Q.B. La cucina quanto basta

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Economica Laterza 525

Sapo Matteucci

Q.B. La cucina quanto basta

Editori Laterza

© 2008, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2010 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2008 www.laterza.it Progetto grafico di Silvana Amato e Marta B Dau

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9228-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a mio padre, Robinson in cucina, di cui sono stato Venerdì

Indice

A CUOCO LENTO

( un’introduzione) XI

AVVERTENZA XVI

MALEDETTA DOMENICA 3

Cucinare per farsela passare 3 Per ospiti imprevisti e invadenti 9 Una lunga domenica a tavola 16 Sul far della sera 30 STASERA ARRIVA QUALCUNO 33

Appuntamento yes 33 Un flan che si chiama desiderio 46 Due straccetti 50 I figli sono tutto? 55 QUEL CHE RESTA DEL FORNO 61

Non si butta via niente 62 Un sentimento panico 69 Il rimedio all’ideologia verduraia 73 UN GRUPPO IN GOLA 79

Tiranno benigno 79 Un pesce di nome...? 85 Mondo dorato 91 Un gruppo, a pezzi 94 A polentate 97 Arrosto vivo, arrosto morto 99 C ’ È UN GRANDE PIATTO VERDE 104

Elogio del mercato 104

I petonciani 111 E le patate 114 Bagna cauda e altre zuppe 118 L’insalata amazzonica 121 Solo una scusa 123 RICETTE PARLATE : AL TELEFONO , DISCUSSE , PERDUTE E RITROVATE 128

Piatti base: per l’inquieta adolescenza e per chi va in Erasmus 129 Suocera mon amour 136 Fantasmi 140 Ti ho cucinato per allergia 144 Dibattere sul battere 149 MERAVIGLIOSE CATASTROFI 155

Ci vorrebbe un’amica 156 Monumentali pasticci 164 Microtracolli 171 UNA SOLITUDINE MOLTO PROFUMATA 176

Quand’è solo il monopiatto 178 Aglio e cipolle 179 E due uova molto sode 180 Sfogliare il carciofo? 183 Dal tramezzino al club sandwich 184 Trattarsi bene 187 La cucina del dottor Caligari 193 LA TAVOLA DI MENDELEEV 197

Toccare il fondo 197 Le salse madri e relative figlie 201 Bollire 209 Friggere e non solo 211 Terrazzo guarnito 215 Esotismi 217 INDICE ALFABETICO DELLE RICETTE 223

INDICE DEI PIATTI 227

I cocktail 227 Gli antipasti 227 I primi 227 I secondi 228 I monopiatto 229 I contorni 229 I dolci 229 Le salse 229 Strumenti 230 INDICE DEI TIPI 231

La pasta asciutta 231 La pasta all’uovo 231 Riso e risotti 231 Zuppe e minestre 231 La polenta 232 Torte salate, soufflé e sformati 232 Pesce, crostacei, frutti di mare 232 Arrosti di carne 232 Piatti di carne 232 Il pollo e i volatili 232 Fritture 233 Frittate e uova 233 Insalate 233 Le verdure 233 Dolci di crema 233 Dolci secchi 233 Dolci di frutta 234 Le cotture 234 Salse calde 234 Salse fredde 234 I fondi 234 Pane e panini 234

A cuoco lento (un’introduzione)

Non esiste un momento in cui si può dire d’avere imparato a cucinare. In realtà, a meno di non essere Scappi (il cuoco di papa Pio V), Carême (che però sta fra l’architetto, il pasticciere e l’urbanista della tavola), Escoffier, Bergese, Girardet, Ducloux, Monzù Gerardo (famoso cuoco dell’aristocrazia napoletana), Lameloise o Pierangelini, Marchesi... ai fornelli non si può mai essere sicuri di sé fino in fondo. Forse neanche loro, i grandi cuochi, sanno bene quando hanno davvero fatto il salto. È difficile che siano andati a letto garzoni e, kafkianamente (ma alla rovescia), si siano risvegliati chef il mattino dopo. La differenza tra diletto e professione sta, forse, qui: da una parte la paura, ma anche la gioia un po’ infantile, lo stupore di riuscire a sfornare un framasson, una bomba di riso compatta, un parfait di nocciole al cioccolato. Dall’altra un elevatissimo standard, che non conosce più il tremore o il timore, e supera il confronto con la singola ricetta; così come un grande direttore trascende lo strumento per andare verso l’orchestrazione. I cuochi d’oggi poi, con l’eccezione di pochi, sono in gran parte dei manager. Se sbagliano, sbagliano nell’impresa commerciale, in un eccesso esibitorio (ma viviamo nella società dello spettacolo), in un allentamento del sacro fuoco con cui sempre dovrebbero alimentare una brigata di cucina. Insomma, possono sembrare non più curiosi o entusiasti. Ma a farvi un piatto all’impronta, a casa di amici, per quattro, cinque persone, non sbagliano mai. Sono grandi interpreti, forse anche un po’ annoiati. Magari appena possono addentano, in segreto, un pinzimonio o si fanno

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XII

uno Spritz con tanta soda e buccia di limone. Alla faccia del Latour già stappato. Il vostro (il mio) mondo è un altro, fondato sul divertimento (se non dovete cucinare due volte al giorno), la curiosità e la voglia di agguantare la fama attraverso la fame, solo in una ristretta cerchia di compari. L’incedere quasi mai è sicuro, se non per quella ventina di ricette d’abitudine, in cui talvolta per altro si può comunque inciampare. Anche le vongole o le cozze possono piantarvi in asso, gli asparagi crollarvi sul più bello e trasformarsi in tristi pennelli grondanti, i tuorli d’uovo ingannarvi, il bagnomaria rivoltarsi in tempeste perniciose, il caramello languire o inchiodare. Per leggerezza, distrazione, per le mani che non sempre tengono a dovere il ritmo su diversi piatti, come invece farebbe un percussionista caraibico; per quel poco d’ansia che monta quando il tempo è poco. L’altro giorno, dopo più di vent’anni d’onorata e marginale carriera, ho sbagliato per la prima volta un risotto di mare (sarà stato il novantesimo che facevo) alla presenza di vecchi amici che avevano appena finito di decantarmi ai nuovi. «Delicato, delicato» è stato il commento. Come dire d’una cubista: «molto raffinata». Ci sono rimasto male, ma ho mentalmente analizzato il percorso, dalla spesa alla messa in tavola, e segnato i punti critici nel mio canone personale. Le vere regole nascono dall’incrocio tra la sapienza altrui e i fallimenti propri reinterpretati. E anche da un po’ di diplomazia culinaria, nella quale però mi distinguo in peggio. Ormai sono rotto ai passi falsi. Conosco l’antidoto preventivo, prima di fare un piatto: parlare pochissimo di cucina, rispondere a monosillabi, con molti «forse» e «non so». Conosco anche l’antidoto a seguire: non chiosarsi, né tantomeno vantarsi mai. Li conosco, ma non ci riesco. La cucina parlata è il mio gran vizio. Forse per tenere a bada quella pra-

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ticata: esorcizzare le trappole, le insidie, le cadute. Ma da una catastrofe si può risorgere facilmente: in fondo una maionese impazzita si può trasformare in un’accettabilissima fricassea. Non so appunto quando una decente pratica personale si sia trasformata in una passione limitata eppur temeraria. Ma so qual è stata la mia Damasco. La mia Damasco è stata Samboseto di Busseto, provincia di Parma. Cantarelli aveva già un gran nome; era lui ad aver suggerito a Mario Soldati la «morte dello champagne rosé», ovvero il culatello. Si facevano i chilometri per arrivarci, con la scusa di veder Mantova o la bellissima Sabbioneta. In realtà, preparandoci, a ogni bastione e a ogni piccolo o grande museo, alla serata che si preannunciava indimenticabile. Cantarelli non sembrava un ristorante, né un’osteria. Sorgeva quasi in mezzo ai campi, già vecchio spaccio: erano due stanzette nel retro di un baretto, colmo di whisky, glen direttamente importati, allora sconosciuti, esotici scatolami e portentosi foie gras. Pezzi di Francia e Scozia emulsionati dalla grande Emilia. Una volta entrati, s’era preda d’un immediato profumo paradisiaco: salumi. Questo fiore – pensai – dovrebbe chiamarsi la rosa di maiale. E infatti, appena seduti, arrivarono sulle bianche tovaglie intensi petali di culatello. Peppino Cantarelli era basso, un po’ agitato: quei sei tavoli sembravano, per lui, già troppi. Si muoveva rapido e nervoso, coadiuvato dal figlio, fra cucina, bancone e salette. Vi raccontava la carta, con la «r» arrastrada (uncinata, come dicono gli spagnoli), e finiva presto. Otto, dieci piatti al massimo. Massimo in tutti i sensi. Purtroppo la memoria, lampante o brumosa, è sempre matrigna. Ricordo più di tutto la bomba di riso col piccione, e poi anche i ravioli con la ricotta salvia e burro, la faraona alla crema, il croccante, il prelibato vitello. Ci fu la scoperta della Scorza Amara, una specie di Lambrusco più poderoso, che si beveva da un tazzone

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tondo, immergendoci il naso dentro, così che sapori ed effluvi si mischiassero. Deglutito l’ultimo lacerto di faraona, chiesi pieno d’ammirazione chi fosse il cuoco: «Mia moglie», disse Cantarelli, e i complimenti cominciarono a fioccare copiosi. Tanto che Mirella, così si chiamava, uscì dalla cucina asciugandosi le mani al grembiule. Era quasi stupita di tanta gloria, anche se quella non doveva essere certo la prima ovazione. Alla fatidica domanda: «Chi sono stati i suoi maestri, dove ha cominciato?», «La mia mamma» rispose, «e da me. E poi... il posto». Sentii allora che non sarei mai diventato un cuoco. Non dico per la mamma (la mia) brava in cucina, ma modernamente già lontana dalla pasta tirata a mano, i dolci antichi, le lunghe ore tra farina e uova, tacchini e anatre... ma sopra tutto per il «posto». Nei piatti di Mirella Cantarelli parlava, anzi cantava, il genius loci: la bassa, il Po, Verdi, le generazioni di donne ai fornelli e ai carboni, le feste del raccolto, il macello del maiale, le tavole infarinate su cui tirare la farina e l’uovo, il grano che passava nelle dita, il vino con la spuma... Il mio genius loci era fatto d’una cucina pratica, senza alcun mondo dietro, con le stagioni che tendevano ad appiattirsi nelle primizie, i negozi che sopravanzavano il mercato, le confezioni impacchettate, prodotti tutto l’anno e in ogni luogo. Forse per questo, ma anche per il troppo entusiasmo, per una oggettiva carenza tecnica, la bomba di riso, che subito provai, sulla falsariga d’indicazioni carpite al volo, fu un mezzo disastro, anzi un disastro tutto intero. Quella che doveva essere una cupola degna del Brunelleschi arrivò in tavola solcata da perfidi crepacci, il piccione non si sposava al riso, l’unico difetto annunciato era l’assenza della lingua salmistrata che avrebbe dovuto scendere in rosee foglie sull’ogiva candida: non c’era perché non ce l’avevo messa. Ma il resto suonava come un requiem stonato.

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Già... la «bomba di riso» cos’era, se non un riso prima bollito e poi aggiunto a un piccione in salmì (con le sue rigaglie), cotto in tegame e disossato? Ma poi reso un timballo con burro fuso, parmigiano e uova, passato nel forno a bagnomaria. Sfornato come una cupola dorata, con un cuore caldo e profumato. In seguito, dopo il primo accidente, l’ho riaffrontato, insieme a qualche altro sontuoso timballo partenopeo. In fondo non so quali siano stati i risultati. Un po’ di stupore estetico, i complimenti... So, però, che non sono diventato un cuoco in nulla. Forse un cuciniere (ma lo diceva di sé anche un grande di Francia) che ha imparato bene una sola cosa: in cucina, non avere fretta. Piuttosto, una fetta di prosciutto che avvolge un fico maturo.

Avvertenza Questo libro è pensato come un puzzle, un lego. Come il meccano: i suoi elementi si possono smontare e rimontare in tanti modi diversi. Alcuni capitoli partono da precise situazioni che vi potrebbero capitare, suggerendo per ognuna menù, ricette e vie di fuga o presidi culinari. Può trattarsi di cucinare insieme a un gruppo d’amici, per un colossale pranzo domenicale; o d’invitare una vecchia fiamma a cena. Oppure d’affrontare il triste epilogo di una domenica sera, vittime d’una «generosa» improvvida visita amichevole. D’improvvisare una cena, al ritorno sfatti dall’ufficio, per allietare la bimba e la sua amica. Di mangiare da soli davanti a un vecchio film o, meglio ancora, in completa solitudine e in totale cura di sé (comunque, salvo diversa segnalazione, le dosi indicate nelle ricette si intendono per quattro persone). Ai capitoli più «situazionisti» se ne affiancano alcuni d’altra utilità: idee su cosa cucinare con i possibili avanzi più comuni (carne, pasta, patate, verdure), un capitolo intero dedicato alle verdure, uno su come trarre linfa dalle débâcles più o meno cocenti, un altro di ricette estrapolate dalle storie o leggende di famiglia, d’indicazioni dettate per telefono al figlio o spiegate attentamente alla suocera, talvolta anche con qualche riflesso sui grandi dibattiti culinari. Infine un capitolo di «strumenti», consigli pratici sugli elementi base della cucina: le salse, le cotture, i condimenti... in ogni caso provando a divertirsi con l’aiuto di fuochi e padelle, amici silenziosi e fidati.

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Maledetta domenica

Cucinare per farsela passare Forse non c’è bisogno di dirselo, ma si sente. Alcune mattine, soprattutto quelle della domenica, sembrano beckettiane. Il sole sorge per poi tramontare, alla fine, sul niente di nuovo. Il sonno non è stato quello agognato durante la settimana, anche l’insonnia si è rivelata deludente. Non ha recato né pensieri, né fantasmi. Nel giorno ancora acerbo, il cielo già si annuncia basso e pesante, maturo di grigiore. Di coltivare il vuoto non se ne parla: la famiglia è allertata, se vi scoprono a ondeggiare sull’amaca della vostra incertezza potrebbero venire fuori mille bisogni e richieste o, peggio ancora, subitanei programmi di felicità: cercar funghi nel parco, inaugurare la nuova ciclabile. Cominciare a cucinare, a programmare di farlo, ancora in pigiama, allora è un buon rimedio. Anche perché forse la vostra pancia comincerà a imparare a convivere con voi. E il vogatore in cui inciampate è solo la reliquia di un’altra vita; la racchetta, il reperto archeologico di quando v’illudevate di poter vivere anche sotto rete. Quanti compagni di doppio hanno vanamente continuato a telefonarvi? Mentre i fornelli, le bottiglie, gli ortaggi stamani si risvegliano con voi. Non terapia, riscatto. E poi l’attività concentrata, vera o apparente che sia, ci porta fuori da noi stessi. È un usbergo contro le microdepressioni festive e i vittimismi tardivi (chi ha tempo di farvi del male? forse solo il colesterolo che ha i ritmi d’un bradipo maturo). Dunque far da mangiare può offrirsi come difesa dalla televisione,

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dai giornali, dal mondo, calandosi, speleologo domenicale, in una camera iperbarica di parole: la cucina. È già una bella conquista, così, potersi coltivare il proprio isolamento, cucinando da soli, per gli altri o anche solamente per sé. Ma non in emergenza o in affanno, non per vincere la solitudine bensì per conquistarla e preparare qualche sorpresa concreta a chi verrà dopo l’una. Fatti, non parole. Prima regola, cominciamo ad agire in pigiama e pantofole1 dopo una leggera colazione, perché la tentazione del brunch è da evitare. Iniziamo intorno alle dieci, ma già pronti ad armarsi, fra due orette, di un long drink: quando scocca la campana interiore del mezzogiorno dobbiamo trovare ad aspettarci almeno un Bloody Mary o mezza bottiglia di Sauvignon, accampando la ragione del lavoro manuale. Eviterei, solo per ora, il Martini cocktail troppo esaltante in solitudine. E poi uno di solito non basta mai. Se volete abbandonarvi ai languori, ancora sulla tolda del mattino, infilate nel lettore un Chet Baker d’annata: I care, in cui la voce, soffusa di grazia, gareggia in dolcezza e abbandono con la purezza del suo flicorno e della sua tromba. Bloody Mary

Sarebbe estivo, ma è un ottimo viatico anche per l’inverno. Se non volete passare i pomodori, dopo aver tolto loro la buccia sbollentandoli, prendete del succo già confezionato, possibilmente non molto acquoso. Sciogliete il sale nel succo di mezzo limone, 5 gocce di tabasco, uno spruzzo di Worcester Sauce. Aggiungete nello shaker 2/3 di succo di pomodoro e 1/3 di vodka con molto ghiaccio. Agitate con movimento caraibico 1. Le pantofole, preferibilmente non quelle d’ordinanza anni Trenta che presuppongono la giacca da camera finto cammello, cintura a cordini con nappe, e che riportano a Palazzeschi. Piuttosto furlane di raso, con suola di gomma di bicicletta spianata, oppure espadrillas di corda e tela colorata. Anche se le une e le altre sono sensibili alle macchie.

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alla Tito Puente: la musica è interiore. Quella esteriore, per rimanere sul jazz, è il crescendo di Milestones, dell’omonimo miliare Miles Davis. Servite con uno o più gambi di sedano in bicchiere altissimo: avete ancora un bel pezzo di giorno davanti. provate anche la variante dell’aggiunta di qualche fetta di cetriolo e un po’ di zenzero in polvere.

 CONSIGLIO

Opterei per un monopiatto, il che significa antipasto, primo, secondo e terzo in una botta sola (vedi anche pp. 113 e 178). Naturalmente chi ha cura di sé può prepararsela come «long antipasto» con il Bloody Mary in un perfetto matrimonio anglomediterraneo: dunque subito una pietanza notissima, amata, ma in parte desueta qual è la mozzarella in carrozza. Mozzarella in carrozza

Tagliate via la crosta a 8 fette di pane bianco in cassetta (prendetelo dal panettiere) e riempitele con fettine sottili di mozzarella fior di latte e 4 acciughe sott’olio sminuzzate da distribuire bene all’interno. Passatele in 4 uova intere sbattute con l’aggiunta d’un cucchiaino di latte. Non esagerate con il ripieno, pressate bene i bordi e poi immergetele nell’olio caldo (per me extravergine d’oliva; ma di semi di arachidi è più leggero). Aspettate qualche minuto e rigirate. Togliete il pane con la schiumarola, sgrondando bene, appoggiate su carta gialla o quella più comune da casa che si trova in rotoli e salate (poco). levare il pane appena dorato. la mozzarella va delicatamente strizzata. I perfezionisti vanno avanti nella compilation di Peppino di Capri fino a Tu si ’na malatia e la sentono a ripetizione per tutta la preparazione.

