"Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce" (falso!) [1. ed.] 9788858106532, 8858106539

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"Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce" (falso!) [1. ed.]
 9788858106532, 8858106539

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Idòla

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Gianfranco Viesti

“Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce” (Falso!)

Idòla | Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Progetto grafico di Riccardo Falcinelli Prima edizione marzo 2013 2

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da sedit - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa isbn 978-88-581-0653-2

Indice

Premessa 1. Senza il Sud l’Italia sarebbe più ricca

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2. Il Sud rallenta lo sviluppo dell’intero paese

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3. Un fiume di denaro senza fine

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4. Il Sud è la terra dello spreco

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5. Una terra dominata dallo statalismo

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6. L’assistenzialismo è la vera piaga del Sud

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7. Un euro al Sud produce molto meno che nel resto del paese

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8. È il Nord che lavora che mantiene il Sud parassita

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9. Le classi dirigenti del Sud sono inette, incapaci, corrotte

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10. I meridionali non hanno cultura, senso civico, capitale sociale

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11. Si è provato di tutto, e senza risultati

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Nota bibliografica

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Premessa

Non è ben chiaro che cosa significhi. Ma poco importa. Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce. C’è bisogno di discuterne? C’è bisogno di portare prove a conforto di un fatto che è sotto gli occhi di tutti? Ne sono convinti moltissimi italiani del Centro e del Nord (specie del Nord-Est). Anche molti emigrati meridionali o figli di emigrati, che pure guardano al Sud con simpatia, condividono questa convinzione; a malincuore, o per giustificare le proprie scelte di andare via. E la condividono anche molti meridionali, alla luce delle difficoltà che incontrano a trovare lavoro, o delle deficienze dei servizi pubblici, o dello stato delle infrastrutture; il ragionamento è confuso ma drastico: da noi è diverso, è peggio; e quindi è colpa nostra se non siamo capaci, se non ce la facciamo da soli e viviamo sulle spalle degli altri.

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premessa

Alcuni meridionali ne sono i più accesi sostenitori, anche per acquisire benemerenze nell’Italia che conta: è facile avere una vetrina nazionale se, da sud, si aderisce a questa tesi. Una convinzione che si è rafforzata negli ultimi anni. Con le progressive difficoltà dell’economia italiana e poi con la grande crisi economica, e con i problemi della vita quotidiana che si fanno sempre più gravi; con le progressive difficoltà della politica e della cultura ad immaginare un possibile percorso di sviluppo per l’intero paese, a costruire una profezia credibile di un’Italia che riprende il suo cammino e quindi migliora la situazione di tutti i suoi cittadini. Le aspettative individuali diventano negative; le prospettive per i figli diventano peggiori rispetto alla situazione dei padri e delle madri. La società italiana è smarrita, impaurita. Non ha tanta voglia di sottilizzare, di ragionare: piuttosto ha voglia di protestare, di gridare. Di ascoltare tribuni in piazza che tuonano contro questo e quello. Di cercare cause semplici del declino: la politica, gli sprechi, gli statali, i sindacati, gli immigrati, l’Europa. Da tempo, una parte rilevante del pae­ se ne aggiunge un’altra, che in parte la ricomprende: il Mezzogiorno. È lì l’origine di molti dei nostri problemi; è lì la palla al piede che ci frena, che ci impedisce di risolverli, di camminare più rapidamente. Se non ci fosse il Mezzogiorno, allora sì che l’Italia potrebbe tornare, come nel

premessa

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passato, a produrre un crescente benessere per i suoi cittadini. Quando le cose vanno male, è consolante sapere di chi è la colpa. E, come nei libri di Pennac, il Sud è il capro espiatorio ideale. Ideale perché in tutte le classifiche, in tutte le indagini, in tutte le inchieste, il Sud è sempre più indietro, il peggiore. Ideale, perché così ci si può illudere che i problemi non siano in Italia, ma solo in quel pezzo di paese. Litanie come quelle della Lega Nord sono un gradevole anestetico: la colpa è loro; degli altri. Se fossimo noi da soli, con il federalismo, con la secessione, tutto andrebbe magicamente a posto. Perché la colpa è del Mezzogiorno? È presto detto; con facilità; tanto è ovvio. Senza il Sud l’Italia sarebbe innanzitutto più ricca. E cre­ scerebbe più velocemente, perché le regioni del Mezzogiorno rallentano lo sviluppo del paese. Sono più indietro e vanno più piano. Questo accade nonostante il fiume di soldi pubblici che inonda il Mezzogiorno; perché questi soldi sono frequentemente sprecati; perché sono utilizzati per politiche assistenziali. Un fiume di soldi che ingrossa sempre di più. Denari che sono presi, ingiustamente, dalle tasche degli italiani, dell’I­ talia che lavora ed è costretta a mantenere, da sempre, i meridionali. Soldi che finiscono nelle mani di classi dirigenti meridionali incapaci e corrotte, che alimentano clientele e criminalità. D’altra parte, ogni territorio ha le classi dirigen­

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premessa

ti che si sceglie, e che si merita. Diciamocelo francamente: i meridionali sono sempre stati diversi dagli altri italiani. Non hanno senso civico, sono individualisti e familisti; hanno una storia diversa, e quindi una cultura diversa. Quindi, perché sorprendersi? Non può che essere così. Il ragionamento si snoda chiaro e lineare. Un vero e proprio teorema. Il teorema meridionale. Ogni tanto lo si sente formulare integralmente. Più spesso, se ne sentono ripetere alcune parti. Ripetute talmente tante volte sui giornali e in televisione da risultare familiari: le politiche fallimentari, il fiume di soldi, le classi dirigenti corrotte. Un ragionamento comodo. Perché fornisce agli italiani un’ottima scusa per non interrogarsi sui problemi di fondo del paese, sulla competitività di un’industria che perde colpi, sulle modeste capacità di innovazione e ricerca, sui ritardi e le inefficienze infrastrutturali, sulla qualità dei servizi pubblici. Sul perché l’Italia, da tanti anni si è fermata. Perché fornisce a molti, al Sud, una giustificazione per lentezze, fallimenti e distorsioni: tanto si sa come vanno le cose da noi. Prendiamolo sul serio, il teorema meridionale. Proviamo a verificarlo, pezzo a pezzo. È quello che si farà nelle prossime pagine; con un linguaggio discorsivo, ma dietro al quale ci sono fatti, dati, analisi. Un viaggio negli stereotipi e nelle realtà. Al termine del quale scopriremo che il teorema meridionale è falso. Che è un velo che

premessa

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ci nasconde la realtà; che è un occhiale scuro che non ci consente di vedere quel che è davvero nero, quel che è grigio, quel che è bianco; che è un paravento che ci fa chiamare Mezzogiorno tutto ciò che non ci piace dell’Italia. Naturalmente, al posto dello stereotipo, non scopriremo una foresta incantata. Parti del teorema meridionale contengono parziali verità, indicano innegabili criticità. Il teorema è falso non perché lo sia ogni sua parte, ma per l’interpretazione d’insieme, per i nessi di causa ed effetto che stabilisce. Scopriremo così la realtà di un pezzo d’Italia alle prese con problemi gravi; molto spesso simili a quelli di tutto il paese, ma quasi sempre più intensi. Lo scopo di questo libro non è difendere il Sud, giustificare, ammorbidire. Anzi, come si vedrà per tanti aspetti non c’è «un» Sud, ma al suo interno ci sono i «buoni» e ci sono tanti «cattivi»: e questi ultimi vanno indicati e combattuti con energia. Né tantomeno lo scopo del libro è attaccare il resto d’Italia, con una misera partita doppia della corruzione e dello spreco, con uno squallido ping-pong di recriminazioni e accuse, del «noi» e del «voi». L’ambizione è notevole: provare a smontare i teoremi, gli stereotipi, i falsi idoli per stimolare interesse per come stanno davvero le cose in tutte le parti di questo nostro straordinario paese, per suscitare discussione su come possono cambiare, e sul contributo che può venire da tutte le parti d’Italia.

“Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce” (Falso!)

1. Senza il Sud l’Italia sarebbe più ricca

Senza il Sud, l’Italia sarebbe più ricca. Su questo non c’è dubbio: è una ovvietà statistica. Se si sottraggono dal conto le regioni a reddito più basso, la media cresce. Ma questo non vale solo per il Sud: ognuno può disegnare i suoi confini ideali per ottenere le medie più alte. Nelle città può escludere i quartieri dove risiedono i poveri: senza le fastidiose periferie il centro di Milano sarebbe più ricco di Londra e New York. Sono calcoli che hanno senso? Nessuno: i confini non sono un fai-da-te, modificabile a comando. Soprattutto, il livello di reddito e di ricchezza di un territorio non è un dato immanente, ma il frutto di un processo storico nel quale i confini, e i loro cambiamenti, hanno un ruolo molto importante. Senza il Sud, l’Italia non sarebbe l’Italia: anche questa è un’ovvietà, storica.

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“il sud vive sulle spalle dell’italia che produce”

Più senso avrebbe chiedersi quale sarebbe la situazione di oggi se la storia fosse stata diversa, se l’Italia sin dall’inizio fosse stata un’altra. Domanda impervia, perché è impossibile scrivere la storia con i «se». Vi sono comunque molti motivi per pensare che se l’Italia fin dall’inizio fosse stata più piccola, magari limitata solo al Centro-Nord senza il Sud, se Garibaldi avesse fallito, se fossero rimasti alcuni confini fra Stati diversi all’interno della penisola, il suo benessere attuale sarebbe minore. Gli argomenti a sostegno di questa tesi sono forti. Ci aiuta la teoria economica. I confini – specie quelli più difficilmente valicabili del passato – rallentano lo sviluppo. Sin da Adam Smith sappiamo che la divisione del lavoro fra le imprese (e quindi la loro possibilità di crescere e innovare) è limitata dalla dimensione del mercato; sin da David Ricardo sappiamo che piccole economie autarchiche hanno livelli di benessere più bassi di economie immerse in mercati più ampi, con tante possibilità di scambio e specializzazione. Certo, si può commerciare con l’estero come hanno sempre fatto paesi piccoli e avanzati, dalla Svezia alla Svizzera. Ma un grande mercato all’interno dei confini nazionali aiuta moltissimo, come sappiamo dalla storia americana. L’Europa, oggi, cerca di ottenere gli stessi risultati in modo originale, creando un mercato unico fra Stati sovrani ma integrati.

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Le città e i territori del Centro-Nord, ricchi di storia, culture e tradizioni, sono stati per secoli la periferia povera dell’Europa. Per trecento anni, dopo i fasti del Rinascimento, Firenze, Venezia e Milano sono rimaste assai più indietro rispetto all’Europa che cresce; ancora nella prima metà dell’Ottocento la Lombardia è una regione povera. Per le dinamiche della geografia e dell’economia internazionale, ma anche perché il Nord è composto da entità statuali piccole e deboli, soggette a dominazioni straniere. Non a caso, la rivoluzione industriale nasce assai lontano, e i suoi effetti diffusivi impiegano circa un secolo per varcare le Alpi. Ci aiuta la ricostruzione storica delle vicende italiane. Per capire quanto tutte le parti del paese abbiano contribuito al suo sviluppo, basta ricordarne alcuni passaggi fondamentali. È stato il gettito fiscale dell’intero paese, relativamente ampio e di provenienza prevalentemente agraria, a farsi carico prima del debito che il Piemonte portò in dote all’Unità, e poi dello sviluppo infrastrutturale, delle ferrovie, delle scuole, dei telegrafi. Sono state le rimesse dei tantissimi emigrati – prima dal Nord-Est e poi massicciamente dal Sud – a finanziare il saldo della bilancia commerciale, e a permettere, soprattutto a quelle regioni che si industrializzarono prima, di importare beni capitali e tecnologie. È stato il sacrificio dell’intero paese, e in particolare dei più poveri,

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del Sud agricolo, a sostenere le spese per i grandi salvataggi industriali, e poi, dopo la Grande Recessione, per la nascita dell’Iri e la sopravvivenza di gran parte del settore bancario e dell’industria pesante nazionale. Negli anni della ricostruzione e del boom economico il ruolo del mercato interno è decisivo: prima di spiccare il balzo verso i mercati europei, sull’onda dell’integrazione comunitaria, l’industria italiana cresce e si rafforza servendo i consumatori domestici, fornendo loro scarpe e vestiti, frigoriferi e motociclette. E sviluppando i macchinari necessari per tutte le industrie produttrici. Negli stessi anni la grande riserva di manodopera nazionale, anche attraverso le massicce e dolorose migrazioni interne dal Sud al Nord-Ovest, consente alle imprese di crescere senza tensioni sul fronte salariale, di evitare a lungo i conflitti distributivi che emergeranno dalla fine degli anni Sessanta. Sono le grandi scelte politiche nazionali, di un paese che già da fine Ottocento è nel club dei più avanzati, che accompagnano e per molti versi favoriscono i fenomeni di sviluppo delle città e delle regioni, differenziati nel tempo e nello spazio. C’è da dubitare che lo sviluppo di Parma o di Modena sarebbe lo stesso se ci fossero ancora i Ducati. E a questa storia hanno dato un contributo fondamentale tutti gli italiani. Piuttosto, sarebbe importante valutare quanto, nel corso del tempo, queste scelte abbiano fa-

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vorito gli uni piuttosto che gli altri, lo sviluppo di alcune aree piuttosto che di altre. Quanto siano state importanti le scelte di politica doganale, di politica industriale; le scelte relative ai grandi interventi di infrastrutturazione; di definizione di regole e modalità sui servizi pubblici, dall’istruzione alla sanità, al welfare. Lo sviluppo italiano ha favorito il Nord più che il Sud; il Sud più che il Nord? È un quesito serio – e ancora in parte inesplorato – per la ricerca storica; per meglio comprendere le radici profonde del presente. Tema da affrontare con grande attenzione e misura, tenendo a bada i facili rivendicazionismi. Per capire. Recuperando lo spirito di Nitti. Il lucano Francesco Saverio Nitti, uno dei grandi della nostra vita nazionale, scrisse all’inizio del XX secolo un famoso saggio su «Nord e Sud», sugli effetti territoriali dell’unità e delle politiche unitarie e sul contributo delle diverse aree alla crescita del paese. Mostrò analiticamente e con chiarezza come nel primo quarantennio unitario il ruolo del Mezzogiorno fosse stato decisivo per la nuova Italia. Ma non lo fece per protestare o per rivendicare. Il suo scopo era mostrare i fatti ad un’opinione pubblica e a classi dirigenti nelle quali allora come oggi serpeggiavano pulsioni antimeridionali. Sollecitare l’orgoglio di quanti, ciascuno nel suo ruolo, avevano contribuito allo sviluppo.

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Quale che ne sia stata la ripartizione interna, il benessere degli italiani è così fortemente cresciuto nei 150 anni anche perché siamo stati cittadini di un paese di rilevante dimensione; pur con tutte le sue difficoltà e contraddizioni, di una delle principali economie del mondo; di un grande caso di successo internazionale, almeno fino al «declino» dell’ultimo ventennio. E siamo solo sul terreno dell’economia e della politica economica. A queste riflessioni se ne possono aggiungere altre, fondamentali, sull’importanza del sentimento nazionale e di cittadinanza; sul riconoscersi in un destino comune che influenza valori e scelte individuali: quel sentimento identitario che tanto ruolo ha avuto – anche sul terreno economico – nella storia passata della Francia, o nelle vicende attuali di paesi che stanno diventando grandi protagonisti dell’economia mondiale, dal Brasile alla Turchia. Anche riconoscendo quel che la storia ha prodotto, è però forte la tentazione, da un po’ di tempo a questa parte, di decretare la fine degli Stati nazionali. Disegnare un’Europa di regioni indipendenti. Il tema è complesso, interessante. La ridefinizione di poteri e responsabilità su più livelli, fra Europa, nazioni e regioni è una delle trasformazioni che l’Europa e l’Italia stanno vivendo; anche alla luce del principio di sussidiarietà: è bene portare alcune importanti scelte più vicine ai cittadini. Autonomie territoriali

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forti, in Stati membri uniti in una costruzione europea con poteri sempre più rilevanti. È un processo per molti versi auspicabile, positivo. A ciascuno il suo: alle città e alle regioni il governo del proprio territorio, per tener conto di diversità nelle realtà, nelle preferenze, nelle possibilità; all’Europa la moneta, il cambio e le grandi scelte di politica economica; e, auspicabilmente, sempre più la difesa e la politica estera. Fra di loro un livello statale; fondamentale, per le grandi politiche e le istituzioni nazionali che restano diverse anche nell’Unione: dall’istruzione alla cultura, dal welfare alla sanità. Un processo assai diverso dalle secessioni serpeggianti, in Italia come in altri paesi europei. Dietro l’indipendentismo catalano, o fiammingo, o padano, non ci sono grandi disegni, ma calcoli di convenienza contabile. Dopo tutti i vantaggi dell’essere stati spagnoli, belgi, italiani, conviene uscire dagli Stati nazionali, per cancellare destini comuni e vincoli nazionali di solidarietà; ma al tempo stesso restare in Europa per mantenere e rafforzare gli stessi vincoli, a proprio vantaggio, con i più ricchi. Conviene creare un’Europa a due livelli, con una serie A e una serie B, autopromuovendosi nella massima serie e lasciando indietro gli altri; sognando così, pur di mantenere quattro soldi in più nel portafoglio, un futuro da piccolo staterello satellite della Germania.

