Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965-1977
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Franco Fortini Questioni di frontiera Scritti di politica e di letteratura 1965-1977

EINAUDI

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Ir. ccperiina. elaborazione

Ne! piano di pubblicazione delle opere complete, sono già usciti, presso Einaudi, « Una volta per sempre. Poesie 1938-1973 » (Supercoralli, 1978), Foglio ai via e altri versi (Collezióne di poesia, 1976), « I cani del Sinai» (Nuovi Coralli, 1979).

;r «fica di un disegno di P Lichtenstein

«Se c’è molte (quasi tutto) da rifare, e quel che vediamo intorno a noi non lascia luogo a dubbi, allora non possiamo far finta di nulla né rammentare le difese e le repliche che servirono trent’anni fa. Non possiamo esimerci dal procurarci subito più efficienti strumenti di misura, sistemi di priorità, meccanismi di analisi e di sintesi Dobbiamo impiegare bene "il tempo dei ritiro”, nel quale, fingenac di non saperlo per evitarne gli specifici doveri, viviamo già da tempo...» « Il libro si divide in due parti, complementari. La prima ragiona sui rapporti tra " il presente come storia” e alcune categorie o individui che le vivono. È su tre capitoli, li primo considera situazioni estreme: due studiosi marxisti, uno dei quali al letto di agonia dell’altro: le stalinismo e il " punto di vista de'la totalità ”; modo comunista e modo anaichico eli affrontare i giudizi capitali ; la condizione di un Vaipreda, in una Italia che può diventa: e anche il Cile; il significato di uria lapide. Il secondo capitolo discorre della situazione del 1968 e degli anni subito seguenti: che cos'è e che cosa dev'essere l’autorità; la disputa sul oiolo degli intellettuali; i con.àni dell’erotismo; le responsaoilità del linguaggio; la ricorrente illusione rii chi crede di poter prendere alloggio nel Negativo. Nel terzo capitolo mi chiedo che cosa si può fare per andare oltre le peggiori consuetudini della scrittura di informazione e saggistica e i luoghi comuni su impegno e disimpegno. La seconda parte vuole applicare e verificare quel che è stato detto nella prima. Sono paesi, personaggi e situazioni simboliche: l'Unione Sovietica del dissenso vecchio e recente, la Cina rivisitata dopo la Rivoluzione Culturale e riconsiderata dopo la morte di Mao; alcuni "compagni separati”, come Vittorini, Panzieri, Pasolini; gruppi, riviste di incontro e scontro; esempi della letteratura francese e tedesca; domande scila funzione critica

Copyright © 1977 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Seconda edizione

Franco Fortini Questioni di frontiera Scritti di politica e di letteratura 1965-1977

Einaudi

Prefazione

i.

Dicono che un diniego sia accusa manifesta. Ma questo libro non è una raccolta di articoli. Cancellare le tracce del­ le occasioni di scrittura non sarebbe stato difficile. Super­ fluo, si: se i pretesti sono numerosi, non più di due o tre sono qui gli argomenti veri. Non per destino ma per elezione cerco di capire quanto posso attraverso le circostanze dei tempi. Per attraversar­ le devo trarre partito anche dalle loro pause. Trasforman­ dosi in semilavorati di storia pubblica e privata, i casi della cronaca rivelano soluzioni di continuo, vuoti interni, di­ fetti di fusione. Nella scrittura di un libro come questo bisogna trasferirli con modeste astuzie tipografiche, di stro­ fe in strofe o di paragrafo in capitolo; ma all’interno di ogni ragionamento imitando quegli alveoli coi metodi della al­ lusione, degli effetti d’eco e della transizione. Chi si confessa condizionato dalla attualità e delle prime pagine dei quotidiani non si aspetta di trovare grazia quan­ do le menti e le mode siano, come oggi sembra, tutte pronte a un ritorno degli Assoluti. Né varrà a scusarlo che per mol­ ta parte della propria esistenza, e forse anche oggi, la gen­ te della sua età proprio su quelle prime pagine ha dovuto cercare notizie e avvertimenti, come si dice, di vita e di morte. Non molto di più gli varrà ricordare che al saggista con argomenti di breve periodo fa di bisogno alludere a quelli di periodo medio e lungo. Qui gli argomenti veri non sono più di due o tre e non c’è pagina che non ne ri­ chiami un’altra. Nel 1965 pubblicai il libro Verifica dei poteri che negli anni seguenti ha avuto la ventura d’essere o di parere an­ ticipatore di temi che di li a pochi anni furono dibattuti da buona parte dei più giovani, soprattutto studenti. Se il li­ bro aveva adempiuto alla sua funzione, avrei dovuto evi­

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PREFAZIONE

tare di ripetermi. Tra il 1968 e il 1970 pensavo di dimet­ tere l’accento del rammarico e della profezia - che anche i piu benevoli mi rimproveravano e che sempre è un po’ ridicolo - per riflessioni e ricerche piu modeste. Non avevo preveduto il mutamento o disfacimento dei rapporti poli­ tici, l’alterarsi del movimento della Nuova Sinistra nel gi­ ro di pochi anni, le formazioni e aggregazioni successive. Tutto questo, oggi lo sappiamo si è svolto in due fasi ben coordinate fra loro: la prima, fra il 1970 e il 1973 ha spin­ to alle soluzioni autoritarie di destra; la seconda, fra il 1974 e questi giorni, percorre la via della democrazia «unanimista». Al mutamento ha corrisposto una gran variazione nei temi, nel linguaggio, nei punti di riferimento degli ideo­ logi, dei saggisti e dei critici. Questi scritti miei perciò mi paiono molto lontani dalla discussione oggi corrente. Già un critico per altro assai cortese ebbe a dire che Verifica «emergeva da un tipo di storia scaduta». Le pagine pre­ senti dovranno sembrare addirittura archeologiche. Non ne sono dispiaciuto. 2.

Come il libro di cui parlavo (e anche come Dieci Inver­ ni) questo si divide in due parti, complementari. La prima ragiona sui rapporti fra il «presente come sto­ ria» e alcune categorie o individui che lo vivono. È su tre capitoli. Il primo considera situazioni estreme: due studiosi marxisti, uno dei quali al letto di agonia dell’altro; lo stali­ nismo e il «punto di vista della totalità»; modo comunista e modo anarchico di affrontare i giudizi capitali; la condi­ zione di un Valpreda, in una Italia che può diventare anche il Cile; il significato di una lapide. Il secondo capitolo di­ scorre della situazione del 1968 e degli anni subito seguen­ ti: che cos e e che cosa dev’essere l’autorità; la disputa sul ruolo degli intellettuali; i confini dell’erotismo; le respon­ sabilità del linguaggio; la ricorrente illusione di chi crede di poter prendere alloggio nel Negativo. Nel terzo capitolo mi chiedo che cosa si può fare per andare oltre le peggiori consuetudini della scrittura di informazione e saggistica e i luoghi comuni su impegno e disimpegno. La seconda parte vuole applicare e verificare quel che è stato detto nella prima. Sono paesi, personaggi e situazioni

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simboliche: l’Unione Sovietica del dissenso vecchio e re­ cente, la Cina rivisitata dopo la Rivoluzione Culturale e riconsiderata dopo la morte di Mao; alcuni «compagni se­ parati», come Vittorini, Panzieri, Pasolini; gruppi, riviste di incontro e scontro; esempi dalla letteratura francese e tedesca; domande sulla funzione critica. Le date pretendono di offrirsi alla biografìa del lettore.

3«In un certo senso molti dei temi principali di questo libro sono stati da me esposti altrove in differenti contesti. Penso tuttavia che un autore abbia tanto meno da dire qualcosa di assolutamente nuovo quanto meno precedentemente si sia sbagliato. Uno dei miei meno acuti recensori notò recentemente che ad ogni mio nuovo libro sembrava che io avessi riscritto il mio mito fondamentale. Certo che l’ho fatto; né leggerei o avrei fiducia in uno scrittore che non lo facesse. Ma si spera in qualche acquisto di lucidità o almeno di quella presbiopia che sopraggiunge normal­ mente col progredire dell’età» (Northrop Frye, 1970).

4Quando si scrive una prefazione bisognerebbe evitare ogni parola conclusiva. Spesso la prefazione sostituisce la lettura del libro e c’è chi pensa che un autore vi metta in carta le sue idee, perché ultime, migliori. Conosco bene le illusioni e le speranze delle ultime parole. Non mi dispia­ cerebbe che attraverso le prossime pagine, talora troppo preoccupate della propria serietà, il lettore potesse invece conservare almeno un poco della fatuità di questa prefa­ zione. C’è però un argomento cui vorrei accennare, tanto grave che se ne può parlare solo con leggerezza. Intendo qual­ cosa che ha a che fare con quanto ho detto poco sopra, a proposito delle occasioni contingenti da cui spesso si parte per ragionare e scrivere. Ed è che la moda e la schiuma del tempo, la ripetizione usurata come l’innovazione più stolida, in breve tutto quel che è giustamente considerato scoria e inquinamento che il mercato ideologico si lascia

Vili

PREFAZIONE

dietro, è pure la forma verbale e concettuale, il campionario delle immagini, l’economico significante, che i piu (e anche noi, produttori e consumatori di quei segni) impiegano per costruire e organizzare i propri sentimenti, affetti e pensieri più profondi. E via da qui il progressista che ci vorrebbe sol­ tanto produttori e consumatori più illuminati. È con il presente repertorio di scorie che la gente dice a se stessa le cose ultime, dove ogni uomo si fa più simile all’altro e più pietoso o più severo giudice di sé; è da quelle mise­ rabili eminenze di rifiuti che intravvediamo la nostra «for­ ma futuri», un possibile corpo glorioso. Lo si è saputo sem­ pre ma a me importa rammentarlo qui, dalla soglia di un li­ bro che solo indirettamente sembra ricordarlo. Non basta davvero voler scrivere in volgare. Guai a credere che possa o debba esistere un linguaggio unico, ogni linguaggio è doppio. Bisogna invece capire perché e come il «volgare» e il «latino» possano convertirsi l’uno nell’altro. Confes­ siamo che troppe volte ci è accaduto di rimanere stupefatti di fronte a quella che ci pareva 'arretratezza’ di certe do­ mande o risposte, di individui o di gruppi, senza renderci conto di non sapere rispetto a che cosa, veramente, essi fossero «indietro» o «avanti». In quello stupore c’era tut­ to e dichiarato l’errore indotto in noi da una cultura di clas­ se. Fossimo veramente persuasi che ogni uomo dice o può dire a se stesso la verità anche con le parole della menzo­ gna, cercheremmo con maggiore rispetto e pazienza di adempiere alla traduzione d’uno in altro linguaggio.

5-

Il titolo di questo libro ha due significati. Il primo allu­ de ai reami o ambiti o territori «orizzontali» del sapere e del sentire, dove si combatte incessante una guerra di po­ sizione ogni tanto interrotta da armistizi e correzioni di confini, fra potentati grandi e meno grandi, ossia classi, ceti, corpi intellettuali, ideologie, scienze; e dove le que­ stioni sono più aspre e pericolose ora in questo ora in quel settore. Ma un secondo significato è alluso dai rapporti « verticali » o di livello e di valore, fra i quali il linguaggio la­ vora, o dovrebbe, con la sua capacità chiamata parafrasi. Di questo secondo significato il libro non reca quasi segno visi­ bile ma si spera che esso non gli sia estraneo e sia anzi

PREFAZIONE

IX

l’anima dell’altro. L’attitudine alla parafrasi è nella ne­ cessaria ambiguità di ogni discorso non scientifico. L’ambi­ guo porge un aspetto di sé: quello che può essere parafrasa­ to o tradotto, cioè passato di mano in mano. Il resto può andar perduto. Queste pagine vogliono essere ambigue. «Una situazione con una sola faccia non esiste. Il presente ha le sue due facce» (Mao, 1965).

6.