 CONSIGLIO  TRUCCO

Una deliziosa variante più leggera, perché aggira il fritto, è quella dei crostini di mozzarella.

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Crostini di mozzarella

Sempre pane in cassetta, tagliato in due a mo’ di triangolo e riempito con fettine di mozzarella. Schidionate 8 di questi triangoli con degli spiedini di legno e metteteli in forno a 160°C dopo aver leggermente imburrato una pirofila. Mentre cuociono, pestate o sminuzzate 4 acciughe sott’olio e mischiate a 100 g o poco più di burro fuso. Quando il pane s’imbiondisce e la mozzarella ormai langue, levateli dal forno e buttateci sopra la salsa. Abbondate con quest’ultima e niente sale. poiché la mozzarella fuoriesce inevitabilmente e si attacca al fondo – con il risultato che quando si prende il crostino si rischia di smontarlo –, serrare il più possibile i pezzi di pane, magari con un ulteriore spiedino, tenere le fette al centro e imburrare generosamente la pirofila. e e e DA BERE per entrambi i piatti, un vino rosso che contrasta una certa ricchezza dei fritti o dei burri. Oggi il Lambrusco ha giustamente ritrovato la sua dignità: ci vuole un’ultima annata di «Concerto» di Ermete Medici (RE), a base essenzialmente di uva salamino, di buona struttura e persistenza.  CONSIGLIO

Può essere un piatto unico appagante questo risotto al nero di seppia, che evoca oscure (i giovanissimi lo aborrono) e profumate profondità marine. Risotto al nero di seppia

Le seppie devono essere freschissime. E meglio se sono piccole, perché risultano più morbide. Quelle surgelate non sono adatte, essendo prive del loro nero ed essenziale inchiostro. Tagliate a listarelle sottili 800 g di seppie già pulite, conservando le sacche con l’«inchiostro». Preparate un battuto con uno spicchio d’aglio, il succo di 1/2 limone e 3 cucchiaiate d’olio d’oliva; versate questo condimento sulle seppie e lasciate marinare per 20 minuti. Intanto una cipolla bianca finemente tritata soffrigge len-

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tissimamente in una padella dai bordi alti con 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva. Scolate le seppie e mettetele nella padella a rosolare. Aggiungete la marinata e 1 bicchiere di bianco secco insieme al «nero» delle sacche. Lasciate cuocere per una ventina di minuti, aggiungendo un po’ di brodo di pesce (vedi p. 209). Unite 300 g di riso Carnaroli, che farete tostare e poi tirerete a cottura con del brodo di pesce bollente (ce ne vuole 1 litro scarso), preparato prima facendo bollire una cospicua quantità di teste e lische di scorfano, rana pescatrice o altri pesci. Ricordate di «girare» sempre il riso dal basso in alto con un mestolo. il riso deve restare sempre all’onda, per cui se dovesse essere troppo secco aggiungete un po’ di brodo. Controllate la durezza delle seppie e, nel caso, fatele cuocere di più in prima battuta. Come per tutti i risotti, anche questo non va servito bollente: aspettate qualche minuto e fatelo riposare prima di portarlo in tavola. e e e DA BERE l’ultima annata del Müller Thurgau «Palai» dell’azienda Pojer & Sandri che produce grandi bianchi e uno splendido rosso, il «Faye», a Faedo (TN).  CONSIGLIO

Spostandosi, invece, verso dei secondi di carne... Classici, popolari, un po’ in disuso al di fuori delle capitoline mura aureliane, ma di soddisfazione, per la cura sartoriale necessaria alla loro fattura: i saltimbocca alla romana. Saltimbocca alla romana

8 scaloppine di fesa di vitella vengono battute leggermente e tagliuzzate appena ai bordi per non farle arricciare. Ad ognuna si appunta una foglia di salvia e una fettina di prosciutto (che abbia il grasso) più piccola della carne, infilandola a mo’ d’ago nella stoffa, con uno stecchino di legno. Fate diventare quasi bruniti 40 g di burro disponendovi le scaloppine dalla parte del prosciutto per 3 minuti circa, poi rivoltatele per altri 2 minuti. Riservate le scaloppine su un piatto caldo coperto. Deglassate il

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fondo di cottura con 1/2 bicchiere d’acqua calda e 1 cucchiaio di burro. Non salate: basta il prosciutto. Un Califano hard: quello svuotato e colto da certo spleen sessuale, che trovate in una compilation di due Cd a 10 euro. e e e DA BERE Barco Reale 2006 della Tenuta di Capezzana, Carmi-

gnano (PO), piacevole, rotondo e solido, forse grazie al cabernet, qui impiantato nel Settecento.

Un’alternativa più contemporanea, rispetto ai saltimbocca, ma bisognosa di una certa attenzione e d’una meccanica acribia, è il carpaccio. Carpaccio di manzo alle erbe

400 g di filetto di manzo intero condito con un trito di maggiorana e basilico, un po’ di sale e pepe, un filo di olio. Una volta disposto su un vassoio, copritelo con un foglio di pellicola trasparente e mettetelo in frigorifero per circa 2 ore. A parte preparate il contorno: tagliate sottili 4 pomodori e mettete 250 g di yogurt in una ciotola condendo con un po’ di sale, pepe, pochissimo olio, basilico tritato e qualche goccia di tabasco. Tagliate il filetto condito a fettine sottili. Ci vuole l’affettatrice. Altrimenti fatevelo preparare dal macellaio e procedete al condimento. e e e DA BERE Verdicchio dei Castelli di Jesi Sartarelli, 2006. Sapido,

fruttato, con un ottimo rapporto qualità/prezzo.

Un buon contorno, apparentemente semplice, veloce, ma proprio per questo inaspettato nella sua bontà: Zucchini al rosmarino

Tagliate a rondelle abbastanza sottili 8 zucchini medi; metteteli in una padella con poco olio, sale e 2 rametti di rosmarino. Fate cuocere piano con coperchio per 20 minuti. Una ricetta elementarmente apollinea, lineare e molto buona.

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Per ospiti imprevisti e invadenti Cucinare la domenica mattina non sempre è una scelta. Spesso è una necessità improvvisa. Per esempio quando la diaspora di parenti o di amici si coagula all’improvviso a casa vostra tra l’una e le due. Il «che fai?» è l’amo a cui tutti si abbocca prima o poi e che tutti a nostra volta utilizziamo, quando andiamo appunto a pesca nel mare del «che fare». Allora bisogna agire in fretta, lavorare con quel che si ha, anche se si può fare assegnamento su qualche supermarket aperto, e senz’ansia garantire comunque un livello decente di prestazione. Certo, se il frigorifero di domenica è costantemente vuoto conviene negarsi, non rispondere al citofono, fare finta di essere andati in trattoria fuori porta, che resta una scelta di per sé pratica, per quanto poco nobile. Se invece si può contare magari su dei petti di pollo, un paio di limoni, della bottarga portata su da Trapani o dalla Sardegna l’estate precedente e tenuta lì che tanto non va a male... e se il tubetto della pasta d’acciughe non è spremuto come quello del dentifricio... forse, allora, ve la cavate. O, se proprio siete disperati, arraffate würstel e un po’ di patate. Ecco, un pranzo all’impronta con cui non sfigurare, anzi garantire un certo effetto o andar lisci, potreste pure riuscire a metterlo su. Nel vecchio «negro» (così si chiamavano i primi lettori di Cd a doppia cassa, che gli ambulanti «nubiani» di casa nostra si portavano sulla spalla, lungo spiagge o strade) il sublime Caminito di Carlos Gardel esprime, come al solito, la ventura di uomini sgretolati dalle sottane: tango, Argentina, anni Trenta. Un bel contrasto per un piatto sbarazzino come il risotto al limone ed erbette. Risotto al limone ed erbette

Per il metodo di preparazione del risotto vedi anche risotto al fondo bruno (p. 19) o risotto allo champagne (p. 190): riso Car-

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naroli (300 g), battuto di cipolla bianca, 200 g di burro. Imbiondite la cipolla e poi aggiungete il riso e fatelo tostare. A questo punto versate un bicchiere di vino bianco insieme al succo di un limone. Poi avanti, aggiungendo brodo di carne mano a mano che il riso si cuoce, girandolo con lenta e inesorabile costanza. Quando il riso è cotto, aggiungete la scorza di 1/2 limone grattugiata ed erbette varie: maggiorana, timo, origano, basilico secco, dosandole con parsimonia, a vostro gusto. nel grattare la scorza del limone, che sia solo la parte gialla, il bianco che viene dopo diventa asprissimo. e e e DA BERE il limone non è il carciofo, nemico d’ogni vino, tuttavia è difficile da abbinare. Starei su un vino di facile beva, come un’altoatesina Schiava Grigia, acidula e leggermente briosa, della Cantina Produttori di Termeno 2007.  CONSIGLIO

Decisamente più rapidi ed essenziali gli spaghetti alla bottarga. La bottarga (lo diciamo per chi l’ha ricevuta in regalo, la tiene lì, si è sempre chiesto che cosa sia e non si è mai deciso a farne buon uso) è un impasto di uova di muggine essiccate. Esiste anche la bottarga di tonno – rinomata quella sarda di Carloforte – o di pesce spada, ma i puristi sostengono si possa chiamare tale solo quella di muggine. E su tutte quella di Cabras in Sardegna. Visto che chi arriva all’improvviso non si metterà lì a sindacare su che tipo di bottarga utilizzate e su come la chiamate, diamo per buona quella che avete in quel momento. Spaghetti alla bottarga

Ci sono due scuole: quella dell’olio e quella del burro. Si possono avvalorare entrambe, ma è preferibile decisamente quella del burro, perché rende gli spaghetti più consistenti e si può dosare poi la bottarga con più libertà. È, in teoria, molto semplice. Si fanno gli spaghetti (380 g) aglio e olio (vedi p. 52) in un caso, gli spaghetti al burro nell’altro (vedi p. 11, ma con una variante:

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si scioglie il burro con un rametto di rosmarino senz’acqua di cottura); poi si aggiunge la bottarga grattugiata. Un po’, non troppa (2 cucchiaini da caffè per persona), mischiata al condimento – cioè alla base dell’aglio e olio o a quella del burro – prima di condirci gli spaghetti; un altro po’, giusto una spolveratina, prima di servire, insieme a un ciuffo di prezzemolo tritato. La bottarga restante – o già grattugiata o allo stato compatto, fornendo parallelamente la grattugia – mettetela a disposizione di ogni commensale: che ognuno ne aggiunga quanta gliene aggrada. Anche se piacciono le emozioni (palatali) forti, attenzione a non renderla una matassa: il segreto è tutto nelle quantità e nel modo in cui si gira la pasta, che dovrebbe risultare leggiadra e decisa al tempo stesso. e e e DA BERE il Vermentino di Gallura «Capichera» 2006 di Arzache-

na (SS). Vale il suo prezzo e nobilita un piatto che trova nella Sardegna la sua matrice bottarghesca. Siccome ha un certo costo, anticipate l’ospite entusiasta e indicategli l’enoteca aperta la domenica mattina.

Questa è la ricetta base per la bottarga, quindi essenziale, ma non fino all’osso. Si può osare il primordiale: spaghetti al burro. Spaghetti al burro

Sciogliete 80 g di burro con dell’acqua di cottura della pasta in un’insalatiera, ciò che ne viene fuori deve essere né troppo acquoso, né troppo solido: una cremetta. Scolateci sopra 380 g di spaghetti al dente, mischiate bene; poi parmigiano a volontà. Eventualmente, prezzemolo.  TRUCCO come ogni pasta molto semplice nel condimento, l’atroce rischio è che sia troppo asciutta o troppo liquida: ognuno dei due casi è una microtragedia. Tre minuti prima di scolare la pasta, prelevate dalla pentola una tazza abbondante di acqua di cottura. Se avrete scolato ad arte gli spaghetti, cioè molto poco, e avranno la loro sufficiente acqua, quella di scorta la butterete. Altrimenti la userete per equilibrare la situazione.

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variazione barocca anni Sessanta al precedente classicismo basico: rigatoni burro e bacon. È preferibile il bacon alla pancetta, non affumicata né cotta, perché di sapore è più delicato e si accoppia meglio al burro e al parmigiano. Cuocete 8 fette di bacon sottili e tagliate a loro volta a pezzetti in una padella, a fuoco moderato, che non si brucino, ma lentamente diventino dorate. Tiratele su dal loro grasso: in questo caso non serve, c’è già il burro che fa del suo. E poi mischiate col burro. e e e DA BERE semplice, ma di personalità la Freisa d’Asti «Luna di Maggio» 2006, Cascina Gilli (Castelnuovo Don Bosco, AT), vivace, con un certo corpo e molto piacevole; va bevuta leggermente fresca.  VARIANTE

Oltre agli intramontabili spaghetti al pomodoro (vedi p. 152) l’altra possibilità, la via di scampo per il pranzo improvviso, sono gli spaghetti con le acciughe – e anche se la pasta d’acciughe non è la stessa cosa, va bene egualmente. Si tratta di un’altra espressione di quell’arte della variante, del rendere cioè mobile e diverso un archetipo tiranno come gli spaghetti aglio e olio. Se fatti bene, ricordano gli spaghetti alle vongole, senza le «seccature» legate ai molluschi (nel nostro caso quella di averli comprati per tempo). Spaghetti alle acciughe

La base, la cui variante è questo piatto, sono gli spaghetti aglio e olio (vedi p. 52). Quando avrete preparato l’olio con l’aglio e il peperoncino, poi atteso che l’olio non sia più bollente, ma appena caldo, allora metteteci dentro 6 filetti d’acciughe tagliuzzati e mescolate: li vedrete quasi sciogliersi nell’olio, colorandolo in marrone. E se vi mancano i filetti, mezzo tubetto di pasta d’acciughe (fa lo stesso, o quasi, anche se la pasta di acciughe è più salata e di odore più forte rispetto alle acciughe sotto sale). Aggiungete ai 380 g di spaghetti scolati al dente un ciuffo di prezzemolo tritato.

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trucco è dir troppo e generalizzabile, per altro. Il prezzemolo, per quanto ci metta pochissimo a deperirsi, anche se in frigorifero, rende vivace qualsiasi piatto a base di pesce, o d’olio e aglio. Dunque, quando vi capita di comprarne e di tritarne magari in abbondanza, fatene scorta e surgelatene l’avanzo: non è come appena colto e tritato, ma prima o poi servirà e fa ugualmente la sua figura. Per inciso, un grande cuoco francese oggi ritiratosi, Jean Ducloux, presentava orgoglioso il suo prezzemolo fritto. e e e DA BERE il Sauvignon «Kolàus» 2004 di Pierpaolo Pecorari, San Lorenzo Isontino (GO), affronta la sfida dell’acciuga stemperata con un ampio spettro di sapore e un legno molto equilibrato.  TRUCCO

Sui secondi diventa tutto più difficile, perché non è sempre praticabile la via dell’improvviso arrangiato con pochi ed essenziali ingredienti: manzo, maiale, pollo, pesce, niente che uno abbia in frigo troppo casualmente, in dosi da ospitalità, di domenica all’ora del pranzo. Qui viene in aiuto il santo freezer. Ovvero: potreste avere uno o due petti di pollo congelati, o due confezioni di würstel rimaste nella dispensa. Il problema, a quel punto, è proporli nel modo giusto, inventare, fingere, mascherare la realtà: e allora ci sono dei vecchi espedienti, come un roesti di patate per rendere dei würstel ancora più teutonici. Roesti di patate (e würstel)

Una patata di media grandezza a testa, da passare con la grattugia, o la più tecnica mandolina, per ottenere una julienne. Aggiungete zenzero fresco grattugiato, cipolla tagliata molto finemente, delle fettine di pancetta tagliate a striscioline, del formaggio tipo gruyère, o quello che avete (le patate si accoppiano felicemente comunque) o anche niente (sono autosufficienti). Impastate delle piccole tortine, non troppo alte, 5-6 cm di diametro. Fatele cuocere, dopo avere squagliato più d’una noce di

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burro in una padella, smuovendole di tanto in tanto e schiacciandole sul fondo della padella, come fossero hamburger, finché non saranno rosolate, dorate sui bordi e croccanti sul fondo: a quel punto giratele per ottenere uguale risultato su ambo i lati. I würstel basta tagliarli a metà, bucarli con la punta di una forchetta e poggiarli su di una padella ben calda, girarli e spianarli sul fondo. nel servire roesti e würstel aggiungeteci foglie di lattuga verdi e dei pomodori maturi... Rischiate l’ossimoro (montano-mediterraneo, vetusto-immediato) e palesate, appunto, una freschezza che in realtà il vostro piatto non ha. e e e DA BERE un vino di roccia o quasi, nel territorio carsico di Duino Aurisina (TS) dove Edi Kante produce un gran Carso Sauvignon 2005. Da visitare la sua cantina scavata nella roccia carsica.  TRUCCO

Il pollo al curry non è affatto una cosa complicata, difficile, o di lunga preparazione. Ed è un piatto totale, risolutivo, autosufficiente se affiancato a un riso pilaf, o italianamente a un’insalata verde di lattuga. A patto di avere qualche petto di pollo e del curry, cioè un barattolo di polvere che dovrebbe sempre essere in casa, non solo per le emergenze. L’effetto è quello di rendere decisamente esotica una carne domestica e addomesticata. Pollo al curry

Fate rosolare un petto di pollo tagliato a pezzi piuttosto piccoli in una noce di burro, ancor meglio di ghee (vedi p. 200) o, in alternativa, in un cucchiaio d’olio extravergine, insieme a 1/2 cipolla tagliata sottile. Il tutto a fuoco medio, finché non sia ben cotto: un quarto d’ora sarà sufficiente. Sale e pepe, mezza tazza di latte di cocco (o panna acida, ma meglio yogurt bianco). Fate rapprendere leggermente fino a formare una crema. Sollevate dalla fiamma e mischiateci il curry, quanto ve ne piace.

