"Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale" (Falso!) 9788842095026

Molti si sono convinti che il nostro welfare è un lusso, che mantenendo certe conquiste sociali abbiamo "vissuto al

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"Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale" (Falso!)
 9788842095026

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Idòla

Federico Rampini

“Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale” (Falso!)

Idòla | Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Progetto grafico di Riccardo Falcinelli Prima edizione settembre 2012 1

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Anno 2012 2013 2014 2015 2016 2017 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Stampato da sedit - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa isbn 978-88-420-9502-6

Indice

Introduzione

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1. L’America è un modello “superiore”?

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2. Il modello europeo più forte che mai

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3. La virtù è esportabile?

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4. Le promesse che l’euro ha tradito (e perché)

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5. In cerca di un nuovo “pensiero” economico

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6. La grande malata

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Indice dei nomi L’Autore

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Introduzione

Vista dagli Stati Uniti, la nostra Europa è economicamente defunta. E con lei affonda per sempre una certa idea della solidarietà, dei diritti di cittadinanza: il “modello sociale europeo”. Ne sono convinti gli americani, a stragrande maggioranza, nei momenti in cui si degnano di rivolgerci qualche attenzione. Vi sono rassegnati tanti europei espatriati qui in America: quando li incontro, italiani o francesi o spagnoli, possono avere qualche nostalgia, qualche slancio di affetto e di rimpianto verso la qualità della vita nel Vecchio Continente, ma finiscono i loro discorsi con una diagnosi spietata e sempre uguale: «non ce lo possiamo più permettere». Se ne sono convinti anche molti europei che vivono in Europa. Per lo meno, ne sono persuasi in certa misura i loro governanti, poiché sono quasi tutti impegnati ad applicare qualche variante

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introduzione

dell’austerity, al termine della quale il Welfare sarà sempre più avaro, sempre più povero, un po’ più simile a quello americano. Lo sguardo che hanno gli Stati Uniti su di noi è importante. Anzitutto perché, nonostante il loro declino relativo rispetto alle potenze emergenti, l’America resta il numero uno mondiale: ha l’economia più grossa, la forza militare dominante, un’influenza politica e culturale ancora ineguagliata nel mondo intero. Qui a New York, la piazza finanziaria globale per eccellenza, operano quei poteri forti che influenzano con le loro scelte d’investimento anche le vicende dell’economia europea. Chi governa gli Stati Uniti ha inoltre un peso notevole nelle istituzioni internazionali come il Fondo monetario, che fanno opinione o dettano condizioni nei salvataggi di interi Stati membri dell’eurozona. L’interpretazione che i mass media americani danno della nostra crisi viene spesso tradotta, amplificata, riportata dentro il dibattito europeo, e lo influenza. Il giudizio degli Stati Uniti è severo, sia che venga da destra o da sinistra. Per la destra americana, come racconto nel primo capitolo ricordando i miei viaggi al seguito di Mitt Romney, l’Europa è diventata un contro-paradigma, un simbolo repellente, un emblema negativo. Per certi aspetti, l’Europa ha sostituito “l’Impero del male” che era l’Unione

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Sovietica ai tempi del presidente Ronald Reagan (usò lui quella definizione in alcuni discorsi celebri al termine della guerra fredda). Noi europei non siamo certo diventati dei nemici politico-militari, al contrario: la maggioranza dei nostri Stati appartiene all’Alleanza atlantica, molti hanno sostenuto le guerre americane in Iraq e Afghanistan pagando alti prezzi umani. E tuttavia la destra Usa ci considera una mostruosa incarnazione di tutto ciò che può andare storto, quando dei paesi democratici a economia di mercato imboccano la strada dello statalismo, dell’assistenzialismo. È colpa del nostro Welfare State troppo generoso, sostengono i repubblicani, se tanti giovani europei sono condannati alla disoccupazione e le loro prospettive per il futuro sono limitate. Il modello sociale europeo soffoca la crescita sotto una pressione fiscale eccessiva, ingabbia le imprese in una ragnatela di regole e diritti sindacali paralizzanti, crea nei cittadini una cultura della dipendenza dallo Stato, ottunde lo spirito d’intrapresa, la capacità innovativa. In cambio di una rete di sicurezza economica peraltro sempre più aleatoria, i cittadini d’Europa si consegnano a una burocrazia opprimente. Aveva ragione Reagan, insomma, con il suo slogan più fortunato: lo Stato non è mai la soluzione, lo Stato è il problema. Riecheggia in questa visione della destra una critica del modello eu-

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introduzione

ropeo che ha radici antiche nel pensiero liberale, da von Hayek a Milton Friedman. A sinistra, le critiche americane verso l’Europa sono di segno diverso, ma quasi altrettanto severe. I democratici Usa vedono una eurozona soggiogata dall’egemonia di una Germania conservatrice. Le politiche di austerity imposte da Berlino al resto dell’Unione, appaiono distruttive: generano recessione, disoccupazione, povertà e tensioni sociali. Da sinistra i premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, nonché altri economisti autorevoli come Robert Reich e Jeffrey Sachs, condannano le politiche economiche europee come un capolavoro di autolesionismo. Non si esce dalla crisi a furia di tagli, ci ammoniscono. Anzi, l’austerity impoverisce a tal punto l’Europa, che al termine della cura è più indebitata di prima. Vista nella prospettiva dei democratici americani, più che a Reagan la cancelliera Merkel assomiglia a Herbert Hoover, il presidente che voleva curare il crac del 1929 e la Grande Depressione con salassi alla spesa pubblica, perché secondo lui “rimettendo i conti in ordine” l’economia di mercato si sarebbe risollevata da sola. Che l’America ci critichi, abbia scarsa fiducia in noi, o addirittura ci disprezzi, non è una novità. È anzi una sorta di Leitmotiv che accompagna la nascita, la costruzione e il consolidamento di

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una egemonia americana in tutto il Novecento. Da Woodrow Wilson nella prima guerra mondiale a Franklin Delano Roosevelt nella seconda, i leader Usa si sono abituati a considerarsi i nostri salvatori, e a vedere il Vecchio Continente come un’area in declino, divisa, fonte di problemi. Le élites americane fin dal primo Novecento hanno praticato il “viaggio in Europa” come un rito per riscoprire le origini della loro civiltà, ma con lo stesso spirito con cui oggi noi omaggiamo la Grecia o l’Egitto: custodi di vestigia e glorie passate che non torneranno mai più. Nel febbraio 1941, il direttore del magazine «Time», Henry Luce, proclamava il «Secolo americano», un’espressione destinata a entrare nel linguaggio comune, accompagnandosi a una visione sempre più pessimista e “declinista” su di noi e sul nostro ruolo nel mondo. Negli anni Sessanta John Kennedy considerava Charles de Gaulle un alleato petulante e inaffidabile. Henry Kissinger, il segretario di Stato di Richard Nixon, si chiedeva «qual è il numero di telefono dell’Europa», una battuta spesso ripresa per ricordare la nostra mancanza di unità e di leadership (lo stesso Kissinger sbadigliava e si toglieva le cuffie della traduzione quando nei vertici internazionali prendeva la parola Aldo Moro, con il suo linguaggio astruso). L’Italia degli Andreotti e dei Craxi fu spesso considerata a Washington come una nazione levantina, a metà strada fra il

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mondo arabo e l’Occidente. George Bush jr ebbe nel suo segretario alla Difesa Donald Rumsfeld l’uomo di punta di un’offensiva politica per dividere la “vecchia Europa” (il nucleo franco-tedesco di Chirac e Schroeder, contrari alla guerra in Iraq) dalla “nuova Europa” filo-americana, cioè i paesi dell’Est con la Polonia in testa. Da tempi altrettanto lontani l’Europa soffre di un persistente e formidabile complesso d’inferiorità. I primi segnali della nostra ammirazione possono risalire, almeno nel campo dell’economia, all’inglese Alfred Marshall che fu uno dei fondatori della scienza economica. Viaggiando negli Stati Uniti nel 1875, Marshall fu colpito dal vigore del capitalismo locale, e aprì la strada a una lunga serie di emuli. L’Expo universale di Chicago nel 1893 segnò per molti europei la scoperta di un’America laboratorio della modernità. Un testo-base, oggi dimenticato ma che all’epoca della sua uscita nel 1901 divenne un best-seller esercitando grande influenza sul pensiero europeo, fu The Americanization of the World del giornalista-editore britannico William T. Stead. La classe dirigente del Vecchio Continente – imprenditori in testa – cominciò a praticare il “pellegrinaggio” negli Stati Uniti in modo sistematico, per studiare il taylorismo, il fordismo, la società dei consumi di massa, le tecniche di marketing e di comunicazione. Più tar-

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di perfino la Francia, con il best-seller La sfida americana di Jean-Jacques Servan-Schreiber si arrese (nel 1967) all’evidenza di un declino del Vecchio Continente confrontato con il dinamismo economico degli Stati Uniti. A nutrire il nostro complesso d’inferiorità ha contribuito la continua fuga dei cervelli: dagli intellettuali ebrei emigrati per sfuggire alle persecuzioni (compresi grandi scienziati italiani come Enrico Fermi ed Emilio Segre), fino ai giovani informatici di oggi che affluiscono nella Silicon Valley, troppi europei hanno trovato solo in America l’habitat accogliente per esprimere al meglio il proprio talento. Tuttavia, in qualche campo l’Europa ha continuato a eccellere, meritandosi l’attenzione degli Stati Uniti. Il Welfare State, i diritti dei lavoratori, sono stati considerati a lungo tra i nostri punti di forza. In quel campo, fu l’America a “copiarci” più d’una volta. L’esempio fondamentale rimane il New Deal, l’insieme di politiche con cui Roosevelt cercò di risollevare l’America dalla Grande Depressione degli anni Trenta. Il New Deal è considerato come una delle pagine più gloriose del riformismo americano. E tuttavia fu debitore di idee e soluzioni alla vecchia Europa. Roosevelt inaugurò un sistema pensionistico che Bismarck aveva costruito in Germania molti decenni prima. L’idea di una “rete di pro-

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tezione” contro la povertà e la disoccupazione era stata elaborata all’inizio del Novecento dai Fabiani, i progressisti inglesi che anticiparono il laburismo. E la teoria economica che dava un fondamento solido all’intervento statale nell’economia portava la firma di John Maynard Keynes, economista inglese. Perciò, anche dopo essersi conquistati una supremazia economica mondiale, gli Stati Uniti hanno continuato a guardarci con rispetto per la “civiltà sociale” che rappresentiamo. Fino in epoca molto recente: quando il documentarista americano Michael Moore ha prodotto il suo film-denuncia sulla crisi della sanità Usa (Sicko, 2006), illustrando come sistemi decisamente superiori la sanità pubblica francese e britannica. Solo nella crisi attuale, anche l’ultimo rispetto sembra essere svanito. Forse perché nel frattempo abbiamo perso noi stessi ogni autostima? La novità emersa nella crisi 2008-2012 mi sembra questa. Da una parte gli americani si sono convinti che la sfida al loro modello può venire solo dalle potenze emergenti, Cina in testa: ed è evidentemente una sfida basata su altri aspetti, non certo su un “modello sociale” più avanzato del loro. La loro visione dell’Europa si è cristallizzata in senso negativo, via via che l’eurozona sprofondava nella seconda recessione in soli quattro anni. Visto dall’America il declino

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europeo ha assunto un aspetto terminale, irreversibile. D’altra parte, gli europei hanno interiorizzato questa diagnosi, l’hanno fatta propria e ci credono più che in qualsiasi altro periodo della loro storia. Angela Merkel, e con lei un bel pezzo di classi dirigenti (tedesche e non solo), ne hanno tratto le conseguenze: la richiesta di uno smantellamento graduale delle conquiste sociali, almeno alla periferia dell’Europa, nella sua parte più debole che è prevalentemente la fascia costiera mediterranea e atlantica, cioè Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda. Molte élites di questi paesi hanno introiettato l’idea che il nostro Welfare è un lusso, che mantenendo certe conquiste sociali abbiamo “vissuto al di sopra dei nostri mezzi”, ed è ora di ridimensionarci. Essendomi trasferito dall’Europa agli Stati Uniti nell’anno 2000, posso confrontare i due sistemi non solo da osservatore, ma misurandone gli effetti concreti nella mia vita e in quella dei miei familiari. Per oltre dodici anni ormai, ho avuto la residenza negli Usa e ho pagato le mie tasse al Tesoro di Washington (anche quando dal 2004 al 2009 ho vissuto in Cina, continuavo ad essere un contribuente americano). Ho mandato i miei figli a scuola negli Stati Uniti. Ho avuto l’assicurazione sanitaria e l’assistenza medica sotto il regime Usa. Grazie all’im-

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portante “intervallo” di cinque anni a Pechino, posso dire di avere assaggiato in varia misura sulla mia pelle tre grandi sistemi: europeo, cinese, americano. La mia conclusione va contro il pensiero dominante. Non credo affatto che il modello sociale europeo sia superato. Al contrario, penso che nelle sue versioni più riuscite sia tuttora ineguagliato. È il migliore, di gran lunga. E non solo in base a criteri etici, o valori politici, ma anche per la sua efficienza economica. Sono gli altri a dover imparare da noi. È quello che cercherò di dimostrare nelle pagine che seguono. New York, 20 luglio 2012

“Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale” (Falso!)

1. L’America è un modello “superiore”?

Noi europei siamo stati nel mirino della destra americana durante tutta la campagna elettorale americana. Ho vissuto il “processo all’Europa” in prima persona, avendo seguito Mitt Romney durante la campagna elettorale, anche in volo sul suo aereo insieme a un gruppo di giornalisti americani. Romney non concludeva mai un comizio senza aver lanciato questa accusa – secondo lui infamante – a Barack Obama: «Ci vuole trasformare in uno di quegli Stati fallimentari che vediamo in Europa. Il presidente vuole che l’America diventi una società assistita, dove ciascuno dipende da un aiuto statale, come in Europa». Spesso le bordate diventavano ancora più specifiche. Ecco un’altra frase che ho sentito più volte da Romney: «Se non cacciamo via Obama, farà salire il debito pubblico americano a tali livelli che diventeremo come l’Italia e la Gre-

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cia». Per la propria autostima non è il massimo, seguire passo per passo in campagna elettorale un politico che cita il tuo paese come un insulto contro l’avversario. (Per inciso, non c’è limite al peggio: la prima volta in cui sono stato invitato a parlare come ospite in diretta nel telegiornale più seguito degli Stati Uniti, alla Nbc, è stato per spiegare se il comandante Schettino della Costa Concordia sia un archetipo del nostro carattere nazionale oppure no.) Il fatto che dal novembre 2011 al posto di Silvio Berlusconi sia subentrato Mario Monti, ha cambiato sì la percezione del rischio-paese dentro l’Amministrazione Obama, ma nel discorso pubblico americano “Italia e Grecia” continuano a essere sinonimi di “Stati candidati alla bancarotta”. La mia costernazione la sento non solo da italiano, ma come cittadino europeo. Tutta l’Europa viene associata a un sistema statalista, assistenziale, che deprime l’iniziativa individuale e la creatività, condannandosi a una perpetua stagnazione. E fosse solo la destra americana a pensarla così... Il guaio è che a sinistra pochi ci difendono. Li capisco: l’idea che “Europa uguale declino” è diventata un luogo comune. La forza dei luoghi comuni è irresistibile, guai a mettersi contro. Pensate se Obama avesse risposto a Romney con affermazioni di questo tipo: «Non mi pare che in Europa stiano poi così male: quei poveracci dei francesi hanno una longevità me-

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dia superiore agli americani; le diseguaglianze sociali in Germania e Danimarca sono un terzo delle nostre; i norvegesi hanno un reddito pro capite superiore agli americani; tutti i pae­ si dell’Europa nordica piazzano i loro studenti in cima alle classifiche Ocse-Pisa sulla qualità dell’apprendimento, mentre i licei pubblici americani sono al 27° posto». Se Obama avesse osato dire queste semplici verità, apriti cielo! I suoi avversari avrebbero replicato: «Ecco la conferma che il nostro presidente è un alieno, un esterofilo, un ammiratore del socialismo europeo, quindi un antiamericano». Ma da che pulpito ci vengono queste prediche? In che stato si trova l’America, dopo l’inizio della Grande Contrazione economica? Quello che vedo nella nazione più ricca del pianeta è un paesaggio sociale con tinte drammatiche: l’impoverimento dei lavoratori e del ceto medio, l’arretramento del tenore di vita e del potere d’acquisto. Le aspettative di intere generazioni si sono ridimensionate di colpo: non solo in Europa, anche negli Stati Uniti. Mentre scrivo, gli ultimi dati relativi al 2010 rilevano 56,2 milioni di americani che vivono sotto la soglia della povertà, fissata al livello di 22.000 dollari di reddito annuo per un nucleo familiare di quattro persone. Non tutto l’impoverimento va attribui­ to agli effetti della recessione. Il reddito annuo

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medio per un maschio adulto che lavora a tempo pieno è regredito ai livelli del 1973. È la retrocessione della middle class, l’avvento della “società a clessidra” divisa tra un vertice di privilegiati e una base sempre più ampia di cittadini il cui potere d’acquisto perde terreno. I dati sulla mobilità sociale sono una tremenda delusione, per chi è rimasto fermo all’iconografia dell’American Dream di una volta. Non sono solo i movimenti radicali come Occupy Wall Street o gli studiosi progressisti a denunciare il regresso della mobilità sociale verso l’alto. Perfino «The National Review», una delle riviste più autorevoli della destra, ammette che «alcuni pae­si europei o anglofoni [Scandinavia, Australia, Nuova Zelanda, Canada, ndr] ci hanno superati nella mobilità sociale». Isabel Sawhill, economista della Brookings Institution (un think tank autorevole e bipartisan) afferma che tra gli esperti «è ormai un dato di fatto accertato e condiviso: gli Stati Uniti hanno una mobilità sociale inferiore a molti altri paesi sviluppati». Una ricerca condotta dall’economista svedese Markus Jantti rivela che il 42% degli americani che nascono nel 20% della popolazione più povera, vi rimangono anche da adulti. Questa immobilità sociale è significativamente peggiore rispetto alla Danimarca, dove solo il 25% non riesce a uscire dal livello di povertà in cui è nato, ed è perfino peggiore rispetto alla “classista” Inghil-

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terra dove solo il 30% resta bloccato nel quintile della popolazione a cui apparteneva alla nascita. «Nonostante si continui a descrivere l’America come una società senza classi – sostiene lo studioso Jason De Parle – il 65% della popolazione che nasce nel quintile (20%) più povero, rimane per tutta la vita all’interno dei due quintiles più bassi. Lo stesso vale per i privilegiati: se nasci nel 20% dei più ricchi, hai una probabilità molto elevata di rimanerci per sempre». Il mito americano comincia a essere scosso da questa scoperta. La potenza dei numeri fa vacillare anche gli ideologi conservatori. John Bridgeland, che fu consigliere del presidente George W. Bush per le politiche sociali, oggi ammette che «le vie di accesso all’American Dream si sono ristrette». Perfino l’ex candidato presidenziale ultraconservatore Rick Santorum è arrivato a riconoscere che «ci sono paesi europei dove si accede più facilmente al ceto medio che da noi». Come si spiega che i paesi scandinavi e il Canada oggi offrano opportunità superiori, per chi parte dal basso della piramide sociale? Una causa è l’avarizia del Welfare State americano, deperito da decenni di attacchi conservatori: senza una rete minima di aiuti pubblici è più difficile sollevarsi dalla povertà. Una seconda ragione è la debolezza dei sindacati, che si traduce in livelli salariali molto bassi per i lavori più umili. Reihan Salam sulla «National Review» so-

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stiene che non bisogna focalizzarsi troppo sulla “mobilità relativa”, misurata rispetto agli altri gruppi sociali. Nell’esperienza di ciascuno, la mobilità assoluta conta di più: il fatto cioè che i figli degli immigrati guadagnano, regolarmente, molto più dei genitori. Un censimento del Pew Research lo conferma: l’81% degli americani ha redditi nettamente superiori ai genitori. Ma questo non basta per uscire dalla trappola della povertà. Il numero di immigrati che tornano a casa, “votando con i piedi”, indica che la disillusione verso il Sogno è arrivata fino a loro. I più tenaci nell’alimentare la leggenda della “società di tutte le opportunità” sono sempre stati loro: gli immigrati. Ma ora qualcosa si è spezzato anche nella loro fede. La Terra promessa attira meno di una volta. I flussi di ritorno sono in aumento. I dati li fornisce il Department of Homeland Security, il superministero dell’Interno creato dopo l’11 settembre. E i controlli sempre più severi dopo l’attacco terroristico c’entrano qualcosa con il rallentamento dell’immigrazione, ma non spiegano tutto. Ecco le cifre: dal 2000 al 2004 erano entrati 3,3 milioni di illegali; invece dal 2005 al 2010 il flusso dei clandestini si è ridotto a meno della metà: 1,5 milioni. Fatta 100 la cifra totale di ingressi dal 1980 al 2010 (11,5 milioni), quelli dal 2000 al 2004 incidono per il 29%, quelli fino al 2010 del 14%: anche misurando-

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li così il calo è di oltre il 50%. Se passiamo dai clandestini al mondo dell’immigrazione legale, i segnali vanno nella stessa direzione. Gli immigrati legali – con visto temporaneo o Green Card a tempo indeterminato – negli Usa erano 25 milioni nel 2005 e 25,7 nel 2010. Nella rilevazione del gennaio 2012 sono scesi a 20,2 milioni. Dei 5,5 milioni che mancano all’appello, il 70% sono ri-emigrati dagli Usa. Probabilmente la maggioranza è tornata a casa. L’America resta una società multietnica unica al mondo: con il 12% della propria popolazione che è nata all’estero (senza calcolare tutti gli stranieri ormai naturalizzati), per decenni questo paese ha irradiato una capacità di attrazione senza eguali. Ora però qualcosa si è incrinato. Il mito di un paese dove si parte dal basso e si può avere un successo straordinario scalando le gerarchie sociali, è uno dei valori fondamentali su cui è costruita questa società. Le “icone” della mobilità sociale americana si chiamarono nel tempo Benjamin Franklin, Henry Ford. Più di recente Steve Jobs: il fondatore di Apple fu abbandonato dai suoi genitori biologici (tra cui il padre siriano) che lo diedero in adozione, e allevato da una coppia del ceto medio-basso che dovette fare sacrifici per pagargli gli studi. I casi come il suo restano fantastici e quasi impossibili in Europa. La novità vera è che stanno diventando un’eccezione anche qui negli Stati Uniti.