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Nelle grandi incertezze e preoccupazioni che circondano il futuro dell’Europa, c’è da giocare una partita grande: quella di riannodare i fili dell’intesa e della collaborazione fra il Nord e il Sud del continente. E c’è chi invece vuole giocare una partita piccola piccola. Non è questa la strada, di successo, seguita sinora in Europa. L’allargamento ai mediterranei negli anni Ottanta, e poi il grande allargamento ad Est sono andati in direzione opposta. Con una valenza politica: per riportare in Europa quanti se ne erano allontanati a causa di feroci dittature fasciste (Spagna, Portogallo e Grecia) o del comunismo. Con una valenza economica: la vecchia Europa si è integrata – e questo è il punto – con economie assai più deboli, ma creando così mercati più ampi in cui crescere insieme. Certo, il Nord senza il Sud sarebbe contabilmente più ricco, così come lo sarebbe la Germania senza il resto dell’Europa. Ma le loro storie, politiche ed economiche, sarebbero state in passato, e sarebbero in futuro, completamente diverse. Guardiamo proprio alla Germania; caduto il Muro di Berlino, si è realizzato ciò che era ritenuto impossibile, fuori dalla storia, solo fino a poche settimane prima: la riunificazione. Pur di ottenerla, classi dirigenti di ben altro spessore rispetto a quelle di oggi, hanno accettato una profonda ridefinizione degli assetti europei,

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hanno visto sparire la propria moneta. Hanno riunito un paese dolorosamente diviso dalla Guerra fredda, e hanno accettato di pagarne i costi, esterni e interni. Hanno incluso territori assai più poveri; in parte con antiche tradizioni scientifiche e industriali, ma con assetti produttivi distorti dalla pianificazione comunista. Hanno sostenuto da subito il potere d’acquisto di quei cittadini con un cambio irrealistico, di 1:1 fra il vecchio marco ovest e il vecchio marco est. Hanno prodotto una sforzo poderoso di inclusione sociale (con l’estensione immediata di un welfare ricco per anziani e disoccupati) e di modernizzazione del territorio; hanno investito ingenti fondi, pubblici e privati. Curiosamente, molti in Italia sono convinti che sia stata raggiunta una piena convergenza di reddito fra le due Germanie: è uno degli argomenti usati in comparazione alla situazione italiana, per mostrare l’irredimibile diversità del Sud. Non è così; anche in Germania i divari regionali restano ampi. Con l’unificazione i tedeschi sono diventati statisticamente più poveri; così come lo sono diventati gli europei del primo nucleo comunitario con i successivi allargamenti. Ma nessuno ha sollevato questo argomento contabile. Perché, stando insieme, i tedeschi come gli europei sono diventati, come documentano con precisione i numeri dell’economia e i dati della politica internazionale, più forti.

2. Il Sud rallenta lo sviluppo dell’intero paese

Va bene. Ma in Italia è diverso: il Sud rallenta lo sviluppo dell’intero paese, perché cresce sempre meno del Nord. E così il divario fra le due Ita­ lie non fa che allargarsi. Questo è sempre stato grave, ma è insopportabile oggi, che lo sviluppo italiano è così modesto. Anche di questo sono convinti molti italiani; ma complessivamente queste affermazioni sono molto più false che vere. Guardiamo un momento all’indietro. All’Unità, le differenze di reddito fra Sud e Nord erano assai modeste (come frutto della storia precedente, erano più rilevanti quelle fra Ovest, più ricco, e Est); così sono rimaste per i primi venti-trenta anni. Poi con l’industrializzazione il Nord-Ovest ha staccato il resto del paese. Nel periodo fascista e nell’immediato secondo dopoguerra, il Sud è diventato assai più povero rispetto a tutto il Centro-Nord. Al 1951 le

2. il sud rallenta lo sviluppo dell’intero paese

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distanze fra le diverse regioni erano drammatiche, molto maggiori che negli altri grandi paesi europei; il Sud era poverissimo. Per un quindicennio circa, dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio degli anni Settanta, il Mezzogiorno ha marciato ad un passo ancora più rapido di quello, eccezionale, dell’intero paese. Le distanze si sono ridotte, ma soprattutto tutte le regioni italiane si sono radicalmente trasformate. Gli anni del miracolo: il benessere di tutti gli italiani aumenta fortemente. Sia il miracolo economico sia la rincorsa del Mezzogiorno si arrestano però con la crisi di metà anni Settanta, e da allora, purtroppo, non ripartono più. Ma da allora, negli ultimi quaranta anni, le distanze non sono drasticamente mutate. L’andamento del Sud e del Nord è sempre stato simile; la crescita delle diverse parti del paese è stata vicina alla media nazionale. È l’andamento nazionale, nel bene e nel male, a prevalere sulle differenze locali. Certo, nell’Italia della lira debole, delle piccole imprese e dei distretti, vanno particolarmente bene le regioni del Centro e del Nord-Est, che si avvicinano molto al vecchio Triangolo industriale; Piemonte e Liguria perdono colpi – l’Abruzzo e la Basilicata crescono più e meglio della Campania. Non va mai dimenticato come il Sud sia assai diverso al suo interno; e come le sue parti abbiano seguito traiettorie di sviluppo civile ed economico differenti. Troppo spesso si

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confonde l’intero Mezzogiorno con le vicende della sua antica capitale. Complessivamente, il tasso di sviluppo del­ l’economia è simile fra Sud e Centro-Nord. Il benessere medio è poi influenzato anche dalle dinamiche della popolazione, che sono prima assai più intense al Sud, poi, nell’ultimo quindicennio, assai più vivaci al Nord grazie all’immigrazione. Nell’ultimo periodo è l’intera Italia che progressivamente rallenta, decennio dopo decennio, fino ai dati molto negativi del nuovo secolo, anche prima della crisi. E così le regioni italiane perdono posizioni relative in Europa. Come spesso viene ricordato, il Mezzogiorno perde il confronto con la Germania Est, e, prima della crisi internazionale, con le regioni iberiche e greche. Come assai meno spesso viene ricordato, il Nord perde nettamente terreno rispetto alle regioni tedesche, francesi, del Nord Europa. Purtroppo è l’Emilia-Romagna, fra le oltre trecento regioni europee considerate da Eurostat, quella che ha i risultati peggiori nell’ultimo periodo. Ciononostante, molti sono convinti che ci sia un problema specifico meridionale. Come insegna anche la teoria economica, in tutti i paesi del mondo tranne che in Italia, le regioni che sono più indietro crescono più velo­ cemente di quelle già più ricche. È un fenomeno naturale; ed è innaturale che in Italia ciò non

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accada: il Sud dovrebbe spingere lo sviluppo del paese e invece lo frena. Vediamo con ordine: prima i fatti, poi la teoria. I fatti sono sufficientemente chiari. La storia dello sviluppo regionale in tutto il mondo segue, nelle sue grandi linee, un modello simile. Prima, quando inizia l’industrializzazione e accelera lo sviluppo, le regioni si diversificano maggiormente: alcune si trasformano e crescono rapidamente, altre no. Successivamente le differenze tendono a ridursi. Ma mentre la prima tendenza è stata evidente in tutti i paesi, su un lungo arco di storia a partire dalla rivoluzione industriale in Inghilterra (anche in Italia, con la formazione del Triangolo industriale), la seconda è più incerta. È stata forte in molti paesi europei, in particolare dagli anni Venti agli anni Settanta: e qui si osserva una grande differenza con l’Italia, dove le disparità regionali sono invece aumentate moltissimo nel periodo fascista. Ma da quarant’anni a questa parte è più difficile trovare paesi in cui le regioni meno avanzate recuperano molto terreno rispetto a quelle più avanti. Ci sono alcuni casi: clamoroso quello del Belgio, dove le Fiandre hanno prima raggiunto e poi scavalcato la Vallonia. Ma lì è stata determinante la profonda crisi del carbone e delle industrie pesanti nella parte francofona. Sono state alcune regioni un tempo avanti che si sono fermate, per motivi specifici. Ci sono evidenze

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miste; ci sono stati alcuni periodi relativamente brevi in cui le regioni più indietro hanno recuperato: in Germania, in Spagna, e anche in Italia a cavallo del nuovo secolo. Ma, prima della crisi, l’Andalusia non è cresciuta perché ha recuperato rispetto a Madrid ma perché tutta la Spagna è andata bene. In altri periodi e paesi, le differenze si sono acuite. Come nell’Europa orientale di oggi. Non bisogna confondere quel che accade tra paesi con quel che accade nei paesi. Nel primo caso c’è una forte convergenza nei redditi: la Cina e l’India, il Brasile e la Turchia crescono più velocemente dell’Europa e degli Stati Uniti. All’interno dei paesi non c’è: anzi in Cina, in India, in Brasile e in Turchia si fanno più forti le distanze fra i centri e le periferie, la costa e l’interno, le capitali e le campagne. E all’interno dei paesi europei e degli Stati Uniti queste distanze non si riducono. Perché accade questo? Perché per una regione, come nel caso del Mezzogiorno, essere più indietro delle altre può dare vantaggi: i minori costi di produzione possono attrarre imprese; dove c’è meno capitale investire può rendere di più; la diffusione di uno Stato sociale uguale per tutti i cittadini ha un effetto più forte lì dove i redditi sono minori. Ma anche essere avanti può dare molti vantaggi. Dove c’è industria nasce più facilmente altra industria, anche attraverso legami «a monte» e «a valle»,

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cioè fra imprese che sono fornitrici-acquirenti. Dove c’è sviluppo nascono più facilmente le innovazioni, si diffonde e si consolida cultura tecnologica. Questi fenomeni sono decisivi per capire le differenze che esistono e persistono in Italia: ad esempio, per le economie del Nord e di buona parte del Centro (così come per l’intera economia italiana) è fondamentale il ruolo dell’industria meccanica, che è cresciuta per un lungo fenomeno cumulativo che non si è verificato al Sud. Dove ci sono già tante imprese il mercato del lavoro funziona meglio, si creano professionalità specifiche, arrivano persone qualificate da fuori: basti pensare al mercato dei manager che esiste nell’area milanese. Le imprese che nascono prima hanno chances di diventare più grandi, e così, con le economie di scala, più competitive. Insomma, nelle economie regionali contemporanee c’è una bella lotta tra forze centrifughe e centripete. Anche per un fondamentale motivo: la globalizzazione. Una freccia nell’arco delle regioni deboli sono i costi di produzione: conviene sviluppare impresa perché costa di meno; perché costa meno soprattutto il lavoro. Anche in Italia vi sono sempre state differenze salariali sensibili. Con il senno di poi, appare evidente come gli sviluppi maturati fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta

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(l’abolizione repentina delle «gabbie salariali» e poi l’esplosione delle dinamiche salariali) non abbiano giovato alle imprese del Sud. Ma la freccia oggi è spuntata. Perché? A causa dell’integrazione internazionale delle economie. Se non intervengono altri fattori, le imprese della parte occidentale della Germania non vanno ad investire nei Länder dell’Est perché costa meno, ma nei paesi dell’Europa orientale o direttamente in Asia. E così le imprese del Nord-Est non creano produzione nel Mezzogiorno bensì in Romania, o, anch’esse nei paesi emergenti. In realtà tutti questi fenomeni sono più complessi e ricchi di sfumature, il mondo non è bianco o nero, e le storie sono diverse a seconda di ciò che si produce e di dove si produce; i fattori che entrano in gioco diversi. Non a caso in Italia i tassi di crescita fra Nord e Sud rimangono simili; le differenze, se non si riducono, neppure si ­accentuano. Ma la sostanza resta: la rincorsa delle regioni deboli all’interno dei vecchi Stati nazionali si è fatta assai più impervia. La moderazione salariale aiuta; una certa differenziazione dei livelli salariali fra regioni è inevitabile, dati i diversi livelli di produttività: e in Italia si è ricreata in maniera sensibile nell’ultimo ventennio. Ma da sola non porta lontano. La ricetta, che pure di tanto in tanto qualcuno suggerisce, di puntare su una forte differenziazione del costo del lavoro per accelerare lo sviluppo del Sud, appare tanto

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ideologica quanto incapace di comprendere le dinamiche dell’economia contemporanea. Piaccia o no, per lo sviluppo delle regioni contano moltissimo le politiche pubbliche. Sono state fondamentali in tutta la storia economica italiana: nello sviluppo del Triangolo industriale hanno contato spiriti imprenditoriali e culture tecniche diffuse, ma anche commesse pubbliche, politiche doganali, salvataggi; dietro il boom del Nord-Est ci sono state imprenditorialità e lira debole. Dietro il Nord e il Sud di oggi ci sono anche le politiche pubbliche del passato.

3. Un fiume di denaro senza fine

Ma le politiche pubbliche per lo sviluppo del Mezzogiorno si fanno da sempre. Le regioni del Sud sono state e sono tuttora inondate da un fiu­ me di danaro senza fine. E con quali risultati? Nessuno. È questo il problema. Diamo anche in questo caso un’occhiata alla storia. E incontriamo daccapo Francesco Saverio Nitti. Fu Nitti, all’inizio del Novecento, a porre questo tema nel dibattito pubblico italiano: cosa fare per estendere a tutto il paese i processi di industrializzazione che stavano trasformando e modernizzando una parte del Nord? Con l’aiuto delle migliori intelligenze milanesi, Nitti disegnò un progetto chiaro: l’ipotesi elettroirrigua. Elettricità e acqua erano i punti chiave per il Sud. Allora, senza l’energia elettrica non ci poteva essere industria moderna; senza bonifiche non ci poteva essere agricoltura moderna.