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Riso pilaf

Dal persiano pilaou (riso bollito che gli indiani chiamano pullau). Due pugni di riso basmati o patna a testa, più uno per il tegame, misurati utilizzando una ciotola: per 4 persone, circa 350 g in tutto. Conviene sempre lavarlo prima in un colino sotto l’acqua fredda, per togliere un’eventuale polverina (è amido attaccato ai chicchi) che lo incollerebbe producendo un effetto risotto, in questo caso negativo. Asciugatelo e aggiungetelo, in un tegame piuttosto largo, a un trito di cipolla appassito in 60 g di burro o in minor quantità di ghee (vedi p. 200). Fate assorbire il burro dai chicchi e versate acqua o brodo vegetale in misura più che doppia (usando come misura la ciotola) della quantità del riso, aggiungendo 2 foglie di alloro. Se ce l’avete fra le spezie (una buona scorta non deve mancare mai), un cucchiaino di curcuma in polvere. Coprite e mettete in forno a 170°C, per un tempo medio di 18 minuti scarsi per il patna: dopo 15 minuti controllate, senza mai muovere: se è cotto si vedranno dei buchini in superficie. I basmati, invece, cuociono in circa 20 minuti, a temperatura leggermente più bassa (160°C). Si fa riposare coperto da un panno per circa 5 minuti e si aggiunge un po’ di burro o (in minor quantità) ghee. Ideale per il curry, ma ottimo anche per accompagnare spezzatini e fricassee. il curry sa essere molto piccante. Partite piano e se necessario aumentate le dosi in un secondo momento. e e e DA BERE birra, l’italiana Menabrea; in bicchieri alti sempre imperlati d’acqua fresca. Per un coup de théâtre che oggi il melting pot permette, una buona Cobra indiana; ma, attenzione, ancora assai lontana dalla data di scadenza.  CONSIGLIO

A estremi mali, buoni rimedi. Ecco come trasformare Capitan Findus, se non in un ammiraglio, almeno in un buon secondo; e, sapendo mantenere il segreto, nessuno vi dirà che gli avete dato del pesce surgelato.

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Merluzzo alla fiorentina

Scongelate nel forno a microonde il merluzzo, asciugatelo, infarinatelo e friggetelo nell’olio bollente. Una volta che si sia dorato da tutte le parti, toglietelo dal fuoco. A parte avrete preparato un sugo con 6 pomodori (con i soli pelati scolati o pomodori freschi spellati) e uno scalogno o aglio, tritato e imbiondito in 2 cucchiaiate d’olio, con un po’ di sale e 1 cucchiaino di zucchero. Lasciatelo cuocere per 15 minuti circa. Affogate il merluzzo nel sugo e servite. non è ortodossa, ma da provare. Riducete un po’ lo zucchero e mettete nel sugo una manciata di uva passa ammollata nell’acqua tiepida e poi strizzata. e e e DA BERE va benissimo un rosso, il piacevole Morellino di Scansano «Santa Maria» (2006) dei marchesi Frescobaldi di Firenze, anche se le tenute sono ovviamente nella Maremma grossetana.  VARIANTE

Una lunga domenica a tavola E invece, magari, il quadro potrebbe cambiare, e la domenica prospettarsi come né giorno di fuga, né d’emergenza, ma all’insegna di generose e previste leggi dell’ospitalità. In fondo l’usanza del pranzo domenicale affollato e pieno di amici, che dalla mattina si trascina fino all’imbrunire lungo una deriva hogarthiana, non è da disprezzare. Fra l’altro, certe domeniche non si sa cosa fare, non tutti si rifugiano nel campionato di calcio o nella pennica verticale (dalle due alle sei che schidiona l’intero pomeriggio come uno spiedo) e la convivialità mattutino-pomeridiana reca in sé un vigore maggiore delle serate postlavorative. In questo caso avrete già – von Clausewitz dell’imbandigione – pianificato e preparato tutto: dalla spesa del sabato ai vini, fino alla dedizione (scanzonata) per gli ospiti e alla disposizione (velata) verso il trionfo. Con un po’ d’azzardo. Si scelga il registro – clas-

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sico, elegante di sostanza, pantagruelico – e di buona mattina, vele al vento, si salpi. Non più da soli, non più ghermiti dal caso o tramortiti dalla necessità, ma in squadra: la moglie, il marito, la compagna o il compagno, la «lei» o il «lui» di fatto, i figli2. Come appetizer, salamini, mortadella a cubetti, pizzette e focacce vanno sempre bene: perché il punto di fame è vorticoso, la voce interiore entusiasta, scevra da sensi di colpa («siamo all’inizio e in fondo si tratta solo di qualche bocconcino...») e incline piuttosto al senso di polpa; ma se il vostro fin è la meraviglia, è da qui che bisogna cominciare. Con qualcosa di diverso. Crostini con fegatini di pollo

Imbiondite 1/2 cipolla in 50 g di burro e qualche foglia d’alloro; aggiungete almeno 6 fegatini ripuliti da vescichette e fiele, e fateli rosolare con l’attenzione alla cipolla che non deve bruciare. Bagnate con 1/2 bicchiere di vino bianco e due dita di cognac. Sfumato il tutto, aggiungete ancora due ramaiolate di brodo e poco sale. Una volta cotti, tritate fini i fegatini col coltello e unitevi un battuto di 2 acciughe e 2 cucchiaini di capperi tritati. Amalgamate bene con un altro poco di burro ammorbidito e rigirate mentre si raffredda. Servite su pane toscano tagliato sottile. appena i fegatini son rosolati abbassare il fuoco. Alla fine, rimestare bene e tenere d’occhio il burro che tende a separarsi.  TRUCCO i fegatini siffatti sono buonissimi serviti su rondelle di baguette fritte nell’olio, tramortite appena con un po’ di brodo. e e e DA BERE si parte con un Chianti giovane, l’ottimo «Sonnino» (annata 2006 e anche la più recente 2007), prodotto dal barone de Renzis Sonnino a Montespertoli (FI), vino piacevolissimo, con un insuperabi CONSIGLIO

2. Questi ultimi, i figli, da utilizzare comunque con una certa parsimonia e non oltre l’età preadolescenziale: se un po’ più grandi, la loro mattina domenicale è solitamente murata nel sonno; se oltre i venti, si presentano come vendicatori-guastatori: o troppo sapienti o improvvisamente selvaggi. Meglio lasciar perdere.

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le rapporto qualità/prezzo. Visitate il punto vendita della fattoria all’ingresso del paese, ne sarete incantati.

Un’alternativa modernista è quella degli involtini di prugne e bacon. Involtini di prugne e bacon

Una ventina di prugne secche snocciolate, una decina di fette di bacon sottili, foglioline di menta romana fresca. Dopo aver lasciato le prugne a bagno in acqua tiepida, avvolgetele in un giro di bacon fermato con uno stecchino. Rosolatele in padella coperta per circa 10 minuti e servitele subito, calde, guarnite di menta. e e e DA BERE in questo caso, un bianco («bollicine», con parola di mo-

da) stupefacente che supera di gran lunga certi millesimati esteri, lo champenois Franciacorta «Gran Cuvée» Brut 2003, Bellavista (BS). Ma un ottimo rapporto qualità/prezzo è il «Rotari Brut», Talento, prodotto in Trentino a Mezzocorona.

Passati gli aperitivi, il chiacchiericcio in salotto lievitato da più bicchieri di bianco o rosso, tutti a tavola! Ma attenzione, non sarà solo un gioco. L’alternativa è fra tre menù completi, grandiosi, opulenti e domenicali. Nell’ordine: antipasto, primo, secondo, contorno, dolce. Il primo menù, centrato sull’agnello e sulle patate novelle, quindi primaverile, pasquale: anche se per una Pasqua più vicina all’inverno che all’estate. Carne cruda all’albese

Potendo, 400 g di coscia di vitello di razza piemontese della Fassone, magrissima e ripulita da eventuali grassetti (ma qualsiasi «noce» va bene). Tritatela molto finemente con un coltello pesante a lama grossa. Non usate mai il mixer; se volete, chiedete al macellaio di farvi l’operazione, ma la carne va condita subito

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dopo in questo modo: schiacciate 5 spicchi d’aglio senza romperli e uniteli alla carne insieme a 8 cucchiaiate d’olio d’oliva. Rimescolate, salate e pepate (pepe bianco) aggiungendo il succo di uno o 2 limoni (meglio uno: il limone esalta ma nasconde anche). Levate l’aglio, amalgamate ancora e servite subito. Il vitello della Fassone, con il suo abnorme posteriore, causa dolorosissimi parti alle giovenche, ma è una carne monumentale e celestiale, saporita eppure tenera.  VARIANTE

ricchissima, con sottili lamelle di tartufo bianco.

e e e DA BERE stiamo sul Piemonte, il Dolcetto d’Alba «Coste & Fos-

sati» 2006 di Vajra, prodotto a Barolo (CN), pieno di profumi di mandorla. Risotto al fondo bruno

300 g di riso Carnaroli, 50 g di burro e 50 g di lardo, 1 cipolla bianca, 2 tazze di demi-glace (vedi p. 198), un bicchiere di bianco secco, brodo di pollo. Tritate finemente lardo e cipolla e fateli soffriggere molto lentamente nel burro, aggiungendo il demi-glace. Mettete il riso, lasciategli assorbire i succhi e versate il vino. Girate sempre e fate sfumare. Versate, un mestolo alla volta, il brodo bollente, muovendo sempre circolarmente il cucchiaio di legno dal basso in alto e lungo i bordi per non fare attaccare il riso. Non salate molto perché il ristretto di carne è assai saporito. Tenete il riso all’onda, vedendo cioè il mestolo, immerso al centro, inclinarsi lateralmente. Spegnete, aggiungete parmigiano grattato e burro. Lasciate che riposi qualche minuto prima di servire. e e e DA BERE continuate con il Dolcetto; oppure, del medesimo pro-

duttore, una grande Barbera d’Alba Superiore del 2005. Agnello con patate novelle

Fatevi preparare dal macellaio un carré d’agnello da 1 kg con le intaccature, che facilitino il taglio. Fatelo prima rosolare in pa-

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della in 4 cucchiai d’olio e un rametto di rosmarino. Mettetelo quindi nel forno già a 180°C, per una ventina di minuti, ungendo la carne di tanto in tanto, insieme a 800 g di piccole patate novelle con la buccia.  CONSIGLIO è una cottura breve, come dev’essere per l’agnello che si rispetti, cioè senza sentori di selvatico. Fondamentale il rapporto con il macellaio a cui dovete esprimere le vostre intenzioni, responsabilizzandolo sulla carne. Di solito il pré-salé francese è insuperabile, perché le praterie salate prossime al mare (da cui il nome) gli conferiscono fragranze e freschezze uniche. e e e DA BERE nuovo, si fa per dire, ma riuscitissimo: Monferrato Rosso «Sul Bric» 2005 (regge ancora la splendida annata 2000, se la trovate) di Franco Martinetti, un uvaggio di barbera del Monferrato e cabernet. Quest’ultimo sprigiona un goudron (il profumo catramoso che rende grandi i vini di Francia) intenso e raffinato. Un gran vino.

Torrone al cioccolato

Non facile, ma difficilmente dimenticabile. Roba napoleonica, o meglio tayllerandiana ché il gran ministro di cucina se ne intendeva di più del generale-imperatore, tanto d’aver lanciato Carême, che proprio dalla pasticceria iniziò la sua folgorante carriera. Raddoppio le dosi da 4 a 8 perché, già che lo fate, vale la pena dimezzare la «fatica»: 500 g di miele gentile (non castagno, meglio acacia), 750 g di nocciole pelate e tostate, 30 g di cacao amaro e 120 g di cioccolato fondente, 5 albumi, 1 dl di panna, vanillina. In una piccola casseruola bombata portate a ebollizione, sempre rimestando con una spatola di legno, il miele con la vanillina. Quando il miele raggiunge la cosiddetta «palla forte», unite lentamente gli albumi montati a neve con la frusta elettrica («palla forte» significa che una goccia di miele versata in acqua fredda si cretta come un cristallo di ghiaccio). Continuate a cuocere per raggiungere nuovamente lo stadio della «palla». In un altro pentolino mettete lo zucchero in 2 dl d’acqua per ottenere un cara-

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mello chiaro che va versato a filo sul miele. Levate 1/4 di questo composto e amalgamatelo bene al cacao, mentre avrete aggiunto le nocciole (una parte tagliata a metà e l’altra tritata) al resto del miele. Versate la metà dell’impasto con le nocciole in una forma da plumcake (forma non ortodossa, ma comoda) coperta di zucchero a velo, metteteci l’impasto al cacao e sopra questo il resto di quello con le nocciole. Portate a temperatura ambiente e sformatelo. Spennellate il torrone con il cioccolato sciolto a bagnomaria e mischiato con la panna. Fate riposare e raffreddare. e e e DA BERE Moscato d’Asti «Bricco Quaglia» 2006 prodotto da Ri-

vetti (La Spinetta), Castagnole Lanze (AT), profumato e pieno; o Ratafià, il liquore d’amarene e d’altri frutti prodotto ad Andorno, Biella, che rimanda – spiritualmente – a Gozzano.

Il secondo menù è decisamente estivo, freddo, con l’enorme vantaggio di non dover esser cucinato intorno all’ora di pranzo, che d’estate vuol dire aggiungere il calore dei fuochi a quelli della stagione. Tartrà

Il nome deriva probabilmente dallo spagnolo tarta: era un piatto dei contadini langaroli e monferrini, che intingevano il pane in questa crema piuttosto soda. A una cipolla tritata e soffritta in 30 g di burro con salvia abbondante e rosmarino, aggiungete 4 tuorli d’uovo sbattuti e 1/4 di litro di panna liquida con altrettanto latte, 25 g di parmigiano, pepe e noce moscata. Montate a neve gli albumi delle uova con la frusta elettrica e amalgamateli delicatamente al composto con un cucchiaino di sale. Versate il tutto in una teglia più che abbondantemente imburrata e mettete in forno a 150°C per circa un’ora. Per vedere se il tartrà è cotto, infilzatelo con uno stecchino: se esce pulito e asciutto, è a punto.

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Conchiglie fredde

380 g di pasta (conchiglie) scolata al dente e fatta raffreddare sotto l’acqua, su cui versare un sugo preparato prima. Il sugo, che deve riposare almeno un’oretta, si fa con 8 pomodori maturi, ma saldi, spellati, tagliati a pezzi, messi a macerare con uno spicchio d’aglio schiacciato, sale e 6 cucchiai d’olio. Si toglie l’aglio e si aggiunge parmigiano grattato sopra la pasta, dopo averla ben rigirata. e e e DA BERE Chardonnay del Collio Attems 2006, Lucinico (GO).

Questo che segue è uno strano animale per metà di prateria, per l’altra di pelaghi, che non tramonta mai, degno d’appartenere alla zoologia fantastica degli ippogrifi. Il vitello tonnato è un piatto ottimo per il quale mi rifarei alla ricetta di Ada Boni3, ma di cui va tenuta presente la variante. Tonnato non deriva da tonno (la ricetta classica non lo contempla) ma dal piemontese tonné, «conciato». Vitello tonnato

«Noce o contronoce di vitello 1 kg – Tonno sott’olio 300 g – Cipolla – Acciughe 4 – Sale – Pepe – Vino bianco, mezzo litro – Olio, mezzo bicchiere – Limoni 2 – Cetriolini sott’aceto, un cucchiaio. Mettete in una casseruola in cui la carne entri quasi giusta un bel pezzo di vitello magro, il tonno sott’olio tagliuzzato, una cipolla in fette sottili, le acciughe lavate, spinate e fatte a pezzi, sale e pepe, e il vino bianco. Portate la casseruola su fuoco moderato, copritela e fate cuocere il vitello. Quando la carne sarà cotta, mettetela in una terrinetta, passate tutto quello che è rimasto nella casseruola e diluite con l’olio e il succo dei limoni. Versate la salsa così ottenuta sulla carne, ag3. A. Boni, Il talismano della felicità, Colombo Editore, Roma 1973 (19291).

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giungete una cucchiaiata di cetriolini sott’aceto, tagliati in fettine, coprite la terrina, e lasciate così per ventiquattro ore affinché la carne possa avere il tempo di insaporirsi bene. Tenete la terrina in un luogo fresco, e man mano che vi servirà affettatelo». se potete, usate lo stesso pezzo, ma di vitello della razza Fassone. Provate a diminuire comunque i tempi di cottura, per lasciare la carne d’un tenue rosa. Andrebbe tagliata con l’affettatrice.  TRUCCO se ne avanza, il giorno dopo toglietelo dal frigorifero in tempo e fatene dei tramezzini col cuore d’un soffice pan carré, ma aggiungeteci qualche foglia di lattuga tagliata a chiffonade (ossia avvolta su se stessa e tagliata fine). È il pane che fa il tramezzino: il Caffè Mulassano di Torino (un bellissimo scrigno déco, caro a Gozzano) fa forse i più buoni tramezzini al vitello tonnato (d’un rosa pallido) d’Italia, quindi del mondo, e giustamente non vi dice da chi si rifornisce per il pane.  VARIANTE la più nota, che non ha un secolo di vita, prevede di arricchire la salsa con almeno 2 uova di maionese (vedi p. 204). Al posto dei cetriolini, qualche grasso cappero eoliano o pantesco (di Pantelleria). e e e DA BERE Pinot Grigio del Collio Attems 2006.  CONSIGLIO

Macedonia

Poche cose sono più tristi (forse solo un luna park sotto la pioggia) d’una media macedonia d’un medio ristorante o d’una trattoria, che eccellono in tanti altri piatti, ma in questo no. La vedete anziana, sonnacchiosa e avvizzita dentro enormi zuppiere, con l’ananas in scatola che sembra un esangue attor giovine. E invece la macedonia fatta bene possiede un suo notevole vigore di freschezze e profumi. Si fa all’impronta, poco prima d’andare in tavola, e la frutta va tagliata a pezzi piuttosto grossi: mele, banane, uva, albicocche, pesche... Il tutto bagnato col sugo di un limone e 2 cucchiaini di zucchero, sciolto in una pentolina con acqua bollente poi lasciato raffreddare. potete spremerci anche una pesca matura, pressandola con lo schiacciapatate, usare poco limone e quasi niente zucchero (vale

 CONSIGLIO

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l’assaggio) e aggiungere una decina di gherigli di noci a pezzetti o mandorle fresche frantumate. e e e DA BERE sempre Moscato d’Asti o il fantastico Quarts de Chaume dello Château de Suronde (Rochefort-sur-Loire) 1997, ma anche le annate posteriori fino al 2000: costa molto meno dei Sauternes di cui ormai siamo invasi, ma lo eguaglia e spesso lo supera in tutto il resto: profumi d’agrumi, spezie, minerali. Questo Château è di gran lunga migliore nella qualità e nel prezzo della media dei Sauternes. Ci vuole una buona enoteca per trovarlo.

