Quarta dimensione

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Collana......Page 5
Frontespizio......Page 6
Introduzione, di Ezio Savino......Page 8
Crisòtemi......Page 15
Ismene......Page 46
Fedra......Page 73
Elena......Page 98
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Copertina Collana Copyright Frontespizio Introduzione, di Ezio Savino Crisòtemi Ismene Fedra Elena Persefone Crediti

eBook ISBN: 9788883062438 © Eri Ritsos © Crocetti Editore, 1993, 2001 © Fondazione Poesia Onlus - Italian Poetry Foundation, 2011 Via E. Falck 53, 20151 Milano Il marchio Crocetti Editore è di proprietà della Fondazione Poesia Onlus - Italian Poetry Foundation

Introduzione “L’ultima incarnazione di Edipo questo pomeriggio si trova all’angolo fra la Quarantaduesima e la Quinta Avenue e aspetta che il semaforo scatti”. Un credo. Un atto dolce di fede stilato da Joseph Campbell, professore americano di mitologia comparata. Chissà se il newyorkese Campbell ha letto questi versi, i cinque poemetti del greco Ritsos, il Maestro, che s’intitolano da nomi di donne eroine. Se l’ha fatto, vi ha trovato conferma quieta e ardente di quella sua visione. Del resto, il venerando favellatore Erodoto già esclamava, con ampio gesto del braccio intorno, “Tutto questo mondo è pieno di dèi”. Chiamo Ghiannis Ritsos Maestro nel senso antico di un Chirone barbuto e fragilissimo, che ti apre gli occhi. Ha fra le mani quella sua cetra insonne e, per regalo inesplicabile di Muse, sfalda la sostanza tetra e inerte che ci avvolge, la sradica come quinte dozzinali da teatrino di periferia, e tra folate infuocate di canto, che ti striano dentro, ci profetizza in quale fermento lavico di veri segni il fato ci ha convocato a vivere. Tracciare una mappa critica di questi monologhi poetici del Maestro è sforzo futile. Sono fatti di diamante: refrattario alla pratica accademica dell’introduzione. Sarebbe come almanaccare parole introduttive alla natura, al pulviscolo astrale che, adesso, trema nella lama di luce filtrata nella stanza, all’impasto di rumori che fumiga dalla strada, a quella bolla d’aria, al graffio che arabescano la tappezzeria sulla parete opposta. Meglio suggerire al lettore qualche modesto segnavia, scortandolo solo all’orlo del pozzo poetico, al limitare tagliente della quarta dimensione.

Quarta dimensione è il titolo autentico di una raccolta di 17 poemi brevi che Ritsos consacra a figure – femminili, maschili – del mistero ellenico. Scelte da Quarta dimensione, ecco in queste pagine cinque signore della leggenda. Crisòtemi, Ismene, Fedra, Elena, Persefone. Incastonati nella loro cornice formale di carta stampata, sono “monologhi ritmici”. Nessuno sa dire se il Maestro li abbia vergati perché fossero letti con la mente – sussurrando, pesando le pause – o perché qualche voce recitante, d’attrice seduta all’angolo di un palco, desse loro calore di fiato, di saliva, di mano che si ravvia, di tanto in tanto, la ciocca dei capelli. C’è un disegno, in tutto questo. Ogni confessione d’eroina è inquadrata da ragguagli narrativi, che aprono e poi siglano i diretti discorsi. E fra questi racconti spiccano somiglianze. Crisòtemi. È pomeriggio di fine estate. Una giovane giornalista sale alla rocca devastata dove la Signora incarna la sua parte di relitto dei tempi. Fluisce il monologo. Intervista? Testamento? Profezia? Quando il racconto “oggettivo” riprende, è cronaca funebre. La Signora non è piú. Resta di lei una statua sepolcrale, un testo d’intervista, poche gocce di pioggia sulla barba di un servitore anziano, trapassato sulla sua lapide. Ismene. Sera. Un ragazzo, figlio del giardiniere, entra nelle stanze degli incesti. Il soliloquio di Ismene è il ritratto inedito di quella sua sorella maggiore, la pulzella di Tebe, Antigone innamorata della morte. Alla fine, l’addormentarsi solitario di Ismene assomiglia troppo a un decesso. Fedra. Sera di primavera. Irrompe il ragazzo Ippolito. Il monologo di Fedra è un’iniziazione all’amore. Quando la voce si spegne e risentiamo la voce fuori campo del narratore, Fedra è già rigida nel cappio. Elena. Sera. Un “altro” – un ragazzo forse ancora di leva: ma chissà, uno spettro dei ricordi, uno dei fatali innamorati che imbracciavano uno scudo ornato dal viso scolpito di lei – si spinge a visitare il simbolo ancora vivente

della bellezza e della perdizione. E lei regala memorie, di poeti che le hanno costruito intorno mondi, di uomini nudi, umidi nei sudori, nei suoi letti dell’amore. Gli splendori perduti a contrasto con la bruttezza d’oggi (la Signora, però, è principescamente superiore a tutto), delle ancelle gaglioffe che depredano i segni della grandezza di allora. La voce di Elena si spegne, ed ecco la luna tranquilla, ingannatrice. Scena di morte. Di Elena, trasportata all’obitorio come defunta qualunque, restano le statue del parco, sfregiate da ombre d’alberi. Persefone. Giorno pieno. La casa sul mare. Nella stanza, una giovane amica, Ciane l’equorea. La confessione di Persefone è la storia della sua ambiguità, di vivente sepolta in quel connubio desiderato con lo “zio”, che è il sire dei morti, e di trapassata che, affranta, si ritrova nella casa paterna, immersa nell’esistenza. Silenzio. Tutto termina con il fazzoletto che si asciuga svaporando sul pavimento. Era la pezzuola fresca d’acqua con cui Ciane leniva la stanchezza dell’amica, reduce dal viaggio disumano, da sottoterra a quello sfolgorare di spiaggia greca, nel frastuono vivace dei bagnanti. La frescura umi da che si dissecca è il parallelo di una morte. Dunque le parole scorrono sempre da labbra antiche – di Signore, cioè, con quei leggendari millenni addosso – a giovani menti. Potrebbe essere il segnacolo di un passaggio, della vita che, contraddicendo a quei funebri finali ricorrenti, si aggancia caparbia a un sempre fresco oggi. Non c’è vera morte, in questi versi greci. Il Maestro ha una missione: ostinarsi a inneggiare alla vita. Le parole delle eroine sono in ogni poemetto le “ultime”. Le piú vere. Le riassuntive. È una movenza compositiva da tragedia del passato. I maghi dell’antica scena greca sapevano bene quale emozione esploda dalla consapevole agonia monologante. Il tempo della scena s’infuoca se ritrae istanti conclusivi di una vita.

Affacciamoci al pozzo. Apriamo spiragli sulla quarta dimensione. La quarta dimensione è quella che, didascalicamente, si definisce mito. La poesia infrange le didascalie. Non il mito: la verità del tempo. Il regista di cinema Anghelopulos firma O thíasos, “La recita”. C’è un’antica leggenda su un’insanguinata fortezza dell’Argolide. Qui regnavano gli Atridi: Agamennone era il signore dei luoghi. Mosse contro la città asiatica di Troia, per passione di prede e per certe vendette. Lasciò nella fortezza Clitennestra, sposa inquieta, e i figli, Elettra, Crisòtemi, Oreste. L’altra figlia, la gemma della casa, la primogenita, Ifigenia, era caduta sull’altare votivo, immolata dal padre al fine di ottenere, da feroci dèi, il lasciapassare per Troia. È noto. Le conquiste, le glorie dei padri costano salate: figli accantonati, rifiutati, sacrificati negli incendi rituali dei successi. Agamennone, reduce dalla campagna d’armi, è atteso al varco da Clitennestra, che ha in serbo per lui un’ascia da macelleria. Gli spacca il cranio in un momento di abbandono. Questa regina di sangue ha un’attenuante: rappresaglia per Ifigenia adorata. E un’aggravante: adulterio con Egisto, uomo delle ombre nella reggia, nel letto senza sovrano. Rimane Oreste, il giovane maschio della famiglia nella tormenta. Si fa adulto nella memoria del padre massacrato, nel tossico della vendetta, inoculato dagli dèi selvaggi. Impara a roteare una spada e si presenta alla madre. Trapassa i seni offerti al colpo e s’immortala nell’Orestea, armonioso monumento d’orrore dell’ateniese Eschilo. Per Anghelopulos, la spoglia impalcatura della leggenda è un breviario di verità. Come microcosmo, la famiglia è la nicchia perenne di quei conflitti, fra persone sotto lo stesso tetto, che per sbocco estremo hanno il sangue versato, ma che nella cadenza dei giorni si arrovellano in incomprensioni, rifiuti, estraneità, vittorie parziali dell’uno che sottomette l’altro, e quest’altro è una moglie, un figlio, un fratello. Ma allarghiamo lo sguardo e troviamo la storia, con le sue gazzarre di potere.

Anghelopulos inscena la sua Orestea nella Grecia lacerata, negli anni della Seconda guerra mondiale e successivi. Nella famiglia il padre, Agamennone, è un uomo del passato. Reduce, come il suo leggendario archetipo, dalla Ionia: un profugo del l’immane esodo, quando ai giorni del disastro dell’Asia Minore (1922) la Turchia aveva espulso i greci, e milioni di disperati si erano riversati nella madrepatria troppo angusta, troppo arida. E in arco d’anni la Grecia fu sotto il nazismo. Nella famiglia, Egisto collabora con gli aggressori. Spalleggiato dal l’amante Clitennestra, denuncia Agamennone, che cade sotto il plotone d’esecuzione. Oreste è alla macchia, partigiano. Elettra lo guida al covo della coppia. Qui il ragazzo fa esplodere i colpi della vendetta, forse della giustizia. E come quell’Oreste diventa, per i suoi, un eroe, quando, fucilato come disertore, lo ritroviamo sul tavolaccio mortuario di un’anonima caserma. La sua tomba è un’ara. C’è un’inquadratura, fra tante altre del film, che ci rivela la quarta dimensione. Agamennone è in piedi, nel fango del cortile, davanti alle bocche da fuoco naziste. Ragazzi con l’elmetto, estranei, che sbrigano l’incombenza di guerra. Prima della scarica, nella sua lingua di sillabe arcane, l’uomo grida: “Io vengo dalla Ionia. E voi?”. Il tempo si avvera nel ricalco sorprendente fra lo spettro leggendario di Agamennone che rimpatria dall’Asia con il suo trionfo di cartapesta e l’uomo della Ionia che, approdato in Grecia, aveva elemosinato calzoni e camicia per alleviare la sua miseria: il mito non è ricordo di fiaba, né ricamo d’immaginazioni poetiche, ma l’autentico, tetragono linguaggio dei fatti, la struttura sepolta sotto i dispersi cascami dell’esperienza, e l’artista ha il dovere morale, profondamente politico, di farcela splendere innanzi. Questi poemetti trapiantano le Signore del mito nei giorni e nei territori che ci appartengono, oggi. Le strade lambiscono i loro palazzi di ruderi. Le ambulanze accorrono a ritirare le loro spoglie. Tendine fiorate schermano le

loro solitudini. Scintillio di sigaretta accesa nei loro portacenere. Anellitalismani alle loro dita. Nomi perduti nel passato – Fedra, Antigone, Demetra, Menelao – ma, all’angolo della via, inquadrata dalla finestra, la facciata screpolata della Maternità. Restano, di loro, parole e statue. Queste Signore di Ritsos sono altre eroine. Altre nel senso che, nei racconti solenni, si adagiano talvolta all’ombra di maggiori signore. Crisòtemi, piú che d’identità propria, esisteva come riflesso di lei, della sorella estrema, Elettra gigante dei dolori compressi in odio. Persefone, la fragile, l’esile rapita tra i fiori di Sicilia, era la proiezione del desiderio materno, di Demetra imperiale del grano dorato, della terra culla di vita: e finiva come pallida consorte del dio dominatore, Plutone della morte. Il Maestro le riscatta. Ci svela i segreti. Che fine aveva fatto la nascosta, la remissiva Ismene? Tutti sapevano di lei, di Antigone folle di pietà. Ma l’altra sorella, uscendo dalla sala maledetta di Edipo, come terminava i suoi giorni? Ora lo sappiamo. E, non senza sgomento, apprendiamo che l’eroismo maiuscolo – quello travestito dalle gramaglie, con la sua aureola ghiacciata di sacrifici, di rinunzie, d’idolatria per la morte – può essere il risvolto dell’egoismo piú sinistro, di un culto immaturo di sé, di disastrosi ritardi nella crescita, del terrore per gli scottanti regali che solo la vita, e l’amore, sanno fare.ù Nessun manuale di mitologia, neppure il piú informato, il piú ricco di note puntigliose, può sfidare l’intrinseca esattezza del Maestro. Che vanta con la mitologia “classica” un rapporto felicemente equivoco. Ne ruba i frutti, come un superbo predatore, e li snatura trapiantandoli nei suoi giardini dell’Atene, dell’Eleusi, della Diminiò, della sua Samo di oggi. In un certo senso dissacra, smitizza. Ma, insieme, compie un’opera di restauro mitologico di finezza e precisione senza eguali. Il Maestro va oltre il dato

mitico. Completa il disegno. Due esempi stupendi, da togliere il respiro. Elena. Terzo Canto dell’Iliade. La teichoskopia, “rassegna dalle mura”. Elena, piú bella di una dea, si mostra sugli spalti: vi incontra Priamo, il vecchio re di Troia, e per accontentare una sua domanda di anziano curioso gli indica, con il gesto e per nome, i guerrieri greci assedianti schierati nella pianura. Non capivamo il perché di quell’apparizione. L’Elena del Maestro confessa che sbocciò sul bastione con un fiore tra i seni, e un altro tra le labbra per nascondere il sorriso della libertà. Avrebbero potuto colpirmi da entrambi i lati con le frecce. Mi offrivo a bersaglio camminando lentamente sulle mura, stagliandomi nel cielo porporino della sera. Tenevo gli occhi chiusi per agevolare un gesto d’ostilità da parte loro – ben sapendo in fondo che nessuno l’avrebbe osato. Le loro mani tremavano per il bagliore della mia bellezza e immortalità. Dopo questi versi, Elena è davvero piú immortale: donna della sfida, un sorriso impedito dal fiore, ebbrezza d’invincibilità. Ismene, scrigno di rivelazioni, fra le quali, terribile, Antigone del non amore, lei, mia sorella [che] regolava tutto con un si deve o non si deve… Antigone che non indossò mai un gioiello, e seppellí in un baule perfino il suo anello di fidanzamento. Com’era la vita con Antigone, nella quotidianità della casa ? Nessun professore di mitologia ce lo comunica. Il Maestro ci folgora con la verità: E se a volte faceva tanto d’aiutare a tavola, di portare un piatto, una brocca,

avresti detto che teneva in mano un teschio e che lo posava tra le anfore. Nessuno piú s’ubriacava. Questo è un punto di non ritorno. La quarta dimensione. Il mito si estingue. Entra la vita con la sua pienezza ingombrante. Dal 1990 Ghiannis Ritsos è quieto sotto la sua lapide di Monemvasià. Di lui non restano statue. Forse gli anelli. Di certo le parole. Dicono che le donne di Tracia decapitarono il poeta Orfeo. Ne inchiodarono la testa sulla cetra e l’abbandonarono alle onde. Il vento faceva vibrare le corde canore. Palpebre chiuse, nel volto sbiancato del poeta. Ma la lingua continuava a ritmare gli esametri sonanti.

Ezio Savino

Crisòtemi (Tranquillo, assolato pomeriggio di fine estate. Qualche rara nuvola. Una sorta di primo sbuffo dell’autunno. Una giovane giornalista, inviata per conto di una grande catena di giornali, s’inerpica su per l’antica, mitica collina, oltrepassa i propilei sguarniti, sale i gradini di pietra e bussa al battente del palazzo signorile mezzo diroccato. Sente il calore del metallo nella palma della mano. La vecchia Signora in persona scende ad aprirle. L’accompagna in un grande salone che odora di polvere, di rose appassite,

di velluto muffito e di seta. La giovane le si rivolge con grande rispetto. Le spiega lo scopo della sua visita, – parla di un’intervista. Poi soggiunge qualcosa sulla sua “libertà pura, silenziosa e solitaria”. La Signora, visibilmente commossa, col volto pallido e rugoso soffuso d’un rossore infantile, continua a rigirare con il pollice e il medio della mano destra uno strano anello che porta all’anulare sinistro. L’ascolta con un’attenzione e una gentilezza che tradiscono appena un’espressione assente, un certo imbarazzo e una sorta di vaga predisposizione. Silenzio. Di quando in quando, i cristalli polverosi del lampadario mandano un bagliore. Fuori, in giardino, s’ode la voce pacata del vecchio giardiniere – forse parla a un uccello, a un cane, o forse a un fiore. E subito dopo le cicale, in un impeto improvviso. Allora, la vecchia Signora, come incoraggiata e protetta da questo confuso frastuono, comincia a parlare in tono misurato, da cui traspare tuttavia l’inflessione di una lontana, inspiegabile felicità. Un uccello si posa sul davanzale della finestra. Fa un cenno. Vola via.)

Com’è che si sono ricordati di me? Nessuno si ricorda mai di me. Nessuno s’è mai accorto di me. Non che mi lamenti. È andata bene cosí, anzi, forse, a pensarci, meglio. Sapete, coll’andar del tempo ogni cosa, per quanto amara o orrenda, ci sembra indispensabile, perfino utile e bella. Come quest’aspra montagna sopra di me, era una compagnia – una protezione quasi, – mi vestivo della sua ombra. Dunque, da questa mia inapparenza, mi compiacevo di vedere e ascoltare. Potevo sognare liberamente. Era bello, davvero – come fossi vissuta fuori della storia, in un mio spazio intatto, assoluto, protetta, e allo stesso tempo presente. Passavo ore intere a osservare l’acqua racchiusa in un bicchiere con gli steli marci

di fiori dimenticati; – una sostanza vischiosa e vellutata restava nel bicchiere, invadeva la camera e la casa – E quella spossatezza dilatoria – piena di cortesia – non poter prendere i fiori e gettarli fuori dalla finestra, in giardino, e lavare il bicchiere; – e perché poi? – La corona marcia sarebbe misteriosamente rimasta nel bicchiere, nella casa, intorno alle nostre fronti – qualcosa di profondo e terrificante, cui non mancava peraltro una certa grazia. A quale scopo, allora, intervenire? Ho appreso molto presto che non ci è dato scongiurare niente. Di sera l’alito caldo dai muri delle case si riversa per strada; l’ombra di un cavallo immenso svapora al chiar di luna. Se questa non è una risposta a qualcosa, non c’è risposta allora. Grandi feretri sono passati da questa porta – grandi come navi; morti in uniformi ufficiali, con alti elmi, ricoperti di fiori e bandiere, e altri nudi, vestiti solo di pallore e incertezza, e una ragazza sgozzata, con un velo bianchissimo, immenso; il vento sollevò in alto il velo, l’annodò a una nube primaverile e quello restò lí, a ondeggiare solitario, rischiarando di tanto in tanto con riflessi azzurri la corte e la scala. Potevano anche essere i riflessi degli aquiloni che facevano volare nel campo vicino i suoi coetanei, perché ogni tanto cambiavano i colori; – li vedevo sulle cosce e sui seni di una statua nel giardino. Ma di nuovo non erano se non le ondulazioni blu del velo bianco. Se ne sono andati. Non è rimasto niente. Hanno speso tutto per il loro nome

non già per se stessi – (perché noialtri invece?). E senza rimpianti. D’altronde era tardi ogni volta per rimpiangere. Non serviva. Al ritorno dal cimitero, avevamo tutti gli occhi a terra. Si faceva un lungo silenzio, tanto che si poteva credere che da un momento all’altro ci saremmo finalmente messi a pensare. E d’improvviso s’udiva forte il galoppo di migliaia di zoccoli nella pianura e per le strade – i cavalieri spuntavano da dietro i pioppi; sbarravano i passaggi; bandiere a mezz’asta e altre spiegate in mezzo alla sparatoria. Non sapevi chi arrivava e chi partiva – che cosa succedeva. Chi correva, chi si nascondeva, chi scriveva qualcosa sul ginocchio, chi si suicidava, chi veniva fucilato all’alba contro il muro nudo del mattonificio, chi collaborava, i due bottoni del gilè ancora sbottonati. Vacche abbandonate passeggiavano al mercato con aria riflessiva, guardavano gli orologi, gli specchi, le vetrine dei negozi come dovessero comprarsi una pelliccia nuova. Una vecchia bilancia giaceva rovesciata nel grande magazzino. La raddrizzarono alla svelta e si rimisero a pesare sacchi, barili, casse, ceste, bidoni, damigiane. Alcuni pesavano i loro bambini. Uno portò a pesare un uccello. L’uccello spiccò il volo; uscí dalla porta. Quello gridò: “Non ha peso, non ho peso, non abbiamo peso; ci perdiamo; ci siamo perduti; abbiamo perso il nostro peso; voliamo” – e spalancava le braccia come pronto a spiccare il volo. La sua risata s’udiva ancora a mezzanotte passata, vicino al fiume. Poi piú niente. Né imprecazioni né applausi. Unica forma di libertà restò il silenzio. Nei campi abbandonati

allignavano le ortiche, gli asfodeli e certi strani cardi dai fiori dorati mai visti, come stelle della desolazione. I pozzi disseccati – se vi gettavi un sasso urtava contro un sasso, e l’eco si ripeteva in una profondità infinita fino all’estremità opposta; e se ti affacciavi per specchiarti, un occhio solo, oscuro, senza ciglia, ti fissava negli occhi, rendendo concavo tutto il tuo viso come una buca poco fonda. Piú tardi cominciarono i grandi freddi. Branchi di lupi calavano nei paesi e nella città. Tutti si barricavano in casa. Già nevicava. Un bianco indescrivibile aveva ricoperto i tetti, gli alberi, la memoria, come per pietà, per perdono, – come quel velo di cui vi dicevo – e dietro si distingueva tutto il nero, indiviso, anodino, calmo. I primi albori trovavano per le strade pecore morte, asini, cani, certi cavalli rinsecchiti e afflitti. Le api avevano abbandonato gli alveari. Il mais, l’orzo, il grano rincaravano. Tuttavia, un mattino, aprendo le imposte, vidi attorno alla cinta del giardino un mucchio di girandole di carta infantili. Può anche darsi fosse quello che voleva pesare l’uccello. Per strada si udí di nuovo il grido di un ragazzo che vendeva ciambelle; – la sua voce e il profumo di pane caldo e sesamo ridavano forma agli alberi, alle porte, alle mani e ai volti. La luna trasparente del mattino si ritirava con passi colpevoli, rosati, di fianco a una scala di servizio a chiocciola di ferro arrugginito. Allora chiamai la mia sorella maggiore. “Guarda, guarda”, le dissi. Contavo le girandole: “due, tre, sette, sedici, diciannove”. Lei si voltò da quella parte; non vide niente; mi lanciò un’occhiata e se ne andò furente. Io me ne dolsi, come fossi in colpa.

Mi sporsi di nuovo dalla finestra. In effetti, niente. Le girandole erano sparite. Un giorno di quel tempo antico, giú in giardino, – ricordo – la musica delle cicale, piú o meno come oggi, scendeva dai pini nella luce chiassosa, interrotta a tratti da un alito di vento. Le foglie d’eucalipto allora sfioravano il silenzio per un istante. E le ombre per terra diventavano azzurre e d’oro, oblunghe, oscure. Ben presto si spegneva di nuovo ogni cosa. Ma quell’esiguo silenzio restava come una macchia viola nell’aria colma di luce. Ricordo le poltrone di vimini del giardino, calde dal sole, rimanere circostanziate, sicure, fidate, sulle quattro gambe. Soltanto questo. E quella macchia, come da un vetro lontano di finestra, si spostava dalle poltrone intrecciate al tavolo, e si fermava lí vicino ai cucchiaini d’argento. I bicchieri della colazione sotto gli alberi diventavano allora blu con macchioline verdi. Un giorno si versò dell’acqua sul vestito di mia sorella – una chiazza turchina vi si disegnò sopra. “Dammelo che te lo lavo”, gridai. “Non è niente,” disse; “l’acqua non macchia”. “Dammelo, dammelo”, gridai di nuovo. Tutti mi guardavano. Tacqui. E la chiazza s’ingrandiva, copriva il vestito intero, le sue mani, i suoi piedi, il viso, – mia sorella era diventata azzurra; solo la punta di un suo sandalo rimase bianca. Nessuno nota l’evidenza. Il resto – oh, il resto – quale? – spostamenti, occupazioni, gesti nell’immutabile e nell’inamovibile, come si dice. Non vedono niente. È meglio forse? È peggio? – Chi lo sa? – Non vedono. Mi sono ritirata quaggiú. C’è calma. Non giunge nemmeno l’eco

delle nascite, dei matrimoni, delle morti. Sono stanca. Sempre le stesse cose – gli uni salgono, gli altri scendono – primi, secondi e terzi tutti uguali, (e anche i migliori, una volta al potere – lo sapete). Un muro con ganci arrugginiti fino in cima, nella notte. Mai una volta sono riuscita ad afferrare un gancio per salire; – non ci ho provato, naturalmente; mi perdevo a guardare una stella sciolta nell’acqua come una goccia di limone nel tè, – imbiondiva un po’ l’oscurità. Avevamo tutti paura. Ma loro forse di piú. Intanto questa faticosa ripetizione, alla lunga, finiva per trasformarsi in qualcosa di bello, di salutare quasi; – ti dà l’impressione, come dire, dell’effimero e dell’eterno allo stesso tempo – una serena continuità, qualcosa di sconosciuto e familiare, che ti risolleva; – un’idea d’eternità terrificante – ma pur sempre d’eternità. Un sorriso tranquillo è appeso dentro di noi, come s’appende in una stanza nuda un quadro – un’antica battaglia navale su fondo verde scuro, di notte, con macchie rosse e d’oro; in un angolo davanti, sulla sabbia, si scorge un vecchio marinaio zoppo; ha acceso un piccolo fuoco e ha sistemato la sua pentola su due pietre – cosí solo, cosí reduce, come fuori del mondo, poggiando l’universo sopra due pietre affumicate. Senti un profumo di zuppa di pesce in questo quadro, un profumo d’umiltà, di libertà muta – la sola. Ti viene l’acquolina in bocca; – impari di nuovo ad aver fame – e ti piace. Quanto al resto, – non abbiamo mai saputo né di che cosa né di chi è la colpa. Da prima hanno tirato a sorte. Non mi andavano i giochi d’azzardo, le lotterie. Non ho mai giocato. Un

giorno mia madre comprò un biglietto a mio nome. Quella volta vinsi un grande vaso cinese; – si trova ancora nella stanza che fa da ripostiglio. “Strano”, disse mia madre, “che abbia fortuna questa figlia. Strano”, ripeté. “Strano; strano”. Io sorridevo. Col passare degli anni, tutti se ne dimenticarono. Io me lo ricordavo. “Ho fortuna, ho fortuna”, continuavo a ripetere scendendo la scala interna, di sera, o mentre mi coricavo a luce spenta, osservando, attaccato al vetro, il sopracciglio rosa della luna nuova; – “ho fortuna, ho fortuna”. E allora, un esile risolino di bambina si versava, come acqua dal collo stretto di un’anfora, dall’alto di una finestra illuminata, sopra la notte del giardino estivo. Oh, sí, son sempre stata fortunata; – strano. Io stessa non ci volevo credere. Me ne sorprendo ancora adesso; – di qui la mia soggezione e la mia riconoscenza quando capitava qualcuno, il precettore, l’insegnante di musica, o il giardiniere, ad augurarmi “buona sera” o “buona notte”. Giravo lo sguardo con circospezione per vedere se non salutassero qualcun altro. Un sorriso immenso mi riempiva il viso, mi straripava dalle orecchie; – era sconveniente – lo so – tentavo di contenermi; facevo l’impossibile; niente; – solo aggrottando le sopracciglia si può contenere il proprio riso (e forse hanno ragione quanti sostengono che quelli dalle sopracciglia aggrottate sono i piú affabili, i piú dolci e modesti e i piú forti al tempo stesso, molto forti, – forse hanno ragione); io non ce la facevo.

