Quasi per caso. La mia vita in polizia e gli anni di piombo 885630063X, 9788856300635

Memorie dell'autore, dal suo ingresso in Polizia, favorito dalla sua passione e abilità nella boxe, all'impatt

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Italian Pages 75 [85] [82] Year 2011

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Quasi per caso. La mia vita in polizia e gli anni di piombo
 885630063X, 9788856300635

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DIARI E MEMORIE XI

SILVESTRO PICCHI

Quasi per caso LA MIA VITA IN POLIZIA E GLI ANNI DI PIOMBO

www.sarnus.it

© 2011 Edizioni Polistampa Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) [email protected] - www.leonardolibri.com ISBN 978-88-563-0063-5

Prefazione

Questo libro, scritto dal mio amico e valido collaboratore Silvestro Picchi, ispettore superiore della Polizia di Stato, è un libro di verità. In queste pagine non vi è spazio per la fantasia. Ciò che si narra è una realtà vissuta. Nei cosiddetti «anni di piombo» il nostro Paese fu attraversato dai fili rossi e neri del terrorismo che, intrecciandosi tra loro, lo strinsero nei nodi di una rete che per poco non arrivò a soffocare la democrazia. È anche merito di uomini come l’autore e di tanti altri suoi colleghi (molti conservati ormai solo nella memoria) se il progetto eversivo non ebbe compimento. All’inizio Picchi narra delle sue origini e del suo ingresso in Polizia, favorito dalla sua passione e abilità nella boxe, e riferisce con colorita efficacia il percorso di addestramento a cui fu sottoposto. Subentrò ben presto l’impatto con alcuni dei più gravi episodi che si verificarono in Toscana, in uno dei quali, per il puro intervento del caso, l’ispettore non perse la vita. Ecco dunque i «resoconti» della strage di Empoli del 24 gennaio 1975, in cui il terrorista nero Mario Tuti uccide il brigadiere Leonardo Falco e l’appuntato Giovanni Ceravolo e ferisce Arturo Rocca, anche lui appuntato; della sparatoria di Querceta del 22 ottobre 1975, dove perdono la vita altri tre agenti di Polizia, e infine dell’omicidio di Fausto Dionisi, avvenuto a Firenze il 20 gennaio 1978 a opera di Prima linea. Ciascuno degli episodi narrati è inquadrato in un’analisi dettagliata dei gruppi eversivi che operarono all’epoca. La puntuale ricostruzione dei fatti è indice della professionalità dell’autore, che non si limitava a intervenire in questa o in quella operazione, ma aveva acquisito una piena conoscenza del contesto storico e politico in cui esse si presentarono. Picchi prosegue ricordando le grandi personalità che ha avuto l’onore di incontrare durante la sua lunga carriera, dal giudice Gian Carlo Caselli, scortato in occasione del grande processo ai capi delle Brigate rosse, fino all’ex presidente americano Bill Clinton e a Lady Diana (solo per menzionare alcuni dei nomi più illustri), cui garantì assieme ai colleghi il servizio di protezione quando essi si trovarono in visita a Firenze. Il libro termina con le toccanti ed emozionanti parole che l’autore rivolge alla sua «piccola, grande donna», la moglie Elda. Le pagine scritte da Picchi ravvivano la nostra memoria. Vorrei che anche i giovani le avessero nelle loro mani. Piero Luigi Vigna 5

Introduzione

«Per me è come un addio alla vita.» Queste le parole pronunciate da Indro Montanelli durante un’intervista rilasciata al termine (obbligato) della sua collaborazione al «Corriere della Sera», dove aveva lavorato per ben trentasette anni, nell’ottobre del 1973. A un anno dal mio pensionamento raggiunto per limiti di età (e che purtroppo non sono riuscito a procrastinare) reputo le parole del grande giornalista di Fucecchio appropriate, anche se forse un po’ troppo forti, a esprimere la mia attuale condizione. Anch’io come lui sento di perdere qualcosa di veramente importante, come una parte di me, quando fra pochi mesi sarò costretto a salutare i colleghi di lavoro, compagni di una vita. Non si possono trascorrere quarantun anni di servizio in Polizia senza instaurare profondi rapporti umani. Non voglio certamente farne un dramma, ma credo che sarà come separarsi da una famiglia. Montanelli disse anche che si sarebbe portato nella tomba l’amore per la patria e per il suo lavoro. Non posso che fare mia questa sua volontà. Ho dato la mia gioventù e ho speso l’intera mia vita in Polizia. Ma l’ho fatto con sincera passione civile e con dedizione assoluta: non mi pento di niente. Per me è stato un grande onore servire con amore e devozione la Repubblica Italiana. Mi sono sempre impegnato nell’interesse della collettività, non soltanto durante gli anni di piombo, quando il terrorismo col suo attacco al cuore dello Stato ha segnato il periodo più buio e difficile della storia nazionale. Ho vissuto quel periodo in prima linea, temendo più volte anche per la mia vita. Ma l’aver contribuito a sconfiggere chi voleva distruggere le fondamenta democratiche dell’Italia mi riempie di soddisfazione e di orgoglio. Sono fiero di essere un italiano che ha difeso il supremo valore della libertà e che ha combattuto per uno Stato libero. Se dovessi tornare indietro, rifarei senza alcun dubbio tutto quello che ho fatto fino a oggi. Dedico infine questo libro a tutti i colleghi che sacrificarono la loro vita per difendere l’Italia dall’eversione terroristica. Silvestro Picchi

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CAPITOLO 1

Un pugile in Polizia

Che fare? Partire per il servizio di leva non è facile per nessuno. Ma lo è ancor di più se si corre il rischio di rinunciare a una grande passione. La mia era la boxe. La palestra del mio paese, Tor San Lorenzo, nel Comune di Pomezia, che a quel tempo contava appena duemila anime, non aveva sempre ospitato incontri di pugilato. Anzi, a dire il vero non era sempre stata nemmeno una palestra. Sul finire degli anni sessanta i miei compaesani la ricavarono infatti da un’antica chiesa abbandonata, che a sua volta era stata costruita molti anni prima da quello che restava di una stalla. Con un gruppo di amici iniziai a praticare la boxe con quella dedizione e quell’impegno con cui ho affrontato ogni situazione nel corso della mia vita. Ho sempre cercato di dare il meglio di me stesso, di prendere con assoluta serietà ogni cosa, di metterci tutta la passione possibile, persino nel mio hobby, la caccia. Ben presto però mi ritrovai solo a combattere sul ring. Tutti i miei compagni a poco a poco abbandonarono l’attività, vuoi per la fatica degli allenamenti, vuoi per altri motivi personali. Per fortuna la palestra non chiuse, probabilmente grazie ai miei incontri e, perché no, anche grazie al mio talento, che riuscivano a dare un po’ di visibilità al paese. Ma forse anche perché chi mi stava intorno credeva fermamente nelle mie qualità. Il mio allenatore Arduino infatti, originario di Nettuno, un paese vicino a Tor San Lorenzo, riponeva in me un’incrollabile fiducia. Io stesso, quando sapevo che era al mio fianco, mi sentivo sicuro sul ring. Accadeva spesso che egli portasse in palestra un suo amico, Chiriacò, un appuntato delle Guardie di Pubblica Sicurezza (si chiamava così allora la Polizia di Stato), ed ex campione di pugilato del famoso gruppo sportivo delle Fiamme Oro. Fu lui che, quando arrivò il momento di partire per la leva, mi propose di entrare in Polizia. Sinceramente non avevo mai preso in considerazione questa soluzione. Non rientrava proprio nei miei pensieri. Ma, riflettendoci bene, quello era in effetti l’unico modo che avevo per non lasciare la boxe. Ecco la svolta. Decisi di percorrere questa strada, di entrare in Polizia attraverso lo sport, quasi per caso dunque. Fu questo il mio primo passo. 9

1970 - Tor San Lorenzo - Roma, palestra di pugilato. L’autore, il secondo da sinistra. Alla sua destra l’allenatore Arduino.

Per fare questo avevo però bisogno dell’autorizzazione dei miei genitori. Avevo infatti diciotto anni e a quel tempo la maggiore età si raggiungeva a ventuno. Alla mia notizia essi reagirono in modo completamente diverso. Se mio padre Amedeo non oppose alcuna resistenza (anzi, era anch’egli appassionato di boxe e ho goduto sempre del suo appoggio in ogni mia decisione), mia madre Gina fu invece fortemente contraria. In fondo bisognava capirla. Quale madre non si preoccuperebbe all’idea che il figlio diciottenne possa entrare in Polizia? Attraverso amorevoli persuasioni riuscii finalmente a convincerla. Fu così che ottenni il permesso dei miei genitori. Senza alcun indugio presentai la domanda alla caserma di Nettuno. Tra sport e lavoro Questi anni non erano occupati soltanto dalla boxe. Giovanissimo, appena sedicenne lavoravo già presso lo stabilimento Arca di Pomezia, celebre per la produzione di roulotte. Assunto come apprendista, poco tempo dopo ricevetti una dimostrazione di fiducia da parte dei miei datori di lavoro. Fui mandato infatti a lavorare a Lavinio, località balneare situata tra Tor San Lorenzo e Nettuno, laddove l’impresa era proprietaria di un campeggio. Qui il mio compito, in compagnia di un amico più grande di me, era quello di realizzare impianti 10

1971 - Tor San Lorenzo - Il giovane autore agli inizi della sua esperienza di boxer.

idraulici. Non solo. Più in generale ci occupavamo della manutenzione delle roulotte e del campeggio. Spesso succedeva che mi trovassi a lavorare da solo e svolgere mansioni di questa responsabilità era per me, che non ero ancora maggiorenne, un motivo di soddisfazione. Se durante il giorno lavoravo al campeggio, la sera era dedicata agli allenamenti. Tornato a casa in auto, subito mi precipitavo sul ring, sempre con grande entusiasmo, sempre con la solita voglia di dare il massimo e di riuscire nel modo migliore possibile. L’impegno che mettevo nel lavoro non era per niente inferiore a quello che mettevo sul ring. Lo dimostravano anche tutti coloro che accorrevano in palestra a incitarmi e ad assistere a quello che, senza peccare di superbia, era un vero e proprio spettacolo. Davo forse più in allenamento che durante gli incontri. A quella data infatti non era per niente facile trovare sfidanti della mia categoria (medio-massimo) 11

con cui combattere, a tal punto che di fatto capitava che tra un incontro e l’altro passassero anche sei mesi. I miei incontri erano perciò davvero molto rari. Per necessità versavo tutto il mio impegno negli allenamenti. Ero molto giovane e alternavo lo sport al lavoro. Stavo a contatto con le persone ed ero davvero contento di questo. Se nel campeggio ero richiesto per aggiustare un tubo o per riparare un guasto in una roulotte, in palestra gli occhi erano di fatto tutti su di me, Silvestro. Mio padre, la mia famiglia Non si può comprendere l’origine del mio nome senza conoscere la storia di mio padre e della mia famiglia. Originario di Montone, un piccolo paese della campagna umbra in provincia di Perugia, mio padre Amedeo era il terzo di quattro fratelli in una delle tante famiglie contadine dei primi anni del Novecento. Mentre suo padre, cioè mio nonno, lavorava duramente nei campi, mia nonna accudiva i figli a casa, fino a quando inaspettatamente morì. Data l’oggettiva impossibilità di portare avanti il lavoro agricolo e crescere i numerosi figli nello stesso tempo, mio nonno decise di sposarsi una seconda volta. Prese per moglie una donna, d’origine contadina come lui, che si trovava nella sua stessa condizione; non solo era vedova, ma anch’essa aveva un considerevole numero di figli. Col tempo se ne aggiunsero altri due, frutto della loro unione. Mio padre conobbe giovanissimo la fatica del lavoro in campagna, quando anche per lui arrivò la chiamata del servizio di leva. Partecipò alla seconda guerra mondiale. Dopo un breve periodo di addestramento fu infatti destinato al fronte in Albania, dove rimase per circa due anni. I suoi famigliari, non avendo ricevuto da lui nessuna notizia, iniziarono a pensare che non l’avrebbero più rivisto. Fortunatamente le loro previsioni si rivelarono sbagliate, poiché egli fece rientro a casa alla fine del 1943, dopo che ebbe intrapreso un lungo e faticoso viaggio di ritorno: da Taranto impiegò ben sette giorni per raggiungere Arezzo in treno. Da qui dovette percorrere a piedi insieme con alcuni compagni altri sessanta chilometri per arrivare definitivamente a casa. In Albania fu protagonista con la sua compagnia (era stato assegnato al 119° reggimento di fanteria, divisione Emilia, in zona di operazioni oltremare) di un disastroso assalto a un forte tedesco, che negli anni successivi era solito raccontare a me e ai miei due fratelli, Sandro e Paolo, quando ancora eravamo ragazzi. Non se lo dimenticò mai, a tal punto lo aveva colpito. Accadde che erano state date all’artiglieria italiana delle coordinate sbagliate, per cui, invece di bombardare in copertura il forte nemico, mio padre e i compagni della sua squadra si trovarono attaccati dal cosiddetto «fuoco amico», cioè proprio dalle bombe italiane! Inutile dire che la sua compagnia, composta da più di cento uomini, fu decimata. Mio padre con un drappello di pochi altri soldati riuscì fortunatamente a salvarsi da quell’inferno, conseguenza di un maldestro quanto imperdonabile errore umano, fuggendo nella boscaglia tra grida di terrore e disperate richieste d’aiuto. 12

1943 - Il militare Amedeo Picchi, classe 1921, padre dell’autore. Foto-cartolina.

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Il caratteristico Foglio matricolare compilato con penna ad inchiostro.

La fortuna lo soccorse una seconda volta, in occasione del rientro in Italia via mare dall’Albania. La nave militare, partita dal porto di Cattaro, fu pesantemente attaccata dall’aviazione tedesca. Mio padre precipitò in mare e soltanto grazie al provvidenziale intervento di un commilitone ebbe salva la vita. «Ti piacerebbe tornare a rivedere quei posti?», gli domandai circa quindici anni fa. «Certo che mi piacerebbe», mi rispose. Mio padre era però così attaccato al suo lavoro, che non se la sentì di abbandonare anche per poco tempo il suo piccolo chiosco di frutta e verdura per ritornare in Albania. Così tanto amava stare a contatto coi suoi clienti. Gli proposi anche di partire nel periodo estivo, ma fu del tutto vano. Non ce la feci mai a convincerlo. Fu per me un gran dispiacere non averlo accompagnato in quei luoghi. Prima della sua morte, avvenuta nel 2002, qui a Firenze un maresciallo dell’esercito in pensione, Dario Niddomi, mi informò che era stata emanata una nuova legge che riconosceva un piccolo contributo economico a quei militari che avevano combattuto oltremare. Mio padre rientrava proprio in questa categoria. Ne parlai con lui e acconsentì che preparassi tutta la documentazione necessaria per fare la richiesta. 14

Mi accinsi perciò a ricercare le informazioni riguardanti la sua carriera militare e per questo dovetti richiedere il suo foglio matricolare, scritto a penna come si usava un tempo, al distretto militare di Perugia, da cui mio padre dipendeva. Non l’avessi mai fatto! Con meraviglia scoprii infatti che per il nostro esercito egli altro non era che un disertore. In questo modo non aveva più diritto a questo beneficio. Com’era possibile, dal momento che era in possesso del foglio di congedo? La spiegazione era data dal fatto che molti militari, compreso mio padre, dopo lo sbandamento dell’esercito in seguito all’armistizio del 1943 se ne ritornarono a casa e non ricevettero più alcuna notizia. La guerra per loro era finita. Il fenomeno fu di una portata così vasta che lo Stato non poté fare a meno che decretare un’amnistia generale per tutti i disertori. Questa assoluzione generale inspiegabilmente non raggiunse mio padre, se è vero che nel suo foglio matricolare trovai scritto: «Non ha diritto ai benefici». Feci allora ricorso al Ministero della Difesa che, dopo averlo accolto, comunicò al distretto di Perugia la variazione del suo stato. Adesso mio padre aveva diritto ai benefici che giustamente gli spettavano. Fu una conquista sia per me che per lui, quando finalmente arrivò l’assegno. Ma al di là del denaro (appena 800.000 lire), la cosa veramente importante era che mio padre fosse contento di questo riconoscimento. Anche io ne ero felice. Qualche anno prima, esattamente nel 1995, venne a mancare mia madre, morta a causa di un male incurabile. Insieme con i miei fratelli siamo vissuti fortunatamente sempre in perfetta armonia, senza mai uno screzio, stimandoci e rispettandoci reciprocamente. Essi praticano come me la caccia, che del resto è la passione di famiglia, dato che anche nostro padre è stato cacciatore. Sandro, il fratello mezzano di due anni più giovane di me, ha fatto carriera presso lo stabilimento Arca, diventandone un dirigente, mentre Paolo, di undici anni più giovane, è titolare di un’impresa edile. Quanto è imprevedibile la vita! Da giovani nessuno avrebbe potuto immaginare che saremmo diventati quello che oggi siamo. La mia infanzia Nell’immediato dopoguerra mio padre e mia madre, nativa come lui di Montone, si sposarono. Erano i difficili anni della ricostruzione. La vita era amara anche per loro. Nel 1948 accettarono di trasferirsi a Grassina, vicino a Firenze, presso la tenuta di un facoltoso proprietario terriero, Silvestro Occhipinti, per rimanerci fino al 1951. Quelli trascorsi a Firenze, era solito raccontarmi mio padre seduti di fronte al camino, furono gli anni più belli della sua vita. L’imponente villa in stile barocco era circondata da estesi vigneti e robusti oliveti. Qui egli si occupava di tutto; la tenuta era di fatto interamente gestita da lui. Ma perché aveva questi ampi margini di manovra? Il dottor Occhipinti era un medico che sperimentava i farmaci da lui creati su di sé. A lungo andare questa pratica segnò in modo irreversibile la sua esi15

1950 – Località Grassina (Firenze) - Villa Occhipinti. I genitori di Silvestro Picchi. La madre Gina, con vestito nero, vicino a suo padre Amedeo.