Il terzo menù, che non è dotato di tre portate, ma fondamentalmente di una sola, è totalmente centrato sul bollito. Quindi invernale. Premessa: c’è chi dice che fra lesso e bollito esista una fondamentale distinzione: nel primo caso si sfrutta la carne per ricavarne un buon brodo; nel secondo, viceversa, si vuole ottenere una carne saporita, col risultato d’un brodo insipido. Nelle regioni in cui questo piatto vanta grandi tradizioni (Piemonte, Lombardia, Emilia, Veneto) si parla sempre di bollito misto4. Resta comunque assodato che «lesso» si chiama sempre la carne bollita riutilizzata per una seconda preparazione. Il bollito/lesso 4. Il bollito misto reca un fascino e un teatro antico: le vaste cucine d’una volta, i paioli fumiganti, le quantità pantagrueliche, i freddi inverni e le famiglie patriarcali. Oggi è un piatto per grandi feste familiari o da ristorante. Ma bisogna andare in templi interamente a lui votati, dove si officia solo a questo santo, la cui spoglia giunge sui carrelli, gli otto-dieci tagli fumiganti, custoditi nel bollore da argentei tumuli. La mostarda di Cremona, il cren, i bagnet, la pearà, salsa verde in quantità e, al massimo, due o tre verdure bollite di contorno che di solito restano lì: ammonimenti, reliquie d’una digeribile leggerezza, che non verrà praticata. Conosco tre posti memorabili dove il bollito misto la fa da padrone: il ristorante Moderno a Carrù, in provincia di Cuneo, in cui ogni anno a dicembre si tiene un’importante Fiera del Bue Grasso e che si fregia d’essere «Città del bollito»; Da Giovanni a Padova e Da Bepi, noto buffet di Trieste. Quest’ultimo è uno straordinario «Bollito Bar» dove vi fanno un panino su misura a tutte le ore, con innumerevoli tagli di bolliti esclusivamente di maiale in bella vista, conditi con le salse che volete...

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trae la sua origine «dalla necessità che si aveva, un tempo, di sottoporre la carne a cotture lente e lunghe, poiché alla macellazione giungevano i capi di bestiame più vecchi, ormai inadatti al lavoro e alla mungitura»5. Per il lesso propriamente detto basta solo il manzo, ma questa è la ricetta base del bollito misto. Bollito misto

Elementi principali: diversi tipi di carne, cioè vari e particolari tagli di manzo, e poi gallina, cappone, vitello, cotechino, zampone ecc. Occorrono contenitori diversi per i diversi tempi di bollitura. Una pentola (molti la usano ancora di coccio perché trasmetterebbe un bollore più intenso) di acqua bollente, aromatizzata da una cipolla steccata con 3 chiodi di garofano, sedano, carota, un po’ di prezzemolo, qualche grano di pepe nero. Quando l’acqua bolle, immergete prima il manzo e dopo qualche minuto riducete un po’ il bollore: l’acqua deve appena fremere; dopo il manzo mettete la gallina o il cappone e il vitello. In un’altra pentola cuocerà la lingua di vitellone e la testina di vitello; in un terzo contenitore il cotechino o lo zampone. Il manzo deve cuocere circa 3 ore e più, la gallina un’ora scarsa, ma il grado di cottura si saggia con un forchettone: quando la punta entrerà facilmente, la carne sarà cotta.  CONSIGLI tenete le cotture separate e fate attenzione che l’acqua in cui sobbollono il cotechino o lo zampone si muova ancor meno di quella delle altre carni, a una temperatura di circa 90°C, altrimenti la pelle degli insaccati rischia di rompersi con nefaste conseguenze. Per evitare questo rischio, potete bucherellare con un ago gli insaccati, che vanno avvolti strettamente in un canovaccio legato alle estremità. Salate poco: ci saranno salse molto saporite e uno dei modi migliori di mangiare il manzo è il cosiddetto boeuf gros, cioè tagliato a fette tra-

5. Cfr. la voce «bollito» in M. Guarnaschelli Gotti, Grande Enciclopedia Illustrata della Gastronomia, Mondadori, Milano 2007 (nuova edizione aggiornata e arricchita, a cura dell’Università degli Studi delle Scienze Gastronomiche).

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sversalmente alle fibre del muscolo, cosparse da poco sale grosso, che viene sciolto poi con un po’ di brodo bollente. L’acqua del bollito dovrebbe sempre coprire a filo le carni e per mantenere il livello adeguato se ne può aggiungere, di volta in volta, di bollente. I tagli del manzo contemplati sono: punta di petto, costate, scamone e polpa di spalla (questo secondo la denominazione piemontese, che invece a Firenze si declinerebbe così: muscolo, campanello, cicalino); del vitello si usano la testina e il fiocco di punta6. e e e DA BERE di solito col bollito si prescrivono vini non particolarmente strutturati, come un Grignolino di Braida (AT) o un ottimo Valpolicella dell’eccellente «vignaiolo» Romano Dal Forno (VR). Entrambi nelle annate più recenti.

Sul bollito Beethoven: in particolare L’imperatore nell’interpretazione di Radu Lupu. Per le salse, tutte le sonate vanno bene, cominciando dalla celeberrima Sonata a Kreuzer, sempre di Beethoven. Brodo di carne

Servite nelle tazze il brodo usato per il bollito, magari rafforzandolo con una punta di demi-glace e con un mezzo bicchiere di vino rosso (meglio Barbera) e parmigiano, o più semplicemente con qualche goccia di limone. Pavese

Una zuppa semplice e grandiosa. Ma ci vuole attenzione. Considerate 1/4 di litro di brodo a commensale. Friggete nel burro, da ambo le parti, 4 fette di pan carré (potete usare anche del pa6. Esiste una generica sezionatura nazionale del bovino adulto, ma in realtà quasi ogni regione italiana si dota di proprie mappe, con i suoi tagli e le sue denominazioni. Si ripropongono, insomma, anche qui gli ancor vivi dilemmi postrisorgimentali o prefederali. Sull’argomento vedi F. Faccincani - G. Gioco, Il tagliocarne. Per riconoscere e bene utilizzare le carni bovine, Edizione Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno, Verona 1978.

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ne toscano) e mettetene una in ogni scodella. Spaccateci sopra un uovo intero, lasciateci cadere una manciata di parmigiano grattato, un giro di pepe bianco e con un capace ramaiolo versateci il brodo bollente. Il bianco dell’uovo si deve rapprendere. mettete le scodelle a scaldare in acqua bollente e levatele all’ultimo momento. e e e DA BERE la Cantina di Terlano (BZ) produce autentiche mirabilia, grazie ai porfidi quarziferi su cui sorgono le vigne, come il Pinot Bianco «Worberg» (da scegliere non solo nell’ultima annata disponibile, provate 2005 o 2006) oppure, per procedere con il bollito – che non ha, contrariamente a quanto può sembrare, bisogno di vini potentissimi –, il Lagrein «Porphyr» Riserva 2004.  CONSIGLIO

Le salse

Il bollito è buonissimo, come detto, con un po’ di brodo e sale oppure con l’olio crudo. Ma una volta decisa l’impresa, va accompagnato con le salse di rito. Cominciamo coi bagnet piemontesi. Bagnet verd: assomiglia alla più comune salsa verde. Tritate (o,

meglio ancora, pestate) molto finemente 2 mazzetti di prezzemolo senza gambi centrali insieme a uno spicchio d’aglio con 2 acciughe dissalate e mettete tutto in una scodella. Aggiungete un pugno di mollica di pane imbevuta di aceto, quindi strizzata. Mischiate il tutto con una frusta versando olio extravergine d’oliva a filo e facendo rimanere il composto fluido. Attenti al sale. Fate riposare un’oretta e rimescolare prima di servire. C’è chi usa, con buoni risultati, una patata bollita al posto della mollica; in Emilia ci aggiungono un po’ di peperone rosso crudo tritato; un’altra variante prevede il tuorlo d’un uovo sodo tritato. Bagnet ross: mettete in un tegame 8 etti di pomodori maturi a

pezzi, 1 carota media, 2 cipolle piccole, 1 spicchio d’aglio con 2 cucchiai d’olio d’oliva extravergine (meglio se ligure o del Lago

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di Garda o comunque decantato e non molto vivace). Dopo che avrà cotto per circa mezz’ora a fuoco dolce, aggiungere 1 cucchiaio e 1/2 di zucchero e 2 di aceto per raggiungere un equilibrio agrodolce. Fate cuocere ancora una ventina di minuti e passate il tutto. Salsa della tata: così la chiama Zenone Benini7 in La cucina di

casa mia, da cui si cita: «Fate un battuto fine con un ciuffo di prezzemolo, quattro acciughe [van bene anche quelle già pronte sott’olio], una grossa cucchiaiata di capperi dilavati, una mezza dozzina di cetriolini sott’aceto; aggiungete un uovo sodo passato allo staccio [potete tritarlo], una mollica di pane imbevuta nell’aceto grande come un mandarino, una spolverata di pepe bianco e quant’è niente di sale [...] passate il tutto nel disco a maglia larga del passaverdura in un’insalatiera. Aggiungeteci due rossi d’uovo e dieci cucchiai da minestra d’eccellente olio d’oliva, lavorando ben bene ogni cosa col mestolo. Ciò fatto, versate nell’insalatierina una mezza ramaiolata di brodo bollentissimo, non smettendo mai di girare in tondo la salsa». Horseraddish sauce: ovvero salsa al cren. Il cren è la radice mol-

to piccante d’una pianta che parecchi in Italia confondono col ra7. Zenone Benini fu una figura di primo piano del fascismo. Amico fraterno di Ciano, amministratore delegato del Pignone, poi Sottosegretario agli Esteri e nel 1943 Ministro dei Lavori Pubblici. Alla fine dello stesso anno venne imprigionato, a seguito della sua partecipazione al 25 luglio, nel Carcere degli Scalzi a Verona. Su questa esperienza scrisse un libro prezioso, Il Carcere degli Scalzi (dove, negli interstizi del dramma, anche il cibo s’insinua tra i protagonisti), pubblicato da Garzanti. Condannato da un tribunale speciale a liberazione avvenuta e poi assolto con formula piena, dopo alterne vicende, si ritirò a Castiglione della Pescaia dove insegnò matematica nelle scuole medie per una decina d’anni. Benini scrisse nel 1958 un piccolo capolavoro gastronomico, La cucina di casa mia, più volte ristampato (l’ultima edizione è per i tipi di Il Vantaggio, Firenze 1999) e altrettante esaurito. Un libro prezioso e utilissimo in cui si raccontano i piatti quotidiani della cucina toscana con fervore, eleganza e senso pratico. Tanto che non si sa se ammirare il cuoco o lo scrittore.

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fano, alla cui famiglia appartengono invece i ravanelli. Se troppo forte, fa pizzicare il naso, ma esalta il bollito. In una ciotola mescolate del cren grattato, qualche cucchiaino di senape inglese in polvere, zucchero in polvere e una punta d’aceto. All’impasto si aggiungono due cucchiai di panna montata e una noce di mollica di pane strizzata, dopo essere stata imbevuta nel latte. Le proporzioni variano a seconda della potenza desiderata: quanto minore è la quantità di pane e panna, tanto più forte sarà la salsa. Bonèt

Più raro della crème caramel e più aristocratico, con quei segni d’amaro in un cuore tenero e dolce. Si pronuncia «bunèt», in piemontese è un berretto schiacciato, che ricorda la forma del dolce. 8 dl di latte, 5 amaretti sbriciolati, 80 g di savoiardi, 1 tazzina scarsa di caffè, 3 cucchiai di rhum, 4 uova, 140 g di zucchero e 50 g di cacao amaro. Si fa bollire il latte e si lascia raffreddare. Si sbriciolano i biscotti e si mettono nel latte mescolando bene e a lungo col rhum e il caffè. Sbattete bene le uova con zucchero, facendole impallidire e aggiungete il cacao che deve amalgamarsi perfettamente. Unite latte e uova col cacao. In una piccola casseruola fate sciogliere 40 g di zucchero in un cucchiaio d’acqua e mescolate con un cucchiaio di legno fino a quando diventa bruno. Distribuite un velo di questo caramello uniformemente sulle pareti e sul fondo all’interno di uno stampo per budini. Versate il composto e mettete in forno a bagnomaria a 160°C per circa 1 ora. Poi fatelo riposare almeno 15 minuti e sformate. È molto buono anche freddo; in questo caso si tiene nello stampo per circa 2 ore in frigorifero. fate attenzione al caramello. Scaldato lo zucchero, come detto aggiungendo un po’ d’acqua, va mescolato col cucchiaio fino a quando non prende bollore, poi si muove il pentolino altrimenti si attacca al cucchiaio e ogni cosa diventa una collosa catena di eventi incol CONSIGLIO

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lati l’un l’altro. Il caramello deve avere una consistenza vitrea e va versato subito nello stampo e fatto ruotare al suo interno. e e e DA BERE Porto Taylor’s Quinta de Terra Feita Vintage 1992 o Quinta do Noval 1994: 15 anni d’invecchiamento dovrebbero essere il minimo per un buon porto. E un grande vino da fine pasto, ma prendete solo il vintage (le migliori annate) con più anni sulle spalle, altrimenti avrete uno sciroppetto labile che assomiglia a una caramella liquida. Oppure andate sul forte: un buonissimo Rhum Agricole Bally di almeno 20 anni. Il rhum agricole è meno caramellato del rhum classico, che deriva dalla fermentazione della melassa (quella parte di sciroppo di zucchero non più recuperabile) perché distillato direttamente dai succhi della canna da zucchero, così da acquistare in profumo, freschezza e profondità.

Sul far della sera Anche la domenica ha una fine e molti pensano che non ci sia nulla di più triste d’un sole che tramonta o d’una bruma che s’adagiano su un minestrone. Nulla di più falso. Non solo il minestrone satolla, elevando lo spirito e alleggerendo lo stomaco, ma armoniosamente ci incatena al desco. A patto che sia magistralmente accudito. Il segreto è semplice e lo sveliamo subito: qualunque sia la verdura che scegliete, non dovete assolutamente metterci l’acqua. Gli ortaggi, tutti, hanno i loro umori che rilasceranno copiosamente ai primi calori. Quegli umori son sapori che l’acqua diluirebbe e «sciaperebbe». Ecco come procedere per un buon minestrone serale di almeno un chilo di verzura. Minestrone

Qualche cucchiaio d’olio extravergine d’oliva al fondo d’una pentola dal bordo medio su cui calare a pezzetti: zucca gialla abbondante, 4 zucchini normali, 4 carote, 3 gambi di sedano, 1

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cipolla, qualche foglia di bietola, 3 mestoli di fagioli già ampiamente sbollentati, 4 foglie di cavolo bianco, 4 di cavolo nero. Coprite e con poco sale lasciate cuocere lentamente a fuoco dolce, schiacciando di tanto in tanto i pezzetti più restii, fino a che il minestrone non si raddensa. Le stagioni dovrebbero stabilire il dettato: se volete, aggiungete una manciata di piselli, di fagiolini o di fave sgranate, un pomodoro fresco pelato oppure astenetevi dai fagioli e, a maggior ragione, dalle patate, che danno inutile peso; così come dal battuto d’aglio non strettamente necessario. Servire tiepido o «ambiente», senza parmigiano. Importante l’alloro e il rosmarino che potete far cuocere in un portaodori (una sferetta a rete) per non far disperdere aghi o lacerti di foglie. un passato di verdura che contempla tutto come sopra (senza fave però, né cavolo e fagiolini) con l’aggiunta di qualche patata, il burro al posto dell’olio e, a cottura ultimata, il rito del passatutto (col disco medio). Fare cuocere il passato ancora un po’ e a fuoco spento, in attesa del dovuto raffreddamento, preparate dei dadini di pane fritti nel burro. Questo passato ritrovato, così come il minestrone, è squisito freddo con un cucchiaio di pesto genovese (vedi p. 208) nel mezzo di ciascun piatto. In tavola, con l’olio crudo. e e e DA BERE che cosa è rimasto? Un mezzo Tignanello (Antinori), un grande Sfursat valtellinese di Negri che avrete lasciato giustamente aperti. Forse, ma il minestrone non li sosterrebbe. Meglio un bianco profumato, come l’ultima annata disponibile dell’umbro Colli del Trasimeno prodotto dall’azienda Pieve del Vescovo di Corciano (PG), semplice ma fruttato e profumato.  VARIANTE

Tristi serate domenicali, segno di fine festa, spesso coronate in gioventù da uno sbracamento domestico di mamme stanche, padri affranti e compiti raffazzonati. Malinconico come la fine della stagione coi bagni (leggi stabilimenti balneari) inchiodati da assi di legno, sagome austere nel cuore del buio incipiente, e

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i primi maglioni entro l’estate tramortita... che fare? Far finta di niente e non mangiare, un piatto rituale (sempre il solito), bere la feccia fino in fondo. La feccia è il caffellatte coi biscotti: osvego o marie. Il piatto rituale sono le uova strapazzate. Uova strapazzate

Mettete due uova intere, dopo averle sbattute grossolanamente e salate, in una padella antiaderente che avrà fatto sciogliere già un po’ di burro. A fuoco dolcissimo, mescolate continuamente con un cucchiaio di legno per non fare raggrumare. Fuori dal fuoco, aggiungete un po’ di panna liquida o un po’ di latte tiepido, in modo che le uova restino cremose. Una girata di pepe. Pane tostato e birra (Menabrea). Può essere poco, ma anche molto, dipende dal giorno.

