Quel che Omero non disse. «Il ratto di Elena» di Colluto e «La presa di Ilio» di Trifiodoro 9788855294218, 9788855294287

La gara di bellezza delle tre dee sul monte Ida, Elena che si innamora a prima vista di Paride e lo segue a Troia, lasci

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Quel che Omero non disse. «Il ratto di Elena» di Colluto e «La presa di Ilio» di Trifiodoro
 9788855294218, 9788855294287

Table of contents :
Classici smarriti
Archetipi epici
Introduzione
Nota alla traduzione e al commento
Il ratto di Elena
La presa di Ilio
Note
Bibliografia
Indice
Classici smarriti

Citation preview

Quel che Omero non disse Il ratto di Elena di Colluto La presa di Ilio di Trifiodoro a cura di Damiano Fermi

La Collana Quella degli autori greci e latini è una biblioteca straordinaria: sono testi sopravvissuti, mai per caso, a millenni di cambiamenti e a infinite catastrofi. Alcuni li abbiamo conosciuti sui banchi di scuola, ma le gemme che gli antichi ci hanno lasciato sono assai di più. Molte meritano di essere riscoperte, in un formato accessibile anche ai non addetti ai lavori. Questi sono i “classici smarriti”, proposti in un percorso che permetterà di conoscere aspetti nuovi, inediti, inaspettati dell’antichità, e dunque di comprendere meglio anche il nostro mondo, e noi stessi. Prossime uscite: 4. Uno scandalo in Sardegna (Pro Scauro), a cura di Francesca Piccioni. 5. Il cacciatore, a cura di Rosario Scannapieco.

Classici smarriti

Collana diretta da Tommaso Braccini

Classici smarriti | 3

Quel che Omero non disse Il ratto di Elena di Colluto e La presa di Ilio di Trifiodoro a cura di Damiano Fermi Prefazione di Alberto Camerotto

© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Classici smarriti ISSN: 2784-8221 n. 3 – novembre 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-421-8 ISBN – Ebook: 978-88-5529-428-7 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: troy horse vector illustration © Mario Breda – stock.adobe.com

Archetipi epici La guerra di Troia, formule e racconti da Omero a Trifiodoro Prefazione di Alberto Camerotto

L’epica è il primo racconto, la prima memoria. Se parliamo di archetipi epici, questi sono i pensieri e le storie che passano attraverso il tempo. Ben al di là della semplice letteratura. Perché si comincia con quello che letteratura non è. L’epica arcaica è tradizione orale, composizione e performance nello stesso tempo, davanti al pubblico. Non c’è la scrittura, ma è immediatamente memoria collettiva. Esiodo e Omero sono il vertice di una lunga tradizione e il punto di partenza della nostra storia. Sono rapsodi, cantori, sicuramente non conoscono e non utilizzano lo strumento della scrittura. È un’altra dimensione, l’abbiamo capito a fatica. Diventano i paradigmi, per i racconti, per il pensiero, per l’arte della poesia. Modello per sempre. È per noi questo l’inizio della infinita tradizione dell’epica greca, del primo e forse più importante dei generi poetici. Sarà anche l’inizio della letteratura. Per la lingua e la cultura della Grecia antica significa una storia che dall’VIII sec. a.C. arriva fino al V sec. d.C. e oltre. È una storia poetica straordinaria. L’epos supera i confini dello spazio e del tempo, supera anche le barriere delle lingue e delle culture. Tutti sappiamo che cosa succede a Roma con l’esametro, il ritmo difficile e memorabile che dà il nome all’epica.

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Gli archetipi, però, sono fatti di storie, di racconti, di eroi e di dèi, di azioni e di gesta, di dolori e di orrori. È la memoria del mito. L’epos è forse uno dei migliori veicoli delle imprese dei mortali. Uno strumento potentissimo. E le figure restano per sempre: Elena, Paride, Menelao, Agamennone, Achille, Odisseo, Ettore, Priamo, Andromaca. Questi sono gli archetipi anche per noi. È la leggenda troiana, che sta insieme ad altre storie famose, a diverse vicende e a differenti protagonisti. Ci sono altre leggende, altri cicli, altri eroi e altre città. Ma qui si parla di Troia. Quello che è avvenuto intorno a Ilio, per Ilio e alla fine oltre le mura fin dentro la città. Dalle cause più remote ai dieci anni di guerra, fino alla caduta di Troia e alle sventure del nóstos degli Achei dopo la vittoria del cavallo: sono questi i più formidabili tra i κλέα ἀνδρῶν, le «glorie degli eroi», con infinite óimai o tracce narrative a disposizione per il repertorio dei cantori, come succede per Demodoco. Ma sono anche le vicende e i nuclei tematici che ritornano per sempre nella tradizione poetica. Questi sono i canti, questa è la poesia. Tradizione e innovazione, ripresa e variazione. Mille anni e più dopo Omero, ascoltiamo e leggiamo i quattordici lógoi dei Posthomerica di Quinto Smirneo. Non sono più canti, ma il poeta ci prova, vuole essere più o meno homerikótatos, così come gli è possibile. È il grande fiume dell’epos. Si racconta per progetto tutto quello che succede tra l’ultimo verso dell’Ilia­de e il primo dell’Odissea. Ma si possono fare molte cose in questo flusso. Lo sappiamo. Si può sperimentare ogni cosa. E nei secoli successivi, nell’antichità ormai tarda, dove non ci sono più neppure gli dèi, la poesia rimane, si può fare epos perfino dei vangeli. Potrebbero diventare memorabili anche le parabole, basta raccontarle in esametri. Ma i racconti degli eroi, insieme con gli dèi tramontati, vivono ancora anche quando non è più il loro tempo. Anche oltre i confini più problematici delle religioni. Non si ferma l’emozione dell’esa­ metro, di un verso che è memoria e racconto, che serve a crea­ re e a ricordare le storie.

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L’Egitto tardo-imperiale, alla fine del mondo antico, ai nostri occhi diventa la patria della tradizione epica: tra i frammenti papiracei con i loro esametri da decifrare e un poeta che compone il poema epico più lungo di tutta l’antichità, Nonno di Panopoli. Gli è vicino Colluto, con una composizione epica brevissima, che leggiamo qui per prima. Per la brevità, meno di quattrocento versi, la si può definire anche un epillio, un piccolo epos. È un poeta che appartiene a tempi nuovi, potrebbe essere il più tardo di tutti. Perfino l’esametro con i cambiamenti della lingua porta i segni delle trasformazioni. Anche se rimane uguale a se stesso o quasi. Colluto ricomincia da capo la storia della guerra di Troia, anzi racconta quello che è successo al principio, prima della guerra. È la storia della mela d’oro di Eris, una delle mele delle Esperidi, è l’aitía, la causa prima della guerra dei dieci anni, la guerra per Elena. Il poeta cerca regole proprie, altre vie dei canti. Ma, è chiaro, rimane sempre epos. È su questa relazione che tutto funziona. Anziché le Muse, si possono invocare le Ninfe della Troade, sotto le balze del grande monte dell’Ida. Ma danzano proprio come le dee dell’Elicona di Esiodo, dentro a una prótasis che si riconosce sulle tracce degli esordi più antichi. Come le Muse del catalogo delle navi, sono testimoni autoptiche di tutto quello che è accaduto, sanno tutto (13: αὐταὶ γὰρ ἐϑηήσασϑε, «proprio voi siete state lì a guardare»). Accanto ci stanno anche le Sirene e la loro sapienza; come dicono loro stesse, conoscono le imprese e sofferenze dei mortali. Il poeta chiede la loro voce a queste Ninfe della Troade, a queste divinità della natura. Chiede loro la storia del giudizio di Paride, l’eroe con cui si inizia e si conclude il canto, non serve neppure nominarlo grazie agli epiteti che sostituiscono il nome. Proprio come vale per Odisseo all’inizio del poema del nóstos. Una serie di formidabili domande rapsodiche, una dopo l’altra, alla fine della prótasis, servono a costruire le prospettive della narrazione. Qualcosa di simile succede anche nell’Iliade. Sono gli schemi che ci servono da guida.

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In principio ci sono le navi, è l’arché di tutti i mali, lo sappiamo bene. Sono le navi che portano Paride lontano, oltre il mare, fino a Sparta, a cercare la sposa di Menelao, della quale fino al giudizio delle dee nemmeno immaginava l’esistenza. Non sapeva proprio che cosa fosse la bellezza. L’epi­teto chiave, archékakos, si estende a Fereclo, il costruttore delle navi che utilizza quegli stessi alberi del monte Ida che serviranno alla fine della storia della guerra di Troia a costrui­re il cavallo di legno di Epeo. Sarà l’inizio della fine, nuovo principio di tutti i mali. E cittadino archékakos, nell’ultimo verso di Colluto, è naturalmente Paride, quando di ritorno con la sposa (altrui) lo accoglie la sua città, che per queste nuove nozze famose e maledette è destinata all’ultima rovina (394: τὸν ἀρχέκακον πολιήτην, «il cittadino principio di tutti i mali»). Gli echi dell’epos servono a questo. Allusioni, sinapsi, tensioni del racconto. Che bisogno c’era che un pastore varcasse il mare? Che cosa è successo, per arrivare al giudizio divino, al giudizio che Paride si ritrova a pronunciare tra Era, Atena e Afrodite? Il canto nuovo segue le tracce e le trasforma. Non è più un canto, è poesia secondo i canoni moderni. Ma il linguaggio è profondamente intriso dei suoni e dei significati dell’epos più antico. Nel rapido catalogo del viaggio, la terra di Ftia, la patria di Achille, è botiáneira, «nutrice di uomini», Micene appare euryágyia, «dalle ampie vie», Sparta, lo si può capire, è kalligýnaika, «città di belle donne», Terapne è «amabile», eraté. Certo, Colluto del canto più antico viola le regole, non ne rispetta i tabù, i codici più profondi della tradizione. Non può e non vuole fare altrimenti. Basta guardare come agiscono gli epiteti più memorabili, che troppo spesso non sono più esornativi. Se Era è sempre leukólenos, dalle bianche braccia, e se Atena polýmetis non si priva della sua sagacia in attesa dei progetti che verranno, Cipride è allora pericolosamente dolómetis, ingannatrice per definizione, o meglio ancora per l’azione in corso, mentre la sua bellezza si può contaminare con altre che non le spettano, può diventare simile a quella dell’Aurora rhododáktylos, «dalle dita di rosa». Il premio

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della bellezza, ossia della sua vittoria nella contesa con le altre dee si fa ptolíporthon, «saccheggiatore di città», è l’epiteto più minaccioso di Odisseo, è l’epiteto che contiene l’intera storia dell’Iliou­persis. È anche epiteto di Eracle, di Achille. Tra gli dèi lo portano Ares, Enyo, e poi Atena. Insomma, sappiamo cosa significa. Ne ascoltiamo il suono con un brivido di spavento. Il poema di Colluto è l’inizio della storia. Trifiodoro, invece, ci racconta la fine. È anch’egli un poeta egiziano, che nel nome ricorda un culto locale vicino a Panopoli: siamo sempre nell’area culturale di Alessandria, tra paganesimo e cristianesimo, ma quasi sicuramente tra il III e l’inizio del IV sec. d.C. Un po’ prima di Nonno e di Colluto. Il suo poema epico, così lontano da Omero, racconta ancora una volta la storia più impegnativa di tutta la saga troiana. Canta la caduta della città di Troia, un racconto tremendo, che impressiona fin dalle anticipazioni formulari, dalle minacce degli Achei e dai timori e dalle premonizioni dei Troiani dell’Iliade. A volte qualcosa lo annunziano anche gli dèi. C’è poi il grande canto di Demodoco nell’Odissea, nella brevità della narrazione compendiaria, ma con un ascoltatore d’eccezione. Bisognerebbe sempre ricordare la sua reazione (Hom., Od., 8, 521-531). E insieme abbiamo i ricordi degli eroi, tra Odisseo, Nestore e Menelao. Sicuramente quello della pérsis era il canto più affascinante per la tensione narrativa, il canto di maggior successo, proprio perché questo bisogna narrare, e questo tutti vogliono ascoltare. È ciò che possiamo intuire dal cavallo e dalle scene del massacro degli innocenti nel píthos di Mykonos. Più o meno dell’epoca di Omero, quando l’eco dei canti risuonava ovunque nella Grecia arcaica. Per la caduta di Troia c’era l’Ilíou Pérsis di Arctino di Mileto, sempre alla fine dell’VIII sec. a.C., e la Piccola Iliade di Lesche di Mitilene, all’inizio del VII sec. È poi il soggetto di un poema di Stesicoro. E, dopo che tutto si è compiuto nell’ultima notte di Troia, le macerie della città e le donne prigioniere sono la scena e le protagoniste delle Troiane di Euripide. Ma è anche il tema più impressionante

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dentro all’epica di Virgilio, dal canto II dell’Eneide. Quinto Smirneo dedica alla caduta di Troia i lógoi XII, XIII e XIV dei Posthomerica. Trifiodoro fa la sua parte. È la sua ricerca. Il tema è quello della fine. Con la consapevolezza di quello che succede, per gli eventi e per le forme. Nella prótasis c’è già tutto. Per quello che vuol fare questo poeta. La prima parola è il tema del canto, τέρμα (térma), significa il compimento, la meta, la dirittura d’arrivo di una corsa. Ci sono anche altre parole epiche a disposizione. Ma intanto è sicuramente un paradosso cominciare con questa parola. È la fine tanto attesa della guerra infinita. È motivo antico, è la fine sospirata, desiderata nei lunghissimi dieci anni di guerra. Non si pensa ad altro, finire la guerra e poi cominciare il nóstos, tornare a casa, i temi stanno in sequenza come vediamo nei primi due versi dell’Odissea (ὃς μάλα πολλά / πλάγχϑη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεϑρον ἔπερσε, «che tanto errò, dopo che distrusse la sacra rocca di Ilio»). Bisogna passare dalla pérsis, dalla caduta della città, che non può non esserci, come dicono le óimai e come tutti sappiamo. Poi, nel secondo verso di questa Hálosis Ilíou, la dichiarazione del tema si sdoppia, con la parola λόχος (lóchos): è la parola tematica dell’inganno del cavallo. È, insomma, il grande tema dello Híppou kósmos, la storia del cavallo di legno, come è definito per la prima volta per il canto di Demodoco (Hom., Od., 8, 492 s.: ἵππου κόσμον ἄεισον || δουρατέου, «canta il progetto del cavallo di legno»). È lo stesso Odisseo che gli dà il titolo. È come dire la caduta della città di Troia, l’Ilioupersis. Una specie di termine tecnico del canto o di parola chiave. Chiarisce subito il problema, non è più questione di prendere Troia in battaglia, combattendo face-­to-face, con l’onore, con la forza. Impossibile conquistare la città col valore. No, l’unica via è l’inganno, il dólos, la missione speciale oltre le linee nemiche, la trappola, il calcolo della métis, il risultato a ogni costo, anche con l’infamia. Oltre tutte le regole, è un’altra cosa rispetto alla guerra. Con l’invocazione alla Musa, Calliope, le cose si complicano ancora, si introduce una prospettiva

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metaletteraria, con echi alessandrini, a definire la brevità della composizione. Sono 691 esametri. Ma sicuramente è un testo impegnativo. Una sfida per il lettore, e anche per gli studenti che si cimentano con questi versi nei nostri corsi. Si passa subito agli eventi, con le indicazioni che servono a capire. Il punto di partenza è quello della guerra che non finisce mai. Tutti cominciano con l’idea della guerra-lampo, ma dalla guerra di Troia in poi non è mai così. Il tempo della guerra consuma tutto, sfinisce perfino le divinità della guerra, logora anche le armi, mentre gli Achei e i Troiani piangono i loro guerrieri più forti, in un catalogo dei caduti che fa impressione. È il catalogo della memoria. Lo si fa in genere dopo che la guerra è finita. Ma Troia rimane ancora invitta, si continua a morire da una parte e dall’altra. La grande città è imprendibile, le mura divine non possono essere violate. Lo stallo chiede agli Achei qualcosa di completamente diverso. Altri eventi, altre condizioni possono agire nella narrazione. L’arrivo di Neottolemo, l’arco di Filottete, il Palladio. Possono servire anche le profezie di Eleno a rincuorare e guidare gli assedianti, dopo dieci anni inutili di guerra e di sofferenze lontano dalla patria e dai loro cari. Sicuramente c’è di mezzo anche la vergogna. Ma ciò che cambia tutto è l’idea del cavallo. Un progetto. Ci sono all’opera Odisseo, Epeo, e in particolare Atena, che ovviamente non si può permettere l’offesa di Paride e della città impunita. Il rischio c’è. Da qui comincia, allora, l’Iliou­ persis, la costruzione del cavallo, l’incendio delle tende e il finto nóstos degli Achei che lasciano le rive di Troia senza aver compiuto l’impresa. Una vergogna incredibile. Davanti alla città rimane solo il cavallo di legno, con le ruote. Un grande monumento, un voto sacro agli dèi, una macchina fatale. È fatto per la seduzione dei Troiani. Saranno loro stessi la causa della loro fine. Il progetto sfrutta l’idea del paradosso strategico. Per i Troiani il cavallo diventa il monumento della vittoria, scoppia la festa della liberazione dopo dieci anni di guerra. Chi potrebbe pensare altrimenti? La voce di Cassan-

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dra è quella di un uccello del malaugurio, meglio farla tacere. Si può perfino aprire una breccia sulle mura, quello che mai si dovrebbe fare (Verg., Aen., 2, 264: dividimus muros et moenia pandimus urbis). Ma può bastare anche il supporto degli dèi nemici a scardinare utilmente le porte. Il cavallo entra in città, tutti vogliono dare il loro contributo, non si può mancare agli eventi che fanno la storia. È un corteo di festa, una processione con musiche, canti e danze. Impavesato di fiori il cavallo con le ruote, pregno di armati, arriva in alto sull’acropoli, davanti ai templi e agli altari. Sono i luoghi più belli e più sacri. La festa travolge la città, gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi. Fino a notte. Tutti vogliono credere che sia il primo giorno dell’amata libertà. E invece è l’ultimo giorno di Troia. Nel buio della notte si leva il segnale di Sinone, e a raddoppiarlo c’è anche Elena. Gli armati escono dal cavallo, ritorna la flotta achea da Tenedo. Inizia la devastazione e la strage. Il sangue sommerge tutto, il fuoco è ovunque. Di Troia all’alba non rimane più nulla1.

Introduzione

1. Omero in Tebaide, III-VI sec. Colluto e Trifiodoro: chi erano costoro? È noto che questi poeti di lingua greca condividono la provenienza dalla Tebaide, nell’Egitto meridionale (il cosiddetto Alto Egitto), e che – a quanti anni di distanza precisamente non sappiamo – effettuano un’operazione analoga sul testo dell’Iliade di Omero, scrivendone l’uno il prequel (Il ratto di Elena), l’altro il sequel (La presa di Ilio). I loro componimenti epici ispirati alla saga troiana, spesso copiati l’uno di seguito all’altro nei manoscritti, sono giunti integri sino a noi e ci offrono l’immagine di due autori dotati di profonda e raffinata conoscenza della letteratura precedente, lasciando supporre una solida formazione grammaticale e retorica. Eppure il profilo bio-bibliografico a oggi è ancora piuttosto carente. Le notizie provengono essenzialmente dalle scarne voci del lessico bizantino Suda (X sec.), in cui i due Egiziani sono presentati come tipici intellettuali e letterati del loro tempo. Il caso di Trifiodoro pone delle difficoltà nella sistemazione cronologica dell’epica tardoantica. È certo che sia anteriore a Colluto. Nel 1972 è stato pubblicato un papiro ossirinchita (POxy, 41, 2946) contenente un centinaio di versi del poe­

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ma epico, che è stato datato su base paleografica al III-inizi IV secolo al massimo. Ciò ha permesso di collocare l’opera in tale arco temporale1. Due voci della Suda sono dedicate a Trifiodoro: originario dell’Egitto, grammatico, poeta (grammatikós kái poietés epón), autore di Storie maratonie (Marathoniaká), La presa di Ilio (Ilíou hálosis), Ippodamia (Tá katá Hippodámeian), Odissea senza una lettera (s.v. Trifiodoro, T 1111); Parafrasi delle similitudini di Omero… «e di molte altre opere», aggiunge la seconda voce (s.v. Trifiodoro, T 1112), con ogni probabilità riguardante il medesimo Trifiodoro2. Il suo nome significa «dono di Triphis», divinità femminile venerata nella zona di Panopoli (odierna Akhmim), capitale dell’omonima circoscrizione amministrativa e noto centro ellenizzato già dall’epoca di Erodoto, che la chiama Chémmis (2, 91). Questa dea fa parte di una triade locale (Min-Pan, Triphis e Kolanthes) da cui traggono origine numerosi nomi di persona. La diffusione dell’antroponimo in tale territorio, combinata con la notizia della provenienza egiziana, corrobora l’ipotesi dell’origine del poeta dell’area di Panopoli. Questo invece il quadro offerto dalla Suda (s.v. Colluto, K 1951) per il nostro secondo autore: nativo di Licopoli, poeta epico (epopoiós), fiorito (gegonós) ai tempi di Anastasio (fine Vinizi VI sec.)3; scrive sei libri di Storie calidonie (Kalydoniaká), encomi (enkómia) in esametri e Storie persiane (Persiká)4. Sorprende, nell’articolo del lessico bizantino, il silenzio su quella che per noi è l’unica opera sopravvissuta, Il ratto di Elena (Harpagé Helénes). Un’assenza che è stata spiegata col fatto che all’epoca delle fonti cui la Suda attingeva il poema non doveva ancora essere stato pubblicato (il che indicherebbe posteriorità del Ratto rispetto agli altri titoli citati nella voce). Si può aggiungere, forse, un altro tassello: anche Colluto sarebbe stato un grammatikós, se davvero è da identificare in lui il Colluto grammatico omaggiato in un carme attribuito al poeta bizantino Giorgio Grammatico, il quale lo definisce sapiente (sophós), signore delle lettere, primo nei discorsi e «orgoglio di Omero»5.

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La patria di Colluto, Licopoli (oggi Asyut), si trova un centinaio di chilometri a nord della Panopoli di Trifiodoro. Importante sul piano commerciale e militare per la sua strategica posizione all’ingresso dell’Alto Egitto, Licopoli è anche un centro culturalmente reputato. Conterranei di Colluto sono il filosofo neoplatonico Plotino (III sec.), Alessandro (IV sec.), vescovo attivo nella lotta contro i Manichei, e il contemporaneo san Giovanni licopolita, vissuto da eremita nei pressi della città, noto come il «veggente della Tebaide». Due figli del proprio tempo, dunque, come mostrano tra l’altro sia il mestiere di poeti di professione sia la qualifica di grammatikós, professore di lettere di scuola secondaria (attestata con sicurezza per Trifiodoro, ipotizzabile per Colluto). Ci si è chiesti, a tal proposito, se i due condividessero un’altra caratteristica ricorrente nel profilo classico dell’uomo di cultura del tempo, cioè la mobilità. Se fossero, insomma, wandering poets, per usare una fortunata espressione di Alan Cameron, che ha studiato il fenomeno in un articolo del 1965: intellettuali in movimento tra le varie città dell’Impero, in cerca di fama e fortuna, spesso anche dotati di una discreta conoscenza del latino. Una competenza, quest’ultima, che potrebbe aver giocato un ruolo non indifferente nella brillante ascesa politica di alcuni di questi personaggi. Né per Colluto né per Trifiodoro esistono testimonianze che documentino loro spostamenti al di fuori del territorio provinciale della Tebaide, per esempio ad Alessandria o a Bisanzio, ma si tratta di una possibilità che non deve essere scartata. Nulla invece si può dire in merito al credo religioso di Colluto e Trifiodoro. Pagani e Cristiani della Tarda antichità, come è noto, si muovono all’interno di un medesimo sistema di formazione scolastica e cultura classica. Invano, pertanto, si sono sinora cercati nei due testi echi cristiani; né d’altro canto la scelta del poema epico mitologico è sufficiente per orientare verso il paganesimo, considerando che i poeti egiziani tardoantichi si misurano con i temi della classicità in assenza di conflitti ideologici.

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2. L’inizio che Omero non disse. Il ratto di Elena di Colluto Il poema consta di 394 esametri (l’estensione di un canto breve di Omero) e costituisce, si è detto, un prequel dell’Ilia­ de. Tra gli antefatti del mito troiano esclusi dalla narrazione principale del poema omerico – dove l’azione copriva non più di cinquanta giorni dell’ultimo anno della guerra –, Colluto seleziona l’episodio cruciale, tradizionalmente individuato come casus belli.

vv. 1-16: invocazione proemiale

Il poeta chiama in aiuto le Ninfe della Troa­ de, le quali hanno personalmente assistito, presso il monte Ida, alla contesa per la bellezza, che sarà narrata nella prima parte del poema.

vv. 17-67b: le nozze di Peleo e Teti, con l’intervento di Eris

Il matrimonio tra l’eroe mortale e la dea marina, celebrato sul monte Pelio, costituisce l’antefatto del rapimento. Tutti i numi partecipano (vv. 17-37). Unica esclusa, Eris va in collera ed elabora diversi piani di vendetta (37-58); alla fine decide di scatenare scompiglio gettando fra gli invitati al banchetto nuziale una delle mele d’oro delle Esperidi (vv. 59-63); Era, Afrodite e Atena si contendono il pomo (vv. 64-67b).

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vv. 68-100: preparativi

Zeus dà istruzioni a Hermes, che gli siede accanto: la mela sarà assegnata alla più bella fra le tre dee, e Paride, pastore sull’Ida, avrà il ruolo di arbitro nella contesa (vv. 68-76). Hermes guida le dee. Nel tragitto, le immortali migliorano ulteriormente il loro aspetto, per impressionare il giudice (vv. 77-83). Afrodite chiama rinforzi, chiedendo agli Eroti, suoi figli, di seguirla (vv. 84-97).

vv. 101-191: la gara di bellezza

Paride nel suo ambiente pastorale (vv. 101122). Incontro con Hermes e le dee (vv. 123130). Le grazie divine sono attentamente osservate dal figlio di Priamo (vv. 131-135). A turno le tre immortali si rivolgono a Paride e ciascuna promette un dono speciale: dopo i discorsi di Atena (vv. 136-145) ed Era (vv. 146-153), Afrodite si denuda il petto e offre le nozze con Elena (vv. 154-165). Senza minimamente esitare il pastore assegna la mela ad Afrodite (vv. 166-168). La vincitrice motteggia le rivali perdenti (vv. 169-191).

Con il legno ricavato dai boschi dell’Ida, Fevv. 192-200: reclo costruisce a Paride le navi per affronla costruzione tare il viaggio. È tutta opera umana: nessuna delle navi collaborazione da parte di Atena.

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vv. 201-246: le tappe del viaggio e l’arrivo a Sparta

Sacrifici ad Afrodite (vv. 201-204). Tempesta (vv. 205-209). Palude Ismaride (v. 210). Tomba di Fillide e breve digressione sulla triste storia di questa eroina (vv. 212-217). Panoramica su alcuni luoghi della Grecia continentale che Paride scorge durante il viaggio (vv.  218-221). Arrivo in Laconia (vv.  222229). Lavacri in un fiume e percorso a piedi (vv. 230-234). Le bellezze di Sparta, con storia di Apollo e Giacinto (vv. 235-246).

Paride, davanti alla reggia di Menelao, è più bello di Dioniso (vv. 247-251). Cortesie per l’ospite e suo irresistibile fascino, che sbalordisce Elena (vv. 252-264). La donna interroga lo straniero sulla sua origine6 e rammenta vv. 247-325: alcuni eroi greci che ha personalmente conol’incontro con sciuto (vv. 265-276). Paride si presenta, sveElena la la propria missione e scredita la stirpe di Menelao (vv. 277-302). Elena si mostra desiderosa di visitare Troia e acconsente ad essere portata via (vv. 303-315). Di notte lascia Sparta insieme a Paride (vv. 316-325).

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vv. 326-386: Ermione abbandonata

Si fa giorno. Ermione, la figlia di Elena e Menelao, non trova più la madre, si strugge di dolore e chiede spiegazioni alle ancelle (vv. 326-333). Queste cercano di consolare la piccola e formulano ipotesi su dove Elena possa essere (vv. 334-345). Ermione non trova pace (vv. 346-362). Dai pianti al sonno il passo è breve7. Elena appare in sogno alla figlia e rivela il rapimento (vv. 363-375). Al risveglio, Ermione si preoccupa che Menelao, il quale si trova a Creta, sia informato del ratto; intanto l’eroina continua a vagare alla vana ricerca della madre (vv. 379-386).

vv. 387-392: il ritorno

Gli «sposi» veleggiano verso Troia (vv. 387 s.). Cassandra, straziata, assiste all’arrivo della coppia in città (vv. 389-392).

Nell’Iliade e nell’Odissea ci sono solo rapidi accenni al mito della gara di bellezza tra le dee e al rapimento di Elena8. Uno spazio maggiore all’affaire Elena doveva essere dato nei perduti Canti ciprii, il poema d’apertura nella serie del cosiddetto «ciclo» epico (vd. infra, par. 4). Le reminiscenze omeriche sono pervasive nel poema di Colluto, ma non esclusive. L’ambientazione bucolica iniziale è un tributo alla poesia teocritea (e anche all’incontro tra Anchise pastore e Afrodite nell’Inno omerico V); l’incontro tra Paride ed Elena richiama le atmosfere del romanzo; la figura della piccola Ermione fa venire in mente l’interesse tipicamente elleni-

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stico per il mondo dell’infanzia. Notevole è il parallelismo tra il finale del Ratto di Elena, focalizzato sull’orrore di Cassandra alla vista di Paride ed Elena che entrano a Troia, e l’epi­sodio della Presa di Ilio (vv. 358 ss.), in cui la figlia di Priamo urla e strepita per l’arrivo del cavallo (vd. infra, par. 3). Nessun legame invece è possibile ravvisare con il De raptu Helenae9 in latino di Blossio Emilio Draconzio, un testo scritto nell’Africa vandalica della seconda metà del V sec., che ambienta l’incontro tra i due amanti nell’isola di Cipro e si basa, per la ricostruzione del mito troiano, essenzialmente su fonti latine.