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Il crac dei fondi pensione privati tradisce un’intera generazione. Sono i baby-boomers, nati fra il 1945 e il 1965: in America i più anziani di loro arrivano adesso all’età della pensione. E scoprono di non potersela permettere. Molti dovranno lavorare fino a 70 anni, almeno a parttime, per integrare una rendita previdenziale del tutto insufficiente. Lo rivelano i dati della banca centrale, la Federal Reserve, elaborati dal Center for Retirement Research del Boston College e pubblicati sul «Wall Street Journal». Un vero disastro incombe sulla “generazione 401k”: questa sigla indica la categoria più diffusa di fondi pensione ad accumulazione. È lo strumento in voga fin dagli anni Ottanta negli Stati Uniti – e al quale si sono poi parzialmente ispirate alcune riforme europee – per integrare una pensione pubblica sempre più magra. Ma ora arriva lo choc: il complemento di reddito fornito dai fondi pensione è troppo modesto. «La famiglia media – conclude lo studio basato sui dati della Fed – con un capofamiglia tra i 60 e i 62 anni di età, oggi sul suo fondo pensione ha a malapena il 25% di quanto occorre per mantenere lo stesso tenore di vita dopo la fine del lavoro». Per i baby-boomers l’impatto è traumatico e s’impongono scelte drastiche: «Rinviare l’andata in pensione; traslocare in un’abitazione meno cara; spendere meno per l’alimentazione; rinunciare alle vacanze; una lunga serie di sacri-

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fici a cui nessuno era preparato». È un dramma di massa, perché il 60% degli americani che si avvicinano all’età pensionabile hanno dei fondi 401k. Si tratta di strumenti che godono di un’agevolazione fiscale, ma funzionano come normali fondi d’investimento: quindi il loro valore non è stabilito per legge (come nel caso delle pensioni di Stato), bensì dipende da quanto risparmio vi è stato versato, e quali rendimenti ha fruttato. I conti sono stati sbagliati fin da principio, su tutti e due i fronti. In epoche di diffuso ottimismo, i baby-boomers si sono illusi che funzionasse la magica formula del “6+3”, ovvero “versare sul fondo il 6% del proprio stipendio, con l’integrazione del 3% versato dal datore di lavoro”. Un’ingenuità, fondata su visioni del tutto irrealistiche dei rendimenti sia azionari sia obbligazionari. Uno dei maggiori gestori di fondi, il Vanguard Group, oggi ha rifatto tutti i calcoli: «Per arrivare alla pensione con una rendita sufficiente bisogna avere accantonato per tutta la propria vita lavorativa il 15% del proprio reddito». Uno choc, una scoperta tardiva. Perfino i baby-boomers più giovani, quelli che hanno tra i 45 e i 59 anni di età, si accorgono che è troppo tardi per ricostituire il mancato risparmio previdenziale «e il 40% di loro si rassegna al fatto che dovrà lavorare molto più a lungo», rivela la ricerca. I conti sono spietati. Per una famiglia americana dal reddito medio, pari a 87.700 dol-

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lari annui del 2009, una vita decorosa richiede una pensione di 74.545 dollari lordi all’anno. La Social Security, cioè la pensione di Stato, garantisce un magro 40% dell’ultimo reddito da lavoro. Il resto doveva essere integrato dai fondi privati. Ma due crolli di Borsa, nel 2000-2002 e soprattutto nel 2007-2009, hanno falcidiato il valore di quei risparmi. «Solo l’8% delle famiglie americane – conclude lo studio – hanno sui loro fondi pensione i 640.000 dollari che sarebbero necessari». Per tutte le altre, l’età pensionabile diventa una chimera. Tra gli stereotipi più tenaci, equamente ripartiti in Europa e in America, c’è il seguente: l’americano medio rinuncia ad avere un Welfare generoso come quello europeo, perché in cambio ha una pressione fiscale nettamente inferiore. È il “patto sociale” di una nazione più propensa al rischio, più individualista, più competitiva. Ma quanto è vantaggioso questo patto sociale? Essendo un contribuente degli Stati Uniti dall’anno 2000, ho fatto qualche verifica concreta in proposito. Anzitutto, l’idea che l’America sia una sorta di paradiso fiscale rispetto all’Europa è un’esagerazione. Non mi riferisco solo al fatto che negli Stati Uniti sia bassissima l’evasione, e quindi sono inesistenti quelle aree di “privilegio implicito” che da noi si annidano nell’economia sommersa, in certe aree di picco-

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la impresa, libere professioni, artigiani, ecc. In America pagano tutti, con rare eccezioni, e chi prova a fare il furbo rischia grosso. Ma lasciamo stare l’evasione italiana che è un’anomalia, e facciamo un confronto più generale AmericaEuropa. L’aliquota marginale dell’imposta federale sul reddito arriva al 35% e sta tornando al 36,5% con lo scadere degli “sgravi Bush”. A questa va aggiunta l’aliquota che preleva lo Stato di cui si è residenti: nel caso della California è stata a lungo il 10,3% e si appresta a salire al 13%. Fate la somma e vi accorgete che il prelievo non è poi così tanto inferiore all’Europa. Solo un po’ inferiore. Ma per fare i conti in tasca al “patto fiscale” americano, devo chiedermi: che cosa ottengo, in cambio delle tasse che pago? Ed è qui che il bilancio per il contribuente Usa diventa deprimente. In cambio delle tasse che pago, non ho alcuna assistenza sanitaria. L’assicurazione sanitaria me la devo comprare a parte, ed è costosissima: se spendo “solo” 1000 dollari al mese ho una polizza scadente, con buchi vistosi e ticket altissimi che devo sborsare io. Inoltre vivo nell’incertezza costante perché le compagnie assicurative (tutte private) cambiano tariffe di anno in anno, alzando il “premio” che devo pagare e riducendo le prestazioni a cui ho diritto. Non entro qui nel merito della riforma Obama perché dovrei spiegare nei dettagli una sanità americana che è una vera giungla rispetto alla

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semplicità di molti sistemi europei, mi limito a constatare che i benefici sono stati molto inferiori alle aspettative. In ogni caso, se proprio devo ammalarmi e finire in ospedale, mi auguro che mi succeda quando sono in viaggio in Europa... Ho avuto anche dei riscontri analoghi tra amici americani, come una coppia di San Francisco che si trovava in vacanza in Veneto quando lui si fratturò una caviglia. Al ritorno negli Stati Uniti, raccontavano di essere stati “miracolati”, cioè curati dal nostro sistema sanitario nazionale senza ricevere un conto da capogiro. Continuo nell’elenco dei servizi pubblici che potrei aspettarmi di ricevere “in cambio” delle tasse che pago negli Stati Uniti. L’università per i miei figli? Neanche per idea. Pur scegliendo il sistema pubblico della University in California anziché una facoltà privata, mia figlia Costanza ha dovuto pagare più di 8000 dollari all’anno. Questa è una tariffa agevolata riservata ai soli residenti-contribuenti dello Stato. Se avesse scelto un’università pubblica di un altro Stato Usa, avrebbe pagato all’incirca il triplo. Dalle elementari alla maturità, esiste in teoria una scuola pubblica che in teoria sarebbe gratuita. Nella realtà la scuola pubblica in molte aree (soprattutto grandi città) è così scadente che gran parte della popolazione studentesca finisce nel privato. Dove le rette sono altissime: una scuola elementare privata di élite a Manhattan costa

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facilmente 25.000 dollari all’anno, e nonostante questo ha lunghe liste d’attesa. In quanto alla “gratuità” della scuola pubblica, anche quella è sempre più teorica: coi tagli continui ai bilanci federale e degli enti locali, le scuole statali sono costrette a fare “la colletta” tra le famiglie per supplire alla mancanza di fondi. Sicché càpita di trovare in una cittadina ricca una scuola pubblica di qualità, ma lì i genitori si autotassano e quindi il finanziamento diventa quasi privato. Conclusione: in cambio delle mie tasse, non ottengo un’istruzione gratuita per i miei figli. Pensioni? La Social Security, che è una sorta di “zoccolo minimo” di pensione pubblica, non è finanziata dall’imposta sui redditi bensì da un altro prelievo alla fonte sulle buste paga, la payroll tax. Non essendo sufficiente la Social Security, gran parte dei lavoratori americani si affida ai fondi pensione privati come i 401k, che devono alimentare con contributi propri e dell’azienda che li impiega. Trasporti pubblici? Anche qui, il concetto di servizio pubblico è molto relativo. Su scala nazionale, i treni sono quasi scomparsi in America. Posso prendere un treno “quasi” ad alta velocità, solo se ho la fortuna di abitare in uno stretto corridoio della East Coast, che va da Boston a New York, Philadelphia, Washington. Ma questo “servizio pubblico” (l’azienda ferroviaria Amtrak è di proprietà federale) mi costa alme-

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no 200 dollari per un biglietto di sola andata in seconda classe da New York a Washington, su carrozze vecchie, sporche e rumorose, molto più scadenti dei tanto vituperati convogli Trenitalia. Il metrò di New York mi costa 100 dollari di abbonamento mensile, e comunque i servizi locali – quand’anche siano parzialmente sovvenzionati – li pago con altre tasse della città di New York che si aggiungono a quelle federali e statali. Alla fine, che cosa ricevo in cambio delle mie tasse americane? Niente sanità, niente scuola, niente pensioni, niente trasporti pubblici. Francamente, il patto sociale americano non mi sembra così vantaggioso. Come si vive in un mondo senza tutela del posto di lavoro? È una domanda che angoscia molti italiani: cambiano alcune norme che regolavano il mondo del lavoro da decenni. Per una parte degli italiani – certamente per quelli della mia generazione – quelle leggi sono state sinonimo di un certo livello di sicurezza. In futuro sarà più facile essere licenziati, anche per coloro che finora si sentivano più stabili e protetti. Come si vive in un “mondo senza articolo 18”, è una domanda a cui posso tentare di rispondere, perché è il mondo che ho osservato da vicino negli ultimi dodici anni. Qui in America non esiste una differenza tra “stabili” e “precari”, tra “posto fisso” e “insicuro”. I miei figli, 26 e 25 anni, so-

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no cresciuti qui e hanno studiato qui. Nel momento in cui si affacciano sul mondo del lavoro, qualsiasi opportunità riescano a trovare sarà sempre un posto precario: ma non più precario di quanto lo sia l’impiego di un mio coetaneo collega giornalista del «New York Times». Nel senso che qualsiasi lavoratore dipendente qui negli Stati Uniti è licenziabile a vista. Spesso anche nel pubblico impiego: per effetto dei tagli di bilancio a livello degli enti locali (Stati e Comuni) ho visto licenziare migliaia di dipendenti pubblici. Esistono eccezioni, ma sono molto limitate. Nelle università, per esempio, c’è un’istituzione che si chiama tenure e che equivale a una sorta di cattedra a vita: chi la conquista non è più licenziabile; però solo una minoranza di professori ce l’hanno, gli altri possono essere mandati via come i dipendenti del settore privato. Con qualche indennità, variabile a seconda dei settori e della salute delle aziende. Dunque, come si vive in un mondo del lavoro dove l’insicurezza è generale e permanente? In parte si finisce col dimenticarlo, ci si abitua, la mancanza di garanzie viene data per scontata. Tra i miei amici, i miei colleghi, le persone che frequento quotidianamente in ogni settore di attività, non ho l’impressione che ci sia una particolare tensione o angoscia legata al fatto di poter perdere il lavoro da un momento all’altro, senza preavviso e senza ricorso. Se tutti si trova-

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no nella stessa tua situazione, questa condizione di “precariato” è la normalità, quindi ti preoccupa meno rispetto a una situazione in cui “altri” sono in una botte di ferro mentre “quelli come te” sono in balìa degli eventi. C’è anche una minore “sanzione sociale” del licenziamento: se è una cosa che può capitare davvero a tutti, e in effetti ha colpito e colpisce tanti tuoi amici o conoscenti, non è più sinonimo di un particolare insuccesso individuale. In fin dei conti l’insicurezza è soltanto distribuita in modo diverso. Qui in America ciascuno deve convivere con la sua dose di paura del licenziamento; in Italia tanti genitori hanno un posto stabile e sicuro ma devono affrontare l’eventualità di dover mantenere o aiutare i figli molto a lungo. Ma questo significa che un mondo senza l’articolo 18 è più equo? O più efficiente? La mia vita in America mi ha reso scettico sulle presunte virtù della flessibilità. Certo, non nego che una dose d’insicurezza possa renderci più dinamici e produttivi. Ricordo un esempio personale: quando insegnai in alcuni corsi seminariali come Visiting Professor a Berkeley, sapevo che alla fine dell’anno accademico avrei ricevuto a mia volta dei voti dai miei studenti e che sulla base di quei voti l’università mi avrebbe rinnovato l’incarico oppure no; questo funzionava certamente come disincentivo contro assenteismo, pigrizia o arroganza nel mio atteggiamento verso gli studenti. In effetti

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i professori americani non possono permettersi di comportarsi come certi “baroni” nostrani, che agli studenti dedicano ben poca attenzione. Ma non sono affatto convinto che la maggioranza dei lavoratori americani siano più motivati, efficienti e produttivi rispetto agli italiani. Spesso nel mondo del lavoro americano incontro esempi di disarmante incompetenza: non sono tutti come Apple. La “fungibilità” della manodopera ha degli effetti perversi, uno di questi è il basso investimento per la formazione. In banca, molti impiegati vengono gettati allo sbaraglio a occuparsi della clientela, quando conoscono poche mansioni. Il ricambio (o, come dite voi... il turnover) è altissimo, in molte aziende hai sempre a che fare con dei giovani che sono “in addestramento”, in periodi di prova, e spariscono dopo pochi mesi. La facilità a licenziare, la mobilità estrema, non incoraggiano l’azienda a investire nel capitale umano. In quanto alla qualità dei capi, più si sale in alto nella piramide gerarchica, più la mitica meritocrazia americana mostra i suoi limiti. Anche i chief executive sono licenziabili a vista, certo: loro però nei contratti d’assunzione (negoziati dai loro legali) hanno “paracaduti d’oro” che garantiscono generose buonuscite anche agli incompetenti. Visto da vicino, il mondo senza articolo 18 non è l’inferno della paura, ma non è neanche il paradiso dell’efficienza.

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«It’s a Rich Man’s World», annunciava all’inizio del 2012 una copertina della rivista «Harper’s Magazine»: il mondo appartiene ai ricchi. Se questo titolo si riferisse solo alla crescente diseguaglianza di risorse e di opportunità, non sarebbe nuovo: questo fu già nel 2011 il tema di battaglia di Occupy Wall Street. La novità sta nel modo in cui la ricchezza si trasferisce tout court in influenza di governo, potere decisionale. I super-ricchi non esitano più a intervenire direttamente come “azionisti” delle scelte di governo. Il pensatore più emblematico di quest’epoca forse un giorno sarà considerato Ajay Kapur. Non è un politologo né un economista o un sociologo, è un analista di origine indiana che decide le strategie della Deutsche Bank in Asia. Nel suo mestiere precedente, come stratega del colosso bancario Citigroup a Wall Street, Kapur pubblicò uno studio interno in cui teorizzava l’avvento di una “plutonomia”: un sistema in cui i ricchi definiscono le leggi, scrivono le regole, dettano l’agenda ai leader del mondo. Stati Uniti, Inghilterra e Canada per Kapur sono i “modelli” originari di plutonomie nel xxi secolo, come in passato lo furono la Spagna del xvi secolo, l’Olanda del xvii, la stessa America nei ruggenti anni Venti alla vigilia della Grande Depressione. Per Thomas Frank, autore del saggio su «Harper’s Magazine», «i veri partiti politici di riferimento, per i candidati americani, sono

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i super-ricchi, che investono nelle loro candidature e hanno obiettivi di ritorno precisi». La dilatazione delle diseguaglianze è solo un aspetto: un sintomo e una conseguenza, non la malattia. I dati sono impressionanti. Dal 1978 a oggi l’1% degli americani più ricchi hanno visto i loro redditi aumentare del 256% mentre il potere d’acquisto della famiglia americana media è rimasto stagnante. Dopo la fine ufficiale della recessione americana (2010), il 93% degli aumenti di reddito nazionale è stato “sequestrato” dall’1% dei privilegiati. I livelli di concentrazione delle risorse sono paragonabili a situazioni storiche pre-capitalistiche, regimi imperiali o feudali. Il “governo dei ricchi” converge, almeno in parte, con il potere delle loro aziende. Una ragione è ovvia: i Padroni dell’Universo in genere sono capitalisti, azionisti di controllo e di riferimento, oppure top manager al comando di imperi economici che superano di gran lunga la dimensione degli Stati-nazione. Il fondo d’investimento Blackrock di Wall Street amministra un patrimonio (3500 miliardi di dollari) superiore alle riserve di qualsiasi banca centrale al mondo, inclusa quella cinese. La Goldman Sachs, da parte sua, ha attivi superiori alla Banca centrale europea che gestisce la moneta di 17 paesi. La sproporzione non cambia, se si guarda ai ricchi più “progressisti” o i cui patrimoni vengono usati a fini nobili e altruistici: per quanto