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Appuntamento yes Saper cucinare, eleggere alcuni piatti a cavalli di battaglia, mettere in fila un menù che non sia solo spaghetti al pomodoro e prosciutto crudo (sul quale comunque non me la sentirei di gettare alcun discredito) non è come saper suonare la chitarra, ma quasi. Tutti abbiamo vissuto il lungo momento dell’adolescenza, quando stava nascendo «il problema più importante per noi». Lei, bramata, desiderata ma troppo spesso non «esaudiente». Nei corni di quel dilemma, c’era qualcuno che vinceva sempre: quello con la chitarra. A un certo punto, verso il tramonto o a notte fonda, la tirava fuori lentamente, qualche tocco, qualche accordo labile e ispirato e dal silenzio l’attenzione (nei ragazzi) diventava estasi (nelle ragazze). Allora saper fare da mangiare era quintessenza di polvere e senilità. Oggi, invece, qualche anno più in là, è un bel vantaggio e offre alcune possibilità di smarcarsi dal solito primo incontro in campo neutro: cioè il ristorante. Appunto, è raro riuscire subito la prima volta a invitarla a casa. Non sembra educato, e a correre troppo si rischia di sbandare. Ma soprattutto: a casa vostra? Che si fa? Per un aperitivo e poi uscire? È un giro a vuoto. Invece se avete una certa consuetudine con la cucina, se possedete quel po’ di passione che vi fa arrivare fino al «fumet» o al fondo bruno, alle chiare d’uovo montate a neve... Se questa passione l’avete propagata a voce con una timida e riottosa spavalderia, allora le vostre ricette

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cominceranno a parlare per voi e quel piatto fumante, quella bottiglia di vino appena stappata, possono diventare i primi capitoli di una storia. O anche un prologo, serrato, ma senza romanzo... Quale sia il proseguo della serata, almeno la prestazione culinaria dev’essere all’altezza: perciò andate su ricette rodate. Primo: non è questa la fase degli esperimenti. Secondo: bisogna pensare per menù, cioè prevedere una sequenza di piatti che s’intonino fra loro. Terzo: considerate che in fondo esprimete un po’ voi stessi e anche se amate molto i brodi e le frittate, per quelli c’è tempo. Quarto: ci vuole qualche informazione preliminare... non dico di arrivare alle confidenze intime circa lo scalogno o l’affumicato del Galles (è un tipo di sale), ma sapere almeno se i crostacei sono banditi, l’aglio interdetto... Con questo bagaglio d’informazioni, partite decisi e concentrati. Che, tradotto, sarebbe: entusiasti, ma freddi; con ardimento, ma senza voglia di strafare. Ci sono piatti molto semplici, molto buoni e abbastanza desueti. Punterei su quelli. Ecco un menù «primo incontro» a partire dall’inizio. Champagne, spumanti, prosecchi... Black Russian... Parson’s special. Dipende dall’età della candidata o dell’incontranda. Se è ascrivibile alla gioventù, non penserei allo champagne. Non mi pare che i giovani lo amino. Lo rispettano, ma non ne vanno matti. Loro amano la vodka, il gin, il rhum, la tequila. Di Daiquiri, Margarita e Mojito (vedi pp. 135-136) non s’è ancora parlato. Con nessuno di questi tre si sbaglia. L’ultimo è perfetto d’estate ma un po’ macchinoso, con quel pestaggio in diretta della menta; la Margarita, poi, vuole il ghiaccio tritato, complicato anche quello a meno di non avere il tritaghiaccio elettrico o un frigorifero totem che ve lo scodella come se imbroccaste una slot machine. Allora provate con questi:

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Black Russian

Ci vogliono 2/3 di vodka e 1/3 di kahlua. Si prepara direttamente nell’old fashioned (il bicchiere cilindrico basso) con 4-5 cubetti di ghiaccio. Vodkatini

1/5 di vermouth dry (dal patronimico risalite anche all’altro genitore) e 4/5 di vodka si mischiano direttamente nel mixing glass (un bicchiere capiente graduato) con molto ghiaccio e si serve nella coppetta da cocktail con una scorza di limone. Godmother

Si mischiano direttamente nell’old fashioned, con molto ghiaccio, 3/10 di amaretto e 7/10 di vodka. Parson’s special

6/10 di un’arancia spremuta, due cucchiaini di granatina sciroppo, 2/10 di soda, un tuorlo d’uovo. Versate tutto nello shaker, agitate con vigore per 15 secondi, poi versate nel tumbler grande (il bicchiere cilindrico lungo) e aggiungete la soda. Però questo, più che per un primo incontro, sembra adatto a un fatale primo ritorno, come quello di Camilla e Carlo (d’Inghilterra). Ci sono molte altre opzioni: Bellini (vedi p. 85) con cui non si sbaglia quasi mai, ma è solo estivo, Puccini, Tiziano, tutti a base di champagne o spumante e frutta. Oppure i classici Gin Tonic (vedi p. 81) e Vodka Tonic. Classici, appunto, molto visti e bevuti. Il Martini cocktail (vedi p. 51) è a parte: prettamente maschile o per coppie strarodate. Se, invece, chi viene a trovarvi conosce quasi a memoria qualche canzone dei Beatles e neanche una dei Nirvana, Gino Paoli e non Fabrifibra, allora starei con fiduciosa serenità sul Brut

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italiano di Franciacorta (il Bellavista, vedi p. 18; ma anche Cavalleri o Contadi Castaldi) o il trentino Rotari. Il Corpse Reviver, infatti, è davvero oltraggiosamente ammiccante, oltre a configurarsi come completo minipranzo: Corpse Reviver

1 tuorlo d’uovo, 1 cucchiaino di ketchup, 1 cucchiaino di Worcester Sauce, 2 gocce d’aceto, sale, pepe. Si prepara direttamente nella coppetta da cocktail. Non va mescolato. Va bevuto in un sorso solo. Certo, ogni drink o quasi vorrebbe i suoi appetizer, ma la varietà è troppa. Io starei su qualche classico, semplice da preparare, sapendo che il salame (magari quello di Felino) si coniuga mirabilmente allo champagne e le pizzette del fornaio appena rinvenute in forno (anche nel microonde) di solito son quelle che finiscono sempre. Non bisogna strafare. Se siete maniaci (culinari) già la prima volta, poi dovreste essere sempre all’altezza delle vostre ossessioni. Per di più è essenziale che fili tutto liscio: il pranzo non è il protagonista, ma un fidato sottofondo. Potete dunque rispolverare i grissini alla Caraceni, citazione degli anni Sessanta e d’un famoso sarto per uomo. Grissini alla Caraceni

Ricordano quelli che gli appartenenti alla generazione oggi al potere trovavano nei ristoranti italiani quando da bambini ci andavano con i genitori: sui tavoli c’erano sempre, accanto ai riccioli di burro, spesso in vaschette d’acqua fredda, grissini medio-grossi industriali (non squisiti come i rubatà torinesi, che si trovan solo in Piemonte) rivestiti di fette di prosciutto. Prendete del formaggio fresco spalmabile da mettere sull’estremità di ogni grissino e avvolgetelo con una fettina di prosciutto, speck o pancetta. Infilate i grissini in un bicchiere alto. Preparazione:

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minuti 3, per almeno 6 grissini. Se non ci mettete il formaggio (versione più classica) si accorciano i tempi di preparazione. Tortillas in salsa piccante

Comprate le tortillas di mais1 e abbinate questa salsa. Tritate uno scalogno piccolo con un po’ di peperoncino da cui avrete eliminato i semi e fatelo imbiondire in un cucchiaio abbondante d’olio d’oliva extravergine. Sbriciolateci dentro mezza salsiccia senza pelle e unite 100 g di pomodoro. Una punta di sale e di zucchero. Lasciate cuocere a fuoco dolce per 10 minuti e, alla fine, metteteci un po’ di prezzemolo tritato. Sarebbe bellissimo presentare come primo un flan di gamberi, un timballetto napoletano, ma esigerebbero maggior cura della vostra ospite e se è bello farvi vedere un po’ in azione, non potete stare, però, troppo in ansia. Il flan, meglio il soufflé, produce proprio quell’effetto: è un ragazzo viziato. Una volta in forno, va accudito con lo sguardo e con il pensiero. Invece bisogna che i piatti siano preparati in anticipo e che quello finale sia l’ultimo tocco. D’estate cominciate con un gazpacho, d’inverno con una vellutata di gamberi (le dosi sono sempre per 4 persone; in casi come questo, dividete per due). Gazpacho2

Passate nel passaverdura a dischi larghi 1 kg di pomodori maturi e spelati; tritate molto finemente 1 cipolla rossa di Tropea, 1 1. I messicani chiamano masa l’impasto con cui preparano le sottilissime tortillas cuocendole su una piastra arroventata. Il masa viene preparato facendo bollire i chicchi essiccati di mais bianco e lasciandoli in ammollo in una miscela di acqua e ossido di calcio già fatti. 2. È un altro piatto archetipo e ognuno lo declina un po’ come gli pare. Era una merenda forte e rinfrescante a base di pomodoro dei contadini andalusi, che lo mantenevano all’ombra di qualche raro albero, in freschi orci. La versione più in voga tende a ingen-

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grosso cetriolo spellato e fatto spurgare, per una mezz’oretta, dopo averlo salato e pressato. Pestate 2 spicchi d’aglio e tritate 1 grosso peperone dolce, dopo averlo ben mondato. Aggiungete tutto al pomodoro, insieme a 2 cucchiai d’aceto bianco delicato e a un pugno di mollica di pane raffermo, avendolo prima bagnato d’acqua e poi strizzato. Quindi in frigorifero per almeno 2 ore. Nel lettore Julio Iglesias: Sono un pirata, sono un signore. sono molte. Si possono passare tutte le verdure prima di metterle nel pomodoro e si possono anche riproporre a parte, tagliate finemente, in piattini, per corredare il gazpacho, con l’aggiunta di 2 uova sode tritate. Qualcuno scioglie un cucchiaino di zucchero nell’aceto e fa bene. Il gazpacho estremeño, che proviene dalla bellissima e contigua Estremadura, vuole il peperoncino piccante al posto del pepe e ciuffi freschi di finocchio selvatico. Il gazpacho non deve essere denso, perciò si può aggiungere qualche bicchiere d’acqua gelata.  CONSIGLIO a metà tra una minestra e una bevanda, è un alimento che deve esprimere soprattutto freschezza. Perciò non bisogna esagerare con pepe, sale, peperone e cipolla o aceto troppo forte: se ne può aumentare la quantità anche alla fine o presentare le verdure tritate a parte come opzione personale di «rinforzo». Non frullate i pomodori: tenderebbero a gonfiare e a spumeggiare. e e e DA BERE bianco. Potete continuare con gli champenois (vedi p. 18) o, meglio ancora, l’ultima annata del «Podium», un Verdicchio prodotto da Garofoli (AN).  VARIANTI

L’opzione invernale, allergie e idiosincrasie permettendo, può essere una vellutata di patate con gamberi. Ai gamberi ci spinge, soprattutto in questo caso, ancora una volta l’Artusi, per contrappasso: «in specie i cosiddetti frutti di mare e i crostacei, per la quantità notevole d’idrogeno e di fosforo che contengotilirlo e ad aggiungere al pomodoro cubetti di ghiaccio per renderlo ancora più fresco. In Italia si indulge a unire anche un po’ di sedano, tanto per non dimenticare la salsa eponima degli spaghetti. Gli imprinting non muoiono mai.

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no, sono eccitanti e non sarebbero per chi vuol vivere in continenza». Vellutata di patate con gamberi

Lessate, sbucciate e tagliate a fette 4 etti di patate che aggiungerete a un soffritto di 2 porri e 50 g di burro con due tazze di brodo vegetale (vedi p. 200). A parte avrete preparato 1 kg di gamberi sgusciati. Eliminate il filetto scuro sul dorso e teneteli da parte. In una padella fate rosolare uno scalogno tritato in un po’ di burro, con un rametto di rosmarino, i gusci e le teste di gambero pestate, o meglio passate dal passaverdura con disco medio. Lasciate cuocere a fuoco medio per pochi minuti e versateci 1/2 bicchiere di sherry, facendolo sfumare. Fate attenzione che non si attacchi, se necessario aggiungete un po’ dell’acqua in cui hanno cotto i gamberi. Filtrate da un colino e mettete questo fumetto nella minestra di patate precedentemente passata al passaverdure o nel mixer e portate a bollore. Spegnete, salate e aggiungete le code dei gamberi, che devono cuocere gentilmente e appena. È una minestra che può essere preparata tutta in anticipo, conservata in frigorifero e all’ultimo riportata a cottura, ma in tal caso aggiungendo solo a questo punto le code dei gamberi. elementare e più ricca. Qualche bel gambero, servito nudo, dopo averlo sbollentato per meno di 1 minuto nel suo carapace. A parte, potete dare una citronnette, ovvero olio (3 cucchiai) e limone (2 cucchiai), battuti in una ciotola con poco sale e un pizzico di pepe. e e e DA BERE «Piere» Sauvignon 2006, Vie di Romans (GO), perfetto, come tutti i bianchi del patron Gianfranco Gallo.  VARIANTE

Se potete, restate sul pesce, preparato nel più classico e, in un certo senso, nel più elegante dei modi: un’ombrina o una spigola lessa. Anche questo è un piatto che si può servire tiepido o ambiente e può essere preparato prima, insieme alla maionese (vedi p. 204) che lo accompagnerà.

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Ombrina lessa

Ombrina perché non si trova d’allevamento, mentre orata e spigola sì. Ma ormai è facile riconoscerle. Intanto perché la provenienza è dichiarata e poi per una pezzatura sempre monodose o più tristemente «a porzione». Comunque ci vorrà almeno un pesce da oltre 1 kg (se avanzerà ci farete la non molto nota maionesina d’ombrina, la cui ricetta è facile da comprendere) da mettere nella pesciera dove avrete preparato il court bouillon (vedi p. 209). Il pesce si cuoce, nella sua corazza di scaglie, in acqua fredda e non bollente; nella pesciera, immerso nel court bouillon. Una volta raggiunto il bollore, si abbassa repentinamente il fuoco e si fa sobbollire piano piano. Un pesce di 1 chilo si fa «fremere» per 5 minuti circa, poi si spegne e si lascia nel liquido caldo per altri 3-4 minuti. Si dà con la maionese (vedi p. 204), tiepido o a temperatura ambiente. il pesce lessato troppo a lungo perde tutta la sua poesia, fatta di tenerezze, profumi, sfumature. Meglio averlo ancor rosa nella spina, piuttosto che vicino allo spappolamento. È già una questione di affinità molto importante, fra voi due commensali. Comunque un metodo infallibile di calcolo non esiste. Provate delicatamente con la forchetta che deve trovare una resistenza medio-bassa. L’Artusi, che indulge a cotture piuttosto lunghe, dà l’opzione di «tenerlo in caldo nel suo brodo fino all’ora di servirlo». Suggerisce di «strofinarlo con le fettine di limone prima di tutto da crudo, che così rimane con la pelle più unita» e si spinge a riconoscere «il punto di cottura dagli occhi che schizzano fuori»3. Non buttate via l’acqua di cottura: è un prezioso brodo da surgelare per riutilizzarlo in un risotto o in un sugo di pesce.  CONSIGLIO

e e e DA BERE sempre Vie di Romans, un Pinot Grigio «Dessimis» 2006.

Ombrine, spigole, orate sono ancor meglio se cotte a vapore, perché mantengono pressoché intatti i loro profumi e sapori. 3. P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Garzanti, Milano 1973, p. 247.

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Ombrina al vapore

Riempite la pesciera con almeno 3 dita di acqua e fate in modo di tenere sollevata la grata mobile magari poggiandola su due barattoli piccoli pieni d’acqua per non farli cadere. Pulite il pesce, ma non squamatelo, né salatelo. Sulla grata un mazzetto guarnito di erbe aromatiche – quanto meno prezzemolo, erba cipollina, timo e, se c’è, finocchietto selvatico (vedi p. 216) – e sopra il pesce coperto bene. Molto probabilmente il coperchio non coprirà adeguatamente, perciò usate carta di alluminio ben tirata sui bordi della pesciera e appoggiateci sopra il coperchio. I tempi sono circa doppi rispetto al bollito in immersione e il fuoco va tenuto sempre alto. A metà cottura si può tentare di voltare il pesce, cosa un po’ disagevole perché si rischia di romperlo. Ma in questo modo il vapore fa molto meglio l’opera sua. Come contorno le patate, tagliate e bollite nell’acqua di cottura. potete arricchire l’acqua con del vino bianco o con altre erbe aromatiche; per esempio alloro, ma con discrezione. Salate il pesce solo alla fine, bollente e appena squamato. Si può servire a temperatura ambiente. e e e DA BERE lo stesso Pinot Grigio «Dessimis» 2006.  CONSIGLIO

In alternativa al pesce, se non è amato, uno spezzatino saporito e gentile, che non segue certa tradizione nostrana di utilizzare, per questo piatto, tagli tigliosi e coi nervetti, di seconda scelta. Dovete prepararlo prima e farlo rinvenire per qualche minuto, a fuoco dolce, prima di servirlo. Spezzatino di vitello con piselli

800 g di noce o di filetto di vitello. Va tagliato in cubetti. Poi 8 cucchiai di piselli già cotti. Tritate un ciuffo di prezzemolo e, a parte, molto fini 2 scalogni e 2 cipolle novelle. Fate rosolare la carne in una pentola che avevate oliato e scaldato precedente-

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mente, ma prima la carne va condita con sale e pepe. Rosolate a fuoco vivo, rimescolando ogni tanto per 30 secondi. Poi aggiungete nella padella 2 cucchiai di scalogno tritato e 40 g di burro. Quando la carne è uniformemente rosolata e ha ceduto la sua acqua, tiratela via con la schiumarola tenendola da parte. Versate 1/2 bicchiere di vino bianco nella padella così che il sugo si sgrassi e si rapprenda; girate e raschiate il fondo sulla fiamma per altri 5 minuti, finché non si riduce. Aggiungete cipolla affettata e 50 g di burro. Con la frusta montate sugo e burro finché non diventa una salsa corposa. Spostate la pentola dal fuoco e rimettete lo spezzatino di vitello nella salsa, portandolo a cottura a fuoco basso. Salate e pepate (poco). Lo spezzatino deve risultare tenero, ma assolutamente non sfatto e ben ricoperto dal suo sughetto. Se questo si fosse troppo ristretto, si può sempre aggiungere un po’ d’acqua o meglio un po’ di brodo. Controllate il sale e il pepe. Preparate poi i piselli da unire. Mettete in una padella con 30 g di burro e una punta di cucchiaino di zucchero, per circa 5 minuti, 8 cucchiai di piselli già cotti. Coprite, infine, di prezzemolo lo spezzatino. aggiungere allo spezzatino 4 spicchi di limoni alla marocchina (vedi p. 217). e e e DA BERE l’annata disponibile dell’eccellente «Don Anselmo», di Paternoster (PZ), che in Basilicata produce forse uno dei migliori Aglianici in circolazione. Anche il suo Aglianico base «Synthesi» possiede forza ed eleganza. Oppure l’ultima annata del Pinot Nero Boccadigabbia (MC), ottimo vino marchigiano.  VARIANTE

Non è difficile, non si trova mai nei ristoranti e mantiene intatta la sua italica, leggiadra ascendenza settecentesca (in realtà l’origine è francese e del secolo prima): Fricassea di pollastri squisita alla genovese

In una casseruola appassisce un trito di 1 cipolla media in 40 g di burro. Si aggiungono 2 petti di pollo e 10 g di pinoli tostati

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e pestati, bagnando con 2 ramaioli di brodo bollente. Si sala. Dopo 10 minuti si versano nella casseruola 80 g di piselli freschi sbollentati con 2 fegatini (ma è optional) tritati di pollo. Si lascia cuocere per 15 minuti e poco prima di ritirare dal fuoco si versano 2 rossi d’uovo sbattuti col sugo di 1/2 limone. Un’attenta e decisa mescolata con un cucchiaio di legno e in tavola, magari con un riso pilaf (vedi p. 15). e e e DA BERE Rossese di Dolceacqua Superiore «Vigneto Morghe»

2006 di Mandino Cane, profumato di ribes e lamponi, vessillo dei rossi di Liguria. Vinificato dal giovane patriarca (non ancora ottantenne) Giobatta Mandino Cane, apripista di questo vino di grande personalità – austera e vivace allo stesso tempo – che una volta imbottigliava in una chiesa sconsacrata nel centro del bel paese di pietra di Dolceacqua, dove campeggia un rispettabile castello Doria e svetta un antico ponte inarcato. Di quelli amati dai diavoli.