3. La fine che Omero non disse. La presa di Ilio di Trifiodoro 691 esametri – quasi il doppio di quelli collutei – per raccontare l’epilogo di una delle guerre più note dell’antichità, la conquista della città che per dieci anni aveva strenuamente resistito all’assalto dei Greci. Come nel Ratto di Elena, dunque, anche nel poema trifiodoreo opera l’esigenza di concentrare la narrazione sulle vicende celeberrime del mito troiano escluse dal canto omerico, che nel finale dell’Iliade si era interrotto con la descrizione della sepoltura di Ettore.

vv. 1-5: breve proemio

“Protasi”, invocazione alla Musa Calliopea e programma poetico incentrato sul motivo della rapidità.

vv. 6-39: posthomerica (decimo anno di guerra)

Episodi dell’ultimo anno di guerra, che precedono la costruzione del cavallo: sfinimento in entrambi gli schieramenti (vv. 6-13); dolore dei cavalli per i loro aurighi caduti in battaglia (vv. 14-16); morte e lamento funebre per alcuni eroi famosi (vv. 17-39).

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vv. 40-56: la svolta

vv. 57-107: l’ekphrasis del cavallo

Troia, grazie alle sue mura inespugnabili, è ancora in piedi, quand’ecco che Eleno, risentito con il fratello Deifobo, giunge tra i Danai e profetizza l’imminente caduta della città (vv. 40-50). Agli Achei si unisce Neottolemo, il figlio di Achille (v. 51-54). Anche Atena dà man forte ai Greci, allorché il suo simulacro, il Palladio, è stato portato via da Troia (vv. 55 s.). Ampia digressione descrittiva dedicata alla costruzione del cavallo di legno10. L’artigiano Epeo usa la legna dell’Ida (vv. 57-61). Le varie parti del corpo del simulacro vengono realizzate e assemblate (vv. 62-102). Se fosse vivo, l’animale sarebbe degno di essere cavalcato da Ares (vv. 103-105). Il cavallo è cinto da un muro di protezione (vv. 105-107).

vv. 108-151: consiglio degli Achei e primo discorso del poema

Assemblea dei re presso la nave di Agamennone (vv. 108-110). Atena, nelle sembianze di un araldo, affianca Odisseo e ne ispira le parole (vv. 111-119)11. L’eroe ricorda, oltre ai vaticini di Eleno, il prodigio dei passeri divorati da un serpente in Aulide; esorta poi parte dei compagni a introdursi con lui nel ventre del cavallo, gli altri a salpare da Troia e a fingere un ritorno a casa, rimanendo invece in agguato notturno nelle vicinanze (vv. 120-151).

vv. 152-183: catalogo degli eroi nel cavallo

Sono elencati i ventidue guerrieri che si alzano volontariamente per seguire Odisseo nell’impresa12.

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vv. 184-208: preparativi

Preghiera ad Atena. La dea, in contraccambio, nutre gli eroi con l’ambrosia13, affinché abbiano l’energia necessaria per rimanere chiusi a lungo nel simulacro (vv. 184-188). Ingresso nel cavallo (vv. 189-199). Ruolo di primo piano svolto da Odisseo nelle operazioni (vv. 200-203). Si esegue l’ordine dato da Agamennone di abbattere il muro costrui­ to intorno all’animale di legno (vv. 204-208).

vv. 209-234: tramonto (1o giorno) e falso ritorno a casa degli Achei

Al calare del sole, gli Achei bruciano le tende e raggiungono la vicina isola di Tenedo (vv. 209-218). Il greco Sinone, col corpo martoriato da ferite autoinflitte, si aggira per Troia (vv. 219-229). Il campo abbandonato degli Achei brucia per tutta la notte (vv. 230-234).

vv. 235-257: alba (2o giorno) e reazioni dei Troiani alla vista del cavallo

A Troia giunge voce della fuga nemica. Gli abitanti escono dalla città e si riversano nella piana (vv. 235-240). Priamo sopraggiunge accompagnato dai vecchi (vv. 241-246). Assiepati intorno al simulacro, i Troiani discutono animatamente su che cosa fare. Si prospettano tre possibilità (vv. 247-257).

vv. 258-305: l’inganno di Sinone

Sinone arriva nudo, pieno di lividi sanguinanti (vv. 258-261). Si inginocchia davanti a Priamo e supplica di ricevere aiuto (vv. 262264), fingendo di essere stato malmenato dagli Achei poiché non era voluto fuggire con loro (vv. 265-282). Priamo accorda protezione e chiede informazioni in merito al cavallo e alle origini di Sinone (vv. 283-290). Replica dell’eroe (vv. 291-303). Priamo dà da vestire a Sinone (vv. 304 s.)

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vv. 305-339: la marcia del simulacro

I Troiani, nel giubilo generale, trascinano il cavallo verso la rocca. Ate entra a far festa in città (vv. 305-317). Inquietanti prodigi sonori (vv. 318-327). Atena rende più agevole il trasporto dell’animale (vv. 328-334). Grazie all’intervento di Era e a Poseidone, il simulacro riesce ad attraversare le strette porte Dardanie (vv. 335-339).

vv. 340-357: Prosegue, all’interno della città, la festosa ancora maniaccoglienza (vv. 340-349). Uomini, donne e festazioni di bambini accorrono (vv. 350-357). gioia

vv. 358-418: Cassandra

La figlia di Priamo si aggira per la città, colta dalla follia divina (vv. 358-375), prevedendo sventure più o meno prossime (vv. 376-409). Il simulacro, a dire della ragazza, deve subito essere distrutto (vv. 410-416). Nessuno ascolta le parole dell’indovina (vv. 417 s.).

vv. 419-443: la replica del padre

Priamo scaccia a male parole la figlia, la quale a malincuore esegue gli ordini paterni (vv. 419-440). Nella solitudine del palazzo, Cassandra si abbandona a lunghi pianti (vv. 441-443).

vv. 444-447: l’offerta del simulacro

Il cavallo, sistemato su un piedistallo davanti al tempio di Atena, viene offerto in dono alla dea (vv. 444 s.). Si compiono sacrifici, che però i numi rifiutano (vv. 446 s.).

vv. 448-453: tramonto (2o giorno)

Ignara del suo destino, tutta Troia festeggia, all’insegna dell’eccesso. La notte intanto cala sulla città.

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vv. 454-497: l’inganno di Elena

Afrodite fa visita a Elena14 e le ordina di recarsi presso il cavallo (vv. 454-464). Qui la donna provoca gli Achei nascosti, chiamando per nome ciascuna delle loro mogli (vv. 465475). Anticlo, che vorrebbe reagire, viene soffocato da Odisseo; il suo corpo è deposto pietosamente in un recesso del simulacro (vv.  476-486). Atena, con un discorso minaccioso, ingiunge ad Elena di allontanarsi; il piano di Afrodite risulta vanificato (vv. 487-497).

vv. 497-505: l’inizio della fine

È notte fonda e tutti i festeggiamenti sono finiti. Il silenzio totale che incombe non lascia presagire nulla di buono.

Zeus solleva la sua “bilancia del destino”, sfavorevole per i Troiani (vv. 506 s.). Apollo abvv. 506-539: bandona la città (vv. 508 s.). Avvistati i segnali preparativi luminosi di Sinone ed Elena (vv. 510-522), i della battaglia Greci a Tenedo partono e approdano a Troia (vv. 523-532). Gli eroi, intanto, escono dal cavallo e balzano all’assalto (vv. 533-539). vv. 540-612: morti senza nome (le donne)

Inizia la descrizione del massacro compiuto dai Greci. La città è in un mare di sangue (vv. 540-546). Un primo elenco è quello delle vittime femminili anonime (vv. 547-558).

vv. 559-572: gli dèi non stanno a guardare

Le divinità sono parte in causa nella battaglia, concordemente ostili a Troia15. Eniò danza senza sosta (vv. 559-561). Intervengono Eris, Ares, Atena, Era, Poseidone (vv. 562-569). Ade abbandona le sue sedi (vv. 570-572).

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Riprende la lista dei morti senza nome, questa volta soffermandosi sulle vittime maschili (vv. 573-595). Vengono sporcati di sangue gli altari degli dèi (vv. 596-599). Orribile sorte di vecchi (vv. 600-602) e bambini (vv. 603-606). Cani e uccelli fanno banchetto coi cadaveri (vv. 607-612). Menelao e Odisseo irrompono in casa di Deifobo, che viene brutalmente ucciso (vv.  613-629). Menelao si riprende Elena vv. 613-646: (vv.  630-633). Assassinio di Priamo presso cadaveri l’altare di Zeus Erceo per opera di Neot­ eccellenti tolemo (vv.  634-639). Anticipazione sulla morte del figlio di Achille, pugnalato a Delfi (vv. 640-643). Odisseo precipita giù dalla rocca il piccolo Astianatte (vv. 644-646). Aiace d’Oileo stupra Cassandra, la quale si vv. 647-650: era rifugiata presso la statua di Atena. Per la Cassandra colpa di un singolo, la dea si adira con tutti i Greci. Non tutti i Troiani periscono. Enea e Anchise, tratti in salvo da Afrodite, sono trasferiti vv. 651-659: in Italia, dove ai loro discendenti tocchei sopravvissuti rà un potere imperituro (vv. 651-655). Gli alla strage Antenoridi sono risparmiati da Menelao (vv. 656-659). vv. 573-612: uomini, vecchi e bambini anonimi

vv. 660-663: Laodice

Laodice, figlia di Priamo, viene prodigiosamente inghiottita dalla terra.

vv. 664-667: l’ultima mèta del poeta-auriga

Il canto si avvia alla conclusione; il poeta, a differenza della Musa, non è in grado di dilungarsi in ulteriori dettagli; come il guidatore del carro, sfiora la mèta e compie l’ultimo sforzo per giungere rapidamente al traguardo.

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vv. 668-685: alba (3o giorno)

Viene giorno (vv. 668-670). Ricerca di superstiti, ruberie e rapimenti di donne (vv. 671679). Il fuoco divampa e il fiume Xanto non osa spegnerlo (vv. 680-685).

vv. 686-691: la partenza

Dopo aver placato l’ira di Achille con il sacrificio di Polissena (vv. 686 s.) ed aver provveduto alla spartizione del bottino (vv. 688-690), gli Achei prendono il largo (v. 691).

Il titolo Presa di Ilio (Ilíou hálosis) appare coerente con il contenuto complessivo del testo, perché alla distruzione vera e propria della città – pérsis in greco – viene dedicata solo l’ultima parte del poema (vv. 540 ss.), mentre il nucleo centrale è costituito dal susseguirsi di una serie di circostanze che portano alla caduta. Nello spirito del sequel, si osserva la volontà da parte di Trifiodoro di creare un esplicito raccordo con Omero, nel resumé iniziale sulle morti di noti eroi: alcuni episodi riferiti erano già stati inclusi nell’Iliade (Patroclo, Ettore, Reso e Sarpedone), altri, in forma cursoria, nell’Odissea (Achille, Antiloco, Memnone16). Da notare anche la connessione con la famosa scena omerica in cui Odisseo, ospite di Alcinoo a Scheria, chiede a Demodoco di cantare la storia del cavallo, dalla sua costruzione sino alla distruzione di Ilio; allora l’aedo dei Feaci, ispirato dal dio, attacca a cantare dal punto in cui gli Achei salpano da Troia dopo aver dato fuoco alle tende, procedendo poi con gli episodi dell’uscita di tutti i migliori dal cavallo e dell’assalto di Odisseo e Menelao alla casa di Deifobo17. Tutte vicende che Trifiodoro racconta in più di 600 versi: in questa prospettiva, la sua Presa di Ilio si può considerare, oltre a un seguito dell’Iliade, anche un’espansione del canto di Demodoco odissiaco. L’affinità tematica maggiore comunque, guardando alla più antica tradizione epica, resta quella con Piccola Iliade e Di-

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struzione di Ilio (Ilioupersis) del «ciclo» troiano. Si tratta di opere perdute, note grazie a un riassunto in prosa e frammenti, che già nell’antichità, da un certo periodo in poi, furono sempre meno accessibili. È pertanto difficile valutare adeguatamente i debiti nei riguardi di tali precedenti (vd. infra, par. 4). Lo stesso vale per altri componimenti pretrifiodorei dal titolo Ilioupersis, come quello di Stesicoro (VII-VI sec. a.C., frr. 98-164 Davies-Finglass), o quello di Sacada di Argo (VI sec. a.C.), di cui ancora meno conosciamo.

4.  Aria di famiglia. Da Omero (ma non troppo) agli Egiziani “pazzi di poesia” I rapporti intertestuali sviluppati dai due poemi sono un ambito di ricerca sempreverde nella storia degli studi trifiodorei e collutei. Numerose questioni rimangono inevitabilmente aperte, dato che i miti e i personaggi trattati hanno fecondo sviluppo nella letteratura, in poesia come in prosa, e nell’arte figurata, sino a entrare a far parte del repertorio convenzionale dei retori. Non si tratta, del resto, solo di individuare i punti di contatto con testi anteriori che si siano occupati del rapimento di Elena o della conquista di Troia. Il lavoro di autori come Colluto e Trifiodoro sulla letteratura delle età precedenti si svolge ad ampio raggio e travalica i confini di genere, in un’ottica di rivisitazione della tradizione alla luce dei nuovi orientamenti poetici. È sufficiente scorrere, nella ricca bibliografia sull’argomento, i lavori di commento su fonti e modelli di Colluto e Trifiodoro per rimanere impressionati dalla mole di rimandi a passi che, con diverso grado di probabilità, sembrano aver influenzato la stesura dei nostri componimenti. Omero, naturalmente, è in cima alla lista (lessico, espressioni formulari, similitudini, pattern narrativi…). Ma non mancano debiti nei riguardi di Esiodo, della lirica, della tragedia di età classica. E soprattutto della poesia ellenistica, che aveva fatto scuola

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quanto a gusto per l’epos breve, le allusioni, gli intarsi eruditi e la filologia in poesia. Qualche esempio per cogliere certi meccanismi frequentemente operanti nel dialogo intertestuale, articolato e complesso, che i due poemi stabiliscono con l’arcimodello Omero. Nell’incipit colluteo, non sono invocate le Muse, come ci si attenderebbe da un proemio epico, bensì le Ninfe della Troa­ de, garanti della attendibilità del messaggio poetico perché testimoni oculari del giudizio di Paride che si è svolto sull’Ida. Queste Ninfe danzano sul monte alla maniera delle Muse con cui si apre la Teogonia esiodea18. Prima di iniziare, però, depongono i veli dal capo, che altrimenti impedirebbero i movimenti. È lo stesso gesto compiuto dalle ancelle della Nausicaa odissiaca nell’attesa che le vesti si asciughino al sole, prima di giocare a palla; la figlia di Alcinoo intanto, nel modello omerico, guida un canto e le ancelle, non casualmente, sono paragonate a Ninfe intente a trastullarsi con Artemide19. Si respira aria omerica (e non solo), come è facile vedere; tuttavia, l’assenza delle consuete Muse risulta funzionale, nel contempo, a mantenere una distanza dall’ipotesto: il poeta non riscrive, in questo senso, l’Iliade, ma realizza il suo prequel. Al termine del viaggio che lo porta da Elena, il Paride di Colluto si lava nelle acque di un fiume e poi si incammina verso la reggia di Menelao. È tutto intento a non insudiciare di polvere i piedi e a mantenere i capelli in ordine, preoccupato che la corsa possa scompigliarli (vv. 230-234). La cura eccessiva per l’aspetto esteriore è un tratto già pertinente in Omero, dove si delinea un ritratto di eroe vagheggino, tanto poco interessato alle virtù guerriere, quanto più propenso alla seduzione delle donne. Diomede, dopo essere stato «graffiato» al tarso da una freccia di Paride, gli parla con tono di sprezzante sarcasmo, notando la sua peculiare acconciatura a spirarle dei capelli20. Nulla di nuovo quindi, nel Ratto, per il particolare della chioma. Però la scena dell’attenzione a non impolverare i piedi nella marcia è una decisa virata verso il ridicolo, vol-

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ta ad accentuare la nota caratterizzazione omerica di Paride come fatuo damerino. Secondo Trifiodoro (v. 85) le zampe del cavallo di legno sono costruite come se l’animale si apprestasse a «rapida corsa» (ápteron… epí drómon). Sul significato dell’aggettivo ápteros, già noto a Omero, gli antichi commentatori sono divisi21: alcuni lo intendono come «rapido», con alpha copulativo («dotato di ali»), altri in senso opposto («privo di ali», con alpha privativo). Utilizzando la parola nel senso di «veloce», il poeta mostra non solo di conoscere la disputa esegetica su ápteros, ma anche di prendervi indirettamente posizione, schierandosi a favore della prima tradizione interpretativa. È questa una forma di filologia praticata all’interno dell’opere in versi ben nota alla poesia alessandrina, che peraltro non stupisce in un autore come Trifiodoro, cui è attribuita la Parafrasi delle similitudini di Omero (vd. supra, par. 1). Ancora due esempi trifiodorei. Ai vv. 120-151 le parole di Odisseo nel consiglio dei re rielaborano elementi desunti dalle arringhe dello stesso nel II canto dell’Iliade, dove l’eroe, spronato da Atena, faceva desistere gli Achei dal proposito di abbandonare Troia22. Ma il discorso lascia anche intravedere una marcata impronta retorica, come mostra la sua struttura interna, con la successione di exordium (vv. 120 s.), istruzioni strategiche combinate a motivi parenetici (vv. 122-145), peroratio finale (vv. 146-151) (vd. infra, p. 39). Ai vv. 454 ss. sono raccontati gli sventurati festeggiamenti dei Troiani, nella notte fatale per loro città, in seguito alla presunta partenza degli Achei. Un’apparizione di Afrodite, a un certo punto, spinge Elena ad avventurarsi presso il cavallo: nascosto dentro il simulacro, Menelao, a dire della dea, la sta aspettando, ed è volontà divina che la donna si ricongiunga con il suo sposo acheo. Ad accompagnarla, tra l’altro, c’è Deifobo, il nuovo marito troiano. Elena compie tre giri intorno alla statua e chiama i nomi delle mogli degli eroi che stanno all’interno. Gli Argivi sono straziati, a sentir rammentare le

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loro donne; Anticlo, tradendosi, vorrebbe rispondere all’appello, Odisseo lo trattiene sino a soffocarlo. La narrazione, nelle sue linee generali, procede in stretta aderenza con un passo odissiaco del IV canto, dove la vicenda è ricordata da Menelao stesso23. Ci sono, però, scarti non trascurabili. In Omero, non solo Odisseo si limita a tappare la bocca al compagno, senza ucciderlo; anche l’intervento di Elena risulta diverso: costei, infatti, spinta da una divinità non precisata (dáimon), appare dotata di una straordinaria abilità mimetica; infatti chiama per nome gli Achei celati nell’ordigno imitando le voci delle loro mogli, facendo così credere che esse siano presenti sul posto. L’episodio modello, dunque, non attribuisce l’omicidio a Odisseo e poi sviluppa il motivo del potere fascinatorio della voce femminile. È notevole rilevare che i versi odissiaci in questione destarono la perplessità di parte della critica omerica: il famoso filologo alessandrino Aristarco (II sec. a.C.) soppresse la parte su Anticlo, e forse anche il verso contenente il riferimento alla mimesi vocale di Elena. Per parte sua Trifiodoro, da un lato depotenzia il ruolo di Elena – costei non imita più le voci femminili, ma chiama le donne per nome –; dall’altro lato, presenta un Odisseo uccisore del compagno. Senza rinunciare, però, anche a un rimando alla prodigiosa vocalità dell’eroina, capace, dice Trifiodoro, di incantare gli Achei in agguato nel cavallo (al v. 487 è usato il verbo thélgein, «ammaliare»). Problematico, poi, è il rapporto con la poesia latina, il libro II dell’Eneide in primis, dedicato alla caduta di Troia nel racconto offerto da un testimone d’eccezione quale è Enea. Direttamente connessa la questione dell’accesso, da parte di Trifiodoro, al testo virgiliano in lingua originale oppure mediante una traduzione in greco. Tra i poli opposti del dibattito – negazionisti vs convinti assertori di un’influenza importante esercitata da Virgilio – si pongono posizioni più sfumate, che in ogni caso, rispetto ai punti di contatto, preferiscono porre l’accento sulle differenze tra i due testi. Macroscopica quella del ruolo marginale ricoperto da Enea nella Presa, che liquida in quattro versi, nello spirito trifiodoreo della sintesi, il tema propagan-

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distico di Roma erede di Troia: l’Afrodite di Trifiodoro salva il figlio e il vecchio Anchise perché ha pietà di loro; con il trasferimento in Italia, realizzato nell’accordo di tutti gli dèi, figli e nipoti di Afrodite cara ad Ares sono destinati a una dominazione imperitura (vv. 651-654). Divergenza più che ovvia, se si considerano le differenti finalità delle due opere. Un discorso analogo vale per l’Eroide XVI di Ovidio (lettera di Paride a Elena), i cui parallelismi con il Ratto sono oggi in genere ridimensionati o negati. Molti testi cui plausibilmente i nostri autori potevano aver attinto, inoltre, sono andati perduti e troppo poco ancora conosciamo della produzione poetica più o meno coeva, che doveva essere ricchissima. Quanto al primo punto, è emblematico il caso sopramenzionato del cosiddetto «ciclo» troiano di età arcaica. Una serie di canti epici che, in un certo senso, già sperimentarono la strada del prequel e del sequel di Iliade e Odissea, proponendosi di completare le tradizioni sul mito troia­no confluite nei due poemi omerici. Il racconto prendeva le mosse dalla decisione di Zeus di provocare la guerra di Troia per alleggerire la terra dal peso eccessivo degli uomini – con la conseguente vicenda di Eris esclusa dalle nozze di Peleo e Teti –, concludendosi con i matrimoni dei due figli di Odisseo, Telemaco e Telegono24. Prima di essere considerati figli di una Musa minore rispetto alle eccellenze di Iliade e Odissea, questi componimenti costituirono un notevole serbatoio tematico per i poeti delle generazioni successive. Progressivamente però la loro fortuna cominciò a vacillare: si vedono serpeggiare sempre più diffusi giudizi negativi25, per arrivare poi alla loro definitiva scomparsa26. In genere oggi si ritiene che il ciclo (o una sua larga parte) fosse ancora accessibile ai tempi di Trifiodoro; ma già Colluto sembra non avesse più occasione di leggerlo direttamente27. Non è escluso, a tal proposito, che il programma poetico dei due poeti egiziani – specialmente la scelta dell’epos su scala ridotta – intendesse prendere le distanze dai canoni del ciclo, pur mantenendo la continuità tematica con questi poemi di età arcaica.

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Passando al periodo più vicino a quello dei nostri autori, Il ratto e La presa si inquadrano coerentemente nella stagione di fioritura che vive la poesia esametrica nella Tarda Antichità («a world of poetry», come spesso è stata definita). L’Egitto, da dove provengono i due poemi, fu terra particolarmente fertile in questo senso (si pensi al celebre Egiziani «matti per la poesia» di Eunapio28), soprattutto nel campo dell’epica di argomento mitologico, che nella Tebaide vanta significativi rappresentanti. Un nome per tutti Nonno di Panopoli (V sec.), autore del poema più lungo sopravvissuto dal mondo antico, 48 libri incentrati sul mito di Dioniso (Dionysiaká). La critica ha ricondotto al suo discepolato il nome di Colluto, e persino quello del suo conterraneo Trifiodoro, quando lo si credeva autore di V secolo29. I più recenti orientamenti, tuttavia, si mostrano cauti anche nel valutare i rapporti tra le Dionisiache e il Ratto, nel clima di una generale attenzione a non sopravvalutare le influenze, pure innegabili, di Nonno30. Significativo è il fatto che l’espressione di comodo «scuola nonniana» sia stata accantonata, limitando la qualifica di Nonniani solo a casi di conoscenza indubitabile degli scritti del Panopolitano, unitamente alla condivisione degli usi metrici. Anche l’opera di Quinto Smirneo (III sec.), naturalmente, merita massima attenzione, perché muove dalla medesima esigenza osservata in Trifiodoro di riprendere l’Iliade là dove si era interrotta, dopo la morte di Ettore. Ma i Posthomerica di Quinto si estendono per 8700 versi e, in 14 libri, coprono le vicende che vanno dal duello tra Achille e Pentesilea – subito esposto all’inizio del poema, senza introduzione proemiale – sino al ritorno dei Greci da Troia (si segnalano specialmente, nell’ottica di legami intertestuali con Trifiodoro, il libro XII, sull’inganno del cavallo, e il XIII, sul sacco della città). Non c’è accordo sul fatto che, cronologicamente, Quinto preceda, anche se di poco, Trifiodoro, né che quest’ultimo si ponga in opposizione polemica con la scelta dell’opera su larga scala dello Smirneo; oppure con altre soluzioni adottate nei Posthomerica: nel particolare trifiodoreo di Sinone auto-

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flagellatosi (vv. 219, 228 s., 259-261), per esempio, si è voluta vedere una risposta a Quint. Smyrn., 12, 363-374, 418-420, in cui il personaggio resiste stoicamente alle torture dei Greci; la versione seguita nella Presa di Odisseo uccisore di Astianatte è stata letta come una presa di distanza dal racconto di Quinto, che fa precipitare il piccolo da anonimi soldati achei (13, 251-257). Il confronto con Quinto e con altri poemi di età imperiale è istruttivo anche per quanto attiene a certe scelte proemiali e narratoriali dei nostri autori, che si conformano ai modi canonici dell’epos: lo si vede sia nella richiesta di assistenza alla divinità in apertura, sia nel mantenimento del narratore – esterno, onnisciente e onnipresente – del tutto anonimo31. Alcune peculiarità del testo trifiodoreo e colluteo riflettono orientamenti ampiamente diffusi nella poesia contemporanea. Nell’ambito della tecnica narrativa, si può citare la mancanza di connettori di transizione dall’una all’altra sequenza: per esempio tra l’analessi introduttiva sulle vicende del decimo anno e la profezia di Eleno (Triph., 6-39 e 40 ss.); o tra l’episodio della costruzione del cavallo e quello dell’assemblea dei re (Triph., 107 e 108). Lo stesso dicasi per l’assenza di passaggi esplicativi per introdurre situazioni e personaggi, come il motivo di Menelao assente da Sparta, presupposto nel racconto dell’arrivo di Paride alla reggia, ma ricordato esplicitamente soltanto alla fine del poema (Colluth., 382); oppure il velato riferimento alle nozze troiane con Enone, sposa di Paride prima del rapimento di Elena (Colluth., 165). Ugualmente in linea con tendenze tardoantiche, e con l’esigenza della brevitas, è l’uso dei discorsi diretti, che occupano un 20 % del poema in Trifiodoro, un 37 % in Colluto32. Altro proficuo confronto è quello con gli autori tardoantichi che si sono misurati con il cosiddetto epillio. Un genere (o sottogenere) letterario cui i nostri poemi, non senza voci di dissenso, sono stati ricondotti, in quanto condividono le caratteristiche base riconosciute per questo tipo di componimento: la selezione operata sul vasto materiale offerto dalla saga tro-

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iana, con focalizzazione su un episodio specifico (il rapimento di Elena, la caduta di Troia), insieme allo sviluppo lineare dell’azione narrativa principale, occasionalmente interrotto da disgressioni (la costruzione del cavallo in Trifiodoro), che talvolta danno risalto a personaggi meno noti del mito (Fillide ed Ermione in Colluto). Il termine epillio è antico («piccolo epos»), ma è moderna – e dibattuta – la sua applicazione all’epica breve del periodo ellenistico, che per l’età imperiale vanta tra i suoi esponenti nomi come Claudio Claudiano di Alessandria (IV sec., Ratto di Proserpina in latino e Gigantomachia in greco), Pamprepio di Panopoli (V sec., Le ore e i lavori33) e Museo (Ero e Leandro). L’origine e la cronologia di quest’ultimo restano oscure, anche se prevale la tendenza a collocarlo in Egitto e in tempi prossimi a Colluto, il quale sarebbe stato suo imitatore. Colpisce, di nuovo, la preminenza di nomi egiziani, tra i rappresentanti di questa forma poetica nella Tarda Antichità. Anche nella scelta del genere, come si vede, le opere superstiti di Trifiodoro e Colluto rispecchiano in pieno gusti e tendenze della loro epoca. Lo sguardo comparativo sulla poesia tardoantica, tra l’altro, è fondamentale per gettare luce su alcune questioni cruciali attinenti all’orizzonte pragmatico: che audience si deve immaginare per i due poemi? E quali modalità performative? Chiaramente l’alto grado di elaborazione sul piano contenutistico-formale e la ricercata impalcatura di relazioni intertestuali presuppongono un pubblico elevato e selezionato. In una dimensione, però, che non è unicamente quella libresca, della fruizione scritta in lettura individuale. È questo un aspetto cui la recente letteratura critica, in una temperie di maggiore favore verso la produzione della Tarda Antichità, ha dedicato crescente attenzione. Può considerarsi un dato acquisito, infatti, che la poesia di questi secoli sia fruita oralmente, oltre che nella forma di prima lettura (anticipazione) di un testo destinata alla ristretta cerchia degli amici dell’autore, anche come recitazione dinanzi a un pubblico più ampio, in contesti piuttosto diversificati (scuole, agoni, più piccoli auditoria o grandi teatri).

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La retorica, in questo senso, condividendo le stesse occasioni di esecuzione e lo stesso rapporto con il pubblico, esercita sulla poesia coeva profonde influenze a vari livelli (stile, struttura e scelta dei temi). In due discorsi collutei per esempio – quello di scherno che Afrodite rivolge alle rivali sconfitte, e il lamento di Ermione per la scomparsa della madre (vv. 171188, 330-332, 346-362) – si sono viste tracce di etopea, uno degli esercizi preparatori (progymnásmata) in uso nelle scuole retoriche, consistente nella rappresentazione verosimile di un carattere. Più in generale, l’assalto stesso degli Achei a Troia di notte (vd. Triph., 540 ss.), con suddivisione in categorie delle vittime (anonime, illustri, uomini, donne, vecchi, bambini…) riflette schematismi e modi narrativi ricorrenti in numerose rappresentazioni di distruzione di una città, a cui gli storici per primi non mancarono di ispirarsi. Si aggiungano, a proposito di influssi della retorica e dimensione aurale, la prevalenza di figure di suono (allitterazioni, anafore, assonanze, omoteleuti, “rime interne”) e i giochi di parole etimologici, un tratto, quest’ultimo, tipico di Trifiodoro34. Maggiori cautele si impongono, infine, per parallelismi più difficili da verificare: come il fatto che il ritratto di Afrodite nel Ratto (vv. 81 ss., 154-157) sia stato modellato sull’osservazione diretta di un’opera d’arte (medesima ipotesi formulata per la digressione del cavallo di legno trifiodorea, ai vv. 57 ss.); oppure il richiamo all’adventus, cioè l’ingresso cerimoniale in città di un’alta autorità, per spiegare l’accoglienza festante, tra musica e fiori, riservata dai Troiani al cavallo nella Presa (vv. 308 s., 316 s., 340-349). La lista, in questa ricerca di relazioni intertestuali sviluppate dai nostri testi, potrebbe senz’altro ulteriormente ampliarsi, se conoscessimo la Gigantiade, epos sui giganti di Scopeliano di Clazomene (I-II sec.), le Metamorfosi di Nestore di Laranda e le Teogamie eroiche in 60 libri scritte da suo figlio, Pisandro di Laranda (III sec.); le Bassariche e il poema su Arianna di Soterico di Oasi (III-IV sec.); gli stessi Ippodamia di Trifiodoro e Storie calidonie di Colluto (vd. supra, par. 1). Opere che, per

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ora, oltre a documentare, in alcuni casi, la netta predilezione per l’epos lungo – si veda per esempio il componimento fiume di Pisandro –, sono per noi solamente dei promettenti titoli.

