a seta color rubino, la grandine cominciò a distruggere i tappeti di gigli e di rose sparsi per la città, abbatté gli archi e i festoni di frutta, inzuppò gli animali di zucchero preparati dai maestri pasticceri, gli scorpioni di pastafrolla e le rane, le lucertole e tutte le bizzarre creazioni che dovevano rendere unico quel matrimonio. Ma la mattina dopo la città intera si diede da fare per cancellare i danni, 104

e tutto fu rimesso più o meno a posto perché la festa potesse continuare nei giorni successivi. Non tutti però attribuirono quel disastro all’estate che volgeva anticipatamente in autunno. Qualcuno dei Baglioni mandò a consultare la Beata Colomba, una monaca tenuta in odore di santità che stava in un convento appena fuori le mura. Il responso fu agghiacciante, come lo era stato quello di Cassandra dentro le mura di Troia. Colomba infatti aveva visto lo sposo Astorre crocifisso e il suo corpo bruciare. Ma anche questa volta l’ottimismo degli uomini volle fare a meno della drammatica premonizione dell’indovina e le feste continuarono. Andarono avanti nello sfarzo richiesto dalla politica fino ai primi di luglio, quando gli invitati cominciarono a lasciare la città e Astorre pensò che fosse giunto il momento di godersi la sua Lavinia nelle camere di un palazzo prestatogli per l’occasione dal cugino Grifonetto, visto che il suo era ancora in costruzione. Le case di famiglia erano del resto tutte vicine, si toccavano con i tetti e si poteva passare da una all’altra con un solo salto. E i Baglioni erano troppo potenti a Perugia per mettere delle guardie alle porte. Purtroppo pensavano che le minacce potessero venire solo dall’esterno, ma come sempre quelle più insidiose e più apocalittiche venivano da dentro, dal cuore della stessa famiglia. Anche quella volta, seguendo il copione che la storia ripeteva tragicamente da millenni, i parenti meno abbienti della schiatta avevano accarezzato l’idea di potersi sostituire ai più valorosi, ai loro occhi solo più fortunati. Grifonetto, il figlio di Atalanta, era uno degli eredi diretti del più valoroso capostipite, Braccio Baglioni, e i congiurati faticarono poco a convincerlo che la guida della casata spettava a lui. Il ragazzo però era troppo felice per sviluppare un vero odio verso Astorre e gli altri cugini che lo tenevano in grande considerazione, ed era stato troppo bene educato da Ata105

lanta per sentirsi insidiato dal ruolo dei cugini e degli zii. A non tollerare dubbi era però la vera fonte della sua felicità, la passione per la bellissima moglie Zenobia, sulla quale i congiurati soffiarono il veleno devastante di una relazione con Gian Paolo, fratello di Astorre, lo sposo felice di quei giorni. Grifonetto cedette alla trama infamante e accettò di unirsi ai parenti che volevano sostituirsi ad Astorre, ai suoi fratelli e a suo padre Guido. Aspettarono che i primi ospiti abbandonassero le mura cittadine e irruppero con le armi nel palazzo di Astorre e nelle altre case dove dormivano indifesi fratelli e cugini. L’impresa era guidata dallo zio di Grifonetto, Filippo, e dal Barciglia, un uomo definito simile a una bestia nelle cronache contemporanee, che aveva già dato prova di nefandezze di tutti i tipi. A mezzanotte la porta della camera nuziale di Astorre fu abbattuta e il giovane fu trascinato nudo fuori dal letto e scannato davanti agli occhi inorriditi di Lavinia, che neppure nella Roma insanguinata dai Borgia aveva immaginato delitti così efferati. L’odio, per quanto immotivato, era tale che neppure i delitti degli Atridi, passati alla storia come i più crudeli, avrebbero potuto stare al confronto. Filippo aprì con un colpo il torace di Astorre, ne strappò fuori il cuore ancora palpitante e lo sbranò, pietrificando gli sventurati che ebbero la sfortuna di assistere al pasto più rivoltante mai consumato sul suolo italiano. Il corpo dilaniato del giovane fu trascinato in strada e l’eccidio continuò per le case. Gian Paolo però riuscì a fuggire, saltando sugli sporti dei tetti. E uscì dalla città intenzionato a riconquistarla nel più breve tempo possibile. La congiura era riuscita solo a metà, e i cittadini di Perugia si trovarono al mattino di fronte alla visione apocalittica dei corpi dei Baglioni massacrati e trascinati per strada. Gli studenti, i cittadini e lo stesso Raffaello, che con ogni probabilità si trovava in città in quei giorni, non poterono fare a meno di osservare la bellezza eroica del cadavere di Astorre, 106

sopravvissuta allo scempio che ne avevano fatto i congiurati. Ma la reazione non fu quella che i traditori si erano aspettati. Nessuno giubilò per l’assassinio di quelli che vanamente i traditori accusavano di tirannia, e presto fu chiaro a tutti che Gian Paolo sarebbe rientrato in città e l’avrebbe riconquistata. I traditori, che si affannavano a mandare in giro messaggi rassicuranti alle città alleate, sarebbero stati puniti. Atalanta fu la prima a capire quanto era successo e cosa l’aspettava. Prese con sé la nuora Zenobia, i nipoti e i figli dei parenti trucidati e di quelli sopravvissuti, e si rinchiuse nella casa fortezza di suo padre, in cima al colle più alto e meglio difeso della città. Anche Grifonetto capì l’enormità del suo gesto e della sua debolezza. Gli alleati sentirono la sua confusione e cercarono inutilmente di esaltare lo spirito vendicativo che non aveva. Il ragazzo pensò invece al perdono della madre e corse piangendo a bussare alle porte della casa dove si era asserragliata. Atalanta fu irremovibile. Non permise neppure a Zenobia di parlargli e lo maledì per quanto aveva fatto. I colpi sulla porta massiccia di legno suonarono invano sotto gli occhi dei vicini che spiavano da dietro le impannate. La giornata passò tra gli inutili tentativi dei congiurati di legittimarsi di fronte alla città e la straziante richiesta di perdono di Grifonetto, inginocchiato piangente davanti alla porta di sua madre. Alla fine il ragazzo si arrese e gridò alla madre la peggiore delle premonizioni: «Più a voi non torno, e tal volta me vorrete parlare che non porrete, matre crudele in verso del tuo scontento figliolo Grifone»11. Anche se la madre avesse acconsentito di parlare al figlio sarebbe stato troppo tardi: lui stesso sapeva ormai di essere destinato a morte certa, e neppure quel perdono tanto cercato avrebbe alleviato un destino che in una sola notte l’aveva precipitato nella tragedia. Proprio mentre andava via dalla casa di sua madre e discendeva le strade di pietra di Perugia, ripide e deserte, Grifo107

netto, stordito dalla sua stessa colpa, si imbatté in suo cugino Gian Paolo, che intanto aveva già ripreso in mano la città. Incapace di credere alla piena colpevolezza del ragazzo, o forse consapevole della magnanimità di sua madre Atalanta, che aveva messo in salvo anche i suoi figli per sottrarli alla furia dei congiurati, Gian Paolo lo allontanò con parole di disprezzo, destinandolo all’esilio. Ma i cavalieri del suo seguito, smaniosi di mostrarsi coraggiosi in vista della facile vittoria da riscuotere, pensarono di fargli cosa gradita colpendo a morte Grifonetto e lasciandolo agonizzante sul selciato, che pochi giorni prima era coperto di fiori e ora si inzuppava del sangue dei migliori giovani della città. Le urla di Atalanta, accorsa insieme a Zenobia, misero in fuga gli sgherri che volevano finire l’opera. E la folla, arrivata per godersi lo spettacolo della vendetta, si aprì muta alle due donne e al loro dolore. Atalanta abbracciò il figlio morente a cui aveva sacrificato la vita. Chi era presente fece in tempo a sentire perfino le parole della donna, che furono consegnate alle cronache dell’eccidio più crudele di Perugia: «Figlio mio, ecco la tua madre che ti vorrebbe parlare e non può più, come avevi detto». Prima che il figlio spirasse, Atalanta poté ancora perdonarlo. Ma gli chiese anche di perdonare i suoi assassini, nella speranza di mettere fine a quella faida che stava sterminando la sua stessa famiglia. Grifonetto perdonò agli assassini per avere il perdono della madre e le due donne raccolsero il corpo straziato per portarlo a casa e consolarsi almeno con gli onori funebri. Il trasporto del corpo di Grifonetto e lo strazio di Atalanta furono commoventi ben più delle figurazioni rituali della Passione di Cristo, che a Perugia ricordavano periodicamente ai fedeli il tormento che costò la redenzione. Pochi anni dopo quei fatti, e a propria consolazione, Atalanta volle rievocarli in un dipinto destinato alla cappella di famiglia, dedicata a san Matteo, nella chiesa di San Francesco 108

al Prato a Perugia. Naturalmente il soggetto non poteva che essere un compianto sul Cristo morto, da sempre espressione dello strazio materno di fronte alla morte innaturale di un figlio amato. E naturalmente l’autore non poteva che essere Raffaello da Urbino, trasferitosi nel frattempo a Firenze ma considerato pur sempre il miglior pittore dell’Italia centrale. Raffaello, poi, aveva vissuto a Perugia negli anni dell’eccidio, e aveva probabilmente assistito sia alle nozze che al loro tragico epilogo. In ogni caso ne era stato ben informato come del fatto più importante accaduto in città negli ultimi anni. Nel dipinto, eseguito poco prima del 1508 (quando Raffaello in una lettera allo zio reclama ancora pagamenti da «Madonna Atalanta»), il tema viene accordato con profonda sapienza al dramma che doveva evocare, pur rispettando le maglie strettissime di una iconografia codificata che aveva avuto nel Perugino e in Mantegna due interpreti di prim’ordine. Il principale elemento che riporta alla tragedia delle «nozze di sangue», come in seguito si tramandò l’eccidio Baglioni, è la presenza in primo piano del giovane che regge a fatica i lembi del lenzuolo da cui fuoriescono le gambe del Cristo morto. I capelli, tirati indietro dal vento, scoprono il bellissimo profilo giovanile con le labbra piene e rosse di un uomo ancora adolescente. Il collo, le braccia forti e ben formate, le calzature eleganti e la statura superiore a quella di ogni altro personaggio ne fanno un giovane nobile e il protagonista assoluto del gruppo di uomini impegnati nel trasporto. La sua presenza è una novità iconografica inspiegabile se non alla luce della vicenda privata di Atalanta. Il suo sforzo fisico sottolinea la concretezza carnale del corpo di Cristo e la tragedia umana della sua morte. Alle spalle del giovane la Vergine, in un luttuoso abito viola, bella come una regina, sviene tra le braccia di una donna dall’acconciatura sorprendentemente elaborata. Per dare enfasi perfetta allo svenimento, Raffaello si serve della torsio109

ne della ragazza inginocchiata, adattando quella già celebre dipinta da Michelangelo nel tondo per Agnolo Doni. Mentre lavorava ai ritratti di Agnolo Doni e di sua moglie Maddalena, Raffaello aveva certo fatto in tempo a copiare ogni dettaglio di quel gioiello michelangiolesco appeso a una parete della casa. Disinvolto oltre ogni possibile immaginazione, egli ne riprendeva ora la torsione della Madonna, trasformandola nella Maria che sorregge la caduta della Vergine. L’ammirazione per Michelangelo si traduce in una citazione che è un vero e proprio omaggio e nello stesso tempo aiuta Raffaello a dare risalto all’aspetto che premeva di più nel cuore della committente: il dolore della madre alla vista del corpo morto del figlio, un dolore così insopportabile da provocarle lo svenimento. Le cronache dell’eccidio non ci dicono se Atalanta svenne quando arrivò sulla soglia dell’ospedale dove il corpo di suo figlio giaceva straziato. Ma è probabile che a soccorrerla fosse stata Zenobia, bella e aggraziata come la figura del dipinto. Si può immaginare che a Raffaello arrivò l’incarico del quadro mentre era intento nell’esecuzione dei ritratti a casa Doni: la presenza del tondo di Michelangelo non poteva non lasciare tracce evidenti nel suo inconscio. Per il resto il dipinto mostra la perfetta padronanza della composizione ormai raggiunta da Raffaello alla fine del soggiorno fiorentino. Il cielo, le montagne, perfino le erbe dipinte in primo piano sono sufficientemente descrittive da appagare il gusto fiammingo coltivato dai pittori umbri e caro ai committenti di una città come Perugia. Ma la disposizione delle figure è ormai completamente fiorentina, con quella solennità e quella spazialità che Fra Bartolomeo aveva sperimentato nelle sue pale d’altare facendo tesoro delle ricerche dei grandi pittori veneziani. La mimica dei personaggi è molto espressiva senza essere teatrale e abbandona la fredda ritualità delle figure quattrocentesche. I corpi, mostrati in scor110

cio, hanno intorno sufficiente spazio, sufficiente ariosità per non risultare goffi, anche se nell’intreccio dei piedi si tradisce un’ambiguità, una difficoltà residua per il controllo dello spazio. L’accordo dei colori è perfetto, con il lapislazzuli del cielo che sfuma nell’orizzonte apertissimo fino a diventare luce incolore nel profilo delle montagne e dei paesaggi che chiudono il fondale. Il corpo del Cristo attraversa in primo piano tutto il dipinto. È esposto come corpo del dolore e dello strazio, e soltanto il colore spento dell’incarnato denuncia la morte dell’uomo ancora nel pieno della sua bellezza vitale. Il drappo che gli fascia l’inguine è rosa pallido, un colore insolito che sostituisce quello bianco rituale per dare maggiore contrasto all’incarnato già illividito dalla morte. Con scrupolo attentissimo, Raffaello mette a contrasto la carne spenta di Cristo con il colore vivo delle braccia e delle gambe dei portatori e con il rosa della Maddalena, che gli sostiene la mano priva di vita mentre il vento le spinge sul seno i capelli dorati per sottolineare la concitazione emotiva provocatale dalla vista del corpo. La sua figura è la più luminosa e segna il centro del quadro e l’apice del dramma. Il vestito grigio con le sfumature lilla è una colonna chiara insieme alle spalle scoperte accese dal rosso carminio delle maniche di stoffa leggera. Tutta quella luce addensata sul viso per sottolineare l’espressione ferita che rimanda a quella abbandonata del Cristo. Convogliati su questo punto gli sguardi attraverso la lenta pressione dei colori, dei gesti e della mimesi facciale, Raffaello con un colpo di genio introduce una duplicazione del volto abbandonato del Cristo facendolo riprendere dall’altro portatore, poco sopra la sua testa. Il suo volto, identico nella posa e perfino nella fisionomia al volto di Cristo, ne sottolinea l’abbandono amplificandolo. Entrambi sembrano implorare il cielo o cercarvi la spiegazione di tanto dolore. E seguendo il loro sguardo, quello 111

implorante del portatore e quello agonizzante del Cristo, lo spettatore risale in cielo dove l’energia e la tensione drammatica si disperdono e precipitano lentamente nel lontano orizzonte luminoso, nelle montagne e nel fiume placido che accarezzano e consolano l’anima ferita dal dramma sacro. Una corona di rossi inchioda lo sguardo sul corpo di Cristo: le maniche del vestito della Maddalena, la camicia del portatore in cui la tradizione identifica Grifonetto, il mantello di san Giovanni Evangelista che chiude sulla sinistra il dipinto. Il giallo dorato della tunica di Giuseppe d’Arimatea attraversa il dipinto dall’alto in basso come una sciabolata di luce e attira l’attenzione sulla mimica dei piedi scalzi che unisce i personaggi in secondo piano in una danza leggera, separandoli dai piedi calzati dei portatori. Il trasporto diventa così una narrazione dinamica che immobilizza lo spettatore. C’era un modello classico del trasporto di un corpo, il rilievo detto di Meleagro, conosciuto quasi certamente da Raffaello se non altro attraverso le incisioni di Mantegna che a esso si era ispirato e di cui riprende in parte lo schema, eppure, come sempre Raffaello sa appropriarsi così profondamente dei modelli da renderne invisibile l’influsso pur trattenendone il carattere sostanziale. La pala commissionata dalla dolente Atalanta arriverà a essere così celebre in tutta Italia che un secolo dopo, nel 1608, il cardinale Scipione Borghese la farà trafugare nottetempo dalla chiesa per cui era stata realizzata, promettendo ai cittadini infuriati di sostituirla con una copia eseguita da uno dei principali pittori dell’epoca, il Cavalier d’Arpino. Questi la restituirà scurita, forse ingannato dal velo di sporco che la offuscava, o forse semplicemente perché dall’Italia si era intanto ritirata quella luce limpida e primaverile che compariva anche nelle scene massimamente drammatiche raccontate dagli artisti del pieno Rinascimento.

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5. UNA PARTENZA IMPROVVISA

Mentre portava a compimento il dipinto per Atalanta Baglioni, Raffaello lavorava anche alla pala per la famiglia Dei. Era un dipinto importantissimo, sia per la committenza che per la destinazione. Infatti, diversamente dalle Madonne e dai ritratti, destinati a una fruizione privata in circoli molto esclusivi anche se potenti, la pala con la Sacra conversazione sarebbe stata esposta al pubblico in una delle principali chiese di Firenze, Santo Spirito, nel quartiere dove si andavano stabilendo i nuovi ricchi della città. Lungo la via Maggio si allineavano palazzi sempre più sontuosi e la zona cominciava a contendere al vecchio nucleo storico di là d’Arno la palma dell’esclusività. Le dimensioni del dipinto erano notevolissime: duecentosettantanove centimetri per duecentodiciassette, una vera impresa per un’opera mobile. Per come erano concepite le cappelle di Santo Spirito, inoltre, l’intera architettura avrebbe fatto da cornice alla pittura12; il che imponeva di ambientare la Sacra conversazione in una abside classicheggiante di cui si scorge appena la volta a lacunari decorata a rosette, di tipo rigorosamente antiquario, impostata su belle colonne corinzie che nella parete curva si contraggono in lesene piatte. Per questo che era uno dei suoi primi «interni» architettonici, Raffaello si ispirò quasi letteralmente al Pantheon romano, conosciuto attraverso la raccolta di disegni che circolava a Firenze e che è arrivata fino a noi con il nome di Codice Excurialensis. In questa abside, che prolunga idealmente lo spazio reale del Brunelleschi sentito ormai troppo angusto da Raffaello, è collocato al centro un baldacchino che mescola echi ancora quattrocenteschi a motivi antiquari, sempre assimilati attraverso le raccolte di disegni romani13. Sotto il baldacchino 113

c’è il trono su cui la Madonna siede con il Bambino, mentre ancora più in basso sono posti i santi e due putti cantori, che occupano il primo piano del dipinto introducendo una coinvolgente e umanissima «scena di genere» annunziata dai due putti che fanno capolino dietro Cristo e la Vergine nella Incoronazione Oddi. La presenza e il canto dei due putti regola la corrente sentimentale della conversazione sacra, che sembra voler allietare la madre e il Bambino con la grazia dei gesti e degli sguardi, tutti ammirati dalla loro felicità. In alto, infine, due angeli sospesi sollevano la tenda verde del baldacchino per rivelare la visione di Maria e di suo figlio ai santi e all’osservatore. Se lasciassero cadere la tenda, entrambi sparirebbero immediatamente dalla vista. La conversazione è quindi concepita come un’apparizione, un’elargizione precaria della grazia divina che solo la fede può rendere perenne. La narrazione si faceva solenne e monumentale, ma in più era pervasa da una grazia e una gentilezza sentimentale che lasciavano indietro quelle più fredde di artisti alle prese con la stessa ricerca, come Fra Bartolomeo, Andrea del Sarto o altri ancora fuori di Firenze. Per il dipinto Raffaello scelse la tecnica a olio, che ormai controllava perfettamente e che grazie alla sua maggiore flessibilità gli permetteva di lavorare più a lungo e contemporaneamente a più dipinti. Il quadro rimase però fermo a uno stadio non finito, anche se molto avanzato, il che ci permette di capire come Raffaello lavorava in questo periodo e di scoprire tratti importanti del suo carattere d’artista. Altri dipinti, quasi coevi e provenienti dallo stesso ambiente, ci sono pervenuti a uno stadio di finitura analogo a quello a cui ci è giunta la pala Dei di Raffaello, con cui possono essere utilmente messi a confronto. Uno di questi è la Madonna Manchester, che alcuni nel secolo scorso attribuirono a Michelangelo. Un altro è Il seppellimento di Cristo, anch’esso attribuito un tempo a Michelangelo più per la suggestione del 114

non finito a cui nell’Ottocento si legava la leggenda michelangiolesca che per prove documentarie o stilistiche di qualche evidenza. Ora, in entrambi questi dipinti il contrasto tra parti finite e parti non finite è molto più forte che nella pala di Raffaello. L’autore anonimo del Seppellimento, per esempio, lascia molto indietro alcune figure o parti di figure, portando invece a perfetto finimento altre porzioni del quadro. Del tutto diverso è il modo di procedere di Raffaello, che porta gradualmente a termine tutto il dipinto, tanto che solo un’attenta osservazione permette di appurare che alcune parti di esso sono ancora indietro rispetto ad altre. Questo modo graduale di dipingere, che porta sempre tutto insieme allo stesso livello per accordarlo nella stessa fase, denuncia la lontananza di Raffaello dalla fede «iconica» che ancora permaneva nella pittura del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento. Per lui, i punti d’arrivo delle figure non erano prefissati a priori, ma venivano gradualmente definiti con il progredire dell’intero quadro facendo prendere corpo alla visione in un graduale diradarsi di una nebbia in cui tutti sono avvolti. Nel Seppellimento della National Gallery, l’artista sapeva a tal punto dove portare le figure che le ultimava indipendentemente le une dalle altre. Per questo alcuni volti e panneggi appaiono perfettamente finiti, mentre altri sono allo stadio della sola preparazione. Raffaello invece non lasciava indietro niente, ma portava gradualmente avanti l’intero dipinto accordandone le parti man mano che prendevano corpo. Era la relazione tra le parti a interessarlo. Con senso molto moderno, considerava ogni opera come un’opera unica, che andava portata a compimento con la sua propria originalità. Un sentimento estremamente moderno dell’opera d’arte, che si manifesta ad esempio nella cura non diversa con cui l’artista realizzava sia i panneggi che gli incarnati. Nella pala Dei 115

mancano perciò le «velature conclusive», ma la struttura, le relazioni e i rapporti cromatici sono già fissati. Una volta portate le figure ai mezzi toni, Raffaello si sarebbe rivolto a quelle adiacenti, perché la conclusione finale doveva essere il frutto di una corrispondenza. L’artista cercava insomma l’accordo per il quale sarebbe diventato famoso. Ma lo stato di non finito della pala Dei dimostra che quell’accordo psicologico, che incantò i contemporanei già alle prime prove dell’artista, aveva alle spalle una tecnica pittorica particolare, che cresceva gradualmente nella materializzazione dell’immagine, nonostante la perfetta pratica del disegno permettesse a Raffaello di studiare e progettare compiutamente sia la composizione che le singole figure. Naturalmente questa procedura era resa possibile dall’uso dell’olio, che permetteva di mantenere per giorni lo stesso impasto di colore e di procedere con progressiva saturazione delle velature trasparenti. In una pala a tempera sarebbe stato necessario per il pittore finire uno alla volta un volto o un panneggio, perché la preparazione e il mantenimento dell’impasto era molto complicato. A giovarsi di questa tecnica a olio era senz’altro la luminosità del quadro, la regolazione delle luci che scivolavano sugli incarnati con molta attenzione, accordando panneggi e corpi come se fossero immersi in un’atmosfera materica del tipo immaginato da Leonardo. Ancora una volta, era il bizzarro genio leonardesco a dominare la pittura di Raffaello, sensibile alle esigenze di riconoscibilità del mercato e alla necessità di portare a compimento senza troppe complicazioni un’immagine pittorica (come testimonia anche lo schizzo di Madonna con Bambino conservato al Louvre). Mentre era intento a ultimare la pala Dei, Raffaello scrisse a suo zio Simone Ciarla a Urbino una lettera, datata 21 aprile 1508, che rimane uno dei documenti fondamentali per comprendere la sua condizione in quei mesi: 116

Carissimo quanto patre. Io ho recuta una vostra letera, per la quale ho inteso la morte del nostro Ill.mo S. Duca, a la quale Dio abi misiricordia a l’anima. E certo non podde senza lacrime legere la vostra letera, ma transiat; a quello non è riparo, bisognia avere pazientia e acordarsi con la volontà de Dio. Io scrissi l’altro dì al zio prete che me mandasse una tavoleta che era la coperta de la Nostra Donna dela profetessa. Non me l’à mandata. Ve prego voi li faciate sapere quando c’è persona che venga, ché io possa satisfare a Madona, ché sapete adesso uno averà bisognio di loro. (...) Averia caro se fosse posibile d’avere una letera di recomandatione al gonfalonero di Fiorenza dal S. prefetto. E pochi dì fa io scrisse al zeo e a Giovano da Roma me la fesere avere; me faria grande utilo per l’interesse de una certa stanza da lavorare, la quale tocha a sua S. de alocare. Ve prego se è posibile voi me la mandiate, ché credo, quando se dimandarà al S. prefetto per me, che lui la farà fare, e a quello me ricomandate infinite volte como suo anticho servitore e familiare14.

Ancora una volta, con sapienza imprenditoriale e intelligenza cortigiana senza pari, Raffaello ricorreva alla protezione della corte di Urbino per tentare la carta più azzardata del suo successo: la volata a Roma. Lì erano in corso le manovre per decorare le stanze vaticane, «la stanza» di cui si parla nella lettera. E una raccomandazione di Pier Soderini, che spediva a Roma i migliori artisti fiorentini secondo una tradizione che andava avanti da almeno un secolo, poteva essere fondamentale per inserirsi in quell’appalto. Ancora una volta erano dunque i Montefeltro a doverlo aiutare, e in particolare Francesco Maria della Rovere. Lui era vicinissimo a quel centro del potere a cui Raffaello tendeva ormai con ogni sua forza. E ancora una volta la lettera arrivò, con un risultato così positivo che Raffaello non esitò a lasciare incompiuti i suoi lavori fiorentini pur di correre nella città eterna. Niente poteva più trattenerlo, né la commissione Dei né gli affreschi di San Severo, che rimasero fermi al registro superiore e che saranno finiti anni dopo dal Pe117

rugino con una pittura così mediocre da rimanere a eterno ammonimento di quanto il giovane lo avesse ormai superato. Raffaello aveva avuto l’intelligenza di capire dove correva il vento, dove bisognava essere per diventare, così come gli dettava l’ambizione fin da quando era ragazzo, il primo pittore d’Italia.

CAPITOLO 4

A ROMA

1. UNA IMMENSITÀ SOMMERSA

Fino ai suoi venticinque anni Raffaello aveva vissuto tra i profili dolci della campagna umbra e quelli aspri dell’Appennino toscano. Ora cominciava il suo viaggio verso Roma, città immaginata, sognata e desiderata da tutti gli uomini che partecipavano del suo stesso desiderio di rinascita dell’arte e della civiltà antica. Vi arrivò, come tutti i viaggiatori provenienti dal nord, percorrendo la Via Francigena: la più sicura, quella percorsa dai pellegrini, che attraversava la Val d’Orcia e il Viterbese per terminare alla Porta del Popolo. Della città eterna Raffaello aveva già visto i disegni che riportavano indietro i viaggiatori: quelli che vi andavano a fare da ormai un secolo i fiorentini, che misuravano rovine e monumenti per cogliere il segreto delle antiche regole di progettazione [Fig. 60]. Molti di quei disegni ispiravano poi i fondali misteriosi e regali delle pale dipinte, soprattutto di quelle più alla moda, dove idealmente si ricostruivano i monumenti e i profili dell’antica capitale imperiale. Raffaello li 121

aveva ricopiati e probabilmente ne aveva discusso nelle botteghe e nelle osterie in riva all’Arno con architetti e pittori. Ma aveva visto anche le piante disegnate dai geografi e le statue che si erano accumulate nelle corti che aveva frequentato. Insomma, della città aveva già conosciuto abbastanza per essersene innamorato e per precipitare nell’incantamento che accomunava tutti gli artisti d’Italia, convinti che a Roma l’arte avesse un tempo creato il paradiso in terra. Sapeva poi della città incantata, dove i mandorli fiorivano poco dopo Natale e il cielo, più alto e luminoso che altrove, rimandava i bagliori del mare vicino, il Mediterraneo da cui erano arrivati la fede, l’arte e il pensiero. Quando fu chiamato a Roma non poté dunque aspettare un minuto di più. Contraddicendo la sua razionalità, rinunciò a ultimare gli affreschi di San Severo a Perugia, provocando il disappunto della città. Non fece meglio a Firenze, dove lasciò incompiuta la Sacra conversazione per la famiglia Dei. Senza nemmeno asciugare l’olio sui pennelli, si lanciò sulla strada che da Firenze portava alla città dei papi. Approssimandosi da nord, i tufi umidi dei monti Cimini, infiammati dalle ultime foglie dei castagni centenari che resistevano ostinate all’autunno, lasciavano finalmente spazio ai lecci e ai lauri delle colline romane. A pochi passi dalla boscaglia che circondava il Tevere, ci si trovava di fronte alle Mura Aureliane, inimmaginabili per grandezza e regolarità di apparecchio dei mattoni che stringevano la Porta del Popolo. Subito dopo aver attraversato l’enorme portone tra le torri quadrate, si entrava in una piazza che annunciava con la sua grandezza quella della città tutta. Piazza del Popolo aveva a sinistra la chiesa di Santa Maria, di proprietà degli agostiniani, da cui si partiva un muro lungo centinaia di metri che racchiudeva le vigne del convento, un pezzo di campagna coltivata a cui si accedeva attraverso un portale appena segnato da una ghiera di pietra. Il muro viola di pozzolana, da cui 122

spuntavano i rossi vivi dei mattoni e i gialli marci dei tufelli, dove l’intonaco era già consumato, aveva al centro un’apertura più che modesta. Ma la chiesa che lo chiudeva a nord bastava da sola ad annunciare la ricchezza artistica di cui Roma si stava di nuovo ammantando. Quando Raffaello salì i pochi gradini che immettevano nella chiesa si trovò frastornato dalle novità di quel mondo. Il coro era stato ristrutturato da Donato Bramante, l’architetto che dominava la scena romana con la sua sapienza classica e la sua abilità illusionistica. Era stato lui a trasformare un piccolo coro quattrocentesco in un ampio spazio classicheggiante grazie alla sola abilità del disegno. C’erano poi i dipinti di quel Pinturicchio con cui Raffaello aveva già lavorato a Siena. E c’era la tomba scolpita da Andrea Sansovino per Girolamo Basso della Rovere, con modi ancora non visti a Firenze. Bastava il tempo di attraversare la navata per capire che in quella chiesa c’era quanto di più moderno a Roma si facesse in tema di scultura, pittura e architettura, e il tutto appena appoggiato alle mura che da mille anni dividevano la civiltà dell’Urbe dalla campagna selvatica. Dall’altra parte della piazza cominciavano le casupole e le vie che costeggiavano il Tevere. Sul lato opposto a quello della vigna degli agostiniani altri giardini, meno ricchi, separavano la piazza dal fiume e dalle mura, trasformate nel tempo in palazzi angusti in cui avevano trovato alloggio non proprio grandioso i nuovi abitanti della città. Il giovane artista non era mai stato in una grande città e l’incontro con Roma scatenò certamente suggestioni profonde che negli anni avrebbe cercato di sviluppare con la razionalità che distingueva il suo genio. Si poteva ancora intuire la grandezza che mille anni prima aveva permesso alla città di ospitare milioni di persone. Ora il suo corpo era quasi sommerso dalla campagna, dalle vigne e dai boschi, dai quali però emergevano, indistruttibili come le ossa di un gigante, i frammenti dei monumenti imperiali. Il 123

Colosseo era ancora interrato negli archi inferiori, dove trovavano alloggio mandrie di pecore e di mucche. Ma era quasi intatto, e l’immensa corona di travertino era indorata dalle patine che il tempo vi aveva depositato come sulla roccia di una cava abbandonata. Le colonne del tempio di Saturno e di Venere e Roma spuntavano immense dal terreno incolto, colossali fusti di granito e di marmo cavati in un solo blocco come nessuno avrebbe saputo più fare. Portate dall’Africa su barche agili e robuste, erano state innalzate mille e cinquecento anni prima e coronate da capitelli e fregi scolpiti con una raffinatezza almeno pari alla grandiosità naturale di quei blocchi1. La durezza dei materiali – del marmo, del granito e del travertino cavati a poche miglia da Roma – aveva fatto sì che perfino nei loro dettagli i rilievi si mantenessero miracolosamente intatti. Anche questo sembrava il segno di un destino eterno. A Firenze l’arenaria friabile e scagliosa rendeva già difficile leggere i vaghi abbozzi degli scultori di due o tre generazioni precedenti. A Roma il lavoro di scultori e scalpellini vecchio di mille e cinquecento anni si mostrava netto e tagliente sotto la luce nitida del sole meridionale. Perfino ciò che stava ancora sotto terra era ben mantenuto, come dicevano le statue che proprio in quegli anni emergevano dal suolo quasi come frutti miracolosi. Lo avevano intuito già Brunelleschi e Donatello, che, stanchi delle chiacchiere e dei lacunosi schizzi che arrivavano a Firenze, avevano deciso di andare direttamente a Roma per far scavare sotto i loro occhi e mettere in luce basi di colonne e piedistalli ancora immersi nel terreno tra le radici delle viti e dei meli. Per vedere come rigirava una gola rovescia, o come si rastremava un fogliame o una cornice a ovoli, avevano riportato alla vista quei dettagli grazie allo spirito pratico di fiorentini abituati a credere soltanto alla propria esperienza. Di tasca propria avevano pagato facchini e operai, come non mancò di sottolinea124

re il biografo di Brunelleschi Antonio di Tuccio Manetti: «Perche feciono cavare in molti luoghi per trovare riscontrj di membri e per ritrovare cose et edificj, dove apariva qualche segniale e affare bisogniava, che mettessono dell’opere e di facchinj e d’altri bastagi, pure con ispese e non picchole, non v’essendo altrj che faciessi e medesimo»2. Ciò che mancava agli antichi monumenti era stato prelevato per costruire la Roma medievale. I mattoni di dimensioni eccezionali, cotti dai Romani, erano serviti a fare i nuovi solai. I blocchi di marmo e i tufi delle pareti erano diventati i cantonali dei palazzi costruiti con opera incerta. Perfino le pozzolane dei palazzi erano state frantumate e rimescolate alla calce per le malte e gli intonaci di nuove costruzioni. L’intera città si era trasformata in una miracolosa cava a cielo aperto, dove si prelevavano i materiali che servivano e non si esitava a cuocere le vecchie statue per fare la calce nelle fornaci aggrappate alle mura, quando sarebbe bastato allungarsi fino a Tivoli per avere gli stessi travertini compatti che avevano dato ai Romani la calce migliore d’Italia. Colonne, architravi, capitelli e ogni altro elemento costruttivo impiegato nei palazzi imperiali erano stati smontati come le parole di un discorso ormai incomprensibile e rimontati in un nuovo linguaggio via via sempre meno vicino a un balbettio incongruo e sempre più vicino a una lingua poetica, dove proprio Raffaello, insieme ad altri, lo avrebbe condotto negli anni successivi. In un dedalo di torri, archi e antri aggrovigliati, di piccole chiese e palazzi appena dignitosi, una popolazione che si valutava in quegli anni intorno ai duecentomila abitanti sembrava vivere senza troppo disagio, adeguandosi come nel relitto di un’immensa nave dopo il naufragio. E cominciava ad abbracciare il sogno di una rinascita che nella costruzione di nuovi monumenti, grandiosi e armonici come quelli antichi, tentava di affermare la propria concretezza. 125

Raffaello sapeva che non tutti i monumenti antichi si erano trasformati in rovine. Aveva visto i disegni del Pantheon ancora intatto, ora diventato chiesa di Santa Maria dei Martiri, rivestito al suo interno da marmi policromi pregiatissimi, la cui bellezza nessun disegno avrebbe potuto restituire e che certo sbalordirono il giovane appena arrivato. Per quanto il grandioso edificio fosse assaltato da una miriade di catapecchie che vi si arrampicavano come parassiti, la sua cupola immensa, dolce come un seno materno, si imponeva sull’intero tessuto urbano ed era visibile dai colli vicini, dai giardini di San Silvestro al Quirinale, dalle vigne del Gianicolo e dai terrazzi dei conventi dell’Aventino. Sarebbe bastato questo solo monumento a raccontare la perfezione a cui erano giunti gli architetti romani. I conventi avevano recintato porzioni importanti del territorio e altrettanto avevano fatto i principi locali impegnati da secoli a contendere ai papi il potere sulla città. I Colonna, gli Orsini, i Savelli e i Caetani si erano impadroniti di pezzi di città fortificandoli e rendendoli inespugnabili ad ogni altro potere. Loro stessi costituivano un potere laico in continua lotta, con il quale dovevano fare i conti tanto i successori di Pietro che il senato cittadino, espressione della debole borghesia romana di origine agraria che già da un secolo aveva visto ridurre il proprio potere a una dimensione quasi soltanto formale. La piccola nobiltà, che allevava i bovi e commerciava granaglie, si era illusa nel Trecento di potersi costituire in ceto mercantile. Ma Roma era destinata ad altri orizzonti. Non era una città di banchieri o di industriali. Piuttosto una città di artigiani, che trovava gli strumenti della propria sopravvivenza intorno alla corte papale. La città laica, che offriva servizio alla corte papale e agli ambasciatori delle potenze straniere, e naturalmente ai pellegrini che affluivano incessantemente da tutta Europa, si era attestata in una porzione minuscola dell’antica città imperiale, proprio tra la Piazza 126

del Popolo e il glorioso Campidoglio, limitata a ovest dal Tevere e a est dai Fori e dai colli del Quirinale e dell’Esquilino. Il tessuto di casupole miserabili addossate lungo le strade, che si era infiltrato nelle vecchie costruzioni e che Raffaello attraversò al suo arrivo, raccontava da solo la mediocrità economica della popolazione romana. Impossibile era il confronto non soltanto con i monumenti che emergevano dal terreno, ma anche con i palazzi costruiti negli ultimi due secoli a Firenze da mercanti e banchieri che con i loro traffici avevano accumulato una ricchezza invidiata ovunque. Bastava cavalcare pochi minuti oltre il portico di San Pietro in Vincoli o dietro la montagna d’archi del Colosseo per trovarsi nell’aperta campagna infestata dai lupi. I lupari avevano un gran daffare per salvaguardare con il loro lavoro non soltanto le mandrie di buoi che svernavano all’interno delle mura, ma anche le mandrie di ingenui pellegrini che in cerca di avventure molto poco spirituali si inoltravano nelle grotte della casa di Augusto o dietro i conventi dell’Aventino, felici di poter sciogliere dopo i voti i cordoni delle brache tra le braccia delle prostitute romane, che rappresentavano una delle categorie più numerose e produttive della città. Per la sua parte più ricca, la popolazione di Roma era costituita proprio dai pellegrini che arrivavano da tutta Europa e che davano lavoro ad alberghi, locande, sarti e soprattutto alle prostitute, capaci di differenziare la loro offerta per accontentare tanto il nobile straniero invaghito dalla leggendaria raffinatezza delle cortigiane dell’Urbe quanto il povero artigiano milanese che spendeva negli incontri furtivi gli ultimi spiccioli avanzati dal viaggio intrapreso per devozione. Di quel piccolo peccato lo avrebbe assolto il giorno dopo uno delle centinaia di confessori sparsi nelle chiese, pronto ad assolvere da ben altri peccati dietro una modesta offerta di denaro. Tra i boschi e le vigne recintate con tufelli e mattoni, Raffaello osservava i grandi archi delle terme, dei fori e dei palaz127

zi imperiali, trasformati in grotte e caverne dove trovava riparo ogni tipo di pericolo. Francesco Guicciardini fu lapidario nel descrivere la città come «una spelonca di ladroni e di assassini», dove la legge era un lontano e vago ricordo. Ma l’occhio dell’artista cercava altro, volava veloce sulle rovine per immaginarne l’apparenza primitiva, la grandiosità, l’armonia e la ricchezza che tanto avrebbe voluto emulare con le sue opere. E non era il solo. Arrivato già alla fine della Piazza del Popolo, il suo sguardo frenetico poteva cogliere sul colle vaticano, al di là del placido Tevere ingrossato dalle piogge autunnali, una ciclopica impalcatura di legno che collegava la vecchia basilica alla Villa del Belvedere, fatta costruire da Innocenzo VIII sulla sommità dell’altura. Tra le pertiche di castagno e le assi di abete collegate da funi e da chiodi, si muovevano migliaia di operai. Stavano costruendo la prima grandiosa opera con la quale l’uomo che lo aveva chiamato a Roma voleva cambiare l’immagine e l’ordinamento della città. Insieme a quella della nuova basilica di San Pietro, la costruzione era già celebrata come la massima impresa italiana del tempo: era il «corridore» di Belvedere, un portico di tre piani che collegava la parte alta del colle alla basilica vaticana, compensando il dislivello della collina grazie a una gradonata trasformata in teatro. L’uomo era Giuliano della Rovere, diventato papa nel 1503 con il nome di Giulio II.

2. DAI CALICI AGLI ELMI

La città che aveva di fronte, sterminata agli occhi suoi e di tutti i viaggiatori europei più per i ricordi che evocava che per lo spazio che occupava, era una città difficile da conquistare. Ma Raffaello ci arrivava con un viatico che nessun altro artista po128

teva vantare. Per conquistare Firenze si era rivolto a Giovanna di Montefeltro. Per preparare l’arrivo a Roma aveva preteso e ottenuto l’appoggio di suo figlio Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino dopo la scomparsa di suo zio (il padre adottivo Guidobaldo da Montefeltro, fratello di Giovanna), morto nella primavera del 1508. Raffaello non dimenticava che per un buon successo professionale le relazioni politiche erano essenziali quanto il talento e l’impegno artistico. La richiesta era partita nel maggio del 1508. Il 13 gennaio del 1509, neppure sette mesi dopo, il suo nome compare già nel registro dei pagamenti della camera apostolica come destinatario di cento ducati per il lavoro di pittura nelle camere del Palazzo Vaticano. «Die XIII januarii 1509. (...) magister Raphael Johannis Santi de Urbino pictor confessus fuit habuisse et manualiter recipisse a S.mo domino nostro, per manus R.mi domini Thesaurarii Sue Sanctitatis (...) ducatos centum de carlenis ad rationem decem carlenorum pro quolibet ducato veteris monete, ad bonum computum picture camere de medio eiusdem Santitatis testudinate»3. Come per Michelangelo Buonarroti, l’intesa con il papa era stata immediata. Giulio II era in grado di valutare immediatamente il valore dei suoi interlocutori e d’altronde aveva già avuto modo di apprezzare il talento del giovane in una delle sue spedizioni militari che avevano toccato Perugia e Urbino, centri ormai segnati dalla presenza delle opere raffaellesche. In particolar modo dovette piacergli il dipinto della calotta di San Severo, visto che chiese a Raffaello di replicarlo, ingrandito, nel primo dipinto commissionatogli per le stanze dei suoi appartamenti, la Disputa del Sacramento. Nei disegni che Raffaello cominciò a redigere per questo dipinto, continuò a riproporre il Cristo nella identica posa trionfante, cambiandolo poi nell’esecuzione definitiva. L’uomo che Raffaello si trovava di fronte nell’inverno del 1508 era un uomo che aveva superato i sessant’anni e sbiadi129

to i capelli corvini senza aver perso un’ombra del suo fascino e della sua straordinaria energia, diventata leggenda in tutta Europa. Le spalle larghe erano state irrobustite dalle remate giovanili nel mare di fronte a Savona. Le gambe forti, che stringevano il cavallo anche sul terreno più accidentato, quando il suo seguito crollava nel fango, si erano arrampicate tra le scale di pietra che uniscono gli orti scavati nei fianchi delle colline di Albissola, dove era nato nel 1443. Aveva un bel naso pronunciato ma regolare e gli zigomi larghi che conferivano al volto una forza mascolina adatta a un condottiero più che a un papa. La pelle chiara avvampava sotto i frequenti attacchi di collera che terrorizzavano chiunque si trovasse a tiro delle sue bastonate. Non tollerava di sentirsi contraddetto e non esitava a usare come armi i paramenti liturgici che trovava a portata di mano. La sua famiglia era più che modesta e coltivava i terreni accidentati delle Prealpi liguri oltre a gestire una piccola industria tessile che gli dava appena da vivere, ma la sua giovinezza fu selvaggia e felice, spesa tra un cielo e un mare tra i più belli d’Italia. A riscattare le condizioni dell’intera famiglia fu suo zio Francesco, dotato di intelligenza fuori dal comune e di una sapienza acquisita con un severo studio della teologia nell’ordine dei francescani, dov’era entrato giovanissimo. Sapienza e intelligenza gli permisero di abbandonare le irte mulattiere di pietra della sua terra per risalire le scale ben più ripide della piramide sociale del Quattrocento, puntando dritto ai vertici della gerarchia ecclesiastica. La scalata terminò nel 1471, quando Francesco, diventato da poco generale dei francescani, venne eletto papa e prese il nome di Sisto IV4. La svolta che determinò la sua ascesa ai massimi vertici della curia romana fu la risoluzione di una controversia che infiammava l’Europa intorno alla metà del secolo, opponendo francescani e domenicani sulla natura del sangue di Cristo. Per dirimere la controversia, il papa 130

Pio II invitò entrambi gli ordini a disputare pubblicamente i loro punti di vista in Vaticano nel dicembre del 1462. Francesco della Rovere sostenne che le vestigia del corpo di Cristo che non hanno reintegrato il corpo divino debbono essere oggetto di culto devozionale e lo fece con tale sapienza da smontare le argomentazioni dei domenicani. La disputa che aveva drammaticamente diviso il mondo cattolico fu risolta nettamente a favore delle argomentazioni francescane, e Francesco ne ricavò un riconoscimento universale. Diventato papa, mostrò di avere idee molto chiare riguardo al ruolo del papato e della Chiesa. Soltanto un solido rafforzamento del potere temporale dei pontefici avrebbe sottratto la Chiesa e il clero ai capricci e alle vessazioni di principi e baroni laici, permettendo loro di espletare compiutamente anche la propria missione spirituale ed evangelica. Nella sua strategia di consolidamento politico del papato chiamò, com’era naturale e opportuno, gli esponenti più validi della propria famiglia. Tra loro c’era anche Giuliano, che fu nominato vescovo di Carpentras e poi cardinale di San Pietro in Vincoli il 15 dicembre del 1471, diventando in poco tempo il migliore alleato di suo zio nella energica politica di difesa degli interessi temporali del papato. Come legato papale, fu inviato in Francia ad Avignone a controllare il difficile scenario politico del nord Europa e diede prova di energia e determinazione rarissime in un principe della Chiesa. Anche dopo la morte dello zio, l’abilità politica di Giuliano diventò un riferimento certo della curia romana, che lo investì di incarichi sempre più delicati rivelandone la tempra di condottiero ma spingendolo a scontrarsi con il papa Borgia Alessandro VI, che aveva la stessa tempra ma perseguiva fini non sempre coincidenti con l’interesse del papato. Fu così attivo nella sua politica temporale che, quando il 31 dicembre 1494 fece il suo ingresso a Roma insieme agli alleati che avevano inferto una temporanea sconfitta al papa spa131

gnolo, cavalcò insieme a Carlo VIII tra i soldati. La folla, che invadeva Roma con i fuochi accesi in strada per rischiarare la notte e riscaldare l’aria, lo acclamò come un principe gridando «Francia, Colonna e Vincoli», come se fosse appunto un condottiero al pari degli altri due. A quell’ingresso seguirono poi dieci anni terribili per Giuliano, costretto a scegliere l’esilio francese per sfuggire alla prepotenza della famiglia papale. Ma quando Alessandro VI morì nel 1503 fu subito di nuovo a Roma. La sua abilità politica era tale che, subito dopo il breve papato di Pio III, Giuliano venne eletto papa nel giro di poche ore la notte del 31 ottobre 1503, conducendo una trattativa fin troppo disinvolta con alleati e nemici. La mattina del primo novembre l’Italia e l’Europa sapevano benissimo cosa li aspettava. Il suo predecessore aveva smembrato lo Stato pontificio per favorire la creazione del regno di suo figlio Cesare. Giulio II non avrà pace fino a quando non avrà riconquistato i territori perduti minacciando le potenze come Venezia e la Francia, che avevano approfittato di quella congiuntura per annettersi intere città dello Stato pontificio così come avevano fatto i piccoli tiranni locali, soprattutto i Baglioni a Perugia e i Bentivoglio a Bologna. Il progetto di Giulio non era soltanto quello di recuperare l’integrità dello Stato pontificio, ma di farne il perno di equilibrio della politica italiana tenendo fuori dal territorio nazionale le potenze straniere, quei «barbari» contro cui iniziò subito una lotta senza quartiere. Ben presto la politica divenne azione militare, e Giulio depose calici e crocifissi per indossare l’elmo e la spada. Il ritratto più incisivo dell’atmosfera romana di quegli anni ci è lasciato proprio da un altro grande artista chiamato in quegli anni a Roma dal papa, Michelangelo Buonarroti, che raccontò in rime la sensazione di trovarsi al centro di una roccaforte militare anziché nella capitale dello spirito. «Qui si fa elmi, di calici/e spade, e’l san132

gue di Cristo si vend’a giumelle,/e croce e spine son lance e rotelle/e pur da Cristo pazienzia cade»5. Il 17 agosto 1506, incurante del caldo torrido che sfiniva i vecchi cardinali e i dignitari ecclesiastici abituati alle penombre accoglienti dei monasteri secolari, Giulio riunì un concistoro segreto. Il 22 agosto, all’alba, lasciò il Vaticano. Lo seguirono tutti, spaventati dalla sua indignazione in caso di rifiuto. Solo gli invalidi e i vecchi riuscirono a rimanere in città. Dopo l’ultima benedizione impartita al popolo sotto le mura della città, cavalcò spedito con il suo esercito fino a Formello, per risalire nei giorni successivi fino a Viterbo e Orvieto. In poco tempo si cambiò d’abito e abbandonò la veste di condottiero per assumere quella del pontefice che impartisce benedizioni e celebra messe che entusiasmano le folle. Nella piazza davanti al Duomo di Orvieto, immenso come una montagna e scintillante di mosaici d’oro, i cittadini eressero una quercia con i rami pieni di bambini vestiti da angeli che recitavano versi latini insieme a un personaggio travestito da Orfeo. Neppure in piena campagna militare si poteva dimenticare la raffinata cultura del papa che voleva resuscitare l’antichità classica. Le porte delle città nemiche si aprirono come per incanto senza bisogno di spargimento di sangue. La sola volontà del pontefice bastava a piegare quella dei tiranni. Entrò a Perugia il 13 settembre in un trionfo di campane e di colori. Vennero eretti archi trionfali e stesi alle finestre i panni pregiati, e il successo stupì lo stesso Machiavelli presente alla scena. Poco più difficile fu la conquista di Bologna in quella che si mostrava ormai come una singolare marcia trionfale comandata da un uomo che sbalordiva il mondo per essere il primo papa condottiero della storia. L’autunno incalzava con la pioggia e con il vento, ma il papa non si fermava. Scese da cavallo e proseguì a piedi nella gola impervia di Mutilano. Era esausto ma non cedeva e non era disposto a rimanere in133

dietro al suo esercito. Anzi era lui stesso a incoraggiare il seguito recitando nei momenti più difficili i versi dell’Eneide: «Per tanti casi ormai, per tanti rischi/volgiamo al Lazio»6. Ma il più era fatto. Il giorno di Ognissanti i Bentivoglio abbandonarono Bologna. Il papa vi entrò in incognito pochi giorni dopo, per attraversare trionfalmente la città l’11 novembre. Ancora una volta sembrava che la sua volontà e il favore divino spingessero senza intoppo i suoi successi. L’estate di San Martino sconfisse il gelo e fiorirono le rose: il trionfo non poteva essere più pieno. I musici, gli stendardi, i costumi dei cavalieri e dei nobili bolognesi che scortavano il corteo papale fecero il resto. Dopo aver sistemato il governo di Bologna Giulio II tornò a Roma. Vi arrivò il 27 marzo. Era convinto che la sua politica non avrebbe più avuto ostacoli e che poteva ormai dedicarsi ad altre battaglie: le battaglie della propaganda, che attiravano a Roma artisti da tutta Italia, e da lì a poco lo stesso Raffaello.