3. un fiume di denaro senza fine

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Lavorare sulle acque del Sud poteva produrre entrambi i risultati: energia idroelettrica e agricoltura intensiva. Con l’avvento del fascismo, con il trionfo delle componenti più retrive della società italiana, al Nord e al Sud, questo progetto tramontò subito. Il Mezzogiorno, per un ventennio, fu destinato ad essere rurale, con effetti catastrofici sul suo benessere e il suo sviluppo. Cosa poco nota, nel Ventennio si fece qualche politica di sviluppo regionale, ma a vantaggio del Nord-Est. Al momento della ricostruzione, larga parte del Mezzogiorno versa in condizioni gravissime, vicine a quelle descritte da Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli. La dotazione di capitale pubblico (strade, scuole, ospedali) è infima, nettamente minore che nel resto del paese; i servizi per i cittadini, ad iniziare dall’istruzione, scarsi e scadenti; i posti letto in ospedale, rispetto alla popolazione, meno della metà di quelli del Nord. I piemontesi sono quasi tutti alfabeti, un calabrese su tre non sa ancora leggere e scrivere: e i primi vanno a scuola in media per oltre cinque anni, i secondi per meno di tre. Lo spirito del dopoguerra, la lungimiranza delle classi dirigenti, l’esempio e lo stimolo degli americani portano alla Cassa per il Mezzogiorno. Con un compito immane: fare ciò che non si era fatto per decenni, realizzare le bonifiche, costruire le strade. Uno sforzo finanziario in sé significativo;

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assai più modesto se paragonato al da farsi. La Cassa funziona bene: anche grazie ai suoi interventi il Sud cambia in parte volto. Denaro degli italiani speso bene. Ma da cui non ci si potevano attendere cambiamenti radicali in soli dieci anni. Dalla fine degli anni Cinquanta cambia, come ben noto, la strategia: si punta a portare direttamente al Sud l’industria. Una scelta assai controversa. Si realizzano grandi impianti ad alta intensità di capitale che servono molto all’economia italiana, per fornire prodotti di base, acciaio e plastiche, alle industrie avanzate; si destinano finanziamenti ingenti alle Partecipazioni Statali e a una parte della grande industria del Nord; si crea lavoro di fabbrica in diversi luoghi del Sud. Resta scarsa, però, l’attenzione per le sorti delle piccole e medie imprese locali. L’esito finale è anch’esso molto controverso: qualche elemento positivo insieme a costi assai rilevanti. Quell’industrializzazione lascerà le contraddizioni esemplificate dal siderurgico di Taranto: lavoro in fabbrica, che prima non c’era; un maggior benessere; la devastazione del territorio e di un’intera città, un tempo bellissima; enormi problemi ambientali e sanitari. Con la crisi petrolifera il quadro cambia ancora: quella strategia non è più prioritaria, più che espandere le produzioni occorre ristrutturarle. Le politiche per il Mezzogiorno perdono visione, qualità, efficienza; nel clima politico

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dell’epoca, sono sempre più influenzate da esigenze difensive (molte risorse vanno a controbilanciare gli incrementi del costo del lavoro), locali, di consenso. Ne sono l’espressione più chiara gli interventi che seguono al terremoto dell’Irpinia nel 1980. Si trascinano ancora fino alla fine degli anni Ottanta; poi, nel 1992, finiscono. Fa seguito un ventennio, l’ultimo, in cui le politiche diventano assai più incerte, timide, modeste. Perdono totalmente centralità nel dibattito politico e culturale. Fallisce l’ambizioso tentativo di Carlo Azeglio Ciampi, nel 1998-99, di riformularle e riportarle al centro dell’azione di governo. Quanto è stato grande questo fiume di denaro? Guardare solo all’Intervento Straordinario per il Mezzogiorno ha poco senso. Avrebbe senso, invece, valutare complessivamente quel che è successo anche prima, in tutte le aree del paese, grazie a tutte le fonti di finanziamento. Ma una misurazione complessiva è quasi impossibile: troppo diversi i periodi, gli strumenti, le tipologie di intervento. Non vi è alcuna chiara evidenza, però, che permetta di affermare che nell’intera storia nazionale nel Sud si sia speso più che nel resto del paese. Anzi, guardando alle dotazioni di capitale pubblico delle diverse aree – che sono il frutto di questi investimenti – emerge chiaramente come esse siano ancora inferiori nel Mezzogiorno: quantità e qualità di ferrovie

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e scuole, reti idriche e fognarie, posti letto in ospedale. In nessun ambito il Sud ha dotazioni migliori; in alcuni le differenze si sono ridotte; in altri i divari restano intensi, talvolta crescenti. Per il periodo più recente abbiamo molti più dati, e si possono compiere valutazioni più precise. Nell’ultimo ventennio, per un insieme di motivi, il complessivo sforzo di miglioramento e modernizzazione del Mezzogiorno è rallentato molto; si è fatto meno intenso rispetto alle altre aree del paese. Di questo è difficile avere contezza nel dibattito pubblico, ma se ne può avere diretta percezione viaggiando e osservando paesaggi, città, territori, cantieri. Molti italiani sono convinti del contrario: che il fiume del denaro pubblico che arriva per lo sviluppo del Sud sia ancora in piena. Alimentato da molte fonti. È vero: ci sono i fondi strutturali europei, che per regole comunitarie sono assai più rilevanti nelle quattro maggiori regioni del Mezzogiorno rispetto al resto del paese; ci sono i fondi speciali nazionali destinati al Sud, che nel tempo hanno assunto varie denominazioni e che oggi si chiamano Fondi Sviluppo e Coesione. Si vedono molto proprio perché sono specifici; se ne parla molto, specie di quelli europei. Un tempo se ne parlava per mostrare, in positivo, quanto i governi stavano facendo per il Sud; oggi per far vedere, in negativo, che si fa troppo. Cifre

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mirabolanti si inseguono. Ma i dati ufficiali, ampi e circostanziati, sono chiari. Se si conta tutta insieme la spesa che si definisce «per lo sviluppo», cioè quella per infrastrutture, incentivi alle imprese e alla ricerca, e si guarda dove va a finire, ci si accorge che non c’è più da tempo alcun trattamento di favore per le regioni che sono più indietro. La spesa pro capite «per lo sviluppo» è da tempo inferiore proprio nel Mezzogiorno, anche se resta superiore paragonata al Pil. Ancora in tempi recenti, erano rilevanti le cifre per incentivare gli investimenti delle imprese al Sud; ma anche questo è finito. Certo che ci sono i fondi europei: ma non sono ormai che parzialmente sostitutivi di spesa nazionale che non c’è più; al Sud ormai il poco che si fa è tutto finanziato dall’Europa; le risorse – ben più cospicue – del bilancio nazionale vanno principalmente nel resto del pae­se. Sui residui di queste politiche è passato da ultimo come un bulldozer Giulio Tremonti. Ha preso tutto quello che poteva (non poco: circa 35 miliardi) e l’ha destinato ad altro e ad altri. In un paese civile, di fronte alle catastrofi nazionali, scatta la solidarietà collettiva; ce ne si fa carico un po’ tutti. Non così in Italia: tutti i fondi per la ricostruzione dell’Abruzzo dopo il terremoto sono venuti esclusivamente dalla cancellazione di stanziamenti previsti per il Mezzogiorno. E la cosa non ha avuto particolare eco.

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Infine, in tutto il paese, con la crisi, lo sforzo di infrastrutturazione e modernizzazione è rallentato molto: stiamo usando denari importanti per il futuro dell’Italia, quelli per potenziare la dotazione di infrastrutture, per far fronte alle difficoltà di oggi del bilancio pubblico. Al Sud questo sforzo si è praticamente fermato. Il fiume di danaro, se mai c’è stato, si è prosciugato; le grandi politiche non ci sono più, e da tempo. Non sarebbe male prenderne atto: è un fatto. Alcuni possono pensare che questa sia una buona notizia: perché sostengono gli interessi di alcuni territori a scapito di altri («Prima il Nord»), perché sono ideologicamente contrari alle politiche pubbliche, o perché (come si vedrà nelle prossime pagine) convinti che queste politiche abbiano fatto più male che bene, dal momento che considerano le politiche pubbliche il problema e non la soluzione. Si sentono valutazioni mistiche: serve una catarsi; senza altri soldi per scuole, strade e ospedali i meridionali finalmente si daranno da fare e risorgeranno. Altri, forse più tradizionalmente, possono pensare che questa sia un cattiva notizia. È davvero difficile che il Mezzogiorno possa crescere se al suo interno non si creano condizioni favorevoli allo sviluppo di impresa. Se non ci sono scuole e università di qualità, laboratori e palestre per i ragazzi; se non ci sono ferrovie moderne, aeroporti e porti per la mobilità di persone e merci; se la

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diffusione della banda larga non consente di offrire servizi e soluzioni per via telematica; se non ci sono ospedali ben attrezzati per curare la salute delle persone e tribunali efficienti per curare le patologie della società; se le forze dell’ordine non hanno a disposizione mezzi e strumenti; se non si mantengono, tutelano e valorizzano anche a fini economici il suolo e l’ambiente. L’intera Italia ha bisogno di questi investimenti; e il Sud, che è più indietro, in misura ancora più rilevante. È tutto ciò che fa diventare un paese, una regione, un posto migliore per vivere, più inclusivo nei confronti dei suoi cittadini, un luogo dove nascono e crescono imprese di mercato, competitive, in grado di generare reddito per l’intera comunità. Per l’intera comunità nazionale. Proprio per il diverso livello di sviluppo delle regioni, infatti, un euro di investimenti al Sud crea un effetto positivo significativo al Nord: perché le sue imprese vincono gli appalti, forniscono materiali e macchinari. Non avviene il contrario: un euro speso al Nord non crea effetti positivi al Sud. Si sente spesso dire che bisogna privilegiare gli investimenti nelle regioni più forti perché sono le locomotive che trainano l’intero paese. Questi investimenti vanno fatti per tanti ottimi motivi; ma non per questo possibile effetto di traino. Per quanto possa sembrare paradossale, l’unico «effetto locomotiva» lo crea proprio lo sviluppo delle regioni più deboli.

4. Il Sud è la terra dello spreco

Ma ne siamo sicuri? Non importa quanto si spende, se poco o molto. Il fatto è che le politiche di sviluppo, e in genere le politiche pubbliche, che si fanno al Sud sono soldi buttati. Quel che si spende si spreca; è inutile, in molti casi addi­ rittura dannoso. Il Sud è la terra dello spreco. Che questo finisca o si riduca non può essere che una buona notizia. In un paese impaurito dalla crisi, e preoccupato e timoroso per il proprio futuro, questi argomenti suonano familiari; confortanti alle orecchie di chi si illude che la crisi italiana sia principalmente un fenomeno di malaffare, che basti tagliare gli sprechi e tutto andrà a posto. Ai tanti che non ne possono più dei politici e degli amministratori, che pensano che tutto il problema stia nel settore pubblico, nei burocrati e nelle regole che strangolano le vitalità private.

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Ai non pochi che ci marciano, e dalla condanna dello spreco permanente e pervasivo traggono fortune televisive, giornalistiche, politiche. Il Sud è il simbolo di tutto questo. Nella mitologia dello spreco c’è una parte di verità. Guardiamo prima agli interventi infrastrutturali e ai contributi alle imprese; più avanti, parlando di assistenzialismo, guarderemo al mare magnum della spesa pubblica corrente. È un tema complesso. Nel quale i dati disponibili aiutano fino ad un certo punto, ma consentono comunque qualche valutazione. Più di un’evidenza statistica consente di dire che la capacità del nostro paese di programmare, realizzare e utilizzare bene gli interventi infrastrutturali è modesta. Con tutta probabilità si è ridotta nell’arco degli ultimi decenni. Al di là del mito, o del facile rimpianto, l’Italia dell’Autostrada del Sole e delle direttissime ferroviarie, dei grandi progetti e delle grandi competenze nelle imprese pubbliche e private era più capace di quella di oggi di far bene. Oggi è difficile programmare. I nostri piani dei trasporti sono elenchi interminabili di opere. La stessa legge obiettivo, lanciata da Berlusconi – in un momento di grande consenso per l’«Italia del fare» – per concentrare le risorse su interventi prioritari, prevede teorici interventi per un ammontare largamente al di là di ogni disponibilità. Non si riesce a coagulare il consenso sulle grandi scelte. Alcu-

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ne sono impropriamente delegate: le decisioni sull’estensione della rete ad alta velocità sono state prese dalle Ferrovie dello Stato, che hanno accuratamente scelto solo i collegamenti in grado di produrre profitti immediati, al di là di ogni considerazione di investimento e di prospettiva; con logiche simili i binari verso la California non sarebbero mai stati posati. A lungo, la politica del trasporto aereo è stata concretamente decisa dall’Alitalia. Se le connessioni transalpine sono più facilmente determinate dalla geografia e dagli interessi di altri paesi, le decisioni relative alle reti nel Mediterraneo (e quindi alle grandi rotte marittime transcontinentali) non sono state mai prese, e ciascun porto va per proprio conto. La stessa Milano soffre da tempo la concorrenza interna fra il suo storico aeroporto di Linate e l’improbabile ruolo della Malpensa. Oggi è difficilissimo realizzare. Pioniera del­ l’alta velocità ferroviaria, l’Italia è stata scavalcata non solo dalla Francia, ma anche da Spagna e Germania. I tempi di realizzazione si dilatano a dismisura, gli interventi ritardano e si sfalsano rispetto alla loro logica economica: la bretella autostradale per la Malpensa viene inaugurata nel giorno in cui l’Alitalia taglia gran parte dei suoi voli da quell’aeroporto. Ogni gara è una via crucis di ricorsi, impugnative, sospensioni; poi di revisioni dei prezzi che dilatano i costi. Anche tenendo conto dell’assai differente orografia

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italiana, i costi medi per chilometro di alta velocità ferroviaria sono indebitamente superiori a quelli europei. Quel che si realizza, infine, in troppi casi si rivela di utilità contenuta. Mancanza di scelte e difficoltà finanziarie fanno sì che si proceda spesso per lotti, spendendo senza che si abbia l’opera completa in funzione. I ritardi rendono a volte gli interventi obsoleti fin dalla nascita. Spesso, gli interventi fisici vengono programmati senza pensare alla sostenibilità del loro utilizzo a regime: si completano opere che restano, tragicamente, drammaticamente, chiuse. Di che stiamo parlando, del Mezzogiorno o dell’Italia? Certamente di entrambi. Nel Mezzogiorno queste difficoltà sono ancora più accentuate. Ma, piaccia o no, da questo punto di vista l’Italia è assai simile a tutte le latitudini; cambia l’intensità, non la natura dei problemi. Perché le grandi scelte nazionali sono le stesse. Perché alcuni grandi attori sono gli stessi: è l’Anas ad operare sulle strade di tutto il paese, ed è l’Anas la grande protagonista delle sventurate vicende dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, di un’opera di manutenzione straordinaria che, per quanto complessa, ha ormai coperto un tempo assai più lungo di quello necessario per costruirla integralmente. Perché uguali sono le regole e le procedure, e non a caso i dati sui tempi di realizzazione delle opere pubbliche,

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dalla progettazione al collaudo, variano da regione a regione ma non secondo un netto crinale Nord-Sud. Il Mezzogiorno ci aggiunge, spesso, del suo. Una capacità tecnica minore – anche se assai variabile da caso a caso – nelle amministrazioni locali appaltanti; i condizionamenti della criminalità organizzata, specie nelle tre regioni a maggiore presenza mafiosa, sulle scelte e sull’esecuzione degli interventi. Le rigide regole di impegno e di spesa per le infrastrutture dei fondi strutturali europei hanno portato con forza all’attenzione dell’opinione pubblica questi problemi. Ma, daccapo, non c’è bianco e nero: nelle regioni del Centro-Nord dove le opere sono finanziate con altri fondi, e dove non valgono scadenze capestro, i tempi sono spesso simili. Il tema della frammentazione degli interventi è spesso mal posto. Non è detto che, in tutto il paese, le opere grandi siano più utili delle piccole: un programma di manutenzione degli edifici scolastici, un programma di interventi per la difesa del suolo, un piano di collegamenti minori verso le grandi città per i pendolari sono certamente più utili del ponte sullo Stretto di Messina, e con tutta probabilità della Tav Torino-Lione. Il punto non è piccolo o grande; servono opere piccole e opere grandi, ma a patto che siano di qualità, rapide, integrate in programmi coerenti e con chiari benefici una volta che vengono utilizzate.

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Sono meridionali i record degli ospedali avviati e mai completati, dei tronchi stradali dal nulla al nulla. Certo, sono molto spesso eredità dei tempi della Prima Repubblica, quando le risorse erano maggiori, e maggiori i condizionamenti del partito del cemento armato; non a caso a fine anni Novanta si pensò saggiamente ad un programma, che diede i suoi frutti, di completamento di opere. In ogni caso gridano vendetta: perché le risorse sono comunque scarse, e le dotazioni al Sud modeste. Ma il problema è nazionale.

5. Una terra dominata dallo statalismo

I conti non tornano. La spesa pubblica al Sud è maggiore che nel resto del paese, e con un peso op­ primente sull’economia. Altro che politiche pub­ bliche di sviluppo. Il grosso della spesa prende altre strade, è nei bilanci ordinari. È la presenza pervasiva e condizionante del settore pubblico la vera malattia, ciò che distingue il Mezzogiorno dalle regioni sane e avanzate. Ne fa una terra dominata dallo statalismo. Le cronache dalla Sicilia lo dimostrano inequivocabilmente: meno Stato ci vuole al Sud, e le cose un po’ alla volta si aggiusteranno. È vero, i conti non tornano. E questo è strano, perché forse pochi sanno che l’Italia dispone di uno dei sistemi di contabilità territoriale più avanzati al mondo, che permette di conoscere in dettaglio che cosa accade, superando le molte complicazioni di questi calcoli. A volerle guardare, queste cifre sono chiare.