Al verso 106-7 second’atto del Trailo e Cressida, un personaggio dice: «let us pay betimes | A moiety of that mass of moan to come», ossia, pressappoco: «paghiamo per tempo una parte del lutto che avrà da venire». Attri­ buire alla previsione un grado cosi alto di solvenza, fin quasi a una metà - moiety, medietas - è certo troppo ot­ timistica misura. Già quel che è avvenuto, nel nostro pae­ se, lungo gli ultimi dieci anni, era stato imprevedibile o imprevisto. Lavorando a queste righe il verso shakespea­ riano non voleva però uscirmi di mente e credo sia giusto, ossia utile avviso al lettore, introdurlo fra le altre parole.

7Per le pagine che seguono ringrazio le numerose pubbli­ cazioni che in forma simile a quella ora edita o poco diversa hanno una prima volta accolto buona parte di questi scrit­ ti. Mi consentano di non nominarle singolarmente. Faccio altrettanto con pochi pazienti amici, alcuni attenti avver­ sari e molti impazienti nemici, che mi hanno aiutato a chia­ rire o a complicare numerose opinioni.

Questioni di frontiera

Parte prima Questioni di frontiera

I

Le ultime parole

Due interlocutori

Mo’ che il tempo si avvicina 1 I.

La lettura di un dialogo ammirevole come quello in extremis fra Cases e De Martino1 2, si accompagna al ram­ marico e alla rabbia che per troppi anni le difese del pudo­ re, i rispetti umani e le borie dei dotti abbiano fatto il si­ lenzio sui temi che questo dialogo osa appena toccare, quasi scusandosene con la sua forma corsiva. Negli anni fra 1946 e 1950, quando era ancora aperta la fossa degli stermini eu­ ropei, la sinistra parlava qualche volta del «mito» e della «religione» cioè degli Esistenziali e dei Novissimi ’. Parve poi delitto di leso progresso. In questi ultimi anni la con­ versazione politica ha finto di riprendere quei temi. Ne ha fatto governo a suo modo. In alcune democrazie popolari, 1 «Mo’ che il tempo si avvicina | viene avanti la grande Cina...», scris­ se De Martino di avere udito cantare dai contadini lucani fra 1952 e 1953 (e. de martino, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, 1955).

2 In «Quaderni Piacentini», n. 23-24, 1965. ] Bisognerebbe seguire le tracce di quei discorsi: che sono biografie. Si può qui solo dire che alla impossibilità di distinguere le posizioni di classe per entro i fronti della guerra e del dopoguerra corrispondeva nell’ordine delle ideologie e anche in quello della ricerca e dello studio una attenzione e tensione alla sfera etico-religiosa della quale l’esistenzialismo filosofico o letterario non era piu che una componente. Con i loro equivoci e le loro con­ traddizioni, ricordiamo i tre numeri di «Cultura e realtà» del 1950, che di quelle tendenze sono l’ultimo episodio. Negli anni seguenti chi siiorava cer­ ti argomenti era subito aggredito come decadente, irrazionalista, mistico e peggio. Gli studi di De Martino sul mondo subalterno vennero situati nelle categorie del gramscismo e meridionalismo d'allora cioè di una nozione di nazionalpopolare che era di sufficiente osservanza sovietica. Questo spiega perché chi invece era attento alle contraddizioni e alle lotte che una nuova classe operaia veniva vivendo e preparando nell’Italia industrialmente più sviluppata non potesse scernere quanto ci fosse di prezioso nella ricerca di De Martino; e perché solo i grandi temi del Terzo Mondo tornassero negli ultimi cinque anni a riproporre quegli argomenti. Che certa «cultura» ufficiosa del Pei si sia invece, proprio su questi argomenti, mossa sempre in controtempo, è altra e non casuale circostanza.

8

QUESTIONI DI FRONTIERA

e anche in Urss, come ad una malintesa parola d’ordine. Spuntava da noi la faticosa erba del «dialogo». Qualche ro­ manzo o poesia o film fiancheggiano. Cases ha ragione quan­ do dice che solo i fumi delle mode impediscono di riconosce­ re il contributo di Ernesto De Martino ad una moderna for­ mulazione di quei temi. È proprio vero che fra tempo e «religione» (come fra tempo e «rivoluzione») corrono rapporti rigorosi. II falso rivoluzionario si rivela riformista parlando del tempo: al marxista cade il sorriso. Ad esempio. Molti di coloro che oggi vanno verso i cinquant’anni hanno a lungo creduto (o finto di credere) dove­ re del comunista sostenere tesi sbagliate nel momento giu­ sto e avversare con ogni energia chi avesse sostenuto tesi giuste nel momento sbagliato. In quelle scelte diventava essenziale non soltanto la nozione di «giusto» o di «sba­ gliato» ma quella di «momento». Alcuni di coloro hanno dovuto poi concludere che vi sono «momenti» plurien­ nali. Anzi: che ogni momento è nello stesso tempo breve e lungo, breve emersione d’una lunga curva costante o pro­ lungamento d’una situazione superficiale. Cesare Cases esal­ tava in quegli anni l’antivirtuismo delle autocritiche di Lukàcs e derideva l’impotente coerenza delle dissidenze. Perché? Perché nella sua persuasione del primato assoluto dell’oggetto c’era l’idea che il «tempo breve» delle coeren­ ze biografiche fosse irrilevante di fronte al «tempo lungo» dei moti storici. Sempre questa faccenda del tempo. Insomma: tanto nelle scelte strettamente politiche quanto in quelle etiche quel che si viene negando è la falsa unità dell’individuo. Come mai allora ci si preoccupa tanto che il comportamento di fronte alla morte non contraddica la vita precedente? Personalmente credo «giusto», «umano» e «positivo» che l’uomo vada alla morte senza «dignità», piangendo e defecando, nel tremore, nell’angoscia e nella ricerca di un qualsiasi oggetto che lo trattenga (o pensiero che lo illuda) al di qua. Le mandrie imploranti che scende­ vano nelle fosse naziste testimoniano a favore dell’uomo piu di tutti coloro che rifiutano la benda. Il cristianesimo — che è anche una storia di tremito e lacrime - umilia i filosofi che si svenano senza batter ciglio. Di fronte al ri­ schio che la «perdita della presenza» comporti la caduta nella «tentazione» religiosa l’amico nostro sembra strana­ mente accettare la nozione individualistico-borghese (e giu­

LE ULTIME PAROLE

9 ridica) della unità fra i vari momenti della vita d’una per­ sona. La frase «Mi ricordai... di una discussione che avevo avuta di recente con un comune amico che sosteneva l’op­ portunità di dire a De Martino che era condannato, poiché un uomo della sua statura intellettuale dovrebbe accettare la propria morte nella consapevolezza della sopravvivenza della specie. In questo mi sentivo piu "demartiniano” del mio amico, la "crisi della presenza” mi sembrava qualcosa che non si può superare in modo duramente razionale... ero quindi dell’avviso che fosse giusto nascondergli la verità», con cui Cases nega si debba a De Martino la verità sul suo stato contiene probabilmente uno storicismo meno astratto di quello che invece credeva dovergliela: ma implica l’ipo­ tesi di una élite legiferante e illuminata, altrice e procuratri­ ce (anche goethiana) di intelletti superiori e di personalità eminenti. L’annuncio della morte prossima e certa avrebbe infatti potuto scatenare reazioni incontrollabili, ricorsi alla divinità, illuminazioni. Gli «infami» sarebbero stati pronti a trarne vantaggio. Per di più, in ogni circostanza si deve ac­ crescere il Monte della Ragione, si debbano favorire presen­ za e preservazione di atteggiamenti «razionali» e lotta con­ tro l’«irrazionale». Ancora una volta l’eredità marxista si confonde con quella giacobina e rivendica l’autorità di co­ stringere - se necessario con una pia frode - altrui al bene. De Martino fa cominciare tutto da Cartesio ma mentre di­ scorre con Cases ha già scritto quel saggio su Nulo, scienza religiosa e civiltà moderna che si inizia con una storia della «crisi decisiva» delle scienze religiose e della fine delle ten­ denze «riduttive» nella interpretazione dei miti, dei riti, dei fatti religiosi e mistici. Nella frase di De Martino sulle possibili tentazioni religiose dell’ammalato senza speranza non c’è soltanto quel coraggio della banalità, quella capaci­ tà di ripetere il luogo comune rinnovandolo, che è il segno della vera intelligenza. C’è soprattutto la capacità di op­ porre al disvalore assoluto della morte non l’orgoglio del «grande individuo» ma tutta l’umanità con noi convivente. La miseria e la perdita (cosi credo di poter interpretare) possono non essere mero disvalore e negatività nella mi­ sura in cui altri - cioè il coro umano, la forma sociale del­ l’animale umano - li assumono.

IO

QUESTIONI DI FRONTIERA

2.

Quanti e contraddittori i prolungamenti possibili del pensiero dei due interlocutori. Intanto: si doveva o no dire a De Martino la verità sul suo stato? L’argomento a favo­ re, fondato sul rispetto dovuto alla «altezza intellettuale» dell’uomo, è pagano ed eroicistico; quello contrario mi pa­ re ispirato da preoccupazioni quasi settarie e insieme dal­ la volontà di non accettare quella negazione dell’unità della persona che il terrore per la «perdita della presenza» può comportare, di non rispettare il diritto alla contraddizione, come non si rispetterebbe la libertà, in un soldato, di diser­ tare. Anche perché annunciare vuol dire, in una certa misu­ ra conferire. Ambasciatore porta pena. Dire la mortalità al­ trui è protendere la propria \ Cases ha capito benissimo che annunciare altrui la morte, quando non sia barbarie, è uf­ ficio sacro. La possibile «perdita della presenza» riverbera sull’annunciatore. Chi sta accanto al condannato non può non partecipare della ambigua funzione del sacerdote. Co­ stui cammina talvolta all’indietro, con la propria persona impedendo al morituro la vista del palo o del palco e per­ ciò, a un tempo, designandoli e interponendo una presenza umana. Tutto questo è intollerabile per chi non voglia ce­ sure fra la tradizione illuministica o umanistica borghese e il socialismo. Ma la dilatazione e l’inveramento del razio­ nalismo borghese non può non comportare quel che ormai sappiamo: le socialdemocrazie storiche e il «comuniSmo concorrenziale». De Martino invece sa che non si tratta di «sviluppare» i «sottosviluppati». Sa che le angosce del morente non sono soltanto regressione e che il bimbo non è soltanto l’adulto futuro. Le sue speranze nei riti laici mo4 In un certo senso l’idea di prepararsi o di preparare altrui alla morte è implicitamente religiosa, ed estranea ad una concezione del mondo non­ finalistica e naturalistica. (Nel momento del decollo dell’aereo, comunemente ritenuto pericoloso, c’è qualcuno che si prepara alla peggiore eventuali­ tà e c’è chi invece continua a conversare o a leggere il giornale). L’impor­ tanza che il cristianesimo attribuisce alla coscienza della fine e ad ogni ultimo attimo di vita cosciente (di qui la preghiera contro la morte im­ provvisa) nasce dalla certezza che - come Cristo fa co! peccato di Adamo è sempre possibile correggere il passato (individuale e collettivo). Scrivendo queste righe del 1965 non potevo sapere che nell’autunno di quell’anno Frank Kermode leggeva al Bryn Mawr College le riflessioni su questo tema, poi raccolte in The sense of an ending, Oxford University Press, 1967 [trad. it. Il senso della fine, Milano 1972].

LE ULTIME PAROLE

II

strano - è vero - che anche per lui le prospettive del comu­ niSmo sono prudentemente scorciate e ridotte ad un prolun­ gamento della realtà sovietica; dove lo Stato non deperisce affatto. Guardare oltre sarebbe guardare al comuniSmo vero e proprio: ordine nel quale gli «sportelli» burocratici per le questioni della nascita, del matrimonio o della morte non avran bisogno di essere «umanizzati» perché umanizzati sa­ ranno anche e soprattutto gli altri rapporti fra le creature. E non vi saranno riti laici di preservazione della presenza per­ ché tutta la vita o la maggior parte possibile di essa sarà « re­ ligiosa». Anzi è singolare che queste prospettive - con il loro carattere che un cattolico come Augusto Del Noce chiamerebbe «sovrumano» - siano relativamente mute per De Martino, pure più «avanti» di Cases nel delineare al socialismo una vita altra da quella tracciata dai trionfi bor­ ghesi; mentre sia proprio Cases quello che osa ripetere le parole della massima promessa marxista. In questo senso il dialogo allude veramente alle apocalissi, agli «ultimi tem­ pi»: di un uomo e di tutti.