3. LA GUERRA DELLE IMMAGINI

La creazione di un forte Stato temporale che mettesse definitivamente al sicuro la sede apostolica all’interno di confini certi e ben governati doveva anche risolvere alcune questioni interne al governo della città di Roma. Occorreva togliere forza alle famiglie nobiliari che da secoli contendevano al papato il controllo militare e politico della città: Colonna, Orsini, Savelli e Caetani dovevano rientrare nei ranghi di obbedienti feudatari. Sull’altro versante la timida borghesia cittadina, organizzata nell’istituzione dei conservatori e dei senatori rac134

colti nel glorioso Campidoglio, doveva capire a sua volta che a Roma non potevano esserci troppi poteri, o almeno che i poteri dovevano avere una radicale gerarchizzazione sotto l’autorità papale. Questa, nel suo progetto accentratore, aveva ridotto anche l’influenza del concistoro cardinalizio, con tutte le conseguenze teologiche di questa scelta. Giulio II lasciò che l’entusiasmo dei romani per la sua energia militare si sfogasse con i meravigliosi apparati che lo accolsero nel 1507 al suo rientro vittorioso da Bologna, quando archi di trionfo, dipinti e festoni di fiori fecero tornare la città per qualche giorno agli splendori imperiali. Ma subito emise una serie di provvedimenti volti a contenere e indebolire l’autonomia e il potere dei ceti dirigenti della Roma laica e comunale. Il calmiere imposto ai prezzi del pane e dei generi di prima necessità doveva impedire l’accumulazione di rendita alle famiglie nobiliari, che non avrebbero potuto acquistare grano se non per il proprio fabbisogno familiare, senza poter più lucrare sull’aumento dei prezzi in periodi di carestia. Nuove imposizioni fiscali e perfino l’emissione di una nuova moneta facevano parte di un lucido disegno mirato a indebolire il potere dell’organizzazione comunale e baronale in città. C’era poi un altro aspetto della politica di affermazione dell’autorità papale in cui Giulio II credeva fermamente, anche perché esprimeva una passione divorante che era nata con lui stesso. La città del papa doveva dimostrare in maniera visibile la sua forza e la sua potenza, e lo doveva fare attraverso l’arte in tutte le sue forme. Questo era il progetto che Giulio amava di più e a cui si poté finalmente dedicare dopo la faticosa campagna militare che aveva affrontato nell’anno precedente. Le cronache lo vedono accanirsi nelle discussioni con i suoi intendenti d’arte, di sera a cena. Il vino rosso che amava tanto gli rendeva lo spirito più audace e smorzava nell’ironia la collera che durante il giorno spaventava gli ambasciatori del135

le potenze straniere riunite in udienza. La sua passione decisa, illimpidita da un lucido progetto politico, ebbe la fortuna di incontrarsi al momento giusto con quella di alcuni altri uomini che cercavano con la sua stessa forza l’occasione per trasformare l’immagine della città: per «instaurare», come amava esprimersi il principale collaboratore del papa Donato Bramante, l’immagine antica e gloriosa della Roma imperiale. In questo progetto Giulio aveva un vantaggio enorme, destinato a rendere il suo papato il culmine della rinascita italiana dell’arte e della cultura. Era un collezionista straordinario. Già quando era cardinale di San Pietro in Vincoli, aveva raccolto nel giardino adiacente alla chiesa le migliori sculture che affioravano dagli scavi archeologici che andavano diffondendosi come una delle principali risorse economiche della città. La prima e più celebre di queste sculture era l’Apollo, che prenderà il nome dalla palazzina dove Giulio lo fece sistemare appena stabilitosi in Vaticano: il Belvedere. Era così innamorato della statua, che la maldicenza popolare e la velenosa ostilità dei suoi avversari politici cominciarono a soffiare su quella passione evocando altre passioni per uomini meno freddi ma ugualmente belli. Durante la sua spedizione contro Bologna, si erano diffusi in Italia alcuni sonetti satirici contro il papa, decisamente inequivocabili come altri che in seguito cercheranno di offuscarne l’immagine. Il più esplicito lo additava come «provisto de Corso, de Tribiam, de Malvasia, e de’ bei modi assai de sodomia; menor biasmo te fia col Squarzia e Curzio nel sacro palazo tenir a bocha il fiasco e in cullo el cazo»7. Il vino e il membro maschile erano additati come le vere passioni del papa della Rovere. Ma se il primo sembrava dargli energia fisica sovrannaturale per le sue battaglie, il secondo non fu mai in grado di intaccare la sua profonda virilità, come del resto era stato per l’altro Giulio che gli fungeva da modello: Giulio Cesare, famoso ugualmente per la sua potenza di condottiero e la vastità dei suoi gusti sessuali. 136

Giulio ricercò importanti amori anche con le donne, dai quali nacquero tre figlie. L’ultima, Felicia, fu al suo fianco durante tutto il regno e fu ricambiata da un amore paterno profondo ma misurato, di esemplare devozione per l’epoca. Nel mondo femminile, del resto, Giulio trovava sostegno anche prima di aver generato e cresciuto Felicia, come attesta il suo legame con l’ultima sorella Luchina, trasferitasi a Roma per stargli vicino, che alla sua morte lo lasciò così addolorato che il papa non riuscì a trattenere in pubblico le lacrime. Anche questa sua pienezza vitale concorse a fare di lui un committente che non avrà eguali nella storia dell’Occidente, capace di cogliere senza esitazioni le possibilità dell’arte e di incoraggiarla senza badare a spese. Il suo occhio dotato e allenato non aveva bisogno di altri supporti per giudicare la validità di un progetto o di un artista. È per questo che con Michelangelo si intese subito e pochi giorni dopo averlo fatto arrivare a Roma da Firenze gli allogò un’impresa colossale come la realizzazione della sua tomba, senza neppure aspettare l’esecuzione di un modello in legno come generalmente accadeva per opere finanziariamente così impegnative. Il 18 aprile 1506 Giulio era andato personalmente alla buca profonda sei metri per posare la prima pietra della nuova basilica di San Pietro. Lentamente aveva ridisceso la scala a pioli poggiata sul banco di tufo dove doveva posarsi il fondamento del nuovo edificio. Nelle mani reggeva un piccolo vaso d’argento con due medaglie d’oro e dieci di bronzo. Avevano su un lato il suo profilo e sull’altro il profilo della nuova chiesa progettata da Donato Bramante. I cardinali lo guardavano atterriti e ammirati. Avevano inutilmente tentato di contrastare in concistoro il progetto di rovinare la vecchia basilica costantiniana per costruirne una nuova larga ventiquattromila metri quadrati. Ma non c’erano riusciti e avevano dovuto arrendersi di fronte alla furia del papa. Chi avrebbe potuto resisterle? 137

Di tutti i progetti perseguiti da Giulio II, sappiamo con certezza che avevano come riferimento il mondo figurativo dell’antichità classica. Nella volta della Cappella Sistina gli angeli erano scomparsi per fare posto ai geni apollinei, divini soltanto per le loro nudità. Nella sua tomba, così come l’andava progettando insieme a Michelangelo, le allegorie pagane e i loro corpi perfetti prendevano il posto delle allegorie cristiane, lasciando appena lo spazio necessario a una Madonna con Bambino che doveva distinguere la tomba di un papa cristiano da quella di un imperatore romano. Anche le grandi imprese architettoniche che stava avviando con Bramante – il «corridore» di Belvedere, il nuovo San Pietro vaticano, i palazzi dei tribunali a via Giulia – avevano forme all’antica. Il progetto a cui Raffaello era stato chiamato insieme agli altri principali pittori italiani era la decorazione delle stanze vaticane, che Giulio aveva fatto sistemare di nuovo dal suo architetto Donato Bramante. Quelle stanze, in cui si concentrava la vita pubblica e diplomatica della corte pontificia, divennero il centro della sua campagna di propaganda dopo il ritorno da Bologna. Il papa non poteva sopportare più di alloggiare nelle stanze del suo odiatissimo predecessore Alessandro Borgia, decorate dal Pinturicchio, e decise di sistemare un nuovo appartamento nei piani superiori del palazzo fatto costruire da Niccolò V. L’appartamento doveva celebrare il papa e la Chiesa secondo un gusto antichizzante e secondo un preciso disegno culturale perseguito dalla corte papale in quegli anni, che puntava a riassorbire nella tradizione cristiana il meglio della filosofia antica in modo da potersi rappresentare come erede di quella cultura che tutti riconoscevano a fondamento della civiltà occidentale. Nello stesso tempo, si doveva rappresentare la tradizione teologica cristiana come il naturale superamento di quella pagana, senza però lasciare percepire le contraddizioni e i conflitti che opponevano Platone a sant’Agostino. 138

Giulio fu il primo uomo moderno a comprendere che la forza persuasiva dell’arte e delle immagini può avere la meglio, se ben confezionata, su qualsiasi principio di realtà e su ogni radicale conflitto. La società in cui viveva aveva da decenni coltivato la rappresentazione ideale come un miracolo capace di modificare la realtà stessa. Lo avevano fatto i signori del Quattrocento che avevano decorato i propri palazzi con immagini che legittimavano un’autorità spesso fondata sul crimine e sulla tirannia. Ora toccava alla Chiesa, che in materia di immagini e di loro uso poteva vantare un’esperienza millenaria, oltre che contare sul sostegno di intellettuali e letterati, mai concentrati in così gran numero in un solo luogo come nella corte di Giulio. Ma la decorazione dei nuovi appartamenti pontifici doveva anche celebrare il papa della Rovere, la sua famiglia e le sue imprese. Giulio II sapeva che un’abile campagna propagandistica poteva essere di per sé uno dei più efficaci strumenti per la realizzazione dei suoi ambiziosi progetti, convincendo il mondo della loro legittimità. Già nei primi giorni del suo pontificato, aveva iniziato a modificare e a rafforzare l’apparenza visibile del papa, sostituendo alcuni gioielli della tiara con rubini e perle di spaventosa ricchezza. Aveva sbigottito il vecchio cerimoniere vaticano decidendo lui stesso quali paramenti era opportuno indossare nelle varie funzioni di rappresentanza. Il 5 dicembre 1503 aveva finalmente indossato la nuova tiara e il prezioso piviale bianco di Innocenzo VIII, rifiutandosi di indossare il fanone, la funicella, la dalmatica e la pianeta e pure il manipolo e il pallio: tutti ornamenti che lo facevano apparire meno un guerriero e più un sacerdote, «sostenendo che il Papa deve mettersi questi abiti solo quando celebra la messa»8. Se la scelta degli abiti era stata spregiudicata, quella che si accingeva a compiere con la decorazione delle stanze, nuovo manifesto del potere papale, non lo sarebbe stata di meno. Il 139

programma per i nuovi appartamenti fu stabilito sotto la stretta supervisione di Giulio. Pur non essendo un fine teologo, era uomo di cultura e intelligenza vivissime, come aveva dimostrato con le sue collezioni e le sue citazioni poetiche nei momenti più singolari della campagna militare. Perciò a collaborare all’impresa furono chiamati i migliori pittori italiani, com’era già successo con suo zio Sisto IV quando aveva dovuto decorare le pareti della Cappella Sistina. Arrivarono a Roma Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma da Vercelli, il Bramantino da Milano insieme a Cesare da Sesto, Lorenzo Lotto da Treviso, Jacopo Ripanda da Bologna, Baldassarre Peruzzi da Siena, nonché il Perugino e Luca Signorelli dall’Umbria. A Michelangelo, destinato in quegli anni a un posto speciale nell’affetto del papa, era invece stato affidato, non senza lotte durissime, l’appalto della volta Sistina, proprio sotto le camere che dovevano essere decorate dagli altri artisti. All’inizio o, al più tardi, a metà del 1508 tutti questi pittori furono messi all’opera. Giulio seguiva con ansia i lavori mentre continuava a progettare nuove imprese, certo esaltato da quella stessa grandiosità che vedeva crescere intorno a lui. Dopo la vittoria su Bologna e Perugia, puntava ora contro Venezia per costringerla a rinunciare alla parte di Romagna occupata ai tempi di Cesare Borgia. La sua politica coinvolgeva le potenze straniere in un gioco sempre più rischioso. Raffaello fu chiamato a Roma tra l’autunno e l’inverno del 1508. Alle calde raccomandazioni della corte urbinate, che era ormai diventata la corte dei della Rovere, proiezione laica del potere papale, si univa quasi certamente l’affetto o almeno la buona disposizione del responsabile principale dei progetti pontifici, Donato Bramante, nato a pochi chilometri da Urbino e perciò legato da interessi campanilistici al giovane Raffaello. Per un programma così ambizioso come quello delle stanze, Giulio capì di avere bisogno di un uomo nuovo, un uomo che sapesse cogliere il legame sottile e vi140

Tav. 3. Veduta di Roma ai primi del Cinquecento. Codex Escurialensis, f. 40v.

tale tra la politica e le immagini e fosse capace di creare convinzione e persuasione intorno al principe. Non potevano più bastare i devoti pittori sacri del Quattrocento o i decorativi affabulatori borghesi che avevano fatto brillare Firenze negli anni precedenti. Serviva un artista nuovo, aggiornato, pieno di talento, ma anche integrabile nel complesso mondo intellettuale della corte. Chi poteva incarnare quel ruolo meglio di Raffaello, il figlio di un artista che aveva svolto, seppure in un ambito più ristretto, quello stesso servizio? La sua particolarissima condizione di nascita, i suoi legami, i suoi stessi modi erano la garanzia migliore per il temerario progetto del papa. Il giovane si presentò con il suo collo lungo, gli occhi neri tondi e protesi fuori nello sguardo avido sul mondo. Persino il suo guardaroba era elegante ben più di quello di un pittore. Eppure si ingentiliva con l’atteggiamento umile di chi non pretende nien141

te più di quanto gli viene regalato e ringrazia felice. Il suo aspetto, insomma, era quello che lui stesso si diede sulle pareti delle stanze. Ed era uno degli elementi di maggiore convincimento per il vecchio papa guerriero, che prima di tutto era un fine diplomatico capace con i suoi occhi incavati di scrutare nell’anima dei suoi interlocutori. L’eleganza dei modi di Raffaello era l’espressione di quella civiltà urbinate che vedeva nella naturalezza e nell’armonia, nel distacco contenuto, la chiave dell’esistenza moderna. La «sprezzatura», come la chiamò il suo grande amico Baldassarre Castiglione, era la capacità propria di chi sa far apparire naturale persino ciò che insegue faticosamente e desidera appassionatamente: un distacco apparente dalle cose che era per Raffaello una realtà d’esistenza. Possiamo immaginare cosa provò il papa quando si vide di fronte quel giovane che aveva dato prova di tanto talento e che si affiancava per contrasto e per grandezza all’altro gigante che calcava le impalcature di legno del Vaticano, Michelangelo Buonarroti. Con Michelangelo Giulio aveva immediatamente capito di trovarsi di fronte a un temperamento indomabile. E dopo averci litigato violentemente, lui che faceva tremare i principi con la spada in mano, lo aveva infine lasciato fare: «sappiamo come sono gli uomini di tal fatta», aveva scritto a Pier Soderini con aria rassegnata. Relegato sulle impalcature della Sistina, quasi da solo nella penombra dei lumi a olio, Michelangelo non faceva che esprimere se stesso, il suo immenso tormento a gloria del suo committente. I suoi rapporti con il papa e con la corte erano inesistenti. Tutto il contrario del giovane urbinate, arrivato diligentemente da Firenze alla prima chiamata lasciando immediatamente tutto quanto aveva tra le mani senza finirlo. Era quel che Giulio e la sua corte cercavano, e Raffaello si trovò subito integrato in un viluppo di rapporti sempre più coinvolgenti. Giulio sapeva di poter piegare quel talento al suo progetto e lo sostenne con ogni premura. Raf142

faello lo ripagò subito ben oltre le aspettative. La corte papale che dipinse sulle pareti della prima stanza era la migliore rappresentazione possibile della civiltà trionfante, e soltanto un’anima profondamente coinvolta in quel progetto avrebbe potuto riversarvi il calore e la simpatia che facevano vivere i personaggi del dipinto rendendoli seducenti oltre misura.

4. IL PRIMATO

Quando cominciò a dipingere le stanze destinate all’appartamento di Giulio II, Raffaello aveva qualche svantaggio rispetto agli altri artisti. Era il più giovane di tutti, e pur avendo molta esperienza di pittura da cavalletto ne aveva poca di pittura su muro. Soprattutto, non aveva collaboratori fidati che lo potessero aiutare. Ben presto però, nel clima di furiosa competizione creato appositamente da Giulio affinché ciascun artista potesse dare il meglio di sé, i colleghi più anziani cominciarono a guardare con molta preoccupazione alla pittura che il giovane marchigiano dai modi cortesi e dal sorriso angelico andava stendendo sul muro con i suoi pennelli di vaio e un disegno sicuro ricopiato dal quaderno di schizzi voluminoso come una valigia. Le condizioni di svantaggio si stavano trasformando in altrettanti vantaggi, perché gli permettevano di produrre un’opera interamente autografa, priva quindi di qualsiasi caduta di qualità. La cifra che gli fu corrisposta nel gennaio del 1509 era una cifra consistente, riferibile a un’opera di vasta portata. Lo studio che Raffaello mise in questo lavoro agli inizi fu enorme. Lo testimoniano ancora i moltissimi disegni preparatori per quello che fu il primo dipinto eseguito per le stanze 143

vaticane, la Disputa del Sacramento [Fig. 15]. In questi disegni le figure, disposte in circolo su due livelli e intente a commentare alcuni libri sacri, vennero via via adattate a diversi scenari architettonici, riecheggiando forse quanto Fra Bartolomeo aveva fatto a Firenze negli affreschi dell’ospedale di Santa Maria Nuova, ma soprattutto quanto lui stesso aveva fatto a Perugia nella chiesa di San Severo. Alla fine le figure trovarono una disposizione spaziale libera da ogni scenografia di sapore quattrocentesco. Secondo un criterio che potremmo definire già pienamente classico, si organizzarono intorno al proprio atteggiamento, alla propria postura, al dialogo psicologico che intrattenevano tra loro. Non c’era più bisogno di nessuna scenografia. Soprattutto nel registro superiore, i santi e i profeti seduti sulle nuvole mostravano un agio naturale. La figura di Adamo che accavalla le gambe comunicava un senso di equilibrio mai visto prima. Era soltanto l’uomo, con il suo modo di stare nello spazio, a costruire il racconto. Negli affreschi di San Severo quelle stesse figure sedute sulle nuvole erano allineate in maniera rigida secondo una prospettiva semplice che faceva convergere nel corpo di Cristo le linee delle nuvole su cui sedevano i santi. Ora quelle linee si incurvavano restituendo la sensazione di uno spazio molto più profondo e naturale. La relazione psicologica dei vari gruppi che partecipano alla scena, la cura degli scorci anatomici bastavano da sole a strutturare l’immagine. La dolcezza delle espressioni e l’accordo raffinatissimo dei colori, tutti giocati su sfumature di blu e contrasti complementari, facevano il resto. Quando la primavera di Roma allentò la morsa del gelo che nell’inverno del 1509 aveva assediato con ghiaccio e neve l’intera Italia centrale, permettendo agli intonaci pastosi di accogliere il colore con fluidità e senza ostacolo sulla porzione di muro affidata a Raffaello, gli altri maestri videro apparire panneggi drappeggiati con grazia addosso a corpi prima studiati nudi e poi rivestiti con l’abilità di un sarto. Giorno dopo gior144

no, videro la folla di protagonisti prendere posto compassatamente l’uno accanto all’altro, come se una regia lungamente studiata avesse segnato a terra i profili dei piedi e in un invisibile fondale quelli dei corpi. Videro lo spazio affollarsi senza diventare angusto. E, sopraffatti dalla sorpresa, videro comparire sui volti dei personaggi espressioni così aggraziate e così credibili da diventare commoventi. La loro preoccupazione diventò ansia appena una porzione di muro fu trasformata da Raffaello nel cielo calmo in cui ambientò la parte superiore della disputa. Infine diventò condanna quando sotto il semicerchio dei santi e dei beati presero posto i teologi e i dottori della Chiesa, per animarsi in una disputa così elegante e così composta da essere da sola il miglior suggello della dignità divina della scena. Soltanto la successione di cerchi dorati composta nel centro a partire dall’ostensorio, che si allarga nell’aureola della colomba e poi in quella di Cristo per finire nell’immenso sole in cui compare il Padreterno, sembrava una concessione all’iconografia quattrocentesca, più pedante nell’illustrazione dottrinale. Questi ori, fissati al muro con pasticche di cera rilevate come borchie, richiamavano importanti cicli pittorici coevi, come quello di Pinturicchio della Libreria Piccolomini a Siena, impreziosito dal metallo applicato sul muro, e quello del Signorelli nella cappella di San Brizio a Orvieto. Una profusione d’oro caratteristica della pittura iconica medievale, sopravvissuta e volta in eleganza cortigiana nella pittura di storie del tardo Quattrocento. Il ricorso a questo virtuosismo artigianale rivela il rapporto ancora molto stretto di Raffaello, al momento del suo arrivo a Roma, con la civiltà figurativa dell’Italia centrale del tardo Quattrocento. Nei dipinti successivi egli abbandonerà ogni compiacimento artigianale, per concentrarsi sulla restituzione di uno spazio illusivo fondato sulla congruenza architettonica e sulla monumentalità della figura umana. Ma 145

già la pittura della Disputa mostra un rinnovato sentimento spaziale e una ritrovata centralità della rappresentazione dell’uomo. In questa pienezza d’esperienza che sembra uno strumento perfetto per controllare la rappresentazione della realtà, ciò che da un secolo si cercava in Italia, Raffaello si compiace perfino di un cammeo naturalistico nello sfondo, rappresentando su una collina un’impalcatura con operai al lavoro intorno a enormi muraglie. Era un omaggio a quella Roma dove era appena entrato e dove tutto era un cantiere aperto: una renovatio, come sottolineava la propaganda di Giulio II. Il grande pilastro bianco che cresce sulla destra era quello di San Pietro, «fotografato» da Raffaello nei giorni del suo arrivo in città e inserito per dare maggiore forza propagandistica alla santità del pontificato di Giulio II. Nella Disputa il papa e la corte potevano inoltre riconoscere quella concretamente avvenuta nel 1463 tra lo zio di Giulio, Francesco, e gli avversari domenicani, conclusasi con una vittoria considerata da tutti l’inizio della fortuna dei della Rovere. Con abilità straordinaria l’evento veniva fissato nella storia, rendendo credibile nello stesso tempo il momento fondante della mitologia familiare dei della Rovere. Da un lato la Disputa celebrava la teologia come pilastro della fede. Dall’altro, con sublime raffinatezza, celebrava Sisto IV e legittimava la sacralità del suo potere familiare, mescolandolo a quello dei Padri fondatori della Chiesa e delle scritture. Lo scarto tra la pittura di Raffaello e quella degli altri artisti era troppo grande e troppo impietosamente esibito a pochi metri di distanza perché il primato non fosse concesso al più giovane, all’ultimo arrivato. Raffaello sapeva che sarebbe finita così, e non fece nessuna mossa azzardata, niente che potesse danneggiare quel mito di eleganza che già avvolgeva la sua persona. Aspettò che gli eventi si compissero, che la coltissima curia romana venisse ad accertare le voci che si rincorrevano con sempre maggiore insistenza. Aspettò che ve146

nissero ad appurare il talento di un giovane genio approdato sulle rive del Tevere proprio mentre il favorito Michelangelo, che aveva spuntato l’appalto più importante in quella campagna di lavori, negli stessi mesi del 1509 si trovava alle prese con la peggiore crisi artistica della sua carriera. Mentre le malte «muffite» della volta Sistina guastavano sotto i suoi occhi increduli il lavoro appena fatto, anche al suo orecchio giungeva il borbottio dei corridoi di palazzo, che sprecava aggettivi superlativi per la pittura di quel ragazzo, bello ed elegante, appena arrivato in città. Raffaello aspettò, e quello che doveva accadere accadde. Giulio II guardò la Disputa e ne rimase incantato. La trovò perfettamente aderente alle sue ambizioni di propaganda. Non si era mai visto niente di così bello e aggraziato. Le mediazioni non erano il suo forte, nella guerra come nel patronato artistico. Lui non aveva tempo da perdere. Perciò, con la stessa determinazione con cui dichiarava guerra a uno Stato, rosso in volto per l’eccitazione, decretò l’abbattimento di tutte le pitture già realizzate dai maestri fatti arrivare da tutta Italia. Soltanto Raffaello doveva dipingere le sue stanze. Ciò che era stato eseguito e pagato doveva essere distrutto. Niente meno del talento di Raffaello doveva comparire sulle pareti. Per i vecchi maestri fu un’umiliazione bruciante oltre che una catastrofe economica. Avevano spostato a Roma assistenti e attrezzature, e ora si vedevano ricacciati via perché un giovane di appena venticinque anni era idolatrato da quel papa terribile, che non ammetteva discussioni e che per molto meno alzava sui suoi interlocutori la mazza o qualsiasi cosa avesse a portata di mano. Ma gli artisti sapevano fin troppo bene che non si potevano contrastare né i gusti dei committenti né il talento dei colleghi. E poi Raffaello diede prova ancora una volta di una sapienza imprenditoriale e di una delicatezza di sentimenti che pochi altri avrebbero avuto. Certo non l’avrebbe avuta Michelangelo, che proprio nell’estate 147

del 1509 rimandò a casa i vecchi amici e gli assistenti che avevano affrontato il viaggio da Firenze per venirlo ad aiutare. Raffaello invece fece in modo che almeno una parte del lavoro non venisse distrutto. Nella volta aveva lavorato Giovanni Antonio Bazzi, che per le sue passioni omosessuali era chiamato da tutti il Sodoma. Era un pittore sensuale e sapiente, e Raffaello poteva apprezzare lo stile pastoso e solare che fece la sua fortuna a dispetto delle abitudini poco ortodosse in campo erotico. Una parte della volta fu salvata, e Raffaello vi inserì soltanto dei riquadri di sua mano. Era un gesto pieno di significato, che certo altri grandi pittori non avrebbero mai fatto. Nella Roma spaccona e sempre pronta ad azzuffarsi nelle dispute di ogni genere non si parlava d’altro in quei mesi. E soprattutto non si parlava d’altro nella società degli artisti immigrati, che costituiva uno dei circoli più turbolenti della città. Michelangelo, aggrappato alle immense impalcature della sua spelonca aerea, combatteva da solo con le difficoltà della pittura a fresco. Raffaello, a cui il papa inaspettatamente aveva concesso un favore esclusivo, manovrava invece per recuperare il lavoro degli artisti esclusi e la loro stessa collaborazione. Raffaello era arrivato a Roma con un talento superlativo ma con un’esperienza decisamente limitata alla pittura da cavalletto. La sua vita girovaga e la sua giovinezza facevano sì che a differenza di tutti gli altri artisti non potesse vantare una bottega di frescanti: una struttura operativa che avesse piena dimestichezza con il confezionamento e la stesura delle malte, la riproduzione dei cartoni e quant’altro serviva ad allestire una pittura parietale di dimensioni monumentali. Che la questione tecnica non fosse irrilevante lo dimostrano i cretti irregolari ed eccessivi messi in luce nel recente restauro su grandi porzioni di intonaci della Scuola di Atene [Fig. 16]. Le analisi dell’impasto hanno confermato che in molte giornate il rapporto calce-inerte è sproporzionato e calcolato sull’abi148

tudine dei pittori dell’Italia centrale piuttosto che di quelli romani. I quali sapevano bene che per non far ritirare le malte era necessario mescolare la pozzolana quasi in rapporto di tre a uno piuttosto che di due a uno, come si faceva per le sabbie di fiume dell’Italia centrale. Ora, improvvisamente, Raffaello si trovava investito di un incarico di enormi proporzioni. In più, la vicinanza degli affreschi all’osservatore e le ottime condizioni di luce nelle stanze avrebbero spaventato chiunque, perché l’apprezzamento dell’opera poteva compararsi a quello di una tavola da cavalletto. Se Michelangelo sulla volta poteva sperare nella clemenza della penombra (cosa che peraltro non fece mai), Raffaello doveva essere pronto a sfidare giudizi sapientissimi dati da un punto di vista molto ravvicinato. La sfida era terrificante, ma Raffaello la affrontò e risolse con l’intelligenza calma che lo aveva catapultato a Roma dopo i suoi brillanti esordi umbri e la parentesi fiorentina. Capì subito che aveva bisogno di formare una scuola. Certo, era giovane e per avere autorità doveva rivolgersi a pittori ancora più giovani di lui, a ragazzi che andavano formati e allenati sia alla gerarchia che alla qualità. Ma aveva anche bisogno di collaboratori esperti, quegli stessi che erano stati penalizzati dal suo talento. Fu a questo punto della sua carriera, di fronte a simili ostacoli, che dimostrò una sensibilità psicologica che gli avrebbe permesso di lasciarsi definitivamente alle spalle tutti gli altri artisti d’Italia. Il talento umano che rivelò nell’organizzare il lavoro degli altri, gli fu tanto di aiuto nel raggiungere i vertici del successo quanto il talento artistico. Riuscì a convincere alcuni dei vecchi maestri a collaborare con lui. Certamente fu il caso di Lorenzo Lotto, che continuò a lavorare nelle stanze accettando la guida di Raffaello. Ma fu anche il caso di molti altri che oggi non siamo ancora in grado di individuare. Cominciò poi a selezionare una squadra di 149

giovanissimi artisti, manifestando un intuito straordinario nella selezione. Ma fece molto di più: rinnovò interamente la struttura della bottega quattrocentesca, fortemente gerarchizzata nei ruoli e nelle modalità di apprendimento, trasformandola in un atelier capace di cogliere le qualità specifiche di ognuno utilizzandole per la migliore riuscita del lavoro generale. In quest’opera di reinvenzione delle relazioni tra artisti, Raffaello fu rivoluzionario, ma fu aiutato da un carattere solare e affabile, che affascinò talmente i suoi allievi da indurli a considerarlo come un padre. Lui li considerò come dei figli, inserendoli corposamente nel proprio testamento e integrandoli nella sua vita familiare: un tratto nuovissimo che non aveva precedenti in Italia. Questa scelta mostra anche che Raffaello sentiva l’arte come proprio destino totale, a differenza di Michelangelo, che tenne sempre separati gli interessi del lavoro e della famiglia sottomettendo i primi ai secondi. Per non parlare di Leonardo, spesso infastidito dalla volgarità del mestiere artistico. Ma c’era anche dell’altro. Nella bottega di suo padre, Raffaello aveva ricevuto una singolare educazione artistica, ma soprattutto aveva evitato quell’apprendistato duro e spesso frustrante che accompagnava i giovani adolescenti indirizzati all’arte. Questo vissuto così particolare lo rendeva disponibile verso i suoi collaboratori in maniera nuova. Come abbiamo visto, a diciassette anni veniva già definito «maestro» nei documenti economici. Ma forse lo era o sentiva di esserlo già molto prima. Non aveva frustrazioni da riscattare, e in qualità di capo bottega poteva riprodurre le relazioni gentili e fruttuose che avevano caratterizzato il suo apprendistato. Né i riconoscimenti senza riserve che aveva raccolto nella sua giovane vita riguardavano soltanto il suo talento artistico. Come emerge dai rapporti che strinse appena arrivato a Roma, la sua educazione sociale lo collocava all’interno di un progetto umano ricco e sfaccettato, di cui darà conto uno dei suoi amici più cari, 150

Baldassarre Castiglione, che prenderà l’archetipo della signorilità cortigiana proprio dall’esempio della corte urbinate, dove Raffaello era cresciuto e da cui era stato fecondato principalmente attraverso suo padre Giovanni. In questa fase della propria vita è la figura di suo padre, con la specialissima educazione che gli diede, a guidarne le scelte critiche con grande apertura mentale verso ogni forma di talento e di ricerca, e una sensibilità intellettuale che lo poneva molto al di sopra della mentalità artigiana e molto vicino alla raffinatezza della corte di Giulio, composta da letterati filosofi e teologi di prima grandezza. Se questi erano i presupposti intellettuali che spinsero Raffaello alla sua personale rivoluzione produttiva nell’affrontare l’impresa delle stanze vaticane, l’altro aspetto sviluppato con coerenza a partire dalla propria specifica sensibilità ed esperienza fu quello degli strumenti produttivi. Attraverso l’uso sapiente del disegno Raffaello stabilisce un nuovo procedimento di comunicazione con i collaboratori. Nello stesso tempo il disegno, in parte affidato all’elaborazione dei discepoli, diventa il modo di farli partecipare alla procedura creativa al fine di ottimizzare il risultato finale. Fortunatamente questo aspetto del suo lavoro ci è testimoniato dal cartone preparatorio per il secondo dipinto delle stanze, la scena diventata famosa con il nome di Scuola di Atene, che dai contemporanei in poi fu giustamente considerata come un vertice del pieno Rinascimento italiano.

5. LA SCUOLA DI RAFFAELLO

Il dipinto che rappresentava la Scuola di Atene si trovava sulla parete di fronte a quella dove era stata dipinta la Disputa del Sa151

cramento. Il programma, stabilito dal papa e dai suoi consiglieri, prevedeva sulle altre due pareti anche una rappresentazione del Parnaso e una delle virtù. Intorno alla metà del Cinquecento, la stanza fu chiamata Stanza della Segnatura perché vi si segnavano i brevi apostolici. Ma nel progetto di Giulio era destinata a diventare la sua biblioteca e a ospitare i suoi libri più pregiati. Le decorazioni dovevano quindi esaltare la sapienza della Chiesa, che in quegli anni cercava una nuova legittimità fondendosi con quanto di meglio aveva prodotto la scienza pagana, ridotta a una premonizione della dottrina cristiana. Nella biblioteca dovevano essere celebrate le discipline della conoscenza, concepite come le vie che portano per sentieri diversi alla verità della rivelazione cristiana e come fondamento del buon governo sia spirituale che temporale, uniti inscindibilmente nel regno di Giulio II. Teologia, filosofia, poesia e diritto erano considerati altrettanti modi di rivelare la sapienza divina e di sostenere il governo del papa. La teologia era stata rappresentata nell’affresco con la Disputa del Sacramento. La poesia invece fu celebrata con una rappresentazione del mitico monte Parnaso, governato da Apollo e dalle Muse tra una schiera di poeti vecchi e nuovi. Immediatamente riconoscibile era il vecchio Omero cieco, adorato dal pontefice che nell’ottobre del 1512 fece recitare in Vaticano i suoi versi a un vecchio cieco con la lira. Più che evocata, alla corte di Giulio II l’antichità veniva rivissuta9. Più complessa era l’allegoria del diritto, articolata tra il tondo della volta, con un’allegoria della giustizia, la lunetta con le tre Virtù, Prudenza, Forza e Temperanza, e la parte inferiore con due scene distinte: Gregorio IX, con le sembianze di Giulio II, approva le Decretali e Triboniano consegna le Pandette a Giustiniano, per simboleggiare rispettivamente la legge della Chiesa e la legge secolare. La filosofia, infine, poneva problemi più delicati di riconoscibilità e per questo si avvalse 152

di una invenzione nuova e raffinata, che evase la frigidità delle allegorie medievali per costruire un racconto che si prestava contemporaneamente a una celebrazione di molteplici aspetti tanto della corte papale quanto del pensiero antico. Nella celebrazione della filosofia come sapienza naturale del mondo, Raffaello mise in scena una discussione tra filosofi, uomini saggi dell’antichità in parte riconoscibili per i loro attributi ma lontanissimi per tempra psicologica, oltre che per ambientazione, dalla disputa teologica ultimata sulla parete di fronte. Lì la vastità dell’universo naturale e la solennità dei simboli della teologia avvertivano lo spettatore del mondo sovrannaturale in cui si svolgeva il confronto fondato nell’eternità della fede. Qui era la storia a essere messa in scena come solenne legittimazione della sapienza degli uomini. Raffaello ambientò la discussione filosofica in una grandiosa architettura luminosa dove il vago decorativismo prospettico, tipico dei fondali di «storie» del Quattrocento, veniva sostituito da una concezione spaziale dell’architettura, in sintonia con le ricerche di Donato Bramante che collocavano il senso dell’architettura antica non più nell’articolazione delle superfici bensì nel proporzionamento dei membri e dello spazio. Lo sfondo, pensato da Raffaello come una sequenza di archi di pietra aperti in alto, decorati da lacunari come lo era la volta del Pantheon, era quanto di più vicino alle ricerche architettoniche di Bramante e ai progetti che questi stava realizzando nella nuova basilica di San Pietro. La grandiosa prospettiva è pervasa da una luce dorata che avvolge la scena e dispone lo spirito dell’osservatore ad abbandonarsi alla calma solare dell’azione. Sulle pareti di prospetto dell’architettura, che fanno da sfondo alla discussione dei filosofi, sono ben in vista due sculture che simboleggiano le divinità della ragione: Apollo, riconoscibile a sinistra con la sua lira, simbolo della limpidezza del pensiero, e Minerva alla destra, segno dell’acutezza dell’intelligenza. Quest’ultima ha nelle mani una lancia 153

e uno scudo con la testa di Medusa, destinato a respingere le ombre dell’irrazionale e del mostruoso lontano dalla chiarezza della filosofia. Nel progetto sincretico di Giulio II, la filosofia era infatti una disciplina che attraverso l’esercizio del pensiero arrivava fino alla prova della divinità: una forzatura, questa, su cui erano concentrati tutti gli intellettuali italiani, visto che in nessun modo si poteva rinunciare a un patrimonio così alto di civiltà che doveva a tutti i costi confluire nella legittimazione della rivelazione cristiana. Per realizzare il suo grandioso edificio all’antica Raffaello lo disegnò – ma sarebbe più corretto dire lo progettò – nei minimi dettagli. Lo trasportò sulla parete servendosi dello spolvero, una tecnica generalmente riservata alle figure. E già in questa scelta tecnologica si leggono immediatamente la sua passione per l’architettura, l’organizzazione ferrea del cantiere e la volontà di creare un’opera eccellente10. In questo scenario, che già di per sé affermava la potenza e l’armonia di cui è capace il pensiero umano attraverso l’espressione artistica, avanzano i filosofi impegnati in una calma discussione, ancora una volta organizzati intorno a legami psicologici che erano la specialità creativa di Raffaello. Inquadrati al centro dall’arco aperto sull’orizzonte, Platone e Aristotele sono abbigliati all’antica con due mantelli, uno rosato e l’altro celeste, che rappresentano le due chiazze di colore più larghe del dipinto e perciò attirano immediatamente l’attenzione dello spettatore. Platone rivolge con calma l’indice al cielo, mentre la mano di Aristotele è fissata in un gesto che vorrebbe simboleggiare il dominio della realtà. Intorno a loro sono riconoscibili altri filosofi, tutti raccolti in quell’atmosfera limpida a celebrare l’acutezza del pensiero antico. Chi aveva strumenti più raffinati poteva riconoscere nel dipinto un richiamo esplicito a una scena che, se non si era potuta svolgere davvero, era stata almeno evocata in un famoso scritto filosofico antico. I filologi di corte potevano co154

sì compiacersi di un’evocazione letteraria coltissima. Ma per tutti gli altri la solennità delle pose e le citazioni dei trattati rendevano ugualmente esplicito che la messa in scena riguardava una ideale discussione filosofica, in cui tutti i maggiori protagonisti del pensiero antico erano miracolosamente raccolti in uno stesso luogo. C’era poi un ulteriore livello di lettura del dipinto, che di certo aumentava il compiacimento del papa e della sua corte. Molti dei personaggi del suo governo, infatti, erano riconoscibili nei ritratti dei filosofi, così che l’osservatore era portato inevitabilmente a identificare la corte papale come una reincarnazione moderna della sapienza antica. Dal punto di vista strettamente pittorico, le novità maggiori stavano nella cura aggraziata di ogni gesto e di ogni anatomia, nell’espressione umanissima di ogni volto, e soprattutto nell’atmosfera dorata che sembra traspirare dalla parete. Raffaello abbandonava definitivamente i contrasti freddi di colore che avevano caratterizzato la pittura umbra e che dominavano ancora il dipinto precedente, la Disputa del Sacramento. Qui i pigmenti erano usati con una brutalità ancora quattrocentesca. Il bianco del mantello di Cristo e delle nuvole, insieme a quello di altri panneggi, era un bianco quasi puro, accostato al blu profondo del lapislazzuli di molti mantelli e al giallo e all’oro dei paramenti sacri e dei guizzi decorativi. I colori erano incastonati e contrastanti come in uno smalto metallico dove ognuno aveva un proprio recinto nettamente delimitato. Il disegno lineare insisteva a scavare e isolare ogni figura, ogni dettaglio anatomico e ogni espressione. Se si osservano i gradoni su cui sono inginocchiati molti personaggi, questi sembrano illuminati da una fredda luce primaverile. Le pennellate con cui sono costruite le figure sono piccole e nervose come quelle di una tavola, con ampio ricorso al nero per sottolineare i capelli e ogni altro dettaglio. 155

Nella Scuola di Atene, e da lì in poi, la luce diventa invece quella di un pomeriggio estivo a Roma, che Raffaello aveva finalmente avuto modo di sperimentare. Il senso della spazialità aerea investe ormai anche la gradualità dei toni cromatici. Ogni colore viene impastato e non più esibito nei suoi toni semplici. Il bianco diventa avorio e il blu impallidisce velandosi di indaco, certo anche per l’azione del tempo. Le ombre non contrastano più e diventano cangianti, sfumando in toni evanescenti che catturano lo sguardo dentro inafferrabili particolari. Il disegno quasi non si distingue più e il tutto è decisamente impastato da quel pulviscolo dorato che impone un abbandono felice, un sorriso pienamente soddisfatto di fronte alla scena. I gradoni, che anche in questo dipinto accolgono i personaggi vicini all’osservatore, hanno perso la durezza degli spigoli e la nettezza delle ombre fredde. Raffaello è pienamente approdato a Roma, dove la luce ammorbidisce ogni cosa e rende solenne e felice quella riunione di uomini illustri che si muove composta, anche se divorata dall’ansia della conoscenza. Chiunque alzasse lo sguardo verso quella scena non poteva che distendere l’anima in una visione rassicurante della grandezza della sapienza antica, confluita finalmente nella sapienza della Chiesa di Roma. Tanta bellezza e tanta sapienza pittorica sembrano il frutto di una sola mano. E in parte lo sono, perché non c’è dubbio che Raffaello si spese molto per questo dipinto. Ma erano anche il frutto di una organizzazione tecnica del lavoro che completava, portandolo a maturazione e decretandone il successo, quel nuovo assetto della bottega che la trasformava in scuola. Così sarà pure dell’unità di molte scene dipinte negli anni successivi, quando Raffaello si dedicò a troppe imprese per poterle dipingere tutte da solo. La chiave per penetrare in quest’impresa ci è arrivata fortunatamente intatta, ed è il cartone preparatorio della parte inferiore del dipinto, oggi conservato alla Pinacoteca Ambro156

siana di Milano [Fig. 58]. Il cartone preparatorio aveva la funzione di fissare il disegno definitivo alla stessa scala del dipinto. Da questo cartone si traevano poi degli altri disegni più limitati che venivano di volta in volta appoggiati sull’intonaco fresco su cui con diversi mezzi si stampava il disegno. Quello conservato a Milano è la matrice o il cartone primario da cui vennero tratti tutti gli altri ed è di sicura mano dell’artista. Alla fine di complessi studi preparatori, il disegno definitivo del dipinto veniva realizzato su un enorme foglio di carta, ottenuto incollando pazientemente i fogli di carta più piccoli che uscivano dalle presse delle cartare, soprattutto di quelle romagnole e marchigiane, luoghi ricchissimi di acqua dove venivano prodotte le carte più pregiate. Per la Scuola di Atene Raffaello incollò decine e decine di fogli di carta. Il disegno, così riportato sul grande foglio, veniva quindi punzonato con un ago e i contorni venivano bucati minuziosamente. Sul foglio sottostante si ritrovava in forma di punti il disegno principale. Bastava collegare i punti con una matita o un pennello per avere una copia fedele del cartone principale. Per trasferire poi i disegni sull’intonaco bastava ripassare i contorni bucati con un sacchetto pieno di polvere di carbone, che attraverso i fori degli aghi passava sul muro retrostante riproducendo il disegno. Il secondo cartone, quello da appoggiare sull’intonaco, si poteva tagliare in pezzi o si poteva a sua volta grossolanamente replicare su altri pezzi manovrati sull’intonaco. Il contatto con la calce rovinava la carta ed è per questo che pochi cartoni utilizzati per il trasporto sono pervenuti fino a noi. Per imprese minori, o nei casi in cui il pittore era solo a dipingere, si preparava un solo cartone. Ma per imprese complesse, dove lavoravano più persone, il cartone era lo strumento con il quale l’artista principale controllava il lavoro dei collaboratori. La perfezione e la complessità del cartone preparatorio per la Scuola di Atene raccontano da sole quale grado di controllo 157

Raffaello riuscisse a esercitare sui suoi collaboratori attraverso il disegno, quello strumento che da sempre era stato alla base del suo lavoro. Il cartone dell’Ambrosiana è così finito da costituire esso stesso un’opera d’arte compiuta e pienamente espressiva. Raffaello aveva imparato senz’altro da Leonardo a fermare sulla carta un’idea in maniera così definita. A Firenze, come tutti, era rimasto abbagliato dal cartone per la Sant’Anna, il solo paragonabile a quello della Scuola di Atene. Se osserviamo il cartone di Raffaello da vicino, fino a poterne vedere le bucature, ci accorgiamo che il disegno trasportato sulla replica e poi sull’intonaco è dettagliatissimo: sono bucherellate non solo le linee principali del disegno o i contorni di un panneggio, ma finanche le ombre e le sfumature, che anticipano l’effetto pittorico del colore. Ma passando a confrontare il cartone della Scuola di Atene con il dipinto della parete ci accorgiamo che più ancora dei dettagli disegnativi il dipinto rispetta le espressioni psicologiche, le atmosfere che erano già evidentissime nel primo. I piccoli cambiamenti che sono intervenuti ad esempio nel ritratto di Aristotele, che appare ringiovanito e addolcito nel dipinto, ne lasciano inalterata l’espressione appagata e dignitosa. Lo stesso accade anche per le figure di fondo che già nel cartone appaiono delineate con pochi guizzi di matita e nel dipinto con poche pennellate ma sempre rispettando la psicologia del personaggio. Era a questa che puntava Raffaello per il proprio capolavoro. Confrontando il cartone della Scuola di Atene con altri che conosciamo di artisti coevi, come quelli del Ghirlandaio o dello stesso Raffaello (il cartonetto con il Sogno del cavaliere), si capisce come esso sia infinitamente più dettagliato. In questo modo l’artista raggiungeva due importanti obiettivi: fornire ai suoi collaboratori un’idea precisissima di quello che doveva essere il dipinto finale, delle espressioni e delle sfumature che voleva ottenere, e offrirgli al contempo una matrice vera e propria della pittura. Maggiore era il grado di 158

compiutezza del cartone preparatorio, minori diventavano i margini di errore possibili per gli allievi. La compiutezza e la complessità del cartone erano d’altronde anche un’eredità fiamminga. I maestri nordici approntavano disegni preparatori dettagliatissimi, come dimostra il dipinto di Hugo van der Goes (c. 1472) conservato al Metropolitan Museum di New York, in cui il colore strappato ha messo in luce un disegno sottostante paragonabile per qualità e dettaglio al cartone dell’Ambrosiana. Ma c’era ancora qualcosa di più che Raffaello iniziò a fare con i suoi collaboratori. Cominciò a utilizzarli anche nella creazione del modello e non soltanto nella meccanica opera di trasposizione. Gradualmente i discepoli cominciarono a essere coinvolti nello sviluppo del progetto iniziale e a loro fu affidato il disegno e lo studio di particolari. Potevano essere dettagli come le varietà di frutta e di uccelli, che Giovanni da Udine studiò e inventò per diverse composizioni successive. Ma potevano essere anche le posture delle mani, dei corpi e delle espressioni, che i più dotati tra gli allievi di Raffaello cominciarono a sperimentare sotto il suo occhio attento, nel suo atelier o a casa sua. Ben presto la collaborazione si trasformò in una convivenza creativa che assorbiva e rimetteva in circolo energie da ogni evento e da ogni esperienza quotidiana vissuta in quel ricchissimo teatro in cui si stava trasformando Roma sotto l’impulso innovativo di Giulio II. Come in nessun altro luogo, nella Stanza della Segnatura si può cogliere il passaggio fulmineo dalla pittura borghese del Quattrocento, quella maturata principalmente a Firenze, alla grande pittura ideale che contraddistinse il Rinascimento maturo fiorito a Roma. Nello stesso tempo si possono cogliere la versatilità prodigiosa di un giovane artista capace nel giro di due anni o poco più di rinnovare completamente se stesso e il suo linguaggio narrativo. La scena della Disputa, per quanto benissimo impaginata, è una scena ancora quattrocentesca per 159

lo scarso rilievo che le figure hanno nello spazio, per la mancanza di circolazione atmosferica tra di esse e per l’inutile virtuosismo con cui sono descritti dettagli ridondanti. L’avvicinarsi di Raffaello a una misura classica nella Scuola di Atene avviene attraverso la semplificazione dell’immagine da rappresentare e la selezione del suo sguardo, capace di restituirci tutto quanto è necessario per rendere emozionante l’immagine. È un processo di sottrazione che avvicina Raffaello al classicismo più alto in cui verrà per sempre identificato. Se ne ha una conferma immediata nel trattamento dei panneggi. Nella Disputa le stoffe si attorcigliano in labirinti di pieghe e guizzi di luce; nella Scuola di Atene si semplificano fino a diventare essenziali, al punto da non interferire con la compostezza dei corpi che ne ricevono grande forza. Raffaello usa molte volte nei due dipinti le stesse posture e gli stessi paludamenti, che da decenni usavano i pittori italiani valendosi della diffusione di taccuini e di immagini riprodotte in vario modo. Tra i due dipinti però il giovane Raffaello ha avuto modo di visitare a fondo Roma, di scrutare la Colonna Traiana, l’Arco di Costantino e altri rilievi scultorei, e qui ha appreso la «misura» delle pose, l’essenzialità dei gesti ma anche dei panneggi. Ha semplificato il linguaggio pittorico fino a coglierne perfettamente il centro evocativo. Il percorso fatto in due anni intorno alla scultura romana è il percorso che possiamo fare ancora oggi misurando i pochi passi che nella Stanza della Segnatura separano l’affresco della Disputa da quello della Scuola di Atene, ribadito con una compiutezza ancora maggiore nella lunetta che rappresenta le allegorie della Forza, della Prudenza e della Temperanza [Fig. 59]. Fu questo, forse, l’ultimo dipinto della stanza, e in esso la monumentalità della figura femminile si sposa a una grazia mai vista prima a Roma e nel mondo.

CAPITOLO 5

TRA IL PAPA E IL BANCHIERE

1. LA BARBA DEL PAPA

Giulio II aveva buoni motivi, nel 1510, per godersi il trionfo che Raffaello gli decretava con la pittura delle sue nuove stanze. Dalla primavera del 1508 suo nipote Francesco Maria aveva ereditato il ducato di Urbino da Guidobaldo da Montefeltro. Questa circostanza evitava al papa di dover scadere in un nepotismo eccessivamente compromettente, come quello che aveva perso il suo predecessore Alessandro VI. La famiglia aveva ormai un regno e nel Carnevale del 1510 Roma ricevette il giovane duca e sua moglie con la migliore delle accoglienze possibili. Con le sue feste, la primavera segnò il momento di massima gloria dei della Rovere in Italia. Roma celebrava uno dei suoi migliori carnevali facendo correre da Campo de’ Fiori a San Pietro i bufali, gli asini e i cavalli berberi e infine gli ebrei, che ogni anno pagavano quel pegno alla tirannia dei cristiani. Anche i baroni locali si erano rassegnati e l’età dell’oro sembrava davvero rinata sulle sponde del Tevere. 163

Ma il resto d’Italia si ostinava a non volersi piegare ai desideri del papa. La spina nel fianco di Giulio era diventato Alfonso d’Este, duca di Ferrara, che secondo il pontefice occupava abusivamente il governo di una città che apparteneva alla Chiesa, ma soprattutto si ostinava nel commercio del sale estratto dalle sue saline di Comacchio. L’ostinazione di Alfonso danneggiava il monopolio della Chiesa su quel commercio, e in particolare gli interessi di Agostino Chigi, banchiere senese e gran consigliere del papa per le questioni finanziarie, nonché appaltatore monopolista del commercio del sale e dell’allume per conto della Chiesa. In più, Alfonso aveva il torto di aver sposato la figlia di Cesare Borgia, Lucrezia, che pure si era mostrata eccellente e irreprensibile governante a fianco del marito. Per quelle nozze il tributo annuale dovuto da Alfonso al papa come suo feudatario era stato ridotto da quattromila a cento ducati annui. Giulio II riteneva quella elargizione una delle peggiori aberrazioni nepotistiche di papa Borgia e nel luglio del 1510 pretese da Alfonso gli arretrati: trentacinquemila ducati ai quali provocatoriamente aggiunse altri centomila per risarcimento delle spese militari che il duca, ostinato ed eccellente condottiero, lo costringeva a sostenere. La guerra a Ferrara venne dichiarata nell’estate 1510. Giulio, forse memore della campagna militare precedente, trasformatasi senza troppo sforzo in una marcia trionfale, decise anche questa volta di seguire il suo esercito, dopo aver stipulato con Venezia, sua antica nemica, una lega contro Ferrara e la Francia. Ma le cose questa volta non sembravano andare così bene. Persino il tempo sembrò accanirsi contro quel papa guerriero che aveva già scandalizzato l’Europa quando aveva dichiarato guerra a un principe cristiano, il re cattolico Luigi XII. Nel settembre piogge torrenziali colsero il papa e il suo esercito lungo la strada che da Rimini porta a Bologna. Alcuni prelati morirono per il disagio, l’apparizione del corteggio papale stremato dalla fatica suscitò ilarità nei 164

contadini. Ma il papa, ostinato, raggiunse comunque Bologna, da dove organizzò la spedizione finale contro Ferrara nonostante intermittenti attacchi di febbre consigliassero un riguardo maggiore per la sua età e la sua salute. La presa di Ferrara appariva sempre più difficile. Le truppe erano inchiodate davanti alla fortezza della Mirandola, dove Giulio si recò di persona convinto che la sua presenza inducesse i generali poco ardimentosi a concludere l’assedio. Agli inizi di gennaio il ghiaccio gelò i fiumi intorno alla fortezza e la neve seppellì la campagna e gli eserciti, gli alberi e le case. Ma il papa, ostinato oltre ogni misura, si presentò sul campo di battaglia. Si era fatto crescere la barba, giurando di portarla per penitenza fino a quando non avesse conquistato Ferrara e cacciato i francesi dall’Italia. Quella barba spaventò tutti diventando la materializzazione della rabbia che aveva dentro uscita a deturpargli il viso: «cum la barba che pare un orso», come lo descrisse un contemporaneo, Giulio mulinava le braccia nella tormenta di neve. Incurante degli osservatori diplomatici, bestemmiò contro Ferrara, contro quella «puttana» della contessa della Mirandola che si ostinava a resistergli, e soprattutto contro suo nipote Francesco Maria della Rovere, capitano delle forze pontificie, che «cum venti millia persone non ha potuto pigliare in tanto tempo una Putana fotuda»1. Esasperato, Giulio usava la sua stessa immagine come un messaggio politico: quella barba orientale ebbe un effetto impressionante sulla corte e sugli osservatori. Gli ambasciatori, con i loro dispacci, informarono le corti dell’incredibile comportamento del papa: «il papa era questa matina su uno prato, sentado su una cariega, cargo di neve, che quelle campagne sono piene; ha commenzato im persona a far la mostra a li fanti, tamen vien inganato»2. Travolto dalla sua stessa fantasia, Giulio II si era trasformato in una sorta di Giulio Cesare. Ma il suo impegno sul fronte di battaglia non ebbe gli stessi esiti felici che aveva assicurato alla presenza del celebre 165

omonimo Giulio Cesare. Dopo aver salvato a stento la vita dai disagi del fronte, alloggiato in una stalla come il peggiore dei domestici, il papa fu costretto a ripiegare lentamente verso Roma, incalzato da una sconfitta militare progressiva ma inesorabile e da una marea di critiche che da tutta Europa piovevano sul suo comportamento poco cristiano. Il 22 maggio Bologna cadde di nuovo in mano ai suoi nemici i quali, consapevoli del valore che egli aveva sempre attribuito ai simboli e alle immagini, gli infersero il peggiore degli scherni. Il 30 dicembre del 1511 i bolognesi legarono con lunghi canapi la statua di bronzo che Michelangelo aveva fuso per Giulio tre anni prima e che era stata posta sulla facciata di San Petronio per ricordare a tutti gli abitanti chi era il vero signore della città. Al di sotto, i bolognesi avevano preparato un grande letto di letame, dove la statua venne fatta cadere e si frantumò in un’esplosione liberatoria di merda e metallo. Ma lo scherno ancora peggiore venne riservato a Giulio da Alfonso d’Este, che con il metallo di quella scultura fuse una delle sue bombarde più micidiali, destinata a consegnare all’Europa una fama di invincibile. La bombarda si chiamava «La Giulia» e, quando nell’estate del 1512 il papa per ragioni politiche fu costretto ad accettare un accordo con il duca di Ferrara, fu proprio il ricordo dell’oltraggio fatto alla sua statua a ostacolare il dialogo tra i due. Giulio rientrò a Roma con la barba più lunga che mai, ma soprattutto con il peso di nuove sconfitte militari inflitte al suo esercito e con la necessità di difendersi da un attacco senza precedenti al suo regno. I francesi avevano indetto un concilio scismatico a Pisa con l’aiuto dei fiorentini loro alleati. Ormai l’attacco investiva anche l’autorità morale e religiosa del papa. Se il concilio avesse avuto il successo sperato, il papa rischiava di vedersi deposto dal suo ruolo e abbandonato in men che non si dica dagli alleati rimasti ancora fedeli. Il rientro a Roma, sotto la stessa pioggia torrenzia166

le che aveva accompagnato la partenza un anno prima, aveva tutto il sapore di una sconfitta. Giulio doveva ora tessere i fili di una difficile riscossa politica per liberarsi dall’angolo angusto in cui la sua ostinazione l’aveva relegato. Ad attaccare il papa, accusandolo di poca spiritualità e di eccessiva passione temporale, non erano soltanto i governi nemici. Un grandissimo intellettuale come Erasmo da Rotterdam, certo al di sopra delle parti, aveva compiuto un viaggio a Roma dal quale era tornato molto scosso per il clima bellicoso che aveva riscontrato nella corte pontificia. Nel suo Elogio della pazzia prese senz’altro di mira l’eccessiva secolarizzazione del papa e della curia di Roma. Altri libelli, come il Giulio secondo scacciato dal paradiso, furono stampati e diffusi in Europa in quegli anni, e tutte le critiche puntavano il dito inevitabilmente contro il papa guerriero. Ancora una volta, dunque, lo strumento principale della riscossa politica di Giulio doveva essere la propaganda. E ancora una volta il suo miglior alleato fu individuato in Raffaello. Nella seconda stanza dei nuovi appartamenti papali, quella passata alla storia come la Stanza di Eliodoro, l’artista e la curia romana costruirono la migliore risposta alle accuse rivolte da più parti al papa, una risposta destinata ad avere in seguito il sopravvento sulla stessa realtà dei fatti. Ma prima ancora di dipingere sulle pareti una versione celebrativa delle dissennate gesta del pontefice, Raffaello si occupò direttamente della sua immagine personale, dipingendo un ritratto destinato a contrastare la propaganda nemica che diffondeva stampe del papa in corazza nell’atto di combattere sul campo con la spada. All’ammirazione del mondo Raffaello consegnò invece un uomo che era quanto di più lontano da un monarca bellicoso [Fig. 61]. Vestito di una semplicità quasi al limite del decoro per un pontefice romano, il papa appare seduto su una poltrona dall’alto schienale che termina in due ghiande d’oro, suo 167

simbolo araldico. Il fondo, una tenda verde con le insegne della Chiesa, rimanda in superficie la luce che lo investe dall’alto a destra. Le belle mani curate, ancora energiche, stringono un fazzoletto bianco, con il quale sembra essersi appena asciugato le lacrime. L’altra mano, con anelli ornati di pietre preziose e un grosso rubino all’indice, si stringe alla sedia quasi avesse bisogno di sostenersi con quel gesto. Lo sguardo degli occhi incavati, sotto la fronte ampia e appena increspata da un pensiero malinconico, mantiene una luce commovente, con un guizzo bianco nelle pupille nere. È rivolto verso il basso, lontano, e non sfida più nessuno, o almeno non sfida nessuno di questo mondo. La bocca serrata sembra impegnata a trattenere la vitalità delle guance che si abbandonano sotto il peso degli anni, ma il volto è ancora bello e regolare, con il naso leonino largo nell’attaccatura. La barba argentata cade docile, più docile del pelo ispido da orso testimoniato dai contemporanei e più docile di quella (più veritiera) scolpita da Michelangelo nel ritratto di San Pietro in Vincoli. Raffaello nel ritratto ha «corretto» sapientemente i dettagli fisiognomici ed espressivi del papa sottraendolo astutamente alle critiche e alle censure sulla sua bellicosità. Proprio la barba, sottomessa con immateriali tocchi di pennello di colore grigio brillante, diventa una corona di luce, che convince definitivamente l’osservatore dell’animo mansueto del papa. Guardando il ritratto di Raffaello, tutto quello che sappiamo dai documenti su Giulio II sembra il frutto di una propaganda malevola. La sua distanza dalle cose terrene non potrebbe essere più netta, il rosso e il bianco della veste non permettono distrazione e concentrano tutta la personalità dell’uomo in uno sguardo malinconico e riflessivo. Giulio appare come il vero padre di ogni devoto, affidabile capo di un governo fondato sullo spirito e sulla giustizia. Il ritratto fu esposto al pubblico in Santa Maria del Popolo e diede subito i suoi frutti. Quelli che potevano avvicinare 168

il papa solo attraverso la versione che ne dava Raffaello erano certo più numerosi di quelli che potevano avvicinarlo direttamente. La morbidezza con cui l’artista aveva dipinto il velluto della mantellina e del camauro, le pieghe che frantumavano la luce sulla camicia di lino davano all’immagine una materialità tanto concreta da far sentire l’osservatore quasi in presenza dell’uomo, cogliendolo in uno dei suoi momenti più segreti e più autentici. Per chi guardava il dipinto, il papa non poteva che essere quello scoperto attraverso la propria esperienza visiva anziché quello restituito dalla propaganda forestiera.