5. una terra dominata dallo statalismo

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Il messaggio in pillole è che la spesa pubblica rapportata alla popolazione è inferiore nel Mezzogiorno rispetto alla media italiana. Questo anche senza considerare la spesa per interessi sul debito pubblico; che fluisce in proporzione ancora più grande verso le regioni del Centro-Nord e in particolare del Nord. La spesa per interessi è infatti collegata alla ricchezza finanziaria delle famiglie, che è ancora più sperequata fra regioni rispetto al reddito. La ripartizione della spesa pubblica è influenzata dal carattere del welfare italiano, di cui si dirà più diffusamente tra un po’, che premia in modo particolare le regioni dove c’è la più alta quota di ex lavoratori, e non quelle dove c’è la maggiore quota di disoccupati o di famiglie povere. Dipende dalla spesa sanitaria, che tiene conto della popolazione anziana, ma non del rapporto fra povertà e salute. È solo parzialmente compensata dalla spesa per l’istruzione, che è largamente proporzionale al peso della popolazione studentesca sul totale; soprattutto in passato, e ancora oggi, questo peso è maggiore al Sud. Il quadro è articolato. Esistono disparità molto sensibili all’interno delle grandi aree. Il settore pubblico italiano favorisce nettamente le quattro regioni (Val d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia) e le due province autonome (Trento e Bolzano) a statuto speciale; ma in modo particolare quelle del Nord. Per ragioni diver-

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se nel dopoguerra venne concesso loro un livello di autonomia molto più ampio. Niente di male: ma questa autonomia è divenuta causa di un accentuato trattamento di favore; di disparità immotivate e inaccettabili nei confronti dei cittadini dei territori vicini, siano essi veneti o calabresi. Specie adesso che l’Italia sembra avviata verso una riorganizzazione del suo sistema delle autonomie e della struttura dei loro finanziamenti, le regioni a statuto speciale non hanno più motivo di esistere. La spesa pro capite è anche più alta nelle regioni più piccole. Tutto ciò penalizza in modo particolare i cittadini delle grandi regioni a statuto ordinario, specie al Sud: così, la regione dove è minore la spesa pro capite delle amministrazioni centrali è la Campania; delle amministrazioni regionali e locali, la Puglia. Considerazioni simili valgono – nelle regioni a statuto ordinario – per la dimensione dell’occupazione pubblica: a metà dello scorso decennio (ma il quadro certamente non è mutato) la regione con meno personale di Comuni, Province e Regioni rispetto alla popolazione era la Puglia, quella con il rapporto più alto la Liguria. Nella graduatoria, le regioni del Nord, del Centro e del Sud si mescolano. Diverso è il discorso per le regioni a statuto speciale; in particolare per la Sicilia, che ha un settore pubblico estremamente ampio. I dipendenti dello Stato e delle diverse amministrazioni centrali sono

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distribuiti in maniera abbastanza omogenea sul territorio, a parte l’ovvio caso di Roma. Al Sud ci sono più insegnanti, perché ci sono più studenti (anche se il numero di studenti per insegnante è ancora un po’ più alto della media nazionale). La ripartizione territoriale della spesa pubblica, in Italia, è sempre stata così. Dati più completi e sistematici sono disponibili per l’ultimo ventennio, e non mostrano mutamenti rilevanti. Ma le analisi e le stime che sono state realizzate anche nei periodi precedenti, anche molto indietro nel tempo, forniscono un quadro univoco: la spesa pubblica totale, rispetto alla popolazione, è sempre stata più intensa nelle regioni a livello di sviluppo maggiore. Storicamente, la presenza di dipendenti pubblici nel Mezzogiorno, sempre calcolati rispetto alla popolazione, non è mai stata particolarmente più alta che nella media nazionale; sempre però con differenze da territorio a territorio. Ma perché comparare la spesa pubblica alla popolazione? È più giusto compararla alla dimen­ sione economica delle regioni, al loro Pil. Ognuno dovrebbe avere la spesa pubblica che si può per­ mettere. Date le disparità di reddito esistenti in Italia, ne emergerebbe un quadro o­ pposto, con i territori del Sud destinatari di una spesa di gran lunga superiore a quella che meritano. Alcuni anni fa uno studioso, di quelli oggi di moda, fece questo calcolo con i dipendenti pub-

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blici e decretò che il loro numero al Sud era molto più alto di quello che avrebbe dovuto essere. E che andava drasticamente ridotto. La sua ricetta per lo sviluppo del Mezzogiorno era licenziare dipendenti comunali, insegnanti e medici. Al di là di questi furori ideologici, la risposta all’obiezione non è difficile. La spesa, in Italia come negli altri paesi europei, è legata alle funzioni principali che svolge il settore pubblico: l’istruzione, la sanità, il welfare. Queste funzioni sono incardinate nella nostra Carta costituzionale. Non è male rileggerne alcuni principi fondamentali. L’articolo 2 recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E l’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». E poi l’articolo 31 sulla famiglia e la gioventù, il 32 sulla salute, il 34 sull’istruzione, il 38 sull’assistenza sociale.

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Piaccia o no, la cittadinanza italiana garantisce – almeno in teoria – a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito o dal loro luogo di nascita e di residenza, alcuni diritti fondamentali. Se l’istruzione è obbligatoria, scuole e insegnanti devono essere proporzionali agli studenti; se la salute viene tutelata, la presenza di ospedali e medici proporzionale ai malati, indipendentemente dal fatto che studenti e malati siano ricchi o poveri. Importa che siano italiani. Il principio è chiaro: finché c’è l’Italia, e finché la Costituzione è questa, gli interventi tesi a garantire questi diritti fondamentali vanno rivolti a tutti. Rapportare la spesa al Pil, dunque, non è utile per valutarne l’equità distributiva. Ma è comunque interessante, perché misura il peso relativo del pubblico rispetto al privato nell’economia delle diverse regioni. Al Sud è molto più alto; è più alto anche rispetto a moltissime altre regioni europee. La causa è facile da comprendere. Al Sud non è il settore pubblico ad essere troppo grande, rispetto ai servizi che deve fornire ai suoi cittadini. È il settore privato ad essere troppo piccolo, sia rispetto alle necessità di lavoro, sia per determinare una composizione dell’economia più equilibrata. Ci si può chiedere: è l’ampia dimensione relativa del settore pubblico ad aver determinato la ridotta dimensione del settore privato? Non è facile rispondere a questa domanda, ma posso-

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no esserci stati ed esserci alcuni effetti negativi. Questo squilibrio può condizionare le scelte formative (tipo di scuola superiore e di laurea più adatta alle possibilità di impiego che si intravedono); influenzare i comportamenti sul mercato del lavoro (attesa di opportunità nel pubblico); condizionare una parte delle attività imprenditoriali, che possono orientarsi più verso la domanda pubblica o verso ambiti regolati (come l’edilizia, influenzata dalle scelte urbanistiche, o le attività in concessione) che verso mercati concorrenziali. Una trappola del sottosviluppo: quando il settore privato è troppo piccolo si crea­no minori opportunità per il suo sviluppo. In un’area fortemente industrializzata nasce un’offerta di terziario avanzato per le imprese; dove le imprese industriali non ci sono, il terziario si rivolge più facilmente verso la domanda pubblica. Sono scelte razionali, commisurate alla realtà. La storia, tuttavia, mostra che al mutare della realtà e delle opportunità – al Sud come ovunque nel mondo – mutano i comportamenti: nel Mezzogiorno vi sono stati fenomeni di esplosione di imprenditorialità di mercato, nei periodi storici e nelle aree in cui si sono registrate opportunità di sviluppo industriale o del terziario di mercato, ad esempio turistico. È impressionante l’aumento degli studenti universitari e dei laureati in discipline scientifiche nelle aree del Sud dove c’è industria ad alta tecnologia: a Ca-

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tania o a Napoli. Allo stesso tempo, l’esistenza di aree di rendita regolate dal pubblico attira le imprese a tutte le latitudini. Ve ne sono ampie evidenze nella storia di una parte dello sviluppo capitalistico del nostro paese. Ve ne è traccia nelle vicende recenti, per la verità un po’ tristi, di grandi gruppi imprenditoriali italiani che hanno ridotto le proprie attività sui mercati internazionali e si sono concentrati su più comode attività regolate. I «capitani coraggiosi» che, su invito di Berlusconi, hanno acquistato le quote della nuova Alitalia (libere dai debiti, circa 3 miliardi, posti a carico della collettività) hanno chiesto, e ottenuto, una cosa semplice: che sulla rotta Milano-Roma non ci fosse concorrenza. L’intenso squilibrio tra pubblico e privato ha comunque avuto al Sud conseguenze importanti. Il possibile effetto di spiazzamento del settore privato si è certamente ridotto nell’ultimo ventennio, con il rallentare della crescita della spesa pubblica nell’intero paese; e ancor più con la crisi degli ultimi anni della finanza pubblica. Ma ha determinato un ruolo troppo rilevante di chi ha il potere di allocare la spesa all’interno delle comunità locali. Il potere di decidere può essere esercitato più per favorire il consenso personale, o di partito, che per promuovere il benessere delle comunità, causando significative distorsioni nei comportamenti collettivi e rendendo più difficile lo sviluppo di impresa privata. Ne parleremo più avanti.

6. L’assistenzialismo è la vera piaga del Sud

La verità è che gran parte della spesa che si fa al Sud non è finalizzata al miglioramento della qualità della vita dei suoi cittadini o alla cre­ scita economica, ma ha fini prettamente assi­ stenziali. Governo centrale, regioni, comuni la­ vorano e spendono più per sostenere il reddito e i consumi dei meridionali che per farli crescere, più per ottenere il consenso di quanti votano oggi che per migliorare le condizioni in futuro. L’assistenzialismo è la vera piaga del Sud. L’assistenza sociale è una cosa seria. In Europa ha una storia lunga. Nasce con lo sviluppo industriale di fine Ottocento per preservare salute e capacità di produrre dei lavoratori, per garantirsene il consenso ed evitare sommovimenti sociali, per creare società in grado di includere meglio, nella vita collettiva, tutti i cittadini. Segue strade diverse: fra il modello britannico più

6. l’assistenzialismo è la vera piaga del sud

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universalista e quello tedesco più centrato sui produttori; fra le realtà scandinave connotate da reti di servizi e di intervento di alta qualità e le realtà mediterranee più centrate sulle erogazioni monetarie. In ogni caso connota fortemente il modello sociale europeo; ne rappresenta un punto di forza rispetto agli Stati Uniti. Anche il welfare italiano ha una storia lunga. La scelta di fondo, definitivamente consacrata nell’Italia repubblicana, è quella di mirare in misura prevalente a difendere e tutelare i lavoratori. Ad assicurare in modo particolare il rischio di povertà e di difficoltà in età anziana, attraverso le pensioni. Un modello che si adatta alla tradizionale famiglia italiana: con un lavoratore maschio il cui reddito, e la cui pensione, serve all’intero nucleo. Un modello con pregi e difetti. Che si è rivelato estremamente costoso nel tempo, con la necessità di intervenire più volte sulle regole pensionistiche. Soprattutto un modello che tutela assai meno altri rilevanti rischi sociali: quello di non avere mai trovato un lavoro, quello di essere poveri, di non avere casa; e che quindi tutela in misura minore donne, bambini, giovani. Posta pari a 100 la spesa pro capite per le diverse prestazioni di protezione sociale nell’Unione Europea, quella italiana è 140 per il rischio «vecchiaia», ma solo 40 per il rischio «disoccupazione»; 61 per la famiglia e 4 per l’abitazione. Dato lo sviluppo italiano, ciò ha avuto impor-

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tanti effetti di natura territoriale: la tutela sociale è stata ed è in Italia più forte dove il benessere è maggiore. Già nell’Ottocento l’assistenza sociale era assai più diffusa al Nord, grazie alla presenza di Opere Pie e strutture comunali. Poi, con l’affermarsi del modello di welfare nazionale, si difendono molto più i lavoratori dell’industria che quelli dell’agricoltura; quelli che arrivano all’età anziana dopo un rapporto di lavoro continuativo. Già nell’immediato secondo dopoguerra l’effetto è evidente: il Mezzogiorno ha il 37% della popolazione italiana, ma solo il 24% delle pensioni di vecchiaia. Il quadro delle disparità geografiche non cambia se si guardano altri aspetti delle tutele sociali: a parità di malattie, la possibilità di essere ricoverati in ospedale e curati è al Sud, nel 1951, la metà che nel resto d’Italia; le spese per l’assistenza sociale delle amministrazioni comunali meno della metà. Da allora parte una rincorsa, profondamente condivisa fra le grandi forze politiche italiane, a estendere e rafforzare i servizi pubblici. Con effetti ambivalenti. L’Italia diviene in pochi decenni un paese assai più civile, più vicino alle realtà degli altri grandi Stati europei; è fra i primi a varare un Servizio sanitario nazionale; migliora nettamente la sua posizione relativa negli indici di sviluppo umano. Anche per questo, è oggi uno dei paesi al mondo in cui si vive meglio e più a lungo; con uno dei più efficaci sistemi sanitari. La vita media è ormai quasi la stessa in tutte le regio-

6. l’assistenzialismo è la vera piaga del sud

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ni. Tuttavia questa rincorsa è ricca di problemi e di errori, anche gravi. Mantiene vecchie iniquità e ne crea di nuove. Disegna sistemi con grandi sacche di inefficienza; si è più attenti ad assicurarsi il consenso degli elettori e di quanti ne sono beneficiati nel breve periodo, che a garantire la sostenibilità nel tempo di questi sistemi. La tutela pensionistica resta il perno del modello. E con questa scelta le disparità territoriali restano forti (anche se un po’ ridotte dall’impiego pubblico), con una spesa corrente per previdenza e assistenza pro capite sempre molto superiore al Nord rispetto al Sud. Diventa particolarmente generoso il sistema delle pensioni di anzianità, legate alla maturazione dell’assegno dopo un periodo prefissato di lavoro, indipendentemente dall’età: la loro sperequazione territoriale è ancora più forte; il loro impatto finanziario sulla sostenibilità del welfare italiano è grave, in un periodo in cui la vita media si allunga. È evidente però, nell’Italia che sta accrescendo fortemente il proprio benessere, che restano esclusi gruppi di cittadini: quanti hanno lavorato poco, o in agricoltura, o nel sommerso, senza una posizione contributiva chiara, arrivano all’età anziana con poche tutele, in particolare al Sud. A questo rilevante problema di equità sociale si fa fronte nel peggiore dei modi. Non si disegnano nuove diverse tutele universalistiche, automatiche, trasparenti, garantite. Si fa invece un

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uso distorto delle pensioni di invalidità. Vengono concesse con grande larghezza, anche a tanti che non ne hanno i requisiti. Ma su base individuale, uno alla volta; come un favore e non come un diritto. Di importo limitato, molto più basso di quelle di vecchiaia e di anzianità, e con un impatto complessivo sul sistema assai minore, le pensioni d’invalidità sono una mancia concessa dal potente compassionevole o interessato al consenso. E del tutto simile è il quadro dei piccoli sussidi legati alla disoccupazione agricola. Un welfare straccione supplementare, assai più presente nel Mezzogiorno, e nell’Italia dei centri minori, collinari e montani. Un welfare che lega un beneficio a un favore. Per questo, la progressiva riduzione avvenuta in tempi recenti delle pensioni di invalidità concesse (a seguito di controlli più severi), per quanto aggravi le condizioni di gruppi familiari spesso deboli, è comunque una buona notizia. Gli interventi sul mercato del lavoro seguono una logica simile. In Italia sono cospicue le tutele per chi è a rischio di perdere un lavoro che già ha. La cassa integrazione (Cig) ordinaria copre le difficoltà transitorie; quella straordinaria – insieme alla mobilità – le difficoltà strutturali delle imprese. In passato queste tutele erano ancora più forti: a lungo si è usato largamente lo strumento dei prepensionamenti per gestire crisi aziendali, con un costo molto rilevante per le casse dello Stato. Ma per goderne bisogna essere occupati.