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sia benefica, resta il fatto che la fondazione di Bill Gates (con 33,5 miliardi di dollari in cassa) eroga più fondi ai paesi poveri dell’Organizzazione mondiale della sanità, e quindi “governa” le scelte relative alla salute di intere nazioni. I pericoli di una plutonomia, o governo dei ricchi, sono stati avvertiti fin dalle origini del capitalismo. Adam Smith, il padre teorico dell’economia di mercato, mise in guardia contro le gravi ingiustizie generate «quando il governo civile è organizzato per la difesa dei ricchi». Da Alexis de Tocqueville a Theodore Roosevelt, la storia americana è segnata da allarmi e denunce sull’incompatibilità tra buongoverno e concentrazione del potere economico. Oggi il pericolo assume una dimensione nuova. I 300.000 americani più ricchi – che non sono il famoso 1%, bensì una élite ancora più ristretta: lo 0,1% – non soltanto si prendono da soli una quota del reddito nazionale che rappresenta più della metà di quella guadagnata dal 60% della popolazione di fascia bassa, cioè da 180 milioni di loro concittadini; ma sono attivamente coinvolti nel governo della nazione per far sì che questi rapporti di forze non cambino mai. È una delle conclusioni raggiunte dagli studi di Jacob Hacker e Paul Pierson sulle cause del crescente divario: le diseguaglianze non sono una conseguenza naturale della globalizzazione e del progresso tecnologico che impoveriscono

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i meno istruiti; per la maggior parte il divario tra ricchi e poveri è “fabbricato” da politiche fiscali e di spesa pubblica. È qui che interviene il “governo dei ricchi”. La coincidenza tra il loro potere e l’ipertrofìa delle grandi imprese, soprattutto nella finanza, è cruciale: quello 0,1% che sta sulla punta estrema della piramide, è composto per il 60% di top manager, in larga parte banchieri. I ricchi negli Stati Uniti hanno imparato a organizzarsi politicamente alla luce del sole con organizzazioni come la Chamber of Commerce, think tank come il Club for Growth e Americans for Tax Reform. Sono motivati, organizzati come non mai. Una spinta decisiva al “governo dei ricchi” è venuta da una sentenza della Corte suprema, intitolata Citizens United. È la decisione approvata dalla maggioranza di destra che controlla l’alta corte, che nel gennaio 2010 ha esteso alle grandi aziende americane la stessa “libertà di espressione” che la Costituzione riconosce ai cittadini. Senza limiti né restrizioni; con le stesse tutele. Questo ha consentito ai super-ricchi di attingere alle casse delle proprie imprese per costruire la nuova macchina da guerra che sta stravolgendo il ciclo elettorale americano: i Super-Pac (Political Action Committee), alimentati da risorse illimitate, e liberi di acquistare pubblicità televisiva per sostenere le tesi e i programmi di questo o quel candidato. Dieci mesi dopo la sentenza Citizens United, già

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nelle elezioni parlamentari del mid-term (novembre 2010) le spese per questo tipo di pubblicità erano quintuplicate. Il capitalismo americano contemporaneo ha una data di nascita. È il 2 luglio 1962, quando Sam Walton apre il suo primo supermercato al numero 719 della Walnut Avenue nella cittadina di Rogers, Arkansas. Lo battezza Walmart, un marchio destinato a trasformare la grande distribuzione e non solo quella. Il potere d’acquisto delle famiglie, la divisione internazionale del lavoro, i rapporti tra America e Cina, i diritti sindacali: non c’è settore della vita economica sul quale Walmart non eserciti la sua influenza. Per mezzo secolo la sua filosofia si è ridotta a un semplice slogan pubblicitario, «Always Low Prices, Always», sempre prezzi bassi, sempre. Con quell’avverbio ripetuto all’inizio e alla fine, lo slogan pubblicitario è banale ma ossessivo, martellante: proprio il metodo con cui Walmart ha perseguito quella promessa fino in fondo, con una coerenza spietata, sbaragliando concorrenti e stravolgendo antichi tessuti sociali. La destra lo celebra come un fulgido esempio dei benefici di massa del mercato, l’economista liberista Charles Krakoff ha suggerito che gli venga assegnato il premio Nobel per la pace. A sinistra, e in molte comunità locali, Walmart è il simbolo di un capitalismo disumano, distruttivo, che ha peggiorato le diseguaglianze.

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Fin dalle origini, la sua marcia è impressionante: nei primi cinque anni di vita conquista l’Arkansas, nel 1968 estende il suo raggio d’azione al Missouri e all’Oklahoma. Da quel momento l’espansione accelera: come un’armata d’invasori i supermercati Walmart avanzano occupando il territorio degli Stati Uniti, e via via molti paesi stranieri. Oggi sono quasi 11.000 gigantesche superfici di grande distribuzione, che possono andare dai 10.000 ai 25.000 metri quadri ciascuna, in 15 paesi tra cui Cina e India. Con più di due milioni di dipendenti, Walmart è il più grande datore di lavoro privato del pianeta (lo superano l’esercito cinese e le ferrovie indiane). Da vent’anni a questa parte è la più grande azienda mondiale per fatturato, tra le società quotate in Borsa. A quota 450 miliardi di dollari, le sue entrate nel 2012 superano il Pil di 154 Stati-nazione. Negli Usa l’onnipresenza di questi ipermercati è tale che ogni settimana 100 milioni di americani vi fanno la spesa: è un terzo della popolazione nazionale, bambini inclusi. Nella gestione della logistica, dei trasporti e delle consegne, Walmart è una macchina da guerra con un’efficienza superiore al Pentagono. Lo dimostrò concretamente nel settembre 2005 dopo l’uragano Katrina: quando i soccorsi di Stato erano in ginocchio, Walmart fu il primo ad arrivare a New Orleans per spezzarne l’isolamento, con 1500 camion di beni di prima ne-

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cessità e 100.000 pasti gratuiti. Nazione nella nazione, Walmart è perfino autonoma dal punto di vista energetico, non ha bisogno di comprare corrente dagli Stati Uniti poiché possiede la sua compagnia elettrica, la Texas Retail Energy. Nei decenni della sua fulminea espansione, Walmart ha riscritto le regole del capitalismo a sua immagine e somiglianza, ha sconvolto rapporti di forze e gerarchie di potere, ha disegnato la nuova geografia della produzione mondiale. Come spiega l’economista Nelson Liechtenstein della University of California Santa Barbara, «Walmart ha cancellato cent’anni di storia in cui la distribuzione era subalterna alla grande industria. Adesso la grande distribuzione sta al centro, ha il potere, mentre il settore manifatturiero è diventato un vassallo, completamente soggiogato». Una delle innovazioni su cui Walmart ha fondato il suo modello è la creazione di “marchi della casa”: prodotti commissionati per la clientela Walmart, affidati a grandi imprese di beni di consumo, ma con il controllo assoluto del distributore su prezzo, qualità, confezione, marketing, pubblicità. Un esempio da manuale resta il lancio delle bibite Sam’s Choice, che in un solo biennio si conquistarono il terzo posto per le vendite in America dietro marche potenti come Coca-Cola e Pepsi. La dimostrazione estrema della centralità di Walmart nel capitalismo contemporaneo, è il

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ruolo di avanguardia che ha svolto nella globalizzazione. Fin dai primi anni Novanta, il gruppo ha voluto che la Cina fosse al centro del suo sistema di acquisti. Oggi, sui 6000 fornitori globali da cui Walmart compra i suoi prodotti, l’80% sono cinesi. «Walmart e la Cina sono i due soci di una grande joint-venture», osserva l’economista Gary Gereffi della Duke University. Con quasi 30 miliardi di dollari di prodotti “made in China” acquistati ogni anno per finire sugli scaffali di questi ipermercati, Charles Krakoff ironizza sul fatto che «non c’è un attivo commerciale della Cina verso gli Stati Uniti, bensì un attivo commerciale tra la Repubblica Popolare e Walmart». Questo colosso incarna anche il volto più distruttivo, e reazionario, del capitalismo americano. A cominciare dalla famiglia fondatrice, i sei fratelli e sorelle Walton che tuttora possiedono la maggioranza del capitale. Con circa 100 miliardi di patrimonio personale, la dinastia Walton ha più ricchezza del 30% di tutta la popolazione americana meno abbiente. E c’è il sospetto che lo stesso gruppo Walmart con il suo impatto economico-sociale abbia contribuito attivamente a questa dilatazione delle diseguaglianze sociali. Non soltanto per il suo formidabile impulso verso le delocalizzazioni, che ha accelerato il declino dell’industria americana. Anche nel proprio mestiere, Walmart è

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un’azienda feroce. Uno studio fatto a Chicago dalla Loyola University ha dimostrato che entro 18 mesi dall’apertura di un nuovo ipermercato Walmart, sono falliti 82 operatori della distribuzione sui 300 attivi nel vicinato. «Per due posti di lavoro che crea, ne distrugge tre», è il bilancio della ricerca. L’impatto è perfino peggiore se si guarda alla “qualità” del lavoro che crea. Il dipendente medio di Walmart riceve uno stipendio di 20.774 dollari lordi all’anno, che lo situa sotto la soglia della povertà ufficiale se è il capofamiglia di un nucleo medio di quattro persone. Walmart rifiuta ogni assistenza sanitaria al 56% dei suoi dipendenti. Per i “privilegiati” ai quali offre qualche forma di polizza sanitaria, l’azienda impone un contributo di 5000 dollari all’anno cioè un quarto dello stipendio lordo. Di fatto fa pagare allo Stato ciò che rifiuta di versare ai propri dipendenti: nel solo Massachusetts, per esempio, oltre 5000 dipendenti dei suoi supermercati sono così poveri che finiscono per usufruire del Medicaid, l’assistenza sanitaria pubblica riservata agli indigenti (e pagata dal contribuente). Il sindacato non ha diritto di fare proselitismo e di reclutare iscritti all’interno di questi ipermercati. In cinque Stati Usa sono in corso processi in cui l’azienda è accusata di aver sistematicamente calpestato le leggi sul lavoro imponendo straordinari non retribuiti. Il «New York Times» ha pubblicato delle ispezioni inter-

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ne in cui la stessa Walmart rileva numerosi casi di sfruttamento di manodopera minorile. Per la destra americana, nei confronti della quale la famiglia Walton è sempre generosa di finanziamenti, questo gruppo è un benefattore della società. I suoi sostenitori citano uno studio di Global Insight (pagato dalla stessa Walmart) secondo cui una famiglia del ceto medio-basso risparmia in media 2500 dollari all’anno facendo la spesa in questi ipermercati. I consumatori sembrano essere d’accordo. Un sondaggio realizzato nel 2004, all’epoca della sfida presidenziale tra George W. Bush e John Kerry, rivelò che il 76% dei clienti di Walmart votavano per il repubblicano, una percentuale ben più alta della media nazionale. Numerose ricerche confermano che “la nazione Walmart” ha una base popolare nettamente orientata a destra. Non solo Walmart ha impresso un’influenza inaudita sul “modello di sviluppo” americano che è all’origine di questa crisi: è anche nei reparti di questi ipermercati che si plasma una visione del capitalismo, un’idea del mercato, un consenso liberista.

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Da molti anni si è imposta fra noi un’interpretazione tragica della globalizzazione. L’impatto della competizione fra l’Occidente e le potenze emergenti come Cina, India, Vietnam o Brasile – ci è stato spiegato – ci risucchia verso il basso. Per non soccombere dobbiamo scendere sempre di più, adattare i nostri costi a quelli cinesi, quindi rinunciare a tante conquiste sociali, a tanti diritti, a tante regole. Per combattere ad armi pari con chi è più povero di noi, insomma, dobbiamo impoverirci. Potremmo chiamarlo anche il “teorema Marchionne”, perché in Italia l’amministratore delegato del gruppo Fiat-Chrysler ha contribuito con le sue scelte aziendali a diffondere l’idea che queste sono le conseguenze ineluttabili della globalizzazione. Nel mondo delle grandi imprese multinazionali questo discorso viene presentato come oggettivo, neutra-

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le, scientifico: è inutile opporsi alla realtà delle cose, alle regole che la globalizzazione impone a tutti i soggetti del mercato. Se tre miliardi di asiatici sono integrati a pieno titolo nell’economia mondiale, è sciocco far finta che questo non abbia conseguenze; è assurdo pensare di poter continuare a produrre nelle stesse condizioni (salari, diritti, tutele, rigidità) che vigevano in Italia negli anni Settanta quando ancora la Cina era un’economia chiusa. È anche in quest’ottica che il modello americano ci è stato presentato come superiore al nostro. È più flessibile, pronto a rispondere ai diktat della competizione, se necessario con sacrifici tremendi. Un esempio recente, e importante per noi: quando si è trattato di salvare l’industria automobilistica di Detroit che nel 2008-2009 rischiava di scomparire, pur di evitare il fallimento di General Motors e Chrysler, il sindacato dei metalmeccanici (United Auto Workers) ha accettato un brutale taglio dei salari. I nuovi assunti guadagnano grosso modo la metà, rispetto ai salari in vigore prima della crisi. La metà! Questa sì, è flessibilità. Questa è la ragione per cui Sergio Marchionne preferisce senz’altro trattare con i sindacalisti americani, e spostare negli Stati Uniti il baricentro del gruppo Fiat-Chrysler. Se l’America riesce a ricostrui­ re – lentamente, parzialmente – un po’ di quel tessuto industriale che era stato devastato dalle

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delocalizzazioni in Asia, è anche grazie a questo tipo di rinunce. Esiste però un altro modello, molto più vicino a noi. È la Germania. So che non è facile elogiare il modello tedesco, in una fase in cui questo paese è associato alle politiche di austerity che l’eurozona ha adottato. Un giorno sì e uno no, la cancelliera tedesca Angela Merkel viene descritta come la responsabile dei sacrifici imposti a intere nazioni: Grecia, Portogallo, Spagna, anche l’Italia. Quasi tutta l’intellighenzia di sinistra, sulle due sponde dell’Atlantico, accusa la Germania di disfare l’Unione Europea, con il suo dogmatismo in materia di finanza pubblica. In America gli economisti progressisti come Krugman e Stiglitz spiegano da tempo che è una follia voler ripianare i deficit pubblici a colpi di tagli alla spesa sociale, proprio quando l’economia è in una debolezza così estrema che ha bisogno della leva keynesiana – spesa pubblica in disavanzo – per risollevarsi. Anche in Europa tutto il pensiero economico di sinistra, da JeanPaul Fitoussi a Tito Boeri, condanna l’austerity di stampo germanico come un errore micidiale, che ingigantisce il peso dei nostri debiti anziché accelerarne la riduzione, oltre ad essere una politica anti-sociale che accentua le sofferenze degli strati più deboli. Le destre populiste non sono meno insofferenti: da Silvio Berlusconi alla Lega, fino al Front National francese, è tutto un

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insorgere contro i vincoli dell’eurozona, dilagano i rimpianti verso i bei tempi andati in cui potevamo cavarci d’impiccio con la svalutazione. È difficile in questo clima essere oggettivi sulla Germania, e tuttavia bisogna sforzarsi di vedere questa nazione com’è davvero. Certo è paradossale che sia Berlino ad avere imposto alla periferia dell’eurozona – Roma, Atene, Madrid, Lisbona, Dublino – sacrifici tali da rimettere in discussione il “modello sociale”. Perché a casa sua, la Germania quel modello lo ha difeso con risultati eccellenti. Nel corso dell’ultimo decennio, è l’unico grande paese occidentale ad avere accumulato saldi commerciali attivi con la Cina. Si è sempre piazzata al secondo o terzo posto, dietro la Cina e alla pari con gli Stati Uniti, per le sue quote di commercio mondiale; pur avendo una popolazione (81 milioni) che è poco più di un quarto di quella americana (313 milioni) e quasi un quindicesimo di quella cinese (un miliardo e 343 milioni). La straordinaria competitività della Germania è stata ottenuta e preservata con livelli di retribuzione che sono fra i più alti del mondo; un movimento sindacale che è probabilmente il più potente del mondo; un alto livello di servizi sociali; regole severe a tutela dell’ambiente. L’esistenza stessa di questa Germania è la più rassicurante confutazione di quel “teorema tragico” di cui sopra. No, non è vero che nella globalizzazione sopravvive solo

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chi si adatta a rincorrere i cinesi verso il basso, ridimensiona il proprio tenore di vita e i propri diritti per adeguarli a quelli che stanno molto peggio. La Germania non è un caso del tutto isolato. È la più grossa tra un gruppo di nazioni che incarnano il modello sociale europeo nella sua versione migliore. Con lei possiamo elencare l’Olanda, l’Austria, la Svizzera, più le quattro nazioni nordico-scandinave: Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia. Ciascuna ha caratteristiche peculiari. Tutte hanno alcuni ingredienti di successo in comune. Alti salari, sindacati forti, tutela avanzata dell’ambiente. Ne aggiungerei ancora due: l’attenzione alla qualità della scuola pubblica, e una società più “egualitaria” sia rispetto alle nazioni dell’Europa del Sud, sia rispetto al modello angloamericano. Come cercherò di spiegare più avanti, credo che tutti questi ingredienti siano legati fra loro. I paesi nordico-scandinavi occupano con una regolarità impressionante i primi posti nella classifica mondiale Ocse-Pisa sulla qualità dell’apprendimento scolastico. La Finlandia è considerata un modello in questo senso, per la sua politica di reclutamento degli insegnanti tra il 33% dei migliori laureati delle sue università: una chiara indicazione che l’insegnamento è un mestiere di “eccellenza” nella sua società (un altro segnale sono gli elevati stipendi dei professori).

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I risultati sono così benefici, che le popolazioni dell’Europa nordica sono le più ottimiste, quando vengono interrogate sul proprio futuro nella globalizzazione. Investendo tanto e bene nell’istruzione, non hanno paura della concorrenza asiatica, non patiscono la sindrome del declino. La Danimarca è studiata anche negli Stati Uniti per il suo sistema di flexicurity (flexibility più security), che unisce un Welfare generoso verso i disoccupati, insieme ad una notevole flessibilità del mercato del lavoro. Austria e Olanda hanno in comune con la Germania dei buoni sistemi di apprendistato e formazione professionale; i loro tassi di disoccupazione giovanile sono un terzo di quelli dell’Europa meridionale e la metà rispetto agli Stati Uniti. Osservando queste nazioni, sembra assurdo che qualcuno possa proclamare «la morte del modello sociale europeo». In effetti, e non a caso, chi sostiene che quel modello è defunto si guarda bene dal prendere di mira la sua incarnazione tedesca. Quando in America si usa l’equazione beffarda “Europa uguale socialismo, assistenzialismo, stagnazione e bancarotta”, subito dopo si fanno gli esempi di Grecia, Spagna e Italia. Non conviene né a Romney né agli altri esponenti della destra neoliberista americana entrare nei dettagli di come funziona il sistema tedesco: nel paragone, sono gli Stati Uniti che ne uscirebbero malconci.