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stenza: non fu più in grado di camminare. Gli effetti sulla sua salute furono infatti talmente deleteri che rimase paralizzato nella parte inferiore del corpo. Imprescindibile fu dunque la presenza di mia madre, cameriera ma più in generale preziosa donna di casa, che per forza di cose dovette prendersi cura interamente della sua persona. Mio padre instaurò con lui un profondo rapporto, prima umano che di lavoro, caratterizzato da stima e fiducia reciproche, e che presto si tramutò in autentica amicizia. I due furono così legati che quando nacqui a Tor San Lorenzo il 5 marzo 1952, primo di tre figli, fui addirittura chiamato col suo nome. L’idillio fiorentino durò solo pochi anni. Silvestro Occhipinti comprò infatti un terreno nell’Agro pontino, in provincia di Roma, dove intese trasferirsi. Quando propose a mio padre di seguirlo, egli non ebbe altra alternativa che accettare l’offerta e iniziare di nuovo tutto da capo per la seconda volta nel giro di pochi anni. Non avrebbe potuto fare altrimenti. Sia il forte legame che li teneva uniti, sia l’oggettiva necessità di lavorare spinsero mio padre a risolversi in questo modo. A malincuore perciò Amedeo e Gina, preparati i bagagli, partirono alla volta del Lazio. Conservo ancora nella memoria il ricordo di quelle passeggiate fatte all’inizio dell’estate in compagnia di mio padre, quand’ero bambino, nella nuova tenuta del dottor Occhipinti a bordo di una jeep, una di quelle che gli americani avevano lasciato in Italia finita la guerra. Con fierezza egli mi mostrava le grandi piantagioni di cocomeri, meloni e pomodori, frutto della sua fatica. Io stesso, anche se ero ancora un ragazzino, amavo stare nei campi a stretto contatto con i contadini. Mio padre non soltanto mi dava preziosi insegnamenti in questa materia, ma mi accordava anche un’immensa fiducia, quando mi permetteva di spostare i trattori. No, non era un incosciente. A quel tempo i bambini erano molto diversi da quelli di oggi, molto più responsabili. Un vero e proprio rito era poi tagliare il grano. Allora lo si faceva esclusivamente a mano, contando solo sulla forza delle braccia e sulla falce. Non c’erano le mietitrebbie come oggi. Ricordo ancora molto bene i contadini col fazzoletto in testa, che fascina dopo fascina tiravano su i covoni. Anch’io partecipavo con entusiasmo al lavoro. Salito sul trattore grazie all’aiuto di mio padre, portavo i covoni alla trebbia, dove un’imponente cinghia di cuoio faceva ruotare grandi volani e pulegge. Il grano, una volta separato dalla pula e dalla paglia, veniva raccolto in grossi sacchi da un quintale, che i camion in un secondo momento trasportavano al consorzio agricolo. Trascorsi dunque così la mia infanzia. Amavo stare in compagnia, vivere a fianco delle persone e divertirmi con gli amici. Tuttavia, a differenza di molti di essi, non ero uno scavezzacollo. Già a questa età infatti ero solito calcolare le situazioni; desideravo in sostanza avere tutto sotto il mio controllo. In occasione, per esempio, di una gita fuori porta, sentivo la necessità di organizzare tutto nei minimi particolari, senza lasciare niente al caso. Prima di partire dovevo sapere con assoluta certezza dove saremmo andati e come ci saremmo sistemati. Sin da bambino mostravo dunque un’inclinazione per quella che sarebbe poi divenuta la mia futura professione. 17

Un tale comportamento può spiegarsi soltanto con l’educazione ricevuta dai miei genitori, improntata al rispetto e alla stima degli altri. La figura di mio padre è stata determinante per me. Anzi, forse senza di lui nemmeno sarei entrato in Polizia. Se è successo, lo devo quindi anche a lui. Quando infatti, trovandomi nel 1974 a decidere se mettere o meno la firma, gli domandai se stessi facendo la cosa giusta, egli mi rispose così: «Io onestamente non mi sento di darti dei consigli. Ti dico soltanto una cosa: dove cade sempre la goccia, prima o poi lì fa un buco.» La risposta fu breve, ma per la sua semplicità così incisiva da fare subito breccia dentro di me. Cercò di dirmi, forse nemmeno pensando ai pericoli cui espone questa professione, che il lavoro in Polizia mi garantiva uno stipendio sicuro. Io non ci pensai due volte. Quelle parole dissolsero ogni mia perplessità e decisi di proseguire la mia vita al servizio delle istituzioni. L’ingresso in Polizia Un passo indietro. Nell’aprile del 1971 fui chiamato finalmente dalla caserma di Nettuno a sostenere le visite mediche, sia fisiche che psicotecniche. Nonostante avessi fatto la mia domanda nel modo che ho raccontato, tuttavia ero fortemente intenzionato a entrare in Polizia. Speravo insomma di farcela. Solo in questo modo, pensavo, avrei potuto diventare un campione di boxe. E solo all’interno delle Fiamme Oro questa cosa si sarebbe potuta realizzare. Non mi presentai però da solo. Mi accompagnò una persona a me molto cara, il mio padrino, Antonio Romeo, che a quel tempo era molto vicino alla nostra famiglia. Arrivati a Nettuno, mi sentii spaesato come un pesce fuor d’acqua. Antonio non soltanto mi seguì fin dentro la camerata, ma sistemò addirittura il mio letto, dato che mai prima mi ero cimentato in un’impresa di questo tipo. Per un ragazzo vissuto sempre e soltanto in un piccolo paese è difficile trovarsi a confrontare con una realtà come quella militare. Molto problematico fu, per esempio, abituarsi alla vita di caserma e ai ritmi con cui era scandita la giornata: sveglia la mattina presto, poi colazione e adunata, in seguito esercitazioni e prove di resistenza fisica. A poco a poco cresceva però in me la consapevolezza di un possibile ingresso in Polizia. Migliaia di ragazzi si sottoposero alle severe visite mediche, che durarono più giorni, fino a che non arrivò il temuto momento della nomina: avremmo saputo chi era stato preso e chi purtroppo non ce l’aveva fatta. Diverse erano chiaramente le aspettative. Io speravo certo di essere preso, ma in fondo ero già contento della mia vita così com’era prima di questa esperienza. Il mio lavoro al campeggio era infatti una solida base su cui costruire un futuro. Altri ragazzi erano invece lì proprio per cercarlo un lavoro. Alti graduati in divisa si disposero sopra un muretto con in mano la lista di coloro che non avevano superato le visite mediche. Essere chiamati significava dunque ritornare a casa. Arrivati alla lettera P, fu pronunciato il mio cognome: «Picchi!» Fu tuttavia un falso allarme. Non io, ma un mio omonimo fu tra 18

coloro che vennero respinti. Io fui ammesso. Ce l’avevo fatta. Era il 14 aprile 1971, data ufficiale del mio ingresso in Polizia. Preziose furono poi le rassicurazioni dell’appuntato Chiriacò, che ho sopra ricordato. Egli mi disse che, qualora non mi fossi trovato bene lì, niente mi avrebbe impedito di andar via una volta adempiuti gli obblighi di leva. Fu per questo motivo che accettai di proseguire. Non solo. Oltre alla possibilità di continuare la boxe, ricevevo anche uno stipendio, che allora era di circa 60.000 lire. Non era molto, ma con quei soldi qualcuno doveva sfamare la propria famiglia. Alessandria. L’addestramento Subito ci fecero partire per l’addestramento. La mia destinazione fu la Scuola Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza di Alessandria. Scortati dal personale della Polizia di Stato, i miei compagni e io ci incamminammo verso la stazione di Anzio, dove ci attendeva un treno che, non vorrei esagerare o dire qualcosa di inappropriato, ma francamente ricordava molto da vicino uno di quei treni che durante la guerra portavano i prigionieri nei campi di prigionia nazisti. In mezzo alle grida delle madri che salutavano i loro figli, partimmo così per la stazione di Roma. Da qui un secondo treno ci avrebbe condotto finalmente in Piemonte. «Da oggi in poi sarete poliziotti! Dovrete iniziare a comportarvi da poliziotti!», tuonavano i nostri superiori durante il viaggio. Un monito che tuttavia mi riempiva d’orgoglio. Era una bella sensazione sentirsi chiamare così, quando ancora non avevamo la divisa. Ma perché questo rimprovero? È semplice intuirlo. Vivevamo in pieno gli anni della contestazione giovanile. E anche nella mia compagnia non mancavano certo ragazzi con i capelli lunghi. Arrivammo nella provincia piemontese soltanto dopo ben dodici ore di faticoso viaggio. Sorrido all’idea che oggi per raggiungere Alessandria da Roma occorra circa un quarto di quel tempo! L’impatto con questo nuovo mondo fu abbastanza duro. Una lunga colonna di camion coi teloni verde oliva della Polizia di Stato ci stava aspettando fuori dalla stazione. Tutto era avvolto da una spessa coltre di nebbia, che col tempo imparai essere consueta in quei luoghi. Eravamo più di mille. Salimmo sopra i camion e in breve tempo raggiungemmo la caserma. Se la giornata grigia aveva reso la malinconia per il trasferimento ancora più acuta, la vista di questa scuola militare mi impressionò a tal punto che credetti di trovarmi davanti a un forte apache. Un po’ disorientati ci mettemmo così in fila per ricevere la divisa, gli scarponi, le lenzuola e tutto quanto l’occorrente per vivere lì. Io fui assegnato alla IV compagnia. Non fu un caso. Scoprii infatti che finivano in essa tutti coloro che erano più alti della media. E io infatti superavo il metro e ottanta. Ricordo molto bene, io che sono un appassionato di armi, che il giorno dell’arrivo in caserma, mentre ci consegnavano la divisa, la mia attenzione fu rapita da una mitragliatrice col treppiedi. Ma che cosa ci faceva proprio lì? Solo 19

1971 – Scuola Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza di Alessandria. Foto del giovane autore nella foto in basso a destra.

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più tardi seppi che anche in tempo di pace ogni caserma è tenuta ad avere un’arma del genere. Per farci cosa proprio non lo so. Prima di iniziare l’addestramento, dovemmo a malincuore salutare le nostre chiome. Il barbiere della caserma infatti non fece sconti a nessuno e tutti in un batter d’occhio ci ritrovammo completamente rasati. Come dimenticare poi la famigerata puntura militare? Fortunatamente ai miei compagni e a me fu risparmiato il petto: l’iniezione fu fatta nel gluteo. Era senz’altro più accettabile. Davvero sciagurato fu però quel compagno che accidentalmente fu «trafitto» per ben due volte dal medico militare. L’operazione era infatti diventata così abitudinaria che era tutt’altro che infrequente incappare in tali disattenzioni. Fu necessario l’intervento dell’ambulanza per salvarlo. Curioso fu il fatto che almeno per il primo mese dovetti vestirmi in borghese. A me cioè la divisa non toccò subito. Questo perché, in virtù della mia imponente stazza, non fu trovata una della mia taglia. Non si trattò di una cosa da poco. Fui costretto infatti a restare tutto quel tempo rinchiuso nella mia camerata, dato che senza divisa era proibito uscire dalla caserma. Con altri compagni condivisi comunque questa sventura. Specialmente le prime sere fui assalito da una profonda nostalgia. Ero lontano da casa, senza amici, senza i miei cari. A tenermi compagnia avevo però il ricordo di Rosa, da tutti chiamata Rosetta, una ragazza napoletana che qualche anno prima si era trasferita con la famiglia nel mio paese. Ne ero innamorato. Si trattava del mio primo amore e, a causa del mio carattere un po’ chiuso e riservato, non trovai mai né il coraggio né le parole adatte per dichiararmi a lei. Insomma non riuscii mai a parlarle. Forse anche Rosa aveva un debole per me, almeno stando agli sguardi intensi che talvolta mi lanciava. In ogni modo iniziai la mia carriera nella Polizia e presto mi dimenticai di lei. Il caso volle però che proprio l’anno scorso mio fratello Sandro, mentre ricordavamo le nostre prime avventure amorose, mi disse che Rosa si era sposata e aveva aperto un bar, il bar Rosa, in un paese vicino a Tor San Lorenzo. Tornando un giorno da caccia, con la scusa di un caffè decisi di rivederla dopo così tanti anni. La donna dietro al bancone del bar era proprio lei, ancora bella nonostante i segni dell’età. Mi servì gentilmente, ma neanche questa volta fui capace di dirle una parola. Non mi riconobbe, almeno credo. Mi sono promesso comunque di ritornare da lei, questa volta con l’intenzione di parlare della nostra gioventù, della mia vita trascorsa a Firenze e, perché no, magari regalandole questo libro che sto scrivendo. Finalmente arrivò la divisa tanto desiderata. Quando per la prima volta uscii dalla caserma, rimasi abbastanza sorpreso dallo spettacolo che mi si presentò davanti agli occhi: un folto gruppo di ragazze era in trepidante attesa proprio fuori dall’edificio. Pensai immediatamente che si trovassero lì ad accogliere i propri fidanzati che come me stavano uscendo dalla scuola. Soltanto successivamente venni a sapere che le cose stavano in maniera molto diversa. Quelle ragazze all’ingresso della caserma non aspettavano nessun fidanzato; anzi, si trovavano lì proprio per trovarne uno. A quel tempo si riteneva infatti che un poliziotto fosse un ottimo partito. 21

1971 - Alessandria.