Di pomeriggio tardi, inverno e estate, nel giardino, o qui alla finestra, sotto l’influsso della stella della sera, sollevavo la mano sinistra a sfiorarmi le labbra, lentamente, con cura, distrattamente, torno torno, come per aiutare il formarsi d’una parola sconosciuta o come dovessi inviare a qualcuno un bacio procrastinato. A quei tempi, spesso, passeggiando da sola in giardino, capitava che mi s’avvicinasse alle spalle senza far rumore la luna, e d’improvviso mi tappasse con le mani gli occhi domandando: “Chi sono?”. “Non so, non so”, rispondevo perché lo richiedesse. Ma lei non ripeteva la domanda. Disserrava le dita. Mi voltavo. Faccia a faccia, noi due. La sua guancia fresca contro la mia guancia; e il suo sorriso pieno – glielo strappavo e via di corsa; lei mi rincorreva intorno alla fontana. Una notte mi sorprese sul fatto mia madre: “Con chi stai parlando?”. “Rincorrevo il gatto per impedirgli di mangiare i pesci rossi”, risposi. “Stupida”, disse mia madre; “non crescerai mai”. Proprio in quel mentre, il gatto mi si strusciò davvero sui piedi. Un grande pesce rosso si lanciò fuori dalla fontana. Il gatto l’afferrò e si nascose tra le rose. Gridai. Lo rincorsi – (temevo che mi mangiasse una mano della luna); mia madre mi credette. Avviene sempre cosí. Non sappiamo piú come comportarci, come parlare, a chi, e che cosa dire. Restiamo soli con invisibili travagli, in guerre invisibili, senza vittoria né sconfitta, con una moltitudine di invisibili nemici o, semmai, di ostilità. E nel contempo con una folla d’alleati – invisibili anch’essi – come la luna del vecchio giardino, come il pesce rosso e perfino il gatto. Un’altra notte (nella sala faceva un caldo insopportabile – era estate;

finestre aperte; tende tirate), mia madre sembrava in collera, cosí mio padre e la mia sorella maggiore; parlavano a voce alta – la loro bocca piena di tenebre s’ingrandiva; a tratti le lampade rischiaravano le loro lingue come se stentassero a inghiottire un sorso di luce; non ci riuscivano; gli andava di traverso; si soffocavano a vicenda. Li guardavo. Non distinguevo una parola. A quel punto un pipistrello entrò dalla finestra portando con sé un po’ di stelle, un brandello di notte vellutata, due foglie di gelso (sí, di gelso), il tenue belato di un agnello vicino al fiume, nell’ora in cui la stella dei pastori trema nell’acqua cosí commossa e solitaria che i passeri sospirano nel sonno, girandosi sull’altro fianco, e le pecore promettono al loro dio di diventare ancor piú buone. All’improvviso i grandi tacquero. Può darsi che avessero udito quel belato. Può darsi avessero avuto paura del lontano, del bello, dell’ignoto. Comunque l’udirono. Allora mia madre afferrò un tovagliolo dal tavolo e diede la caccia al pipistrello; per poco non si spegnevano le lampade. Ah, come l’amai mia madre in quella posa – quantunque altezzosa, aggressiva, imponente come sempre, – col tovagliolo bianco sventolante in mano – come un uccello monottero incapace di spiccare il volo. Nei grandi occhi le brillava il desiderio segreto di fuggire nella notte, nella notte totale. Presi a mia volta un tovagliolo e glielo misi come una seconda ala nell’altra mano. Lei sorrise con aria complice; poi subito:

“Ma sei impazzita?”, disse infuriata. Il pipistrello era fuggito; e insieme era fuggito anche il fiume; – feci in tempo a vederne la lucente falcata mentre scavalcava il davanzale. La disputa ricominciò piú accesa. Non m’importava. Ero tranquilla. Mi facevano solo pena. Avevo anch’io i miei alleati segreti, – ve l’ho detto, – perfino una seconda ala agli occhi di mia madre. Quel “non crescerai mai” aveva smesso di amareggiarmi ormai da tempo – lo avvertivo, anzi, come una sorta di privilegio – la mia seconda vista, la mia gioia segreta. Sul far del giorno uscivo sola nella frescura innocente del giardino. Passavo ore intere a guardare gli uccelli. Molto spesso, qualche passero si posava per terra e camminava scherzoso, scimmiottando con precisione le ragazze al loro primo appuntamento; – non lo dissi alle ragazze perché non se la prendessero con tutti gli uccelli; benché morissi dalla voglia di comunicare la mia scoperta, o – perché no? – la mia rivelazione – cosí credevo allora (e forse ancora adesso); – cose insignificanti come questa formano a volte il nostro viso e il mondo, – non è cosí? Questo può darsi lo sappiano gli uccelli, ed è forse perciò ch’essi non intendono crescere troppo – forse per prudenza, o forse per paura; cambiano colore, si nascondono tra le foglie. (“L’inapparenza”, diceva il mio vecchio precettore, “è la maschera della profondità”). Il loro canto, però, ah, non ce la fanno a nasconderlo fino in fondo; e allora tutte le frecce e le fionde sono rivolte verso la loro voce, – si tradiscono da soli. Da bambina non mi hanno mai regalato una bambola per la mia festa.

Raccoglievo le bambole rotte della mia sorella maggiore. Rincollavo loro le braccia, le gambe, i capelli, gli occhi. Confezionavo vestiti nuovi; le pettinavo; – diventavano belle – piú belle di prima. Mia sorella me le invidiava; me le riprendeva. Soffrivo, ma non gliene volevo. Piú che altro mi spiaceva per mia sorella; – non le bastava niente. Un giorno andò perso un occhio della bambola piú bella – un grande occhio tutto blu. Avete mai visto una bambola con un occhio solo? – Un foro; un abisso; – dal fondo del quale ci guarda qualcosa d’indefinito, di distante, di familiare; – proprio con questo foro mi guardava, mi si confidava la bambola; era il suo occhio vero. Diventammo amiche. A distanza di anni, dopo il lungo viaggio di mio padre, ritrovai quell’occhio in una scatola nera di velluto. Non dissi niente a mia sorella. Lo feci incastonare in un mio anello; nessuno se ne accorse; e tutti ammiravano una pietra preziosa tanto rara. Per questo vi dicevo – oh, sí, è stato tutto bello; – che senso potevano avere tristezza e gioia nel nulla piú compatto? – che importanza in questo paesaggio felicemente indifferente, – non indifferente – una morte senza fine, ben disposta; – e dico “ben disposta” forse trasfondendole il mio umore momentaneo in questo crepuscolo fiammeggiante – che colori, dio mio – o mettendomi nei suoi panni (i miei panni comodi, effettivi), come se fosse il nostro specchio segreto che ci mostra struccato e tutto intero il nostro volto, puro, infallibile, bello, quasi immortale – ma perché quasi? – realmente immortale. In una grande stanza disabitata era appeso da anni

un vecchio specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza non entrava nessuno. Vi gettavano alla rinfusa tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini, ritratti di avi e altri di generali degradati, di poeti e filosofi, vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo, grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero, teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli multicolori impagliati, azzurri e d’oro, coi becchi adunchi – di cui ignoravo il nome, attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti, di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio. C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque, lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce – era l’occhio della stanza cieca piena d’anfratti. Quell’occhio regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione, immortalandole anzi; – memoria sacra nell’oblio profondo. Una sera, salii su un baule e mi guardai allo specchio; non vidi niente – niente, soltanto luce, – una luce oscura, come fossi io stessa tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora, (o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non ebbi alcun timore. Quel ragno non ero io. Un corpo estraneo, esilissimo scivolava sul cristallo, con innumerevoli zampe spigolose, – le vedevo ingrandite, con le punte lente, in movimenti lenti, in un tempo lento, immobile quasi. A poco a poco distinsi anche il mio viso materiale, rosato e viola, ombrato;

gli occhi d’un verde marino, estatico, e intorno a me sempre quella luce indefinita, – aureolata nella mia solitudine, nel mio abbandono, nella mia inapparenza. Non riuscii a sopportare quella felicità segreta: essere luminosa, con una sottile maschera di realtà rosa e viola. Saltai giú dal baule, afferrai una vecchissima chiave abbandonata su un lavabo di marmo, e stringendola la baciai. In quel momento, fuori del portale, risuonò il corno dei cacciatori, stranamente malinconico e stanco – inappellabile. La notte cadeva lentamente, e lo specchio risplendeva sempre sul muro. Il ragno se n’era andato. Io mi sentivo ancora illuminata di dentro, solitaria, identificata con lo specchio, innamorata, stringendo nelle mani la chiave della cantina. Per questo vi dicevo che mi metto al suo posto (il posto che piú mi si addice), al posto della mia morte – cioè della morte. Adesso lo sapete ch’ero una privilegiata. Sí. Di qui la mia vergogna, i miei rimorsi, e mi vergogno ancor piú adesso a confessarlo. Ma quali privilegi? Ho conosciuto la bella, tranquilla, quasi allegra vanità; mi ci sono distesa dentro o sopra, come d’estate su un pagliaio, osservando il cielo vespertino, le foreste, le montagne azzurre, annusando avidamente il fresco tiepido, il timo, il fieno, il fiume lontano, la fragranza del grano mietuto – nient’affatto nel senso del pane, dell’acqua, dell’utilità, – solo nel senso di una messe universale, mitigante, mentre da un colle al l’altro, da una vigna all’altra, i cani dei contadini e dei pastori abbaiavano a una luna piena tutta bianca, madonna con le braccia incrociate senza il bimbo.

Era un gusto – non so – di un blu profondo diluito – un gusto d’esistente inesistenza, rimarcato di tanto in tanto dal movimento di un uccello che si agita nel sonno; – un silenzio tumultuoso – e io ero il silenzio intero e la sua parte. Mordevo un ramoscello di mirto per non gridare. Perché me lo sentivo: la mia bocca s’ingrandiva in un grido d’ammirazione, e i miei denti si allargavano anch’essi, si separavano per lasciar uscire quel grido. Lo trattenni. Mi si sciolse dentro. Questo era il silenzio. E io ero d’aria – potevo spiccare il volo. Ricordo al funerale di mia madre, – una farfalla nera vellutata con macchioline arancioni, passò aerea, si librò sopra il feretro; – ah, la misteriosa leggerezza, – sollevò tutto quanto il nostro peso, si alleggerirono le cose, ci alleggerimmo noi. Soltanto allora poté librarsi anche il feretro; – ed era pesante, carico di fiori e di perle; tirato da sei decine di cavalli passava lento nella canicola. Sudavano uomini e cavalli. D’improvviso compresi che tutti gli ornamenti pesano – perfino i fiori. La farfalla, nera, vi dico, con macchioline arancioni, si caricò in spalla il feretro e scomparve. Tutto s’era spento nella luce. Solo una nube bianca era sospesa sulla collina, calma, guardava altrove – vidi anche quella. (Strano che uno veda con tanta precisione – e con tanto diletto, in momenti come quel li). Tornando a casa, sentimmo odor di sedano, carote e patate lesse. Pranzammo incolleriti, con gesti lenti e ostinati.

Dopo pranzo nostro fratello se ne andò, – inseguito, dissero, dalle Erinni. Niente di tutto ciò. Si allontanò tranquillamente, solo un po’ piú pensoso e curvo. Improvvisamente le stanze si allargarono all’infinito. Non c’era piú un angolo in cui nasconderci. E fuori il giorno assolato continuava, indescrivibile. Le cicale gridavano; entravano in casa; qualcuna si posò immobile sulla tendina merlettata, come una grossa nota lanuginosa, scompagnata – “qui, qui, qui”, gridava con insistenza. “Qui”. – “Qui” cosa? – feci per domandare. Mi trattenni. Non fiatai. Quel giorno le domestiche parlavano a voce alta, sbattevano le porte, sbattevano i piedi sul pavimento, sulle scale (loro, cosí silenziose poco prima), sbattevano le posate in cucina, ruppero anche alcuni bicchieri. Un bel vestito giallo, che mia madre indossava appena ieri, era ancora lí, gettato su una poltrona, – su di esso si concentrava tutta la luce e il silenzio. E il suo spazzolino da denti, appena entrai nel bagno, s’ingrandiva, s’ingrandiva, riempiva tutto quanto lo specchio. Passando dalla porta, mi graffiò il ginocchio. Ebbi timore che m’afferrasse per il vestito e mi tenesse rinchiusa in bagno, a guardare nell’angolo il retino di mio fratello con cui da piccolo cacciava le farfalle. Allora mi avvicinai allo specchio e provai, per la prima volta, a tingermi le labbra, con quel rossetto misterioso e sacro di mia madre. Sulle mie labbra si stese un bel tramonto pieno di rimorsi – un triste bagliore rosso.

Soltanto allora riuscii a piangere, – felice di poterlo fare. E lo spazzolino da denti tornò piccolo – piú piccolo di prima. E piansi per mia madre, per il suo amante, per suo marito, per la ragazzina sgozzata, per l’altra mia sorella (come s’erano svuotati tutt’a un tratto i suoi occhi) – avresti detto che non aveva piú una ragione di vita. Ma piú d’ogni altra cosa piangevo per la fuga tranquilla di mio fratello; – passando vicino alla siepe, spezzò un rametto di ligustro, se lo infilò nella cintura, poi si annusò le dita lentamente. In quella posa, mentre se ne andava, era come se si tenesse il mento per rimanere immobile col gomito appoggiato su un tavolo invisibile. E veramente rimase immobile, credo. Camminava seduto, – forse perché, come dicono, in certi istanti ogni spostamento c’inchioda allo stesso luogo – non ne esiste un altro. Quel giorno piansi per tutta la mia vita, per i cavalli dal portamento fiero, per i cani inseguiti, per gli uccelli, per le formiche, per l’asino del vecchio Stamatis, che pascolava placido in campagna, su un prato giallo tutto secco, – lo vedevo dalla finestra; – “asinello, asinello mio”, gridavo dentro di me – e dicendo “asinello mio”, mi riferivo al mondo. Allora scoppiai a piangere piú forte, forse perché mi sentisse mia sorella, l’illacrimata. Le domestiche ritiravano dentro i grandi tappeti, riscaldati; il loro tepore rosso lo avvertii, sano e intenso, in tutto il corpo. Gli occhi mi si asciugarono. Il mondo era caldo, morbido, scarlatto – compresi i morti. Di notte, a mezzanotte passata, si udí sulla strada,

proprio sotto la mia finestra, il passo di un viandante; – forse nessuno camminò mai cosí sotto la luna, e forse nessuno udí mai, come me, un tale passo. Era il primo uomo venuto al mondo. Era l’ultimo a andarsene dal mondo. E mai nessuno era venuto o andato. Come vi dicevo, il mondo era caldo, morbido, scarlatto – senza nessuno strappo. Solo la luna rinfrescava la lana di una coperta rimasta sul balcone. All’alba uscii in giardino di nascosto; sedetti sulla panchina piú appartata con un libro in mano, senza leggerlo. Uno strano animaletto cadde sopra la pagina. Lo scostai un poco. Allora quello si rovesciò sul dorso, agitando in aria innumerevoli sottilissime zampe – un universo intero con migliaia di movimenti. In quell’istante mi chiamò dalla porta mia sorella. Nella voce che ci chiama (l’avrete notato) c’è sempre un animaletto rovesciato che all’improvviso si rigira dalla parte giusta e scompare. Si lascia dietro una perplessità per noi: – quale sarà stato il suo posto giusto (e il nostro) questo, o l’altro tra le foglie del sonno, il cadere dall’alto o il volar via? Dopo si levò un forte vento, che spazzava fino in fondo rovi, giornali, lampioncini di carta, allori e ponti; le porte s’inclinavano, restavano di sghimbescio. Quello che fino a ieri era stato il cerimoniere di corte, con il coltello ancora nella pancia, saliva la scala interna. Strisce di sangue solcavano le mattonelle del corridoio. Davanti al balcone la folla urlava con strane bandiere nere. L’enorme statua equestre si schiantò al suolo all’improvviso. Allora la gente in preda al terrore si disperse e lo spazio rimase vuoto.

Il giorno dopo (davvero un altro giorno), scorsi la piazza deserta calcinata dal silenzio. Erano rimaste solo cinque uova ai piedi del vecchio lampione. Una donna uscí dalla stalla con fare circospetto. Prese le uova, che subito si tinsero di rosso. Un’altra donna, spiando dalla finestra dirimpetto: “Le tue galline”, disse, “hanno cominciato a deporre uova rosse?”. E quella: “Sono arrossate dall’aurora”, rispose, e se le infilò nelle tasche del grembiule. Sulla strada comparve un bel soldato. Passò vicino a loro. Le due donne scoppiarono in una risatina gemella. Dalle colline si rovesciò il giorno come latte – profumando veramente di latte. Una donna entrò nella stalla. L’altra richiuse i vetri. Il soldato era svanito nel biancore. Fluttuavano soltanto nell’aria, oscillando dolcemente, quelle cinque uova rosse, come fossero vuote. Questo me lo ricordo bene. Quanto al resto, alle cose dei grandi, non ci ho mai capito niente. Sollevavano le braccia in alto, in alto, come per sostenere una trave che sarebbe senz’altro caduta. Naturalmente, ritenevano maestosa questa loro posizione. Aprivano la bocca rapace, retorica o piagnucolosa – un foro pieno di tenebre in fondo a cui si scorgeva nel chiaroscuro una scala di ferro antichissima, senza appoggio. Sono partiti tutti. E ora me ne sto qui a guardare, a dimenticare, a rievocare. È andato tutto bene. Non mi serve niente, – frugalità che sazia. Poso le mani sulle ginocchia; tocco il vuoto; mi reggo al vuoto. Rimango in piedi su un meraviglioso balcone pericolante, aggrappata alla ringhiera – quasi sospesa in aria. Su queste sbarre

di metallo levigate, percepisco i cambiamenti del tempo, il freddo, il caldo, l’umidità, le stelle – mutamenti figurativi. Un passero, di quando in quando, sta lí e mi guarda; ci conosciamo; non abbiamo niente da dirci. Ricordo un pomeriggio, – mia madre era uscita da poco per una visita; entrai nella sua stanza; m’infilai le sue scarpe – ancora calde dei suoi piedi – ah, quel calore estraneo; – crebbi tutt’a un tratto come avessi conosciuto un inspiegabile peccato. Tutta la settimana non osai guardare negli occhi mia madre. Mi nascondevo dietro i cespugli del giardino aspettando un castigo o una ricompensa, – non so bene. Oh, sí, anch’io aspettavo. Ero sempre la prima a correre quando suonavano alla porta – anche se non era per me. Il postino appariva giú nella piana con la sua borsa di pelle, come avesse un quadrato di luce sulla coscia. Aspettavo come se dovesse arrivare una lettera per me. In mezzo a tante scartoffie ufficiali, rapporti, petizioni, una busta rosa con su scritto il mio nome. – “Crisòtemi, Crisòtemi”, avrebbero chiamato tutti sorpresi. “Una lettera per te, Crisòtemi”. Io avrei preso la lettera indifferente, mi sarei chiusa in quella stanza come si chiude qualcuno insieme a dio, – noi due soltanto, lasciando fuori tutto il mondo, perché il mondo intero saremmo stati io e dio, e la nostra immagine identica nel vecchio specchio. Le altre ragazze stavano tutto il giorno sotto i grandi pini come inselvatichite dai loro desideri e dalla loro bellezza, dispensando ritmi, mossette, risa, con i capelli scompigliati, cosparsi di quegli aghi di pino doppi e secchi, con stupidi orecchini di ciliegie (le macchie luminose che correvano sui muri e sullo specchio della vecchia stanza, forse erano riflesse

dalla rotondità delle loro ginocchia), quando io, dimenticata, sola, fiera d’una fierezza celeste, leggevo e rileggevo la lettera che mi ero indirizzata. (Del resto, non avviene sempre cosí?). Come sono difficili le parole, non vi pare? –. La nostra parola giusta s’indirizza solo a noi stessi, o quantomeno solo noi stessi l’udiamo in modo giusto. Tutto il resto, pretesti grandi o piccoli, mercanteggiamenti, mascherate. A notte fatta, scendevo la scala interna della casa come se mi calassi in un pozzo, intorno al capo quella luce indefinita dello specchio – era quella luce che mi scorreva fino ai piedi, illuminandomi il cammino; – rischiarando anche i vasi dei fiori di fianco alla scala. Nella sala da pranzo avevano già acceso le lampade (per fortuna) – la mia luce non si vedeva affatto – e poi c’erano le conversazioni, i bagliori dei coltelli, e la fame, – come distinguere? La notte si stendeva densa di foglie sulla casa, tutta scintillante di gocce di rugiada e di stelle. Nel fondo si perdeva un cavallo blu screziato d’argento. Gli specchi chiudevano. Nel mio letto sognavo i pastori addormentati, con la guancia appoggiata sul flauto. Al risveglio avranno avuto un segno rosa sulla guancia, come la cicatrice di una ferita d’un combattimento lontano e segreto. I pastori mi sono sempre parsi belli, perché son soli; – e i solitari sognano, e li sogniamo anche noi, in alto, sui monti, tra le macchie, liberi da testimoni, non visti – soli coi soli.

Soltanto l’amore, come dicono, e la bellezza, resistono un poco al tempo – benché io non conosca il significato dell’uno né dell’altra – qualcosa come un tocco leggero sulla nuca. D’estate, a mezzogiorno guardavo dalla finestra la vicina altura. Là in cima s’adunavano i cacciatori sotto gli alberi; mangiavano grossi cocomeri; i loro denti sfavillavano mordendo la polpa rossa – sfavillavano tanto che stringevo la gonna con dispetto tra le ginocchia. Piú tardi restavano per terra a seccare nella calura i semi neri come briciole di una bella notte – ceneri sparse d’incendi segreti, minuscole tracce nere di un rimorso tenero e calmo prima del peccato. A volte un sorriso inspiegabile fluttua nell’aria. Una sera, in giardino, china sul mio ricamo, consideravo la vanità delle cose, l’inutilità del mio stesso ricamo – senza peraltro smettere di farlo – quando un bagliore improvviso mi empí le mani e gli occhi; – due grandi piedi scalzi, giovanili, dalle unghie perfette, m’erano passati davanti. Il nostro giovane giardiniere spazzava le foglie morte d’eucalipto. Non sollevai gli occhi – l’immagine di quei piedi nudi e della scopa mi bastava. Ogni giorno ci lascia qualcosa per la notte; – è difficile a volte il sonno se non hai qualcosa di bello da opporre alle tenebre in agguato. Ora non mi restano a disposizione che le statue – intatte anch’esse, nude, senza allori, o quei trombettieri lontani ritti sulle mura, inscritti nel cielo porpora e d’oro della sera – e non è poco.

Perciò la mia gratitudine e la mia preghiera prima del sonno, e il sonno buono, e il bel risveglio, e la buona morte, – che sia benvenuta; – non mi lamento, – la conosco; ormai siamo amiche; è ad essa che devo quasi tutto: il senso della vita – voglio dire, l’assenza d’ogni senso. L’impariamo troppo tardi – il tocco d’un’ala dolce – d’un’ala intrisa d’altitudine – cosí almeno diciamo – giustificazioni, circonvoluzioni, tristi stratagemmi. Volete che accenda la luce? Comincia a imbrunire. Noi in casa abbiamo mantenuto le vecchie lampade a petrolio; – vedete, ci siamo abituati; ci teniamo, per quanto non mi spiacciano le innovazioni – mi permettono di cogliere, attraverso i mutamenti, ciò che chiamiamo immutabile. Mi divertono molto i progressi nei cappelli, negli abiti, negli ombrelli, nelle automobili, nei violoncelli, nella cucina, nelle prigioni, negli aeroplani, – ah, mio dio, l’immutabile, bello e inesorabile, – ma non ci si convince mai. Le lampade a olio, i candelieri, le lucerne sono stati sostituiti dalle lampade elettriche – vantaggi, inconvenienti. Di notte guardo lontano in città le grandi insegne multicolori; a volte spengo la lampada – lascio che la mia stanza si rischiari di quell’illuminazione lontana – ora azzurra, gialla, viola, ora rosa o albicocca, – una stanza estranea, con luci estranee – io stessa estranea con la cognizione del lontano e dell’irraggiungibile, con quella profondissima cognizione d’un esilio generale, tranquillo, come un’amicizia segreta con tutti e tutto, – già che ormai piú niente ci tocca né di conseguenza ci offende – una fantasmagoria divina.