5.  Dicono di loro Riportiamo a mo’ di conclusione, senza alcuna pretesa di esaustività, una raccolta di giudizi espressi sui due poemi, esemplificativi di mutamenti di gusto e prospettive critiche, che hanno attraversato la storia degli studi collutei e trifiodorei. Di Colluto, egiziano come Trifiodoro, possiamo leggere un poe­ metto anche più breve […] che poteva andare perduto senza nostro rammarico.35 [Su Colluto] […] la frigida inabilità dello schema compositivo, il maldestro uso delle fonti letterarie e mitografiche, l’incerta padronanza del linguaggio epico, se certamente sono da ricondursi in parte alle disastrose condizioni in cui versa la tradizione manoscritta, dovrebbero pure imputarsi a adynamía [incapacità] congenita, non sanata nemmeno sul piano tecnico da una precedente attività rapsodica di gran mole, o dal labor limae venuto meno per il sopraggiungere della morte oppure di altre cause che ci sfuggono.36 [A proposito di Triph., 607-612, in cui cani e uccelli si aggirano tra i cadaveri dei Troiani facendone scempio] […] una scena che sembra improntata a romanticismo deteriore avant la lettre.37 [In apertura alla recensione del Colluto edito da Livrea] Bad poetry is written daily, and married women seduced; but it is seldom that a seduction becomes as famous as Helen’s, or that a poem as bad as Colluthus’ survives for fourteen centuries to be re-edited with all the apparatus of scholarship and equipped with commentary at the rate of a page for every two lines of verse. […] Colluthus is one of the very worst ancient poets to have come down to us. His only notion of the art is to arrange in

41 hexameters phrases borrowed from his predecessors, with little sense of their appropriateness or of narrative coherence. It is as if a parrot had learnt to fit his pseudo-speech to the metre of Shakespeare. Colluthus can give delight, but only to a connoisseur of the ludicrous.38 [Applicando a Colluto un giudizio espresso sul suo contemporaneo Procopio di Gaza, sofista e retore, da parte di due suoi editori, Garzya e Loenertz] tel qu’il est, le poème… «a peu de valeur, soit artistique, soit simplement littéraire. Mais il peut intéresser comme document d’une culture et d’un milieu intellectuel», celui des grammatikói du VIe siècle après J.-C., héritiers lontains d’Homère et des Cycliques.39 [Recensione all’edizione del Ratto curata da Orsini] Colluthus was a poète savant, who delighted in skillfully borrowing, often with felicitous “humour” and “malice”, from his epic models, and who dexterously applied oppositio in imitando within the framework of arte allusiva.40 Il carme di T[rifiodoro] rivela una certa compattezza di stile che a torto la critica gli ha negato: si tratta di una poesia barocca, con il suo spiccato gusto dell’asimmetrico nello sviluppo diseguale delle parti, con la predilezione per il contrasto rispetto al tono uniforme dell’epica classica, con la ricerca dell’effetto attraverso particolari patetici e paradossali, con lo studio raffinato della sonorità espressiva.41. [Dopo un confronto tra Museo e Colluto] Of the two, I confess to warmer feelings for the Rape of Helen.42 If we read the Sack of Troy in the context of its literary background, however, the poem falls into place, with its balance of mythical and narrative coherence, being omerico ma non troppo, and also rhetorically intelligent.43 Colluthus was not slavishly following in the footsteps of his predecessors and peers, but […] he employed the tradition crea­ tively to suit his own objectives, for example, to proclaim his

42 poetics and to surprise the expectations of his late-fifth-century-­ AD audience.44 […] new interpretation of Colluthus as a mature poet who shows awareness of, and confidence in, his poetics, and who is not afraid to engage with his audience to communicate his relationship with his models and his expectations in terms of reputation.45 The challenge for later epic poets lay in creating something original out of Homeric material. Triphiodorus and Colluthus seek to do precisely this, and, judging from the later appeal of their poems, we can see that they succeeded in their objective.46 [A proposito della descrizione trifiodorea del cavallo di legno] It is Triphiodorus’ first opportunity to show his rhetorical skills by composing a splendid ekphrasis […] based not only on the Homeric description of Achilles’ shield (Il. 18, 468-608), but also on the construction of Odysseus’ raft (Od. 5, 243-261).47

Nota alla traduzione e al commento

Le traduzioni di Colluto e Trifiodoro si basano, rispettivamente, sulle edizioni di F.J. Cuartero i Iborra (Col·lut, El Rapte d’Hèlena, Fundació Bernat Metge, Barcelona 1992) e di U. Dubielzig (Triphiôdorou Iliou halôsis – Triphiodor, Die Einnahme Ilions, Narr, Tübingen 1996). Nelle note di commento sono segnalati i luoghi in cui ci si è discostati, nella resa italiana, dai due testi critici. Pur avendo scelto la forma della prosa, non si è rinunciato ad andare di volta in volta a capo, grosso modo alla fine di ogni esametro greco, cercando di riprodurre delle unità di testo il più possibile corrispondenti al verso originale – anche se autonomamente fruibile, la traduzione vorrebbe consentire, a quanti siano interessati, di avvicinarsi alla versione in lingua originale. «Grosso modo» e «il più possibile», si è detto: com’è noto, la lingua greca possiede il sistema dei casi, che permettono di distinguere inequivocabilmente soggetti e complementi, mentre l’italiano conta sulla posizione occupata dalle parole all’interno della frase, con netta prevalenza dell’ordine soggetto-­verbo-oggetto. Pertanto, talora si è stati costretti a spostamenti di parole o anche di porzioni più ampie di testo, per ragioni di chiarezza e leggibilità; al prezzo, bisogna ammetterlo, di aver sacrificato alcune peculiarità sintattiche (come

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l’uso colluteo del soggetto in posizione enfatica a fine verso o la predilezione per le voci participiali). Nella traduzione dei patronimici, in genere si è preferito l’aggettivo che mantenesse il tipico suffisso -id, ricorrendo alla perifrasi esplicativa “figlio di X” solo in quei punti dove non risultasse eccessivamente sacrificata la fluidità della lettura. La numerazione dei righi, per quel tentativo di corrispondenza verso-rigo cui si è accennato, va di cinque in cinque, secondo l’uso. Siccome, tuttavia, soprattutto nel caso di Colluto, l’editore critico, per ottenere un testo a suo dire più soddisfacente, ha proposto delle trasposizioni di esametri senza alterare il numero “tradizionale” del verso o dei versi spostati, si è preferito lasciare traccia di questi interventi editoriali (per esempio nel Ratto di Elena dopo il v. 428 seguono 430, 431, 429, 432…). L’obiettivo è, ancora una volta, quello di favorire l’accesso al testo in lingua originale. Speriamo che questa scelta non disorienti troppo quanti leggeranno solo la traduzione. Nelle note, oltre a dar conto di problemi testuali, è stato privilegiato il commento di natura tematica. Sono segnalati soprattutto i punti di contatto o divergenza rispetto a versioni mitiche conosciute grazie ad altre fonti, nel tentativo di far emergere il lavoro di rielaborazione del patrimonio tradizionale precedente, che resta indubbiamente uno degli aspetti più interessanti dei due epilli.

COLLUTO

Il ratto di Elena Traduzione

Ninfe della Troade, stirpe del fiume Xanto, che i veli dei vostri ricci e i sacri giochi delle mani1 spesso abbandonate presso i paterni lidi per apprestarvi a danzare le danze sull’Ida, venite qua, i pensieri del giudice pastore ditemi, lasciando il fiume scrosciante. Da dove giunse, il coraggioso, traversando ignote acque, ignaro delle fatiche del mare2? Che bisogno c’era delle navi principio di mali, con cui sconvolse il mare e insieme la terra, quel bovaro? Quale fu l’origine fulminea della contesa, per cui dei pastori esercitarono giustizia persino tra gli immortali? Quale il giudizio? Da dove udì costui il nome della sposa argiva3? Voi stesse infatti siete venute ad ammirare, sotto il promontorio tricipite di Falacra Idea4, Paride seduto sul suo seggio pastorale, e la regina delle Cariti, l’esultante Afrodite5. Così Ganimede, fra le alte vette montane d’Emonia6, quando gli imenei per le nozze di Peleo venivano intonati, per ordine di Zeus versava il vino7; tutta quanta la stirpe degli dèi si affrettava a onorare la sposa dalle candide braccia, la sorella di Anfitrite8, Zeus dall’Olimpo, Poseidone dal mare. Giunse Apollo, guidando il coro dalla chiara voce delle Muse,

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48 discese dall’Elicona ricco di api9: agitata da una parte e dall’altra negli aurei ricci la massa intonsa della chioma era percossa da Zefiro10. Lo accompagnava la sorella di Zeus, Era, e la stessa Afrodite, regina anche di armonia11, non indugiava a venire ai boschi del Centauro. E venne Peithò12, che aveva preparato una corona nuziale, reggendo la faretra di Eros arciere. E levato l’elmo pesante dalla tempia si unì alle nozze, lei inesperta di nozze, Atena13. Nemmeno la sorella Letoide di Apollo, Artemide, spregiò di venire, benché selvaggia14. Il ferreo Ares, come quando va alla casa di Efesto senza prendere l’elmo, senza la lancia rovinosa, ugualmente, privo di corazza, privo del ferro affilato sorridendo danzava15. Ma di Eris non si preoccupò Chirone, la lasciò senza onore, né se ne curò Peleo16. Lei come giovenca smarrita dal pascolo boscoso fra deserte forre va errando punta dal sanguinario tafano che incalza i buoi17; tale Eris, domata dai colpi della penosa gelosia vagava cercando il modo di sconvolgere il banchetto degli dèi. Tante volte, balzata giù dal seggio di bella pietra18 stava in piedi e di nuovo si sedeva: con la mano il seno della terra si mise a percuotere, stesa al suolo, senza badare che fosse roccia19. Avrebbe voluto aprire i serrami delle cavità tenebrose, far risalire i Titani dai baratri ctonii20 e annientare il cielo, la sede di Zeus che in alto governa21. Avrebbe voluto suscitare tonante uragano di fuoco; costei, però, pur incontrastabile, è soggetta a Efesto che forgia il fuoco inestinguibile e il ferro. E pensò di scatenare il fracasso rimbombante degli scudi, se mai balzassero su, spaventati dal rumore. Ma anche da quel piano ingannevole dovette desistere, per timore del bronzeo Ares, portatore di scudo.

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49 Allora si ricordò delle mele d’oro delle Esperidi; così Eris, preso il frutto preannunciatore della guerra, la mela, meditò trame di illustri sventure. Fatto roteare con la mano il seme primigenio dei tumulti lo gettò tra i festanti, fu il subbuglio nella schiera delle dee22. Era, che si gloriava di condividere il letto di Zeus, si levò stupefatta e voleva conquistarsi il bottino. Cipride, considerandosi la migliore di tutte, bramò avere la mela, perché è un bene di proprietà degli Eroti23. Era non rinunciò, né cedette Atena24. Zeus, vedendo la contesa tra le dee, chiamò il figlio Hermes25 che gli sedeva accanto e gli disse tali parole: «Se mai hai sentito, o figlio, che presso le correnti dello Xanto, sull’Ida, c’è un certo Paride, figlio di Priamo, splendido giovane, che fa il bovaro sui monti della Troade, consegna a lui la mela; ordinagli di giudicare nelle dee le linee degli occhi26 e l’ovale dei volti. E colei che si giudichi avere l’aspetto più insigne ottenga il premio che spetta alla più bella, l’ornamento degli Eroti». Così il padre Cronide comandò a Hermes; e quello, obbedendo agli ordini paterni, fece da guida per la strada e non trascurò le dee27. Ognuna cercava di rendere il suo aspetto migliore, più desiderabile. Cipride dai pensieri ingannevoli, scostato il velo e staccato un fermaglio profumato dai capelli, con oro incoronò i riccioli, con oro le chiome fluenti28. La dea vide gli Eroti, sua prole29, e gridò loro: «La gara è prossima, cari figli. Abbracciate la madre che vi ha nutrito. Oggi la bellezza del volto mi farà distinguere; temo pensando a chi questo pastore assegnerà la mela. Era è designata sacra madre delle Cariti30, dicono che sia sua prerogativa la sovranità e custodisca lo scettro; e Atena sempre è chiamata regina delle guerre; Cipride solamente era una dea senza vigore!31 Non la sovranità

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50 sui re, non la lancia bellicosa, non il dardo io detengo. Ma perché temo oltre misura, io che, invece della lancia, come agile arma possiedo il vincolo degli Eroti dolce come il miele? Il cinto32 io possiedo, lo porto come pungolo, lo tengo come arco il cinto, per cui le donne, ricevendo lo sprone del mio amore, spesso sono colte dal dolore ma non muoiono33». Mentre seguiva Hermes, un tale discorso pronunciava Cipride dalle dita di rosa34. Ascoltato l’amabile ordine materno, gli Eroti erranti correvano dietro alla loro nutrice. Da poco avevano messo piede sulla vetta del monte Ida, dove Paride, al riparo della balza coronata di pietre in un poggio, trascorreva la giovinezza a pascolare il bestiame paterno. Mentre badava agli animali sulle due rive di un torrente, da una parte contava sulle dita la mandria dei tori radunati, dall’altra passava in rassegna le greggi di pecore al pascolo. E una pelle di capra montana da dietro scendendo ondeggiava e gli arrivava a toccare le cosce35; il bastone pastorale, guida dei buoi, giaceva a terra, perché così, andando pian piano ai luoghi consueti, sulla siringa egli poteva modulare la melodia sonora delle agresti canne; spesso mentre cantava presso la sua casa di pastore36 trascurava i tori e non si preoccupava delle greggi. Poi con la siringa, secondo il bell’uso pastorale, intonava il proprio canto in onore di Pan e Hermes37. I cani non abbaiavano e non muggiva il toro; Eco soltanto, ventosa, che è spontanea nella voce38, risuonava in risposta tra le vette dell’Ida. I tori, sazi, sopra l’erba verde si piegavano sugli stanchi fianchi e si mettevano a giacere. Allora quello, sotto l’alto riparo delle piante, intento a suonare vide da lontano Hermes messaggero. Spaventato si alzò, cercò di schivare la vista delle divinità39; e appoggiando su una quercia la fila delle canne melodiose a un tratto smise il suo canto, ancora non troppo estenuato dallo sforzo.

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51 A lui, così spaventato, si rivolse il divino Hermes: «Deponi il secchio, lascia andare le belle mandrie40 e vieni qui a pronunciare sentenza, in qualità di giudice, sulle dee celesti; vieni qui a decidere quale sia eccellente nella bellezza del volto e a colei che più risplenda, questa mela, amabile frutto, assegna». Disse tali parole con forte voce; Paride aguzzò il dolce sguardo e, tranquillo, si cimentò a giudicare la bellezza di ciascuna. Scrutò lo sfavillare degli occhi glauchi, contemplò il collo adorno d’oro, considerò come ciascuna era agghindata, arrivando a osservare sin dietro ai calcagni e alla forma dei loro piedi41. Lui sorrideva e Atena, presolo per le mani prima del giudizio, rivolse ad Alessandro42 tali parole43: «Vieni qui, figlio di Priamo, lascia la sposa di Zeus, disdegna la regina dei talami Afrodite e loda Atena, protettrice del valore. Dicono che tu sei un sovrano e custodisci la rocca troiana; vieni, farò di te il salvatore della città per i suoi uomini oppressi, perché mai Eniò44, gravemente in collera, contro di te si scagli. Obbediscimi, guerre e valore ti insegnerò». Così si pronunciò Atena dal molto senno. E tali parole in risposta disse Era dalle bianche braccia: «Se tu giudicandomi la più bella mi assegnerai il frutto su tutta la mia Asia ti farò comandare45. Lascia stare le fatiche dei tumulti: che cosa c’entra un sovrano con le guerre? Un signore impartisce ordini a uomini forti e pacifici. Non sempre eccellono i compagni di Atena: i servitori di Eniò periscono di morte precoce». Tale sovranità offrì Era, la quale occupa il seggio supremo. Ma Cipride sollevò la veste dalle ampie pieghe, denudando all’aria il seno, e non ebbe vergogna46. Con la mano innalzando il soave legame degli Eroti47, denudò l’intero petto e non si diede pensiero delle mammelle. Sorridendo48, tali parole disse al pastore:

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52 «Accoglimi e delle guerre dimenticati, accetta la mia bellezza, gli scettri e la terra d’Asia lasciali stare. Le fatiche dei tumulti io non conosco: che importa degli scudi ad Afrodite? Per il loro splendore molto di più primeggiano le donne. Invece del valore un’amabile moglie ti darò, invece della regalità, tu salirai al letto di Elena49; dopo Troia Lacedemone ti vedrà sposo»50. Non ancora aveva smesso di parlare, che quello le diede la splendida mela, offerta di bellezza, grande dono per l’Afrogenia51, seme di guerra, origine funesta di guerra. Con la mela in mano, tali parole costei proferì, schernendo Era e la virile52 Atena. «Rinunciate alla guerra dinanzi a me, rinunciate alla vittoria per voi consueta. La bellezza ho amato e la bellezza mi segue. Dicono che tu, madre di Ares53, con doloroso parto abbia accresciuto la sacra schiera della Cariti dalla bella chioma54; ma tutte oggi ti hanno rinnegata, e neppure una ne hai trovata che ti aiutasse. Non sei regina degli scudi né nutrice del fuoco; non ti ha soccorso Ares, anche se è Ares a infuriare con la lancia, non le fiamme di Efesto55, che pure genera il soffio della fiamma. E come ti glori vanamente, Atritone56! Non furono nozze a procrearti, né una madre ti ha dato alla luce, ma taglio ferreo e radice di ferro dalla testa paterna ti fecero scaturire, senza parto57. Con il corpo coperto di bronzei pepli, come fuggi l’amore e attendi ai lavori di Ares, ignara d’armonia, senza conoscere concordia! Non sai che le Atene come te sono più deboli, quelle che si esaltano per le gloriose guerre, ma non sono né maschi né femmine, se si giudicano le loro membra?58». Tali parole d’oltraggio Cipride rivolgeva ad Atena.

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53 Così costei ottenne il premio della bellezza distruttore di una città, scalzando Era e Atena sdegnata. Bramoso per effetto d’amore, alla ricerca di colei che non aveva mai visto, Paride funesto59 radunò uomini esperti della laboriosa Atritone e li guidò in una fitta selva60. Lì querce dell’Ida ricco di tronchi, abbattute crollarono grazie alla destrezza di Fereclo, principio del male, che allora, per compiacere il re colto da follia, per Alessandro costruì le navi col bronzo tagliatore di querce. Un giorno progettò le navi e nello stesso giorno le fabbricò, navi che non fu Atena a concepire né a realizzare61. Da poco i boschi dell’Ida aveva lasciato per il mare e propiziandosi con frequenti sacrifici sulle spiagge Afrodite, che lo seguiva quale protettrice delle sue nozze, navigava attraverso l’Ellesponto62 sul vasto dorso della distesa genitrice63. Ed ecco che gli apparvero i segni delle fatiche molto penose: un mare fosco, con un balzo in alto, cinse il cielo con una catena di vortici tenebrosi, d’improvviso riversando pioggia dall’aria fumosa, mentre l’acqua si gonfiava sotto i colpi dei rematori64. Allora, superato la Dardania65 e il suolo troiano, lasciò, costeggiandola, l’imboccatura del lago Ismaride66; subito, dopo i picchi del tracio Pangeo67, vide innalzarsi la tomba di Fillide cara al marito e scorse il percorso a nove giri dell’errante sentiero, dove tu, Fillide, passando gemevi, pronta ad accogliere lo sposo Demofonte di ritorno incolume, quando sarebbe rientrato dalle contrade di Atena68. Alla sua vista, attraverso la ricca terra degli Emonii69, spuntavano d’improvviso i fiori della terra achea, Ftia nutrice di eroi e Micene dalle ampie strade70. Poi, passati gli umidi prati dell’Erimanto71, vide Sparta dalle belle donne, l’amata città del figlio di Atreo72, distesa presso le correnti dell’Eurota. Guardandosi intorno, ammirò l’amabile Terapne73

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54 lì vicina, posta sotto la fitta selva di un monte. 225 Da quel luogo non molto ancora si doveva navigare; e nella bonaccia non a lungo si udiva il rumore dei colpi di remi, quand’ecco che sulla terraferma, presso le rive dai bei golfi gettarono le gomene della nave e le legarono, quanti attendevano ai lavori del mare. Quello allora, lavatosi in un gelido74 fiume, 230 s’incamminava, un passo guardingo dopo l’altro, perché i piedi leggiadri non si macchiassero di polvere, né, premendo sull’elmo, il vento smuovesse i riccioli della sua chioma, se troppo si affrettava75. Adesso stava a osservare le case elevate 235 degli ospitali abitanti, i templi lì vicini, e passava in rassegna gli splendori della città76, ora contemplando l’aurea statua della Atena locale77, 239 ora lo stimato tesoro di Apollo Carneo78, 239b dopo aver deviato verso la casa di Giacinto amicleo79: 240 un tempo, a vedere quel giovane intrattenersi con Apollo, il popolo di Amicle si era meravigliato che Letò, irritata con Zeus80, non avesse dato alla luce anche lui; eppure Apollo non sapeva di tenere in serbo il fanciullo per Zefiro invidioso: la Terra, per compiacere il sovrano piangente81 245 fece sbocciare un fiore, conforto per Apollo, un fiore che reca il nome del giovane amatissimo82. Finalmente, presso la reggia dell’Atride, che sorgeva vicino, si fermò, fiero delle sue grazie divine. Non un figlio così amabile Tione generò a Zeus; perdonami, Dioniso: anche se alla stirpe di Zeus tu appartieni, 250 era bello pure lui, nello splendore del volto83. Elena, aperti i serrami delle stanze ospitali84 veloce attraversava il cortile del palazzo; e mentre guardava davanti alla porta, appena vide quel giovane fiorente, subito lo chiamò, lo condusse nella parte più interna del palazzo, 255

55 e sopra un seggio di recente costruito d’argento lo invitò a sedersi; non si saziava di guardarlo85, una volta credendo di vedere l’aureo figlio di Citerea86 custode del talamo; più tardi riconobbe che non era Eros: infatti non riusciva a individuare la faretra coi dardi. Spesse volte, poi, per la bellezza del viso dagli occhi splendenti le pareva di fissare il re delle viti87: ma non poteva scorgere il florido frutto delle viti sparso sopra la congiunzione della testa piena di grazia88. Dopo lungo silenzio, colta da stupore proferì queste parole: «Straniero, da dove vieni? L’amabile origine dilla anche a me. Per bellezza assomigli a un re illustre, ma non conosco la tua stirpe presso gli Argivi. Conosco tutta la stirpe di Deucalione89 perfetto; non nella sabbiosa Pilo tu vivi, terra di Neleo90 – ho appreso chi è Antiloco91, ma non ho mai visto il tuo volto – né nella bella Ftia, nutrice di uomini valorosi; conosco tutta la famosissima stirpe degli Eacidi, la bellezza di Peleo, la rinomanza di Telamone, il carattere di Patroclo e il valore di Achille92». Tali parole, piena di desiderio, rivolse a Paride la giovane dalla voce melodiosa; e lui le rispose, lasciando fluire parole dolci come il miele: «Se mai hai sentito parlare di una terra entro i confini della Frigia, Ilio, che Poseidone e Apollo hanno fortificato93; se mai di un re opulentissimo a Troia hai sentito, della feconda stirpe del Cronide: da lì traggo illustri natali e perseguo tutte le imprese del mio lignaggio. Io sono, o donna, l’amato figlio di Priamo ricco d’oro, sono un Dardanide; e Dardano era nato da Zeus94, al quale, scesi giù dall’Olimpo, i due dèi compagni prestano spesso servizio, pur essendo immortali; uno di costoro edificò le mura della nostra patria, mura che non crollano [Poseidone e Apollo… (?)]95

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56 E io, o regina, sono giudice di dee. Infatti, pronunciando sentenze sulle celesti in lite tra loro96, lodai la bellezza e l’amabile aspetto di Cipride; lei, come degno compenso per il mio operato, assicurò di assegnarmi una famosissima e desiderabile sposa, che chiamano Elena, sorella di Afrodite97, per la quale ho osato persino attraversare tanti flutti. Vieni, uniamoci in matrimonio, poiché è Citerea a ordinarlo; su, non coprirmi di vergogna, non disdegnare la mia Cipride. Non voglio dire… Perché insegnare a te che già sei tanto esperta? Sai infatti che Menelao appartiene a stirpe senza vigore, se tra gli Argivi esistono donne siffatte: queste, pur crescendo con più deboli membra, di uomini hanno l’aspetto, ma non sono che false donne»98. Disse. La giovane fissò a terra l’amabile sguardo, a lungo titubante, e non replicò. Alla fine, preso coraggio, proferì queste parole: «Veramente, o straniero, le fondamenta della tua patria, tempo addietro, le costruirono Poseidone e Apollo? Avrei sempre voluto vedere quelle opere d’arte degli immortali e il pascolo risonante della melodia di Apollo pastore, dove spesso Apollo, all’ingresso delle porte costruite dagli dèi, seguiva i buoi dalle zampe ricurve99. Adesso prendimi e da Sparta portami a Troia. Ti seguirò, come ordina Citerea, regina delle nozze. Nessun timore di Menelao, quando Troia mi conoscerà100». Tale assenso espresse la giovane dalle belle caviglie. La notte, pausa dalle fatiche dopo i viaggi del sole, dispensatrice del sonno, sopraggiungendo incalzò la propria compagna, la luce del giorno101; aprì le due porte dei sogni, quella della verità – rilucente dello splendore del corno – da cui scaturiscono i responsi infallibili degli dèi, e quella dell’inganno, che alimenta i sogni vani102. Paride ai banchi delle navi che solcano il mare accompagnò Elena, via dalle stanze di Menelao ospitale;

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57 esultante oltre misura per la promessa di Citerea si affrettò a condurre verso Ilio il suo carico di guerra. Ermione103, gettato ai venti il velo, al sorgere dell’aurora molte lacrime versò; fuori dalle stanze, in compagnia delle serve, tra grida acute, ininterrotte, proferì queste parole: «Ancelle, dove se n’è andata mia madre, lasciandomi a gemere tanto, lei che ieri con me prese le chiavi della stanza e vinta dal sonno si addormentò nel letto al mio fianco?».104 Parlava versando lacrime, le ancelle si lamentavano insieme a lei. Raccolte ai due lati del vestibolo le donne cercavano di trattenere Ermione dai pianti: «Figlia addolorata, placa il lamento. Se n’è andata tua madre, tornerà indietro; la rivedrai che ancora starai piangendo. Non vedi? Le guance lacrimose s’infossano, per i tuoi fitti gemiti languono gli occhi vivaci. Forse a una riunione in assemblea di giovani donne si è recata, e una volta lontano dalla retta via si è fermata in preda allo sconforto, oppure105 è giunta in un prato e sta seduta nella rugiadosa piana delle Ore106; o a lavare il corpo nel fiume dei suoi padri se n’è andata e si attarda presso le correnti dell’Eurota107». Così la ragazza rispondeva, fra le lacrime e i molti gemiti: «Lei conosce il monte, è esperta del corso dei fiumi, conosce i sentieri per il roseto, per i prati108. Che cosa mi state dicendo, donne? Le stelle dormono, e lei fra le rocce trascorre la notte; le stelle sorgono, e lei non torna indietro. Madre mia, in quale luogo dimori? Fra quali monti ti trovi? Durante il tuo vagare delle fiere ti uccisero? Ma anche le fiere stesse temono la stirpe di Zeus illustre109. Sei precipitata giù dai monti sul dorso della terra polverosa, lasciando il tuo corpo fra solitari arbusti? Eppure gli alberi della boscaglia dai molti tronchi, nella fitta selva,

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58 ho esaminato, fino alle loro foglie, senza scorgere la tua figura. E non biasimo la selva. Forse mentre nuotavi presso le fluide correnti dell’Eurota fecondo sei annegata e le placide acque ti hanno sommerso? Ma anche nei fiumi e nelle distese del mare vivono le Naiadi110 e non uccidono le donne». Così quella si lamentava; piegando il collo […] poiché il Sonno è compagno della Morte – accade infatti avendo ambedue ottenuto, per ineluttabile destino, tutto in comune che segua le opere del fratello più vecchio111. Perciò, gravate dal dolore delle palpebre, spesso si addormentano, quando piangono, le donne. Smarrita per gli inganni dei sogni, la ragazza credette di vedere la madre e così gridò, colta da stupore e angoscia: «Ieri sei andata via da casa e nei pianti mi hai lasciata mentre dormivo nel letto del padre112. Quale monte mi è sfuggito? Quali colli ho trascurato?113» Tali parole pronunciava in risposta la figlia di Tindareo114: «Bambina addolorata, non rimproverare chi ha patito terribile sorte; l’uomo venuto ieri, ingannatore, mi ha rapito, così è dopo l’accordo con Afrodite dalla bella chioma»115. Disse. Ermione balzò in piedi e non vedendo la madre gridò con voce più acuta, ancora di più: «Uccelli, alati figli della stirpe dell’aria, andate a Creta e dite a Menelao116: “Ieri un uomo ignaro di leggi è giunto a Sparta e ha depredato tutto lo splendore del mio palazzo”117». Così la giovane si rivolgeva all’aria, tra molte lacrime, e alla ricerca della madre invano vagava. Alle città dei Ciconi118, allo stretto di Elle Eolide119 sino ai porti della Dardania lo sposo condusse la sposa120. Cassandra non smetteva di strapparsi i capelli, squarciò il velo dal bordo d’oro

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59 nel vedere dall’acropoli la nuova arrivata121. Troia, aperti i serrami delle alte porte, accolse il suo cittadino che faceva ritorno, origine della rovina122.