2. LA STANZA DI ELIODORO

A partire dal 1512 troviamo Raffaello al lavoro nella seconda delle nuove stanze vaticane, quella poi chiamata Stanza di Eliodoro3. Non sappiamo quanto del programma decorativo di questa stanza fosse già stato deciso in precedenza, ma il legame con i fatti gravi e recenti accaduti a Giulio II sono così evidenti da far ritenere certo che il programma sia stato pensato o almeno adattato alla fine del 1511 come risposta ai nuovi problemi del pontefice, che ossessivamente compare in quasi tutti i dipinti. Senza dubbio strettamente connessa al concilio scismatico voluto dai cardinali francesi era la scena principale, che dà il nome alla stanza: la Cacciata di Eliodoro dal Tempio [Fig. 17]. Secondo il racconto biblico, il soldato Eliodoro si era introdotto nel sacro tempio di Gerusalemme per impadronirsi del tesoro delle vedove e dei fanciulli. Con la sua preghiera, il sacerdote invocò allora l’aiuto divino, che si materializzò nelle vesti di tre messaggeri celesti arrivati dal cielo a cacciare 169

l’usurpatore. L’aiuto divino, in altri termini, non veniva mai meno alla Santa Sede e a chiunque lo invochi con cuore puro. Qui era Giulio II che entrava direttamente in scena, a invocare l’aiuto di Dio contro i francesi e contro i nemici della religione che tentavano di riunirsi a Pisa per destituirlo. Il re di Francia aveva poi ingiunto di non pagare la decima alla Chiesa sottraendole, come Eliodoro, il proprio tesoro. Si trattava quasi di una rappresentazione teatrale, e il suo carattere dinamico conferì alla pittura un impatto emotivo straordinario. Come un fotofinish, Raffaello fermava il volo dell’angelo con la frusta a mezz’aria, materializzando immediatamente il carattere divino dell’apparizione. Se il piede dell’angelo avesse toccato terra, la scena sarebbe diventata un banale combattimento. Ma l’angelo restò sospeso e il suo mantello si gonfiò per il furore che lo agitava contro l’empio: lo stesso furore che aveva mosso Giulio sui campi innevati intorno alla Mirandola, quando avrebbe voluto lui stesso alzarsi in volo per cacciare gli occupanti della fortezza. Come l’angelo, anche il papa viene rappresentato a un livello differente da quello degli altri attori, anche lui sospeso da terra sulla sedia sorretta dagli eleganti portatori che guardano lo spettatore per trascinarlo nel dipinto. La costruzione della scena è sapientissima. L’interno del tempio si allunga verso il cielo e le cupole d’oro riflettono una luce spirituale che scioglie lentamente la tensione verso il fondo aperto del tempio. Sulla destra il soldato Eliodoro, atterrato dalla visione, lascia cadere a terra il vaso dorato da cui escono le monete. È un soldato possente, ritratto in uno scorcio straordinario, terrorizzato da quel cavallo bianco che sta per abbattersi su di lui. La presenza del cavallo in un interno tanto pregiato contribuisce anch’essa a rendere più inquietante l’immagine, che lascia con il fiato sospeso in attesa delle terribili conseguenze. Il centro della scena è lasciato libero così che lo sguardo possa raggiungere in fondo il sacerdote raccolto in preghiera. 170

Il soldato a cavallo, un angelo senza ali, è vestito di corazza ed elmo militare, puntigliosamente descritti. Doveva sostenere la principale e più contestata convinzione del papa, e cioè l’idea che senza il ricorso alle armi e al valore militare neppure la giustizia divina può trionfare. In questo modo, attraverso il suo pittore, Giulio intendeva rispondere alle critiche che lo accusavano da più parti di sconvolgere l’Italia con le guerre. Era dalle fonti stesse della cristianità che emergeva un angelo-soldato in pieno assetto militare, a ricordare che secondo la volontà di Dio il ricorso alle armi è più che legittimo quando la fede è sottoposta all’attacco dei nemici della Chiesa. Sul raffinato impianto programmatico che fu messo a punto dalla corte papale Raffaello intervenne con una potente composizione che ne rafforzava il messaggio. Nello spazio simmetrico e solenne del tempio i tre messaggeri celesti arrivati a cacciare Eliodoro sono dipinti con il bianco e il giallo, quasi fossero un raggio di luce divina. Arrivano di corsa come un fulmine facendo gonfiare il mantello dell’emissario divino colto in volo. Come il mantello di Eolo, anche il suo si gonfia e forma una curva ripresa e amplificata in potenza dalla groppa e dal collo del cavallo, come un’onda che monta fermata prima di schiantarsi su Eliodoro atterrato nell’angolo destro da cui non può scappare. Gli angeli e il cavallo esprimono la forza della collera divina senza mostrare nessun atto atroce riconducibile a un intervento umano. Sul lato opposto della scena la schiena curva della donna colta di spalle, anche lei vestita di bianco e giallo, sembra volere trattenere quella forza terribile che si abbatte su Eliodoro. In questo modo equilibra le forze della scena e i valori cromatici attirando l’attenzione su quanto avviene alla sua sinistra, l’ingresso sulla lettiga di Giulio, che con la sua veste bianca costituisce un altro culmine dell’azione. In questa complessa costruzione dinamica Raffaello mostra di avere pienamente 171

compreso la lezione di Michelangelo nella volta Sistina, disvelata in quegli stessi mesi, dove l’artista aveva costruito ogni azione sull’energia dinamica dei corpi. Ma nell’equilibrio più trattenuto dell’azione si mostra anche la diversa maturità di Raffaello, che evita un coinvolgimento emotivo dello spettatore nel dramma evocandolo appena. Le forze messe in gioco sulla ribalta del palcoscenico inquadrato dalla grande lunetta vengono riassorbite dalle colonne di marmo del tempio, sfumate e placate nelle cupole d’oro, dove si disperdono attraverso la luce dorata fino alla finestra aperta in fondo sul cielo chiaro. Il punto di arrivo ancora una volta è un classico equilibrio di forze, colori e tensioni emotive. La difesa della legittimità delle campagne militari del papa era ancora più palese nell’altro dipinto della stanza, quello raffigurante la Liberazione di san Pietro [Fig. 18]. Giulio che era stato titolare della basilica di San Pietro in Vincoli e aveva una particolare devozione per le catene con cui era stato imprigionato san Pietro appena arrivato a Roma. Per celebrare la sua elezione a cardinale, si era addirittura fatto coniare una medaglia che aveva sul retro le catene conservate nella basilica. Nessuna immagine quindi si prestava meglio alla legittimazione delle sue campagne militari come quella di san Pietro liberato dalle catene. La propaganda papale ripeteva da anni che Giulio aveva liberato l’Italia dalle catene in cui l’aveva ridotta la soggezione alle potenze straniere. Il carattere spirituale di questa lotta doveva essere ben evidenziato da Raffaello, ormai in piena sintonia con le esigenze del papa e della corte. E l’intuizione dell’artista per questa scena fu una rivoluzione. Partendo dalla difficile condizione della parete, interrotta da una porta di comunicazione posta quasi al suo centro, l’artista divise la scena in tre momenti tra loro separati dalle mura della prigione, che permettevano di dare continuità alla narrazione senza introdurre cesure spazio-temporali. L’azione si 172

svolge di notte: uno dei primi notturni della storia dell’arte occidentale, e certamente il più riuscito. A sinistra, un soldato di spalle indica a tre commilitoni la prigione da cui si irradia una luce accecante. I soldati hanno armature metalliche su cui scivola suggestivamente la luce della luna appena velata da nubi sull’orizzonte, dove comincia ad affiorare il chiarore dorato dell’alba. Dall’altra parte del muro, nella cella angusta collocata sopra la porta, sbarrata da una grata che separa lo spettatore dalla scena con uno stupefacente effetto di trompe l’oeil, un angelo abbagliante nella sua veste rosata si china su san Pietro incatenato indicandogli la via di uscita. Le catene che imprigionano il santo sono in primo piano e messe in grande risalto dal forte controluce. Ai due lati, preda di un sonno miracoloso, le guardie si appoggiano inermi alle loro lance nonostante la luce accecante dell’angelo faccia brillare le loro corazze come specchi. Dall’altra parte della prigione, nella terza scena, la luce di nuovo si acquieta contraendosi in un alone chiaro intorno all’angelo, che ci permette di apprezzare la grazia con cui il giovane tiene per mano san Pietro ancora intontito dal sonno mentre passa accanto alle guardie addormentate sulle scale. Nell’insieme del dipinto l’effetto notturno raggiunge suggestioni altissime, tirando fuori dal buio i profili delle figure. La ragione dell’azione è tutta nella luce miracolosa che manifesta la divinità e che rende inermi e inutili le armature, le spade, le lance e l’acciaio di cui sono rivestiti i soldati. Ancora una volta Giulio mandava così un messaggio molto esplicito ai suoi nemici: nessun esercito può fermare la volontà di Dio, incarnata in Pietro come nei suoi legittimi successori. L’effetto notturno non faceva che esaltare la dimensione innaturale dell’evento. L’11 aprile 1512 l’esercito francese riportava una schiacciante vittoria contro le truppe del papa e i loro alleati nella battaglia di Ravenna. Per Giulio sembrava arrivata la fine. Preso dalla disperazione, si impegnò perfino a vendere le 173

gemme favolose della sua tiara. Ma gli eventi presero una piega imprevista proprio quando la capitolazione del papa guerriero sembrava inesorabile e il cardinale di Sanseverino, alleato dei francesi, iniziava a marciare su Roma per deporlo definitivamente. Nella battaglia era rimasto ucciso il valoroso comandante francese Gaston de Foix, e l’esercito cominciava a sbandare mentre i confini settentrionali del regno di Francia venivano minacciati dall’esterno. Miracolosamente, come si addice a una scena che vedeva impegnato il vicario di Cristo in terra, l’esercito francese ripiegò quindi verso nord abbandonando l’Italia. Lo spettro di una sconfitta militare si allontanava momentaneamente, anche perché i mercenari svizzeri, su cui il papa aveva puntato tutto, stavano per passare le Alpi e accorrere in sua difesa. Se necessario, sarebbero stati pagati con la vendita delle gemme della tiara papale che erano state impegnate nel banco di Agostino Chigi. Rimaneva lo spettro, non meno spaventoso, di un concilio scismatico che avrebbe potuto deporre Giulio II dal suo seggio vaticano. L’energia del pontefice era tutta concentrata su questo pericolo e dunque sulla riaffermazione dell’ortodossia della Chiesa di Roma: un terreno su cui Giulio pensava di poter vantare una indiscussa supremazia. Il 3 maggio 1512, nella basilica di San Giovanni in Laterano, il papa aprì un concilio universale alla presenza di sedici cardinali, settanta vescovi, dodici patriarchi e tre generali degli ordini monastici. Egidio da Viterbo, il suo grande consigliere sulle questioni di dottrina e su quelle di propaganda, pronunciò tra le colonne saccheggiate ai Romani e i mosaici d’oro un sermone molto pregnante: «Il popolo di Dio d’ora in poi deve aver ricorso soltanto alle armi della pietà e della preghiera. La fede deve essere la sua corazza e la rivelazione divina la sua spada»4. Tornato in Vaticano, Egidio passò la parola a Raffaello e ai suoi assistenti, e ai loro pennelli di vaio, cartoni e ciotole piene di colori finissimi. Doveva essere l’artista, ora, a conti174

nuare la propaganda politica con la massima efficacia, dipingendo il più popolare dei miracoli medievali arrivati a rafforzare la Chiesa di Roma contro l’eresia. A Bolsena, nel 1263, un’ostia benedetta aveva sanguinato nel momento dell’ostensorio sotto gli occhi terrorizzati di un chierico che aveva dubitato della verità della sua sostanza divina. Volgendo a proprio favore le condizioni particolari della parete, interrotta dalla porta proprio al centro, Raffaello rappresentò il miracolo collocandolo al vertice di una piramide, alle cui basi pose da una parte il celebrante con splendidi paramenti sacri e dall’altra, inginocchiato ma con la schiena ritta come quella di un generale, il papa Giulio II, vestito con una mantelletta di velluto granata e uno splendido strascico bianco che scorre immenso come un fiume di luce fino a coprire i gradini inferiori [Fig. 19]. Forzando il naturalismo così spropositatamente invocato per la pittura rinascimentale, Raffaello con quell’immenso strascico accentua la spiritualità della figura papale. Dietro il papa si scorge il suo seguito, e in particolare i cardinali a lui più legati, come il nipote Raffaele Riario. Secondo l’abitudine rinascimentale, la narrazione era un’ottima occasione per un ritratto di famiglia. Per esaltare la religiosità ora più intimista di Giulio, annunciata dalla predica pubblica di Egidio in Laterano, Raffaello ricorse a un espediente scenografico di grande effetto: dipinse un coro scuro di legno che abbraccia e isola il papa e il celebrante in un dialogo intimo da cui sono esclusi tutti gli altri personaggi, sottolineando così ancora di più la centralità della rivelazione nell’ostia sollevata. Grazie a questo espediente architettonico, Raffaello separava la grandiosità regale della scena da un nucleo intimo e spirituale in cui il papa è avvolto e protetto dalla sua stessa fede. Leggermente più in basso, dove la scala lascia spazio a un piccolo proscenio, compaiono inginocchiati i nobili che han175

no accompagnato il papa e che custodiscono gelosamente la sua portantina. L’evidenza data nel dipinto a queste figure è volutamente enfatizzata e permette a Raffaello di eseguire dei veri e propri ritratti, che reggerebbero anche da soli per la qualità della pittura. I nobili sono vestiti con eleganza regale: giubboni di broccato intrecciati d’oro, maniche di velluto cremisi che riflettono la luce con bagliori metallici, nelle espressioni la consapevolezza della propria regalità e della propria potenza. Sono i nobili romani che nelle cerimonie avevano il privilegio di portare il papa. Una narrazione di poco successiva, relativa alla processione per l’incoronazione di Leone X, ci dà la misura dello sfarzo di questa speciale «guardia d’onore»: «Chinee 9, mule 3 dil Papa, con le coperte, con li servitori vestiti de saioni de veluto negro e zuponi di raso cremexin e bareto de scarlato, che le menavano a mano»5. Sembrano loro, i nobili romani, i veri protagonisti della Messa di Bolsena [Fig. 19], tanto appaiono maestosi. L’omaggio che il papa rendeva loro attraverso il suo pittore aveva infatti in quel momento un valore del tutto particolare. Sfruttando una malattia del pontefice e la scabrosa situazione politica, nell’agosto del 1511 un gruppo di nobili capeggiato dal cardinale Pompeo Colonna aveva tentato di ribellarsi a Giulio II chiedendogli la restituzione degli antichi privilegi dei conservatori. «Inattesa, la guarigione del papa rovescia solo in parte i rapporti di forza: i motu proprii emessi il 28 marzo del 1512 accolgono gran parte delle richieste del popolo romano»6. La rilevanza politica di questo cambiamento passerà alla storia come la Pax romana del 1511, e quei meravigliosi ritratti ai piedi del papa nell’affresco di Raffaello ne rappresentarono il suggello pubblico. Anche nella celebrazione dell’ortodossia teologica, il papa non tralasciava i suoi concreti strumenti politici. Era questa la vera corte del papa, la compagnia che amava di più insieme a quella degli artisti con cui cenava e beveva appena 176

era possibile. Le sfumature di verde e di rosso dei vestiti, l’accento bianco delle camicie per accenderli nei contrasti erano insegne di inarrivabile eleganza nell’aspetto fierissimo di quei nobili che chiedevano di non essere messi da parte. Giulio poteva dirsi soddisfatto del programma celebrativo espresso da Raffaello nel luogo di massima ufficialità temporale della Chiesa. Quello stesso programma, vivido come un’ossessione nella mente del papa, sarebbe stato ribadito in quello che si può considerare l’ultimo gesto propagandistico del papa della Rovere: i trionfi del Carnevale successivo, che portarono per le vie di Roma i carri animati in cui le idee rappresentate da Raffaello diventarono quadri viventi.

3. PER LE STRADE DI ROMA

«[...] col Papa, qual è in letto, è senza apetito, manza solum do ovi al zorno, non ha gusto»7. Così, nel gennaio 1513, l’ambasciatore veneto ragguagliava il governo veneziano sulla progressiva malattia del papa. Ostinato fino all’ultimo, Giulio riceveva ambasciatori e cardinali nel suo letto, dove continuava a rifiutare le cure dei medici: «non ha febre né si vol lasar tocar il polso»8. Pensava invece a come trasformare anche la propria morte in un trionfo politico, e impartì al segretario di palazzo istruzioni dettagliate sui vestiti che dovevano accompagnarlo alla tomba. Allo stesso tempo si adoperava affinché il suo successore non venisse eletto per simonia. Fuori, a dispetto del vento freddissimo che si abbatteva sull’Italia portando perfino sulla laguna di Venezia una nevicata eccezionale, il Carnevale impazzava con le corse dei tori e con il palio dei giudei, ma soprattutto con i carri trion177

fali. Proprio come si augurava la corte pontificia, questi venivano descritti e commentati in tutte le corti italiane: et portava questo carro una donna in habito di regina ma ligata e vinta con le mani a retro, et havea per terra alli piedi spoglie assai, cioè armature et cose da battaglia consuete a porsi ne’ trophei: questa era figurata per Italia, già da la violentia de Francesi opressa e legata (...) et ne la cornice di sopra mostrava scritto: Italia Liberata con un fascio di palme di sopra (...) Jul. II Pont. Max. Italiae Liberatori et Scismatis Extinctori [...] una hydra sopra la quale era uno Angelo che con la spada e col scuto la ferriva al capo9.

La raffinata propaganda papale, che attraverso l’arte di Raffaello parlava ai dotti e agli ambasciatori ammessi nelle stanze vaticane, tornava così per le strade e si adeguava al gusto grossolano della mascherata popolare. Ma con martellante coerenza ripeteva sempre lo stesso messaggio: Giulio ha liberato la Chiesa e l’Italia dalle catene dei barbari, tutto quanto ha fatto è stato necessario. I carri e la folla che li seguiva si muovevano in una città rivoltata dalle trasformazioni urbanistiche. Le nuove strade aperte intorno al Vaticano per razionalizzare e rendere visibile il controllo papale sull’area urbana più ricca e vitale si andavano allargando e arricchendo di nuove case signorili. Il lungo «corridore» di Belvedere, al tempo stesso teatro e galleria imperiale, continuava a crescere con il suo triplice ordine di pilastri. Insieme alla nuova basilica di San Pietro, rappresentava la principale opera costruttiva avviata a Roma in epoca moderna. La trasformazione sottile e pervicace stava cambiando giorno dopo giorno il volto della città. L’apprezzamento per l’antico, per le sue forme e i suoi simboli, era diventato il linguaggio alla moda a cui ognuno doveva ricorrere per sentirsi aggiornato e partecipe anche politicamente di quel grande sogno di restaurazione perseguito con ogni mezzo da Giulio II. 178

I dignitari della corte e i ricchi cittadini romani non potevano fare a meno di inseguire quella moda con le risorse disponibili per ognuno. Gli architetti e i pittori del papa furono tempestati di richieste da parte di committenti facoltosi, che volevano partecipare allo sfarzo pontificio condividendone almeno in parte gli artisti. Michelangelo fu subito fuori gioco a causa della complessità dell’impresa in cui si era buttato: la decorazione della volta Sistina era un’impresa difficilissima, resa ancora più gravosa dal suo carattere umorale che ben presto lo aveva isolato nell’ambiente artistico romano. Raffaello invece trovò il modo di accontentare le richieste dei più importanti personaggi della corte. Era arrivato a Roma circondato dalla celebrità delle sue Madonne e delle sue Sacre famiglie, e molti volevano una sua opera. Ci riuscì un potente dignitario rimasto anonimo, al quale Raffaello dipinse una Madonna con Bambino e san Giovannino, la Madonna d’Alba [Fig. 62], in cui fece confluire la nuova sicurezza acquisita nella decorazione delle stanze vaticane. Recuperando il formato tondo che caratterizzava i dipinti fiorentini di devozione, Raffaello collocò il gruppo in un ampio paesaggio rasserenante, che da solo sembra anticipare il vedutismo del secolo successivo. Il prato è perfettamente descritto con le sue erbe e i suoi fiori ricchi di significato simbolico, mentre nel cielo si sfilacciano nubi finalmente credibili con la loro brillante consistenza vaporosa. La Madonna è seduta in una posa che mette in evidenza il virtuosismo raggiunto dal pittore nel rappresentare i più arditi scorci anatomici. Si puntella con la gamba sinistra in avanti per accogliere i due bimbi alla sua destra. Il colore freddo di tutto il dipinto, declinato sulle tonalità del blu e del verde, si accende proprio al centro con la blusa color geranio della giovane donna, che ha perso le sembianze stereotipate delle Madonne fiorentine per assumere i caratteri di una fisionomia singolare, di una ragazza di straordinaria bellezza che in 179

questi anni ossessiona Raffaello e non soltanto per motivi artistici. Una ragazza dalla fronte alta e gli occhi intensamente scuri aveva già prestato i suoi lineamenti a una delle allegorie delle Virtù che decoravano la biblioteca di Giulio II in Vaticano. Anche quella, anticipando la torsione della Madonna d’Alba, si puntellava con il piede destro per girare graziosamente il busto in senso opposto mentre reggeva in mano il giogo che la individuava come immagine della temperanza. Aveva i capelli neri così come le sopracciglia, che disegnavano un arco regolare sopra gli occhi scuri, grandi in maniera visibilmente diversa da quelli stereotipati delle altre figure di donna accanto a lei. Occhi grandi neri e aperti sono i tratti caratteristici delle meravigliose donne che a partire dal 1510 Raffaello dipinse in molte sue opere: tratti apertamente sensuali attraverso i quali Raffaello cominciava a scardinare il rigido modello femminile che lui stesso aveva fissato, portandolo ad altissimo livello, nelle pale fiorentine. Cominciava a dare frutti la lezione dello spirito artistico più trasgressivo e libero dell’epoca, quel Leonardo da Vinci che aveva fatto affiorare sulle labbra delle sue donne, anche in posa di Madonna o di sant’Anna, un sorriso ironico e inquietante, che non avrebbe più lasciato il panorama iconografico italiano: un sorriso che rivendicava spazio e che era stato sempre ossessivamente ricercato e celebrato dagli uomini lontano dalla scena pubblica, ma che non aveva fino ad allora conquistato una libertà di rappresentazione visibile, almeno nel registro alto della pittura italiana. Le donne del Rinascimento rappresentavano esclusivamente una merce di scambio per il potere maschile, relegate a essere suggello di alleanze e veicolo di integrità dinastica, ma quasi mai protagoniste attive della vita pubblica. Molte lo diventavano per accidente, quando i mariti o i padri si allontanavano prigionieri o morivano. Isabella d’Este aveva retto il mar180

chesato durante la prigionia del marito. La contessa della Mirandola, «Putana fotuda» secondo gli insulti del papa, aveva difeso la sua fortezza con un’energia che pochi uomini avrebbero avuto. Il cenacolo raccolto a Urbino intorno a Elisabetta Gonzaga ed Emilia Pio stava facendo a pezzi con la propria arguzia intellettuale tutti i pregiudizi e le infondatezze della tradizionale esclusione delle donne dai ruoli sociali. Lo faceva richiamandosi all’antichità, ora che anche le donne avevano avuto accesso alla storia antica e potevano saltare interamente la tradizione cattolica, che aveva provocato una generale mortificazione del ruolo femminile. Ma queste nuove conquiste, riconosciute in una ristretta élite intellettuale, avrebbero impiegato anni ad arrivare alla società civile, impedite peraltro dalle regressioni in agguato con la Riforma e la Controriforma religiosa. L’amico di Raffaello, Baldassarre Castiglione, si sarebbe preoccupato di divulgare i frutti dell’intelligenza femminile nel suo Cortegiano un decennio più tardi. Ma Raffaello era abbastanza interno a quella corte e a quella élite per anticipare con la sua arte la comparsa sulla scena sociale di donne nuove, sfilatesi dal ruolo devoto e materno assegnatogli per secoli dall’iconografia cattolica10. Per primo, Raffaello cominciò a intuire e a rappresentare questo nuovo sentimento dell’eros e della sensualità femminile, di cui peraltro, vicino ai trent’anni e nel pieno della sua maturità virile, sentiva ormai la tirannia nel mondo libero e gaudente di Roma. L’impellenza amorosa non trovò più argini in quel volto appena irrobustito da una nuova consapevolezza del mondo, che divorava la bellezza intorno a sé per restituirla depurata da ogni piega volgare. La bocca piena e sensuale aveva trasformato il ragazzo decisamente schivo dei primi ritratti in un uomo di irresistibile fascino, che ci guarda finalmente sicuro di sé nel ritratto della Stanza di Eliodoro, dove accanto a Marcantonio Raimondi si dipinge come abbreviatore apostolico sotto la portantina papale, vantando il titolo 181

che aveva ricevuto poco prima. Le sopracciglia nere e regolari contornano gli occhi scuri appena sporgenti. La bocca piena è esaltata dalla barba, che abbrevia quel collo fragile ed eccessivamente allungato. L’incarnato chiaro e le spalle irrobustite dalla pratica manuale lo rendono imponente come un soldato. Anche i vestiti sono di massima eleganza, poiché il nero era concesso ai borghesi ricchi, anche se declinato nelle infinite sfumature dei broccati operati, dei velluti rasati e della seta lucente, interrotti ed esaltati dal lino bianco che in fiandra piegavano in mille increspature. Raffaello era ormai un cortigiano che non aveva più niente da invidiare nemmeno al cardinale Marco Cornaro, il quale, dopo le sfilate dei carri in onore del papa, si presentava alle cene eleganti in compagnia della bellissima Albinia, «cortesana di Roma» disponibile a orge di cibo e di sesso consumate senza rimpianti insieme agli altri dignitari della corte papale. A suo modo, Raffaello era diventato un principe romano, e quel giogo dorato che aveva dipinto nelle mani della bellissima Temperanza nella Stanza della Segnatura esercitava un’ossessione erotica impellente, che lasciò una traccia poetica ai margini di un disegno databile con certezza nei mesi felici che seguirono il 1511: Amor tu m’envesscasti con doi be’ lune de doi beli ochi dov’io me strugo e sface da bianca neve e da rose vivace da un bel parlar in donesschi costumi. Tal che tanto ardo che né mar né fiumi spegniar potrian quel focho, ma non mi spiace poiché ’l mio ardor tanto di ben mi face ch’ardendo ognior più d’arder me consumi. Quanto fu dolce el giogo e la catena do toi candidi braci al col mio volti che sogliendomi io sento mortal pena11.

L’uomo giovane e timido dell’autoritratto della Scuola di Atene, ancora velato di timore, appena arrivato nel grande gioco di Roma, era ora pronto a calarsi nell’universo amoroso senza drammi, senza paure e senza remore, pronto ad 182

ardere ancora di più a quel fuoco che sembrava scoprire per la prima volta con tanta intensità. La sua passione era tutta carnale: passione per gli occhi chiari come lune, le braccia candide e le gote di rose. Da quel momento in poi, spinto da quell’amore che immediatamente fornì nuovo alimento alla sua arte, si impegnò a vivere pienamente la propria sensualità, esplorandola con il suo talento ma soprattutto con una pratica di vita improntata alla maggiore libertà concessa dall’epoca: una libertà di cui godevano soprattutto i principi, ma di cui poteva avvalersi anche il principe degli artisti, come ormai veniva definito Raffaello in quella città inventata dove il teatro si imponeva sempre più spesso sulla vita. Ma questo viaggio simbolico ed esistenziale Raffaello non poteva compierlo da solo. Né poteva compierlo con Giulio II, il quale amava certo il vino, la guerra e le donne, e forse, secondo le malelingue, anche gli uomini, soprattutto quando erano giovani e belli, ma rimaneva pur sempre un papa e un uomo che aveva raggiunto l’età che mette al sicuro anche i più vivaci spiriti dai tormenti dell’amore e dell’eros. Raffaello poteva compiere quel viaggio soltanto accanto a una figura nuova, che la sua epoca stava inventando proprio lì sotto i suoi occhi: quella di un mecenate puro, laico, libero dalle ossessioni della politica e della religione, educato all’Umanesimo colto del secolo precedente, ma soprattutto ricco come e più di un principe, al punto da poter rivendicare i servigi di un artista come Raffaello che fin dalla sua prima apparizione romana sembrava destinato a servire solo e soltanto il papa. Quell’uomo eccezionale comparve per la prima volta proprio nella Roma di Giulio II e di Raffaello, e fece maturare un’altra sfera della creatività artistica del Rinascimento, che molto più dell’arte cristiana sarebbe stata ricca di sviluppi nei secoli successivi. Si chiamava Agostino, era senese, ma a Roma faceva affari per la sua famiglia di banchieri, i Chigi. 183

4. IL BANCHIERE DEL PAPA

Alle tante feste che animavano Roma, il Carnevale del 1510 vide aggiungere lo spettacolo stupefacente di una comitiva elegantissima che attraversò la città con cinquecento cavalli per assistere alle finte battaglie inscenate a Piazza Navona e alle cacce dei tori che si svolgevano nel cortile di Belvedere in Vaticano e nel popolare quartiere di Testaccio sulle sponde del Tevere. Il papa era riuscito a piegare anche le tradizioni popolari vecchie di secoli alle proprie necessità di propaganda e non perse occasione di celebrare la propria vittoria su Venezia facendo rappresentare in Piazza Navona, al posto della consueta evocazione delle battaglie degli antichi Romani, quella sua personale su Venezia e il riscatto delle città romagnole. Ma il suo personale trionfo venne sancito dallo sfarzo e dall’eleganza della comitiva che cavalcava per Roma, diventando essa stessa spettacolo favoloso. Alla testa c’era la bella e giovane Eleonora Gonzaga, andata in moglie a Francesco Maria della Rovere, nipote del papa e duca di Urbino nonché «barba» di Raffaello, come si designavano allora i protettori. Erano venuti a Roma per santificare il matrimonio e celebrare la gloria della famiglia papale a cui la città eterna si piegava. Il giorno del martedì grasso la comitiva lo passò ad assistere ai tornei con i tori alla palazzina di Belvedere in Vaticano, poi alle corse dei cavalli barberi, alle quali fortunatamente vinse uno di proprietà del suocero del duca. Nel pomeriggio, si portarono tutti di là dal Tevere, vicino alla Porta Settimiana, sotto il bosco del Gianicolo. L’inverno teneva ancora spogli i rami dei platani e dei pioppi e celebrava a suo modo la gloria dei della Rovere facendo brillare, in quella boscaglia nuda, le foglie delle immense querce che insieme 184

ai lecci resistevano al freddo invernale. L’odore dei lauri si spingeva fino alle porte di un magnifico palazzo affacciato sul Tevere, ricco dei giardini voluti dalla moda, aranci e melangoli allineati contro il profilo mobile e minaccioso del grande fiume. Eleonora, quindici anni, occhi verdi e pelle di luna, per quei giorni aveva portato il guardaroba di una regina, che tuttavia non bastò visto che dovette farsi confezionare a Roma in tutta fretta un nuovo abito intessuto d’oro. Per realizzarlo fece fondere novecento ducati, battuti da un sapiente orefice fino a trasformarsi in nastri sottili, in veli arricciati che furono applicati e intrecciati al velluto nero. Purtroppo l’orefice non aveva capito bene come doveva essere tagliata la lamina d’oro, che la duchessa voleva «fatto in forma de velo che gonfiasse fora». Fu forse la fretta o l’indecisione, ma il vestito lasciò delusa la giovane sposa, la quale però non aveva intaccato invano la dote regalatale dal papa: una nuova fusione e l’oro sarebbe stato pronto per nuovi vestiti. Le cronache pettegole, che anche quella volta attraversarono le cancellerie di tutta Italia, attestano che Eleonora non ebbe confronti nella festa al sontuoso palazzo. Meno elegante fu il comportamento di suo marito, che volle ritirarsi dopo cena senza assistere alla commedia, annoiato già da quelle rappresentate in loro onore, nelle sere precedenti, a casa del raffinatissimo cardinale di Sanseverino e nel palazzo apostolico dal papa. Sentiva più urgenti altri piaceri, che gli ospiti invidiavano affettuosamente alla coppia. Ma si sbagliò, perché la commedia allestita nel palazzo sul Tevere fu talmente bella e ben recitata che uno degli spettatori ne scrisse entusiasta alla madre della sposa Isabella d’Este, rimasta forzatamente a Mantova, e gliene promise al più presto il testo12. Non poteva essere diversamente: l’ospite e organizzatore della serata era Agostino Chigi, che aveva fatto costruire appositamente quel palazzo all’antica, senza confronti neppure tra i principi più potenti d’Europa, per uguagliare e supera185

re la civiltà e gli ozi dell’antica Roma. Nato a Siena il primo dicembre 1466 da una famiglia di banchieri, Agostino aveva avuto dagli astrologi pronostici tanto favorevoli quanto poteva permettersi la sua ricchezza, riuscendo con la sua fortuna a superare perfino il loro desiderio di compiacerlo. Ebbe un quadro astrale così preciso, che quattro secoli dopo lo storico dell’arte Fritz Saxl, con l’aiuto di un astrologo, riuscì a fissare la sua data di nascita semplicemente decrittando i dipinti che lo raffiguravano, ben prima che un documento rinvenuto nell’archivio di Siena la certificasse definitivamente. Descritto da Marino Sanuto come «uomo quantomai ricco», fu effettivamente l’uomo più ricco del suo tempo e raggiunse una posizione e una stabilità politica mai più conosciute da uomini del suo secolo13. Gli ospiti che entravano nel suo palazzo affacciato sul Tevere erano a lungo costretti a sostare con la testa rivolta verso l’alto per ammirare la sua Loggia d’inverno, dove Baldassarre Peruzzi, un artista anche lui senese, aveva dipinto in figura il fortunato oroscopo che gli era stato propiziato leggendo le stelle apparse nel cielo d’Italia il giorno della sua nascita. Giove era in Ariete, la Luna in Vergine, Mercurio in Scorpione, e il Sole in Sagittario, nella posizione ideale per propiziare il commercio, la fortuna, la generosità e la liberalità, insieme naturalmente a una sensualità prorompente garantita da una Venere in Acquario che compariva completamente nuda su un carro guidato da due esili colombe bianche (così era apparsa anche nella volta della Libreria Piccolomini nella cattedrale di Siena, studiata attentamente dal Peruzzi)14. Era un modo come un altro per celebrare con discrezione un trionfo che non aveva precedenti neppure iconografici. Il borghese Chigi, non potendo saccheggiare i simboli sacri per celebrare la sua fortuna e la sua famiglia, come facevano i papi più disinvolti di lui, era risalito ancora più indietro, prendendo a prestito la scienza astrologica e la moda antichissima delle rappresentazioni astrali in forma figurata. 186

Agostino aveva un intuito infallibile e un controllo sulle proprie passioni fuori dal comune, e queste sue qualità gli avevano permesso di passare indifferentemente dalle dipendenze del papa Borgia a quelle del suo massimo nemico, Giuliano della Rovere. Aveva finanziato le campagne fallimentari di Piero de’ Medici, il quale in cambio dei prestiti ricevuti gli aveva personalmente portato in pegno la gloria della sua famiglia, in forma di arazzi fiamminghi e cammei antichi sballati dai sacchi di iuta nel castello degli Orsini sul lago di Bracciano. Mentre il mese di maggio infiorava le rive del lago, Agostino faceva scivolare tra le mani «un panno d’arazzo grande fine storia di moixe (...) una tavola d’argiento con cinque canmei cioe una testa d’imperadore in mezzo e 4 altre da canto»15, e mille altre meraviglie che avevano esaltato Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico prima di andare a finire tra le mani dell’instabile e velleitario erede. Tra gli altri, aveva prestato soldi anche a Guidobaldo da Montefeltro, il padre adottivo di quel Francesco Maria che quella sera avrebbe appena gustato la frutta rara, le carni presentate in tavola con gli animali cotti e rivestiti della loro pelle insieme alla cacciagione e ai cervi marinati con l’aceto e la cannella, per abbandonare poi la sala illuminata da mille torce senza curarsi della delusione degli ospiti. Il 22 novembre del 1497, il duca Guidobaldo era arrivato anche lui a bussare alle casse del ricco banchiere, portandogli in pegno l’argenteria di famiglia. E anche quella volta Agostino aveva pesato i piatti d’argento, le confettiere e i coperchi d’oro, ammucchiati tra le pietre preziose, le perle e i balasci. Forse in quel momento aveva capito a quali miserie possono condurre le ambizioni politiche e aveva deciso di mantenere il suo potere sempre al riparo da ogni delirio di governo, mettendo davanti ad ogni cosa soltanto la difesa dell’interesse economico, vera fonte di un prestigio duraturo. Aveva capito che a un uomo della sua natura era molto più facile muovere i governi a difesa 187

dei propri interessi che non mettere in gioco questi per ossessioni di governo. Era diventato così intimo del pontefice che questi lo aveva accettato nella sua stessa famiglia, concedendogli l’uso di una cappella nella chiesa di Santa Maria del Popolo dove aveva fatto seppellire i parenti più stretti. La festa che Agostino stava offrendo per i della Rovere, in quella sera di Carnevale del 1510, era un omaggio dovuto a Giulio II, ma anche l’affermazione di una familiarità che illuminava di una particolare dignità la sua sterminata ricchezza. La sua casa, con le tolette ingemmate come forzieri che vi scintillarono quella sera, entrava nel circuito dei luoghi di massima eleganza del tempo, lasciando dietro le case dei cardinali e dei principi di tante piccole e miserabili corti. Aveva fatto tutto quanto poteva per superarli con quello stile così singolare, ma ora per vincere definitivamente la competizione aveva bisogno dell’opera di un artista eccellente, che sapesse cogliere e rappresentare la novità di quegli orizzonti che si andavano dischiudendo giorno dopo giorno nella città diventata di nuovo il centro del mondo. All’inizio del 1510 quell’artista era da poco arrivato a Roma. Era giovane, elegante e condivideva molte cose del temperamento di Agostino, e naturalmente si chiamava Raffaello. Ma il banchiere non poteva certo rubarlo al suo protettore Giulio II. Tanto per il banchiere quanto per l’artista era impossibile fare a meno della protezione papale. E così Agostino iniziò una lunga opera di seduzione, impegnandolo gradualmente in opere sempre più grandiose e aspettando il momento opportuno per sottrarlo, almeno temporaneamente, al papa. Nel 1510, il 10 novembre, il nome di Agostino appare accanto a quello di Raffaello in un contratto per la fusione di due tondi bronzei di cui l’artista avrebbe dato i disegni. Ma non sappiamo neppure se quell’opera fu mai realizzata. La prima opera concreta per il banchiere furono invece i dipin188

ti che Raffaello eseguì intorno al 1511 nella cappella di famiglia a Santa Maria della Pace16. Si trattò soprattutto di un lavoro di progetto della parete decorata, considerando che i dipinti veri e propri misuravano pochi metri quadrati e quindi dovettero portare via poco tempo. Nello spazio compreso tra un arco di marmo e un elegante fregio anch’esso di marmo, decorato a palmette con al centro lo stemma dei Chigi, Raffaello dipinse alcune Sibille contro lo sfondo rosso cupo di una tenda tenuta al fregio da finti anelli metallici [Fig. 63]. Lo scorcio ripeteva quello delle virtù nella Stanza della Segnatura, ma la potenza delle figure e soprattutto la presenza della vecchia Sibilla Cumana, seduta a destra con inquietanti panneggi arcaici in una posa molto suggestiva, accoglievano gli echi della volta Sistina che Michelangelo aveva ormai portato a buon punto e che proprio in quel periodo si rese in parte visibile dal basso. Nonostante l’impressione fortissima dei potenti scorci e dei movimenti pieni di energia che traboccavano dalla volta Sistina, Raffaello accolse però le novità con molta sapienza, piegandole, come aveva sempre fatto, alla sua poetica personale. Le sue Sibille non inquietano, non somigliano a uomini in lotta come quelle di Michelangelo. Rimangono invece aggraziate e gentili come Muse, morbide e affascinanti con le braccia tornite e mai muscolose. Anche queste Sibille, con i volti sfumati da quella luce seduttiva irradiata da tutti i personaggi femminili di Raffaello, sembrano essere lì per godere dell’ammirazione suscitata nell’osservatore, non per provocarlo con la loro esistenza inquieta e inafferrabile come quelle di Michelangelo. La maestà del racconto è sottolineata dai panneggi, giocati sui toni del giallo dorato e del rosa per contrastare, ma senza effetto sgradevole, il rosso cupo della tenda retrostante. Così come nella Scuola di Atene l’aria si era colorata dell’oro del pomeriggio, nelle Sibille di Santa Maria della Pace l’atmosfera si colora di rosso e assorbe come un filtro i ve189

stiti e le carni, evocando il caldo cupo degli antri dove la leggenda voleva risiedessero le donne profetiche. Un dettaglio singolare pone questo dipinto in una particolare collocazione nel processo di antichizzazione della tradizione cristiana, o se si preferisce nel processo di cristianizzazione della tradizione pagana. Le Sibille sono infatti circondate da angeli che reggono loro i libri sacri, oltre che da putti nudi come lo erano quelli che Michelangelo aveva dipinto dietro le spalle delle sue Sibille nella volta Sistina. Paradossalmente, si può dire che nella cappella di un privato cittadino la moralità e la tradizione cristiana rivendicavano maggiore spazio che nella cappella principale del Palazzo Vaticano, dove le Sibille e i geni reggifestoni, e perfino gli angeli, avevano perso il carattere che avevano mantenuto in millenni di rappresentazione cristiana. Del resto Agostino sapeva rispettare le convenzioni, perlomeno in pubblico.

5. «AMOR VINCIT OMNIA»

Nel 1511 Agostino seguì il papa nella sua sventurata campagna contro Ferrara. Raggiunse poi Venezia, dove doveva riscuotere alcuni crediti rilevanti e svolgere per conto del papa alcune trame di comune interesse. In quei mesi il banchiere, che era stato sposato in prime nozze con una senese di ottima famiglia, era in trattative matrimoniali con una donna di origini nobili, che avrebbe reso la sua ricchezza più lustra. Margherita, figlia illegittima di Francesco Gonzaga, cresciuta nella raffinatissima corte di Urbino e conosciuta durante le feste che aveva organizzato per il nipote del papa nel 1510, sembrava la donna giusta per un giusto progetto. Le sue lettere di 190

trattativa rimangono un esempio insuperabile di intelligenza e misura borghese. A Venezia, però, si innamorò di una giovane e bellissima ragazza, Francesca Ordeaschi. Abituato alle grazie di Imperia, la cortigiana più celebrata di Roma che divideva con principi e cardinali, Agostino ebbe voglia di un fiore giovane e lo trapiantò disinvoltamente a Roma in un convento di monache compiacenti, che potevano garantirgli, dietro una ricca remunerazione, un accesso esclusivo a quella carne adolescente. Ma l’amore gli prese la mano, più di quanto avrebbe mai potuto immaginare il maturo banchiere. Mentre nel dicembre del 1511 continuava a mantenere in piedi le trattative matrimoniali con la pretenziosa Margherita Gonzaga, il suo cuore cominciava a cedere alla ninfetta veneziana e sei mesi dopo, nel luglio del 1512, la ragazza si insediava con lui nel «palazzo d’amore», come chiamavano la Farnesina i Chigi. Gli avrebbe dato cinque figli in sette anni, ma l’esito di quell’amore travolgente sarebbe stato senza precedenti nella storia italiana. Nell’agosto del 1519, Agostino prende in sposa Francesca sotto gli occhi ammirati di tutta la corte pontificia e degli dèi propizi dipinti da Raffaello sotto la volta della loggia principale. Fu Leone X in persona a congiungere le mani e sorvegliare lo scambio di anelli, preziosissimi naturalmente («Certum annulum aureum cum gemma annulo inclusa»)17. Un trionfo maggiore di Amore non poteva immaginarsi. Una rivoluzione era stata fatta, un miracolo di costume destinato ad aprire una nuova era sociale. Una ragazza destinata alla prostituzione più o meno elegante assurgeva ai massimi onori sociali, sposata dal papa sotto gli occhi dei principali esponenti della nobiltà europea e tutto grazie al dio Amore che resuscitava in Italia in tutta la sua potenza e dimostrava di saper vincere contro tutto e contro tutti. Raffaello ebbe una parte importante in questa favola, le diede forma rendendola seducente e quindi credibile, e aiutò a modo suo quella piccola grande rivoluzione di costume. Sentendosi tanto partecipe di quel191

la favola quanto più votava la propria vita all’adorazione delle belle donne. Per perorare il suo matrimonio con Margherita, Agostino aveva scritto al marchese di Mantova lettere tanto umili da mortificare il proprio stato, sempre consapevole che la ricchezza, per quanto sterminata, non poteva competere con la nobiltà del sangue. O almeno non ancora. Come era costume per l’epoca, e come lui stesso era particolarmente abile a fare, il banchiere trattava quel matrimonio con la prudenza oculata di una transazione economica. «Et ben cognosco che la grandeza dell’animo suo ha supplito a ogni defecto, che in la mia bassa conditione havesse operato la fortuna»18. Subito dopo alludeva sapientemente alla sua disponibilità a elargire al marchese ottimi finanziamenti, ben sapendo che anche i marchesi, di fronte al denaro, diventavano più ragionevoli in fatto di legami familiari. Il confronto tra queste lettere e l’esito finale della vicenda rivela tutta la forza inarginabile dell’amore che come un cataclisma travolse il maturo e assennato cinquantenne per la bella ragazzina senza natali. Agostino, sostenuto da quella passione, si sentì all’improvviso stanco di dover ancora sgomitare per una rispettabilità di cui forse non aveva più bisogno o che poteva conseguire per altre vie, e si ribellò alle convenzioni sociali del suo tempo. Il legame con la bella veneziana diventò una favola magica quando la primavera nuova fece piovere petali bianchi dai meli del suo giardino. Agostino decise di abbandonarvisi completamente seguendo l’esempio dei papi e dei cardinali, che nella illegittimità dei legami sentimentali non avevano mai visto alcun ostacolo. Lui, poi, godeva del sostegno incondizionato di Giulio II, con il quale, dopo una breve burrasca, tornò in strettissimo rapporto, tanto che l’11 maggio 1512, dopo averlo accompagnato all’apertura del Concilio Lateranense, andò insieme a lui e a pochissimi altri parenti a mangiare nel convento di San Gregorio al Celio. 192

La sua posizione, ormai, non poteva essere più sicura. Si convinse perciò che era giunto il tempo di abbandonarsi a quell’amore che intorno a lui tutti cantavano e tutti bramavano, e che stava conquistando una nuova visibilità sulla scena sociale dell’Italia. La virtù familiare e dinastica sembrava aver perso fascino nelle rappresentazioni dipinte e nei poemi, cedendo definitivamente il passo alla sensualità dell’amore carnale. Lo aveva cantato Ovidio, diventato celebre tra gli umanisti quasi come un Padre della Chiesa. E lo cantava ora Ludovico Ariosto nei poemi che stavano incantando l’Italia. Anche i pittori cominciavano a dipingerlo, e Agostino sentì che la sua inclinazione alle immagini evocative poteva dargli uno spazio tutto particolare nella scena italiana. Da Giulio II aveva imparato che la forza delle immagini poteva rendere favori ben più grandi di quanto potessero fare uno stemma nobiliare o un incarico prestigioso in una delle corti europee più rinomate. Aveva dato a Baldassarre Peruzzi l’incarico di decorare la volta del suo nuovo palazzo con immagini tutte incentrate sulle Metamorfosi di Ovidio, e già nel gennaio del 1512 un libro stampato a Roma dal poeta e filosofo Blosio Palladio esaltava tra i primi quel luogo e quelle pitture come massimo traguardo di eleganza. La decorazione all’antica era stata proseguita da Sebastiano del Piombo, il pittore portato da Venezia, che sotto la volta «astrologica» del Peruzzi iniziò dopo l’autunno del 1511 a dipingere le lunette con rappresentazioni delle storie di Ovidio incentrate sui miti legati all’aria. Nei riquadri sottostanti, Agostino voleva che fossero dipinte anche scene amorose ispirate ai miti legati all’acqua, e Sebastiano aveva già l’incarico di dipingere un Polifemo in cui Chigi non aveva difficoltà a riconoscersi nel colto gioco dei rimandi mitologici. Ora toccava però a Raffaello trasformare la casa del banchiere nella casa di Amore, con un dipinto che avrebbe se193

gnato per sempre la cultura figurativa successiva per la sua capacità di far rivivere l’antichità classica non soltanto come evocazione, ma come vivo e profondo sentimento della natura, della felicità e dell’universo. Tutto il palazzo che Agostino aveva commissionato al Peruzzi a partire dal 1505 era stato concepito come una celebrazione della sensualità pagana. I motivi ispiratori dell’architettura erano stati ricercati nei testi di Vitruvio e nei resti dell’architettura antica. La fonte delle rappresentazioni pittoriche era stata ricercata nel poeta pagano Ovidio, celebrato perfino in Vaticano, ma che nel giro della stessa generazione sarebbe stato messo all’indice dalla Controriforma e da quella stessa curia che in quegli anni lo esaltava. Agostino aveva voluto costruire una casa degli ozi, e solo lui poteva permettersela così interamente e dettagliatamente progettata per il fasto colto che tanto amava. Solo lui poteva allestirvi banchetti regali con vasellame d’oro e vivande apparecchiate come trionfi degli occhi. Aveva progettato un giardino che ricreasse in terra qualcosa di molto vicino al paradiso. Aveva profuso nelle decorazioni delle camere tanto oro quanto si era visto soltanto nelle maggiori chiese di Roma. In quella cornice arrivò, su una conchiglia di madreperla, trainata da due delfini festosi, la nuova dea dell’amore, destinata a oscurare tutte le figure femminili apparse sul suolo di Roma nei due millenni precedenti: Galatea [Fig. 22].

6. LA VENERE DELL’ACQUA

Nell’autunno del 1511 Raffaello stava ultimando la Stanza della Segnatura. Sulla parete su cui dipingeva la conferma del194

le Decretali stava dando gli ultimi ritocchi a un Giulio II raffigurato con la barba luttuosa che si era lasciato crescere nella sua sfortunata campagna militare. Dall’inverno del 1512 la corte papale era all’opera per preparare il programma della seconda stanza, quella di Eliodoro, dove furono allestiti i ponteggi e fu rasato il muro per accogliervi l’arriccio con il disegno preparatorio delle nuove pitture. Tutta la bottega di Raffaello era al lavoro per preparare i cartoni. L’artista ebbe un momento di libertà dagli impegni con il papa che, tornato in buoni rapporti con Agostino Chigi, certamente non volle negargli il suo pittore preferito per qualche giorno. Raffaello fece così il suo ingresso nella Villa della Farnesina, che aspettava solo il suo pennello e la sua gioia per essere consacrata ad Amore. La scelta cadde sulla parete della Loggia d’inverno, aperta sul Tevere, quella dove Peruzzi aveva dipinto in forme simboliche il fortunato oroscopo del banchiere. Nella parete sottostante, al di sotto delle lunette dove Sebastiano del Piombo aveva messo in figura le metamorfosi ovidiane, Agostino voleva probabilmente che fossero rappresentate scene legate al mondo marino, o semplicemente scene d’amore. I riquadri disponibili erano rettangolari e inquadrati dalle lesene decorate a grottesche che reggevano i peducci della volta. Nel riquadro sopra la porta d’ingresso, il primo nell’angolo sud-occidentale della sala, Sebastiano aveva dipinto un Polifemo seduto accanto a un albero mentre guarda lontano il mare. Il ciclope, come racconta Ovidio, era innamorato della bella ninfa Galatea, che solcava le onde con il suo corteggio di creature marine: trionfo di bellezza e di sensualità, che resisteva però alle offerte amorose di Polifemo irridendolo con il suo canto. Non era difficile riconoscere il maturo Agostino Chigi nell’immagine del ciclope, che con animo gentile stringeva in mano la siringa per cullare la sua malinconia amorosa. Dal momento che Agostino si era arreso a 195

quell’amore, facendo allibire il cinico mondo della corte papale, il suo amico Raffaello doveva ora spiegare al mondo e legittimare la forza inarrestabile di quel sentimento. Accanto al riquadro con il malinconico Polifemo, Raffaello dipinse così la sua Galatea, sopra una conchiglia trainata da due delfini, circondata da creature marine, sovrastata da un cielo chiaro dove putti alati tendevano gli archi per scagliare le loro frecce d’amore sul corteo trionfale. L’affresco è costituito da meno di dieci giornate ed è curato come una tavola dipinta a olio. Il cielo primaverile arriva fino a metà del dipinto, spazzato da un vento leggero che spinge in aria il manto granato della ninfa e i capelli delle altre creature femminili. La brezza increspa il mare verde e calmo, che occupa la metà inferiore del riquadro accentuando l’impressione di una forma quadrata della scena (che misura in realtà duecentonovantacinque centimetri per duecentoventicinque). Galatea al centro è nuda, ma il pube è coperto dal manto svolazzante e il seno dal braccio destro, portato in avanti per reggere le redini dei due delfini che trainano la conchiglia. Si sta girando all’indietro, avvitando il corpo su se stessa ed esponendolo alla luce che ne disegna le forme adolescenziali. Ha lo sguardo rivolto in aria, verso la luce, e un’espressione per la quale Raffaello non esita a riproporre l’estasi che aveva dipinto nella santa Caterina alcuni anni prima [Fig. 23]. Spirituale o erotica che sia, l’estasi ha il potere di rapire gli uomini e le donne alla vita superiore del sentimento. La torsione del busto della ninfa, pienamente convincente, termina nel gesto aggraziato delle mani, che reggono le redini incrociate per collegarsi al morso dei due delfini. Le cordicelle nere che tengono a bada i pesci si incrociano inspiegabilmente ostacolandosi nella guida: un dettaglio forse senza rilievo, o forse espressione della lacerante difficoltà del cammino amoroso. La conchiglia, gigantesca, mostra una ruota idraulica che richiama i battelli fluviali del nord, ma anche gli apparati sce196

nici che solcavano la laguna di Venezia, città di provenienza di Francesca, in occasioni particolarmente importanti19. La ninfa mantiene un candore e un isolamento virginale, ricordando essa stessa un frutto di mare schiuso per offrirsi allo sguardo con il contrasto tra la carne luminosa e il mantello rosso cupo attorcigliato come la valva di una conchiglia. Le figure intorno a lei si incaricano di esprimere i sensi esaltati dall’eros più carnale. In primo piano, alla sua destra, un tritone marino muscoloso e abbronzato stringe il corpo di avorio di una ninfa bionda che offre i seni di adolescente del tutto indifferente allo scandalo che ne potrebbe derivare a chi la guarda. La ninfa ha i capelli sollevati da un nastro sulla fronte come la santa Barbara della pala Sistina. Raffaello utilizza con estrema disinvoltura un tratto di bellezza femminile da cui si sente sedotto per esprimere devozione erotica e devozione religiosa. Alla sinistra, un altro tritone nudo si tende verso l’alto per suonare uno strumento a fiato. È un nudo atletico e sensuale, che non nasconde le parti intime con il capriccioso travestimento di alghe che gli spuntano dalle cosce. Dietro, un terzo tritone per metà uomo e per metà cavallo marino porta in groppa una ninfa nuda vista di spalle, mentre dalla parte opposta un quarto nudo soffia in una conchiglia marina cavalcando un puledro bianco. Quasi fuori dal riquadro, nella parte più bassa, un putto si aggrappa a uno dei delfini per farsi trascinare. È bellissimo e riproduce la posa e l’espressione di Galatea amplificandone la seduzione con un espediente che Raffaello utilizzava da almeno cinque anni. La rappresentazione della vita acquatica mescola animali e uomini in maniera fantasiosa e sufficientemente credibile, almeno quanto basta per resuscitare un mondo irreale senza scadere nel grottesco. I precedenti iconografici sono quelli offerti dalla pittura romana e dai rilievi marmorei antichi, ma il dipinto aggiunge la grazia del disegno anatomico e la compattezza degli incarnati, differenziati puntualmente per gene197

re e per età. Galatea ha un incarnato dorato messo in risalto dal manto rosso che lo avvolge, un colore che è quasi una ossessione in questi mesi per Raffaello che lo riprende nella Messa di Bolsena e poi nell’Incontro tra Attila e Leone Magno nei dipinti vaticani tra la fine del 1512 e la metà del 1513. Sul viso, una luce abbagliante ne addolcisce lo sguardo e il sorriso. La ninfa che sta tra le braccia muscolose del tritone cinto di edera ha un incarnato molto più chiaro, che mette in contrasto la sua morbida femminilità con i muscoli abbronzati dell’uomo che l’abbraccia. Il putto che si aggrappa ai delfini, capolavoro di dolcezza infantile, ricorda la torsione anatomica del putto che sfugge dalle mani della Madonna nel Tondo Taddei di Michelangelo, ma con le guance colorate dal sole ne volge in dolcezza la tensione muscolare. Nell’aria, in tre diversi scorci che compiono un giro completo del corpo, tre amorini alati stanno per colpire con le loro frecce Galatea e il suo corteo, mentre nascosta da una nuvola spunta in alto a sinistra la testa di un quarto amorino che tiene in mano un bel mazzo di frecce di riserva. La scena inquadrata in quella loggia, dove volano figure mitiche e simboli amorosi di ogni genere, comunica un felice appagamento dei sensi, mettendo ordine e compostezza nell’intera sala. Slegata da ogni freddezza archeologica, la giovane Galatea è una figura nuovissima del Rinascimento romano, che fa qui la sua comparsa per la prima volta e appare come l’icona di un nuovo culto a cui molti vogliono votarsi in quegli anni, il culto di Amore. La sua innocenza e purezza tiene lontane le evidenti esuberanze sensuali a cui si abbandona il suo seguito, senza però escluderle dall’evocazione di un amore che per la prima volta si proclama consapevole e felice della propria gioia carnale, incurante delle formalità sociali come il matrimonio. Con l’affresco di Raffaello, la bellezza femminile si pone apertamente come soggetto della rappresentazione senza do198

versi più nascondere dietro significati allegorici o spirituali e dimostra che si possono contenere le pulsioni più torride ma mai negarle del tutto. Le forze della natura ritornavano nella villa sul Tevere completandosi con i fiori di melo e d’arancio e con i loro profumi che inondavano la loggia, oltre che con la visione del fiume che scorreva lento a pochi metri portando fin nel palazzo il flusso incessante della vita. La ninfa dai capelli dorati viveva di una nuova esistenza: non più come l’ombra di quelle Veneri antiche che si raccoglievano nelle collezioni dei principi e del papa, ma come soggetto nuovamente accolto nel panorama di Roma. Si volgeva indietro verso Polifemo, o verso il cielo dove ha sede il dio dell’amore carnale. Ma anche verso l’Olimpo, dove altri dèi aspettavano di posarsi sulla città dopo secoli di esilio. Roma aveva riaperto loro le porte. Agostino Chigi e Raffaello li avrebbero ospitati di lì a poco in quella stessa casa. Sia pure per poco, il culto di Venere era resuscitato.