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Mancano strumenti e interventi per chi, pur cercando un lavoro continuativo e regolare, non riesce a trovarlo. Per chi resta a lungo disoccupato, o impigliato in lavori precari, c’è ben poco. Inutile dire che la copertura geografica di questi interventi è stata ed è significativamente squilibrata a sfavore delle aree meridionali, dove i tassi di occupazione – dal grande esodo dall’agricoltura in poi – sono più bassi. E dove, per il vasto mondo degli esclusi, si aprono facilmente solo le porte del lavoro irregolare, sommerso, con ben poche tutele sul presente e sul futuro. Anche con la crisi economica, il principale intervento sociale messo in campo è stata la Cig, estesa in «deroga»: nessuna sorpresa se la recessione ha colpito in modo particolare i giovani che avevano trovato lavori precari. Il nostro modello assistenziale sta creando, oltre a quello territoriale, un’altra grande frattura: quella fra giovani e anziani. Nel dopoguerra, in particolare dopo la costituzione del Servizio sanitario nazionale (1978), la sanità nel Mezzogiorno ha recuperato molto i suoi divari di dotazione rispetto alla media del paese. Un’ottima notizia, sotto il profilo dell’uguaglianza dei cittadini. Il recupero non è totale: il numero di posti letto per abitante al Sud resta inferiore. Cosa ancora più rilevante, le complessive dotazioni di macchinari e attrezzature mediche sono ancora nettamente inferiori; le strutture meridionali (pur in un quadro di grande diversità

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da caso a caso) sono meno in grado di eseguire interventi sanitari a maggiore complessità. Tuttavia il rafforzamento del sistema sanitario meridionale è stato rapido e caotico, diversamente da quanto avvenuto nel resto del paese, dove è cresciuto in maniera e misura più meditata e progressiva. Sono nati troppi ospedali, quasi come compensazione di secoli di carenze di strutture, con effetti negativi sull’efficienza del sistema e sulla qualità stessa dei trattamenti. In molti casi la loro organizzazione non è ottimale: stando a quanto i cittadini insoddisfatti raccontano all’Istat, più per le modalità di accesso (liste d’attesa) e i servizi che per gli aspetti medici. Si sono costruiti tanti ospedali per curare e poche strutture territoriali per prevenire. Così, molti ricoveri sono impropri, per patologie curabili anche altrimenti. L’esito è negativo: minor capacità di tutelare la salute; deficit nei conti sanitari regionali; migrazioni di malati. Il primo è un problema dei meridionali, che godono di un diritto alla salute più sfumato e incerto rispetto agli altri italiani. Il secondo è un problema di tutti, dato che gli squilibri delle regioni in deficit sanitario sono stati posti a lungo a carico della fiscalità generale. Fortunatamente da oltre dieci anni è in corso l’attuazione di piani di rientro che li hanno significativamente ridotti. Il terzo fenomeno aggrava i conti delle regioni da dove «emigrano» i malati, mentre fornisce un beneficio a quelle

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che li accolgono: queste addebitano i costi delle cure alle regioni di origine, sfruttano meglio le proprie strutture, «esportano» servizi sanitari. Deboli sono i servizi prettamente assistenziali e di contrasto alla povertà. L’Italia non ha, a differenza degli altri paesi europei, schemi nazionali di contrasto alla povertà. Si interviene più intensamente contro la povertà dove essa è minore: al Centro-Nord sono più rilevanti le iniziative private e di comunità e gli interventi delle Fondazioni di origine bancaria; le amministrazioni comunali dispongono di risorse superiori a fronte di una platea di possibili beneficiari più piccola. Dopo il taglio radicale effettuato nel 2009-11 da Giulio Tremonti delle modeste risorse nazionali che andavano a regioni e comuni per le politiche assistenziali, il problema è esclusivamente nelle deboli mani locali. Infine l’Italia non ha, sempre a differenza di quasi tutti gli altri partner europei, programmi di intervento a favore della maternità e delle famiglie numerose, con figli piccoli: e non a caso è uno dei paesi al mondo con la minore fertilità. Tutto ricade sulle famiglie, e in particolare sulle donne. Statisticamente, le donne meridionali lavorano pochissimo. Nella realtà hanno carichi fra i più forti: al lavoro domestico non retribuito si affianca la cura dei bambini e degli anziani, anch’essa non retribuita; in una situazione di estrema debolezza, senza servizi e tutele pensionistiche.

7. Un euro al Sud produce molto meno che nel resto del paese

Non ci siamo. La colpa sarebbe sempre degli al­ tri, delle regole e delle politiche nazionali? Non è così. Le regole sono le stesse in tutto il paese, ma al Sud funzionano molto peggio. Un euro speso al Sud produce molto meno che nel resto del pae­ se. È perché si spreca; non si sa spendere; si fa clientelismo. Restiamo ancora su questi temi. Sono fondamentali, per l’Italia e per il Sud. L’Italia ha davanti a sé scelte molto difficili. Ha sulle spalle un debito pubblico molto alto, con una dinamica dell’economia già assai modesta prima della crisi, e pessima durante; le vicende europee non garantiscono più – come abbiamo visto a nostre spese – tassi di interesse contenuti. La pressione fiscale è molto alta, specie sul lavoro e sulle imprese. Va rivista la spesa pubblica corrente. Ma semplici tagli lineari, come già av-

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venuto con i governi Berlusconi, si traducono in una riduzione netta dei servizi disponibili per i cittadini; accrescono disagi e iniquità. Sul tema è in corso uno scontro acceso. Settori della politica, dell’economia e del giornalismo d’opinione italiani hanno abbracciato – anche se con uno storico ritardo rispetto al mondo anglosassone – posizioni estreme: meno Stato c’è, meglio è per tutti. Alcuni con un afflato quasi religioso. Tagliare la spesa assume una duplice valenza: contribuisce al necessario risanamento delle finanze dello Stato e riduce strutturalmente il perimetro dell’azione pubblica. Una vendetta postuma sugli anni Settanta, sul Servizio sanitario nazionale, sulla scuola di massa. C’è, naturalmente, un’altra strada: ridisegnare intelligentemente l’azione pubblica, rendendola al tempo stesso più efficiente (cioè in grado di assorbire meno risorse) ma anche più efficace (ciò maggiormente in grado di fornire servizi ai cittadini). Strada impervia, sia da realizzare che da comunicare: è molto più semplice usare l’accetta che il bisturi; è molto più facile gridare – in un paese spaventato – contro dimensioni e sprechi del settore pubblico che ragionare sul come cambiarlo progressivamente. Ma non si sfugge dai numeri: l’Italia non ha una spesa pubblica maggiore rispetto agli altri grandi paesi europei: è la sua composizione ad essere diversa, e la sua efficacia ad essere minore.

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Questa partita si gioca per molti versi al Sud. Per alcuni il Mezzogiorno è il notorio buco nero che serve per argomentare a favore dei tagli; con un po’ di abilità si può spostarne – come si vedrà più avanti – il grosso proprio al Sud. Ma ciò che più importa è che il Mezzogiorno è la parte del paese dove i possibili recuperi di efficienza e di efficacia sono più ampi. A vantaggio dei conti pubblici, ma soprattutto a vantaggio del suo stesso sviluppo. Qualità e quantità dei servizi pubblici, e in genere dei servizi collettivi, di cui dispongono i suoi cittadini e le sue imprese sono inferiori alla media nazionale, già bassa nel quadro europeo. Questo riduce la qualità della vita dei meridionali. Ma ha effetti potenti anche sull’economia. Il tema decisivo non è – al contrario di quello che molti pensano – la quantità ma la qualità dell’azione pubblica; per far crescere le imprese e i posti di lavoro, c’è bisogno di servizi di qualità. Quantità e qualità dei servizi pubblici disponibili nelle diverse aree del paese sono stati meritoriamente studiati negli ultimi anni dalla Banca d’Italia, che ha messo a disposizione della collettività una gran mole di informazioni e di dati interessanti. Sono anche questi dati che ci consentono qualche valutazione. Un euro speso in servizi pubblici produce al Sud risultati inferiori rispetto al resto del paese? Risposta: spesso (ma non sempre) è così, l’efficienza è inferiore

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nel Mezzogiorno; anche se quasi sempre c’è una grandissima variabilità al suo interno. Questa minore efficienza dipende dal fatto che non si sa spendere, si spreca, si fa clientelismo? Solo in parte. Il quadro è molto articolato. In alcuni casi c’è un problema di efficienza: le possibilità finanziarie ci sono, ma sono utilizzate male. Questo può dipendere da una cattiva amministrazione oppure da scelte politiche esplicite, che indirizzano in modo distorto le risorse. Può dipendere da procedure più complesse, barocche. Dai tempi lunghi delle amministrazioni: per le loro modeste capacità; per il desiderio di esercitare un potere di controllo e di ricatto. In altri casi, invece, c’è un problema di contesto e di dotazioni: le risorse correnti non sono eccessive e la capacità di utilizzarle non è tanto minore; ma la scala dei problemi da affrontare è più ampia e le condizioni in cui si interviene più difficili. In altri ancora c’è invece un problema di risorse, di dimensione dell’intervento pubblico: le cose si fanno abbastanza bene, ma su una scala insufficiente. Già in precedenza si è accennato al sistema sanitario nel Mezzogiorno. È un esempio importante ed è interessante tornare un momento sul tema. Al Sud la salute dei cittadini è meno garantita; e il sistema non è in equilibrio finanziario. La spiegazione corrente è sempli-

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ce: medici incapaci, infermieri scansafatiche, burocrati incompetenti, fornitori malavitosi, politici corrotti. E invece il quadro è più complesso. Una parte del problema sta certamente nell’inefficienza dell’organizzazione del servizio – ad esempio nei sistemi di prenotazione, o nella manutenzione ordinaria delle strutture, o nelle modalità di acquisto di beni e servizi. Una parte del problema sta nella corruzione e nel malaffare, per cui molti – anche con la complicità di chi decide – lucrano sulle forniture e sugli appalti; utilizzano le strutture pubbliche a fini personali; traggono un grande vantaggio dalle debolezze della sanità pubblica per mantenere un sistema privato di analisi e cure assai profittevole. Sta nelle nomine dei vertici medici e amministrativi più per fedeltà politica che per competenze: la sanità è un grande bacino di voti. Nella criminalità organizzata: nella sanità calabrese sono documentate gravi infiltrazioni della n’drangheta. Ma certamente non si tratta solo di questo. Nelle aree dove i livelli di reddito e di istruzione sono più bassi, la domanda di sanità è più alta: ma di questo non si tiene conto nei criteri di riparto delle risorse correnti, che in Italia sono comunque minori rispetto alla media europea. Ospedali d’avanguardia e dotazioni di strumentazioni avanzate, al Sud sono nettamente inferiori. E come valutare l’importante circostanza che la sanità svolge anche un improprio ruolo di sosti-

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tuzione dell’assistenza sociale? Senza servizi di assistenza, le famiglie deboli che non riescono più a farsi carico della cura degli anziani non autosufficienti, anche non affetti da patologie gravi, non hanno altro sbocco che un’impropria, e costosa, ospedalizzazione. E, soprattutto, come spiegare che le singole realtà ospedaliere e territoriali hanno situazioni molto diverse, di capacità di cura, di efficienza del servizio, di costo? Tutto ciò dà vita ad un quadro con evidenti criticità. Basti ricordare che il ricorso al cesareo, sul totale dei parti, è in alcune aree del Sud assai più alto della media italiana e delle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, a danno della salute delle donne e delle finanze pubbliche. Una vergogna tutta meridionale. Un quadro però nel quale ogni criticità, se correttamente individuata, può trasformarsi in risparmi e in migliori servizi. Ancora un esempio. Nelle regioni del Sud la spesa farmaceutica pro capite è più alta che nella media nazionale, e questo contribuisce non poco ai deficit sanitari. Ma da che dipende? Dal fatto che vengono acquistati (o prescritti dai medici al pubblico) troppi farmaci o farmaci troppo costosi? Dal fatto che, per ignoranza, una fascia dei cittadini ne fa un uso eccessivo, ovvero ne compra troppi (tanto non li paga) e li lascia inutilizzati? Risposte corrette possono portare ad un uso migliore delle risorse disponibili.

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Guardiamo la scuola. Negli ultimi vent’anni il sistema dell’istruzione al Sud ha ottenuto risultati importantissimi: si è ridotta praticamente a zero l’evasione dell’obbligo; i tassi di frequenza delle superiori sono allineati a quelli medi nazionali, se non superiori; non c’è gap fra maschi e femmine. Eppure i livelli di apprendimento degli studenti meridionali, certificati da valutazioni scientifiche internazionali, sono più bassi rispetto al Centro-Nord. Molti ne danno una semplice spiegazione: gli insegnanti sono meno preparati, assenteisti, sfaticati; al Sud non c’è cultura del merito e quindi si regalano i voti agli studenti pur di non avere problemi con le famiglie. Anche in questo caso la situazione non è così banale come viene descritta. Ci sono, ancora, problemi di dotazioni: gli studenti del Sud frequentano istituti con carenze strutturali più rilevanti che nella media del paese (aule adattate, impianti, palestre), anche se negli ultimi anni sono aumentate le dotazioni informatiche. Al tempo stesso ci sono problemi di organizzazione: al Sud ci sono differenze maggiori fra i risultati negli apprendimenti di classi diverse all’interno delle stesse scuole: un possibile indizio di criteri sbagliati nella loro formazione. Ma, soprattutto, al Sud è molto forte l’effetto dall’ambiente sociale e culturale di provenienza: quando si vive in case dove non circolano libri, o quando i genitori hanno una istruzione ele-

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mentare, per i ragazzi è più difficile apprendere. Non a caso il numero di studenti che ripetono l’anno è maggiore (a proposito di valutazioni di favore). C’è una disponibilità di risorse correnti inferiore. La spesa pubblica totale per studente sfiora i 10.000 euro in Trentino Alto Adige, è sopra i 6.500 nelle grandi regioni del Nord, ma è 6.150 in Campania e 5.800 in Puglia; così i servizi di trasporto sono più limitati, la percentuale di classi a tempo pieno o prolungato è assai inferiore. Al Sud si spende peggio? La Fondazione Agnelli ha calcolato l’efficacia media della spesa scolastica per regione, cioè quanto costa imparare: il rapporto fra la spesa pro capite e i livelli di apprendimento degli studenti misurati dai test internazionali. Le regioni italiane più «efficienti» sono Veneto e Puglia; quelle meno «efficienti» Sardegna e Trentino-Alto Adige. La valutazione di efficienza e di efficacia delle politiche pubbliche è una cosa molto seria, difficile. Ma indispensabile per capire dove e come intervenire. Indispensabile per spingere le diverse amministrazioni a migliorare, anche attraverso un accorto uso di premi e sanzioni. La vera spending review che serve all’Italia. La pagina della valutazione, e quindi dell’attento ridisegno delle politiche, è in Italia in gran parte ancora da scrivere. Abbiamo avuto alcune esperienze assolutamente infelici, come quella delle valutazioni del sistema universitario, che

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pure hanno comportato la riallocazione di somme ingenti. I criteri con cui le università italiane sono state misurate sono stati resi noti dopo il periodo oggetto di valutazione; che quindi non ha avuto alcun effetto sui comportamenti, dato che non era chiaro in base a quali criteri veniva definita la «virtù». I criteri sono stati stabiliti dopo che erano disponibili i dati: chi valutava ha avuto quindi tutte le possibilità di precostituire un risultato desiderato (chi è più virtuoso e quindi ottiene più risorse) prima di motivarlo con gli indicatori. Questo è un punto chiave: definire il merito, la virtù. Forse un tempo si è troppo ecceduto nel considerare decisivi i condizionamenti ambientali sui risultati degli individui; certamente nell’Italia berlusconiana il pendolo è andato troppo nella direzione opposta. Chi è ricco è bravo, anche se è il rampollo di una famiglia di imprenditori che ha dilapidato il patrimonio; anche se vive di rendita. Chi è povero lo è per colpa sua. Una valutazione si può fare in assoluto: dove funziona meglio che cosa. Ma è assai più utile fatta in termini relativi: dove funziona meglio che cosa, alla luce delle risorse utilizzate. Merito non significa che chi è più avanti è più bravo, se i punti di partenza non sono uguali. Il più bravo è chi, per dove opera e per le risorse che ha a disposizione, raggiunge i risultati migliori.

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Un insegnante di un liceo milanese frequentato dai figli della borghesia più agiata ha studenti che raggiungono risultati elevati, ma non è necessariamente più bravo di un insegnante che nell’hinterland napoletano lotta giorno dopo giorno per dare una formazione decente ai suoi ragazzi. Tutto questo rende più difficili, ma più oneste e utili le valutazioni. Se si scende sul terreno scomodo dei numeri, delle analisi, della real­tà, si possono fare molti passi in avanti.