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TRIFIODORO

La presa di Ilio Traduzione

La fine1 tardiva della guerra che tante sofferenze ha provocato e l’insidia, opera equestre di Atena Argiva2, subito – sono impaziente – senza lungamente raccontare tu dimmi, o Calliopea3, e all’antica contesa degli eroi, una volta decise le sorti della guerra, poni fine con rapido canto4. Quando già il decimo anno volgeva il suo corso la vecchia mai sazia di stragi, Eniò5, esasperava lo scontro tra Teucri e Danai; di uomini uccisi le lance erano stanche, le minacce delle spade morivano, si spegneva il fragore delle corazze, cedeva la ricurva allacciatura, logora, delle cinghie che reggono lo scudo, gli scudi6 non sopportavano più di resistere ai colpi dei giavellotti, erano spezzati gli archi ricurvi, cadevano a terra i dardi veloci. Dei cavalli gli uni, in disparte, inoperosi presso la mangiatoia, capo chino e occhi chiusi, penosamente gemevano per i compagni di giogo, gli altri rimpiangendo gli aurighi caduti7. Giaceva il Pelide insieme all’amico morto8; il vecchio Nestore singhiozzava sopra il figlio Antiloco9; Aiace fiaccando il corpo vigoroso con la ferita provocata dalla sua stessa mano la spada nemica aveva lavato con una pioggia di sangue furente10.

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64 I Troiani, tra i lamenti per l’ingiurioso trascinamento di Ettore, non solo si struggevano per i propri dolori11, ma pure gemevano per le altrui pene rispondendo alle lacrime degli alleati dalle diverse lingue; i Lici piangevano Sarpedone: un tempo la madre lo aveva mandato a Troia, fiera del letto di Zeus, e per lui, quando cadde sotto la lancia di Patroclo Meneziade, lacrimando il cielo paterno si cosparse di sangue12; e Reso, avvinto nella notte ingannevole da sonno funesto i Traci piangevano13; per il destino di Memnone in una nube del cielo si ritirò sua madre, Aurora, occultando la luce del cupo giorno14. Le donne venute dal Termodonte caro ad Ares battendo l’immaturo capezzolo del seno che non allatta si lamentavano per la vergine bellicosa, Pentesilea, che una volta entrata nel coro della guerra dai molti stranieri con femminea mano disperse un nugolo di uomini sino alle navi vicine al mare; da solo, in agguato con la sua lancia Achille la uccise, la spogliò delle armi, le rese onori funebri15. Ma ancora tutta quanta stava in piedi, sotto le torri costruite dagli dèi, Ilio, assisa su incrollabili fondamenta. Per l’indugio insopportabile si affliggeva l’esercito degli Achei16, e allora Atena, vacillando dinanzi alle ultime fatiche, lei che pure è instancabile, vanamente avrebbe sudato, se un indovino, lasciatosi alle spalle l’oltraggio di Deifobo ladro di nozze, da Ilio non fosse giunto, ospite presso i Danai17, e come per far cosa gradita all’addolorato Menelao vaticinò la tardiva rovina della propria patria. Gli Achei, spinti dall’oracolo di Eleno, che tremendo rancore nutriva, subito si disposero a preparare la fine della lunga guerra. E da Sciro, città di belle vergini, giunse il figlio di Achille e di Deidamia degna di lode; senza ancora peluria sulle belle guance mostrava la forza del padre, pur giovane guerriero qual era18.

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65 Venne anche Atena in aiuto dei Danai, recando la propria immagine sacra, presa sì come bottino, ma soccorritrice per i suoi amici19. E già Epeo, esecutore dei voleri della dea, un gigantesco cavallo costruiva20, offerta nemica per Troia21. Tronchi d’albero erano abbattuti e scendevano nella pianura da quello stesso Ida da dove anche prima Fereclo aveva fabbricato le navi per Alessandro, l’origine della sventura22. Costruiva, adattandolo ai larghissimi fianchi, il ventre cavo, della grandezza di una nave da ambo i lati ricurva che un carpentiere ha modellato torno torno, a filo di squadra23. Il collo al petto arcuato fissò, spargendo biondo oro sulla purpurea criniera; questa ondeggiava nell’aria sul collo arrotondato e in cima era fermata con una fascia a forma di pennacchio. Occhi fatti di gemme inserì in due cavità concentriche di glauco24 berillo e di ametista rosso sangue; per il bagliore dei due colori così mescolati le pupille rosseggiavano nelle orbite delle glauche pietre. Denti d’argento aguzzò per le mandibole impazienti di mordere l’estremità del freno ben ritorto; e nella grande bocca in segreto aprì dei passaggi, per assicurare agli eroi nascosti il flusso del respiro, e attraverso le narici scorreva l’aria vivificatrice. Sulla sommità delle tempie aggiustò delle orecchie tutte tese, sempre pronte ad attendere il suono di tromba25. Collegò con i fianchi la schiena e la spina dorsale flessuosa, congiunse le anche alle lisce natiche. La coda sciolta si trascinava sino alle estremità degli zoccoli come vite che scende in tralci ricurvi. Le zampe, unendosi alle agili ginocchia, erano così in tensione, come se dovessero prepararsi a rapida26 corsa; ma necessità imponeva che stessero ferme. Sotto le zampe sporgevano zoccoli non privi di bronzo, rivestiti tutt’intorno di rilucente tartaruga,

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66 che appena toccavano il suolo con il bronzo dell’unghia compatta. Inserì una porta chiusa e una solida scala27: la porta, adattata ai fianchi senza che si vedesse, per far entrare e uscire gli Achei in agguato nel glorioso cavallo; la scala, affinché una volta stesa e saldamente assemblata offrisse loro una via per salire e scendere. Tutt’intorno, sul bianco collo e le mascelle lo cinse col purpureo splendore delle redini e con le sinuose spirali del morso che costringe, cui aveva applicato avorio e bronzo dai riflessi argentei. Quando ebbe realizzato tutto quanto il resistente cavallo, una ruota dai bei raggi collocò sotto ciascuna delle zampe, perché trainato nella pianura fosse docile e non rendesse disagevole il cammino a quanti lo forzavano a procedere28. Così sfolgorava temibile e bellissimo, largo e alto: né Ares cavaliere avrebbe rifiutato di montarlo, se se lo fosse trovato davanti vivo. Intorno un gran muro fu costruito, perché qualcuno degli Achei non lo vedesse anzitempo e, avendo scoperto l’inganno, non lo rivelasse29. Presso la nave micenea d’Agamennone, rifuggendo la folla di guerrieri in tumulto i re degli Achei si riunirono in assemblea. Assunte le sembianze di un araldo dalla voce potente Atena impetuosa si pose accanto a Odisseo, sua consigliera, ungendo la voce dell’eroe con nettare color del miele30. Lui, arrovellandosi sui divini consigli dapprima stava fermo, simile a un uomo dalla mente vuota, fissando a terra uno sguardo di occhi immobili, poi d’improvviso dando alla luce inesauribili parole terribilmente tuonò e come da aerea sorgente spandeva copiosa tempesta di neve che fluiva simile a miele: «Amici, ormai l’insidia segreta è compiuta per opera di mani umane, ma volere di Atena. Voi, che confidate in sommo grado nella forza delle braccia,

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67 pronti nella mente vigorosa e nell’animo intrepido seguitemi: non si conviene che ce ne stiamo qui lungo tempo a patire, inconcludenti, e a invecchiare inutilmente, bisogna da vivi compier cimento degno di canto oppure con morte cruenta sfuggire all’onta infame. Ragioni di sperare più valide abbiamo noi, rispetto ai Troiani, se ancora non avete dimenticato il passero e l’antico serpente, il bel platano e la madre della tenera covata strappata via dopo i figli destinati a morte precoce31. Se il vecchio Calcante ha rinviato il compimento dell’oracolo, ecco però che i vaticini di Eleno32, l’indovino straniero, ci chiamano a vittoria quanto mai imminente. Pertanto datemi ascolto, e al ventre del cavallo, audaci, affrettiamoci, perché i Troiani introducano a Ilio sciagura voluta, l’opera ingannatrice dell’intrepida dea, amorevolmente abbracciando la propria rovina. Voi altri sciogliete gli ormeggi di poppa delle navi dopo aver incendiato le tende fatte di rami, ognuno la propria; lasciata deserta la riva della terra iliaca navigate tutti insieme simulando il ritorno a casa, finché un fuoco notturno, acceso da un’altura munita di buoni approdi, quando sarete radunati su una spiaggia vicina non vi dia il segnale di fare ritorno33. E allora nessuna riluttanza trattenga la fretta dei rematori né nuvola alcuna di spavento, come quando le notti diffondono terrore negli uomini di animo volubile. Si abbia ritegno dell’antico valore dei padri, nessuno rovini il proprio buon nome, perché ciascuno ottenga un dono onorifico degno dei travagli sofferti a combattere». Così dicendo apriva il consiglio; a queste parole34 per primo si unì Neottolemo simile a un dio, quale puledro che si precipita per la pianura rugiadosa, che orgoglioso delle nuove bardature35 anticipa la sferza e le grida minacciose del suo auriga.

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68 Diomede Tidide si slanciò dopo Neottolemo pieno di ammirazione poiché l’Achille di un tempo era così simile a lui36. Lo seguì anche Cianippo agitatore di scudo, che Cometo Tidide figlia d’illustre padre, ottenute brevi nozze aveva generato a Egialo, il quale aveva destino di morte precoce37. Si alzò pure Menelao: lo muoveva feroce impulso alla contesa con Deifobo, d’aspra collera ribolliva, bramoso di trovare il secondo rapitore della sua sposa38. Dopo di lui balzò il Locrese figlio di Oileo, Aiace veloce, che ancora possedeva mente assennata e per le vergini non nutriva iniqua smania39; e anche un altro si levò in piedi, il re di Creta Idomeneo, già in parte canuto40. Insieme a costoro andò poi il forte Trasimede, Nestoride41, e venne anche il figlio di Telamone, Teucro abile con l’arco42; si alzò poi il figlio di Admeto, ricco di cavalli, Eumelo43; dopo accorse l’indovino Calcante: sapeva che, ponendo fine all’immane travaglio, ben presto gli Achei avrebbero conquistato col cavallo la rocca troiana44. E nemmeno costoro rimasero indietro negando aiuto: Euripilo Evemonide e il valente Leonteo45, Demofonte e Acamante, i due figli di Teseo46, l’Ortigide Anticlo, che morto lì dentro nel cavallo fu seppellito dagli Achei piangenti47, e Peneleo48, Megete49 e Antifate valoroso50, Ifidamante e Euridamante, progenie di Pelia, e Anfidamante armato di arco51; per ultimo a sua volta l’astutissimo Epeo s’andò a imbarcare nell’opera da lui realizzata52. Poi, rivolta una preghiera alla figlia glaucopide53 di Zeus, si affrettavano verso la nave equestre54; per loro Atena mescolò l’ambrosia e il cibo degli dèi diede da mangiare55, affinché stando in imboscata tutto il giorno, sopraffatti, non fossero appesantiti nelle ginocchia per l’orrida fame.

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69 Come quando la neve, col gelo delle nubi che turbinano nella tempesta addensando l’aria imbianca i campi, e sciogliendosi fa scaturire copioso torrente; allora le fiere per paura del frastuono del fiume nato dal monte che precipita rapido giù da una roccia con balzi fragorosi si rifugiano sotto un anfratto del covile infossato e rimangono in silenzio, tremanti nei fianchi, patendo fame pungente costrette dalla funesta necessità e attendono rassegnate che prima o poi l’impeto dell’acqua si plachi; così, saltando nella loro cava tana pene insostenibili sopportavano gli infaticabili Achei. Sopra di loro Odisseo serrò il battente del gravido cavallo56, fidato guardiano assegnato alla porta dell’occulta insidia57; lui stesso si appostò nella testa, come vedetta, ma i suoi occhi penetranti erano invisibili a quanti stavano fuori. L’Atride58 ordinò ai suoi servitori achei di abbattere con picconi ricurvi il muro di pietra, dove il cavallo stava nascosto: voleva lasciarlo esposto, perché ben visibile da lontano trasmettesse il suo incanto a tutti gli uomini. E così lo abbattevano per ordine del re; quando poi il sole, riconducendo agli uomini la notte fitta di ombre, ebbe volto al tramonto orlato di tenebre il giorno radioso, allora il grido degli araldi si spandeva sull’esercito annunciando di fuggire, di trarre nel mare profondo le navi dai forti speroni e sciogliere le gomene. Quindi, brandendo torce di pino infuocate incendiarono i recinti delle solide tende59 e con le navi salparono dal promontorio Reteo60 verso il porto, sito di fronte, di Tenedo61 cinta di mura, solcando il mare lucente di Elle Atamantide62. Solo, martoriato nel corpo da colpi autoinflitti, rimaneva Sinone Esimide63, eroe ingannatore, che occultava l’insidia segreta contro i Troiani, la loro rovina. Come quando i cacciatori tutt’intorno fissano con pali

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70 una rete, trappola dalle molte maglie tesa per le fiere che errano sui monti; e uno da solo, separatamente64 dagli altri, insinuatosi furtivo sotto i folti rami, osserva di nascosto la rete, spiando la preda; così allora Sinone, piagato nelle membra oltraggiate, per Troia penosa distruzione meditava; lungo le sue spalle scorreva sangue a profusione per le ferite che si era procurato. Intorno alle tende per tutta la notte infuriava la fiamma vomitando turbini di fumo con slancio frenetico; fu ordine di Efesto altitonante; tempeste di ogni tipo scatenò soffiando anche lei, la madre del fuoco immortale, Era che dà luce agli uomini. E già ai Troiani e alle donne di Ilio all’alba piena di ombre giunse voce molto risonante ad annunciare, rivelata dal fumo, la fuga nemica. Subito levate le sbarre delle porte balzarono fuori, a piedi e sui carri, e si riversarono nella pianura, incerti se fosse qualche altro inganno degli Achei. Aggiogati i rapidi muli ai carri, giù dalla città insieme al re Priamo scesero gli altri, i vecchi del popolo: erano molto sollevati, infervorati per i figli, che Ares sanguinario aveva risparmiato, speranzosi altresì in una vecchiaia di libertà; ma non dovevano gioire a lungo, perché così aveva disposto il volere di Zeus65. Quelli, come videro la sfolgorante66 figura del cavallo lavorato con arte, sbigottiti lo accerchiarono, come quando le taccole gracchianti al vedere un’aquila possente le strepitano intorno. S’abbatté su costoro discussione confusa e incerta67: gli uni, spossati dai penosi dolori della guerra, avendo in odio il cavallo, poiché era opera degli Achei, volevano precipitarlo in profondi dirupi o farlo a pezzi con scuri a doppio taglio; altri, ammaliati dall’opera d’arte appena rifinita esortavano a consacrare agli immortali il cavallo degno di Ares68, perché in avvenire fosse monumento della guerra contro gli Argivi.

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71 Mentre costoro erano intenti a riflettere, un uomo malridotto, col corpo tutto chiazzato, nudo apparve nella pianura: i lividi, colmi di sangue indegno, mostravano le tracce oltraggiose di ripetuti colpi di sferza. Subito rotolò davanti ai piedi di Priamo, con supplici mani toccò le antiche ginocchia69 e pregando il vecchio pronunciò ad alta voce discorso ingannevole: «Se di me hai compassione, di un uomo che ha navigato insieme agli Argivi, se intendi salvarmi quale protettore dei Troiani e della loro città, o Dardanide portatore di scettro, e ultimo nemico degli Achei… Ecco come mi hanno oltraggiato, incuranti del castigo degli dèi, io che non ho commesso alcuna colpa, loro sempre malvagi e crudeli!70 Così strapparono la ricompensa di Achille Eacide71, così abbandonarono Filottete, impedito per il morso di un serpente72, 73 e uccisero Palamede in persona, per gelosia . E adesso ecco che cosa mi hanno fatto, quei folli, perché non volevo fuggire con loro, ma esortavo i compagni a rimanere; sopraffatti da insensatezza che sconvolge la mente, mi hanno spogliato dei vestiti, e dopo avermi colpito in tutto il corpo con sferzate infamanti mi hanno abbandonato sul lido straniero. Ora, o beato, osserva il rispetto che si deve a Zeus protettore di supplici: motivo di gioia sarò per gli Argivi, se tu lascerai perire per mano dei Troiani chi è supplice e straniero. In caso contrario, a tutti voi garantisco che non dovrete più temere un ritorno della guerra con gli Achei». Così disse. E il vecchio lo placò con gentili parole: «Straniero, da quando ti sei unito ai Troiani, non hai più ragione

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72 di avere timore: sei salvo dall’infausto oltraggio degli Achei! Sempre nostro amico tu sarai, né della patria né dei palazzi opulenti ti coglierà dolce rimpianto74. Ma su, dimmi perché questa meraviglia è stata costruita, il cavallo, prodigio d’amaro spavento75; e dimmi di te il nome, la stirpe e da dove le navi ti hanno condotto». Preso coraggio, gli parlò l’eroe dalle molte trame: «Ti dirò anche questo, e non controvoglia. Argo è la mia città, Sinone il mio nome; Esimo si chiama il mio vecchio padre76. Il cavallo, oggetto d’antica profezia, l’ha inventato Epeo per gli Argivi: se voi consentite che rimanga così trascurato in questo luogo l’oracolo preannuncia che i figli degli Achei torneranno a conquistare Troia77; se invece, come sacro dono, Atena lo riceverà nel suo tempio, costoro fuggiranno, lasciando con la fuga l’impresa incompiuta78. Orsù, d’un groviglio di lacci cingi il cavallo dalle briglie d’oro e trascinalo sulla grande acropoli; Atena protettrice della città79 ci guidi, poiché lei stessa è impaziente di ricevere l’offerta lavorata con arte». Così disse; e il sovrano lo invitò a prendere da vestire mantello e chitone80. I Troiani, dopo aver legato con lacci di cuoio il cavallo, tramite funi ben intrecciate lo trascinavano per la pianura, e quello procedeva su ruote veloci, riempito degli uomini più valorosi; davanti a lui auli e cetre intonavano all’unisono un canto81. Stirpe sciagurata di mortali privi di senno, ai quali una nebbia impedisce di scorgere il futuro. In balia di una vana gioia, molti spesso ignorano di incorrere nella rovina82. Così allora per i Troiani Ate83 distruttrice di uomini venne a far festa nella città, avanzando con passi spontanei; e nessuno sapeva che con impeto stava trascinando sciagura insopportabile.

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73 Quelli raccoglievano dei fiori dalla rugiadosa pianura84 e inghirlandavano la criniera del loro uccisore85. La terra, squarciata dalle ruote di bronzo, terribilmente rumoreggiava, gli assi di ferro per l’attrito emettevano gemiti con aspro fragore. Le giunture delle funi stridevano, e tutto teso il laccio legato intorno sprigionava fumo nerastro. Alte grida e strepiti levavano gli uomini intenti a tirare; risuonava l’Ida ombroso con le sue querce abitate dalle Ninfe, urlava anche l’acqua vorticosa del fiume Xanto, e vociavano le bocche del Simoenta86; la tromba celeste di Zeus87 prediceva la guerra che i Troiani stessi si stavano attirando. Continuavano a marciare davanti; la strada era lunga ed estenuante, solcata da fiumi88, tutt’altro che pianeggiante89. Teneva dietro lo sfolgorante cavallo, diretto agli altari cari ad Ares, fiero d’arroganza; Atena vi fece forza premendo le mani sulle cosce da poco intagliate. E quello, correndo irraggiungibile, balzò più rapido di una freccia, seguendo i Troiani con marcia ad agili salti, fin quando raggiunse le porte Dardanie90. Ma le loro ante, perché potesse passare, erano strette; perciò Era rese accessibile l’approdo91 del suo cammino aprendolo davanti a lui, e Poseidone dalle torri abbatté col tridente lo stipite delle porte spalancate92. Le donne troiane per tutta la città, qua e là, sposate che fossero, prossime alle nozze e quelle già esperte di Ilizia93, 94 con canti e danze circondavano la statua ; alcune, cogliendo i doni appena sbocciati della pioggia, sotto il simulacro di legno stendevano tappeti di rose95; altre scioglievano dal petto le fasce filate tinte di porpora e cingevano il cavallo coi loro fiori tessuti96; un’altra, aperto il coperchio di un orcio immenso, versando vino mescolato a zafferano dorato

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74 riempiva di esalazioni la terra, cosparsa dell’odoroso liquido97. Al grido degli uomini si univa l’urlo delle donne, e gli strilli dei bambini si mischiavano alle voci dei vecchi. Come quando le migratrici dell’opulento Oceano, ancelle dell’inverno, le gru che in schiere gridano nell’aria, descrivono il cerchio della loro danza errante schiamazzando fastidiosamente per i contadini che lavorano la terra, così i Troiani tra clamore e tumulto per la città conducevano all’acropoli il cavallo, carico al suo interno98. La figlia di Priamo, sospinta dal dio, non voleva più restare nella sua stanza99; spezzati i catenacci si mise a correre come una giovenca irrequieta, che il pungiglione del tafano tormento di buoi stravolge, dopo averla trafitta100; quella non bada alla mandria, al pastore non ubbidisce, non brama il pascolo, ma per il dardo acuto angustiata scappa dai luoghi assegnati ai buoi; similmente la ragazza, sotto il pungolo dello strale profetico, smarrita nel cuore scuoteva minacciosa il sacro alloro101. Ovunque per la città muggiva; né dei genitori né degli amici si preoccupava; il ritegno di vergine l’aveva abbandonata. Non a tal punto, nei boschi, una donna di Tracia è sconvolta dall’aulo102 soave di Dioniso che furoreggia sui monti103, lei che, colpita dal dio, scaglia sguardi stravolti agitando la nuda testa contro l’edera scura attorcigliata104, come Cassandra, uscita fuori dal senno alato, delirava per invasamento divino; di continuo la chioma e il petto battendosi, gridava con folle voce: «O miseri, che infausto cavallo è questo che state portando in preda a follia, voi sciagurati, impazienti di raggiungere l’ultima vostra notte, l’abominio105 della guerra, il sonno senza risveglio? Dei nemici questo è il bellicoso corteo106; già i travagliati sogni di Ecuba dolente producono i loro frutti107,

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75 volge al termine l’anno a lungo atteso, quello della fine della guerra. Ecco giungere l’agguato dei più valorosi: desiderosi di battersi, rilucenti nelle loro armi a notte fonda li partorirà il possente cavallo108; appena balzati a terra si precipiteranno nella mischia, perfetti guerrieri. Non ci saranno donne a dare sollievo nelle doglie al cavallo in travaglio né a prendersi cura degli eroi dati alla luce, ma farà da Ilizia quella stessa dea che ha fabbricato il simulacro109. Aperto il ventre pregno, un grido innalzerà la levatrice del parto causa di tante lacrime, Atena distruttrice di città110. 111 Ed ecco che purpureo dilaga dentro le mura un mare di sangue versato, un’onda di morte, vincoli nuziali sono avvolti intorno alle mani di donne che muovono a compassione112, si annida sotto le travi il fuoco occultato113. Ah, per i miei dolori! Ah, per te, città dei padri! Tra poco sarai per me sottile cenere, è la fine per l’opera degli immortali, le fondamenta di Laomedonte completamente divelte114. Per te, padre, e per te, madre, mi affliggo: quali mali presto a entrambi toccheranno! Tu, o padre, miseramente assassinato giacerai presso il grande altare di Zeus Erceo115; o madre che hai generato prole insigne, gli dèi ti priveranno della forma umana mutandoti in cagna furiosa a causa dei figli116. O divina Polissena, per te, seppellita presso la terra patria poche lacrime verserò: oh, se qualcuno degli Argivi uccidesse anche me, dopo i pianti per te! Che bisogno ho, d’altro canto, di protrarre la mia esistenza, se è in serbo per me più miserevole morte, e una terra straniera è destinata a coprirmi117? Tali trame contro di me tesse la signora, e contro lo stesso re,

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76 Agamennone, tesse un destino che lo ricompenserà per le tante fatiche118. Su, dunque, riflettete, se non volete comprenderlo attraverso il patire, e scansate, amici miei, la nube119 di smarrimento che sconvolge il senno. Si demolisca con scuri il corpo del cavallo molto spazioso o col fuoco lo si distrugga120; l’occultatore di scaltri eroi perisca, grande pira121 diventi per i Danai. E allora io possa vedervi festeggiare banchetti e affrettarvi alle danze, offrendo crateri per l’amabile libertà122». Disse così; nessuno, però, le dava retta, poiché Apollo l’aveva resa al contempo profetessa valente e destinata a non essere creduta. Il padre la rimproverò minacciandola con queste parole: «Quale dio dal nome nefasto, profetessa di sventura, è tornato a guidarti? Sfrontata mosca canina, invano ci trattieni coi tuoi latrati. La tua mente ancora non è stanca per il morbo furente? Non sei sazia di ostili insolenze? E anzi, afflitta dal nostro gioire sei venuta proprio quando per tutti noi Zeus Cronide ha fatto splendere il giorno della libertà e ha disperso le navi degli Achei? Non più si brandiscono le lunghe lance, non più gli archi si tendono, non c’è fragore di spade, tacciono le frecce, non geme la madre per il figlio, né la donna che ha mandato il marito a combattere, vedova ne piange il cadavere123. Si danza, invece, e si intonano canti dal dolce suono; in segno di vittoria il cavallo, trascinato, viene accolto da Atena protettrice della città. Vergine temeraria, tu ti avventi davanti al palazzo, pronunci parole menzognere e hai smania selvaggia124: è vano il tuo stare in pena e la sacra città contamini.

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77 Vattene, non indugiare! Danze e festeggiamenti a noi stanno a cuore. Nulla è rimasto da temere sotto le mura di Troia, non abbiamo più bisogno della tua voce fatidica». Detto così, ordinò di condurre la giovane forsennata nei recessi del palazzo; con fatica, suo malgrado, al padre obbediva, sul letto virginale si lasciava cadere e piangeva, conscia del proprio destino; già vedeva il fuoco in lotta contro le mura della patria incendiata. I Troiani, ai piedi del tempio di Atena, la dea protettrice della città, alzato il cavallo sopra un piedistallo ben levigato bruciavano vittime propizie sugli altari esalanti odore di grasso; gli immortali, però, rifiutavano le vane ecatombi125. Era festa tra il popolo126, e irrefrenabile eccesso, l’eccesso portatore dell’ubriachezza di vino che fiacca gli uomini; tutta la città era piena d’insensatezza, sprofondata nel baratro dell’incuria, poche sentinelle si preoccupavano delle porte; già infatti anche la luce del giorno tramontava e la divina notte, distruttrice della città, avvolgeva Ilio scoscesa. Afrodite dalle molte risorse, adornata nel suo corpo splendente, si presentò a Elena Argiva127 meditando inganno, la chiamò a sé e le disse con voce persuasiva: «Cara sposa, tuo marito ti chiama, il prode Menelao, nascosto nel cavallo di legno, intorno a lui i capi degli Achei sono in agguato, bramosi di combattere per te. Su, dunque, non darti più pena del vecchio Priamo né degli altri Troiani né dello stesso Deifobo128: ormai infatti sto per renderti a Menelao che molto ha sofferto». Detto così, la dea di corsa si ritirò; Elena, per gli inganni incantata nel cuore, abbandonò il talamo profumato, e lo sposo Deifobo la seguiva; mentre andava le donne Troiane dai lunghi chitoni la guardarono con ammirazione. Quando giunse al tempio dall’alto tetto di Atena,

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78 si fermò a contemplare la figura del cavallo pieno di uomini prodi. Tre volte girandogli intorno e provocando gli Argivi chiamava per nome tutte le mogli dalla bella chioma degli Achei con voce sottile; quelli, all’interno, avevano l’animo straziato a trattenere le lacrime imprigionate in un doloroso silenzio; gemeva Menelao, quando sentiva nominare la figlia di Tindareo129, 130 piangeva il Tidide al ricordo di Egialea e il nome di Penelope faceva trasalire Odisseo. Anticlo131, allorché ricevette il pungolo di Laodamia132 lui solo apriva la bocca e cercava di pronunciare parola in risposta; ma Odisseo fece un balzo e con entrambe le mani, piombatogli addosso, premeva su di lui, che era impaziente di liberare la bocca. Afferrate le mascelle con invincibili strette le teneva ferme a gran forza; quello si dimenava sotto la pressione delle mani tentando di sfuggire dai vincoli potenti del silenzio assassino. E l’abbandonò il soffio vitale; gli altri Achei, scoppiati in un pianto di lacrime furtive, lo nascosero deponendolo in un fianco cavo del cavallo, dopo aver gettato un mantello sulle gelide membra. E allora la donna infida avrebbe incantato qualcun altro degli Achei, se Pallade133 dallo sguardo tremendo, non fosse scesa dal cielo per fronteggiarla con minacce; la scacciò dal suo tempio, a lei sola mostrandosi134, con voce dura la mandò via135: «Infelice, fino a che punto le tue colpe ti portano, il desiderio di letti stranieri e il traviamento di Cipride? Non hai pietà del tuo precedente marito né la figlia Ermione136 rimpiangi, e ancora aiuti i Troiani? Ritirati, sali al piano superiore del palazzo e con fuoco propizio accogli le navi degli Achei». Detto così, sventò il vano inganno della donna.