Un’altra possibilità, più semplice dello spezzatino, sono le scaloppine al limone (o al vino, al brandy o al marsala...). Scaloppine

Per due persone, prendete 3 etti (6 etti per quattro persone) di fettine di manzo, o di vitella, tagliate giuste (né troppo spesse, né troppo sottili). Tagliatele piccole, tanto da farne di una fetta normale tre pezzi. Infarinatele leggermente stando attenti a pressare la carne sulla farina con decisione, così che quando verranno cotte non rimanga la farina da una parte e la carne, nuda, dall’altra. Fate scaldare una padella larga con abbondante olio extravergine. Più la padella è larga e meglio è: le scaloppine devono stare ben distese sulla padella, ognuna al suo posto, senza infastidirsi a vicenda. Fatele cuocere rapidamente; poi giratele una a una e cuocetele dal lato opposto salando leggermente a ogni passaggio. Lasciatele sulla fiamma viva finché, per ognuno dei lati, non

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si saranno dorate formando un crosta. Togliete momentaneamente le scaloppine dal fuoco e ponetele in un piatto. Spremete il succo di un limone, versatelo nella padella e lasciate che evapori, formando una cremetta. Adagiatevi dentro le scaloppine per pochissimi minuti. le scaloppine possono essere tranquillamente preparate in largo anticipo, interrompendo la cottura all’ultima fase, cioè prima di aver versato il limone. Poco prima di servirle si rimetteranno sulla fiamma. Non vi scordate, verso la fine, il sale.  VARIANTE al vino bianco; basta sostituire il limone col vino e ugualmente lasciare sulla fiamma finché non si rapprende. Se volete far scena, ma dovete esser sicuri di saper dominare le fiammate, usate il Grand Marnier al posto del vino. Cioè, servite le scaloppine direttamente in padella, irroratele di Grand Marnier (a occhio, anche qui 1/2 bicchiere) e poi, arrivando a tavola, dategli fuoco con un accendino: flamboyant, appunto. e e e DA BERE sempre Rossese, sempre Giobatta Mandino Cane, magari provando il suo altro buon cru: «Vigneto Arcagna» 2006.  TRUCCO

Come dolce, un pezzo forte, anche questo da poter preparare prima perché va messo in frigorifero. Mousse nigrita (al cioccolato)

Fate sciogliere a bagnomaria, o direttamente in un tegamino sulla fiamma bassa, 300 g di cioccolato fondente e aggiungete, mescolando con un cucchiaio di legno 1 dl di panna con 40 g di zucchero semolato. Quando avrete una crema, ritirate dal fuoco e unite, uno alla volta, 4 tuorli d’uovo, continuando a mescolare. Mentre fate raffreddare, montate 2 dl di panna e, a parte, 4 albumi (attenti: non devono contenere nemmeno una striatura di tuorlo, non monterebbero) a neve fermissima, unendo altri 40 g di zucchero. Amalgamate, unendo dapprima la panna al cioccolato e poi, molto delicatamente, gli albumi. Ver-

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sate il tutto in una conca, che metterete in frigorifero per almeno 4 ore.  CONSIGLIO non spaventatevi se la mousse vi sembrasse troppo liquida; datele un colpetto di freezer e si raddenserà. Montate gli albumi all’estremo, usando la frusta elettrica al massimo.  VARIANTE tenendo le stesse dosi, potete utilizzare una parte di cioccolato fondente extra amaro: avrete più nerbo. Provate ad aggiungere delle sottili fettine d’arancia, ripulite dall’albedine (la parte bianca) e sbollentate appena. Se volete, portate in tavola con panna montata a parte. Potete aggiungere mandorle fresche tritate, fatte appena tostare in padella. e e e DA BERE per significare un buon abbinamento, nella penisola iberica si dice giustamente: «come l’acqua per il cioccolato», al contrario con il vino il cacao non si sposa. Va bene, qui, un ottimo cognac: Delamain Vesper, XO, che sta per «very old».

Un’alternativa per il dessert, più semplice ed estiva, è il melone al porto. Melone al porto

Aprite un melone ben maturo in due metà, con ogni metà ci deve mangiare una persona. Pulitelo dai semi, poi svuotate l’interno tagliando a pezzi la polpa e lasciando intatta la buccia. Per farlo potete usare un cucchiaino. Riempite le due bucce con i pezzi di melone, quindi cospargete di porto rosso. Tenetelo in frigorifero per almeno un’ora, prima di servirlo. e e e DA BERE forse niente oppure il porto. Non lo stesso che avete

messo nel melone, ma quello che trovate segnalato a p. 3 (Porto Taylor’s Quinta de Terra Feita, Vintage 1992 o Porto Quinta do Noval 1994). Se va come deve andare e poi si progetta un viaggio in Portogallo, recatevi anche nel Douro a visitare queste o altre cantine: vigne, colline e fattorie bellissime.

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Un flan che si chiama desiderio Arriva sempre qualcuno. Questa volta, però, si conosce già. Inaugurale, ma non nuovo, come ciò che si situa nelle ellissi degli eterni ritorni. Qualcuno che non vedete da tanto tempo, che immaginate e vi immagina dal ricordo. E il ricordo, alla prova del presente, è un concorrente imprevedibile. Quale che sia il verdetto, chi non teme – proprio perché alla mercé dei vorticosi ghirigori alimentati dalla risacca del tempo – di rivedere un’antica fiamma dopo cinque-sei lustri tondi? Lo specchio degli anni non fa sconti, ma quello della storia e del carattere magari sì. Forse, fra le vostre rughe stempiate, il tratto del vecchio ragazzo s’amalgama in dosi appetibili a quello d’un adulto. Questa volta capace finalmente di far sperare in qualche risultato tangibile, che vada oltre i sogni e le affabulazioni, di cui siete stato campione laureato. Prepararle un buon pranzo, allora, è un fatto concreto, una traccia devozionale e affettiva, che vale più di mille parole. E vi permette di svincolarvi vigorosamente da una religione laica fondata su quelle reliquie secolarizzate, che sono i ricordi. Vi parlerà con occhi colmi d’antico amore, anche per la sola durata d’un lampo, quando sfornerete il soufflé ai carciofi, ai formaggi, ai gamberi o a quel che volete voi, perché il soufflé (flan è una vulgata comoda, ma inesatta) reca in sé i conflitti e le tensioni delle opere d’arte che si rispettino. Opulento e fragile, sontuoso ed effimero, delicato e vigoroso, dura un attimo. Come le rose, sboccia per poi sfiorire sempre troppo presto. Il soufflé è un mirabile risultato barocco, che si ottiene col più preciso dei calcoli, e che cela virtuosamente d’esser originato dalla ragioneria. Facile a dirsi, difficile a realizzarsi. Ci vogliono precisione, sangue freddo e un buon forno, che non va mai aperto durante la cottura. Se la lampadina interna è rotta («parte» subito e sempre) e non riuscite a vedere bene attraverso il vetro, spegnete le luci. Spiatelo con una lampada ta-

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scabile e con molto rispetto, come una piccola vita che si schiude. Se avete un forno blindato senza vetri, più professionale, calcolate bene i tempi imposti (non ci sono consigli; in questo caso, la ricetta è un editto), alzate gli occhi al cielo, fate un lungo respiro e che Dio ve la mandi buona: aprite il forno e i vostri occhi contemporaneamente. Attenzione: non c’è nulla di più desolante d’un soufflé che non monta, che si sgonfia improvviso o che avvizzisce rinsecchito (sì forse, in altro campo, esiste qualcosa di altrettanto desolante, però non si cucina in forno). Ma vale la pena rischiare. Soufflé al formaggio

In una casseruola fate sciogliere 70 g di burro con 70 g di farina. Mescolate con un cucchiaio di legno senza far prendere colore. Aggiungete 1,8 dl di latte bollente, sciogliendo bene ogni eventuale grumo. È una classica besciamella (vedi p. 201), solo un po’ più densa del normale. Fate riposare e aggiungete delicatamente, uno alla volta, 2 tuorli d’uovo. Quando tutto è ben amalgamato metteteci 40 g di gruyère e 40 g di fontina tagliati a pezzettini, un po’ di sale e di pepe bianco con una grattata di noce moscata. Incorporate pian piano 3 albumi d’uovo montati a neve. Versate il tutto in una pirofila cilindrica da forno che va prima imburrata. Mettete in un forno preriscaldato a 200°C, portando la temperatura a 160°C, per 30 minuti. Una mezz’ora può volare con lo champagne (Billecart-Salmon millesimato) e salame di Felino. Se avete il fornitore, uno Jamón ibérico Pata Negra bellota. Lo dico con rammarico: questo prosciutto spagnolo, purché con la dizione «bellota» (ghianda, di cui l’animale s’è cibato allo stato brado), è inarrivabile anche per la nostra gloriosa tradizione. molta attenzione e rispetto delle dosi, ma soprattutto: a) gli albumi devono essere montati a neve fermissima; b) la besciamella va cotta bene in modo da non dover sentire la farina e nel caso ce ne fosse bisogno aggiungete un po’ di latte caldo; c) il forno va tenuto a tempe-

 TRUCCO

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ratura molto dolce e non va aperto; d) servire subito portando in tavola, perché il rischio ammosciamento è sempre in agguato. Il grande soufflé dovrebbe avere una crosta soffice e bionda, un pasta compatta ed eterea e un suo recondito cuore di formaggio fondente. Ma è meglio lasciar perdere. Lo Scherzo di Brahms dalla FAE Sonate, trepidante, a basso volume per non distrarre il soufflé, ma in sintonia con i battiti del cuore. Oppure, sicuri di voi stessi, Ascension, di Coltrane.  VARIANTE ancor più raffinato il soufflé ai gamberi – ma userei i gamberetti – che ci suggerisce Nino Bergese nel suo Mangiare da re4. «Scaldare in un tegame 2 cl di olio d’oliva e unire 200 g di gamberi a dadini per 10 minuti. In una casseruola fondere 60 g di burro, unire 40 g di farina e farla leggermente imbiondire, mescolando senza interruzione, bagnare con 1 dl di latte già caldo; sempre mescolando portare a bollore e far cuocere per 5 minuti. Ritirare la casseruola dal fuoco, condire con sale e pepe. Mescolare a questa besciamella i gamberi, per metà lasciati a dadini e per metà pestati nel mortaio o passati al mixer e una julienne di tartufo bianco (optional). Incorporare uno alla volta i tuorli di 4 uova, poi gli albumi montati a neve ferma. Versare il composto in uno stampo da soufflé imburrato e cuocere per circa 30 minuti in forno a fuoco dolce».  CONSIGLIO fate un solco di 1 cm con il dito lungo la circonferenza del composto nella parte interna dello stampo. In questo modo monterà più facilmente. e e e DA BERE lo splendido champenois della Franciacorta, Annamaria Clementi di Ca’ del Bosco, che tiene testa a molti champagne. Chi amasse solo quest’ultimo, può continuare con il millesimato Billecart-Salmon.

Bisogna tenere il livello: non si può, poi, regredire con uno spezzatino alla picchiapò o un cicorione ripassato: un’idea è il petto d’anatra. Petto d’anatra al calvados

Quella dell’anatra è una carne meravigliosa, piena di sapori e colori, generosa e sugosa. Prendete 2 petti d’anatra (si trovano an4. Riedito nel 1997 da Feltrinelli, Milano.

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che già confezionati sottovuoto), incideteli a losanghe lungo la pelle, salateli e metteteli a cuocere prima a fuoco dolce, per meno di 2 minuti, in una padella dalla stessa parte della pelle, con pochissimo olio. Alzate poi la fiamma e fate cuocere 4 minuti, avendo cura di controllare che la pelle s’indori e rilasci il grasso. Abbassate la fiamma e girate, dopo 1 minuto mettete 2 cucchiai di brodo e continuate per 2 minuti scarsi; togliete dal fuoco e ponete in caldo in forno, al minimo, in un tegame già caldo. Private del torsolo 2 mele e tagliatele a rondelle senza sbucciarle, mettetele nella padella dove hanno cotto i petti, con 2 cucchiai di calvados e una noce di burro. Fate cuocere per qualche minuto a fuoco vivo. Intanto tagliate trasversalmente a fettine i petti, metteteli nella padella con le mele e aggiungete 1/2 bicchiere di calvados; nemmeno 1 minuto e fate «flambare» il tutto dando fuoco con un fiammifero. Disponete in un piatto da portata mettendo i petti al centro e le mele attorno. I petti devono essere mangiati caldissimi e restare internamente d’un rosa intenso. il piatto di portata deve essere bollente, lasciatelo immerso nell’acqua calda fino all’ultimo secondo. Caldi anche gli altri piatti. e e e DA BERE osate e se lo trovate avrete già compiuto l’impresa. Con l’aiuto del vostro «enoico» di fiducia, potreste riuscirci, ma la produzione è minima: Bernard Dugat-Py 1999, Grand Cru di Borgogna, forse il più sublime degli Chambertin. Se no, in Italia, dove il pinot noir, monovitigno della Borgogna, non raggiunge gli stessi risultati che in Francia (il paragone non sembri blasfemo), Impero Pinot Nero 2003 della Fattoria Mancini (PE), da sempre impegnata in questo difficile ma meraviglioso vitigno, tant’è che le vigne qui impiantate (siamo in provincia di Pesaro) risalgono all’età napoleonica.  CONSIGLIO

E le pere al vino, come dolce. Pere al vino rosso

Dessert ottocentesco nei colori e nei toni. Preparatelo ascoltando il Concerto per pianoforte e orchestra di Schumann, nella più

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straziante interpretazione: quella di Dinu Lipatti. Sbucciate 4 pere di pasta soda, ancora piuttosto dure (ottime le Kaiser), steccatele con un chiodo di garofano ciascuna e fatele bollire piano, immergendole in una casseruola che contiene 1/2 litro di vino rosso e 1/4 di litro d’acqua con 200 g di zucchero, una stecca di cannella, la scorza di un limone. Controllate la morbidezza, dopo 1 ora o più: lo sciroppo dovrebbe essersi ridotto di 2/3. Fate raffreddare 10 minuti e servitele grondanti di sugo vinoso. e e e DA BERE il solito Porto (vedi p. 3).

Due straccetti In teoria, se non ve la sentite di rischiare tanto, cioè il soufflé, non dovreste rischiare neanche il ritorno di fiamma, cioè il vecchio amore dopo vent’anni e più. Potreste allora puntare sulla filosofia e l’amicizia, come chi – non volendo rischiare complicazioni – cerca di andare sul sicuro, aspettandosi che la serata si svolga intorno alla tavola, e non oltre. Senza secondi fini: niente effetti speciali, niente soufflé o petti d’anatra. Comunioni d’anime. Come se più di tutto fosse importante lo stare insieme, farsi assistere mentre si prepara, chiacchierare prima, durante e dopo: come con un vecchio amico, appunto. In una cena con l’amico di sempre, che non si aspetta altro se non la vostra compagnia, anche il silenzio è complice, fratello di qualche stanchezza, che in due diventa forza. Un menù in cui l’attenzione per cucinare sta sullo stesso piano della parola e della risata: si assaggia tutto tranquillamente con le dita. Prima di cominciare, un cocktail d’iniziazione alla vita adulta, un vessillo al confine tra adolescenza guascona e timida incipiente maturità, piantato nella zona del «ti ricordi?». Rimembranze che uniscono, alla faccia del mondo: è il tempo di quan-

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do siete stati giovani. Qualcosa che assomiglia all’Educazione sentimentale di Flaubert: i due amici, ripensando a quando, molti anni prima, fecero cilecca entrambi, a turno, con una prostituta, dicono l’uno all’altro «Certo... come fu bello!». Eccolo quel vessillo di confine: il Martini cocktail. Martini cocktail

Pensate che James Bond lo beveva solo nella versione con la vodka; saputello, ordina al barman: «agitato» (traduzione: nello shaker). Un record di tre errori in una botta: la vodka (passi: c’è qualcuno sulla terra che la preferisce al gin), il termine «agitato» lo usavano i nostri nonni per Celentano 50 anni fa e soprattutto l’idea, malsana, che il ghiaccio, spaccandosi perché «shakerato», inquini con gocce d’acqua il re dei cocktail. Hemingway, il cui bicchiere era all’altezza della propria penna, al Select di Parigi guardò negli occhi una sola, definitiva volta il barman: «stirred, not shaken», disse scandendo le parole (era ancora al primo). Vale a dire: girato nel grande mixer, non scosso nello shaker. Prima il gin cala il suo colpo d’ala nel freddo e poi, ghiacciatissimo, approda in una coppetta triangolare scottata dal gelo. Il Martini dry è un rito con i suoi adepti, che ne sanno leggere a ogni nuovo officio tutti i particolari e ne subiscono l’eterna dannazione: son consapevoli che non è mai perfetto e che uno solo non basta mai. Comunque: 1/10 di Martini dry e 9 /10 di gin, rapidamente girati nel mixer con molto ghiaccio duro, poi subito nelle coppette ghiacciate in cui si strizza la scorzetta (solo quella!) lievemente oleosa di un limone. L’oliva verde nello stecchino è optional. Usare Gin Gordon o Tanqueray, il pur magnifico Bombay è un po’ troppo speziato. Il menù base per l’amico che viene da voi è fondamentalmente basato su piatti e ingredienti di pronta disponibilità e semplicità. Per esempio gli spaghetti aglio e olio o gli straccetti.