3-

De Martino giudicava negativamente la moderna lette­ ratura apocalittica e positivamente tutto quel che inve­ ce rafforzasse l’« appaesamento» dell’uomo. Posizione, la sua, che sembra a Cases analoga a quella di Lukàcs. Ma oggi - aggiunge Cases - non più sostenibile; perché l’even­ tualità di una apocalisse reale (quella atomica) legittima in parte le apocalissi letterarie. Questo mi pare un modo dav­ vero un po’ meccanico di intendere i rapporti fra industria (atomica) e letteratura: credo bisognerebbe andare più cauti e verificare più estesamente di quanto abbia potuto fa­ re De Martino (e cioè inseguendo il tema nelle letterature del passato) se le opere «apocalittiche» non nascano dalla funzione rivelatrice che le crisi storiche possono eserci­ tare su latenze psichiche soggettive, «normali» o no, e in quale misura invece l’«apocalissi» non sia, soprattutto in letteratura, un genere ed una istituzione. «La fine del mon­ do c’è sempre stata» replica De Martino. Le relazioni fra creazione letteraria, magia e religione sono malfamate: ma non sarebbe il caso di rivisitarle, proprio dopo quel che De Martino ci ha insegnato? Che il linguaggio viva anche

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sotto la pressione di un inconscio, individuale o di classe, Marx e Freud ce lo avevano detto. L’uso letterario del lin­ guaggio, che è cerimoniale e rituale, comporta la polarità consueto-insolito, identico-altro, ed eredita dalle polarità religiose. La letteratura è sempre spaesante (estraniante) oltre che appaesante: mi pare lo dicesse anche Aristotele quando, a proposito della catarsi, parlava di «compassione e paura».

4Qui non si vuole insinuare nulla che riguardi una «strut­ tura ontologica dell’uomo». Ma solo che la nozione di «precarietà umana nel mondo» va interpretata: la vita è precaria in quanto naturalità e in quanto storicità, le due componenti rimangono distinguibili sino al loro ricongiun­ gimento che è la « riconciliazione » di cui parla Marx. « Que­ sta precarietà è semplicemente la rudimentalità dei mezzi tecnici di dominio della natura (com’è il caso delle società primitive) o il loro impiego a fini distruttivi (come accade nelle guerre moderne); ovvero è un rapporto a vario ti­ tolo disumano fra uomo e uomo, una contraddizione in­ terna alla società umana, un limite di umanesimo, onde determinati gruppi umani stanno rispetto ad altri in una condizione strumentale, come "natura” o come "anime morte” '... la precarietà esistenziale... è contesta di situa­ zioni che l’uomo ha generato e che l’uomo può raggiungere e modificare sino alla fondazione di un ordine umano in cui l’uomo sia realmente integrato nella storia, vi si ponga co­ me cittadino di diritto e di fatto e possa perciò accettarla, senza angoscia». Questo scriveva De Martino quindici anni fa ” e Cases glielo ripete. Ma ormai quello che a Cases sem­ bra «secondario» è «primario» per De Martino morente. (In questo straordinario dialogo tutti e due gli interlocu­ tori recitano, sebbene in misura diversa, la loro laicità: Cases assicurando che «naturalmente» per De Martino non 3 E si può aggiungere: onde determinate condizioni umane - l’infan­ zia, la malattia, la debolezza, la vecchiaia, la «religiosità» - e determinate parti di ciascun uomo - vocazioni, repressioni - stanno rispetto ad altre in una condizione strumentale, come «natura» o come «anime morte». 6 de martino, Etnologia e cultura nazionale cit.

LE ULTIME PAROLE

13 si doveva nemmeno sospettare la «tentazione religiosa» di cui lo studioso scomparso gli veniva parlando e De Martino fingendo di non sapere quel che benissimo sapeva e cioè che la «tentazione religiosa» non veste necessariamente le apparenze del Buon Dio). Ma qui una implicazione mi par necessario rilevare: nell’idea di una «differenza qualitati­ va fra apocalissi reale e totale (cioè atomica) e apocalissi culturale parziale» - so di forzare e quasi falsare il pensiero di Cases ma mi pare opportuno insistere perché quelle po­ sizioni, appunto, forzate e accentuate le ritroviamo comun­ que nella polemica mondiale - sembra che l’alternativa sia tra la fine di uno o altro «mondo culturale» e la catastrofe universale. Ma queste sono le tesi della coesistenza pacifica sovieto-americana-, che degradano dalla rubrica «guerra» a quella di «crisi» le guerre che si combattono ormai inin­ terrottamente da un ventennio, tendono a dissociare la vio­ lenza armata di classe dalla violenza di classe non armata e lo sfruttamento dal massacro. Nello scritto di quindici anni fa, l’anno della guerra di Corea, De Martino lo sapeva benissimo e parlava di «mezzi distruttivi» delle guerre moderne, pensando anche all’atomica ma non alla fine del mondo. Insomma, tra fine di un mondo culturale e la fine del mondo umano in generale stanno pure le distruzioni parziali né solamente culturali: la nostra età è molto ricca di esempi anche quotidiani. La realtà è allucinatoria e di­ struttiva, non ha bisogno di diventarlo; e cancella i confini tra l’esperienza «normale» e quella psicopatologica7.

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«Gli uomini possono morire senza angoscia se sanno che ciò che amano è protetto dalla miseria e dall’oblio», ha scritto Marcuse nella conclusiva e piu alta pagina del suo Eros e civiltà (dove «morire» è l’equivalente di «accettare la storia» nel citato passo di De Martino). Nulla è protetto assolutamente dalla miseria e dall’oblio. Ma assolute nella loro relatività esistono protezioni possibili di quel che si ama: e la massima protezione non può venire - dice Mar­ 7 Per non riferirci che ad esperienze che si compiono in « tempo di pa­ ce»: certe forme di brainwashing, i «riadattamenti» del revisionismo psi­ canalitico, l’elettrochoc praticato, sembra, nelle carceri sudafricane ai com­ battenti per la causa negra, eccetera. E qui rimando a Fanon.

QUESTIONI DI FRONTIERA i4 elise - che dall’umanità intera liberata dalla propria prei­ storia. Ma oggi, a noi. Dove sono i compagni e gli amici che deb­ bono ricevere quello che piti abbiamo amato? Al di là de­ gli affetti, che possono solo duplicare noi stessi, abbiamo accettato o subito la perdita di tutte le solidarietà nella superstizione che tutto ci sarebbe stato restituito ad una svolta della storia. La parola «amico» ha mutato regione - Adorno lo ha spiegato da tanti anni - e significa poco piu o poco meno che contiguità di sorte e di corte; di ufficio, cattedra, centro studi, insomma affari. Incapace di resi­ stere alle derive imposte dalla carriera, dal datore di lavoro e dalla rozzezza dell’amor proprio: o allo scoramento e al­ la vergogna dell’impotenza. Mi chiedo che cosa significhi oggi, per me, «morire»: certo, stringere con gli occhi e le mani i corpi degli affetti pili immediati dove necessariamen­ te si sopravviverà come corpi, rimorsi o spettri, e al di là di quelli trasmettere non certo l’opera o la memoria (chi ci crede più?) ma semmai l’eredità ricevuta, di alcune mete e speranze", a sconosciuti che esistono ma che sono inat­ tingibili posteri viventi. Fra chi è più vicino e chi più è lon­ tano non c’è che un vuoto. Altro che Goethe e dialoghi al capezzale e amici che ci lasciano «orbati»; ripugnanza e spavento, la morte è il salario del peccato, ha il viso degli errori e delle colpe che abbiamo commesso. Cases non è meno stanco di me. La fatica di aver cor­ rette talune sue posizioni di dieci anni fa gli impedisce an­ che la mimica della stanchezza. Come non ammirare la te­ nacia con cui seguita a distinguere tra giudizio storico e realtà esistenziale. Come non rispettare il suo rifiuto di ogni pathos. Insisto sul paradosso di questo dialogo: De Martino che ribadisce l’insanabile drammaticità della morte indivi­ duale ha più immediate e storiche speranze di Cases che parla della società senza classi dove ogni individuo realizH In un suo recentissimo studio brechtiano Cases ci dà alcune pagi­ ne di alta intelligenza critica sull'immagine di Benjamin quale appare in due brevi poesie che Brecht scrisse per il suicidio del pensatore tedesco. Su di uno sfondo di sconfitta e morte Benjamin c Brecht giocano a scacchi, all’ombra di un pero. II tema della speranza esilissima e ostinata attraver­ so una dichiarazione di disfalla, che è in quelle parole di Cases, risuona ap­ pena, inconsueto, quasi estraneo, nelle ultime righe ilei « colloquio» insie­ me al tema del dubbio. Fa, anzi, ruli’uno con quello. Ed è una prova, nel lungo cammino che ha dovuto percorrere, che esso non riguarda solo lo studioso amico né i pochi che siamo: ma che sopra di noi il vento sta forse girando.

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zerà immediatamente la specie. Dobbiamo dirlo: in que­ sta occasione (seppure col decoro di chi sa di star prati­ cando un accademico e rispettabile genere letterario) è di morte che Cases ci sta parlando, di quella oscura cosa di cui i marxisti non hanno saputo parlarci perché sembrava ri­ serva deH’irrazionalismo e della decadenza. E discorre del­ l’avvenire: «quel mio rimando a ere future, e chissà quan­ to probabili...» E chissà quanto probabili. Chi, di noi, sa? Chi corre la «tentazione religiosa»? Non è Cases uno dei migliori? Sto parlando di lui, di De Martino o, per immo­ desta distrazione, di me stesso? Partito con l’intento di mordere un razionalismo che con­ tinua a parermi angusto e che ha recato guai gravi alla cau­ sa socialista m’avvedo che il più largo e articolato sentire e pensare di Ernesto De Martino precipita forse ad una im­ mediata speranza di «appaesamento», alla pietà che l’uo­ mo piu deve all’uomo ma che spesso lo tradisce. Cosi le due figure del dialogo si scambiano le parti e si tramutano. Il vi­ vo e il morto continuano veramente a parlare. Vicinissimi eppure separati da un’ansa del moto dialettico. «L’indivi­ duo, la specie...»

«Più velenoso di quanto pensiate»

Il Palazzo d’inverno e i Musei, li odio quanto voi. Ma la distruzione è vecchia come la costruzione ed è altrettanto tradizionale. Distruggendo quel che odia­ mo, siamo stanchi e disgustati non meno di quando consideriamo il processo della costruzione. Il dente della storia è molto piu velenoso di quanto pensiate; non possiamo mai sfuggire alla condanna del tempo. Il vostro grido resta ancora un grido di dolore, non di gioia. Distruggendo, restiamo ancora schiavi del vec­ chio mondo; anche rompere la tradizione è una tradi­ zione. Siamo minacciati da un pericolo ancora piu grande: non possiamo evitare la necessità di dormire e di mangiare, qualcuno costruirà, altri distruggeran­ no, perché «c’è un tempo per ogni cosa, sotto il sole»; ma ognuno resterà uno schiavo finché non appaia un terzo elemento, qualcosa di diverso dalla costruzione e dalla distruzione.

Aleksandr Blok, da una lettera non spedita a Majakovskij, dicembre 1918. I.