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79 E i suoi piedi la riportavano a casa; i Troiani, cessate le danze, sopraffatti dalla stanchezza cadevano nel sonno. Anche la cetra allora riposava, giaceva esausto l’aulo137 sopra il cratere, molti boccali si rovesciavano da soli e scivolavano dalle mani penzolanti. La Quiete vorace s’abbatteva sulla città, compagna della Notte, non si udivano latrati di cani, il Silenzio assoluto regnava, chiamando il Grido spirante morte. Già Zeus, l’arbitro della guerra, sollevò la bilancia funesta per i Troiani, e riluttante fece tornare all’attacco gli Achei138; Febo Apollo, afflitto per le grandi mura, da Ilio si ritirava nell’opulento tempio della Licia139. Subito, presso la tomba di Achille, Sinone comunicava il messaggio agli Argivi con una torcia lucente140. Tutta la notte, dall’alto della stanza anche lei, la bella Elena, ai compagni mostrava la luce dorata della fiaccola. Come quando la luna, piena di fuoco che brilla col suo volto riveste d’oro il cielo splendente – non quando, aguzzando le punte della sua falce, al primo apparire nel mese si leva in un’oscurità senza ombre141, ma quando, completato il disco sfolgorante del suo occhio, attira i raggi riflessi del sole; tale allora la fulgida giovane di Terapne142 alzava il braccio rosseggiante, per guidare la fiamma amica. Gli Argivi, appena scorsero nel cielo il bagliore della fiaccola, spinsero indietro le navi sulla rotta del ritorno in tutta fretta, ogni marinaio era impaziente per il desiderio di vedere la fine della lunga guerra. Erano al contempo navigatori e gagliardi combattenti, gli uni con gli altri si esortavano a procedere; le navi, più veloci grazie alla pronta spinta dei venti impetuosi ritornavano a Ilio con l’aiuto di Poseidone. Là i fanti mossero per primi, indietro furono lasciati i guidatori dei carri, perché i cavalli troiani, svegliandosi, non facessero destare il popolo con i loro nitriti143. Gli altri si riversarono fuori dal ventre cavo del cavallo,

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80 i re in armi, come da una quercia le api, che, dopo aver faticato dentro l’alveare molto spazioso a produrre con arte occulta la cera dolce come il miele, per bottinare si spargono in una valle sinuosa144 e tormentano con le loro punture i viandanti che passano accanto; così i Danai, aperti i serrami dell’insidia segreta si gettarono contro i Troiani e mentre costoro ancora stavano nei letti li avvilupparono con incubi di una morte inferta dal bronzo. La terra nuotava nel sangue, si levava un grido incessante di Troiani in fuga, la sacra Ilio era ricolma dei corpi dei caduti. Gli Achei con tumulto omicida si avventarono qua e là, come leoni furiosi145, sbarrando le strade coi cadaveri di quelli uccisi da poco. Le donne troiane dall’alto delle loro case li udivano e alcune, ancora assetate dell’amabile libertà, offrivano il collo per morire agli sventurati mariti, altre, come rondini leggere, sui cari figli alzavano lamenti materni; una giovane, piangendo il fidanzato che ancora palpitava, aveva fretta di morire anche lei e alle catene della prigionia non voleva sottostare: suscitò la collera dell’assassino che non voleva ucciderla e condivise con il coniuge il letto a lei dovuto146. Molte, che portavano in grembo figli incompiuti e ancora incapaci di respirare, nella confusione partorirono il frutto del ventre immaturo e orribilmente, insieme alla prole, perirono anche loro. Tutta la notte Eniò147 danzava per la città, quale tempesta che ribolle nelle onde della guerra rimbombante, faceva baldoria ubriaca di sangue puro148. Insieme a lei Eris149, sollevata la testa fino a raggiungere il cielo, incitava gli Argivi, poiché anche Ares cruento, tardi, sì, eppure era giunto a portare ai Danai vittoria in guerra prima concessa agli altri, e aiuto che sempre è incostante150. 151 Gridava dall’acropoli la glaucopide Atena

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81 agitando l’egida, lo scudo di Zeus152; tremava l’etere all’avanzare precipitoso di Era; risuonava la terra vigorosamente, scossa dalla punta del tridente di Poseidone; Ade rabbrividiva, correva via dalle infere sedi nel timore che per la gran collera di Zeus Hermes, guida di anime, conducesse sotto terra l’intera stirpe degli uomini153. Tutto era completamente sconvolto, si compiva strage senza distinguere: quanti fuggivano alle porte Scee154 li uccideva chi stava lì di guardia; uno che dal letto si era precipitato a cercare le armi cadde sopra la lancia non vista per il buio. E un uomo, nascosto nell’ombra di una casa dove era ospite, chiamava credendo di trovare un amico: ingenuo! Non doveva imbattersi in qualcuno di benevolo, ma doni ospitali funesti155 ottenne. Un altro sopra un tetto, senza che ancora avesse potuto vedere qualcosa, da rapida freccia era trafitto. E alcuni, gravati nel cuore dal vino che nuoce, storditi per il frastuono, nella fretta di scendere si dimenticavano della scala e giù dal piano alto inavvertitamente precipitavano, spezzandosi nello schianto le vertebre del collo, e insieme vomitavano il loro vino. Molti, ammassati in un unico luogo, venivano uccisi nella lotta; molti che erano inseguiti giù dai bastioni piombavano nella dimora di Ade, compiendo l’estremo salto. Pochi attraverso una breccia stretta156, come ladri, senza essere visti fuggivano la tempesta della loro patria in rovina. Quanti invece erano dentro, nell’onda del combattimento e dell’oscurità, simili a morti piuttosto che a fuggitivi cadevano gli uni sugli altri157; la città non conteneva il sangue, vedova di uomini, satura di cadaveri. Non vi era il minimo riguardo; invasati dalla frusta furiosa del tumulto158 che ama la veglia

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82 non avevano più rispetto per gli dèi. E in balia del più iniquo impulso macchiavano di sangue gli altari degli immortali, immuni dal dolore159. I più degni di pietà, i vecchi, morivano nel modo più disonorevole: nemmeno venivano uccisi in piedi, ma a terra, tendendo le supplici braccia, si accasciavano con le loro teste canute. Molti bambini appena nati dai seni delle madri per poco goduti venivano strappati160 e pagavano il fio per le colpe dei genitori senza conoscerle; libagione di latte non bevuto la madre recava al figlio, protendendo il petto invano verso di lui161. Uccelli e cani qua e là per la città accorrevano in volo e via terra, commensali al medesimo banchetto; bevendo nero sangue consumavano orrido pasto, e le grida degli uni spiravano morte, gli altri latrando selvaggiamente abbaiavano su uomini fatti a pezzi: spietati, neppure si preoccupavano che fossero i loro padroni quelli che stavano dilaniando. Alla casa di Deifobo pazzo per le donne162 in due si avviarono, Odisseo e Menelao dalla bella chioma163 simili a lupi voraci, che in una notte d’inverno, assetati di strage contro greggi prive di guardiano muovono all’attacco e vanificano la fatica dei pastori. Qui, benché fossero solo in due, affrontarono innumerevoli nemici; sorse un nuovo combattimento: gli uni andavano all’assalto, gli altri dall’alto del palazzo li colpivano con pietre e frecce che danno rapida morte. Eppure, muniti i loro capi superbi di elmi indistruttibili e riparati da scudi riuscirono a irrompere nella grande casa: Odisseo sterminò la folla che gli si parava di fronte, come fa un cacciatore con pavide prede, invece l’Atride164, dall’altra parte, prese a inseguire l’atterrito165 Deifobo e lo raggiunse colpendolo al centro del ventre;

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83 spargeva fuori il fegato insieme alle viscide interiora166. Così Deifobo giaceva là, dimentico dei carri; tremante, prigioniera di guerra, la sposa seguiva Menelao167, ora gioiosa per la fine dei funesti travagli, ora piena di vergogna, e anche se tardi, come in un sogno, di nascosto gemendo si ricordava dell’amata patria. L’Eacide Neottolemo uccise il vecchio re, stremato dalle disgrazie, presso l’altare di Zeus Erceo, disdegnando la pietà che era stata paterna; le suppliche non ascoltò, né alla vista di una chioma simile a quella di Peleo ebbe ritengo, quella chioma per cui, un tempo, Achille smise la collera e risparmiò il vecchio, benché fosse gravemente irato168: sciagurato! Anche a lui una simile sorte doveva toccare presso l’altare del verace Apollo un giorno, quando, intento a saccheggiare il tempio divino, un uomo di Delfi lo scacciò e lo uccise col sacro coltello169. Come vide il figlio precipitare giù dagli alti bastioni, lancio funesto della mano di Odisseo, Andromaca piangeva Astianatte, destinato a breve vita170. Cassandra la violò il veloce Aiace d’Oileo benché si fosse prostrata alle ginocchia di Pallade, dea incontaminata; Atena, a questa violenza, volse indietro il capo, e lei che prima soccorreva gli Argivi, per colpa di uno solo si adirò con tutti171. Afrodite sottrasse segretamente Enea e Anchise mossa a pietà per il vecchio e suo figlio, e lontano dalla patria in Ausonia172 li trasferì; si compiva il volere degli dèi con l’assenso di Zeus, perché avessero un potere imperituro i figli e i nipoti di Afrodite cara ad Ares173. I figli e i discendenti di Antenore simile a un dio furono protetti dall’Atride, memore dell’ospitalità del vecchio, dell’antica affabilità e di quella mensa a cui lo accolse la dolce moglie Theanò174. O infelice Laodice, è sulla terra patria che la terra ti ricevette avvolgendoti nel suo grembo spalancato;

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84 e non il Teseide Acamante né un altro degli Achei ti portò via prigioniera: tu sei morta insieme alla terra patria175. Quanto a me, non potrei cantare tutta la sequela dei combattimenti illustrandoli nei dettagli176, e i dolori di quella notte: questa è fatica delle Muse; io condurrò il mio canto come un cavallo, facendolo svoltare il più vicino possibile alla mèta177. Proprio ora infatti, da oriente, Aurora guidatrice del carro lasciava di corsa l’Oceano, e fendeva molta parte del cielo dolcemente rischiarandola, dissipando la notte macchiata di strage; gli Achei, in esultazione per la superba vittoria della guerra cercavano ovunque per la città, se degli altri Troiani178, nascostisi, fossero sfuggiti alla rovina funesta di tutto il popolo. Ma quelli erano stati sopraffatti dalla rete della morte che tutto cattura, come pesci sparsi sul lido sabbioso del mare. Gli Argivi trafugavano dai palazzi beni preziosi di recente fabbricati, offerte per i loro templi, e nelle dimore deserte rubavano molte ricchezze; nello stesso tempo conducevano a forza, presso le navi, le donne prigioniere coi loro bambini179. Appiccata contro le mura la fiamma distruttrice di città abbattevano l’opera di Poseidone180 in un’unica vampa; e subito grande sepolcro per i suoi cittadini divenne Ilio fumante; come vide il flagello del fuoco devastatore della città Xanto181 scoppiò in lacrime, una fonte di gemiti che scorreva sino al mare, tuttavia cedette a Efesto, per timore della collera di Era182. Quelli versarono il sangue di Polissena sulla tomba del defunto Eacide placandone l’ira183 […]184 tirarono a sorte le donne troiane e tutto il resto

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85 se lo divisero, oro e argento185; lo caricarono sulle loro navi profonde e per il mare risonante gli Achei presero il largo da Troia: avevano portato a termine la guerra.

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Note

Prefazione 1. Sulla narrazione della caduta della città di Troia vd. A. Camerotto, Troia Brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine 2022. Per un approfondimento sugli epiteti e le formule per la città e la pérsis, rinvio a Id., Ilio sacra, la città violata, in A. Camerotto - K. Barbaresco - V. Melis (a cura di), Il grido di Andromaca. Voci di donne contro la guerra, De Bastiani, Vittorio Veneto 2022, pp. 235-252. Sull’immagine epica del sangue vd. K. Barbaresco, La terra e il sangue (secondo Quinto Smirneo), in «Lexis», XXXVII, 2019, pp. 323-339.

Introduzione 1. Non più nel V secolo, come prima si era creduto, peraltro con voci di dissenso. 2. Delle opere perdute trifiodoree si è tentato di ipotizzare le linee contenutistiche generali. 1) Le Storie maratonie potevano essere incentrate sulla battaglia di Maratona tra Greci e Persiani (epica storica) oppure, più verosimilmente, sulla storia di Teseo che lotta contro il toro di Maratona (un mito trattato, nel III sec. a.C., da Callimaco nel poemetto Ecale, che Trifiodoro sembra conoscere). 2) Ippodamia, forse la figlia del re Enomao, sposa di Pelope, il quale la ottiene in moglie per aver vinto nella gara di carri indetta dal padre della ragazza; oppure l’eroina delle famose nozze con Piritoo, da cui ha origine la battaglia tra Centauri e Lapiti. 3) Odissea senza una lettera: una riscrittura dell’Odissea, con ogni libro mancante di una lettera (libro I senza alpha, libro II senza beta…) oppure sempre mancante

88 di sigma (alla maniera dell’Iliade senza una lettera di Nestore di Laranda, che ispirò Trifiodoro). 4) Parafrasi delle similitudini di Omero: una raccolta di similitudini omeriche, forse quelle più estese, parafrasate e corredate da un commento esplicativo (simile al materiale confluito negli scolii omerici). 3. Si tratta dell’imperatore Anastasio I, il cui regno dura ventisette anni, dal 491 al 518. 4. Anche per Colluto ci si è interrogati sui temi trattati nelle opere perdute trasmesse dalla Suda. 1) I sei libri di Storie calidonie dovevano essere dedicati a Meleagro e a vicende a esso connesse, come la caccia al cinghiale Calidonio, o l’amore per Atalanta. 2) Storie persiane era con ogni probabilità un poema encomiastico in onore di Anastasio, dedicato alla sua vittoria contro i Persiani nel 506 (cfr. gli Isauriká di Cristodoro di Copto in sei libri, per celebrare la campagna dello stesso Anastasio sugli Isauri nel 497). 3) Encomi: componimenti poetici che verosimilmente ruotano intorno alla figura dell’imperatore. Da confrontare con i Persiká collutei e i panegirici in lode di Anastasio di Prisciano di Cesarea e di Procopio di Gaza (stando a Prisciano, Laud. Anast., 161, il sovrano era stato celebrato in vari encomi). 5. Anacr., 9, 27 ss. Vd. F. Ciccolella (a cura di), Cinque poeti bizantini. Anacreontee dal Barberiniano greco 310, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2000, p. 255. 6. Negli stessi modi di Arete con Odisseo in Hom., Od., 7, 237-239. 7. Come per Penelope in Hom., Od., 4, 793 s. 8. Hom., Il., 3, 46-49 e 174 s.; 6, 292; 24, 28-30 e 763 s.; Od. 4, 262 s. 9. Romuleon, VIII. 10. Cfr. lo scudo di Achille e la costruzione della zattera di Odisseo in Hom., Il., 18, 468-608, e Od., 5, 243-261. 11. Cfr. Hom., Il., 2, 278-282. 12. Cfr. Hom., Od., 4, 280-286, dove sono menzionati Odisseo, Menelao, Anticlo e Diomede all’interno del cavallo. 13. Come fa con Achille in Hom., Il., 19, 352-354. 14. Cfr. Hom., Il., 3, 383-420. 15. Cfr. Hom., Il., 20, 1-74. 16. Hom., Od., 3, 109-112; 11, 467 ss. 17. Hom., Od., 8, 492-520. 18. Hes., Th., 3-8. 19. Hom., Od., 6, 100-109. 20. Hom., Il., 11, 385-390; cfr. 3, 39 s. 21. Schol., Od., 17, 57. 22. Hom., Il., 2, 190-197, 200-206, 284-333. 23. Hom., Od., 4, 265-289. 24. Questa la sequenza delle tradizioni cicliche: Canti Cipri, Iliade, Etiopide, Piccola Iliade, Distruzione di Ilio, Ritorni, Odissea, Telegonia.

89 25. Aristot., Poet., 23, 1459a; Rhet., 3, 14, 46, 1415a; Callim., Epigr., 28 Pfeiffer. 26. Ne restano i riassunti in prosa di Proclo, forse grammatico del II sec., e alcuni frammenti. 27. S. Bär - M. Baumbach, The Epic Cycle and imperial Greek epic, in M. Fantuzzi - Ch. Tsagalis, The Greek Epic Cycle and Its Ancient Reception. A Companion, Cambridge University Press, Cambridge 2015, pp. 604-622: p. 605. 28. Eunap., Vit. soph., 10, 7, 12 (p. 78 Giangrande). 29. La nuova cronologia trifiodorea, invece, ha spinto a trovare influenze della Presa su Nonno e Colluto: vd. L. Miguélez-Cavero, Triphiodorus, ‘The Sack of Troy’. A General Study and a Commentary, de Gruyter, Berlin-­ Boston 2013, pp. 91 s. 30. Colluto «non è solo omerico e non è tutto nonniano» (M. Minniti Colonna, Sul testo e sulla lingua di Colluto, in «Vichiana», VIII, 1979, pp. 70-93: p. 86). 31. L’assenza di invocazione alla Musa nei Posthomerica, volta a enfatizzare la mancanza di soluzione di continuità con l’Iliade omerica, è compensata da un proemio interno in cui il poeta si presenta in qualità di pastore originario di Smirne (12, 308-313). Il proemio del poema didascalico sulla pesca di Oppiano di Anazarbo (Halieutiká, II sec.) si apre con la dedica a Marco Aurelio (vv. 1-11), cui seguono una presentazione della materia (vv. 12 ss.) e solo in terza posizione l’invocazione alle Muse e alle divinità marine (vv. 7379), mentre nel terzo libro il narratore dichiara di essere originario della Cilicia (vv. 7-10, 205-209). Un’analoga disposizione si ritrova nel poema sulla caccia pseudo-oppianeo (Kynegetiká, III sec.): dedica a Caracalla (1, 1-15, e 41-46); esposizione del tema (1, 16 ss.); invocazione a Nereo, alle divinità di Anfitrite e alle Driadi (1, 77-80); provenienza da Apamea in Siria (2, 125-127). 32. Da segnalare, in particolare, nella Presa, il ricorrere di discorsi talora anche di una certa estensione – nell’economia del poema breve – e a interscambio limitato, rivolti a interlocutori silenti: Odisseo (vv. 120-251), Sinone (vv. 265-282), Priamo (vv. 284-290), Sinone (vv. 292-303), Cassandra (vv. 376416), Priamo (vv. 420-438), Afrodite (vv. 457-462), Atena (vv. 491-496). 33. Fr. 3 Livrea. 34. Allitterazioni: Colluth., 71, 133, 206, 243; Triph., 58, 117, 192, 560. Anafore: Colluth., 95-96, 105-106, 128-129, 283-284. Assonanze: Colluth., 71, 256, 257. Omoteleuti: Triph., 154, 168, 170, 675. “Rime interne”: Triph., 1, 2, 43, 49, 82-84. Giochi di parole etimologici: Triph., v. 34: ómphakA MAZÓu, basato sull’etimologia di Amazzone; vv. 57-58: Epeiós… epóiei, «Epeo… faceva»; vv. 513-514: Heléne… seléne, «Elena… luna», ma anche, nel v. 513 della Presa, il nome stesso dell’eroina, rappresentata con una fiaccola accesa, visto che al sostantivo heléne era attribuito il significato di «torcia».

90 35. A. Lesky, Storia della letteratura greca, vol. III, L’Ellenismo, tr. it. di F. Codino, il Saggiatore, Milano 1996 (ed. or., 1957-1958), p. 1007. 36. E. Livrea, Introduzione, in Id. (a cura di), Colluto, Il ratto di Elena, Pàtron, Bologna 1968, pp. IX-LIII: p. XIV; «[…] cattivo gusto dell’autore […] servile imitazione nonniana» (ivi, pp. XX s.). 37. P. Leone, La «Presa di Troia» di Trifiodoro, in «Vichiana», V, 1968, pp. 59-108: p. 96. 38. M.L. West, Recensione a E. Livrea (a cura di), Colluto, Il ratto di Elena, in «Gnomon», XLII, 1970, pp. 657-661: p. 657 s. 39. P. Orsini, Introduction, in Id. (a cura di), Colluthos, L’enlèvement d’Hélène, Les Belles Lettres, Paris 1972, pp. V-XXXVII: p. XXVII. 40. G. Giangrande, Recensione a P. Orsini (a cura di), Colluthos, L’enlèvement d’Hélène, in «The Classical Review», XXIV, 1974, pp. 129-131: p. 129. 41. G. D’Ippolito, Trifiodoro, in F. Della Corte (dir.), Enciclopedia Virgiliana, vol. V/1, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1990, pp. 268271: p. 268. 42. A. Hollis, The Hellenistic Epyllion and Its Descendants, in S.F. Johnson (a cura di), Greek Literature in Late Antiquity. Dynamism, Didacticism, Classicism, Ashgate, Aldershot 2006, pp. 141-158: p. 154. 43. L. Miguélez-Cavero, Triphiodorus, ‘The Sack of Troy’, cit., p. 87. 44. C. Cadau, Studies in Colluthus’ Abduction of Helen, Brill, LeidenBoston 2015, p. 3. 45. Ivi, pp. 274 s. 46. O. Karavas, Triphiodorus’ The Sack of Troy and Colluthus’ The Rape of Helen. A Sequel and a Prequel from Late Antiquity, in R. Simms (a cura di), Brill’s Companion to Prequels, Sequels, and Retellings of Classical Epic, Brill, Leiden-Boston 2018, pp. 52-70: p. 53. 47. Ivi, p. 56. Colluto Il ratto di Elena 1. Alle tradizionali Muse delle invocazioni epiche, sono sostituite le Ninfe locali, chiamate in causa perché testimoni dirette del giudizio di Paride presso il monte Ida (vd. Colluth., 13-16). Le quali però danzano come le Muse invocate da Hes., Th., 3-8. La loro paternità assegnata al fiume Xanto (anche detto Scamandro [Hom., Il., 20, 74]), che scorre a Troia, è attestata in Quint. Smyrn., 11, 244 s.; 12, 459 s.; 14, 72 s. Un’immagine analoga è in Hom., Od., 6, 100-109: le ancelle di Nausicaa, paragonate alle Ninfe, depongono i veli e giocano a palla, mentre la ragazza inizia a cantare. L’as-

91 senza delle attese Muse costituisce altresì un elemento di diversificazione dal modello omerico: il poema non è l’Iliade, ma il suo prequel. Cfr. supra, Introduzione, par. 4. 2. C’è un intento ironico in questa attribuzione di coraggio a Paride, che peraltro Colluto stesso descriverà come un damerino tutto preoccupato di non scompigliarsi le chiome e sporcarsi i piedi, appena sbarcato a Sparta (vv. 230-234)? Oppure si allude a prove eroiche superate dal giovane figlio di Priamo, prima di ricongiungersi alla famiglia d’origine, da cui era stato allontanato da bambino (Ov., Her., 16, 359 ss.; Apollod., Bibl., 3, 12, 5; Hyg., Fab., 91)? In realtà mancano nel Ratto riferimenti alla versione di Paride giudice delle tre dee quando ancora è ignaro dei propri natali (Eur., Iph. Aul., 1285 ss.): l’eroe è pastore regale, il quale rivendica orgogliosamente l’appartenenza alla propria stirpe e si occupa degli armenti paterni esercitando un’azione di sorveglianza su Troia (vv. 103 s., 141). La maggior parte degli editori, comunque, legge diversamente l’inizio del v. 7 (non enoréon ma éx oréon): «(ditemi) perché venne dai monti». Quanto al motivo dell’inesperienza del mare, essa era connessa per i Troiani con un oracolo, che prediceva per loro rovina, se non si fossero dedicati esclusivamente alla terra (Hellan., 4 fr. 142 Jacoby). 3. Si tratta di Elena. «Argiva» vale qui «greca». «Sposa» rende il greco nýmphe. Alla fine dell’epillio, Paride ed Elena, in procinto di entrare a Troia, sono descritti in termini coniugali («sino ai porti della dardania lo sposo [nýmphios] condusse la sposa [nýmphen]», v. 388) 4. «Tricipite» è il monte Ida e Falacra («brulla») è il nome di una delle sue tre vette (Callim., fr. 34 Pfeiffer). Gli altri due picchi sono il Gargaro e il Lecto (Hom., Il., 8, 48; 14, 284 e 292). 5. Le Cariti («Grazie») sono in stretta relazione con Afrodite: in Hom., Od., 18, 193 s. la dea dirige il loro coro; in Cypr., frr. 4-5 Bern, si reca al giudizio di Paride indossando un abito confezionato da Cariti e Ore. Cfr. Colluth., 88 e 174, dove invece le Cariti sono collegate a Era, che è detta essere loro madre. 6. Emonia è antica denominazione della Tessaglia (dall’eroe Emone, padre di Tessalo e capostipite degli Emonii). Cfr. Callim., frr. 7, 26 e 304, 1 Pfeiffer; Ap. Rh., 2, 504, e 4, 1000. Nel sud-est di questa regione, in Magnesia, si trova il Pelio, luogo delle nozze di Peleo e Teti, nonché sede di Chirone (vd. Colluth., 27). Il famoso matrimonio, cui partecipano tutti gli dèi (Hom., Il., 24, 62), costituisce l’antefatto del giudizio di Paride. 7. Il troiano Ganimede, adolescente bellissimo, viene rapito da Zeus sull’Ida. Il dio per averlo sempre con sé lo porta sull’Olimpo a svolgere la mansione di coppiere e lo rende immortale (Hom., Il., 20, 232 ss.; Hymn. hom. Ven., 202 ss.; Pind., Ol., 1, 43).

92 8. Teti e la sorella Anfitrite sono le più note figlie di Nereo, divinità marina. Hom., Il., 18, 39-49 offre un catalogo di 33 Nereidi; invece Hes., Th., 240-264 ne elenca 50. 9. Apollo suona la cetra accompagnando il canto delle Muse in Hom., Il., 1, 603 s.; Hymn. hom. Apoll., 182-193; Ps.-Hes., Scut., 201-206. Per l’Elicona (monte della Beozia) e il suo legame con le Muse vd. Hes., Th., 2 e 22. 10. Vento occidentale, spesso personificato. Dopo Omero, in cui soffia pungente e porta tempesta (Hom., Il., 2, 147 s.), è rappresentato come tiepido vento primaverile. 11. Come entità personificata Armonia è considerata figlia di Afrodite (Hes., Th., 937, 975 s.). 12. Peithò («Persuasione»), essenziale nella relazione amorosa, è spesso associata a Eros e ad Afrodite: Aesch., Ag., 385 s.; Paus., 5, 11, 8; Nonn., Dion., 3, 84. È figlia di Oceano e Teti in Hes., Th., 349 (e sorella di Metis, l’«intelligenza pratica» [ivi, 358]), oppure di Afrodite stessa in Pind., fr. 122 Snell-Maehler. 13. La verginità di Atena è motivo topico (Hymn. hom. Ven., 10; Callim., Hymn. Dian., 6). 14. «Agreste, selvaggia», agrotére in greco, è epiteto cultuale di Artemide, dea vergine come Atena, nonché dedita alla caccia (Callim., Hymn. Dian., 6). In Catull., 64, 299-302, Artemide e Apollo non partecipano volontariamente alle nozze di Peleo e Teti. 15. La figura di Ares senz’armi e danzante si trova in Nonno (Dion., 5, 94; 35, 112) e ha riscontri anche in ambito iconografico (cfr. Paus., 5, 18, 42 s.). 16. Eris è la «Discordia»: il tema della sua ira per il mancato invito alle nozze di Peleo è tardivamente attestato in letteratura (Apollod., Epit., 3, 2; Lucian., Symp., 35; Hyg., Fab., 92). 17. Cfr. Triph., 360-364, e infra, La presa di Ilio, nota 100. È questa l’unica similitudine estesa del poema colluteo. Più brevi raffronti – con Eros (vv. 258-260), con Dioniso (vv. 261-264) e con gli Achei illustri (vv. 269275) – sono istituiti per descrivere Paride. 18. L’aggettivo euláinx può valere sia «di pietre preziose» sia «di solida pietra». 19. Percuotere il suolo è atto rituale volto a invocare potenze ctonie (Hom., Il., 9, 568-571). 20. I Titani, figli di Urano e Gea, appartengono a una fase anteriore rispetto a quella degli dèi dell’Olimpo. Capitanati da Crono, lottano a lungo contro Zeus, che li sgomina e li sprofonda nel Tartaro (Hom., Il., 8, 479-481; Hes., Th., 717 ss.; Apollod., Bibl., 1, 2, 1).