7. MORTE DI UN PAPA GUERRIERO

Sfinito dalla malattia, Giulio II giaceva intanto nel letto aspettando una morte che sembrava non fargli paura. Nonostante le accuse che piovevano su di lui da tutta Europa, riteneva di essere stato un buon papa e si consolava con una fede che a modo suo aveva coltivato sinceramente per tutta la vita. Le sue ultime preoccupazioni furono per la famiglia e per il papato, al quale volle assicurare una continuità lontana dalle pratiche simoniache a cui lui stesso aveva fatto ricorso. Dal letto di morte, emanò una bolla che imponeva un’elezione del successore senza mercanteggiamento di denaro e di cariche. 199

Non ebbe ripensamenti neppure sulla sua ossessiva passione per i riti di propaganda. Con le ultime forze rimastegli, il sabato 19 febbraio 1513 chiamò Paride de’ Grassis, il fedele maestro di cerimonie, e gli dettò le ultime volontà sul rito del funerale. Dopo quanto aveva fatto e quanto aveva rischiato per il «suo» papato, non voleva appannarne la gloria nell’ultimo passaggio. Chiese di essere esposto avvolto in una veste d’oro dall’incredibile valore di 2000 ducati e con addosso gioielli preziosi, e suggellò la promessa del cameriere con un bicchiere di Malvasia bevuto tra le lenzuola bianche ricamate in fiandra. Allo scaltro ambasciatore di Isabella d’Este bastò uno sguardo per valutarne il costo: «Il gi è dui anelli che val 1200»20. Il popolo, meno cinico, ne avrebbe apprezzate le altre qualità, consacrandone la gloria molto al di là dei giudizi dei politici dei secoli successivi. La mattina del 20 febbraio, domenica, per Roma si diffuse la notizia dell’agonia del papa. Risalì dai cunicoli umidi del Tevere fino ai negozi dei fornai e dei beccai, si arrampicò con le donne sulle terrazze dove il freddo impietriva i panni stesi ad asciugare, saltò urlando i vicoli stretti e le piazze arrivando fino alla campagna, che la portò verso le città di tutto il mondo su veloci cavalli di posta. Molta gente cominciò a ingrossare le file di pellegrini che attraversavano la città diretti a San Pietro. Presto il borgo e la piazza si riempirono di punti neri che ciondolavano guardando in alto, verso i Palazzi Vaticani, quasi aspettando che all’improvviso nel cielo di cobalto comparisse un segno a sciogliere l’angoscia, sempre più palpabile nella città ammutolita. Anche i mercanti dei banchi e delle case ricche di via Giulia, prima di recarsi ai loro appuntamenti, si sporgevano sul Tevere per guardare dall’altra parte. Ma un vento freddo proveniente dalla basilica gli arrivava in faccia respingendoli verso gli affari di tutti i giorni, stretti nei mantelli di panno di velluto foderati di pelliccia. 200

Il ponte di Sant’Angelo era già pieno di corrispondenti attorniati dai loro servitori. Aspettavano di poter mandare notizie certe ai loro principi. La morte e la nascita di un papa erano gli unici momenti nei quali Roma diventava davvero il centro del mondo. Anche loro, come il popolo minuto, guardavano verso i palazzi che improvvisamente sembravano già vuoti, abbandonati dalla vita che agonizzava nel petto del grande papa guerriero. Quei palazzi che Giulio aveva voluto con tanta forza ora ne avvilivano il destino, mostrando con la loro grandiosa bellezza la miseria fragile degli uomini anche potenti come lui. Ma i corrispondenti e gli ambasciatori erano già oltre quella morte. Chi con preoccupazione e chi con gioia, parlavano dei possibili successori e avviavano le scommesse sui candidati al soglio pontificio. Gente di ogni condizione si aggirava per la piazza come se stesse per perdere il padre. E Giulio era stato un padre oltre che un principe, un uomo che li aveva protetti dalle insidie di un mondo turbolento, dalle minacce dei piccoli e dei grandi tiranni, dai turchi accampati ai confini dell’Occidente e sempre pronti a occuparlo. I pellegrini e il popolo di Roma sentivano lo sconforto per quel lutto imminente, sospeso sulla piazza come una minaccia invisibile eppure concreta. Entravano nella basilica e di fronte alla Pietà di Michelangelo, che destava di solito un entusiasmo ammirato, ora piangevano senza motivo apparente. Si mettevano in fila per baciare il piede della statua di bronzo dell’apostolo Pietro, come avevano sognato per anni prima di arrivare a Roma, e piangevano bagnando il metallo. Con il passare delle ore, l’agonia di Giulio, il papa che aveva salvato la Chiesa dal disfacimento, diventò l’agonia dell’intera città. Il silenzio calò anche sulle sue osterie, sui suoi traffici leciti e illeciti ma eterni come le sue pietre. Infine, come un sollievo che liberò il pianto di tutti, nella notte tra la domenica 20 e lunedì 21 febbraio si levò, prima flebile e poi tuo201

nante, il suono delle campane, partito come un’increspatura di lago da San Pietro per frangersi come un’onda dell’oceano contro le vecchie mura della Porta di San Sebastiano. Nessuna chiesa, grande o piccola, voleva sottrarsi a quel cordoglio e rinunciare ad aggiungere il lamento di piccole campane appese a tralicci di legno all’urlo terrificante di quelle fuse dall’altra parte del mondo e murate a Roma sui torrioni delle antiche basiliche. Le campane di Santa Maria Maggiore, di San Giovanni in Laterano e di San Paolo fuori le mura sarebbero bastate da sole ad annichilire la città intera. Un suono secco e prolungato, senza modulazione, fece vibrare le mura dei palazzi fortificati e le casupole infilatesi nei vecchi templi. Senza scampo dilagò nei vicoli e nelle piazze immense, svegliando la città che ormai da giorni aspettava quel segnale. Il suono martellante si propagò nell’aria e urlò a tutti che Giulio era morto, che Roma e l’Italia erano di nuovo alla mercé dei principi. Che il mondo era di nuovo in pericolo. Scrisse Paride de’ Grassis: Da quarant’anni che vivo in questa città non ho mai visto una folla così straordinaria al mortorio di un papa. Tutti grandi e piccoli, vecchi e giovani, volevano baciare i piedi del morto nonostante la resistenza delle guardie. In mezzo alle lacrime pregavano per la salute dell’anima di colui, che era stato in verità papa e vicario di Cristo, scudo di giustizia, che aveva dato incremento alla Chiesa apostolica ed era stato un persecutore e domatore di tiranni21.

Tra quegli uomini e quelle donne certamente si asciugava gli occhi un giovane dai capelli lunghi, vestito di nero, Raffaello di Giovanni Santi.

CAPITOLO 6

GLI ANNI DEL TRIONFO

1. UNA NUOVA ERA

L’11 marzo 1513 le campane di Prato suonarono a festa, ma le donne della città iniziarono a piangere le ultime lacrime che gli rimanevano. Avevano pianto mentre curavano con gli unguenti le lacerazioni dei loro bambini violati. Avevano pianto quando il ventre delle loro figlie si era cominciato a gonfiare. E avevano pianto quando si erano accorte che dentro di loro qualcosa cominciava a muoversi, qualcosa che presto sarebbe venuto alla luce. Tra le lacrime guardavano il posto lasciato vuoto nei loro letti dai mariti e dai figli, che non sarebbero più tornati. Erano stati uccisi, squartati e appesi per i testicoli alle forche, prima di essere buttati nei pozzi da cui, dopo il sacco della città, sarebbero emersi uno dopo l’altro seimila cadaveri. A dispetto di quei lutti ancora recentissimi, le campane annunciavano che a Roma era stato eletto papa proprio l’uomo che aveva guidato quel massacro. Sotto gli occhi indifferenti del popolo del Vecchio Testamento, risuscitato da Michelan205

gelo nella volta Sistina, il cardinale Giovanni de’ Medici era stato eletto successore di san Pietro con il nome di Leone X. Quando, nella primavera dell’anno precedente, i francesi avevano abbandonato l’Italia, Giulio II aveva deciso di punire definitivamente la Repubblica fiorentina per l’appoggio dato agli stranieri, e aveva scelto l’uomo a cui affidare quel compito con una buona dose di cinismo. Giovanni de’ Medici reclamava infatti per sé il diritto alla signoria di Firenze, da cui la sua famiglia era stata esiliata vent’anni prima: sarebbe stato lui a guidare l’esercito papalino per debellare definitivamente la Repubblica. Il 30 agosto del 1512 era giunto alle porte di Prato. L’estate era sul punto di declinare in autunno e l’aria era così dolce da rendere inimmaginabile qualsiasi tormento. Giovanni si fermò sotto le mura e le bombardò fino ad aprirvi una breccia dalla quale entrarono i soldati a cui era stata promessa la città. Lo scempio fu immane, al punto che, appena fatto il suo ingresso trionfale a Firenze da condottiero vittorioso, a metà settembre, uno dei primi atti della sua restaurazione fu quello di proibire persino di parlare di quanto era successo a Prato. Lui stesso era stato del tutto insensibile al massacro. Dalla città straziata aveva fatto scrivere al fratello Giuliano una lettera indirizzata a Isabella d’Este, in cui l’imminente ritorno a Firenze veniva annunciato come se fosse avvenuto con la grazia dello Spirito Santo anziché con il sangue che scorreva a fiumi sotto le sue finestre. Anche nella lettera con cui avvertiva il papa della presa di Prato, Giovanni era stato molto asciutto sulle conseguenze tragiche di quell’impresa: «Hoggi, dandosi per li spagnoli su le mure di Prato lo assalto valorosamente et per il muro rotto et per le scale introrno dentro circha a sedici hore. Hanno messo la terra a sacco non senza qualche crudelità de occisione, de la quale non si è possuto far meno»1. I seimila morti ammazzati venivano così liquidati nella prosa del cardinale come «qual206

che crudelità de occisione», un inevitabile prezzo da pagare per quella gloriosa impresa. Del resto lui stesso aveva così ricercato quella conquista da arrivare a promettere al papa cinquantamila ducati per poter ritornare in possesso di Firenze2. Dopo i lutti, la città di Prato aveva dovuto affrontare anche la carestia. Ora, nei giorni dell’incoronazione di Leone X, arrivava pure l’oltraggio di un festeggiamento che le intimava di mostrarsi felice per la fortuna del suo carnefice. Dopo le campane ci sarebbero stati addirittura i fuochi, perché la popolazione superstite della città potesse sperare di riprendere a vivere e a crescere i figli che cominciavano a nascere dalle donne di ogni età che erano state violate dai soldati e che erano destinate a ricordare per tutta la vita lo strazio del sacco papalino. A Roma Leone contava di cancellare in poco tempo le ombre che si addensavano sulla sua testa. Il cerimoniere pontificio Paride de’ Grassis fu subito colpito dal fisico impacciato dell’uomo, grasso e sempre sudato. Tutti gli altri membri della corte furono colpiti dalla giovialità con cui annunciò di volersi godere il papato, che gli era sembrato un meraviglioso dono della Provvidenza. La sua superstizione capricciosa gli fece spostare la data dell’incoronazione perché i suoi astrologi gli avevano annunciato una luna poco favorevole. Affiorava subito la sua natura mondana, che esplose nella cavalcata per l’incoronazione tenuta l’11 aprile del 1513 dal Vaticano alla chiesa di San Giovanni in Laterano, una cavalcata costata la bella cifra di centocinquantamila ducati. Per quell’evento la città fu trasformata in una quinta teatrale degna della Roma imperiale. Lungo il tragitto vennero allestiti archi trionfali di cartapesta dai quali giovani vestiti all’antica declamavano poesie al nuovo trionfatore. Il più bello, naturalmente, fu quello che Agostino Chigi fece erigere di fronte alla sua casa dei Banchi, appena oltre il ponte Sant’Angelo. C’erano sopra statue e ragazzi che declamavano versi e 207

gettavano monete alla popolazione. Leone apprezzò molto quel tributo scenografico ma apprezzò molto di più il prestito di settantacinquemila ducati che Agostino gli concesse in quella primavera, ricevendone in cambio la riconferma come appaltatore monopolista dell’estrazione di allume dalle miniere di Tolfa nello Stato della Chiesa. La cavalcata non poteva presentare occasione migliore per un Medici. Suo nonno e suo padre avevano consolidato il loro potere a Firenze proprio inscenando le leggendarie cavalcate dell’Epifania, nelle quali in occasione della rappresentazione sacra ostentavano quel fasto che Benozzo Gozzoli fermò sulle pareti del palazzo di via Larga. Ora, a Roma, Leone X aveva a disposizione il teatro più sfavillante dell’universo per inscenare una cavalcata che avrebbe riempito di gioia suo padre e suo nonno. Il corteo si avviò lungo il Ponte di Sant’Angelo, recintato per l’occasione da «uno capo a l’altro fornito de colone de verdure con uno razo tra cadauna colona, da tutte doe le bande, e non coperto di sopra»3. Arazzi e festoni appesi alle colonne formavano una quinta di sicuro effetto contro la mole gigantesca del castello e l’acqua placida del Tevere verde, gonfio per le piogge primaverili. Tra i fiori lanciati dalle finestre e le coperte colorate che ognuno appendeva dove poteva si misero in moto i balestrieri capitanati da Giulio Orsini con cinquanta cavalli, seguiti dai feroci soldati albanesi che indossavano la livrea papale su cento cavalli. Al petto avevano un vistoso diamante con inscritto il motto «semper» e alle spalle compariva, invece di san Pietro, un Giove con la scritta «suave». Seguivano ventiquattro cardinali con le cappe scarlatte e oro, poi i vescovi con le mitrie bianche e altri cavalieri, tutti vestiti di broccato e velluto con insegne di ogni genere. Ma al centro del corteo il vertice dell’eleganza era rappresentato dalla famiglia papale, che da cento anni sembrava essersi preparata a quel trionfo. I Medici conquistavano l’Italia e centocinquanta persone camminavano in corteo «tutti vestiti di 208

rosato et scarlato». Persino i duecento baroni romani con i loro staffieri scomparivano in quella visione insieme ai funzionari di corte e ai nobili venuti da tutt’Europa a quella gara di eleganza, tutti indistinti tra broccati e velluti. Tutti, tranne due uomini che per motivi diversi si imposero in quell’abbagliante tripudio di stoffe e gioielli: il duca di Urbino e il duca di Ferrara. Il primo capeggiava un gruppo di venticinque uomini vestiti interamente di velluto nero in segno di lutto per la morte dello zio Giulio II. Il secondo, vestito con un’eleganza abbacinante, celebrava quella morte come inizio della liberazione del suo Stato dalle pretese del papato. Il fisico erculeo di Alfonso, che ne rivelava il carattere aggressivo e spavaldo, sembrò alle migliaia di romani assiepati lungo la strada quello di un dio Marte, coperto da un manto foderato d’ermellini e sulla testa una berretta di velluto nero su cui brillavano un unico diamante costato quanto un palazzo e una perla che lasciò senza parole gli altri nobili convenuti a Roma. Con quella cavalcata trionfale, la città vide annunciata una nuova era, la fine delle guerre e l’inizio di una pace gaudente, che però nel giro di pochi anni avrebbe messo a repentaglio la stabilità ottenuta dal papa della Rovere pur a prezzo di tanti spargimenti di sangue. Tornato a palazzo, Leone pretese subito il suo posto nelle celebrazioni in pittura che Raffaello stava ancora realizzando nelle stanze vaticane. Nell’affresco della Stanza di Eliodoro che doveva rappresentare l’Incontro tra Attila e Leone Magno, il volto rubizzo e gonfio del nuovo papa Medici prese perciò il posto di quello forte e segnato del papa della Rovere: un’altra era iniziava, e Raffaello si impegnava con il suo talento a dare solennità alla figura goffa e molle di quell’uomo sempre sudato, cresciuto negli agi di una corte ricchissima, che si seppelliva sotto i suoi stessi lussi. La figura, che nell’affresco appare coperta da un mantello porpora che si fonde al drappo che nasconde quasi del tutto la 209

sua mula, non ha espressione particolare e trattiene a stento un’ombra di faticoso decoro. Raffaello non conosceva abbastanza bene il Medici da poterne cogliere e valorizzare il carattere come avrebbe fatto in seguito. Ma l’intera decorazione delle stanze stava perdendo quel carattere centrale che aveva avuto nella politica di Giulio II, e Raffaello abbandonerà presto la prosecuzione dei lavori alla sua bottega limitandosi ai disegni preparatori. Non prima però di aver dipinto nella terza stanza un dipinto altissimo, l’Incendio di Borgo [Fig. 20], che annunciava i suoi nuovi interessi per l’architettura. In sintonia con la nuova era del pontificato, Raffaello veniva ormai chiamato a occupare compiti di più vasta portata, messo a capo di tutto quanto si muoveva a Roma sulla scena artistica. Il malanimo che opponeva da due decenni la famiglia Medici all’altro grande artista presente a Roma, Michelangelo Buonarroti, gli sgombrava la strada da ogni possibile competizione. Roma era sua. La sua eleganza e la sua sapienza erano chiamate a servire una politica celebrativa fondata sul lusso e sulla raffinatezza. Le cacce, i banchetti e il teatro avrebbero in pochi mesi sostituito il rumore di sciabole. Castel Sant’Angelo cominciò a sparare a festa le sue artiglierie per l’incoronazione del nuovo papa. Avrebbe continuato così per anni in una festa continua fino al brusco risveglio del 1527, quando però né il papa né il suo artista sarebbero stati presenti alla disfatta.

2. FESTA CONTINUA

«Godiamoci il papato visto che Dio ce l’ha voluto dare». Così, appena fu eletto papa, Giovanni de’ Medici esortò gli ami210

ci e i familiari. E il messaggio fu colto al volo dalla città e dalla corte. Il 27 aprile 1513, sei settimane dopo la sua elezione, Leone andò a visitare il palazzo di Agostino Chigi alla Lungara, diventato il luogo più alla moda d’Italia. Chi non aveva la fortuna di poterlo visitare doveva accontentarsi delle descrizioni elegiache che avevano dato alle stampe Egidio Gallo nel 1511 e Blosio Palladio nel 1512. Invece quel giorno Leone ebbe l’onore di immergersi nel profumo dolciastro dei fiori di peri e meli superbamente innestati e dei limoni gialli che brillavano contro le foglie scure lucidate dall’acqua del vicino Tevere. Il banchetto fu all’altezza della magnificenza del Chigi, eppure nelle cronache pettegole degli ambasciatori fu subito messo in ombra dai fasti stupefacenti dei banchetti che il senato di Roma offrì alla famiglia Medici il 13 e il 14 settembre dello stesso anno, in occasione del conferimento della cittadinanza al fratello del papa Giuliano de’ Medici e al nipote Lorenzo4. La preparazione di quei banchetti era cominciata appena il caldo estivo aveva allentato la sua morsa su Roma, facendo aprire i melograni e i fichi che infestavano il colle capitolino spingendo le radici nelle grotte di mattoni. Fu allora che una schiera di carpentieri si mise all’opera per montare sulla Piazza del Campidoglio, dove un tempo sorgeva il tempio di Giove e dove ora i malandati palazzi dei conservatori mostravano l’inutilità delle istituzioni laiche di Roma, un effimero teatro di legno, capace di contenere al suo interno tremila spettatori. L’edificio era in tutto conforme alle regole di Vitruvio, per la prima volta sperimentate rigorosamente in un apparato non destinato a durare. Ci volle per questo l’aiuto di tutti gli artisti presenti in città, che oltre alla struttura costruirono i rilievi in finto marmo che facevano somigliare la facciata a un arco trionfale e i pannelli dipinti che celebravano i Medici e Roma. Quando il corteo dei Medici, questa volta guidato da Giuliano e dal suo seguito perché Lorenzo non era a Roma, 211

arrivò nel teatro, fu celebrata una messa cantata seguita da un’orazione declamata da Lorenzo Vallati. Mentre gli ospiti riprendevano fiato, la scena della messa venne rapidamente trasformata in una mensa, facendo comparire sul fondo una credenza con dodici ripiani, «tutti pieni de oro et argento». Intanto la sala si profumava dell’odore delle acque con cui lavarsi le mani tra una portata e l’altra. La prima sorpresa attendeva i convitati appena seduti a tavola: nei tovaglioli di lino di Reims, fantasiosamente arrotolati, si nascondevano uccelletti vivi che presero a volare per la sala cinguettando per la riconquistata libertà. Poi fu la volta degli antipasti a base di marzapane e Malvasia, seguiti da venticinque portate tra cui brillarono per maestà scenica «VIII conche indorate con VIII capretti dentro arrostiti, copertii di savor bianco spesso, et ripieni di augelletti arrostiti; quali capretti stavano ritti, uno per conca (...) VIII piatti con cistelle de pasta, lavorate gentilmente et indorate, ripiene di molte buone cose (...). Uno grandissimo vaso nel quale stava uno alto monte ripieno de huomini et diversi animali, fabricati de profumi. Scaturivano da quatro lati acque odoratissime et in quatro luoghi ci ardevano profumi. In cima era una palla de oro»5. Il significato politico di quella cerimonia risiedeva nell’alleanza tra i Medici e Roma e nella non belligeranza tra papato e senato. L’immagine, anche quella del cibo portato in tavola, era troppo importante per essere casuale, e così perfino le confetture e le marmellate, le pizze greche e i fagiani arrostiti furono piegati alla necessità di propaganda politica6. Per rinfrescare l’aria sempre più torrida si fecero arrivare neve e ghiaccio, mentre i buffoni facevano giochi di ogni tipo. L’atmosfera arrivò a essere così ebbra che dalla mensa regale si videro volare polli arrosto e capretti smembrati, lanciati al popolo che era rimasto ad ammirare lo spettacolo. Quando si dichiarò finito il banchetto, Giuliano e gli altri commensali furono fatti accomodare nel proscenio. Le tavo212

le e la credenza piena di vasellame d’oro vennero velocemente sgombrate per far posto alla musica e alla sfilata di attori che impersonavano allegorie e recitavano versi. Allegorie e versi poetici furono tutti mirati a rievocare la tradizione pagana, come se il cristianesimo potesse accontentarsi della messa con cui si era aperto il banchetto. Per prima comparì una personificazione di Roma incoronata d’oro, seguita da due ninfe che spargevano profumi mentre trombe e pifferi si levavano per la sala. Continuarono poi altri carri allegorici. Ma soltanto nella seconda giornata la celebrazione dei Medici raggiunse il culmine con l’entrata in proscenio di un carro molto decorato con sopra un pellicano che con le ali aperte nutriva i figli del proprio sangue. Anch’esso simboleggiava Roma. Sul collo aveva un giogo e a fianco la lupa con Romolo e Remo alle mammelle, tutti sotto un albero di lauro con appese le palle d’oro dei Medici e gioghi d’oro con diamanti. Appoggiata al lauro c’era l’allegoria di Clarice Orsini, moglie di Lorenzo il Magnifico e madre del pontefice e di Giuliano. Discendente di una delle più antiche casate romane, era lei che poteva vantare, in quella circostanza, di aver unito le due città, Roma e Firenze, nella gloria del nuovo pontificato. Teneva in la destra un ramo di lauro, in la sinistra una palla de oro con uno leone indorato sopra, all’homero sinistro havea el scudo colla imagine di uno serpente. Da man dritta li giaceva apresso il patre Tiberino, da man manca Arno, ambo con barba bianca et capelli canuti, nudi tutti, senonché un certo manto copriva a ciascuno de essi alcune parti del corpo7.

Dopo un tale esordio il pontificato di Leone X era destinato a suscitare aspettative altissime. Ma il papa Medici riuscì addirittura a superarle, tanto che Pietro Aretino, che alle sue feste partecipò con grandissimo entusiasmo e alcune ne organizzò per conto del suo protettore Agostino Chigi, lo de213

scrisse come il papa che aveva mostrato al mondo «la grandezza de’ Pontefici». Uno sguardo ai conti di casa di Leone X racconta da solo il tenore di vita altissimo che garantì alla propria corte. I soldi che Chigi non gli lesinava in prestito, questa volta non per fallimentari avventure militari come era stato per suo fratello Piero, venivano spesi per buffoni, banchetti, commedie, e soprattutto per le cacce di cui il papa era appassionatissimo e che divennero ben presto leggendarie, come quella del gennaio 1515 alla villa papale della Magliana, dove furono ammazzati trenta cervi e nove cinghiali. Durante gli anni del suo pontificato, le artiglierie di Castel Sant’Angelo servirono più per i fuochi d’artificio che per le battaglie militari. Roma conobbe il suo momento più spensierato.

3. AL SERVIZIO DEL SOGNO

La morte di Giulio II dispiacque sinceramente a Raffaello. Nei giorni del lutto l’artista era impegnato, oltre che negli affreschi delle stanze vaticane, nel dipinto per il giovane Federico Gonzaga, che Giulio aveva trattenuto a Roma dal 1510 come ostaggio per assicurarsi la fedeltà di suo padre Francesco, marchese di Mantova. Ne aveva fatto uno degli esponenti più brillanti della corte, perché il ragazzo era di bellezza straordinaria e di modi ancora più affabili. Raffaello aveva perfino chiesto il suo vestito di tela d’oro e raso paonazzo e se lo era portato a casa per studiare con tutta calma gli effetti cangianti della pregiatissima stoffa. Voleva impostare il dipinto riducendo le sedute di posa del modello. Ma non se la sentì di continuare il lavoro nei giorni della morte del papa della Rovere. Come spiegò l’ambasciatore mantovano a 214

Isabella d’Este: «per adesso non saria possibile che gie avesse il cervello a retrarlo»8. Nei mesi successivi, tuttavia, Raffaello continuò per il nuovo papa quello che aveva cominciato per il precedente. Nella scena dell’Incontro tra Attila e Leone Magno, già molto avanti nella seconda delle stanze vaticane, fece in tempo a introdurre un ritratto di Leone X [Fig. 21]. Il rapporto tra i due si andava stringendo, se possibile, con un favore ancora più caloroso di quello accordatogli da Giulio. Leone mostrò subito di volere addirittura superare il sogno di restaurare l’età dell’oro iniziato dal suo predecessore, investendo l’intera città e una corte sempre più raffinata di questo sogno. La fortuna poi arrivò ancora una volta a favorire Raffaello. Il 12 marzo del 1514 a Roma morì Donato Bramante, architetto genialissimo che sotto Giulio II aveva avuto la direzione di tutte le principali fabbriche papali e che Leone aveva riconfermato mettendogli a fianco Giovanni Giocondo da Verona per assisterlo nella difficile conduzione della costruzione del nuovo San Pietro. Alla morte di quello che era stato mentore e amico di Raffaello, nonché suo maestro di architettura, Leone decise, non senza qualche sorpresa nella corte, di nominare suo successore proprio il giovane pittore, che ormai vicino ai trent’anni si era cimentato in architettura soltanto con Agostino Chigi, che gli aveva commissionato la ristrutturazione della cappella concessagli da Giulio II in Santa Maria del Popolo e la costruzione delle sue «stalle» nel giardino del palazzo di via della Lungara. Raffaello ricevette l’incarico con entusiasmo ma anche con sorprendente umiltà, come sempre consapevole dei propri limiti. Nella collaborazione con il vecchio Fra Giocondo vide la possibilità di apprendere importanti nozioni sull’architettura antica. E si avvicinò all’impegno con lo zelo di uno studente appena laureato9. Affrontò l’impresa pianificandola in ogni dettaglio insieme ai suoi collaboratori, che ormai era215

no diventati un vero e proprio gruppo creativo, capace di affrontare e risolvere con le rispettive specializzazioni ogni questione che affiorasse nella pratica artistica. Giulio Romano, Giovanni da Udine, Giovan Francesco Penni, e molti altri ancora, non potevano più essere considerati garzoni o semplici aiutanti, ma artisti entrati nel pieno della loro maturità. Erano loro ad assistere Raffaello nei disegni e nei progetti, affiancati da tecnici specializzati nel rilievo inviati in giro per il mondo, perfino in Grecia, a misurare e studiare gli esempi più significativi dell’architettura antica. L’altro strumento di questo sistematico studio dell’antichità classica fu la traduzione in volgare del De Architectura di Vitruvio, che Raffaello affidò all’illustre umanista Fabio Calvo da Ravenna. Con la traduzione di questo testo fondamentale della precettistica architettonica antica, e la sua verifica attraverso il rilievo sistematico dei monumenti misurati con precisione scientifica, Raffaello si avvicinava al traguardo finale di quella lunga ricerca di integrità linguistica e stilistica che aveva impegnato da cento anni gli artisti italiani. Una volta di più egli intuì che le possibilità offertegli dal papa e da Roma, in quel momento, erano possibilità mai offerte a nessun altro prima di lui. Una situazione particolarissima lo favoriva oltre ogni limite: i suoi concorrenti potenziali erano messi fuori combattimento da diverse circostanze. Leonardo da Vinci, chiamato anche lui a Roma da Leone X, si chiuse in Vaticano assediato dall’età e dalle ossessioni. La sua ricerca scientifica era troppo sterminata per produrre una sintesi utilizzabile da quel mondo alla caccia febbrile di nuove immagini per autocelebrarsi. Michelangelo Buonarroti, impegnato nella realizzazione della tomba di Giulio II, rimase isolato nel suo modesto studio di Macello dei Corvi, prigioniero del suo tormentato carattere, della inimicizia dei Medici e, fatto ancora più importante, di una sua condizione di perenne emigrato che lo aveva spinto a chiudersi a quella città 216

e a coltivare da lontano esasperati rapporti con Firenze e con la sua pretenziosa famiglia di origine. Raffaello occupò invece la scena con una libertà e una saggezza degni di un grande filosofo, prima ancora che con il suo fertilissimo talento. Anche nei rapporti di famiglia mostrò di saper arginare quelle richieste che avrebbero potuto ostacolarlo nella costruzione della sua prodigiosa carriera. In una lettera scritta a suo zio Simone Ciarla, il primo luglio del 1514, rivela la lungimiranza della sua strategia artistica ma soprattutto l’intelligenza della sua strategia esistenziale. Lo zio, come tutti i parenti a cui è rimasta la cura di minori che tengono molto a cuore, insisteva per vedere Raffaello sposato, finalmente approdato a quel traguardo che tutti consideravano l’unico porto dove un uomo può concentrare e mettere a frutto le migliori energie, oltre naturalmente a provvedere alla propria discendenza, compito considerato prioritario nella fragile società cinquecentesca. Alla base delle sue preoccupazioni, ci dovevano essere certamente le voci che gli erano arrivate sull’esuberanza sessuale del nipote: «persona molto amorosa et affezionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro», come elegantemente scrisse di lui Giorgio Vasari, informato su quell’argomento dalla attendibilissima testimonianza del suo allievo ed erede Giulio Romano. Con disinvoltura vicina al cinismo, Raffaello spiegò invece al vecchio zio che la sua resistenza al matrimonio era stata provvidenziale, in quanto la sua condizione sociale si era accresciuta così rapidamente che sarebbe stato un guaio sposarsi prima e accontentarsi di una dote modesta mentre ora poteva pretendere ben altre alleanze: circa a tor donna, ve rispondo che quella che voi mi volisti dare prima, ne son contentissimo, e ringratione Dio del continuo, di non haver tolta né quella né altra, et in questo son stato più savio di voi, che me la volevi dare. Son certo che adesso lo conoscete 217

ancora voi, ch’io non saria in locho dove io son, ché fin in questo dì mi trovo havere roba in Roma per tre mila ducati d’oro, e d’entrata cinquanta scudi d’oro, perché la Santità di N.S. mi ha dato, perché io attenda alla fabrica de Santo Petro, trecento ducati d’oro di provisione, li quali non mi sono mai per mancare sinché io vivo, e son certo haverne degl’altri10.

I soldi, naturalmente, e un futuro sempre più promettente al quale Raffaello andava incontro con entusiasmo. La città era ai suoi piedi e lui avrebbe fatto in modo che negli anni a venire lo sarebbe stata sempre di più. Il cardinale di Santa Maria in Portico, Bernardo Dovizi da Bibbiena, uno degli uomini più potenti della corte papale («il tutto», come efficacemente lo definì l’ambasciatore veneto a Roma), gli aveva promesso in sposa una sua nipote. Raffaello avrebbe ottenuto così un ingresso definitivo tra i potenti d’Italia, rompendo per primo la gabbia sociale in cui erano rinchiusi da duemila anni gli artisti anche più celebri dell’Occidente. Ma anche se la cosa non fosse andata in porto, Raffaello sapeva come trovare a Roma «una mamola bella, secondo ho inteso di bonissima fama lei e li loro, che mi vol dare tre mila scudi d’oro in docta». Alla bellezza non poteva rinunciare, né c’era ragione di affrettare troppo un qualsiasi matrimonio. Il suo cuore giovane bruciava di passione, e solo la pittura poteva placare quel fuoco. I due ritratti di quegli anni riconducibili alle sue amanti sono tanto sensuali da rivelarsi come un rimedio all’incontinenza dei suoi sentimenti. Con le lacche stese dai pennelli morbidi, che non lasciano tracce sulla tela, Raffaello rubò a quelle amanti la loro bellezza, possedendole per sempre: un privilegio che non era dato né a principi né al papa e neppure al suo ricchissimo amico Agostino Chigi.

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4. CAPELLI E OCCHI DI PECE

«Ritrasse Beatrice Ferrarese et altre donne, e particularmente quella sua, et altre infinite. Era Rafaello persona molto amorosa et affezzionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro. La qual cosa era cagione che, continuando egli i diletti carnali, era con rispetto da’ suoi grandissimi amici osservato per essere egli persona molto sicura»11. Raffaello amava esageratamente le donne e il piacere carnale, un tratto così evidente della sua vita e della sua personalità che perfino il misurato Vasari, lontanissimo da quella natura e da quella sensibilità, non poté fare a meno di lasciar trapelare questo aspetto nella sua biografia dell’artista. Del resto Vasari, su Raffaello, ebbe informazioni di prima mano dal suo amico Giulio Romano, che era stato l’allievo più amato dall’artista e aveva condiviso con lui proprio la fase più ardente della sua breve vita. Lo stesso Giulio, continuando ed esasperando quella libertà che distingueva la cerchia di amicizie di Raffaello, si sarebbe reso a sua volta protagonista di uno scandalo che finì per coinvolgere l’intera corte papale. Disegnò, subito dopo il 1520, una serie di soggetti erotici raffiguranti sedici modi diversi di fare l’amore. Lo stile antichizzante delle rappresentazioni era appena sufficiente a separare dalla pornografia più volgare le immagini esplicite di accoppiamenti fantasiosi, nei quali comparivano in bella mostra i genitali dei protagonisti in piena azione amorosa. L’iniziativa sarebbe stata tollerata ampiamente nella Roma gaudente e liberissima di Clemente VII, cugino di Leone X, se gli autori non avessero tratto da quei disegni delle stampe incise da Marcantonio Raimondi, altro amico stretto di Raffaello. Quelle stampe consentivano a un pubblico molto più vasto e teoricamente illimitato di accedere ai soggetti erotici, divulgando una cultura che fuori dai circoli più raffinati fini219

va per screditare l’intera corte romana. Intervenne allora Gian Matteo Giberti, il quale fece imprigionare l’incisore. Solo l’impegno di amici altolocati come Ippolito d’Este e Pietro Aretino, che scrisse subito una serie di sonetti lussuriosi per accompagnare le incisioni del Raimondi in una pubblicazione destinata a una diffusione clandestina o comunque più attenta, riuscì a tirar fuori dalla galera il malcapitato. Giulio Romano era dunque con ogni evidenza un testimone affidabilissimo della vita erotica e sentimentale di Raffaello e ne fu certamente il complice e il confidente negli anni che precedettero la sua morte, dovuta a suo avviso – e nella convinzione di molti altri testimoni dell’epoca12 – proprio agli eccessi amorosi. L’ultimo autoritratto di Raffaello coglie lo sguardo profondo e umido di una sensualità non contenibile e non contenuta, che rende radiosi e profondamente virili gli occhi neri e la bocca carnosa. Perfino il gesto in cui si ritrae, la mano poggiata dolcemente sulla spalla dell’amico, anche lui bello e certo compagno d’avventure galanti, tradisce una sensualità profonda, un’esistenza carnale che non può fare a meno neppure nell’amicizia del contatto fisico e amoroso. Non c’è un altro dipinto rinascimentale così inquietante da questo punto di vista. Non esistono altri due uomini legati da un rapporto così intimamente affettuoso come Raffaello e il suo amico. Tracce più dirette di questa passione di Raffaello per le donne e i «loro servigi» sono comunque principalmente nella sua insuperabile capacità di raccontare con la pittura la bellezza femminile, liberata da ogni tirannia religiosa e sollevata essa stessa a oggetto di culto e devozione. La Galatea dipinta per Agostino Chigi è la migliore rappresentazione rinascimentale della Venere amorosa. E le donne che dipingerà nell’adiacente Loggia di Psiche, intorno al 1519, svetteranno anch’esse per capacità di seduzione. Il massimo pittore di bellezza femminile, Tiziano Vecellio, sarebbe difficilmente immaginabile senza il precedente di Raffaello. 220

Ci sono però due dipinti che racchiudono in particolare tutto l’eros di Raffaello, due ritratti di donna: il Ritratto di donna noto come La Velata [Fig. 24], oggi alla Galleria Palatina di Firenze, e la celeberrima Fornarina [Fig. 25], conservata alla Galleria Nazionale di Palazzo Barberini di Roma. Da quattrocento anni questi due quadri hanno alimentato la leggenda sorta intorno all’identità degli amori di Raffaello, senza però arrivare a nessun risultato concreto e anzi confondendo la loro interpretazione con l’ingerenza di esigenze via via mutevoli legate alla moralità e libertà delle epoche storiche. Nell’Ottocento si mise addirittura in discussione l’autografia del ritratto Barberini, perché la sua crudezza erotica poco si adattava a un Raffaello che la morale voleva dedito ad amori più platonici che carnali13. Analogamente La Velata, per la sua ambiguità iconografica, è stata di volta in volta interpretata come una nobile e onorata sposa oppure come una cortigiana, forse l’amante di Lorenzo de’ Medici, anche lui famoso per l’esuberanza delle sue avventure erotiche, che obbligarono lo zio Leone X a richiamarlo a Roma nel 1515 per sedare gli scandali che suscitavano nella più severa Firenze. Per mantenere ai due dipinti il loro valore documentale, tuttavia, è necessario separarli dalla loro leggenda e ricondurli a una lettura la più possibilmente scevra da pregiudizi. La prima notizia relativa alla Velata si trova in Vasari: «Fece poi Marco Antonio per Rafaello un numero di stampe, le quali Rafaello donò poi al Baviera suo garzone, ch’aveva cura d’una sua donna la quale Rafaello amò sino alla morte; e di quella fece un ritratto bellissimo che pareva viva viva, il quale è oggi in Fiorenza appresso il gentilissimo Matteo Botti mercante fiorentino». La donna ritratta nel dipinto non fu probabilmente l’ultima amante di Raffaello, che più facilmente deve identificarsi nella modella del dipinto oggi alla Barberini di Roma, conosciuto come ritratto della Fornarina. Come un lampo, tuttavia, la rivelazione vasariana illumina con crudezza 221

la parte più umana della vita dell’artista, successivamente occultata e manipolata dalla leggenda. Raffaello delega a un giovane fedele, suo allievo, la cura quotidiana della donna dei suoi piaceri, della mantenuta, della cortigiana, della prostituta raffinata. Come facevano i grandi principi e i cardinali. La donna, a sua volta, attraverso quei servigi poteva esibire i vantaggi sociali di una donna benestante, con uomini disponibili ad ogni occorrenza. A sigillare lo status di amante raffinata, Raffaello la gratificò di un ritratto, come fosse una gentildonna. Ciò che ad altre donne avevano dato i natali nobili o le sostanze solide, a quella fu dato dall’amore di un grande artista e da una rivoluzione che si manifesta proprio attraverso il suo talento14. Niente di scandaloso all’epoca. Un buon numero tra i grandi uomini del Rinascimento è nato da amori illegittimi, a cominciare da Giulio de’ Medici, poi papa Clemente VII, al quale suo cugino Giovanni, appena diventato papa, dovette costruire un finto certificato di matrimonio che sanciva a posteriori la legittimità della relazione tra sua madre Fiammetta e suo padre Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico. Spesso questi figli illegittimi venivano cresciuti nella casa paterna e le donne che li avevano generati riassorbite nella onorabilità sociale, soprattutto se avevano avuto il buonsenso di intrattenere relazioni amorose con uomini potenti. Nel Rinascimento la prostituta godeva di onorabilità, legittimità e rispetto proporzionati all’onorabilità, al rispetto e alla legittimità di cui godeva la sua clientela. Vale per tutte, la storia della celebratissima Imperia, amante di principi e cardinali oltre che, naturalmente, di Agostino Chigi, che riuscì a farla tumulare in un mausoleo degno di un cardinale nel portico della chiesa di San Gregorio al Celio, rimosso poi in tempi decisamente più austeri. Prima che il Concilio di Trento stringesse intorno alla famiglia i lacci costrittori di una necessaria ed esclusiva continuità dinastica, in una città come Roma le relazioni sessuali 222

godevano di una libertà oggi persino difficile da comprendere. Il matrimonio era unanimemente considerato un affare dinastico ed economico, e al suo interno non c’era quasi mai spazio per coltivare quelle passioni che pure dalla metà del Quattrocento in poi venivano esaltate sulla scorta della letteratura antica, che lasciava intravedere la possibilità di una relazione ben più complessa tra uomo e donna, al di là della loro funzione riproduttiva. Tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, fu anzi proprio la figura della cortigiana ad alimentare quel sogno di raffinata sensualità ricercato dagli uomini. Non si poteva certo chiedere alle donne di rango di recitare il ruolo di seduttrici eleganti, di animatrici di feste ed eventi mondani brillanti. Lo facevano invece cortigiane che divennero a loro modo celeberrime, come Imperia, o l’amante del cardinale Cornaro, Albinia, che partecipava alle feste nel suo palazzo insieme al Bibbiena, o ancora come quella Beatrice Ferrarese che secondo il Vasari fu ritratta da Raffaello e che forse va riconosciuta nel dipinto della Velata (nel lessico rinascimentale, la menzione di prostitute e cortigiane avveniva attraverso l’esclusione del nome di famiglia, sostituito da quello della città di provenienza). Ma la ricerca dell’identità precisa della persona che innamorò Raffaello è molto meno significativa del racconto che il quadro stesso trasmette. La donna, giovane di fiorente bellezza, è seduta di tre quarti su uno sfondo verde marcio. La linea scura con cui termina il suo profilo destro e la pastosità dell’incarnato, leggermente velato da una sfumatura che arretra i lineamenti e che avvolge il vestito, sono riconducibili al periodo precedente il ritratto del Bibbiena15. La donna indossa una veste di seta grigia sopra una camicia più chiara di lino leggero, plissettata minuziosamente e raccolta intorno al busto da una arricciatura corta. La testa è in parte coperta da un velo avorio che le scende sulle spalle e che lascia intravedere un cercine dorato, a cui è appuntato un prezioso pendente com223

posto da un rubino sopra una pietra scura incastonata in una cornicetta d’oro da cui pende una perla scaramazza. Al polso sinistro si intravede un bracciale d’oro con pietre incastonate, mentre la curvatura del collo è resa irresistibile da una collana semplice di grani d’ambra di forma ovale, grandi come mandorle e di colore leggermente variabile tra di loro. Lo sguardo della donna, perfettamente composto negli occhi neri e nel sopracciglio arcuato ma poco evidente, sembra perso nel vuoto, abbassato leggermente verso il suolo. È una espressione di vago timore, di chi si affida pensierosa al futuro senza troppa sicurezza né troppo entusiasmo. È uno sguardo rivolto altrove, che non si afferra e che sarebbe quanto mai disdicevole in un ritratto nuziale, come alcuni hanno voluto considerare questo dipinto, dove peraltro non è presente nessun anello come in genere nei ritratti di quel tipo. La mano destra poggia sul petto, in parte nascosta dal velo, e l’indice si allunga tra lo scollo aperto della veste per indicare il cuore o per tenere insieme il vestito che sembra stia leggermente scivolando. L’effetto di slittamento del vestito sembra suggerito anche dall’enfatico disordine della manica di seta bordata d’oro, che occupa la parte inferiore del quadro con un volume così mobile che sembra voler bucare la superficie e debordare oltre la cornice. La manica di seta e d’oro è dipinta con una evidenza tattile diversa dal resto delle stoffe, e soprattutto dal velo che sembra arretrare e semplificarsi anche nella vaghezza delle pieghe. L’evidenza degli sbuffi della manica «accoltellata», come veniva definita all’epoca una stoffa trinciata ad arte per lasciare intravedere in contrasto quelle sottostanti e produrre un ridondante effetto di lusso, attira subito l’attenzione dello spettatore. Non c’è dubbio che buona parte del fascino del dipinto stia proprio in questa manica spinta in avanti, in cui Raffaello restituisce tutta la sensualità del mondo femminile. Le pieghe profonde e sinuose si rincorrono esageratamente, emet224

tendo bagliori luminosi e creando una cavernosità che soprattutto nella larga apertura bordata d’oro richiama con tutta evidenza il sesso femminile. Anche senza voler ipotizzare una esplicita allusione alla conchiglia femminile (come pure sarebbe possibile se si considerano le analoghe licenziosità dipinte nei festoni di frutta della Farnesina da Raffaello e dai suoi collaboratori) [Fig. 64], non c’è dubbio che la manica della Velata racchiuda ed emani un sentimento di estenuante femminilità, morbida e penetrabile come una gioiosa promessa di amplesso carnale. Il modo nel quale il bordo dorato della manica si apre sulla camicia sottostante e attira lo sguardo, con un riflesso d’oro che raggiunge uno dei toni più alti del quadro, è senz’altro frutto di lunghi pensamenti. Tanto più che le radiografie del quadro hanno dimostrato che il dipinto è «pensato» sulla tela e non trasportato da un cartone rifinito, poiché tracce di pentimenti sono state rilevate con le indagini radiografiche nel corso dell’ultimo restauro16. La simbologia sessuale ritorna nelle mandorle d’ambra della collana e nel bordo aperto della veste, in cui entra la punta dell’indice. Anche il senso di precarietà comunicato dal ritratto è una proiezione della fantasia erotica maschile: il velo sta scivolando dalla testa, la manica scende sulla spalla, la veste è sbottonata sul seno, la bocca piena e un po’ svogliata resiste all’invadenza di chi la guarda. Raffaello ci porta nella camera da letto di una donna che si sta svestendo afferrando la magia dell’intimità che sta per rivelarsi. Il corpetto che Maddalena Doni teneva serrato decorosamente al seno nella Velata si slaccia e sta per liberare il seno coperto dalla camicia già in disordine. Sono questi gli elementi che rendono significativo il ritratto, molto più dell’identità della donna. E che siamo in presenza di un ritratto vero e proprio, e non di un’idealizzazione allegorica, ce lo dice il particolare naturalissimo del lobo sinistro attaccato, che rende vano anche l’insistito tenta225

tivo di identificare questa donna con quella rappresentata nella Fornarina, dove il lobo dell’orecchio è separato dalla guancia: un dettaglio dirimente che sembra sfuggito a quasi tutta la critica, immersa in una interpretazione idealistica e allegorica dell’opera e degli amori di Raffaello. Il bisogno di moralizzare Raffaello si è fatto sentire anche nell’ultima generazione di studiosi, al punto da orientare le indagini verso un ritratto nuziale perché il velo era riservato alle donne sposate. Ma questa classificazione semplicistica dei codici della moda cinquecentesca appartiene più alle necessità della critica che al mondo reale di cui ci informa un acuto osservatore dell’epoca: «et me par che sia faticha in Roma a conoscer una dona da bene da una cortessana; usano anchora lor di portar quella tella di dreto che portano le done romane da bene, et me par che tuta Roma ne sia pieno»17. In realtà, La Velata è il tributo affascinato di Raffaello alla sua amante e alla bellezza femminile, che viene colta in senso molto moderno con il suo spessore psicologico e sentimentale ormai scrutato dall’artista con occhio di intellettuale e non più solo di artigiano. Un passo ancora più avanti in questo inquietante e inafferrabile mondo femminile l’Urbinate lo compie nel ritratto Barberini universalmente noto come La Fornarina. Esso rappresenta la donna che, secondo Vasari, Raffaello volle vicino a sé perfino mentre dipingeva la Loggia Chigi, probabilmente per rapirle il fascino e trasporlo sul muro più che per l’incapacità di separarsene per poche ore come vuole la leggenda. L’origine di questo dipinto senza nome è ancora più misteriosa di quella della Velata. Le prime tracce si trovano a Roma alla fine del XVI secolo, quando è indubitabilmente attribuito a Raffaello. Si tratta di una giovane donna seduta contro lo sfondo di un cespuglio di mirto scurito dal tempo ma già in origine colto nell’ultima luce della sera. La ragazza, quasi un’adolescente, è seminuda fino alla cintola e si copre il bu226

sto maliziosamente con un velo trasparente che esalta anziché celare la sua nudità. Un manto rosso le copre i fianchi. Sulla testa ha un turbante di seta avvolto alla romana e fermato da un cerchio dorato, a cui è appuntato un gioiello molto simile a quello che compare nella Velata. Sul braccio destro, all’altezza dell’ascella, indossa un bracciale dorato dove è scritto Raphael Urbinas, che segna più il possesso della persona che non l’autografia del quadro. La parte inferiore del dipinto non è finita, come mostra il chiaroscuro della mano destra e del braccio, molto meno incisivi di quelli della mano sinistra. Come si evince dall’altra opera non finita di Raffaello, la pala Dei a Firenze, l’artista procedeva per progressivi approfondimenti dei dettagli e della struttura del quadro. Portato a un certo grado di finitura il chiaroscuro dell’intera figura, procedeva successivamente a dargli sostanza con velature sempre più corpose. Il contorno del velo sul braccio destro mostra anch’esso uno stadio intermedio di finitura: le radiografie hanno rivelato nella parte inferiore le tracce evidenti del disegno preparatorio. Il quadro quindi era ancora in lavorazione quando Raffaello morì. Si trovava in casa come un oggetto dal carattere fortemente privato. Il fondo scuro del cespuglio esalta il candore del busto della giovane, che scopre i seni e i piccoli capezzoli dalle aureole violacee sfumate con inquietante naturalismo. Lo sguardo sfugge anche qui a quello dell’osservatore, ma non è per timidezza. Con un lievissimo sorriso, la ragazza ostenta la consapevolezza del proprio fascino e della propria perfetta bellezza. Gli occhi immensi hanno l’iride scura accesa da un guizzo luminoso e il bulbo celeste come quello dei bambini. Sono esaltati dalla curva perfetta delle sopracciglia nere, descritte minuziosamente dal pennello di Raffaello. Tutto il dipinto sembra costruito sulla curva che parte dalla sciarpa plissettata, scende sulle sopracciglia e sugli occhi, poi sul labbro inferiore tirato su dal sorriso per fermarsi sui seni e i capezzoli. 227

L’oscurità del cielo serve a esaltare il candore delle spalle e dei seni, leggermente più chiari del volto abbronzato dalla luce di Roma e offerti come un frutto segreto e delicato all’estasi del fortunato spettatore. La differenza di colore tra il volto e il busto attesta che si tratta di un ritratto dal vero piuttosto che di un’allegoria di Venere o del matrimonio, come si è più volte tentato vanamente di dimostrare per portare il dipinto dalle stanze torride della passione a quelle più presentabili della cultura filosofica. La donna, l’ultima amante di Raffaello, quella più desiderata, è stata messa in posa forse sul terrazzo di casa, docile e accondiscendente, resa sicura dall’ammirazione che l’artista tradisce nel ritratto. L’impostazione del volto risponde a quella legge compositiva sempre applicata da Raffaello, che rende in qualche modo vicini tutti i suoi ritratti sia che raffigurino gli amici, i cardinali o le cortigiane. L’occhio selettivo dell’artista ricompone sulla tela i tratti più significativi degli uomini e delle donne, adattandoli a una costruzione ideale che trattiene l’immagine dallo scadere nel naturalismo e la rende affascinante come una visione universale. All’interno di questo tipo ideale, anche questa volta Raffaello lascia fluire la vita come se si materializzasse sotto i nostri occhi. L’incarnato sembra fondere l’avorio con le perle sovrapponendo velature di pigmento così trasparenti che non si riesce a cogliere sul dipinto quasi nessuna traccia dei peli del pennello o dei grumi di colore. È un’opera laboriosa, probabilmente portata avanti per mesi, nella quale confluiscono tutte le esperienze dei ritratti precedenti. Il contrasto chiaroscurale nel volto definisce con nitore ogni dettaglio dei lineamenti senza diventare mai calligrafico e la sostanza di quel volto diventa una felice mescolanza di carne tiepida e di luce limpida. Lungo le labbra e sulle palpebre un leggero schiarimento dell’incarnato crea un fremito vitale che ferma la bellezza e l’esistenza della donna. 228

Il sorriso è accennato più con la luce all’angolo destro delle labbra che con un loro contrarsi vero e proprio. Così lo sguardo, apparentemente immobile, si ravviva per il continuo variare della luminosità dell’incarnato intorno agli occhi e dentro di essi. Non c’è porzione del dipinto, per quanto piccola, che sia stata appiattita da una campitura di colore uniforme. Perfino i capelli scuri, tirati all’indietro e stretti dal turbante, sono stati mossi facendone scivolare piccole ciocche sulla fronte chiara. L’ombra degli occhi raggiunge il suo massimo soltanto nella coda, dove la palpebra si rigonfia leggermente. Persino le moderne tecniche di riproduzione si inceppano di fronte a questo quadro, avvilendone la qualità e rendendone indispensabile l’osservazione dal vivo. Eppure tutta questa costruzione così vibrata è contenuta in un disegno perfetto, che permette all’artista di andare ben oltre la verosimiglianza e la piacevolezza. Il suo pennello corregge prontamente tutti i dettagli che la natura lascia quasi sempre indecisi. I contorni della bocca si rigonfiano senza esitazioni, come senza esitazioni rigira la linea scura degli occhi intorno ai bulbi. Le narici sembrano alate per lo slancio che le unisce alle guance e il chiaroscuro si ferma abbastanza in tempo per lasciare afferrare ogni dettaglio senza svelarne il mistero. Un tratto stupefacente in tal senso è rappresentato dall’orecchio in ombra, sul quale sembra riflettersi la luce proveniente dal petto raggiungendo una profondità e una spazialità che solo Leonardo era riuscito a dare alle sue figure senza insistere nella calligrafia del disegno. L’ambigua composizione luministica della scena, con il fondo di un tramonto che diventa notte e la luce chiara che fatalmente investe il corpo provocando il guizzo dorato della sciarpa, ha l’effetto di un incantesimo. Niente distrae l’occhio dall’incarnato, dal seno e da quel volto impastato con le rose di cui si sente perfino il profumo nell’ultima luce della sera. I colori più accesi sono spinti ai margini come la lacca 229

della veste sulle gambe, il blu dell’armilla sul braccio e l’oro intorno alla testa. L’intera visione si condensa su quei seni che la donna sembra offrire più che nascondere, con quella grazia che Raffaello aveva cercato per tutta la vita. Raffaello ha dovuto dipingere questa bellezza per medicare la passione che lo divorava. Soltanto componendola e ricreandola sulla tavola, la sera dopo l’amore nel suo palazzo, poteva illudersi di controllare il fuoco che lo consumava. È così evidente, così irresistibile la sensualità di questa donna, che bisogna presupporre necessariamente un pittore che abbia sperimentato interamente e perdutamente su di sé questa vertigine per poterla fissare sulla tavola. Lo sperimenteranno sulla loro pelle i copisti cinquecenteschi del dipinto, appartenenti alla casa e alla bottega di Raffaello, quando tenteranno di riprodurre la magia dipingendo con gli occhi quello che Raffaello aveva dipinto con il cuore. Sulla tela fisseranno un’immagine tanto distante da quella originale da risultare addirittura offensiva per la sua banalità e sciatteria. Un soggetto così semplice eppure così straordinario come l’incarnazione del desiderio erotico poteva riuscire soltanto a chi di quel desiderio aveva fatto una ragione di vita.

5. RITRATTI DI STATO

Il pontificato di Giulio II era stato molto avversato da chi riteneva che compito fondamentale del papa fosse quello di guidare lo spirito dei cattolici e non le armate dello Stato. La satira clandestina graffiante e spesso oltraggiosa, che da sempre accompagnava la politica papale, ebbe uno slancio e una diffusione elevatissimi con l’affermarsi della stampa, soprattutto nei paesi nordici dove le idee di riforma prendevano 230

sempre più piede. Ad attaccare il papa non furono soltanto i fogli appesi alla statua del Pasquino dietro Piazza Navona, ma operette di letterati e acuti componimenti poetici che presupponevano cultura e conoscenza elevata. Dopo la sua politica aggressiva e distruttiva, l’omosessualità era la colpa che più si rinfacciava a Giulio. Durante il suo pontificato, Roma era stata visitata tra gli altri da Erasmo da Rotterdam, uno degli intellettuali più colti dell’Europa di inizio secolo. A lui si deve un’opera satirica composta poco dopo la morte di Giulio, il Iulius exclusus e coelis («Giulio cacciato dal cielo»), in cui san Pietro chiede conto al papa appena morto delle guerre, della simonia, della sodomia e di altre pratiche alle quali fu associato nel suo pontificato18. Questa critica radicale e acutamente argomentata proseguì anche più intensa sotto il pontificato di Leone X. A Erasmo e agli intellettuali del nord non piacevano affatto il lusso e la grandiosità che si celebravano quotidianamente a Roma tra artisti, buffoni, banchieri e attori. Le istanze della Riforma divennero radicalmente conflittuali proprio sotto il pontificato di Leone X. E fu proprio in una notte rigida dell’ottobre 1517, mentre Leone si accaniva nella conquista del regno di Urbino per suo nipote Lorenzo e partecipava alle feste sontuose nel palazzo di Agostino Chigi, che un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, ruppe ogni indugio e sfidò apertamente il papa inchiodando sul vecchio portale della cattedrale di Wittenberg le sue novantacinque tesi contro la simonia e contro la Chiesa di Roma. Da quel momento in poi la lotta seguì una escalation drammatica e le immagini vi ebbero un loro ruolo molto importante. Quelle che Lutero e la sua propaganda misero in circolazione mostravano il monaco vestito di un semplice saio protetto dalla colomba dello Spirito Santo che gli cingeva la testa come una corona, mentre con le mani stringeva il Vangelo. Quelle di Leone e della sua famiglia insistevano invece a presentare il papa in una solennità regale, fulgi231

da d’oro e di tessuti preziosi. Roma non capiva lo stato drammatico del conflitto e continuava a sottovalutarlo, come disse il nunzio Aleandro che si recò nel 1521 a Worms, dove Lutero si presentò alla dieta per sfidare i teologi di Roma già forte di alleanze politiche che avrebbero ingigantito il conflitto tra nord e sud dell’Europa: «Quelli che vieneno di Roma divulgano passim che a Roma se ne rideno delle cose di Luther et che non si fa stima alcuna»19. Avrebbero pianto sei anni dopo, a Roma, quando un esercito divorato dall’odio religioso avrebbe stuprato ucciso e torturato preti e monache e distrutto tutti i segni che celebravano il loro potere, infierendo anche sugli affreschi di Raffaello. Ma Leone si sentiva al sicuro dalla propaganda antipapale. Dopo il papa guerriero, lui si poneva in discontinuità con Giulio e si accreditava come pacificator. Contro di lui però c’erano altre accuse, ancora più infamanti, che coglievano e divulgavano una realtà presto non più simulabile. Per i suoi lussi e per le sue ambizioni dinastiche, Leone stava dilapidando il tesoro della Chiesa, ricostituito con grande sforzo dal suo predecessore. Nell’operetta satirica che alla sua morte venne diffusa soprattutto in Italia, san Pietro gli chiedeva perché si ostinasse a bussare alle porte del paradiso: «Ché non portasti le mie chiave teco d’aprirte?». Serafico Leone rispondeva «Io le impegnai», e san Pietro replicava con l’accusa che tutto il mondo rivolgeva al papa: «Tira in malora, latro, dissipator, perfido, cieco»20. Anche san Pietro aveva saputo che se Giulio aveva impegnato la tiara per sostenere le guerre, Leone si era impegnato il pettorale per sostenere le sue feste. Ancora più feroce, perché veritiero, fu un altro poemetto composto e diffuso alla sua morte. «O musici con vostre barzellette/piangete, o sonator di violoni/piangi, piangete, o fiorentin bajoni/battendo piatti, mescole e cassette. (...) Piangi clero di Dio, piangi san Piero/piangete o sopradetti i vostri mali/poscia ch’è morto il decimo Leone/il qual d’ogni buffo232

ne/e d’ogni vil persona era ricetto/tiranno sporco, disonesto, infetto»21. Era questa l’altra faccia del pontificato di Leone, capace di trasformare a suo detrimento quelle stesse immagini di grandiosità e lusso ricercate ossessivamente. Perfino Guicciardini non poté esimersi da un giudizio severo su Leone, le sue ambizioni e le sue leggerezze: Ma a suscitargli nuovamente in Germania [Lutero] aveva dato occasione l’autorità della sedia apostolica, usata troppo licenziosamente da Lione; (...) le quali cose non avendo in sé né verisimilitudine né autorità alcuna, perché era notorio che si concedevano solamente per estorquere danari dagli uomini che abbondano più di semplicità che di prudenza, ed essendo esercitate imprudentemente (...) avevano concitato in molti luoghi indegnazione e scandolo assai; e specialmente nella Germania, dove molti de’ ministri erano veduti vendere per poco prezzo, o giuocarsi in su le taverne, la facoltà del liberare le anime de’ morti dal purgatorio22.