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Molto spesso succedeva che altri compagni e io fossimo messi di guardia alla polveriera della caserma. Il servizio durava due ore, dopo di che ne seguivano quattro di riposo. Ci veniva data chiaramente la parola d’ordine, che per nessun motivo al mondo avremmo potuto dimenticare. A quel tempo eravamo dei militari e le regole militari vigevano quindi a tutti gli effetti anche nella scuola di Alessandria. Ogni tanto ci raggiungeva per un controllo l’istruttore Morelli, che oggi vive a Firenze, i cui insegnamenti si rivelarono molto importanti per il mio futuro lavoro in Polizia. I suoi consigli su come svolgere al meglio il servizio di sentinella furono infatti così efficaci, che recuperai queste tattiche nelle mie successive attività di investigazione. Funzionavano davvero. Venendo all’addestramento vero e proprio, le esercitazioni prevedevano prove di ordine pubblico e di eventuali interventi durante le manifestazioni. Intanto però io facevo la spola tra Alessandria e Roma. Questo perché ero già destinato alle Fiamme Oro. Spesso ero richiamato nella capitale, presso il centro sportivo nella caserma di Castropretorio, dove rimanevo per circa un mese a praticare la boxe, dopo di che ritornavo in Piemonte. La scuola aveva una durata di sei mesi. Di fatto ho potuto frequentarla soltanto per due mesi al massimo. Ricevuta un minimo di preparazione militare, arrivò per me il momento del battesimo tra gli agenti di Polizia. I miei compagni e io quasi non riuscimmo a goderci la «promozione», che subito dovemmo affrontare una prova veramente impegnativa. Ci mandarono così a Torino a vigilare su una manifestazione studentesca. Non eravamo mai saliti prima sui camion color verde militare della Polizia, i cosiddetti «cellulari», chiamati così perché sembrava veramente di stare all’interno di una cellula protettiva. Giunti finalmente a Torino, fummo disposti lungo un incrocio tra due grandi viali della città. Il primo incontro coi manifestanti fu senza giri di parole davvero sconvolgente. Essi sfilarono davanti a noi, che eravamo schierati e muniti di casco, scudo, sfollagente e fucile tromboncino, usato per lanciare i lacrimogeni. Molti di loro erano studenti che avevano la mia stessa età. Volarono chiaramente pesanti offese sia verso di noi e le nostre famiglie che verso le istituzioni, oltre a sputi e monetine. Vedevano in noi, rappresentanti dello Stato, il loro nemico. E io, non ancora ventenne e quindi un po’ ingenuo, non riuscivo a capacitarmi della situazione. Quel mondo mi sembrava così strano e incomprensibile, che mi chiedevo che cosa ci stessi a fare proprio lì. Quelle erano cose che nei piccoli paesi come il mio non succedevano. Rimasi perplesso e stupefatto. Nella mia mente mi domandavo il perché di quella contestazione, senza trovare una risposta. Molti erano i pensieri che mi tormentavano. Avevo un lavoro ed ero stato educato al rispetto delle persone. Chi me lo faceva fare di restare lì? Perché avrei dovuto assistere a quegli episodi? Come potevo spiegarmi una tale violenza? Non riuscivo a calarmi nei panni dei contestatori. Venivamo da mondi molto diversi e non ero in grado di capire le loro ragioni. Assistevo a comportamenti che non potevo ammettere. Mai avrei alzato le mani sulle persone, né 23

Firenze, 29 giugno 2001 - Villa Ombrellino. Articolo tratto dal quotidiano “la Nazione”, cronaca di Firenze del 16 luglio 2001. L’autore il primo da sinistra.

sarei stato capace di offendere qualcuno che nemmeno conoscevo. In poche parole credevo di stare veramente in un’altra realtà. Per fortuna riuscii a vincere questo momento di debolezza e a superare questo scoglio. Finito l’addestramento ad Alessandria, a novembre del 1971 fui trasferito definitivamente a Roma, dove, una volta fatto il giuramento in presenza della mia famiglia e del mio compare Antonio Romeo, mi attendeva la palestra del centro sportivo delle Fiamme Oro. Resterà sempre con me il ricordo della vita trascorsa in caserma, soprattutto per le amicizie che qui riuscii a coltivare e che ancora oggi, almeno molte di esse, vivono. E chi scrive è un persona che ritiene l’amicizia uno dei più importanti valori da difendere a ogni costo, come dimostra quello che realizzai nel 2001. A trent’anni da questa esperienza, passati molti mesi in affannose ricerche, riuscii a rintracciare ottanta miei ex compagni sparsi sia in Italia che all’estero. Fu un’emozione indescrivibile riconoscersi a telefono semplicemente dalla voce dopo così tanto tempo. In seguito comunicai loro per lettera la mia intenzione di incontrarci tutti assieme a Firenze, per vedere come fossero cambiati, per sapere cosa fosse stato della loro vita, per ricordare i bei tempi che furono. 24

Organizzare l’incontro mi costò molta fatica, ma ne valse davvero la pena. Fu così che sabato 29 giugno ci ritrovammo quasi tutti presso la magnifica villa dell’Ombrellino, qui a Firenze. Un doveroso ringraziamento va alla disponibilità del suo gestore, Stefano Giglioli, verso il quale la mia riconoscenza per quanto fece non sarà mai troppa. Inutile dire che tutti rimasero entusiasti di questo raduno. Io stesso restai soddisfatto di come fui capace di prepararlo. Del resto ho sempre amato organizzare le cose alla perfezione, senza trascurare nemmeno un particolare. Nelle Fiamme Oro Non avevo ancora una chiara percezione di quello che stessi facendo, soprattutto di quello a cui sarei poi andato incontro. Consideravo la mia presenza in Polizia come voluta dal caso, fortuita, quasi si trattasse di un gioco. A questa data infatti la mia unica preoccupazione era la boxe. Durante gli allenamenti i miei compagni e io eravamo seguiti da un grande campione europeo di pugilato della Polizia, Luigi Filippella. La sua presenza

Tor San Lorenzo - Roma, 5 agosto 1972. In primo piano il volto segnato dell’autore, concentrato in un incontro di pugilato.

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Il mitico maresciallo Carmine Parrella nella sua abitazione di Velletri (Roma), agosto 2001.

in questo luogo non era certamente casuale. Il centro sportivo delle Fiamme Oro a quel tempo era infatti molto prestigioso. Venni a sapere che qui si era allenato addirittura Nino Benvenuti. Prima però che arrivasse Filippella, il nostro allenatore fu un certo Zuliani, non un pugile professionista, ma un tecnico che insegnava la corretta postura, sempre pronto però a incitarci, come quella volta che, prendendo come esempio proprio Benvenuti, ci apostrofò in questo modo: «Ragazzi, voi siete ancora dei dilettanti. Quello là è campione del mondo! Passa le ore davanti allo specchio a correggere eventuali difetti di impostazione pugilistica!» Ecco come si svolgeva la giornata tipo di un pugile delle Fiamme Oro. La sveglia era prevista per le cinque e mezzo. Partivamo poi per villa Borghese a fare un paio di ore di corsa. Una volta rientrati, era il momento della colazione. Dopo un’ora di riposo ci allenavamo in palestra fino all’ora di pranzo. Il pomeriggio era dedicato invece esclusivamente alla tecnica. La nostra era una valida squadra di più di cinquanta pugili. Ogni categoria di peso era rappresentata da una coppia di atleti. Noi delle Fiamme Oro non eravamo sempre impegnati in servizi d’istituto, come può esserlo per esempio l’ordine pubblico. Accadeva quindi che soltanto qualche volta ci mettessimo in divisa, essendo noi i più rappresentativi per via della nostra altezza. E questo accadeva soprattutto per il funerale di un nostro compagno. Quante notti ho passato nella camera mortuaria a fianco del collega deceduto! 26

1972 - Roma, Caserma Castro Pretorio. L’autore in posa sul ring della palestra delle Fiamme Oro.

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Molto particolare era poi la pausa pranzo di noi sportivi. Quando andavamo a tavola, era fastidioso essere guardati con invidia da chi faceva servizio di polizia, da chi cioè quotidianamente era impegnato per le strade a sorvegliare le manifestazioni e si trovava in mezzo a continui tafferugli. Immagino che apparissimo agli occhi dei nostri colleghi come dei privilegiati. Il lavoro duro spettava a loro, non a noi. È vero, ma noi dovevamo salire sul ring, tenere alta la bandiera delle Fiamme Oro, combattere, prendere le botte senza far trapelare dal volto alcuna espressione di dolore (quando soltanto noi, in cuor nostro, sapevamo quanto in realtà facessero male quei colpi). Non era insomma come fare una passeggiata. Il responsabile tecnico del centro sportivo era Carmine Parrella, un personaggio davvero singolare, che tuttavia non s’intendeva molto di pugilato. Aveva combattuto ad el-Alamein ed era un fascista convinto. Un pomeriggio del 1972 stavamo andando col pullman a Pescara in occasione dei campionati italiani militari. Durante il viaggio ognuno cercava il modo per ingannare l’attesa: c’era chi parlava, chi leggeva un libro, chi fumava (anche se era proibito), e c’era anche chi canticchiava, come il mio amico Carlo Cavallari. Tanto per passare il tempo incautamente intonò un motivetto, non uno qualunque, bensì Bella ciao. Non si può descrivere la reazione furiosa che ebbe Parrella quando sentì questa musica. Si arrabbiò a tal punto che non solo ordinò all’autista di fermare immediatamente il pullman, ma fece scendere a terra il povero Cavallari, minacciandolo che non l’avrebbe fatto risalire se avesse continuato a cantare quella musica. Voleva lasciarlo per strada. La sua reazione fu senza dubbio spropositata. Cavallari era solo un ragazzo, e certo non si trovava lì per fare politica. Questo dimostra comunque quanto ancora in quegli anni le diverse fazioni politiche fossero così aspramente contrapposte. In ogni modo volevo bene a Parrella. E nel corso degli anni ho cercato sempre di dimostrarglielo. Al raduno del 2001 egli non poté venire per motivi di salute. Fui io perciò a muovermi e a raggiungerlo nella sua casa a Velletri, vicino a Roma, quando era ormai in pensione. Gli portai una targa, fortemente voluta da noi ex compagni, in suo onore. Egli mi regalò qualche vecchia fotografia: alcune mi ritraevano mentre stavo combattendo sul ring, altre riguardavano lo stesso Parrella in occasione della battaglia ad el-Alamein. «Siamo morti quasi tutti, ma siamo morti sul campo», mi diceva con fierezza. Questa determinazione lo accompagnò in ogni momento della sua vita. Ricordo che talvolta eravamo seguiti da lui negli allenamenti, benché fosse già sulla cinquantina. Nonostante questo, era impressionante la foga agonistica che ci metteva. Ci spronava a correre più forte, a sputare sangue, a dare il massimo di noi stessi, chiudendo l’incitamento sempre con queste parole, che porto ancora dentro di me: «Morire, ma un metro dopo il traguardo!» Rimasi nelle Fiamme Oro fino alla fine del 1973. Furono due anni splendidi, che non dimenticherò mai, non solo perché ho potuto esercitare la mia passione, ma anche perché l’ho fatto in Polizia. Se potessi tornare indietro, rifarei certamente le stesse scelte.

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CAPITOLO 2

L’esordio nell’antiterrorismo

Un altro uomo Seguì il mio trasferimento. Circolava infatti la voce che bisognasse ristrutturare il nucleo. Forse era addirittura necessario spostare la sede. Il mio gruppo si trovò dunque coinvolto in questo rinnovamento generale. Alcuni furono trasferiti a Bari, altri come me a Firenze. In una plumbea sera d’inverno, quella dell’11 dicembre 1973, dalla stazione di Santa Maria Novella raggiunsi in taxi la caserma Duca D’Aosta dell’VIII reparto mobile, situato al Poggio Imperiale. Ci rimasi per circa otto mesi. La mia compagnia e io eravamo praticamente sempre fuori per il servizio di ordine pubblico. In sincerità devo confessare che non ero proprio soddisfatto di questo lavoro. Ero orgoglioso, si capisce, di indossare la divisa, ma onestamente desideravo qualcos’altro. La mia ambizione, e non ero il solo ad averla, era infatti quella di entrare in questura. Mi affascinava la possibilità di fare servizio in borghese, che a quel tempo era riservato soltanto agli agenti della Digos (Divisione investigazioni generali e operazioni speciali) e della squadra mobile. Sarebbe stato un grande motivo di vanto possedere la celeberrima placca in dotazione ai corpi speciali. Con essa si poteva andare dappertutto; si apriva davvero ogni porta. Nel 1974 misi perciò la firma. Per i primi tempi continuai a praticare la boxe. Ma le cose erano cambiate rispetto agli anni passati. Io stesso non ero più quello di prima. Sentivo uno stimolo nuovo, che non potevo reprimere. Qualcosa in me era cambiato in modo irreversibile. Non amavo tra l’altro la palestra di Firenze in cui andavo, poiché era frequentata da persone non proprio raccomandabili. Come avrei potuto in qualità di poliziotto fermare per strada qualcuno che si allenava con me? Le due attività erano cioè incompatibili. O la boxe o la Polizia. Dovetti scegliere e non salii più sul ring. Guadagnai intanto la stima di un maresciallo. Erano i primi anni settanta e a poco a poco il terrorismo iniziava a farsi sentire coi primi fatti eclatanti. Lo Stato si trovò ad affrontare una grave situazione d’emergenza. Sotto questa spinta in tutta Italia furono istituiti nel 1974 i primi nuclei antiterrorismo. Uno sarebbe stato costituito anche a Firenze. Quando quel maresciallo mi domandò se avessi desiderato farne parte, gli risposi entusiasta di sì. Nel settembre di quell’anno fui 29

assegnato all’ufficio dell’antiterrorismo, diretto allora dal dottor Giuseppe Ioele, che godeva della fama di valente poliziotto. Mi sembrava impossibile, eppure anch’io ero entrato nella squadra. Essa era formata da una ventina di agenti scelti, in massima parte investigatori tra i migliori in circolazione. Il responsabile dell’antiterrorismo in Italia era il famoso dottor Emilio Santillo, allora al vertice della direzione centrale della Polizia di prevenzione (l’attuale Digos) presso il Ministero degli Interni. Ricordo sempre che quando veniva a Firenze, egli si distingueva per questa curiosa particolarità. Non portava come tutti noi la sua 38 Special nella fondina; no, la teneva avvolta in un giornale! Molto espansivo e socievole, aveva però La celeberrima “placca” posseduta dall’autore una grande personalità. reca il numero 12788. Il nucleo antiterrorismo di Firenze estendeva la sua giurisdizione fino in Umbria. Indagini, perquisizioni e arresti occupavano interamente la nostra giornata. Amavo questo lavoro. Lo facevo con assoluta determinazione, a tal punto da sacrificare tutto il resto. Si era verificata una vera e propria trasformazione dentro di me. L’esperienza della boxe mi sembrava così lontana ormai. Ero diventato insomma un’altra persona, un poliziotto a tutti gli effetti, precipitato in un mondo che fino a qualche tempo prima neppure conoscevo. La mia dedizione era totale. Il momento di agire Mi trovai immediatamente immerso nel clima del terrore, uno scenario inimmaginabile per un ragazzo come me che proveniva dalla campagna. Erano gli anni delle prime stragi, dello spargimento di sangue, del panico diffuso tra la gente, degli attentati da parte delle diverse organizzazioni terroristiche, della morte di colleghi brutalmente ammazzati. Il 12 dicembre 1969 alle 16.30 esplode una bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura. È la strage di Piazza Fontana. Muoiono 17 persone, 88 sono i feriti. Circa trenta minuti più tardi esplode un’altra bomba, stavolta a Roma, nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro, agenzia di San Basilio. Si contano 16 feriti. Sempre a Roma intorno alle 17.30 si susseguono altre due 30

esplosioni: la prima al pennone alza-bandiera dell’Altare della Patria, senza alcun ferito, la seconda alla porta di accesso al Museo del Risorgimento sito sul lato posteriore dell’Altare della Patria, che ferisce 4 persone. Il 18 aprile 1970 a Genova si verificano gravi incidenti per il tentativo di simpatizzanti di sinistra di impedire il comizio di Almirante, segretario del Movimento sociale italiano. Nello scontro tra opposte fazioni muore il missino Ugo Venturini, colpito alla testa dal lancio di una bottiglia. A Milano, appena uscito di casa, mentre sta salendo in auto per recarsi in ufficio, il 17 maggio 1972 viene ucciso a colpi di pistola il commissario Luigi Calabresi, ritenuto colpevole della morte dell’anarchico Pinelli, presunto testimone della strage di Piazza Fontana. Tre appartenenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973 a Roma danno fuoco all’abitazione di Mario Mattei, segretario di una sezione del Movimento sociale italiano. Nel rogo perdono la vita i figli Virgilio di 22 anni e Stefano che ne ha appena 8. Il 28 maggio 1974 a Brescia, mentre si sta svolgendo un comizio, in piazza della Loggia, gremita di folla in ascolto, esplode una bomba collocata in un cestino per rifiuti. Muoiono 8 persone, i feriti sono 103. Il 17 giugno a Padova due brigatisti rossi, Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli, con l’appoggio di altri compagni, irrompono nella sede del Movimento sociale di via Zabarella e uccidono a colpi di pistola il missino Graziano Giralucci, per ragioni a tutt’oggi sconosciute. I due uccidono anche l’ex carabiniere Giuseppe Mazzola, non appartenente al Movimento sociale ma semplice tuttofare della federazione di Padova, con una rivoltellata alla testa. Il 4 agosto 1974 si verifica l’orribile strage del treno Italicus. Partito da Roma in direzione Monaco di Baviera, sta percorrendo una galleria del tratto FirenzeBologna, presso San Benedetto Val di Sambro, quando poco dopo l’una scoppia una bomba. Muoiono 12 passeggeri, mentre i feriti sono più di 40. Il treno fortunatamente deraglia appena fuori dal tunnel, evitando così una carneficina. Viene accusata e processata la cellula di neofascisti facente capo a Mario Tuti, ma dopo una prima assoluzione della Corte d’Assise di Bologna, trasformata in condanna all’ergastolo in appello, è definitivamente annullata in Cassazione. Anche questa strage passa alla storia come opera di ignoti.1 Bisognava fare qualcosa, reagire, porre fine a questi massacri, contrastare questo fenomeno che aveva raggiunto dimensioni allarmanti in tutta Italia. Le nostre indagini vertevano essenzialmente sulle frange estremiste di destra, protagoniste a partire dalla primavera del 1973 di una preoccupante recrudescenza dell’attività terroristica. Senza paura di niente e di nessuno, esse proclamavano che avrebbero attaccato chiunque, pur di seppellire la democrazia sotto migliaia di morti. A differenza delle Brigate rosse la miriade di cellule terroristiche nere non aveva una direzione strategica. L’unico scopo era infatti

1 Ho ricavato questa cronologia da A. Melchionda, Piombo contro la giustizia. Mario Amato e i magistrati assassinati dai terroristi, Pendragon, Bologna 2010, pp. 10-17.