1. La Nuova Sinistra ha ereditato dagli intellettuali co­ munisti degli Anni Cinquanta una definita qualità di ipocri­ sia verso l’Unione Sovietica. Dico Nuova Sinistra come opi­ nione stabilizzata, volgarizzata. Non soltanto un gruppo di formule politiche o di centri organizzati. Ma studenti o ex studenti cresciuti. So benissimo che i «più avanzati» si ver­ gognano di tale Nuova Sinistra volgarizzata. Il loro bi­ sogno di essere «avanguardia» è insaziabile. Ma non scri­ vo per loro. Quale ipocrisia? Di considerare scontato, saputo (noioso, per i più ebeti) quel che è accaduto nell’età di Stalin. Quindici anni fa i professori del Pei non trovarono ab­ bastanza «marxista» il rapporto di Chruscèv al XX Con­ gresso, 1956. Togliatti invocò un «approfondimento». I sovietici se la risero. I professori che, nove anni prima, ave­ vano applaudito i decreti di Zdanov pensarono bene, nel silenzio degli storici sovietici, di lasciar lavorare gli storici capitalistici, inglesi o americani. Erano dei militanti, loro: si interessavano solo del significato politico di quel passato prossimo. Pochi mesi; ed ecco Polonia e Ungheria. Molti,

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17 dentro e fuori del Pei, dovettero lusingare la reazione ope­ raia o di base. Essa compensava con l’identificazione nella durezza - vera o immaginaria e comunque vincente - del mito staliniano un decennio di sconfitte sotto la guida del Pei. Quelli che allora vennero chiamati i «carristi» (e ce ne furono in tutto l’arco della sinistra italiana) avevano fret­ ta di tornare ad una normale amministrazione della propria partecipazione politica o, nei casi migliori, avevano bisogno di distinguere con ogni esattezza la propria posizione da quella dei tanti cui Ventesimo e Budapest avevano porto oc­ casioni di accesso, in buona coscienza, alla casta politica dirigente. Quest’ultimo è, credo, il senso positivo del silen­ zio di Panzieri e poi di «Quaderni Rossi». Opinioni, studi, letture non trovavano formulazione, non diventavano pub­ bliche. Venne di moda, dopo tanti anni di frontismo melen­ so, il muso duro, da politico realista. Deportazione, terrore, distruzione di ogni legame fra compagni, spionaggio univer­ sale: pessime cose, certo. Ma tutte causa ed effetto di un errore politico. Una volta che lo si fosse identificato - per esempio, nella scomparsa della democrazia interna di par­ tito - tutto il resto poteva rientrare nella «piccola storia». O essere subordinato ad un rigoroso criterio di classe. An­ zitutto, dicevano (e dicono) «quando si taglia il bosco vo­ lano le schegge». E quindi, a quanto era accaduto nell’età di Stalin, o si faceva riferimento con una terminologia gene­ ralizzante, non emotiva, impersonale, quella delle grandi sintesi, dei concetti socioeconomici e sociopolitici; varietà «occidentale» delle chiacchiere sovietiche sul «culto della personalità», sulle «gravi illegalità» o sulle «inammissi­ bili deviazioni» o ci si preoccupava di stabilire che cosa era stato fatto al proletariato, alla classe operaia o al partito («il popolo senza il partito è canaglia su cui si può sparare» avrebbe detto, a quanto mi fu riferito, un grosso dirigente del Pei nel 1956, dopo Budapest, in una concitata disputa privata), persuasi che si dovesse distinguere fra fucilazioni buone e cattive, torture socialiste e torture capitalistiche, in nome della differenza, come diceva Trockij fra «la nostra morale e la loro», ossia della certezza d’una giustificazione finale. «Il sangue che è stato versato era dunque così pu­ ro? », si era chiesto il girondino Barnave, subito dopo i mas­ sacri di settembre. Per alcuni mesi si arrivò a mettere in dubbio la saggezza del gruppo leninista. O magari, dello stesso Lenin. Il mo­

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mento positivo della tendenza al socialismo veniva accor­ ciato o allungato. C’era chi asseriva che quel momento non era durato più di ventiquattro mesi. O di ventiquattro ore. Il socialismo, per alcuni, non era stato mai cosi bello come sotto lo zarismo. Le tesi cinesi, poi la rivoluzione culturale, ebbero come effetto di mandare quel passato a raggiungere l’enorme re­ cipiente del Passato. Chi è andato alla scuola media quando Stalin era già morto, dello stalinismo se ne sbatte: come fa­ cevamo noi se, ai nostri trent’anni, qualcuno ci parlava anco­ ra del Podgora o di Verdun. 2. Forse non sono stato chiaro? Credo proprio di non esserlo stato. Perché già sento obiettarmi che non è vero, che la riflessione - almeno fra i meno giovani - c’è stata, eccome; e anche le letture e le discussioni. Altrimenti non si spiegherebbero l’ampiezza e la profondità del moto che ha condotto alla formazione della Nuova Sinistra, eccetera. Mi si accusa di generalizzare indebitamente, a partire da una esperienza troppo ristretta. Può darsi. Bene, dico che la Nuova Sinistra non ha preso in considerazione la lette­ ratura internazionale sui campi di concentramento e di la­ voro dell’età staliniana, sulle deportazioni, la condotta del­ la guerra, i processi (e, aggiungo, la prosecuzione del regi­ me di polizia nel corso degli ultimi vent’anni). Ma, lenta­ mente, ha accettato. Sull’Ottobre polacco e ungherese ha preferito sorvolare. Ha accomunato quei fatti nella nebbia del termine «revisionismo». Prendiamo ad esempio la Ceco­ slovacchia del 1968. Non si poteva parlarne senza risalire all’età staliniana. Di qui i contorcimenti di molti amici e compagni per distinguere, al di là della burocrazia cèca e sovietica eredo-staliniana (e del socialismo alla Ota Sik, parificato al capitalismo americano) un’inesistente «classe operaia» di «sinistra» e «rivoluzionaria» e «antirevisioni­ sta». Naturalmente, finivano col trovarla soltanto nei co­ municati cinesi. Il socialismo per il quale era disposto a bat­ tersi l’operaio di Praga sembrava troppo poco ai nostri studenti del 1968-69. E ancora oggi spiegano con acutezza a quegli operai che cosa avrebbero dovuto fare e a quegli intellettuali che cosa avrebbero dovuto pensare. Ho sentito trattare di «fascista» un noto regista ungherese perché nei suoi film presenta le atrocità rosse accanto a quelle bianche: so che se insegnassi storia a Budapest o a Varsavia o a Pra­

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19 ga (e se, naturalmente, me lo permettessero) insisterei mol­ to sulle atrocità e sulle colpe «rosse». Si devono formare uomini capaci di sostenere le contraddizioni della verità; e, per esempio, la presenza di sadici nelle file della buona Causa. Per me, tutto questo viene - nel senso di: discende cronologicamente - dalla incapacità di guardare l’età di Stalin. Chi, nella Nuova Sinistra, ha dedicato un po’ di seria attenzione agli unici documenti che ci sono pervenuti dall'Unione Sovietica, quelli di memorialistica e di letteratu­ ra? Nel Pei fu di buon tono fare i difficili con Pasternak. Ma fra il 1956 e i960, non ebbero migliore fortuna, anche fra i dissidenti, gli autori polacchi o ungheresi — magari grandi narratori, come Déry — che testimoniavano dell’età staliniana. I nostri Nuovi Sinistri si interessarono di auto­ ri dell’Europa centrale solo quando, come Gombrowicz, fossero parsi sufficientemente faisandés. Certo, le memorie della Buber-Neumann, della Aksènova, della Mandel'stam, non lusingavano la facilità rivoluzionaria, non presentava­ no ideologie di sinistra. Solzenicyn parlava di socialismo «umano», cosa tutta da ridere per i nostri lettori di Artaud; e il film su Rublov, chi l’ha visto, sa che è tutto, dal princi­ pio alla fine, un discorso neocristiano. Nessuno di questi autori suonava a fanfara contro i Nuovi Zar. Quasi tutte le voci che in questi anni sono arrivate in Occidente ci hanno parlato in nome di idee che da noi erano denunciate come mistificazioni spiritualistiche, rottami mistici. Non so che qualcuno si sia chiesto che cosa questo volesse dire. Il so­ cialismo russo andato a male ripugnava. Ogni scusa era buona: questo è mediocre scrittore, quello è ingenuo, quell’altro piace al «Corriere». Non parlo delle vocazioni mon­ dane che oggi si precipitano a discettare sui nuovi testi del teatro di Pechino; ci sono sempre state, le praticano oggi i figli di quelli che fra 1945 e 1950 trovavano esemplari i piti luridi film controrivoluzionari sovietici, come Lenin nel 1918 o La caduta di Berlino. Parlo di chi aveva coraggio e intelligenza. Che cose che non li ha fatti resistere ad una prolungata esposizione a quella forma di orrore? A quel­ l’orrore specifico, che viene dalla contemplazione di un fallimento storico tanto ampio da coinvolgere l’idea mede­ sima che ci siamo fatti di uomo e di società possibili?

3. Venticinque anni fa uno dei punti che maggiormente opposero alcuni intellettuali francesi vicini a Sartre ai co­

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munisti (francesi e non francesi) di disciplina stalinista fu l’insistenza dei primi a voler indagare le contraddizioni che avevano accompagnata la venuta della guerra, la lotta partigiana e le persecuzioni naziste. Per gli altri si trattava in­ vece di mettere semmai in evidenza l’eroismo dei vinci­ tori e l’infamia dei vinti. Dubbi e ambiguità dovevano es­ sere lasciati alle «jene dattilografe»; come Sartre. E qual­ cosa di non molto diverso è occorso di leggere, in anni re­ centi, tra la pubblicistica cinese. Non a caso un libro come Humanisme et terreur di Merleau-Ponty è stato tradotto con quasi vent’anni di ritardo e quasi ignorato, prima e poi; né conosco altro testo che discuta meglio certi aspetti dei processi di Mosca e fornisca ipotesi ancora oggi valide. Ma, a farla breve e omettendo una dimostrazione sto­ rica, sembra che la rivoluzione, almeno a partire dalla Unio­ ne Sovietica degli Anni Trenta, abbia avuto bisogno di leg­ gere se stessa in falso. E che il compito di un certo ordine di verità sia stato, in condizioni date, conferito a talune vo­ ci - di poesia, soprattutto o di letteratura: Babel o Malraux, Pilniàk o Lu Hsùn - ma non abbia ricevuta una ela­ borazione teorica né una formulazione ideologica se non da voci, per cosi dire, marginali, sempre combattute dai detentori di una pur minima frazione del potere politico. Non si parla qui delle minoranze «intellettuali»; ma, a li­ vello, per esempio, delle «masse» studentesche, credo si possa affermare che tutta la grande disputa sulle «tecniche della liberazione» (da Reich a Marcuse a Laing, per esem­ pio), è sempre stata come separata, con un diaframma sot­ tile e tenace, dal discorso propriamente politico e tende ad essere continuamente respinta nella sfera del «privato» o, peggio, della cultura-visibile-e-dominante; si che il sin­ golo vive spesso in un regime di doppia menzogna. C’è dunque al fondo della prassi che si riconosce nel «marxismo» - ossia nella verità di quel che, ideologica­ mente, si esprime indicando un dato metodo o un dato cor­ po di enunciati teorici - una costante declinazione, quasi una pesantezza invincibile o una resistenza o una rimozio­ ne; e questo, in nome di un pensiero che si vuole intrepido. 4. Nel tempo della nostra vita l’azione collettiva e la lotta politica per tramutare la società hanno pagato alla efficacia o alla sua illusione il tributo di una censura aperta o segreta su di una parte della vita. Il silenzio o le parole