E la mia stanza – una nave viola e d’oro – che viaggia nella notte, e io da sola sulla nave – senza nemmeno un’ombra di tristezza, – senza remi né timone; – conoscendo quanto siano inutili (e perfino pericolosi) remi, timoni e bussole. Ricordo quella lunga notte – la vigilia del delitto: mio fratello si soffermò un istante fuori sul pianerottolo della scala di marmo, guardò silenzioso il cielo, la testa graziosamente alzata: “I nostri unici remi”, disse, “forse sono le stelle; ma anch’esse non siamo noi a tenerle, – e come si potrebbe?”. Io lo compresi al volo. Mia sorella maggiore non capí. Gli consegnò la spada nascosta sotto il grembiule. Dunque, non abbiamo portato la luce elettrica in casa. Abbiamo mantenuto le lampade – sono piú simpatiche; il vetro affumicato, l’odore del petrolio – un certo calore; e le grandi ombre sul soffitto, sui muri. Ogni tanto vi appendiamo una vecchia forcina per capelli di nostra madre ché non si rompa il vetro. E allora quella forcina mi sembra un minuscolo cavaliere dall’armatura d’acciaio sul suo cavallo di vetro, in una notte di tempesta. Cosí, sempre, tutto in mia madre mi dava l’impressione dell’armatura; – davvero, quale armatura? Ci ha lasciato anche lei con una scure piantata nel fianco come una seconda ala. Poi arrivarono i grossi topi, la ruggine, le tarme, i tarli – col tempo s’imbaldanzirono, rodevano apertamente il legno, i muri, le stoffe, il ferro; non riuscivi a salvare niente. Finimmo per concedergli tutto, – non c’importava niente, –

nemmeno di sentire il loro interminabile rosichío. Proprio in quell’occasione scoprimmo l’indipendenza nella piú completa sottomissione. Dei sorci immensi si sporgevano sulle grandi giare, lappavano l’olio, si arrampicavano sul soffitto, mangiavano i lucignoli delle candele, rosicchiavano avidamente le nostre scarpe sotto i letti. E c’erano istanti in cui credevi che qualcuno camminasse là in basso, negli scantinati, sottoterra, e noi là in alto, immobili, oltre i gesti inutili, oltre il timore della corruzione, incorruttibili quasi, realizzati. Una notte salí sul mio letto un topo – forse s’apprestava a divorarmi una mano. Lo guardai negli occhi, quasi con simpatia. Quello evitò il mio sguardo, si girò e se ne andò. Infine ci abbandonarono anche i topi – non perché non avessero da mangiare, ma perché non li temevamo. Soltanto una volta, ricordo, mia sorella, a mezzanotte passata, rimase a lungo davanti allo specchio a pettinarsi con molta cura. Si tirò su i capelli e si mise un elmo di nostro padre. Si coricò cosí, con l’elmo. Io facevo finta di dormire. Ma lei: “Sai”, mi disse, “ho paura che mi mangino i capelli; e le donne calve somigliano a quelle rapate del manicomio. No, no, non voglio”, e di colpo assomigliò a mio padre. Dopo un po’ si tolse l’elmo, lo posò su una sedia e s’addormentò. La fiamma della candela tremolava verdastra sopra l’elmo. Col tempo tutto si è ritirato, come i topi, come gli adulatori, i domestici o piuttosto come le onde. È rimasto solo un odore di sale,

l’odore di una durata, con noi e senza di noi, – che importa? – quel sale nel pane, nell’acqua, nell’aria – quel che chiamiamo libertà, senza mai sapere che cosa vogliamo o che cosa sia. Ecco quello che mia sorella non riusciva a sopportare. Un pomeriggio s’infilò dentro il caminetto, s’imbrattò di fuliggine – le braccia, il viso, le gambe – poi si mise a guardarsi davanti allo specchio: “Ahi, ahi”, si lamentava, “ahi, la poveretta s’è bruciata, ahi, la disgraziata è tutta nera”, e versava lacrime nere, ma nere davvero, per la fuliggine. Io non sapevo piú che fare; presi un pezzo di seta rossa e lo tagliai a strisce. Allora, subito, lei smise. Guardò fuori della finestra quasi calma, legandosi uno straccio rosso intorno alla fronte. “Il sole – disse – tramonta rosso, – dio mio, se è rosso”. Tutti passiamo, dunque, ci acquietiamo. E all’improvviso s’incendiò la sera rossa, con macchie viola e verdi. Mi avvicinai alla finestra. Nel giardino, sotto una poltrona, si scorgevano un paio di grandi sandali, molto grandi, rossissimi, – non erano di nessuno di noi. Sulle colline cominciarono a suonare le campane del vespro. Una domestica correva sotto gli eucalipti nascondendo qualcosa in grembo. E la notte calava. Cosí sono trascorsi gli anni (come sono passati? – non me ne sono accorta), e io sempre in margine agli eventi, – sono veramente io che ho vissuto, senza vivere, tante e tante vite, compresa la mia vita? Solo, una volta

che mia sorella era in castigo per la sua testardaggine, le portai di nascosto da mangiare e da bere. Ero molto contenta di potermi occupare di qualcuno, che qualcuno avesse bisogno di me. Mi piacevano anche tutti i preparativi, il segreto, il rischio. Ma mi andò male. Mi sorpresero davanti alla porta, e castigarono anche me. Provai una gioia particolare a essere punita per qualcuno e qualcosa; io, votata sempre all’autopunizione, aver meritato infine un castigo per un’azione; – ero molto fiera di questo. Ormai mi era chiaro il rapporto tra le cose, me stessa e gli altri. Ricordo che mentre ero rinchiusa in una stanza contavo i bottoni del mio vestito, ed erano cinque, – non lo sapevo – un bel cinque, – lo vedevo stampato in grande sul muro; – esattamente cinque, quante le mie dita che contavano. Quanto a mia madre, – non è mai stata punita, poveretta. Lei castigava soltanto; (e credo che soltanto i puniti abbiano tempo e modo di riflettere; i puniti soltanto crescono bene – anche se non sembra –, conservando sino alla fine tutti gli stadi del loro sviluppo). Mia madre, sventurata, ha pagato tutto d’un colpo. Non l’ho mai vista piangere o supplicare. Solo nell’istante supremo i suoi occhi oscuri si fissarono, immensi, attoniti, bellissimi, come se avessero intuito di colpo tutto il senso della vita, tutta la vanità d’ogni potere, forse anche tutto il senso della bellezza – sempre inaccessibile e tuttavia vissuta. “Il senso del bello”, ricordo diceva il nostro precettore, “è connesso sempre all’idea dell’inutile”. E solo il bello credo che possa reggere

di fronte all’inesplicabile vanità del tutto, senza speranza di giustizia o di redenzione. – Ah, quel nobile disinteresse. Mia sorella non ammetteva l’inesplicabile, – per questo, forse, perse la ragione. Soltanto nei suoi ultimi anni le prese la mania di lavorare ai ferri – maglie, calze, guanti, sciarpe, – non che avesse freddo – non indossò mai niente; ne riempí una cassa intera; – la sera vi si sedeva sopra curva, con le braccia incrociate; – oh, sí, doveva aver freddo; – ma non li indossava. Una volta, durante l’infermità,finita ch’ebbe la lana, disfece una vecchia coperta di lino mezzo lisa, filo dopo filo; – si rompeva – un nodo dopo l’altro, confezionò con l’uncinetto – ammirevole saggio di costanza – un piccolo centrino; – e me lo regalò – (nonostante la sua follia, s’era ricordata del mio compleanno). Non ho mai ricevuto dono piú prezioso. Lo conservo sempre. E veramente, ogni cosa bella ha infiniti precedenti e migliaia d’invisibili nodi e un piccolo ago di pazienza con dita mille volte punte. Forse l’altra faccia del bello è la santità, – chissà – non ho imparato nulla. Se n’è andata ogni cosa. È rimasta soltanto questa grande calma. Mi stupisco: ma ero io? – quanti volti – tutti estranei, tutti familiari e amati – il mio volto. E in certi istanti, questa sensazione straordinaria che niente è andato perduto; – niente si perde. – M’intendete? Là, al mercato, chiudono i negozi. Questo rumore di chiavi, catenacci, saracinesche, mi piace molto. “È la fine. La fine. La fine”, sembra che gridino le chiavi, da una porta all’altra,

da una collina all’altra, da un anno all’altro, queste messaggere di bronzo – la fine dei traffici e dei commerci, – non credete? In lontananza i monti azzurrano. Una nuvola rosa respira ancora sopra i giardini. Qualcuno sale preoccupato una scala di legno. Esce sulla terrazza. Guarda. Lassú c’è già la luna, vicino a un bicchiere dimenticato ieri sul parapetto. La luna ci dà sempre l’impressione di un bicchiere, – a volte pieno di latte, a volte pieno d’acqua gelata o tiepida, e altre volte invece pieno di uno strano liquido giallo, in cui si stanno ancora sciogliendo due o tre compresse bianche d’un potente sonnifero, – una compressa lascia salire in superficie una coda di sottili bollicine, un sottile pennacchio d’una vittoria invisibile, tranquilla – un fruscio, dio mio – s’avvicina il buon sonno, senza sogni, l’ultimo. Ormai sono passati gli anni. Mi sento piú leggera, piú pesante. Sono contenta di questa leggerezza e di questo peso. Un sorriso profondo mi solleva per le ascelle; non tocco terra; – mi vergogno che qualcuno mi veda camminare in giardino come un uccello. Mi vergogno di questa leggerezza infantile. Mi apposto qui alla finestra con la pioggia o il bel tempo, – non sono ancora sazia di guardare. Le mattine di primavera mi alzo molto presto, nell’ora in cui le cose dentro di noi e intorno hanno un chiarore calmo, e quella tristezza dolce, inutile e innocente che ha la vita stessa. Il minimo ronzio dell’ala di un’ape lascia una grande ombra lungo tutta la trasparenza. Altre volte me ne sto ad ascoltare le cicale,

queste folli timpaniste nane, intorno ai bastioni, in questi meriggi abbaglianti; – le loro voci non lasciano alcun vuoto; colmano le brecce sulle mura. Laggiú la pianura di grano scintilla in un ansito d’oro. Dunque, non sono sazia. Mi capita ancora di perdermi a guardare una nuvola a occidente, una nuvola strana, come composta da minuscoli specchietti tascabili, – mi abbaglia con i suoi riflessi; m’impedisce di stare seria, tanto piú che sento l’arrivo della notte dietro i riflessi, con tutto che l’aria è impregnata di un sapore di cenere e di cannella in polvere. Con l’arrivo dell’autunno mi piace guardare i tram scoloriti svoltare di fianco alla Maternità, certi lunghi melanconici pomeriggi con gli alberi già spogli, e le grida dei bambini, giú nel campo da gioco, sono cosí tristi e cosí prive di sospetto insieme. Dalla finestra a occidente si vede anche il cimitero con le statue dietro l’uliveto – adolescenti di marmo, uccelli di marmo, angeli dalle grandi ali di marmo – su cui s’accendono e si spengono le fiamme screziate del tramonto. Finché fa sera, e le statue imbiancano tranquille – d’un bianco lontano, riposante e consolatore; finché la notte viene a tramutarlo in un azzurro perla con striature rosa. Laggiú c’è anche la statuina della ragazza sgozzata, piccola come un dente che ti ha tormentato a lungo, ma che ti sei tolto e non ti fa piú male. A mezzanotte sento schioccare una tovaglia su un tavolo in giardino. Una nave passa nello specchio. Una scala di corda

è appesa al lampadario della sala. Avverti l’umidità posarsi sulle panchine dei parchi; i licheni rivestire le statue a poco a poco. Poi di nuovo il silenzio. Ormai non aspetto piú niente. Mi fermo qui. Solo di sopra, nel gineceo chiuso, di notte si sente quel battito incessante del pettine sul telaio, che tesse qualcosa (non l’udite?) – un tessuto interminabile dai disegni indefiniti, in un tempo indefinito, in un’attesa indefinita e segreta. Forse è una bàlia dimenticata che tesse l’ultimo corredo per me, la non sposata; a meno che non sia io stessa, in attesa – di che? – non lo so piú. Ah, sí, aspettavo che qualcuno, un giorno, venisse a prendere quella stoffa e il segreto del tessere; – io stessa l’avrei posata sopra le sue ginocchia, come adesso confido a voi queste parole, come avesse importanza solo questo. Vi ho stancata troppo, mia buona amica. Anch’io sono stanca. Vi prego di scusarmi. Ora posso andarmene, felicemente stanca, senza piú sogni e desideri, solo col bisogno intenso e dolce di chiedere perdono di tutto e a tutti. Perdono. Perdono. Scusatemi, scusate quest’essere insignificante, che non ha alcuna azione di cui andar fiera – niente. Soltanto questa letizia di chiedervi perdono, – grazie; – e il mio estremo perdono per me stessa – da lungo tempo preparata e forse giustificata. (S’è fatta notte. Silenzio. La giovane giornalista raccoglie le sue carte, visibilmente commossa. “Perdonatemi”, disse soltanto. “Vi ho stancata troppo”, cosí, come un’eco lontana, e fece per baciare la mano della

Signora. Lei la ritirò discretamente. Poco dopo, il rumore e la luce di un fiammifero, in uno spazio insonoro e immenso. Accese il candelabro. Illuminò la scala interna. “Perdonatemi”, ripeté la giornalista stringendo sotto l’ascella la cartellina con l’intervista stenografata – certa del suo successo personale. Attraversando il giardino, inciampò in qualcosa di molle e oblungo. Rabbrividí ripensando ai topi. Era la canna di gomma per annaffiare. Le panchine del giardino rilucevano per l’umidità, riflettendo il chiarore delle stelle. Un cielo sconfinato, profondo. Una felicità spossata, misteriosa. Il giorno in cui l’intervista fu pubblicata, la vecchia Signora era morta. Due carrozze coperte ne accompagnarono il feretro – tre anziane parenti, il vecchio giardiniere e la giovane giornalista con il giornale in mano. L’intervista fece, in effetti, sensazione. Apparve in un volume a parte, in numerose edizioni. E ora accadeva spesso di vedere, nei pomeriggi di primavera o d’estate, giovani coppiette, zitelle e perfino calciatori, posare un mazzolino di viole o un po’ di fiori di campo sulla sua tomba, di fianco alle grandi corone ufficiali che deponevano ogni tanto le varie associazioni artistiche, culturali, filantropiche o politiche. Un mattino, sui gradini di pietra della tomba, trovarono morto il vecchio giardiniere. Teneva in mano alcune rose bianche, la gabbia coi canarini, un ombrello viola, – probabilmente l’aveva portato per riparare la statua della sua Signora. La sera innanzi era caduta la prima pioggia. Alcune gocce imperlavano ancora la sua barba.)

Ghiaros, Leros, Samo, maggio 1967 - luglio 1970

Ismene (Un giovane ufficiale della guardia aveva chiesto di essere ricevuto dalla Signora del palazzo. Suo padre lavorava fin da bambino nei loro poderi ed era, si può dire, persona di casa. Ormai vecchio e malato, invia il figlio, con un cesto di frutta e un vaso di basilico, a presentare i suoi rispetti e il suo saluto all’ultima rappresentante della grande famiglia sterminata. L’autorizzazione fu concessa. Il giovane ufficiale si presenta nella sua uniforme attillata, bello, robusto, con la cordialità tutta greca della sua origine contadina, ma anche con una sensualità che promana in modo evidente da tutta la persona – senza dubbio accentuata dal contatto con la gente della città e dall’ozio delle caserme. Appare particolarmente emozionato, compiaciuto e quasi eroticamente conturbato di fronte alla nobile signora, tutta imbellettata e stretta nel suo corsetto, ma che conserva tuttavia l’indefinibile grazia di una bellezza lontana, sfiorita. Il giovane posa per terra in modo maldestro il cesto e il vaso, come se avesse fatto qualcosa di sconveniente, e comunica il messaggio del padre. La signora lo fa accomodare di fronte alla finestra. Si informa della salute di suo padre, dei poderi. L’ufficiale parla incessantemente della vita nei campi, dei raccolti, degli alberi, dei fiumi, dei cavalli, delle vacche. La signora, benché distratta, fa mostra di un eccessivo interesse per ogni cosa, osservando le mani di lui, forti, impacciate, posate sulle ginocchia. È un bel crepuscolo primaverile. Vapori di luce rosa entrano dalla finestra aperta. Poi la luce cangia nell’arancio, nel malva, nel violetto, fino all’oltremare. Dal giardino s’odono gli uccelli. Di tanto in tanto qualche bagliore dei suoi pesanti gioielli si riflette sui mobili, sul grande specchio, sui vetri o sul viso del giovane. D’improvviso lui tace. Si fa sera. Un silenzio e un’attesa inesplicabili. Forse

perciò ora prende a parlare lei, come per riempire il vuoto o per scongiurare l’approssimarsi di qualcosa di sconveniente ma nondimeno ineluttabile):

Venite pure ogni tanto; – mi fa piacere. Quaggiú il tempo è lento; ormai piú niente arriva né parte, all’infuori di questo consueto logorio del legno dei mobili, delle travi del tetto, dei pavimenti, delle scale, degli intonaci, degli attrezzi, delle tende, dei cardini – un logorio lento, una ruggine silenziosa, soprattutto sulle mani e sui volti. I grandi orologi a muro sono fermi – nessuno li ricarica; e se qualche volta sosto davanti ad essi, non è per guardare l’ora, ma per specchiare nel loro vetro il mio volto, stranamente bianco, di gesso, impassibile, come fuori del tempo, mentre nel loro fondo oscuro le lancette ferme, proprio dietro la mia immagine, sono un bisturi immobile che non ha piú ferite da incidere, non ha piú niente da asportarmi – paura o speranza, attesa o ansia. Questa lenta austerità moltiplica la distanza da me stessa a me stessa, da un movimento all’altro, da un ricordo all’altro. Occorrerà un intero mese per passare da una stanza all’altra. Una nebbia indefinita aleggia fra tutte le cose. Molte volte, le mattine d’inverno, sto qui dietro i vetri e guardo amichevolmente la distanza; talvolta avviene che passi qualcuno in lontananza, evanescente, una macchia senza viso né carne – non tenti neppure di distinguerla e non t’importa dove va – qui o là – è lo stesso… Gli alberi immateriali anch’essi. Se in quei momenti un taglialegna

tentasse di abbattere con la sua ascia un salice o un cipresso, non vi sarebbe suono, né legno, né ascia. Questa bella indeterminatezza è l’unica realtà – e fa di me un’estranea lontana e invulnerabile quasi, come quella macchia nella nebbia, e questa leggerezza mi piace, benché ne abbia quasi paura. Se mi sfilo questi bracciali, se la notte mi sciolgo i capelli, se sciolgo i lacci dei sandali, soprattutto se mi levo queste pesanti collane, che mi serrano la gola come anelli di una catena, ho l’impressione di librarmi in alto, di volatilizzarmi. Non vorrei. Forse per questo li porto. In un certo senso mi ancorano, benché mi infastidiscano spesso; – li porto anche nel sonno, come fossi un cane che io stessa ho legato a una porta caduta. Un fossato di silenzio – come avete detto – circonda questa casa, rispettabile o no – ne farei a meno. Qui da qualche parte, forse dentro di me, c’è un corridoio stretto e lungo senza lucernari, senza lanterne, senza porte, – non conduce in alcun luogo; odora di tavole marce, di polvere, di muffa, di scarafaggi, di tempo invecchiato; uomini passano in silenzio portando sedie rotte, grandi casse di legno, quadri, antichissimi specchi – Ogni tanto cade un cristallo, un chiodo o una mano livida dall’oleografia di un generale, o un mazzetto di viole dalle mani diafane e delicate di una signora dipinta, – nessuno si china a raccoglierli; né d’altronde si vedono in questa quieta perennità dell’ombra, dove ogni cosa appartiene ormai al regno dell’inutilizzato, all’ineffabile o al silenzio e ai topi. L’unica cosa che si sente

sono i passi dei topi (ma non il loro rosichío – queste cose non hanno piú consistenza, non si rodono), soltanto i loro passi strascicati sui muri e sul nostro corpo o semmai dentro il nostro corpo. Ed è una bella occupazione osservare questo sfacelo silenzioso in un vuoto cosí profondo (senza principio o fine) che ti genera una sensazione d’incommensurabilità, qualcosa come i grandi concetti cui diamo nomi fieri: libertà, immortalità, eternità e altri. E dunque, non sfacelo – poiché queste cose non hanno dove cadere e donde; – una disancorata sospensione, quasi un che d’alato, come gli uccelli per esempio, che volano su e giú o stanno immobili dentro le loro ali; direi un volo immobile nell’assoluta, cortese futilità, un equilibrio estremo – la leggerezza estrema di tutta la materia – dunque anche della morte. Perciò mi vedete cosí felice – se può chiamarsi felicità l’assenza d’ogni fine, d’ogni ambizione – un torpore invernale delizioso con la coscienza assoluta del gelo, anzi con un senso di compassione per quanti soffrono il freddo, discutono del freddo, s’infagottano con numerose maglie, cappotti, coperte per proteggersi. Ah, questa nostra ridicola preoccupazione di proteggerci – proteggerci sempre, proteggerci dal freddo, dal caldo, dalla fame, dalla sete, dalle malattie, dagli errori, dalla morte; e non ci sfiora neanche il pensiero che viene da dentro di noi il freddo, e non c’è verso d’evitarlo. Certo, un po’ di fuoco nel caminetto, d’inverno, è pur sempre qualcosa; –

mi hanno sempre interessato le flessuose movenze di danza delle fiamme, con gli angeli policromi e incorporei, con le loro ombre sul soffitto, sui muri; – l’ombra del gran telaio o dell’arcolaio, l’ombra di una chitarra appesa alla colonna; e soprattutto quando vi sono corpi nudi – le ombre ingrandite delle membra sul loro stesso corpo, come un altro corpo livido e rosso; – l’ombra del seno sotto il seno con la mammella in risalto; l’ombra della bocca dentro la bocca; quella tremenda certezza fisica, quella squisita ostilità, mentre si ergono le membra, e dopo, il loro flettersi gentile in una compunzione profonda, ma non umiliazione. La flessibilità credo sia la misura della grandezza. Quelli che hanno sempre paura non hanno la forza (come ad esempio mia sorella) di chinarsi, e la loro statura non è se non gelida inflessibilità. Dov’è dunque la loro fierezza? la loro virtú? Oh, mia sorella regolava tutto con un si deve o non si deve, avresti detto che preannunciava quella futura religione che divideva il mondo in due (il di qua e l’aldilà), che divideva il corpo umano in due, gettando la parte sotto la cintura. Mi faceva una gran pena, mia sorella. Per poco non nuoceva anche a me. Se l’hanno celebrata tanto è perché ha evitato loro di agire allo stesso modo. Nel suo viso han reso onore alla propria resistenza sconfitta; – si sono assolti da soli, dichiarandosi innocenti e mettendosi il cuore in pace. Se fosse vissuta, oh, certo, l’avrebbero odiata. Il suo solo pensiero era la morte. Mi dico adesso: poiché sapeva che non aveva modo di evitarla, anziché attenderla

giorno dopo giorno, a prezzo d’una vecchiaia inutile, ha preferito andarle incontro, perfino provocarla, nel nome di una nobiltà d’animo astuta e insolente, trasformando la paura di tutta la sua vita e del desiderio in eroismo, trasformando la sua stessa ineluttabile morte in una vile immortalità, sí, sí, vile, nonostante tutto il suo abbagliante fulgore. Come ha potuto sopportarlo, mio dio, lei perennemente adirata per la paura, perennemente terrorizzata davanti al cibo, davanti alla luce, davanti ai colori, davanti all’acqua fresca, nuda? Mai una volta permise a Èmone di sfiorarle la mano. Sempre raccolta come per timore di perdere qualcosa, ripiegata su se stessa, con le mani infilate nelle maniche, con le spalle incollate al muro, le sopracciglia aggrottate, sempre pronta a dare una mano in caso di sventura, sentendosi fiera, forse, della sua sventura – ma di quale sventura? Non indossò mai un gioiello; perfino il suo anello di fidanzamento lo seppellí dentro un baule, portando in giro la sua cupa arroganza tra le nostre giovani compagnie, brandendo il suo sguardo arcigno sopra le nostre risa come una spada di vanità sguainata. E se a volte faceva tanto d’aiutare a tavola, di portare un piatto, una brocca, avresti detto che teneva in mano un teschio e che lo posava tra le anfore. Nessuno piú s’ubriacava. Una notte che noi ragazze e ragazzi giocavamo, qualcuno, nella foga del ballo, ebbe l’ispirazione di scambiarsi i vestiti – che i maschi indossassero i nostri

e noi femmine i loro. C’era uno strano senso di compiutezza, di libertà maldestra in quello scambio, – come fossimo estranei a noi stessi e al tempo stesso giusti e sinceri. Soltanto mia sorella rimase coi suoi abiti neri, in un angolo, pietrificata, con un’espressione di biasimo e antipatia. Scendemmo le scale di corsa, uscimmo in giardino e ci disperdemmo. Le ragazze, vestite da uomo, erano piú audaci dei maschi. C’era la luna – una luna grande come una teglia. Veniva dalle finestre la musica filtrata dal fogliame. Èmone indossava il mio vestito e mi apparteneva al punto che mi misi a ballare dentro la fontana, con l’acqua che mi zampillava sui capelli, sulle spalle, sulle guance, e pareva piangessi; finché, tutta intirizzita, sentii ch’ero divenuta la statua dorata di me stessa, rischiarata dalla luna, di fronte agli occhi ciechi di mio padre. Provo lo stesso brivido ancor oggi. Fu allora che mia sorella scomparve per tre giorni. Credo che avesse trovato rifugio da vostro padre. Fu lui a riportarcela in groppa a un mulo. Pendevano dal basto, rovesciati, due polli bianchi e un gallo multicolore; – rimasi impressionata tanto parevano a loro agio in quella scomoda posizione – la stanchezza, forse? o la rassegnazione? la dolce saggezza dell’ineluttabile? Lei non vi badò neppure. Avresti detto che mia sorella si vergognava d’esser donna. Forse era questa la sua sventura. Forse perciò morí. Ciascuno di noi vorrebbe essere diverso da quello che è. Chi lo sopporta piú e chi meno,

e chi per niente. Il destino, come dicono, ci imprigiona nel cerchio dell’inattuabile per farci ruotare intorno al pozzo in fondo al quale è chiuso, oscuro e inesplicato, il nostro volto. Mia sorella rifiutava ogni ubbidienza o concessione, – inflessibile e disperata. Tuttavia un pomeriggio d’estate, mentre tutti dormivano, scendendo scalza le scale, la vidi davanti alla dispensa della sala da pranzo, con una scodella di sapa sul grembiule, mangiare grandi cucchiaiate di pane inzuppato. Feci marcia indietro. Tutt’a un tratto si udí il canto delle cicale in giardino. Lei non mi vide. Non glielo dissi mai. Né mai lo seppe. Mi faceva pena. Anche lei aveva fame (e lo sapeva). Forse era anche capace di amare. Non tollerava d’inchinarsi di fronte al suo stesso desiderio, che non era, ovviamente, opera sua, sua scelta. Soltanto la sua morte, – no; soltanto l’ora e il modo della sua morte le era dato scegliere. E in effetti li scelse. E quel suo “illacrimata, senza amici”, ma soprattutto quel “senza nozze”, fu la sua sola confessione, il suo primo bel gesto d’umiltà, l’unico suo atto di femminile coraggio, la sua sincerità unica e estrema, come se avesse voluto giustificare la sua amara presunzione. Questo la perdonò ai miei occhi. E quell’altra volta – quando aprimmo il vaso con la sapa e lo trovammo mezzo vuoto (tutti guardavano stupiti), un rossore le soffuse le guance. Io guardavo altrove. Alle finestre il giorno era bianchissimo e difficile, tanto che benedii dentro di me

l’abbagliamento di tutto su ogni cosa. Qualche stupida rosa faceva capolino dal giardino sul davanzale. Compresi per la prima volta che la morte non è nera, ma bianca – non puoi nasconderti. Per quel furto furono punite due domestiche. Credo che già allora avesse ormai deciso la sua morte, – l’aspettava al varco. Era spaventata e impotente per il suo peccato – ma quale peccato? – e perché poi peccato la rispondenza al nostro desiderio? Mia sorella non fu mai tanto bella quanto lo fu da morta; io da sola le dipinsi le guance d’un rosso intenso (forse mi ricordai di come arrossí nella sala da pranzo, davanti al vaso), le dipinsi le labbra d’amaranto e gli occhi immensi di nero col sughero bruciato (lei non si truccava mai). Le misi una collana a cinque giri per nascondere il segno sulla gola, gli orecchini coi due amorini nudi, anelli, braccialetti, e una grossa fibbia d’oro alla cintura. Cosí truccata e abbigliata aveva acquisito una strana somiglianza con me. “Come somiglia a Ismene”, sussurrò una ragazza. Ora aveva rinunciato alle sue decisioni tremende, ai suoi canoni etici, a tutti i pregiudizi e alle ambizioni virili e sciocche. Da morta era finalmente diventata donna. E accanto a lei il suo promesso sposo nudo (come avviene, con tanta precisione, nella morte, che distinguiamo la bellezza del corpo? – forse perché profumavano i fiori d’arancio con cui li avevano cosparsi) e questa giovinezza nuziale, compiuta e disarmata – inespugnabile – Quasi nessuno badò alla salma di Euridice. Le donne tardavano molto a avvolgere Èmone nel sudario, insistevano a lavargli ancora premurosamente a una a una le dita