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Spaghetti aglio e olio

Sempre per 4, se in 2 dimezzate le dosi. In una casseruola, anche piccola, 4 cucchiai d’olio extravergine, 3 spicchi d’aglio tagliati a metà, una scorza di limone. Lasciate soffriggere su una fiamma bassissima. Quando l’aglio comincia a dorarsi aggiungete uno o due peperoncini (quanto ve ne piace, ma non troppo, non è all’arrabbiata) e continuate a farli soffriggere: attenzione a non far bruciare il peperoncino, né l’aglio. Una volta che l’aglio sia completamente dorato e l’olio insaporito, spegnete. Cuocete nell’acqua bollente e salata 4 etti di spaghetti, o spaghettini, o vermicelli, a scelta. Mentre l’olio nel pentolino si sarà freddato, aggiungete 1 un ciuffo di prezzemolo tritato. Scolate la pasta sommariamente e mischiate bene versandoci l’olio preparato. Straccetti

Un piatto della cucina romana di tutti i giorni. Almeno 8 etti (per due, dimezzate tutte le quantità) di vitellone – bene la noce, il «bicchiere»… – tagliato a fettine sottilissime, molta salvia, 8 cucchiaiate d’olio e 1 spicchio grosso d’aglio, 3 cucchiai di aceto bianco di vino o di mele. Fate soffriggere lentamente, in padella, lo spicchio d’aglio schiacciato fino a farlo imbiondire (non bruciare, ma nemmeno lasciar pallido), aggiungete una bella ciocca di salvia. Nell’olio caldo dovreste mettere le fettine di carne che avrete ulteriormente tagliato in due o tre pezzetti (straccetti). Qui il cronometro – come del resto molto spesso – non serve. La carne, assai sottile, cuoce in un battibaleno e se cuoce troppo s’«insolisce», però l’aceto deve sfumare, cioè volatilizzarsi. È, giuridicamente, un «combinato disposto». Quindi, dopo l’aglio imbiondito nell’olio e dopo la ciocca di salvia, mettete l’aceto, lasciatelo sfumare e dopo qualche minuto mettete gli straccetti: appena perdono il rosso, spegnete il fuoco, ma serviteli caldi.

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e e e DA BERE stappare con generosità è il modo migliore per rendere vi-

va una cantina, piccola o grande. In meno si è, meglio si beve. Di un vino che ci esalta si deve parlare, perché in fondo parliamo di noi: come si fa a parlare intimamente o profondamente di se stessi nel vitreo chiarore dei fumi alcolici, tra 10 o 20 persone? Con un amico, si stappa un vino che amate, una nuova bella scoperta, senza tirchierie e infingimenti. Forse il Dugat-Py avreste dovuto aprirlo per lui. E allora un Taurasi, «Vigna Macchia dei Goti» 2001 di Antonio Caggiano, che nasce proprio a Taurasi (AV), o un ricchissimo «Pàtrimo», Merlot in purezza dei Feudi di San Gregorio (AV). Qui l’affetto gira nei bicchieri.

Volendo potete affiancare agli straccetti della verdura ripassata (vedi p. 76), quella che avete. Ma preparargli dei fagiolini in umido significa davvero offrirgli un contorno d’affetto. Fagiolini in umido

Mettete sul fuoco 4 o più etti di fagiolini in una padella con 1 spicchio d’aglio schiacciato e 3 cucchiai d’olio extravergine. Dopo pochi minuti versate un bicchiere d’acqua e fate andare a fuoco dolce per 5 minuti. Poi aggiungete 5 pomodori Sanmarzano a dadini, con 1/2 cucchiaino di zucchero e poco sale. Fate ritirare alquanto il pomodoro e servite i fagiolini, non molto caldi. in questo modo davvero buoni sono i cosiddetti fagiolini di Sant’Anna, quelli che assomigliano a lunghe stringhe da scarpe.

 CONSIGLIO

Il dolce potrebbe essere quello da conversazione, per avanzare nella notte: ciambellette al vino – o simili biscotti secchi da mangiare parlando, coi gomiti appoggiati sul tavolo, davanti a un bicchiere di vino amabile – e potreste averle acquistate in precedenza, non sarebbe uno scandalo. Tanto è il vino che vi introduce nel buio e il whisky che vi sostiene, fedele nelle tenebre. e e e DA BERE per il vino, con le ciambelline, oserei la preziosa (non

tanto per il prezzo, bensì per la sua nobiltà) Vernaccia di Serrapetrona.

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Quest’antichissimo vitigno è prodotto in un triangolo marchigiano tra i comuni di San Severino Marche, Belforte del Chienti e Serrapetrona. Si può permettere un massimo del 15% di sangiovese, montepulciano e ciliegiolo. Se ne vinifica al momento della vendemmia solo il 60%, il resto si appassisce naturalmente e poi si aggiunge al mosto ottenendo un metodo di spumantizzazione naturale. Ne nasce un vino fino, dal bouquet intenso, di spuma persistente e palato amabile. Proprio questo tipo è il migliore per i dolci. Provate, con i dolci secchi, la Vernaccia di Serrapetrona in versione amabile di Massimo Serboni del 2007. Per il whisky varrà il gusto personale: puro malto, chiarezza, sapori sospinti dal vento, salmastro, torba, reti ad asciugare. Sì, niente orpelli o caramelli. L’isola di Islay: Ardbeg, Laphroaig, Caol Ila, più o meno invecchiati. Aperti sul mare, liberi da inconsapevoli e misere parodie del cognac. Sono loro la vostra lanterna nella notte.

Se poi le ciambellette le volete preparare da voi, ecco come fare: Ciambellette al vino

1/2 bicchiere di vino rosso, 1/2 bicchiere di zucchero bianco, 1/2 bicchiere d’olio extravergine (volendo, 1/4 di extravergine e 1/4 d’olio di semi). Mischiateli in una terrina, con quanta farina richiede l’impasto, ma non troppa: è a rischio la friabilità delle ciambelle. All’inizio vi si appiccicherà tutto alle mani, ma muovendo e smuovendo, e aggiungendo un po’ di farina, l’impasto viene fuori, alla fine, abbastanza denso (e unto). Amalgamato l’impasto – non sarà una cosa breve – poggiatevi su un piano di marmo, o di legno, e prendendone piccole parti per volta rotolatele sul piano di lavoro facendone dei cilindri di circa 1,5 cm di diametro, e lunghi 10. Chiudeteli a ciambella sovrapponendo le estremità e schiacciandole una sull’altra. Poi passate in un piattino pieno di zucchero bianco, da un lato e dall’altro, poggiate le ciambellette su di una teglia coperta di carta da forno. Le ciambellette dovranno cuocere a 240°C, più o meno 20 minuti. La-

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sciandole freddare diventeranno più dure. Si mantengono a lungo, se riuscite ad astenervi dal mangiarle subito tutte quante.

I figli sono tutto? Succede anche questo, è inutile nasconderselo. Cucinare è bello, se diventa distrazione, fuga immobile, esibizione che postula ammirazione o ludibrio (sempre in agguato quest’ultimo); ma può essere anche un peso, l’ultima, ferale mazzata della routine. Nei primi caldi feroci della primavera inoltrata, tornate a casa dopo una giornata di frammenti acuminati. Un giorno talmente disperso e sfilacciato da risultare non riassumibile: non sapete bene quello che avete fatto; quale piega, il quotidiano, abbia preso. Forse siete una sua piega. Partite da una foto sfuocata per approdare alla penombra, al silenzio, al fresco claustrale del vostro appartamento (sempre che ve lo tengano con le finestre chiuse) e coltivarvi una sparuta ora monacale, fra le sette e qualcosa e le otto e qualcosa. L’imprecisione, la vaghezza appunto. I piselli sono già cotti, si tratta di levare la bresaola e le fragole dal frigo. Apparecchiatura di tutti i giorni; un bicchiere di Freisa o Bonarda fresche. Non si programma, non si mettono in fila sul bancone tagliere, mixer, coltelli. Tutto fermo riposerà: vostra moglie arriva più tardi, la figlia serena solfeggia sul flauto Vivaldi a pezzetti, il cane sfatto a terra alza un occhio, rassegnato a non uscire e a non ricevere carezze né giochetti. Potete godervi dal divano un proficuo, intenso sguardo nel vuoto. Affondare. Ma il campanello è una frustata che scuote il vostro afflosciamento da marionetta senza fili: «Ciao sono Martina...». «Babbo è per me... ciao Martina... dai sali». Sì, Martina mangia, gioca e dorme da voi. Non è lei che è im-

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presentabile, siete voi che volevate avere il diritto di esserlo, abbandonato nelle vostre quattro spesse mura. Espropriati da una timida depressione, dal vuoto, ripiombate nel pieno, mentre il cane abbaia, il telefono squilla, Martina e vostra figlia s’abbracciano felici all’insegna d’un entusiastico «Babbo, facci un appetizer, abbiamo un sacco fame... ci sono le cotolette?», e poi l’orgogliosa rivelazione sussurrata in una fuga rutilante: «È bravissimo... scrive un libro di cucina». Le cotolette? Quello panato siete voi. Drizzarsi, risorgere, passarsi una mano nei sempre più radi capelli e partire. In casa non c’è quasi nulla (piselli e bresaola a parte): patate, pane, cipolle, carote, inutili superstiti di un’antica spesa. Rimediate per caso due formaggini fusi, quei triangoli della vostra infanzia, ricordate? E un paio di peperoni, una bottiglietta di acqua tonica, due limoni. Pâté di peperoni

In forno non c’è tempo, passate i peperoni su una padella calda tentando di non sbruciacchiarli troppo. Aggiungete un po’ d’olio e fateli ammorbidire coperti. Metteteli in un sacchetto di plastica per lasciarli sudare: poco dopo la buccia se ne andrà via facilmente. Infilateli nel frullatore con 1 cucchiaio d’olio e una presina di sale. Poi impastateli con una forchetta insieme ai formaggini. Spalmateli su fettine di pane tostato. Fruit and Tonic

È un mistero: quasi tutti i bambini amano l’acqua tonica. Vanno pazzi per l’amaro chinino frizzante. Chissà come mai. Perciò strizzate 1/2 limone su qualche cubetto di ghiaccio in un bicchiere, aggiungete un po’ di succo d’arancia e acqua tonica. Se non avete la mentuccia, metteteci una foglia di basilico.

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Avete ottenuto una piccola ovazione. Quando tornate in sala da pranzo, la tovaglia è uno stanco graffito, i bicchieri spaiati, la frutta grinzosa. Ma non sono emergenze queste. Bisogna inventarsi un primo. Meno male, c’è la santa pasta. E i piselli son buoni. Pasta coi piselli

I piselli freschi e sgranati sono stati fatti a regola d’arte con un battuto di cipolletta fresca e guanciale di maiale tagliato a tocchetti sottili ma non piccolissimi, divenuti croccanti nel loro grasso con l’aiuto d’un solo cucchiaio d’olio. Poco sale, 1 cucchiaino di zucchero e piano piano, allungando con un bicchiere o più d’acqua, i piselli giungono a compimento. Dopo aver scolato 3 etti e 1/2 di penne rigate, li ributtate nel tegame dove hanno bollito e aggiungete circa 2 etti abbondanti di piselli con parmigiano a profusione e 40 g di burro, mantecando il tutto gentilmente. Potete aggiungere anche dello zafferano dopo averlo stemperato nell’acqua. e e e DA BERE un rosso di gran tenuta delle colline lucchesi, l’ottimo Palistorti 2005 della Tenuta di Valgiano (LU).

Questa che segue è una variante, rimediata, d’una sublime pasta con gli zucchini che si mangia a Nerano, sulla Costiera amalfitana, da Maria Grazia. L’ho preparata parecchie volte, ma non è mai così naturalmente perfetta come quella che fanno lì. Forse sente il profumo della macchia mediterranea di Punta Campanella. Pasta con gli zucchini

Prima vanno fritti gli zucchini: 750 g tagliati a rondelle fini buttati un po’ per volta in 1/2 litro d’olio caldo, finché non assu-

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mono un bel color biondo. Non perdeteli di vista durante la cottura perché gli zucchini si bruciacchiano facilmente. Preparate a parte 80 g di parmigiano e 80 di provolone (di Sorrento, dicono) grattugiati e mischiati insieme. Mettete gli zucchini fritti in una conca e unite il formaggio. Aggiungete 40 g di burro fatto a pezzi, un trito di basilico e pepe, quanto ve ne piace. Lasciate cuocere 4 etti di spaghetti e scolateli molto al dente, senza tirarli via troppo asciutti. Versate gli zucchini e il formaggio nella pentola sugli spaghetti scolati ancor bollenti e, volendo, aggiungete un paio di cucchiai dell’olio con cui avete fritto gli zucchini. Mischiate sapientemente tenendo la pentola sul fuoco basso. Servite rapidamente. e e e DA BERE un vino di costa, anzi d’isola, il Biancolella «Tenuta

Frassitelli» Casa D’Ambra (nella sua ultima annata) che nasce a Ischia.

Non c’è nessuna possibilità di scamparvi, avendo dei ragazzi a tavola: cioè volendoli fare felici, non potete non provare con patate fritte e hamburger. Ma poi, detto fra noi, perché uno dovrebbe scampargli? E, riguardo alle patate fritte: sono un piatto delizioso a tutte le latitudini e per ogni età, infanzia, adolescenza. Sono un appetizer, un antipasto, un contorno che conquista sempre il centro. Forse il mio (e non solo il mio) imprintingimprimatur culinario. Patate fritte

Si possono tagliare in vari modi: a fiammifero, sauté (cioè a rondelle finissime quasi trasparenti), a classici parallelepipedi di circa 7 cm. Quel che conta è che il taglio scelto sia omogeneo altrimenti alcuni pezzi cuociono prima di altri: conviene usare una mandolina. Non si può andare dal fruttivendolo e chiedere una Sebago o una Purpurea del Congo né dichiarare che no, la Pontiac no, per friggere non va bene, meglio la Coliban. Distinguiamo tra

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patate farinose, a pasta mediamente compatta e quelle a pasta compatta. Per friggere van bene le prime due, Desirée o Bintje (forse in assoluto la più versatile) o locali, ma farinose o mediamente compatte. Una volta sbucciate e tagliate a bastoncini di circa 7 cm di lunghezza, s’immergono nell’acqua ghiacciata, si scolano e si asciugano bene, poi si buttano in una cospicua quantità d’olio d’oliva delicato (ligure o del Garda) o di semi di arachidi a circa 130°C (una patatina dovrebbe risalire in superficie in 25 secondi con delle bollicine). Friggere singole porzioni di patate per 4 minuti, poi toglierle e scolarle. Far riposare e portare l’olio a 180°C dove rimetterete le patatine fino a che non diventano dorate e croccanti. Si scolano sulla carta e si salano. Il taglio determina notevoli differenze. Quelle sauté, a rondelle finissime, assomigliano a delle chips più eleganti e meno seriali; a fiammifero sono secchissime; le classiche rivelano un cuore tenero sotto la crosta croccante. (All’Ikea si trovano, comunque, delle ottime patate fritte industriali.) bucce di patate con peperoncino. Lavare e asciugare 6 grosse patate, bucarle due volte e infornarle per un’ora a 210°C. Una volta raffreddate, tagliarle a metà e togliere gran parte della polpa, che si può riutilizzare, lasciandone circa 5 mm nella buccia. Tagliare ciascuna metà in 3 spicchi e farli friggere in olio di semi di arachidi a temperatura alta per circa 3 minuti, senza ammassarli. Sugli spicchi scolati e asciutti si mette sale, pepe e paprika piccante.

 VARIANTE

Hamburger all’italiana

Sembra un ossimoro, ma i migliori hamburger sono quelli a modo nostro: alti, larghi, al sangue e con un prepotente tocco di latinità. Fatevi tritare 8 etti o più di magro a grana grossa e forgiatelo in belle polpette di almeno due dita, che salerete con sale grosso e metterete in una padella con olio caldo. Alla prima crosta rigirate e strizzateci sopra 1/2 limone scarso. Dopo aver-

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lo provato, abbandonerete le geometriche polpettine tra due fogli di plastica trasparente. e e e DA BERE Coca-Cola o birra Menabrea.

Sicuramente vi mancherà il dolce, ma se avete le uova e un po’ di marsala o vin santo, rhum, porto... potete fare uno zabaione. Oggi domesticamente un po’ desueto (i nostri pomeriggi lo agognavano nella forma infantile e primordiale dell’uovo sbattuto), trionfa nella versione cremosa in pasticceria e nelle gelaterie. Zabaione

In una casseruola si sbattono 3 tuorli d’uovo e 3 cucchiai di zucchero e si continua a montarli lungamente con una frusta, fintanto che non diventino bianchi e spumosi. Si aggiungono poco per volta 6 cucchiai di Marsala secco. Si pone il recipiente a bagnomaria in un altro più grande che contenga acqua calda e si fa andare a fuoco dolce. Si gira in continuazione fino a che non abbia assunto una consistenza morbida e leggera, si spegne prima che stia per spiccare il bollore. Lo zabaione deve risultare leggero e arioso, come una spuma. Raffreddare e servire tiepido, con biscotti secchi se li avete. e e e DA BERE Marsala «Baglio» Oro Florio (1988), ma anche dei Marsala «Baglio» di annate più recenti.

Quel che resta del forno

Si potrebbe anche dire: quel che resta nel frigorifero o nella pentola. La cucina degli avanzi, insomma, da cui sono nate decine di ricette: dalla pappa al pomodoro alle polpette. E anche la cucina d’emergenza o d’arrangio con quel che si ha in casa. Tutto l’opposto di quella programmata e ideata in anticipo. Sembrerebbe, dalle cronache, che gli italiani (e non solo loro) gettino via tonnellate di alimenti e che l’arte del riciclo stia declinando. A causa di spese eccessive, di scarse idee, d’abitudini a cibi preconfezionati, di pigrizia mentale o forse di pranzi, almeno per alcuni gruppi sociali, meno lauti d’un tempo. Non c’è bisogno d’andarsi a rileggere certi menù dell’Ottocento, per sapere che arrivavano in tavola interi carré, prosciutti cotti in forno o bolliti, testine di vitello o maiale. Tutto quel ben di Dio bastava non solo a sfamare cuochi, famigli e camerieri vari, ma serviva a creare ulteriori, talvolta più sorprendenti, piatti. Verdi, da bambino, il 23 giugno festeggiava San Giovanni con la sua famiglia, cenando all’aperto in mezzo all’aia nella notte profumata, sotto le stelle. Il piatto d’entrata era delizioso (la torta fritta) ma di riciclo e non foriero d’ulteriori utilizzi. Trent’anni dopo, in casa Verdi, si mangiava la spalla di maiale cotta: chili di carne e d’avanzi per la generosa forchetta del maestro prima, la gioia di tanti dopo1. 1. Il Cigno di Busseto era nato nel 1813 da una famiglia di osti. Sulla passione di Verdi per le «spalle e spallette» di maiale e per la cucina in generale, vedi AA.VV., Giuseppe Verdi, un goloso raffinato, Casa Editrice Tecnografica SNC di Parma per conto dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, Parma 2001.