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confuse o avventate o evasive sulla condizione d’infanzia e di vecchiaia, sull’eros, la malattia, la morte, la demen­ za, il gioco, la crudeltà, tutti i temi della tradizione cri­ stiano-romantica e poi decadente; i temi preferiti dal ne­ mico di classe, diranno subito i miei piccoli lettori... Ma credete che le cose siano veramente mutate molto negli ultimi dieci o quindici anni? Valanghe di libri e di opuscoli su quei temi sono passati dalle librerie d’avanguardia alle mani delle giovani generazioni; ma com’è che il formulario politico continua a ruotare intorno al medesimo linguaggio che fu del ventennio 1935-55? Tutte le variamente eclet­ tiche combinazioni fra il «marxismo» e le maggiori inter­ pretazioni del mondo della moderna cultura capitalistica non hanno alterato la persuasione di fondo: che è del «pro­ gresso» possibile, non sempre inteso nel senso del razionali­ smo e dello scientismo, ma come certezza d’una trasforma­ zione dell’uomo, come integrale superamento del suo passa­ to storico (e preistorico) ossia come superamento dei dati antropologici, creazione di un altro uomo. Non dico che questo sia o non sia nel pensiero dei classici del marxismo; dico che, da sempre, il linguaggio medio della «rivoluzio­ ne», il sottinteso ideologico del «quadro» — e tanto più fortemente quanto meno lucidamente se lo confessa - è quello. È stata pagata, quella censura, con la alienazione poli­ tica del militante professionale, dell’«uomo speciale». La dizione è di Stalin: l’«uomo speciale», il comunista - ma è Lenin che l’ha proposto e creato, nel nostro secolo, quello specialista che diventa speciale. Simile alienazione e defor­ mazione entra, come una malattia professionale, dentro l’agire di chi vuole trasformare la società; e lo corrode. Be­ njamin ha ragione di rammentarci ad esempio, che il «pia­ cere» artistico si inalza sull’«orrore» della oppressione (non più di quanto, bisogna però aggiungere, ogni libertà si inalzi su di una repressione): ma, paradossalmente, è pro­ prio l’orrore della oppressione quel che gli avversari della oppressione, gli avversari «professionali», non svelano in­ tero. Leggano, i nostri giovani e anche alcuni dei nostri coetanei, certe straordinarie pagine degli scampati a Sta­ lin, dove si ammira quale nube di ideologia, nel senso di menzogna accettata per verità, avvolgesse, nel corso degli interrogatori, che so, torturati e torturatori, nobilitando, velando, trasfigurando. Per quanto è della oppressione capi-

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talistica, non fa bisogno di letture, naturalmente. I giova­ ni poi, con la loro continua sete di un po’ di virilità supple­ mentare, assorbono il cinismo indotto dai padroni e si illudono che una qualche misteriosa funzione lo tramuti in sano odio di classe... Temono di sapere che le catene degli uomini non sono solo quelle celate dai fiori della religione e delle altre ideologie della classe dominante; ma che altre ve ne siano oltre quelle e anche più tenaci o dolorose. E che la lotta non abbia mai fine. E se pure lo dicono, vogliono non si dica troppo o troppo spesso, perché temono scorag­ gi i combattenti e, fra i primi, se stessi. Il solo rivoluziona­ rio che queste cose le abbia dette, ma con molta ironia ed entrando in contraddizione con se stesso è, naturalmente, Mao Tse-tung; un aspetto del suo insegnamento che, pro­ babilmente, sarà il primo ad essere dimenticato dai suoi di­ scepoli. Mi si risponderebbe: «ma la parzialità di cui accusi i rivoluzionari, sono cent’anni e piu che ne è loro fatto rim­ provero ed essi la conoscono e la proclamano. Tant’è vero che tutta quella parte dell’uomo che noi passeremmo sotto silenzio, come tu dici, è stata benissimo vagliata dalle scien­ ze umane e sociali degli avversari di classe. Tale parzialità e deformità è, appunto, quel che definisce la classe sulla quale gravano tutte le altre». Questa risposta si completa, in genere, con l’affermazione di una superiorità «scienti­ fica» del sapere di classe, elaborato nel corso della lotta, sul sapere onnilaterale dell’avversario: e di qui segue la se­ misecolare disputa sulla esistenza del cosiddetto «punto di vista operaio», sul significato del «pensiero negativo» e simili. Non serve a nulla dilungarsi in imprecisi enunciati nseudofilosofici. La domanda cui manca risposta è pressante, è quotidiana, la mancata risposta consuma forze ingenti, prepara giorni disonorevoli. Ed è questa: il movimento che nel nostro paese si organizza, come «sezione» di un movi­ mento mondiale, per la tramutazione della società, può continuare a rimuovere dalla propria esistenza la necessità di una idea di che cosa gli uomini siano, siano stati o pos­ sano essere, insomma di una antropologia, diversa da quel­ la che, sotto nome di «marxismo», pare portare in sé una non necessaria e paralizzante e corruttrice contraddizione? Se mi si chiedesse di rispondere, breve e svelto, direi che l’idea di una «parzialità necessaria» - ossia la coscienza

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23 della diminuzione umana indotta negli sfruttati e subalterni e quindi della necessità di fare, proprio di quella diminu­ zione, il «sapere» di classe e il punto archimedico del ri­ volgimento, perché «gli ultimi sono i primi» - quell'idea, quanto più sembra separarsi dalla ideologia nemica, tanto piu le è strettamente avvinghiata, d’una congiunzione im­ mobilizzante, d’una dialettica impoverita. Solo la riaffer­ mazione simultanea del «punto di vista della parzialità» e del «punto di vista della totalità» può ricreare la necessaria salutare distanza. Detto in altri termini, due sono, e contraddittori, i com­ piti. L’uno è quello di far passare i nostri vicini e noi stessi dalla passività quotidiana (attraversata da sussulti di pia­ cere e di angoscia, come i feti nelle loro acque), alla capacità di mutamento come costituzione di un progetto di se stes­ si; di passare dal senso di un tempo non qualificato, che si contorce nell’attimo a quello di un tempo sostenuto dalla solidarietà e quindi volto a rendere, come diceva MerleauPonty, «meno fatale il disordine e meno insensata la mor­ te». È il versante politico del vivere morale. L’altro impone di combattere l’ipnosi indotta dall’azio­ ne come droga, la «distrazione» che viene dal falso ottimi­ smo; ci comanda di dispiegare e di aver sempre presente la irriducibilità, la insaziabilità dei desideri e dei timori, le radici corporee della individualità la passione per il valo­ re del presente, la necessità di chiamare per nome i vizi e le virtù e praticarli nella loro contraddizione. È il versante morale del vivere politico. Fra questi due compiti non ci deve essere priorità, deb­ bono essere perseguiti contemporaneamente. Solo così sarà possibile, come di fatto è possibile, che i sussulti di piace­ re e di angoscia della tragedia quotidiana non siano sempli­ cisticamente negati e rimossi nella dimensione del progetto collettivo ma, trasposti, ritrovino o trovino una dignità che non sapevano di avere; e che il tempo del presente non sia 1 Leggo ora («L’erba voglio», n. 1, pp. 13-15) la prima parte di uno scritto di E. Fachinelli che mi pare conforti queste mie opinioni per quanto è del passaggio dal «biologico» allo «storico» e del tempo della «coazione a ripetere». Mi pare molto opportuna e meritevole di riflessio­ ne la citazione hegeliana sulla «storicità» epica e la «astoricità» tragica. Il celebre passo si legge in Estetica, trad. ir. Feltrinelli, Milano 1963, pp. 1604-6.

QUESTIONI DI FRONTIERA 24 semplicisticamente negato nel futuro ma, trasposto, ritrovi o trovi la dignità che in altri secoli si chiamava preghiera e comunione (e che avrebbe il tranquillo dovere di ripren­ dere quei titoli). Solo se ci si rifiuterà di escludere, di volta in volta, l’uno dei due compiti, sarà possibile che la lotta necessaria, oggi capitale, contro la «distrazione» del falso ottimismo e contro quella che ho chiamato, in questo scrit­ to, la paura di una troppo intensa esposizione all’orrore della storia, non sia semplicisticamente trasformata in sce­ nario per anime belle e ferite, in pensoso «umanesimo», in immobilità.

5. Se coloro che vogliono la tramutazione della società - sottolineo: della società, fatta dagli uomini; non dell’uo­ mo, irriducibile alla storia - non assumono anche «il punto di vista della totalità», la loro parzialità continuerà ad es­ sere legata al destino del nemico. Questo è il senso della profetica minaccia di Blok a Majakovskij, quattordici mesi dopo Ottobre. Questo sento oggi nei gridi, proprio paradossalmente piu «parziali» e al limite della demenza, di un Jackson. Questo non sento nel rumine «marxista» dove, intorno a noi, s’impastano i secolari rancori di un «progressismo» sempre, e giusta­ mente, sconfitto. Oggi «il punto di vista della totalità» è esattamente il contrario di quello che, nella prima metà del nostro secolo, è stato il grandioso monismo di Lenin e che la seconda me­ tà illumina di un colore sinistro. È la capacità di sentire e di riconoscere, non come una immaginazione ma come una realtà sociologica, che la «città futura» esiste già, in parte visibile e in parte invisibile; ma che questa «controsocietà» è, in realtà, anch’essa una società e che non si esce da queste coordinate e che non si realizzerà mai la città di Dio o del Bene o del ComuniSmo. M’è occorso di leggere di una cit­ tà «altra» o «contro» che si dovrebbe costituire poco a poco, in ogni sede, contro la città dei padroni. Non nego affatto il valore politico della costituzione, in ogni luogo dove si lavori e viva, di gruppi e di modi di essere-insieme che si oppongano a quelli imposti dalla società dominante; ma, appunto, non ne nego il valore politico-, si tratta di strumenti di lotta tipici per una società moderna e ne parlò pochi anni fa, ingiustamente dimenticato, Dutschke. Altri­

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menti si ricade nell’ingenuo errore della setta, dell’agrodol­ ce piacere di essere «fra noi». No, i due versanti della so­ cietà convivono, quello amico e quello nemico; e conflittano senza distinguersi del tutto né identificarsi del tutto, anzi la società non è altro che questa compresenza, ogni cit­ tadinanza è una doppia cittadinanza e ogni lealtà vive solo a prezzo di un tradimento possibile. D’altronde qualunque coscienza, anche quella di classe, sa produrre i propri ane­ stetici. 1971.

n.

Qui si dovrebbe leggere la seconda parte dello scritto intitolato: Più velenoso di quanto pensiate. Ma da alcuni an­ ni trovo sempre meno perdonabili la fretta e la mediocre qualità o l’oscurità delle scritture. Il risultato è che leggo con stupore, ammirazione o perplessità i lunghi scritti che compaiono sulle riviste della «sinistra». Anch’io sapevo una volta scrivere con altrettanta copia. Tutti mi paiono, se non geniali, intelligenti; se non intelligenti, informati; o generosi, se non informati. Conosco abbastanza le buone ragioni della forma saggi­ stica, del discorso non sistematico, per non dovermi poi preoccupare troppo della manifesta leggerezza formale del­ le considerazioni - chiamiamole: morali - che m’accade di fare. Una esagerata umiltà di fronte ai ragionamenti siste­ matici e alla mostra di dottrina genera facilmente il suo contrario, secondo una comunissima alternanza psicologi­ ca. Eppure quel che vorrei ragionare tocca a problemi cosi gravi e grandi, a questioni tanto essenziali di lume e dire­ zione per la propria vita e anche, perché non dirlo, di re­ sponsabilità verso quanti ne hanno, di vita, piu di me da percorrere e possono essere tratti a riconoscere qualche autorità ai miei discorsi. Sono nella condizione di uno a cui bisogna spiegare quasi tutto: perché sta al mondo, che co­ sa è una classe sociale, una rivoluzione, il comuniSmo. Uno che è tanto privo del senso del ridicolo da voler magari parlare e ascoltare «sulla vita e sulla morte», come Paster­ nak ebbe la malaugurata idea di proporre a Stalin, nel corso