dei piedi e delle mani, le ascelle, il petto, il pube, e il movimento ch’ebbe (mentre lo giravano), il gesto molle d’abbandono, o piuttosto di resa, mi rammentò quella notte in giardino, la grande luna, l’acqua che mi bagnava; – avrei voluto rivestirlo di nuovo dei miei abiti, – ma non osai. Una farfalla arancione con macchioline nere entrò dalla finestra e si posò sul suo sesso. Le donne di colpo intonarono i lamenti e lo rivestirono in fretta. Allora divenne veramente morto. Fuori, sotto il portico, s’udí il gemito selvaggio di Creonte e il clangore della sua spada che rimarcava il silenzio delle guardie. A volte mi chiedo se non siamo nati unicamente per ammettere che dovremo morire. E intanto, negli intervalli di questo ingiusto dilemma, si fa la nostra vita. Èmone si era allontanato da tutti; non apparteneva piú a mia sorella né ai suoi amici. Una gran calma, quasi un appagamento – questa privazione fisica irreparabile; – una serena certezza: piú nessuno può prenderci ciò che non esiste; la memoria lo conserva intatto in un’esclusività profonda, e anzi a volte lo applica agli altri. Voi avete qualcosa di Èmone – la soggezione che conferiscono forza e integrità; in particolare il mento con quel solco in mezzo. Di sera, quando me ne sto qui, non so perché cinguettino ancora gli uccelli nel giardino; – forse per questo – per il nuovo solco dell’aratro –. Sapete, i morti occupano sempre molto spazio; – per quanto piccoli e insignificanti, crescono all’improvviso; riempiono tutta la casa; non trovi piú un angolo dove stare. Perfino mia madre, cosí modesta, sempre riservata, silenziosa,

ora ha acquisito un incontestabile potere sui vasi per i fiori, sugli utensili da cucina, sulla biancheria, sulle tende piú tirate, sulle ore del crepuscolo, quando comincia a piovere, e il suo lungo uncinetto manda bagliori opachi spuntando dal vecchio cestino da lavoro – è questo il posto della madre, la sua espressione, il suo atteggiamento, il suo pensiero – tutto appartiene ai morti adesso. A volte mi fermo davanti a uno specchio a pettinarmi i capelli. L’intero cristallo è pieno dei loro corpi. Solo sotto le loro ascelle, mentre aprono le braccia immense in un gesto di preclusione, intravedo per un istante una piccola parte ristretta del mio viso o un mio occhio, come fossi guercia. Sui gradini restavano ogni mattina le orme impolverate e ingrandite dei loro piedi nudi. Era arduo per me salire o scendere senza calpestarle. Finché un giorno sentii il nuovo giardiniere salire le scale a due a due – “Signora, Signora, sono sbocciati i garofani”, gridava, ansimava ed era quasi sul punto di piangere. Gli gocciolavano i capelli appena bagnati. Era di maggio. Scesi di corsa le scale. I garofani infatti erano sbocciati. Accanto c’era la fontana. Portammo fuori le gabbie dei canarini sul muretto del giardino, lavammo le ciotoline, cambiammo l’acqua, mettemmo la canapuccia; facemmo colazione sotto gli alberi. S’era scaldato il giorno. M’infilai un garofano tra i capelli. Il pane era squisito. Forse anche quei garofani li aveva mandati vostro padre. Sapeva

che mi piacevano i fiori. Ogni volta che veniva in città mi portava, avvolti nel suo fazzoletto, con un po’ di terra bagnata, bulbi di ciclamini selvatici. Mi aiutava a piantarli. Credo che fioriscano ancora in fondo al giardino. Se volete qualche volta possiamo andarli a vedere. Dite a vostro padre che lo ricordo sempre; per me non è cambiato niente, sí, niente, – e questa è la cosa triste, quando tutto cambia fuori e intorno a noi – case e vetture, volti e mani e armi, abiti e pettinature e i cappelli che portavamo – Ricordo allora le nostre passeggiate pomeridiane in carrozza – quei nostri cappelli tutti fiori, spighe, ciliegie di cera, e quei lunghi nastri che ci sventolavano dietro, lontano, sfiorandoci ogni tanto le orecchie come redini amiche tenute dolcemente dal vento, e che ci costringevano a rivolgere il viso verso l’alto, tirando anche la pelle delle guance all’indietro, al limite, in un gran sorriso (chissà, forse imitando senza volerlo i cavalli della carrozza), – nastri azzurri, rosa, gialli, radici variopinte – come se fossimo alberi del cielo, alberi liberi di spostarsi. E la sciarpa di nostra madre sventolava ancora piú lontano, come un immenso uccello viola trasparente. Quando spuntava la stella della sera, non so come, mi sembrava che il rumore della sua sciarpa mutasse tutt’a un tratto; diveniva come di malaugurio. Mi assaliva il terrore che le avvolgesse il collo e la strozzasse, che l’avvolgesse tutta come fasciavano un tempo i morti. Ritornavamo a casa con la fretta di accendere le lampade, di fare qualcosa.

Le due lanterne all’ingresso montavano la guardia al portale. Piú tardi, quando sorgeva la luna, era simile alla fibbia di un’invisibile cintura, e su di essa tremava l’ombra d’un cigno, o forse la sciarpa di mia madre. Mio fratello minore aveva la mania delle fibbie; ne aveva messa insieme un’intera collezione, di epoche diverse, da uomo e da donna, grossi cinturoni militari o finissime cintole antiche – di forme strane, strane figure e rappresentazioni di uomini, dèi, uccelli, mostri. Una volta me le mostrò. Mandavano i bagliori piú diversi in quel tramonto d’autunno. Non capii niente. Lui mi spiegava, mi spiegava, come se volesse nascondermi qualcosa; mi restava qualcosa di inesplicato, e proprio questo mi era piaciuto. Ed era forse ciò che lui cercava, mettere in evidenza l’inesplicabile. Dominava un bagliore d’un rosso intenso come il sangue, o verderame come le viscere dell’uomo. Ma soprattutto mi restava l’immagine di corpi floridi e nudi dopo il gesto impaziente di sfilarsi la cintura. Quando glielo dissi, s’arrabbiò. (Ma esiste mai al mondo qualcosa di piú inesplicabile, di piú assurdo del pur cosí tangibile – e forse perciò, – cosí mutevole corpo umano?) Fu lui che andò presso gli argivi. Mia sorella aveva un debole per lui. Loro due erano liberi, permalosi, ingiusti. Voglio dire, avevano una concezione affatto personale della giustizia. Non consideravano né la ragione degli altri né l’ingiustizia generale. Cosí perderono se stessi e gli altri. Ma quelle fibbie le conservo; sono l’unica cosa che rimane di lui. Come appresi piú tardi, le aveva raccolte dalle cinture dei morti. Questa rivelazione non cambiò affatto la mia prima sensazione, al contrario la rafforzò.

Strano che fra tanti mutamenti, tumulti, restaurazioni, come dicono, non resti altro, stagliato nettamente al di sopra di tutte le morti, che il corpo umano, indifeso, inesperto, ostinato, meraviglioso. Credo che l’unica bellezza sia l’ignoranza; l’unica virtú la giovinezza; – ma anch’essa quanto dura? quanto duriamo noi? Si rinnova, direte, con le generazioni a venire; – ma per noi no, per noi no – quale rinnovamento, dunque? Ricordo quando raccoglievano gli avanzi del cibo dalla tavola – ossi, pezzi di pane, nòccioli, osservavo con la coda dell’occhio, sapete, quelle spirali d’oro elastiche, magnetiche – le bucce delle arance – pareva volessero riprendere la loro forma. Un grido antico mi saliva alle labbra “no; no!”. – Non dicevo niente; osservavo. Gettavano le bucce dietro il muretto della corte. Non capita anche a voi di quando in quando? Un grido rattenuto. E le notti profumavano di buccia d’arancia. Ringraziate vostro padre da parte mia per i suoi bei doni. E auguri per la sua salute. Abbiamo trascorso bei momenti nei poderi – le nostre uniche belle estati. È là che conoscemmo i cavalli, i platani, le sorgenti – potrei anche dire le stelle. È là che imparammo i nomi di uccelli e piante – gruccioni, cardellini, merli; – una volta mi portarono una pernice in un paniere; pochi giorni dopo morí, cosí inspiegabilmente come muore un uomo. La seppellii sotto i due meli. Non riuscii a piangere. Piú lontano gridavano i ragazzi che si bagnavano nel fiume. Poco dopo, cosí nudi e bagnati, montarono i cavalli senza sella e scomparvero nel bosco.

Forse c’eravate anche voi tra loro. A me non lo permettevano. A me insegnavano separatamente l’equitazione, in un recinto pieno d’ortiche, di erbe secche e malve. Era bello a quei tempi. Mi piaceva molto la vendemmia. Ogni cosa odorava di mosto, la casa, l’aria, l’acqua, gli abiti, le finestre. Guardavo le gambe di quelli che pigiavano l’uva, rosse, rossissime, come tinte di sangue in una battaglia finta cui non mancava peraltro una bella brutalità. E dicevo a mia madre: “Le loro mogli dovranno leccargli i piedi ché non vada sprecato tanto mosto”. E mia madre rideva. Erano molto lunghe quelle sere. Tutto il creato aveva il profumo d’una densa sapa. Miriadi di stelle spruzzavano polvere di cannella sulle cisterne. Un cavallo nitriva nel nostro sonno. Il cavallo di Èmone, sapete, quando lui se ne andò, non volle piú muoversi dalla sua tomba. Io gli portavo da mangiare e da bere, gli davo lo zucchero sulla palma della mano; – non assaggiò niente. In una settimana se ne morí anche quello. Poi tutto fu tranquillo. Ci spartimmo le loro vesti. Chiudemmo a chiave le loro stanze. Nessuno pronunciava piú il loro nome. Coprimmo anche gli specchi. Forse vostro padre vi ha detto che anni difficili passammo. A che gli è servito, mio dio, che ci hanno guadagnato? – Fastidi, seccature, costrizioni, eroismi senza scopo; – grandi porte s’aprivano, si chiudevano nella stessa oscurità; maschere di gesso, di bronzo, d’oro, di velluto,

astuzie, lusinghe, travestimenti, – per nascondersi a chi? a se stessi? agli altri? al destino? E quell’insaziabilità di gloria – credo che la gloria si fondi sempre su un’infinità di malintesi e senza dubbio sul rifiuto della vita – ma a che serve, allora? Un uomo gridava da sotto le pietre – forse dal fondo di noi stessi – gridava, gridava; nessuno lo sentiva; avevano fretta di andare – dove? –, di fare – che? Non avevano un momento tutto per loro per spogliarsi, coricarsi, sognare dentro il proprio corpo, guardarsi in uno specchio, guardare qualcun altro; si guardavano solo negli occhi degli altri – che cosa potevano vedere lí dentro? forse quello che volevano, non certo quello che erano. Un giorno, nella sala da pranzo entrò un uccello. Restarono tutti a bocca aperta; non sapevano che cosa rispondere, benché nessuno li interrogasse; montarono in collera. “Cacciatelo, cacciatelo”, gridavano; si alzavano dalle sedie, agitavano le mani; ruppero due bicchieri; l’uccello uscí dalla finestra; i domestici chini raccoglievano i vetri – li osservai: soltanto loro sorridevano – conoscevano l’uccello; gli strizzai l’occhio e sorrisi con loro. Gli innocenti hanno sempre (non credete?) l’aria colpevole. Lo sapete anche voi – ne sono certa. Non mi ha mai abbandonato il timore che un giorno mi mettessero sul trono. Soltanto coloro che temono se stessi aspirano alle cariche, o, piú ancora, coloro che odiano la vita e gli uomini. Non mi sarebbe piaciuto affatto essere celebre, non avere un’ombra, un angolo in un dominio segreto tutto mio, dove sfilarmi lentamente i sandali,

giocherellare con le chiavi dei miei cassetti nella mano noncurante, abbandonata fuori del letto. Mio padre, poveretto, – me lo ricordo sempre – aveva il viso come una mano contratta, agganciata a una grande tenda nera per farla cadere; tanto che a volte mi dico che forse è stato un bene che si sia accecato – forse almeno cosí sarà riuscito a vedere dentro di sé, a ricordare a poco a poco le cose che non aveva visto; e forse cosí le vide veramente; perché fino ad allora era il suo volto autoritario (beninteso adulato) che vedeva negli sguardi dei suoi sudditi spaventati; – e di lui come di loro fin da bambina avevo compassione. È un peso insostenibile, suppongo, governare e dare ordini. E in definitiva avviene sempre che ognuno è governato da ciò che governa; – senza contare quell’immenso sospetto nei confronti di tutti e tutto, – l’ombra di un uccello che attraversi la sala per caso, nell’ora del crepuscolo, è un pugnale brandito fatto d’un metallo silenzioso. Perciò i tiranni diventano ogni giorno piú tiranni. Quando la gente ha paura o bisogno di te, non sai mai quello che ti aspetta. Meglio, dunque, non governare e non essere governati (e come fare ?) – basta il governo che ci suggella prima della nascita; basta la morte in agguato; – almeno con lei familiarizzi; quanto alle cose intermedie, perdono il loro acume. Il corpo si rilascia, sbiadisce il colore dei capelli, delle finestre, degli occhi, si disserra la mano dentro cui avevano deposto una grande moneta d’oro massiccio, e tutta la nostra vita era una contrazione per conservare questa moneta, un timore che non cadesse, che non andasse persa; tanto che diventava inservibile la

mano, diventava inutile metà della nostra vita, tutta la nostra vita. Ora la mano si è disserrata da sola, si è arresa; la moneta è caduta; ce l’hanno presa. Solo che nella palma resta il marchio profondo di quell’interminabile stretta. La carne s’è ammollita, placata. Ormai puoi muovere liberamente le due mani. Puoi camminare muovendo senza timore le mani libere nel vuoto – un remigare lento e leggero nella superba inutilità, finché ti mettono un’altra moneta di bronzo in mezzo ai denti. È inutile mentire – come diceva anche vostro padre. In questo corpo ammollito rimane sempre consistente, tenace, il desiderio; e quella sensazione di un ingiustificabile ritardo. Spesso le donne, in momenti come questo, abbracciano le statue, ne baciano le bocche di pietra, sognano di coricarsi con esse. Se vi è mai accaduto di vedere bagnate le labbra delle statue, è per la saliva di donne desolate. La memoria, naturalmente, è una sorta di rifugio. Ma anch’essa si estenua, le occorrono rappresentazioni nuove, sia pure estranee o casuali. Ho scelto questa finestra. Mi sporgo, metà dentro metà fuori, a guardare, a ricordare. Nulla mi appartiene. Un gran silenzio. Comincio di nuovo a osservare gli alberi, gli uccelli, i colori, i piedi dei cacciatori che tornano all’imbrunire; – mi sento cosí libera; hanno qualcosa da dirmi, da confidarmi. A volte mi vergogno di questa nuova tenerezza – infantilismo forse – che mi si posa indesiderata sulle labbra, un po’ come una rondine su un tetto crollato. Strano, davvero –

come s’è acquietato quel rumore, – non ti permetteva di sentire niente – come si è estinto in lontananza. Sono io, dunque? Ero io? Gente saliva, scendeva, allora, l’uno diceva qualcosa all’orecchio dell’altro, – movimenti spasmodici; politici, diplomatici, militari, – ah, che gente esecranda, mio dio, come mandati a memoria, numerati, replicati. Non sapevi il mese, l’ora, l’anno. Guerre, rivoluzioni, controrivoluzioni (quante volte sono accadute le stesse cose), – a mucchi sulle piazze le ceneri dei fuochi che accendevano per le grandi ricorrenze o per i morti – le stesse ceneri; a volte bruciavano anche quelli che poco prima proclamavano eroi. Le foglie d’alloro avevano completamente perso il loro senso. Chiudevi gli occhi come se chiudessi una porta in una casa estranea, per non vedere, per non pensare. Intrighi, corruzioni, tradimenti; quelli dalla spina dorsale piú flessibile stavano sempre piú in alto; tebani, argivi, corinzi, spartani, ateniesi – davvero, chi comandava? – era come se un misterioso potere tirasse le fila da lontano; uomini mascherati sortivano a mezzanotte con torce elettriche abbaglianti; un viso conosciuto diventava d’un tratto un bagliore bianco o un tonfo; nella paura gli uomini parevano unirsi di nuovo. Un pomeriggio dall’alto della soffitta di un povero studente, si udí il suono d’un flauto. Le donne si adunarono giú in strada, si inginocchiavano, piangevano. Il matto, sbottonato, si percuoteva il petto con un sasso: “Mamma mia, mamma mia”, gridava; “Mamma mia, voglio morire, voglio morire”, ripeteva; passò un camion coperto; tutti si dispersero; il flauto tacque;

il matto orinò in mezzo alla strada. Gli uomini si divisero di nuovo sconosciuti, impacciati, estranei. Ma ero giovane allora, tanto giovane che neanche lo sapevo. Dimenticavo facilmente. Su quella finestra rimase sospesa, dondolando leggermente, legata con lo spago, una piccola rosa. Non piú che questo. Ma appassí anche quella. Le campane suonavano; tacevano. Uomini arrivavano, ripartivano, correvano. A volte pioveva a cateratte; straripavano le cisterne nelle case; avresti detto che l’acqua si sarebbe trascinato via tutto fino al mare, lavando tutto. Spuntava di nuovo il sole; ogni cosa asciugava; non cambiava niente. Il giardino faceva l’innocente; splendevano i garofani. Sopra il giardino lo strepito delle stamperie, delle macchine da scrivere. Stesse persone con maschere diverse, caricate a molla, scaricate, entravano nelle sale, sedevano davanti a lunghi seggi giudiziari neri, scintillanti, le loro mani erano grossi ragni avidi e furiosi, srotolavano carte; leggevano; scrivevano; sigillavano; mandavano altre carte; gesticolavano; spalancavano la bocca, né una voce né un grido ne sortiva – un foro oscuro nell’aria; può anche darsi gridassero “evviva” o “abbasso” – non distinguevo niente; si distingueva solo una paura; allora non sapevo perché; mi stupivo che potessero aver paura le macchine, i tavoli, le sedie, la bocca del camino, il vino lasciato a mezzo nel bicchiere, il pollo arrosto nel vassoio, una forchetta levata sopra il piatto – che restava lí freddo. Arrivarono certi bei messaggeri;

aprivano anch’essi la bocca; non usciva alcun suono; ma era diverso per loro; ansimavano; ci piaceva quel loro ansare; gli si vedeva anche la lingua rossa, rossissima, come fosse in piena estate con alberi e fiumi. Allora mandavano a chiamare il vecchio indovino cieco. Un bambinetto dolce lo teneva per mano. Maestoso, astutissimo, bello, la barba lunga fino alle ginocchia, i grandi occhi vuoti (pensavo che si fingesse cieco e che la barba fosse finta) col suo bastone autoritario, – promanava calma, beatitudine, pienezza; conosceva – dicevano – il linguaggio degli uccelli, del fuoco, del silenzio, dei vènti; una colomba posata sulla spalla. Mia sorella aveva paura, gli si nascondeva dietro o andava nell’altra stanza ed ero certa che da lí origliava. Io gli volevo bene. Un giorno mi prese il mento, mi sollevò la testa. “Saresti piú bella – disse – se fossi un maschio”. “Lo sono”, gli risposi. Ridemmo entrambi con aria complice. Gli altri andavano in collera con lui, come se fosse responsabile di quanto divinava. Batteva il suo bastone e se ne andava. Si lasciava dietro certe piume nere, bianche o biondo-rosa. Per un po’ si faceva un gran silenzio, come se tutto avesse perso significato e peso. Le ginocchia si trascinavano dietro una serena distensione. Nessuno cacciava via il gatto ch’era salito sul tavolo e mangiava un pesce. Sui vetri della finestra la luce colava biancastra, appiattita. E subito dopo i tamburi battevano sfrenati. Un suono di tromba in cima alla fortezza

e un altro di fronte, tra gli ulivi. Di notte accendevano fuochi da una collina all’altra. Passavano tedofori, un foro immenso s’apriva nell’oscurità; si distingueva il caos. Poi di nuovo la notte si nascondeva nella notte. Tutti si nascondevano. Io non capivo niente. A volte ci facevano recitare qualche poesia davanti agli stranieri. Noi ragazzi non volevamo. Piangevamo. A volte dovevamo offrire un mazzo di fiori a un vecchio brutto e magro con la dentiera. A volte facevano uscire anche noi sul balcone a salutare la folla. A volte ci nascondevano nei sotterranei con le grandi giare. Guardavamo i ragni; gocciava la candela; prendevamo le gocce calde; ne facevamo lepri, aratri, barchette o omini nudi. A volte ci mandavano, di notte, con la scorta, nei poderi, presso vostro padre. Non facevamo in tempo a sfilarci i sandali, a passeggiare sul l’erba, a cogliere da sole una mela. Ci venivano a riprendere. Cambiavano le bandiere in cima alle fortezze, sugli edifici pubblici. Chi sarà stato il vincitore? Chi lo sconfitto? I cavalieri saltavano da cavallo, toglievano le selle, le portavano nel corridoio; sedevano sugli sgabelli; si sfilavano le cinture; si levavano gli stivali. Avevano piedi grandi. Sentivano di pino e di capro. Le donne fingevano d’esser raffreddate e stringevano il macinino del caffè davanti alla finestra, finché sorgeva la luna. Credo fosse allora che le volpi e i lupi scendevano dal bosco. La notte splendeva tutta, come calcinata. Il fiume cessava di scorrere. Le pietre erano bianche.

Davanti ai letti sbadigliavano i grandi stivali dei cavalieri. Il piú giovane aveva caldo; si spogliò tutto; passò dietro la tenda; la tenda era illuminata. Sulle terrazze cadevano foglie d’oro. I galli cantavano. Fu piú o meno allora che si accecò mio padre. D’improvviso ogni cosa divenne rossa, rossissima con macchie verdi, perfino i piatti rossi con un foro in mezzo. Poco piú tardi s’udí di nuovo il suono delle trombe. Gli uomini sobbalzarono nel sonno, cinsero le spade, balzarono a cavallo. Un’ombra immensa restava nella corte – forse era della luna mattutina, o forse quella del leone alato di marmo sulla torre antica. I posti degli uomini nei letti restavano caldi per poco. Poi si raffreddavano. Le donne vi si raggomitolavano e piangevano. Mia sorella giorno per giorno dimagriva; diventava piú dura; impallidiva; evitava Èmone e anche me. Usciva sola il pomeriggio. Forse andava fino alle porte di Tebe, fors’anche chiacchierava con quella donna dal corpo di leone. I suoi occhi t’inchiodavano con due gelidi quesiti, anche se non ti guardava. Era chiaro che aspettava qualcosa d’eccezionale. Le notti non dormivamo. Le lenzuola cadevano per terra. Spesso fingevo di dormire; la osservavo – coricata poco piú in là in una tensione immobile. Una notte il chiaro di luna aveva invaso la camera e la inondava fino alla vita; la vidi muovere le dita illuminate come una ballerina, come una sacerdotessa, come se intrecciasse una corda invisibile, come se scrivesse numeri in aria; contava qualcosa – forse i suoi anni (o forse l’inesistenza?); poi le portò al collo, le lasciò lí, argentate,

e sobbalzò di colpo come terrorizzata. Si alzò, prese l’ombrello bianco merlettato di nostra madre, l’aprí e vi si mise sotto, rannicchiata sul letto, come per ripararsi dalla luna o dalle ombre della notte. Cosí pareva tutta trapunta di minuscoli meandri blu-argentati. Ma nel frattempo, forse, mi ero addormentata. Quando aprii gli occhi vidi i piedi di ghisa dei letti, possenti, pelosi, bestiali. Sentii passare il vasaio che andava a lavorare. Guardai dalla finestra. Sulla strada c’erano pacchetti di sigarette vuoti, bandierine, salviette di carta, bossoli. Dietro i cipressi s’intravedeva il muro di cinta del marmista con un enorme cavaliere di bronzo. Un giorno s’udí un rumore spaventoso, sconosciuto. Nella sala da pranzo, in mezzo alla tavola apparecchiata per la colazione, era caduto il grande lampadario. Ormai potevi aspettarti di tutto. Non rimasero che pezzi di cristallo e bagliori. Sulla porta stavano due zoppi altissimi con le stampelle. Le domestiche li cacciarono. Gli uomini erano partiti. Il mondo intero si vuotò d’un tratto. Le donne non si truccavano. Trascinavano lentamente le ciabatte. Dimenticavano di accendere le lampade. Si facevano il segno della croce dietro i capelli. Nei giardini crescevano le ortiche. Avevano nascosto le chiavi tra l’edera. Il cavallo invecchiato di mio padre una sera scomparve. Non tornò piú. Appesero un suo vecchio ferro sulla porta del ripostiglio. La cavezza la legarono a due alberi per stendervi il bucato.

Di quando in quando, nello scompiglio generale, si faceva un silenzio immane, terribilmente trasparente. Tutto acquisiva un’ottica e un’acustica diverse, un diverso interesse, pieno cioè d’indifferenza. Fissavi ogni cosa negli occhi; l’ascoltavi. Le galline entravano nel cimitero, razzolavano tutto il giorno; facevano certe uova enormi, dove capitava, tra le margherite, sotto il rosmarino, per strada o sulle sedie. Una mano invisibile estraeva uno per uno i grossi chiodi arrugginiti dalle porte. Le mosche si destavano di buonora e picchiavano forte ai vetri. Fuori delle mura si moltiplicavano i morti. Ero sempre incuriosita dai morti; – non per tentare di assuefarmi all’idea della morte o di conciliarmi con essa. A volte sfuggivo alla sorveglianza di mia madre e dei precettori, mi arrampicavo fino alla fortezza; guardavo dalle feritorie; – trasportavano i morti su carretti, barelle, scale; altri restavano distesi giú nella piana, in pose molto belle, tranquilli, giovani, belli, accanto ai loro cavalli uccisi. Li guardavo senza la minima tristezza, – belli, come votati all’amore. Finché giunsero i nostri morti; e di colpo diventammo grandi. Vidi mia sorella nella corte, all’alba – segnata dal destino – pallida. Le sue mani, il vestito, i capelli pieni di terra. Pungeva il fresco mattutino. Tremavamo. Il giorno scendeva immensamente bianco, trapunto di corvi neri. A che scopo, mio dio, cos’hanno ottenuto? Il resto lo sapete. Non è rimasto niente. Solo la Sfinge di pietra sulla roccia fuori delle porte di Tebe, indifferente, indisturbata – non pone piú quesiti. L’inutile clamore s’è acquietato. S’è vuotato il tempo.