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quello di colpire le articolazioni dello Stato in qualunque modo, magari uccidendo più persone possibili. Era il cosiddetto «spontaneismo armato», che non prevedeva nessuna struttura piramidale di controllo. Molte furono le indagini della Polizia su attentati di cui non si riuscì mai a trovare il movente; spesso cioè non esisteva alcun legame tra assassini e uccisi. Riuscimmo a capire che questi esaltati addirittura sparavano a chiunque incontrassero per strada soltanto per provare la potenza delle armi. I nostri accertamenti ci condussero a una delle più spietate organizzazioni terroristiche nere, il Fronte nazionale rivoluzionario. Arrivammo ad Arezzo, dove eseguimmo perquisizioni e arresti nei confronti dei suoi affiliati. Restava solo da mettere le mani sul capo, Mario Tuti. Mario Tuti2 Persona all’apparenza normalissima e insospettabile, dall’aspetto corpulento e con gli occhi un po’ sporgenti, Tuti, nato a Empoli nel 1946 e laureatosi in architettura nel 1971, lavora come geometra presso l’ufficio tecnico del Comune. Sposato e con un figlio, gode della stima dei colleghi. Note sono le sue simpatie per la destra extraparlamentare e la mania di collezionare armi, molte delle quali si costruisce da solo. Non è tuttavia ritenuto un estremista, né tanto meno pericoloso. La sera del 24 gennaio 1975, intorno alle 20, gli appuntati Giovanni Ceravolo e Arturo Rocca, su ordine della questura di Firenze che sta indagando sul Fronte nazionale rivoluzionario per la strage dell’Italicus, lo raggiungono nel suo appartamento in via Boccaccio. Hanno in tasca un mandato di cattura per associazione sovversiva, ma intanto chiedono a Tuti i permessi per le armi che colleziona. Ai due poliziotti si aggiunge il brigadiere di Pubblica Sicurezza Leonardo Falco, nonostante sia fuori servizio. Tuti li accoglie senza destare alcun sospetto, fino a che, quando si accorge che non si tratta di una semplice perquisizione, ma che sono lì ad arrestarlo, imbraccia un fucile e spara. Muoiono sul colpo Falco di cinquantadue anni e Ceravolo di quarantaquattro, mentre Rocca, che ne ha cinquanta, resta gravemente ferito.3 Tuti fugge, aiutato naturalmente dai suoi fedelissimi, dapprima nascondendosi nelle montagne della Garfagnana, poi riparando ad Ajaccio in Corsica e infine in Francia, dove inizia una nuova vita, quella di terrorista latitante. A maggio è condannato in contumacia all’ergastolo per il duplice omicidio.

2 Per la biografia di Tuti mi sono servito di S. Zavoli, La notte della Repubblica, Nuova Eri-Mondadori, Roma-Milano 1992, pp. 186-189 e M. Caprara-G. Semprini, Destra estrema e criminale. Da Stefano delle Chiaie a Mario Tuti, dai fratelli Fioravanti a Massimo Carminati: storia, avvenimenti, protagonisti e testimonianze inedite della destra eversiva italiana, prefazione di Giovanni Pellegrino, Newton Compton, Roma 2009, pp. 76-94. 3 Per i particolari della strage ho consultato l’articolo di cronaca di R. Berti, Ammazza a Empoli due agenti un estremista di destra e fugge, «La Nazione», 25 gennaio 1975.

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25.01.1975 – Articolo stampa tratto dal quotidiano “la Nazione”, cronaca di Empoli.

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Articolo tratto dal quotidiano “la Nazione”, cronaca di Empoli del 26 gennaio 1975.

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Soltanto a fine luglio la Polizia riesce ad arrestarlo a Saint Raphael, vicino a Nizza, in Costa Azzurra. È necessaria una sparatoria con gli agenti dell’antiterrorismo perché Tuti, ferito al collo e a un fianco, si arrenda. Nel 1981, mentre si trova nel carcere di Novara, con l’aiuto di Pierluigi Concutelli strangola Ermanno Buzzi, estremista di destra condannato per la strage di Brescia e ritenuto dai due confidente dei carabinieri, oltre che omosessuale e pederasta. Confessa l’omicidio tra lo sgomento dei presenti durante il processo per l’attentato all’Italicus. Per questa strage Tuti sarà assolto definitivamente nel 1992. Tra il 1981 e il 1987 sperimenta il carcere duro. Con sua grande sorpresa lo spediscono nell’isola d’Elba presso la casa di reclusione di Porto Azzurro, dove il 25 agosto 1987 organizza senza successo una rivolta dei detenuti, conseguenza di un tentativo di evasione fallito. Dopo sei estenuanti giorni di trattative Tuti cede. Ai due ergastoli per tre omicidi si aggiungono altri quattordici anni di reclusione per questa ribellione. Nel 2004 il tribunale di sorveglianza di Firenze gli concede la semilibertà nel carcere di Civitavecchia. Adesso lavora in una comunità di recupero di tossicodipendenti, studia composizione al conservatorio, si è laureato in agraria, fa volontariato e realizza video per l’Arci di Livorno. In questi anni Tuti non si è mai pentito dei crimini commessi. Al loro posto Giunse il fatidico 24 gennaio 1975. Tutto il nucleo antiterrorismo di Firenze si trovava a operare ad Arezzo in collaborazione con la Digos del posto. Il cerchio intorno a Tuti si stava stringendo inesorabilmente. Ormai lo avevamo in pugno. I magistrati intanto avevano emesso un mandato di cattura nei suoi confronti. Il mio caposquadra, il maresciallo Dante Gambassi, ora in congedo, perciò mi disse: «Picchi, prepara la macchina che andiamo a Empoli ad arrestarlo». Non si rivolse a me casualmente. A quel tempo infatti, ma anche oggi, amavo molto guidare. In occasione di uno spostamento ero sempre il primo a precipitarmi al volante della «civetta», l’auto della Polizia senza i colori istituzionali impiegata per passare inosservati (anche se non sempre andava così). Anche noi dell’antiterrorismo chiaramente facevamo servizio in borghese. Ci organizzammo così per la partenza. Tutto era pronto, quando all’ultimo momento accadde qualcosa di veramente molto strano. Inaspettatamente ci fu comunicato che non dovevamo più partire. La motivazione fu che era necessario proseguire le perquisizioni ad Arezzo. Il commissariato di Empoli si sarebbe occupato dell’arresto al posto nostro. Non riuscivo a capire. Perché fummo sollevati da quell’incarico in un modo così insolito? Nessuno della mia squadra lo comprese. Più tardi venimmo a conoscenza della strage che Tuti aveva commesso nella sua abitazione. La notizia mi colpì come un macigno. Non ci potevo credere. «Ma perché non siamo partiti noi?», chiedevo con rabbia a me stesso, ai miei 35

colleghi, al mio caposquadra. «Se solo fossimo stati noi al loro posto, le cose non sarebbero andate in quel modo», mi rammaricavo inutilmente. Dentro di me iniziai a portare un peso tremendo dal quale nemmeno oggi, a tanti anni di distanza, riesco a liberarmi. Era come se indirettamente mi sentissi responsabile della morte di Falco e Ceravolo e del ferimento di Rocca. So che non ho nessuna colpa, eppure sono più che convinto che se fossimo stati mandati noi ad arrestare Tuti, gli agenti empolesi sarebbero ancora vivi e il terrorista nero non si sarebbe macchiato di un così grave reato. Sono sicuro che non gli avremmo dato la possibilità di impugnare nessun fucile. Saremmo stati senz’altro più prevenuti nei suoi confronti. Non voglio dire che noi fossimo migliori dei colleghi di Empoli. Anch’essi erano persone validissime, che sapevano fare il loro lavoro. Molto probabilmente il fatto di conoscere personalmente Tuti non li spinse a prendere le dovute cautele con quello che era né più né meno un criminale. Non si aspettavano una reazione del genere da parte sua. In fondo era un empolese come loro, un loro amico. E questa fu una leggerezza che si rivelò fatale. Noi dell’antiterrorismo invece non facevamo sconti a nessuno. Appena entrati, per prima cosa avremmo messo le manette ai polsi di Tuti, soltanto successivamente ci avremmo parlato, dopo averlo immobilizzato e reso incapace di offendere. A differenza di Falco, Ceravolo e Rocca, noi non gli avremmo dato alcuna confidenza. Col senno di poi è facile dirlo, me ne rendo conto. Sbagliarono? No, non mi sento proprio di dirlo. Stiamo parlando di persone che sono morte facendo il loro dovere. Si trovarono lì a eseguire un ordine. Penso che una simile disgrazia sarebbe potuta capitare a chiunque, magari anche alla mia squadra. Zone d’ombra Anche se sono passati più di trent’anni, oggi non è per niente chiaro come si siano svolte esattamente le cose. Quella sera, per esempio, Leonardo Falco avrebbe dovuto partecipare a una cena organizzata in onore di un collega del commissariato di Empoli che si sarebbe trasferito altrove. Perché allora proprio all’ultimo momento fu incaricato di prendere parte all’arresto? Una delle numerose zone d’ombra di un caso che non si è mai potuto, o forse voluto, risolvere. Qualche mese fa, mentre stavo facendo delle ricerche per scrivere questo libro, per caso mi ritrovai sul sito internet realizzato dalla figlia del brigadiere Falco, Anna, che all’epoca della strage aveva quindici anni. Qui si trovano fotografie, documenti, testimonianze e le sue opinioni circa responsabilità e connivenze.4

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L’indirizzo è www.falcoeceravolo.it.

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Meditai molto sull’opportunità di rivivere con lei quella strage. In fondo non avevo alcun diritto di farlo. Neanche mi conosceva. Per lei non ero nessuno, soltanto un ex collega del padre. Decisi comunque di contattarla. Inaspettatamente accettò volentieri il mio invito e così ci incontrammo. Ma perché volevo parlarle? Erano tante le domande a cui avrei desiderato che rispondesse: come reagì la famiglia alla morte del padre (Anna era la più piccola di tre sorelle)? come affrontarono le difficoltà di una vita senza di lui? come si comportarono le istituzioni nei loro confronti? Anna mi raggiunse in ufficio. A poco a poco iniziò ad aprirsi e mi confessò che anche secondo lei sulla strage di Empoli c’erano ancora dei punti oscuri. Soprattutto non riusciva a spiegarsi come mai il padre, quel giorno fuori servizio, all’improvviso fosse stato mandato a casa di Tuti. Per di più era anche disarmato, dato che la sua pistola era nascosta nel solito posto dove la teneva sempre. Le sembrò molto strano poi aver appreso la notizia soltanto dal telegiornale. Non solo. Fu consigliato alla sua famiglia di non costituirsi come parte civile al processo contro Tuti. Questa cosa era davvero sorprendente. Si lamentava del fatto che le istituzioni non fossero state loro vicine e che, anzi, in seguito ai funerali di Stato li avessero lasciati soli. Anche l’unico sopravvissuto alla strage, dopo un paio di visite di cortesia, non si fece più vedere. Col tempo Anna e i suoi famigliari iniziarono ad avere il sospetto di essere sgraditi alle istituzioni. Sua madre, come è facile immaginare, cadde in depressione. Era sempre più convinta, anche in virtù di questi elementi, che la verità non sarebbe mai venuta fuori. Ritornando a Tuti, una volta divenuto latitante, la squadra dell’antiterrorismo e io perlustrammo da cima a fondo le montagne della Garfagnana senza sosta. Quante volte percorremmo quei sentieri! In quanti anfratti lo cercammo! I nostri sforzi furono tuttavia vani, perché non riuscimmo a trovarlo. Poco tempo dopo però un pentito ci confessò: «Per poco non arrivaste ad acciuffarlo. Più di una volta puntò contro di voi il suo fucile.» Rabbrividii all’udire queste parole. Sì, persino a un agente dell’antiterrorismo può venire la pelle d’oca. Se agli occhi di tutti apparivamo come degli intrepidi paladini, quasi dei superuomini indistruttibili e senza paura, eravamo invece uomini come tutti, con le nostre debolezze, con le nostre paure. Per un soffio La latitanza di Tuti ebbe una notevole risonanza presso l’opinione pubblica. Al di là della ricompensa per chi avesse fornito indicazioni utili per la sua cattura (sulla sua testa pendeva una taglia di ben 30.000.000 di lire!), era forse la prima volta che si assisteva a una così intensa partecipazione da parte degli italiani a una vicenda pubblica tanto clamorosa. La coscienza civile dei cittadini si era finalmente scossa. Ci stavano vicino. Innumerevoli furono infatti le segnalazioni provenienti da ogni luogo, tutte infruttuose fuorché una, pervenutaci durante l’estate del 1975. 37

Articolo tratto dal quotidiano “la Nazione”, cronaca di Empoli del 26 gennaio 1975.