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di una celebre telefonata2. E quindi portato a pensare che non sia permesso di indulgere a ideologizzazioni confuse, volenterose e approssimative se, a forza di chiarezza e pre­ cisione di scrittura, non si dimostra che la confusione è oggettiva, e inevitabile l’approssimazione. Quel mio scritto ha ricevuto numerosi consensi e piu di una persona stimabile mi ha scritto per parteciparmi il suo: episodi che spezzano per un attimo la nebbia che na­ sconde i destinatari. Ma non posso nascondermi io che la maggior parte di quei consensi vengono da gente che in varia misura ha già consumata entro di sé una lunga ripugnanza per il «rumine marxista» e sa quali sciagu­ rate conseguenze pratiche e politiche si continuino a trarre, nelle nostre immediate vicinanze e nei nostri anni, dal mi­ sconoscimento della «irriducibilità, insaziabilità dei de­ sideri e dei timori», di cui ho parlato non senza enfasi, del­ le «radici corporee della individualità», della «passione per il valore del presente», insomma della finitudine, e finalmente dal rifiuto di guardare con coraggio e senza balle progressiste alle radici anche filosofiche e scientifiche degli errori compiuti dalla causa rivoluzionaria. Presi uno per uno costoro, al pari di me, non rispondono che delle loro e nostre esplicite opinioni. L’esperienza mi rammenta però che quelle sono sempre in relazione con il clima e la pres­ sione dei tempi. E oggi i tempi sono quelli che conosciamo: gli errori recenti della nostra parte e le inadempienze ven­ gono innanzi con una faccia insostenibile. La tentazione della predica quaresimale e penitenziale, che di solito può essere solo la cadenza di un temperamento, trova circostan­ ze che la favoriscono. La miseria (anzi la contraddizione fra miseria e grandezza che è del moralista) può essere insom­ ma sostenuta soltanto se il discorso morale suppone di svol­ gersi in prossimità della propria fine, sull’orlo d’una de­ cisione e azione politica. È questo, oggi, il caso? Abbiamo, ha chi scrive, oggi, la 2 Quel l’aneddoto è un ottimo reattivo. Provate a raccontarlo e vedrete quanti rideranno del letterato che vuol parlare «della vita e della morte» con Stalin e quanti pochi invece proveranno disprezzo per il Padre dei Popoli che. mentre col moto di un’unghia decide della alimi sopravvivenza, si permette anche, come un Bonaparte qualsiasi, di far fare la figura del pirla a chi cerca di non accrescere inutilmente di due unità il numero delle sue vittime. (Aggiungo, ignaro di russo, un sospetto linguistico: che quello impiegato dallo scrittore sia un modo idiomatico ed equivalga a «del piu e del meno»).

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27 persuasione che una vera prospettiva politica sia, in un im­ mediato prossimo futuro, proponibile ai più vicini, per­ plessi dall’intrico di segni, da una ambiguità strana della so­ cietà che ci sta intorno e che formiamo; e, diciamolo, anche da quello delle singole biografie? Non lo credo. Non è la situazione di dieci o dodici anni fa, quando, nella fase dell’ottimismo tecnocratico e neoborghese e nel­ l’assenza di ogni altro punto di riferimento, era possibile proporre senza troppe incertezze ad alcuni giovani amici scelte di coscienza prima che politiche. È vero che una scel­ ta di coscienza si ripropone sempre e prima di ogni scelta politica; ma oggi - da mille segni che si colgono sulla stam­ pa e per la via - è molto grande il rischio di pia o inconscia frode di chi imposti la propria voce a «grido dell’anima». Ecco perché esito a continuare il discorso dello scritto pre­ cedente o Io continuo solo come ora sto facendo. Non vorrei per nessun motivo che le necessità possibili di un co­ mune schieramento di solidarietà contro una destra oggi manifestamente aggressiva facessero, anche per un attimo, dimenticare la necessità delle distinzioni e delle differenze. Quanto piu la situazione si fa tesa, tanto maggiore è il ri­ schio della confusione se non si hanno prospettive politiche chiare. Stiamo per subire ancora una volta il vecchio ricatto della semplificazione: « se gli A dicono B, tu ti schieri con A nella misura in cui anche tu dici B». Sotto questo ricatto la gente della mia generazione visse nel decennio della guer­ ra fredda; analoga situazione fu dell’Europa nel periodo 1933-39. Non s> tratta solo dei mali consueti al fanatismo e al settarismo; ma del fatto specifico che non siamo stati capaci, nell’ultimo decennio, di creare lo spazio necessario alla dialettica delle nostre contraddizioni perché abbiamo saputo quasi esclusivamente interpretarle — secondo una delle peggiori eredità leniniste - come contraddizioni fra antagonisti. Se qui mi si replicasse mostrando quanta im­ barazzante ricchezza di contrasti ha diviso gruppi e sette della Nuova Sinistra, risponderei che non ogni scissione è positiva e che proprio questo processo dimostra di essere vizioso e micidiale se obbedisce alla logica che tende ad amalgamare l’antitesi interna a quella esterna e ad assicura­ re a sé e ai propri una ragione illusoria, una purezza ridicola. Si è saputo forse, in questi dieci anni di dispute, convenire in una accettabile definizione della natura e dei ruoli (o del­ la funzione) dei cosiddetti «intellettuali»? No. E questo

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QUESTIONI DI FRONTIERA

è tanto più grave in quanto e dirigenti e buona parte della «base» della Nuova Sinistra erano appunto «intellettuali» in fuga dalla propria condizione e proprio in quanto tali vanno tuttora in cerca di qualcosa che li assicuri di non esserlo o di non esserlo più: il triste gusto dell’irrazionale, ad esempio. Convenire in una definizione accettabile sa­ rebbe stato, appunto, descrivere un’area, uno spazio dove respirassero le contraddizioni interne alla Nuova Sinistra. Chi non l’ha voluto se non chi crede impossibile resisten­ za di alcun «santuario», nella lotta di classe, di nessun luo­ go dove porsi «per scrivere» (come, non senza retorica, di­ ce Brecht) «nel cerchio di chi era in basso e di chi lottava», perché per loro non c’è nessun «cerchio» intorno a chi «scrive» e non esisterebbero mediazioni? Ebbene, questa concezione, l’idea insomma che fra il nemico di classe e noi non vi sia mai margine e che quindi il tipo e il modo del contatto e del conflitto sia dominato da una necessità in­ transigente, è stata il luogo corrente ideologico con il qua­ le le dirigenze politiche del Pei, negli anni della guerra fredda, hanno combattuto chiunque contestasse il loro «monolitismo»; alla cui ombra, come tutti sanno, quelle medesime dirigenze facevano d’altra parte fiorire i più «lar­ ghi» fronti e le più.«democratiche» alleanze. Lo spazio, allora, da dove affermare il diritto-dovere di una parola che tenda alla propria integrità - parola di «sa­ pere», di «poesia» o di «volontà morale» - attraverso la conoscenza della propria ambiguità, quello spazio non c'è da chiederlo a nessuno se non a se stessi. La coscienza del­ l’errore che questo potrebbe implicare non può trattenerci se non a prezzo di un errore più grave. È sempre stato cosi; almeno per me. (E tuttavia, vi sono situazioni nelle quali la buona volontà o l’orgoglio non bastano; nelle quali i diritti del discorso «poetico» e quelli del discorso «ragio­ nativo «diventano cosi confusi da consigliare una pausa di riflessione che somiglia, ma solo somiglia, a una rinuncia. O semmai un discorso cosi indiretto, cosi obliquo, come quello di questa nota: tentativo di avvicinare una difficol­ tà descrivendola in fretta, senza chiedere al lettore, anche al più amico, consenso e an?i domandando tolleranza). 1972.

Le ultime parole davanti alla Corte

i. Si suppone che esistano caratteri stilistici e retorici distintivi per alcuni tipi di discorsi che davanti ad un cor­ po giudicante, e quali dichiarazioni preliminari o conclusi­ ve, vengono pronunziate o lette da imputati per reati sog­ gettivamente o giuridicamente ritenuti politici, i quali com­ portino la pena di morte o estreme pene detentive. Sebbe­ ne tali caratteri possano apparire alla lettura non diversi da quelli che la tradizione letteraria considera propri della oratoria politica, si suppone che tuttavia posseggano talu­ ni ulteriori aspetti specifici e che questi li costituiscano in una varietà distinta; e si aggiunga che tali aspetti subito riteniamo da ascrivere alle circostanze eccezionali della loro pronuncia; alla loro, per cosi dire, estremità.

2. Apriamo una antologia immaginaria degli ultimi cen­ to anni. Leggiamo i discorsi di alcuni fra i Comunardi da­ vanti al Consiglio di guerra di Versailles ', quelli dei popu­ listi russi, degli anarchici francesi tra la fine del secolo e l’inizio del Novecento, e quelli dei processi di Mosca del 1936-38 e fino ai recenti delle Pantere Nere americane. Il campo si estende per un verso al memoriale difensivo, spes­ so in forma di opuscolo (pensiamo al discorso di Fidel Ca­ stro dopo l’assalto alla Moncada, vero e proprio trattato politico esemplato sulla autodifesa di Babeuf); per l’altro, tocca alla breve dichiarazione del condannato a morte 0 al grido davanti ai fucili. Tutti questi testi hanno in comune una condizione cogente, un terminus ad quem-. detta l’ul­ tima parola, il protagonista sarà ucciso o imprigionato per 1 La bibliografia è vastissima ma deludente non solo per quanto è delle garanzie di autenticità e di correttezza dei testi ma per la possibilità di ru­ bricare sotto un medesimo titolo atteggiamenti eterogenei.

QUESTIONI DI FRONTIERA 30 sempre. Questa condizione metatestuale conferisce a tutto quel che viene fatto e detto prima (processo, ultime parole, ultima notte, ultimo desiderio) un carattere di protasi; la cesura finale riorganizza, e quindi precisa, il senso di quan­ to ha preceduto. È un caso di quello che Frank Kermode, nel titolo di un suo saggio, ha chiamato sense of an ending. L’aspetto cerimoniale e teatrale diviene evidente. Il mes­ saggio sarà naturalmente il risultato della tensione fra quel che viene detto e il suo contesto; una tensione che ha tutti i caratteri di quella indotta dallo spazio tragico. La sovrap­ posizione di due codici (quello non-verbale, o rituale, e quello verbale) si complica, per di piu, di un terzo elemen­ to e decisivo: l’intenzione politica delle parti in causa. Si tratta insomma di testi in situazione, composti di numerose variabili. Una loro analisi implica la convergenza di pivi di­ scipline, dalla linguistica alla psicanalisi e alla storia delle istituzioni giuridiche. Uno schema provvisorio permetterebbe di porre in evi­ denza le opposizioni fondamentali che strutturano i di­ scorsi considerati. Le «parole estreme» sono pur sempre parole ossia proposta e atto di comunicazione. Ora la no­ stra ipotesi è che ad un polo si trovi l’accettazione integrale di un codice comune all’imputato e ai suoi giudici e, all’al­ tro polo, il suo rifiuto, altrettanto radicale. L’accettazione del codice - cioè, in pratica, l’accettazione della legittimi­ tà del giudizio - può naturalmente proporsi di respingere l’accusa o di combatterla. Vale a dire, il discorso può accet­ tare la legittimità dei giudici ma non la loro competenza; può dire: «voi siete bensì i miei giudici ma l’oggetto del vo­ stro giudizio rileva di un altro tribunale». Oppure può ac­ cettare legittimità e competenza: e allora si avrà o l’am­ missione di colpevolezza o l’autodifesa. L’ammissione di colpevolezza potrà essere sincera - con o senza ironia, come nel caso dell’apologià socratica - o simulata; quest’ultimo è il caso, sembra quasi certo, di alcuni dei discorsi finali de­ gli imputati ai processi di Mosca, dove è interessante rile­ vare come l’accusato faccia esplicito riferimento ad una con­ venzionale formulazione della autodifesa, ad una retorica di tradizione, proprio per contestarla, e per giustificare co­ si l’eccezionaiità della richiesta di una propria esemplare condanna. L’autodifesa - che è poi il caso più frequente può accompagnarsi ad una esposizione di principi politici o alla trattazione specifica di un tema.