Un’interminabile domenica con le finestre chiuse. È incredibile che le sere d’estate annaffino ancora i giardini. Un fossato di silenzio – come avete detto. Guardate, è spuntata la luna. Fuori si sente anche la fontana. Non l’udite? Le vostre mani sono ancora abbellite dai calli per il lavoro nei campi. Spero che non restiate sempre nell’esercito. Quando scadrà la ferma ritornate ai poderi, vicino a vostro padre. Questa porta conduce dritta al mio appartamento. Il corridoio che dà a sud è sempre sguarnito. Bussate sette volte. A mezzanotte. Vi aprirò. Vorrei darvi qualche piccola cosa per vostro padre. Alcuni abiti di Èmone – li ho conservati nell’armadio – immagino vi vadano a pennello. E la sua spada nuova, d’oro, d’avorio e di rubini, – non fece in tempo a cingersene il fianco. È bella la notte. State attento alle scale. (S’è fatto buio. Entra nel suo appartamento mentre sulla scala s’odono ancora i passi del giovane ufficiale. Cerca a tentoni i fiammiferi sul tavolino. Accende tutt’e tre i ceri del candelabro. Batte sul disco di metallo sospeso. Compare la Nutrice. “Questa sera non ceno. Non avrò bisogno di te”, le dice. “Puoi andare a coricarti. Ah, sí, portami un bicchiere d’acqua. E carica la pendola della sala. Ce ne siamo dimenticate. Prendi anche quel cesto con la frutta. Il vaso mettilo sulla finestra”. Poco dopo le porta l’acqua e se ne va. Silenzio. Chiude entrambe le porte a chiave. Ora s’ode anche l’orologio accanto. Le nove. Le nove e un quarto. Le dieci. Le dieci e mezzo. Davanti allo specchio. Si strucca. Si spoglia. Seni cadenti. I segni del corsetto sul ventre. Smagliature sulle cosce. Le undici. Si toglie le collane. La pelle, flaccida, pende sotto il mento. Le undici e un quarto. Afferra il candelabro con la sinistra. Si avvicina allo specchio. Con l’anulare della mano destra tira la pelle sotto gli occhi. Il bulbo torbido, con una sottile rete

di venuzze rosse. Porta le dita sui capelli tinti. Le radici bianche. Un’espressione di nausea sul volto immobile. Gli angoli della bocca tirati. Le undici e mezzo. Comincia a truccarsi. Indossa un abito rosso. Si rimette i gioielli. Si stende sulla poltrona rossa di velluto, di fronte allo specchio. Chiude gli occhi. Le dodici. Sette colpi discreti alla porta. Silenzio. Ancora sette colpi, piú forti. Silenzio. Di nuovo i colpi. Poi piú niente. Un lungo silenzio. Il bicchiere riluce. Si alza. Si avvicina allo specchio. Riprende a truccarsi. Bianca come il gesso. Gli occhi immensi, nerissimi. Una maschera di gesso. Si cambia. Indossa un abito di sua sorella, accollato, diritto, a pieghe, color marrone. Mette una cintura con la fibbia larga. Apre il cassetto del comodino. Prende qualcosa. Con le spalle rivolte al candelabro e allo specchio, beve l’acqua a piccoli sorsi irregolari, come se prendesse delle aspirine. Si stende sul letto, completamente vestita e con i sandali. Immobile. Tranquilla. Chiude gli occhi. Sorride. S’è addormentata? Dalla sala accanto si sente l’orologio.)

Atene, settembre-dicembre 1966, Samo, dicembre 1971

A Ghiannis Tsaruchis

...È normale che l’uomo sbagli se gli dèi lo vogliono.

Euripide, Ippolito

Fedra (Pomeriggio primaverile, molto calmo. Una calma abituale, e tuttavia come illuminata all’eccesso, accentuata all’eccesso, quando dal grido di un uccello, quando dai colpi di un chiodo che si configge nel legno o dai colpi di uno scalpello sul marmo – questa calma densa, indefinita, come se di lí a poco dovesse essere completata una splendida statua nuda dall’espressione triste, come se dal ramo di un albero pendesse inutilmente una corda, mentre sulla copertina imbarcata dal sole di un libro, dimenticato da mezzogiorno sulla panchina del parco, passeggia inspiegabilmente un insetto rotondo dalle ali ripiegate sotto il duro, lucente guscio nero. Nella grande sala calcinata che dà a oriente una donna, forse sopra i quaranta, si culla lievemente su una sedia a dondolo di paglia intrecciata, premendo a intervalli regolari le punte dei piedi sul pavimento. La precisione del ritmo indica una rigorosa volontà che vacilla. Anche le dita dei piedi, fuori dei sandali, rigorosamente simmetriche. Tiene gli occhi chiusi. Con le mani incrociate sui seni si titilla i capezzoli, prima sopra il vestito, poi sulla pelle. Intanto il ritmo del dondolio non cambia. Tendine bianche alle finestre. Tra le due porte -finestre aperte, anch’esse con le tende, un grande specchio. Un tavolo di marmo. Un divano. Due poltrone. Due sedie intagliate. La luce, benché s’approssimi il tramonto, permane bianca, soffusa – forse per via

delle tende. D’improvviso, fuori nella corte, lo scalpitio dei cavalli, i latrati dei cani, una voce giovanile, perentoria. Simultaneamente lo specchio, il tavolo, le tende, i muri s’imporporano. La donna s’alza con un movimento brusco, affatto diverso dal ritmo precedente. Esce nel corridoio. S’ode la sua voce. Forse ordina qualcosa alla Nutrice. Rientra. La stanza completamente rossa, e anche lei tutta rossa. Riprende il suo posto – immobile stavolta. Subito entra il giovane la cui voce s’era udita poco prima nella corte. Bello, sudato, i lunghi capelli d’oro scompigliati. Senza dubbio ritorna dalla caccia. Saluta ossequiosamente, non senza un certo imbarazzo. La donna gli guarda le gambe armoniose, avvampate dal sole, non abbronzate, d’un rosa chiaro, i peli ricciuti biondi. Un breve silenzio. Lei gli indica la poltrona di fronte. La luce della stanza cangia dal rosso al viola dorato. Gli guarda sempre le gambe, non il viso, – i polpacci, stretti nei lacci del sandalo, le unghie lucide regolari con un leggero contorno di polvere che rende piú carnali i polpastrelli. La donna, con un gesto inspiegabilmente provocante, accende una sigaretta. Il giovane reprime una smorfia. Forse è la prima volta che fuma davanti a lui. Espira il fumo dalle narici e dalla bocca. Parla):

Ti ho convocato. Non so come cominciare. Aspetto che faccia sera, che s’allunghino le ombre nel parco, ch’entrino in casa le ombre degli alberi e delle statue, a nascondermi il viso, le mani, a nascondermi le parole che, ancora informi, indugiano; – le parole che non conosco, che temo. Ti ho convocato, impreparato anche tu, senza lasciar ti riprender fiato, prima che entri nel bagno, col tuo bel viso ancora impolverato; (sei tutto rosso; ti ha scottato il sole; – non m’hai dato

retta, non hai messo l’anello marzolino di filo che ti ho intrecciato;) [1] quanti pelucchi di cardi del bosco hai tra i capelli. Guarda: questo sembra una piuma appallottolata, – com’è leggero; e questo lo si direbbe la piccola mascella d’un animale ignoto, – ti morde il ricciolo proprio vicino al sopracciglio; – aspetta che te lo tolgo. Si sono allungati i giorni; è in anticipo il caldo; – l’avverti sui tessuti, sul legno dei mobili, sulla tua stessa pelle come una dilazione triste. Il battito del telaio sembra fuori tempo, non lo contiene la stanza, esce per strada – ogni cosa si volge di fuori, si diffonde; perfino io benché me ne stia in casa, benché tenga gli occhi chiusi per concentrarmi – l’avverto: non basto a me stessa; attraverso le ciglia, come fossero di vetro, guardo fuori, ti distinguo chiaramente nel bosco, vedo inclinartisi la nuca quando bevi l’acqua alla sorgente; penso che forse le cose esterne penetrano in noi – un’accettazione generale come la sorte – d’un tratto ci riempiamo fino a scoppiare; comprendiamo il vuoto precedente; il vuoto non è piú tollerabile; (e dove la trovi la pienezza? Scoppi). La santità della privazione – cosí dicevi; – non ricordo bene; (della privazione, dicevi, o del rifiuto?)… Che parole sconsiderate – la vittoria della volontà, dicevi – quale volontà? quale vittoria? – dura, imperdonabile – un monte oscurissimo lontano sul tramonto, piú oscuro del letto d’un cieco. La santità prima del peccato – non ci credo; – impotenza la chiamo, la chiamo viltà; – le offerte agli dèi: pretesti per sottrarci alla prova; –

invisibili gli dèi; non rilasciano prove; – presumo sia questo che chiediamo; non la santità stessa, – un’ombra solo per nasconderci. Lo so: da solo ti ami quando ti trovi solo davanti allo specchio; le ho viste le tracce sulle tue lenzuola, le ho odorate, – allora gli dèi ce li scordiamo. A proposito, com’è andata oggi la caccia? Non sono mai riuscita a capire di cosa vai a caccia. Tu non hai mai portato come gli altri i tuoi bei trofei – certi rari uccelli dalle splendide piume e dal becco d’oro, certe corna di cervi da appendere ai muri, come tanti altri, – hanno una grazia particolare – spuntano curve l’una sopra l’altra come piante di chiese bizantine, come una scala che conduca a un piccolo cielo tranquillo, – ho sentito dire che da esse si può dedurre la loro età. È vero? Tu non ne hai mai portate. Credo tu non abbia mai ucciso cervi – gli animali favoriti della tua Dea. Tutti parlano della tua mira infallibile. Io non ho mai visto niente. E passi per gli uccelli e i cervi, ma perché neanche una pelle di lupo o di leone da stendere davanti ai letti d’inverno quando coi grandi freddi ogni cosa si rapprende, e ci occorre la certezza di qualche potere, soprattutto quando ci svegliamo e coi piedi ancora tiepidi, resi molli dal sonno, tentiamo in modo incerto di reggerci di nuovo sul tempo. Sarebbe bello, allora, poter posare i piedi sul vello asciutto d’una fiera – per giunta uccisa di tua mano – e forse ci scalderebbe quella sensazione, cosí rara, di uno spericolato cavaliere che salta un fosso – vincitori, diciamo cosí, anche noi, di una battaglia sconosciuta, eretti sulla nostra indomita volontà, come ti piace dire. A volte ho pensato

d’indossare gli abiti di un tuo schiavo o di un tuo scudiero per venire a caccia con te, per conoscerti nel tuo ambiente, – come corri, come prendi la mira, come uccidi, per seguire le tue belle movenze indipendenti, protese a uno scopo concreto, a un’intenzione definita, con quella precisione e agilità che derivano dall’esercizio e dall’esperienza. Avrei molto desiderato conoscerti in questa dedizione totale a un’impresa che sconfina dalla disciplina nell’estasi. Immagino tu sia come un ballerino, quando salta e resta in aria un istante ritardando la sua caduta, abolendo la legge di gravità. Sí, come un ballerino, quando solleva in alto in alto su una mano una ballerina aerea; allora ci si mozza il fiato nel timore che dia ali alla ballerina e lei spicchi il volo accanto a una nuvola bianchissima, per non far piú ritorno, o la sprofondi in un abisso invisibile, che naturalmente esiste sempre davanti ai nostri piedi, – e forse perciò gli innamorati, di sera, camminano cosí lentamente, con tanta precauzione, tenendosi per la vita, accanto al mare o sotto gli alberi. Non te lo nascondo: molte volte ho sognato di acquattarmi dietro un cespuglio, nel bosco, di smuovere i rami come un animale selvatico, per farti da bersaglio, essere la tua preda rara; – quando poi mi avessi presa in braccio per portarmi sulla carrozza avrei avuto sugli occhi, mi dico, due foglie verdi perché tu fossi costretto a chinarti piú vicino al mio viso. Davvero, di cosa vai a caccia? Non sarà che offri a Artemide tutte le tue prede? Eppure mi piacerebbe molto una piuma blu scuro per il mio cappello; forse potresti

offrire qualcosa anche a me. Blu scuro, sí, come i miei occhi, e i tuoi del resto; – ti ricordi? Fu tuo padre il primo a dircelo. Ne fui lusingata, allora; e anche tu, forse; – diventasti rosso; quella notte fuori nella corte, con le lucerne appese al pergolato, la prima volta che venisti a Atene per i Misteri Eleusini – che giorni indimenticabili. Dunque, una piuma blu scuro, che me la senta sventolare con un fruscio segreto sulla fronte, che mi trasmetta messaggi dal bosco, dalle sorgenti, dalle radici, dalla liturgia degli uccelli. Sogni e sogni. Ci ho riflettuto spesso: ogni piuma nasconde un foro insanguinato; o piuttosto ogni piuma ci scava nella carne un foro insanguinato? Altre volte m’immagino le piume come la fioritura del nostro corpo; e solo quando le spiuma la riflessione si apre la rossa ferita che non si rimargina piú. Per questo ti chiedo una piuma blu; – non credere sia per il mio dorso, è solo per il cappello. Può darsi che ogni tanto anche tu pensi le stesse cose. Forse anche tu lo sai: le cose piú belle solitamente le diciamo per evitare di dire una verità; e forse è questa verità reticente a conferire la grande beltà e indeterminatezza a queste parole trite e ritrite, estranee – eterna legge della beltà, come si dice. L’indeterminatezza attesta sempre qualcosa di profondo e di definito – fors’anche di tragico e bestiale – un desiderio sacrificato, un desiderio-idra, che si diverte a nascondere

in nuvole rosa o d’oro le sue nuove teste; si diverte a giocare con uno spago rosso tra le unghie; a posare le sue teste tagliate sul vassoio d’argento, ornate di nastri variopinti; a estrarre i chiodi dal muro, a piantarli a punta in su sul letto, giocando cosí con la nostra unica testa, lui che ne ha molte. E ormai, – che farci? – ci piace questo gioco. Anzi, a volte lo giochiamo per conto nostro (diciamo cosí, di nostra iniziativa) – lo stesso spago rosso, le teste sul vassoio coi nastri variopinti, i chiodi sul letto. “La nostra unica consolazione (continua a dire la mia Nutrice) è pensare giorno e notte alla nostra morte”. Ma anch’essa, quando? La sua mitigante certezza appartiene al nostro futuro, mentre il piú infimo istante del presente, pur nella sua minima esigenza, è piú assoluto della morte. Non dovevamo proprio venire a Trezene. Qui ogni cosa è tua. Gli occhi di Píteo attendono in agguato al buio ch’io strappi un brandello della tua castità, la piuma blu di cui parlavamo. A Atene era diverso; – là ero nel mio ambiente. Tu eri maldestro allora; terribilmente timido e allo stesso tempo gentile. Non apristi mai il frigorifero da solo per prendere due ciliegie, una pesca, un pezzetto di cioccolata. Perfino la tua pronuncia era contratta, e ti mangiavi un mucchio di vocali, quasi cercassi di dire a mezzo le parole, per finire piú in fretta e poi tacere, come se aspettassi da altrove la risposta e non dal punto verso cui guardavi. Mi piaceva molto questa tua ignoranza e questa attesa. Immaginavo

fosse rivolta a me, – e forse lo era. Una sera che ti accolsi sulle scale, prima ancora che accendessimo le lucerne, le tue mani tremavano e reclinasti per un istante la testa sulla mia spalla. Qui sei tu il padrone, coi tuoi schiavi, i tuoi cani, i tuoi cavalli, le statue dei tuoi dèi. Il tuo agio mi soffoca. Ora sono io a non aprire il frigo. Quando apparecchio la tavola è come se coprissi con un lenzuolo bianco un morto; come se non avessi diritto né al mio morto né al lenzuolo. Questa casa è piena della tua ombra. La casa è un corpo, – lo tocco, mi tocca, mi s’appiccica addosso, soprattutto di notte. Le fiamme delle lucerne mi leccano le cosce, i fianchi; indugiano con brividi sottili sotto l’orecchio sinistro; mi mordono i capezzoli; la loro saliva splende, mi brucia, mi rinfresca, mi evidenzia. Non so piú dove nascondermi. Chiudo con forza gli occhi m’illumino tutt’intera e mi vedo liscia, lubrica, immobile. La casa è un corpo; è il tuo corpo, e allo stesso tempo il mio. Tento di camminare e i lenzuoli mi si trascinano dietro come dopo l’amore; tento di posare un bicchiere, un piatto sul tavolo; – dalle mie dita pende quella catenina familiare con la tua crocetta (quella che dicono ti abbia regalato la Dea), quella che ti pendeva sul petto, che sprigionava un alito leggero dal tepore della tua carne; (sí, te l’ho rubata io). Ricordo la tua infantile sorpresa quando la perdesti, il tuo senso di colpa, la tua ira – come ti scintillavano gli occhi, come ti avvampava le guance il sangue, – lo vedevo il sangue

scorrere sotto la tua pelle bianca, salirti al petto dalle gambe, inciampare ai ginocchi, scorrere alla rovescia verso il ventre e le cosce, sulle tue braccia, sulla piega del collo, gonfiarti e imporporarti le mammelle e le labbra – come se tutto il tuo corpo fosse in erezione; – una chiazza rossa ti rimane ancora sul mento. Insieme con te cercava la vecchia Nutrice, e anch’io cercavo per trovarla. Buttammo sottosopra le stanze, il cortile, la cucina, la stalla. Ti guardavo cercare inginocchiato sotto i tavoli, sotto i letti, lí, davanti ai miei piedi, arreso, guardavo le linee del tuo corpo, i mutamenti delle sue forme ad ogni movimento. M’inginocchiavo anch’io, cosí, al tuo fianco, tutt’e due carponi, sgambettando come neonati maldestramente, estaticamente davanti a un’impresa sconosciuta, attesa, o come animali preistorici che cercano il cibo in una macchia folta, subdola, furiosi per la fame, con una seconda fame piú vorace, – io, l’esperta, la tormentata, e tu, l’inconsapevole, l’altero, scherzosamente innocente, adorabilmente innocente. Altre volte ancora, sdraiato in terra, bocconi, cercavi sotto gli armadi, profondo, inquieto, penetrante, come se facessi l’amore. Ed ero io il pavimento su cui ti gettavi, e ti sentivo dentro mentre, in piedi, osservavo nel contempo ogni tua mossa registrandola nel mio tatto e nel mio gusto. Ovviamente non la trovammo la catenina – quella che porto di notte nel mio letto quando Teseo è assente, quella che stringo al petto. Non le vedi le impronte, a maglia a maglia, incise nella mia carne? –

e un piccolo Crocifisso, impresso tra i miei seni, – penso che se tu lo baciassi risusciterebbe davvero; benché ormai lo sappia bene: la resurrezione non è se non un atto solitario di rifiuto, non un atto d’unione. Dunque, come ti dicevo, questa catenina rubata mi pende dalle dita quando poso i piatti sul tavolo; tintinna sui coltelli, sulle forchette con suoni minuscoli, traditori; talvolta s’infila in un bicchiere di vino – si bagnano la croce e il Crocifisso; ritraggo la mano; gocce rosse macchiano la tovaglia; le ricopro con fette di pane – e anche sul pane gocce rosse. Non so piú da che parte guardare. I visi, le mani, i capelli, lo specchio, i muri chiazzati di sangue. Fortuna che il sangue è invisibile; questo mi rassicura; non lo vede nessuno; nemmeno la catenina vedono; continuano a mangiare (e forse, per ragioni ignote, perfino con maggior ingordigia). Quanto a quelle gocce rosse – su di me non rimangono, non mi lasciano macchie sulla pelle; perché io sono completamente insanguinata, dentro e fuori, dal sangue invisibile – la mia porpora segreta. Mi amareggia solo (ma forse ne sono lieta) che neanche tu mi veda – benché te l’abbia confessato – con indosso questa porpora regale, gloriosa, universale. E mi dico che se anche tu potessi vedermi cosí penseresti che mi sono dipinta tutta di rosso, rossissima, per un qualche rito idolatra. Oh, certo,

ciascuno vede coi suoi occhi; e anch’io del resto. Ma quel ch’è peggio, neanche la comprensione piú profonda della nostra diversità facilita le cose, o abolisce le nostre differenze e le nostre pretese personali. No; non posso lamentarmi di te o del mio destino. In certi momenti anche solo la coscienza della nostra sventura può tenerci al di sopra della sventura, in uno spazio elevato e profondo; – un vento calmo soffia lassú, i capelli mi battono leggerissimi sulle spalle come due mani amiche, come due ali diafane, mitiganti, approvatrici. Intorno a me s’estende la misericordia di un chiarore astrale senza tempo, – misericordia nostra verso il mondo intero e noi stessi, naturalmente. In quei momenti non ho affatto bisogno di volare lassú, nell’alto del mio sogno e della mia estrema volontà, sola con me stessa, libera da me stessa, separata da ciò ch’è singolarmente mio, unita al mondo. E le funi che mi legavano le mani, i piedi, il collo, spezzate, divenute ali anch’esse, – sentirle sventolare e le estremità sfiorare dolcemente la terra e il cielo – Ricordo un cavallo selvaggio tutto bianco, legato per una zampa a un albero. Come sbalzava, come gli schiumava la coda, la criniera; come gli guizzavano i muscoli in tutto il corpo

sotto lo splendido manto bianco. Credevo che gli si sradicasse la zampa; e che con tre sole zampe galoppasse zoppicando fiero verso l’ignoto; (forse nessuna libertà si conquista senza qualche nostro sacrificio). In effetti non si spezzò la zampa ma la fune; e mentre abbagliata mi aspettavo il lampo della fuga, quello mosse cinque passi lenti e si fermò guardando serio e dolente la sua corda spezzata. Non era questo ch’io provavo. O forse lo provavo. Non so. Guardavo lassú accendersi i lampioni uno dopo l’altro (doveva passare il lampionaio con la sua scala in spalla). A poco a poco riconobbi le strade afflitte e chiuse che girano su se stesse, quelle che anch’io percorrevo (per questo afflitte) e che mi dispiaceva aver lasciato. Mormoravo tra me i loro nomi – via dell’Accademia, dell’Università, dello Stadio, via Eolo. Le lucerne si accendevano nelle case, s’illuminavano le porte, le finestre – la città stellata, un firmamento terrestre. Distinguevo anche la nostra casa – la scala di marmo illuminata dalle due lanterne delle statue nude. Quella – sussurravo – è la nostra finestra, quell’altra di Teseo; – io non sono là dentro, io non sono là dentro – ripetevo; sono partita, sono fuggita dal chiuso e dal mortale. M’immaginavo il vostro sguardo; immaginavo forse il vostro dolore; (sí, sí, proverete anche voi dolore); i miei bei vestiti vuoti, appesi nell’armadio, gettati sulle sedie o sul letto; i miei sandali sotto il letto; in uno

giace una farfalla notturna morta; – non li indosserò piú. E proprio nell’istante in cui sentivo i polmoni dilatarsi liberi nel respiro piú profondo, un nodo mi serrava; – quel piccolo Crocifisso impresso sul mio seno, e la cognizione che sarei ritornata; e mi trovavo già là dentro, qui dentro al mio posto sotto la lampada, a tavola, guardando dietro i bicchieri, sopra le vostre spalle e il vostro sguardo indifferente fuori della finestra lontana, verso la notte diafana dov’ero per breve tempo evasa, da dove ero tornata piú triste, piú vecchia e come umiliata, pervasa da una fierezza adirata, a misurare, a controllare col vostro metro i vostri movimenti – a tagliare accuratamente col grande coltello il pane senza rigare la tovaglia o il legno, senza graffiare il tuo dito mignolo o il mio. Dio mio, non sopporto questa finzione. Sento che ogni mio gesto stampa sul soffitto, sul pavimento, sul muro o sui mobili un’ombra immensa; l’ombra si propaga, si estende, s’ingrandisce a ogni istante, riflettendo tutti i miei movimenti intimi, segreti. Non so piú dove mettermi, cosí assediata dalle mie ombre, piú evidente che mai, eretta, mi sembra, in mezzo al mondo, tradita, visibile da ogni dove, bersaglio degli schiavi, dei cani, del padrone di casa, tuo, a guardare i mutamenti incessanti delle mie ombre; – somigliano piú che altro a animali –

un leone lacera con gli artigli la coperta rossa; una tigre addenta il velluto del divano; un delfino balza nello specchio con una fiocina sul dorso; una cerbiatta trascina sulle corna la tenda come un velo da sposa nascondendo tutt’intera la piana, le sorgenti, le vigne e i piedi rossi dei vendemmiatori; un bufalo trasporta il tavolo dalla sala da pranzo in giardino; un bicchiere cade, i due domestici si guardano; tengo in mano le forbici, tento di ritagliare una tunica dalla stoffa, – dal rumore capisco che taglio il pelo d’una mia ombra. In un angolo della via il venditore di cesti si volta e guarda. Tutto il giorno attendo la notte, caso mai le mie ombre si fondano con l’oscurità, per poter occupare meno spazio, chiudermi nel mio guscio, essere come un chicco di grano nella terra. Non ci riesco. Le mie ombre non si fondono col buio; anzi, al contrario, conquistano la notte tutt’intera. E allora mi dilato anch’io con esse, stupita, muta, sprofondata, con tutta la mia superficie tesa dalla densità del fondo, mentre il mio desiderio nudo, lucente, tutto bianco, galleggia sull’oscurità come una donna annegata dalla pancia gonfia, la vulva tumefatta – una donna con gli occhi chiusi, illuminata dalla luna – non annegata, che semplicemente galleggia sul dorso – una donna incinta. Ed eccomi di nuovo ad aspettare che in un modo o nell’altro faccia giorno, che cantino i galli sugli steccati, che risuonino fuori per la via i passi dell’arrotino, del vasaio, dell’erbivendolo ambulante, del pesciaiolo, i colpi di martello dei marmisti o dei falegnami, che si scindano a una a una le mie ombre, per spartirle e non essere piú sola con me stessa.