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Un cittadino empolese, trovandosi a Firenze, sostenne di aver riconosciuto in un bar di piazza San Firenze, dove si trova il tribunale, per quanto fosse camuffato con barba, occhiali e capelli lunghi, proprio Mario Tuti. Lo fece presente a un vigile urbano, il quale raggiunse una civetta del gruppo dell’antiterrorismo, una Fiat 128 bianca, che casualmente si trovava lì. A bordo di essa stava un mio collega, Luigi Piccolo, in attesa del suo caposquadra che nel frattempo si era recato presso gli uffici del tribunale. Credendo che si trattasse dell’ennesima segnalazione negativa, con la massima naturalezza egli entrò nel bar, si avvicinò al sospettato, lo prese sotto un braccio e lo condusse alla macchina per compiere gli accertamenti necessari. Mentre svolgeva queste operazioni, quello rimase immobile con la mano destra dentro la tasca del giubbotto. Comunicò il nominativo via radio e la centrale operativa rispose che era tutto a posto. Terminato il controllo, gli fu reso il documento e se ne andò. Successivamente venimmo a sapere, sempre dalle dichiarazioni di un pentito, che la persona fermata da Luigi Piccolo era proprio Tuti, chiaramente in possesso di un documento falso. Il cittadino empolese aveva visto giusto. Piovvero su di noi molte critiche, anche da parte del nostro superiore, per non esserci comportati in modo professionale. Ma forse fu un bene che ci sia sfuggito di sotto il naso. Il pentito infatti ci confidò: «Tuti mi disse che se quel poliziotto avesse chiamato altri agenti, gli avrebbe subito sparato.» Ecco perché teneva la mano nascosta in tasca: stava impugnando la sua pistola, pronto a usarla se i poliziotti fossero venuti ad arrestarlo. Ma cosa ci faceva Tuti a Firenze? Si seppe che aveva preso alloggio in una pensione distante non più di cinquecento metri dalla questura. Il suo obiettivo sembra fosse quello di attentare alla vita del giudice Pappalardo, titolare delle indagini nei suoi confronti. Dovemmo rimandare la sua cattura soltanto di poche settimane. Le indagini dell’antiterrorismo di Firenze furono così serrate che riuscimmo a scovare il suo nascondiglio presso Saint Raphael in Francia, anche stavolta grazie alle delazioni dei pentiti, dove fu arrestato dopo un conflitto a fuoco il 27 luglio 1975. Appostamenti notturni Quando eravamo ancora alla ricerca di Tuti trascorsi con Dante Gambassi, il mio caposquadra, alcune notti d’estate in appostamento davanti alla casa del latitante. Alcuni informatori non escludevano infatti la sua presenza a Empoli, dato che qui continuavano a vivere la moglie e il figlio. Allora quel luogo si presentava molto diverso rispetto a oggi. Se prima c’era solo una fila di case circondate da grandi distese di campi, adesso questi sono quasi scomparsi, lasciando il posto a nuovi edifici come l’ospedale San Giuseppe. Decidemmo di nasconderci in un campo di granturco. Le luci della strada nella notte erano deboli. Potete immaginare quanta ansia ci stringesse il cuore, ogni volta che passavano una macchina o una persona a piedi. Poteva trattarsi 39

di Tuti. Eravamo chiaramente armati, pronti ad arrestarlo. Ma nonostante avessimo con noi anche speciali visori notturni, tuttavia la paura che egli spuntasse da un momento all’altro davanti a noi si faceva sentire. Non era neanche escluso che ci potesse essere una sparatoria. Chi poteva dirlo? Che sollievo arrivare alla mattina circondati dal profumo del grano! Anche quella notte era passata tranquillamente. Intanto nel silenzio delle prime ore del giorno la città si svegliava e le auto ritornavano a viaggiare per le strade. Dante e io ci domandavamo: «Ma se questa notte Tuti fosse passato di qui, che cosa avremmo fatto? Come ci saremmo mossi per catturarlo?» Dopo qualche giorno la centrale ci comunicò via radio di rientrare. Tuti non si nascondeva a Empoli. Non ci potremo mai scordare le palpitazioni avute durante quelle notti. La paura può albergare anche in un poliziotto. Noi non siamo degli eroi, ma delle persone come tante altre, fatte di carne e ossa. Il calore della famiglia Gli attacchi alle fondamenta dello Stato anno dopo anno diventarono sempre più cruenti. Per farsi un’idea precisa di quale fosse l’atmosfera di quel periodo, si consideri che in seguito al delitto Moro nel 1978 noi della Polizia assieme ai militari arrivammo a presidiare le strade con sacchi di sabbia e mitragliatrici, neanche ci trovassimo in uno Stato mediorientale o africano insanguinato da una guerra civile. Quasi ogni giorno giungevano notizie della morte di colleghi, magistrati, giornalisti e politici vittime dell’eversione terroristica. Persino il sindacalista Guido Rossa fu ucciso nel 1979 per aver denunciato l’infiltrazione di brigatisti all’interno di una fabbrica di Genova della Italsider. Il nucleo antiterrorismo e io ci trovammo a lavorare in questo clima. Avevamo paura? Certo che avevamo paura. Chi si sarebbe sentito tranquillo? La società stessa viveva in uno stato d’angoscia mai provato prima di allora. Noi poliziotti cercavamo, per quanto potessimo, di non pensarci, di controllare le nostre emozioni, di fare il nostro mestiere nel modo più sereno possibile. Inutile dire che non era affatto facile. Rappresentavamo il bersaglio principale dell’aggressione terroristica: «Colpire gli uomini in divisa, braccio armato della controrivoluzione», si leggeva infatti nei testi brigatisti.5 Accadeva spesso che ci chiedessimo, in seguito all’ennesimo attentato, a chi di noi sarebbe toccata quella fine. Completamente immerso nelle indagini, il tempo che potevo dedicare alla vita privata era davvero poco. Forse non è neanche corretto parlare di vita privata. Anche quando non ero in servizio, la mia testa era infatti continuamente

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S. Zavoli, La notte della Repubblica, cit., p. 463.

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sul lavoro. Non riuscivo proprio a metterlo da parte. Spesso la sera non tornavo nemmeno a casa, ma restavo a dormire in questura. Probabilmente era troppo, ma mi sentivo bene così. Quando avevo un po’ di tempo scendevo nel Lazio a rassicurare i miei genitori. Mia madre stava sempre attaccata alla radio, temendo che prima o poi arrivasse una brutta notizia. Se inizialmente dicevo loro dove andavo (spedivo anche delle cartoline), col tempo, vista l’apprensione di mia madre, decisi che era meglio che non conoscessero i miei movimenti. Come è facile comprendere, le nostre famiglie ci aspettavano a casa molto preoccupate. Madri, fidanzate e mogli, quando la mattina ci salutavano, non sapevano se la sera ci avrebbero riabbracciato di nuovo. Ogni giorno poteva essere l’ultimo per noi. E ogni mattina i miei colleghi e io pensavamo a quale strada fare. Non potevamo percorrere sempre lo stesso tragitto, essendo anche noi dei possibili obiettivi dei terroristi. Costantemente poi tenevamo la mano destra in tasca: se qualche terrorista ci avesse seguito, avrebbe intuito che eravamo armati. Sapevamo bene infatti che questo comportamento quasi sicuramente li avrebbe fatti desistere. Nelle loro cosiddette «inchieste», vale a dire le relazioni che scrivevano sulle possibili vittime in seguito ai loro pedinamenti, essi annotavano che portare la mano destra sul fianco significava in modo inequivocabile che l’obiettivo era armato. Quando la sera tornavamo a casa, sapevamo che quello era un giorno regalato alla vita. Nonostante i pericoli che dovetti affrontare, non mi sono mai pentito di essere entrato nell’antiterrorismo. Anzi, sono stato sempre molto fiero di aver vissuto quegli anni e di aver contribuito in prima persona a combattere chi voleva sovvertire la democrazia.

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CAPITOLO 3

Sangue e memoria

Salvato da un no. La strage di Pietrasanta 1975. Con il gruppo dell’antiterrorismo fui mandato in Versilia a collaborare con la Criminalpol di Firenze, che da qualche tempo stava indagando su una serie di rapine e attentati dinamitardi compiuti dalla delinquenza organizzata. In un primo momento si riteneva che non avessimo a che fare con terroristi, bensì con criminali comuni, anche se molto pericolosi, come purtroppo ebbi modo di constatare in prima persona. Dopo alcune settimane di indagini arrivò finalmente dalla procura di Lucca l’ordine di perquisizione nei confronti dei sospettati. Gli agenti che parteciparono all’operazione, scattata il 22 ottobre alle 5.30, provenivano da diverse realtà: oltre a noi dell’antiterrorismo e a quelli della Criminalpol, c’erano infatti anche i colleghi dei commissariati di La Spezia e di Viareggio. Il luogo di ritrovo fu il distaccamento della Polizia stradale di questa città. Furono quindi formate le squadre. Io, mosso sempre dalla mia solita incoscienza giovanile, chiesi di essere inserito in quella che avrebbe perquisito l’abitazione dei ricercati. La mia richiesta però non fu accolta: un collega più anziano, l’amico Alberto Tartaruga, valido poliziotto della Criminalpol di Firenze, sebbene apprezzasse il mio coraggio, mi disse che ormai gli equipaggi erano stati costituiti e che non potevano più essere modificati. Restai perciò al mio posto. Molto probabilmente questo rifiuto mi salvò la vita. L’abitazione da perquisire, trasformata dai banditi nel quartier generale da cui erano partiti gli ordini per gran parte delle rapine avvenute negli ultimi mesi in Versilia, era un cascinale abusivo in costruzione, allora recintato in modo rudimentale da un’alta palizzata di canne, messa lì evidentemente per nascondere i lavori. Si trovava nella località di Querceta, nel Comune di Pietrasanta, in via del Lago. Una parte di essa era già stata terminata, l’altra era ancora grezza. Qui si verificò una sparatoria in cui tre uomini persero la vita, mentre altri quattro rimasero feriti. Quando via radio ci fu comunicata questa notizia (io ero impegnato con una squadra in un’altra perquisizione lì vicino), subito ci precipitammo al cascinale. I nostri colleghi, saliti i pochi gradini in legno che portano all’ingresso, erano entrati dalla parte della casa non finita. Dietro una tenda rossa appesa 43

Articolo tratto dal quotidiano “la Nazione”, cronaca di Lucca del 23 ottobre 1975.

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all’architrave, con funzione di battente data la mancanza della porta, si estendeva un’ampia stanza delimitata sul lato sinistro da una porta a vetri, dalla quale i due sospettati, Massimo Battini e Giuseppe Federigi, tra l’altro già pregiudicati, sorpresero con tre raffiche di mitra gli agenti che avevano loro intimato di uscire. Colti evidentemente di sorpresa, gli appuntati di Pubblica Sicurezza Armando Femiano di quarantasette anni e Giuseppe Lombardi di cinquantaquattro, in compagnia del brigadiere Gianni Mussi di trentatré, rimasero uccisi.6 Dovevo vedere quei corpi La morte di colleghi è un evento drammatico, si capisce. Ma quell’episodio mi turbò profondamente. Per la prima volta nella mia vita vidi coi miei occhi i corpi distesi a terra di poliziotti ammazzati. Ero giovanissimo, avevo soltanto ventitré anni. L’impatto con quello spettacolo di sangue fu tremendo. Sentivo dentro di me come un istinto irrefrenabile che mi spingeva a salire quei gradini, a spostare quella tenda, a entrare nella stanza e assistere direttamente a quella tragedia. Dovevo assolutamente vedere quei corpi. Niente mi avrebbe persuaso a desistere dal mio intento. Una volta entrato, rimasi quasi senza fiato. Davanti a me giacevano dei colleghi senza vita immersi in un lago di sangue. Con loro avevo scambiato qualche parola poco prima che iniziasse l’operazione: era un modo per scaricare la tensione. Sapevamo benissimo che il rischio faceva parte del nostro mestiere. Ma chi poteva sentirsi preparato ad affrontare un fenomeno di quella portata? Nessuno si sarebbe aspettato che qualche compagno venisse assassinato. Vedere tre corpi crivellati di colpi sul pavimento è straziante. Se fossi riuscito a partecipare a quella perquisizione, così come avevo inizialmente richiesto, molto probabilmente io mi sarei trovato al posto loro. Mi considerai graziato. Alla fine mi allontanai distrutto e sconvolto. Oggi posso dire con sicurezza che rimasi traumatizzato da quella visione. Forse, se potessi tornare indietro, non lo rifarei. In effetti che motivo avevo di farlo? Credo nessuno. Spesso, quasi maledicendo quel giorno sciagurato, mi capita di ricordare quei momenti e mi chiedo: «Chi me lo ha fatto fare?» A quel tempo poi non esistevano certamente i sostegni psicologici che invece abbiamo ora. Chi come me aveva la sventura di assistere a tragedie di questa portata era lasciato a se stesso. La mia timidezza poi mi impediva di cercare qualcuno con cui confidarmi, così portavo dentro di me questo pesante fardello. Mi trovai da solo soffocato da uno sgomento che non potevo esprimere. Passai un periodo davvero difficile.

6 Ho raccolto i particolari della strage dall’articolo di cronaca di R. Berti, Falciati dai banditi col mitra i tre della polizia a Querceta, «La Nazione», 23 ottobre 1975. Molto utile per conoscere l’identità delle vittime degli anni di piombo è il sito internet dell’Associazione italiana vittime del terrorismo e dell’eversione contro l’ordinamento costituzionale dello Stato: www.vittimeterrorismo.it.

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In fondo neanche oggi posso dire di aver superato quel trauma. Trovandomi infatti nella Biblioteca Nazionale di Firenze a reperire nei giornali dell’epoca notizie circa la strage di Pietrasanta, quando sfogliai la pagina che riportava la fotografia degli agenti uccisi, un brivido mi attraversò tutto il corpo. Ancora non riesco a togliermi dalla mente quella scena di morte. Una pista sbagliata Battini e Federigi furono acciuffati e consegnati alla giustizia. Quando noi poliziotti mettemmo le manette ai loro polsi, il sangue ribolliva nelle nostre vene. Quei due criminali avevano ammazzato come bestie tre nostri colleghi. Dovevamo però controllare la nostra rabbia e rimanere saldi. Noi non eravamo come loro, non ci potevamo vendicare sporcandoci le mani. Né tanto meno in questo modo avremmo risolto qualcosa. Ma l’istinto di farci giustizia da soli era davvero travolgente. A caldo spesso pensiamo di commettere azioni di cui poi ci dovremmo amaramente pentire. Dopo il processo i due omicidi furono condannati e rinchiusi in carcere. Venne poi fuori che non si trattava di semplice criminalità organizzata, visto che furono scoperte strette connessioni con le frange terroristiche di sinistra. La sparatoria fu infatti rivendicata dalla Lotta armata per il comunismo. Non certo casualmente noi dell’antiterrorismo ci trovammo a operare in Versilia. Proprio in quella zona ritenevamo che si nascondesse un appartenente ai Nuclei armati proletari (Nap).7 Formati nel 1974 da un gruppo di militanti fuoriusciti da Lotta continua, i Nap, in cui confluiscono anche studenti ed ex detenuti politicizzati in carcere dai terroristi, sono sensibili alla problematica carceraria, peraltro assai viva in altri settori della sinistra extraparlamentare. Spiccano i nomi di Maria Pia Vianale, Giovanni Gentile Schiavone, Franca Salerno e Antonio Lo Muscio. La loro base è Napoli ma ben presto, temendo di essere sgominati, si trasferiscono a Roma. Proclamano di affiancare e sostenere le lotte dei detenuti, oltre a portare avanti una violenta azione eversiva contro lo Stato. Sempre nel 1974 sequestrano prima Antonio Gargiulo, figlio di un noto ginecologo napoletano, poi l’industriale cementiere Giuseppe Moccia. Queste operazioni fruttano ai Nap più di un miliardo di lire, ma restano tuttavia episodi isolati in un percorso caratterizzato soprattutto da insuccessi. La serie di attentati terroristici, spesso realizzati con esplosivi e con l’aiuto anche di delinquenti comuni, termina nel 1977, quando la Corte d’Assise di Napoli condanna più di venti affiliati ai Nap. Molti dei superstiti ancora a piede libero confluiscono nelle Brigate rosse. Le nostre indagini si intrecciarono quindi con quelle della Criminalpol. Furono tuttavia inconcludenti, poiché non riuscimmo a individuare il terrorista.

7 Ho tratto cenni essenziali sulla breve attività terroristica dei Nap da S. Zavoli, La notte della Repubblica, cit., pp. 204-207.

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23.10.1975 – Articolo stampa tratto dal quotidiano La Nazione – cronaca di Lucca.

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23.10.1975 – Articolo stampa tratto dal quotidiano La Nazione – cronaca di Lucca.