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Ma allora perché la Germania stessa impone ai suoi vicini meridionali politiche di austerity che, di fatto, comportano uno smantellamento del loro Welfare? E perché oltre a Romney e ai conservatori, anche il Fondo monetario e la Commissione europea sembrano aver sposato “l’ortodossia dei mercati”, quella che vede nel modello sociale europeo un lusso insostenibile, un retaggio d’altri tempi, un fardello insopportabile per la nostra competitività? Sia pure con qualche ripensamento o parziale dietrofront – vedi François Hollande che assume 12.000 insegnanti – la direzione di marcia è chiara. In Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, le riforme applicate da governi di diversi colori hanno tutte lo stesso segno: tagli alla spesa sociale. Di questo tema ho discusso ampiamente con Nouriel Roubini, nel dialogo che abbiamo tenuto a Bologna il 16 giugno 2012 al festival La Repubblica delle Idee. Che si tratti della scuola o della previdenza, della sanità o dei trasporti pubblici, sta dimagrendo sotto i nostri occhi un certo modello di rapporti fra Stato e cittadini. È condannato per sempre? «Non necessariamente – è stata la risposta di Roubini – perché ciò che rende deboli alcuni Stati europei è l’accumulo di deficit e debiti pubblici, l’insostenibilità di questi squilibri tra entrate e spese pubbliche. Invece non è in

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questione il livello e la qualità dei servizi pubblici erogati». Conosco Roubini da molti anni: cominciai a leggerlo quando vivevo ancora in Cina, e le sue analisi fecero scalpore. Fu uno dei pochissimi economisti al mondo che seppe prevedere con largo anticipo e notevole precisione il deflagrare della crisi dei mutui subprime nel 2008, le sue cause, la sua natura, le sue conseguenze. La severità della sua analisi gli valse l’appellativo di Mister Doom, cioè il Signor Destino Funesto, una Cassandra che profetizza sciagure. Tanto più che, a differenza di altri suoi colleghi, lui è rimasto pessimista anche quando negli Stati Uniti qualche “rondine” salutò prematuramente l’arrivo della primavera (2010), cioè di una robusta ripresa economica in grado di riassorbire la disoccupazione. Roubini è diventato una star mondiale, consulente di molti governi e organizzazioni internazionali. Insegna alla New York University. Le sue analisi vengono seguite con attenzione anche dai banchieri di Wall Street. Perciò a volte viene considerato – negli ambienti della sinistra europea – come una sorta di “interprete autorevole” degli umori della finanza globale, ivi compresa quella finanza che specula sulle sciagure dell’eurozona. Per questa sua fama, è l’interlocutore giusto per affrontare questo tema cruciale: il modello

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sociale europeo è insostenibile perché considerato tale dai mercati? «Dal punto di vista della sostenibilità finanziaria nel lungo termine – mi ha risposto Roubini – il modello tedesco, che prevede un Welfare generoso, non è affatto condannato. Se i cittadini tedeschi desiderano un alto livello e un’alta qualità di servizi sociali, dalla scuola alla sanità, e sono disposti a pagarne il prezzo sotto forma di tasse, quell’assetto è perfettamente solido e stabile». Va ricordato che nei paesi dell’Europa germanico-nordica, i fondamenti del patto sociale risalgono a due culture: quella socialdemocratica e quella protestante. I caratteri essenziali dello Stato sociale in Germania non hanno subìto variazioni nel passaggio da un cancelliere socialdemocratico (Gerhard Schroeder) a una cristiano-democratica come Angela Merkel, così come era avvenuto in alternanze precedenti (Adenauer-Brandt; Schmidt-Kohl). Lo stesso accade in paesi scandinavi dove i socialisti non sono sempre al governo, eppure le loro conquiste non vengono rimesse in discussione da governi conservatori o liberali. «Il problema – ha concluso Roubini – si pone in quei paesi che hanno alta spesa pubblica ma per molti anni o decenni non l’hanno finanziata con un gettito fiscale adeguato». È questo il nodo venuto al pettine in Grecia, Spagna, Italia: noi sì abbiamo vissuto a lungo al di

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sopra dei nostri mezzi. Il discorso di Roubini non fa una piega. Si può riassumere così: se volete il modello sociale europeo, pagatene il conto disciplinatamente come fanno gli svizzeri, i tedeschi o gli svedesi. Se invece pretendete di godere a sbafo di un Welfare di tipo europeo, allora state vivendo su una “bolla” destinata a scoppiare. Attenzione: quando si usa l’espressione “vivere al di sopra dei propri mezzi”, bisogna evitare l’errore di confondere il tenore di vita nazionale e quello dei singoli individui o famiglie. Collettivamente si può vivere al di sopra dei propri mezzi, anche se tanta parte della società vede regredire il proprio tenore di vita, il proprio potere d’acquisto, il valore dei risparmi. In effetti le nazioni “sfiduciate dai mercati” sono anche quelle dove l’evasione fiscale e l’economia sommersa sono le più alte. Il problema di fondo, quindi, riguarda il nostro “capitale sociale”: il livello di fiducia che abbiamo nei nostri concittadini, nelle nostre istituzioni, è quello che ci porta ad accettare la condivisione dei costi del Welfare. Fiducia uguale lealtà, lo sappiamo quando ci troviamo con i nostri amici e parenti più stretti: fatta una spesa in comune, non ci verrebbe in mente di imbrogliare sul conto per alleggerire la nostra parte. Nei paesi dove il capitale sociale è più basso, dove troppi fanno i furbi e vogliono profittare dei vantaggi dello Stato so-

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ciale scaricandone i costi su altri, l’accumulo dei debiti è diventato insostenibile. Il modello europeo muore laddove è malata la coscienza civile, il senso del dovere, il patto che lega tutti al rispetto delle stesse regole. Non regge quel modello, nelle nazioni dove interi strati sociali hanno da tempo dichiarato una silenziosa secessione, attraverso l’evasione di massa, il parassitismo, le frodi, la corruzione. “Di massa”, è importante: non solo certi politici corrotti, o le organizzazioni criminali, ma corpose e rispettabili categorie sociali si sono abituate per decenni a vivere in un mondo parallelo, dove i servizi pubblici esistono e fanno comodo, mentre le tasse sono un optional. I paesi dove il capitale sociale è così esiguo, sono anche quelli dove esiste un alibi culturale di massa: hanno le burocrazie pubbliche più scassate, inaffidabili, improduttive. È difficile stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina: viene prima l’inefficienza dello Stato, oppure la sfiducia di quel cittadino che si sente legittimato moralmente a evadere le imposte? È un argomento di sicuro interesse per gli storici, ma secondario per il nostro futuro: è evidente che bisogna agire su ambedue i lati di questo connubio perverso, che fa del nostro Welfare una caricatura penosa del modello europeo. La lotta contro l’evasione e la lotta contro i parassiti della burocrazia pubblica sono le due facce della stessa medaglia.

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Da questo punto di vista è doveroso sforzarsi di capire la Merkel. La Germania è una democrazia, il suo cancelliere deve tener conto di quel che pensano i partiti della sua coalizione e gli elettori che la votano. I cittadini tedeschi hanno letto – come le abbiamo lette noi – le notizie sui ricchi greci (gli armatori, e non solo loro) che al primo allarme sulla possibile uscita dall’euro portarono i loro soldi all’estero. La stampa tedesca, come quella italiana, ha riportato una notizia ancora più ripugnante: oltre ai capitalisti greci, anche i deputati del Parlamento di Atene hanno messo i loro soldi al sicuro all’estero. I tedeschi, che hanno giornali di qualità, sanno tante cose anche su noi italiani: gli scandali politici, le tangenti, l’evasione record che fa dell’Italia un’anomalia tra i paesi membri del G7, il peso di mafia, ’ndrangheta e camorra nella nostra economia, gli sprechi della nostra burocrazia pubblica in ogni regione (dagli stipendi dei deputati nell’assemblea regionale siciliana a quelli di Bolzano). Perché dovrebbero sentirsi obbligati, in nome di una nobile solidarietà europea, a correre in aiuto di paesi che fanno così poco per aiutarsi da soli? Con che faccia un governante tedesco può chiedere al metalmeccanico della Volkswagen di contribuire, con le tasse sulla sua busta paga, a operazioni di salvataggio in favore di nazioni la cui classe dirigente si è da tempo “chiamata fuori”?

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In questo senso c’è una logica stringente – e terribile – che impone al vero modello europeo di selezionare chi riesce a farne parte e chi no. L’Europa germanica, con l’inclusione dei suoi satelliti già citati (Svizzera, Austria, Olanda, i quattro paesi nordici), ha una sua consistenza, omogeneità e compattezza. Non ha complessi d’inferiorità verso il modello americano, troppo ingiusto e diseguale. Non teme la competizione con i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) perché si specializza sulla qualità e la tecnologia. Quel che le risulta più difficile, è integrare nello stesso patto sociale, nella stessa cultura delle regole, nello stesso spirito civico, coloro che del modello europeo hanno preso solo brandelli incoerenti.

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La Germania non è “riuscita” a disciplinare anche noi mediterranei... oppure non è stata mai veramente interessata a farlo? La domanda mi interpella, in un certo senso, personalmente: perché nel 1996 pubblicai presso Laterza un libro, Germanizzazione, dove lo scenario su cui mi interrogavo era quello di un’Europa «sempre più tedesca». Era una fase, quella, in cui la Germania usciva dalla sua riunificazione, che in un certo senso avevamo pagato anche noi, attraverso alti tassi d’interesse imposti di fatto dalla Bundesbank a tutte le economie del mercato unico. Era una Germania col fiato grosso, nella sfida con gli Stati Uniti, dove stavano sbocciando i primi germogli della New Economy (il ­boom della Silicon Valley nell’èra in cui i giganti si chiamavano Microsoft, Aol, Yahoo, Intel, Cisco). Era anche una Germania che stava comincian-

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do a progettare le sue riforme del Welfare, per salvare l’essenza del suo Stato sociale tagliando sprechi e inefficienze, rendendolo più snello e sostenibile (fu un cantiere di riforme portato a termine con il consenso dei sindacati dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder). In quel contesto, “germanizzazione” poteva dire tante cose diverse: diffusione di una cultura economica fondata sulla stabilità monetaria, ma anche su un capitalismo più chiuso e tradizionale (segnato da opacità e rapporti incestuosi banca-industria), meno snello della versione “digitale” californiana che stava accelerando sulla West Coast americana. Germanico era l’impianto delle relazioni industriali fondato sulla Mitbestimmung, la co-determinazione fra top management e sindacati rappresentati nei consigli d’amministrazione. Germanica era la moderazione sindacale, un ricorso limitato all’arma dello sciopero, la pace sociale in cambio di una compartecipazione agli utili. L’anno successivo, nel 1997, divenni l’inviato di «Repubblica» per l’Europa proprio quando iniziarono gli “esami di Maastricht” per entrare a far parte della moneta unica, e quel percorso a ostacoli fu al centro di un libro-intervista con Mario Monti, L’Italia in Europa (anch’esso pubblicato da Laterza). Un’intervista nella quale ricorreva spesso quel termine caro a Monti, «l’economia sociale di mercato», usato dai cri-

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stiano-democratici che ricostruirono la Germania nel dopoguerra: il cancelliere Konrad Adenauer, il suo ministro dell’Economia Ludwig Erhard. C’era, sul finire degli anni Novanta, un rinnovato interesse per il “capitalismo renano”, quel sistema che cercava di conciliare imprenditorialità, partecipazione sindacale e solidarietà, diffuso non solo in Germania ma anche nelle regioni dell’antica Europa borgognona (Bruxelles e Fiandre, Lussemburgo, un pezzo di Francia nord-orientale). Delle virtù di quel modello erano convinti francesi e italiani come Michel Albert, Romano Prodi, Giovanni Bazoli. La ricetta germanica era congeniale anche a un pezzo di Padania, dal Triveneto al Bresciano al Modenese, tessuti industriali con tradizioni diverse ma comunque segnate da forme di solidarismo cattolico o compartecipazione di fatto delle maestranze socialcomuniste nel governo delle imprese. Esistevano insomma le premesse concrete per un’operazione di “germanizzazione” accelerata, che rendesse il resto d’Europa più simile e omogeneo al suo nucleo dominante. Perché la Germania non ha esercitato fino in fondo quell’egemonia politico-culturale che la sua stazza post-riunificazione e la sua ricchezza le assegnavano già allora? Alcune risposte vanno cercate nella storia: la memoria dell’espansionismo prussiano, poi del Reich di Guglielmo II,

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infine e soprattutto del nazismo, hanno reso la Germania democratica una “superpotenza timida”, spesso affiancata al Giappone nel suo status di “gigante economico e nano politico”, restìa a dispiegare apertamente la propria superiorità per influire sui paesi vicini. C’è però una spiegazione di natura diversa, e complementare. Questa spiegazione della mancata o tardiva “germanizzazione” ha piuttosto a che vedere con i meccanismi dell’economia. Il modello di sviluppo tedesco è fondato sul motore delle esportazioni. La Germania ha un’economia costruita in modo da essere strutturalmente in attivo, con esportazioni molto superiori (in valore) alle importazioni. Nella sua storia, di regola, ha accumulato attivi commerciali nei confronti del resto del mondo, Europa inclusa. In questo senso è simile al Giappone e alla Cina, due altri colossi economici il cui sviluppo è trainato dalle esportazioni. Germania e Giappone sono i due casi più simili poiché, a differenza della Cina, si tratta di nazioni molto avanzate, che hanno superato da decenni la fase del “decollo”, e tuttavia hanno conservato per certi aspetti la caratteristica tipica di quelle nazioni emergenti che basano la propria crescita sui mercati altrui. Il modello economico trainato dall’export ha due corollari importanti. Il primo è di natura culturale, valoriale. Per esportare più di quan-

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to si importa, bisogna produrre più di quanto si consuma; bisogna quindi anche avere un elevato livello di risparmio. Ergo: quasi sempre nelle nazioni che hanno questo tipo di economia “estroversa”, o “estero-dipendente” (nel senso della dipendenza dagli sbocchi all’esportazione), si è sedimentata un’etica collettiva che esalta la virtù della parsimonia, della frugalità. Questo è vero per l’ethos tedesco come per quello delle grandi civiltà confuciane dell’Estremo Oriente: Cina, Giappone, Corea del Sud. Secondo corollario: perché alcune nazioni possano essere sempre in attivo, è indispensabile, obbligatorio, che altre siano in permanente disavanzo commerciale con l’estero. A questa logica implacabile non si sfugge. Il pianeta terra è un’economia “chiusa”: tra le nazioni che ne fanno parte, i conti devono compensarsi per forza. A meno di riuscire un giorno a esportare verso Marte o Giove, non possiamo essere tutti in attivo. Non possiamo essere tutti dei super-esportatori. È matematicamente impossibile. Di conseguenza, non è errato sostenere che la virtù tedesca “esige” il vizio altrui: l’una e l’altro sono complementari, le due facce della stessa medaglia. Il successo della Germania, virtuosa ed esportatrice, esige che di fronte a lei ci siano nazioni disposte a comportarsi in modo simmetricamente contrario. Di questo paradosso era ben consapevole Barack Obama, quando cercò di formulare una ri-

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cetta coerente e di validità mondiale per l’uscita dalla crisi. Il crac sistemico del 2008, innescato originariamente dai “debiti malati” dell’America, aveva come premessa un macro-squilibrio planetario. L’America era vissuta a lungo indebitandosi per consumare; mentre altre nazioni (Cina in testa) erano felici di farle credito perché in questo modo “riciclavano” i propri sovrappiù di capitali mettendoli a disposizione del proprio cliente numero uno, il consumatore americano. Riunendo sotto la sua presidenza i leader mondiali al G20 di Pittsburgh, nel settembre 2009, il padrone di casa formulò quella “dottrina Obama” che si può riassumere così: l’economia mondiale è malata di grandi squilibri fra nazioni indebitate e nazioni creditrici, nazioni che vivono al di sopra dei propri mezzi e nazioni che accumulano avanzi commerciali. L’America deve fare la sua parte e la farà – promise Obama – per curare gli eccessi della sua bolla, e risparmiare di più. Ma non possiamo aggiustarci da soli, continuò, se altri non fanno lo stesso percorso in senso inverso: quelli che finora hanno risparmiato ed esportato a dismisura, devono consumare di più e diventare locomotive della crescita. Obama pensava alla Cina, al Giappone, e alla Germania. Da quel settembre 2009 in poi, quanto è stata applicata la “dottrina Obama”? Negli Stati Uniti un parziale aggiustamento c’è stato, attraverso

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l’aumento della propensione al risparmio delle famiglie (era crollata a zero nel 2007, è risalita al 5% sul reddito disponibile nel 2012). Sul fronte opposto la Cina è quella che ha fatto di più per stimolare la sua domanda interna, con robuste iniezioni di spesa pubblica e aumenti salariali che nelle regioni più industrializzate hanno raggiunto il 20%. Il Giappone è stato costretto da una calamità naturale a varare un consistente piano di investimenti pubblici, per la ricostruzione delle aree più colpite dal terremoto e dallo tsunami del marzo 2011. La Germania è quella che ha fatto di meno. Ci sono stati aumenti salariali, per esempio nel contratto collettivo 2012 dei metalmeccanici tedeschi che hanno ottenuto un rialzo del 4,3% annuo, circa il doppio dell’inflazione. Quasi nulla però è stato fatto dal governo. La Germania è stata riluttante a svolgere il ruolo di locomotiva. La Merkel è rimasta la meno sensibile alle sollecitazioni degli Stati Uniti. Anche in questo caso, logica economica e senso etico si sono mescolati. Come ama ripetere Monti, per molti tedeschi l’economia è una dottrina morale (in ciò sono fedeli alle origini stesse di questa scienza: lo scozzese Adam Smith, autore della Ricchezza delle nazioni e fondatore della moderna economia politica, era anzitutto un filosofo etico). Per la Merkel, come per molti tedeschi, è semplicemente insopportabile che l’America dia lezioni

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ad altri, dopo aver provocato la terribile crisi del 2008 proprio per effetto dei suoi debiti insostenibili nel settore dei mutui subprime. Anche guardando all’interno dell’Europa, i tedeschi vedono che i paesi più succubi del modello americano – cioè Inghilterra, Irlanda e Spagna che hanno avuto le loro “bolle” immobiliari finanziate dalle banche – sono quelli più inguaiati. Perché mai la Germania dovrebbe andare a lezione da economie così disastrate? Con quale presunzione il debitore sale in cattedra e dà lezioni al virtuoso tedesco? In quanto agli economisti keynesiani (i premi Nobel Krugman e Stiglitz e i loro numerosi colleghi europei che la pensano allo stesso modo), essi predicano che la gravità della crisi impone le stesse terapie degli anni Trenta, cioè spesa pubblica finanziata in deficit. I socialdemocratici tedeschi sono sensibili a questi appelli. Invece la Germania d’impronta conservatrice che vota cristiano-democratico ribatte: se davvero il deficit pubblico genera una crescita sana, durevole e sostenibile, come la mettiamo con il caso Italia? Avendo accumulato decenni di deficit, fino ad avere un debito-Pil pari al 120%, l’Italia dovrebbe essere un campione della crescita. Non lo è affatto, non lo è da tanto tempo. La resistenza della Germania ha una sua dignità morale, e di buonsenso. Sul piano morale, tanti tedeschi guardano con diffidenza al modello angloamericano del capi-

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talismo iper-finanziarizzato, e del consumismo alimentato col credito facile. Pensano che le prediche impartite dagli Stati Uniti, e a maggior ragione quelle che vengono dai paesi dell’Europa mediterranea segnati dal malgoverno, sono un tentativo di trascinare anche la Germania sulla via della perdizione. Il buonsenso è quello che analizza l’economia di un paese come fosse un bilancio domestico, e comanda: non spendere più di quello che hai. L’economia nazionale e l’economia di una singola famiglia o azienda obbediscono in realtà a regole ben diverse. Usare gli stessi criteri, è l’errore che si rivelò fatale nella Grande Depressione degli anni Trenta. A quell’epoca, prima che l’economista John Maynard Keynes imponesse la sua teoria, il pensiero liberale vedeva nella depressione una sorta di “purga” per gli eccessi, al termine della quale l’economia avrebbe ritrovato il suo equilibrio naturale. C’era anche a quell’epoca una venatura morale: tanti videro nella depressione un castigo, di sapore quasi biblico, come i sette anni di calamità dopo le vacche grasse. Occorreva pentirsi ed espiare, per le follie speculative pre-1929. L’analisi di Keynes fu decisiva nel ribaltare quegli stereotipi. Insegnò che quando crollano i consumi e gli investimenti privati, solo lo Stato può farsi avanti per riempire quel vuoto di domanda. Deve spende-

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re, in deficit (cioè “spendere risorse che non ha”, secondo la logica aziendale o familiare), altrimenti nessun soggetto economico privato ritroverà i mezzi e la fiducia sufficienti a rilanciare la crescita. Paul Krugman è convinto che siamo in una situazione analoga, e diversi indicatori lo confermano. Negli Stati Uniti, ad esempio, il Congressional Budget Office (bipartisan) ha calcolato che il livello della disoccupazione è tale da costituire un “ammanco” di 900 miliardi di dollari di Pil all’anno. Non siamo dunque in una situazione di “penuria” di risorse, di scarsità che dobbiamo gestire attraverso l’austerity. Siamo, al contrario, in una crisi dovuta all’immensa quantità di risorse inutilizzate. Se si riuscisse a rimettere nel circuito produttivo la forza lavoro disoccupata (e altre risorse inutilizzate: fabbriche ferme, capitali non investiti), l’aumento del reddito nazionale si tradurrebbe anche in maggiore gettito fiscale, consentendo di ripagare più facilmente tutti i debiti incluso quello dello Stato. Una buona parte dell’establishment tedesco continua a usare una dottrina pre-keynesiana. Del liberismo ci è familiare la versione “neo”, quella angloamericana, che ha avuto il suo padre teorico in Milton Friedman e i suoi sponsor politici in Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Molto prima di Friedman, però, un grande pen-