Le più significative tra le immagini della nuova propaganda papale, alle quali i luterani avrebbero risposto rovesciando il lusso in semplicità e la regalità in spiritualità, sono proprio i ritratti di famiglia che Leone commissionò a Raffaello. Il ritratto del nipote Lorenzo de’ Medici [Fig. 28], cui erano affidate le speranze dinastiche del pontefice, fu commissionato in occasione delle sue nozze con la principessa francese Madeleine d’Auvergne e doveva conferire regalità e legittimità a un giovane che nella vita reale si era mostrato del tutto privo di grandi doti: perfino dell’ambizione, coltivata però per lui dalla madre Alfonsina Orsini, mai paga degli onori tributati al figlio. Nel dipinto, Raffaello puntò sulla regalità del vestito, che sembra il vero soggetto della rappresentazione. Lorenzo è ripreso in piedi, in posa quasi frontale, con la mano destra che stringe una moneta d’oro, segno di munificenza appropriato a un regnante, e con la mano sinistra portata dietro la schiena per rendere meglio visibile il 233

sontuoso vestito, da cui spunta sul fianco il pomo di una spada che allude alle sue virtù militari. Indossa un corpetto di damasco dorato con motivi floreali. La luce si concentra sullo sterno, facendo brillare il fondo dorato del velluto. Sulle spalle porta una casacca di seta rossa bordata al collo e a metà delle maniche da una pelliccia di lupo grigio chiaro, che diffonde intorno al volto una nuvola di luce. Il corpetto continua dai fianchi in una gonnella a strisce verticali arricciate, bianche e oro, fermata al corpetto di velluto rilevato da una striscia di cuoio. Sulla gonnella, una striscia di seta blu annodata con un fiocco ferma le pieghe e trattiene presumibilmente una borsa piena d’oro. Il volto è incorniciato dal lino plissettato, che dal corpetto si ferma alle clavicole per esaltare la muscolatura poderosa del collo. La barba corta, rossiccia e rada, lascia trasparire con effetto molto virtuoso il profilo del mento. Il naso è grande ma di forma regolare, e la fronte bassa è dissimulata dai capelli che scendono quasi sulle ciglia arcuate sotto un cappello nero in cui luccica un cammeo antico, tratto dalla collezione per cui era già famoso il bisnonno Cosimo. Gli occhi sono grandi, sporgenti e scuri, tanto che il viso perde nella loro espressione vuota un po’ della regalità che Raffaello aveva costruito con la minuziosa tessitura degli abiti. Il ritratto, nonostante la profusione della ricchezza sartoriale, non arriva alla seduzione psicologica che l’artista aveva raggiunto nei contemporanei ritratti dei suoi amici umanisti, rappresentati quasi con ardore polemico con semplici abiti neri di taglio modestissimo. Questa mancanza di sintonia con Lorenzo può motivarsi anche con il ruolo politico del giovane, che aveva usurpato Urbino proprio a quei duchi che Raffaello non poteva smettere di amare e dai quali era sinceramente riamato, Francesco Maria della Rovere e la madre adottiva Elisabetta Gonzaga, le cui lacrime riecheggiavano nelle sue orecchie mentre velava di lacca la blusa di Lorenzo. 234

Una conflittualità psicologica si legge anche nell’altro ritratto di Stato, quello che rappresenta Papa Leone con due cardinali, il cugino Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII) e Luigi de’ Rossi [Fig. 29]. Il grande ritratto a olio su tavola (centocinquantaquattro centimetri per centodiciannove) fu commissionato a Raffaello nell’inverno del 1517, in vista delle celebrazioni del matrimonio di Lorenzo a Firenze nell’estate successiva. Il papa non sarebbe intervenuto a quell’evento se non in effigie, attraverso i pennelli di Raffaello. A quella data, il culto delle persone di governo era affidato più ai ritratti che alle apparizioni materiali, visto che i ritratti potevano viaggiare molto più delle persone e sopravvivere ad ogni accidente naturale che minava l’aspetto e la dignità di principi e papi. Il dipinto, forse per la fretta della scadenza e i troppi impegni dell’artista in quell’inverno, raggiunge in maniera molto fredda il suo scopo celebrativo. Leone è mostrato di tre quarti, seduto a un tavolo coperto da un panno rosso su cui sono poggiati un campanello d’oro e argento, una lente d’ingrandimento e un codice miniato con immagini della Passione di Cristo tratte dal Vangelo di Giovanni, nome di battesimo del papa. Insieme alla sedia coronata da una palla d’oro (emblema dei Medici), dove miracolosamente si riflette una finestra aperta da cui entra la luce e che noi non vediamo se non nel riflesso, i dettagli di natura morta sono le porzioni meglio riuscite del quadro. Il ritratto fu realizzato probabilmente giustapponendo le pose dei protagonisti. Solo così si può spiegare l’incongruente collocazione spaziale alla destra del papa del cardinale Giulio, che sembra entrargli nel braccio poggiato sul tavolo e pressarlo come un fantasma immateriale reso ancora più freddo dallo sguardo fisso nel vuoto e dai lineamenti rigidi, che peraltro rivelano la bellezza, molto rara in famiglia, del figlio di Giuliano. Anche il cardinale de’ Rossi, che con impeto protettivo stringe con entrambe le mani la spalliera della sedia, 235

sembra una comparsa lontana, triste e spaventata, anziché dignitosa come avrebbe potuto e dovuto essere. I tre personaggi non sono legati da nessun rapporto psicologico e sembrano ritagliati e assemblati in fasi successive. Il clima è severo e l’aria decisamente appannata fino a portare sui volti i segni di una stanchezza fisica. Leone voleva un ritratto regale, da umanista quale si sentiva e certamente era, ma Raffaello non riuscì a contenere la fisicità debordante e malsana del papa. Il colorito livido e i lineamenti rigidi del volto ricordano le parole di Paride de’ Grassis, il cameriere che lo assisteva anche nell’intimità della vita quotidiana. La mano sinistra, molto piccola e inconsistente, quasi femminile, appare senza forza, lontanissima dall’energia con cui Giulio II stringeva con la sua il bracciolo della sedia. Come nel ritratto di Lorenzo, la bellezza del dipinto sembra racchiusa tutta nella vibrazione dei rossi che lo abitano. Rosso cinabro, schiarito dalla luce, è il panno semplice con pieghe quasi inesistenti che copre il tavolo sul quale spicca il nastro di seta rosso cupo del campanello e quello identico che esce dal libro. Rosso è il manto di velluto bordato di lana bianca del papa, diverso dalla mozzetta più cupa che porta in testa, attraversata da ombre violacee. Rosso cinabro è la cappa del cardinale Giulio, che arretra per la luce che gli arriva dalle spalle del papa, di raso brillante con i riflessi appena accennati. Della stessa stoffa, ma di colore diverso perché più in ombra, la cappa di Luigi de’ Rossi dietro la sedia. E ancora rossi, perduti nell’ombra, sono la spalliera, il cuscino della sedia e il vestito del cardinale che vi si aggrappa. La veste di seta invernale di Leone, incastrata come il frutto perlaceo in una conchiglia gigantesca, è di un bianco abbagliante e risale attraverso i bordi della cappa lungo il busto, rigira intorno al collo e intorno alla testa, e isola il protagonista assoluto del ritratto. Sul suo volto anche la luce batte con una intensità diversa, che rende nitida ogni piega del vi236

so, fortissima quella intorno al naso, sul mento dove sporge il labbro rotondo gonfio come le guance e le palpebre degli occhi. Leone sembra inseguire un pensiero sfuggente, cercando concentrazione nell’ombra. Trattiene il respiro, immobilizzando nel rispetto i due cardinali che non osano disturbare quella sospensione. La tecnica esecutiva è a dir poco strabiliante. La resa delle diverse stoffe è realistica fino al virtuosismo. Le ombre che muovono il manto del papa non si inceppano mai in un grumo incongruo, come succede a quasi tutti i pittori che si cimentano con i velluti. Variando impercettibilmente il rosso e il bianco, quasi fosse un gioco di prestigio, Raffaello evita di ricorrere ad ogni altra tonalità, costruendo il dipinto su questi unici colori che sono quelli della Passione di Cristo e i più fortemente simbolici per la Chiesa e il papato. Sembra quasi essere questo il suo scopo, e per ottenerlo rinuncia perfino a colorare il fondo, al verde che incorniciava il ritratto di Giulio II. Qui il fondo è talmente scuro da arretrare discretamente per non disturbare la fioritura di rosso e di bianco. Perfino gli incarnati si caricano di ombre rosate, come se una nebbia colorata fosse arrivata a tingere l’intera stanza. Il ritratto è ad ogni modo un trionfo di regalità. Ce lo assicura il commento compiaciuto di Alfonsina Orsini, che aveva preso gusto alle celebrazioni romane del settembre 1513 e che nei quattro anni successivi aveva lavorato instancabilmente alla fortuna del figlio, spingendolo in ogni azzardo politico e forzando Leone nella sciagurata impresa di Urbino. La celebrazione del matrimonio di Lorenzo con una principessa francese, in una Firenze riconquistata, doveva ripagare questa madre premurosa degli anni disgraziati passati a inseguire le sconfitte militari di suo marito Piero, che opportunamente era morto già da tempo nel corso di una sfortunata azione militare. Alfonsina voleva che quella festa di nozze rimanesse memorabile negli annali italiani, e uno dei momen237

ti più significativi del rito doveva essere proprio l’esposizione del ritratto che Raffaello stava finendo a Roma. La data della festa però si avvicinava e il ritratto non era ancora pronto. Alla fine si dovette procedere a una spedizione complicatissima, mandando due garzoni a scortarlo per non rischiare incidenti ed eventualmente per dare qualche ritocco reso necessario dal viaggio. Il 2 settembre 1518 un uomo di fiducia dei Medici, incaricato a Roma della spedizione del dipinto, dettò le ultime istruzioni a Goro Gheri, incaricato di riceverlo a Firenze: «Il presente aportatore sarà Luigi gharzone di Raffaello di Vitale per il quale mando il quadro dove è ritratto N.S., all quale Luigi havete ad fare dare duchati dodici d’oro larghi, ché chosì habbiamo fatto di patto che viene con duo muli e duo gharzoni per potere schambiare e pervenire; e li gharzoni che venghono mi hanno promesso di esservi o domenica notte o lunedì mattina a un’ora di sole e’ quali, quando siene a tal tempo, hanno avere uno paio di chalze per uno, ché tutto ho promesso loro ad chausa usino diligentia e sollecitudine d’esservi al detto tempo. Io ho forse fatto troppa larghezza, ma l’o fatto perché vi sia avanti si farà lentamente, e non mi pare da ghuardare in 4 ducati perché vi sia al tempo è desiderato»23. L’arrivo del quadro a Firenze fu più importante dell’arrivo di un ambasciatore. L’ansia spasmodica dei preparativi, curati dai migliori uomini della segreteria dei Medici, racconta da sola quanto poteva essere alto il valore politico di un ritratto nella società rinascimentale, dove le immagini erano preziose come gli esiti di una battaglia. Per fortuna il viaggio andò bene e il quadro arrivò in porto. Sedette a tavola come l’ospite di maggior riguardo, mentre l’ambiziosa Alfonsina se ne vantava finché poteva con tutto il mondo: «e furono in tucte le donne LXXV, sanza le nostre, che veramente fu un bellissimo vedere. Levoronsi di tavola circa alle XX hore, e ritiratesi parte in camera della salecta e parte nella camera a riscon238

tro, e parte ancora qua su in camera mia, quasi tucte si mutorono di veste, tucte bellissime, e non ci fu altri colori che chermisi se non pochi, e quelli bellissimi (...). Finita la comedia e riposatesi alquanto in camera, andorno a tavola tucte le fanciulle di questa mactina, e la Duchessa con loro; e dopo cena non habbiamo voluto che si balli, respecto al essere le fanciulle assai, per non fare confusione. Hovvi a dire che la pictura di N.S. e Mons. Rev.mo de’ Medici e Rossi, el Duca la fece mectere sopra alla tavola dove mangiava la Duchessa e li altri signori in mezo, che veramente rallegrava ogni cosa»24. Forse Alfonsina preferì addirittura la presenza in effigie a quella in carne e sudore del potente cognato, che avrebbe creato non pochi problemi in quella confusione festiva. Appeso sul tavolo, il papa svolgeva invece al meglio la sua funzione regale. E poi quale insperata fortuna che Raffaello, con tutti quei rossi, avesse indovinato il colore dei vestiti delle fanciulle, che per le loro sete e i velluti scelsero proprio il rosso cremisi, scintillante dei gioielli d’oro e delle camicie bianche. Proprio come lui aveva ritratto il papa.

CAPITOLO 7

LA SCOPERTA DELL’ARCHITETTURA

1. LE DONNE DELLA DEVOZIONE

Non lontano da Firenze, in una foresta selvatica, un branco di lupi attaccò un eremita che la attraversava. L’uomo fu costretto a mettersi in salvo arrampicandosi su un grosso albero, dal quale sarebbe caduto se poco dopo non fosse arrivata una coraggiosa ragazza che mise in fuga il branco di lupi. La ragazza era molto bella, oltre che coraggiosa. Aveva capelli castani e occhi nocciola dentro un volto ovale chiaro come la porcellana, ed era figlia di un fabbricante di botti che abitava ai margini della foresta. L’eremita, messo in salvo dall’intervento della ragazza, predisse a lei e alla quercia, che pure aveva fatto la sua parte, una fama eterna. Qualche anno dopo, quando la ragazza aveva messo al mondo due bambini curati amorosamente, si fermò alla casa di suo padre un pittore famoso, che, incantato dalla tenerezza con cui la madre teneva in braccio uno dei suoi bambini, fu colto dal desiderio inarrestabile di ritrarla in quella dolce intimità. Non aveva tele né tavole, e così prese il fondo di 243

una delle botti di vino accatastate nell’aia, una botte ricavata proprio dalla quercia su cui il vecchio eremita aveva trovato rifugio dall’assalto dei lupi. Sotto gli occhi ammirati dei presenti, il pittore schizzò e dipinse la ragazza con i suoi bambini trasformandola in una Madonna con il piccolo Gesù e san Giovannino. La ragazza diventò la Madonna più famosa del mondo, e con lei diventarono immortali le assi della quercia, come il sant’uomo aveva preconizzato. Questa è la leggenda creata e sopravvissuta nei secoli intorno alla Madonna della seggiola [Fig. 26] di Raffaello, un dipinto del quale in realtà non sappiamo niente, poiché neppure Vasari lo menziona. La prima traccia credibile che lo riguarda è un inventario di fine Cinquecento, che lo registra nel guardaroba del granduca di Toscana. Nel tempo il quadro divenne così famoso che nel corso dell’Ottocento ne erano state tratte decine e decine di incisioni e riproduzioni, raccolte giudiziosamente in un album del British Museum, fino a quando la stampa e la fotografia non ne divulgarono talmente le riproduzioni da renderne la fama e la diffusione definitivamente incontrollate. Un capolavoro collocato nel vuoto totale di storia e di documenti presenta una sfida difficile da sostenere per ogni ammiratore. La leggenda provvide così a fornire quei supporti mentali indispensabili al godimento più umanizzato del capolavoro, entrato nella venerazione popolare come espressione dell’amore materno prima ancora che della divinità di Maria. Come tutte le leggende, tuttavia, anche quella riguardante la Madonna della seggiola coglie una realtà sostanziale del quadro: la spontaneità che emana e che sembra frutto di un gesto impulsivo, un ritratto dal vero di una madre che coccola il suo bambino. Il talento di Raffaello fu proprio quello di simulare i processi creativi con i quali migliorava la realtà adeguandola a un modello ideale, capace ogni volta di estrarne i contenuti formalmente ed emotivamente più significativi. Lo sfor244

zo che faceva per correggere la realtà rendendola universale e ideale non traspare dall’opera e sembra frutto di un istinto naturale come per altri il canto intonato o la corsa veloce. I tentativi di spiegare la legge che produce il capolavoro, e questo capolavoro in particolare, hanno giocato brutti scherzi anche ai critici più raffinati, almeno fino a quando un acutissimo saggio di Ernst Gombrich affermò lealmente che le radici della creatività di Raffaello allignavano negli strati più profondi del suo subconscio, e che volerli spiegare e interpretare portava a una impasse intellettuale molto poco onorevole. Quello che sappiamo del dipinto, in realtà, è ciò che il dipinto stesso è disposto a raccontarci, cioè tutto tranne il suo mistero. Lo stile del ritratto lo colloca intorno al 1514-15, dunque tra i ritratti di Giulio II e quelli di Baldassarre Castiglione e degli amici umanisti di Raffaello, databili con buona certezza intorno al 1516-171. La consistenza ancora inafferrabile degli incarnati, i contrasti poco accentuati di luce e ombra, le mani sfumate nei contorni e i campi larghi dei panneggi, non ancora definiti con la consistenza tattile degli ultimi ritratti, forniscono un buon termine di datazione del dipinto, e di questi dobbiamo accontentarci fino alla scoperta di nuovi documenti sul suo conto. La giovane donna che vi è rappresentata è seduta di profilo su una seggiola di cui vediamo perdersi nell’ombra un ricco schienale decorato con una frangia d’oro. Stringe tra le braccia un pesante bambino, tenendolo al petto con le mani strette tra loro. Per evitarne la caduta solleva il ginocchio sinistro coperto di un manto blu, creandogli un comodo appoggio per la schiena. L’abbraccio è reso ancora più intimo e tenero dal collo inclinato della donna, che senza distogliere lo sguardo malinconico dall’osservatore poggia la tempia sinistra sulla fronte del bambino, che a quel contatto si placa. Dietro il ginocchio sollevato, è dipinto un san Giovanni245

no che unisce le mani in preghiera con un gesto imperfetto nella sua grazia infantile, teneramente goffa. Questa composizione delle tre figure incastrate l’una nell’altra, a creare un fortissimo contatto psicologico prima che fisico, riprende le Madonne leonardesche, che avevano esplorato le più varie intersezioni dei corpi nello spazio. La Madonna ha i capelli avvolti in una sciarpa chiara che segue l’inclinazione del collo con un turbante «alla turchesca», come si usava dire allora, che lascia scoperti sulla fronte i capelli che separano il lino chiaro intessuto d’oro della sciarpa dall’incarnato del volto giovane, velato dal rosa adolescenziale delle guance. I lineamenti delicati e lo sguardo composto della donna colpiscono l’osservatore. In pochi casi, infatti, le Madonne dipinte stabilivano un contatto con chi guarda. Generalmente erano chiuse nel dialogo psicologico che unisce la madre al figlio, un dialogo che appariva quasi sempre impenetrabile. La ragazza poggiata alla seggiola guarda invece con occhi dolcissimi l’osservatore, chiedendogli di condividere la malinconia e la tenerezza che le fanno stringere forte il bambino irrequieto, il cui sguardo è rivolto verso la sinistra del tondo. La composizione a spirale delle figure sfrutta al meglio il formato del tondo, tipico formato delle Madonne fiorentine del Quattrocento con cui anche Michelangelo, sia pure in maniera del tutto diversa, si era misurato. Ciò fa pensare a un committente fiorentino, probabilmente molto vicino al papa Leone X, se non al papa stesso. Con la leggera inclinazione delle spalle e del collo e il sollevamento del ginocchio, la Madonna crea con il suo stesso corpo una forma circolare, che con l’aiuto della cornice la isola nel suo abbraccio con il Bambino. Il gruppo è reso originale anche da un’altra novità, che appare una pura invenzione di Raffaello e della quale nessuno mai potrà dare conto se non arrestandosi di fronte all’insondabile istinto creativo dell’artista maturo, che rifiutandosi di reiterare i modelli tradizionali innova l’immagine e il senti246

mento introducendo dettagli che diventano essenziali per il racconto. La sciarpa di foggia orientale che la Madonna si è avvolta sulle spalle la allontana di colpo da tutte le altre Madonne dipinte fino ad allora, introducendo un elemento di mistero che ne rende il fascino irresistibile. Che la sciarpa sia di provenienza orientale lo mostrano i disegni geometrici bianchi e rossi che attraversano la striscia bordata di nero che le scende sulla spalla. A destra e sinistra di questa striscia, meno appariscenti perché non destinate a segnare l’andamento del braccio, ci sono altre due strisce con rettangoli incrociati scuri, che ricordano quelli dipinti forse dallo stesso Raffaello sul vestito della sua amata duchessa di Urbino Elisabetta Gonzaga. La preziosità del tessuto ne fa intuire un costo sufficiente da solo a sostenere la dote di una figlia di bottaio, con buona pace della leggenda popolare. Come attesta anche la sedia preziosa, siamo di fronte a una donna vestita con eleganza e ricchezza. Ce lo confermano le frange d’oro che cadono sulla sedia. Anche se queste sciarpe orientali erano frequenti nel guardaroba rinascimentale, è l’uso particolare che ne fa Raffaello a rendere questa sciarpa così originale ed espressiva per la spontaneità della scena. Non ne avvolge i capelli né lo scollo della veste rossa che si intravede sotto, ma la usa per coprire il collo e il petto della donna come per proteggerla da un improvviso gelo, con il primo indumento trovato per casa. La sensazione è confermata dal braccio sinistro del Bambino che cerca tepore sotto quel tessuto verde. Questo dettaglio esalta il sentimento di intimità che emana dalla scena. La piega della spalla, con effetto di straordinaria eleganza, mette in risalto il collo lungo e l’orecchio delicato della Madonna, circondandone il viso con riflessi cangianti più chiari fino al colpo di luce che contrasta con il mento sulla spalla sinistra della donna. La sciarpa crea un paesaggio di forme e colori del tutto nuovo intorno al viso, richiamandone i colori e la preziosità ed esaltandone la femminilità. È quanto di più lontano si possa im247

maginare dalla rigida devozione delle Madonne precedenti. È un’esaltazione della femminilità che diventa esaltazione della maternità naturale, giustamente riconosciuta e apprezzata nei secoli successivi dalle donne di tutto il mondo. La sciarpa buttata temporaneamente sulle spalle della Madonna crea anche l’effetto intimo di una scena di genere ante litteram, una protezione temporanea dal freddo, un raccoglimento intimo, tra le mura domestiche di fronte al camino acceso, che regala al dipinto il miracolo di una poesia rubata, quella poesia che la leggenda vorrebbe incrociata per caso sull’aia di un rustico, ma che Raffaello con impagabile genialità ricrea nel suo studio, mettendo in posa una modella e trasformandola poi in una perfetta immagine di spontaneità. La pittura di Raffaello si serve continuamente del modello realistico stemperato dalla sua banalità grazie alla selettiva capacità compositiva dell’artista: un processo che ha fatto parlare più volte di una ascendenza neoplatonica nella cultura dell’artista, ma che contratta in questa formula intellettuale non dice niente intorno ai suoi processi creativi. È più fruttuoso dunque seguire la traccia della sciarpa orientale, fidandosi ad esempio della suggestione fortissima che alimentò nel più grande epigono di questo quadro, il pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres, che ne declinò molte variabili e tutte ugualmente splendide. Oltre che nei dipinti di Raffaello, la sciarpa orientale compare anche in altre rappresentazioni contemporanee, quasi sempre però avvolta a turbante tra i capelli delle donne, come sembra avesse inventato l’inesauribile Isabella d’Este per stupire le corti italiane. Avvolta sulle spalle o sui fianchi, la sciarpa ricamata appare più che altro come un indumento maschile, e precisamente come accessorio di dignitari orientali in molte rappresentazioni cinquecentesche. La sciarpa, come guarnizione esotica del guardaroba maschile, era dunque più facilmente appannaggio di un artista co248

me Raffaello che non delle nobildonne romane. Possiamo immaginare l’artista che mette in posa la modella nel suo studio e tira fuori dall’armadio una sciarpa siriana trapunta d’oro, mettendogliela sulle spalle per studiarne l’effetto. In questo gesto istintivo, privo di diretti significati iconografici o allegorici, risiede uno degli elementi di maggiore fascino del dipinto destinato a diventare oggetto di un culto popolare, ancora oggi vivissimo in tutto il mondo. Forse la stessa modella, certamente la stessa sciarpa servirono in quei mesi del 1514 a Raffaello per creare un altro capolavoro di devozione: la Madonna Sistina [Fig. 27], promessa negli ultimi mesi di vita da Giulio II alla chiesa benedettina di San Sisto a Piacenza, che il papa della Rovere aveva contribuito a far restaurare quando era ancora cardinale. Qualche anno prima, nel 1512, una delegazione proveniente da Piacenza era arrivata a Roma per annunciare l’annessione spontanea della città allo Stato pontificio, e in quella occasione Giulio aveva forse promesso in regalo la pala che sarebbe stata dipinta da Raffaello. La Madonna è rappresentata con in braccio il figlio nudo trattenuto in un panno dorato. Cammina scalza su una nuvola tra due santi inginocchiati, san Sisto (che era stato il patrono dello zio di Giulio Sisto IV) e santa Barbara. I personaggi sono solenni e aggraziati e i vestiti sono mossi da un leggero vento che gonfia il velo che copre la testa della Madonna, fermato ai fianchi. Lo sfondo dorato sfuma in una nube di cherubini appena abbozzati in un alone azzurrino. Anche in questo dipinto, come nella Madonna della seggiola, compare un dettaglio straniante che con il passare degli anni ha fatto la sua fortuna popolare. Ai piedi della Madonna, appoggiati a una balaustra che non possiamo vedere, due putti alati assistono ala scena con la naturale curiosità e incredulità di due bambini ritratti dal vero. Quello di destra poggia la guancia sulla mano sinistra, portandosi il dito sulle 249

labbra e alzando gli occhi al cielo con aria stupita. Quello di sinistra guarda in alto con aria innocente e si interroga sul significato della scena rappresentata. L’inserimento di questo piccolo scorcio così spontaneo nella scena contribuisce a sdrammatizzare e avvicinare alla devozione più semplice la solennità con la quale san Sisto, con la veste d’oro foderata di rosso, indica alla Madonna i fedeli immaginati in preghiera, mentre la santa Barbara guarda con lineamenti regali verso il basso dove gli uomini aspettano protezione. Separati dal resto del dipinto, i due putti alati vivranno una loro storia nell’immaginario popolare, riuscendo a reclamizzare ogni prodotto che evochi tenerezza e ogni tenerezza che evochi amore anche meno spirituale di quello celebrato dalla Madonna, che mostra ai fedeli il figlio destinato al sacrificio per la loro salvezza. Il contrasto tra il fondo luminoso e il panneggio scuro della Madonna le conferisce una evidenza ieratica del tutto nuova, diversa dalla solennità statica ottenuta nel Quattrocento con le sagome immobili e imponenti, con i troni marmorei e i nimbi di cherubini. La Madonna Sistina atterra sulle nuvole dopo un volo che scompiglia i suoi vestiti leggeri e la sciarpa dorata. Con espressione umile offre il Bambino leggero, che sembra fatto di sostanza eterea. Il suo movimento, a dispetto del vento mistico, è del tutto naturale e la gamba sinistra si flette schiarendo il pesante panneggio viola. La posa le conferisce una monumentalità classica, in contrasto con quella emotivamente agitata dei santi più in basso. Il fascino che Raffaello sentiva per questa donna scura che gli ispirò la Velata lo aiuta ora a esaltare la devozione. I grandi occhi neri, che nella Velata suggerivano seduzione, qui reclamano comprensione, arrivando ad ogni modo dritti al cuore di chi ammira il quadro. Ancora una volta, attraverso i pennelli di Raffaello la bellezza femminile passa disinvoltamente dal registro erotico a quello devozionale. 250

Un terzo dipinto segna infine questa fase matura della devozione di Raffaello: la pala con santa Cecilia fra i santi Paolo, Giovanni Evangelista, Agostino e Maddalena [Fig. 30], commissionatagli da una nobildonna bolognese, Elena dall’Olio, per la chiesa di San Giovanni in Monte. Anche questo quadro entrò presto nella leggenda grazie a Giorgio Vasari, che raccontò di quando un artista bolognese riconosciuto come uno dei massimi maestri locali, Francesco Francia, vide il dipinto e fu preso da una tale malinconia al cospetto di tanta perfezione che si rifiutò di toccare mai più i pennelli e si lasciò morire spaventato dal confronto impossibile. Il dipinto fu molto apprezzato dalla committente, personaggio singolarissimo di quegli anni a testimonianza della immensa versatilità professionale di Raffaello, impegnato a Roma a celebrare lo splendore mondano ed erotico ma capace nello stesso momento di creare immagini di sublime devozione. Come santa Cecilia, Elena dall’Olio si era votata alla castità nel matrimonio e viveva la propria fede in maniera estatica, abbandonandosi a visioni e deliqui spirituali capaci di sublimare quelle pulsioni sessuali a cui resisteva con fatica estenuante: «udiva angeli unirsi a lei in canti di lode a Dio e vedeva il fuoco impossessarsi del proprio corpo riempiendolo di desiderio di accostarsi alla santa comunione – La qual comunione non è altro che un’intima unione e copula, che fa il celestial Sposo con l’innamorata anima per la quale se li dà a godere, renovandola in uno essere tutto spirituale et angelico»2. La fede vissuta con tanto ardore da Elena si propagava in quegli anni nei circoli sociali più esclusivi, che cominciavano a sentire con ansia i fermenti della Riforma protestante che montava in Europa. Da questi circoli sarebbe nato di lì a poco quell’oratorio del Divino Amore intorno al quale si raccolsero i personaggi più influenti che in Italia sentivano la necessità di un rinnovamento spirituale vissuto con le pratiche quotidiane di devozione e preghiera. Raffaello si trova251

va dunque di fronte all’esigenza di una fede fortemente interiorizzata, nutrita dallo studio delle Scritture e da un contatto profondamente sentimentale con i loro insegnamenti. E la sua risposta si avvalse del linguaggio classico e quasi archeologico che in questi anni – siamo intorno al 1515 – sosteneva tutta la sua produzione artistica. Il dipinto è occupato per i tre quarti dalle figure dei cinque santi disposti in cerchio. Al centro santa Cecilia solleva al cielo gli occhi mentre lascia cadere a terra un piccolo organo. Per terra si vedono altri strumenti musicali, vistosamente rotti o consumati dal tempo come simbolo della vanità del diletto mondano e contrapposti alla musica divina intonata in cielo da gruppi di angeli che cantano reggendo i libri tra le mani. La musica strumentale era stata condannata dai Padri della Chiesa, secondo i quali solo la semplicità dei cori angelici era in grado di esaltare la gloria di Dio. Ma nel dipinto gli strumenti musicali sono resi con una cura e una preziosità degne di una natura morta fiamminga. La tradizione vuole che a dipingerli sia stato Giovanni da Udine, che con puntiglio da cronista elenca la viola con il suo archetto, il cembalo, il tamburello, i timpani metallici e il piffero. In alto, nel cielo azzurro che si apre come un rotolo di carta, il gruppo di angeli cantori è descritto invece sommariamente con lineamenti e colori resi inafferrabili dalla luce abbagliante in cui sono immersi. La posa dei santi è monumentale e la mimica contenuta fino al mutismo. Alle spalle di Cecilia, solo san Giovanni e sant’Agostino sembrano comunicare con lo sguardo. La bellezza è concentrata sulla solidità dei corpi, che sembrano risuscitati da rilievi marmorei antichi. Sul lato sinistro san Paolo è mostrato di tre quarti mentre guarda pensoso i resti degli strumenti musicali a terra, poggiando il gomito sul dorso della mano che si puntella alla lunghissima spada scintillante d’oro e d’acciaio. Il mantello rosso che lo ricopre fino alla vi252

ta cade in pieghe semplici e poderose e il suo aspetto è pieno di forza come quello di un Ercole barbuto. Nella mano che si appoggia alla spada stringe una lettera: forse è quella ai Corinzi, dove afferma che senza la grazia e la carità anche la voce migliore suona come un cembalo scordato. Dietro di lui si intravede un meraviglioso san Giovanni, bello come Apollo con i capelli d’oro che si avvitano in boccoli luminosi all’altezza delle spalle. È lui il dedicatario della chiesa e deve comparire nella scena, ma Raffaello lo rende appena riconoscibile puntando tutto sulla sua bellezza, che nel dipinto è la vera manifestazione del divino. Un guizzo di luce, infiltratosi in basso dietro la piega curva del mantello di Paolo, ci lascia vedere il profilo rustico di un’aquila che poggia gli artigli sul grosso Vangelo poggiato accanto agli strumenti rotti. Al centro, in posa frontale, vediamo santa Cecilia con gli occhi e il cuore rapiti al cielo come accadeva spesso a Elena dall’Olio. Ascolta gli angeli e non ha rimpianti nel sacrificare le gioie mondane della musica terrena. È vestita con un manto di velluto d’oro trapunto con fogliami neri, massima eleganza che la moda concedeva alle regine e alle altre nobili titolate. Lo scollo, bordato di nero e ornato da un grosso gioiello, fa risaltare la luminosità del vestito, trattenuto in vita da una sottile fascia di seta. Sotto la tunica un velo trasparente scende fino ai piedi, calzati con sandali romani come quelli osservati con scrupolo filologico sui monumenti antichi. Raffaello connota perfettamente Cecilia come una nobilissima sposa romana che per la fede rinuncia al suo status agiatissimo (lo stesso fece la committente della pala, che aveva in questo un motivo in più per riconoscersi nel dipinto). Dietro di lei si vede sant’Agostino, vestito con la stola dorata e appoggiato al bastone che sovrasta il gruppo. Chiude infine il cerchio, in posizione simmetrica a san Paolo, una bellissima Maria Maddalena, che si gira a guardare verso l’osservatore mentre tiene in mano il vaso dell’unguento profuma253

to con cui ha unto i piedi di Cristo. Con le loro pose, i quattro santi intorno a Cecilia compiono un immaginario movimento che circonda la santa, portandosi dalla posizione chiusa di san Paolo a quella aperta di Maddalena. Pur nella totale fissità degli atteggiamenti, chi guarda ha l’impressione di un movimento che si svolge sotto i suoi occhi. L’intero dipinto rappresenta le possibilità del linguaggio classico e dell’iconografia antica di dare risposta anche alle esigenze di rappresentazione spirituale di una religione che non si era neppure affacciata sul palcoscenico della storia quando quelle forme venivano scolpite sui monumenti che Raffaello indagava ansiosamente. Abituati alla piramide gerarchica delle pale di Sacra conversazione quattrocentesche, siamo abbagliati dalla solennità composta di queste figure allineate in uno spazio perfino angusto. La Maddalena, in particolare, era figura sempre carissima alle devozioni delle nobildonne laiche, perché nella loro costernata spiritualità donne come Elena si sentivano peccatrici per quelle tentazioni a cui resistevano con fatica e perché la redenzione di Maddalena, peccatrice per eccellenza, era il segno della redenzione possibile anche a loro. Perfino l’acconciatura della Maddalena è un inserto archeologico come il vaso che tiene in mano. Come altri uomini del suo tempo, Raffaello credeva che la bellezza fosse manifestazione diretta della divinità e di suscitare la commozione devota proprio per la perfetta bellezza dei personaggi del dipinto. I lineamenti distesi e proporzionati del volto di Maddalena e di san Giovanni sembrano copiati da una Venere e da un Apollo e mettono l’osservatore in comunicazione con la divinità che li ha ispirati. Raffaello possiede interamente le chiavi del mondo della bellezza e con queste controlla il mondo delle emozioni: tutte le emozioni, sia quelle spiritualmente estatiche di Elena dall’Olio, sia quelle erotiche e carnali di Agostino Chigi e Bernardo Bibbiena, per cui lavora negli stessi mesi. Immaginiamo allineati nello studio 254

dell’artista i dipinti destinati a committenti tanto diversi, eppure uniti da una calma aggraziata, da una bellezza pervasiva che permette di liberare nell’anima di ognuno i desideri a cui aspira. L’artista, lontano dal custodire la tradizione artigianale dei pittori tre e quattrocenteschi, che raccontavano storie riconoscibili alla tradizione, ora è impegnato nella ideazione di oggetti di culto che hanno la capacità di sciogliere negli uomini la parte spirituale, di metterli in contatto con un mondo superiore, un mondo caratterizzato sempre più da una bellezza debitrice ai modelli classici riscoperti a Roma. Elena dall’Olio accolse la pala come un miracolo e pensò che fosse stata ispirata direttamente da quel Dio a cui offriva ogni spasimo dell’anima e del corpo. Francesco Francia, se dobbiamo credere almeno in parte al racconto del Vasari, comprese invece che quella seduzione irrefrenabile nasceva dal talento dell’artista, un talento a cui lui non si sarebbe mai potuto avvicinare neppure se avesse pregato per mille anni il Dio a cui si era votata Elena.

2. LA FORTEZZA ESPUGNATA

Intorno al 1515 papa Leone X decise di completare la decorazione della Cappella Sistina commissionando a Raffaello i disegni per alcuni arazzi da far realizzare in Fiandra. Il primo pagamento per quest’opera è datato al giugno del 1515, quando l’artista era ormai completamente coinvolto dagli studi archeologici e dalla ricostruzione della pianta di Roma antica. Nella cappella più importante della cristianità erano state rappresentate le storie di Gesù e di Mosè, fondatori della religione. Nella volta, Michelangelo aveva dipinto con uno sti255

le nuovo e sconvolgente le storie della creazione. La monumentale cappella era anche la fortezza della pittura italiana, dove tutti gli artisti che avevano rinnovato la pittura negli ultimi cinquant’anni avevano lasciato il segno. Ora toccava a Raffaello concludere il ciclo disegnando gli arazzi da appendere nella parte bassa, dove il muro era decorato da finte stoffe, proprio all’altezza dei frequentatori che la affollavano durante le cerimonie. In quel momento l’artista era impegnato con la sua scuola, ormai divenuta affollata di talenti maturi, nella decorazione delle ultime stanze vaticane, quelle dell’Incendio di Borgo e della Battaglia di Ostia. Per queste stanze Raffaello si limitò a concepire i disegni d’insieme, lasciando ai collaboratori l’esecuzione materiale. Per gli arazzi il lavoro gli era particolarmente congeniale, trattandosi di disegni da portare su cartone con la tecnica fresca e veloce della tempera. La tecnica esecutiva ebbe un ruolo importante nell’ideazione, sia perché non si poteva indulgere troppo nelle vibrazioni cromatiche a cui l’olio aveva abituato gli occhi, sia perché bisognava tener presenti le difficoltà che avrebbero incontrato i tessitori delle Fiandre nel restituire l’opera. Le storie da rappresentare erano tratte dai Vangeli e narravano i momenti più significativi della vita di san Pietro e san Paolo, considerati nei loro ruoli fondamentali: pastore di fedeli il primo, maestro di dottrina il secondo. Ancora una volta la scelta di Raffaello mostrava una strettissima unità di linguaggio, sempre necessaria a mantenere leggibilità e chiarezza nelle opere di vasta portata. Il ciclo era destinato a precisare il linguaggio ufficiale della Chiesa di Roma in termini di immagini e di racconto, e Raffaello doveva mettere a punto una retorica ufficiale che fosse in grado di assicurarle la massima dignità possibile. Come già in passato, la sua ricerca scorreva parallela a quella dei letterati raccolti intorno alla curia, impegnati anch’essi nel ripristino di una retorica aulica capace di eguagliare quella dell’antica Roma e in partico256

lare quella ciceroniana. Grazie anche alla semplificazione imposta dalla tecnica usata, i modelli a cui si ispirò appaiono quanto mai chiarissimi: i rilievi dei monumenti romani di epoca imperiale e il loro modo di organizzare gerarchicamente il racconto disponendo le figure così da assicurare ad ogni brano una autonomia formale, spaziale e iconografica, mantenendo nel contempo la relazione tra i personaggi. Il modello più semplice da comprendere in questo ciclo è il cartone con il Sacrificio di Listra [Fig. 31], quasi una trasposizione cromatica dei rilievi romani dell’arco di Costantino e di Traiano a Benevento, e non soltanto per la cura con cui vengono ripresi gli accessori del rito e i vestiti dei partecipanti. Le figure abbandonano del tutto la posa frontale che caratterizzava ancora le narrazioni quattrocentesche delle pareti della Sistina. Ogni figura è ripresa di profilo o di tre quarti, perfino di spalle, e serve a misurare lo spazio nel quale è coinvolto lo spettatore quasi si trovasse anch’egli nella scena. In uno dei cartoni più riusciti, la Predica di san Paolo agli ateniesi [Fig. 32], dove si celebrava peraltro l’unione della cultura cristiana con la tradizione della filosofia antica a cui gli intellettuali lavoravano da anni, il punto di vista scelto per la visione è quasi quello di san Paolo stesso, visto di spalle mentre di fronte si dispiega il gruppo di filosofi intento ad ascoltare la predica. Le scale su cui è salito il santo non mostrano il loro limite, la loro fine, sicché l’osservatore è portato lui stesso sopra quelle scale coinvolgendosi emotivamente con la scena. Gli sfondi nei quali viene ambientato il racconto sono sempre ricostruzioni archeologiche di straordinaria efficacia, quasi progetti tridimensionali dai quali si potrebbe passare direttamente alla riedificazione. Come nei rilievi scultorei romani, le muscolature poderose non esagerano mai la mimica e la calma dell’azione. Una calma solenne è sottolineata anche dalla compostezza dei panneggi. La rappresentazione diventa in questo modo eroica, come si addiceva a una corte che si sen257

tiva emula di quelle degli imperatori. Il centro dell’azione viene spesso respinto indietro, come nella scena della Morte di Anania [Fig. 33] o nella Punizione di Elima [Fig. 34], oppure spostato lateralmente per ricercare le corrispondenze simmetriche che danno complessità al racconto. Nella Consegna delle chiavi a san Pietro [Fig. 35] un Cristo togato come un pontefice romano si contrappone al gruppo degli apostoli, che sembra pietrificato dalla grazia del suo gesto. Dietro di lui vi sono le pecore bianche, che indica a Pietro perché lui stesso possa accudire i fedeli come il pastore gli armenti. I movimenti e le espressioni sono leggeri, appena accennati, tenuti sotto controllo da una naturale propensione alla dignità. Persino le scene più drammatiche, come la Lapidazione di santo Stefano [Fig. 65] e la Conversione di san Paolo [Fig. 66], non sfuggono a un contrappunto formale che blocca il racconto in un linguaggio secco ed efficace, che non concede niente al decorativismo. La simmetria non è mai geometrica come lo era nel racconto quattrocentesco, ma si articola intorno ad alcuni elementi ordinatori che sono spesso elementi architettonici. Così è ad esempio per le splendide colonne tortili nella Guarigione dello storpio [Fig. 36], scintillanti d’argento, che secondo la tradizione provenivano dal tempio di Salomone, da dove erano state trasportate nella Cappella della Pietà in San Pietro. Le colonne, chiare come due lame di luce, inquadrano una scena centrale e bloccano l’attenzione dell’osservatore permettendo che ai lati si svolgano scene del tutto differenti tra loro, come sono a sinistra l’arrivo delle donne e dei bambini che portano offerte al tempio sullo sfondo degradante verso il paesaggio aperto, e a destra la folla che si accalca per assistere al miracolo. Altre volte è il colore a bilanciare e rendere solenne la scena, come nel Sacrificio di Listra il manto rosso di san Paolo, che lo copre come un baccello gigantesco e lo protegge e difende dalla spinta enfatica della folla convenuta con i tori per il sacrificio. 258

Nella Pesca miracolosa [Fig. 37], una delle creazioni più dolci e straordinarie del secolo, il Cristo seduto sulla piccola barca con il suo mantello rosso (oggi sbiadito dal degrado ma riflesso nell’acqua e ancora vivo nell’arazzo) bilancia il movimento agitato degli apostoli e dei pescatori, che sembrano travolgere il precario equilibrio delle imbarcazioni stracolme di pesci. Il paesaggio lacustre calmo al tramonto si apre all’infinito misurato dal volo degli uccelli sempre più piccoli in lontananza. Sulla riva destra una piccola folla si accalca dopo la predica appena conclusa di Gesù, che con la sua compostezza rassicura Pietro e Andrea. Anche in questa scena Raffaello evita accuratamente di presentare i protagonisti in posa frontale. Perfino Zebedeo, il padre degli apostoli Giacomo e Giovanni che si trova di fronte allo spettatore, è presentato in torsione come una divinità fluviale pagana. Tutto perché la frontalità arresterebbe il lento movimento che deve attraversare il racconto per renderlo vivo e convincente, come Raffaello notava nei rilievi romani. In ogni scena si affrontano le attitudini espressive che connotano l’animo umano: stupore, terrore, ammirazione e perfino felicità (come nel profilo di san Giovanni nella Consegna delle chiavi ) corrono sui corpi e sui visi delle figure come un vento veloce, cambiando di pochissimo le differenze tra un’attitudine e un’altra per non scadere nella farsa o nella volgarità dell’episodio naturale. La corte urbinate, dove Raffaello era nato, raccomandava come misura di eleganza la simulazione dell’artificio, il controllo dello sforzo con cui pervenire a un atteggiamento che doveva sembrare a tutti i costi naturale. Questo controllo si sposava a Roma con la naturalezza raggiunta dagli scultori antichi dopo secoli di ricerca. Il racconto di Raffaello si mantiene solenne per la compostezza, la bellezza e la cura dei dettagli, figurandosi come una lingua vera e propria a cui può far ricorso l’autorità pontificia quando deve celebrarsi. Più ancora che nelle stanze, troppo aperte alla ric259

chezza del mondo naturale, negli arazzi questa lingua viene affinata e adeguata a una solennità ufficiale, quasi l’artista stesse riscrivendo lui stesso i Vangeli anziché semplicemente rappresentarli come avevano fatto i suoi predecessori. I cartoni partirono per le Fiandre e gli arazzi ritornarono in Italia prima di disperdersi con il sacco di Roma del 1527. Ma queste opere mobili, dalla consistenza effimera, furono i veicoli di una conoscenza europea di Raffaello e del suo stile, e generarono nel tempo un linguaggio ormai non più solo dello spirito ma della storia. Alla retorica misurata degli arazzi si rifaranno Pieter Paul Rubens e Nicolas Poussin, ma anche Jacques-Louis David ed Eugène Delacroix e tutti i maestri che nel corso dei secoli ricercheranno la misura raffaellesca, diventata con quest’opera perfetta misura di una rinata classicità.

3. IL VOLO DI ICARO

La festa continua che accompagnava il pontificato di Leone X aveva momenti effimeri di pagana sfrenatezza, soprattutto a Carnevale, quando insieme alle cacce, ai tori e ai tornei di giostre, le corse di cavalli richiamavano a Roma la nobiltà italiana che si sfidava in quella gara di eccellenza e di sfarzo. Agostino Chigi ebbe molte volte la soddisfazione di vedere un suo cavallo vincere le gare. Poteva permettersi i cavalli turchi più costosi d’Europa e farli allevare con il maggior dispendio di denaro, lasciando indietro molto spesso perfino gli allevamenti dei Gonzaga, famosi per il loro lusso. Ma accanto alla febbre festosa che avvolgeva Roma, un progetto più stabile e determinato procedeva senza sosta per cambiarne il volto. Nell’area intorno al Vaticano sorgevano 260

continuamente palazzi di rigoroso disegno all’antica e di stupefacente bellezza. Donato Bramante aveva dato il via a questo rinnovamento progettando tra le tante cose un palazzo in Borgo, Palazzo Caprini, con doppie semicolonne accostate al primo ordine per inquadrare cinque finestre a timpano triangolare e sorreggere un cornicione spartito in triglifi e metope. Le botteghe al pianoterra, indispensabili in un’area economicamente così redditizia, si mimetizzavano in un poderoso bugnato spartito a sua volta in pilastri e archi con ghiere che arrivavano fino alla cornice liscia che delimitava l’ordine superiore. La simmetria rigorosa delle botteghe e delle soprastanti finestre terminanti in timpani triangolari, la plastica morbidezza delle colonne poste sugli alti piedistalli, il ritmo chiaroscurato del cornicione, alto abbastanza da terminare le spinte verticali in un perfetto equilibrio di forze, facevano pensare a un tempio antico più che a un palazzo moderno. Chi transitava per quella strada vi leggeva, in una nuova forma, tutto l’alfabeto antico che aveva visto frammentario sui monumenti affioranti dal suolo. Colonne, metope, triglifi e cornici modanate si erano risollevati dal terreno e dai muri sbrecciati e si erano magicamente ricomposti su quella facciata. In poche parole erano «rinati». Raffaello, che di quel rinnovamento sarebbe presto diventato arbitro, non poteva che abitare in un palazzo del genere. Nel 1517 si trasferì infatti proprio nel palazzo progettato da Bramante [Tav. 2], in attesa di costruirne per sé uno nuovo ancora più bello e più antichizzante di quello realizzato dal vecchio maestro e protettore. Arrivando in Borgo, in prossimità del papa e della sua corte, entrava di diritto nella cerchia più facoltosa della città. Ma già alcuni anni prima era stato chiamato a un compito speciale nella rinascita di quel sogno chiamato Roma. Bramante era morto nel marzo del 1514, non prima però di essersi assicurato con le sue ultime energie che a succedergli in 261

quella che tutti consideravano l’opera più importante d’Italia fosse il suo giovane conterraneo, non proprio espertissimo di architettura ma dotato di un talento e di un’abilità dirigenziale che sembrarono al vecchio morente la garanzia migliore per la riuscita dell’ambizioso progetto. Si trattava naturalmente del rinnovamento della basilica di San Pietro, il luogo più caro alla cristianità. Quella successione non era una scelta scontata, e i fatti posteriori lo confermarono. Dieci anni dopo quella nomina, con una presa di posizione violentemente polemica, gli allievi di Raffaello avrebbero dipinto nello zoccolo della Sala di Costantino una grisaglia con la scena della posa della prima pietra del vecchio San Pietro. Di fronte al papa un uomo vecchio e barbuto, probabilmente lo stesso Bramante, srotola un lungo disegno su cui ancora oggi è visibile con inconsueta precisione la pianta dell’edificio, corrispondente con ogni evidenza a quella progettata dal loro maestro Raffaello e totalmente modificata subito dopo la sua morte. Su quel progetto e su quell’appalto si era combattuta negli anni precedenti la più aspra battaglia per il controllo della scena artistica italiana. Quando Giulio II, che aveva cominciato la sua costruzione, era morto nel febbraio del 1513, i pilastri della cupola erano arrivati ai pendenti, «mentre il braccio del coro era giunto all’attacco delle volte e i due primi pilastri della navata centrale spuntavano ormai dalle fondamenta»3. Il successore Leone X, animato da un ottimismo irriducibile oltre che amante dello sfarzo e dell’eccesso, chiese a Bramante di ingrandire ancora di più il progetto. Al suo fianco mise Fra Giocondo, architetto veronese di grandissima esperienza, anche lui concentrato nella ricerca sull’architettura antica, e il fiorentino Giuliano da Sangallo, costruttore esperto e legato alla famiglia Medici. Alla morte di Bramante non era quindi scontato che la direzione venisse affidata a Raffaello, che poteva vantare poca esperienza per un’opera così impegnativa. La decisione fu anzi considerata probabil262

mente da molti un azzardo, ma l’artista seppe affrontare quel compito con grande zelo. Già nell’estate del 1514 cominciò a lavorare ai progetti per la fabbrica. La sua idea centrale era quella di una grande cupola circondata da quattro piccole cupole in modo da concentrare la luce in un solo punto, come già aveva fatto nella quinta scenografica della Cacciata di Eliodoro. A differenza di Bramante, Raffaello aveva una concezione molto articolata dell’architettura e considerava le varie porzioni dell’edificio in maniera piuttosto autonoma tra loro, creando il collegamento con richiami formali piuttosto che con rigide assialità e schemi proporzionali invariabili. Il suo progetto per la facciata di San Pietro ne è un esempio evidente. In corrispondenza della navata centrale, immaginò un corpo separato con quattro lesene giganti che dovevano sorreggere il timpano triangolare, a sua volta articolato per fasce orizzontali che prevedevano al pianterreno un colonnato che reggeva una cornice elegantemente modanata, e al piano superiore la Loggia delle benedizioni scompartita in quattro piccole campate di cui quella centrale sormontata da un timpano curvo. Il colonnato e il loggiato proseguivano orizzontalmente sui lati in corrispondenza delle campate minori, ma del tutto autonomamente si concludevano con una bassa trabeazione curva che arrivava all’imposta dei capitelli delle lesene giganti [Fig. 68]. La composizione era dunque organizzata secondo una gerarchia tenuta sotto controllo dal dimensionamento e dall’evidenza che aveva l’intelaiatura principale: alti piedistalli, lesene giganti e timpano triangolare. Elementi di forte evidenza visiva cari a un pittore quale era Raffaello per formazione e sentimento. Intorno e all’interno di questa intelaiatura, si organizzavano autonomamente gli altri elementi, offrendo la possibilità di una lettura via via più complessa ma senza mai perdere l’impatto solenne e chiarissimo che aveva la struttura ordinatrice. Anche nel proporzionamento dei vari elementi, 263

Raffaello fece sì che essi risultassero gradevoli ed equilibrati, ricorrendo a una sensibilità visiva tipica di un consumato pittore. Ricorse allo stesso metodo anche per il controllo dell’interno e dell’esterno, dividendo il corpo longitudinale in cinque campate strutturate autonomamente con gruppi di colonne che reggevano timpani triangolari, al cui interno si aprivano le logge con centro ricurvo conosciute poi come serliane. Nell’articolazione della pianta, spinto anche dalla grandiosità di Leone X, Raffaello ideò un ambulacro gigantesco intorno al coro, con cappelle e nicchie altissime della cui costruzione si occupò ancora in vita. Il suo gusto raffinato per i dettagli, le modanature, i marmi policromi e la flessuosità dei capitelli rendevano quell’ambulacro unico. Con espresso incarico di Leone X, il 27 agosto 1515 Raffaello fu anche nominato «commissario alle antichità». Aveva il duplice incarico di studiare in maniera sistematica le antichità di Roma fino ad arrivare a una ricostruzione della sua pianta, che era il traguardo secolare di tutti i dotti italiani, e conservare al meglio le sue rovine, valutando cosa fosse opportuno riutilizzare per il nuovo San Pietro e cosa invece dovesse essere lasciato al suo posto. In una città come Roma, dove le rovine erano da secoli una comoda cava a cielo aperto, era una carica che gli conferiva un potere straordinario. Roma aveva distrutto molti dei suoi antichi tesori non per violenza iconoclasta o per odio religioso, come era successo altrove, ma per pigrizia. Satiri e ninfe, mostri marini e divinità bellissime avevano molto spesso preso la via delle Fornaci, addossate proprio alle mura vaticane. Nei secoli di decadenza era molto più comodo, per fabbricare anche una modesta casupola, trasformare in calce una statua di marmo estratta dal suolo piuttosto che arrivare fino a Tivoli a cavare il travertino bianchissimo da cui gli antichi avevano estratto la calce fortissima con cui edificarono l’impero. 264

La carica di «commissario alle antichità» non poteva essere affidata a uomo migliore di Raffaello, e l’artista la affrontò con modestia e dedizione. Impressionato dal peso di quella responsabilità, scrisse a Baldassarre Castiglione, suo stimatissimo amico: «Vorrei trovarle belle forme degli edifici antichi; né so se il volo sarà d’Icaro. Me ne porge una gran luce Vitruvio, ma non tanto che basti»4. Per migliorare la sua conoscenza dell’architettura antica, non si limitò peraltro a farla rilevare con un metodo scientifico, minuziosamente descritto in seguito al papa stesso per mostrargli fino a che punto era stato rigoroso in quel lavoro. Come fosse un principe o un mecenate anziché un artista, si affrettò anche a commissionare una nuova traduzione del De Architectura di Vitruvio all’umanista Fabio Calvo, che era arrivato a Roma come precettore di Federico Gonzaga ed era affidabilissimo intellettuale. Calvo ultimò la traduzione nel marzo del 1519 «in Roma in casa di Raphaello di Giovan di Sancte da Urbino, et a sua instantia»5. La dedica apre da sola una delle finestre più luminose del Rinascimento italiano. Nel palazzo colonnato di Bramante, abitato da uno dei massimi pittori del tempo, il testo chiave dell’architettura antica viene tradotto ad instantia dell’artista: una circolarità creativa che non si ripeterà mai più nella storia italiana. Quando tornava a casa dal Vaticano, Raffaello poteva lavorare ai suoi quadri da cavalletto o disegnare nuovi progetti. Ma nel palazzo c’era l’umanista che lavorava alla traduzione e con lui discuteva di colonne, di proporzioni dei moduli, della nascita dei capitelli corinzi dai cesti d’acanto. Nel frattempo, i suoi migliori collaboratori mostravano a entrambi i risultati dei rilievi che giorno per giorno svelavano al mondo i segreti dell’architettura antica. Nessun poeta aveva inventato ancora qualcosa di tanto armonioso come la vita quotidiana di Raffaello. Il lavoro diede esiti straordinari, e altri ancora più straor265

dinari ne avrebbe dati se il giovane non fosse scomparso tanto prematuramente. Nel 1519, in una lettera preparata per Leone X, Raffaello dimostra di aver perfettamente compreso il carattere specifico delle varie epoche storiche e delle loro espressioni architettoniche. L’antichità, che da un secolo era un’indistinta terra magica di forme diversissime tra loro, cominciava finalmente a essere classificata: «Non è adunque difficile il conoscere quelli del tempo degl’Imperatori, i quali sono li più eccellenti e fatti con grandissima arte, e bella maniera d’architettura, e questi soli intendo io di dimostrare»6. Insieme alla comprensione, nasceva d’altronde anche una nuova coscienza del valore delle testimonianze antiche. Condannando definitivamente la pratica distruttiva che aveva cancellato tante importanti testimonianze del patrimonio artistico antico, Raffaello poneva le basi della moderna coscienza conservativa: Quanti Pontefici, Padre Santissimo, li quali avevano il medesimo officio che ha Vostra Santità, ma non già il medesimo sapere, né il medesimo valore, e grandezza d’animo, né quella clemenza, che la fa simile a Dio – quanti, dico, Pontefici hanno atteso a ruinare tempi antichi, statue, archi e altri edifici gloriosi, quanti hanno comportato che solamente per pigliar terra pozzolana si sieno scavati dei fondamenti, onde in poco tempo poi gli edifici sono venuti a terra? Quanta calce si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi! ché ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese, e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabbricata di calce di marmi antichi7.