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La strage di Pietrasanta non ebbe dunque una grande rilevanza per quanto riguarda la lotta contro il terrorismo. Perché allora ho voluto parlarne? Per diverse ragioni. Prima di tutto perché il mio non è né vuole essere un libro su quest’argomento. Poi se da una parte desidero far capire a chi legge cosa volesse dire vivere gli anni di piombo, anche descrivendo i miei sentimenti di allora, dall’altra voglio portare un omaggio alle numerose famiglie delle vittime del terrore, troppo spesso ingiustamente lasciate sole. Quando il collega, oltre che amico, Fausto Dionisi fu ammazzato dai terroristi di Prima linea, lasciò la moglie Mariella, insegnante elementare di ventitré anni, con una figlia di due anni e mezzo da crescere. Così vicini, così lontani. L’assassinio di Fausto Dionisi Lo conobbi nel 1974 in occasione del mio trasferimento all’VIII reparto mobile di Firenze. Lavorando nello stesso luogo, a volte capitava di fare assieme il servizio di guardia all’ingresso della caserma, che, cominciando alle sette di mattina, durava ininterrottamente per ventiquattro ore. Il tempo per scambiarci qualche parola certamente non mancava. Benché fosse più giovane di me di un anno, era un ragazzo molto pacato, responsabile, misurato, non un tipo imprudente come al contrario potevo essere io. Aveva soprattutto delle idee molto chiare. Sapeva con assoluta certezza quello che avrebbe desiderato fare negli anni futuri. Voleva sposarsi e avere dei bambini. Quanto diverso era da me! A quel tempo tutto mi passava per la mente fuorché l’idea di farmi una famiglia. Francamente rimasi molto colpito dalla sua risolutezza. Fausto riuscì a coronare il suo sogno, senza tuttavia poterselo godere a pieno. Si sposò pur tra non poche difficoltà, dato che allora per un militare l’età minima richiesta per il matrimonio era trentadue anni. Per questo, mi ha confidato Mariella, fu costretto a prendersi una settimana di ferie per sposarla, senza che nessuno lo sapesse! Prima le cose non funzionavano come oggi: non era possibile prendersi un congedo per le nozze. Le nostre strade presto si separarono. Anche se ci ritrovammo ancora insieme in questura, io fui assegnato all’antiterrorismo, mentre Fausto prese servizio sulle volanti, fino a che Prima linea, una nuova formazione terroristica di estrema sinistra, lo uccise.8 Seconda alle Brigate rosse per il numero di vittime, Prima linea ha un inizio spontaneista, sostenuto da un esasperato culto dell’azione, senza un ben definito progetto politico che non sia intanto l’attacco alle istituzioni. Nasce sul finire del 1976 quando a Milano rivendica i due attentati all’Associazione Industriali di Monza e al «Corriere della Sera». Nell’aprile del 1977 a Scandicci, in

8 Distesa e particolareggiata è la trattazione su Prima linea presente sempre in S. Zavoli, La notte della Repubblica, cit., pp. 365-388.

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Articolo tratto dal quotidiano “la Nazione”, cronaca di Firenze del 21 gennaio 1975.

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provincia di Firenze, si tiene una delle cosiddette riunioni di fondazione, alla quale partecipano ex militanti di Lotta continua e del gruppo Senza tregua. Nelle fila di Prima linea troviamo nomi importanti come Marco Donat Cattin, Roberto Rosso, Sergio Segio, Enrico Baglioni e Sergio D’Elia. Per cancellare le ingiustizie e imporre la dittatura del proletariato l’organizzazione ricorre agli assalti, alla guerriglia diffusa, alla rappresaglia, ai ferimenti e agli omicidi. Prima linea non sceglie la clandestinità tipica dei brigatisti rossi. I suoi militanti colpiscono fuori dall’orario d’ufficio, che molti continuano a frequentare. Sono studenti, impiegati, intellettuali, quasi tutti borghesi, che conducono una doppia esistenza. Tra il 1977 e il 1980 si registra il maggior numero di fatti delittuosi. A poco a poco Prima linea entra in clandestinità e per questo viene sconfitta, non avendo nessuna strategia. Nel 1981 l’organizzazione si dissolve in seguito ad arresti, abbandoni, pentimenti, lasciandosi dietro una scia di 101 attentati, 18 morti e 23 feriti. La mattina del 20 gennaio 1978 arrivò una segnalazione al 113, secondo la quale un furgone celestino, rubato un paio di giorni prima, si trovava fermo all’angolo tra via delle Casine e via dei Conciatori, a pochi metri dal carcere delle Murate, sito in via Ghibellina. La centrale operativa decise quindi di inviare sul posto la volante più vicina, a bordo della quale si trovavano l’agente Oreste Cianciosi e l’assistente Dario Atzeni, oltre a Fausto Dionisi.9 Soltanto in seguito alla strage appurammo che su quel furgone si trovava un manipolo di terroristi di Prima linea, intenzionati a introdursi dentro il carcere per liberare alcuni compagni in precedenza arrestati. Tuttavia non riuscirono a portare a termine il loro piano di evasione. Se l’operatore della centrale avesse intuito che c’erano in mezzo dei terroristi, avrebbe senz’altro avvertito anche gli agenti dell’antiterrorismo; noi stessi eravamo in sede quel giorno. Ma come avrebbe potuto accorgersene? All’apparenza si trattava di uno dei numerosi casi di rinvenimento di veicoli rubati che si verificano ogni giorno. Intorno alle 10.30 tre di loro entrarono nell’alloggio del maresciallo delle guardie carcerarie, che era situato al primo piano dell’edificio della prigione, travestiti da postini per non suscitare sospetti. Suonarono il campanello. La moglie del maresciallo, chiaramente non potendo immaginare che quelli fossero dei terroristi, li fece entrare. La minacciarono con una pistola puntata alla testa affinché non gridasse. Iniziarono così a segare le sbarre a protezione di una finestra che dava proprio sul cortile del carcere. Stavano aprendo la via per fare evadere i compagni, quando poco prima di mezzogiorno furono costretti ad abbandonare l’operazione, richiamati via radio dagli altri terroristi appostati sul furgone. Era intanto successa la strage.

9 Per i dettagli di questo episodio mi sono servito, oltre che del già citato sito dell’Associazione italiana vittime del terrorismo, anche degli articoli di cronaca di Rosario Poma, Agente ucciso da un «commando». Sventato tentativo di evasione e di Giuseppe Peruzzi, I detenuti non sapevano. Segavano ancora le sbarre, «La Nazione», 21 gennaio 1978.

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Articolo tratto dal quotidiano “la Nazione”, cronaca di Firenze del 21 gennaio 1975.

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Una volta sopraggiunta la pattuglia dei miei colleghi, non appena Fausto si avvicinò al furgone, due terroristi reagirono sparando. Egli, ventiquattrenne appena, rimase ucciso, mentre Atzeni fu colpito da quattro proiettili all’altezza dell’inguine. Soltanto un delicato intervento chirurgico gli salvò la vita. L’altro poliziotto rispose al fuoco, ma senza colpire nessuno. I militanti di Prima linea infatti si dileguarono facendo perdere le loro tracce. In seguito fu rinvenuta anche una bomba a mano sotto la volante, rimasta per fortuna inesplosa. Fu questo a salvare l’agente Cianciosi.10 Subito partirono le indagini. Arrivammo a scoprire che l’arma usata per uccidere Fausto era stata comprata in Svizzera. Da lì in breve tempo risalimmo all’identità degli assassini, che presto finirono in prigione. Spuntò anche il nome del famoso Sergio D’Elia, tra gli esponenti di spicco di Prima linea, che noi dell’antiterrorismo tenevamo già da qualche tempo sotto controllo. Era cioè, come si dice in gergo poliziesco, «attenzionato» (non era però il solo a esserlo). Allora studiava scienze politiche all’università di Firenze. Pur non avendo preso parte in prima persona a quei fatti, fu tuttavia arrestato e condannato a trent’anni di carcere per concorso in omicidio in qualità di mandante. Sconterà solo una parte di questa pena. Per le famiglie delle vittime del terrorismo Sergio D’Elia, dopo essere stato eletto in qualità di parlamentare tra le fila della Rosa nel pugno, tra accese polemiche nel 2006 è stato anche nominato segretario alla presidenza della camera. È uscito dal carcere beneficiando della discussa legge sulla dissociazione, riservata a quei terroristi che dimostravano di aver ripudiato la violenza come metodo di lotta politica. Precedentemente, una volta riacquistata la libertà, era entrato nei radicali e nel 1993 aveva costituito l’associazione Nessuno tocchi Caino, che ancora oggi combatte per l’abolizione della pena di morte nel mondo. L’ex terrorista di Prima linea appartiene quindi a quella nutrita schiera di soggetti che, rinnegato il proprio passato eversivo, adesso sono diventati rappresentanti di quel sistema democratico che negli anni di piombo avevano contestato. Pur tralasciando la totale mancanza di coerenza in questi comportamenti, mi sembra doveroso osservare che l’essersi macchiati col sangue dei morti delle stragi in fin dei conti abbia addirittura giovato a queste persone. Chi non ha mai visto infatti qualche ex terrorista tornare alla ribalta intervistato sui giornali o chiamato a partecipare a un programma televisivo magari per presentare l’ultimo libro scritto? Chi pensa invece alle famiglie delle vittime di questi criminali? Certamente non sono state dimenticate, ma è innegabile che siano passate in secondo piano, almeno rispetto agli ex terroristi.

10 In via delle Casine è stata affissa una lapide che ricorda il sacrificio di Fausto e la dinamica dell’episodio.

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Articolo tratto dal quotidiano “la Nazione”, cronaca di Firenze del 22 gennaio 1975.

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Hanno veramente pagato il loro debito? Verso la giustizia probabilmente sì, ma verso quelle famiglie, che negli anni si sono portate dentro il dolore di un caro ammazzato, non lo so. I veri eroi furono coloro che caddero adempiendo il loro dovere, coloro che cercarono di fermare quella serie di omicidi, e non i vari Battisti, Vallanzasca o altri. Mariella Magi, la moglie del mio amico Fausto, quando perse suo marito rimase sola con la piccola Jessica. Quest’ultima adesso lavora all’amministrazione civile presso la sede di Napoli del Ministero degli Interni. Sua madre invece, desiderando che non si perdesse il ricordo del marito e più in generale di tutte le persone cadute per crimini terroristici, nel 1998 ha fondato qui a Firenze l’associazione Memoria, di cui è presidente e a cui intendo devolvere il ricavato di questo libro. Le sono davvero riconoscente per quanto ha fatto e continua a fare. Anche se non ama ricordare quella triste vicenda personale, tuttavia non risparmia nessuna energia per promuovere le iniziative dell’associazione. Molto è stato fatto fino a oggi in onore della memoria di Fausto. Il Comune di Firenze gli ha dedicato una strada della città: via Fausto Dionisi, costeggiando la caserma Generale Fadini e il Palazzo dei Congressi, conduce dal centro fino alla Fortezza da Basso. Presso la sede della questura, lo spedale Bonifacio di San Gallo, una sala convegni porta il suo nome. Ogni anno si celebra poi il memorial Fausto Dionisi, un torneo di calcio. Infine la presidenza della Repubblica lo ha insignito della medaglia d’oro al valor civile. Medesimo fu il riconoscimento conferito al poliziotto Emanuele Petri, ammazzato nello scontro a fuoco con la brigatista rossa Nadia Desdemona Lioce il 2 marzo 2003 durante un controllo su un treno regionale che percorreva la tratta Roma-Firenze. Nell’occasione perse la vita anche Mario Galesi, il terrorista che viaggiava con la Lioce, mentre restò ferito uno dei due agenti che si trovavano con Emanuele. Anche se non apparteneva alla Digos come me e non lo conoscevo di persona, in ogni modo prestava servizio presso la Polizia ferroviaria.

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CAPITOLO 4

Quella volta che…

Orgoglio di squadra. A fianco dei magistrati Una tazza di tè caldo, sorseggiata durante una gelida notte di febbraio a bordo di una macchina della Polizia e magari servita da una signora tanto premurosa quanto gentile, permette di affrontare le rimanenti ore di servizio con un rinnovato ardore, quasi che d’un tratto il rigore del clima si fosse attenuato. Provai questa bella sensazione all’inizio del 1978, quando insieme con altri colleghi dell’antiterrorismo fui inviato a Torino a fare la scorta al giudice Gian Carlo Caselli, pubblico ministero al processo dei capi delle Brigate rosse. Quella signora che una notte a tarda ora ci rifocillò fu sua moglie. Fra tutte le personalità che abbiamo tutelato, compresi teste coronate, capi di stato e politici, i magistrati rappresentano coloro con i quali abbiamo instaurato i rapporti più stretti e diretti, semplicemente perché lavoravamo al loro fianco. La situazione che trovammo a Torino era assai delicata. Sapevamo bene che un processo di quella portata avrebbe potuto costituire un rischio non indifferente. La possibilità che si verificasse un attentato terroristico era in poche parole molto alta. Furono perciò organizzati servizi di vigilanza e di scorta. Nella mia pattuglia capitò il maresciallo nonché grande amico Giuseppe D’amato, purtroppo da qualche anno scomparso, per me quasi un secondo padre, tanto grande era la fiducia che riponeva in me. Di fatto condivisi con lui la mia vita nell’antiterrorismo. Ci fu assegnato inoltre un agente della Digos di Torino: una persona del posto era imprescindibile per gli spostamenti in città. Alla guida della volante che avrebbe vigilato su Caselli c’ero ovviamente io, come mio solito. Il compito non era dei più agevoli. Fummo avvertiti di quanto fosse pericolosa questa scorta, di non abbassare mai la guardia, di stare davvero attenti. Noi stessi comprendevamo bene l’importanza di quel processo. Sapevamo inoltre dell’esistenza di molti terroristi ancora latitanti. L’attenzione insomma doveva essere massima. Il nostro compito era quello di proteggere la vita del magistrato. Ma anche la nostra. 57

Il servizio di scorta cominciava la mattina presto. A sirene spiegate accompagnavamo il giudice in tribunale, ogni volta percorrendo tragitti diversi, ogni volta nel tempo più breve possibile, nella speranza di stroncare sul nascere eventuali attacchi. Eravamo in servizio anche di notte, appostati in auto proprio sotto l’abitazione di Caselli. Il freddo era insopportabile. Nemmeno i pesanti cappotti ci proteggevano a sufficienza. Fu per questo che a volte per non morire assiderati (la neve cadeva copiosa in quei giorni), accendevamo il motore della volante per riscaldarci un po’. Ci furono polemiche da parte del vicinato, poiché questo comportamento disturbava il sonno. Capivo ovviamente che un’auto in moto durante la notte potesse infastidire. Allo stesso tempo però dovevamo pur difenderci dal gelo invernale. In fondo garantivamo la sicurezza di tutti i cittadini, non soltanto di un magistrato. Chi si sarebbe salvato da una bomba piazzata dai terroristi? Questo servizio di scorta si rivelò dunque particolarmente duro. Per fortuna talvolta accadevano dei piccoli episodi davvero gratificanti, come ricevere una tazza di tè caldo nel cuore della notte, per esempio, che ci rinfrancavano, ci davano un ulteriore stimolo ad andare avanti. Al di là dell’oggettivo conforto ricevuto da queste azioni, ciò che per me e per i miei compagni contava davvero era il senso di umanità che le accompagnava, anche perché in altre occasioni non abbiamo goduto di un tale trattamento; a volte a stento venivamo salutati dal nostro protetto. Ci riempiva di soddisfazione sapere di proteggere delle persone che contraccambiavano il nostro lavoro in questo modo. Era bello sentirsi così apprezzati. Una sera Caselli fu invitato a cena da amici. Noi della scorta subito prendemmo tutti gli accorgimenti necessari per mettere in sicurezza la villa, come la perlustrazione delle strade adiacenti e l’individuazione di possibili vie di fuga in caso di attacco. Cercavamo di trovare le soluzioni a quanto di tremendo sarebbe potuto accadere. Non potevamo farci cogliere impreparati. Tutto procedeva tranquillamente, quando intorno a mezzanotte successe una cosa molto bella, che ci riempì di gioia. Vedemmo il dottor Caselli in persona uscire fuori dalla villa, portando in mano delle fette di torta e una bottiglia di spumante. Erano per noi. Non si era dimenticato della sua scorta. Si trattò di un semplice gesto; eppure anche un grazie sincero riusciva a ripagarci di tutti i nostri sacrifici, riusciva ad accrescere la nostra determinazione. Porterò sempre con me quel momento. Finito il nostro compito, ritornammo a Firenze, dove ci aspettava l’indefessa lotta al terrorismo, il nostro pane quotidiano. Tra gli anni settanta e gli anni ottanta lavorammo a fianco dei magistrati Gabriele Chelazzi, uomo dalla grande umanità e instancabile lavoratore, morto prematuramente pochi anni fa e Piero Luigi Vigna, mio grande amico, che a quel tempo iniziava brillantemente la sua carriera come procuratore. Egli ha costantemente dato prova del suo straordinario acume investigativo in importanti e famose indagini, come quelle sul terrorismo o sul mostro di Firenze, senza dimenticare quelle sulla criminalità organizzata, sul traffico 58