Non le sopporto queste notti di primavera. I vapori esalano dalla terra, si condensano, ti premono molli molli, carne su carne. Un fremito percorre l’aria, passa da una stanza all’altra, s’insinua nella terza camera, quella rosa, dove tu dormi. Gli zoccoli dei cavalli scalpitano nella scuderia all’aperto; – forse anche quel cavallo bianco di cui ti dicevo – azzoppato adesso (non distinguo il quarto colpo) – che parole taciute s’odono, che gridi rattenuti, suoni di flauti, di chitarre, di stelle. Un solo remo nell’acqua – quello che mi scava a intervalli regolari, fino allo spasmo del piacere e oltre fino al nuovo spasmo e a un altro ancora – inesauribile. E le lenzuola fradice d’acque tiepide, di sudore e sperma, e i vestiti, la biancheria, gettati sul pavimento e gli altri nei bauli o negli armadi, contratti, stillano, stillano piccole gocce subito rapprese, cristallizzate, stalattiti, stalagmiti in grotte dentro di noi profonde – strane foreste di vetro, statue vitree d’uccelli, d’uomini, d’alberi, d’animali, vitrei intrecci erotici in una sotterranea, febbrile umidità. A volte una lucertola verde passa strisciando da lí dentro con occhi improvvisamente ingranditi – occhi verdissimi che lasciano un riflesso verde sui cristalli biancastri sugli specchi stretti, opachi, verticali. La lucertola osserva con un’estasi imbarazzata, con circospezione diffidente, e resta immobile, pietrificata, perdendo il suo colore verde. Altre volte un insetto nero, rotondo, sbuca improvvisamente da qualche parte, le ali raccolte sotto il guscio duro; tasta

con mille sottilissime zampe la superficie scivolosa; non avanza; rimane lí – un occhio nero non di cieco, – un occhio cavato, reciso dai suoi nervi; – un occhio curvo, onniveggente. Se ne sta lí, osserva, dissuade – un nodo come quello in gola, che t’impedisce di parlare, che t’impedisce anche di vedere, – qualcosa come una sincope cardiaca; – ed è la fine che osserva la fine. Oh, timore e esultanza della fine, – che finisca tutto tu, io e la nostra differenza. Che sentimenti sciocchi, mio dio, cosí iperbolici, – e non è che ci lascino un minimo di spazio libero per noi, per poter fare un passo foss’anche in direzione della morte. Che storia stupida, estranea, estranea. Che colpa abbiamo, davvero, di tutto ciò. Chi ha voluto cosí le cose? Non noi, comunque. Insopportabili, mio dio, le notti e i giorni. Al mattino, appena desti (piú stanchi di prima di dormire) il nostro primo gesto, prima ancora di lavarci o di bere il caffè, è stendere la mano per prendere dal comodino la nostra maschera asciutta e applicarcela come se fossimo colpevoli sul viso ora con la colla di pesce o di farina, ora con quella colla vischiosa con cui i calzolai incollano le pelli. E tutto il giorno senti la colla che si secca, che si scolla un pezzo alla volta dalla pelle; non avere un contatto diretto con la luce, con l’aria, con l’acqua, con una mano o con la tua mano; e per di piú la paura che ti si scolli la maschera tutt’intera

per l’involontaria contrazione di un sorriso; che non ti cada dentro il piatto col pollo in umido, proprio nell’istante in cui dici: “Non ho per niente fame”; che non si veda completamente nuda la tua fame feroce, l’insaziabile fame. Questo scollarsi della maschera l’avvertiamo sempre non tanto fuori, quanto dentro come una dentiera d’oro in bocca – e temiamo sempre che ci cada questa dentiera che c’impedisce di ridere o di urlare, che c’induce a un’espressione normale e conveniente. Sia benedetta; – che cos’altro dire? È già sera. S’è fatto buio. Non vedo piú il tuo viso. Meglio. Non vedo la tua maschera (perché anche tu porti una maschera; – di santità, di’ pure, o di castità – ma sempre maschera). Meglio cosí. Indovino nell’ombra la tua indignazione. Oh, bell’imbecille, ricordalo: quelli che hanno sofferto molto sanno vendicarsi, pur conoscendo la non responsabilità propria e altrui. Con quanta amarezza annotta. Son spuntate le stelle. Pungono come spine. Non c’è piú quella misericordia del chiarore stellare senza tempo, – l’ho scordata. Può darsi fosse anch’essa una maschera – piú grande, naturalmente, dorata come quelle funerarie, che tramuta la vampa del nostro sangue in freschezza equivoca, – quanto durerà anch’essa? Di lí a poco sentiamo di nuovo il nostro sangue piú infuocato, piú rosso, salire ad avvamparci non solo il volto ma la maschera aprendo fori nel metallo, finché il nostro volto insanguinato non esce dalla maschera, ricoprendola tutta – volto segnato dal tormento, dal supremo disprezzo di chi non ha difesa,

dall’audacia di esistere un istante sopra la sua maschera, fosse pure l’ultimo istante prima o dopo la sua morte. Ho notato spesso volti di morti scorticati, non piú sanguigni, d’un pallore estremo, peccaminosi, e indifferenti adesso, posarsi sulla loro gelida maschera dorata. Quei volti già cosí tormentati e che tanto mentirono (per evitare forse di confessare il proprio tormento), quei volti sono i volti dei Santi, credo. Ah, non pensare che chieda di entrare anch’io nel coro e che perciò li elogi. No, no. Io la mia confessione l’ho fatta. La menzogna umile e santa non l’ho saputa tacere. La maschera l’ho fatta a pezzi gettandola ai tuoi piedi; non l’ho trapassata, non l’ho coperta col mio volto. Eppure vorrei ripetertelo adesso: alla santità prima del peccato non ci credo. Non credo a niente. Non capisco niente. Ognuno di noi è solo, proscritto, col timbro rosso in fronte o sulla schiena. Sento da lontano i miei passi su strade tortuose con vecchi lampioni arrugginiti, con porte scrostate, pozzi chiusi. Le imposte pendono sulla spalla del destino. Un serpente sulla strada. Due gatti malati. Un’insegna pericolante – i chiodi piantati in aria – con un disegno sbiadito sopra: un pane con intorno una catena; da lontano pare una grossa testa calva coronata d’alloro. Qualcuno sale la scala del campanile; non suona la campana.

C’è anche una vecchia millenaria – sferruzza un’enorme calza nera. La calza pende dalla finestra della torre fino ai ginocchi della vecchia. Mi ricorda qualcosa questa calza, questa vecchia, – che sia io? – dover badare che non ti sfugga un punto; – mentre dal fondo del sobborgo s’ode il suono d’un flauto – la stessa frase sconosciuta; d’improvviso si spegne; e la conosci. Qualcuno gesticola giú nel sotterraneo – l’ombra della sua mano gli cade sul corpo come una mano mozzata. Un altro accende un fiammifero, guarda l’ora – l’orologio non ha lancette. Qualcuno bussa al battente del giardino. Il giardiniere è morto. Il suo cane scivola sotto gli alberi. Un vaso di fiori cade nel corridoio oscuro – e il gesto per fermarlo è in ritardo; e il senso di questo ritardo è diffuso nell’aria. Poi un odore di sperma tiepido riempie la notte. Non capisco niente. E questo nostro insulso tentativo di penetrare in un foro del muro, il foro minuscolo di un chiodo caduto; – e il chiodo doverlo tenere per sempre tra i denti con quel sapore particolare della ruggine, dell’intonaco e del tempo. Che cosa possiamo capire, dunque? Che cosa dire? Forse l’avrai notato anche tu un tardo pomeriggio, verso sera, quel tale con la valigia vuota, che finge d’esser zoppo (e forse lo è) quel tale che ogni tanto è costretto a fermarsi per il peso del vuoto – posa la valigia sul marciapiede o sulla scala, si asciuga il sudore col dorso della mano, e poi di nuovo riprende la valigia, sentendo dentro il rumore

di due biglie di vetro (una gialla, l’altra blu) che rotolano e si scontrano. Questo rumore s’ode in modo cosí semplice e persuasivo che pare facile essere o diventare morto. Da una porta che ti è assai familiare esci d’un tratto su un balcone sconosciuto sopra alberi altissimi, tetti, comignoli, sopra larghe finestre; – sui loro vetri illuminati passano le ombre di quelli che ballano nella casa estranea mentre la musica s’ode indipendente dall’altra parte, quella disabitata, là dove s’oscurano i monti e fugge la vettura coi due assassini proprio sotto la stella piú sola. Allora anch’io familiarizzo volentieri con la mia morte; mi allontano, osservo da una sorta di cabina di vetro senza temperatura i gesti comici e le smorfie dei timorosi, dei disperati e degli adirati, di Teseo e quelli tuoi, degli schiavi; – comici, sí, perché non sento alcun suono e alcuna voce, ad eccezione di quelle due biglie nella valigia di stoffa vuota. Tutto rimane completamente dissociato dall’atmosfera e da ogni causa, scisso, solo, scoordinato, senza seguito, conseguenza o relazione. Bella morte. Il silenzio che osserva e ascolta il silenzio. Per un po’ mi diverto. Osservo inosservata. Sono lieta della mia assenza. Non mi serve piú la maschera, poiché nessuno piú mi vede. Resto immobile nella mia libertà di movimento. Mi vedo sola morta accanto al mare, – proprio accanto al mare. Finché mi sorge il dubbio di non esser morta. Sospetto il mio sotterfugio. So

che la morte certa non osserva né giudica. La morte perfetta, tranquilla, estrema è cieca, sorda e muta, come il bianco assoluto. Lo so. Allora mi pungo con la spilla che porto al petto la punta dell’indice sinistro, mi succhio il sangue nella posa deliberata d’un neonato cosciente, per non gridare, per non piangere, per non volere, cosí chiusa, rimpicciolita, gli occhi serrati, nel mio corpo asfittico, in preda a una funerea autovoluttà. E si fa notte piú fonda dentro, piú dentro. La notte si estende come un suicidio universale; consegna i corpi nudi a un immenso obitorio di marmo. I morti non si preoccupano piú di nascondersi; – questo col pene tumefatto, marcio; quello con la verruca sul naso; le due donne dai grossi ventri flaccidi, i seni penduli; un giovane coi testicoli tagliati; una fila di vecchi calvi, raggrinziti, le bocche sdentate aperte in una smorfia di avidità; e sopra una grande luna fumante come una patata lessa appena sbucciata dalle mani ossute e nodose dell’ultima vecchia. Ah, questa fame insaziabile, orribile, perfino di fronte alla nostra morte. Perché te ne stai cosí come pietrificato in posa di riprovazione e quasi con un’espressione di scherno e di castità insozzata? Va’ pure adesso a lavare il sudore e la polvere delle tue battute di caccia splendide e solitarie. La lampada non l’accendo. Va’. Ah, sí, anche stasera, come sempre, mi piacerebbe molto poterti accompagnare nel bagno, lavarti con le mie mani – che ti conoscano le mie mani. Il tuo corpo

lo conosco assai bene, come una poesia imparata a memoria che continuamente mi scordo, – la cosa piú sconosciuta al mondo, la piú mutevole e inafferrabile è il corpo umano – chi può mai impararlo? Perfino le statue, per quanto immobili, per quanto viste e toccate tante e tante volte, ti paiono fluide e ondeggianti anch’esse; – ti sfuggono. Quando chiudi gli occhi non ti è possibile rievocarle con precisione, ricostruirle. La Nutrice mi ha illustrato migliaia di volte il tuo corpo, in ogni particolare. Spesso, quando mi distraggo, ti disegno nudo dietro i miei pacchetti di sigarette. Poi riempio il disegno di piccole margherite, per nasconderti, ed è come se coprissi di fiori un bel morto. Oh, davvero, che cosa nascondere per primo? – il disegno? le mani? la bocca? gli occhi? Sempre lo stesso desiderio, lo stesso peccato inadempiuto; – l’inversione del gioco: lo stesso spago, le stesse teste mozzate sul vassoio, gli stessi chiodi, e l’ombrello nero sulla scala da cui precipitarono i cinque bambini. Fuori per strada la folla si accalca, grida, corre, porta bandiere, i soldati avanzano negli angoli, aprono il fuoco. E io alla finestra vedo il fiume rosso accanto al marciapiede e sono molto amareggiata non tanto per i morti, quanto per quell’ombrello in cima alla scala e per quei cinque bambini, figli miei, bambini immaginari, piú miei di quelli che ho partorito. Non sarà che la vocazione della donna sia il parto? o non invece, vocazione involontaria, l’amore? – tormento e gloria dell’uomo. Ora puoi andare.

Senti le rane giú nel lago – sono impazzite; devono sapere qualcosa anch’esse. Forse un giorno l’imparerai anche tu (ma che importanza avrà allora?) – il nostro dolore, anche il piú infimo, ci tormenta assai piú del dolore del mondo intero. E quale mai dolore è insignificante d’altronde? Non l’hai ancora imparato. Dunque, te lo insegnerò io – e la chiamino pure ingiustizia. L’ingiustizia di un uomo verso un altro si combatte, e talvolta si vince. Ma l’ingiustizia della natura – come dire? – è inoppugnabile, priva di scopo e giustificazione – (e poi perché ingiustizia?). L’unica ingiustizia è la vita stessa. E la morte è l’unica giustizia definitiva, benché sempre in ritardo giunga. Forse anche questo è un nostro espediente, una parola di falsa consolazione – estrema consolazione per chi non ne ha ormai piú bisogno. Vattene, dunque. Perché te ne stai lí impietrito? Entra nel tuo bagno, entra a sciacquarti dai miei discorsi scellerati, dai miei occhi empi, dai miei occhi rossi, infangati. Forse lí dentro ti toglierai anche tu per poco la tua maschera, la tua armatura di vetro, la tua gelida santità, la tua micidiale viltà. Vattene, ti dico. Non sopporto l’oltraggio del tuo silenzio. Ho già preparato la vendetta. Vedrai. Peccato – non potrai ricordartene a lungo. Che cos’hanno mai le rane questa sera? gridano, gridano, gridano, – che cosa vogliono dire? e a chi? Che cosa vogliono nascondere? quale ebbrezza? quale dolore? quale verità? Che bella notte, incorruttibile – incorruttibile, incorruttibile, incorruttibile – che bella notte – (Si alza per prima. Si dirige verso la porta centrale, l’apre, scompare. L’oscurità impedisce di distinguere l’espressione dei suoi gesti, del suo volto.

Il giovane se ne va a sinistra – probabilmente verso il bagno. La sala completamente vuota, muta. D’improvviso s’inonda del rumore dell’acqua, che si amplifica di continuo come se qualcuno, lí accanto, facesse un bagno d’espiazione. Questo rumore sottolinea il silenzio della porta centrale rimasta aperta. Di lí a poco s’ode, come proveniente dalla stessa stanza, il gracidio furioso delle rane – qualcosa di elastico, viscido, sensuale, doloroso e ributtante allo stesso tempo. Di nuovo il silenzio. Solo il rumore dell’acqua che cade, meno intenso. Poco dopo, fuori nel cortile, il rumore delle ruote di una carrozza e gli zoccoli dei cavalli. Dalla porta di destra entra un uomo. Di statura imponente, oscura. C’è nessuno qui? Accende un fiammifero. Gli s’illumina la barba folta, corta, ricciuta. Accende la lampada. S’avvicina alla porta centrale. L’interno si rischiara. Sulla trave del soffitto l’impiccata. Nella sua cintura un grande foglio di carta. Lo prende. Legge: “Tuo figlio, il figlio di Antíope, ha tentato di violentarmi”. Un urlo. Non di pianto. Di maledizione. La tremenda consegna. S’adunano schiavi, cocchieri, la vecchia Nutrice, le domestiche. Il giovane esce dal bagno, nudo, gocciolante, l’asciugamani legato alla vita. Ascolta in silenzio la condanna. S’inginocchia. Fuori, nella corte, i fanali delle vetture – quella appena giunta e quella dell’altro, fulmineamente preparatosi per l’esilio – proiettano le ombre incrociate delle due statue, quelle di Afrodite e di Artemide, sul corpo dell’impiccata.)

Atene, Karlòvasi (Samo), Atene, aprile 1974-luglio 1975

[1]

Nella Grecia dei primi del Novecento era considerato ideale di bellezza l’avere la pelle bianca, e si riteneva che un anello di filo rosso intrecciato nel

mese di marzo aiutasse chi lo portava a preservarsi dai raggi del sole, che ne avrebbero guastato il bel candore.

Elena (Lo sfacelo si vedeva già da lontano – muri scalcinati, diroccati; persiane stinte; le inferriate del balcone arrugginite. Fuori della finestra del piano superiore si agitava una tenda ingiallita, sbrindellata sul fondo. Quando si avvicinò, sempre esitante, notò lo stesso abbandono nel parco: piante lussureggianti, foglie carnose, alberi non potati; i rari fiori soffocati dalle ortiche; le fontane senz’acqua, ammuffite; le belle statue coperte di licheni. Una lucertola stava immobile tra i seni di una giovane Afrodite, scaldata dagli ultimi raggi del sole al tramonto. Quanti anni fa. Era molto giovane allora – ventidue? ventitré? E lei? Non riuscivi mai a saperlo, – era cosí forte la luce che irradiava, – ti accecava, ti trafiggeva, – non sapevi piú che cos’era, se esisteva, se tu esistevi. Suonò il campanello della porta. Ne udí da fuori il suono, molto isolato, in uno spazio che gli era familiare ma che aveva ormai subíto alterazioni sconosciute, con diramazioni sconosciute, in colori oscuri. Tardavano ad aprire. Qualcuno si affacciò alla finestra di sopra. Non era lei. Una domestica – molto giovane. Pareva ridesse. Scomparve dalla finestra. Tardavano ancora. Poi passi sulla scala interna. Aprirono la porta. Salí. Un odore di polvere, di frutta marcia, di saponata secca, d’urina. Per di qua. Camera da letto. Armadio. Specchio di metallo. Due poltrone con

intagli sfondate. Tavolino di zinco con tazzine di caffè e cicche. E lei? No, no – non è possibile. Vecchia – vecchia – cento, duecento anni. Appena cinque anni fa – No, no. Il lenzuolo bucato. Lei là, immobile; seduta sul letto; ingobbita. Soltanto gli occhi – ancora piú grandi, imperiosi, penetranti, vuoti.)

Sí, sí, – sono io. Siediti un po’. Non viene piú nessuno. Sto quasi per scordarmi le parole. E del resto non servono. Credo si avvicini l’estate; si muovono diversamente le tende – vogliono dire qualcosa, – sciocchezze. Una di esse è già uscita fuori dalla finestra, si tira, vuole rompere gli anelli, fuggire sugli alberi, – forse cerca addirittura di trascinare altrove tutta la casa – ma la casa resiste con tutti i suoi angoli e assieme ad essa anch’io, benché mi senta, da mesi, affrancata dai miei morti e da me stessa; e questa mia resistenza, inconcepibile, involontaria, estranea, è l’unica cosa che ho – il mio legame con questo letto, con questa tenda; – ed è la mia paura, come se mi reggessi tutta a quest’anello dalla pietra nera che porto all’indice. Esamino questa pietra adesso, per interminabili ore, nella notte – nera, priva di riflessi – s’ingrandisce, s’ingrandisce, si riempie d’acque nere, – le acque inondano, crescono; sprofondo, non in un basso fondale, ma in un fondale alto; e da lassù distinguo sotto la mia stanza, me stessa, l’armadio, le ancelle che litigano senza voce; ne vedo una in piedi su uno sgabello che pulisce il vetro del ritratto di Leda con espressione dura, vendicativa; vedo lo straccio lasciarsi dietro una coda polverosa di minuscole bollicine che salgono e scoppiano

con un gemito silenzioso intorno alle mie caviglie o alle mie ginocchia. Vedo anche te, l’espressione del viso attonita, imbarazzata, incrinata dalle lente ondulazioni dell’acqua nera, – ora s’allarga il tuo viso, ora s’allunga con striature gialle. I tuoi capelli si muovono verso l’alto come una medusa rovesciata. Ma poi mi dico: “È soltanto una pietra, una piccola pietra preziosa”. Allora tutto il nero si contrae, si secca riducendosi a un minuscolo nodo, – lo sento qui, appena sotto la gola. Ed eccomi di nuovo nella mia stanza, sul mio letto, accanto alle mie boccette familiari che mi guardano a una a una con approvazione; – sono il mio unico soccorso nell’insonnia, nella paura, nel ricordo, nell’oblio, nell’affanno. E tu, come stai? Sei sempre nell’esercito? Abbi cura di te. Non darti troppa pena per eroismi, gradi e glorie. Che te ne fai? Ce l’hai ancora quello scudo su cui avevi inciso il mio volto? Com’eri buffo con l’elmo alto dal lungo cimiero, – cosí giovane, cosí riservato, come se avessi nascosto il tuo bel viso dietro le zampe posteriori di un cavallo, la cui coda pendeva fino in fondo sulla tua schiena nuda. Non adirarti di nuovo. Rimani ancora un po’. È ormai trascorso il tempo delle rivalità; si sono inaridite le passioni; forse ora possiamo guardare insieme allo stesso punto della vanità ove si realizzano, immagino, i soli autentici incontri – ancorché indifferenti, ma sempre mitiganti – la nostra nuova comunanza, desolata, calma, vuota, senza spostamenti e opposizioni, – rimuovere solo la cenere nel caminetto, foggiando, di quando in quando, urne cinerarie agili e belle,

o, seduti per terra, battere il suolo con mani senza suono. A poco a poco le cose hanno perso il loro senso, si sono svuotate; d’altronde ebbero mai alcun senso? – flaccide, vuote; noi le riempivamo di paglia e crusca perché assumessero forma e consistenza, solidità e fermezza, – i tavoli, le sedie, i letti su cui giacevamo, le parole; – sempre vuote come borse di tela, come i sacchi dei mercanti; – già dall’esterno indovini il contenuto: patate o cipolle, grano o granturco, mandorle o farina. A volte il sacco s’impiglia in un chiodo della scala o nel gancio di un’àncora giù al porto, si buca, si versa la farina – un fiume senza senso. Si vuota il sacco. La farina la raccolgono i poveri a manciate, per farne qualche focaccia o una farinata. Il sacco s’affloscia. Qualcuno lo solleva per gli angoli inferiori; lo scuote in aria; una nube di polvere bianca l’avvolge; gli s’imbiancano i capelli; gli s’imbiancano soprattutto le sopracciglia. Gli altri lo guardano. Non capiscono niente; aspettano che apra la bocca, che parli. Lui non parla. Piega in quattro il sacco; se ne va. Cosí bianco, inesplicabile, senza una parola, come travestito, come un libidinoso nudo coperto da un lenzuolo, o come un morto astuto, risuscitato nel suo sudario. Nessun senso, dunque, le cose e gli eventi; – cosí come le parole, benché con esse denominiamo alla meno peggio ciò che ci manca o ciò che non abbiamo mai visto – le cose immateriali, come le chiamiamo, le cose eterne; –

parole innocenti, fuorvianti, consolatrici, equivoche sempre nella loro affettata precisione; – che triste storia, dare un nome a un’ombra, proferirlo durante la notte a letto col lenzuolo sollevato fino al collo, e ascoltandolo illudersi, gli stolti, che possediamo la sostanza, ch’essa ci possiede, che ci aggrappiamo al mondo. Ora dimentico i nomi piú familiari o li confondo tra loro – Paride, Menelao, Achille, Proteo, Teoclímeno, Tèucro, Càstore e Polluce – i miei fratelli moralisti; loro, credo, divennero stelle – cosí dicono, – e guidano le navi; – Teseo, Pirítoo, Andromaca, Cassandra, Agamennone, – suoni, soltanto suoni privi di rappresentazione, privi della loro immagine tracciata sopra un vetro, sopra uno specchio di metallo o sui bassi fondali, sulla spiaggia, come quella volta, un giorno calmo e assolato, con molte alberature, quando la battaglia s’era placata, e lo strofinio delle cime fradice sulle pulegge teneva il mondo in alto, come il nodo d’un singhiozzo arrestato in una gola di cristallo – e lo vedevi, il nodo, scintillare, tremare senza riuscire a farsi grido, e d’improvviso tutto il paesaggio con le navi, i marinai e i carri sprofondava nella luce e nell’anonimato. Un naufragio diverso adesso, piú profondo, piú oscuro, – da lí salgono di tanto in tanto certi suoni, – quando battevano i martelli sul legno inchiodando una nuova trireme nel piccolo cantiere navale; quando passava una grande quadriga sull’acciottolato, prolungando su un altro ritmo i battiti d’orologio della Cattedrale, quasi che le ore fossero assai piú di dodici e i cavalli

girassero dentro l’orologio fino ad esser stanchi; o quella notte che due bei giovani cantavano sotto le mie finestre una canzone dedicata a me, senza parole; – uno era cieco da un occhio; l’altro aveva una grossa fibbia alla cintura – brillava al chiar di luna. Ora non mi vengono piú da sole le parole; – le cerco, come se traducessi da una lingua che non conosco, – e tuttavia traduco. Tra le parole, o dentro le parole stesse, restano buchi profondi; guardo attraverso questi buchi come se guardassi attraverso i nodi estirpati dalle assi di una porta sbarrata, inchiodata da secoli. Non vedo niente. Non piú parole e nomi; distinguo soltanto certi suoni; – un candelabro d’argento o un vaso di cristallo risuona da solo e all’improvviso tace fingendo indifferenza, come se non avesse risuonato, come se nessuno l’avesse toccato né gli fosse passato accanto. Un abito da donna s’accascia mollemente dalla sedia sul pavimento, spostando l’attenzione dal suono precedente alla semplicità del nulla. Intanto l’idea di una congiura silenziosa, benché dissolta nell’aria, aleggia condensata a un livello superiore, quasi ponderabile, al punto che senti il solco delle rughe di fianco alle labbra farsi piú profondo proprio a causa di questo intruso che prende il tuo posto trasformando in intruso te, qui sul tuo letto, nella tua stanza. Oh, questo esilio dentro i nostri stessi abiti che invecchiano, dentro la nostra stessa pelle che avvizzisce; mentre le nostre dita non riescono piú a stringere, a reggere intorno al nostro corpo neppure la coperta, che si solleva da sola, si disfà, scompare, lasciandoci

scoperti di fronte al vuoto. Allora la chitarra appesa al muro, dimenticata da anni, le corde arrugginite, comincia a tremare come trema il mento d’una vecchia per il freddo o la paura, e devi mettere la mano sulle corde per arrestarne il tremito contagioso. Ma non trovi la mano, non hai piú mano, e nel petto senti ch’è il tuo mento che trema. In questa casa il vento s’è fatto pesante e inspiegabile, forse per la presenza cosí naturale dei morti. Un baule si apre da solo, ne escono vecchi abiti da donna, sfrusciano, assumono posizione eretta, passeggiano in silenzio; due frange dorate restano sul tappeto; una tenda si scosta; – non si vede nessuno – eppure c’è; una sigaretta brucia da sola nel posacenere con brevi intermittenze; – chi ve l’ha messa si trova in un’altra stanza, ha l’aspetto un po’ goffo, è voltato di spalle, guarda verso il muro, probabilmente una ragnatela o una macchia d’umidità, – cosí, verso il muro, perché non si noti l’incavo oscuro sotto gli zigomi sporgenti. I morti non ci danno piú pena ormai, – ed è strano – non è vero? – non tanto per loro, quanto per noi, – questa loro neutrale familiarità nei confronti di uno spazio che li ha respinti e per cui non contribuiscono piú né alle spese di manutenzione né all’ansia per il suo sfacelo, loro, realizzati e immutabili, solo appena un po’ piú grandi. È questo che ci sorprende a volte – l’ipertrofia dell’immutabile e la silenziosa autonomia dei morti – nient’affatto arrogante; non si adoprano per importi il loro ricordo, per piacerti. Le donne lasciano che il ventre s’afflosci, che le calze cadano alle caviglie;