Si può dire che con queste parole Roma entrava a pieno titolo nella modernità, con un nuovo ruolo che manterrà inalterato fino a oggi: era la madre di ogni civiltà, maestra di ogni arte e di ogni sapere. A Raffaello mancava soltanto di dimostrare che Roma poteva anche essere il luogo ideale per rinnovare i linguaggi del266

le forme artistiche. È quanto lui stesso stava cercando di fare nella costruzione del nuovo San Pietro, dove però le cose non erano tanto facili. C’era un problema di costi enormi e il papa cominciava ad assottigliare i fondi per investirli nelle armi con cui tentava sciaguratamente di conquistare il ducato di Urbino per la sua famiglia. Si spinse perfino a indire una nuova indulgenza plenaria, che avrebbe ottenuto il solo risultato di accelerare la crisi religiosa europea e la Riforma protestante. Ma c’erano anche problemi pratici e tecnici da risolvere, e Raffaello era impegnato in mille altre commesse a cui non poteva e non voleva rinunciare. Al suo fianco fu messo allora Antonio da Sangallo, nipote di Giuliano e suo coetaneo, che rappresentava quella «cricca» che aspirava al controllo totale dell’impresa. Fu solo la straordinaria abilità direttiva di Raffaello a rendere possibile la collaborazione con un uomo che si considerava suo antagonista naturale. Dal dicembre del 1516 Antonio collaborò con Raffaello in qualità di secondo architetto vaticano. Pur cogliendo l’inimicizia di quel giovane, Raffaello non poteva rinunciare alla sua abilità. Fidando sull’esperienza che aveva accumulato nel coordinare il lavoro di talenti diversi e non sempre docili, si applicò affinché la loro collaborazione fosse costruttiva per la riuscita dell’impresa. Pochi altri avrebbero fatto una scelta così coraggiosa, ma Raffaello ottenne ottimi risultati. Nella primavera del 1519, il progetto definitivo era ormai ultimato. Si costruirono le fondamenta del braccio sud del coro e i rivestimenti marmorei di quella porzione occupata una volta dalla cappella del re di Francia. Ma era un accordo apparente. Raffaello morirà l’anno successivo, e subito Antonio attaccherà violentemente il suo progetto e le sue realizzazioni, redigendo un dettagliato memoriale per convincere il papa di tutti gli errori commessi dal suo protetto. Riprenderà così la lotta per il controllo della fabbrica e la «cricca» di Sangallo avrà la meglio godendosi l’appalto 267

per i futuri venticinque anni, fino a quando dovrà vedersela con un altro gigante, che era stato anche lui nemico di Raffaello ma non per questo intendeva allearsi con i suoi nemici: Michelangelo Buonarroti.

4. PIACERI PRIVATI

Alla sua morte Donato Bramante aveva lasciato incompiuta un’altra opera architettonica molto importante: la costruzione di un triplo loggiato davanti al fronte del Palazzo Vaticano che affacciava sul cortile di San Damaso e sulla città [Fig. 69]. L’elegante portico doveva razionalizzare i prospetti molto irregolari del palazzo e collegarlo da una parte alla Loggia delle benedizioni sulla facciata del nuovo San Pietro, dall’altra al grande cortile del Belvedere in via di trasformazione8. La costruzione era arrivata al primo loggiato quando Raffaello fu incaricato del suo proseguimento, ma in questa prima loggia l’intervento dell’artista sembra essersi limitato alla realizzazione della bellissima cupola centrale, tutta decorata di cassettoni a stucco per evocare quella del Pantheon che già aveva ispirato lo sfondo dell’ultima sua pala fiorentina, la pala Dei. Nel secondo loggiato l’intervento di Raffaello fu invece molto più radicale [Fig. 70]. Le campate sono articolate sul fronte interno con una serie di paraste polistili che proseguono verso l’alto a formare delle arcate cieche per dare un’impressione di maggiore profondità e plasticità alla parete. In queste campate sono inserite delle edicole marmoree che ospitavano statue antiche. Di due sole conosciamo l’identità: un Mercurio e una Diana. Le volte che coprono le campate, realizzate con la tecnica detta «a schifo», terminano con un riquadro piatto e impostano sopra una serie di architravi che 268

collegano la parete interna ai pilastri della loggia. Articolando in maniera così complessa il loggiato, Raffaello creò le condizioni per un perfetto equilibrio tra la struttura architettonica, rigorosamente classica, e una decorazione pittorica realizzata a grottesche in cui si inserivano, nei campi piatti, le scene narrative ispirate al Vecchio Testamento. Una decorazione a stucco di assoluta novità impreziosiva la struttura, rendendola molto vicina ai modelli antichi a cui si era ispirata: la Villa Adriana a Tivoli e il criptoportico della casa di Nerone al Colle Oppio, vicino al Colosseo. L’inserimento delle statue marmoree nelle nicchie completava la decorazione del loggiato, che si presentava in tutto simile alle gallerie adibite a pinacoteche descritte da Vitruvio e Filostrato. Questa straordinaria integrazione di architettura, pittura e scultura doveva tuttavia confrontarsi con un problema tecnologico molto serio: quello di un dipinto murale molto resistente e quello della decorazione a stucco di basso rilievo. Entrambi questi tipi di decorazione erano sotto gli occhi degli artisti rinascimentali che andavano annotando sui loro rilievi architettonici le forme e le consistenze. Soprattutto lo stucco, così come veniva osservato non soltanto a Villa Adriana e nella Domus Aurea, ma anche nel tempio della Fortuna Virile al Foro Boario, incuriosiva gli architetti per la sua capacità di imitare il marmo lavorato finemente con un costo molto inferiore. Da almeno vent’anni si erano provati in molti a imitare questo stucco. Ci aveva provato intorno al 1506 Baldassarre Peruzzi nel fregio con putti e festoni della Farnesina. E ci aveva provato l’architetto che aveva costruito il portico all’antica nell’atrio del Palazzo Farnese, databile agli inizi del secondo decennio del secolo. Questi artisti si erano però serviti dell’impasto di pozzolana, sostenuto negli aggetti più forti da una struttura di cocciopesto o da ferri ancorati alla muratura. L’impasto formato con le spatole aveva bisogno poi di una dipintura a calce che gli conferiva il colore del marmo. 269

Questa tecnica si avvicinava soltanto grossolanamente ai campioni osservati nei monumenti antichi, e un artista come Raffaello non poteva accontentarsi di una imitazione grossolana. Lo studio della precettistica vitruviana, l’osservazione diretta dei monumenti e la possibilità di sperimentare nuovi materiali all’interno di una équipe che comprendeva molti artisti diedero i loro frutti. Proprio intorno al 1515 e nella realizzazione delle logge, Raffaello e la sua scuola misero a punto la formula di un nuovo impasto che permetteva di eseguire stucchi di basso rilievo ma lavorabili a spatola fino a poter raggiungere una perfetta imitazione del marmo scolpito. Erano arrivati finalmente a ripristinare una tecnologia sparita con l’Impero Romano. La formula prevedeva l’impasto in proporzioni di uno a due di grassello di calce di travertino o marmo ben spenta e polvere di travertino o marmo pestata in mortaio per raggiungere una grana finissima. Il Vasari attribuisce a Giovanni da Udine questa invenzione, ma la ricerca si deve certamente a Raffaello, che fu in grado di istituire la giusta relazione tra le prescrizioni delle fonti (Vitruvio si traduceva in casa sua) e l’analisi dei campioni osservabili sui monumenti. La formula fu custodita gelosamente dalla bottega di Raffaello e le diede in breve tempo la possibilità di realizzare opere perfettamente comparabili a quelle antiche, con una spesa decisamente minore. Perfino l’orgoglioso Michelangelo, quando dieci anni più tardi sarà impegnato nella decorazione della Libreria di San Lorenzo, sarà costretto a farsi inviare da Roma tramite un amico fidato la «formula de lo stucco de marmoro» messa a punto nella bottega di Raffaello. Questa circostanza, più ancora di quella raccontata dal Vasari, ci conferma l’effettiva novità e importanza delle ricerche e delle sperimentazioni eseguite dalla bottega di Raffaello in campo tecnologico prima ancora che in campo formale9. L’altro elemento che aiutò la decorazione delle logge ad avvicinarsi ai modelli di età imperiale, quei modelli che Raf270

faello riteneva i più perfetti e degni di imitazione, fu il particolare «affresco lustro» che ricopriva le pareti. L’effetto brillante e solido, simile alle tarsie marmoree, che i Romani ottenevano per i loro affreschi era dovuto a una battitura o compressione dell’intonaco da dipingere, realizzata con uno strato superficiale in calce e polvere di marmo via via più sottile (lo stesso dello stucco). L’omogeneità chimica dei due elementi, che derivano entrambi da una manipolazione del carbonato di calcio, garantiva una presa fortissima e la possibilità di portarlo a lucentezza. Gli affreschi quattrocenteschi di tradizione toscana, pur nei migliori esempi rintracciabili a Firenze o a Siena o a Perugia, non permettevano queste battiture o compressioni, tanto che la giunzione delle giornate appare sempre evidente (lo è perfino in quelle della Cappella Sistina di Michelangelo). Ciò che stupiva gli osservatori rinascimentali e stupisce ancora gli osservatori moderni è invece l’organizzazione perfetta delle maestranze che realizzavano la pittura parietale romana, al punto che le giornate non sono distinguibili. Molti, fino al XIX secolo, pensarono che questo aspetto lucido e la mancanza di congiunzione di giornate fosse dovuto all’uso della cera per dipingere a secco sul muro: l’encausto che molti tentarono di imitare con esiti disastrosi. Raffaello fu il primo che riuscì a imitare così bene la pittura parietale romana al punto che nelle logge non si legge giunzione degli intonaci. Sotto un altro punto di vista, questa è la prova migliore che la sua bottega, pur utilizzando pittori diversi, aveva raggiunto un tale affiatamento e una tale coordinazione da rendere impossibile l’individuazione delle diverse mani. Questa intensa ricerca tecnologica rese possibile una decorazione mai vista negli edifici contemporanei in Italia, che pure avevano utilizzato già da cinquant’anni il repertorio decorativo delle grottesche. Sull’intonaco lustro i pittori stesero intrecci di fogliami e animali fantastici con una sicurezza e una freschezza di tocco straordinarie. La compattezza dell’intona271

co e la brillantezza dei fondi non permettevano pentimenti o manipolazioni successive. Il gesto pittorico doveva essere nitido e veloce. Le curve delle ghirlande, come le anatomie delle figurine che invadono le pareti, dovevano nascere al primo colpo, senza nessuna laboriosità. Nei fondi bianchi non era permessa neppure una sbavatura, uno sgocciolamento o un incepparsi di pennello. La pittura ridiventava veloce e naturale come era stata in epoca romana. Solo nelle scene della volta, quelle della Bibbia, essa recuperava modi e compattezza rinascimentali, ricostruendo gradualmente le anatomie, i chiaroscuri e i panneggi ombreggiati con piccole pennellate nervose. Lo stesso valeva per gli stuccatori che poggiavano miracolosamente sulle pareti delicate cornici aggettanti con fogliami, figure fantastiche, frutta esotica e, all’imposta degli archi e sui profili delle lesene, i rilievi tipici degli ordini architettonici come se fossero merletti di marmo miracolosamente trapunti. L’effetto era sconvolgente e diventò immediatamente una moda imprescindibile in tutte le costruzioni della Roma contemporanea. Lo stucco bianco, alternato sapientemente alle campiture rosso sangue, viola e azzurre e all’oro in foglia messo sui rilievi, provocava un effetto di sensualità vertiginoso. Tutta la ricchezza decorativa era piegata però da una cornice architettonica perfettamente e rigorosamente leggibile. Raffaello raggiungeva il giusto punto di equilibrio tra una decorazione pittorica non invadente, priva di qualsiasi volgarità, e una struttura architettonica ingentilita dalle modanature preziose ma non dimentica della sua purezza geometrica. Alle prime avvisaglie di quanto stava succedendo sulle logge, non mancò di farsi avanti il personaggio più influente della corte pontificia: Bernardo Dovizi, nominato da Leone X cardinale di Santa Maria in Portico e detto da tutti il Bibbiena dal nome del suo paese di origine. Dovizi era stato «cancelliere» dello sfortunato Piero de’ Medici, già prima 272

della sua cacciata da Firenze nel 1494, e aveva condiviso con lui i vizi e le miserie fino a diventare il sostegno principale del cardinale Giovanni dopo la morte del fratello. Nell’elezione di Leone X aveva avuto un ruolo molto importante nel tessere le trame politiche. Fu lui l’autore della commedia in prosa in lingua italiana La Calandria, rappresentata con grande pompa in una sala del Palazzo Ducale di Urbino nel febbraio del 1513. Cresciuto nel culto delle feste, non mancava mai a quelle più licenziose, animate dalle migliori cortigiane e dai più salaci buffoni. Nei giorni immediatamente successivi all’elezione di Leone X, l’ambasciatore veneziano era stato efficacemente lapidario nel descriverlo come «il tutto» della corte. E non si era sbagliato. Leone l’aveva voluto con sé anche in Vaticano e gli aveva assegnato un appartamento proprio sopra quello papale che era stato di Giulio. Visto dunque il lavoro iniziato nelle logge vaticane, il Bibbiena chiese a Raffaello di ristrutturargli immediatamente l’appartamento, rendendolo degno di quel colto gaudente che tutta Roma apprezzava. L’artista gli decorò una piccola loggia affacciata sul cortile del Maresciallo e una piccola «stufa» [Fig. 71] per i ristoratori bagni di vapore a cui il futuro cardinale non poteva rinunziare. Furono le prime opere concluse in quella parte del palazzo da Raffaello, e senza dubbio le più riuscite. Il 25 aprile 1516 Bembo scrisse al cardinale: «Bastami darvi contezza (...) che la loggia, la stufetta, le camere, i paramenti del cuoio di V.S. sono forniti»10. La stufetta era un accessorio indispensabile alla civiltà di un gaudente della Roma di Leone X. La pratica termale, che così tanta importanza aveva avuto nella Roma antica, era stata recuperata nel Medioevo come pratica medica molto importante alla salute del corpo. Ma dalla fine del Quattrocento in poi l’inevitabile sensualità legata a una pratica che scopriva il corpo e spingeva alla promiscuità era riaffiorata nella cultura elitaria per rievocare la libertà e la gioiosa naturalezza che ave273

vano caratterizzato la civiltà che si voleva a tutti i costi far rivivere. Questo il senso esplicito, seppure brutale, di una lettera con la quale un dottore bolognese, Floriano Delfo, descriveva nel 1494 le delizie delle terme di Porretta al marchese Francesco Gonzaga, che aveva lasciato a sua moglie l’estasi del collezionismo artistico per dedicarsi a quella meno elegante ma di più immediata soddisfazione del collezionismo erotico: «L’aqua del bagno da la Porreta (...) mi pare esser simile a quella piscina probatica narrata da Santo Joanne nel suo evangelio, ma questa suole curare tute le infirmitate (...) veramente Illustrissimo principe, in questo solo loco fra tuti li loci de’ cristiani se adora et mantene la vera libertate che mi resembla quella prima etade aurea, che senza alcuna discretione et cognitione de pronomi ogni soa cosa era in comune (...). Ogni reverentia et pudore è alieno da li bagnaroli, che non si vergognano pedere, cacare, rutare et pissare in publico, monstrando spessissime volte senza rubore li culli, cazi et pete (...) et perché il coito dicono esser nocivo a le done che beno l’aqua per amore de la matrice, si contentano et consentono queste damiselle esser fotute nel buso del cullo (...) insieme maschi et femine vanno al bagno et entrano nel’aqua ignudi, et qui (...) il marito non ha gielosia de la moglie, il patre di la figlia, el fratello de la sorella, sapendo che la morte qui custodisse la corruptione»11. Non c’è dubbio che intorno alla cultura delle stufe e della cura termale era sopravvissuta quella cultura pagana capace di godere del corpo senza troppi pregiudizi, e proprio nei circoli che raccoglievano personalità come il Bibbiena e Leone X, che erano stati a lungo ospiti di Francesco Gonzaga e di sua moglie Isabella d’Este a Mantova. Lo stesso Agostino Chigi si recava volentieri, appena poteva, alle terme di San Casciano, vicino Siena, dove l’atmosfera non era diversa da quella evocata per il marchese di Mantova. Da artista supremo e uomo di mondo consumato, Raffaello era capace di esprimere al più 274

alto grado la suggestione di quella libertà naturale. Per la stufetta del cardinale concepì un ciclo con le storie di Venere, prendendo spunto da una statuetta della dea che il Bibbiena voleva collocare nell’ambiente e che si era fatta regalare. L’ambiente minuscolo (tre metri e venti per due metri e cinquanta) aveva nicchie di stucco dorate e uno zoccolo dipinto di scuro con riquadri neri decorati da amorini alati che guidano carri marini tirati da delfini, del tipo poi diventato famoso con la scoperta della casa dei Vetii a Pompei, ma che al tempo di Raffaello aveva certamente altri esempi nelle rovine romane. Nella parete erano dipinti con tecnica asciutta e veloce, con macchie di colore non troppo ferme nel disegno, la nascita di Venere, Venere insidiata da Pan, Venere e Amore che cavalcano creature marine che in omaggio al papa hanno il volto di leone. I colori accesi, le cornici geometriche e i minuscoli decori stesi sul fondo lustro conferiscono all’ambiente un carattere perfettamente antico ed evocano certamente anche significati di carattere platonico: la purificazione dello spirito e del corpo attraverso l’acqua e la celebrazione degli elementi costitutivi dell’universo. Tuttavia, accanto a questi complessi significati, l’ambiente si presta a un godimento apertamente sensuale, cullato dalla bellezza dei corpi femminili e dall’eleganza delle decorazioni.

5. TRA IL TEVERE E MONTE MARIO

Negli stessi anni in cui costruiva le logge vaticane, Raffaello progettò anche alcuni bellissimi palazzi: a Firenze, Palazzo Pandolfini [Fig. 73] a Roma, Palazzo Alberini, Palazzo Branconio [Fig. 74] e Palazzo Jacopo da Brescia [Fig. 75]. Jacopo 275

da Brescia, medico personale di papa Leone, aveva comprato da lui nel novembre del 1514, per mille ducati, un prezioso terreno in Borgo, lungo la direttrice che stava diventando l’arteria più importante che portava alla basilica. Il papa aveva interesse ad abbellirla con costruzioni che facessero onore alla città e alla corte. Il medico acquistò anche una casa in costruzione di Giuliano da Sangallo, quando questi tornò a Firenze nel 1516, e Raffaello riorganizzò il tutto secondo un principio funzionale estremamente efficiente. La facciata è compartita in tre ordini. Il basamento è un bugnato con ricorsi orizzontali piegato a un disegno decorativo che non ha più niente del rustico e potente «muro» che ancora Bramante aveva messo in opera in Palazzo Caprini. Ospita quattro botteghe divise da un semplicissimo portale di accesso. Al piano nobile, paraste poco aggettanti, affiancate ognuna da due mezze paraste per creare una vibrazione luminosa, sorreggono una trabeazione dorica e un cornicione che sembra concludere il tutto con forte andamento orizzontale. Nelle cinque campate tra paraste si aprono finestre decorate con timpani alternatamene triangolari e curvilinei, secondo il modello delle edicole dei mercati di Traiano. La vera novità, rispetto al prototipo creato da Bramante, è nell’attico. Mentre in Palazzo Caprini le aperture del mezzanino erano costrette tra i triglifi della cornice dorica, tentandone la simulazione per non interrompere il disegno rigidamente classicista, Raffaello dà piena visibilità al mezzanino, separandolo dal piano nobile e aprendo delle finestre lobate con una semplice cornice in corrispondenza delle botteghe e delle finestre. In questo modo la funzionalità e le esigenze abitative del palazzo non sono sacrificate pur mantenendo il disegno fortemente ancorato a una suggestione classica. La cura dei dettagli, l’elegante modanatura dei timpani e il carattere lineare del bugnato assicurano un decoro inappuntabile alla costruzione. Nell’angolo nord-ovest, il lato stretto del palaz276

zo, le paraste sorreggono un alto timpano cieco curvo, che per il ritmo della travata ricorda un arco di trionfo. Anche con questo progetto Raffaello confermava la sua capacità di immaginare i piani in maniera autonoma e di organizzarli con un disegno prezioso, che si collega con il prudente controllo delle modanature a un disegno unitario. Lo stesso processo di razionale semplificazione decorativa e funzionale guida in quegli anni la progettazione di un altro palazzo, poco distante da quello di Jacopo da Brescia: il Palazzo Alberini in via dei Banchi [Fig. 67]. La strada di fronte a Castel Sant’Angelo era tra le più redditizie della città e gli Alberini, di antico lignaggio, possedevano case nel quartiere già da diversi secoli. Nel 1515 Giulio Alberini acquistò nuovi terreni adiacenti alla proprietà di famiglia e ingrandì il palazzo, affidandone a Raffaello la progettazione per ricavare redditi molto fruttuosi dall’affitto delle botteghe ai banchieri che in quella zona raggruppavano le loro attività. Il palazzo sembra quindi concepito come una fruttuosa impresa più che come una residenza familiare, e il disegno rispecchia queste esigenze funzionali. Nel basamento si aprono botteghe ampie, che costituivano la parte più redditizia della costruzione. Il piano nobile ha quasi le stesse dimensioni del piano superiore, e soltanto un maggiore risalto delle paraste individua il carattere più decoroso del primo piano rispetto al secondo. Entrambi i piani sono scanditi da cornici, che nel secondo si semplificano fino a diventare una semplice evocazione dell’ordine sottostante. Le cornici che al secondo piano proseguono le paraste oggi sono di difficile lettura. Il palazzo si presenta in un brutale accostamento di pietra e mattoni, ma forse fu progettato con un completamento in stucco colorato che avrebbe dato maggiore corpo alle lesene e ai piani retrostanti. Il rivestimento avrebbe annullato il contrasto tra pietra e mattoni, riportando l’intera facciata a un rilievo preziosamente intagliato e illusivamente completato da specchiature policrome in finto marmo. 277

La sensibilità pittorica di Raffaello, poco intelligibile in quest’opera rimasta per lungo tempo incompiuta, risalta invece pienamente nel terzo palazzo che egli realizzò per un ricco mecenate, il Palazzo Branconio dell’Aquila, sempre in Borgo. Giovan Battista Branconio dell’Aquila, ricco cortigiano di Leone X e collezionista di monete antiche, iniziò la costruzione del palazzo nel 1518, affidandola all’artista più in voga della città e ai suoi collaboratori. Nel palazzo, visibile dalle logge pontificie, investì la sua fama di esperto numismatico. Ne nacque un edificio che già nel 1520 veniva celebrato come «l’edificio più festoso che si fosse visto»12. Al pian terreno tornano ancora una volta le colonne distanziate in maniera da inquadrare archi elegantemente modanati e sorreggere una cornice che separa con un forte aggetto il piano nobile. Qui Raffaello concepisce un’articolazione decorativa decisamente innovativa. In corrispondenza delle colonne, nel piano soprastante, apre nicchie profonde che separano le finestre inquadrate da timpani alternativamente triangolari e curvilinei, che per la loro dimensione acquistano un valore espressivo autonomo. Nello spazio che separa il vertice dei timpani dalla cornice del piano superiore trovano alloggiamento dei festoni floreali in stucco, che inquadrano medaglioni con profili di uomini illustri e che richiamano la passione numismatica del committente. Al piano superiore l’attico alterna finestre a cornici quadrate, all’interno delle quali c’erano originariamente dipinti policromi o secondo alcuni rilievi in stucco. L’uso disinvolto dell’ordine classico raggiunge in questo palazzo un virtuosismo senza precedenti. Il repertorio antico è riformulato con un gusto decorativo ricco ed esuberante, tenuto a freno da una sensibilità pittorica capace di distribuire colonne, cornici, festoni e dipinti senza mai cadere nella confusione e nella ridondanza. Il palazzo sembra scivolato accanto al Tevere da un paese di favola o direttamente dal so278

gno della Roma ricostruita attraverso le ricerche che impegnavano negli stessi anni committente e architetto. Scultura, pittura e architettura si fondono questa volta nel difficile equilibrio della facciata, seguendo al solito uno schema che rende autonomi i diversi piani ma li tiene uniti dalla sapienza proporzionale e dalla sicurezza con la quale i singoli vocaboli del linguaggio classico sono estrapolati dalla loro originaria sintassi e ricollocati con un nuovo gusto evocativo, capace di rivitalizzarli e di reimmetterli nel patrimonio di immagini a cui erano ormai abituati gli abitanti della città. Così come Raffaello era partito evocando con la pittura la composita ricchezza dell’architettura antica, in questa fase della sua carriera l’esperienza di architetto è così matura da piegare un edificio tridimensionale a una suggestione pittorica mai vista prima, e capace di sfruttare le migliori possibilità espressive delle tre arti – architettura, pittura e scultura – per evocare il linguaggio di Roma antica.

CAPITOLO 8

UN ARTISTA NUOVO

1. IL PALAZZO INACCESSIBILE

Nei primi mesi del 1515 Raffaello governava la scena artistica romana e italiana come nessuno prima di lui. L’apice del suo successo è confermato anche dalle pressanti richieste inoltrategli dai due maggiori collezionisti italiani del tempo, Isabella d’Este, marchesa di Mantova, e suo fratello Alfonso, duca di Ferrara. Entrambi, pur avendo già raccolto nei loro palazzi le opere dei pittori più importanti, consideravano ormai mutile le loro collezioni senza un quadro di Raffaello. Isabella incaricò della commissione Agostino Gonzaga, ma questi, arrivato a Roma ai primi di giugno del 1515, la avvertì subito che l’artista era molto impegnato anche se si dichiarava intenzionato a servirla: «Io parlai cum Raphael da Urbino circha il quadretto che voria la Ex.tia Vostra di man sua. Così lo disposi ad volerlo fare, e farallo, ché ancor che esso habbia da fare assai, pur per essere esso tanto servitore di V. Ex.tia quanto el possi essere, si è risciolto di volerlo fare per ogni modo»1. Infaticabile persecutrice di artisti alla mo283

da, Isabella vide derogare le sue richieste per mesi e poi per anni, nonostante per raggiungere il suo scopo potesse avvalersi del fedelissimo Baldassarre Castiglione, uomo nobile di nascita e di talento che per servire la marchesa arrivò a obbligare Raffaello a dipingere in sua presenza, pur sapendo però che appena lui lasciava la casa l’artista abbandonava l’opera (che non vedrà mai la fine). Ancora più serrato fu l’assedio che Alfonso d’Este iniziò già nel dicembre del 1514, quando incaricò suo fratello, il cardinale Ippolito, di commissionare a Raffaello un quadro per il suo gabinetto personale. Anche a lui Raffaello promise parole: per settimane, per mesi e poi per anni, fino a pochi giorni prima della morte che lasciò il duca privo del suo desiderato dipinto. La costanza e l’insistenza con le quali Alfonso perseguitò Raffaello attraverso i suoi emissari furono tali che la loro corrispondenza rimane la cronaca più viva degli ultimi anni di vita dell’artista, delle sue abitudini, delle sue attività e dei suoi tentativi di esaudire i desideri di un’intera nazione che reclamava i suoi servizi. Prima ancora che uomo d’arte, Alfonso era uomo d’armi. Aveva resistito a Giulio II grazie all’artiglieria che lui stesso aveva fuso ed era rispettato come uno dei maggiori principi italiani, tanto che, nonostante le decine di lettere scritte ai suoi ambasciatori per sollecitare il quadro di Raffaello, non fu mai lui a scrivere direttamente all’artista, neppure quando glielo consigliarono gli ambasciatori stessi. A un principe del suo rango sembrava troppo umiliante l’idea di rivolgersi in prima persona a un artista: «Non ci pare di scrivere a Raphael da Urbino secondo il vostro ricordo, ma volemo che voi lo troviate e gli dicate havere lettere da noi, per le quali vi scrivemo che sono hoggimai tre anni che esso ci dà parole; e che questi non sono termini da usare con pari nostri: e che se esso non satisfa a quanto ci ha promiso, noi faremo sì che’l cognoscerà che’l non habbia fatto bene ad ingannarci. E poi, 284

come da voi, gli potrete dire che egli advertisca di non provocare l’odio nostro ove gli portamo amore; ché, così come observandoci la fede può sperar di valersi di noi, così per il contrario non ce la servando può expettare un giorno di quelle cose che gli rincrescano»2. Alfonso non esitava a minacciare Raffaello, ma era troppo lontano dalla Roma di Leone X per capire cosa era diventato un grande artista sulla scena mondana. Troppo lontano per capire che gli artisti potevano considerarsi più importanti perfino dei cardinali, tanto che Raffaello stesso per molto tempo si aspettò la nomina a principe della Chiesa per i servizi e i crediti accumulati con il papa. È anzi proprio la lontananza di Alfonso d’Este, che pure rappresentava la cultura di corte più aggiornata d’Italia, a darci la misura di quanto l’artista fosse andato avanti nell’esplorazione di nuovi territori intellettuali legati all’immagine e alla comprensione del mondo. La trattativa di Alfonso per avere da Raffaello un quadro con un baccanale si protrasse per sei anni. I documenti pervenutici al riguardo sono almeno sessantasette, incluse quattordici lettere scritte direttamente da Alfonso ai suoi ambasciatori per sollecitare l’opera. Perfino da Parigi, dove era andato a chiedere l’aiuto di Francesco I per la riconquista di Modena, il duca guerriero aveva la mente rivolta al quadro tanto desiderato: «Scrivete a Roma a Mons. De Adria che faccia sollicitare la nostra pictura che fa Raphael da Urbino»3. L’ultima lettera è del 21 marzo 1520, poco prima della morte dell’artista. I molti impegni di Raffaello con la corte pontificia non bastano a spiegare da soli il suo rifiuto di lavorare a quest’opera. In questi stessi anni, Raffaello trovò comunque il tempo di dedicarsi a opere di carattere privato come i ritratti delle sue amanti o dei suoi amici. Avrebbe poi potuto contare sull’aiuto dei suoi allievi, ormai diventati maturi pittori. Sembra piuttosto che non fosse più interessato a opere come quelle che gli chiedeva Alfonso. Rappresentare una scena mitologica era un 285

esercizio di stile che forse non lo attraeva più. Anche il suo atteggiamento nella realizzazione della Loggia di Psiche, per il suo protettore e mecenate Agostino Chigi, racconta di questa insofferenza. L’ideazione del ciclo decorativo è attentissima, come pure lo è l’organizzazione del lavoro dei suoi collaboratori. Ma la sua autografia è in queste pitture molto limitata, ridotta al punto minimo per poter gratificare l’amico. L’intervento autografo del maestro si riduce ad alcuni triangoli delle vele, dove sono allineati i migliori nudi di donna del Cinquecento. Nei riquadri principali della volta e negli altri triangoli sono fin troppo evidenti gli interventi degli allievi. In questi anni Raffaello era interessato ad altro, e Roma ribolliva di energie intellettuali concentrate su traguardi che andavano molto oltre una ricerca di perfezione formale, peraltro già raggiunta nella seconda delle stanze vaticane e nei quadri di devozione databili intorno al 1515, come la pala di santa Cecilia. Dal 1514 a Roma era venuto a stare Leonardo da Vinci, protetto da Giuliano de’ Medici e alloggiato negli appartamenti di Belvedere in Vaticano. Leonardo portava avanti i suoi studi anatomici, in particolare indagava la riproduzione dedicandosi attivamente alle dissezioni di donne morte gravide. Il suo acume e la sua voracità intellettuale lo avvicinavano pericolosamente a temi scabrosi sul piano teologico e filosofico. Stavano infatti toccando un argomento che angustiava non poco gli intellettuali della curia: la formazione dell’anima e la sua immortalità. Intorno a questo tema si stava operando la prima forte lacerazione tra teologia e filosofia del Rinascimento, senza che i due diversi punti di vista si riuscissero a ricomporre. Leone X, che non fu solo organizzatore di feste sontuose, aveva promulgato nel dicembre del 1513 la bolla Apostolici regiminis, che condannava senz’appello i filosofi che sostenevano la tesi della mortalità dell’anima intellettiva. La vittima più illustre di questo giro di vite fu il celebre umanista Pietro Pomponazzi, che nel 1516 pub286

blicò un trattato dal titolo De immortalitate animae, subito condannato e bruciato dopo un intervento diretto di Leone X. Anche gli studi di Leonardo si stavano orientando pericolosamente vicino a questo terreno, e le critiche e le maldicenze, trasformate in delazioni, cominciarono a piovere sul grande vecchio adorato dalla casa regnante. Una traccia di questo ambiguo periodo di Leonardo è nel passo che comparve nella prima edizione delle Vite del Vasari, pubblicata nel 1550: «Per il che [Leonardo] fece nel’animo un concetto sí eretico, che e’ non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai piú lo esser filosofo che cristiano». Il passo fu prudentemente espunto dalla seconda edizione delle Vite, stampata in piena epoca controriformista nel 1568. L’essere filosofo, anche con le conseguenze che comportava, era sicuramente l’ambizione di Leonardo. Egli intendeva la filosofia come studio e comprensione intellettuale del mondo, e questa comprensione includeva in quegli anni, non certo in posizione marginale, anche lo studio dell’antichità. Lo dimostra un passo di Marco Antonio Altieri che ritrae la vicinanza degli interessi dei filosofi e degli archeologi che si mescolavano nei circoli romani al tempo di Leone X, uomini «dediti alli studij contemplativi de natura e curiosi observatori de le antiquità romane»4. Si può cogliere qui immediatamente la vicinanza di Raffaello a Leonardo e ai fermenti intellettuali coltivati nelle avanguardie filosofiche dell’epoca. Sono testimonianza di questo coinvolgimento proprio le gite primaverili compiute da Raffaello nei siti antiquari, non in compagnia di architetti e disegnatori bensì di filosofi, come racconta Pietro Bembo in una lettera al cardinale Bibbiena: «Io col Navagiero e col Beazzano e con M. Baldassar Castiglione e con Raphaello domani anderò a riveder Tivoli, che io vidi già un’altra volta XXVII anni sono»5. Insomma la presenza di Leonardo in Vaticano agì probabilmente in una direzione di maggiore «intellettualizzazione» 287

dell’arte e della vita di Raffaello, che ne subì nuovamente l’influenza ipnotica anche nelle opere pittoriche del periodo. L’esperienza leonardesca diventò subito il centro di un interesse più vasto nel momento in cui Raffaello iniziò la ricostruzione della pianta di Roma antica, impresa che esaltava i filosofi molto più degli architetti. Non lascia molti dubbi al riguardo l’entusiasmo con il quale un filosofo di altissimo rango, Celio Calcagnini, racconta questa impresa a un suo pari, Jacob Ziegler, nel 1519. Nel suo racconto Calcagnini descrive anche Fabio Calvo da Ravenna come un filosofo quasi toccato dalla santità, che consuma le sue giornate nutrendosi di verdure e lattuga come un vecchio pitagorico, e che nei giorni della sua malattia viene curato amorevolmente proprio da Raffaello, nella cui casa stava traducendo Vitruvio. Questa intellettualizzazione della ricerca non poteva non avere conseguenze anche sulla pittura. Ormai quasi disinteressato alle storie e alla maniera di raccontarle, nei suoi anni più fertili Raffaello concentra la sua vitalità creativa nei ritratti, che raggiungono un vertice di perfezione mai più toccato da nessun altro dopo di lui. Egli predilige ormai soggetti familiari come gli amici e le amanti, nei quali può spingere più a fondo la ricerca psicologica. Già con i ritratti di Giulio II e Fedra Inghirami, databili agli anni 1511-12, aveva dimostrato una straordinaria capacità di resa psicologica e di restituzione naturalistica. Ma se si confrontano questi ritratti con quelli dipinti dal 1515 in poi, a cominciare dal ritratto del cardinale Bibbiena oggi alla Galleria Palatina di Firenze [Fig. 72], la differenza balza subito agli occhi. Nel ritratto del cardinale, le stoffe e gli incarnati prendono una evidenza corporea che manca ai quadri precedenti. Abbandonando lo sfumato impalpabile dei trapassi chiaroscurali, Raffaello concentra le luci e le ombre in cerca di contrasti drammatici. I dettagli sono descritti con minuzia fiamminga, ma non scivolano mai nella resa meramente natura288

listica. Negli occhi di Bibbiena compare una luce nell’iride come un formidabile guizzo di vitalità. I contorni delle mani non sfumano più e lo scorcio perfetto ne ferma il movimento come un’istantanea. I vestiti acquistano una loro luminosità e la consistenza delle stoffe è restituita con precisione scientifica. Degli anelli si può indovinare il peso e il costo, tanto che al confronto quelli sulle dita di Giulio e dell’Inghirami sembrano di oro falso. Il cardinale fatica a stare fermo nella sua poltrona, nervoso, uomo sempre in azione. Sul braccio sinistro la cappa si solleva dal lino plissettato e crea uno spazio di penombra in cui si vorrebbe guardare dentro. I contorni diventano taglienti, sottolineati da un impercettibile filo chiaro che prende il posto dalla sfumatura scura con cui terminavano nei ritratti precedenti. Per trovare un altro uomo catturato vivo dalla tela, di fronte al quale si avverte l’imbarazzo del suo giudizio su di noi che guardiamo, bisogna andare indietro ai ritratti di Antonello da Messina e ai suoi sfrontati marinai. È un cambiamento che riflette lunghe e acutissime riflessioni sulla luce e sulla percezione ottica. Anche l’intensità dei toni cromatici contribuisce a focalizzare la figura in modo nuovo. La cappa rossa con toni freddi di alzarino è diversa dal cappello e dal bordo della cotta rosso fuoco che sporge sotto la camicia bianca. Perfino il Giulio II sembra ormai lontano. Il ritratto del Bibbiena inaugura una nuova stagione stilistica, fermentata da Leonardo e dall’intenzione di ricreare una evidenza tattile della figura nello spazio. Lo sfumato nebbioso, che ancora nella Madonna della seggiola allontanava i dettagli delle figure come un vetro leggermente offuscato messo tra il quadro e l’osservatore, cede ora il posto a un contrasto luministico che rende viva la carne, sempre sul punto di muoversi. Tutti questi caratteri nuovi tornano con evidenza ancora più magistrale nel Doppio ritratto di Agostino Beazzano e Andrea Navagero [Fig. 38], in quello di Baldassarre Castiglione [Fig. 39] 289

e nel Doppio ritratto in cui si ritrae con un amico [Fig. 40], quadri tra i più perfetti mai realizzati da Raffaello dopo il 1516. Nel ritratto di Castiglione, l’accordo cromatico gioca un ruolo fondamentale nella costruzione del clima psicologico del quadro. Il vestito è un’unica variazione del nero, velato di verde, schiarito sulle maniche dai riflessi sfumati e cancellato al centro dal bianco luminosissimo della camicia. Il fondo neutro, irreale, non lascia via di fuga all’occhio e contribuisce all’isolamento della figura, che diventa apparizione. L’allentamento dei riferimenti realistici a uno spazio e un tempo riconoscibili provoca una sensazione inquietante, emotivamente molto coinvolgente. (Tre secoli dopo Manet riprenderà fedelmente questa formula nei ritratti della sua amata Berthe Morisot, celebrando in maniera inoppugnabile la grandezza di Raffaello.) La pelliccia che avvolge l’uomo sopra il giubbone di velluto nero manda riflessi argentati che toccano nella camicia bianca sporgente sotto la barba una intensità di luce fortissima. Dello scrittore vediamo gli occhi azzurri che affiorano dalla sagoma scura e il contrasto della fronte luminosa con il grande cappello che si appiattisce contro lo sfondo di media intensità luministica. È come se i vestiti e l’atmosfera della stanza e la loro evidenza naturale arretrassero per lasciare spazio a quello sguardo che è il vero protagonista di un’immagine che non ha parentele con i modelli precedenti. Nei due ritratti doppi Raffaello si cura ancora meno di rendere credibile lo spazio fisico e avvicina le figure senza troppo rispetto per le leggi prospettiche, fino a scurire i fondi in maniera da lasciare affiorare dalla penombra i volti che diventano l’origine della luce dispersa nel quadro. Fino ad allora il ritratto si era preoccupato di restituire al meglio il contesto materiale e sociale del protagonista. Raffaello lo sposta in una dimensione differente, con una tensione psicologica tanto forte, liberata da ogni episodicità, da risultare ipnotica. L’unico precedente di ritratto psicologico – insieme a quelli 290

leonardeschi che non a caso Raffaello aveva sotto gli occhi in questi anni, quando andava a trovare il grande vecchio in Belvedere – è costituito dai ritratti di uomini illustri dipinti da Berruguete nello studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino. Ma per essere questi una evocazione astratta di uomini ormai morti, sono privi di quella prepotenza vitale che affiora nei ritratti tardi di Raffaello. Il processo di selezione e di analisi psicologica del soggetto era il primo passo verso questo traguardo. Raffaello studiava i suoi amici (e se stesso) fino a individuare il lampo che coglieva la verità profonda dell’anima. È quel lampo che riusciva a far brillare sulla tela, intenso fuggevole e abbacinante. Se ne accorse benissimo Pietro Bembo, il quale lo raccontò a Bibbiena con la lucidità e l’eleganza inarrivabile della sua prosa: «Raphaello, il quale riverentemente vi si raccomanda, ha ritratto il nostro Thebaldeo tanto naturale che egli non è tanto simile a se stesso, quanto gli è quella pittura»6. Un modo superbo per dire che l’arte ha superato la natura! Ma questo procedimento non ha niente di istintivo o improvvisato, perché Raffaello costruisce ogni ritratto partendo da una immagine «ideale» e addirittura stereotipa dell’uomo e della donna. I ritratti finiti di Raffaello hanno tutti in comune alcuni tratti tipici del loro autore anziché dei soggetti rappresentati: l’arco sopracciliare curvo come un segmento tirato con il compasso, il taglio regolare dell’occhio a mandorla, l’ovale proporzionato del viso con il mento piccolo. Sono i tratti che si rincorrono nei suoi personaggi e che hanno spesso indotto la critica a identificare nella stessa persona donne diversissime come la modella della Velata e quella della Fornarina. Per non parlare dell’insostenibile identificazione della Donna con il liocorno nella Maddalena Doni. Ma la base di partenza è il suo «ideale», che lo aiuta come una preziosissima cornice in cui incastrare frammenti di materia e di spirito in sé inafferrabili. La ricorrenza di una matrice stilistica ideale, uni291

ta alla capacità di sposarla con le fisionomie dei personaggi ritratti, è il segreto che gli permette di dipingere persone più somiglianti a se stesse nei quadri che nella realtà, come nota felicemente Pietro Bembo. La realtà non intralcia la costruzione artistica, ma con perfetto controllo Raffaello la smonta e la rimonta tenendola a freno. La luce soprattutto, che ha rubato a Leonardo, viene utilizzata per impreziosire e purificare gli incarnati, anche quando si tratta di uomini anziani come il Castiglione, a cui incanutisce la barba, o di uomini dai tratti poco armoniosi, come quelli di Andrea Navagero con i suoi occhi sporgenti e il doppio mento. Raffaello tiene a bada gli accidenti naturali incastrandoli in una struttura ideale, che garantisce di per sé il fascino del ritratto. La materia diventa allora un affioramento di luce e di colore governati da un disegno che toglie volgarità ai lineamenti. Proprio nei ritratti degli amici Raffaello porta più avanti questo processo creativo, liberandosi della necessità delle insegne sociali a cui era costretto in ritratti ufficiali come quello di Lorenzo de’ Medici, che disperde in una fastidiosa narrazione merceologica il talento dell’artista. Velluto, oro, pelliccia e seta debbono essere narrati in questo dipinto per decoro sociale, come pure devono essere raccontati dettagliatamente i lineamenti dell’aspirante principe e la moneta che ha in mano, simbolo di munificenza, e la spada al fianco, simbolo di un valore militare peraltro smentito dalla sua biografia. Questo ritratto dimostra, purtroppo, come anche le ricerche e il talento di Raffaello potessero essere sperperati se allontanati da quella libertà speculativa in cui si identificava e dal circolo di amici coi quali viveva esaltazioni intellettuali incomprensibili a molti. Accostata al fragore cromatico del ritratto di Lorenzo (che certo Raffaello non poteva amare dopo che aveva usurpato il ducato di Urbino ai suoi principi), la sobrietà dei ritratti suoi e degli amici non può essere casuale. È un’affermazione del potere inarrivabile dell’intel292

ligenza e della creatività, di cui questi uomini sembrano essere consapevoli per la prima volta. Nel ritratto di Beazzano e Navagero, l’ombra cancella in parte la consistenza carnale degli uomini a vantaggio del sentimento che si impossessa delle fisionomie rendendole immensamente espressive. Pure la figura che si gira indietro nel Doppio ritratto, identificata da una leggenda come il suo maestro di scherma, con la sua posa scorciata è capace di comunicare bellezza e regalità intellettuale, come se Raffaello volesse dimostrare che quegli uomini condensavano nei propri atteggiamenti la bellezza e la sapienza anche senza mettersi in posa e senza indossare vestiti di particolare riguardo. Vestiti scomparsi nel nero che prepara i visi come un silenzio di concentrazione. Non può essere casuale, infine, che nella realizzazione di tutti questi ritratti, di destinazione privata e di intima ricerca, Raffaello utilizza la tela e non la tavola. Sia il ritratto di Castiglione, sia i doppi ritratti di Agostino Beazzano e Andrea Navagero e l’autoritratto in compagnia dell’amico, i dipinti decisamente più enigmatici e moderni di tutta la produzione raffaellesca, sono eseguiti a olio su tela. Questa tecnica gli permise certamente di assecondare il suo desiderio inquieto di sperimentare e scavare l’anima delle persone che amava e che conosceva meglio per arrivare ai risultati eccellenti cui arrivò. La leggerezza dei supporti, la facilità dell’essiccazione e delle modifiche della pittura erano l’ideale per una ricerca sperimentale che probabilmente proseguiva fin nella camera da letto del suo elegante palazzo. La profondità insondabile da cui appaiono i volti di questi ritratti è frutto delle velature pastose date a olio per strati successivi. Difficilmente una tempera, con i suoi effetti di metallo appiattito o smaltato, poteva raggiungere l’ambiguità spaziale da cui affiorano gli uomini. La singolarità tecnica che accomuna questi ritratti li rende ancora più preziosi e li indica come la vera chiave per accedere alla psicologia complessa e irrequieta del 293

Raffaello maturo, da cui trarranno linfa anche i dipinti destinati a una committenza istituzionale e come tale destinataria di un prodotto più conformista. Ma la scelta di sperimentare per sé, di destinare a se stesso la propria ricerca, scandisce il tratto veramente moderno di Raffaello, destinato a precorrere i fermenti più inquieti dell’arte moderna fino a diventare norma con le avanguardie del tardo Ottocento. Un tratto, questo dell’irrequietezza e della fascinazione sperimentale, sepolto dal riciclaggio dell’artista in funzione di uno stereotipo aggraziato e devozionale, che la cultura controriformista estrarrà dalla sua produzione a discapito di tutto il resto, semplificando l’uomo e l’opera per servirsene meglio. Questa maniera drammatica, dal forte contrasto luministico, affiora anche nei dipinti commissionati da Leone X intorno al 1518 per farne omaggio politico al re di Francia Francesco I. Anche qui la grazia del disegno e delle attitudini, che è inconfutabilmente il tratto genetico della pittura di Raffaello, viene messa in movimento da un chiaroscuro che da uno spazio ambiguo e inafferrabile lascia affiorare soltanto quelle fisionomie che contribuiscono a creare un dialogo psicologico. I gesti e il significato del quadro si possono cogliere immediatamente e nel profondo dell’anima e della percezione sensuale seguendo la guida ineffabile della luce che sfiora i personaggi, ne accende le espressioni e costruisce il racconto. Nella Sacra Famiglia [Fig. 41] è il bagliore accecante del cuscino bianco di una culla, peraltro troppo piccola, su cui il Bambino poggia il piede, a risalire vivido lungo la schiena, e il braccio che si appoggia su quello della madre e ci guida ancora più in alto verso il volto inclinato e la fronte radiosa che stempera la luce nelle onde dei riccioli d’oro. Altri guizzi brevi e nervosi colgono la sciarpa sulla testa di sant’Anna, la ghirlanda di fiori tenuta dall’angelo, la spalla di san Giovanni Battista e la fronte pensosa di san Giuseppe. Il resto scompare in una penombra dove i gesti si placano come la gamba sinistra del Bambino. 294

Lo stesso contrasto vale per il San Michele debella Satana [Fig. 43], del quale ci è rimasto anche il disegno preparatorio [Fig. 42] a testimoniare quanto potesse rendere potente l’immagine la luce drammatica con la quale Raffaello colpisce le sue figure. Il gesto della figura disegnata appare lieve come quello di una danza di adolescente, resa addirittura gioiosa da quell’arrotolarsi della lunga sciarpa a destra e a sinistra dell’angelo. Nel dipinto ci colpisce immediatamente la sagoma enorme e scura dell’ala, che crea un vuoto inquietante nella visione e prepara il gesto abbagliante delle braccia che alzano la lancia che sta per trafiggere il diavolo, diventato un ammasso indistinto di muscoli. Lo stesso gesto nel disegno non appare ugualmente significativo. I colori sono tenuti bassi volutamente per non interferire nel racconto affidato alla luce. Sembra quasi un monocromo, il che stupisce se si pensa alla cura e alla sfolgorante bellezza dei rossi e degli azzurri di Raffaello. Un compiacimento virtuoso, quasi dissacrante, è nell’ala che somiglia a quella dei pappagalli tenuti nelle voliere di Leone X e puntualmente disegnate da Giovanni da Udine con precisione da zoologo. Quelle di Satana sono copiate da un pesce esotico e sembrano inabili al volo, condannando la creatura ad abitare soltanto gli inferi intravisti nel fiotto di fuoco in basso a sinistra. La scena ha una forte verticalità, san Michele sembra mantenersi in equilibrio sul piede poggiato sulla schiena di Satana, gravandogli con tutto il peso del corpo. Fedele alla grazia equilibrata delle sue figure, Raffaello contiene l’espressione del santo più ancora che nel disegno, dove aggrotta la fronte in un’espressione più partecipata. Nel dipinto si compie con calma un destino ineluttabile senza partecipazione teatrale, come si addice alla divinità. Raffaello mantiene così un carattere decisamente classico alla composizione, delegando all’azione e alla luce la drammaticità. La scena coinvolge lo spettatore ma senza turbarlo, come voleva la «sprezzatura» e come era appropriato in un dipinto destinato al re di Francia. 295

2. INVIDIE

Quasi una trasposizione letterale di questo schema compositivo che stava velocemente procedendo verso l’invenzione di un linguaggio nuovo e più drammatico, tutto volto a restituire la psicologia degli uomini, si trova in uno degli ultimi dipinti di Raffaello, la Trasfigurazione [Fig. 46]. Qui luce e ombra si affrontano nella parte inferiore del quadro per intagliare velocemente nel colore una gamma di sentimenti di stupore e di panico. Il dipinto fu commissionato da Giulio de’ Medici per destinarlo alla chiesa francese di cui era titolare. Doveva essere collocato di fronte a un altro dipinto, commissionato a Sebastiano del Piombo, con la resurrezione di Lazzaro. Anche la Trasfigurazione era in realtà una premonizione della resurrezione, e in essa Raffaello unì insieme più episodi tratti dalla Bibbia. In alto si vede Cristo librato in aria. Il riferimento è a un passo del Vangelo di Matteo: «Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte sopra un alto monte. E si trasfigurò alla loro presenza e il suo volto risplendette come il sole, le sue vesti divennero bianche come la luce. Ed ecco che apparvero loro Mosè, ed Elia a colloquio con lui» (Matteo, XVII, 1-9). Ciò che viene generalmente ignorato nell’esegesi di quest’opera, forzatamente collocata come inizio dell’esasperato manierismo successivo, è che Raffaello doveva fare i conti con una tradizione figurativa che aveva rappresentato l’evento come uno sconvolgimento della coscienza dei testimoni. Un precedente molto importante, che prova l’esistenza e la diffusione al tempo di Raffaello di un’iconografia successivamente scomparsa, risale addirittura alla tradizione bizantina della rappresentazione delle Scritture7. 296

Nella parte inferiore del dipinto Raffaello racconta la guarigione del fanciullo indemoniato che gli apostoli non riuscivano a guarire perché non avevano abbastanza fede in Cristo. La scena è altamente drammatica, con la fisionomia stravolta del ragazzo e la disperazione del padre che lo sostiene sulla destra. Una figura femminile, in primo piano in una complicata torsione, indica agli apostoli il ragazzo. Gli apostoli si mostrano stupiti di quella visione mentre Paolo con il mantello rosso indica l’apparizione di Cristo che darà la forza per guarire il fanciullo. Unire scene differenti in uno stesso dipinto senza perdere l’unità di spazio e di tempo era una sfida molto problematica per Raffaello. Ma fu risolta proprio grazie alla luce, o meglio all’ombra che isola quanto basta le figure per potere leggere il racconto solo grazie alla efficace mimesi dei gesti, sottolineata come già nei dipinti precedenti da una luce abbagliante e selettiva che guida lo sguardo lungo gli eventi essenziali tacendo tutto il resto. Per ottenere questo effetto Raffaello abbandona definitivamente ogni legge naturalistica, come aveva fatto sotto i suoi occhi Leonardo, che circondava d’ombra le sue ultime figure per concentrarsi sulla loro gestualità. Nella grande pala la luce illumina miracolosamente solo ciò che contribuisce al racconto. Pur abbagliando le spalle di Paolo e il collo di Pietro, seduto a terra con un grande libro aperto, lascia completamente al buio la parte anteriore dei loro corpi, come se a illuminare una scena notturna fossero dei sottili intensissimi raggi puntati su ogni singola figura. Solo la figura femminile in primo piano, allegoria della fede e della carità insieme, è interamente illuminata. Sta già pregando in ginocchio per evocare Cristo. In questo modo, e con l’aiuto di un disegno che studia minuziosamente ogni dettaglio, ogni piega di panneggio e ogni gesto, Raffaello narra una storia complessa senza renderla retorica e senza allentare la tensione dello spettatore, che si concentra come fosse di fronte a un unico drammatico gesto. 297

Nel frattempo, nell’estate del 1518, i dipinti commissionati per Francesco I erano stati con molta cura spediti in Francia. Non prima però di essere mostrati alla città per inorgoglire il munifico committente. Tutti colsero le grandi novità che Raffaello, instancabile ricercatore, mostrava nell’ultima sua maniera. Colsero esattamente la novità del suo luminismo drammatico. Ma non lo capirono. Soprattutto non lo capì Sebastiano del Piombo, che cercò complicità e conforto in Michelangelo, unito a lui a Firenze nell’odio per l’irrequieto urbinate. Sebastiano era uscito umiliato dal confronto tra il suo Polifemo e la Galatea di Raffaello nel palazzo di Agostino Chigi. Non vedeva dunque l’ora di rivalersi sul nemico e continuava a vedere l’opera di Raffaello attraverso gli occhi velati dall’odio, aspettando l’occasione propizia che gli sembrò offerta dalla Trasfigurazione commissionata da Giulio. Anche quando vide i dipinti destinati alla Francia si affrettò a criticarli in una lettera indirizzata proprio a Michelangelo: «Duolmi ne l’animo non sette stato in Roma a veder dua quadri che son iti in Franza del principe de la sinagoga, che credo non vi possete imaginar cossa più contraria a la opinion vostra de quello haveresti visto in simel opera. Io non vi dirò altro che pareno figure che siano state al fumo, o vero figure de ferro che luceno, tutte chiare et tutte nere, et desegnate al modo ve dirà Leonardo [Leonardo Sellaio, amico comune]. Pensatte come le cosse vanno: dua bravi hornamente, recette dà Francesi»8. Divorato dall’invidia per il successo e il coraggio del rivale, il povero Sebastiano si illudeva di poter vincere la sfida impossibile a colpi di teste dipinte, come un pittore medievale che computava le aureole d’oro e i volti dei santi per valutare la preziosità del quadro. Raffaello era lontanissimo da tutto questo. Ignorava perfino che ci fosse una sfida possibile, perché non frequentava artisti ma principi e filosofi e rendeva inaccessibile il suo palazzo in Borgo. E aveva ragione, perché meglio degli artisti lo capivano i suoi amici letterati. Pietro 298

Bembo lo capì al punto da dare forma con la sua raffinatissima prosa a un pensiero che ancora oggi non è stato espresso meglio: Raffaello, per lui, era andato finalmente oltre la mimesi naturalistica ricercata dai pittori del primo Rinascimento. Tutto questo meritava all’artista l’amicizia dei migliori spiriti, considerati suoi pari. Mentre Bembo scriveva la sua lettera al Bibbiena, nella sua camera entrò proprio Raffaello, come se fosse stato evocato. Subito dopo entrò il Castiglione. Compiaciuto di quella circolarità di pensieri e di eventi, il Bembo si affrettò a farne partecipe il suo interlocutore, sapendo di suscitarne l’invidia: «Hora hora avendo io scritto sin qui, m’è sopragiunto Raphaello, credo io come indovino che io di lui scrivessi (...). Per Dio non è burla, che hora hora mi sopragiunge medesimamente M. Baldassar, il quale dice che io vi scriva (...)»9. Legati da strettissima amicizia, Bembo e Castiglione erano gli uomini che da soli avrebbero potuto cambiare la cultura italiana di quel secolo. Erano uniti da un progetto di vita ambiziosissimo: sposare la politica con la civiltà e la cultura. Intorno a loro c’era la corte romana e una città resa irriconoscibile dalle trasformazioni degli ultimi anni, come certificavano i viaggiatori rimasti assenti per qualche tempo. Raffaello non poteva davvero vivere in un altro luogo, se non in quel palazzo dove solo i suoi amici avevano accesso a tutte le ore. Incautamente ci provò una sera dolce di settembre, nel 1519, tra l’odore di stoppie bruciate, l’ambasciatore di Alfonso d’Este, per andare a reclamare i servigi richiesti dal suo padrone: «Tornando in questa sera a casa, e trovata la porta de Raphael Urbino aperta ve intrai, tenendo per fermo poter veder quanto desiderava. E facto adimandare, messer Raphael me fece respondere non poter venire a basso; e smontato per andare de sopra, vene un’altro servitore che me disse era in camera con messer Baldesera da Castione, che’ lo retragieva, e che non se li potea parlare»10. 299

Come avrebbe potuto capire un comportamento del genere il duca di Ferrara? Quale nobiltà, quale regno vantava Raffaello da Urbino per sbarrare il passo a un suo familiare? Eppure lui stesso cedette al proprio desiderio di possedere un’opera dell’artista, continuando a implorarlo fino a pochi giorni prima della morte senza rassegnarsi mai. Ma come l’amore, l’arte dell’Urbinate non era in vendita, almeno a un principe qualsiasi. Soltanto al papa e alla sua famiglia Raffaello non poteva negarsi, benché anche loro finirono per impiegarlo in tante e tali committenze da sfinirlo. Per le committenze papali Raffaello non poteva, se non molto superficialmente, servirsi dell’aiuto dei suoi premurosi discepoli, che vegliavano anche a casa sua sulla sua quiete e sbarravano risolutamente il passo agli estranei.