93 21. Un simile assalto al cielo è progettato dagli Aloadi Oto ed Efialte, uccisi da Apollo prima che compiano il loro piano (Hom., Od., 11, 305-320). 22. Le Esperidi, insieme a un serpente (drákon) custodivano delle mele d’oro – dono ricevuto da Era alle nozze con Zeus – in un favoloso giardino, posto all’estremo occidente (Hes., Th., 275; Pherec., 3 fr. 16 a-c Jacoby; Apollod., Bibl., 2, 5, 11). Sulla mela della discordia era scritto «alla più bella» (Lucian., Dial. deor., 20, 7; Apollod., Epit., 3, 2). 23. La mela è noto pegno d’amore (in Colluth., 76, è detta «ornamento degli Eroti»): Theocr., 2, 120; Artemid., 1, 73; Athen., 12, 553e. 24. Sui motivi di vanto delle tre dee per ottenere il premio di bellezza cfr. Eur., Iph. Aul., 1304-1307. 25. Per il nome del dio Colluto usa la forma Hermáon, variante già esiodea (fr. 137, 1 Merkelbach-West). 26. Blepháron xynokén in greco, cioè la convergenza delle sopracciglia, che evidentemente era una caratteristica femminile apprezzata (Theocr., 8, 72; Cratin., fr. 470 Kassel-Austin). 27. Hermes scorta le tre dee al cospetto di Paride, perché si sottopongano al suo giudizio: cfr. Eur., Andr., 276; Iph. Aul., 1302. 28. Afrodite – «Cipride», perché Cipro era sede di un importante culto in suo onore – è detta dolómetis, da cfr. con doloplókos (Sapph., fr. 1, 2 Voigt; Theogn., 1386), con riferimento all’inganno quale aspetto peculiare nella sfera erotica (e a sedurre mira la chioma agghindata della dea). Per l’oro associato ad Afrodite vd. Hom., Il., 3, 64; Hes., Th., 822; Mimnerm., fr. 1, 1 West. 29. Gli Eroti figurano nel corteggio di Afrodite già in Sapph., fr. 194 Voigt. Sono ritenuti figli della dea (Plat., Symp., 185c; Apul., Met., 10, 32, 1) oppure delle Ninfe (Philostr., Imag., 1, 6). 30. Le Grazie, che al v. 16 erano presentate al seguito di Afrodite, qui (come anche ai vv. 173 s.) sono figlie di Era: cfr. Conrut., Nat. deor., 15; Nonn., Dion., 31, 184-186; ma il legame con Era è già stabilito in Hom., Il., 14, 267. In una tradizione che rimonta a Esiodo (Th., 907-911) esse nascono dall’unione di Zeus e Eurinome (e i loro nomi sono Aglaia, Eufrosine e Talia). 31. Sulla mancata attitudine alla guerra di Afrodite cfr. Hom., Il., 5, 330-333. 32. Kestós era una fascia applicata al petto delle donne. Come attributo di Afrodite, ha il potere di suscitare la passione amorosa: Hom., Il., 14, 214-221; Hymn. hom. Ven., 164; Callim., fr. 75, 45 Pfeiffer. Nel citato passo iliadico Afrodite dà in prestito questo oggetto proprio a Era, la quale deve essere più che mai attraente e sedurre Zeus per distoglierlo dalla battaglia. 33. Le armi di Afrodite, che pure arrecano dolore a chi ne è colpito, non sono mortali. Il verbo odíno usato per lo stato delle donne ferite dalla

94 dea indica sia «avere le doglie» sia «soffrire» in generale (per esempio il mal d’amore in Antip., Anth. Pal., 7, 30, 5 s.). 34. In Omero rhododáktylos, «dalle dita di rosa», è epiteto di Aurora (Il., 6, 175; Od., 2, 1, ecc.). L’aggettivo poteva anche essere applicato a personaggi mortali, come l’eroina Io in Bacchyl., Dith., 19, 18 Snell-Maehler. 35. Il capo di vestiario descritto corrisponde alla exomís. Cfr. quella che indossa il pastore teocriteo Licida (7, 15 s.), che invece è di pelle bovina. 36. L’aggettivo oiopólos, «pastorale», può anche essere inteso come «solitario», sulla base di una differente etimologia. L’ambivalenza semantica si riscontra già in Omero (Il., 19, 377). Cfr. Colluth., 15 e 355. 37. Greggi e pastori rientrano nell’ambito di azione di Hermes: Hom., Il., 16, 179-186; Hes., Th., 444-447; Hymn. hom. Merc., 491-494. 38. Eco è trasformata nel fenomeno fisico che da lei prende il nome per aver rifiutato le avances di Pan (Mosch., fr. 2 Gow; Long., 3, 23; cfr. Ov., Met., 3, 356 ss.). «Che è spontanea nella voce», «che ha voce non appresa», è in greco boés adídaktos, espressione anche intesa nel senso di «inesperta del suono della musica» (per questo significato di boé, vd. Hom., Il., 18, 495; Aesch., Sept., 394; Triph., 350). 39. Paride scorge Hermes, ma anche le tre dee al suo seguito. È usuale la reazione di spavento, da parte di un mortale, quando riconosce la presenza divina (Hom., Od., 3, 372 s.; Hymn. hom. Ven., 181 ss.; Callim., Hymn. Cer., 59 s.). 40. Un invito, cioè, a lasciare la vita pastorale. Gaulós indica il secchio per mungere il latte. 41. Per la bellezza dei piedi vd. Nonn., Dion., 34, 310-312, e 42, 74 s. 42. Alessandro è nome alternativo di Paride, da Omero in poi. Nell’Iliade è maggiormente impiegata la prima delle due forme. Solo in età più tarda questi antroponimi sono usati insieme (Plin., Nat. hist., 34, 77, e Hyg., Fab., 92). Il suo sorriso, qui (meidióonta), ha insospettito alcuni critici, che hanno tentato di riferire il verbo alla dea, congetturando meidióosa. 43. Il medesimo ordine degli interventi delle tre dee (Atena, Era, Afrodite) si legge in Eur., Tr., 925 ss. Altra possibilità è far parlare per prima Era, invece che Atena: Isocr., Hel., 41-43; Ov., Her., 16, 81 ss., e Lucian., Dial. deor., 20, 10 ss. 44. Dea guerriera, di frequente associata ad Ares (Hom., Il., 5, 333, e 592; Paus., 1, 8, 4). Il nome è legato a Enialio, altra divinità di ambito marziale ed epiteto di Ares, con cui viene poi identificato (Il., 17, 210 s.; 20, 69). 45. Cfr. Eur., Tr., 927 s.; Lucian., Dial. deor., 20, 11; Apul., Met., 10, 31, 4. 46. In alcune versioni del giudizio, le tre dee sono nude (Ov., Her., 5, 35 s.; Lucian., Dial. deor., 20, 10) oppure è nuda solo Afrodite (Apul., Met., 10,

95 31). La dea si sveste con l’intenzione di sedurre. Per il gesto cfr. Eur., Andr., 627-631, dove Elena svela il seno per non incorrere nel castigo di Menelao (vd. infra, La presa di Ilio, nota 167). 47. Il kestós, menzionato ai vv. 95-97. 48. Afrodite è dea philommeidés, «che ama il sorriso» (Hom., Il., 3, 424; Od., 8, 362; Cypr., fr. 5, 1 Bern.; Hes., Th., 989). 49. L’offerta di Elena è motivo ricorrente nelle rappresentazioni del giudizio: Eur., Hel., 28; Isocr., Hel., 42; Lucian., Dial. deor., 20, 13. 50. Troia che vede Paride sposo è allusione a Enone, la quale figura come moglie di Paride prima dell’affaire Elena. In una versione del mito, la relazione tra i due finiva malamente: ferito da Filottete, Paride si recava da Enone per essere curato e veniva ignorato. Cfr. Parth., Erot., 4; Lycophr., 57-68; Conon, 23; Quint. Smyrn., 10, 261 ss. 51. Afrogenia significa «nata dalla spuma del mare», in accordo con il famoso mito dell’origine della dea dai flutti marini (Hes., Th., 178 s.). Il pomo qui è assegnato senza alcuna esitazione (a differenza di Ov., Her., 16, 75 s., e Lucian., Dial. deor., 20, 13). 52. Antiáneira, «pari all’uomo», epiteto in Omero applicato alle Amazzoni (Il., 3, 189; 6, 186). Nonno lo usa per Atalanta (Dion., 35, 82). 53. Era è madre di Ares in Hom., Il., 5, 892 s. Secondo Hes., Th., 922, dall’unione tra Zeus ed Era nascono, oltre ad Ares, Ebe e Ilizia. 54. Vd. Colluth., 88. 55. Efesto è l’altro figlio maschio di Era, la quale lo genera da sola, senza l’apporto di Zeus (Hes., Th., 927-929). 56. Epiteto di Atena (che Colluto usa anche al v. 194), inteso come «instancabile» ovvero «invitta». Vd. Hom., Il., 2, 157; Od., 4, 762; Hes., Th., 923. 57. Riferimento al celebre episodio della nascita di Atena: Zeus ingoia la sposa Metis, la quale è incinta di Atena; al termine della gestazione, che ha luogo nel corpo paterno, Prometeo – o Efesto, a seconda delle versioni – con un colpo di scure apre la testa di Zeus e ne esce Atena (Apollod., Bibl., 1, 3, 6; cfr. Hes., Th., 886-900). 58. È l’idea della incompatibilità assoluta tra sesso femminile e mestiere delle armi, che Afrodite utilizza per ridicolizzare la tradizionale vocazione guerriera di Atena (su cui vd. Hom., Il., 2, 446-454; Hes., Th., 925 s.; Archil., fr. 94 West). 59. Dýsparis in greco («Paride funesto/sventurato»), secondo l’uso omerico (Il., 3, 39; 13, 769): cfr. gli omologhi Ainóparis (Alcm., fr. 77 Page) e, per Elena, Dyseléna (Eur., Iph. Aul., 1316). 60. Gli artigiani che realizzeranno le navi per l’impresa del rapimento (cfr. Cypr. argum., p. 39, 9 Bern., dove l’allestimento della flotta è consigliato da Afrodite). Atena è esperta nella fabbricazione navale (Ap. Rh., 1,

96 18 s.) e l’artigianato è suo campo d’azione privilegiato (Hymn. hom. Ven., 12 s.). 61. Modelli per questo passo sono Hom., Il., 5, 59-64 (su Fereclo che costruisce le navi di Paride, ripreso anche da Triph., 60 s.) e 23, 118 s. (il taglio della legna, sull’Ida, per la pira di Patroclo). La scena della costruzione navale ha notevole fortuna nella letteratura latina (es. Verg., Aen., 6, 179-182). Il Fereclo di Colluto agisce in autonomia rispetto ad Atena: la dea evidentemente non coopera perché ostile a Paride, che le ha preferito Afrodite. 62. Helléspontos (Dardanelli) è il «mare di Elle», dal nome della figlia di Atamante, che vi era annegata (la ragazza, insieme al fratello Frisso, stava volando in groppa a un ariete alato per sfuggire alle trame della matrigna Ino [Hdt., 7, 58, 2; Apollod., Bibl., 1, 9, 1]). Cfr. Triph., 218. 63. La distesa marina è detta «genitrice» – tithéne, termine caro a Colluto (vv. 85, 88, 100, 176, 379) –, con allusione alla nascita di Afrodite dalla spuma del mare (vd. supra, nota 51). In Ov., Her., 16, 23-26, Paride attribuisce la tranquilla navigazione verso Sparta al potere di Afrodite di placare le acque. 64. Che il viaggio di Paride verso Sparta sia stato burrascoso non sembra attestato al di fuori di Colluto. Particolare il caso di Dracon., Romul., 8, 385 ss., p. 153 Vollmer: una tempesta porta l’eroe a Cipro e qui ha luogo l’incontro con Elena, mentre Menelao è a Creta. Nota è invece la versione della tempesta durante il ritorno, che spinge Paride ed Elena a riparare a Sidone (Cypr. argum., p. 39, 18 s. Bern; Apollod., Epit., 3, 4). Sul passaggio in Fenicia dei due cfr. Hom., Il., 6, 290-293, e Hdt., 2, 116, 2. 65. Cioè la Troade. Ma non è escluso che si tratti della città di Dardano, più antica di Troia, su cui vd. infra, nota 94. 66. Sulla costa della Tracia, tra le città di Maronea e Strima, a sud del monte Ismaro. Ne parla Hdt., 7, 109. È identificato con l’odierno lago di Mitrikon. 67. Monte della Tracia, a est delle foci dello Strimone. La regione intorno al Pangeo si chiamava Phyllís, secondo Hdt., 7, 113 (vd. infra, nota seguente). 68. Quando Demofonte, figlio di Teseo, approda in Tracia di rientro da Troia, fa innamorare la figlia del re locale, di nome Fillide. L’eroe, costretto a partire per Atene, promette di tornare. Straziata dal dolore per la sua lunga assenza, Fillide si impicca a un albero presso capo Pangeo, dove poi sorgerà Anfipoli. Vd. Callim., fr. 556 Pfeiffer; Apollod., Epit., 6, 16; Ov., Her., 2. Il «percorso a nove giri» allude alle nove volte in cui la donna si era recata alla spiaggia, sperando di vedere la nave di Demofonte (cfr. Ov., Rem. am., 56 s., 591-608; Ars, 3, 37 s.; Hyg., Fab., 59). La storia ricorre anche in una lettera di Procopio di Gaza, contemporaneo di Colluto e panegirista di Anastasio (Epist., 47 Garzya-Loenertz).

97 69. Gli Emonii sono i Tessali (cfr. Colluth., 17). 70. Acaia, come abitualmente in Omero (Il., 1, 254; 3, 258; 7, 124), indica tutta la Grecia. «Fiori» (ánthea) è metafora per «le più belle città». In questo panorama che si offre a Paride, sono menzionate significativamente le patrie di Achille (Ftia: Hom., Il., 1, 55; Hymn. hom. Apoll., 363) e Agamennone (Micene: Hom., Il., 4, 52). 71. Monte dell’Arcadia, ai confini con Elide e Acaia (secondo alcuni l’omonimo fiume, affluente dell’Alfeo). Che sia citato in contiguità con Sparta, da cui è lontano, ha gettato un’ombra sulle conoscenze geografiche collutee, ritenute essenzialmente libresche. Si è pensato che il poeta sia stato guidato in questa associazione da Hom., Od., 6, 103, dove l’Erimanto viene menzionato insieme al Taigeto (catena montuosa tra Laconia e Messenia, che incombe su Sparta). 72. Menelao. 73. Località della Laconia a sud-est di Sparta, sulla riva opposta dell’Eurota. Sede di culto dei Dioscuri e di Elena, nonché delle tombe di Elena e Menelao (Hdt., 6, 61; Pind., Pyth., 11, 95; Nem., 10, 55-59; Paus., 3, 19, 9). 74. L’aggettivo chióneos vale propriamente «nevoso/freddo come la neve». È stato anche inteso, in questo verso, nel senso di «limpido». 75. Il ritratto colluteo di Paride riprende i tratti dell’eroe vagheggino già presenti in Hom., Il., 3, 55 ss; 328-338; 521-525. Cfr. Nonn., Dion., 34, 310, dove il campione indiano Morreo rallenta volontariamente l’inseguimento amoroso della baccante Calcomeda. 76. Il motivo di Paride «turista» in Grecia non è nuovo: Ov., Her., 16, 129 s.; Lucian., Dial. deor., 20, 15; Ps.-Plut., Hom., 7. 77. Forse si tratta di Atena Polióuchos («protettrice della città»)/Chal­ kíoikos («dalla dimora di bronzo»). Altri culti della dea a Sparta sono quello della Ergáne («del lavoro»), e quello della Ophtalmítis/Optil(l)étis (guaritrice di malattie oculari). Vd. in merito Paus., 3, 17, 2-4, e 18, 2. 78. Era considerato dio nazionale dei Dori e Sparta era sua sede cultuale di particolare prestigio (Paus., 3, 13, 3-5). 79. Amicle, citta della Laconia sulle rive dell’Eurota, ospitava un importante tempio apollineo (Polyb., 5, 19). 80. Forse un’allusione al fatto che Letò, incinta di Zeus, si risentì con lui, perché non l’aveva difesa dai soprusi di Era gelosa. Nessuna fonte, però, parla di quest’ira della madre di Apollo. Vari editori (Livrea, Orsini) preferiscono correggere il v. 242 (skyzoméne in kysaméne), ottenendo così: «si era meravigliato che Letò / non avesse concepito e dato alla luce anche lui per opera di Zeus)». 81. Per Apollo come «sovrano» (ánax) cfr. Hom., Il., 1, 36, e 15, 253. 82. Giacinto è un bellissimo giovinetto amato da Apollo e nello stesso tempo da Zefiro (sul quale vd. supra, nota 10): durante una gara, Zefiro

98 devia la traiettoria del disco che Apollo sta lanciando e Giacinto viene colpito mortalmente. Per consolare Apollo, terribilmente afflitto, nasce l’omonimo fiore, i cui petali recano le lettere AI, espressione di dolore del dio, oppure Y, l’iniziale del nome del ragazzo (Hyákintos). Il mito si presenta in numerose versioni (per quella collutea vd. Palaeph., 46; Lucian., Dial deor., 14; Nonn., Dion., 3, 153 ss.). 83. Tione è il nome di Semele divinizzata, quando dall’Ade ascende al cielo per intervento del figlio Dioniso (Apollod., Bibl., 3, 5, 3). È procedimento tipicamente nonniano quello del narratore che si scusa con qualcuno – come accade qui con Dioniso –, quando sta per esprimere un’idea particolarmente ardita, che potrebbe dispiacere al soggetto in questione (Dion., 4, 50; 8, 73; 10, 314; 29, 115 e 135). 84. Menelao – l’Atride del v. 247 – sembra essere assente (come in Dict. Cret., 1, 3, e Dar. Phryg., 10). In altre versioni l’eroe troiano è accolto e ospitato dai Dioscuri (Cypr. argum., p. 39, 12 s. Bern.) ovvero da Menelao stesso (Ov., Her., 16, 129). Cfr. Colluth., 381-384. 85. Elena si innamora a prima vista e gli occhi sono veicolo di éros, secondo la topica della passione amorosa (Eur., Iph. Aul., 580-586; Xenoph. Eph., 1, 3, 1; Musae., 76-79). Invece Paride, per opera di Afrodite, comincia a desiderare Elena senza averla mai vista (cfr. Colluth., 192). 86. Afrodite, così chiamata, secondo Hes., Th., 198, perché uscita dalla schiuma del mare di Citera (vd. supra, nota 51). Sull’isola sorgeva un famoso tempio in onore della dea (Hdt., 1, 105, 3). 87. Dioniso, dio del vino (Hom., Il., 14, 325; Hes., Erga, 614; Eur., Bacch., 279-283, ecc.). 88. Perifrasi per indicare il collo. Corone di pampini e grappoli d’uva rientrano nel consueto apparato di simboli dionisiaci. 89. I Deucalionidi sono una stirpe molto ampia e articolata intorno alla figura di Elleno, figlio di Deucalione e Pirra (Hes., fr. 2 Merkelbach-West). Dai suoi tre figli (Eolo, Doro e Xuto) discende un gran numero di personaggi della leggenda eroica (Apollod., Bibl., 1, 7, 2 s.). 90. Neleo è padre di Nestore, fondatore di Pilo in Messenia (Apollod., Bibl., 1, 9, 9). 91. Figlio di Nestore. A Troia muore per mano di Memnone, re degli Etiopi (Hom., Od., 4, 187 s.). 92. Peleo e Telamone sono figli di Eaco, eroe nato da Zeus nell’isola di Egina (Apollod., Bibl., 3, 12, 6). 93. Stando a Hom., Il., 7, 452 s., i due dèi costruiscono le mura di Troia ai tempi del re Laomedonte, padre di Priamo. A seconda delle fonti, sono al servizio presso costui per aver congiurato contro Zeus (schol. Pind., Ol., 8, 41b; schol. Lycophr., 34), oppure volontariamente, per mettere alla prova l’arroganza del sovrano (Apollod., Bibl., 2, 5, 9). Questa versione sembra in

99 contradizione con Colluth., 285, dove Apollo e Poseidone sono presentati alle dipendenze di Dardano (vd. la nota seguente). 94. Dardano, capostipite della casa reale troiana, è figlio di Zeus e del­ l’Atlantide Elettra, originario di Samotracia o dell’Arcadia (il nome sopravvive in «Dardanelli»). Spostatosi in Troade, sposa la figlia del re locale Teucro e fonda la città di Dardania; coloni di Dardania, guidati da Ilo pronipote di Dardano, fondano Ilio: Hom., Il., 20, 215-240; Dion. Hal., 1, 61 s.; Strab., 13, 1, 48; Diod. Sic., 4, 75; 5, 48; Apollod., Bibl., 3, 12, 1-3. 95. La seconda parte del v. 288 è corrotta e l’indicazione dei nomi della coppia di divinità proviene dal v. 279. Il fatto che solo «uno di costoro edificò le mura» cittadine, sembra contraddire quanto è stato appena detto, cioè che sia Apollo sia Poseidone fortificarono Troia. Comunque la versione dell’impresa attribuita a uno solo dei due affiora in Hom., Il., 21, 441457 (vd. infra, nota 99). 96. Il pomo lanciato da Eris al banchetto nuziale aveva gettato subito scompiglio tra le dee (cfr. Colluth., 60 ss.) 97. Attribuzione adulatoria di sorellanza con Afrodite, per esaltare Elena. In genere, per elogiare la bellezza femminile, viene rimarcata la somiglianza con la dea (Hom., Od., 4, 14; Charit., 1, 1, 2). 98. In Hom., Il., 10, 121 s., a Menelao è attribuita scarsa intraprendenza. Qui il giudizio negativo è esteso alla stirpe (cfr. Eur., Or., 1201 s.), la cui degenerazione è testimoniata dal regime di vita delle donne e dalla loro complessione mascolina (allusione agli esercizi fisici delle Spartane: es. Aristoph., Lys., 77 ss.; Xenoph., Lac. resp., 1, 4; Plut., Lyc., 14, 3). 99. In Hom., Il., 21, 446-449, per un anno Poseidone e Apollo servono Laomedonte, con compiti differenti: mentre il primo fortifica Troia, il secondo pascola buoi alle pendici dell’Ida. Per Apollo come pastore vd. Callim., Hymn. Apoll., 47-49. 100. La versione di Elena consenziente al rapimento prevale nell’Iliade (solo occasionalmente è presente il motivo del ratto violento: vd. C. Brillante, Elena di Troia, in M. Bettini - C. Brillante, Il mito di Elena. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino 2002, pp. 37-232: pp. 7983). Per il riferimento al sentirsi al sicuro, una volta a Troia, cfr. Hom., Il., 3, 154-157: il rancore verso la donna considerata responsabile di tanti mali cede il posto, nel giudizio dei vecchi troiani, all’ammirazione per la straordinaria bellezza di Elena. 101. I vv. 316-318 sono particolarmente tormentati. Siccome più oltre è presentato il sogno ingannevole di Ermione, si è tentato di trasporre la sequenza 316-321 dopo il v. 368. Senza alterare il testo tramandato, sono problematici, dal punto di vista del significato, sia il participio elaphrízousa (la notte «che porta» il sonno, oppure «che alleggerisce» il sonno) sia il sostantivo eós («luce del giorno» oppure «aurora»). Perciò si dubita, fra l’altro,

100 se sia descritto l’arrivo della notte in generale oppure il momento prossimo all’aurora (in cui si presentano sogni maggiormente veritieri, perché meno influenzati dagli eventi del giorno precedente: vd. Artemid., 1, 7). L’immagine del giorno compagno della notte è data dall’epiteto paréoros («aggiogato al fianco», detto di cavallo legato al carro, vd. Hom., Il., 16, 152 e 471). In Esiodo Hemére («Giorno») è figlia di Nýx («Notte»): le due si salutano, all’alba e al tramonto, presso la soglia bronzea delle case di Notte, all’interno delle quali non possono mai trovarsi insieme (Giorno esce per portare la luce agli uomini, e la madre resta dentro, poi, viceversa, rientra la figlia e Notte reca il sonno ai mortali: Th., 746-757). 102. La medesima teoria sui sogni veridici e mendaci – i primi che attraversano la porta di corno, i secondi quella d’avorio – è esposta da Penelope in Hom., Od., 19, 562-567. 103. Figlia unica di Elena e Menelao (oppure sorella di Nicostrato: Hes., fr. 175 Merkelbach-West). In Apollod., Epit., 3, 3, è precisato che viene abbandonata dalla madre quando ha nove anni. Sarà data in sposa a Neottolemo, figlio di Achille (Hom., Od., 4, 5 ss.). Suoi pianti per la partenza di Elena sono ricordati in Ov., Her., 8, 79-81. 104. Che madre e figlia dormano insieme, in assenza di Menelao, nel letto coniugale, è ribadito più oltre (Colluth., 373). È questo un segno di premura, così come il gesto di chiudere a chiave la porta (su cui cfr. Achill. Tat., 2, 19, 4 s.). 105. In genere si ritiene che la congiunzione kái abbia qui valore disgiuntivo (Livrea, Minniti Colonna): sarebbe introdotta, dunque, un’altra ipotesi sulla localizzazione di Elena. 106. Ore (Hórai) sono le «Stagioni», soprattutto quelle dei fiori e dei frutti. Siccome sono spesso associate (o sovrapposte) alle Cariti (vd. supra, nota 5), si è pensato, per questa indicazione del luogo dove Elena potrebbe trovarsi, al tempio spartano di Dioscuri e Cariti presso il Drómos (Paus. 3, 14, 6, e vd. infra, nota 108). 107. Fiume di Sparta, il principale della Laconia. L’eroe eponimo figura nella fase iniziale della genealogia regale spartana, in cui si colloca, più tardi, il padre di Elena, Tindareo (Paus., 3, 1, 1 ss.; Apollod., Bibl., 3, 10, 3). Secondo una tradizione confluita in Lycophr., 101-107, Elena si reca su una spiaggia della Laconia – sulle sponde dell’Eurota? – per prendere parte a un sacrificio dionisiaco, alle Baccanti e a Inò-Leucotea, e in questa occasione incontra Paride. 108. Ci si è chiesti se in questi riferimenti geografici di Ermione si celino allusioni a luoghi precisi. Secondo la Storia nuova di Tolomeo Chenno (in Phot., Bibl., 149a 23-26) Elena è rapita da Paride mentre si trova a caccia sul monte Partenio. Il roseto potrebbe alludere alla raccolta di fiori (a meno che non si debba correggere es rhódon in es Drómon, luogo di Sparta

101 dove i giovani si esercitavano nella corsa); i prati richiamerebbero o la sopramenzionata piana delle Ore (v. 343) o il Platanistás, boschetto di platani circondato da un corso d’acqua, in cui gli efebi lacedemoni combattevano ritualmente (qui sorgeva anche il santuario urbano di Elena). Cfr. Paus., 3, 14, 6 e 8; 15, 3; Theocr., 17, 39-49. 109. Elena è figlia di Zeus e Leda (o, in alternativa, di Zeus e Nemesi). Le viene attribuito anche un padre mortale (Colluth., 376), il re spartano Tindar(e)o: Hom., Il., 3, 237 s.; Eur., Hel., 16-21; Apollod., Bibl., 3, 10, 7. 110. Ninfe delle acque dolci (fonti, fiumi, laghi e paludi): Hom., Od., 13, 102-112; Pind., fr. 70b, 12 s. Snell-Maehler; Ap. Rh., 4, 182 s. 111. Vari tentativi sono stati effettuati per correggere questi versi (363366), anche se non è da escludere che siano deliberatamente anacolutici. L’idea espressa è che il sonno, al pari della morte, coglie la persona facendole dimenticare i suoi dolori (per il caso presentato delle donne ai vv. 367 s. cfr. Hom., Od., 4, 787-794). Per la prossimità tra sonno e morte vd. Hes., Th., 744 ss.; Paus., 5, 18, 1; Plat., Apol., 40d. La Morte (thánatos) è detta «fratello» perché di genere maschile in greco. 112. Cfr. Colluth., 332. 113. Cfr. Colluth., 356-358. 114. Vd. Supra, nota 109. Il patronimico per indicare il padre mortale di Elena (Tyndareóne) è attestato nell’epica tarda: es. Triph., 473; Christod., Ecphr., 167; Tzetz., Carm. Il., 3, 731. 115. Nei manoscritti, il verso è attribuito ancora al discorso di Ermione. Non si capisce però, in questo caso, perché la ragazza dovrebbe richiamare, dopo essersi rammaricata per non aver trovato la madre sui monti, l’accordo (harmoníe) di Paride con Afrodite, del quale fra l’altro non sembra ancora essere stata informata. Pertanto Cuartero i Iborra, seguendo una proposta largamente accolta dagli editori collutei, sposta l’esametro all’interno del discorso di Elena. 116. Paride rapisce Elena approfittando dell’assenza di Menelao, il quale si trova Creta, secondo Apollod., Epit., 3, 2 s., per assistere ai funerali del nonno materno Catreo, dopo aver intrattenuto l’ospite troiano a Sparta per nove giorni (cfr. Cypr. argum., p. 39, 14 s. Bern.; Ov., Her., 16, 299 ss.; Tzetz., Carm. Il., 1, 99-101). In Alcidam., Odyss., 17 s., il marito di Elena è assente per risolvere una questione di eredità tra i figli di Molo, che lo hanno chiamato a Creta. 117. Allusione a Elena, «ornamento di Sparta» (Theocr., 18, 31), ma probabilmente anche al fatto che Paride aveva portato via dal palazzo, insieme alla donna, molte ricchezze (Hom., Il., 3, 91; Cypr. argum., p. 39, 17 s. Bern.; Verg., Aen., 1, 647-652). 118. Popolo della Tracia (Hom., Il., 2, 846 s.; Od., 9, 39 ss.; Strab., 7, 59). 119. Elle è nipote di Eolo: vd. supra, nota 62.