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satore del liberismo economico fu l’austriaco Friedrich von Hayek, la cui influenza sui conservatori tedeschi è tuttora significativa. Chiamano “ordo-liberalismo” la loro versione, per distinguerla da quella angloamericana. Quasi a voler sottolineare l’elemento dell’ordine e della stabilità, contro l’esuberanza irrazionale dei cugini “anglo”. Un’altra volta nella storia recente la Germania si trovò a un bivio. Era il 1992, anno terribile per l’instabilità monetaria mondiale. Allora non c’era l’euro bensì il Sistema monetario europeo (Sme), costruito per mantenere la parità di cambio tra le monete dell’Unione entro oscillazioni limitate. Lo Sme nel ’92 vacillava paurosamente: nella tempesta globale, i capitali fuggivano verso la Germania, il marco schizzava all’insù e le monete più deboli stentavano a rimanere agganciate. L’Italia era penalizzata dagli alti tassi d’interesse, quelli che la Bundesbank imponeva per attirare fondi e finanziare la riunificazione. Giustificati per la situazione economica tedesca, quei tassi erano un costo sempre meno sostenibile per il nostro paese. La Germania avrebbe potuto salvare lo Sme: tagliando il costo del denaro, e accettando una maggiore inflazione in casa sua. Fece la scelta opposta, tenne duro sulla politica monetaria rigorista, volle difendere la tradizione del marco forte. Lo Sme si sfasciò, lira

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e sterlina vennero travolte dalla speculazione e furono costrette a uscirne. forte, L’attaccamento tedesco alla moneta ­ anch’essa vissuta quasi come un valore ­etico, viene spesso spiegato con i terribili ricordi dell’iperinflazione che contribuì alla caduta della Repubblica di Weimar e all’avvento di Adolf Hitler al potere. C’è però una razionalità tutta economica della moneta forte: è il vincolo che costringe il capitalismo tedesco a fondare la sua competitività non su bassi prezzi bensì sull’alta tecnologia, la qualità, l’affidabilità dei prodotti. La moneta forte è un modo per tenere sempre sotto pressione l’industria tedesca, perché non abbassi mai il livello d’investimenti in ricerca e innovazione che sono il suo punto di forza mondiale. Anche in questo caso, ciò che appare come una virtù, ha una funzione economica legata al modello di sviluppo trainato dalle esportazioni. La riluttanza di Berlino ad esercitare in profondità la sua influenza, “germanizzando” i vicini, può quindi avere due interpretazioni. C’è la lettura benevola che l’attribuisce all’impraticabilità di forme di commissariamento degli Stati-partner, che evocherebbero le ferite del passato, resusciterebbero i timori sull’egemonismo e l’imperialismo tedesco. In questo senso la Germania pratica una forma di automoderazione che è comprensibile, anche se così facendo rallenta gli effetti benefici di una diffusione

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omogenea del “modello europeo forte”. L’interpretazione meno benevola è che la Germania si è abituata ad essere vaso di ferro tra vasi di coccio, è diventata la sua vocazione, è sugli squilibri strutturali che ha costruito la sua eccellenza. Sta di fatto che questa “egemonia debole” è un’anomalia. Proviamo a immaginare il percorso naturale di un paese leader all’interno di un sistema di alleanze e di complementarietà. Non è difficile fare questo sforzo di fantasia: il paese in questione esiste, si chiama Stati Uniti d’America. Dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre l’America fissava le regole di una “prima globalizzazione” creandosi un mercato di sbocco (piano Marshall, ricostruzione dell’Europa occidentale), e affidava la vigilanza su quelle regole a istituzioni sotto il suo controllo come il Fondo monetario e la Banca mondiale, al tempo stesso investiva molto negli strumenti del “soft power”. Amministrazioni Usa di ogni colore politico hanno sempre “allevato” e sostenuto i loro referenti filo-atlantici nei governi europei. Una fitta rete di rapporti, dai partiti politici alle università, dai think tank ai club informali dell’establishment (come la Trilaterale) sono stati foraggiati dagli Usa per alimentare la propria egemonia culturale. Nulla di lontanamente simile è stato fatto dalla Germania verso i suoi partner europei. Non v’è traccia, neppure dal Trattato di

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Maastricht in poi – che avrebbe dovuto consolidare una virtù tedesca nei paesi membri della moneta unica – di un progetto per accompagnare l’integrazione europea alimentandola di idee tedesche, valori tedeschi. Anche in questo caso: o è una distrazione inaudita, o è un’autolimitazione legata ai fantasmi del passato, oppure c’è una logica stringente che spinge la Germania a rimanere un modello fantastico con pochi allievi in grado di emularne le gesta. Nell’interesse di tutti, sarebbe bene sciogliere questa riserva, quest’ambiguità, questa reticenza. Una Germania più impegnata a diffondere la propria visione del mondo – 365 giorni l’anno e nelle opinioni pubbliche dei paesi partner, non solo nei summit di Bruxelles – farebbe bene anche a noi.

4. Le promesse che l’euro ha tradito (e perché)

La caccia agli speculatori dell’alta finanza, per lo più americani, appassiona molti italiani. Quando rientro dagli Stati Uniti nel mio paese, spesso vengo interrogato su questo: esiste una grande congiura di Wall Street contro l’eurozona in generale, ci sono stati attacchi speculativi coordinati su vasta scala contro questo o quel paese, l’Italia in particolare? Dietro le grandi tempeste che agitano i mercati, e hanno conseguenze pesanti sul valore dei nostri risparmi o sulla sostenibilità del debito pubblico nazionale, è possibile individuare delle “trame”? Da una parte ho delle riserve verso il “complottismo economico”, la tendenza a vedere congiure più o meno misteriose dietro le fluttuazioni dei mercati. Capisco che sia molto umano voler dare dei volti e dei nomi all’anonimato dei mercati: forse è un modo per reagire a un senso

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d’impotenza e di fragilità che ci angoscia. La mia razionalità mi suggerisce di diffidare delle spiegazioni troppo romanzesche. Come gli antichi greci immaginavano che ogni sciagura della loro vita fosse provocata da dèi egoisti e gelosi, maliziosi e beffardi, così oggi abbiamo la tentazione di sostituire agli dèi i banchieri di Wall Street e i traders degli hedge funds. Dall’altra, come giornalista non posso ignorare che le congiure, talvolta, esistono davvero. Ricordo alcune fra le tante rivelazioni recenti, che danno corpo ai sospetti e provocano sgomento. Il 14 febbraio 2010 il «New York Times» in un’ampia inchiesta conferma che la Grecia ha truccato i conti pubblici e ha ingannato per anni l’Europa con l’aiuto di Goldman Sachs e altri colossi di Wall Street. L’inchiesta dimostra che gli stessi metodi usati da Wall Street per creare la bolla speculativa dei mutui subprime sono stati replicati con le finanze pubbliche della Grecia e di altri paesi europei, Italia inclusa. Nell’inchiesta, Grecia e Italia vengono citate fra quei paesi i cui governi hanno fatto ricorso alla consulenza delle grandi banche americane (Goldman Sachs e JP Morgan Chase) per effettuare operazioni di “chirurgia estetica” che hanno dissimulato la vera entità dei deficit pubblici. Decine di interviste documentano un inganno andato avanti a lungo, “dieci anni di menzogne della Grecia” che hanno

4. le promesse che l’euro ha tradito (e perché)

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gettato fumo negli occhi della Commissione europea e hanno consentito ad Atene di aggirare il Patto di stabilità. Uno dei “montaggi finanziari” escogitati da Goldman Sachs «ha nascosto alle autorità di Bruxelles miliardi di debiti». Ancora nel novembre 2009, cioè poco prima che le convulsioni della crisi greca esplodessero alla luce del sole, sull’asse Atene-Wall Street si è tentato di barare: in quel mese una delegazione di alto livello della banca americana era arrivata ad Atene per discutere una nuova possibilità di guadagnare tempo. La missione era guidata da Gary Cohn, presidente di Goldman Sachs. I maghi della finanza avevano in mente un nuovo dispositivo per far scivolare i costi attuali della sanità pubblica greca “sui bilanci di anni molto lontani”. Un po’ come, in America, le banche rifilavano dei nuovi mutui ai proprietari di case sommersi dai debiti. Il trucco aveva funzionato in precedenza. Nel 2001, subito dopo l’ammissione della Grecia nell’Unione monetaria, la stessa Goldman Sachs aveva assistito il governo di Atene nel reperire miliardi sui mercati. Quel finanziamento del debito pubblico fu nascosto nei bilanci, grazie a un montaggio che la trasformava in un’operazione sui cambi anziché in un prestito. Così la Grecia riuscì a rispettare – formalmente – i parametri di Maastricht, continuando in realtà a vivere al di sopra dei propri mezzi. Nel novembre 2009 il

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tentativo fallì: troppo tardi, forse. L’attenzione dei mercati e della Commissione europea deve aver sconsigliato l’ennesimo trucco. Il «New York Times» specifica che i derivati hanno svolto un ruolo-chiave in questa vicenda. Scrive che «gli strumenti finanziari elaborati da Goldman Sachs, JP Morgan Chase e altre banche, hanno consentito ai leader politici di mascherare l’indebitamento aggiuntivo in Grecia e in Italia dal 1996». In decine di montaggi finanziari, rivela l’inchiesta, «le banche fornivano liquidità immediata ai governi in cambio di rimborsi futuri, e questi debiti venivano omessi dai bilanci pubblici». Un esempio: la Grecia rinunciò ai proventi della lotteria nazionale e delle tasse aeroportuali per anni a venire, in cambio di una liquidità immediata. Questo genere di operazioni non sono state contabilizzate come dei prestiti. Ingannando così sia le autorità di Bruxelles, sia gli investitori in titoli del debito pubblico greco, che ignoravano la vera dimensione dell’indebitamento e quindi il rischio d’insolvenza. Con un tocco di ironia alcuni dei montaggi finanziari furono battezzati con i nomi di dèi dell’Olimpo, come Eolo. Secondo l’economista Gikas Hardouvelis «i politici vogliono passare la patata bollente a qualcuno, se un banchiere gli dimostra come farlo, lo fanno». Sulla stessa lunghezza d’onda Garry Schinasi, esperto della task force di vi-

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gilanza sui mercati al Fondo monetario internazionale: «Se un governo vuole imbrogliare, ci riuscirà». Le banche hanno fornito il know how, e si sono fatte compensare: per il montaggio del 2001 Goldman Sachs ricevette una commissione di 200 milioni di dollari dalla Grecia. Quell’operazione fu uno «swap sui tassi d’interesse»: uno strumento che può servire a coprirsi da un rischio di variazione dei tassi, ma può anche essere usato a fini speculativi. Consente a un investitore o a uno Stato di convertire un debito a tasso variabile in uno a tasso fisso, o viceversa. Analogo è lo “swap di valute” che serve a proteggersi contro una variazione nei tassi di cambio, oppure a speculare su futuri scossoni tra le monete. Infine la “chirurgia estetica” sui conti greci ha ipotecato aeroporti e autostrade, mettendo i loro proventi nelle mani dei creditori per molti anni futuri. Il problema che emerge dalle rivelazioni del «New York Times» riguarda i danni alla trasparenza dei bilanci pubblici. «Il peccato originale dell’Unione monetaria – conclude l’inchiesta – è che Italia e Grecia vi entrarono con deficit superiori ai livelli consentiti dal Trattato di Maastricht. Anziché ridurre la spesa, però, i governi tagliarono artificialmente i deficit con l’uso di derivati. E i derivati, in quanto non appaiono ufficialmente nei bilanci, creano un’ulteriore incertezza». I campanelli d’allarme non sono

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mancati. Già nel 2008 Eurostat, l’istituto statistico di Bruxelles, aveva attirato l’attenzione sulle operazioni di “cartolarizzazione” dei debiti pubblici «montate ad arte per ottenere un certo risultato sui conti pubblici». Ancora prima, nel 2005, l’allora ministro delle Finanze greco Georgios Alogoskoufis, avvertì che l’operazione fatta con l’assistenza di Goldman Sachs avrebbe «appesantito i conti pubblici con pagamenti fino al 2019». Un altro caso di “complotto” sistematico, che evoca i Padroni dell’Universo, viene rivelato il 12 dicembre 2010 sempre dal più autorevole e rispettato quotidiano americano, il «New York Times»: un giornale peraltro assai vicino a Wall Street, con molti lettori che lavorano nel mondo della finanza, e quindi poco propenso a “romanzare”. In quel dicembre 2010 l’inchiesta del «New York Times» rivela l’esistenza di una vera e propria “cupola” di grandi banchieri che esercita un potere esclusivo di controllo sul mercato dei derivati. Fuori da ogni trasparenza, e al riparo da ogni concorrenza. «Il terzo mercoledì di ogni mese – si legge in quell’indagine – nove membri di una élite di Wall Street si riuniscono a Midtown Manhattan. I dettagli delle loro riunioni sono coperti dal segreto. Rappresentano Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Deutsche Bank, Barclays, Ubs, Credit Suisse». Ufficialmente, i

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nove banchieri di quel potente comitato d’affari hanno il compito di «salvaguardare la stabilità e l’integrità» su un mercato che muove ogni giorno migliaia di miliardi di dollari. Di fatto, il club dei nove «protegge gli interessi delle grandi banche che ne fanno parte, perpetua il loro dominio, contrasta ogni sforzo per rendere trasparenti i prezzi e le commissioni». La denuncia raccolta dal «New York Times» viene dal massimo organo di vigilanza. La fonte più autorevole all’origine dell’inchiesta è Gary Gensler, capo della Commodity Futures Trading Commission. L’uomo a cui Barack Obama ha affidato il compito di fare pulizia in un mercato altamente speculativo. Gensler è costretto ad ammettere la sua impotenza. «Il costo di quelle pratiche lo paga tutto il resto dell’economia, lo pagano tutti gli americani», lamenta Gensler. E naturalmente anche gli europei, visto che Wall Street è il centro della finanza globale. I derivati, infatti, hanno innumerevoli usi, una parte dei quali sono “virtuosi” e più vicini a noi di quanto possiamo immaginare. I fondi pensione li utilizzano per ridurre il rischio di perdite sui loro investimenti nel caso che le tendenze di mercato abbiano improvvisi rovesci (per esempio un futuro rialzo dei rendimenti sui buoni del Tesoro che deprime il valore di quelli già posseduti in portafoglio). Le compagnie aeree e navali comprano derivati per attutire il colpo di un rincaro del petrolio. L’in-

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dustria agroalimentare si protegge da aumenti nel costo dei raccolti. Perfino il consumatore, l’automobilista, è vittima di manovre speculative che attraverso i derivati accentuano il boom delle materie prime. Nessuno dei protagonisti dell’economia reale è veramente tutelato dalle manipolazioni su questi strumenti. Nessuno sa cosa decidono i nove membri del club esclusivo che si riunisce il terzo mercoledì di ogni mese. Il dipartimento di Giustizia americano ha aperto un’inchiesta «sulla possibilità di pratiche anti-concorrenziali nel clearing e nel trading sui derivati». I sospetti di collusione e di un vero e proprio cartello non sono nuovi. Ma trovare le prove è difficile. Un’altra inchiesta del dipartimento di Giustizia che aveva fatto scalpore accusava i più importanti hedge funds (Soros, Paulson, Greenlight, Sac Capital) di aver concordato un attacco simultaneo all’euro, in una cena segreta l’8 febbraio 2010 a Wall Street. Il giorno dopo, 9 febbraio, al Chicago Mercantile Exchange i contratti futures che scommettevano su un tracollo dell’euro erano schizzati oltre 54.000, un record storico. Goldman Sachs e Barclays furono coinvolte nelle cronache su quelle grandi manovre. Ma da allora l’inchiesta sulla congiura ai danni dell’euro non ha avuto sviluppi di rilievo. Estrarre prove dal club dei Padroni dell’Universo è complicato, almeno se si seguono i metodi “normali”.

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Per quanto riguarda il mercato dei derivati, paradossalmente, è proprio per effetto della grande crisi del 2008 che i Padroni dell’Universo hanno assunto un ruolo ancora maggiore. Uno dei momenti più drammatici di quella crisi fu il crac dell’American International Group (Aig), la compagnia assicurativa affondata dalle perdite su un particolare tipo di titoli derivati, i credit default swaps. In quel frangente il Tesoro e le autorità di vigilanza si accorsero che nessuno r­ iusciva a capire veramente le interconnessioni sul mercato dei derivati, esposto all’effetto-domino: una bancarotta di Aig avrebbe travolto decine di altre istituzioni e forse l’intero sistema bancario. Perciò fu il Tesoro a spingere per la creazione di una clearing house o camera di compensazione, affinché le grandi banche si facessero carico di garantire la stabilità del mercato dei derivati. Una certezza è che i Padroni dell’Universo usano il loro potere oligopolistico per estrarre dal resto dell’economia profitti esorbitanti. Esempio: su un solo contratto derivato di credit default swap – che protegge l’acquirente dall’eventualità di fallimento di uno Stato sovrano come la Grecia, o di una società quotata – il banchiere intermediario incassa una commissione di 25.000 dollari. Contratti simili se ne fanno migliaia ogni giorno, rimpinguando i profitti delle varie Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley. Quando negli anni Novanta il di-

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partimento di Giustizia riuscì a dimostrare che un’analoga collusione tra banchieri controllava gli scambi sul Nasdaq (la Borsa dei titoli tecnologici), in seguito al cambiamento delle regole le commissioni bancarie scesero a un ventesimo del livello precedente. Ma un rischio ancora superiore è che dentro il “club dei nove”, grazie allo scambio di informazioni quotidiane, possano maturare operazioni di cartello, manovre concertate, una manipolazione dei mercati. Quelli che dovrebbero “stabilizzare” i derivati, sono i primi a poter profittare delle prossime fiammate speculative. Il primo settembre 2011 nell’accumularsi di posizioni ribassiste contro alcuni paesi dell’eurozona rispunta la regia dei soliti noti. Quel giorno a sollevare il caso è il «Wall Street Journal» che pubblica estratti da un documento di 54 pagine firmato da uno dei più importanti strateghi della Goldman Sachs, Alan Brazil, e riservato a poche centinaia di grossi investitori istituzionali che sono i migliori clienti della banca. Il rapporto di Brazil è negativo sulle possibilità di salvare l’eurozona dalla crisi. Sull’euro offre alla clientela Vip una strategia di speculazione ribassista. Si tratta di prendere una posizione “contro”, investendo in un indice di credit default swaps il cui valore aumenta se cadono le azioni delle banche europee. Dove la faccenda si fa controversa, è nel ruolo che la stessa banca americana ha in quel

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periodo presso il governo di Madrid. È sempre il «Wall Street Journal» a ricordarlo: «Questo rapporto è stato diffuso mentre la Goldman offre i suoi servizi di consulenza a quei medesimi Stati europei contro i quali sta consigliando ai suoi clienti di speculare». Il mercoledì precedente allo scoop del quotidiano, per esempio, la Goldman insieme ad altre due banche aveva organizzato a Londra una conferenza col ministro dell’Economia spagnolo. Scopo dell’evento: presentare ai grossi investitori sulla piazza londinese il piano di austerità del governo di Madrid e invogliarli così a investire nei titoli spagnoli. Goldman, conferma il «Wall Street Journal», «ha una posizione leader nel collocamento del debito pubblico spagnolo». Contro il quale, su un altro fronte, suggerisce ai Vip strategie d’investimento che puntano al ribasso, o addirittura alla bancarotta per insolvenza. Il conflitto d’interessi rievoca un analogo caso sollevato da un’indagine sui mutui subprime. Alla vigilia della grande crisi del 2008, Goldman aveva venduto ai clienti dei suoi hedge funds dei “pacchetti ribassisti” a base di credit default swaps, per lucrare su un crollo del mercato immobiliare americano; mentre, contestualmente, la stessa Goldman e altre rivali di Wall Street erano tra gli istituti che “confezionavano” i titoli tossici dei mutui subprime.