8. È il Nord che lavora che mantiene il Sud parassita

C’è un problema di fondo. I soldi che si spendono al Sud non sono dei meridionali. Sono presi dal­ le tasche dell’Italia che lavora e che produce. È il Nord che lavora che mantiene il Sud parassita. Questo è ingiusto. Ed è ormai insopportabile. È questa la vera riforma che serve all’Italia. Il leghismo è penetrato progressivamente nel corpo della società italiana e l’ha progressivamente avvelenata. Ha ottenuto significative affermazioni politiche e culturali. A differenza di quanto è avvenuto in altri pae­si europei, dove i movimenti estremisti sono stati tenuti fuori dalla contesa politica fra i grandi schieramenti (a cominciare dalla Francia con Le Pen), il centrodestra italiano sin dall’inizio si è coalizzato con la Lega. Che così ha governato a lungo l’Italia, condizionando con abilità le decisioni politiche che venivano prese. Nello schie-

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ramento di centrodestra, in tanti hanno tentato di convincere prima se stessi e poi gli elettori che i leghisti erano, in fondo, brava gente con cui si poteva collaborare, votando poi qualsiasi provvedimento: certo, Bossi è un po’ cattivo ma Berlusconi è buono e lo controlla. Allo stesso tempo, a lungo, nello schieramento di centrosinistra, in tanti, timorosi di perdere consensi nell’elettorato del Nord hanno evitato di contrastare troppo apertamente la Lega: è Berlusconi che è molto cattivo, ma Bossi in fondo è anche un po’ buono. Anche per questo una parte dell’elettorato del Nord ha abbandonato il centrosinistra: non si coglievano più bene le differenze. Il leghismo è riuscito a ravvivare antiche contrapposizioni territoriali interne al paese, sentimenti anti-meridionali mai sopiti. Ha scommesso sull’idea che si potesse entrare nel gioco politico prendendo apertamente le parti di alcuni territori contro gli altri. Ha giocato sulla paura del declino economico, proponendo una ricetta semplice e chiara: tenersi i propri soldi. In certa misura, ha vinto. Per vent’anni sono state rarissime le prese di posizione apertamente critiche; le tesi leghiste sono ospitate senza problemi sulla grande stampa, diffuse nei salotti, riprese da tanti intellettuali. Spesso confondendo il malessere che era alla base del successo leghista, che merita attenzione, con le risposte che esso forniva. Le sono stati perdonati con estrema facilità

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tutti gli eccessi verbali e di comportamento, così noti da non doverli neanche richiamare. Si sa com’è il Bossi, esagera sempre; ma in fondo un po’ di ragione ce l’ha. E così l’Italia è diventata, anche per questo, un paese peggiore. Il leghismo non ha avvelenato l’Italia perché è del Nord. Ma perché ha proposto con successo l’analisi e la risposta peggiore alle sue difficoltà strutturali. La colpa è degli altri. Dei diversi da noi, dei negri, degli immigrati, dei meridionali. La soluzione è rinserrarci sempre più nelle nostre comunità, difendere i nostri valori, tenerci i nostri soldi. Il grande tema non è la crescita, ma la redistribuzione; non è come far aumentare le dimensioni della torta, come creare più occasioni di sviluppo per tutti, con mutuo vantaggio; ma come creare più occasioni per noi, dividendo diversamente la torta. Purtroppo, non è un fenomeno isolato: in Europa, negli ultimi anni, si sono moltiplicati gruppi e partiti largamente assimilabili alla Lega; si sono moltiplicati i terreni di confronto redistributivo fra territori. Finché, con la crisi del debito sovrano, non sono emersi segni di una contrapposizione più ampia, fra il Nord e il Sud dell’Europa. Cosa di estremo interesse, i termini del contendere sono assai simili a quelli che abbiamo conosciuto in Italia: come difendere il proprio benessere in un periodo di crisi anche a spese degli altri; come tenersi i vantaggi dell’in-

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tegrazione riducendo i costi dei meccanismi di solidarietà; come trarre vantaggio dall’esistenza di un Sud meno avanzato senza sopportarne i costi. Il leghismo ha avvelenato l’Italia, così come i nuovi egoismi stanno avvelenando l’Europa, perché ha convinto tanti che l’economia è un gioco a somma zero: se qualcuno vince, qualcuno perde; e tutto sta ad essere quelli che vincono. L’esatto opposto dei principi che nel dopoguerra hanno portato a costruire l’Europa, e ne hanno determinato uno straordinario sviluppo: l’economia europea come un gioco a somma positiva, nel quale se l’altro si sviluppa per me è un bene, non un male. È dalla visione dell’economia come un gioco a somma zero che nasce l’idea dei «soldi del Nord». Come accade in molti paesi del mondo, in base alla nostra Costituzione (art. 53), «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». I cittadini, cioè, pagano le tasse in base alla propria condizione economica e indipendentemente da altre circostanze. Al contrario, tutti i cittadini, indipendentemente dalla propria condizione economica, hanno uguali diritti sociali. La Costituzione italiana postula quindi il principio che l’azione pubblica abbia anche una funziona redistributiva fra i cittadini: i più ric-

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chi contribuiscono di più, finanziando anche in parte il costo dell’istruzione, della sanità, dell’assistenza per i più poveri. La redistribuzione è fra cittadini; non c’entrano nulla i territori. Le tasse pagate dai cittadini a maggior reddito del Nord finanziano i servizi pubblici per i cittadini meno abbienti del Sud, ma vale anche il contrario. Anzi, i cittadini a maggior reddito del Sud pagano le tasse come quelli del Nord, ma come si è visto beneficiano di servizi pubblici minori in quantità e in qualità. Ma questo non è vero! Tutti sanno che il Sud è il regno dell’evasione fiscale! E poi al Sud, anche chi non evade, paga meno di tasse. Entrambe le affermazioni sono verosimili ma false. L’evasione fiscale è una drammatica realtà del nostro paese, che distorce il prelievo e fa sì che esso risulti più alto per i cittadini onesti. Provoca anch’essa una redistribuzione, ma dagli onesti ai disonesti; e mette a serio rischio il principio costituzionale della progressività dell’imposta. I dati sull’evasione fiscale per definizione sono stime, ma forniscono indicazioni chiare: l’evasione è un fenomeno fortemente diffuso in tutto il paese. Al Sud c’è certamente una maggiore evasione contributiva, dato che è molto più ampio il lavoro nero e sommerso. Ma al Centro-Nord, e in particolare al Nord, l’evasione fiscale ha dimensione maggiore. Non ci sono dati certi; ma ad esempio colpisce che il

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gettito fiscale raccolto in Veneto sia una percentuale del reddito regionale inferiore rispetto a Puglia e Campania, pur essendo il reddito pro capite quasi il doppio. La pressione fiscale nazionale è identica in tutto il paese; ad essa si somma, con una importanza crescente, una pressione fiscale regionale, provinciale e comunale, fatta sia di tributi propri che di addizionali sui tributi nazionali. Il quadro è molto diverso da caso a caso, ma la componente «locale» della tassazione non è inferiore al Sud, anzi in molti casi è superiore. Torniamo al ragionamento principale, per incrociare il mantra n. 1 della predicazione leghista dell’ultimo ventennio. Se la Padania fosse indipendente, potrebbe trattenere tutto il gettito fiscale dei suoi citta­ dini all’interno dei propri confini, e utilizzarlo tutto per servizi ai suoi cittadini, o per ridurre le tasse. Predicazione lontana da grandi ideali, ma attenta all’interesse di chi vota; sostienici e ti faremo guadagnare: pagherai meno tasse. Una fetta più grande della torta: a danno degli «altri». Si torna al tema dei confini, di cui ci siamo già occupati. Se non esistesse l’Italia o se l’Italia si frantumasse, tutto sarebbe diverso (possibilità incidentalmente non prevista dalla nostra Costituzione, secondo cui la Repubblica è indivisibile). Se fosse Milano a dichiararsi indipendente

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come Singapore o come il Liechtenstein, il suo reddito pro capite e quindi il livello dei servizi per i suoi cittadini sarebbero altissimi. Si è già risposto: piaccia o no, il Nord è quel che è perché negli ultimi 150 anni ha fatto parte dell’Italia. E se si vuole farli davvero questi conti della serva, sul dare e avere delle regioni all’interno dello Stato nazionale, almeno li si facciano tutti. È vero, il totale della spesa pubblica nelle regioni del Nord è inferiore al gettito fiscale che lì si produce; questo accade certamente almeno dal secondo dopoguerra. Secondo i calcoli di Nitti, nell’Ottocento non era così. E quindi i cittadini del Nord «trasferiscono» ai cittadini del resto del paese (non solo del Sud, ma anche di alcune regioni del Centro) un «residuo fiscale» notevole, di circa 55 miliardi. L’effetto territoriale dell’azione pubblica è notevole, considerate le sensibili disparità di reddito medio regionale esistenti in Italia: al Sud ci sono molti più poveri che al Nord. Ma non è certamente eccezionale. L’effetto è significativo in tutti i pae­si, anche negli Stati Uniti. Il «trasferimento» fra regioni è dello stesso ordine di grandezza di quello che si verifica in Spagna; inferiore a quello che si determina in Germania. Che ne fanno i cittadini del Sud di questo trasferimento? Comprano beni e servizi dal Nord. Il Sud «importa» dall’esterno (al netto di quanto esporta) beni e servizi per oltre 70 miliardi, una cifra superiore

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a quella dei «trasferimenti». Si potrebbero poi considerare altri elementi, come le migrazioni di giovani qualificati da Sud a Nord: le famiglie di origine sopportano tutti i costi e le imprese di destinazione godono di tutti i vantaggi dell’avere capitale umano qualificato. Mettiamola sul ridere: se davvero si costruisse il «muro di Ancona» evocato anni fa in televisione da un comico, l’effetto negativo sarebbe molto forte sia per gli uni che per gli altri: i primi senza «trasferimenti», i secondi senza «esportazioni». Ma il discorso è assai più serio. Non a caso questi conti della serva del dare e dell’avere risuonano anche in Europa, quando gli Stati membri dell’UE fanno il calcolo dei loro saldi netti, cioè della differenza fra quanto versano al piccolo bilancio dell’Unione Europea e quanto ricevono dalle politiche di spesa dell’Unione. Una contabilità meschina. Come se, per la Germania, il vantaggio dell’Unione Europea fosse negli euro che vengono spesi dai fondi strutturali nei Länder dell’Est e non nelle enormi vendite della Wolkswagen in tutt’Europa, favorite dall’euro e dal mercato unico; o dalla capacità – negli anni della crisi del debito sovrano – di finanziarsi a tassi di interesse reali negativi. La mitica secessione evocata da Bossi è sempre apparsa difficile. Non fosse altro perché non vi è mai stata neppure lontanamente al Nord, neanche in Veneto e Lombardia, una maggio-

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ranza favorevole. Ha sempre parlato a nome del Nord chi ha raccolto percentuali significative, ma nettamente minoritarie, dei suoi voti. Forse perché in pochi glielo hanno fatto notare. Agitare scompostamente lo spauracchio della secessione, utilizzare il tricolore come carta igienica e verificare quanto modeste siano state le reazioni di protesta, è stato però molto utile per raggiungere risultati concreti. Il federalismo fiscale. Il ragionamento è semplice. Tasse e spese a livello nazionale funzionano come si è detto; è normale: al di là della propaganda c’è ben poco da fare. Ma se si spostano importanti funzioni a livello regionale, il discorso si riapre. Come si finanziano le regioni? Un’ipotesi è che sia lo Stato centrale a trasferire interamente le risorse necessarie; ma un’altra ipotesi è che possano essere le regioni a prelevare e utilizzare direttamente una parte del gettito fiscale all’interno dei propri confini per finanziare le funzioni di cui devono occuparsi. Qualsiasi sistema di federalismo fiscale al mondo prevede però dei meccanismi perequativi, che compensano le regioni più povere per il fatto che il loro gettito è più basso; altrimenti sarebbe come una secessione. Ma il ragionamento si inverte, politicamente e in parte anche tecnicamente: sono le regioni ricche che incassano i «propri» soldi, e poi ne trasferiscono una parte a quelle meno ricche. Non è più questione di diritti dei cittadini su base na-

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zionale, ma di flussi fra regioni. Dipende tutto da quali funzioni vengono trasferite, da quanta parte del gettito fiscale rimane in ogni territorio, da quali meccanismi perequativi vengono messi in atto. Non a caso in Germania e in Spagna la discussione su questi meccanismi è permanente e molto accesa. In Italia sono stati fatti molti passi in questa direzione. La regionalizzazione dei sistemi sanitari è più antica: lì è il governo centrale che ripartisce fra le regioni un fondo nazionale predefinito, con criteri da sempre oggetto di polemiche. Nel 2001, la riforma costituzionale votata dal centrosinistra, in un disperato e inutile tentativo di recupero elettorale, ha spostato competenze molto importanti verso le regioni (nuovo articolo 117) e ha fissato i principi generali dei meccanismi di finanziamento (nuovo articolo 119). Nel 2006 non ha avuto successo un’ulteriore proposta di riforma costituzionale, questa volta del centrodestra, di ancora più accentuata «devolution» di poteri e risorse; è stata respinta con referendum dalla maggioranza (61%) degli italiani, anche al Nord (tranne Lombardia e Veneto). Poi, con l’ultima legislatura Berlusconi, è partita la legge Calderoli di attuazione della riforma del 2001. E lì si è arrivati ai temi concreti. La materia è intricatissima da un punto di vista tecnico, ma non impossibile da inquadrare nelle sue linee generali. Un certo decentra-

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mento di funzioni ai livelli regionali e locali è opportuno. Al contrario dello slogan sostenuto a lungo da moltissimi in Italia (più si decentra, meglio è), in alcuni casi è bene decentrare, in altri no. Non sarebbe male rivedere un po’ il nuovo articolo 117 della Costituzione. Se c’è decentramento di poteri, bisogna che ci sia chiarezza sulle risorse necessarie per esercitarli e piena responsabilità locale nel loro utilizzo. In Italia è certamente positivo superare il sistema per cui ciascuno riceve da Roma quanto ha tradizionalmente avuto (la spesa storica); anche perché, come si è accennato, è ricco di iniquità. Così come è bene evitare che lo Stato centrale comunque ripiani gli eventuali debiti di regioni e comuni. Molti debiti si sono creati nella sanità e negli enti locali del Mezzogiorno: l’avversione dell’opinione pubblica nazionale per questo implicito diritto di spendere senza vincoli di bilancio appare pienamente giustificata. Ma la domanda da un milione di dollari è: come stabilire quale è la somma giusta che ciascuna regione o comune deve avere a disposizione per i servizi che svolge? La risposta non è automatica: tutto dipende da dove si vuole arrivare. Per i Bossi e i Tremonti l’obiettivo è quello di diminuire la funzione perequativa fra individui che lo Stato svolge e ripartire diversamente le risorse disponibili: meno al Sud più al Nord, meno ai più poveri e di più ai più ricchi. Non è difficile da ottenere. Si

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fa così. Bisogna fissare ad un livello molto basso i servizi che devono comunque essere garantiti a tutti i cittadini italiani; contemporaneamente lasciare sul territorio, a comuni e regioni, una quota significativa del gettito fiscale del loro territorio. Che accade così? Tutte le regioni e tutti i comuni hanno a disposizione denari sufficienti per soddisfare i livelli minimi garantiti e non c’è bisogno di fondi di perequazione fra territori. Ma alle regioni e ai comuni più ricchi rimangono cospicue risorse. Sono, finalmente, tutte loro. Possono ridurre i tributi di propria competenza, oppure fornire servizi aggiuntivi (migliore sanità, tempo pieno scolastico, trasporti locali, vigili urbani…), oppure fare entrambe le cose. Per chi ha invece un altro obiettivo, quello di avere servizi efficienti e amministrazioni responsabili in tutto il paese, la strada è diversa. Bisogna costruire quattro misure: i costi di ogni servizio (per misurare l’efficienza), i servizi necessari in ogni territorio (per misurarne il bisogno), gli obiettivi di servizio (per misurarne la qualità), la perequazione infrastrutturale (perché costi e qualità dei servizi dipendono dalle strutture a disposizione). Difficile, ma non impossibile. D’altra parte, società avanzate come quella italiana non si governano con colpi d’accetta, tagli lineari, o misure semplici «all’americana», come alcuni suggeriscono. Sarebbe certamente un percorso lungo, da seguire con

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pazienza. Ma da cui potrebbe venire fuori un’Italia che può ottenere significativi recuperi di efficienza (risparmi) e efficacia (soddisfazione). E questi recuperi possono essere mediamente più ampi nelle regioni del Sud, a vantaggio dell’intero paese.