3. IL RITORNO DI VENERE

Ancora più feroci dei commenti rivolti da Sebastiano del Piombo all’indirizzo della Trasfigurazione, furono i commenti che Michelangelo, Leonardo Sellaio e lo stesso Sebastiano si scambiarono quando venne scoperta la Loggia di Psiche il primo gennaio del 1519: «È schoperta la volta d’Agostino Ghisi, chosa vituperosa a un gran maestro, pegio che l’ultima stanza di Palazo asai; di modo che Bastiano non teme di niente»11. La distanza di Raffaello da Sebastiano del Piombo e Michelangelo non poteva essere più grande. E non soltanto perché Sebastiano e Michelangelo erano stati estromessi dal mercato romano. Sebastiano aveva dovuto interrompere la decorazione della Loggia d’inverno di Agostino Chigi quando questi aveva intravisto la possibilità di avere dipinti di mano 300

dell’Urbinate. La possibilità era poi sfumata per i troppi impegni di Raffaello, ma intanto aveva provocato l’allontanamento di Sebastiano dal palazzo in riva al Tevere. Michelangelo, da parte sua, aveva interessi troppo monumentali per inseguire committenze private seppure eccellenti, e quelle della corte pontificia erano saldamente in mano al rivale. La loggia che scandalizzava i due artisti era d’altronde l’ultima tappa di una ricerca creativa che aveva portato Raffaello a resuscitare «in carne e ossa» gli antichi dèi pagani e la gioia di vivere che essi avevano rappresentato. Tutto questo in una cerchia specialissima che legava le immense ricchezze del Chigi alla sterminata cultura degli intellettuali amici dell’artista, oltre al potere senza censure del papa Medici. Una condizione che non si sarebbe mai più ripetuta nei secoli successivi. Fino a quel momento le sue esperienze di rinascita pagana si erano condensate principalmente nelle logge vaticane e nella piccola stufetta per il cardinale Bibbiena, ma avevano dovuto fare i conti con la sacralità del luogo nel primo caso e l’esiguità delle dimensioni nel secondo. Ora, nel palazzo di Agostino Chigi, Raffaello aveva a disposizione una loggia coperta a volta lunga venti metri e larga otto, affacciata su un giardino e inondata di luce. Poteva finalmente invitare gli dèi delle favole antiche a godere della rinascita di Roma. La vicinanza del giardino gli suggerì una soluzione nuova e affascinante [Fig. 44], che volgeva in sensuale artificio il precedente illusionistico della volta Sistina di Michelangelo. Qui il fiorentino aveva sfondato la volta attraversandola con costoloni di marmo all’interno dei quali si svolgevano le storie del Vecchio Testamento. L’espediente aveva risolto brillantemente il difficile problema della volta unghiata, con i suoi triangoli e vele e lunette e una piccola porzione quasi piana che correva lungo l’asse centrale al culmine della volta. Raffaello riprese lo stesso schema, ma trasformò la pesante e solenne architettura marmorea di Michelangelo in una leggera 301

architettura di festoni di fiori e di frutta, che prolungava dentro la loggia i colori del giardino sfruttandone gli odori che la riempivano dalle cinque grandi arcate aperte. I festoni o spalliere vegetali reggevano al colmo della volta dei finti arazzi, dove progettò di rappresentare le due scene finali del racconto. L’apparato decorativo permetteva in questo modo di prolungare l’effetto aereo dell’esterno e di coinvolgere lo spettatore, che poteva spiare la vita degli dèi nel cielo sopra la propria testa, come se si trattasse non di storie allontanate nelle pitture ma di scene vere e proprie svolte sotto i suoi occhi. Il tema prescelto fu quello delle nozze di Amore e Psiche, una favola narrata da Apuleio nell’Asino d’oro, un poema scritto intorno al 170 dopo Cristo con evidenti allusioni iniziatiche alle religioni che intrecciavano il culto di Iside a quello degli dèi del Pantheon greco. La favola racconta che Psiche, figlia bellissima di un re, suscitò l’invidia di Venere per il culto celebrato alla sua bellezza e fu destinata per punizione dalla dea ad andare in sposa all’essere più mostruoso della terra. Amore, il figlio di Venere, fu incaricato dalla madre di indurre la fanciulla a innamorarsi di un mostro. Innamoratosi a sua volta della fanciulla, però, Amore disobbedì a Venere e la portò nel suo palazzo, dove la incontrava ogni notte avvertendola di non tentare di scoprire la sua identità. Le sorelle invidiose spinsero Psiche a svelare l’identità di Amore, che, offeso, la abbandonò alla furia della madre Venere. Psiche, che dopo aver scoperto la bellezza di Amore ne era stata travolta irrimediabilmente, cercò la morte in un fiume, ma questo, impietosito dalla sua bellezza, la salvò consegnandola a Pan. Amore, guarito dalla ferita, ritornò dalla sua amata, che dovette affrontare delle prove terribili per poterlo sposare ed essere accettata tra gli dèi. Venere, sempre intenzionata a opporsi a quel matrimonio, le ingiunse di separare in un solo giorno un cumulo di avena, miglio, papavero, piselli, lenticchie e fagioli mescolati insieme. Poi avrebbe 302

dovuto portarle la lana delle pecore d’oro, e infine una porzione della crema di bellezza della terribile Proserpina, dea degli inferi. Le prove furono felicemente superate da Psiche, e il suo matrimonio con Amore viene celebrato in uno degli arazzi finti nel soffitto al cospetto di tutti gli dèi. In questo modo Agostino e Raffaello nobilitavano la forza dell’amore spurio che aveva unito da quasi un decennio Agostino alla bella Francesca Ordeaschi. E dimostravano che, a dispetto di ogni ostacolo sociale, la forza del vero amore è inarrestabile e degna di ogni impresa. Agente attivo della vicenda narrata da Apuleio, Amore si era contrapposto alla madre ma aveva ottenuto l’aiuto di tutti gli dèi e di Giove in particolare, che in un pennacchio memorabile, certamente autografo di Raffaello, lo bacia affettuosamente sulla bocca. In questo modo il dio delle frecce veniva celebrato come forza cosmica che muove il mondo, di fronte al quale ogni resistenza è vana. Chi meglio di Raffaello poteva saperlo, e chi meglio di lui poteva raccontarlo in modo finalmente libero da ogni falso pudore? La forza dell’amore è la forza della bellezza e della gentilezza dell’animo, e per rappresentarle Raffaello si impegnò direttamente e non soltanto con la preparazione dei disegni. Molte delle scene più belle rappresentate nella Loggia di Psiche, ad esempio quelle dei pennacchi che si potevano dipingere in un tempo limitato, sono quasi certamente eseguite da lui. La volta diventò la risposta pagana agli scorci terribili e drammatici della Bibbia di Michelangelo nella Cappella Sistina. Anche qui le figure erano viste da sotto in su e il loro librarsi nell’aria poneva problemi difficilissimi da risolvere. Ma l’effetto generale doveva essere di felicità e di armonia e tutto doveva contribuire a suscitare questo sentimento. I festoni di fiori e di frutta sono l’elemento ordinatore ma anche la chiave che introduce alla bellezza del mondo naturale. Furono dipinti da Giovanni da Udine, che preparò dei meticolosi cartoni per trasportarli sull’intonaco. Il rigore dell’or303

ganizzazione del lavoro di squadra rivela l’armonia e la perfetta professionalità della bottega del maestro. Giovanni rappresenta in questi festoni molte delle specie importate recentemente dall’America, come le zucche fantasiose che servono anche a simulare licenziose allusioni sessuali che fecero la gioia di Agostino, del papa e della corte romana (come ci informa puntualmente Vasari). Oggi fanno la gioia dei turisti in cerca di trasgressioni. Ogni fiore e ogni frutto è disegnato con il rigore riservato alle figure e l’effetto straordinario di paradiso terrestre è ancora là a testimoniarlo. Oltre ai festoni, in un cielo ridiventato il grande cielo luminoso del Mediterraneo, la scena si popola di figure bellissime che mostrano le nudità con un’innocenza che non si era mai vista negli ultimi mille anni sulle sponde del grande mare. Non sono soltanto le donne a mostrare ogni dettaglio delle loro grazie nascoste, in ogni scorcio e ogni posizione che esalti la delicatezza dei seni, la morbidezza dell’incarnato scoperto e il turgore delle natiche. Il triangolo delle tre Grazie a cui Amore chiede aiuto è una delle massime poesie cantate alla bellezza muliebre. Mercurio, a cui la tradizione legava il culto della fertilità maschile e della ricchezza mercantile, compare più volte completamente nudo, con bene in vista i genitali pieni di vita e di prosperità. Nella scena del banchetto, Dioniso mesce il vino vestito soltanto di un serto di vite nei capelli, mentre nell’aria i putti alati giocano con gli emblemi rubati agli dèi. Già nel gennaio del 1519 Sebastiano avvertì Michelangelo dell’ultimazione della volta della loggia. Ciò significa che le impalcature erano state tirate giù alla fine dell’autunno precedente, quando gli amici più vicini a Raffaello e Agostino si precipitarono a vedere il nuovo miracolo romano. In quella stagione il sole basso schiariva il cielo indaco proprio dietro il profilo del palazzo, che sembrava ancora più maestoso con gli avancorpi allungati ad abbracciare il visitatore che vi entrava dalla loggia. La fontana vicina all’ingresso rumoreg304

giava con l’acqua presa dal Tevere, che scorreva placido quasi nel giardino sfiorando la villa. I platani arrugginiti dall’autunno risalivano fino al Gianicolo, mescolando le foglie a quelle sottili e rosse dei meli e degli altri alberi da frutta stremati dai primi freddi, sparse ovunque sull’erba tra le siepi di bosso e di lauro disciplinate dai giardinieri di Agostino. Vista da fuori, la loggia sembrava una serra per ricoverare i limoni e le azalee. Ma saliti i gradini di pietra davanti all’arcata centrale, ci si trovava sotto l’eterna primavera creata da Raffaello. In un cielo simile Michelangelo aveva fatto muovere figure travolte da un destino terribile. Raffaello mostrava invece quanta felicità quel cielo potesse contenere. Nel primo triangolo incorniciato dalla pergola sul lato corto a sinistra, dove istintivamente corre l’occhio di chi entra, Venere sta seduta su una nuvola in modo da mostrare tutto il suo bellissimo corpo nudo. Dietro il braccio si intravedono i seni illuminati, la gamba sollevata rende più visibile il pube. L’effetto di totale impudicizia della posa è appena mitigato da un lembo di stoffa dorata che si insinua tra la coscia e la conchiglia. Sta indicando ad Amore qualcosa giù nella terra, nella penosa reggia dove immaginiamo la bella Psiche, molestata suo malgrado dal culto sottratto alla dea. Amore è un adolescente già pronto a cedere alle sue stesse seduzioni e nel braccio destro alzato tiene un dardo minaccioso. Non sa ancora che ne sarà ferito lui stesso e che dovrà lottare con la madre, che gli chiede di punire quella ragazza colpevole di troppa bellezza. L’occhio segue le scene nei pennacchi della parete meridionale, affollata di donne nude e morbide come i frutti che le incorniciano. Le tre Grazie, chiamate in aiuto da Amore dopo che si è arreso alla bella Psiche, sono sedute su una nuvola: di spalle, di profilo e di fronte in maniera da mostrare ogni dettaglio del corpo femminile [Fig. 79]. I capelli sono neri, biondi e castani, gli incarnati diversi come se arrivassero da regioni differenti del mondo boreale. Ma i corpi sono esposti con i 305

seni pieni che tendono la pelle liscia fino a riflettere il sole che schiarisce l’aureola dei capezzoli, scivola sui fianchi, sulle natiche e sul ventre morbido, e solo sulle guance arrossa l’incarnato con un velo di geranio appena fiorito. La più bella, la più impudica, ha un bracciale che le stringe il braccio destro accanto al seno. L’oggetto l’avvicina con la sua concretezza ordinaria a una donna reale, esaltando il desiderio che suscita quel corpo accogliente. Altre tre donne discutono nel triangolo successivo, quello di fronte all’entrata. È ancora Venere che si rivolge a Giunone e a Cerere [Fig. 45], la prima rappresentata con una corona di spighe, la seconda con un pavone che sostiene dignitosamente il confronto con il suo vestito di seta cangiante oro e azzurro. La dea dell’amore sta per allontanarsi delusa e tenta di coprirsi il corpo con una sciarpetta d’oro che non basterebbe a nasconderle i seni pieni, le gambe tornite, il ventre e i fianchi sensuali, neppure se mancasse quel vento dispettoso che la fa svolazzare dietro la testa dando profondità e leggerezza al cielo. Nell’altro triangolo la troviamo in volo su un minuscolo carro d’oro trainato dalle sue colombe. Anche nel viaggio è scoperta e il sole la colpisce in pieno. La pelle diventa ancora più chiara e più luminosa che nelle scene precedenti e nel confronto con l’intera umanità dipinta nella volta. È una perla purissima, esaltata dall’oro dei capelli mossi dal vento. Non si cura dei capezzoli rosa esposti al sole, del ventre teso e morbido, del pube scoperto dal velo che maliziosamente scivola sul monte che lei ebbe più bello di tutte le donne del cielo e della terra. Neppure le colombe che le fanno corona attirano la sua attenzione. L’ansia di raccontare a Giove i torti subiti dall’amante del figlio le fa arrossare le guance. Solo il drappo che curva ad arco alle sue spalle sembra volerla trattenere, sottolineando l’energia di quel volo. Nella scena successiva arriva davanti a Giove, si placa e lo se306

duce. I suoi tratti sono diventati virginali. I capelli, raccolti con semplicità dietro il collo slanciato, sono stati scompigliati dal volo. I seni sono quelli appena sbocciati a un’adolescente, e la luce li intercetta sull’incarnato rosa mentre scivola dalla fronte alla spalla e poi al braccio e ai fianchi creando rotondità femminili da estasi. Giove, bello e potente, con le spalle e le braccia di un giovane atleta nonostante i capelli di neve, l’ascolta intenerito dalla sua bellezza. Ha l’incarnato di un marinaio, la doratura provocata dal sole di Grecia, cui si espone per rincorrere i suoi amori. Ha in braccio un fulmine reso innocuo come un bambino e tra le gambe spunta l’aquila sotto il mantello viola. La sua forza si piega all’insistenza della dea. Nel primo triangolo del lato corto a destra dell’entrata, Mercurio, completamente nudo, vola davvero mostrando il corpo compatto e turgido di un garzone romano. Il vento impietoso spinge tutto alle sue spalle il lungo manto dorato, lasciando vedere ogni dettaglio del corpo agile illuminato dal basso. Neppure un pietoso lembo di stoffa, per la gioia degli amici di Agostino, va a nascondere la torsione del pene, pesante come un frutto, che nell’agitazione del volo gli sbatte sulla gamba. I peli ricci del pube, dipinti con insistito naturalismo, non bastavano a celebrare il trionfo fallico del dio dei postriboli. Nel festone appena sopra la sua testa, una melanzana di prodigiosa grandezza, con il profilo di un fallo in erezione, tenta di entrare in un fico aperto, promettendo gioia e prosperità [Fig. 64]. Il racconto continua sull’altro lato della loggia, quello con le peggiori condizioni di luce per il contrasto con il cielo aperto. Qui Psiche appare mentre viene portata in volo da amorini o geni dei venti. La ragazza è rigida e spaventata. Si preoccupa di mettere in salvo il vaso metallico con l’unguento rubato a Proserpina, la terribile dea dell’oltretomba. Lo alza in aria con un braccio troppo massiccio, più da lottatore che da vergine, ritratto in uno scorcio non pienamente riuscito. 307

Nel triangolo successivo lo offre a Venere, presentata in posa trionfale con il corpo di una matrona, reso solenne dai grossi pendenti preziosi alle orecchie e da una corona tra i capelli. Lo sguardo non si addolcisce e la dea alza le braccia per la sorpresa, forse il disappunto, ma certamente per mostrare i seni sontuosi, i fianchi, il ventre e il pube esposto quasi interamente perché la tunica le è scivolata tra le cosce esaltando quella nudità talmente sfacciata da rendere la sua figura al limite della decenza (anche se molti ancora oggi aguzzano gli occhi per vedere fino a che punto la stoffa viola, un velluto lucente, scopra la sua intimità). Nel triangolo successivo è raffigurato Amore, accolto con affetto da Giove che si china a baciarlo, come se non fosse suo figlio ma il bel Ganimede che aveva aiutato a rapire. L’ultima scena mostra ancora Mercurio che accompagna in cielo la timida Psiche, questa volta con un volo molto più pacato. Il corpo atletico, sempre bene in mostra, è di un uomo più maturo. Sembra voler proteggere la ragazza la quale pudicamente, l’unica in quel consesso, si copre il seno come una martire cristiana. La nudità sfacciata del giovane sembra intimidirla più del prossimo incontro con gli dèi dell’Olimpo. Il sesso dell’uomo le sfiora i fianchi e la sua gamba si intreccia nel passo a quella della giovane. La storia si conclude nei due grandi riquadri della volta, stesi come arazzi tra il pergolato floreale. Nel primo, con l’arrivo di Psiche, la solennità delle figure e la bellezza dei singoli atteggiamenti si perde in una folla quasi grottesca, poco curata nei dettagli e nelle reciproche relazioni. Una caduta di grazia che potrebbe motivare il pesante giudizio di Sebastiano, insieme all’argomento erotico trattato con tanta sfacciataggine. Nel secondo riquadro, con le nozze celebrate davanti agli dèi, la storia ha una migliore organizzazione spaziale e una maggiore credibilità delle anatomie, come se fosse meglio ponderata e meglio eseguita dalla bottega. 308

Nell’insieme della decorazione, il disegno di Raffaello riesce senza dubbio a dare una straordinaria unità stilistica alla narrazione, anche se la mano del maestro si può ipotizzare presente in un numero davvero limitato di giornate: quelle dei triangoli racchiusi nei festoni lungo il lato meridionale della loggia, illuminato da una splendida luce diretta che mette in evidenza ogni minimo dettaglio. Cammei autografi sono incastrati nei punti di maggiore visibilità. L’intervento di Raffaello sembra caratterizzato da una perfetta graduazione dei contrasti chiaroscurali negli incarnati e da una rapida vibrazione dei colori nei visi che ravviva l’espressione sentimentale. In definitiva, da una solarità felice che affiora dall’interno dei corpi. Il pennello, la luce, il disegno e i colori scivolano senza sforzo lungo i corpi, a perfetto agio nei difficili scorci aerei. I riquadri che presentano con maggiore evidenza questi caratteri stilistici sono i quattro della parete meridionale, dove predomina l’eccitante catalogo di nudi femminili, e sulla parete opposta quello con Venere e Psiche che le presenta l’unguento di Proserpina. Per contrasto possiamo distinguere nelle altre scene almeno due mani. Quella di Giulio Romano, che sottolinea i contorni con teatrali segni neri, insistendone il disegno e contrastandone le ombre con grumi oscuri pastosi opposti ai chiari sempre troppo forti. Mercurio in volo e il Giove che bacia Amore sono un buon esempio di questa maniera leggermente scomposta se confrontata alla grazia con cui nasce la pittura di Raffaello. Un’altra pittura, ascrivibile forse a Giovan Francesco Penni, è più distesa, luminosa, ben controllata nei contrasti cromatici, ma sempre incerta nella costruzione della figura. È quella che caratterizza le altre scene dei pennacchi della volta, e le sue caratteristiche di luminosità ma anche di dilatazione e appiattimento del disegno si ritrovano nelle figure di Mercurio, Psiche, Venere, Giove, Giunone e Diana, come pure nella scena del Convivio, la 309

meglio riuscita delle due grandi della volta. I due maestri si dividono anche i triangoli con gli amorini volanti che giocano con gli emblemi degli dèi, tra i quali si distingue per bellezza quello con il putto che cavalca il leone e un altro animale mitico.

4. VILLA MADAMA

Tutte le scene dipinte nella loggia si potevano cogliere anche dall’esterno e la fantasia poteva prolungarle sul giardino di Agostino. Psiche si fa strada in quel difficile mondo con la forza della sola bellezza e della evidente umiltà, come Francesca Ordeaschi aveva saputo conquistare la legittimità di una regina. Passeggiando in quel giardino impreziosito dai fiori che vi stava dipingendo Raffaello, Leone X trascinò il suo corpo massiccio, appesantito ancora di più dall’oro e dalla porpora che lo rendevano regale, e cercò ristoro vicino agli spruzzi d’acqua che scaturivano dal suolo. I petali bianchi dei fiori di melo volteggiavano nell’aria e si posavano sul suo camauro vermiglio, e volteggiavano entusiasti gli apprezzamenti ammirati dei dignitari per quel luogo magico che non faceva rimpiangere gli ozi imperiali. Non poteva rimanere insensibile a un leggero sentimento d’invidia il figlio di Lorenzo il Magnifico, che aveva stupito per primo l’Italia con il gusto e la grandiosità delle sue commesse artistiche. La morte di suo fratello Giuliano nel marzo del 1516 aveva fatto declinare l’impresa di un grandioso palazzo mediceo che segnasse a Roma le fortune della famiglia fiorentina. Fu così che concepì l’idea di una villa che mettesse in ombra quella di Agostino e tutte le altre costruite a Roma. Era arrivato il momento di costruire una villa che 310

fosse superiore anche a quelle antiche descritte da Plinio il Giovane, da Cicerone, da Vitruvio. Nel 1516 Leone aveva acquistato dal capitolo di San Pietro un terreno con una piccola ma elegante residenza sul fianco della collina di Monte Mario, alle porte di Roma, in un’area sopraelevata che dominava il panorama della città. Raffaello fu incaricato di progettare lì una villa monumentale, mentre al cardinale Giulio, cugino di Leone nominato vicecancellario nel 1517, fu dato l’ordine di seguirne la realizzazione. Non poteva scegliere persone migliori. Giulio, figlio illegittimo del Giuliano de’ Medici assassinato nella congiura dei Pazzi, era cresciuto a casa dei Sangallo, dove aveva acquisito un occhio professionale per l’arte e l’architettura. La minuzia con la quale intervenne nei progetti michelangioleschi per la facciata di San Lorenzo a Firenze, e poi nelle tombe di famiglia nella stessa chiesa, rivela un committente a suo modo eccezionale, quasi un pari degli artisti, capace di spaziare nelle questioni iconografiche e stilistiche come in quelle tecniche senza bisogno di ulteriori mediazioni. Dalla sua esperienza e da quella ormai affinatissima di Raffaello nacque il progetto di Villa Madama a Monte Mario, la cui costruzione iniziò certamente già nell’estate del 1518, mentre Raffaello era sulle impalcature della Loggia di Psiche e Leone poteva guardare con soddisfazione a quelle pitture perché presto ne avrebbe avute di migliori a casa sua. L’esperienza di architetto e archeologo di Raffaello aveva maturato la possibilità di una sfida diretta ai modelli antichi celebrati dagli autori classici. Presto Raffaello arrivò a un progetto che metteva in ombra i prototipi antichi perché non solo padroneggiava il linguaggio classico, ma lo aggiornava alla tradizione moderna inserendovi le novità funzionali sperimentate da Alberti e da altri architetti del primo Rinascimento. In una lettera a Baldassarre Castiglione databile intorno al 1519, quando il progetto definitivo era ormai pronto, Raf311

faello descrive la villa di Monte Mario in un brano che diventa subito un classico di teoria architettonica al pari del trattato vitruviano, tanto che già nell’estate del 1522 Francesco Maria della Rovere chiese al Castiglione copia della lettera. Purtroppo la costruzione della villa sarà presto interrotta dalla morte di Raffaello e poi da quella del papa, per arenarsi infine nelle tragiche vicende politiche che attraverserà Giulio de’ Medici, diventato papa con il nome di Clemente VII. Ma quale vita immaginasse per i Medici Raffaello poco prima della sua morte è lui stesso a raccontarlo nella lettera. L’architettura si doveva inserire in un grandioso scenario naturale, addomesticato da giardini e fontane perfettamente integrati nello schema architettonico e misurati essi stessi in funzione delle proporzioni dell’edificio: In testa del quale cortile vi è il vestibulo a modo et usanza antiqua con sei colonne tonde hyoniche con le loro ante, come recerca la ragione sua (...). Dalla dextra vi è un bello giardino di melangholi di lunghezza de 11 canne et 51/2 largho, e tra questi melangholi è in mezo una bella fontana d’acqua che per diverse vie arriva quivi, sospinta et presa dalla sua viva vena. (...) La dyeta è, come ho detto, tonda et ha intorno intorno finestre invetriate, le quale hor l’una hor l’altra dal nascente sole al suo occaso seranno toche et traspaiano in modo ch’el loco sarà alegrissimo et per il continuo sole et per la veduta del paese et de Roma, perché, come V.S. sa, il vetro piano non occuperà alcuna parte. Sarà veramente questo loco piacevolissimo a starvi d’inverno a ragionare con Gentilhomini, ch’è l’uso che sol dare la dietha12.

Il ragionamento, l’ozio colto dei filosofi, era solo una delle possibilità offerte dalla villa sontuosa, che aveva anche un ippodromo davanti alla lunga facciata in maniera che il papa e la sua corte potessero seguire le corse dei cavalli comodamente affacciati nel loggiato centrale [Fig. 77]. Raffaello non aveva trascurato neppure le terme, che nei prototipi antichi erano il luogo del massimo piacere edoni312

stico a cui si dedicavano i ricchi padroni. L’impianto termale della villa è straordinario, degno di quello rilevato nei palazzi imperiali. Da man sinistra intrando in questo clyptoportico in verso il mezodj se va nelli bagni dove anchora ve se può vedere per la schala secreta per le parti de sopra, le quali sono così ordinate: hanno due camere da spogliarse et poi un loco tepido aperto da ungersi quando che uno se è bagnato et stufato. Et evi la stufa calda et secca con la sua temperatura et evi lo bagno caldo con li sedili da starvi secondo dove l’homo vole che l’aqua li bagni le parte del corpo. Et sotto la fenestra v’è un loco da porvjsi a giacere e stare ne l’acqua ch’el servitore può lavare altrui senza farsi onbra. Di poi v’è un bagno tepido et poi un freddo de tal grandeza che quando uno avesse voglia di volere notare, potria13.

In questi ambienti, il papa e i cardinali potevano abbandonarsi ad ogni forma di godimento corporeo. La cronaca dell’architettura, nelle parole di Raffaello, si trasforma così nella più rigorosa cronaca della vita quotidiana della corte rinascimentale. Unti, massaggiati e profumati come patrizi dell’antica Roma, Leone e le persone a lui vicine potevano poi confortarsi con un banchetto in una delle logge aperte se era estate, o nelle sale chiuse e vetrate se era inverno. Incantati dal panorama di Roma, ma soprattutto incantati dagli affreschi e dagli stucchi ideati da Raffaello [Fig. 76]. Nel pomeriggio, quando il sole non è più così forte, gli ospiti potevano godere vedendo recitare commedie nel grande teatro ricavato nel lato nord della villa, sotto il monte che sfruttava il dislivello del terreno. Roma, il sole, l’aria, i profumi e l’amicizia sostenevano la ricerca di felicità e bellezza sensuale della corte pontificia, molto più di quanto oggi sono in grado di assicurare i più alti standard di relax occidentali. Quando i banchetti e le commedie, le saune e i massaggi ne lasciavano il tempo, i cardinali e gli altri ospiti poteva313

no passeggiare tra i giardini e le peschiere. Se di gusto raffinato, potevano contemplare le statue antiche collocate nelle grandi nicchie tra le logge e al centro delle stanze coperte a volta. Arrivavano da nuovi scavi nei giardini di Lucullo e da Villa Adriana. Una in particolare, quella del Giove Ciampolini, doveva oscurare le collezioni raccolte in Vaticano dal predecessore Giulio II. Lo scrigno in cui Raffaello aveva raccolto tanta bellezza e tanta comodità si presentava alla città ammirata come un lunghissimo corpo orizzontale diviso in tre porzioni su due ordini di altezza. A sinistra e a destra le mura si chiudevano con forti torrioni circolari che fungevano da angolo e snodo della muraglia che rigirava. Al centro, il corpo abitativo vero e proprio era diviso orizzontalmente da uno zoccolo molto semplice, su cui si aprivano finestre bugnate e il portale d’ingresso fiancheggiato da due poderose colonne anch’esse bugnate. Il piano superiore, alto all’incirca il triplo dello zoccolo, era ordinato da lesene ioniche raggruppate a intervalli irregolari, che con la loro dimensione e le proporzioni gigantesche davano un forte senso unitario alla facciata. Intorno al loggiato centrale, coperto da un grandissimo arco libero dalle colonne che scompartivano quelli adiacenti, le lesene diventavano colonne addossate alla parete e i capitelli aggettavano con effetto plastico dando risalto al centro dell’edificio. Ancora nell’ultima sua fatica architettonica Raffaello rinunciava a un ordine schematico ragionando per «parti» separate ma raffinatamente collegate, in questo caso dall’ordine gigante all’interno del quale si compongono elementi molto diversi tra loro. Ognuna di queste parti si sviluppava autonomamente, legandosi al resto grazie alla continuità degli elementi decorativi che l’occhio di Raffaello selezionava con sicurezza. Il carattere complesso della progettazione di Raffaello è tutto inscritto in questo meraviglioso prospetto, che varia continuamente il modo di organizzare lo spazio di elementi 314

adiacenti raccordati e resi riconoscibili dalla continuità della cornice orizzontale, che corre a metà del primo ordine, e dalla dimensione delle lesene, che pur non avendo grande aggetto plastico acquistano forza grazie a un abile espediente scultoreo. Le basi delle lesene e il fregio che corre sopra l’architrave si gonfiano e curvano come fossero compressi dallo sforzo. In questo modo la lunga parete può contare per la sua varietà non soltanto sulla griglia leggera di colonne e cornici, ma su un vero e proprio movimento tridimensionale del prospetto. Raffaello compone lo scrupolo antiquario dei singoli elementi del lessico vitruviano con il sentimento spaziale dell’architetto costruttore e, fatto molto originale, con un gusto molto pittorico della vibrazione, della varietà controllata e ricondotta a unità superiore dalla distribuzione di luci e ombre. All’interno, l’evocazione ridiventava cromatica e raffinatamente decorativa. I modelli della Domus Aurea, già sperimentati nelle logge e nella stufetta del Bibbiena, ritornano ancora più maturi e grandiosi nelle sale che fece in tempo a costruire e che furono decorate, certamente a partire da suoi disegni, da Giulio Romano e Giovanni da Udine. Ancora una volta, il tema scelto per la volta della sala affacciata sulle peschiere era quello del mito di Galatea: ancora una volta una favola classica, legata all’eros e alla letteratura antica, che non avrebbe fatto più rimpiangere a Leone X gli splendidi conviti di Agostino Chigi.

5. LA STELLA CADUTA DAL CIELO

Raffaello inventò un artista nuovo, capace di assegnare a se stesso la direzione e i traguardi della propria ricerca. La corte gli an315

dava dietro, la società intera lo seguiva, e lui ne era consapevole al punto da manifestare anche nella propria socialità una diversità mai vista prima. Nemmeno la lussuosa residenza di via dei Banchi, il Palazzo Caprini, poteva ormai bastargli. Un uomo nuovo deve immaginare un modo nuovo di abitare e di vivere, e Raffaello lo fece. Il 24 marzo 1520 comprò un ampio terreno in via Giulia, la via più elegante di Roma, vicinissima al Vaticano, e cominciò a progettarvi una residenza per sé e per la sua specialissima corte di artisti assistenti14. Il terreno aveva forma molto irregolare e un’architettura fedele alle proprie leggi interne di simmetria e rigore non poteva adattarvisi facilmente. Ogni altro architetto avrebbe ignorato la forma così eccentrica di quel terreno, trasformandone le irregolarità in spazi di risulta. Ma non Raffaello, che elaborò una pianta complessa adattandola al sito trapezoidale e sbieco [Fig. 78]. Usò tutta la sua cultura antiquaria per raccordare le differenti forme con elementi scenografici che finirono per trasformare quella singolarità in ricchezza. Con estrema disinvoltura piegò le pareti in edicole concave e mura convesse, schermandole con colonne, trabeazioni, fontane e scale ovali. In quegli spazi ricavò bagni sontuosi, terme, fontane e saloni di rappresentanza. Poi si ricordò della felicità della casa paterna, dove dalla camera da letto sentiva i rumori e gli odori della bottega al piano inferiore, e risuscitò il suo gioioso sogno infantile collocando lo studio per gli allievi, ampio e luminoso, esposto a nord per sfruttare al meglio la luce, proprio sotto la sua camera da letto. Il circolo era chiuso e il traguardo coincideva con la partenza, grazie a una carriera senza precedenti. La cultura e il talento, riconosciutigli come insegne di nobiltà, autorizzavano Raffaello a mostrarsi alla città più difficile del mondo con la dignità di un artista principe, fiero di esibire in un palazzo degno di un potente cardinale tutto il valore che aveva la sua arte, che ancora all’epoca della sua infanzia aveva un connotato artigiano. Il palazzo di via Giulia doveva 316

essere la forma visibile della nuova posizione raggiunta dall’artista nella gerarchia sociale. Mentre Michelangelo ricercava la rispettabilità sociale tenendo sullo sfondo la sua figura d’artista e riallacciandosi alla tradizione borghese di famiglia, Raffaello dimostrava che proprio l’artista era figura di nuova e inarrivabile dignità. Recuperava perfino il carattere biografico di quella carriera, che l’aveva visto succhiare il seno della madre tra gli odori pungenti delle mestiche e delle vernici provenienti dalla bottega al piano inferiore. La scala che collegava direttamente la sua camera da letto alla bottega sottostante, dove avrebbe lavorato con gli allievi adorati, univa non solo uno spazio fisico, ma un’intera esistenza. È facile immaginare quanto un uomo così consapevole del proprio genio fosse indifferente alle critiche di Michelangelo e di Sebastiano del Piombo. Con l’amabile solarità del suo carattere se ne rideva con gli amici. Ammirava Michelangelo, ma non riusciva a capire quella sua tormentata contrapposizione. «O quanto egli mi piace Messer Pietro», confessava all’Aretino che godette con lui gli ultimi fasti di Leone e di Agostino Chigi, «che Michel’Agnolo aiuti questo mio novello concorrente, facendogli di sua mano i disegni, percioché, dalla fama che le sue pitture non istiano al paragone delle mie, potrà avedersi molto bene Michel’Agnolo ch’io non vinco Bastiano (perché poca loda sarebbe a me di vincere uno che non sa disegnare) ma lui medesimo, che si reputa (e meritatamente) la Idea del disegno»15. Raffaello stentava a capire perché il grande Michelangelo potesse vivere e creare solo se si immaginava tormentato dal mondo intero. Lui, al contrario, aveva sempre cercato intorno a sé l’amicizia e l’armonia, ottenendo in fine che fosse l’intera città a corrispondergli. Con sempre maggior entusiasmo, Roma celebrava infatti Raffaello e ogni suo gesto. Due mesi dopo la scopritura della «vituperosa» Loggia di Agostino, la città era in fibrillazione 317

per il Carnevale e per l’evento culmine del Carnevale: una commedia allestita a casa del cardinale Innocenzo Cybo con la scenografia di Raffaello. «Heri, per non ci essere il S.r M. Antonio, fui con messer Petro Bembo in casa sua, e vedemo corere homini nudi un palio; non si parlò se non de mascare, e de la comedia et aparato de Rafael de Urbino per quella farà recitar Mons. De Cibo domenica proxima»16. Tra tante incombenze, Raffaello non disdegnava neppure l’allestimento di apparati scenici. Del resto era ciò da cui era partito. Suo padre aveva allestito commedie per i duchi di Urbino, lui ora le allestiva per il papa che aveva tolto loro il regno. Sapeva che le fortune politiche erano precarie e che sarebbe rimasta soltanto la gloria dell’arte, come quella della Roma di cui tentava in quegli stessi giorni di ricostruire la pianta sotto gli occhi ansiosi di tutto il mondo. La commedia fu un successo, a cominciare dal sipario dove Raffaello aveva fatto dipingere una presa in giro del buffone preferito del papa, il frate Mariano, che aveva già divertito Giulio II e che ora mandava in estasi Leone X. «Sonandosi li pifari si lassò cascare la tela, dove era pincto fra’ Mariano con alcuni diavoli che giungiavano con esso da ogno lato della tella»17. Pochi giorni dopo ricevette dalla Camera apostolica anche gli arretrati per la direzione dei lavori di San Pietro: mille e cinquecento ducati, una cifra che da sola arricchiva un uomo per la vita. Dopo due mesi un altro trionfo lo aspettava con la conseguente gratifica economica. Il papa celebrò con un concerto la conclusione della seconda loggia del suo appartamento vaticano, e per l’Italia corse la notizia dell’ennesima meraviglia creata dall’Urbinate. «Nostro Signore sta su la musicha, più che mai, e di varie sorti; si diletta anchor de la architettura, e va sempre facendo qualche cosa nova in questo Palazzo. Et hor si è fornita una loggia dipinta e lavorata de stucchi, alla anticha, opra di Raphaello, bella al possibile e forsi più che cosa che si vegga hoggi dì de’ moderni»18. 318

Il mese successivo portò trionfi ancora maggiori. Dalle Fiandre arrivarono gli arazzi tessuti con seta e oro su disegno di Raffaello. Erano costati mille e seicento ducati l’uno, compresi i cento ducati che l’artista aveva ricevuto per ogni cartone. L’ambasciatore veneziano ne informò il senato della Serenissima. A settembre ne arrivarono altri e nell’inventario di Leone X se ne contavano ormai dieci. A novembre iniziarono i lavori per fondare l’emiciclo sinistro di San Pietro, disegnato da Raffaello. Anche l’opera massima della cristianità procedeva alacremente. Il 26 dicembre 1519 venne finalmente cantata una messa solenne con il papa e trenta cardinali nella Cappella Sistina decorata dagli arazzi collocati alle pareti e così ammirati: «sunt res qua non est aliquid in orbe nunc pulchrius»19. Pure a Venezia convenivano nel giudicarli «la più bella cosa che sia stata fatta in eo genere a’ nostri giorni»20. Quel lavoro ciclopico compiuto dai tessitori delle Fiandre rendeva ancora più preziosa l’invenzione di Raffaello, che entrava trionfalmente nel luogo che da un decennio era segnato dall’eccellenza di Michelangelo. La folla nuda e cenciosa del Vecchio Testamento, aggrappata alla volta, guardò indifferente il fiume d’oro e di seta dei trenta cardinali che scorreva sui marmi antichi del pavimento intarsiato. L’impressione fortissima di quello spettacolo, destinato a ripetersi poche altre volte perché con il Sacco di Roma del 1527 gli arazzi andranno dispersi, si sparse per il mondo grazie alle stampe dei cartoni che intelligentemente Raffaello fece tirare a Marcantonio Raimondi e che gli assicurarono una pubblicità e una gloria senza precedenti. Solo e ostinato, accecato dall’invidia per quell’apoteosi, l’ostinato rivale di Raffaello, Sebastiano del Piombo, scrisse a Michelangelo nel tentativo di svilire ciò che tutto il mondo adorava: «E credo la mia tavola sia meglio disegnata che e’ pani dè razi che son venuti de Fiandra»21. 319

La città nuova portava ormai in tutti i suoi luoghi più significativi i segni dell’arte di Raffaello. La città vecchia aspettava di resuscitare attraverso la pianta che lui ne stava disegnando e che in quel freddo inizio del 1520 scaldò il cuore degli umanisti. Raffaello si scaldava in altro modo. Nel suo palazzo aveva un camino fumoso ma anche la donna che amava fuor di ogni misura. Ne stava ultimando un ritratto molto privato, un nudo reso ancora più malizioso dal velo trasparente che ne esaltava i seni e il ventre. Aveva tutto quello che nessuno aveva mai avuto insieme: amore, ricchezza e talento. E aveva la capitale della cristianità con l’intera corte ai suoi piedi. Il freddo intenso dell’inverno irrigidiva l’intonaco degli affreschi e raggrumava l’olio dei dipinti. L’attività artistica doveva piegarsi alla lentezza della stagione e lui si dedicò interamente all’amore, trascinato dall’ebbrezza del Carnevale. Poi arrivò la Quaresima e il tempo della penitenza, ma Raffaello non poteva fermarsi. La sua passione lo consumava e lo costringeva a bruciare in quegli occhi neri come la pece. Gli eccessi amorosi gli provocarono una febbre altissima, che il medico non poté curare perché l’uomo non gli confessò gli eccessi a cui si era abbandonato. Cominciò a delirare nel letto, tra le braccia impotenti dei suoi discepoli e lo sguardo degli ossessi della Trasfigurazione, che sembravano terrorizzati da quanto stava accadendo in quella stanza. Arrivò il venerdì santo, 6 aprile, e la città celebrò i riti cupi e dolorosi della morte di Cristo, uguali a se stessi da secoli come ogni altra liturgia della Chiesa di Roma. La Confraternita del Gonfalone recitò tra le grotte di travertino del Colosseo illuminato dalle torce il millenario rito della Passione, con le maschere semplici che esaltavano la commozione popolare. Poi i lamenti degli attori si spensero insieme alle fiaccole e il Colosseo ripiombò nel buio mentre una folla luttuosa si avviava verso San Pietro sfiorando le mura del Palazzo Caprini. Dentro, Raffaello moriva. 320

NOTE ALL’INTRODUZIONE 1 Le rappresentazioni della Passione di Cristo erano messe in scena il venerdì santo al Colosseo dalla Confraternita del Gonfalone. Quella del venerdì santo del 1520, giorno della morte di Raffaello, costò centoventidue ducati e bolognini uno. La nota delle spese da cui si deducono i costumi e le scene utilizzate è in Archivio del Gonfalone, vol. 177, car. 68 v. 69, 69 v. 71, 71 v. sgg. Per quanto riguarda i testi della rappresentazione, rigidamente codificati, cfr. Marco Vattasso, Per la storia del Dramma Sacro in Italia, Tipografia vaticana, Roma 1903. Sul luogo esatto della rappresentazione cfr. Pasquale Adinolfi, Roma nell’Età di Mezzo, Fratelli Bocca e C., Roma 1881, vol. I, pp. 377 sgg. Per le pratiche rituali seguite dal papa e dalla curia nei giorni pasquali, cfr. Francesco Cancellieri, Descrizione delle funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Francesco Bourlie, Roma 1818. La rappresentazione della Passione conclusasi al Colosseo e la morte di Raffaello sono collegate nel diario di Marcantonio Michiel, in data 6 aprile 1520: «Adì 6 aprile [1520] il Venerdì Santo disse la Messa in Capella el Cardinale Aginense, e si basciò la croce, e fu fatta la Passione nel Coliseo. Doppo mangiar fu l’officio in Capella. Il Cardinal Rangone, Agostin Ghisi e Raffaello da Urbino stavano male». Il documento è riportato nella recente monumentale raccolta di documenti raffaelleschi curata da John K.G. Shearman per la Biblioteca Hertziana e l’Università di Princeton. John

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K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (1483-1602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. I, p. 571. 2 In Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., p. 575. Pandolfo Pico in Roma a Isabella d’Este in Mantova, 7 aprile 1520. 3 Il giudizio è riportato con un acuto commento nel piccolo saggio di André Chastel, Raffaello. Il trionfo di Eros, Neri Pozza, Vicenza 1997, p. 25 (ed. or., Raphaël dans les collections françaises, Éditions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1983).

NOTE AL CAPITOLO 1 1

Cennino Cennini, Il libro dell’arte, o Trattato della pittura, di Cennino Cennini da Colle di Valdelsa. Di nuovo pubblicato, con molte correzioni e coll’aggiunta di più capitoli tratti dai codici fiorentini, per cura di Gaetano e Carlo Milanesi, Le Monnier, Firenze 1859, cap. XLVII, p. 31. Il trattato del Cennini è oggi considerato come uno statuto normativo dell’attività delle botteghe artistiche fiorentine e dell’Italia centrale, circostanza che rende quanto mai attendibile il valore delle sue prescrizioni. 2 Le Marche e l’Umbria sono le regioni italiane dove per prime si sviluppa una tradizione popolare legata alla messa in scena delle sacre rappresentazioni, tradizione arrivata fino ai nostri giorni. Sulla possibilità che la data di nascita di Raffaello potesse cadere non il 28 marzo ma il 6 aprile, cfr. John K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (1483-1602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. I, p. 48. Tuttavia non ci sono buoni motivi per mettere in discussione la data del venerdì santo, 28 marzo. 3 La lettera è in Alessandro Luzio, Rodolfo Renier, Mantova e Urbino. Isabella d’Este ed Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende politiche, Roux e C., Torino 1893, p. 19. 4 Il testamento dove si menzionano i vestiti è in Shearman, Raphael in Early Modern Source cit., vol. I, p. 54. «Unam cammuram panni Londre, cum manicis rasi cremesini; item unam aliam cammuram vulgariter dictam uno boccaccino, cum manicis rasi pavonazzi cum suis fulcimentis». Interessantissimo è il confronto che si può fare tra i vestiti di Magia e quelli indossati da Battista Sforza nel celebre ritratto di Piero della Francesca. Cfr. Paolo Peri, Tipologie dei tessuti nella ritrattistica principesca da Federico di Montefeltro a Vittoria della Rovere, in I della Rovere, 322

Mondadori Electa, Milano 2004, pp. 85-93. Sulla moda quattrocentesca cfr. Maria Giuseppina Muzzarelli, Guardaroba medievale, vesti e società dal XIII al XVI secolo, Il Mulino, Bologna 1999. 5 Il documento di acquisto della casa è in Ranieri Varese, Giovanni Santi, Nardini, Fiesole 1994, p. 14. 6 Cennini, Il libro dell’arte cit., cap. CXLVII, p. 100. 7 Luzio, Renier, Mantova e Urbino cit., p. 21. 8 Cennini, Il libro dell’arte cit., cap. CIV, p. 68. 9 Ivi, cap. CXXXV, p. 89.

NOTE AL CAPITOLO 2 1

Il contratto è in John K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (1483-1602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. I, p. 71. 10 dicembre 1500, «quod dicti magistri Rafael et Evangelista deberent, eorum sumptibus, facere unam tabulam altaris capelle dicti Andree, (...) pro dicta pictura et structura dicte tabule, ducatos triginta tres auri largos solvendos per ipsum Andream in tribus pagis seu vicibus». Il dipinto andò poi distrutto e parti di esso sono oggi in diversi musei d’Europa. Recentemente sul dipinto sono tornati Hugo Chapman, Tom Henry e Carol Plazzotta, in Raffaello. Da Urbino a Roma, 5 Continents Editions, Milano 2004, pp. 98 sgg. 2 Per lo stendardo e la sua attribuzione cfr. Chapman, Henry, Plazzotta, Raffaello. Da Urbino a Roma cit., p. 104. Attualmente in restauro presso l’ICR di Roma, lo stendardo mostra la singolarità di essere dipinto su due tele poi incollate invece che su una sola tela da ambo le facce. Già a questa data, Raffaello introduceva quindi piccole variazioni tecniche nella prassi corrente per migliorare la qualità del manufatto finito. Purtroppo questa singolarità fu alla base del gravissimo stato di conservazione in cui ci è arrivato lo stendardo, poiché le due tele furono separate provocando la caduta di gran parte del colore. 3 Sull’autoritratto cfr. la scheda relativa nel catalogo della mostra Raffaello a Firenze. Dipinti e disegni delle collezioni fiorentine, Electa, Milano 1984, p. 47, corredata di ampia bibliografia, e in Chapman, Henry, Plazzotta, Raffaello. Da Urbino a Roma cit., pp. 68 sgg. 4 Tutte le informazioni relative a questo dipinto sono tratte da Ashok Roy, Marika Spring, Carol Plazzotta, Raphael’s Early Work in 323

the National Gallery. Paintings before Rome, in National Gallery Technical Bulletin, a cura di Ashok Roy, National Gallery Company Limited, London 2004, vol. 25, pp. 4-35. 5 Cfr. Pierluigi De Vecchi, Lo sposalizio della Vergine di Raffaello Sanzio, Tea, Milano 1996. Secondo l’autore a Raffaello fu chiesto di «conformarsi il più possibile (ad modum et figuram) al dipinto del Perugino, collocato in stretta contiguità a una reliquia molto venerata», p. 29. 6 In questo dipinto troviamo fuse due diverse iconografie: quella dell’Incoronazione, che generalmente presenta la Vergine incoronata in cielo da Cristo, e quella dell’Assunzione, che mostra un sarcofago vuoto tra lo stupore degli apostoli. Anche se erano già presenti sporadicamente dipinti che unificavano le due iconografie, sembra che a Raffaello o ai suoi committenti si debba questa nuova sintesi di immagine. Vedi la questione affrontata da Sylvia Ferino Pagden, Iconographic Demands and Artistic Achievements. The Genesis of Three Works by Raphael, in Raffaello a Roma. Il Convegno del 1983, Atti del convegno svoltosi a Roma il 21-28 marzo 1983, Edizioni dell’Elefante, Roma 1986, p. 13. La datazione della pala è stata per molto tempo fissata al 1503, ma nuovi documenti permettono di datare a qualche anno dopo, almeno al 1504, la pala che dal confronto stilistico appare decisamente più matura. Cfr. Donald Cooper, Raphael’s Altar Pieces in S. Francesco al Prato, Perugia. Patronage, Setting and Funcion, in «Burlington Magazine», CXLIII, 2001, pp. 554-561. 7 Il testo della lettera ci è tramandato da Giovanni Burcardo, che fu maestro delle cerimonie di Alessandro VI: Iohannes Burckardus, Alla corte di cinque papi. Diario 1483-1506, Longanesi, Milano 1988, p. 189 e p. 195. Molti storici si sono affrettati a mettere in dubbio l’autenticità delle lettere non sapendo come spiegare la disinvoltura di una alleanza così cinica. Ma non sembrano potervi essere dubbi sulla attendibilità dei documenti trascritti dal Burcardo. 8 Le atrocità sono registrate dai cronisti toscani. Il primo episodio riportato è in Agostino Lapini, Diario fiorentino dal 252 al 1595. Ora per la prima volta pubblicato da Gius. Odoardo Corazzini, Sansoni, Firenze 1900, p. 41, 17 maggio 1511. Il secondo episodio è in Luca Landucci, Diario Fiorentino dal 1450 al 1516. Continuato da un anonimo fino al 1542, Sansoni, Firenze 1883, p. 225, 18 maggio 1501. Niccolò Machiavelli seguì da vicino le imprese del Valentino ma fu affascinato dal324

la sua forte determinazione politica che privilegiò nella cronaca tramandata ai posteri con la sua Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, el signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini. Redatta proprio a ridosso degli avvenimenti dell’autunno 1502. 9 Burckardus, Alla corte di cinque papi cit., p. 362. Anche in questo caso la storiografia cattolica ha tentato di dimostrare l’infondatezza della testimonianza. Sennonché altre fonti registrano la brillante serata vaticana del papa e dei suoi familiari. Cfr. ivi, nota a p. 485: «almeno tre altre fonti confermano l’accaduto: la lettera al Savelli, riprodotta anche da Burcardo [cfr. p. 371], un dispaccio dell’ambasciatore fiorentino Francesco Pepi e una lettera di Agostino Vespucci a Machiavelli». 10 In Alessandro Luzio, Rodolfo Renier, Mantova e Urbino. Isabella d’Este ed Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende politiche, Roux e C., Torino 1893, p. 125, Lettera di Isabella d’Este a Chiara di Montpensier sua cognata, datata 27 giugno 1502. La lettera, come un’istantanea, coglie l’effetto devastante della furia e della crudeltà del Valentino sui contemporanei, senza la mediazione politica che opera nel suo celebre racconto Niccolò Machiavelli. 11 Isabella ed Elisabetta, già celebrate in tutta Italia per l’eleganza e l’intelligenza, fecero la loro parte nei riti mondani, anche se la loro disinvoltura e perfino i vestiti e i cappelli tanto vistosi provocarono le critiche dell’aristocrazia romana, poco abituata a quel protagonismo femminile e a quelle signore che avevano piena convinzione della propria forza al punto da autodefinirsi come «le più gagliarde donne che vadino per il mondo». In ivi, p. 123. 12 La cronaca terrificante della morte di Alessandro Borgia è in Burckardus, Alla corte di cinque papi cit., p. 400. A p. 406 gli ultimi istanti di quell’orrore: «La sera, dopo l’ora ventiquattresima, la salma è stata portata alla cappella delle Febbri, ed è stata deposta presso il muro, in un angolo alla sinistra dell’altare. Se ne sono incaricati sei uomini volgarissimi, che hanno scherzato e bestemmiato contro il Papa e il suo cadavere, e due mastri falegnami, che hanno fatto la bara troppo stretta e troppo corta. Senza torce o lumi, senza che ci fosse qualcuno che si prendesse cura della salma, costoro l’hanno fatta entrare a pugni nella cassa». Tutto questo sotto gli occhi addolorati della giovane Maria a cui Michelangelo aveva messo due anni prima in grembo il meraviglioso Cristo morto. 325

13

Su Giulio II vedi Ivan Cloulas, Giulio II, Salerno Editrice, Roma 1993, e Ludwig von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, a cura di Angelo Mercati, vol. III, Desclée Lefebvre e C.i Editori Pontifici, Roma 1959, pp. 662 sgg. (ed. or., Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters, Herder, Freiburg 1886-1933). 14 La lettera, nota fin dal Seicento, è riportata e commentata da Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. II, p. 1457. Shearman non crede all’autenticità del documento che appare invece confermata attraverso numerosi riscontri. Cfr. recentemente Chapman, Henry e Plazzotta, Raffaello. Da Urbino a Roma cit., p. 34.