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Che fine ha fatto l’inchiesta sul “falso downgrading” della Francia, una notizia errata, misteriosamente uscita il 10 novembre 2011 dalla Standard & Poor’s, suscitando in pochi minuti oscillazioni isteriche sui mercati? Chi ha guadagnato e chi ha perso dalle agitazioni speculative che nel novembre 2011 seguirono quell’infortunio – o presunto tale – della più grande agenzia di rating mondiale? Perché S&P non ha dovuto pagare indennizzi e risarcimenti? E quale spiegazione per un “errore” che dovrebbe essere impossibile? L’incidente, o presunto tale, rilanciò il dibattito sull’immenso potere delle agenzie di rating, la loro responsabilità cruciale nello scatenare la crisi del 2008, il ruolo nefasto svolto in tempi assai più recenti nelle vicende dei debiti sovrani, e il coacervo di conflitti d’interessi in cui si muovono queste superpotenze della finanza. Sulle agenzie di rating si è svolta una battaglia spesso nascosta, di cui i cittadini sono all’oscuro, benché dall’esito di questa battaglia possa dipendere la stabilità dei loro risparmi, e perfino il “segno” sociale della politica economica di tanti governi. Riaccendere un faro su S&P, Moody’s e Fitch è essenziale anche quando i Padroni dei rating non fanno notizia. Anzi, soprattutto quando non fanno notizia: perché è in questi momenti di bonaccia che si fanno e si disfano giochi decisivi, sulle regole del futuro. La loro storia accompagna fin dalla nasci-

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ta lo sviluppo del capitalismo moderno. È nel 1909 che il signor John Moody divenne il primo analista finanziario ad assegnare voti alle obbligazioni emesse da una categoria di imprese, le compagnie ferroviarie degli Stati Uniti. Nei decenni successivi la pratica si diffuse, allargandosi a dismisura in parallelo con la crescita e la complessità dei mercati finanziari. Crac finanziari, scandali, insolvenze, consigliarono di rendere addirittura obbligatorio il rating per alcune categorie di investitori. Fino alla situazione odierna in cui il “triopolio” S&P, Moody’s e Fitch dà i voti ad ogni sorta di emittenti dei titoli che vengono collocati sui mercati finanziari: buoni del Tesoro, obbligazioni emesse da banche e aziende industriali. Incollando sigle fatte di combinazioni di lettere (A, B, Aaa, ecc.) e di segni aritmetici (più, meno) ai debitori che emettono titoli, le agenzie pubblicano pagelle il cui impatto è cruciale. Tutti gli investitori del mondo si fanno in qualche modo guidare da quei voti, prima di decidere se comprare titoli e quale rendimento pretendere in cambio del rischio che si assumono. Certi investitori istituzionali americani – come i fondi pensione e le compagnie assicurative che emettono polizze sulla vita – hanno per legge o per statuto sociale il divieto di acquistare titoli al di sotto di un certo “voto”. Questo dà la misura dell’influenza delle pagelle.

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Quando di volta in volta i declassamenti hanno colpito Grecia, Portogallo, quegli Stati hanno subìto la fuga di grandi investitori del mondo intero, e rifinanziare il loro debito pubblico è diventato di colpo ancora più costoso, fino al default nel caso greco. In America per il loro ruolo nefasto nella crisi dei mutui subprime le agenzie di rating sono finite nel mirino: inaffidabili, talvolta perfino disoneste. Fino al 2006 – l’ultimo anno dell’Età dell’Oro o presunta tale – S&P e le sorelle Moody’s e Fitch regalavano la “tripla A” con generosità. Il voto di massima solvibilità ce l’avevano perfino certi prodotti “strutturati”, i famigerati titoli della “finanza tossica”, con dentro crediti legati ai mutui subprime che si sarebbero rivelati inesigibili. Bastava pagare. Nel settore privato, le agenzie non lavorano gratis, il rating se lo fanno remunerare dalle stesse società emittenti di titoli. Questo non vale per la maggioranza dei debiti sovrani, dove non si verifica il conflitto d’interessi: forse, se Roma e Parigi pagassero per le loro pagelle finanziarie, avrebbero più voce in capitolo sui voti... Riguardo alla crisi dei mutui subprime, sotto l’Amministrazione Obama il dipartimento di Giustizia ha aperto un’indagine su Standard & Poor’s, per far luce su una serie di “rating impropri” assegnati ai bond legati a mutui immobiliari. I procuratori federali hanno avanzato

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accuse pesanti: per esempio, quella secondo cui in passato certi analisti di S&P volevano assegnare dei voti bassi ad alcuni titoli della finanza tossica, ma i loro pareri furono ignorati per l’intervento di dirigenti superiori: nell’interesse del business. Nel settembre 2011 la Securities and Exchange Commission (Sec) pubblicava un rapporto duro con le agenzie di rating. L’organo di vigilanza sulla Borsa, che in base alla nuova legge Dodd-Frank ha competenza anche sulle agenzie di rating, è tenuto per legge a relazionare il Congresso di Washington una volta all’anno sul funzionamento dei rating. Il quadro fornito nell’ultimo rapporto è terribile. Ecco alcune delle “piacevolezze” elencate nella relazione annua della Sec. In una delle maggiori agenzie di rating, a dare le pagelle sulla solvibilità di una società era un analista che era al tempo stesso azionista della società stessa: alla faccia del conflitto d’interessi. Un’altra agenzia di rating comunicò in anteprima ad “amici intimi” un imminente cambio dei suoi voti: insider trading. Una terza è stata colta in fallo perché i suoi rating venivano assegnati senza seguire le regole che lei stessa si era data. La psicoanalisi insegna: la cosa più tragica che possa accadere a un malato di paranoia, affetto da mania di persecuzione, è di essere perseguitato davvero. Il regista Roman Polanski

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ne ha tratto ispirazione per uno dei suoi film più angosciosi, L’inquilino del terzo piano, dove incubi e realtà si mescolano, angherie vere o presunte diventano indistinguibili. Dunque, i complotti esistono, ma questo non ci esime dal dovere di cercare una spiegazione razionale ai nostri problemi. La speculazione non sceglie a caso i suoi bersagli. Perché vent’anni prima attaccava il Brasile o il Messico o la Thailandia, mentre dal 2009 al 2012 se l’è presa con noi? Prendersela soltanto con la speculazione è come voler rompere il termometro perché ci dice che abbiamo la febbre alta. Un episodio storico cruciale per capire quel che accade oggi è l’attacco guidato da George Soros nel 1992 contro lira e sterlina: un precedente esemplare, la “prova generale” di quel che l’eurozona ha vissuto in tempi più recenti. La formidabile offensiva di Soros vent’anni fa contro Londra e Roma fu possibile per l’alto debito pubblico dei due paesi, il disavanzo commerciale per scarsa competitività, l’insostenibilità della loro appartenenza al regime dei cambi quasi-fissi (il Sistema monetario europeo, Sme, antenato della moneta unica). Soros precipitò il crollo della lira e della sterlina, l’uscita di entrambe dallo Sme. Quegli eventi costrinsero l’Italia ad accettare un risanamento dei conti pubblici (governo presieduto da Giuliano Amato) che era necessario in sé: eravamo su una china distrut-

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tiva, per i comportamenti irresponsabili delle nostre classi dirigenti. Decenni di spesa facile, di finanziarie trasformate in “assalti alla diligenza” del bilancio pubblico, erano la causa vera. Soros ebbe la colpa – o il merito? – di diagnosticare lo squilibrio giunto al punto di rottura. Giocando d’anticipo accelerò i tempi della crisi. Il disastro vero lo avevano preparato altri. La situazione post-2008 non è tanto diversa: dalla corruzione dei passati governi greci, all’ostinazione di tanti leader (più francesi e inglesi, che tedeschi) nel rifiutare un governo europeo dell’economia, ogni nazione paga il conto degli errori accumulati in molti anni. Il contribuente tedesco ha ragione a sentirsi “spremuto” per sanare errori compiuti da classi dirigenti che lui non ha eletto (i governanti degli Stati mediterranei). Però l’intera Unione si sobbarcò il conto della riunificazione tedesca attraverso alti tassi d’interesse per molti anni. Il capitalismo industriale tedesco vide con favore i Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) nell’euro perché le svalutazioni selvagge della lira e di altre monete destabilizzavano il mercato unico, prima area di sbocco per l’export made in Germany. La speculazione ha intravvisto contraddizioni, incoerenze, storture del disegno europeo, si è infilata nei varchi, si è arricchita su queste che per lei rappresentano opportunità. Nessuno de-

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nunciava la speculazione quando era di segno opposto, e consentiva alle banche europee di rimpinguare i bilanci con finanziamenti a tasso zero. Le agenzie di rating non venivano processate dai nostri governi quando regalavano alti voti ai titoli del Tesoro greco, nonostante che i conti pubblici di Atene fossero truccati fin dal 2001. C’è un’attenzione asimmetrica verso gli speculatori. Altri sembrano avere imparato che le grida contro i complotti non servono a molto. L’ultima grande crisi che ebbe come epicentro l’Asia, quella del 1997 iniziata in Thailandia, fu l’occasione anche là di proteste contro il complotto della finanza occidentale. Il premier malese Mahathir divenne famoso all’epoca per le sue denunce contro le congiure degli angloamericani. Da allora però l’Asia ne ha tratto una lezione diversa. Oggi molte nazioni orientali hanno le finanze pubbliche più in ordine del mondo, i conti con l’estero in attivo, ricche riserve valutarie per consentire alle banche centrali di difendere le rispettive monete. E dietro ci sono economie rea­ li con i “fondamentali” in ordine: a cominciare dalla competitività. Finché l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sulla “caccia all’untore”, è un comodo diversivo per governi e banchieri centrali. Inseguire teorie del complotto non aiuta a capire le ragioni profonde di questa crisi. A cominciare

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da una ultradecennale perdita di competitività di tutte le nazioni mediterranee nei confronti dell’azionista di maggioranza dell’euro, la Germania. Quali e quante sono le promesse non mantenute dall’euro: questo è un bilancio che non possiamo eludere. È più importante dello “smascheramento” dei nemici dell’euro. C’era la promessa di un mondo bipolare, alla nascita della moneta unica nel 1999 (quando apparve sui mercati finanziari) e nel 2002 (quando arrivò nelle nostre tasche). Un equilibrio monetario, un sistema più equo e pluricentrico, meno vulnerabile agli choc unilaterali venuti dall’America: a questo doveva assomigliare il futuro con l’euro. Dieci anni sono pochi nella storia di una moneta, eppure non si sfugge ai bilanci: e fin qui la promessa è stata delusa. L’euro non ha protetto il Vecchio Continente dalla crisi finanziaria partita dagli Usa, anzi lo choc sistemico del 2008 è l’origine di una serie di convulsioni che, pur avendo il loro inizio a Wall Street, hanno finito per mettere in questione la stessa tenuta dell’Unione Europea. E il mondo di oggi non ci appare più stabile, almeno per l’assetto dei mercati finanziari, di quanto fosse dieci anni fa. La visione globale è importante nella genesi dell’euro. All’interno del patto franco-tedesco

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che risale al binomio François Mitterrand-Helmut Kohl, e che spianò la strada alla riunificazione delle due Germanie, la moneta unica aveva molteplici funzioni. Era sì il prezzo pagato dai tedeschi – la rinuncia al solido e amato marco – per il ricongiungimento con la Germania Est che alterava gli equilibri geostrategici e i rapporti di forze in Europa. Ma l’euro voleva essere anche il pilastro di un nuovo ordine monetario internazionale. I francesi vi portavano in eredità la loro antica avversione al predominio del dollaro: dai tempi del generale Charles de Gaulle e del suo consigliere economico Jacques Rueff, la Francia aveva instancabilmente denunciato i pericoli del «privilegio di signoraggio» detenuto dalla valuta americana. La Francia era stata la prima a vedere il “bluff ” della parità dollaro-oro minacciando di convertire tutte le proprie riserve valutarie nel metallo giallo. I fatti avevano dato ragione ai moniti francesi: dal 1971 Richard Nixon aveva esplicitamente abbandonato ogni finzione sulla garanzia aurifera del valore del dollaro; con la guerra del Vietnam gli Stati Uniti avevano iniziato a praticare in modo spregiudicato un gioco che in seguito è diventato familiare, lo stampare dollari per finanziare le proprie avventure imperialistiche. Inflazione, instabilità e disordine, crisi finanziarie, erano una conseguenza della capacità americana di “spalmare” i costi dei

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propri problemi sul resto del mondo, costretto ad accettare i dollari Usa per mancanza di alternative. La polemica lanciata da de Gaulle-Rueff aveva finito per convincere anche i tedeschi. Pur essendo meno antiamericani dei francesi, i governanti della Repubblica federale si rendevano conto che ogni accesso di febbre del dollaro (memorabili le crisi del 1974, 1983, 1992 e 1995) generava caos anche all’interno dell’Europa. Più volte il Sistema monetario europeo era stato sul punto di soccombere per le tempeste venute dagli Stati Uniti. Ad ogni tracollo del dollaro, il marco tedesco si rivalutava consolidando il proprio ruolo di bene-rifugio; e tuttavia le svalutazioni di altre monete come il franco e la lira mettevano a repentaglio la sopravvivenza del mercato unico e quindi gli interessi strategici dell’industria tedesca. La nascita dell’euro, moneta condivisa da un aggregato economico equivalente agli Stati Uniti, sulla carta doveva esercitare una funzione di stabilizzazione all’interno del Vecchio Continente, e di bilanciamento nei rapporti di forze globali tra le valute. In una geografia ideale, gli equilibri mondiali dovevano fondare su un treppiedi: con una moneta asiatica come terzo punto di appoggio (all’inizio si pensò allo yen giapponese, più di recente al renminbi cinese). In dieci anni, se c’è stato qualche progresso verso un ordine multipolare delle monete, è sta-

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to lento e parziale. L’euro si è fatto strada, è vero, come seconda moneta detenuta dalle banche centrali di tutto il mondo nelle rispettive riserve ufficiali. Ma è un secondo posto ancora troppo distante dal primo; la superiorità del dollaro resta schiacciante se misurata in percentuale delle riserve valutarie. Ancora più incrollabile appare il dominio del dollaro in alcuni mercati chiave come quello delle materie prime: la più importante di tutte, il petrolio, continua ad avere un prezzo misurato in dollari; e in dollari vengono regolate le transazioni, nonostante le ripetute minacce di questo o quel petro-leader (in Libia, Iran o Venezuela) di abbandonare la moneta americana in favore dell’euro. Qui la spiegazione è fin troppo chiara: dietro il dollaro c’è la forza militare degli Stati Uniti espressa dalle basi che costellano il pianeta dal Pacifico al Golfo Persico; dietro il dollaro c’è una politica estera unica, per quanto controversa, che viene espressa dalla Casa Bianca. Dietro l’euro non c’è un esercito, non c’è una Sesta Flotta a guardia delle rotte petrolifere; non c’è una politica estera unica; non c’è neppure un governo. L’altra delusione riguarda lo status dell’euro come moneta-rifugio per i risparmi. Su questo fronte il tradimento delle promesse è recente. Quando esplose la crisi del 2008, con epicentro Wall Street, si poteva sperare che l’euro ne

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avrebbe beneficiato. Al contrario, ad ogni accesso di panico, è verso il dollaro che sono fuggiti i capitali del mondo intero. Perfino sulla questione dei debiti sovrani la reazione è stata fortemente asimmetrica. Dopotutto gli Stati Uniti hanno un rapporto debito-Pil molto superiore alla Francia, e non troppo distante dall’Italia. Hanno subìto, non a caso, un downgrading del loro rating sovrano. Eppure i mercati si comportano come se la solvibilità di Washington fosse una certezza; e probabilmente hanno ragione. Ma è sensato dubitare della solvibilità italiana? Il problema vero sembra essere un altro: gli investitori non sembrano convinti che un “euro tedesco” sia veramente la stessa cosa di un “euro italiano”. Pesa anche la mancata unificazione della finanza europea; l’assenza di una piazza globale che possa competere con New York (ci sarebbe, si chiama Londra, ma è rimasta fuori dall’euro). Né ci hanno aiutato gli asiatici. Il Giappone ha rifiutato un ruolo globale per lo yen; la Cina non accetta ancora la piena convertibilità del renminbi. Alla fine le differenze si misurano anche in termini di autostima. Quando la moneta unica ha avuto dei cedimenti improvvisi nella sua parità col dollaro, gli europei si sono allarmati per “l’euro debole”. Ma per la maggior parte del decennio è il dollaro ad aver perso quota, restando ben al di sotto della parità; per gli americani “il dollaro debole” non fa

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neppure notizia. Lo considerano, non a torto, un problema nostro. E tuttavia non mi pare giusto che la moneta catalizzi in modo ossessivo la nostra attenzione, diventi una sorta di “indicatore unico” sullo stato di salute dell’Europa. La Svizzera non fa parte né dell’Unione Europea né tantomeno di quella monetaria; eppure fa parte a tutti gli effetti di quel “modello sociale europeo” di cui ho indicato nell’area nordico-germanica l’incarnazione migliore. Anche Danimarca e Norvegia rappresentano un buon modello di socialdemocrazie avanzate, tipicamente europee, pur avendo monete distinte. La capacità del modello sociale europeo di esprimere un patto di cittadinanza, un’idea di civiltà, non si riassume nella vicenda di una moneta. Per capire tutto ciò che è accaduto di positivo sul Vecchio Continente negli ultimi vent’anni, più che all’euro dovremmo guardare al programma Erasmus-Socrates. Quel programma di agevolazione delle esperienze di studio all’estero, ha creato un fenomeno nuovo: intere generazioni di “cittadini europei”, formatisi a una coscienza di appartenenza nuova rispetto allo Stato-nazione in cui sono nati. È l’embrione di una nuova opinione pubblica continentale, ingrediente indispensabile per costruire l’unione politica e gli Stati Uniti d’Europa. Se l’euro ha tradito tante promesse, non di sola moneta è fatta la nostra Europa.

5. In cerca di un nuovo “pensiero” economico

Le grandi crisi finanziarie sono state l’occasione e la spinta decisiva per riformare le regole dell’economia di mercato. Anche se non sempre nella direzione giusta. Il crollo delle Borse iniziato nel 1929, poi seguito dalla Grande Depressione, ispirò sì profonde riforme, ma dagli esiti divergenti. Da una parte ci fu una reazione contro quella globalizzazione ante litteram che aveva portato negli anni Venti a una forte integrazione delle economie nazionali. Un’ondata di protezionismo venne sancita con una legge Usa del 1930, lo Smoot-Hawley Tariff Act, che impose alti dazi doganali sulle merci straniere e fece crollare del 50% le importazioni sul mercato americano. La conseguenza fu di innescare una catena di ritorsioni. Ogni paese cercò di scaricare la crisi sugli altri, col risultato che il commercio mondiale ne uscì fortemente ridimensionato, aggra-

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vando la Grande Depressione. L’eredità di quel ripiegamento protezionista è stata più profonda di quanto si creda. Soltanto negli anni Novanta l’economia mondiale ha ritrovato il livello di integrazione, libertà di scambi e dei movimenti di capitali che aveva conosciuto all’inizio del Novecento. Un altro tipo di riforme innescato dal 1929 ebbe invece per oggetto i mercati finanziari. L’anno decisivo è il 1933, quando l’America soffrì un collasso del suo sistema bancario. Nacque allora il Glass Steagall Act, la nuova legge bancaria destinata a regolare il credito per oltre mezzo secolo. È con quella normativa che vide la luce per la prima volta la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia che con i suoi fondi (alimentati da un prelievo sui conti bancari) assicura i depositanti contro il rischio di bancarotta degli istituti di credito. La Federal Reserve ricevette nuovi poteri. Ancora più importante, nel Glass Steagall Act, fu la creazione di una “muraglia cinese” per separare due mestieri. Da una parte le banche commerciali tradizionali, che raccolgono depositi: a loro la legge proibì da quel momento in poi di assumere partecipazioni in altre società finanziarie e aziende industriali. Mentre il mestiere di investitore in capitale di rischio veniva riservato alle investment banks (chiamate anche merchant banks o, in italiano, banche d’affari).