internazionale di stupefacenti e sulle stragi mafiose del 1993 a partire da quella di Firenze.11 I suoi meriti furono tali che nel 1997 ottenne l’incarico di dirigere la procura nazionale antimafia.12 Ha scritto inoltre ottimi manuali di procedura penale che tuttora usiamo nelle scuole di Polizia. Oggi è in pensione, ma continua a portare la sua testimonianza in occasione di incontri e dibattiti. Sono orgoglioso di essere ancora in amicizia con una persona di così alto profilo. Al di là delle indiscusse qualità di magistrato, egli resta un grande uomo. Anzi, per me sotto il profilo umano egli è ancor più importante che sotto quello professionale. Vigna era uno di noi. Spesso prendeva parte alle nostre operazioni, soprattutto durante le perquisizioni da lui ordinate; stava cioè al nostro fianco. Sapere di essere guidati da un magistrato così capace ci dava sicurezza e serenità. Veramente validi erano poi i dirigenti della Digos di quegli anni. Nella mia lunga carriera ne ho conosciuti molti. Senza togliere niente agli altri, quelli di allora, sicuramente a causa di quel particolare momento storico, avevano acquisito una preparazione davvero notevole. Sapevano fare il loro mestiere. Noi poliziotti coi dirigenti della Digos e i magistrati formavamo un’unica grande squadra affiatata, il cui fine era individuare e poi arrestare coloro che attentavano alla democrazia. Lo sforzo era insomma condiviso. L’arresto di terroristi o la scoperta dei loro covi costituivano il coronamento di un’attività investigativa condotta coralmente. Talvolta accadeva che, rientrando a Firenze molto tardi in seguito a un’operazione o una perquisizione, dovessimo ancora mettere qualcosa sotto i denti. I ristoranti erano chiusi a tarda notte; per questo i miei colleghi e io ci eravamo attrezzati. Rimanendo ancora insieme, nonostante l’ora, ci facevamo una spaghettata per conto nostro. Era bello mangiare in compagnia, quando ancora stavamo lavorando. Mentre alcuni imbandivano la tavola e altri si davano da fare ai fornelli, c’era infatti chi leggeva il verbale d’arresto o di sequestro del materiale rinvenuto. Non mancava nemmeno qualche battuta spiritosa per stemperare un po’ la tensione accumulata durante il giorno. Provo una grande nostalgia per quegli anni, sicuramente per il fatto che allora non conoscevamo l’individualismo esasperato di oggi. C’era tuttavia un piccolo ristorante nel centro di Firenze, la Focaccia, dove spesso andavamo a mangiare una volta terminato il servizio. Il suo proprietario, Fulvio Montemaggi, si rivelò una persona molto disponibile e davvero cordiale: quando eravamo in ritardo, ci lasciava infatti sempre qualcosa da parte. Ben presto nacque tra di noi una grande amicizia, che dura ancora oggi. Un autentico amico dunque, prima ancora di un sopraffino ristoratore.

11 A questo proposito colgo l’occasione per ricordare l’Associazione tra i familiari della strage di via dei Georgofili – Firenze, 27 maggio 1993, e la sua presidente, Giovanna Maggiani Chelli. 12 Proprio nel maggio di quest’anno Vigna ha pubblicato le sue memorie di magistrato: P.L. Vigna-G. Sturlese Tosi, In difesa della giustizia, Bur, Milano 2011.

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Non meno valente di Caselli e Vigna fu Antonio Caponnetto, colui che istruì il primo grande processo contro la mafia e creò il pool dei magistrati, comprendente tra gli altri anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che si sarebbe dedicato esclusivamente alla lotta contro di essa. Giudice coraggioso, per contrastare meglio la mafia, lui che era siciliano si fece trasferire nel 1983 da Firenze a Palermo. Credo che siano rimaste dentro a ogni italiano le parole, che potevano sembrare di resa, pronunciate in seguito all’assassinio di Borsellino: «È tutto finito». Lo Stato però non si era rassegnato e reagì con l’arresto dei capi mafiosi. Una volta andato in pensione e stabilitosi definitivamente a Firenze, mi è capitato di scortarlo più volte per condurlo a incontri dove era chiamato a portare la sua esperienza a favore della legalità. Desiderava trasmettere ai giovani la voglia di combattere la mafia, di denunciarla, di non arrendersi mai a essa, quella medesima voglia che aveva contrassegnato l’intera sua carriera. È scomparso qualche anno fa e in suo onore è stata creata una fondazione che porta il suo nome. Il nome di un grande magistrato, pacato ma allo stesso tempo determinato nella sua azione di contrasto alla delinquenza organizzata. Da Clinton a Napolitano. Il servizio di prevenzione ai capi di Stato Durante il vertice dei capi di Stato esteri, che si tenne a Firenze dal 20 al 21 novembre del 1999, ebbi modo di conoscere l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. Alloggiava con il suo seguito presso uno degli alberghi più prestigiosi della città, l’hotel Excelsior. Trattandosi dell’uomo forse più potente del mondo, almeno a quella data, potete immaginare quanto complesso fosse il lavoro di organizzazione preventiva che interessò me e gli altri agenti. Ingenti furono le misure di sicurezza che prendemmo. Noi poliziotti in collaborazione con quelli americani lo scortavamo continuamente. A ogni spostamento gli eravamo vicini. Non mancarono neppure i tiratori scelti statunitensi, i cosiddetti «snipers», che hanno prestato ausilio a quelli italiani, questi ultimi a disposizione della Digos. Successe che, trovandomi nella hall dell’hotel, quando rientrò il presidente accompagnato dalla moglie Hillary e dalla sua scorta, rimasi molto sorpreso dal comportamento dei turisti americani che alloggiavano lì. Mentre Clinton e il suo seguito si stavano dirigendo verso l’ascensore che li avrebbe condotti alla suite presidenziale, i loro connazionali frementi ed entusiasti lo raggiunsero infatti per salutarlo, come se si fossero da sempre conosciuti. Pensai che noi italiani forse non saremmo mai stati capaci di manifestare una cordialità così espansiva. Mi colpì veramente il fatto che un’autorità così importante potesse essere avvicinata in quel modo. Tanto più che il presidente e la sua signora risposero sorridenti ai saluti e si concessero con assoluta tranquillità agli obiettivi fotografici. Memorabile fu il servizio di sicurezza riservato al nostro presidente Sandro Pertini in occasione delle sue numerose visite a Firenze. Egli aveva questa curiosa peculiarità: era solito cambiare all’improvviso l’itinerario dei suoi spostamenti, già chiaramente stabilito in precedenza secondo un rigido protocollo. 60

Firenze, tiratore scelto della Polizia di Stato in posizione strategica.

C’era insomma una scaletta da seguire che immancabilmente il presidente disattendeva, creando, lo si capisce facilmente, non pochi problemi agli agenti della scorta presidenziale tenuti a salvaguardare la sua incolumità e a noi. Tuttavia egli aveva un carattere così spontaneo, schietto e in fondo anche simpatico che non potevamo che perdonare la facilità con cui scompaginava ogni cerimoniale. Non solo. Feci caso a un suo modo di fare, che non ho mai visto ripetere in seguito a nessun altro presidente. Quando per esempio era chiamato a presenziare una qualsiasi ricorrenza istituzionale e si trovava vicino al tricolore italiano, Pertini afferrava un lembo della bandiera e lo baciava con tanta delicatezza quanto vigore; a tal punto amava l’Italia, lui che aveva partecipato alla Resistenza, lui che per combattere il Fascismo aveva conosciuto il confino e ogni tipo di sopruso. Si trattava di un partigiano che sentiva l’alto valore della nostra patria e della nostra bandiera. Questo gesto del nostro presidente mi colpì profondamente, anche perché io stesso sono animato da un forte patriottismo. Pensate che mi sono «circondato» di ben tre bandiere: una si trova nel mio ufficio, una seconda in dimensioni ridotte mi accompagna nei miei spostamenti in auto, l’ultima sventola da una finestra del mio appartamento. 61

Estate 1985, Firenze Lungarno Soderini. Foto tratta da periodico. Visita della principesa lady Diana e il Principe Carlo d’Inghilterra. L’autore a destra con gli occhiali da sole.

Pertini, quando si trovava a ricordare la sua esperienza antifascista, chiudeva generalmente il suo intervento con queste parole: «Alla migliore dittatura preferisco la peggiore repubblica.» È stato un onore lavorare al fianco di una persona così amabile. Ho conosciuto anche il nostro attuale presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, durante una recente visita a Firenze. Si è cordialmente messo a disposizione per farsi fotografare con me e i miei colleghi all’uscita dell’albergo che lo ospitava. Mi ha fatto piacere incontrarlo. La lista dei capi di Stato a cui abbiamo garantito la sicurezza contiene prestigiosi nomi come gli ex cancellieri tedeschi Helmut Kohl e Gerhard Schröder, l’ex presidente francese François Mitterand e quello israeliano Shimon Peres, oltre ai nostri Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi fino a Giorgio Napolitano in visita nel capoluogo toscano proprio pochi mesi fa. 62

Lady Diana e altre teste coronate Chi non ricorda il matrimonio del secolo, quello tra Diana Spencer e il principe Carlo d’Inghilterra? Ebbene, il mio lavoro mi ha permesso di stare vicino anche alla principessa più amata di sempre. Suo marito adorava la cultura toscana e per questo i due reali capitarono a Firenze durante le loro vacanze in Italia. E anche questa volta garantimmo un servizio di sicurezza davvero «principesco»! Facendo loro la scorta, verificai il differente trattamento ricevuto dalla folla di curiosi che li salutava al loro passaggio. Sebbene Carlo fosse l’erede al trono d’Inghilterra, tuttavia il calore della gente era riversato per lo più su Diana. Le attenzioni di tutti erano rivolte a lei, così che di fatto il marito passava irrimediabilmente in secondo piano. Stando molto vicino alla coppia, ebbi la fortuna di vedere da vicino il bellissimo sguardo della principessa, due occhi azzurri in cui milioni di ragazze in tutto il mondo si immedesimavano. Una ragazza umile, dal grande cuore, protagonista di un sogno che tante altre giovani avrebbero voluto vivere. Non posso nascondere che mi ero affezionato a Lady Diana. Ancor maggiore fu la mia stima verso di lei quando venni a sapere che si era offerta come testimonial per una campagna contro le mine antiuomo. L’ennesima dimostrazione del suo straordinario impegno per la solidarietà, soprattutto a favore dei bambini. È facile intuire quale fosse il mio stato d’animo quando appresi per radio la notizia che Lady Diana era morta in un tragico incidente a Parigi la notte del 31 agosto 1997. Rimasi colpito molto duramente. L’avevo conosciuta di persona. Mi sembrava che fosse scomparsa una parte di me. A Firenze giunsero in visita altre teste coronate, come le regine d’Olanda e di Danimarca. Anche qui l’elenco potrebbe continuare a lungo… Basti sapere che ogni esperienza è stata preziosa per me, che ogni incontro ha in qualche modo formato la mia personalità e affinato la mia professionalità, visto che ero sempre pronto a carpire i segreti del mestiere dalle scorte con cui collaboravo. Guardare i brigatisti negli occhi Sfogliando circa un paio di anni fa un opuscolo informativo, lessi che qualche giorno dopo a poche centinaia di metri da casa mia ci sarebbe stata la presentazione di un libro. A incuriosirmi non fu tanto il titolo del volume, quanto piuttosto l’autore: Renato Curcio, uno dei capi storici delle Brigate rosse, probabilmente la più sanguinaria di tutte le organizzazioni eversive. Curcio, nato nel 1941 a Monterotondo, in provincia di Roma, studia sociologia all’università di Trento, dove conosce Margherita Cagol, futura brigatista, che poi sposerà nel 1969. Nel 1973 la coppia si trasferisce a Torino. Qui con un commando rapisce il sindacalista della Cisnal Bruno Labate, ritenuto responsabile dell’assunzione alla Fiat di numerosi attivisti neri. È l’inizio di una serie di sequestri di persona che continua per l’intero anno. Curcio costi63

tuisce con la moglie, Mario Moretti e Alberto Franceschini il primo nucleo delle Brigate rosse. Sono loro a decidere il passaggio definitivo alla lotta armata. In seguito al sequestro del magistrato Mario Sossi, accaduto nel 1974, Curcio viene arrestato insieme con Franceschini. Rinchiuso nel carcere di Casale Monferrato, riesce a evadere nel 1975 grazie all’intervento di un commando guidato dalla Cagol. Dopo 334 giorni di latitanza viene di nuovo arrestato. Nel 1976 comincia il primo processo contro le Brigate rosse, che porta dietro le sbarre, oltre a questi ultimi, altri nove terroristi, tra cui Prospero Gallinari. Curcio rimane uno tra i pochi terroristi a non essersi direttamente macchiato di reati di sangue. Decisi immediatamente che avrei partecipato a quella serata. Di mia iniziativa, senza cioè informare il mio ufficio, mi recai al luogo della presentazione: il centro sociale Il pozzo, qui a Firenze. Perché lo feci? Era chiaro: volevo guardare Curcio dritto negli occhi. Ovviamente mi ero fatto un’idea di lui, fin da quando noi dell’antiterrorismo lo cercavamo come latitante. Sapevo quanto fosse pericoloso. Nel 1975, per esempio, facemmo un appostamento davanti a una casa nel centro di Firenze. Eravamo armati. Secondo alcuni informatori quello doveva essere un covo di terroristi. La soffiata non dette tuttavia esito positivo. Curcio lì non si presentò mai. Quella sera per poterlo vedere meglio, per avvicinarmi fisicamente a lui, comprai il suo libro, Respinti sulla strada, un’inchiesta sui ragazzi minorenni provenienti dall’estero, abbandonati per la strada nel disinteresse generale e sfruttati dal racket. A quasi quarant’anni di distanza l’impressione che ebbi fu però davvero deludente. L’ex brigatista sembrava una persona mite e pacata; non era stato risparmiato dall’impietoso scorrere del tempo e si presentava emaciato, stanco, ingrigito, ricurvo sotto il peso degli anni; il tono della voce era dimesso. Sembrava cioè un’altra persona, a tal punto era cambiato. Il suo libro poi trattava di problematiche sociali. Era impossibile insomma riconoscere in lui l’ideologo delle Brigate rosse, colui che scriveva le rivendicazioni degli attentati, le cosiddette «risoluzioni strategiche». Fa un certo effetto pensare che se allora ci fossimo incontrati, chissà cosa sarebbe potuto accadere… A marzo di quest’anno ci fu segnalata la presenza di un altro ex terrorista, Prospero Gallinari, in un paese vicino a Firenze, dove si trovava per un breve soggiorno in regime di libertà vigilata. Nato nel 1951 a Reggio Emilia, operaio ed ex militante del Partito comunista, nel 1974 partecipa al sequestro del giudice Sossi. Durante il primo processo alle Brigate rosse si rende protagonista di un fatto sorprendente: nell’aula del tribunale di Torino legge la rivendicazione dell’omicidio del procuratore Francesco Coco.13 Adesso il terrorismo parte all’attacco dello Stato e include l’as-

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Io stesso con la mia squadra di Firenze partecipai alle indagini su quest’omicidio.

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sassinio tra i mezzi della lotta politica. Condannato, rimane nel carcere di Treviso fino alla fine del 1976, quando riesce a evadere. Nel 1978 uccide il magistrato Riccardo Palma, accusato di essere uno degli artefici di nuove misure carcerarie particolarmente rigide, rese necessarie in virtù delle evasioni dei terroristi. L’arma che Gallinari usa per l’omicidio è la stessa Skorpion con cui tre mesi dopo ammazzerà Aldo Moro. Viene arrestato l’anno successivo e insieme con altri brigatisti, tra cui Mario Moretti, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini, è condannato per il sequestro e la strage del leader democristiano.14 Essendo sottoposto alle restrizioni imposte dall’autorità giudiziaria, la mia squadra e io ci recammo alla sua abitazione appunto per fare un controllo. I soggetti come lui devono infatti rientrare a casa prima di una certa ora, non possono accompagnarsi con pregiudicati e devono sottostare ad altre prescrizioni. Dopo tanti anni era arrivato il momento di vederlo in faccia, dato che mai lo avevo incontrato di persona. Entrammo quindi nel suo appartamento, dove lo trovammo in compagnia della sua compagna. Fatto il nostro controllo (non riscontrammo niente di irregolare), per pochi attimi mi soffermai a guardarlo. Aveva i capelli bianchi come me. Subito la mia mente corse a tutti quei fatti di sangue compiuti da lui e dai suoi compagni terroristi. Il mio lavoro mi ha permesso di incrociare anche lo sguardo di Gallinari.