prendono gli spilli dalla scatola d’argento; li appuntano a uno a uno in due file regolari sul velluto del divano; poi li raccolgono e ricominciano di nuovo con la stessa cura cortese. Qualcuno arriva dal corridoio; è altissimo; – batte la fronte sullo stipite; non fa una smorfia – né si è sentito il colpo. Sí, anche i morti insensati quanto noi; soltanto piú tranquilli. Un altro leva la mano con solennità, come per benedire qualcuno, coglie un cristallo dal lampadario, se lo porta alla bocca con naturalezza, come un frutto di vetro, – ti sembra stia per addentarlo, che stia per ridar vita a una funzione umana; – no; lo tiene tra i denti perché il cristallo scintilli di bagliori vani. Una donna prende dal vasetto rotondo e bianco la crema di bellezza col gesto esperto delle due dita, e scrive sul vetro della finestra due grosse maiuscole – una sorta di E e di T [1]; – il sole scalda il vetro, la crema si scioglie, gocciola sul muro – e tutto ciò non significa niente – due piccoli solchi unti. Non so perché i morti restino qua dentro, senza la compassione di nessuno; non so che cosa vogliano e perché s’aggirino per le stanze vestiti a festa, con le scarpe buone lustrate e tutte lisce, eppure cosí silenziosi, quasi non posassero neppure i piedi per terra. Occupano posto, si sdraiano dove capita, sulle due sedie a dondolo, sul pavimento o nel bagno; si scordano il rubinetto che gocciola; si scordano le saponette profumate che si squagliano nell’acqua. Le domestiche,

passando in mezzo a loro e spazzando con la grande scopa, non ne avvertono la presenza. Soltanto, a volte, il riso di un’ancella appare un po’ forzato – non vola in alto, non fugge dalla finestra, come un uccello legato a una zampa con lo spago, che qualcuno trattiene in basso. Allora le ancelle si adirano con me senza ragione, gettano la scopa qui, in mezzo alla mia stanza, se ne vanno in cucina; – le sento preparare grandi bricchi di caffè, rovesciare lo zucchero per terra – lo zucchero scricchia sotto le loro scarpe; l’odore del caffè attraversa il corridoio, inonda la casa, si riflette allo specchio come un viso sciocco, bruno, impudente, dai ciuffi spettinati, con due orecchini azzurri falsi; alita sullo specchio, appanna il vetro. Sento la mia lingua frugare in bocca; sento la saliva. “Un caffè anche per me”, grido alle ancelle; “un caffè” (chiedo solo un caffè, nient’altro). Quelle fan finta di non sentire. Grido un’altra volta e un’altra ancora senza collera o amarezza. Non rispondono. Le sento bere il loro caffè nelle mie tazzine di porcellana con il bordo dorato e gli esili fiorellini viola. Taccio e guardo quella scopa gettata sul pavimento come il cadavere irrigidito di quel garzone dell’ortolano, secco e alto, che molti anni fa mi mostrava dall’inferriata del giardino il suo grosso fallo. Oh, sí, talvolta rido, e sento il mio riso rauco che sale non già dal petto, ma da molto piú in basso, dai piedi; da piú in basso ancora, dalle viscere della terra. E rido. Com’era tutto senza senso, senza scopo, durata né sostanza – ricchezze, guerre, glorie e invidie,

gioielli e la mia stessa bellezza. Che stupide leggende, cigni e Troie e amori e gesta. Li incontrai di nuovo, durante banchetti funebri e notturni, i miei vecchi amanti, con le barbe bianche, i capelli bianchi, i ventri ingrossati, quasi fossero già incinti della loro morte, divorare con un’estranea avidità l’arrosto di capretto, evitando di divinare il futuro sull’osso della spalla – divinare che cosa? – un’ombra piatta con appena qualche macchia bianca copriva tutto l’osso. Io, come sai, conservavo ancora l’antica bellezza quasi per miracolo (ma anche grazie alle tinture, alle erbe e alle pomate, ai succhi di limone e di cetriolo). Mi spaventava solo scorgere sui loro volti passare anche i miei anni. Allora contraevo i muscoli del ventre, contraevo con un sorriso affettato le guance, come puntellassi con una trave sottile due muri pericolanti. Cosí reclusa, serrata, tesa – che stanchezza, mio dio, – serrata in ogni istante (perfino durante il sonno) come in un’armatura gelida, o il corpo intero entro un busto di legno, come in un mio cavallo di Troia, ingannevole, stretto, conoscendo ormai la vanità dell’inganno e dell’illusione, la vanità della fama, la vanità e la precarietà d’ogni vittoria. Orsono pochi mesi, con la scomparsa di mio marito (mesi o anni?) abbandonai per sempre il mio cavallo di Troia, giú nella stalla, coi suoi vecchi ronzini, che vi passeggino dentro ragni e scorpioni. Non mi tingo piú i capelli. Grosse verruche mi sono spuntate sul viso. Grossi peli intorno alla bocca – li tocco; non mi guardo allo specchio –

peli ispidi, lunghi, – come se qualcun altro si fosse installato dentro di me, un uomo sfrontato, malevolo, la cui barba spunta dalla mia pelle. Lo lascio stare; – che cos’altro? – temo che se lo cacciassi mi trascinerebbe con sé. Non andartene. Rimani ancora un po’. È tanto tempo che non parlo. Non viene piú nessuno a trovarmi. Hanno avuto tutti fretta di andarsene. Gliel’ho letto negli occhi – avevano tutti fretta che morissi. Non scorre il tempo. Le ancelle mi odiano. Di notte sento che mi aprono i cassetti, mi portano via le trine, i gioielli, i talenti d’oro; – chissà se mi avranno lasciato un abito decente per qualche circostanza e qualche paio di scarpe. Le chiavi me le hanno prese anche quelle da sotto il cuscino; – non mi sono mossa; ho finto di dormire – un giorno o l’altro le avrebbero prese comunque; – che almeno non sappiano che so. Che sarebbe di me senza di loro? “Pazienza, pazienza”, mi dico “pazienza”, – e anche questo come un’infima vittoria, mentre loro leggono le vecchie lettere dei miei ammiratori o le poesie dedicatemi da grandi poeti; – le leggono con un’enfasi ridicola e con molti errori di pronuncia, di metrica, d’accento e di scansione; – non le correggo. Fingo di non sentirle. Altre volte disegnano con la mia matita nera per il trucco grossi baffi sulle mie statue, o gl’infilano in testa un vecchio elmo o il vaso da notte. Le guardo tranquilla. Questo le manda in bestia. Un giorno che mi sentivo un po’ meglio, le pregai di nuovo di truccarmi il viso. Me lo truccarono. Chiesi uno specchio.

Me l’avevano dipinto di verde, con la bocca nera. “Grazie”, dissi loro, come se non avessi notato nulla di strano. Ridevano. Una di loro si spogliò tutta davanti a me, indossò i miei pepli dorati, e cosí coi grossi piedi nudi, incominciò a ballare, saltò sul tavolo – sfrenata; ballava, ballava, s’inchinava tentando d’imitare i miei movimenti d’un tempo. In alto sulla coscia aveva il segno d’un morso inferto da denti forti e regolari, d’uomo. Io le guardavo come fossi a teatro; – senz’alcuna umiliazione o tristezza o indignazione – e per che cosa poi? – Ripetevo solo in fondo a me stessa: “Un giorno morremo”, o piuttosto: “Un giorno morrete”; ed era una vendetta certa, e un timore, una consolazione. Fissavo ogni cosa, con una indicibile, imperturbabile chiarezza, come se i miei occhi non dipendessero piú da me; guardavo i miei stessi occhi distanti un metro dal mio viso, come i vetri di una finestra lontana dietro la quale qualcun altro osserva ciò che avviene in una strada ignota con caffè chiusi, vetrine di fotografi e profumerie, e avevo la sensazione che una bella boccetta di cristallo si fosse rotta, e che il profumo si fosse versato sulla vetrina polverosa. I passanti indugiavano vagamente annusando l’aria, rammentavano qualcosa di buono e poi sparivano dietro gli agnocasti o in fondo alla via. Certi istanti lo sento ancora quel profumo – ovvero lo ricordo; non è strano? – gli eventi che di solito definiamo grandi si dissolvono, si estinguono – l’assassinio di Agamennone, l’uccisione di Clitennestra (mi avevano inviato da Micene una sua bella collana, fatta di piccole maschere d’oro, congiunte con anelli

in alto sulle orecchie – non l’ho mai messa). Si dimenticano; restano altre cose, accessorie, insignificanti; – ricordo che un giorno vidi un uccello posato sul dorso d’un cavallo; e questo fatto inspiegabile pareva spiegare (in particolare a me) qualche mistero. Ricordo ancora, bambina, sulle rive dell’Eurota, accanto ai tiepidi oleandri, il rumore di un albero che si scortecciava da solo; le scorze cadevano mollemente nell’acqua, navigavano come triere, s’allontanavano, e io aspettavo a ogni costo che una farfalla nera striata d’arancione si posasse su una corteccia, e si stupisse nel vedersi muovere pur stando ferma, e mi divertiva il fatto che le farfalle, cosí esperte dell’aria, non avessero la minima idea di viaggi sull’acqua e di remigazioni. E una farfalla venne per davvero. Vi sono istanti strani, solitari, burleschi quasi. Un uomo cammina a mezzogiorno portando un paniere in testa; il paniere gli nasconde tutto il viso come fosse acefalo o mascherato, con una mostruosa testa senza occhi, con innumerevoli occhi. Un altro, mentre passeggia fantasticando nel crepuscolo, inciampa in qualcosa, bestemmia, si volta indietro, cerca; – una pietruzza; la solleva; la bacia; allora si ricorda di guardarsi attorno; si allontana con un senso di colpa. Una donna infila la mano in tasca; non trova niente; estrae la mano, la solleva, l’osserva attentamente, come velata dalla polvere del vuoto. Un cameriere ha imprigionato una mosca nel pugno – non la stringe; un cliente lo chiama; se ne dimentica; disserra il pugno; la mosca vola in alto, si posa sul bicchiere. Un pezzo di carta rotola per strada esitando, con molte pause, senza attirare

l’attenzione di alcuno, e questo gli piace. Ma di nuovo, ogni tanto, emette un fruscio particolare, che lo smentisce; quasi cercasse adesso qualche testimone incorruttibile alla sua marcia modesta, misteriosa. E tutte queste cose hanno una bellezza solitaria, inspiegabile e una profondissima pena originate da gesti nostri, estranei e sconosciuti – non è vero? Quanto alle altre cose, è come se non fossero esistite – scomparse. Argo, Atene, Sparta, Corinto, Tebe, Sicione, – ombre di nomi; li pronuncio; suonano come sprofondati nell’incompiuto. Un cane smarrito, gentile, se ne sta davanti alla vetrina di una misera latteria. Una giovane passante lo guarda; quello non risponde; la sua ombra si stende sul marciapiede, immensa. Non ho mai saputo il perché. E credo che neanche esista. Resta soltanto quest’approvazione avvilente, imposta (ma da chi?) come quando accenniamo di “sí” con la testa, quasi salutassimo qualcuno con incredibile servilismo, mentre invece non passa e non c’è nessuno. È come se qualcun altro mi avesse raccontato, con voce affatto incolore, una sera, gli avvenimenti della mia vita, mentre morivo dal sonno; dentro di me speravo che si fermasse alfine, per poter chiudere gli occhi, dormire. E mentre parlava, giusto per far qualcosa, per resistere al sonno, contavo a una a una le frange della mia saliva, ritmando il conto su una canzone sciocca e infantile della moscacieca, fin tanto che la ripetizione non la privava di ogni senso. Ma il suono non si perde – frastuoni, tonfi, strascichii, – il rumore del silenzio, un pianto scompagnato,

qualcuno gratta il muro con le unghie, un paio di forbici cadono sull’assito, qualcuno tossisce; – la mano davanti alla bocca, per non svegliare un altro che dorme con lui – forse la sua morte; – smette; poi di nuovo quel rumore che sale a spirale da un pozzo vuoto, chiuso. Di notte sento le ancelle trasportare i miei grandi mobili; li portano giú per la scala, – uno specchio, portato come una barella, riflette gli stucchi corrosi del soffitto; un vetro urta le inferriate – non s’è rotto; il vecchio cappotto sull’attaccapanni solleva un attimo le mani vuote, le infila di nuovo nelle tasche; le ruote del divano strisciano per terra. Avverto sul gomito la scalfittura provocata sul muro dall’angolo dell’armadio o dall’angolo del grande tavolo intagliato. Che cosa ne faranno? “Addio”, dico quasi meccanicamente, come se salutassi un visitatore, estraneo sempre. Solo quel rombo indistinto che indugia nel corridoio come il suono di un corno da caccia di nobili decaduti, durante una battuta dopo la pioggia, in un bosco bruciato. Davvero, quante cose inutili, ammassate con tanta avidità; – occupavano tutto lo spazio – ci impedivano di muoverci; i nostri ginocchi urtavano in ginocchi di legno, di pietra, di metallo. Oh, certo, dovremo invecchiare molto, molto, prima di diventare giusti, di giungere a quella serena imparzialità, a quel dolce distacco nei confronti e nei giudizi, quando non abbiamo altro da spartire all’infuori di questo silenzio. Ah, sí, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie senza senso, sacrifici e sconfitte e sconfitte, e altre battaglie, per cose

che ormai erano state decise da altri in nostra assenza. E gli uomini, innocenti, a infilarsi le forcine negli occhi, a sbattere la testa contro il muro altissimo, ben sapendo che il muro non cede né men si fende, per consentirgli di vedere almeno da una fessura un po’ di azzurro non offuscato dalla loro ombra e dal tempo. Eppure – chissà – là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli, tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po’ d’alloro e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello d’oro. Rimani ancora un poco. S’è fatta sera. Il vello d’oro di cui dicevamo – Oh, il pensiero arriva in ritardo per noi donne – è quasi riposante. Gli uomini al contrario non si fermano mai a pensare, – forse hanno paura; forse non vogliono guardare in faccia la paura, guardare la loro stanchezza, riposarsi – vili, vanitosi, indaffarati, avanzano nel buio. I loro abiti sentono sempre del fumo di un incendio cui son passati accanto o in mezzo senza saperlo. Si spogliano in fretta; gettano i vestiti sul pavimento; si buttano sul letto. Ma il loro stesso corpo sa di fumo, – li intorpidisce. Tra i peli dei loro petti trovavo, quand’erano addormentati, certe minuscole foglie bruciate o certe piume grigio-nere di uccelli uccisi. Allora le raccoglievo e le conservavo in un cofanetto – unici indizi di un rapporto segreto; – non gliele ho mai mostrate; – non le avrebbero riconosciute.

Certi momenti, oh, sí, erano belli, – cosí nudi, arresi al sonno, privi d’affettazione, rilassati, con i corpi grandi e robusti madidi, ammorbiditi, come tumultuosi fiumi rotolati dagli alti monti nella pianura calma, o simili a bambini abbandonati. Allora li amavo realmente, come li avessi partoriti. Osservavo le loro ciglia lunghe e avrei voluto averli dentro di me per proteggerli, o per accoppiarmi col loro corpo intero. Dormivano. E il sonno t’impone il rispetto, perché è cosí raro. Tutte cose finite. Dimenticate. Non che abbia perso la memoria, – ricordo ancora; soltanto che i ricordi non hanno piú commozione, – non ci commuovono – impersonali, sereni, lindi fin nei recessi piú insanguinati. Uno solo conserva ancora un’aura intorno a sé, respira. Quella sera, circondata dalle grida interminabili dei feriti, dalle imprecazioni soffocate dei vecchi e dalla loro ammirazione, nell’odore di morte generale che, in certi istanti, scintillava su uno scudo o sulla punta di una lancia o sulla metopa di un tempio abbandonato, o sulla ruota d’un carro, – salii da sola sulle alte mura e passeggiai, sola, completamente sola, in mezzo ai troiani e agli achei, sentendo il vento incollarmi addosso i sottili pepli, tastarmi i seni, sorreggere tutto il mio corpo vestito e denudato, appena una larga cintola d’argento che sollevava in alto i seni – cosí, bella, intatta, provata, nell’istante in cui i miei due contendenti si battevano a duello e si giocava il destino di quell’annosa guerra; – non vidi neanche rompersi il legaccio dell’elmo di Paride, – forse scorsi appena un bagliore del rame, un bagliore rotondo, quando il suo avversario lo fece roteare – con rabbia sopra il suo capo – uno zero di luce. Non valeva la pena di guardare; –

l’esito l’avevano fissato in anticipo le volontà degli dèi; e Paride, privo dei suoi sandali impolverati, si sarebbe presto ritrovato su un letto, lavato dalle mani della dea, ad aspettarmi sorridente, magari nascondendo con un cerotto rosa una ferita immaginaria sul fianco. Non guardai altro; non udivo quasi i loro gridi di guerra – io, lassú, sulle mura, sopra le teste dei mortali, aerea, carnale, senza appartenere a nessuno, senza avere bisogno di nessuno, come se fossi (nella mia indipendenza) tutto quanto l’amore, – libera dal timore della morte e del tempo, con un fiore bianco tra i capelli, con un fiore tra i seni, e un altro tra le labbra per nascondere il sorriso della libertà. Avrebbero potuto colpirmi da entrambi i lati con le frecce. Mi offrivo a bersaglio camminando lentamente sulle mura, stagliandomi nel cielo porporino della sera. Tenevo gli occhi chiusi per agevolare un gesto d’ostilità da parte loro – ben sapendo in fondo che nessuno l’avrebbe osato. Le loro mani tremavano per il bagliore della mia bellezza e immortalità – (forse ora posso aggiungere: non la temevo la morte, perché la sentivo cosí lontana). Allora gettai i due fiori dai seni e dai capelli; – il terzo lo tenevo ancora tra le labbra; – li gettai ai due lati delle mura con gesto d’assoluta degnazione. E allora gli uomini, dentro e fuori le mura, si gettarono l’uno sull’altro, avversari e alleati, per conquistare quei fiori e offrirmeli – i miei fiori. Non vidi nient’altro dopo, – soltanto schiene curve, come se tutti fossero inginocchiati per terra, dove seccava al sole il sangue; – forse calpestavano già quei fiori. Non vidi. Avevo mosso le mani, mi ero sollevata sulle punte dei piedi, e ascesi al cielo lasciandomi cadere di bocca anche il terzo fiore.

Questo mi resta ancora – una sorta di ricompensa, di giustificazione a distanza, e forse questo rimarrà, mi dico, in qualche parte al mondo – una libertà momentanea, immaginaria, naturalmente, anch’essa – un gioco del destino e della nostra ignoranza. È proprio in questa posa (per quanto mi ricordo) che gli scultori tentavano di modellare le mie ultime statue; – si trovano ancora nel giardino; entrando le avrai viste. A volte anch’io (quando le ancelle sono di buon umore e sorreggendomi per le ascelle mi portano su quella sedia davanti alla finestra) le vedo. Splendono al sole. Un calore bianco sale dai loro marmi fin quassú. Non riesco a pensare piú a lungo. Mi stanco presto anche di questo. Preferisco guardare un pezzo di strada dove due o tre bambini giocano con una palla di stracci, o una ragazza cala un paniere legato a una corda dal balcone di fronte. A volte mi dimenticano lí le ancelle. Non vengono a riportarmi sul letto. Resto tutta la notte a guardare una vecchia bicicletta, appoggiata davanti alla vetrina illuminata di una nuova pasticceria, finché si spengono le luci, o io mi addormento sul davanzale. Ogni tanto ho l’impressione che mi svegli una stella che cola nello spazio come la bava dalla bocca sdentata e aperta d’un vecchio. Adesso è tanto che non mi portano alla finestra. Rimango qui sul letto seduta o sdraiata, – questo lo sopporto. Per far passare il tempo mi prendo il viso tra le mani – un viso estraneo; – lo tocco, lo tasto, conto i peli, le rughe, le verruche; – chi c’è all’interno di questo viso? Qualcosa d’aspro mi sale alla gola – la nausea e la paura, la stupida paura, mio dio, di perdere anche questa nausea. Rimani ancora – entra un po’ di luce dalla finestra – avranno acceso i lampioni sulla strada.

Non vuoi che suoni il campanello perché ti portino qualcosa? – un po’ di visciolata o di cedrangoli canditi, – dev’esserci rimasto qualcosa nei grandi vasi incrostato di zucchero, rappreso – naturalmente se l’hanno risparmiato quelle ingorde delle ancelle. In questi ultimi anni mi dedicavo da sola a fare confetture – che cos’altro fare? Dopo Troia, – la nostra vita a Sparta era cosí noiosa – l’autentica provincia: tutto il giorno tappati in casa, tra i bottini ammassati di tante guerre; e i ricordi, sbiaditi e importuni, che ti si trascinano dietro, nello specchio quando ti pettini i capelli o, in cucina, provenienti dai vapori grassi della pentola; e nel gorgoglio dell’acqua che bolle risentire certi esametri dattilici del terzo canto mentre dal pollaio del vicino s’ode il canto sconnesso d’un gallo. La conosci bene la monotonia della nostra vita. Perfino i giornali simili nel formato, nello spessore, nei titoli, – non li leggo nemmeno piú. Di tanto in tanto bandiere sui balconi, feste nazionali, parate militari, come caricate a molla; – soltanto la cavalleria conservava qualcosa d’improvvisato, di personale – forse grazie ai cavalli. Sollevavano nuvole di polvere; chiudevamo le finestre; – dover poi stare a spolverare uno per uno vasi, scatolette, cornici, statuine di porcellana, specchi, buffè. Non andavo piú alle cerimonie. Mio marito tornava in un bagno di sudore, si gettava sul cibo schioccando le labbra, e insieme rimuginando antiche glorie uggiose e rancori sopiti. Io osservavo i bottoni del suo gilè sul punto di staccarsi – era ingrassato molto.

Una grande macchia livida gli balenava sotto il mento. Allora mi afferravo il mento, continuando a mangiare distrattamente, avvertendo nella mano i movimenti della mascella come fosse staccata dalla testa e la reggessi nuda in mano. Forse perciò sono ingrassata anch’io. Non so. Tutti parevano spaventati – li vedevo ogni tanto dietro i vetri; – camminavano di traverso come se zoppicassero, come se nascondessero qualcosa sotto il braccio. Il pomeriggio suonavano a morto le campane. I mendicanti bussavano alle porte. Giú in fondo l’intonaco della facciata della Maternità, nel crepuscolo, sembrava ancor piú bianco, piú lontano e incomprensibile. Accendevamo presto le lampade. Aggiustavo qualche mio vecchio abito. Poi si guastò anche la macchina da cucire; la trasportarono giú in cantina assieme a quelle vecchie romantiche oleografie con scene mitologiche banali – Anadiomeni, Aquile e Ganimedi. Se ne sono andati uno dopo l’altro i vecchi amici. Piú rara anche la corrispondenza. Solo in occasione di qualche festa, di qualche compleanno, una cartolina frettolosa – un paesaggio stereotipato con le cime merlettate del Taigeto, molto azzurre, un angolo dell’Eurota con i ciottoli bianchi e gli oleandri, o le rovine di Mistrà con i fichi selvatici. Ma il piú delle volte telegrammi di condoglianze. E mai una risposta. Forse il destinatario era morto nel frattempo – non ne sapevamo di piú.

Mio marito aveva smesso di viaggiare. Non apriva piú un libro. Gli ultimi anni era diventato molto nervoso. Fumava ininterrottamente. Di notte passeggiava nel grande salone, con quelle pantofole marrone sfondate e la lunga camicia da notte. Ogni mezzogiorno, a tavola, se ne veniva fuori con l’infedeltà di Clitennestra o con la giusta azione di Oreste come se proferisse una minaccia. Ma chi ci faceva caso? Non lo ascoltavo piú. Eppure mi mancò molto quando morí, – mi mancarono soprattutto quelle sue stupide minacce come se proprio quelle mi destinassero un posto inamovibile nel tempo, come se quelle m’impedissero d’invecchiare. Allora immaginavo Ulisse, anche lui non invecchiato, col suo astuto berretto triangolare, tirare in lungo il suo viaggio di ritorno, lo scaltro, – col pretesto di pericoli immaginari, mentre si abbandonava (con la scusa del naufragio) ora tra le braccia di Circe ora tra quelle di Nausicaa, a farsi togliere dal petto le conchiglie, a farsi lavare con saponette rosa, a farsi baciare la cicatrice sul ginocchio, a farsi spalmare d’olio. Credo sia giunto a Itaca anche lui; – immagino l’avrà imbacuccato con le sue tele la sgraziata e grassa Penelope. Da allora non ho piú avuto un suo messaggio – può anche darsi li straccino le ancelle, – a che servono ormai? Le Simplegadi si sono trasferite altrove, in un luogo piú interno – le senti immobili, molli – piú tremende di prima, – non schiacciano, ti annegano in un liquido vischioso e nero – per nessuno c’è scampo.

Ora puoi andare. S’è fatta notte. Ho sonno, – poter chiudere gli occhi dormire, non vedere né fuori né dentro, dimenticare la paura del sonno e quella del risveglio. Non ce la faccio. Trasalisco – ho paura di non svegliarmi piú. Rimango insonne ad ascoltare le ancelle che russano nel salone, – i ragni sui muri, gli scarafaggi in cucina, o i morti che respirano sbuffando profondamente, quasi dormissero davvero, quasi si fossero acquietati. Perdo perfino i miei morti adesso. Li ho perduti. È finita. Certe volte, a mezzanotte passata, s’ode giú in strada il rumore ritmato degli zoccoli dei cavalli d’una carrozza attardata, che pare far ritorno dalla rappresentazione funebre in un teatro diroccato di quartiere con gli stucchi del soffitto staccati, coi muri scalcinati, con un immenso sipario calato, rosso stinto, ristretto dai troppi lavaggi, – e dalla fessura che lascia sul fondo s’intravedono i piedi scalzi del grande attrezzista o dell’elettricista che forse arrotola un bosco di carta prima di spegnere le luci. Quella fessura resta ancora illuminata, mentre giú in platea lampadari e applausi sono spenti da tempo. Nella sala aleggia pesante il respiro del silenzio, e il ronzio del silenzio sotto le sedie vuote, con le bucce dei semi di girasole e i biglietti sgualciti, con qualche bottone, un fazzoletto con le trine, un pezzo di spago rosso. … E quella scena, sulle mura di Troia, – che fossi davvero ascesa al cielo lasciandomi cadere dalla bocca…? – A volte mi avviene ancora di provare, distesa qui sul letto, ad aprire le braccia, a camminare sulle punte dei piedi, a camminare in aria, – … il terzo fiore – (Tacque. Reclinò il capo all’indietro. Forse s’era addormentata. L’altro si

alzò. Non disse buonanotte. Era già buio ormai. Uscendo nel corridoio s’accorse che le ancelle, incollate al muro, stavano origliando. Non si mossero affatto. Scese la scala interna come se scendesse in un pozzo profondo, con la sensazione che non avrebbe trovato la porta per uscire – nessuna porta. Le dita contratte cercavano già la maniglia. Immaginò anzi che le sue mani fossero due uccelli boccheggianti per la mancanza d’aria, mentre allo stesso tempo sapeva che questa immagine non era se non l’espressione di autocommiserazione che generalmente opponiamo a un timore indefinito. D’un tratto s’udirono voci di sopra. S’accesero le luci sulla scala, nel corridoio, nelle stanze. Salí di nuovo. Ora non aveva piú dubbi. La donna era seduta sul letto, il gomito appoggiato sul tavolino di zinco e la guancia sulla palma della mano. Le domestiche entravano, uscivano, facevano rumore. Qualcuno telefonava in corridoio. Sopraggiunsero le vicine. “Ah, ah”, facevano, e nascondevano qualcosa sotto le vesti. Di nuovo il telefono. Erano già arrivati i gendarmi. Mandarono via le ancelle e le vicine. Quelle fecero in tempo ad arraffare le gabbie coi canarini, alcuni vasi di piante esotiche, una radiolina a transistor, una stufetta elettrica. Una teneva un grande quadro d’oro. Adagiarono la defunta su una barella. L’ufficiale appose i sigilli alla casa – “finché si trovino gli eredi”, disse, – ben sapendo che non esistevano eredi. La casa sarebbe rimasta coi sigilli quaranta giorni, dopodiché i suoi beni – quelli scampati – sarebbero stati messi all’asta per conto dello Stato. “All’obitorio”, disse all’autista. La vettura coperta s’allontanò. Di colpo scomparve ogni cosa. Silenzio assoluto. Soltanto lui. Si voltò a guardare. Era sorta la luna. Le statue del parco illuminate fiocamente – le statue di lei, solitarie, accanto agli alberi, fuori della casa coi sigilli. E una luna tranquilla, ingannatrice. Dove sarebbe andato adesso?)