9. Le classi dirigenti del Sud sono inette, incapaci, corrotte

Impossibile. Con questi ragionamenti compli­ cati si finge di ignorare un dato di fondo: che le classi dirigenti del Sud sono inette, incapaci, corrotte. Clientelari: e quindi disinteressate a migliorare i servizi per tutti, e invece interessa­ te solo a elargire favori e piaceri, per averne in cambio voti e perpetuare il proprio potere. La politica è il problema del Sud. Meno soldi e me­ no poteri si consegnano a queste classi dirigenti, meglio è. Anche per i meridionali. Qui entriamo su un terreno scivoloso. Lasciamo i numeri dell’economia e entriamo in un ambito nel quale contano di più le ricostruzioni storiche, le valutazioni qualitative, i giudizi di valore. Dall’Unità ad oggi, il Mezzogiorno ha certamente avuto rilevanti problemi di classi dirigenti. Nei primi decenni della sua storia unitaria sono tanti i racconti di latifondisti sfrut-

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tatori e di piccolo-borghesi truffatori, di politici trasformisti e gattopardi, contro cui si alzavano le possenti voci di Guido Dorso o di Gaetano Salvemini. A volerli leggere, però, ci sono anche tanti racconti di sindaci capaci e volenterosi, che costruivano scuole, organizzavano servizi, promuovevano l’economia, da don Sturzo a Tommaso Fiore. Tempi lontani, ma nei quali la storia italiana è stata segnata anche dalle classi dirigenti meridionali: dai Beneduce e dai Menichella. Tanto malgoverno c’è anche nel dopoguerra, nel clientelismo laurino, nel saccheggio edilizio delle città meridionali. Anche se gran parte delle scelte rilevanti per il Sud sono nelle mani di classi dirigenti nazionali: nella Cassa per il Mezzogiorno, in parlamento e nel governo. Anche in questi casi ci sono state vicende assai diverse, nel tempo e nei luoghi. Ma certamente al Sud si è determinata un’altra classica trappola del sottosviluppo. Compressa durante il periodo fascista in una ruolo esclusivamente rurale, che ne ha tarpato le possibilità di trasformazione, la società meridionale nel secondo dopoguerra ha espresso tutta insieme una richiesta di milioni e milioni di posti di lavoro che sostituissero la grama sottoccupazione agricola. Questa enorme offerta di lavoro in parte si è tradotta in ingenti flussi emigratori; in parte è stata soddisfatta, fortunatamente, dall’espansione del settore industriale e del ter-

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ziario di mercato. Ma l’insufficiente sviluppo dell’economia di mercato ha causato un’ampia e persistente disoccupazione, senza un welfare universalistico che potesse ridurne gli impatti sociali. Così in parte si è riversata sulla politica. E l’azione del settore pubblico, nazionale e locale, si è orientata anche verso interventi che potessero fornire una risposta nel breve periodo a questa forte domanda sociale. Il «mercato politico» ne è stato condizionato, favorendo i mediatori di risorse maggiormente in grado di fornire queste risposte. Particolaristiche più che universalistiche. Questo è avvenuto soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, quando il ridursi delle speranze di una rapida crescita dell’occupazione e la fine delle migrazioni di massa (per la relativa carenza di domanda di lavoro al Nord e in Europa) hanno accentuato le pressioni. Con la fine della Prima Repubblica sono arrivate alcune sorprese. Il voto al Sud è divenuto più volatile. Soprattutto nelle maggiori città, sono emerse nuove classi dirigenti; una leva di sindaci onesti e capaci che hanno incarnato speranze e progetti nuovi, che hanno guidato trasformazioni urbane. La politica ha in parte cambiato volto: l’utilizzo delle primarie come strumento di selezione delle candidature alle elezioni, prima di diffondersi nel paese, è stato sperimentato in Puglia, nel 2005. Sull’onda della sollevazione civica contro un candidato

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del centrosinistra catapultato da Roma: il quale, non a caso, ha perso. Questa ondata di cambiamento si è poi affievolita. Sono tornati molti mediatori. Sindaci clientelari e incapaci. Ma questo ha avuto molto a che fare con le dinamiche sullo scenario nazionale: il dominio berlusconiano, i criteri usati dai partiti per selezionare le proprie classi dirigenti a livello locale, il loro declino. Non serve nemmeno citare i tanti scandali e le malversazioni che hanno caratterizzato l’Italia degli ultimi anni a tutte le latitudini. Basta scorrere le liste dei componenti del governo nazionale nell’ultimo periodo per rendersi conto del tremendo immiserimento delle classi dirigenti politiche nell’intero paese. Il punto non è certo sostenere, contro l’evidenza, che vi sia stato un miglioramento storico delle classi dirigenti politiche del Sud. Ma che, molto più semplicemente, a seconda delle condizioni nazionali e locali, il quadro può essere anche molto diverso. Non sono poche le esperienze positive, con risultati tangibili. Il volto di numerose città del Sud è cambiato; vi sono stati progressi in alcuni governi regionali. Ma il racconto delle vicende politiche e della capacità delle classi dirigenti locali al Sud è sempre stato particolare. Le storie positive sono sempre viste come un’eccezione che conferma la regola. I progressi realizzati casuali, o minori. Le capacità di migliorare, scarse per definizione. Un

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piccolo esempio. Nel 2010 l’autorevole «Il Sole 24 Ore» si chiede: quanto sono «migliorate» le amministrazioni regionali nel decennio precedente? A questa domanda risponde, sulla base di una approfondita analisi di più di 40 indicatori, che coprono otto ambiti, in base ai quali assegna un punteggio. Questa la classifica che ne scaturisce: Lazio 17 punti; Lombardia e Veneto 16; Trentino, Emilia, Liguria e Marche 12; Friuli e Toscana 10,5; Valle d’Aosta e Piemonte 8,5; Abruzzo 8; Basilicata e Molise 7,5; Campania 7; Umbria 6,5; Puglia e Sicilia 4; Calabria 2; Sardegna –1. Che è esattamente quello che tutti i lettori si aspettano: le regioni del Nord diventano sempre più brave, e quelle del Sud sempre meno brave. Ma il punteggio è costruito così: per ogni ambito, 3 punti alle regioni che partono sopra la media italiana e migliorano; ma solo 1,5 punti alle regioni che partono da sotto la media e migliorano. Chissà perché chi sta peggio e migliora merita meno punti di chi sta meglio e migliora. Viene giustamente tolto un punto a chi sta sotto la media e peggiora; ma ne viene dato uno a chi sta sopra la media e peggiora. Bizzarro sistema. Ma con i dati disponibili i punteggi si possono ricalcolare, con un criterio semplice: +1 se la regione migliora; –1 se la regione peggiora. La classifica che ne scaturisce è la seguente: Lazio e Campania 4 punti; Liguria 3; Basilicata e Molise 2; Sicilia 1; Abruzzo, Puglia e Calabria 0; Trentino e Valle d’Aosta

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–1; Lombardia e Veneto –2; Friuli e Sardegna –3; Umbria, Piemonte, Toscana, Marche e Emilia –4. Nei primi dieci posti ci sono 7 delle 8 regioni del Sud. Magia: con gli stessi numeri usati nella ricerca, gli stessi indicatori e gli stessi ambiti. Daccapo: cosa dimostra questo piccolo esempio, che al Sud ci sono stati enormi progressi di cui nessuno si è accorto? No, i progressi dell’ultimo ventennio sono stati parziali e a macchia di leopardo. Vi sono stati progressi e poi vistosi arretramenti, come a Napoli. Consigli comunali importanti sciolti per mafia, come a Reggio Calabria. Con la crisi economica e i forti tagli ai trasferimenti statali molte amministrazioni sono in difficoltà. Molte imprese municipalizzate sono in dissesto. Dimostra però più cose. Una, semplice: che progressi ci possono essere, ovunque. La storia non è scritta. Se si rompe la trappola del sottosviluppo e della politica clientelare, anche politiche più universalistiche e lungimiranti, attente a miglioramenti dei beni comuni, dei servizi collettivi, possono affermarsi. Ne dimostra un’altra, preoccupante. Che l’informazione su quel che di buono succede al Sud è assai reticente. Difficile dire perché: se per abitudine, per disinteresse, per malafede: se no, come facciamo a convincere gli italiani che più soldi togliamo al Sud, meglio è per tutti? Difficile avere un quadro onesto, dettagliato.

9. le classi dirigenti del sud sono inette, incapaci... 79

La buona politica e la buona amministrazione nel Mezzogiorno sono difficili. Per le condizioni di contesto che ci sono. Per il contrasto sistematico, forte, esercitato dalla cattiva politica; dalla domanda e dall’offerta, tenaci, persistenti, di clientelismo, di affarismo. Per la criminalità organizzata che tante volte minaccia o ammazza direttamente gli amministratori onesti. Chi te lo fa fare, a cercare di cambiare? Tanto non ci riuscirai. Ma è difficile anche per il grande disinteresse dell’opinione pubblica. Chi amministra bene al Sud è trattato come un caso eccentrico. Non fa notizia. I buoni amministratori e i buoni politici al Sud dovrebbero essere coccolati dall’opinione pubblica nazionale, messi sotto i riflettori, portati ad esempio. Usati per stanare i loro colleghi pavidi, incapaci, corrotti. Il dato più rilevante sulla percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti nel Mezzogiorno non è il suo modesto livello medio; è la circostanza che in alcune città è al di sopra della media nazionale e che in altre langue su valori infimi. Il fatto più rilevante nel mondo della scuola, non è il ritardo medio degli studenti meridionali, ma la circostanza che in Puglia questo ritardo è stato cancellato. Queste sono le notizie rivoluzionarie: che si può fare; e si fa. Rivoluzionarie perché mettono con le spalle al muro la tanta cattiva politica che c’è al Sud. Queste sono le notizie che confortano i cittadini dei comuni virtuosi

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del Mezzogiorno, e che possono spronare gli altri a protestare, a pretendere dalle proprie amministrazioni, dalle scuole dei propri figli, senza scuse, servizi di qualità. Questo è l’ambito nel quale il teorema meridionale fa più danni. Queste notizie non interessano, non esistono. L’Italia ha smesso di credere, di sperare, di tifare per la buona politica e la buona amministrazione nel Sud. Troppe volte hanno smesso di crederci anche i partiti nazionali rimasti sulla scena: promuovono classi dirigenti locali anche di qualità modesta, purché capaci di portare voti. Se è Sud, sono i politici mafiosi, i rifiuti di Napoli, le scuole sgarrupate. La questione è sottile; richiede intelligenza e misura. Descrivere e comprendere le situazioni in cui ci sono segni di miglioramento certamente non può e non deve significare ignorare i tanti casi di malaffare e di malamministrazione. Ma sono entrambi parti della realtà; colori diversi di un quadro d’insieme. Servono entrambi: per denunciare, per indignarsi, per protestare; per capire come e perché si riesce a cambiare. Concentrare troppo l’attenzione sui casi positivi può indurre a pericolose illusioni. Nell’Italia di oggi, gridare e denunciare – davanti ai tanti casi di corruzione e spreco – è inevitabile, opportuno. Ma se esistono solo la denuncia e l’indignazione, non possono che generarsi frustrazione e scoramento.

10. I meridionali non hanno cultura, senso civico, capitale sociale

Al fondo, il problema è semplice. Il problema sono i meridionali. Da sempre, sono diversi dagli altri italiani. Non hanno cultura, senso civico, capita­ le sociale. Il sottosviluppo delle loro regioni, al di là di tante analisi complicate, ne è l’esito scontato. Per questo il Sud vive, e non potrà che continuare a vivere, sulle spalle dell’Italia che produce. La storia delle incomprensioni e dei contrasti fra Nord e Sud è lunga quanto la storia unitaria. Le cronache dal Mezzogiorno di quanti arrivarono al seguito del nuovo governo piemontese sono esplicite. Per Massimo d’Azeglio, fatta l’Italia occorreva «fare gli Italiani»; arduo obiettivo, visto che secondo lui unificarsi con Napoli era come «mettersi a letto con un vaioloso». Fra alti e bassi, questi contrasti sono arrivati ai nostri giorni; nell’ultimo ventennio, sono tornati ad accentuarsi.

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Non c’è dubbio: lo sviluppo non è legato solo a fattori materiali, alle infrastrutture e alle imprese, ma anche ad elementi immateriali: attitudini, comportamenti, valori. Questi sono tanto difficili da definire e misurare quanto rilevanti nei fatti. È difficile negare che alcune di queste condizioni immateriali siano particolarmente deboli nel Mezzogiorno. Vi sono differenze che colpiscono qualsiasi italiano che viaggi da Nord a Sud: basta uscire dalla stazione ferroviaria o dall’aeroporto di una grande città del Mezzogiorno per imbattersi in motociclisti senza casco e in automobilisti che passano con il rosso. Osservazione banale? Solo in parte: è da queste piccole esperienze di vita che nascono giudizi e pregiudizi; se non si riesce a far rispettare le regole, in questo caso del codice della strada, è difficile andare lontano. Molte ricerche hanno provato a documentare queste differenze, con esiti più o meno convincenti, usando indicatori che cercano di misurare la capacità di associarsi, l’interesse per e la partecipazione alla vita collettiva, la litigiosità, il volontariato e l’altruismo. Una parte rilevante del Mezzogiorno è interessata poi da un radicamento profondo della criminalità organizzata. Un radicamento per alcuni versi antico, ma che sembra aumentare, rafforzarsi con il tempo. Alcune aree dell’hinterland napoletano, in particolare, appaiono davvero come una «gomorra»: la vita dei cittadini

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comuni è devastata dalla presenza malavitosa, il territorio controllato da bande criminali. L’intera economia ne è distorta. Tanto è impossibile condurre attività economiche normali, anche modeste, quanto sono rilevanti le attività illegali. Molti rapporti delle forze dell’ordine e della magistratura, molti libri lo documentano. La presenza criminale si salda sia con le attività economiche che con la politica. Mafie, economia e politica si alimentano a vicenda, creando un blocco radicato di interessi che nessuna azione di polizia riesce a smantellare. E tutto ciò si avvale di diffuse connivenze; della collusione e dell’omertà di tanti meridionali. Davvero un’altra Italia. Comprendere questi fenomeni non è banale; è difficile associarli semplicemente alla cultura o al senso civico dei meridionali. È utile capire come mai in tante aree del Mezzogiorno il quadro è assai diverso e la presenza criminale inesistente; come mai a scendere a patti con la criminalità organizzata non siano solo i commercianti o i costruttori locali ma anche grandi imprese non meridionali; come mai il radicamento delle mafie, in particolare della ‘ndrangheta, anche al Nord sia stato relativamente agevole. Misurare le capacità di reazione: dei singoli cittadini, di organizzazioni e movimenti di contrasto, ad esempio antiracket, di associazioni imprenditoriali, di esponenti politici. Sono meridionali la mafia e l’antimafia; le migliaia di assassini e i

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giudici, i poliziotti, i giornalisti, i piccoli imprenditori che sono stati assassinati. Riconoscere l’importanza dei fattori immateriali, dei valori, dei comportamenti è molto utile sia per capire le difficoltà sia per provare a porvi rimedio. Vanno considerati con attenzione, perché è difficile misurarli e perché è ancora più difficile stabilirne il nesso di causa ed effetto con l’insufficiente sviluppo economico. È bene in particolare guardarsi da tre atteggiamenti. Il primo è quello di guardare alle medie senza tener conto delle differenze. In molti di questi aspetti, il quadro del Mezzogiorno è sorprendentemente vario. Non solo da territorio a territorio, ma nelle stesse aree, nelle stesse città. Descrivere una realtà molto grande, un territorio di 21 milioni di abitanti, più della Scandinavia o dell’Olanda con pochi tratti non è utile. Un esempio: la giustizia civile al Sud funziona peggio anche perché ogni anno è promosso un numero di cause assai maggiore che nel resto del paese, tenuto conto della popolazione. La spiegazione sembra semplice: al Sud non c’è capitale sociale; i meridionali non hanno fiducia gli uni negli altri, non riescono a cooperare e a comporre le divergenze, sono litigiosi. Ma appena si guarda ai dati disaggregati per corte d’appello appare una tale varietà di situazioni da lasciare allibiti; e da consigliare la ricerca di spiegazioni più profonde, più articolate.