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Queste ultime, a loro volta, non potevano gestire conti correnti e libretti di risparmio. Si volle così proteggere il piccolo risparmiatore da un pericolo che gli era stato fatale negli anni Trenta: il fatto che i suoi depositi a vista venissero reimpiegati in investimenti di lungo termine, ad alto rischio e poco liquidi, con forti probabilità di insolvenza nell’eventualità di un crac delle Borse. Nonostante i pesanti “avvertimenti” lanciati dai mercati finanziari alla fine degli anni Novanta, costellati da incidenti che anticipano alcune caratteristiche della crisi più recente (si susseguirono in una rapida concatenazione la bancarotta di diversi paesi asiatici, della Russia, dello hedge fund Ltcm tra il 1997 e il 1998), nel 1999 venne smantellata definitivamente la “muraglia cinese” tra i due mestieri bancari. In quel caso fu decisiva l’egemonia politico-culturale del neoliberismo reaganiano, un’ideologia che già aveva spianato la strada a numerose deregulation e all’indebolimento complessivo dei poteri di controllo e vigilanza sui mercati. Nel 1999 il Gramm-Leach-Biley Act abrogò la distinzione tra banche commerciali e investment banks, accelerando la diversificazione di tutti gli istituti di credito in attività finanziarie sempre più complesse e spericolate: è per effetto di quella riforma (firmata dal presidente Bill Clinton ma prima approvata al Congresso per iniziativa dei repubblicani) che gli investimenti ad

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alto rischio si sono infiltrati nei portafogli delle banche tradizionali. Lo choc del crac Enron nel 2001 ha partorito a sua volta un cambiamento di regole con la legge Sarbanes-Oxley: un fiasco, perché ha complicato gli adempimenti contabili senza ridurre le possibilità di abuso né tantomeno l’opacità dei bilanci. L’Europa, in tutti questi casi, si è mossa quasi sempre a rimorchio dell’America. Per lo più imitandone gli errori. La crisi dei mutui sub­prime scoppiata nel 2008, per esempio, ha avuto delle “sorelline minori” in Inghilterra, Spagna, Irlanda, paesi che hanno scimmiottato il credito facile e la bolla immobiliare americana. Perfino la Germania, pur venendo da una tradizione diversa, ha visto le sue grandi banche speculare sui derivati imitando pedissequamente Wall Street. Fra le lezioni della Grande Depressione non va dimenticata la riforma di portata mondiale decisa a Bretton Woods nel 1944: nacquero il Fondo monetario internazionale e il Gatt, una nuova architettura di regole e istituzioni per rilanciare il commercio internazionale e al tempo stesso fornire una base di stabilità ai rapporti tra le monete. In precedenza, il New Deal di Franklin Delano Roosevelt aveva anche riscritto il patto sociale americano, ampliando il ruolo dello Stato come garante di una società meno diseguale e meno ingiusta con i deboli. Oggi la profondità della crisi imporrebbe un’azione di

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quella portata. Abbiamo bisogno di riscrivere non solo le regole della finanza, ma anche quelle degli scambi globali, e di rifondare un patto sociale gravemente indebolito da decenni di allargamento delle diseguaglianze. Può essere, questo, il momento di un “ritorno all’antico”? Se è vero che l’austerity ha aggravato la crisi dell’eurozona, l’alternativa giusta è semplicemente il recupero di politiche assistenziali e stataliste che l’Europa ha sperimentato in passato? In America, è chiaro, il problema non si pone: non è all’ordine del giorno nel dibattito politico un revival di statalismo. Perfino quando Barack Obama dovette ricorrere ai salvataggi pubblici, l’animus liberista reagì vigorosamente. Nel 2009 nelle roccaforti della destra repubblicana apparvero sui paraurti delle auto degli adesivi con su scritto “Comrade Obama, u.s.s.a.”. Il compagno Obama sarebbe il leader degli United Socialist States of America? All’epoca Mike Huckabee, l’ex governatore dell’Arkansas che corse per la nomination repubblicana, riassumeva così il pensiero del Tea Party e di tutta la destra anti-Stato: «Lenin e Stalin sarebbero felici di quel che sta accadendo qui». A scatenare l’ira dei conservatori fu una parola: nazionalizzazioni. Parziali, striscianti, provvisorie e reversibili, ma pur sempre nazio-

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nalizzazioni. I più grandi istituti di credito – da Citigroup a Bank of America – sarebbero falliti senza l’aiuto dello Stato. La bancarotta di una banca ben più piccola come Lehman il 15 settembre 2008 aveva creato un effetto-collasso sull’intera finanza mondiale. Costringendo la stessa Amministrazione Bush a varare sotto la pressione dell’emergenza il gigantesco piano Paulson: 600 miliardi di dollari di aiuti alle banche. Visto che il contribuente era chiamato a uno sforzo titanico, il minimo che si poteva pretendere in cambio era che lo Stato potesse influire sulla loro gestione. L’intervento pubblico durò poco: non appena le condizioni del mercato lo consentirono, Obama restituì le banche al mercato e alla piena responsabilità dei loro amministratori privati. La breve stagione dell’emergenza fu comunque uno strappo storico? «Non è vero che la nazionalizzazione sia estranea alle tradizioni americane – sostiene il premio Nobel dell’economia Paul Krugman –. Al contrario, è americana quanto la torta di mele». E spesso vi hanno fatto ricorso presidenti di destra. Fu il repubblicano Richard Nixon nel 1971 a varare il salvataggio dell’azienda di armamenti Lockheed trasferendola temporaneamente sotto la tutela pubblica. Negli anni Ottanta Reagan firmò un’analoga nazionalizzazione di Chrysler, Bush padre lo fece con le casse di risparmio in bancarotta (Savings

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and Loans). Tutte quelle operazioni ebbero un costo assai modesto rispetto ai salvataggi bancari in atto oggi. Ma c’è un elemento in comune. Le nazionalizzazioni americane sono state quasi sempre provvisorie, la risposta a un’emergenza. Lo Stato è subentrato agli azionisti privati per scongiurare fallimenti che potevano minacciare la sicurezza nazionale, o la stabilità finanziaria, o creare danni sociali insopportabili. Appena possibile il governo ha riprivatizzato quelle aziende. Né fu molto diverso l’atteggiamento di Roosevelt durante la Grande Depressione. Benché i suoi avversari accusassero anche lui di essere un socialista, non lo era affatto: era un liberale concreto, disposto a sperimentare qualsiasi ricetta pur di superare una crisi spaventosa. Nel cercare ispirazione, più che all’Unione Sovietica Roosevelt guardò con interesse all’Italia fascista. Dopo il crac del 1929 il consigliere di Mussolini Alberto Beneduce salvò dal fallimento le maggiori banche italiane con l’ingresso dello Stato nel loro capitale, poi inventò l’Iri (anche queste, originariamente, dovevano essere soluzioni provvisorie, in realtà in Italia lo Stato-padrone durò oltre mezzo secolo). Roosevelt imboccò la strada delle nazionalizzazioni in modo molto pragmatico. Creando la Tennessee Valley Authority, per esempio, diede vita a un’azienda di Stato nell’energia elettrica per spezzare l’oligopolio dei privati e influenzare le tariffe.

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Bisogna andare in Europa per trovare un altro tipo di nazionalizzazione: teorizzata come una soluzione superiore alla proprietà privata; più equa o più efficiente; più conforme a difendere l’interesse nazionale; più benefica per i lavoratori e per i cittadini. L’antenata di quelle nazionalizzazioni è l’esproprio dei beni della Chiesa deciso dalla Rivoluzione francese nel 1789. Con l’avvento del pensiero socialista il ricorso alle nazionalizzazioni diventa sistematico: in Russia i bolscevichi aboliscono la proprietà privata delle terre nel 1917, quella delle banche e dell’industria nel 1918: come voleva Karl Marx, i mezzi di produzione vanno collettivizzati nella dittatura del proletariato (la stessa strada imboccata da Mao Zedong in Cina nel 1949). In Francia lo statalismo ha radici profonde in diverse tradizioni politiche e le nazionalizzazioni sono state bipartisan: nel 1936 il Fronte Popolare requisì le ferrovie e la nascente industria aeronautica; tra il 1944 e il 1946 Charles de Gaulle espropriò la Renault, le quattro banche principali, il trasporto aereo, le miniere, l’energia elettrica e il gas. L’ultima celebre ondata di nazionalizzazioni fu lanciata dal socialista François Mitterrand nel 1982 e portò sotto il controllo dello Stato tutte le maggiori imprese industriali e bancarie: al termine, nel 1983, il 25% dei lavoratori francesi apparteneva al settore pubblico. In Inghilterra il Labour Party na-

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zionalizzò il carbone nel 1946, l’energia elettrica nel 1947, le ferrovie nel 1948, l’acciaio nel 1967, la Rolls-Royce aeronautica nel 1971 e infine la casa automobilistica British Leyland nel 1976. I casi sono molto diversi, com’è evidente dall’elenco inglese. Talvolta ci furono le nazionalizzazioni-salvataggio per impedire la scomparsa di aziende moribonde ma ritenute strategiche o socialmente vitali. Altre volte i governi europei (non sempre e soltanto di sinistra) hanno visto nella proprietà pubblica la migliore cura contro le rendite parassitarie nei “monopoli naturali” come l’energia, le telecomunicazioni, i trasporti, la radiotelevisione. Così fu motivata in Italia la creazione dell’Enel e la nazionalizzazione dell’energia elettrica decisa dal primo governo di centro-sinistra nel 1962: l’ente pubblico subentrava a una giungla di oltre mille operatori privati che avevano spolpato il consumatore, creando per di più gravi disparità regionali. L’ondata delle de-nazionalizzazioni lanciata da Margaret Thatcher nel 1979 non fu solo una svolta ideologica, la conseguenza di un ribaltamento quasi universale nei rapporti di forza tra destra e sinistra. Pesavano altrettanto le innovazioni tecnologiche. In molti settori – cominciando dalle telecomunicazioni – divenne obsoleto il concetto di “monopolio naturale”. I progressi di efficienza erano agevolati dalla competizione fra attori privati. In qualche caso l’azionista pub-

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blico ha resistito con buoni risultati: la Francia non avrebbe una leadership mondiale nell’energia nucleare e nell’alta velocità ferroviaria, se quei settori fossero stati risucchiati nella logica del profitto di breve periodo che caratterizza le società private. La proprietà pubblica però non è sempre una garanzia, né per il contribuente né per il consumatore: proprio in Francia uno dei più gravi scandali finanziari dal dopoguerra ha avuto come protagonista il Crédit Lyonnais quando apparteneva allo Stato. Oggi non c’è in nessuna parte del mondo un “pensiero forte” che teorizzi il ritorno sistematico allo Stato-padrone. Gli italiani dovrebbero essere ben vaccinati, avendo sperimentato la lottizzazione delle Partecipazioni Statali, le rendite parassitarie sfruttate da partiti, clientele e corporazioni avidamente “incrostate” dentro il settore pubblico. In cerca di nuove idee, nessuno pensa di poter resuscitare quel modello. Tantomeno in un’epoca di marcata sfiducia nel ceto politico: chi vorrebbe affidare a costoro la gestione di interi pezzi dell’economia nazionale? E tuttavia, la Grande Contrazione di cui siamo prigionieri dal 2008 ha mostrato i tragici danni di trent’anni di liberismo. Un altro approccio al rapporto fra “pubblico” e “privato” dev’essere possibile. Quale?

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L’America entrò nel xx secolo con un debito pubblico inferiore al 10% del Pil. Era salito appena al 16% nel 1929. Ma era balzato al 120% del Pil durante la seconda guerra mondiale. Per poi scendere al 32% nel 1974 alla vigilia del primo choc petrolifero. Trovare un nesso causale fra questi livelli di debito pubblico così disparati e la performance economica – in termini di sviluppo, lavoro, benessere – è impossibile. Perché allora il debito pubblico è diventato l’oggetto di culto prediletto nel “feticismo delle cifre” che ci soggioga? Le grandi crisi partoriscono grandi idee. Così fu dopo il crac del 1929 e la Depressione. Per uscirne, l’Occidente ricorse al pensiero di John Maynard Keynes, scoprì un ruolo nuovo per lo Stato nell’economia, inventò le politiche sociali del New Deal e la costruzione del moderno Welfare State. Oggi siamo daccapo. L’eurozona ha conosciuto due recessioni in tre anni. Gli Stati Uniti, malgrado la ripresa in atto, pagano prezzi sociali elevatissimi della Grande Contrazione (almeno 15 milioni di disoccupati). Ma dall’America una nuova teoria s’impone all’attenzione. Si chiama Modern Monetary Theory, ha l’ambizione di essere la vera erede del pensiero di Keynes, adattato alle sfide del xxi secolo. Ha la certezza di poter trainare l’Occidente fuori da questa crisi. A patto che i governi si liberino di ideologie vetuste, inadeguate e distruttive. È una rivolu-

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zione copernicana, e uno dei suoi alfieri porta un cognome celebre: James K. Galbraith, docente di Public Policy all’Università del Texas e consigliere “eretico” di Barack Obama, è figlio di uno dei più celebri economisti americani, quel John Kenneth Galbraith che fu grande studioso della Depressione e consulente di John Kennedy. Il nuovo Verbo che sconvolge i dogmi degli economisti, assegna un ruolo benefico al deficit e al debito pubblico. È un attacco frontale all’ortodossia vigente. Sfida l’ideologia imperante in Europa, che i “rivoluzionari” della Modern Monetary Theory (o Mmt) considerano alla stregua di un vero oscurantismo. Per i teorici della Mmt l’austerity imposta dalla Germania, non è soltanto sbagliata nei tempi (è pro-ciclica: perché taglia potere d’acquisto nel bel mezzo di una recessione), ma è concettualmente assurda. Un semplice esercizio mette a nudo quanto ci sia di “religioso” nella cosiddetta saggezza convenzionale degli economisti. Qualcuno ha provato a interrogare i tecnocrati del Fmi, della Commissione Ue e della Banca centrale europea, per capire da quali Tavole della Legge abbiano tratto alcuni numeri “magici”. Perché il deficit pubblico nel Trattato di Maastricht non doveva superare il 3% del Pil? Perché nel nuovo patto fiscale dell’eurozona lo stesso limite è stato ridotto allo 0,5% del Pil? Chi ha stabilito che il debito pubblico totale diventa insostenibile so-

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pra una soglia del 60% oppure (a seconda delle fonti) del 120% del Pil? Quali prove empiriche stanno dietro l’imposizione di questa cabala di cifre? Le risposte dei tecnocrati sono evasive, o confuse. La Teoria Monetaria Moderna fa a pezzi questa bardatura di vincoli calati dall’alto, la considera ciarpame ideologico. La sua affermazione più sconvolgente, ai fini pratici, è che non ci sono tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno Stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare questi disavanzi stampando moneta. E non solo questo è possibile, ma soprattutto è necessario. La via della crescita passa attraverso un rilancio di spese pubbliche in deficit, da finanziare usando la liquidità della banca centrale. Non certo alzando le tasse: non ora. Se è così, stiamo sbagliando tutto. Proprio come il presidente americano Herbert Hoover sbagliò drammaticamente la risposta alla Grande Depressione, quando cercò di rimettere il bilancio in pareggio a colpi di tagli (stesso errore che rifece Franklin Roosevelt nel 1937 con esiti nefasti). Il “nuovo Keynes” oggi non è un profeta isolato. Galbraith Jr. è solo il più celebre dei cognomi, ma la Mmt è una vera scuola di pensiero, ricca di cervelli e di think tank. Così come la destra reaganiana ebbe il suo pensatoio nell’Università di Chicago (dove regnava negli

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anni Settanta il Nobel dell’economia Milton Friedman), oggi l’equivalente “a sinistra” sono la University of Missouri a Kansas City, il Bard College nello Stato di New York, il Roosevelt Institute di Washington. Oltre a Galbraith Jr., tra gli esponenti più autorevoli di questa dottrina figura il “depositario” storico dell’eredità keynesiana, Lord Robert Skidelsky, grande economista inglese di origine russa nonché biografo di Keynes. Fra gli altri teo­rici della Mmt ci sono Randall Wray, Stephanie Kelton, l’australiano Bill Mitchell. Non sono una corrente marginale; tra i loro “genitori” spirituali annoverano Joan Robinson e Hyman Minsky. Per quanto eterodossi, questi economisti sono riusciti a conquistarsi un accesso alla Casa Bianca. Barack Obama consultò Galbraith Jr. prima di mettere a punto la sua manovra di spesa pubblica pro-crescita, così come fece la democratica Nancy Pelosi quando era presidente della Camera. Ma la vera forza della nuova dottrina viene dai blog: The Daily Beast, New Deal 2.0, Naked Capitalism, Firedoglake, sono quelli che ospitano l’elaborazione del pensiero alternativo. Hanno conquistato milioni di lettori: è una conferma di quanto grande sia la sete di terapie nuove, e quanto screditato sia il “pensiero unico”. La Teoria Monetaria Moderna è ben più

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radicale del pensiero “keynesiano di sinistra” al quale siamo abituati. Perfino due economisti noti nel mondo intero come l’ala radicale, man e Stiglitz, vengono scavalcati dalla Krug­ Mmt. Stephanie Kelton, la più giovane nella squadra, ha “battezzato” una nuova metafora... ornitologica. Da una parte ci sono i “falchi” del deficit: Angela Merkel, le tecnocrazie (Fmi, Ue), e tutti quegli economisti schierati a destra con il partito repubblicano negli Stati Uniti, decisi a ridurre ferocemente le spese. Per loro vale la falsa equivalenza tra il bilancio di uno Stato e quello di una famiglia, che non deve vivere al di sopra dei propri mezzi: un paragone che non regge, una vera assurdità dalle conseguenze tragiche secondo la Mmt. Dall’altra ci sono le “colombe” del deficit, i keynesiani come Krugman e Stiglitz, che contestano l’austerity giudicandola intempestiva (i tagli provocano recessione, la recessione peggiora i debiti), ma che hanno un punto in comune con i “falchi”: anche loro pensano che a lungo andare il debito crei inflazione, soprattutto se finanziato stampando moneta, e che quindi vada ridotto appena possibile. Il terzo protagonista sono i “gufi” del deficit. Negli Stati Uniti come nell’antica Grecia il gufo è sinonimo di saggezza. I “gufi”, la nuova scuola della Mmt, ritengono che il pericolo dell’inflazione sia inesistente. Secondo Galbraith Jr. «l’inflazione è un pericolo vero solo quando ci si

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avvicina al pieno impiego, e una situazione del genere si verificò in modo generalizzato nella prima guerra mondiale». Di certo non oggi. Il deficit pubblico nello scenario odierno è soltanto benefico, a condizione che venga finanziato dalle banche centrali: comprando senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi. Una soluzione monetaria alla crisi permetterebbe di risparmiarci il dissanguamento del modello sociale europeo, preso di mira dai salassi che ci prescrivono i cattivi dottori.