LE ULTIME PAROLE

31 All’altro estremo, come si è detto, sta il rifiuto di avere un codice in comune con i giudici o con la società; l’accu­ sato rifiuta legittimità e competenza del giudizio, invoca una sua estraneità radicale, proclama un codice proprio, si fa accusatore, rifiuta le norme di comportamento (è il caso dei processi alle Pantere Nere del 1969, quella di alcuni gruppi estremisti italiani e degli imputati del gruppo Baader-Meinhof al processo di Stoccarda), rifiuta il linguaggio comune o la traduzione, sceglie il silenzio. In tutti i casi intermedi, il discorso si presenta come misto, in parti disegnali, di elementi persuasivi e di ele­ menti soltanto edificanti. Con gli elementi persuasivi si spe­ ra non tanto mutare il giudizio dei giudici o degli astanti o dei lontani quanto dimostrare che non si cessa di credere alla persuadibilità, alla ragione e al buon diritto; che si è dalla parte di alcune virtù. Al di sopra dei contenuti di ar­ gomentazione sta un esempio che è continuamente il senso vero delle argomentazioni medesime: quello di chi, a un passo dalla morte, non cessa di far valere la ragione. Inver­ samente, il discorso edificante che rifiuta il contatto e espli­ citamente rinuncia alla argomentazione a favore dell’esem­ pio o delle asserzioni di principio, conta che - se non nei giudici presenti almeno negli ascoltatori prossimi o remo­ ti - si sviluppi in una persuasione razionale quel che al pre­ sente non può venire recepito se non in forma emotiva. Credo sia possibile identificare i due poli ora indicati nei testi degli ultimi cento anni e far loro corrispondere due atteggiamenti. Per comodità di classificazione li chiamerò rispettivamente comunista e anarchico.

3. Mi rendo conto della parziale arbitrarietà di questa terminologia. Essa esprime nondimeno in termini ideologico-politici (e storici) due modi fondamentali e dialettici della antitesi allo stato di cose esistente. E siamo persuasi che essa possa aiutare a chiarire di quali elementi contrad­ dittori sia, a nostro avviso, composto il tipo di discorso poli­ tico pronunciato in extremis. Il discorso che chiamo «co­ munista» eredita in verità da una lunghissima tradizione, che per l’Occidente è nello stesso tempo dimostrativa e per­ suasiva. Indipendentemente dalle tesi di tipo propagandisti­ co che quel discorso può sviluppare, esso propone di fatto un modello di comportamento umano che implica una speci­ fica concezione dei rapporti interumani e del tempo. Tale

QUESTIONI DI FRONTIERA 32 modello umano si vuol fondato sulla razionalità e non sulla passione. I rapporti fra gli uomini vi sono sentiti come og­ gettivi. Il comunista deve, ad esempio, difendersi perché nella lotta si ha il dovere di limitare le perdite; ma di fronte all'ipotesi della propria morte, deve tener presente il prima­ to della collettività e della sua durata e quindi dimostrare la fungibilità, almeno relativa, degli uomini o almeno degli uo­ mini della classe e specie che considera propria. Si tratta di un sostanziale rifiuto dell’eroismo, di quello che evehit ad deos-, e quindi della tragicità. Per il discorso comunista, essenziale è infatti la dimensione cronologica. Nulla è più lontano dall’idea religiosa per la quale, secondo Benjamin, ogni attimo è una piccola porta attraverso la quale può en­ trare il Desiderato. La sua categoria è l’epica, non la trage­ dia. Il suo modello drammatico è lo Shakespeare dei dram­ mi storici; non Corneille. Il dramma comunista, potremmo dire con Benjamin, è ein Trauerspiel, non eine Tragedie. Si aggiunga che il comuniSmo si è posto e continua a por­ si (e anche recentemente, in Cina) il problema dei lapsr. quindi il limite del cedimento non è stabilito una volta per tutte e a deciderlo sarà il partito. Condotto dieci anni fa alla fucilazione, il giovane eroe vietnamita Nguyen Van Troi continua tranquillamente a rispondere alle domande dei corrispondenti occidentali; e con altrettanta calma conti­ nua a parlare mentre lo legano al palo. Il discorso comuni­ sta, quando può, è un contraddittorio (come quello di Dimi­ trov al processo di Lipsia). C’è uno stile «Terza Internazio­ nale» che si ritrova anche al di fuori delle dichiarazioni alla Corte, nelle lettere ultime, ad esempio; e ognuno ne cono­ sce. La ipotassi articola gli elementi assertivi, li circuisce, se­ guendo piu che può le curve del moto dialettico. L’ironia vi è possibile. Il discorso supremo del comunista non perde mai di vista la profonda solidarietà storica che lega amici e nemici e quindi la possibilità che il nemico sia recuperato; mutare i nemici in fratelli, come scriveva Eluard; e innume­ revoli, in questa direzione, i precetti di Mao; raziona­ lità e immanenza si uniscono ad affermare la certezza della continuità non individuale. Si tratta, al limite, di una vera e propria rimozione della morte. Cosi facendo, la tradizio­ ne comunista si collega a un punto capitale del discorso hegeliano, quello per il quale l’inserzione entro la vita di parcelle di morte assicura e rinforza la vita. Il discorso anarchico o tragico abbandona invece la sfera

LE ULTIME PAROLE

33 del possibile, è riaffermazione di un primato del momento etico. Non per nulla il suo modello storico, è in Occidente, Antigone al cospetto di Creonte. Nei versi di Sofocle ci sono quasi tutti i luoghi di una lunghissima tradizione che passa attraverso gli Ada Martyrum: «e dico di averle com­ messe e non nego di averle commesse», afferma Antigone delle colpe che le sono contestate. E proclama l’esistenza di una doppia legge. (È anche da rilevare che, al contrario, per Manzoni, il tragico non può consistere nella esistenza di una duplicità della legge ma di un conflitto fra la legge e la passione). Il discorso anarchico tende ad essere un mono­ logo e un esempio. È una finzione di comunicazione, aggre­ disce, contrappone rigidamente due codici. Fra i tempi ver­ bali, domina il presente. Il futuro - di vendetta o trion­ fo - è vissuto come qualcosa di separato, come l’ambito di una resurrezione, non di una continuità. In termini anali­ tici, la rivolta invocando inconsciamente la pena, si capi­ sce che l’orazione dell’eroe sia un atto di suicidio. Siccome quel che conta è l’esempio e l’affrontamento della morte (magicamente essa getta sventura sui nemici che l’hanno provocata), il discorso si fonderà sulla paratassi, lascerà che spazi vuoti e freddi circolino fra una frase e l’altra. In con­ clusione, il discorso comunista nega la realtà della morte, quello anarchico vuole sostenerne la vista.

4. Nock ha messo in evidenza il rapporto fra la contestazione della legalità e il modo di affrontare la morte (tan­ to frequenti fra cristiani e anche non cristiani nell’età delle maggiori persecuzioni) e le passioni esaltate e scatenate del romanzo greco o del poema di Lucano. E cita Marco Aurelio che deplorava quel modo di affrontare la morte, « per sem­ plice spirito di opposizione, come i cristiani», contrappo­ nendovi la possibilità di affrontarla con animo razionale e serio, «capace di convincere un altro e privo di spettaco­ larità». L’accusa di «teatralità», sia detto per inciso, si ac­ compagna di regola al disprezzo di classe. Anche Saint-Just, per Chateaubriand, è un jeune homme atroce et théatral. Ma, se sarebbe troppo banale seguire come l’ideale stoico e signorile percorra fino a noi la storia dell’Occidente, ci si dovrebbe invece chiedere quali siano i motivi profondi del valore secolare attribuito al martirio eroico e tragico an­ che al di là dell’ovvio modello cristiano. In forma laconi­ ca, si può parlare di rispondenza del momento del martirio

QUESTIONI DI FRONTIERA 34 (e quindi della sua retorica paratattica, lapidaria) con la esperienza concreta di classi e ceti di stato di precarietà con­ tinua, di quotidiana vicinanza alla malattia, alla fame e alla morte, di tensione esistenziale, di pressione violenta dei bisogni. Il meccanismo della violenza rivoluzionaria che, scrive Barthes, legittima le allucinate e (per noi) tragi­ comiche espressioni della retorica giacobina è quello stesso che nel corso dell’Ottocento e anche del nostro secolo è co­ stretto a vivere nel rischio e nella precarietà delle lotte con­ tro le tirannie fasciste e capitalistiche. In questo caso è certamente errato pensare che il modello sia solo quello della cosiddetta cattiva letteratura. Anzi, si scorge di qui la possibilità di ripensare il termine (per noi tradizionalmente gramsciano), di «popolare». L’eroe tragico, come il plebeo in rivolta, affronta, per parlare il linguaggio hegeliano, la morte e quindi, per quel momento, esce dalla condizione servile, si offre l’inebriante attimo di eguaglianza con i suoi nemici cioè di superiorità su di essi. Mentre l’atteggiamento del comunista - proprio perché rifiuta l’aut-aut della men­ te anarchica — se per un verso sembra anch’egli voler ag­ girare la morte svalutandola come un semplice incidente storico (e, in questo senso, sembra accettare l’etica signo­ rile), per un altro verso fonda la propria legittimità sulla capacità di rimanere vicino alla fonte della sua forza, che è la precarietà e quindi la tragicità di tutti gli esseri uma­ ni, fra i quali egli ha scelto una parte, e ne ha fatta la pro­ pria parte. La tentazione della testimonianza usque ad sanguinem, e del cosiddetto «grado eroico» è, certo, un cedimento alla irrazionalità, all’istinto, alle pulsioni sadomasochiste; ma, nello stesso tempo testimonia della vicinanza (o della iden­ tità) alla precarietà esistenziale come esperienza e momento servile. Un uomo cosi lontano dalla retorica come Matteot­ ti poteva scrivere pochi giorni prima della sua morte «Il popolo ormai non crede che a chi gli mostra il proprio san­ gue» (e si sbagliava, perché tale prova è notoriamente in­ sufficiente). Onde il paradosso del discorso epico-comuni­ sta consiste - in tutti i campi quindi anche in quello che ci sta occupando - nel non perdere mai di vista i punti di inserimento della assolutezza o verticalità del discorso tra­ gico-anarchico o esistenziale pur dovendo avversarlo. Al­ trimenti, al discorso epico-comunista toccherà l’elogio di Marco Aurelio, di Montaigne, dei volteriani e degli urna-

LE ULTIME PAROLE

35 nisti moderni e il sacrificio razionale, ironico, distaccato finirà col non sapere più che cos’è la morte e la vita degli al­ tri. Per un paradosso facilmente interpretabile, il discorso prima giacobino poi anarchico e tragico si misura proprio a confronto degli alletti privati, che non dovrebbero avere ac­ cesso al momento eroico e che infatti tendono a rimanere fuori del discorso davanti alla Corte. Il discorso che abbia­ mo chiamato comunista può invece fare luogo ai sentimenti amicali o familiari distinguendoli tuttavia dalla conflittua­ lità ideologico politica, proprio perché gli uni e gli altri so­ no sentiti come un continuum. Quello che chiamiamo il discorso comunista si fonda, vogliamo dire, su di un senso di profonda «normalità». 5. Nell’universo della tolleranza repressiva e della ma­ nipolazione culturale, perdono valore tanto la frase tragica quanto la eloquenza o l’esempio. Il potere repressivo non teme l’eroismo né il coraggio davanti alla morte e nem­ meno la dichiarazione ideologica; anzi considera le presta­ zioni di sfida alla morte come semplici varietà psichiche e come tali sa farle valutare alle masse. Ancora duecento anni fa si metteva la mordacchia al condannato perché non par­ lasse alla folla; trentacinque anni fa, in Polonia, si tappava col gesso la bocca a chi era condotto alla fucilazione; oggi si ammettono i giornalisti, tanto il potere è certo che la mani­ polazione complessiva della opinione annulli gli effetti dell’esempio eroico, i quali vengono considerati emotivi ossia inferiori e irrazionali. Quando Barthes scriveva, vent’anni fa, che «nel fondo della scrittura c’è una "circostanza” estranea al linguaggio, c’è come lo sguardo di una intenzione che non è già piu quella del linguaggio» questa affermazione trovava, in lui, immediata esemplificazione nel linguaggio del discorso po­ litico. Ma gli sfuggiva completamente il perché dell’en­ fasi rivoluzionaria. Perché «la scrittura rivoluzionaria fu quel gesto enfatico che solo poteva far seguito alla forca quotidiana»? Il carattere teatrale che, come ho già detto, viene riconosciuto, piu d’una volta nella storia, alle scrit­ ture e ai gesti supremi non è proprio di situazioni in sé ter­ ribili; basta rammentare come Trockij racconta la comuni­ cazione dell’eccidio dei Romanov, avvenuta nei termini del­ la piu ordinaria amministrazione. II carattere teatrale è in­ vece specifico di un particolare rapporto fra relativo e asso­