14 Per le biografie di Curcio e Gallinari rinvio ancora a S. Zavoli, La notte della Repubblica, cit., pp. 75-76, 86, 159, 199-203, 210, 277.

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CAPITOLO 5

Il bilancio di una vita

«Silvestro, tu sei proprio strano!», mi rispose meravigliata Mirna, la mia collega, impiegata civile addetta alla contabilità, quando le chiesi se esistesse un modo per continuare a lavorare in Polizia una volta raggiunta l’età per il pensionamento. A marzo del prossimo anno raggiungerò infatti sessant’anni e per me verrà il momento di ritirarmi a vita privata. A Mirna sicuramente non era mai successo di ascoltare una cosa come questa! È un momento che prima o poi tocca per tutti, lo so; me ne dovrò rendere conto anch’io. Nel corso di questi anni ho svolto la mia professione con un tale impegno e con un’intima soddisfazione che sarà davvero difficile dover rinunciare alle indagini, al rapporto coi miei colleghi, specialmente con quelli più giovani, al lavoro di squadra. Negli ultimi quindici anni ho dedicato ogni mio sforzo affinché creassi un gruppo efficiente e valido. Sarebbe un vero peccato che in seguito alla mia partenza si perdesse quanto di buono ho realizzato coi ragazzi della squadra, la mia seconda famiglia. Non ho imparato come fare al meglio il mio lavoro sui libri. La mia è stata cioè una cultura da autodidatta, poiché purtroppo non ho nemmeno concluso la scuola media. Soltanto la mia avidità di sapere mi ha consentito di raggiungere dei risultati dapprima impensabili. Ho conosciuto tante persone, dai miei dirigenti fino a prestigiosi capi di Stato, e da ogni incontro ho cercato di carpire anche un minimo dettaglio che poi magari mi sarebbe tornato utile. Queste esperienze, unite alla mia ambizione e alla mia determinazione, hanno fatto sì che proprio lo scorso anno, a settembre, fossi promosso al grado di ispettore superiore. E questa è una conquista che rivendico a me stesso. Organizzai un piccolo rinfresco in questura per festeggiare la promozione. Accadde un fatto che ricorderò sempre con piacere. Il dirigente della Digos, Stefano Buselli, una volta presa la parola e richiamata l’attenzione di tutti, invitò gli altri colleghi a prendere me come esempio. Disse loro che se si fossero applicati, avrebbero raggiunto i loro obiettivi, proprio come avevo fatto io. Essere indicato come modello da seguire fu per me una soddisfazione indescrivibile. Con questo libro vorrei lasciare ai ragazzi della mia squadra un motivo di entusiasmo, vorrei spronarli ad andare avanti nonostante le difficoltà che troveranno lungo il loro cammino, vorrei convincerli a fare il loro mestiere con 67

responsabilità, a non accontentarsi mai, perché prima o poi, ne sono certo, il loro impegno verrà premiato. La mia dedizione a questa professione è la stessa di quarant’anni fa. Probabilmente posso apparire un po’ noioso e opprimente, ma ogni volta richiamo i miei ragazzi al massimo della professionalità, a non lasciare mai nulla al caso, a stare sempre e comunque all’erta. Per loro il mio telefono è sempre acceso; possono chiamarmi a qualsiasi ora per qualsiasi motivo. Non farò mai mancare loro il mio sostegno. Se un’operazione è troppo delicata, mi unisco al gruppo, perché non me la sento di mandarli da soli. Mi sento responsabile della loro incolumità, per questo cerco di esserci sempre, di stare loro il più vicino possibile. Vorrei che si sentissero sicuri quando sono al loro fianco. Alla base della mia professionalità ho sempre posto il rispetto dell’altro. Svolgendo, per esempio, il servizio di prevenzione ai capi di Stato, senza mai risparmiare alcuno sforzo, ho sempre cercato di andare incontro alle esigenze di coloro che si adoperavano durante il servizio. E quando era ufficialmente finito, per me al contrario continuava. Il giorno successivo mi recavo a salutare le persone con le quali avevo collaborato, magari con un regalo in mano, come riconoscimento per la loro disponibilità, da cui era senz’altro dipeso il successo di tutto il lavoro. Mi sono affermato lottando, senza invadere il campo altrui, disposto a ogni tipo di sacrificio. È un gran motivo di vanto essere considerato un punto di riferimento per gli altri poliziotti. Non è una questione di visibilità: l’amore per questo lavoro, solo questo, mi ha sempre spinto a dare il massimo in ogni occasione e a meritare la fiducia di coloro con cui sono stato in contatto. Non posso che ritenermi appagato della mia vita. Ho una famiglia splendida e il mio lavoro mi ha regalato dei momenti straordinari, nemmeno immaginabili per un ragazzo di campagna che nel 1971 si dirigeva timido e insicuro alla caserma di Nettuno per arruolarsi in Polizia.

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CAPITOLO 6

Per Elda, mia moglie

Una massima molto conosciuta recita così: «Dietro un grande uomo si trova una grande donna.» Con assoluta certezza posso dire che senza mia moglie Elda non sarei mai stato in grado di raggiungere i traguardi che ho raggiunto nella mia carriera in Polizia. La sua comprensione, la sua intelligenza, il suo amore mi hanno permesso di svolgere la mia professione nella maniera più serena possibile. Non potrò mai ripagarla per tutto quello che ha fatto per me. È per questo motivo che l’ultimo capitolo del libro è dedicato a lei. Partiamo da lontano. Conobbi Elda proprio grazie al mio servizio nell’antiterrorismo. Nell’agosto del 1975 si teneva alle Cascine, qui a Firenze, la festa dell’Unità, che quell’anno avrebbe richiamato un gran numero di persone, dato che erano stati invitati i rappresentanti degli Stati europei di orientamento comunista. Come per ogni evento a sfondo politico, anche in questo caso noi poliziotti fummo mandati a sorvegliare la situazione. Non ero solo, ma in compagnia di un collega, entrambi rigorosamente in borghese, come nostra consuetudine. Si chiudeva in questo modo una giornata di lavoro molto faticosa. Qualche giorno prima avevamo scovato un covo di terroristi di sinistra, che setacciammo nei minimi particolari, senza lasciare nulla al caso. Controllammo qualsiasi oggetto, dai volantini alle armi, dalle targhe di auto rubate alle radio ricetrasmittenti, fino alle agende telefoniche. Là dentro trovammo anche alcune buste di plastica con tanto di etichetta, prodotte da una ditta di Bagno a Ripoli, un Comune nella cintura di Firenze. Per accertare la provenienza di questo materiale, quella mattina ci recammo così presso questo stabilimento per compiere un interrogatorio informale, cioè non verbalizzato. Parlammo coi dirigenti dell’azienda per avere informazioni su quel tipo di buste. Può sembrare una cosa banale, ma in realtà per le indagini abbiamo bisogno di sapere più dettagli possibili. Per quelle persone si trattò di un semplice accertamento; non erano chiaramente coinvolte con le frange terroristiche. Una volta rientrati in caserma e scritto il nostro rapporto, ecco che la sera entrammo in servizio alla kermesse comunista. Durante una pausa il mio collega e io decidemmo di mettere qualcosa sotto i denti. Il caso volle che vicino al nostro tavolo sedessero proprio i giovani titolari della fabbrica di buste che avevamo interrogato quella mattina! Con loro c’erano anche due belle ragazze: Elda e sua sorella Marilena. Ci invitarono così 69

1961 - Larino (Campobasso) – Foto di famiglia. Elda, la più grande dei cinque fratelli.

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a cenare con loro, poiché erano desiderosi di avere qualche informazione in più circa la nostra indagine. Accettammo e ci unimmo così al gruppo. Ben presto però la mia attenzione fu rapita da Elda. Iniziammo a parlare. Io, come mio solito, esternavo l’entusiasmo per il mio lavoro, mentre lei mi ascoltava con interesse. Nel corso della serata mi raccontò come fosse arrivata a Firenze. Non era infatti fiorentina. Nata in una modesta famiglia del Molise, a Larino, un piccolo paese in provincia di Campobasso, era la maggiore di sei fratelli. Appena sedicenne cercò fortuna in Canada, dove rimase per tre anni, ospitata da alcuni parenti emigrati. Elda ha sempre cercato non solo di non pesare troppo sulle spalle della famiglia, ma di aiutarla il più possibile. Il padre, essendo difficile trovare al Sud un’occupazione redditizia nel dopoguerra, fu costretto a lasciare i suoi cari per lavorare in Germania. Talvolta ritornava in Molise, portando piccoli doni ai figli e confortando la moglie, rimasta sola. Nonostante queste difficoltà, egli non fece mancare mai nulla ai suoi famigliari. Soltanto da poco tempo Elda si era stabilita definitivamente in Toscana. Accolta in una casa famiglia assieme alla sorella, lavorava come perforatrice di schede presso un centro meccanografico della città. Questo era un mestiere abbastanza diffuso nei primi anni settanta, quando l’informatica iniziò a prendere piede anche in Italia. Trovò in seguito un appartamento in San Frediano, piccolo ma comunque adatto alle esigenze sue e della sorella. A quel tempo non pensavo ancora ad avere una relazione seria, né a sistemarmi. Terminata la cena, ci salutammo, perché dovevamo rientrare in servizio, senza scambiarci né indirizzi né numeri di telefono. Sinceramente non credevo che ci saremmo rivisti. Le cose però non andarono proprio così. Dopo un po’ che avevamo ripreso a vigilare, si verificò un fatto molto simpatico. Dato che tutto procedeva tranquillamente, passando davanti a una ruota della fortuna, il mio collega e io ci fermammo a giocare. E la fortuna ci baciò, poiché il biglietto che acquistammo ci fece vincere un bel prosciutto! Non potevamo chiaramente andare in giro con un premio così ingombrante. Mi venne perciò in mente di affidarlo ai ragazzi precedentemente incontrati. Ma come fare a rintracciarli in mezzo a migliaia di persone? Evidentemente quella sera la fortuna era dalla nostra parte, visto che subito dopo li incontrammo nuovamente. Tutti insieme fummo d’accordo, una volta concluso il nostro servizio di vigilanza, di ritrovarci insieme per fare una bella mangiata a base di prosciutto (anche se ci eravamo da poco alzati da tavola)! Elda propose di finire una così bella serata a casa sua. Il destino volle che noi due ci incontrassimo quella sera, ormai non ho più alcun dubbio. Per un bel po’ di tempo, soprattutto a causa del mio lavoro che mi portava a spostarmi continuamente per la Toscana e l’Umbria, non ci sentimmo più. Una sera però, mentre rientravo a casa, pensai di chiamarla per fissare il nostro primo appuntamento. Accettò che ci vedessimo e decidemmo di incontrarci presso la stazione di Santa Maria Novella. Essendo arrivato prima di lei, non potei fare a meno che aspettarla. Da lontano vidi che Elda stava correndo in lacrime verso di me. Un po’ ingenuamente 71

Elda in una recente immagine.

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pensai che la causa del suo pianto fossi io, e cioè che stesse piangendo per il forte desiderio che aveva di rivedermi. Mi sbagliavo completamente però. Non piangeva affatto per questo motivo, ma perché era stata scippata sul ponte Vespucci! Fu un primo appuntamento davvero indimenticabile. Dopo averla consolata con un grande abbraccio, l’accompagnai a sporgere denuncia. Quando le confessai che credevo che stesse piangendo per me, Elda scoppiò in una fragorosa risata. Almeno la tensione si era allentata. Da quel momento iniziammo a frequentarci. Ci furono naturalmente degli alti e bassi, né mancarono periodi in cui non ci vedemmo affatto. Forse ancora non mi sentivo pronto per stare legato a una donna. Esisteva solo il mio lavoro per me, nient’altro. A un tratto però mi resi conto che, se avessi continuato così, di sicuro l’avrei persa e la colpa sarebbe stata soltanto mia. Fu come un’illuminazione. «Non posso giocare coi sentimenti di questa ragazza», rimproveravo a me stesso. Decisi quindi di riavvicinarmi a lei, anche se non fu semplice. Con sorpresa mi accorsi però che non mi aveva dimenticato. Aveva capito i miei bisogni, aveva capito che quello era un momento in cui dovevo essere lasciato solo. In poche parole mi aveva aspettato. Dopo qualche anno arrivò finalmente il nostro matrimonio, celebrato in forma civile, nella bella cornice di Palazzo Vecchio. Qui a Firenze non potevamo contare sull’aiuto né dei miei né dei suoi parenti. Per questo motivo, quando venne alla luce nostra figlia Giulia, oggi venticinquenne, coi capelli rossi e ricci (proprio come Elda aveva sognato), mia moglie fu costretta a lasciare il suo lavoro di commessa presso un negozio di souvenir in piazza Pitti per starle vicino, dato che non poteva contare sulla mia presenza a casa. Mi concesse insomma la possibilità di esprimermi al meglio nella mia professione. Insomma si sacrificò per me, anche perché adorava quello che faceva. La sua presenza e il suo appoggio non mancarono neppure quando casualmente scoprimmo che avevo un tumore a un rene. Per fortuna riuscimmo a prenderlo in tempo e dopo l’operazione tornai al mio lavoro in Polizia. Fu senz’altro preoccupata per la mia salute, ma per proteggermi si tenne dentro di sé questo sgomento. Anche oggi non c’è un attimo in cui non pensi a me, alla mia salute. Mi ha sempre dato una mano, non soltanto nella vita privata. Qualche volta infatti l’ho addirittura coinvolta nelle mie operazioni, quasi fosse una poliziotta. Quanti appostamenti abbiamo fatto insieme! Penso che di donne così ce ne siano davvero poche in giro. Senza una compagna comprensiva credo che sia impossibile svolgere un lavoro come questo. Non le sarò mai abbastanza riconoscente per quello che ha fatto e continua a fare per me e per la nostra famiglia. Grazie Elda, mia piccola, grande donna.

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Ringraziamenti

Più che un vero e proprio ringraziamento, quello che voglio ora lasciare è un profondo e sentito omaggio a Firenze e ai fiorentini, che mi hanno ospitato per quarant’anni. In questa bellissima città ho avuto la fortuna di conoscere splendide persone e di svolgere al meglio il mio servizio in Polizia. Ringrazio l’amico Piero Luigi Vigna per la breve ma esaustiva prefazione che ha scritto gentilmente per me. Grande è anche la riconoscenza verso Anna Falco, che ha accettato di parlare con me e di portare la sua testimonianza, e verso Mariella Magi, presidente dell’associazione Memoria, per la sua disponibilità. Sono grato al collega Luigi Piccolo per essersi prestato a ripercorrere con me, a così tanti anni di distanza da quel fatto, i luoghi in cui Mario Tuti fu avvistato a Firenze (fortunatamente) senza essere riconosciuto. Infine ringrazio Alessandro Fini, un giovane laureato in lettere che in questi ultimi mesi mi ha validamente aiutato nella stesura dei miei ricordi e delle mie emozioni. Gli auguro con cuore che questa esperienza, prima umana che professionale, possa essere di buon auspicio alla sua carriera appena cominciata.

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Indice

Prefazione di Piero Luigi Vigna

pag.

5

Introduzione

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7

Capitolo 1 Un pugile in Polizia

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9

Capitolo 2 L’esordio nell’antiterrorismo

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29

Capitolo 3 Sangue e memoria

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43

Capitolo 4 Quella volta che…

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57

Capitolo 5 Il bilancio di una vita

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67

Capitolo 6 Per Elda, mia moglie

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69

Ringraziamenti

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Finito di stampare presso la tipografia editrice Polistampa Ottobre 2011