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Il secondo atteggiamento è assai diffuso. È quello di pensare che i comportamenti siano immutabili nel tempo. I meridionali sono così dalla notte dei tempi e sempre così saranno. C’è chi chiama in causa il diverso Medioevo; e chi pretende di spiegare matematicamente il sottosviluppo con la «cultura» del passato, come nell’Ottocento c’era chi lo spiegava con la diversa conformazione del cranio. L’analisi è così banalizzata da chiamare in causa, a più di 50 anni di distanza, una ricerca sociologica condotta in un paesino del Mezzogiorno. Questa ricerca aveva lanciato una spiegazione che, forse perché suona bene, continua ad andare molto di moda: il familismo amorale. Chissà cosa avrebbe scritto l’autore di quel saggio a proposito della famiglia Bossi. Il ruolo dei fattori immateriali muta invece molto con il tempo, con il diffondersi dell’istruzione, con il variare dei costumi, con l’aprirsi e il chiudersi di opportunità: come non vedere quanto sono cambiati nella società meridionale il ruolo della donna o gli atteggiamenti nei confronti dei costumi sessuali? Per fortuna molto è cambiato. Eppure, anche se emigrano e vanno a lavorare in fabbrica o aprono imprese, i meridionali sono sempre familisti amorali. Il terzo ed ultimo atteggiamento implica un giudizio di valore molto rilevante. È quello di pensare che nel mondo ci sia per definizione un modello ideale di società verso cui tendere,

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e quindi un meglio e un peggio a seconda della distanza da quel modello. Questo atteggiamento era molto diffuso in passato: era il metro dell’uomo bianco europeo a stabilire dove fossero civiltà e sviluppo nel mondo; così come era il metro del bianco anglosassone protestante a stabilire chi fosse davvero americano e chi, come i neri o gli ispanici o gli stessi americani di origine italiana, lo fosse meno. Da questo punto di vista il Sud è e sarà sempre condannato: un Nord mancato, un Nord incompleto, un Nord in ritardo. Inchiodato alla misura dei divari. Per fortuna la storia ci mostra come siano varie le combinazioni che portano al successo dei paesi. Come siano differenti i modelli di capitalismo di successo. Il grande economista italiano Giorgio Fuà – proprio studiando l’Italia – aveva ben capito come le strade dello sviluppo delle regioni siano diverse: le Marche sono diventate ricche non perché hanno imitato la Lombardia a decenni di distanza, ma perché hanno saputo valorizzare le proprie diversità. Se non si riconosce quanto alcuni comportamenti collettivi influiscano sulle difficoltà del Sud, diventa impossibile ridurle. Ma è difficile capire se si usa un unico metro; se non si riesce a guardare il Sud anche con i suoi occhi e non con gli occhiali degli altri, come ci invita a fare da tempo Franco Cassano. Se non si comprende che la principale ricchezza dell’Italia, così come dell’Europa, è la sua diversità interna.

11. Si è provato di tutto, e senza risultati

Parole. Parole. La verità è che dei problemi e del­ lo sviluppo del Mezzogiorno si parla da decenni e le cose non cambiano mai. Si è provato di tutto, e senza risultati. L’Italia di oggi è un paese profondamente migliore di quello di cinquanta anni fa. In Italia non solo si vive molto di più, ma anche molto meglio. Le famiglie abitano in case più ampie e confortevoli. I cittadini hanno a disposizione servizi pubblici, con tutti i loro difetti, in quantità e di qualità molto maggiori. I ragazzi e le ragazze vanno regolarmente a scuola; sono cadute le barriere che facevano delle università dei recinti chiusi per i ceti più abbienti. Si sono fatti passi avanti verso una maggiore parità di genere. Ci sono molte più occasioni di utilizzare il proprio tempo libero, di viaggiare, di conoscere. Eravamo un paese dal quale ancora a milioni si

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partiva in cerca di lavoro e di un futuro migliore; siamo diventati l’approdo della speranza di milioni di persone da oltremare. Lo sappiamo perfettamente: i costi di queste trasformazioni sono stati altissimi. Basti pensare a come molte città sono state saccheggiate, molti paesaggi deturpati. E sappiamo perfettamente che da tanti importanti punti di vista i passi avanti sono stati incerti, discontinui: siamo ancora un paese segnato da disuguaglianze, iniquità, rendite, favori. Ma ciò non toglie che un profondo cambiamento, in positivo, c’è stato. Ma c’è anche qualcosa di molto importante che ci allontana – in senso negativo – da quell’epoca. All’inizio degli anni Sessanta eravamo un paese giovane, ottimista, proiettato nel futuro; con un conflitto politico e sociale aspro, ma con la diffusa convinzione che fosse in corso un profondo, positivo, cambiamento. Non mancava la lucidità di capire ciò che non andava. Nel 1962 uno dei più grandi italiani del secolo scorso, Ugo La Malfa, scrisse la «Nota aggiuntiva» al bilancio dello Stato. Analizzava in profondità la situazione del paese, riconoscendone successi e punti di forza; sottolineava però con preoccupazione gli squilibri e i problemi che avrebbero potuto metterne a rischio il cammino. Dava all’intero paese obiettivi ambiziosi, indicava strade possibili, provava a mobilitare le forze disponibili, pubbliche e private. Un documento ancora at-

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tuale: per la sua lungimiranza; per riconoscere come molti di quegli squilibri e di quei problemi sono presenti a tutt’oggi; ma anche per la sua realistica ambizione. Oggi siamo un paese anziano: sia anagraficamente, sia perché l’età media delle classi dirigenti, politiche ed economiche è elevata. Siamo un paese deluso. Anche prima della grande crisi economica l’aumento del benessere si è fatto più stentato. Molti italiani si sono a lungo affidati a un venditore di illusioni che appariva carismatico, in grado di rilanciare il paese, di creare milioni di posti di lavoro: e si sono trovati con un pugno di mosche in mano. Siamo diventati – lo si è visto nelle pagine precedenti – molto più attenti al benessere individuale che a quello collettivo; alla nostra fetta della torta. In tutta Europa sono anni difficili, è vero. Ma l’Italia sembra il paese meno capace di proiettarsi nel futuro, di immaginarsi diverso, migliore. Questo non solo ci preoccupa, ma ci rende anche scettici, disillusi. Siamo molto bravi ad elencare occasioni perdute e difetti persistenti. Meno attenti a ciò che funziona e migliora, seppure lentamente. Non riusciamo a ritrovare il filo di un ragionamento di prospettiva, la voglia di provare ancora a cambiare tutto ciò che non ci piace. Non esistono ricette facili per uscire da questa situazione, per ritrovare quello spirito di intrapresa e di ricostruzione che avevamo cin-

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quant’anni fa. Non se ne esce con facili illusioni e immotivati ottimismi, aggirando i problemi senza volerli vedere. Ma, certamente, non se ne può uscire senza liberarsi di stereotipi e preconcetti. Senza capire che cosa è oggi davvero l’Italia. Senza «abolire il Mezzogiorno»: quel termine con cui definiamo ciò che non ci piace dell’Italia; quel velo di pregiudizio che ci impedisce di vedere, per poter cambiare.

Nota bibliografica

Premessa Una serie di affermazioni che richiamano il teo­rema meridionale sono riportate in G. Viesti, Mezzogiorno a tra­ dimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, Laterza, 2009, e in G. Viesti, Più lavoro, più talenti. Donne, giova­ ni, Sud. Le risposte alla crisi, Donzelli, 2010. Cap. 1 Sulla storia economica italiana: V. Zamagni, Dalla pe­ riferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1990, Il Mulino, 1993; sulle dinamiche regionali e sulla situazione precedente all’unità: V. Daniele e P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011, Rubbettino, 2011; in particolare sullo sviluppo delle imprese: F. Amatori e A. Colli, Imprese e industria dall’unità ad oggi, Marsilio, 2003. Nord e Sud di Nitti (del 1900) è in F.S. Nitti, Scritti sulla que­ stione meridionale, vol. II, Laterza, 1958. Su riunificazione tedesca e divari regionali: N. Coniglio, F. Prota e G. Viesti, Note sui processi di convergenza regionale in Germania e in Spagna, «Rivista Economia del Mezzogiorno», 1-2, 2011. Cap. 2 Sulle dinamiche dello sviluppo regionale e il ruolo delle politiche: G. Iuzzolino, G. Pellegrini e G. Viesti, Con­ vergence among Italian regions, 1861-2011, «Quaderni di storia economica», 22, Banca d’Italia, 2011. Sulle dinamiche recenti delle regioni europee: Eurostat, Convergence

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nota bibliografica

and disparities in gross domestic product, «Statistics in focus», 46/2011 (i dati regionali 2000-08 sono nel database). Sulle dinamiche internazionali dello sviluppo regionale: S. Pollard, Peaceful Conquest. The industrializa­ tion of Europe 1760-1970, Oxford University Press, 1981; OECD, How regions grow: trends and analysis, 2009. Per un’introduzione alle teorie dello sviluppo regionale è sempre bene partire da: P. Krugman, Geography and trade, MIT Press, 1991, e Development, geography and economic theory, MIT Press, 1998. Cap. 3 Sull’ipotesi nittiana: G. Barone, Mezzogiorno e moder­ nizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Einaudi, 1986. Sulle politiche regionali in età fascista: R. Petri, Industria, territorio, intervento spe­ ciale. Riflessioni su una tradizione non solo meridionalista, «Meridiana», 1, 1991. Su politiche e indicatori di sviluppo regionali: E. Felice, Divari regionali e intervento pubbli­ co, Il Mulino, 2007. Sulle politiche dell’ultimo ventennio: F. Prota e G. Viesti, Senza Cassa. Le politiche di sviluppo del Mezzogiorno dopo l’intervento straordinario, Il Mulino, 2012 e L. Cannari, M. Magnani e G. Pellegrini, Critica della ragione meridionale. Il Sud e le politiche pubbliche, Laterza, 2010. Sugli effetti di diffusione territoriale delle spese per investimento: R. Bronzini e L. Cannari (a cura di), L’in­ tegrazione economica tra il Mezzogiorno e il CentroNord, Banca d’Italia, «Seminari e convegni», 9, 2011. Cap. 4 Sui problemi delle realizzazioni infrastrutturali si vedano gli annuali rapporti del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica (l’ultimo: DPS, Rapporto an­ nuale 2011); ANCE, Secondo rapporto sulle infrastrutture in Italia, 2009; F. Balassone e P. Casadio (a cura di), Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, rea­ lizzazione, Banca d’Italia, «Seminari e convegni», 7, 2011. Anche: L. D’Antone, Senza pedaggio. Storia dell’autostra­ da Salerno-Reggio Calabria, Donzelli, 2008. Cap. 5 Sulla ripartizione della spesa pubblica, i Rapporti del DPS, cit., e G. Viesti, Mezzogiorno a tradimento cit.; dati

nota bibliografica

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anteriori sono ad esempio in M. Geri e M. Volpe, Nord, Sud e spesa pubblica, «Politica ed economia», 7-8, 1985. Per il calcolo della spesa pubblica rispetto al Pil e le implicazioni: A. Alesina, S. Danninger e M. Rostagno, Redistribution through public employment: the case of Italy, «IMF Staff Papers», vol. 48, 2001; per gli effetti negativi dell’intervento pubblico al Sud: C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, Il Mulino, 1992. Per dati sulla composizione dell’economia meridionale: gli annuali Rapporti della Svimez. Cap. 6 Sulla storia del welfare italiano: M. Ferrera, V. Fargion e M. Jessoula, Alle radici del welfare all’italiana. Origini e futuro di un modello sociale squilibrato, Marsilio, 2012; anche: G. Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il be­ nessere degli italiani dall’unità ad oggi, Il Mulino, 2011; anche: D. Franco, L’espansione della spesa pubblica in Italia, 1960-1990, Il Mulino, 1993. I dati sulla spesa per le diverse prestazioni di protezione sociale sono da Eurostat, riportati in CNEL, «Relazione annuale sui livelli e la qualità dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni», 2012. I dati al 1951 sono da Svimez, Un secolo di statistiche italiane Nord e Sud 1861-1961, Giuffrè, 1961 e da E. Felice, Divari regionali, cit. Sugli squilibri associati al welfare italiano: M. Ferrera, Il fattore D. Perché il la­ voro delle donne farà crescere l’Italia, Mondadori, 2008; D. Del Boca e A. Rosina, Famiglie sole. Sopravvivere con un welfare inefficiente, Il Mulino, 2009. Sulla sanità: E. Caruso e N. Dirindin, Sanità: un decennio di contraddi­ zioni e prove tecniche di stabilità, in M.C. Guerra e A. Zanardi, La finanza pubblica italiana. Rapporto 2010, Il Mulino, 2010 e Intesa Sanpaolo e Fondazione CERM, Il mondo della salute tra governance federale e fabbisogni infrastrutturali, 2010. Cap. 7 Su quantità e qualità dei servizi pubblici nelle diverse aree del paese: L. Cannari (a cura di), Mezzogiorno e poli­ tiche regionali, Banca d’Italia, «Seminari e convegni», 2, 2009; L. Cannari e D. Franco (a cura di), Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia, Banca d’Italia, «Seminari e convegni», 4, 2010. In particolare sulla scuola: Fondazio-

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nota bibliografica

ne Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2010, Laterza, 2010. Cap. 8 Sull’evasione fiscale: F. Moro e F. Pica, Italia unita nel­ l’evasione fiscale, Note Svimez, Maggio 2011; sulla pressione fiscale locale: i rapporti annuali di Ires Piemonte, Irpet, Srm, Eupolis Lombardia, Ipres, editi da Franco Angeli. I dati sui flussi interregionali sono tratti da: R. De Bonis, Z. Rotondi e P. Savona, Sviluppo, rischio e conti con l’esterno delle regioni italiane, Laterza, 2010. Sul federalismo, fra i molti scritti di Alberto Zanardi: Federalismo fiscale, prove di attuazione, in M.C. Guerra e A. Zanardi (a cura di), La finanza pubblica italiana. Rapporto 2011, Il Mulino, 2011. Anche: G. Viesti, Il federalismo difficile, «Il Mulino», 5, 2010. Cap. 9 Sulle dinamiche politiche del Sud: C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia, cit.; sui cambiamenti recenti: I. Sales, Napoli non è Berlino. Ascesa e declino di Bassolino e del sogno di riscatto del Sud, Dalai, 2012. L’articolo citato da «Il Sole 24 Ore» è del 30 agosto 2010. Anche: G. Viesti, Nord-Sud, l’eterna questione, «Il Mulino», 5, 2009. Cap. 10 La citazione di M. d’Azeglio è ripresa da: C. Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, Laterza, 2007. Sul ruolo dei fattori immateriali nello sviluppo del Sud, si possono vedere gli articoli di Cannari, Franco e Trigilia, e il commento di Viesti, su «Stato e mercato», 1, 2011. Sulle radici medievali del sottosviluppo: R. Putnam, Making Democracy Work: Civic Tradition in Modern Italy, Princeton University Press, 1993; sulla «cultura»: G. Tabellini, Culture and institutions: Economic Develop­ ment in the Regions of Europe, «Journal of the European Economic Association», 4, 2010; sui crani: C. Lombroso, L’uomo delinquente, Hoepli, 1876; sul familismo amorale: E.G. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, Free Press, 1958. Ma anche, ad esempio: S. Lupo, Usi e abusi del passato. Le radici dell’Italia di Putnam, «Meridiana», 18, 1993; E. Ferragina, Il fantasma di Banfield: una verifica empirica del familismo amorale, «Stato e mercato», 92,

nota bibliografica

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2011; P. Casavola e L. D’Antone, Antiche tradizioni civiche o esiti della qualità delle politiche?, in G. De Blasio e P. Sestito (a cura di), Il capitale sociale. Che cos’è e cosa spie­ ga, Donzelli, 2011. Sulle rappresentazioni del Sud: C. Petraccone, Le due Italie. La questione meridionale tra real­ tà e rappresentazione, Laterza, 2005; A. Di Francesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Feltrinelli, 2012. Sullo sviluppo: G. Fuà e C. Zacchia (a cura di), Industrializzazione senza fratture, Il Mulino, 1983; F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, 1996. Sui rapporti mafia-economia: R. Sciarrone (a cura di), Alleanze nell’om­ bra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Fondazione Res, Donzelli, 2011. Cap. 11 Il documento di Ugo La Malfa è: Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano. Nota aggiuntiva al bi­ lancio dello Stato, maggio 1962.