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luto. La retorica del discorso che abbiamo chiamato comu­ nista è in definitiva quella, cerimoniale, dell’azione dram­ matica. Quella tragica è la retorica del discorso anarchico. 1974-

Il diario di Pietro Valpreda '

Sotto la data dell’n gennaio del 1972, dopo due anni di galera e poco piu di un mese prima dell’inizio del processo, subito interrotto e finora non concluso, Valpreda scrive: «Oggi è arrivata la carta di rinvio a giudizio... era ora, i testi a carico sono... 161, tutti poliziotti, gente dello Jovinelli e perfino... anarchici. Siamo di fronte a una raziona­ lità cosi aberrante che è sfociata nella follia». Partirò da questa frase, in seguito, per alcune conside­ razioni che non riguardano Pietro Valpreda e il suo libro quanto le possibilità contraddittorie che oggi si propon­ gono a chi guardi in fronte l’immagine della oppressione. Ma prima non sarà male dire che cosa rappresenta Valpre­ da per alcuni di quelli che hanno la mia età. Non è stato soltanto un rimorso; abbastanza comodo se non ci ha impedito, un anno dopo l’altro, di vivere le gior­ nate della nostra vita quotidiana mentre egli contava quelle della propria distruzione. Non soltanto un nome, dipinto e ridipinto sui muri, che tornava a riemergere dalle piogge di tre inverni. La vicenda di Valpreda, è stata l’occasione per controllare in che misura si fossero rivelati definitiva­ mente falsi gli apparati ideologici del ceto politico e intel­ lettuale postresistenziale (che era stato anche il nostro), e in che misura la verità fosse migrata da quella verso altri ceti e altri uomini, capaci di errori piu generosi, di impre­ cisioni più feconde. Non sono stato fra quelli che hanno giurato subito sulla sua innocenza; per i primi mesi sono anzi stato di quelli che hanno ritenuto possibile fosse stato usato nel gioco delle provocazioni poliziesche. Ma, almeno per me, è stato decisivo capire non già che Valpreda 1 La presentazione del libro di Valpreda ebbe luogo al Circolo Turati di Milano, 1’8 marzo 1974.

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era innocente e che non aveva messo le bombe ma soprat­ tutto perché lo fosse. L'ho capito quando i giovani dei grup­ pi, nati nel ’68 e nel ’69 (quelli medesimi che, proprio a noi, formulatori di alcune delle parole politiche che veni­ vano proferendo, davano spettacolo spesso sconfortante di settarismo, frazionismo, superficialità, o anche solo di scioc­ chezza) hanno puntato se stessi sulla innocenza di Valpreda e sull’assassinio di Lineili e hanno scommesso tutte le loro energie sulla dimostrazione di un progetto di fascismo con­ dotto da servizi segreti stranieri e da una parte degli orga­ ni stessi dello Stato, da una congiura dove fossero implicati alcune frazioni dei corpi istituzionali, quali la magistratura, la polizia, l’esercito. Non avevo, né ho, alcun pregiudizio benevolo a favore dei giovani. Quel che sopravvenne a darmi la certezza che la verità stesse dalla loro parte - dico la verità politica e morale, la sola piu vera di qualsiasi prova giudiziale - fu l’atteggiamento della opinione che chiama se stessa respon­ sabile e che combatteva quei giovani. Non dico l’opinione fascista o qualunquista o conformista, che aveva urlato al mostro, beata di esprimere contro l’anarchico assassino il lungo odio per i propri figli. Dico l’opinione della sinistra; che anche essa odiava quei giovani e li cacciava dai propri cortei perché non li disturbassero con i loro Guevara e Ho Chi-minh e Mao. Non che si puntasse proprio sulla colpevolezza; non che non si denunciassero abusi, irregolarità, inverosimiglian­ ze. Non che, da un certo momento in poi, non ci si desse da fare perché il processo venisse celebrato e giustizia venis­ se fatta. Ma la faccenda Valpreda, nelle sezioni, non era gradita. Ho ben presente la dura, ostinata, sorda antipatia che nelle manifestazioni e sulla stampa, nelle conversazioni private come in quelle pubbliche si dirigeva a Valpreda, cosi poco rispondente al modello del proletario progres­ sista, ideologicamente cosi impresentabile. Non era solo la passione, tanto vivace nella sinistra, per i valori filistei; era il calcolato rifiuto di scelte politiche che avrebbero com­ portato l’impossibilità di operazioni, manovre, contatti, compromessi futuri. Da questo punto di vista c’è stata una somiglianza fra Valpreda e i prigionieri di Thieu; che restano prigionieri anche degli equilibri internazionali. C’è stata la quieta volontà di monetizzare il caso Valpreda, di dimenticarlo o di farne materia di scambio.

LE ULTIME PAROLE

39 Il libro si chiude alla vigilia di quella che è stata una delle più ripugnanti stagioni della nostra città, la pri­ mavera del 1972, la persecuzione poliziesca scatenata a stroncare la dissidenza giovanile, la campagna elettorale, la morte di Feltrinelli, la faccia dell’onorevole Rumor che in televisione digrignava i denti a fare intendere che la spada della giustizia si sarebbe presto abbattuta sui colpe­ voli dell’uccisione di Calabresi; mostri, ancora una volta - si lasciava intendere — della sinistra. Che cosa non abbiamo dovuto ascoltare, allora, su Vaipreda. Erano quelle mezze parole, che facevano luce, ma che luce, su di un ambiente, su di una corrente politica, su di una cultura. Venivano innanzi la medesima miseria e la medesima bassezza di chi, a suo tempo o ieri, aveva tro­ vato antipatici e piccolo-borghesi i mustacchi del capitano Dreyfus o la barba del capitano Solzenicyn; e tutto questo in nome di un bramato superiore cinismo alto-borghese, appreso a furia di snobismo e di travestito da durezza pro­ letaria, appoggiato purtroppo e protetto da partiti troppo grandi e troppo grossi ormai per ricordare che di realismo si può anche morire. Rammento una sera del gennaio ’70, fra i giornalisti due ore prima bastonati davanti agli studenti. Si riuscì a forzare certe esitazioni e impegnarci a riprendere la ma­ nifestazione dieci giorni dopo. Ma, da allora, quanti po­ chi hanno trovato la strada per parlare. E oggi sappiamo che non si trattò solo di Valpreda. Furono, nel ’71 e nel ’72, giorno dopo giorno, le perquisizioni e le inquisizioni ai danni degli extraparlamentari, le false scoperte dei depo­ siti d’armi, le calunnie, le minacce agli avvocati, gli arresti, i sequestri, i percossi, i feriti, i morti. In quegli anni si è consumata l’ultima lisca di eredità radicalsocialista. La maggior parte degli ultimi nipoti di Gobetti e di Rosselli, in quel tempo, hanno taciuto o hanno distinto. E dov’erano i nipoti di Gramsci la sera dei funerali di Pinelli? Erano con quelli che ci chiamavano provocatori o utopisti quan­ do, nella primavera del ’72, fra il corpo di Feltrinelli e quel­ lo di Calabresi, siamo andati in piazza a chiedere voti per Valpreda, oppure tenevano compagnia ai docenti univer­ sitari, appena ristabiliti in salute dalle paure del ’68, che non si fecero vedere per le vie di Milano il giorno del fu­ nerale dello studente Franceschi? I giovani dunque che impugnarono la causa di Valpreda

QUESTIONI DI FRONTIERA 4° (e che non erano, essi, anarchici per opinioni, né, quasi sempre, avrebbero potuto esserlo per ceto e origini socia­ li) avevano avvertito come positivo, come indicativo, pro­ prio quello che la nostra generazione, quella della demo­ crazia ufficiale, non aveva voluto capire: e cioè che l’incer­ tezza delle motivazioni politiche, l’apparente o reale vec­ chiezza delle ideologie anarchiche, tutto quell’insieme che nella pratica e nella fantasia poliziesca o benpensante, e anche del benpensante marxista abituato a guardare con disprezzo l’anarchico piccolo-borghese, definiva Valpreda come selvaggina da questura, da ricatto, senza nessun san­ to in Montecitorio e senza nemmeno i resti dell’alone di rispettabilità che fino a qualche anno prima era stato con­ servato dagli studenti — tutto questo non era affatto, come i professori di marxismo ci volevano far credere, un resi­ duo del passato, di un passato prefascista; ma era il segno invece di un ceto che la fase nuova e la recentissima del capitalismo italiano veniva moltiplicando e radicando e dal quale si sentivano parte ormai le decine o centinaia di mi­ gliaia di studenti pendolari, di apprendisti della banlieue lombarda, di giovani immigrati dall’incerto lavoro, tutto quel che insomma non aveva nessuna delle caratteristiche mitiche o tradizionali della classe operaia, che non aveva nessun legame con le depurate virtù resistenziali, che era troppo stanco per trovar la voglia di sollevare dal fango le bandiere della onorabilità borghese. È vero, e mi correggo subito, che Valpreda (per altra via e tradizione) si collegava al populismo e all’anarchismo pre­ fascista; che la sfera delle immagini del suo passato la ri­ troviamo nelle memorie sul Novantotto, nelle pagine di Malatesta, nella passione di Sacco e Vanzetti e negli eroi anarchici di Spagna. Ma proprio in questa quasi sempre ignorata confluenza di due motivazioni storiche consiste la estrema originalità del movimento europeo e mondiale degli Anni Sessanta, e italiano fra il 1968 e il 1972: tutta la tradizione libertaria e antiautoritaria che era stata re­ pressa, anche con le armi della falce e del martello, almeno dal 1917 di Leningrado o dal 1937 di Barcellona, aveva ri­ trovato la propria storica carta costituzionale vent’anni più tardi, fra i singhiozzi di Chruscév - e, se non mentiscono le cronache, fra i colpi apoplettici dei delegati - al XX Con­ gresso; ed era riapparsa, in tutto il mondo, nella seconda metà degli Anni Sessanta.

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41 Era dunque inevitabile che, per i suoi giovani amici co­ me per i maturi nemici, Valpreda diventasse un simbolo. E quando questo simbolo si presenta in forma di un uomo qualsiasi, nella sua individualità definita, l’idealismo ac­ canito che si annida nella mente di tutti noi dottrinari ha difficoltà a comprendere la singolarità di quell’uomo, del Valpreda Pietro che, come si intende nelle pagine del dia­ rio, sa benissimo, e lo dice, di non voler essere un per­ sonaggio e che, prima che soffrire per un ideale politico, soffre immediatamente per una ingiustizia e una galera, e protesta e si ribella o accetta con furia e con disperazione. Era inevitabile; ma quello che i giovani in tutto il mon­ do erano venuti esaltando e difendendo, in quegli anni, come riscoperta dei valori morali e quindi dei valori anar­ chici, era proprio il significato della concretezza, della di­ mensione di esistenza insostituibile, da difendere contro le astrazioni disciplinari, sacrificali e carcerarie della genera­ zione dei padri, dell’Europa assassina, astrazioni feroci che hanno avuto o stanno per avere ancora il sopravvento sui giovani di ieri sotto torma di culto dell’efficienza organiz­ zativa. (E mi vengono in mente le splendide pagine marxi­ ste scritte in proposito da Hans Jurgen Krahl, uno dei piti geniali fra i giovani tedeschi, scomparso nel 1970). Questo sentimento dell’immediatezza, della necessità dell’esistenza e dei suoi stessi limiti, dei suoi bisogni ele­ mentari, questo sentivano e urlavano i giovani che hanno difeso Valpreda, non solo contro i mostri delle forze co­ stituite e i congiurati della strage di Stato, ma contro le astrazioni e le simboliche parate della generazione dei padri. E, in quegli anni, ero proprio io ad ammonirli che l’im­ mediatezza è un sogno e che bisogna piegarsi alla media­ zione se non si vuole il compromesso. Af