102 120. Per la Dardania vd. supra, nota 65. Quanto agli «sposi», in Hom., Il., 3. 445, è ricordata la sosta di Elena e Paride nell’isola di Cranae (in Laconia, davanti a Gizio secondo Paus., 3, 22, 1), dove avviene la prima unione. Invece stando a Cypr. argum. p. 39, 17 Bern. i due si congiungevano prima della partenza da Sparta. 121. Cfr. la disperazione della figlia di Priamo in Triph., 358 ss. (infra, La presa di Ilio, nota 100), e Tzetz., Carm. Il., 2, 410 ss. Qui la profezia ha luogo al ritorno di Paride da Sparta. In un’altra versione il vaticino di Cassandra è posto prima della partenza dell’eroe (Cypr. argum., p. 39, 11 Bern.; Ov., Her., 16, 124). 122. «Origine della rovina», «principio dei mali» (archékakos), assume la valenza di tema chiave dell’intero poemetto. Non è casuale la sua collocazione nell’ultimo verso (e all’inizio, al v. 8, dove è epiteto delle navi di Paride). Trifiodoro La presa di Ilio 1. Significativamente il poema inizia con la parola «fine» (térma), peraltro ripresa in prossimità del finale, al v. 667. La conclusione della guerra, che si chiede alla Musa di cantare, costituisce il nucleo tematico fondamentale dell’opera (così come l’ira di Achille nell’Iliade). 2. Il termine «insidia» (lóchos, propriamente «luogo dove si è acquattati in imboscata») è comune in Trifiodoro (vv. 92, 120, 201, 382, 539) per designare il cavallo di Troia, sulla scorta di Hom., Od., 4, 277; 8, 515; 11, 525. Per la competenza di Atena nell’artigianato vd. supra, Il ratto di Elena, nota 60. 3. Una delle nove Muse, tradizionalmente invocata come ispiratrice del canto poetico (Alcm., fr. 27, 1 Page; Stes., fr. 277 Davies-Finglass; Bacchyl., Epin., 5, 176 Snell-Maehler). 4. Nell’enfasi posta, in sede incipitaria, sulla fretta del poeta, che chiede alla Musa un’operazione di sintesi dell’ampia materia a disposizione, si è voluto leggere una nota polemica con i ponderosi Posthomerica di Quinto Smirneo in 14 libri. Cfr. supra, Introduzione, par. 4. 5. Vd. supra, Il ratto di Elena, nota 44. In Triph., 562, la dea è in compagnia di Eris («Discordia»). La sua rappresentazione come vecchia rinvia a Hes., Th., 270-273, ma si riconnette anche al motivo centrale, nell’esordio trifiodoreo, della lunga durata della guerra. 6. Per lo scudo sono usate due parole diverse, entrambe omeriche: la prima arcaica (sákos al v. 11, cfr. lo scudo a torre, elemento paleomiceneo, di

103 Aiace [Il., 7, 219; 11, 485; 17, 128]); l’altra (aspís al v. 12) diventata termine comune per indicare questo tipo di arma. 7. Sui cavalli addolorati per la morte del loro auriga vd. Hom., Il., 17, 426-462 (i cavalli di Achille piangono la morte di Patroclo). 8. Riferimento ad Achille, figlio di Peleo, e a Patroclo. Morto a Troia per mano di Ettore prima dell’amico, Patroclo era apparso in sogno ad Achille, chiedendogli che le loro ossa fossero riposte nella stessa urna d’oro. Sarà esaudito in questo suo desiderio e la tomba dei due sorgerà sulla riva dell’Ellesponto (Hom., Il., 7, 84-91; 23, 83-92; Od., 24, 76-84). 9. La morte del figlio di Nestore era stata trattata nel ciclo epico (Aethiop. argum., p. 68, 13 Bern.). Per Nestore in lutto cfr. Quint. Smyrn., 2, 260-266. 10. Il gigantismo di Aiace è noto già dall’Iliade (2, 527; 7, 207-213). L’eroe, per non aver ricevuto le armi di Achille, medita vendetta; reso folle da Atena, riversa la sua furia sul bestiame degli Achei e poi si suicida gettandosi sopra la propria spada, che gli era stata donata dal nemico Ettore al termine di un duello (Soph., Aj., 661-664; Apollod., Epit., 5, 6 s.). 11. Vd. Hom., Il., 22, 405 ss.: il popolo troiano si lamenta in coro, sconvolto per aver assistito, dall’alto delle mura, all’uccisione di Ettore e all’oltraggio del suo cadavere perpetrato da Achille. Il corpo era stato legato per i piedi al carro nemico e trascinato nella polvere (ivi, 395-404). In Il., 24, 14-21, il trascinamento riprende: Achille gira per tre volte col carro intorno al monumento funebre di Patroclo e poi lascia il corpo dell’eroe troia­ no riverso a terra. 12. Sarpedone è capo dei Lici, figlio di Zeus e Ippodamia (o Europa, a seconda delle fonti: Hom., Il., 6, 198 s.; Hes., fr. 140 Merkelbach-West). Nell’Iliade è attestato l’episodio della pioggia di sangue, ma come prodigio prima della morte dell’eroe (16, 459 s.). 13. Reso, re dei Traci, figlio di Eioneo, è ucciso da Diomede, che lo sorprende nel sonno (Hom., Il., 10, 494-497). 14. Anche Memnone giunge a Troia come alleato, con un contingente di Etiopi. È figlio di Aurora e Titono ed è ucciso da Achille. Cfr. Aethiop. argum., p. 68, 10 ss. Bern.; Pind., Nem., 6, 48 ss.; Apollod., Epit., 5, 3. 15. Le Amazzoni, famosa comunità di donne guerriere – da cui il legame con Ares –, erano localizzate nella regione del fiume Termodonte (oggi Terme Çayi), sulla costa meridionale del mar Nero. La vicenda del loro arrivo fra gli alleati Troiani, capitanate da Pentesilea, e dell’uccisione di quest’ultima per mano di Achille, era trattata nell’Etiopide ciclica (Argum., pp. 67 s., 4-8; frr. 1-2 Bern.). Il gesto di battersi il petto è comune manifestazione femminile del lutto (Hom., Il., 18, 30 s.; Quint. Smyrn., 3, 548), ma il riferimento preciso al seno allude alla pratica, in uso presso questo popolo, di amputare la mammella destra (Diod. Sic., 3, 53, 3).

104 16. Sulle mura di Troia vd. Triph., 396 s., 509, 680 s. Per l’intervento divino sulle porte al fine di far entrare il cavallo vd. vv. 337-339. Sono queste fortificazioni a rendere la città inespugnabile: il che vanifica i numerosi assalti degli Achei, frustrando l’esercito (Apollod., Epit., 5, 8). Cfr. supra, Il ratto di Elena, note 93 e 99; infra, note 90 e 92. 17. L’indovino è Eleno, figlio di Priamo ed Ecuba. Dopo la morte di Paride, aspira alle nozze con Elena, ma costei è assegnata al fratello Deifobo (vd. Triph., 163 s.), più giovane e più valente in battaglia: è questo il motivo della sua defezione. Trifiodoro, con la storia della profezia volontaria, si contrappone alla più comune versione, secondo la quale l’eroe è forzato a vaticinare, dopo essere stato intercettato dagli Achei sull’Ida, dove si era ritirato. Cfr. Hom., Il., 13, 402-539; Soph., Phil., 604-614; Conon, 34. Secondo Apollod., Epit., 5, 10 Eleno predice che tre sono le condizioni per la conquista di Troia: portare presso l’accampamento greco le ossa di Pelope, l’arrivo di Neottolemo e il furto del Palladio (altre fonti aggiungono l’arco di Eracle donato a Filottete e il cavallo di legno: vd. infra, note 78 e 92). 18. Neottolemo. In Hom., Od., 11, 508 s., è Odisseo che lo va a prendere a Sciro per condurlo a Troia. 19. Il Palladio, antica statua piovuta dal cielo ai tempi della fondazione di Troia. Svolge funzione talismanica, rendendo la città inespugnabile, finché presente a proteggere il luogo. Lo rubano Odisseo e Diomede (Conon, 34; Apollod., Bibl., 3, 12, 3; Epit., 5, 13). Vd. supra, nota 17, e infra, nota 78. 20. La cooperazione tra Atena ed Epeo per la costruzione del cavallo è motivo tradizionale (Hom., Od., 8, 492 s.; Il. parv. argum., 1, p. 74, 14; fr. 8 Bern.). 21. I Troiani, ingannati dal greco Sinone, saranno indotti a far entrare il cavallo in città e a presentarlo come offerta (ágalma) per Atena: vd. Triph., 298 ss. 22. Il cavallo viene realizzato con lo stesso legno del monte Ida servito per le navi con cui Paride era andato a rapire Elena: un altro parallelismo tra inizio e fine della guerra (vd. supra, Il ratto di Elena, nota 61, e supra, nota 1). Il paragone tra cavallo e nave è variamente sfruttato da Trifiodoro (vv. 63 s., 185, 304 ss., 344). Cfr. già Il. parv. argum., 1, p. 75, 19 Bern., dove è usato il verbo «imbarcarsi» (embibázein) per descrivere gli eroi che si introducono nel simulacro. 23. Orthón epí státhme. La státhme era una cordicella usata da carpentieri e operai per tracciare una linea retta. 24. Glaukós indica in questo caso un intenso verde-azzurro, tipico del­ l’acquamarina (che, insieme allo smeraldo, è la gemma più pregiata tra i berilli [Plin., Nat. hist., 37, 20, 76]).

105 25. In Triph., 326 ss., mentre il cavallo marcia verso le mura, il fragore del tuono prodotto da Zeus è assimilato allo squillo della tromba di guerra (sálpinx). 26. «Rapida» è ápteros in greco, con alpha copulativo (propriamente, «dotata di ali»). L’aggettivo ricorre in Omero e gli antichi esegeti mostrano di intenderlo anche in senso opposto («privo di ali», «immobile», con alpha privativo). Cfr. supra, Introduzione, par. 4. La notazione sull’impressione di vita e movimento è tipica nelle descrizioni di opere d’arte (cfr. Triph., 73 s., 78 s., 103-105). 27. In un’altra versione, gli Achei usano una corda per calarsi giù dal cavallo (Apollod., Epit., 5, 20; Verg., Aen., 2, 262). 28. Su queste ruote inserite in fase di realizzazione cfr. Quint. Smyrn., 12, 424-428, Dict. Cret., 5, 11; Tzetz., Carm. Il., 3, 640. In Verg., Aen., 2, 235 s., le ruote sono opera dei Troiani (i quali credono, ingannati da Sinone, che il cavallo, nel disegno degli Achei, debba rimanere fermo sul posto [infra, nota 78]). 29. «Rivelasse» l’inganno del cavallo (dólon… enípsei, dove il verbo è stato corretto da vari editori, quali Gerlaud, Dubielzig). Oppure «incendiasse», se si conserva il testo tramandato dai manoscritti (dolon… anápsei): cioè il muro intorno al cavallo sarebbe stato di protezione, per impedire che i Troiani, scoperto l’inganno, attaccassero il simulacro dandogli fuoco. Il particolare del muro sembra invenzione trifiodorea; però anche in Quint. Smyrn., 12, 242, c’è la preoccupazione di Odisseo che l’impresa achea sia nota anzitempo a qualcuno dei Troiani. 30. Del nettare si nutrono gli dèi (infra, nota 55). Per l’aggettivo, il testo greco ha melíchroos, che rimanda al colore del miele; «dolce come il miele», che pare qui più appropriato per il nettare, è melichrós. Forse c’è stata una confusione tra i due termini. Cfr. Hom., Il., 1, 249, per l’immagine della voce che fluisce più dolce del miele dalla bocca di un eccellente oratore come Nestore. 31. Allusione al prodigio capitato agli Achei in Aulide quando erano pronti a partire per Troia: in occasione di un sacrificio, un serpente si arrampica su un platano posto nelle vicinanze dell’altare e divora nove uccelli (otto passeri più la loro madre); Calcante predice che per nove anni i Greci combatteranno a Troia e nel decimo conquisteranno la città. Vd. Hom., Il., 2, 299-332. 32. Cfr. Triph., 45-50. 33. Segnali di fuoco per richiamare gli Achei, nascosti a Tenedo, saranno dati da Sinone ed Elena (Triph., 217, 510-521). 34. Inizia il catalogo degli Achei che, spronati dalle parole di Odisseo (Triph., 135-138), seguono volontariamente l’eroe per andare a nascondersi nel cavallo. Più oltre verrà detto che si tratta dei più valorosi (vv. 308, 382, cfr. Quint. Smyrn., 12, 28, 234, 304 s., 327; e già Hom., Od., 4, 272; 8, 512;

106 11, 524). Secondo Verg., Aen., 2, 18, i guerrieri che partecipano all’impresa sono estratti a sorte (e sono in numero di nove, vv. 261-264). Sedici nomi trifiodorei compaiono anche in Quint. Smyrn., 12, 314-335, il quale menziona in totale trenta Achei chiusi nel simulacro. Per un confronto tra i vari cataloghi noti dalla tradizione letteraria vd. L. Miguélez-Cavero, Triphiodorus, ‘The Sack of Troy’, cit., pp. 210-213. 35. Le armi del padre Achille erano state consegnate di recente a Neottolemo da Odisseo (Il. parv. argum., 1, p. 74, 10 s. Bern.). 36. Sono frequenti simili manifestazioni di meraviglia nel constatare la straordinaria somiglianza di un figlio con il padre (Hom., Od., 4, 141146). Per Neottolemo vd. il frammento tragico adespota 363 Kannicht-Snell; Quint. Smyrn., 7, 631; Phi­lostr., Her., 52, 2. 37. La madre di Cianippo è sorella di Diomede. Per questo eroe a Troia cfr. Ibyc., S 151, 37 Page. 38. Vd. supra, nota 17. Sarà Menelao stesso a uccidere Deifobo (Triph., 626-629). 39. Stuprerà Cassandra abbracciata alla statua di Atena (Triph., 647650). Il gesto è presentato come atto folle (cfr. Lycophr., 403-407, dove l’eroe, nell’Ade, accusa Afrodite di avergli traviato la mente, suscitando il desiderio erotico per la vergine). 40. Nell’Iliade, insieme a Merione, guida un contingente cretese di ottanta navi (2, 645-652). 41. Nell’Odissea questo eroe è tornato a casa e si trova presso il padre Nestore (3, 39, 414, 442 s., 448 s.). 42. Teucro è figlio illegittimo di Telamone e dunque fratellastro di Aiace per parte di padre. Il suicidio di Aiace è stato ricordato all’inizio del poema (Triph., 19 s.). 43. Figlio di Admeto e Alcesti. In Hom., Il., 2, 711-715, guida undici navi dalla Tessaglia. 44. La sua profezia sulla conquista di Troia nel decimo anno di guerra è stata ricordata da Odisseo in Triph., 128-134. Manca una tradizione sulla partecipazione di Calcante come combattente. In altre versioni gioca un ruolo maggiore nell’ideazione dello stratagemma del cavallo: esorta gli Achei a escogitare un inganno per espugnare Troia (Quint. Smyrn., 12, 8-20); oppure suggerisce di costruire un simulacro altissimo, perché i Troiani non possano introdurlo nella rocca (Verg., Aen., 2, 185-188, vd. infra, nota 78). 45. Ancora due eroi tessali, citati più volte nell’Iliade (e in successione, come qui, nel Catalogo delle navi): Euripilo è a capo di un contingente di quaranta navi; Leonteo, figlio di Corono, guida i Lapiti insieme a Polipete figlio di Piritoo (Hom., Il., 2, 734-747). 46. I figli di Teseo a Troia ritroveranno la nonna Etra, fatta prigioniera durante la spedizione punitiva contro l’Attica messa in atto dai Dioscuri

107 (per vendicare il rapimento di Elena organizzato da Teseo): Il. parv., fr. 20; Il. exc. argum., p. 89, 21 s. Bern.; Apollod., Bibl., 3, 10, 7; Quint. Smyrn., 13, 496-543. 47. Anticipazione dell’episodio della morte dell’eroe nel cavallo: vd. Triph., 476-486, dove è detto che Odisseo lo soffoca e poi gli Achei gettano pietosamente un mantello sul suo cadavere. Il patronimico Ortigide, attestato solo da Trifiodoro, è stato variamente interpretato (órtyx significa «quaglia»). Vd. L. Miguélez-Cavero, Triphiodorus, ‘The Sack of Troy’, cit., pp. 223 s. 48. Figura tra i pretendenti di Elena giunti a Sparta (Apollod., Bibl., 3, 10, 8) e in testa ai capi beoti menzionati nel Catalogo delle navi (Hom., Il., 2, 494). 49. Un altro aspirante alla mano di Elena (Apollod., Bibl., 3, 10, 8). Nell’Iliade guida il contingente di Dulichio e delle isole Echinadi ed è presentato come capo degli Epei, collocati in Elide (2, 615, 625-630; 13, 692; 15, 519). 50. Sono noti tre personaggi chiamati Antifate, ognuno dei quali mal si adatta a questo catalogo. Forse nell’espressione Antiphátes agapénor il primo termine è da intendere come epiteto, il secondo come antroponimo (antiphátes Agapénor): si otterrebbe così il nome di un eroe, Agapenore, collocato da Quinto Smirneo nel cavallo di legno (12, 325). 51. Di nuovo nomi di eroi attestati anche in Omero, ma con caratteristiche che li rendono inadatti a comparire in un catalogo degli Achei nascosti nel cavallo. Si è notata la somiglianza dei nomi di tre personaggi che Quinto Smirneo (12, 321, 323, 325) pone nel simulacro, cioè Eurimaco, Antimaco e Anfimaco. Vd. L. Miguélez-Cavero, Triphiodorus, ‘The Sack of Troy’, cit., p. 225. 52. Vd. Triph., 57 s. 53. Epiteto tradizionale di Atena, già per gli antichi di dubbia interpretazione. Si riferisce verosimilmente a una particolare caratteristica dello sguardo della dea («dagli occhi glaukói», cioè azzurro chiaro, colore avente una connotazione sinistra, per la capacità di comunicare paura o terrore). 54. Il cavallo di legno: cfr. Triph., 62-64, 183, 337. Il simulacro è designato con il termine holkás, propriamente la «nave a rimorchio», «da carico». 55. Nei poemi omerici l’ambrosia è il cibo degli dèi, il nettare la loro bevanda, distinzione che dopo Omero tende a sfumare: così ambrosia può essere bevanda (Sapph., fr. 141, 1 s. Voigt) e nettare cibo (Alcm., fr. 42 Page). Cfr. Quint. Smyrn., 4, 138 s., dove l’ambrosia è mescolata come vino. Per questa nota sulla sopravvivenza nel cavallo, vd. Triph., 75-77, a proposito delle aperture per garantire il passaggio dell’aria. Cfr. Ap. Rh., 4, 13811387, dove gli Argonauti marciano dodici giorni con la nave sulle spalle senza bere e mangiare.

108 56. Cfr. Triph., 384-390, per la metafora del cavallo che dà alla luce gli Achei nascosti nel suo ventre. Altre allusioni a quest’immagine ai vv. 135 s. e 308. 57. In Quint. Smyrn., 12, 329-334, il ruolo di guardiano della porta è assegnato a Epeo, che entra per ultimo e tira dentro la scala con cui gli eroi sono saliti. In Hom., Od., 11, 524 s., svolge questa funzione Odisseo, il quale però riceve l’incarico dagli altri Achei una volta che sono entrati nel cavallo. In Verg., Aen., 2, 257-259, Sinone apre la porta dall’esterno. 58. Agamennone. 59. Per l’episodio dell’incendio delle tende e della finta partenza cfr. già Hom., Od., 8, 500-502. Vd. infra, nota 61. 60. Sede della tomba di Aiace (Quint. Smyrn., 5, 655 s.; Anth. Pal., 7, 146, 1). 61. Cfr. Triph., 141-145. Anche nel ciclo epico la flotta greca trova rifugio a Tenedo, isola vicinissima alla costa della Troade (Il. parv. argum., 1, p. 75, 20; Il. exc. argum., p. 88, 11-13 Bern.). 62. Sul mito di Elle vd. supra, Il ratto di Elena, nota 62. 63. Cfr. Il. exc. argum., p. 88, 10 Bern.; Verg., Aen., 2, 57 ss.; Quint. Smyrn., 12, 360 ss.; Apollod., Epit., 5, 15. Il particolare delle ferite volontarie è piuttosto isolato (Tzetz., Carm. Il., 3, 688; cfr. però l’Odisseo omerico che si traveste da pitocco e si procura delle ferite, per poter entrare a Troia inosservato e qui ricavare informazioni prima di rubare il Palladio [Od., 4, 244]). Nella tabula Iliaca Capitolina (bassorilievo di età augustea con raffigurate scene della saga troiana) probabilmente è Sinone a sostenere la scala grazie alla quale i guerrieri scendono dal cavallo (cfr. Triph., 90-94, 584). Da notare la tradizione secondo cui l’eroe sarebbe anche imparentato con Odisseo (suo padre Esimo, infatti, era assegnato come fratello ad Anticlea, madre di Odisseo [Lycophr., 344-347]). 64. «Separatamente» è ekkridón, una correzione che ha trovato il consenso di molti editori (non di Dubielzig, il quale preferisce stampare il testo così come è stato tramandato nei manoscritti: dé kridón). 65. Un analogo intervento narratoriale è in Triph., 310-315. Cfr. anche, con anticipazioni sul futuro, vv. 579 s. e 640-643. 66. L’abbagliante luminosità del cavallo è un effetto dei vari materiali preziosi usati in fase di costruzione (vv. 66, 69-72, 74, 88, 96-98, 103). 67. Trifiodoro pone il dibattito su che cosa fare del cavallo prima che il simulacro venga fatto salire sulla rocca (Il. exc. argum., p. 88, 3-6 Bern.; Stes., fr. 103 Davies-Finglass; Verg., Aen., 2, 32 ss.; Quint. Smyrn., 12, 389 ss.). In altre versioni la scena è collocata dopo l’ingresso a Troia (Hom., Od., 8, 505-513; Apollod., Epit., 5, 16). Anche Cassandra, più oltre, si pronuncerà in termini simili (Triph., 412-414). 68. Cfr. Triph., 104 s.

109 69. Il rituale della supplica prevede gesti particolari. Vd. il caso emblematico di Hom., Il., 500-502, in cui Teti si accovaccia davanti Zeus, con la mano sinistra gli abbraccia – bloccandole – le ginocchia, con la destra gli tocca il mento. 70. La sintassi sconnessa dell’invocazione a Priamo è parte della strategia ingannatoria di Sinone, il quale si presenta in maniera confusa, senza rivelare peraltro il proprio nome, per dare l’impressone di essere sotto shock. 71. Allusione a Briseide, la schiava di Achille (detto Eacide, cioè nipote di Eaco, vd. infra, nota 168). La donna era stata catturata a Lirnesso. L’ira di Achille, perché di lei si era voluto impossessare Agamennone, è il principale motore narrativo dell’Iliade. Vd. Hom., Il., 1, 161 ss., e 2, 690. 72. Filottete era stato costretto a soggiornare sull’isola di Lemno. Qui gli Achei lo avevano lasciato a causa della sua ferita maleodorante, prodotta dal morso di un serpente d’acqua (hýdros dice Trifiodoro). Vd. Cypr. argum., p. 41, 50-52 Bern.; Soph., Phil., 260-275; Apollod., Epit., 3, 27. 73. Eroe notoriamente inviso a Odisseo, perché lo aveva smascherato quando si fingeva pazzo per non andare a Troia. Odisseo si vendicherà provocando la sua morte: Cypr. argum., p. 40, 30-33, fr. 30 Bern.; Apollod., Epit., 3, 8; Hyg., Fab., 105. Di un Odisseo invidioso di Palamede perché a lui superiore in assemblea e in battaglia parla Quint. Smyrn., 5, 198 s. 74. Priamo presuppone che Sinone sia di condizione agiata. In Verg., Aen., 2, 87, l’eroe fa riferimento all’indigenza del padre (pauper… pater). 75. Stupore e paura sono le reazioni comunemente suscitate dalla visione del cavallo: cfr. Triph., 247 s.; Verg., Aen., 2, 31 s., 245; Quint. Smyrn., 12, 358 s. 76. Su nome e origini Sinone non mente (cfr. Triph., 220). La provenienza da Argo è attestata anche da Verg., Aen., 2, 81-95, dove l’eroe dice di essere un compagno d’armi di Palamede. 77. «È stabilito che la lancia degli Achei conquisterà la città di Troia», secondo un’altra lettura del testo (Gerlaud, Livrea). Sinone resta nel vago circa l’eventualità di un ritorno dei Greci, ma lascia intendere che la partenza dei nemici non sia stata definitiva, affermando che gli Achei rinunceranno all’impresa se il cavallo sarà accolto in città (cfr. vv. 298 s.). 78. L’oracolo sul cavallo e le due alternative sul da farsi illustrate da Sinone sono in Palaeph., 16. Per le profezie di Eleno e Calcante relative alla fine di Troia vd. Triph., 48 s., 133. In Apollod., Epit., 5, 15, la statua lignea è presentata come un’offerta dei Greci ad Atena per propiziare il ritorno a casa. Il Sinone virgiliano (Aen., 2, 164-194) invece riferisce che la costruzione del simulacro intende placare l’ira di Atena per il furto del Palladio (supra, nota 19), concludendo che se i Troiani accoglieranno sulla rocca il cavallo, esso garantirà la protezione divina sulla città, come nuovo talismano

110 in sostituzione del Palladio (ragion per cui il simulacro è altissimo, su suggerimento di Calcante, così che non possa entrare a Troia). 79. «Protettrice della città» è rhysíptolis. Un epiteto di significato affine, polissóuchos, è assegnato alla dea in Triph., 444. 80. Sinone si era presentato senza vestiti (vd. Triph., 276). Il chitone è l’abito tipico dei Greci, indossato sulla pelle. 81. Cfr. Triph., 342; Eur., Tr., 529 s.; Verg., Aen., 238 s. Sull’aulo vd. infra, nota 102. 82. Vd. supra, nota 65. 83. Personificazione dello stato temporaneo di accecamento e delirio – attribuita a un intervento demonico esterno – in cui il soggetto viene a trovarsi, quando compie un atto imprudente, avventato. Da qui anche il significato di «rovina, disgrazia» (Hom., Il., 9, 512). 84. L’espressione «dalla pianura» (pedíoio) è congetturale. Nei manoscritti si legge «dal Simoenta», fiume della Troade. Scorreva prossimo allo Scamandro/Xanto (nel tratto finale le acque dei due fiumi si confondevano, cfr. Hom., Il., 5, 773 s.). 85. Cfr. Triph., 340-346. 86. Per le Ninfe sull’Ida vd. Colluth., 1-6, 13-16. Qui sono citate in particolare le Amadriadi, che vivono nelle querce (Ap. Rh., 2, 476-481). Per i due fiumi citati insieme vd. Hom., Il., 5, 773-777, e 6, 4. 87. Il rumore del tuono è assimilato allo squillo di tromba ed è interpretato come segno profetico della disfatta della città (cfr. Hom., Il., 7, 478 s., e 21, 388). 88. Oltre allo Xanto e al Simoenta, vari altri fiumi solcano la piana di Troia: vd. Hom., Il., 12, 18-22, e 20, 7. 89. In Verg., Aen., 2, 242 s., il simulacro si arresta quattro volte sulla soglia della porta e altrettante volte risuonano le armi dei guerrieri nascosti all’interno. 90. Non è chiaro se coincidano o meno con le porte Scee, che erano poste dalla parte del campo di battaglia (Hom., Il., 3, 145; 5, 789; Triph., 574). Presso di esse si trovava la tomba del re Laomedonte: finché questa fosse stata inviolata, Troia sarebbe stata salva (Serv. ad Verg., Aen., 2, 13 e 241). Per l’ingresso del cavallo dalle porte Scee vd. Anth. Pal., 11, 259, 4. 91. Definire «approdo» (hórmos) la destinazione finale del cavallo presuppone la similitudine dell’imbarcazione (vd. supra, nota 54). 92. L’episodio dell’intervento su porte (e mura) per consentire l’ingresso del cavallo ha grande fortuna, ma in genere non viene attribuito alla divinità, come invece fa Trifiodoro (cfr. Il parv. argum., 1, p. 75, 21 s. Bern.; Verg., Aen., 2, 234; Quint. Smyrn., 12, 439-441). Secondo Plaut., Bacch., 955, il crollo dell’architrave della porta Frigia era una delle tre condizioni per la caduta di Troia. Vd. supra, nota 17.

111 93. Ilizia è dea del parto (Hom., Il., 11, 269-272; 19, 103-119; Hymn. hom. Ap., 96-101). Si intende quindi le donne che già hanno dato alla luce figli. 94. Cfr. Eur., Tr., 545-547; Verg., Aen., 2, 238 s.; Quint. Smyrn., 12, 441-443. 95. Cfr. Triph., 316 s. 96. Fasce per il seno (in greco mítrai, cfr. Callim., Epigr., 38, 3 Pfeiffer), decorate a motivi floreali. Termine più comune per questo capo di abbigliamento è stróphion (Pherecr., fr. 106 Kassel-Austin; Aristoph., Thesm., 638; Lys., 931). 97. Compiere una libagione, cioè versare gocce  –  in questo caso di vino – a terra in onore della divinità, con l’accompagnamento di formule di preghiera, è uno degli atti rituali maggiormente diffusi nell’antichità. 98. In Omero Oceano è un fiume che circonda la terra, segnandone i confini (Il., 14, 200 s., 245 s.; 21, 195-197). In Il., 3, 2-10, le sue correnti sono popolate dalle gru in un contesto analogo a quello trifiodoreo (i rumorosissimi Troiani schierati in battaglia sono paragonati alle gru che fuggono l’inverno e le piogge). Per la loro migrazione stagionale e la fama di uccelli che preannunciano il cattivo tempo vd. Hes., Erga, 448-451; Arat., Phaen., 1075-1081; Ael., Nat. anim., 1, 44; 2, 1; 3, 13, ecc. La menzione dei movimenti circolari di questi uccelli nel cielo sembra alludere alla cosiddetta géranos, danza eseguita da Teseo e da un coro di giovani intorno all’altare di Delo, per celebrare l’uscita dal labirinto cretese (Callim., Hymn. Del., 312 s.; Plut., Thes., 21). 99. Cassandra, figlia di Priamo ed Ecuba (vd. supra, Il ratto di Elena, nota 121). Apollo le dà il dono della profezia; siccome però la ragazza si rifiuta di concedersi, il dio toglie credibilità ai suoi vaticini (Triph., 418). Come Laocoonte – personaggio che Trifiodoro passa sotto silenzio – l’indovina cerca invano di mettere in guardia i Troiani dal cavallo di legno (Apollod., Bibl., 3, 12, 5; Epit., 5, 17). Il motivo del suo intervento in questa occasione risale con ogni probabilità al ciclo epico (L. Miguélez-Cavero, Triphiodorus, ‘The Sack of Troy’, cit., p. 316), e ha molta fortuna nella tradizione successiva (Aesch., Ag., 1214-1216; Eur., Tr., 306 s.; Quint. Smyrn., 12, 525-538). 100. Cassandra furente profetizza in preda a possessione apollinea. Per la manifestazione della follia come erranza è impiegata la similitudine del tafano che assilla i bovini (Hom., Od., 22, 299-301; Ap. Rh., 1, 1265-1269; Colluth., 41-43). Nel mito di Io, la fanciulla è amata da Zeus e viene trasformata in giovenca da Era gelosa, che la fa perseguitare da un tafano (Aesch., Suppl. 307 s.; Prom., 674 s.; Apollod., Bibl., 2, 1, 3). 101. Una corona di alloro, come quella che Cassandra indossa per esempio in Eur., Tr., 256 s., 329 s., oppure un bastone brandito a mo’ di tirso

112 (cioè il bastone delle Baccanti, sulla cui sommità si trovava un viluppo d’edera)? Vd. infra, nota 104. 102. Strumento a fiato dotato di ancia, simile all’oboe. Se ne attribuiva l’invenzione ad Atena. Veniva spesso associato a rituali dionisiaci, nei quali era suonato da Satiri. Su questo strumento vd. Aristot., Pol., 1341a; Plut., Cohib. Ira, 456b-c; Poll., 4, 71. 103. Altra similitudine per descrivere il delirio mantico di Cassandra. Questa volta la giovane è assimilata a una Baccante (cfr. Eur., Tr., 169, 172, 306 s., 341, 349; Lycophr., 5 s., 28), seguace di rituali estatici in onore di Dioniso. In Hom., Il., 22, 460 s. Andromaca sconvolta per la morte di Ettore viene paragonata a una menade. 104. Forse l’espressione indica la sommità del tirso, ornata d’edera, che in un momento della sua danza forsennata la Baccante arrivava quasi a toccare con il capo (L. Miguélez-Cavero, Triphiodorus, ‘The Sack of Troy’, cit., p. 326). 105. Dubielzig stampa polémoio téras. Leggendo polémoio télos (Livrea, Campbell) si avrebbe: «impazienti di raggiungere… la conclusione della guerra». 106. La gioiosa sfilata di festeggiamento intorno al cavallo che viene accolto in città (Triph., 305-309, 340-351), siccome il simulacro nasconde gli Achei, diventa processione (kómos) di nemici pronti a distruggere Troia. L’impiego di kómos, propriamente «festa, baldoria», in immagini di guerra si ritrova in Nonno di Panopoli (Dion., 17, 157; 28, 303-305). 107. Prima della nascita di Paride, la madre Ecuba aveva sognato di dare alla luce un tizzone dal quale divampava un incendio che bruciava tutta Troia (Apollod., Bibl., 3, 12, 5, cfr. Pind., fr. 52i(A), 17-23 Snell-Maehler; Hyg., Fab., 91, 1-3). 108. Vd. supra, nota 56. La descrizione dell’uscita degli Achei dal cavallo nei termini di un parto conferisce enigmaticità alla profezia di Cassandra. 109. Su Ilizia vd. supra, nota 93. 110. Atena svolge la funzione di Ilizia durante il parto del cavallo. Cfr. Pind., fr. 52m, 16 s. Snell-Maehler: quando nascono Apollo e Artemide, Ilizia e la Moira Lachesi emettono un grido fortissimo. 111. Tre orrorifiche visioni di Cassandra (il mare di sangue, le donne ridotte in schiavitù, la città in fiamme) che trovano puntuale rispondenza nell’ultima parte del poema (Triph., 542-544; 547 s., 630-633, 647-650; 680-685). 112. Vincoli nuziali forzati: le donne troiane prigioniere (con le mani legate) saranno schiave concubine dei vincitori. 113. Le travi di legno di cui è fatto il cavallo: il simulacro sembra con­ tenere al suo interno l’origine del fuoco da cui divamperà l’incendio della città.