6. La grande malata

È l’Italia la grande malata dell’euro. Non bastano ingegnerie finanziarie concordate a Bruxelles per curare il suo problema numero uno: un prolungato crollo di competitività verso la Germania, cioè verso la nazione che realizza il vero “modello europeo”. L’allarme viene dal «Washington Post», e accentua lo scetticismo americano sulla tenuta dell’unione monetaria in tempi medio-lunghi. Fondi salva-Stato, scudi anti-spread, aiuti alle banche, appaiono insufficienti a sanare gli squilibri strutturali. Il più grave dei quali è proprio il “male italiano”. A questo tema il quotidiano della capitale Usa dedica l’intera sezione economica con un titolochoc: It’s the culture, stupido. L’articolo esce con grande evidenza all’indomani di un vertice europeo (29 giugno 2012), dove Mario Monti ha “costretto” Angela Merkel a ingoiare alcune

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misure di solidarietà. Il titolo usato dall’autorevole quotidiano ha un’assonanza ben riconoscibile per i suoi lettori. Rievoca il celebre slogan della campagna elettorale di Bill Clinton contro George Bush padre, la frase “It’s the economy, stupid” che invitava a concentrarsi sull’unico tema davvero decisivo. In questo caso, il “modello culturale” italiano per il «Washington Post» è segnato dall’evasione fiscale record, la mancanza di spirito civico, il nepotismo che esclude la meritocrazia. Un insieme di “disvalori” che a loro volta sono alimentati dall’inefficienza dello Stato, la corruzione, il collasso della giustizia. Con quali conseguenze sulla produttività complessiva del paese? «L’Italia soffre per una crisi di produttività endemica – scrive il quotidiano –. Il problema dura da così tanto tempo e ha effetti così profondi sull’economia, da mettere in pericolo l’intero tessuto della vita nazionale». Le inefficienze di sistema sono esemplificate da un paradosso: gli italiani che hanno un posto, lavorano in media più di tutti i loro concorrenti: 1744 ore all’anno contro le 1705 degli americani, le 1480 in Francia, le 1411 in Germania. Ma la produttività reale di questo lavoro è rovesciata. Campioni mondiali di produttività sono gli Stati Uniti con 60,9 dollari all’ora, seguono Germania e Francia sopra quota 55, poi la Svezia a 52 e l’Inghilterra a 47,8. L’Italia è in fondo alla classifica, con 45 dollari di Pil per ogni ora lavorata. «E da

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anni l’Italia continua a perdere terreno. Le zone improduttive della sua economia si espandono, prevalgono sulle parti migliori». Questo spiega il dato più allarmante: dall’introduzione della moneta unica ad oggi, abbiamo perso il 30% di produttività nei confronti della Germania. Visto dagli Stati Uniti, è questo il vero punto debole di tutta la costruzione europea. Di recente l’attenzione si è concentrata su altri aspetti: sfiducia dei mercati, aumento degli spread. Le soluzioni adottate hanno dato una risposta ad alcuni di quei problemi, con la promessa di interventi del fondo salva-Stati per acquistare bond spagnoli o italiani e mettere un tetto allo spread; nonché con l’impegno a ricapitalizzare direttamente le banche in crisi. Però l’attenzione deve tornare a concentrarsi sui “fondamentali”. I saldi finanziari sono solo la spia e la risultante finale di problemi strutturali più profondi come l’inefficienza dello Stato. Se non si risolvono le cause, curare gli effetti e cioè i soli saldi finanziari non basta. La “madre di tutti gli squilibri” è proprio il divario di competitività illustrato dal «Washington Post». Come possono convivere usando la stessa moneta, due nazioni tra le quali si scava un fosso così profondo di produttività? Se l’Italia ha perso la possibilità di svalutare, la Germania continuerà a sottrarci quote di mercati esteri, quindi la nostra industria e la nostra occupazione sono destinate a rattrappir-

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si sempre più. Con un ulteriore effetto perverso: crescerà ancora il peso dei settori improduttivi, la palla al piede dell’economia italiana. Gli Stati Uniti, avendo mercato unico e moneta unica da oltre due secoli, nonché un solo mercato del lavoro e un sistema politico anch’esso unificato, conoscono le dure regole dell’integrazione. Se la Louisiana non regge la crescita della produttività della California, non può svalutare un “dollaro della Louisiana”. Perciò l’aggiustamento avviene in due forme: o la manodopera emigra in massa verso la California, oppure i salari crollano in Louisiana e la produttività sale, fino ad attirare investimenti che fanno risalire la competitività e il Pil locale. Più spesso accade un mix di entrambe le cose. Naturalmente c’è l’unione bancaria (una banca locale non teme un assalto agli sportelli: è assicurata da Washington) e c’è la solidarietà fiscale che trasferisce un minimo di aiuti dal centro alle periferie povere. Nulla funzionerebbe, però, senza una flessibilità interna che consente alla Louisiana di non essere eternamente una palla al piede della California. Sono questi meccanismi che appaiono inesistenti in Europa, e rendono meno assurda la resistenza di Angela Merkel. L’assenza di questi ingredienti di base resta una debolezza che inficia la costruzione della moneta unica. Se l’economia italiana non innesca un boom di produttività, come può essere sostenibile la sua

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permanenza nell’euro? Il «Washington Post» in quell’analisi avverte che «l’Italia resta il numero due nella produzione industriale europea, grazie a migliaia di imprese efficienti e innovative; alcune delle sue regioni non temono confronti con Germania e Francia», e tuttavia le aree di eccellenza «sono troppo poche, su di esse gravano una cultura imprenditoriale arretrata e i costi delle inefficienze di sistema». Per cui sta diventando insopportabile «il fardello di quelle regioni e settori che sono al livello di Grecia e Portogallo». Addio illusioni di appartenere all’eurozona, o a qualcosa di ancora più vasto come l’Occidente. Più modestamente l’Italia deve rassegnarsi a far parte delle Repubbliche dell’Olivo, per affinità storico-culturali con Grecia e Bulgaria, Macedonia e Portogallo. Mentre la Germania guida una nuova Lega anseatica che si spinge fino al Baltico. Nove anni di presenza militare Usa in Iraq non sono bastati a impedire che questo paese finisca risucchiato nell’Iranistan, com’era suo destino, insieme a Libano, Siria e striscia di Gaza. I Nuovi Ottomani dilagano da Istanbul fino a riprendersi l’Uzbekistan e il Turkmenistan. È questa la mappa del mondo reale, non quello immaginario costruito attraverso guerre e trattati, diplomazie e accordi tra governi. Lo colora a tinte forti un’autorità della materia. Joel

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Kotkin è il più celebre geografo-economista-demografo degli Stati Uniti. Ha pubblicato opere di riferimento sul ruolo delle metropoli nell’èra post-moderna, e sull’impatto dell’immigrazione nel futuro dell’America. Oggi è Distinguished Presidential Fellow alla Chapman University in California. Originale, visionario, Kotkin lancia molto più di una provocazione. La sua nuova mappa del mondo assomiglia alla rivoluzione del cinema 3-D, dallo schermo piatto alla visione tridimensionale. I rapporti tra le nazioni acquistano un rilievo e un volume perché si ricongiungono con il Dna dei loro popoli. Per disegnare la sua mappa Kotkin ha messo al lavoro il Legatum Institute di Londra. Con risultati sconcertanti e controversi. È ora di liberarci delle visioni convenzionali, quelle secondo cui i confini sono decisi solo dalla politica. «Nel mondo intero – sostiene Kotkin – una rinascita di legami tribali sta creando nuove reti di alleanze globali, più complesse. Se una volta la diplomazia aveva l’ultima parola nel tracciare le frontiere, oggi sono la storia, la razza, la religione e la cultura a dividere l’umanità in nuovi gruppi in movimento». C’entra qualcosa il declino delle ideologie, che funzionavano da collante transnazionale. Ambientalisti, progressisti, liberisti: questi sono valori che possono animare le élites, ma per i popoli il concetto di “tribù” è decisamente più

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potente. Lo sosteneva il grande storico arabo Ibn Khaldun: «Nel deserto sopravvivono solo le tribù, tenute insieme da un forte senso di appartenenza». Storia antica, e sorprendentemente moderna. Torna di attualità adesso che il pianeta cerca un’identità dopo il secolo delle grandi ideologie, dei totalitarismi. Non appena finita la guerra fredda hanno iniziato a disgregarsi i blocchi tradizionali: non solo quello sovietico ma anche quello occidentale, e perfino l’idea di Terzo Mondo che era nata per definire il movimento dei “non allineati”. Gli economisti della Goldman Sachs oltre dieci anni fa coniarono con successo l’abbreviazione Bric, per designare le quattro potenze emergenti Brasile, Russia, India, Cina (poi divenuti Brics per l’arrivo del Sudafrica nel club i cui leader si riuniscono annualmente). Ma è ovvio che quei quattro giganti hanno pochi valori in comune. Metterli nello stesso paniere è un’operazione astratta, da speculatori di Borsa, non descrive le dinamiche geopolitiche in azione. I veri confini del nuovo mondo sono altri. Tra le tendenze trainanti c’è la rinascita delle città-Stato: non solo Singapore che è davvero un’entità politica autonoma, ma anche Londra e Parigi sono “metropoli globali”, i cui interessi si separano da quelli dei loro hinterland e retroterra provinciali. Il Nordamerica è molto più di

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un’espressione geografica: tra Stati Uniti e Canada non c’è soluzione di continuità nei sistemi economici, nella cultura. E poi ecco un altro fattore in comune tra Usa e Canada: è l’immensa riserva di terre arabili e di acqua, risorse idriche quattro volte superiori a quelle di Europa e Asia, un punto di forza nelle “guerre alimentari” del futuro. La Cina, da parte sua, ha già di fatto ricostitui­ to la Terra di Mezzo come ai tempi dell’Impero celeste: Taiwan è sempre meno un’isola ribelle, viene attirata nell’orbita economica della madrepatria. La Terra di Mezzo cinese rappresenta «il più vasto insieme mondiale popolato da un ceppo etnico omogeneo, gli Han». Questo dà alla Cina e ai suoi satelliti «una straordinaria coe­ sione» ma ne fa anche un mercato di difficile penetrazione per gli stranieri. La Grande India sta risucchiando nel suo dinamismo economico il Bangladesh e così chiude un pezzo della lacerazione post-coloniale del 1947. La Cintura del Caucciù tiene insieme nazioni del Sudest asiatico che hanno ricche dotazioni di risorse naturali: dalla penisola indocinese a Indonesia, Malesia e Filippine. The Wild East, l’Oriente selvaggio che include Afghanistan, Pakistan e le vicine repubbliche ex sovietiche, «resta una posta in palio nello scontro di potere tra Cina, India, Nordamerica». La Grande Arabia spazia dal Golfo Persico

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fino a includere Egitto e Giordania: un’area resa compatta dal collante religioso ma per la stessa ragione «destinata a un rapporto problematico con il resto del mondo». L’Arco del Maghreb corre dall’Algeria alla Libia lungo le coste atlantico-mediterranee. L’impero sudafricano unisce paesi che hanno storie coloniali simili, dotazioni di infrastrutture migliori rispetto al resto dell’area subsahariana, e prevalenza della religione cristiana. Anche in America Latina è possibile trovare delle faglie negli orientamenti culturali che dividono due grandi famiglie. Da una parte ci sono i liberalisti, campioni di una versione locale dell’economia di mercato e del pluralismo: dal Messico al Cile. Dall’altra le Repubbliche di Bolivar, dove i populismi in versione marxista o peronista hanno messo radici profonde: Cuba e Bolivia, Argentina e Venezuela. In mezzo a queste grandi famiglie spiccano anche gli isolati, quelle nazioni, cioè, che per un forte senso d’identità non possono “sciogliersi” in un’appartenenza più vasta: a titolo diverso questo è il destino del Brasile in Sudamerica, della Francia in Europa, del Giappone in Asia. Ci sono poi gruppi in bilico: per esempio le due Lucky Countries, le due nazioni fortunate, Australia e Nuova Zelanda, che hanno un Dna etnico-culturale anglosassone ma sentono l’at-

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trazione economica dell’Asia con cui le loro economie sono complementari. L’Unione Europea, vivisezionata da Kotkin e dagli esperti del Legatum Institute, ne esce letteralmente a pezzi. La Lega anseatica germanico-nordica ritrova «quel comune destino creato dal commercio» che lo storico Fernand Braudel le attribuì datandolo al xiii secolo; oggi rinasce in una proiezione globale, perché sono quelli i paesi che si sono meglio inseriti nei mercati asiatici. Le Aree di Confine sono Belgio e Repubblica ceca, Irlanda e paesi baltici, Polonia e Romania, più il Regno Unito senza Londra: sono paesi intrinsecamente instabili, in bilico tra zone d’influenza rivali, esposti talvolta alla disunione. In quanto alle nostre Repubbliche dell’Olivo, hanno nobili radici in comune nell’antichità greco-romana. «Ma sono nettamente distanziate dall’Europa settentrionale in ogni categoria: i tassi di povertà sono due volte più alti, la popolazione attiva dal 10% al 20% inferiore, i debiti pubblici più elevati, e i tassi di natalità più bassi del pianeta». Per quanto l’Italia possa progettare barriere per fermare i flussi migratori dalle nazioni “affini”, vista da un geografo americano la sua collocazione è chiara. Non c’è verso che l’Italia possa integrarsi con una Lega anseatica proiettata a distanze stratosferiche: non solo nell’Indice di Prosperità, ma anche su altri terreni perfino più importanti per

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il futuro. «Istruzione e innovazione tecnologica» nell’Europa tedesco-scandinava hanno raggiunto «punte avanzate impressionanti». È un altro continente, i cui ambasciatori occasionalmente s’incontrano con i nostri a Bruxelles. Questo pianeta “rivisto e corretto” dagli Stati Uniti ha il valore di una provocazione, non va preso alla lettera né deve essere vissuto come un destino ineluttabile. Soprattutto per la parte che riguarda l’Europa, e ci tocca da vicino, sentiamo che gli americani ricorrono talvolta a semplificazioni brutali. Può servirci però come un richiamo e uno stimolo. La storia non è una gabbia. Il mondo è pieno di nazioni che hanno saputo “svoltare”, hanno reagito a decenni o perfino secoli di un declino che sembrava irreversibile: dalla Cina all’India al Brasile, abbiamo formidabili esempi di popoli e classi dirigenti che hanno sconfitto la forza d’inerzia, hanno saputo imprimere un corso diverso alla propria storia. A noi l’opzione, a noi decidere quale modello considerare il nostro. È molto più di una scelta politica, è una scelta di civiltà.

Indice dei nomi

Adenauer, Konrad, 38, 45. Albert, Michel, 45. Alogoskoufis, Georgios, 62. Amato, Giuliano, 72. Andreotti, Giulio, xi. Bazoli, Giovanni, 45. Beneduce, Alberto, 87. Berlusconi, Silvio, 4, 32. Bismarck, Otto von, xiii. Boeri, Tito, 32. Brandt, Willy, 38. Braudel, Fernand, 106. Brazil, Alan, 66. Bridgeland, John, 7. Bush, George jr, xii, 7, 29, 86. Bush, George sr, 86, 98. Chirac, Jacques, xii. Clinton, Bill, 83, 98. Cohn, Gary, 59. Craxi, Bettino, xi. de Gaulle, Charles, 88. De Parle, Jason, 7. Dodd, Chris, 71. Erhard, Ludwig, 45.

xi,

76-77,

Fabiana, associazione, xiv. Fermi, Enrico, xiii. Fitoussi, Jean-Paul, 32. Ford, Henry, 9. Frank, Barney, 71. Frank, Thomas, 20. Franklin, Benjamin, 9. Friedman, Milton, x, 52, 94. Galbraith, James Kenneth, 92-95. Galbraith, John Kenneth, 92. Gates, Bill, 22. Gensler, Gary, 63. Gereffi, Gary, 27. Guglielmo II, imperatore di Germania, 45-46. Hacker, Jacob, 22. Hardouvelis, Gikas, 60. Hayek, Friedrich von, x, 53. Hitler, Adolf, 54. Hollande, François, 36. Hoover, Herbert, x, 93. Huckabee, Mike, 85. Jantti, Markus, 6. Jobs, Steve, 9.

110 Kapur, Ajay, 20. Kelton, Stephanie, 94-95. Kennedy, John Fitzgerald, xi, 92. Kerry, John, 29. Keynes, John Maynard, xiv, 51, 91, 94. Khaldun, Ibn, 103. Kissinger, Henry, xi. Kohl, Helmut, 38, 76. Kotkin, Joel, 101-102, 106. Krakoff, Charles, 24, 27. Krugman, Paul, x, 32, 50, 52, 86, 95. Lenin, Vladimir Il’ič Ul’janov, 85. Liechtenstein, Nelson, 26. Luce, Henry, xi. Mahathir, Mohammad, 74. Mao Zedong, 88. Marchionne, Sergio, 31. Marshall, Alfred, xii. Marx, Karl, 88. Merkel, Angela, x, xv, 32, 38, 41, 49, 97, 100. Minsky, Hyman, 94. Mitchell, Bill, 94. Mitterrand, François, 76, 88. Monti, Mario, 4, 44, 49, 97. Moody, John, 69. Moore, Michael, xiv. Moro, Aldo, xi. Mussolini, Benito, 87. Nixon, Richard, xi, 76, 86. Obama, Barack, 3-5, 13, 47-48, 63, 70, 85-86, 92, 94. Oxley, Mike, 84. Pelosi, Nancy, 94.

indice dei nomi Pierson, Paul, 22. Polanski, Roman, 71. Prodi, Romano, 45. Rampini, Costanza, 14. Reagan, Ronald, ix-x, 52, 86. Reich, Robert, x. Robinson, Joan, 94. Romney, Mitt, viii, 3-4, 35-36. Roosevelt, Franklin Delano, xi, xiii, 84, 87, 93. Roosevelt, Theodore, 22. Roubini, Nouriel, 36-39. Rueff, Jacques, 76-77. Rumsfeld, Donald, xii. Sachs, Jeffrey, x. Salam, Reihan, 7. Santorum, Rick, 7. Sarbanes, Paul, 84. Sawhill, Isabel, 6. Schettino, Francesco, 4. Schinasi, Garry, 60. Schmidt, Helmut, 38. Schroeder, Gerhard, xii, 38, 44. Segre, Emilio, xiii. Servan-Schreiber, Jean-Jacques, xiii. Skidelsky, Robert, 94. Smith, Adam, 22, 49. Soros, George, 72. Stalin, Iosif Vissarionovič Džu­gašvili, 85. Stead, William Thomas, xii. Stiglitz, Joseph, x, 32, 50, 95. Thatcher, Margaret, 52, 89. Tocqueville, Alexis de, 22. Walton, famiglia, 27, 29. Walton, Sam, 24. Wilson, Thomas Woodrow, xi. Wray, Randall, 94.

L’Autore

Federico Rampini, corrispondente di «Repubblica» a New York, saggista, è nato a Genova nel 1956. Ha vissuto a Parigi, Bruxelles, Roma, Milano e San Francisco. Come corrispondente ha raccontato dapprima le vicende della Silicon Valley; ha lasciato poi gli Stati Uniti per aprire l’ufficio di corrispondenza di Pechino. Ha insegnato alla Berkeley University in California, alla Shanghai University of Finance and Economics e al Master della Sda Bocconi. Dopo cinque anni in Cina, nel 2009 è tornato come corrispondente di «Repubblica» negli Stati Uniti. Per Mondadori è autore di Il secolo cinese (2005), L’impero di Cindia (2006), L’ombra di Mao (2007), La speranza indiana (2008), Slow Economy (2009), Occidente estremo (2010) e Alla mia sinistra (2011). Nel 2005 ha vinto il Premio Luigi Barzini per il giornalismo e nel 2006 il Premio Saint-Vincent. Per i nostri tipi ha curato Intervista sull’Italia in Europa di Mario Monti (19982) e pubblicato Germanizzazione. Come cambierà l’Italia (1996), New Economy. Una rivoluzione in corso (2000), Dall’euforia al crollo. La seconda vita della New Economy (nuova edizione 2002), Le paure dell’America (20032) e San Francisco-Milano. Un italiano nell’altra America (edizione ampliata 2011).

Di Federico Rampini nelle nostre edizioni: Dall’euforia al crollo. La seconda vita della New Economy Germanizzazione. Come cambierà l’Italia New Economy. Una rivoluzione in corso Le paure dell’America San Francisco-Milano. Un italiano nell’altra America

Ha inoltre curato: Mario Monti Intervista sull’Italia in Europa