Karlòvasi (Samo), maggio-agosto 1970

[1]

Eros e Thanatos.

Persefone (È tornata, come ogni estate, dal paese straniero e oscuro alla grande casa paterna di campagna, – molto pallida, come stanca per il viaggio, come malata per la grande differenza di clima, di luce, di temperatura. Come se uno strato d’ombra protettrice le coprisse ancora il volto e le mani. Se ne sta sdraiata sul vecchio divano, in una stanza spaziosa e dipinta di fresco, al piano di sopra, con le imposte delle tre finestre e la porta del balcone chiuse. Tuttavia un riflesso rischiara intensamente i muri con striature tremule di luce. Per terra, un mucchio di cesti colmi di fiori di campo, simili a quelli che non aveva fatto in tempo a portare con sé all’epoca del suo primo, repentino viaggio. Evidentemente glieli avevano portati poco prima le amiche in segno di benvenuto. Ora, accanto a lei, resta solo una giovane con una leggera veste azzurra, con un nastro azzurro nei capelli, come fosse la sua amica piú devota e fedele, l’equorea Ciane. Accanto al divano, su una sedia, un piatto con acqua fresca. Ogni tanto l’amica vi bagna un fazzoletto di batista ricamato, lo strizza e lo depone in basso sulla fronte della viaggiatrice,

nascondendole le sopracciglia. Di quando in quando qualche goccia le cola di traverso sulla guancia, bagnando il largo cuscino colorato, – quasi piangesse con lacrime non sue. Anche i capelli sono un po’ bagnati. Fuori s’ode appena il mare – calmo, un olio – e talora la voce di un bagnante. Ora il riflesso si fa piú intenso nella stanza. La viaggiatrice parla):

Te l’assicuro, – stavo bene laggiú. Mi ci sono abituata. Qui non resisto; c’è troppa luce – mi fa ammalare – una luce denudante, inaccessibile; rivela ogni cosa e la nasconde; ogni tanto cambia – non fai in tempo; cambi; avverti il tempo che passa – un andirivieni incessante, spossante; si rompono i bicchieri nel trasloco, restano sulla strada, brillano; qualcuno salta sulla terraferma, qualcun altro s’imbarca sulle navi; – come allora venivano, andavano i nostri visitatori, ne arrivavano altri; restavano per un po’ nei corridoi le loro grandi valigie – un odore estraneo, paesi stranieri, nomi stranieri, – la casa non ci apparteneva; – era anch’essa una valigia con la biancheria nuova, sconosciuta – uno poteva prenderla per il manico di pelle e andarsene. A quei tempi ne eravamo felici, ovviamente. Allora un gesto pareva una sorta d’elevazione; – arrivava sempre qualcosa; e benché anche allora temessimo che se ne sarebbe andata, non conoscevamo ancora il balzo furtivo della nave dall’altra parte dell’orizzonte, o della rondine e dell’oca selvatica dall’altra parte della collina. Sul tavolo rilucevano i bicchieri, i piatti, le forchette dorati e azzurri per il riflesso del mare. La tovaglia

bianca, ben stirata, era un chiarore piatto; non aveva nessuna piega che offrisse riparo ad altri significati, ad altre supposizioni. Ora è insopportabile questa luce, – deforma ogni cosa, la rivela nella sua deformazione; e la voce del mare estenuante, con quel suo infinito instabile, i suoi colori fugaci, i suoi umori alterni. E quegli stupidi barcaioli coi calzoni sbottonati, fradici, ti fanno andare in bestia; per non dire dei bagnanti, simili a carbonai, tutti sporchi di sabbia, che ridono, schiamazzano (quasi fossero contenti) solo per farsi sentire come se non bastassero a se stessi. Laggiú nessuno si tuffa in acqua; nessuno grida. I tre fiumi, grigi, sprezzanti, mentre confluiscono attorno al grande scoglio, fanno un rumore ben diverso – possente, uniforme – quel rumore immoto del flusso eterno; – ti ci abitui; quasi non lo senti. Quando il fratello di mia madre venne a casa la prima volta aveva un che di grigio, come questi fiumi. D’improvviso s’era ammalato. Lo misero nel grande letto; gli fecero le ventose (credo si fosse raffreddato per la grande luce e il caldo); – ricordo le sue spalle brune, larghe, forti, come un prato erboso. Temevo che gli si incendiassero i peli, tanto era vicina la candela, la candela bianca nella bugia d’argento. Dopo la posero sul marmo del lavabo. La stanza sentiva di cotone bruciato. I suoi abiti, ancora caldi, gettati sulla sedia. Guardavo la candela spandere grosse gocce sul marmo. Lo zio colse il mio sguardo. Provai vergogna. Me ne volevo andare. Non potevo. S’era messo supino; s’era tirato giú la maglia; e benché il suo petto fosse scuro e la maglia bianchissima,

avevi nondimeno l’impressione che una tenda nerissima avesse coperto qualcosa di molto lucente e pericoloso. Cosí, allora, lo zio, col lenzuolo tirato fin sul mento, sorrideva bellamente dalla sua febbre. Sotto il lenzuolo si distinguevano le sue gambe forti fino al pube. Uscii dalla stanza. Non lo rividi piú finché rimase; gironzolavo nei campi. Tre mesi dopo inviò a mia madre, da un paese straniero, un mucchio di suoi abiti vecchi per i poveri. Riconobbi subito il suo corpo. Un paio di pantaloni restò per diversi giorni sull’attaccapanni del corridoio. Li guardavo per ore e ore, li toccavo con le mani; pensavo di rubarli, di nasconderli sotto il materasso, di indossarli. Avevo paura. Un giorno, misi una sedia; vi salii; infilai il viso e li annusai. Caddi dalla sedia. Mi spaventai. Non mi feci male. Accorsero al rumore. Non dissi niente. Non sentivo male. Solo un sapore profondo di peccato. Quei pantaloni li diedero a uno dei nostri domestici. Gli andavano a pennello. I domestici (l’avrai notato) hanno un loro modo di fare tutto strano, una loro vita a parte, chiusa e insidiosa, a dispetto della muta devozione che mostrano, del loro stesso rispetto; una sorta di ostilità e voracità negli occhi, sulle labbra e, soprattutto, nelle mani: robuste, austere, abili, confidenti, gravi, tozze come orsi, lente per quanto così svelte, quando strigliavano i cavalli, attaccavano la carrozza o squartavano un bue, o inchiodavano un tavolo o zappavano il giardino – Dio mio, come sono stupidi e sciocchi, – né sanno quanto sono belli nella loro pelle consistente e sudata, mentre sono dediti al lavoro tra martelli, chiodi, seghe, – un cumulo di attrezzi

dai nomi sconosciuti, – spaventosi nella loro utilità, spaventosi nella loro aria di mistero, o piuttosto di congiura, legni e ferri intricati, lame affilate, bagliori – E tutti hanno un odore grave d’acqua stagnante e pino, o di latte di fico. Davanti a noi non si sbottonano mai neanche un bottone della camicia. Non ridono mai. Però lo sai che tra di loro stanno nudi, scherzano, lottano i pomeriggi estivi, nelle stanze giú in basso. Un giorno li vidi dal buco della serratura. Uno dormiva sul materasso in terra; gli altri lo denudarono senza far rumore, gli dipinsero il sesso con la fuliggine tutto a strisce, come un serpente eretto. Lui si svegliò; prese a rincorrerli; correvano sotto le arcate, intorno alle colonne, ridevano grandi risate omeriche. Ebbi paura. Me la diedi a gambe. Dio mio, tutto a strisce, una di luce, una d’ombra, in un tunnel verticale senza fine, un che di chiuso, di traditore. Soffocavo. Volevo urlare. Non gridai. Salii i gradini a due a due; – rombava la tromba delle scale, fresca, ombrosa, fuori s’udivano la calura d’oro e le voci dei barcaioli lontane lontane, oscure, come peli d’ascella d’uomo. Soffocavo. Corsi di sopra, nella stanza grande, aprii la porta del balcone; entrò un odore di catrame e carrube, un odore di rosso; il cane di mia madre dormiva all’ombra del grande nespolo col muso sulle due zampe. Richiusi la porta. Forse perciò alla fine scegliamo l’ombra. L’oscurità è nera – nera, liscia, inalterabile, senza sfumature. Ti evita lo sforzo di distinguere, – a che scopo? Quel domestico sembrava fatto d’ombra. Ricordi? – Quando mi afferrò raccoglievamo fiori nel grande prato. I canestri pieni

di crochi, viole, gigli, rose, amaranti, giacinti; – io m’ero chinata su un fiore strano – somigliava a un narciso, – un narciso mai visto, con cento colori, cento steli; gli scintillavano sopra le gocce di rugiada. E io lí, abbagliata, china, come ripiegata su me stessa, come sporta su un pozzo, vedevo la mia figura (quasi autonoma), innamorata con l’ombra rosa agli angoli delle labbra, con l’incavo pulsante, eburneo, tra i seni. Sulla mia schiena sventolava come una bandiera la calura; mi bruciava i capelli; migliaia di stelle sottilissime lampeggiavano, una per ogni capello, con colori a cinque raggi. Le vedevo nell’acqua fresca (o in quel narciso? – non so), innumerevoli, brillavano intorno al mio viso, come avessi preso fuoco, come se volessi gettarmi sulla mia liquida immagine per spegnerlo. E all’improvviso vidi ergersi dinanzi ai miei occhi i suoi due cavalli neri come abbagliati dalla luce (li vidi nell’acqua anch’essi). Gridai, non di paura ma per l’abbagliamento, come se mi avesse inghiottito quel fiore, come fossi caduta nel pozzo, come avessi disceso d’un balzo tutta la scala fino alle stanze dei domestici; e avvertii sotto i piedi nudi lo stupendo scivolio dell’emisfero inferiore. Feci appena in tempo a veder cadere in quella crepa i vostri canestri con i fiori, la fontana del giardino, il leone di pietra, la tartaruga di bronzo. Ricordo quell’austera, interiore densità, e sopra di essa vi sentivo gridare il mio nome; e il mio nome era estraneo; estranee le mie amiche; estranea la luce di sopra con le case bianchissime, quadrate,

coi frutti carnosi, variopinti, simulatori e impertinenti, con quella bocca fragile e vorace dei cereali. Non ebbi affatto paura. Avvertii appena il senso della perdita agli angoli delle labbra che d’improvviso si seccarono; non articolavano suono, non ne aveva no alcuna voglia, nient’altro che la lontana, oscura libertà, affrontata corpo a corpo – io e lei – l’una dentro l’altra – un corpo incredibile. Sentii allora il suo braccio circondarmi la vita, ruvido, peloso, muscoloso, domare la mia resistenza; – ma quale resistenza? – io non ero piú io; – nessun timore, dunque, d’essere umiliata; ogni cosa s’era immobilizzata nell’infinita trasparenza d’una compiutezza impossibile. “Hai paura?”, mi domandò (come sono deboli i molto forti; – temono sempre che non li temiamo abbastanza, – belli, privi di sospetto nella loro puerile arroganza). “Sí, – risposi, – ho paura”, e lui mi strinse a sé piú forte, tanto che sentii i peli del suo braccio penetrare nei miei pori come fossi legata al suo corpo da migliaia di sottilissime radici – per niente vincolata, giacché ero in stato d’abbandono. Laggiú le case sono sotterranee, i fiumi sotterranei, il cielo sotterraneo; qualche raro pioppo cinereo nel campo sotterraneo, i cipressi neri, i salici sterili, la menta selvatica e alcuni melograni. Mi sbucciava le melagrane con le sue mani. Le sue dita diventavano ancora piú nere. I chicchi rilucevano fiocamente come fialettine di vetro colme di sangue. Mi dava da mangiare sulla sua mano

tra le grosse giare e i sedili di pietra, perché non mi scordassi di tornare ancora da lui. – Come non tornare? Questo mare ti getta la sua luce, polvere di vetro, negli occhi, in bocca, nella camicia, nei sandali. “Tienimi, – gli dicevo; – lascia ch’io sia solo l’uno – o anche la metà; – l’intera metà (quale che sia), non i due, non le parti separate e incongiungibili, giacché non mi rimane altro ch’essere l’incisione – cioè non essere – una pugnalata verticale e il dolore radicato –”; e il pugnale, neppure quello tuo. “Non resisto, – gli dicevo; tienimi”. Lui è la grande certezza oscura – l’unica. L’espressione sempre tetra, gli occhi nascosti dalle sopracciglia folte, cosí eretto, e tuttavia quasi curvo, chiuso in se stesso, nei suoi peli, come invisibile, mentre morde una foglia o fuma la sua pipa di coccio e la piccola fiamma gli illumina dal basso le narici come se lontano lampeggiasse, in un paesaggio deserto, carnale, in un paesaggio assorbente; – mi assorbiva. Sul muro cieco del sotterraneo erano appesi due anelli di bronzo. Brillavano di una luce segreta, verdenera; – forse vi faceva ginnastica qualcuno o vi s’impiccò un bel giovane. Mi piaceva guardarli – due fori aperti sul nulla – li riempivo con quello che volevo. Ricordo quella statua che contemplavamo al Ginnasio un pomeriggio, una statua d’oro, d’argento, di piombo, di bronzo, di stagno dipinta d’un colore oscuro (ora capisco quanto gli somigliasse) – credo che fosse di Serapide – opera di Briasside l’ateniese – oh, qualcosa doveva sapere anche lui. Ci piaceva molto, con la fronte cinta d’alloro, bello, con la stupenda stanchezza sparsa in tutto il corpo

come un campione di pentathlon che fa la sua comparsa dopo i giochi, nudo, poco prima di entrare nel bagno, tra la ristretta cerchia degli amici (i vincitori hanno sempre pochi amici o nessuno). Se ne stava un po’ imbarazzato nella sua vittoria, non sapendo come rispondere, condiscendente e inaccessibile. Allora una nube (rosa, credo) oscurava tutto l’anfiteatro. L’unghia del suo pollice, lunga, a poco a poco s’allargava (questo lo notai in modo particolare; non te lo dissi) come una spiaggia disabitata, che esalava l’infinita malinconia degli eroi. E lí, su una gradinata, restava una bottiglia vuota di limonata, riflettendo con falsa familiarità qualcosa di austero e di compiuto. Strano, adesso, ch’io parli e ascolti la mia voce. Un tempo avevo paura di tradirmi. Solo dentro di me dicevo, ripetevo lentamente, gravemente il suo nome. Lo chiamavo muta, di notte, “Tenebroso, Tenebroso”, voltata verso il muro. Com’è accaduto che si è confuso tutto, laggiú, nel cielo basso, traforato a volte dal canto di un uccello? – il domestico, la statua, lo zio – tutto senza suono, tutto carne e ombra. Qui ti persegue un odore di resina calda e d’orzo bruciato. Le isole, sparse nel fulgore del mare, esigono sempre qualcosa da te, ti prendono o ti vietano qualcosa. Qui i meriggi, rappresi nella luce, somigliano a una stazione termale morta. Una malata di mente vi corre nuda, gridando tra case calcinate chiuse, nell’aria gialla; e il mare splende pietrificato con alberature e bandiere immobili. E quella donna corre folle; – a tratti s’ode il suo grido mobile sul colle o il suo ansimare qui, sotto le persiane. Laggiú

nulla turba il silenzio. Solo un cane (e anche lui non abbaia), un brutto cane, il suo, sinistro, coi denti storti, con due grandi occhi vaghi, fedeli e estranei, oscuri come pozzi, – nei quali non distingui il tuo viso, le tue mani o il suo viso. E tuttavia distingui l’oscurità intera, compatta e trasparente, completa, consolante, priva di peccato. Finge di non vederti ma annusa tutto. Nell’istante in cui sogno, sento d’improvviso il suo respiro alitarmi sotto il mento o passarmi sulle tempie come se controllasse i miei pensieri, i miei brividi, il desiderio (e anch’io li vedo). Tutti i miei gesti, perfino i piú calmi e semplici, quando mi pettino, quando mi lavo, sento che si ripercuotono nel lago del suo respiro, descrivono interminabili cerchi fino a quel grande fondo impenetrabile come l’inesistenza. Ogni parola taciuta, ogni gesto differito, resta nel suo spazio, in suo potere, – lui li aspira. A volte, quando passeggio in giardino smemorata, sotto i pioppi, o lavo una camicia nella bacinella di pietra, o mi poso la mano sul seno, o tengo un fiore, con una tenerezza tutta mia, mi sento improvvisamente nuda, inchiodata al muro, o al tronco di un albero, o nello specchio di metallo del corridoio, soprattutto lí, nello specchio, doppiamente inchiodata, doppiamente visibile, senza un nascondiglio, senza una foglia, in una densa trasparenza, illuminata dentro e fuori dai due riflettori del suo respiro che erompono dalle sue narici strette, sornione,

le sue divinatorie, sensuali, ieratiche narici. “Caccialo, caccialo”, gli gridavo a volte, seduta lí, adirata, con un vago senso di colpa e d’innocenza, non avendo piú nulla da nascondere – libera nella mia impotenza. Solo i miei capelli sventolavano qua e là, dentro e fuori le sue narici, come radici in continuo movimento, rifulgevano attorno a me come ali o come onde. Li vedevo. Essi mi davano un’altra fierezza – la mia – un’indipendenza nei confronti del cane e del suo padrone. Del resto, da chi e per chi mi custodisce? Per il suo padrone, forse? Per me stessa? Una sera in giardino fece un balzo e mi abbracciò con le zampe anteriori la vita. Sulla coscia destra mi rimase qualcosa di umido, di tiepido. Allora ebbi paura. E invero dinanzi a me si ergeva il grande serpente, con la lingua fuori. Forse mi custodiva da quello? Da chi e per chi mi custodisce? Ho ancora il segno sulla coscia, liscio, lattiginoso, come la pelle nuova di una ferita cicatrizzata. Un’eiaculazione, forse, o non invece una lacrima? Piangono anche i cani; – lo so; – tanto che a volte mi è perfino simpatico, – quando specchia nel fiume la sua bruttezza le sere con la luna; quando consente docilmente che gli infili tra i peli ruvidi asfodeli, margherite, fiori di menta; – cosí ridicolo nella sua grossolana sottomissione, – assume tratti di debolezza umana. Ma forse che anche lui un giorno non fu vinto da un uomo? Lo trascinarono fuori in piena luce, lo schernirono; una moltitudine di bambini e di vecchi malvagi osservarono nel meriggio, in mezzo alla strada, il suo grugno oscuro, le sue zanne storte, il suo pelo nero impolverato, dove c’era ancora

una mia margherita. Non voglio che lo scacci. È una compagnia anche lui; – sta continuamente in agguato, costringendomi a sorvegliare me stessa, a trovarmi. Quaggiú, un’infinità di voci e di riflessi, da direzioni opposte, ti chiamano, ti spartiscono, come quando entravamo nello Stadio – ricordi? – torridi meriggi, il marmo caldo – ci scottava i piedi; le gradinate esalavano vapori; non sapevamo quale isolare di quei corpi nudi; – una tensione senza fine; i nostri occhi si moltiplicavano, ci accerchiavano il viso tentando di avere una visione circolare di quei corpi. I giavellotti si libravano; un piede si slanciava in aria; il disco scintillava; migliaia di piedi splendevano volando; un petto sudato toccava ansimante il nastro; – non sapevi da che parte guardare. Non bastiamo mai ai nostri desideri. E il desiderio non ci basta. Rimane la stanchezza, la rinuncia, – un’abulia quasi felice, il sudore, il distacco, il caldo. Finché infine arriva la notte a spegnere ogni cosa, a confondere tutto in un corpo solido e immateriale, tuo, a portare un alito di vento dalla pineta o giú dal mare, a sprofondare le luci, a sprofondarci. Fuori delle finestre senti passare il violinista ambulante, il lampionaio zoppo, e quei viandanti taciturni e lenti che tengono in mano cofanetti di quercia legati con nastri rossi, e gli altri, prosternati a terra, che battono il suolo con le mani. Senti anche i cavalli nella stalla, e l’acqua che cade mentre i pellegrini sollevano due vasi di coccio,

uno verso oriente, l’altro verso occidente, versando idromele o sciroppo d’orzo mescolato con mentuccia sopra la fossa con gli allori, mormorando parole ambigue, suppliche ed esorcismi. E la voce di mia madre che dice qualcosa sulla “spiga d’oro, mietuta nel silenzio”. Ma neppure la notte dà riposo; – un corridoio senza fine, impenetrabile, con statue enormi, con tende dipinte, maschere, specchi, illusioni ottiche, oggetti di metallo, cristalli, porte, pietre, ora nel buio, ora nella luce, – quella stessa scala, un gradino d’oro e uno nero. “Rompila”, gli dicevo. E le tre donne sempre lí, voltate di spalle, coi visi coperti, chine sul pozzo secco, gridando parole incomprensibili; e gli echi che moltiplicano le loro voci inspiegabili dal pozzo. Non ne posso piú qui. Questa luce di resurrezione è la morte. Chiudi le tende. Estate lunga, inesorabile, ostile. Il sole ti afferra dai capelli, ti sospende sul precipizio. Chi dispone di me? Lui? Il suo cane? Mia madre? Ciascuno per un suo intento che mi riguarda e che io ignoro. Giorni interminabili. Tarda a far notte. E la notte è come il giorno – non ti nasconde. Il mare scintilla anche a mezzanotte, rosa o verde-oro. Il sale scricchia rapprendendosi sugli scogli. Un barcaiolo piscia in mare dalla sua barca. Si sente il rumore tra gemiti muti; – sono gli ormeggi fissati con ganci di metallo – un tiro alla fune

tra acqua e terra, – la stessa scala. Sopra la spiaggia la strada prosegue tra due file di oleandri impolverati. Una pianta spinosa vacilla in fondo al campo come un capitello pericolante. Il ronzio di una zanzara si sposta nella stanza inviando segnali fuorvianti, descrivendo losanghe fugaci, spossando la tua attenzione con angoli acuti e ottusi. Il vento ha un forte odore di resina e di sperma. Non riesci a respirare. S’odono passi dopo mezzanotte, – forse sono i domestici; gettano le ferraglie in fondo al giardino. A poco a poco le soffocano le ortiche, – un piatto d’alluminio, un cucchiaio, una statuetta rotta, un tavolo di zinco. Con l’arrivo dell’autunno si scoprono di nuovo, – la ruota, un remo, il timone, l’assale di quella vecchissima carrozza – oggetti del ricordo, cose nostre, inservibili, tormentate, arrugginite e nondimeno quasi sferiche, come le giare in cantina o come le stelle. Allora si fa una grande quiete morbida, gentile, umida, fin oltre il giardino, fino al limite del ricordo, come fosse arrivato l’autunno all’improvviso. Da qualche parte, in fondo, s’odono colpi freschi, in falegnamerie lontane come se inchiodassero lunghe assi piallate. La biancheria stesa sulla corda in cortile tarda a asciugare. È l’ora in cui le lepri scendono sulla strada. I loro occhi lampeggiano ai fari delle ultime vetture. Una grande calma, piatta, distesa, – non la puoi avvolgere; un suo angolo si bagna nel fiume, il secondo s’innalza verso sud, lontano, sul mare,

il terzo si perde sull’isola di fronte, nel bosco, il quarto sulla luna con l’erba gialla. È bello d’autunno. Respiro. Il sole perde il suo dispotismo, la sua terribile alterigia. Tutto s’ammansisce; tutto torna se stesso, tanto che dico: che non sia la morte il nostro piú autentico “me stesso”? La stella della sera sorge molto piú in alto, cristallina, diafana; scintilla beneaugurante sopra il bosco nero, come una goccia minuscola d’acqua limpidissima, sfavillando molto vicina, come incollata al vetro della finestra, e al tempo stesso infinitamente lontana, – un bagliore bianco, una lacrima distillata, tutta limpidezza, indipendenza e gioiosa inutilità – una silenziosa, profonda certezza della fine e del sempre. È quella l’ora di tornare a lui, quasi redenta, o piuttosto per redimermi alla sua ombra. Tira le tende. Guarda: un’ape s’è posata immobile sul mio anello, ronza di già – la senti? – una pietra preziosa sonora. Chiudi le tende, dunque. Non resisto quassú. Questa luce mi trafigge con migliaia di aghi, m’acceca. Non la sopporto. Tirale, ti dico, quelle tende. (La sua amica si alzò per tirare le tende. Ma lei si levò di scatto dal divano. Il fazzoletto bagnato cadde sul pavimento. Con due passi raggiunse la finestra. Afferrò il cordone. Si fermò lí, con la mano levata. Poi, di botto, spalancò le persiane. Restò cosí, nella luce abbagliante, come una statua che a poco a poco si rianima. Muove la mano. Fa cenno di fuori. Passa una barca carica di giovani bagnanti. Gridano. Salutano. Sulla litoranea, che

esala vapori per il caldo, passa un grosso cane nero (che sia quello?) tenendo tra le fauci un cesto colmo di frutti variopinti. Guarda vagamente, come fosse cieco, verso la finestra. Un bel bagnante abbronzato, nel passargli accanto, gli dà un calcio nel ventre col piede nudo. La ragazza alla finestra scoppiò a ridere. Il cane proseguí per la sua strada. La giovane rientrò. Suonò il campanello. Un domestico, coi pantaloni a righe grigie e nere, molto attillati (forse quelli di suo zio), comparve sulla porta. “Si apparecchi la tavola”, gli disse. Quello se ne andò. Le due amiche aprirono la porta del balcone e le altre due finestre. La stanza s’inondò di luce. Profumano i fiori nei cesti. S’odono piú forti le grida dal mare, confuse con il rumore dei piatti e delle posate giú nella sala da pranzo. Il fazzoletto fradicio resta sul pavimento come un uccellino bianco, furbo, domestico quasi e sottomesso. A poco a poco s’asciuga svaporando.)

Atene, Eleusi, Diminiò, Samo dicembre 1965-dicembre 1970 Questo ebook è stato realizzato nell’aprile del 2012 da Paolo Martino (martip.net) per conto di Fondazione Poesia Onlus.