113 114. Per le mura della città realizzate da Poseidone e Apollo vd. supra, Il ratto di Elena, nota 93. 115. Priamo sarà ucciso da Neottolemo: cfr. Triph., 634-643. Zeus Erceo è il protettore della casa e della famiglia (Hom., Od., 22, 335; Soph., Ant., 487; Hdt., 6, 68, 1). 116. Ecuba è furiosa per la tragica sorte occorsa ai figli. Per Polissena vd. infra, note 117 e 183. Per la vicenda di Polidoro vd. Eur., Hec., passim, spec. 1259 ss.: il re tracio Polimestore, a cui Polidoro era stato affidato, uccide il giovane ospite troiano; allora Ecuba per vendetta lo acceca e uccide i suoi figli, trasformandosi poi in cagna e morendo infine per essere caduta dalla nave che la portava in Grecia. Cfr. Lycophr., 330-334; Cic., Tusc., 3, 63; Quint. Smyrn., 14, 347-351. In Hom., Il., 24, 212-214, piangendo per la morte di Ettore, ucciso da Achille, Ecuba si augura di poter per vendetta affondare i denti nel fegato dell’assassino del figlio. 117. Il sacrificio di Polissena sarà ricordato alla fine del poema (Triph., 686 s.). Le terribili sventure che toccano ai vinti – con il male estremo della sepoltura in terra straniera – rendono la morte una condizione preferibile: Hom., Od., 5, 306-310; Eur., Tr., 268, 271, 376-379, 387-390; 630 ss.; Hec., 342-378; Quint. Smyrn., 13, 267-286. 118. La «signora» (déspoina) è Clitennestra, moglie di Agamennone, responsabile dell’uccisione del marito e della stessa Cassandra (che il capo acheo aveva condotto con sé in patria, di ritorno da Troia): Hom., Od., 3, 248-312; 4, 519-537; 11, 409-434; Aesch., Ag., 1072 ss.; Eur., Tr., 353-364, 445-450. 119. Cfr. Triph., 310 s. 120. In Triph., 250-257 i Troiani avevano prospettato tre opzioni in merito alle sorti del cavallo (precipitarlo nel vuoto, demolirlo con scuri, consacrarlo agli dèi). Quint. Smyrn., 12, 571-575, rappresenta Cassandra che con un tizzone ardente e una scure a due lame cerca di avventarsi contro il cavallo. Virgilio dedica appena due versi all’intervento della profetessa (2, 246 s.). 121. In una versione alternativa del testo, invece di «pira» (pyré), si legge «dolore» (pothé), che è stato largamente accolto (Gerlaud, Livrea, Campbell). 122. Il cratere è il grande vaso da cui si attinge il vino per dare da bere ai presenti. Qui segna il giorno in cui i Troiani, liberi dall’invasione achea, festeggeranno insieme la riconquistata libertà. Cfr. Hom., Il., 6, 526-529, dove Ettore si augura che i Troiani, cacciati i Greci dalla loro patria, offrano agli dèi libagione solenne di ringraziamento (sulla libagione vd. supra, nota 97). 123. Cfr. Triph., 8-13, 500-502, 550 s., 547-558, 644-650. 124. Per il v. 434 si traduce dall’edizione di Gerlaud. Dubielzig, nella seconda parte dell’esametro, accoglie una diversa versione del testo, facendo seguire un v. 434a con prima parte lacunosa: «pronunciando parole menzo-

114 gnere e inutili alla tua città (434) / ‹ rechi disonore ai genitori › e selvaggiamente smaniando… (434a)». 125. Per i presagi nefasti che indicano il rifiuto da parte della divinità del sacrificio vd. Quint. Smyrn., 12, 500 ss., e Dict. Cret., 5, 7 s. 126. La festa notturna nel giorno fatale di Troia era materia della poesia ciclica (Il. parv. argum., 1, p. 75, 22 s.; Il. exc. argum., p. 88, 6 s. Bern.). 127. L’etnico «Argiva» vale «greca». Così l’eroina è spesso chiamata in Omero (es. Il. 2, 161; 4, 174; 6, 323). Cfr. supra, Il ratto di Elena, nota 3. 128. Lo stretto legame affettivo che si è stabilito tra Elena e Priamo è ricordato in Hom., Il., 3, 162-165, 172-176. Su Deifobo vd. supra, nota 17. 129. La forma trifiodorea del patronimico di Elena (Tyndareóne, «figlia di Tindareo») è usata anche da Colluth., 378 (vd. supra, Il ratto di Elena, nota 109). 130. Il figlio di Tideo è Diomede (per il suo ingresso nel cavallo vd. Triph., 157 s.); sua moglie, Egialea, è figlia di Adrasto (quando il marito è a combattere a Troia, intrattiene una relazione con Comete: Apollod., Epit., 6, 9). 131. Vd. supra, nota 47. 132. Anticlo, più degli altri eroi, è sconvolto quando sente menzionare, per bocca di Elena, la moglie Laodamia. Il nome di quest’eroina – che va distinto dalla omonima madre di Sarpedone (Hom., Il., 6, 196-199) nonché dalla più nota moglie di Protesilao (Il., 2, 700) – sembra un’invenzione di Trifiodoro. 133. Epiteto di Atena (Hom., Il., 1, 200; Od. 1, 125; Hes., Th., 577). Resta dubbio il suo significato («ragazza», secondo Strab., 17, 1, 46). 134. Deifobo, quindi, che era insieme a Elena, evidentemente non percepisce la presenza della dea. 135. L’episodio, che vede Elena cercar di favorire i Troiani smascherando l’inganno del cavallo, è presentato da Menelao in Hom., Od., 4, 274-289. Due le differenze sostanziali del modello omerico rispetto al testo trifiodoreo: a) Elena, in Omero, imita le voci delle mogli degli Achei nascosti nel cavallo (e non si limita a menzionarne i nomi); b) l’Odisseo omerico non soffoca Anticlo – quando questi vorrebbe rispondere alla donna – ma gli tappa soltanto la bocca. Cfr. supra, Introduzione, par. 4. 136. Vd. supra, Il ratto di Elena, nota 103. 137. Vd. supra, nota 102. 138. In Omero Zeus ricorre a una bilancia d’oro per decidere i destini di due contendenti: il piatto che cala, quello quindi più pesante, significa sconfitta (Il., 8, 69-74; 22, 209-213). Mógis, «con riluttanza», indica l’atteggiamento di Zeus, cui sono cari i Troiani e i loro alleati (Il., 16, 433-449; 22, 168-181), all’idea della disfatta della città; ma può anche intendersi nel senso di «finalmente» («dopo molta fatica», quando cioè l’estenuante guerra è finita, cfr. Triph., 1).

115 139. Per Apollo che costruisce le mura di Troia, vd. supra, Il ratto di Elena, nota 93. Il dio è variamente legato alla Licia (Hom., Il., 4, 101; 5, 104 s.; 16, 514 s.). È comune il motivo degli dèi che abbandonando una città vinta: Aesch., Sept., 217-220, 304-320; Hor., Carm., 2, 1, 25-27; Plut., Aex., 24; Quaest. Rom., 61. In Eur., Tr., 25-27, è Poseidone a lasciare Troia in fiamme. Sull’esistenza di un tempio apollineo nell’acropoli vd. Hom., Il., 5, 445 s, 512 e 7, 83. 140. Sono i segnali luminosi per gli Achei a Tenedo (cfr. Triph., 145). Il motivo è di derivazione ciclica (Il. exc. argum., p. 88, 10 s. Bern.). Per la collocazione di Sinone presso la tomba di Achille vd. Plaut., Bacch., 937 s., e Apollod., Epit., 5, 19. Secondo Verg., Aen., 2, 254-259, la flotta greca partita da Tenedo dà il segnale a Sinone di far uscire i guerrieri dal cavallo. In Quint. Smyrn., 13, 61 ss., invece, la partenza da Tenedo segue l’uscita degli eroi dal simulacro. 141. Fa difficoltà, nel testo greco, l’accusativo áskion achlýn («in un’oscurità senza ombre»). Si è anche pensato che possa dipendere da anístatai transitivo («… al suo primo apparire nel mese effonde un’opaca caligine») oppure dal precedente hypó («… al suo primo apparire si leva nel periodo del mese dell’oscurità senza ombre»). 142. Elena. Su Terapne vd. supra, Il ratto di Elena, nota 73. La fiaccola “di sventura” che Elena mostra agli Achei è attestata anche in Hyg., Fab., 249. La similitudine col disco lunare non pare casuale, in questo contesto: secondo Il. parv., fr. 9 Bern. Troia capitola in una notte di luna piena. Per l’associazione tra Elena e la divinità lunare Selene, cfr. C. Brillante, Elena di Troia, cit., pp. 171 ss. Per il sostantivo heléne nel senso di fiaccola cfr. supra, Introduzione, par. 4. 143. Diverso il testo di Geralud: «… perché i cavalli / non facessero destare il popolo troiano con il levarsi dei loro nitriti» (vv. 531 s.: mé Tróion híppoi / laón anastésosin aeiroménoi kremetismói). 144. La traduzione segue l’edizione di Gerlaud. Notevolmente diverso Dubielzig: «‹ volano › a bottinare, fuori dalle loro celle arrotondate, (537) / ‹ all’inizio della primavera › e sparse sui fiori… (537a)». 145. Per il v. 545 è tradotto il testo di Gerlaud (che per il verbo di movimento iniziale, énthoron, accoglie una congettura di Wakefield, in sostituzione del tràdito éuzonoi, «ben armati», in genere ritenuto inaccettabile dagli editori). 146. Quello funebre, non quello nuziale. 147. Vd. supra, Il ratto di Elena, nota 44. 148. «Puro» (ákratos) di norma è detto del vino, non mescolato con acqua. Qui è attributo del sangue per indicare le abitudini vampiresche di Eniò, ebbra del sangue dei morti caduti nell’ultima notte della città. 149. Vd. supra, Il ratto di Elena, nota 16.

116 150. Per il supporto di Ares ai Troiani vd. Hom., Il., 20, 38. È noto, in guerra, il suo propendere ora per l’una ora per l’altra parte (Il. 5, 829-834, 888-893). 151. Vd. supra, nota 53. 152. L’egida è una pelle di capra (áix in greco) usata da Atena, ma anche da Zeus (detto appunto aigíochos, «portatore dell’egida») e da Apollo. Viene imbracciata a mo’ di scudo o indossata sulle spalle. Vd. Hom., Il., 2, 446-450; 5, 733-742; Hes., Th., 11-13. In Od., 22, 297 ss., quando Atena la solleva, i nemici fuggono in preda al panico. 153. Hermes ha la prerogativa di accompagnare le anime dei morti nell’oltretomba (Hom., Od., 24, 1-4, 98-101; Hymn. hom. Merc., 258 s.). 154. Vd. supra, nota 90. 155. Doni ospitali (xéinia) sono di norma offerti all’ospite dal padrone di casa, specialmente cibi e bevande. La morte di un ospite per mano di chi lo ha accolto nella propria dimora rappresenta lo stravolgimento massimo della pratica dei doni ospitali. Cfr. Hom., Od., 22, 290 s.; Eur., Hel., 480; Cycl., 342 s. 156. Una breccia aperta nelle mura. Oppure «attraverso uno stretto tunnel». 157. «Simili a morti» (andrási oichoménoisi… homóioi) traduce il testo di Gerlaud (che spiega così l’immagine: «Ces Troyens qui espèrent fuir sont déja des morts-vivants», p. 159). «Simili a nuotatori», andrási nechoménoisi… homóioi, invece, seguendo Livrea e Dubielzig. 158. In genere gli editori, a parte Dubielzig, considerano personificato Kydoimós («Tumulto»). Per la frusta di Zeus che terrorizza gli eserciti vd. Hom., Il., 12, 37, e 13, 812. 159. Per la sintassi dei vv. 598 s. è seguito il testo di Gerlaud. L’attributo dell’estraneità alla sofferenza è applicato agli altari degli dèi (apenthéas… bomóus), non direttamente agli dèi stessi. Per l’uccisione di Priamo presso l’altare di Zeus Erceo vd. Triph., 634 ss. 160. Emblematico è il caso del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, strappato dal seno della madre (o della nutrice, a seconda delle versioni): Il. parv., fr. 21, 3 s. Bern.; Eur., Tr., 570 s., 750 s., 782 s.; Quint. Smyrn., 13, 252 s. Cfr. Triph., 644-646. 161. In greco questa madre è indicata col termine tithéne, propriamente «nutrice» (termine caro a Colluto: vv. 85, 88, 100, 176, 204, 379): continuare ad allattare il figlio morto (Stat., Silv., 5, 5, 15-17) richiama l’immagine della libagione funebre, un tipo di offerta per i defunti che spesso prevedeva il latte (Hom., Od., 10, 518 s.; Verg., Aen., 3, 66 s.). Cfr. supra, nota 97. 162. Lo stesso epiteto è usato da Ettore per screditare Paride in Hom., Il., 3, 39 e 13, 769. Sulle nozze con Elena che Deifobo aveva “rubato” a Eleno, provocandone la defezione, vd. supra, nota 17.

117 163. Un accenno a questa uccisione, che doveva trovare spazio nel ciclo (Il. exc. argum., pp. 88 s., 14 s. Bern.), è in Hom., Od., 8, 516-520. Cfr. anche Verg., Aen., 6, 494-534; Dict. Cret., 5, 12; e Hyg., Fab., 240, a proposito delle oltraggiose mutilazioni che aveva subito il cadavere di Deifobo. In Christod., Ecphr., 1-12, l’eroe, prima di morire, affronta coraggiosamente Menelao. Secondo Quint. Smyrn., 13, 354-356, Menelao sorprende Deifobo nel letto di Elena col «capo pesante», cioè ubriaco. 164. Menelao. 165. Il participio che descrive l’atteggiamento di Deifobo incalzato da Menelao è con ogni probabilità corrotto. Dubielzig suggerisce apoptéxanta. Un certo seguito ha avuto la correzione hypoptéxanta («che per la paura si era rannicchiato»). 166. Dopo il v. 627, Dubielzig suggerisce che sia andato perduto un verso, dove si sviluppava ulteriormente l’immagine del colpo mortale ricevuto da Deifobo (627a: «e quello, trafitto dall’asta, crollò e terribilmente gridando…»). 167. Trifiodoro passa sotto silenzio il racconto di Elena che è sul punto di essere uccisa da Menelao, il quale però risparmia in extremis la moglie perché sedotto dalle sue grazie (Il parv., fr. 19 Bern.; Eur., Andr., 627-631; Quint. Smyrn., 13, 385-402). L’incontro tra i due coniugi, in questa versione, aveva luogo nel tempio di Afrodite, dove la donna si era rifugiata (Ibyc., fr. 296 Page). In Verg., Aen., 2, 567-588, Elena cerca protezione nel tempio di Vesta e qui Venere distoglie Enea dall’intento di colpire mortalmente l’eroina. 168. La morte di Priamo è anticipata in Triph., 398-400. Si tratta di un episodio notissimo: Il. parv., fr. 16; Il. exc. argum., 13 s. Bern.; Pind., fr. 52f, 110 ss. Snell-Maehler; Eur., Tr., 16 s.; Verg., Aen., 2, 506-557; Quint. Smyrn., 13, 220-250 (con la significativa variante, nella Piccola Iliade, del re strappato dall’altare e ucciso sulla soglia della casa). Neottolemo è detto – stesso patronimico già impiegato per suo padre Achille – Eacide, «discendente di Eaco» (Eaco è padre di Peleo). Viene instaurato un parallelismo tra padre e figlio quanto al comportamento nei riguardi di Priamo: Achille, mosso a compassione dai capelli bianchi del vecchio re («chioma simile a quella di Peleo»), gli restituisce il cadavere del figlio Ettore, ucciso per vendicare l’assassinio di Patroclo (Hom., Il., 24, 468 ss.); Neottolemo ignora le parole di supplica del sovrano, nell’ultima notte di Troia, e lo colpisce a morte presso l’altare di Zeus. Vd. supra, note 71 e 115. 169. Il figlio di Achille uccide Priamo presso un altare e incorrerà a sua volta nella medesima morte. «Punizione di Neottolemo» era espressione proverbiale per indicare il subire la stessa cosa che si è procurata a un altro (Paus., 4, 17, 4), il nostro «chi di spada ferisce, di spada perisce». In Pind., Nem., 7, 40-42, Neottolemo giunge a Delfi con le primizie del bottino troia-

118 no e viene ucciso da un uomo in seguito a una contesa sulle carni sacrificali. Il grosso coltello per i sacrifici usato come arma per pugnalare Neottolemo (máchaira) è anche un’allusione al nome del suo assassino, Machereo (Machairéus: Apollod, Epit., 6, 14). 170. Vd. supra, nota 160. Nell’Iliade Andromaca stessa prevede la precipitazione del figlio Astianatte giù da una torre (24, 734-739). A seconda delle versioni, varia l’uccisore (Odisseo o Neottolemo), la collocazione temporale (rispetto alla caduta della città) e si aggiunge il particolare di un decreto di morte emesso dall’assemblea degli Achei: Il. exc. argum., p. 89, 20 s. Bern.; Stes., fr. 107 Davies-Finglass; Quint. Smyrn., 13, 251-290. 171. Cfr. Triph., 165-167. Prostrarsi al cospetto della statua della divinità fa parte del rituale della supplica (supra, nota 69). Non casualmente Atena, di cui la ragazza implora la protezione, è dea vergine (cfr. Colluth., 31). Per la vicenda del gesto sacrilego di Aiace vd. Il exc. argum., p. 89, 15-20 Bern.; Alcae., S 262 Page; Verg., Aen., 2, 403 ss.; Quint. Smyrn., 13, 420-429; 14, 419 ss. Il tema dell’ira di Atena contro gli Achei, che ostacola il ritorno da Troia, è già presente nell’Odissea (1, 326 s.; 3, 130-145; 4, 499-511; 5, 108 s.). Il suo trarre indietro il capo è un modo per disapprovare la violenza. Da questo gesto si faceva derivare l’origine della statua raffigurante la dea nell’atto di rivolgere gli occhi al cielo (Apollod., Epit., 5, 22). 172. Il termine in poesia è sinonimo di Italia (Ap. Rh., 4, 552 s.; Ly­ cophr., 702, cfr. Dion. Hal., Ant. Rom., 1, 35, 3). 173. In Hom., Il., 20, 300-308 Poseidone profetizza che Enea e i suoi discendenti regneranno sui Troiani dopo la caduta della città: l’eroe assumerà il comando dei superstiti e si stabilirà in una qualche località della Troade (la migrazione nel Lazio non è contemplata, in questa versione). Analoga la profezia di Afrodite, appena congiuntasi con Anchise sull’Ida, a proposito del figlio Enea che nascerà dalla loro unione (Hymn. hom. Ven., 196-201). Secondo Il. exc. argum., p. 88, 7-9 Bern. Enea e i suoi familiari lasciano Troia subito dopo la morte di Laocoonte e dei suoi figli (cfr. Soph., fr. 373 Radt). Nessun accenno, in Trifiodoro, ai meriti di Enea nel difendere la città nella fatale battaglia notturna, né al padre Anchise o al figlio Ascanio – i quali, in un’altra versione, si ritrovano sull’Ida insieme a un altro gruppo di superstiti, disposti a farsi condurre ovunque dall’eroe (Verg., Aen., 2, 589 ss.; Dion. Hal., Ant. Rom., 1, 47, 3). In Quint. Smyrn., 13, 326 ss. Afrodite protegge il figlio nella fuga e poi Calcante esorta gli Achei a risparmiare Enea non solo per il futuro che lo attende ma anche perché ha preferito salvare il padre e il figlio piuttosto che i beni materiali. 174. L’Atride, anche in questo caso, è Menelao. Theanò è la moglie di Antenore. Nell’Iliade, Odisseo e Menelao, in ambasciata a Troia per la restituzione di Elena, erano stati ospitati da Antenore (3, 203-207). Nell’assemblea dei Troiani, poi, l’eroe si era espresso a favore della riconsegna

119 della donna ai Greci (7, 348-353). Sugli Antenoridi risparmiati dagli Achei cfr. Il. parv., fr. 12 Bern.; Apollod., Epit., 5, 21; Dict. Cret., 1, 6, 11. Vd. infra, nota 178. 175. In Hom., Il., 3, 121-124, è presentata come la più bella delle figlie di Priamo, sposa dell’Antenoride Elicaone. Trifiodoro si schiera a favore del racconto secondo cui Laodice spariva prodigiosamente in patria, contro la versione del suo destino da prigioniera dopo la caduta della città. Per questa polemica mitologica vd. Euphor., fr. 63 van Groningen; Lycophr., 316-318, 495-503; Plut., Cim., 4, 6; Paus., 10, 26, 7-8. Oltre a quella con Acamante, è nota anche la relazione della donna con l’altro figlio di Teseo, Demofonte (Plut., Thes., 34, 2). 176. «Nei dettagli» (kath’ hékasta) è frutto di correzione (Graefe, Dubielzig). «Spiegando ogni avvenimento (tá hékasta)», se invece si conserva il testo tramandato dai manoscritti (Gerlaud, Livrea). 177. Addentrarsi in ulteriori particolari è fuori dalla portata del poeta, il quale riserva alla Musa quest’ardua impresa di memoria mitica. Cfr. Hom., Il., 2, 488-492, e Verg., Aen., 2, 361 s. In linea con lo spirito del proemio (riferimento alla fretta e proposito di svolgere un componimento breve, vd. Triph., 1-5), il cantore si avvia a concludere l’opera rapidamente, simile al guidatore del carro: costui compie il giro stretto intorno alla mèta (térma, cfr. v. 1), passando rasente – il momento più rischioso, in cui mostra massima destrezza – e poi concentra ogni sforzo sul tratto finale di corsa, quando allenta le briglie (cfr. Hom., Il., 23, 319-348). Perdere il controllo del carro facendo sbandare i cavalli – per aver fatto il giro largo –, equivale in questo caso a indulgere alla prolissità del canto, mostrando di non sapersi destreggiare in una materia così ampia. Per immagini equestri in analoghi contesti vd. Ov., Met., 15, 453 s.; Nonn., Dion., 37, 195 ss.; Tzetz., Carm. Il., 3, 761. 178. Per quelli fuggiti in precedenza o risparmiati vd. Triph., 590 s., 651-659. In Quint. Smyrn., 14, 399-402, un gruppo di sopravvissuti, sotto la guida di Antenore, si raduna in città e si prende cura dei morti. Per Eleno e Andromaca superstiti in Epiro vd. Verg., Aen., 3, 294 ss. 179. Cfr. Hom., Od., 10, 40 s.; Eur., Tr., 18 s., 28-35; Verg., Aen., 2, 761-767. 180. Vd. supra, Il ratto di Elena, note 93, 95, 99. 181. Vd. supra, Il ratto di Elena, nota 1, e supra, nota 84. Gli elementi naturali sono attivamente coinvolti nel drammatico spettacolo della rovina (cfr. lo Xanto in Triph., 325). 182. Il fiume non osa spegnere la città che brucia. In Hom., Il., 21, 326-384, lo Xanto lotta contro il fuoco di Efesto, istigato a intervenire dalla madre Era, adirata perché il fiume aggredisce Achille. Sopraffatto, Xanto giura a Era che mai allontanerà la morte dai Troiani, nemmeno se gli Achei dovessero incendiare la loro città. Per l’associazione di Efesto al fuoco e

120 di Era all’aria, la quale favorisce la propagazione delle fiamme, vd. Triph., 232-234. La riduzione della divinità ad allegoria di fenomeni naturali era un filone assai produttivo nell’esegesi del testo omerico (per Efesto ed Era vd. Ps.-Plut., Hom., 96, 101 s.). 183. Polissena è figlia di Priamo ed Ecuba. Il fantasma di Achille (l’Ea­ cide, come in Triph., 270 e 687) chiede ai Greci che la ragazza sia sacrificata in cambio del ritorno in patria, impedito – a seconda delle fonti – da una tempesta incessante: Il. exc. argum., p. 89, 22 s. Bern.; Eur., Hec., 177 ss.; Quint. Smyrn., 14, 179-328. Cfr. Triph., 403-405. L’ira (ménis) di Achille del v. 687, menzionata qui a conclusione del poema, non a caso è tema portante dell’Iliade. 184. Nei vv. 686 s. manca un verbo principale. Dubielzig pone lacuna dopo il v. 687 e immagina che sia perduto un esametro del genere: «‹ e pregarono di fare ritorno col favore di venti che spirano sonori ›». Altra soluzione è ipotizzare che il verso caduto sia da collocare dopo il 686 (Wernicke, Gerlaud). 185. Per la spartizione del bottino tra gli Achei vd. Hom., Il., 18, 327; Il. exc. argum., p. 89, 21 s.; Il. parv., fr. 21 Bern.;. Per l’assegnazione delle donne troiane, Eur., Tr., 32-35, 41-44, 184-293; Quint. Smyrn., 14, 11-38; Apollod., Epit., 5, 23. Dubielzig aggiunge un verso dopo il 688: «‹ fatte le porzioni › di tutti gli altri beni ‹ nella gioia della mirabile vittoria ›» (688a).

Bibliografia

La selezione qui presentata privilegia titoli incentrati su aspetti significativi dei due poemi e del profilo degli autori. Una particolare attenzione è rivolta non solo alla fitta e complessa trama di rapporti stabiliti con i modelli dei secoli precedenti, ma anche al peculiare contesto storico-culturale dell’Egitto in cui Trifiodoro prima, Colluto poi, si trovarono a operare. In quest’ottica, si è preferito soprattutto dare spazio a quei contributi in cui, piuttosto che indagare temi specifici, si dà conto sia di tentativi di bilancio effettuati in anni più recenti sia di nuove prospettive di ricerca. La bibliografia, anche in questo settore, è considerevole e si può senz’altro parlare di un rinnovato interesse verso l’epica mitologica di Trifiodoro e Colluto, grazie ad approcci critici sempre meno influenzati dai severi giudizi espressi in passato in merito alle abilità poetiche dei due autori e al valore letterario dei loro testi (vd. supra, Introduzione, par. 5).

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Indice

Archetipi epici. La guerra di Troia, formule e racconti da Omero a Trifiodoro Prefazione di Alberto Camerotto

p. 9

Introduzione 1. Omero in Tebaide, III-VI sec. 2. L’inizio che Omero non disse. Il ratto di Elena di Colluto 3. La fine che Omero non disse. La presa di Ilio di Trifiodoro 4. Aria di famiglia. Da Omero (ma non troppo) agli Egiziani “pazzi di poesia” 5. Dicono di loro

p. 17 p. 17

Nota alla traduzione e al commento

p. 43

Colluto, Il ratto di Elena. Traduzione

p. 45

Trifiodoro, La presa di Ilio. Traduzione

p. 61

p. 20 p. 24 p. 31 p. 40

Note Bibliografia

p. 87 p. 121

Classici smarriti Collana diretta da Tommaso BRACCINI

1. Francesco Bargellini (a cura di), Il canto e il veleno. Bucolici greci minori. 2. Sonia Macrì (a cura di), Le pietre di Orfeo. Un lapidario magico. 3. Damiano Fermi (a cura di), Quel che Omero non disse: Il ratto di Elena di Colluto e La presa di Ilio di Trifiodoro.

Gli Autori Colluto di Licopoli vive alla fine del V secolo. Il ratto di Elena è l’unico componimento superstite. Gli sono attribuite Storie calidonie, Storie persiane ed encomi in esametri. Di Trifiodoro, forse di Panopoli (III-IV secolo), è pervenuto solamente il poema La presa di Ilio. Nell’antichità erano note altre opere: Storie maratonie, Ippodamia, Odissea senza una lettera e Parafrasi delle similitudini di Omero.

Classici smarriti | 3 Con la prefazione di Alberto Camerotto

Collana diretta da Tommaso Braccini ISSN: 2784-8221

€ 8,00

La gara di bellezza delle tre dee sul monte Ida, Elena che si innamora a prima vista di Paride e lo segue a Troia, lasciando in lacrime la figlia Ermione. E poi l’inganno del cavallo, Sinone, Cassandra, i Troiani ignari che festeggiano nell’ultima notte della città, su cui incombe un destino di morte e distruzione. Questi momenti cruciali di una delle saghe più famose della civiltà greca non trovano spazio nella poesia di Omero. Due tipici poeti intellettuali della grecità tarda, accomunati dalla provenienza egiziana, realizzano un prequel (Il ratto di Elena) e un sequel (La presa di Ilio) dell’Iliade omerica: un’operazione che aveva avuto un precedente di successo nel perduto Ciclo epico di età arcaica. Profondi conoscitori di forme e temi tradizionali, Trifiodoro e Colluto rivisitano i loro modelli alla luce dell’epica ellenistica e degli orientamenti poetici contemporanei. Per la prospettiva su personaggi e motivi talora meno noti del mito troiano, il pathos e gli effetti drammatici che arricchiscono la narrazione, si tratta di autori che meritano senz’altro di essere riscoperti.

ISBN ebook 9788855294287