NOTE AL CAPITOLO 3 1

La descrizione è nel manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze, Anonimo Gaddiano, Cod. Magliab. XVII, 17. Riportato in Luca Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci, Treves, Milano 1919, p. 163. 2 La denunzia è riportata in L. Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci cit., p. 4. Sul significato dei colori nell’abbigliamento tardo rinascimentale cfr. Maria Giuseppina Muzzarelli, Guardaroba medievale, vesti e società dal XIII al XVI secolo, Il Mulino, Bologna 1999, p. 165. «Il nero era un colore difficile da ottenere, e le sostanze che consentivano di arrivare al nero andavano applicate a tessuti che avessero già ricevuto una tinta di base azzurra o fulva. Proprio per questo suo essere una tinta difficile, sottoposta a controlli speciali, il nero si affermò alla fine del Medioevo come colore assai pregiato e in grado quindi di rappresentare la massima pompa nell’abbigliamento cerimoniale. Era un colore usato non solo per segnalare il lutto, ma anche per partecipare agli eventi più solenni, adattissimo alle feste, alle celebrazioni nuziali e in generale alla vita di corte. Tanto per il suo solenne ingresso a Ferrara, quanto in occasione delle nozze con Alfonso I d’Este, nel 1502, Lucrezia Borgia comparve splendidamente vestita di nero e oro, e di nero erano vestiti anche i più illustri invitati». 3 Paolo Giovio, Elogia virorum illustrium, riportato in Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, IX, Modena 1781, p. 290. 4 La lettera è in Jean Paul Richter, The Literary Works of Leonardo 326

Da Vinci, Oxford University Press, London, New York, Toronto 1939, vol. II, p. 325. Lettera commentata da Serge Bramly nel suo volume Leonardo da Vinci, Mondadori, Milano 2005, p. 143. 5 Lettera di Isabella d’Este a Leonardo datata 14 maggio 1504 riportata in L. Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci cit., p. 90. 6 Il cartone oggi è perduto, ma quello della National Gallery è molto vicino. Sull’influsso che esso ebbe su Raffaello sono tornati di recente Hugo Chapman, Tom Henry e Carol Plazzotta in Raffaello. Da Urbino a Roma, 5 Continents Editions, Milano 2004, p. 170. 7 Pietro de Nuvolaria a Isabella d’Este da Firenze il 4 aprile 1501, riportata in Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci cit., p. 66. 8 Sulla competizione tra Leonardo e Michelangelo vedi Antonio Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 93 sgg. 9 L’episodio è riportato in Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci cit., p. 163. 10 Sulla famiglia Doni, cfr. Notizie intorno à ritratti d’Agnolo e Maddalena Doni, dipinti da Raffaello, scritte da varj a Francesco Longrena, Sonzogno, Milano 1828. La scheda sui dipinti con esaustiva bibliografia è in Raffaello a Firenze. Dipinti e disegni delle collezioni fiorentine, Electa, Milano 1984, pp. 105 sgg. 11 Astorre Baglioni, I Baglioni, Olschki, Firenze 1964, p. 135 n. 2. 12 Sul dipinto interessanti osservazioni sono emerse nel corso del recente restauro, riportate in Raffaello a Pitti. «La Madonna del Baldacchino». Storia e restauro, catalogo della mostra a cura di Marco Chiarini, Marco Ciatti, Serena Padovani, Centro Di, Firenze 1991. La pala per ragioni di simmetria fu ampliata con una aggiunta di trentadue centimetri. Per la parte alta, cfr. Raffaello a Firenze cit., p. 121. Sulla derivazione dello sfondo dall’architettura del Pantheon studiata attraverso disegni di contemporanei cfr. Raffaello architetto, a cura di Christoph Luitpold Frommel, Stefano Ray, Manfredo Tafuri, Electa, Milano 1984, p. 17. 13 In particolare, Frommel, in Raffaello architetto cit., p. 17, rileva la vicinanza dei braccioli del trono a quelli del trono del Giove Ciampolini, una scultura molto ammirata e disegnata in quegli anni a Roma. 14 La lettera è in John K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (1483-1602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. 327

I, p. 112, Raffaello in Firenze a suo zio Simone Ciarla in Urbino, 21 aprile 1508. Shearman riporta una completa esegesi della lettera attraverso la storia degli ultimi secoli. Molti interpretano la richiesta di raccomandazione finalizzandola all’appalto della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio a Firenze che la progettata definitiva partenza per Roma di Michelangelo e il protrarsi della permanenza a Milano di Leonardo lasciava incompiuta. È possibile che Raffaello volesse inserirsi in quell’appalto, ma ad ogni modo la sostanza del documento non cambia. Alla vigilia di una importante impresa a cui ambiva per promuovere la propria carriera, Raffaello ricorre alle protezioni di sempre, al patrocinio politico che riteneva indispensabile per la scalata al successo.

NOTE AL CAPITOLO 4 1 Sulla fascinazione subita da Raffaello appena arrivato a Roma vedi il saggio di Howard Burns, Raffaello e «quell’antiqua architectura», in Raffaello architetto, a cura di Christoph Luitpold Frommel, Stefano Ray, Manfredo Tafuri, Electa, Milano 1984, p. 381. 2 La notizia riportata dal Manetti è in Raffaello architetto cit., p. 397. 3 Il documento è in John K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (1483-1602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. I, p. 122. 4 La storia familiare di Giuliano della Rovere è in Ivan Cloulas, Giulio II, Salerno Editrice, Roma, 1993. 5 Michelangelo, Rime, Mondadori, Milano 1998, p. 18. 6 In Cloulas, Giulio II cit., p. 148. 7 Il sonetto è ben contestualizzato in Ottavia Niccoli, Rinascimento anticlericale, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 83. Un sonetto di identico tenore è riportato nei diari di Sanuto: «Julio secondo è qui/ritieni el passo/Hebbe la mente a tuorlo in cul si amicha/che morto e chiuso in questo marmo, ficha/Non possendo far altro, il cul al sasso», Marino Sanuto, I diarii, tomo XV, Venezia 1886, p. 563. 8 Il dialogo è riportato in Iohannes Burckardus, Alla corte di cinque papi. Diario 1483-1506, Longanesi, Milano 1988, p. 437. 9 Nell’ottobre del 1512, il papa diede nei suoi appartamenti una festa in onore dello svizzero Mattia Lang durante la quale «Uno cieco dotto cantò anche nella lira a l’improviso versi latini in laude dil Papa

328

et di Gurgense». In Alessandro Luzio, Federico Gonzaga ostaggio alla Corte di Giulio II, Archivio della Reale Società Romana di Storia Patria, vol. IX, Roma 1886, p. 544. 10 Le informazioni sui dettagli tecnici dei dipinti della Stanza della Segnatura sono state fornite dal restauratore Maurizio De Luca nel corso della lezione del 3 novembre 2005 presso la facoltà di Lettere e filosofia della terza Università di Roma. De Luca ha rilevato i dettagliati segni di spolvero sulle modanature laddove il trasporto delle architetture avveniva solitamente con le incisioni più sommarie. Il pittore esordiente impiega la massima cura possibile per raggiungere il suo traguardo. La complessità tecnica è la migliore spia dell’intenzionalità dell’artista. Per una innovativa lettura della Scuola di Atene cfr. Glenn Most, Leggere Raffaello. La «Scuola di Atene» e il suo pre-testo, Einaudi, Torino 2001. Molto meno convincente appare la proposta di lettura di Giovanni Reale, La «Scuola di Atene» di Raffaello. Una interpretazione storico-ermeneutica, Bompiani, Milano 2005. Nell’erudita esegesi che del dipinto conduce il Reale è proprio l’interpretazione delle immagini che appare estremamente arbitraria. Valga per tutte l’interpretazione della figura di Apollodoro che secondo il Reale minaccia con il suo gesto Protagora ingiungendogli di andare via: cfr. p. 81. «Come si può ben vedere nel particolare che abbiamo riprodotto (pp. 78 sg.) l’ultimo personaggio del gruppo dei Socratici, con la mano tesa contro i Sofisti e con un atteggiamento risoluto, sembra che stia dicendo: ‘andatevene via!’, ‘statevene fuori!’». Il gesto è facilmente leggibile come un cortese gesto di richiamo che di minaccia. Tutta la dotta esegesi di Reale sembra provare al contrario l’impossibilità di far corrispondere al dipinto della Scuola di Atene un significato programmatico preciso (in questo caso nascita e sviluppo del pensiero greco minuziosamente ordinato per scuole e personaggi) che non sia il trionfo del pensiero filosofico e della corte di Giulio II. Sul cartone dell’Ambrosiana cfr. Konrad Oberhuber e Lamberto Vitali, Raffaello, il cartone per la scuola di Atene, Silvana editoriale d’Arte, Milano 1972.

NOTE AL CAPITOLO 5 1

«La sera propria che gionse el Papa incominciò neve e vento el più terribile che da che sono vivo se vedesse mai et sempre è continua329

to et ogni hora più continua. (...) Ogne modo dice [il papa] volere fare l’imprese si de la Mirandula come de Ferrara, cum dire: sto bardassa del Duca de Urbino cum venti millia persone non ha potuto pigliare in tanto tempo una Putana fotuda»: Alessandro Luzio, Federico Gonzaga, ostaggio alla Corte di Giulio II, Archivio della Reale Società Romana di Storia Patria, Roma 1886, p. 569. 2 Dispacci dell’ambasciatore Hieronimo Lippomanno al senato veneziano, 7 gennaio 1511, in Sanuto, I diarii cit., 1884, tomo XI, p. 724 e in Ivan Cloulas, Giulio II, Salerno Editrice, Roma, 1993, p. 197. 3 La datazione della Stanza di Eliodoro si fonda principalmente sul fatto che nella approvazione delle Decretali (riquadro con cui termina la adiacente Stanza della Segnatura) Giulio II appare con la barba e quindi il dipinto è posteriore all’autunno del 1511 e solo dopo questa data Raffaello può aver iniziato a dipingere la stanza adiacente dove nella finestra sotto il dipinto con la Messa di Bolsena è leggibile l’iscrizione Iulius. II. Ligur. Pont. Max. Ann Christ M.D.XII Pontificat. Sui VIIII. John K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (1483-1602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. I, p. 162. 4 Il sermone è commentato in Cloulas, Giulio II cit., p. 230. 5 Marino Sanuto, I diarii, Venezia 1886, tomo XVI, p. 161. «hordine di la incoronatione fu fata a Papa Leone decimo a Roma a dì 11 April 1513». La guardia d’onore di Leone X non può essere troppo diversa da quella di Giulio II. Molti studiosi, tra cui Oberhuber, ritengono senza molto fondamento che in questi personaggi sia da riconoscere la guardia svizzera che a quell’epoca aveva divise di ben altra modestia e non aveva ancora raggiunto la funzione tanto rilevante che occuperà in seguito. Nella descrizione di Sanuto se ne trova puntuale conferma a p. 162: «La guardia di sguizari vestita a la livrea dil Papa». La livrea è lontanissima dal lusso delle vesti degli uomini in primo piano ed è composta da pochi colori sempre uguali mentre i vestiti degli uomini in primo piano sono di colori tutti diversi tra loro. 6 Sulla Pax romana seguita alla guarigione del papa cfr. Manfredo Tafuri in Raffaello architetto, a cura di Christoph Luitpold Frommel, Stefano Ray, Manfredo Tafuri, Electa, Milano 1984, p. 70. 7 Marino Sanuto, I diarii, tomo XV, Venezia 1886, p. 503. Dispaccio del 16 gennaio 1513. 8 Ivi, Lettera dell’Oratore Foscari del 28 febbraio, p. 531. 9 Luzio, Federico cit., p. 578. 330

10

«In questo modo sarà ella ornata de boni costumi e gli esercizi del corpo convenienti a donna farà con suprema grazia e i ragionamenti soi saranno copiosi e pieni de prudenzia (...) degna d’esser agguagliata a questo gran cortegiano, così delle condizioni dell’animo come di quelle del corpo». Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, Libro terzo, Einaudi, Torino 1998, p. 265. 11 I sonetti sono in Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 131. Sono annotati su alcuni disegni preparatori della Disputa e per questo datati dallo Shearman al 1509, data di esecuzione del dipinto. A nostro avviso vanno datati successivamente perché solo dopo che i disegni non sono più importanti diventano carta per appunti capitata sotto mano a Raffaello. 12 La cronaca dettagliata delle feste di quei giorni è in Luzio, Federico cit., pp. 557 sgg. 13 Gli studi più recenti su Agostino e la sua immensa ricchezza sono in Ingrid D. Rowland, The Correspondence of Agostino Chigi (14661520), in Cod. Chigi, R.V.C., Biblioteca apostolica vaticana, Città del Vaticano 2001, p. 2: «he reputately become the richest man of the continent». 14 In un memorabile studio del 1934 Fritz Saxl analizzò l’oroscopo dipinto da Peruzzi alla Farnesina arrivando a determinare la data di nascita presunta del banchiere, supposta tra fine novembre e inizi dicembre 1466. Anni dopo, il rinvenimento del certificato di nascita del Chigi confermò le intuizioni di Saxl e dell’astrologo che lo aveva aiutato in quell’impresa: Fritz Saxl, La fede astrologica di Agostino Chigi. Interpretazione del dipinto di Baldassarre Peruzzi nella sala di Galatea della Farnesina, Reale Accademia d’Italia, Roma 1934. 15 Giuseppe Cugnoni, Agostino Chigi il Magnifico, Forzani e C., Roma 1881, p. 112. L’elenco dei beni è registrato a maggio 1496, «In castro Bracchiani in Palatio Illustris domini Virgini etc.». 16 I rapporti tra Agostino e Raffaello sono indagati nello studio che Frommel ha dedicato alla Villa della Farnesina: Christoph Luitpold Frommel, La villa Farnesina a Roma, Franco Cosimo Panini, Modena 2003. Per la datazione dei dipinti cfr. Anche Konrad Oberhuber, Raffaello. L’opera pittorica, Electa, Milano 1999, p. 138: «Il Vasari afferma che gli affreschi di Raffaello furono dipinti prima che fosse scoperto il soffitto della Sistina, ma dopo che Raffaello aveva visto l’affresco del 331

grande fiorentino, e in seguito a ciò avesse cambiato il suo stile. Questo suggerisce una data anteriore al 1511, quando, come abbiamo visto, fu scoperta la prima metà del soffitto». Datazione incerta come tutte quelle legate a confronti stilistici. Ad ogni modo la vicinanza di Chigi e Raffaello alla fine del 1510 è provata dal contratto per la fusione dei tondi, riportato in Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 143. «Die X.a novembris 1510 (...) Magister Cesarinus Francisci de Perusio aurifex in Urbe, in regione Pontis, confessus fuit habuisse a domino Augustino Chisio mercatore Senensi (...) secundum ordinem et formam eidem dandam per magistrum Raphaelem Johannis Sancti de Urbino pictorem». 17 Il contratto di matrimonio, che è anche una descrizione della solennissima cerimonia tenuta in casa di Agostino il 18 agosto 1519, restituisce compiutamente il trionfo ineguagliabile della ragazza veneziana che aveva stregato Agostino. È riportato in Ottorino Montenovesi, Agostino Chigi, banchiere e appaltatore dell’allume di Tolfa, in Archivio della Reale Società Romana di Storia Patria, Roma 1937, 60, pp. 107147; a p. 122 il documento centrale per la comprensione della vicenda amorosa: «Cum sit quod magnificus vir dominus Augustinus Chisius, patritius Senensis, ut asseruit, dominam Franciscam Ardeaceam, venetam, tunc puellam, virginem, et solutam, egregia forma insignique pudicitia, ac multis animi dotibus conspicuam, ad domum suam traduxerit ac secum illam per septem annos et ultra affectione coniugali retinuerit, et ex ea sobolem procreaverit; nunc autem intendat de cetero idem dominus Augustinus similiter solutus cum eadem domina Francisca canonice vivere, ac sue et ipsius Francisce animarum saluti, suoque et Francisce sobolisque predicte honori per virtutem sancti matrimonii consulere, ad hoc a prefato Sanctissimo Domino Nostro, cui admodum gratus existit, paterne et salubriter sepius exortatus; idcirco tam Augustinus quam Francisca prefati, anno, indictione, die, mense, et pontificatu quibus supra, coram prelibato Sanctissimo Domino Nostro (...) ac interrogati a prefato Sanctissimo Domino Nostro, Augustinus videlicet an vellet Franciscam in legittimam uxorem suam, et Francisca an vellet Augustinum in legittimum maritum suum (...). Ipseque Augustinus in signum veri et legittimi matrimonii inter eum et ipsam Franciscam contracti, certum annulum aureum, cum gemma annulo inclusa, eidem Francisce in digito annulari manus sinistre immisit, ipsaque Francisca eundem annulum in signum matrimonii 332

huiusmodi honeste et reverenter ab eodem Augustino recepit, ac prefatus Sanctissimus Dominus Noster subiunxit hec verba, videlicet: quos Deus coniunxit homo non separat. Post que idem Augustinus summam trium millium ducatorum (...) in dotem dedit (...). Et in signum divine et humane societatis, Augustinus et Francisca predicti ad invicem dexteram dextere iniunxerunt; et osculatis pedibus Sanctissimi Domini Nostri, actum hunc solemnem et legittimum fore motu proprio et ex certa scientia declarantis, ab eodem benedictionem suam, cum ea qua decuit reverentia et humilitate, receperunt. Pro quibus trium millium ducatorum in dotem datione (...). Acta fuerunt hec Rome, in dicta domo prefati domini Augustini, sita in regione Transtiberim, ad portam Septimanam, in quadam camera prope logiam dicte domus, presentibus ibidem rev.mis in Christo patribus et dominis Bonifacio, tituli Sanctorum Nerei et Achillei». La circostanza sottolineata nel documento che dall’estate del 1512 Agostino e Francesca convivevano alla Farnesina è testimoniata anche da una lettera del 21 novembre 1512 dell’arcidiacono di Gabbioneta che dichiara fallite da un pezzo le trattative matrimoniali, in Luzio, Federico cit., p. 531: «che essendo in la età de XLV anni et più, era risoluto che havendo a pigliar donna la dovesse pigliare per consolatione comune, et non perchè una de le parte fosse malcontenta». Siccome nel gennaio del 1512 il panegirico di Blosio Palladio non menziona né la Galatea ma neppure le soprastanti lunette di Sebastiano del Piombo, dipinte dopo quella data, si può datare con certezza la Galatea almeno alla primavera estate del 1512, quando Agostino ha deciso di abbandonare le trattative con Margherita. La stretta vicinanza stilistica e fisiognomica della ninfa nuda a destra di Galatea con la santa Barbara della Madonna Sistina spinge la datazione dell’affresco alla fine del 1512 o alla metà del 1513. Per una attendibile datazione della Madonna Sistina cfr. Jürg Meyer zur Capellen, Raphael: A Critical Catalogue of His Paintings, Arcos, Landshut 2005, vol. II, pp. 107 sgg. Per una diversa datazione e interpretazione del dipinto cfr. Frommel, La villa Farnesina a Roma cit., che lo colloca nell’autunno inverno del 1511-12 mettendolo in relazione con il matrimonio tentato con Margherita Gonzaga. I due poemi che cantano la Farnesina sono quello di Egidio Gallo del 1510 e quello di Blosio Palladio stampato nel gennaio 1512, nel quale non si fa menzione del dipinto di Galatea. Per Egidio Gallo vedi Mary Quinlan McGrath, Aegidius Gallus, De Viridario Augustini Chi333

gii vera libellus, in «Humanistica Lovaniensa», 1989, 38, pp. 1-99, e della stessa autrice Blosius Palladius, Suburbanum Augusti Chigii, in «Humanistica Lovaniensa», 1990, 39, pp. 93-156. 18 La lettera è in Luzio, Federico cit., p. 530. 19 Sanuto, I diarii cit., 1890, tomo XXVIII, p. 350. «Et per el fiume li vene incontra do delphini, che erano do batelli coperti in forma de diti delphini, et sopra de uno li stava el dio Netuno cum el tridente in mano». Può darsi che nel suo soggiorno veneziano lo stesso Chigi abbia assistito a una di queste messe in scena, il che spiegherebbe la presenza della ruota di legno al lato della conchiglia. 20 Luzio, Federico cit., p. 556. 21 Riportato in Cloulas, Giulio II cit., p. 290.

NOTE AL CAPITOLO 6 1 Marino Sanuto, I diarii, tomo XV, Venezia 1886, p. 29. Ben altro il resoconto fatto dagli esuli pratesi, come risulta dai documenti raccolti nel prezioso saggio di Jacopo Modesti, Il miserando Sacco dato alla terra di Prato dagli Spagnoli, in «Archivio Storico italiano» (1842-1941), Vieusseux, Firenze 1842, I, pp. 241 sgg. 2 Questo il senso che si ricava da un passo dei Diarii cit. del Sanuto, 1886, tomo XV, p. 9: settembre 1512: «poi a dito a l’orator nostro, non li piaceria che Medici intrasse in Fiorenza col favor di spagnoli, e che i havesseno tanti denari, perché Medici li hanno promesso ducati 50 mila». Se i soldi promessi agli spagnoli furono poi intascati dal papa non è chiaro, ma è certo che i Medici erano disposti a sborsare qualsiasi somma pur di soggiogare Firenze. 3 Sulle feste dell’incoronazione di Leone X la fonte più ricca è in Marino Sanuto, I diarii, tomo XVI, Venezia 1886, p. 158, lettera del 12 aprile 1513: «Scrive la incoronation fata ozi a San Janni coperte le strade di Roma, fato molti archi triunfali, coperto il ponte di Sant’Anzolo. È stà fata gran spesa per cardinali e fiorentini di vestir; è stà speso in questa coronation da ducati 150 milia». 4 Sul banchetto cfr. Fabrizio Cruciani, Il teatro del Campidoglio e le feste Romane del 1513, Il Polifilo, Roma 1968. 5 Ivi, pp. 41 sgg. 6 Ivi, p. 42: «VIII piatti con VIII gran pastelli dorati, fatti in forma

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di palle, pieni di cunigli vivi tanto mansueti et domestici che alcuni (aperte che furono le palle) non se partivano della tavola, ma, saltellando sopra essa, se pascevano di quelle cose che più al suo gusto dillettavano», e a p. 43: «VIII gran piatti pieni di botticelli dorati et depinti con arme di Nostro Signore et dè Romani, pieni di pere guaste». L’allusione era alle palle dell’emblema mediceo. 7 Ivi, p. 55. 8 Alessandro Luzio, Federico Gonzaga, ostaggio alla Corte di Giulio II, Archivio della Reale Società Romana di Storia Patria, Roma 1886, p. 549, 19 febbraio 1513. La tristezza di Raffaello per la morte del suo protettore fu sincera e profonda, se superò l’esame di un osservatore spietato e pettegolo come l’ambasciatore di Isabella d’Este a Roma, pronto a cogliere ogni sbavatura della società di corte per rallegrare la padrona ancora più avida di lui di pettegolezzi e maldicenze. 9 Il coinvolgimento di Raffaello nell’architettura è stato di recente analizzato nel lavoro fondamentale raccolto in Raffaello architetto, a cura di Christoph Luitpold Frommel, Stefano Ray, Manfredo Tafuri, Electa, Milano 1984. 10 John K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (14831602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. I, p. 180, Raffaello allo zio Simone Ciarla, primo luglio 1514. 11 Giorgio Vasari, Le Vite, 1550, in Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. II. 12 Cfr. il commento all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto di Orlando Ferrari del 1549-50: «Ultimatamente, per continovare fuor di modo i suoi amori, se ne morì in età di 37 anni l’istesso dì che nacque». Citato in Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. II, p. 968. 13 Cfr. la ricostruzione delle vicende del dipinto e della sua leggenda da parte di Lorenza Mochi Onori in Raffaello. La Fornarina, Edizioni De Luca, Roma 2000, pp. 11 sgg. 14 Dalla collezione Botti il quadro passò poi alle collezioni granducali e con buona certezza può essere identificato con quello esposto oggi alla Palatina. Sul ritratto e la sua storia e identificazione, cfr. Raffaello a Firenze. Dipinti e disegni delle collezioni fiorentine, Electa, Milano 1984, pp. 174 sgg. 15 Per motivi stilistici il quadro è databile intorno al 1514-15, tra i ritratti di Inghirami e Giulio II e quello del Bibbiena, sicuramente collocabile intorno al 1516. 335

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In Raffaello a Firenze cit., p. 267: «L’immagine radiografica del manto differisce da ciò che si vede nel visibile. Si notano delle strisce bianche che non corrispondono alle maniche ed al manto, segni di un diverso posizionamento delle pieghe, se non addirittura del braccio sinistro». 17 Il passo citato nel testo è nella lettera del 12 febbraio 1512 inviata da Roma a Isabella d’Este in Mantova, in Luzio, Federico cit., p. 534. «grandissima quantità di cortesane li andorno e pompe assai, e assai vestite da homni chi in su mule, chi su cavalli; et me par (...)». La lettura «casta» del dipinto è invece ripresa in Raffaello a Firenze cit., p. 174: «Recentemente l’Oberhuber, basandosi su più approfondite e puntuali notazioni iconografiche, ha asserito che le vesti sontuose, non certo da popolana, il velo riservato alle donne sposate con figli, e lo stesso gesto della mano sul cuore, proprio delle fidanzate o delle spose fedeli, fanno escludere che la donna di Pitti possa essere la Fornarina». Il passo suona decisamente ironico confrontato alla testimonianza cinquecentesca. Considerato poi il carattere privato del dipinto, pegno di una profonda devozione amorosa, si può presumere che Raffaello si sentisse libero di celebrare come voleva la sua amante. Una considerazione iconografica aiuta a capire un altro inquietante dettaglio dell’opera pittorica di Raffaello concernente l’identità del turbante alla romana che compare sulla testa della Fornarina nuda e della estatica Madonna della seggiola. Ma ancora più imbarazzante è sembrata ai moderni censori di Raffaello la somiglianza della Velata con la Madonna Sistina. L’amore di Raffaello per le donne non si fermava di fronte a categorie morali. Il fascino erotico che sentiva per la sua modella era la spinta creativa che gli permise di arrivare anche nel ritratto della Madonna Sistina alla creazione di un’immagine profondamente coinvolgente. Il suo processo creativo non può essere soggetto a categorie morali o peggio ancora teologiche. 18 Ottavia Niccoli, Rinascimento anticlericale, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 88 sgg. Il giudizio fortemente critico dato da Erasmo sulla Roma di Leone X fu per molto tempo ritenuto alla base della rivolta luterana. 19 Ivi, p. 97. 20 Ivi, p. 92. Anche se molto esagerata, la campagna satirica antipapale coglieva la percezione diffusa a Roma e in Italia di Leone X come un papa edonista, tutto concentrato sugli splendori del regno ter336

reno al punto da essere definito da Pietro Aretino, che fu alla sua corte in quegli anni, come «inventore della grandezza dei Papi». 21 Ivi, p. 94. 22 Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1971, libro XIII, cap. XV, p. 1371. Cfr. anche libro XIV, cap. X, p. 1444: «Principe nel quale erano degne di laude e di vituperio molte cose, e che ingannò assai la espettazione che quando fu assunto al pontificato si aveva di lui, conciossiaché e’ riuscisse di maggiore prudenza ma di molto minore bontà di quello che era giudicato da tutti». 23 Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 366. 24 Ivi, vol. I, p. 367.

NOTE AL CAPITOLO 7 1 Sempre su base puramente stilistica, Konrad Oberhuber (Raffaello. L’opera pittorica, Electa, Milano 1999, p. 143) lo data un anno prima: «Questo nuovo, grandioso stile michelangiolesco si può anche ritrovare in talune Madonne di raccolta dolcezza che Raffaello dovette dipingere in questo periodo, dal 1513 al 1514». Rimane fondamentale per la comprensione del dipinto il bellissimo saggio di Ernst H. Gombrich, La Madonna della Seggiola di Raffaello, in Id., Norma e forma. Studi sull’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 1973, p. 39. Sempre al 1514 la data con buon fondamento Jürg Meyer zur Capellen, Raphael: A Critical Catalogue of His Paintings, vol. II, Arcos, Landshut 2005, p. 137. 2 Oberhuber, Raffaello cit., p. 212. 3 Raffaello architetto, a cura di Christoph Luitpold Frommel, Stefano Ray, Manfredo Tafuri, Electa, Milano 1984, p. 241. 4 John K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (1483-1602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. I, p. 735. 5 Ivi, p. 397. Raffaello apportò di sua mano le note tecniche al manoscritto: cfr. Vitruvio e Raffaello: il «De Architectura» di Vitruvio nella traduzione inedita di Fabio Calvo ravennate, a cura di Vincenzo Fontana, Paolo Morachiello, Officina, Roma 1975. Per un commento di questo interesse di Raffaello per le tecniche artistiche antiche, cfr. Antonio Forcellino, Elisabetta Pallottino, La materia e il colore nell’architettura romana tra Cinquecento e Neocinquecento, in «Ricerche di Storia dell’arte», 41-42, 1991, p. 12.

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Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 512. Sulla genesi di questa lettera vedi anche il saggio acutissimo di Christof Thoenes in Raffaello a Roma. Il Convegno del 1983, Edizioni dell’Elefante, Roma 1986, pp. 373-81. 7 Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 510. Sullo stato delle ricerche tecnologiche ai tempi di Raffaello, cfr. Forcellino, Pallottino, La materia e il colore nell’architettura romana tra Cinquecento e Neocinquecento cit. 8 Sulla fabbrica che iniziò il Rinascimento architettonico romano cfr. James S. Ackerman, The Cortile del Belvedere, Biblioteca apostolica vaticana, Città del Vaticano 1954, e Antonio Forcellino, Le fabbriche cinquecentesche di Roma, nota sulle finiture esterne, in «Ricerche di Storia dell’Arte», 27, 1986. 9 Michelangelo voleva servirsi dello stucco per la volta della Sagrestia nuova di San Lorenzo a Firenze. La lettera è in Il Carteggio di Michelangelo, 5 voll., edizione postuma di Giovanni Poggi a cura di Paola Barocchi, Renzo Ristori, SPES-Sansoni, Firenze 1965-83, vol. III (1973), p. 35, ed è molto importante per la storia delle tecniche artistiche nel Rinascimento. Prova infatti che effettivamente Raffaello diede un impulso straordinario alle ricerche artistiche contemporanee per acquisire gli strumenti, non solo intellettuali, capaci di sostenere la competizione con l’antico. I risultati raggiunti da questa ricerca sono esaltati dagli allievi che proseguono il progetto raffaellesco e in particolare da Giulio Romano a Mantova. Cfr. Antonio Forcellino, I rivestimenti superficiali nelle fabbriche di Giulio, in Giulio Romano, a cura di Ernst H. Gombrich, Mandredo Tafuri, Sylvia Ferino Pagden, Christoph Luitpold Frommel, Konrad Oberhuber, Amedeo Belluzzi, Kurt Forster e Howard Burns, Electa, Milano 1989, p. 305. 10 Raffaello architetto cit., p. 368. Un rigoroso studio della stufa del Bibbiena è in Heikki Holme, La stufetta del Cardinale Bibbiena e l’iconografia dei suoi affreschi principali, in Quando gli Dei si spogliano. Il bagno di Clemente VII a Castel Sant’Angelo e le altre stufe romane del primo Cinquecento, catalogo della mostra a cura di Bruno Contardi, Henrik Lilius, Romana società editrice, Roma 1984. 11 David S. Chambers, SPAS in the Italian Renaissance, in Id., Individuals and Institutions in Renaissance Italy, Ashgate Variorum 1998, p. 27, n. 111. La libertà erotica vagheggiata in questa lettera pervade 338

come un desiderio sempre affiorante l’intero Rinascimento italiano almeno fino al Concilio di Trento. Il destinatario di questa lettera, Francesco Gonzaga, fu esempio di estrema disinvoltura ai suoi contemporanei, accompagnandosi indifferentemente a uomini e donne di ogni condizione purché disponibili al piacere puramente carnale. 12 Pier Nicola Pagliara in Raffaello architetto cit., pp. 197 sgg.

NOTE AL CAPITOLO 8 1

John K.G. Shearman, Raphael in Early Modern Sources (1483-1602), 2 voll., Yale University Press, New Heaven 2003, vol. I, p. 203. 2 Ivi, p. 477. Lettera di Alfonso d’Este in Ferrara ad Alfonso Paolucci in Roma, 10 settembre 1519. La tormentata vicenda che oppose il duca di Ferrara al grande artista urbinate fu portata alla luce in un memorabile studio di Giuseppe Campori, Notizie inedite di Raffaello da Urbino tratte da documenti dell’Archivio Palatino di Modena, in Atti e memorie delle Deputazioni di Storia Patria per le Provincie Modenesi e Parmensi, Vincenzi, Modena 1863, vol. I, pp. 111-47. 3 Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 379. Lettera di Alfonso d’Este in Parigi al suo segretario Remo Obizzone in Ferrara, 29 dicembre 1518. 4 In Domenico Laurenza, Leonardo nella Roma di Leone X (c.151316), Giunti, Firenze 2004, p. 17, n. 62. Nell’acuto saggio di Laurenza, vengono per la prima volta poste questioni essenziali sul reale rapporto tra scienza arte filosofia e teologia negli anni del Rinascimento maturo a Roma. Il rapporto tra Leonardo e Raffaello in quegli anni coinvolge una sfera molto più ampia di quella strettamente artistica su cui la storia dell’arte non ha praticamente mai indagato con serietà. Entrambi gli uomini stavano oltrepassando in quegli anni, seppure in maniera diversa, i limiti intellettuali e sociali posti all’artista nei secoli precedenti. La forza del fascino che Leonardo esercitò per tutta la vita su Raffaello è molto lontana dall’essere pienamente compresa, di contro all’influsso decisamente sopravvalutato che secondo la leggenda vasariana esercitò su Raffaello Michelangelo. Del resto Giorgio Vasari non era più in grado di comprendere gli orizzonti nei quali si erano mossi Leonardo e Raffaello, incastrato dal clima repressivo instaurato dalla Controriforma, in una questione di «maniera stilistica» che semplifica339

va e impoveriva il portato dirompente che aveva avuto la ricerca artistica nei decenni precedenti. 5 Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 238. Lettera scritta da Pietro Bembo in Roma al Cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena in Fiesole il 3 aprile 1516. 6 Ivi, vol. I, p. 240. Lettera di Pietro Bembo in Roma al cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena in Rubiera il 19 aprile 1516. 7 Una imponente icona con la raffigurazione della Trasfigurazione, dipinta nel 1395 e proveniente dalla chiesa della Trasfigurazione di SpasPodgorye vicino a Rostov Velikij, che mostra lo stravolgimento psicologico provocato dall’intervento, è stata esposta nel corso della mostra al Guggenheim Museum di New York, Russia!, catalogo a cura di Gerold Vzdornov, Sergei Androsov et alii, Guggenheim Museum Publications, New York 2005, p. 5. 8 Sebastiano del Piombo in Roma a Michelangelo in Firenze, 2 luglio 1518, in Il Carteggio di Michelangelo, 5 voll., edizione postuma di Giovanni Poggi a cura di Paola Barocchi, Renzo Ristori, SPES-Sansoni, Firenze 1965-83, vol. II (1967), p. 32. 9 Lettera di Bembo al cardinal Dovizi cit. 10 Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 478. Lettera di Alfonso Paolucci in Roma ad Alfonso d’Este in Ferrara, 12 settembre 1519. 11 Il Carteggio di Michelangelo cit., vol. II (1976). Lettera di Leonardo Sellaio in Roma a Michelangelo in Firenze, il primo gennaio 1519, p. 138. 12 La lettera è riportata con ampio commento critico in Raffaello architetto, a cura di Christoph Luitpold Frommel, Stefano Ray, Manfredo Tafuri, Electa, Milano 1984, pp. 324 sgg. 13 Ivi, p. 326. 14 Sui progetti redatti tra il 1519 e il 1520 da Raffaello per la propria abitazione in via Giulia cfr. Luigi Spezzaferro, in Via Giulia. Un’utopia urbanistica del 500, a cura di Luigi Salerno, Luigi Spezzaferro, Manfredo Tafuri, Staderini, Roma 1973, pp. 265 sgg. e Manfredo Tafuri, Ricerca del Rinascimento, Einaudi, Torino 1992, pp. 308 sgg. 15 Ludovico Dolce, Dialogo della pittura intitolato l’Aretino, Venezia 1557, in Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. II, p. 1062. 16 Ivi, vol. I, p. 439. Lettera di Alfonso Paolucci in Roma ad Alfonso d’Este in Ferrara, 2 marzo 1519. 340

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Ivi, vol. I, p. 441. Ivi, vol. I, p. 459. Lettera di Baldassarre Castiglione in Roma a Isabella d’Este in Mantova, 16 giugno 1519. 19 Dal diario di Paride de’ Grassis in data 26 dicembre 1519, riportato in ivi, vol. I, p. 490. «In die Sancti Stefani fuit missa papalis solita in Capella, presente Papa cum cardinalibus 30. Eam missam cantavit Cardinalis de Valle, licet non satis bene. Hodie papa jussit appendi suos pannos de Rassia novos, pulcherimos et pretiosos, de quibus tota capella stupefacta est in aspectu illorum, qui, ut fuit universale juditium, sunt res qua non est aliquid in orbe nunc pulchrius; et unumquodque petium est valoris II milium ducatorum auri in auro». 20 Dal diario di Marcantonio Michiel, sotto la data del 27 dicembre 1519, riportato in ivi, vol. I, p. 491. «Queste feste di Natale il Papa messe fuori in Capella 7 pezzi di razzo, perché l’ottavo non era fornito, fatti in Ponente, che furono giudicati la più bella cosa che sia stata fatta in eo genere a’ nostri giorni (...). Il disegno de’ ditti razzi del Papa furono fatti da Raffaello da Urbino pittore eccellente, per li quali el ne hebbe dal Papa ducati 100 per uno, e la seda et oro, de li quali sono abundantissimi, e la fattura costorono 1500 duchati el pezzo, si che costavano in tutto, come il Papa istesso disse, duchati 1600 il pezzo, per benché si giudicasse e divulgasse valer duchati 2000». L’acume della politica non disdegnava neppure la dettagliata contabilità dell’arte. 21 Lettera di Sebastiano del Piombo in Roma a Michelangelo in Firenze, 29 dicembre 1519, in Shearman, Raphael in Early Modern Sources cit., vol. I, p. 493. 18

REFERENZE ICONOGRAFICHE Città di Castello, Pinacoteca comunale: figg. 2, 3. Londra, © National Gallery: figg. 4, 11, 23, 51, 61. Su concessione del Ministero per i Beni e le attività culturali (Divieto di ulteriori riproduzioni o duplicazioni con qualsiasi mezzo) – Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico per le province di Milano, Bergamo, Como, Lecco, Pavia, Sondrio, Varese: fig. 5. Soprintendenza speciale per il Polo Museale fiorentino: figg. 7, 13, 14, 24, 26, 29, 50, 55, 57, 78. Soprintendenza speciale per il Polo Museale romano: figg. 12, 25. Bologna, Pinacoteca nazionale: fig. 30. Soprintendenza speciale per il Polo Museale napoletano: fig. 48. Caen, Musée des Beaux-Arts. Foto di Martine Seyve: fig. 6. Opera della Metropolitana AUT. n° 551/06: fig. 8. Per concessione dei Musei Vaticani: figg. 9, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 46, 59, 65, 66, 70, 71. San Pietroburgo, Museo statale dell’Ermitage: fig. 10. Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister: fig. 27. New York, Ira Spanierman Collection: fig. 28. 343

Londra, V&A Images/Victoria and Albert Museum: figg. 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37. Roma, Galleria Doria Pamphilj: fig. 38. Parigi, Musée du Louvre: figg. 39, 40, 41, 42, 43, 52, 53. Lille, Musée des Beaux-Arts: fig. 47. Oxford, Ashmolean Museum: fig. 49. Parigi, © Photo RMN: fig. 53. Washington, Foto © 2006 Board of Trustees, National Gallery of Art: figg. 54, 62. London, Royal Academy of Arts: fig. 56. Milano, Proprietà della Biblioteca Ambrosiana. Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione: fig. 58. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett: fig. 60. Londra, © The British Museum: fig. 69. Firenze, Archivio Scala: fig. 72.

INDICE DEI NOMI Ackerman, James S., 338. Adinolfi, Pasquale, 321. Agostino d’Ippona, santo, 41, 101, 138, 250, 252-53. Alberini, famiglia, 277. Alberini, Giulio, 277. Alberti, Leon Battista, 78, 81, 311. Albinia, 182, 223. Albizzini, famiglia, 54. Albizzini, Filippo, 53-55. Aleandro, Girolamo, 232. Alessandro VI (Rodrigo Borgia), papa, 60-61, 63-64, 69-70, 131132, 138, 163-64, 187, 324-25. Alfonso I d’Este, 65, 67, 164, 166, 209, 283-85, 299, 326, 339-40. Alighieri, Dante, 90-91. Altieri, Marco Antonio, 287. Andrea, santo, 259. Andrea del Castagno, 13. Andrea del Sarto, 78, 114. Androsov, Sergei, 340.

Anna, santa, 83-84, 86, 180, 294. Antonello da Messina, 13, 22, 289. Apollodoro, 329. Apuleio, Lucio, 302-303. Aretino, Pietro, 213, 220, 317, 337. Ariosto, Ludovico, 193, 335. Aristotele, 154, 158. Baglioni, famiglia, 103, 105-106, 109, 132. Baglioni, Astorre, 103, 105-106, 327. Baglioni, Atalanta, 103, 105-10, 112-13. Baglioni, Braccio, 103, 105. Baglioni, Filippo, 106. Baglioni, Gian Paolo, 106-108. Baglioni, Grifone, 103. Baglioni, Grifonetto, 103, 105-108, 112. Baglioni, Guido, 106. Baglioni, Simonetto, 104.

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Bajazet Chan, 61. Barbara, santa, 197, 249-50, 333. Barciglia, Carlo, 106. Barocchi, Paola, 338, 340. Baronci, famiglia, 46. Baronci, Andrea, 33, 39, 43, 64, 323. Beazzano, Agostino, 287, 293. Bellini, Gentile, 13. Bellini, Giovanni, 13. Belluzzi, Amedeo, 338. Beltrami, Luca, 326-27. Bembo, Pietro, 273, 287, 291-92, 299, 318, 340. Bentivoglio, famiglia, 132, 134. Bernardo, santo, 101. Berruguete, Pedro, 8, 22, 291. Bibbiena, Bernardo Dovizi, detto il, 218, 223, 254, 272-75, 287-89, 291, 299, 301, 315, 335, 338, 340. Bocciardo, Giorgio, 61. Boezio, 8. Borghese, Scipione, 112. Borgia, famiglia, 64, 69, 71, 106. Borgia, Cesare, detto il Valentino, 38, 62, 64, 67, 69-70, 132, 140, 164, 324-25. Borgia, Lucrezia, 64-65, 67, 164, 326. Botti, Matteo, 221. Botticelli, Sandro, 13, 93. Bramante, Donato, xv, 123, 136138, 140, 153, 215, 261-63, 265, 268, 276. Bramantino, Bartolomeo Suardi, detto il, 140. Bramly, Serge, 327. Branconio dell’Aquila, Giovan Battista, 278.

Brunelleschi, Filippo, 100, 113, 124-25. Buonarroti, Michelangelo, XV, 27, 78-79, 87-93, 96-97, 101, 110, 114, 129, 132, 137-38, 140, 142, 147-50, 166, 168, 172, 179, 189-90, 198, 201, 205-206, 210, 216, 246, 255, 268, 270-71, 298, 300-301, 303-305, 317, 319, 325, 327-28, 338-41. Burcardo, Giovanni, 64, 69, 324325. Burns, Howard, 328, 338. Caetani, famiglia, 126, 134. Calcagnini, Celio, 288. Calvo, Fabio, 216, 265, 288. Campori, Giuseppe, 339. Cancellieri, Francesco, 321. Capranica, Domenico, 68. Carlo VIII di Valois, re di Francia, 60, 132. Castiglione, Baldassarre, 142, 151, 181, 245, 265, 284, 287, 290, 292-93, 299, 311-12, 331, 341. Caterina, santa, 196. Cavalier d’Arpino, Giuseppe Cesari, detto il, 112. Cecilia, santa, 250-53, 286. Cennini, Cennino, 7, 19-21, 27, 322-23. Cesare da Sesto, 140. Cesare, Gaio Giulio, 136, 165-66. Cesarino di Francesco, 332. Chambers, David S., 338. Chapman, Hugo, 323, 326-27. Chastel, André, XV, 322. Chiara di Montpensier, 325. Chiarini, Marco, 327. Chigi, famiglia, 183, 189.

346

Chigi, Agostino, XIII, 164, 174, 183, 185-88, 190-95, 199, 207208, 211, 213-15, 218, 220, 222, 231, 254, 260, 274, 286, 298, 300-301, 303-305, 307, 310, 315, 317, 321, 331-32, 334. Ciarla, Magia di Battista, 6, 14-15, 25, 322. Ciarla, Simone, 116, 217, 328, 335. Ciatti, Marco, 327. Cicerone, Marco Tullio, 8, 311. Cimabue, Cenni di Pepo, detto, 49. Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa, 219, 222, 235-36, 296, 298, 311-12. Cloulas, Ivan, 326, 328, 330, 334. Colonna, famiglia, 63, 126, 134. Colonna, Lavinia, 103-106. Colonna, Pompeo, 176. Contardi, Bruno, 338. Cooper, Donald, 324. Cornaro, Marco, 182, 223. Cruciani, Fabrizio, 334. Cugnoni, Giuseppe, 331. Cybo, Innocenzo, 318. Dall’Olio, Elena, 251, 253-55. David, Jacques-Louis, 260. Dei, famiglia, 100-101, 113, 117, 122. Dei, Rinieri di Bernardo, 100. Delacroix, Eugène, 260. Delfo, Floriano, 274. della Rovere, famiglia, 140, 146, 163, 184, 188. della Rovere, Felicia, 137. della Rovere, Francesco Maria, 72, 117, 129, 163, 165, 184, 187, 234, 312.

della Rovere, Giovanna Feltria, 72-74, 98, 129. della Rovere, Giovanni, 72. della Rovere, Girolamo Basso, 123. della Rovere, Leonardo Grosso, XI. della Rovere, Luchina, 137. De Luca, Maurizio, 329. De Vecchi, Pierluigi, 324. Djem, 61. Dolce, Ludovico, 340. Domenici, Domenico de’, 18. Donatello, Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto, 124. Doni, famiglia, 327. Doni, Agnolo, 96-98, 101, 110. Doni, Maddalena, 97-99, 110, 225. Egidio da Viterbo, 174-75. Eliodoro, 169-71. Erasmo da Rotterdam, 167, 231, 336. Ercole d’Este, 65. Erode Antipa, X. Evangelista da Pian di Meleto, 33, 39, 323. Federico da Montefeltro, 10-16, 18, 39, 66, 291. Federico I di Napoli (IV d’Aragona), re di Napoli, 63. Ferino Pagden, Sylvia, 324, 338. Ferrarese, Beatrice, 219, 223. Ferrari, Orlando, 335. Fiammetta, madre di Giulio de’ Medici, 222. Filarete, Antonio Averlino, detto il, 81. Filostrato, 269. Foix, Gaston de, 174. Fontana, Vincenzo, 337.

347

Forcellino, Antonio, 327, 337. Forster, Kurt, 338. Fra Bartolomeo, Baccio della Porta, detto, 78, 94, 96, 101, 110, 114, 144. Francesca, contessa della Mirandola, 165, 181. Francesco d’Assisi, santo, 93. Francesco I di Valois-Angoulême, re di Francia, 285, 294, 298. Francia, Francesco, 251, 255. Frommel, Christoph Luitpold, 327328, 330-31, 334-35, 337-338, 340. Gallo, Egidio, 211, 333. Gavari, famiglia, 46, 48. Gavari, Domenico, 46, 49, 68. Gesù di Nazareth, IX-XII, 9-10, 17, 45, 51-52, 59, 82, 103, 108-109, 111-12, 114, 129-31, 133, 144145, 155, 174, 202, 235, 237, 244, 254-55, 258-59, 296-97, 320-21, 324-25. Gheri, Goro, 238. Ghirlandaio, fratelli, 27, 78, 92. Ghirlandaio, Domenico, 93, 158. Giacomo, apostolo, 259. Giberti, Gian Matteo, 220. Giotto di Bondone, 19, 93. Giovanni Battista, santo, 179, 244246, 294. Giovanni da Udine, 159, 216, 252, 270, 295, 303-304, 315. Giovanni Evangelista, santo, 50, 52, 112, 235, 250, 252-54, 259. Giovanni Giocondo da Verona, detto Fra Giocondo, 215, 262. Giovio, Paolo, 80, 326. Girolamo, santo, 49-50, 52.

Giuda Iscariota, X. Giulio II (Giuliano della Rovere), papa, 71, 91, 128-29, 131-40, 142-44, 146-47, 151-52, 154, 159, 163-78, 180, 183, 187-88, 192-93, 195, 199, 201-202, 206, 209-10, 214-16, 230-32, 236237, 245, 249, 262, 273, 284, 288-89, 314, 318, 326, 328-30, 335. Giuseppe, santo, 9, 17, 55-56, 97, 294. Giuseppe d’Arimatea, santo, 112. Giustiniano I, imperatore, 152. Giusto di Gand, 8, 14, 18, 22. Gombrich, Ernst H., 245, 337-38. Gonzaga, famiglia, 31, 66, 260. Gonzaga, Agostino, 283. Gonzaga, Eleonora, 184-85. Gonzaga, Elisabetta, 12, 16, 24-25, 66-67, 71-72, 98, 181, 234, 247, 325. Gonzaga, Federico, 31, 214, 265. Gonzaga, Francesco, 190, 214, 274, 339. Gonzaga, Ludovico, 14, 25. Gonzaga, Margherita, 190-92, 333. Gozzoli, Benozzo, 94, 208. Grassis, Paride de’, 200, 202, 207, 236, 341. Gregorio, santo, 8. Gregorio IX (Ugolino di Segni), papa, 152. Gregoriou, 19. Guicciardini, Francesco, 128, 233, 337. Guidobaldo da Montefeltro, 12, 16, 24-25, 66, 71-72, 101, 129, 163, 187.

348

Henry, Tom, 323, 326-27. Holme, Heikki, 338. Inghirami, Fedra, 288-89, 335. Ingres, Jean-Auguste-Dominique, 248. Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo), papa, 128, 139. Ippolito d’Este, 220, 284. Isabella d’Este, XII, 25, 30, 66-67, 82, 86, 98, 180, 185, 200, 206, 215, 248, 274, 283-84, 322, 325, 327, 335-36, 341. Jacopo da Brescia, 275, 277. Landucci, Luca, 324. Lang, Mattia, 328. Lapini, Agostino, 324. Laurana, Luciano, 11. Laurenza, Domenico, 339. Lazzaro, 296. Leonardo da Vinci, XV, 13, 79-88, 90-92, 96-97, 100, 116, 150, 158, 180, 216, 229, 286-87, 289, 292, 297, 327-28, 339-40. Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, XII-XIV, 176, 191, 206-11, 213-16, 219, 221-22, 231-33, 235-37, 246, 255, 260, 262, 264-66, 272-74, 276, 278, 285287, 294-95, 301, 310-11, 313, 315, 317-19, 330, 334, 336. Lilius, Henrik, 338. Lippi, Filippino, 13, 78, 93. Lippomanno, Hieronimo, 330. Longino, IX-X. Lotto, Lorenzo, 140, 149. Ludovico Sforza, detto il Moro, 81, 92.

Luigi XII, re di Francia, 164. Lutero, Martin, 231-33. Luzio, Alessandro, 322-23, 325, 329-31, 333-36. Machiavelli, Niccolò, 62, 133, 324325. Madeleine d’Auvergne, 233. Malraux, André, XV. Manet, Édouard, 290. Manetti, Antonio di Tuccio, 12. Mantegna, Andrea, 13, 109, 112. Maria, madre di Gesù, X, 9, 17, 4042, 49, 52, 55-59, 85-86, 88, 97, 101, 103, 109-10, 114, 138, 179180, 198, 244, 246-50, 324-25. Maria Maddalena, X, 52-53, 111112, 250, 253-54. Mariano, 318. Masaccio, Tommaso di Giovanni di Mone Cassai, detto, 13, 93. Matteo, santo, 108, 296. Medici, famiglia, 77, 92-94, 102, 208, 210-13, 216, 235, 238-39, 262, 312, 334. Medici, Cosimo de’, detto il Vecchio, 187, 233. Medici, Giuliano de’, 206, 211-13, 222, 235, 286, 310-11. Medici, Lorenzo de’, detto il Magnifico, 11, 81, 92, 187, 213, 222, 310. Medici, Lorenzo de’, duca d’Urbino, 211, 221, 231, 233-37, 292. Medici, Piero de’, 187, 214, 237, 272. Melozzo da Forlì, 13. Mercati, Angelo, 326. Meyer zur Capellen, Jürg, 333, 337. Michiel, Marcantonio, 321, 341.

349

Milanesi, Carlo, 322. Milanesi, Gaetano, 322. Mochi Onori, Lorenza, 335. Modesti, Jacopo, 334. Montefeltro, famiglia, 12, 19, 38, 72, 117. Montenovesi, Ottorino, 332. Morachiello, Paolo, 337. Morisot, Berthe, 290. Mosè, XI, 296. Most, Glenn, 329. Muzzarelli, Maria Giuseppina, 323, 326. Navagero, Andrea, 287, 292-93. Niccoli, Ottavia, 328, 336. Niccolò V (Tommaso Parentucelli), papa, 138. Nicola da Tolentino, santo, 39-40. Oberhuber, Konrad, XVII, 329-31, 336-38. Obizzone, Remo, 339. Oddi, famiglia, 57. Oddi, Leandra, 57, 102. Oliva, famiglia, 25. Oliva, Carlo, 25. Omero, 8, 152. Ordeaschi, Francesca, 191, 197, 303, 310, 332-33. Orsini, famiglia, 63, 126, 134, 187. Orsini, Alfonsina, 233, 237-39. Orsini, Clarice, 213. Orsini, Giulio, 208. Ovidio Nasone, Publio, 193-95. Padovani, Serena, 327. Pagliara, Pier Nicola, 339. Palladio, Blosio, 193, 211, 333. Pallottino, Elisabetta, 337.

Paolo di Tarso, santo, 58, 250, 252-54, 256-58, 297. Paolucci, Alfonso, 339-40. Parte, Bernardina di Piero, 26, 32. Pastor, Ludwig von, 326. Pazzi, famiglia, 311. Penni, Giovan Francesco, 216, 309. Pepi, Francesco, 325. Peri, Paolo, 322. Perugino, Pietro Vannucci, detto il, XVII, 13, 16, 45-47, 52-56, 58, 102, 109, 117-18, 140, 324. Peruzzi, Baldassarre, 140, 186, 193195, 269, 331. Piccolomini, Francesco, 57, 71. Pico, Pandolfo, XII-XIII, 322. Piero da Vinci, 80, 86. Piero della Francesca, 13, 15, 18, 23, 25, 322. Pietro, santo, 58, 101, 172-73, 201, 206, 208, 231-32, 256, 258-59, 296-97. Pietro de Nuvolaria, 86, 327. Pilato, Ponzio, IX. Pinturicchio, Bernardino di Betto, detto il, 16, 57-59, 68, 123, 138, 145. Pio II (Enea Silvio Piccolomini), papa, 8, 68, 131. Pio III (Francesco Todeschini Piccolomini), papa, 132. Pio, Emilia, 181. Platone, 87, 138, 154. Plazzotta, Carol, 323, 326-27. Plinio il Giovane, 37, 311. Poggi, Giovanni, 338, 340. Pomponazzi, Pietro, 286. Poussin, Nicolas, 260. Protagora, 329.

350

Quinlan McGrath, Mary, 333. Raimondi, Marcantonio, 181, 219221, 319. Rangone, Ercole, cardinale, 321. Ray, Stefano, 327-28, 330, 335, 337, 340. Reale, Giovanni, 329. Renier, Rodolfo, 322-23, 325. Riario, Raffaele, 175. Richter, Jean Paul, 326. Rinieri, santo, 101. Ripanda, Jacopo, 140. Ristori, Renzo, 338, 340. Rocco, santo, 44. Romano, Giulio, 216-17, 219-20, 309, 315, 338. Rossi, Luigi de’, 235-36, 239. Rowland, Ingrid D., 331. Roy, Ashok, 323. Rubens, Pieter Paul, 260. Rucellai, famiglia, 78. Salerno, Luigi, 340. Salomone, re di Israele, 8. Saltarelli, Jacopo, 79. Sangallo, famiglia, 267, 311. Sangallo, Antonio da, 267. Sangallo, Aristotile da, 89. Sangallo, Giuliano da, 262, 267, 276. Sanseverino, Federico, cardinale di, 174, 185. Sansovino, pseud. di Andrea Contucci, 123. Sante di Peruzzolo, 5. Santi, Bartolomeo, 26, 32-33. Santi, Elisabetta, 26, 32. Santi, Giovanni, XVII, 6-10, 12-16, 19, 22-27, 29-33, 39, 41-42, 52, 73, 98, 151.

Sanuto, Marino, 186, 328, 330, 334. Savelli, 325. Savelli, famiglia, 126, 134. Saxl, Fritz, 186, 331, 334-35. Sebastiano, santo, 44. Sebastiano del Piombo, Sebastiano Luciani, detto, 193, 195, 296, 298, 300-301, 304, 308, 317, 319, 333, 340-41. Sellaio, Leonardo, 298, 300, 340. Sforza, Battista, 15, 322. Sforza, Zenobia, 103, 106-108, 110. Shearman, John K.G., 321-23, 326-28, 330-32, 335, 337-41. Signorelli, Luca, 39, 41-42, 140, 145. Sisto IV (Francesco della Rovere), papa, 130-31, 140, 146, 249. Sisto, santo, 249-50. Soderini, Pier, 73-74, 83, 89-90, 102, 117, 142. Sodoma, Giovanni Antonio Bazzi, detto il, 140, 148. Spezzaferro, Luigi, 340. Spring, Marika, 323. Strozzi, famiglia, 78. Strozzi, Maddalena, vedi Doni, Maddalena. Taddei, Taddeo, 96, 101. Tafuri, Manfredo, 327-28, 330, 335, 337-38, 340. Tebaldeo, Antonio, 291. Thoenes, Christof, 338. Tiraboschi, Girolamo, 326. Tiziano Vecellio, 220. Tommaso, santo, 58-59. Tornabuoni, Leonardo, 80. Triboniano, 152.

351

Tura, Cosimo, 13. Turini, Baldassarre, 101. Vallati, Lorenzo, 212. Van der Goes, Hugo, 159. Van der Weyden, Rogier, 13, 18. Van Eyck, Jan, 13, 18. Varese, Ranieri, 323. Vasari, Giorgio, XVI, 13, 16, 22, 217, 219, 221, 223, 226, 244, 251, 255, 270, 287, 304, 332, 335, 339. Vattasso, Marco, 321.

Vespucci, Agostino, 325. Vitali, Lamberto, 329. Vitelli, famiglia, 38. Vitelli, Niccolò, 38. Vitelli, Vitellozzo, 64. Vitruvio, 194, 211, 216, 265, 269270, 288, 311. Vittorino da Feltre, 13-14. Vzdornov, Gerold, 340. Zebedeo, 259. Ziegler, Jacob, 288.

I LIBRI DI ANTONIO FORCELLINO TRA ARTE, STORIA E ROMANZO

Antonio Forcellino | MICHELANGELO. Una vita inquieta | Economica Laterza Pochi sono i biografi italiani capaci di raccontare con passione di romanziere e precisione di studioso come Forcellino. Il suo Michelangelo racconta la vita di un artista che pagò un prezzo altissimo alla creatività che lo rese più celebre di un re. Brunella Schisa, “il Venerdì di Repubblica”

Antonio Forcellino | 1545. Gli ultimi giorni del Rinascimento | i Robinson/Letture (di prossima publbicazione) Un anno cruciale. La città eterna. Lo sfarzo della corte. La munificenza del mecenatismo. L’arte, la bellezza, la sensualità, il genio. In questo libro lo splendore del Rinascimento prima che si inabissi nella fredda nebbia della Controriforma. Nelle sue pagine il lettore troverà raccontate le tele impareggiabili dei più grandi artisti di ogni tempo, i segreti, le invidie, le ambizioni e le passioni che hanno agitato i loro giorni e hanno dato corpo alla loro arte.