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Non si butta via niente Olindo Guerrini, letterato e poeta d’area carducciana che divenne famoso per le sue ardite poesie scritte sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, nel suo libro La gustosa cucina con gli avanzi2 sostiene che tutto o quasi può essere successivamente trasformato, solo se si tratta di pesce in umido non ci sono speranze di poterlo riutilizzare «con gran gioia del gatto». E invece no. A pensarci bene, il pesce in umido avanzato è un eccellente sugo per la pasta. Ma restiamo a Verdi, agli avanzi di patate, da cui potete ricavare la torta fritta, delizioso piatto del grande Maestro, anzi della Bassa. (Qui il calcolo per quante persone dovrebbe essere aleatorio, perché si parte dalla quantità di quel che si trova.) Torta fritta

Se vi è avanzato circa 1/2 chilo di patate lessate, intiepiditele al vapore (basta tenerle per alcuni minuti in uno scolapasta poggiato su una pentola di acqua a bollore), prendete 200 g circa di farina, 25 g di lievito di birra sciolto in 2 cucchiai di latte tiepido. Impastate bene patate, farina, latte con 2 cucchiai di olio d’oliva e 2 cucchiaini scarsi di sale. Lasciate riposare l’impasto avvolto in un panno, per un’ora. Spianatelo per ricavarne una 2. Scrive, nel suo Esordio, Olindo Guerrini: «Veramente, data l’indole del libro, dovrei dire Antipasto e non Esordio, ma preferisco di attenermi all’uso vecchio perché, se c’è un’arte refrattaria al futurismo, è l’arte del cucinare. Cercano, è vero, i cuochi d’illudere il palato con vari condimenti, salse e nomenclature stravaganti, delicatezze lusingatrici e aromi stimolatori, ma la materia da trattare è sempre quella. Sono sempre le stesse carni, gli stessi ortaggi sia lessati, sia arrostiti, sia in umido, mascherati, sì, con gusto industrioso, ma in fondo, sempre quelli. L’arte della cucina è conservatrice e passatista». Invece il futurismo s’è preso le sue rivincite con gli attuali cuochi molecolari, ideologi e realizzatori d’una cucina alchemica e destrutturata, fatta di cibi ed elementi volutamente irriconoscibili: troppo pieni di futuro fantascientifico e poveri di presente (O. Guerrini, La gustosa cucina con gli avanzi, Franco Muzzio Editore, Padova 1983).

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sfoglia non molto sottile, che taglierete a piccoli rombi da friggere poi in abbondante strutto di maiale (oggi di nuovo facilmente reperibile) o olio d’oliva, voltandoli una sola volta finché non diventino dorati, gonfi e croccanti. invece delle patate si usa solo la farina (300 g), 25 g di lievito di birra sciolto in 1 dl di acqua o latte tiepido, 3 cucchiai di olio di oliva e un pizzico di sale. Si impasta il tutto e si lascia lievitare coperto per un’ora. Si procede poi come detto sopra. Prende anche il nome di crescente o gnocco fritto.  TRUCCO l’impasto deve risultare piuttosto duro.  CONSIGLIO torte, crescenti, gnocchi che siano, sono un grande antipasto caldo, delizioso col salame di Felino o ancor meglio col culatello. e e e DA BERE Malvasia Frizzante di Camillo Donati, ultima annata, un bianco che fermenta in bottiglia, prodotto sulle colline di Arola nel Parmense, ideale per i fritti coi salumi.  VARIANTE

Altra possibilità, sul fronte delle patate, è quella di «rifarle», cioè ripassarle in padella, se ve ne sono avanzate lesse: non c’entra Verdi, ma sono comunque buone. Patate rifatte

1 kg di patate sode, sbucciate e tagliate a tocchi. Mettetele in un tegame con un po’ di salvia, 6 cucchiai d’olio caldo, 2 spicchi d’aglio e una presa di sale. Fatele rosolare a fuoco vivo per circa 5 minuti e versate 1/2 kg di pomodori freschi passati. Fate prendere il bollore e lasciate cuocere, rimestando spesso, a fuoco dolce, senza coperchio per almeno 1/2 ora. Se necessario aggiungete un poco di acqua. Vanno bene anche da sole: «fanno companatico». Chi la fa da padrone, nel libro di Guerrini, è il lesso di manzo. Se ne contano più di cento ricette: dal basico lesso riscaldato, al lesso freddo alla giapponese, a quello alla marsigliese e all’uso di

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Guascogna, fino alle polpette, piatto magistrale e non facile, che ancor oggi parte quasi sempre dagli avanzi. E inaugura una consistente lista di piatti da preparare con gli avanzi di carne. Polpette

«Uno dei modi più comuni e credo anche più antichi di ricucinare il lesso è quello di ridurlo in polpette. Aggiungasi che è forse il modo migliore e più appetitoso, specialmente quando le polpette sono fatte in casa e non nella trattoria dove si ha spesso il sospetto che siano messe insieme cogli avanzi buttati sul piatto da avventori sconosciuti e poco puliti. La fabbricazione delle polpette è semplice. Consiste in un trito finissimo di lesso, cementato per lo più con mollica di pane bagnata nel brodo, qualche uovo e gli aromi. Si friggono e si mangiano così o messe in umido. Come tipo», continua il Guerrini, «ecco la ricetta del mio Artusi che è la più semplice e la migliore: ‘Tritate il lesso colla lunetta e pestate a parte una fetta di prosciutto grasso e magro per unirlo al medesimo. Condite con parmigiano, sale, pepe, odore di spezie ecc. alcune cucchiaiate di pappa fatta con una midolla di pane cotta nel brodo o nel latte, legando insieme al composto con un uovo o due a seconda della quantità. Formate tante pallottole del volume di un uovo, schiacciate ai poli come il globo terrestre, involtatele nel pangrattato e friggetele nell’olio o nel lardo. Poi con un soffrittino d’aglio e prezzemolo e l’unto rimasto nella padella passatele in una teglia ornandole con una salsa d’uova e agro di limone’». le polpette si possono preparare anche con carne tritata non precedentemente lessata, secondo una tradizione napoletana, con carne di vitello o manzo e ripassate poi in una salsa assai tirata di pomodoro con un po’ di cipolla e aglio. Si possono anche infarinare (sono più leggere e delicate) invece d’impanarle e si può unire all’impasto un po’ di buccia di limone grattugiata.  VARIANTI

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La variante toscana, che dovrebbe essere la ricetta madre perché son queste le polpette più buone, contempla l’uso di patate lesse a pasta bianca al posto del pane (circa 400 g per 400 g di lesso). O, per un risultato più delicato, 4 cucchiaiate di besciamella densa (vedi p. 201).  TRUCCO prima di tritare il lesso, ripulitelo da eventuali grassetti e nervetti. Le polpette non devono sfarsi, né essere troppo dure. Fate attenzione all’impasto (che risulti piuttosto elastico, aiutandovi in ciò con l’eventuale aggiunta d’un po’ di latte) e a non friggerle troppo. Un consiglio è di non farle troppo grosse. Devono essere fritte a media temperatura (150-160°C) e l’olio o lo strutto dovrebbero arrivare a coprirle almeno per 1/3. e e e DA BERE un vino che non tramonta, il «Nipozzano» 2006, Chianti Rùfina Frescobaldi, prodotto nelle terre vicino a Pontassieve (FI), che danno anche il «Montesodi» e, più in alto, il «Mormoreto».

Fra le tante ricette che il Guerrini dedica alle rielaborazioni del lesso, vale la pena provare il lesso alla marsigliese. Lesso alla marsigliese

«Tagliate il lesso in fette assai fini. Scottate in padella nel burro una dozzina almeno di cipolline bianche spolverizzate con un pizzico di zucchero. Quando saranno colorite, mettetele in una casseruola con un poco di brodo e fate ridurre a metà. Bagnate allora con sugo di carne [o fondo bruno, vedi p. 198] e altrettanto vino nero generoso, aggiungete il lesso, erbe odorose, funghi se ne avete, sale, pepe, noce moscata, fate bollire mezz’ora e servite». e e e DA BERE il «Montesodi» e il «Mormoreto» (vedi sopra).

Il lesso alla Marengo sembrerebbe una variante del suddetto, ma in realtà ha dignità di vera e propria ricetta a parte, anche se contigua alla precedente.

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Lesso alla Marengo3

Scottate in padella, a fiamma bassa, una certa quantità di cipolline con del burro, a seconda della quantità del lesso rimasto, aggiungete un po’ di prezzemolo, 1 foglia d’alloro, prosciutto crudo a dadini e 2 cucchiaiate di fondo bruno (vedi p. 198), 1 cucchiaio scarso di farina. Girate energicamente ed eliminate l’alloro. Inumidite con 1/2 tazzina di brodo e aggiungete 1 tazzina di salsa di pomodoro (vedi p. 202) o 2 cucchiaiate di concentrato di pomodoro. Un giro di pepe di Caienna e sale. Fateci cuocere per una ventina di minuti il lesso tagliato a fette, che deve giacere in una salsa rosé. e e e DA BERE Chianti Classico «Badia a Passignano» Riserva 2004 della Antinori, che negli anni recenti si è conquistato una giusta fama.

Ma bisogna sempre saper equilibrare «tra il poco e l’assai», come diceva una vecchina che puliva la verdura al mercato. Insomma non è detto che gli avanzi siano sempre di lesso: sono più probabili, per esempio quelli del pollo arrosto. Ecco, col pollo potete far venire fuori un’ottima insalata, che regge da sola una cena veloce di quelle improvvisate, alle dieci e mezza, dopo il cine delle otto: sembra poca, ma sfama parecchio. Insalata di pollo

Tutto il problema qui sta nel disossare per bene il pollo arrosto avanzato (perché non sarà affatto piacevole, mangiando a grosse forchettate una fresca e ben condita insalata, doversi trovare fra i denti un ossicino, a rovinare la masticazione) e tagliarlo a listarel3. Marengo in Piemonte sembra di capitale importanza non solo per l’omonima vittoria napoleonica e la Storia d’Europa, ma anche per la cucina d’Italia. Il cuoco di Napoleone – notoriamente poco incline ai piaceri della tavola – qui inventò, per la cena nel giorno della battaglia, il singolare pollo alla Marengo (cucinato con quel che era riuscito a rimediare: gamberi di fiume, funghi, pomodori, poi servito su fette di pane abbrustolito e uova fritte). Forse fu questo stesso cuoco a inventare anche il lesso alla Marengo.

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le, pezzetti, come vi pare. Aggiungete lattuga, una patata lessa (se questa non v’era avanzata, lessatela appositamente, ma non troppo, dev’essere al dente) e pomodori di stagione: in proporzione. Anzi: il vero problema, come in tutte le insalate, è nell’equilibrio delle parti, e come condirla. L’equilibrio ve lo dà l’esperienza, per il condimento giocherei la carta della maionese (vedi p. 204). Ma ci sono ottime insalate di pollo anche senza maionese. e e e DA BERE l’ottimo Gavi «Castello di Tassarolo» (AL), ultima annata. Fresco e sapido, con buonissimo rapporto qualità/prezzo.

Oppure delle crocchette, più elaborate e complesse: Crocchette di pollo

Regine degli avanzi, che a loro volta non avanzeranno mai, ma ci vuole grazia: le crocchette grevi non danno scampo, sono acuti stonati che non passano inosservati. Fate una besciamella (vedi p. 201) con 120 g di farina, 60 g di burro e 2,5 dl di latte. Unitela a 4 etti e mezzo di carne di pollo lesso tritata al tritacarne – o, in mancanza, al mixer – insieme a 2 uova intere e a 2 cucchiai di parmigiano grattugiato. Aggiungete una spolverata di noce moscata grattata. Mescolate bene e lasciate riposare. Quando il composto è freddo, con le mani inumidite formate delle polpettine ovali, passatele nella farina e mettetele a friggere in olio d’oliva abbondante dove già sfrigola un ciuffo di salvia.  CONSIGLIO

devono essere appena dorate, se cuociono troppo diven-

tano tigliose.  VARIANTE ripassatele per 5 minuti in una salsa al pomodoro e servitele con le patate rifatte, come suggerisce Zenone Benini. e e e DA BERE Shiraz, Casale del Giglio 2005 (LT), uno dei migliori syrah italiani e uno dei capostipiti della scoperta di questo vitigno, generoso e vigoroso, che non tradisce mai. È il grande «lavoratore» degli Hermitage e degli Châteauneuf-du-Pape.

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Sempre con il pollo, un po’ più complesso, si può fare un buon pie di carne. Pie di carne

Cuocete a fuoco leggero per 10-15 minuti, in un tegame basso coperto, 200 g di champignon tagliati sottili, 3 carote tagliate a rondelle, 2 scalogni, facendoli insaporire con una noce di burro, ma senza farli troppo colorire. Poi scoprite, alzate la fiamma unendo un bicchiere di vino bianco e 100 g di olive snocciolate. Lasciare bollire per 1 minuto, aggiungete il pollo cotto tagliato a pezzetti – diciamo che ne avete 500 g – e mischiateli bene. Versate il tutto in una tortiera e ricoprite con una sfoglia di pasta brisé. La pasta deve formare come un coperchio, praticatevi però un piccolo buco in mezzo per far uscire il vapore. Sbattete 1 tuorlo d’uovo in una tazzina e spennellatelo sulla pasta. Cuocete nel forno medio, preriscaldato, per 40 minuti o comunque finché la pasta non s’è dorata e resa croccante.  CONSIGLIO poiché la pasta brisé deve aderire bene alla tortiera e chiuderla bene, tagliatela abbondante e ripiegatela con attenzione verso l’interno, in modo che il «coperchio» sia ermetico.  VARIANTE in realtà il pollo avanzato è una scusa. Un pie di carne riesce non meno splendido con 500-700 g di vitella tagliata a pezzetti e fatta precedentemente rosolare in una casseruola con una noce di burro o 2 cucchiai d’olio. e e e DA BERE un grande cabernet toscano, il 2006 del «Mormoreto» Frescobaldi, Castello di Nipozzano (FI).

Quella brisé è una delle paste base della cucina italiana. Pasta brisé

Prendete 250 g di farina, fatene una montagnetta con un cratere al centro, mettete nella cavità 150 g di burro freddo tagliato a dadini. Aggiungete 7 cucchiai d’acqua, un pizzico di sale e uno

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di zucchero, quindi impastate fino a quando non si amalgama a sufficienza. Fate riposare in frigorifero almeno un’ora. la pasta brisé va impastata rapidamente e, se si è sufficientemente abili, utilizzando due forchette (il fatto è che meno la si tocca con le mani meglio è).

 TRUCCO

Un contorno, ma forse anche un antipasto o un secondo, questo piatto contadino d’ascendenza piemontese: cipolle ripiene. Cipolle ripiene

Ecco un piatto langarolo che utilizza al meglio gli avanzi degli arrosti di manzo, vitello o maiale: ci vogliono 4 cipolle dorate, 150 g di carne e 2 uova. Una volta pelate le cipolle, si lessano. A 3/4 di cottura, si levano e si tagliano orizzontalmente poco sopra la metà; si svuotano in parte con un cucchiaino e si conservano i resti, che serviranno per il ripieno. Si trita la carne con un po’ di prezzemolo, l’interno delle cipolle precedentemente svuotate e si impasta il tutto con 2 uova sbattute più una manciata di parmigiano grattugiato. Si riempiono le cipolle con l’impasto, che deve essere abbastanza solido; si aggiunge un ricciolo di burro su ognuna e ci si passa sopra una spolverata di pangrattato. Si mettono in una teglia con burro e olio e s’infornano per 10 minuti a 160°C. Vanno servite calde. e e e DA BERE un bianco piemontese, l’ultima annata del Gavi «Vigneto Alborina» prodotto dal Castello di Tassarolo (AL), minerale e intenso.

Un sentimento panico Panico (si fa per dire) può prendervi alla vista d’un frigorifero deserto, con un uovo e pane raffermo al massimo; o gli avanzi di pasta e di riso, una malinconica mezza frittata, il cacio che occhieggia da un angolo, semiappassito. A questo punto, cominciate a

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sentire sempre più soave il canto di sirena della pizzeria all’angolo, ma di uscire non ne avete voglia, oppure i vostri torneranno a casa, in un’ora ambigua, al confine tra sera e far della notte. Troppo tardi per andar comunque fuori e alla tele forse questa volta il Manchester perde o replicano Scandalo a Philadelphia, con una smagliante e viziatissima Katharine Hepburn. Ma prima dei consigli su come non scomparire di fronte al frigo vuoto, a pensarci bene, va sollecitato un riutilizzo primario: quello del pane, che permette d’ottenere prima di tutto l’indispensabile pangrattato: indispensabile, ad esempio, per i supplì, che sono un altro riutilizzo principe. Il pangrattato è di due tipi: bianco e biondo scuro. Si ottengono entrambi allo stesso modo, grattando il pan secco e passandolo al setaccio; ma nel primo caso si utilizza solo la mollica, nel secondo anche la crosta. Entrambi poi si possono mettere a seccare per poco tempo in forno. Non è comunque facile (vedi p. 214). Il pangrattato bianco è ideale per friggere, quello biondo per i gratin e per legare le salse o anche per le minestre (un uso oggi desueto): «Le costolette alla milanese vogliono il pangrattato bianco», dice il Guerrini, col biondo scuro «riescono meglio le minestrine in brodo». Tutti e due vanno conservati ermeticamente in un barattolo. Il pangrattato troppo vecchio, comunque, non dà buoni risultati, perciò fate attenzione quando lo comprate già confezionato, che la data di scadenza non sia troppo vicina. Visto che ci siamo: se avanza all’impanatura della carne, l’uovo e il pangrattato (il pane a questo punto sarà un avanzo biquadratico) c’è una ricetta flash: frittelle di pangrattato. Frittelle di pangrattato

In 1 uovo sbattuto mettete 2 manciate di pangrattato e volendo un cucchiaio di parmigiano grattugiato, si formano delle palline che friggerete un po’ alla volta nell’olio bollente. E, naturalmente, si frigge, perigliosamente, nell’olio avanzato.

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Tornando a noi e a quel che resta, possiamo concentrarci sugli avanzi di pane e poi su quelli di pasta: con un’oretta o poco più di tempo si possono radunare le forze, arrivando a qualcosa di più della semplice sopravvivenza, finendo per allietarsi con qualche semplice e grande piatto. Per esempio la pappa col pomodoro, che aveva in Gian Burrasca il suo più fervido fan. Pappa al pomodoro

Anche qui le dosi dipendono da quel che avete. Si suppongono comunque per 4 persone. Ci vuole per forza il pane toscano, quello senza sale, di almeno due giorni. Tagliato a fette, mettetelo a friggere con 6 cucchiaiate d’olio extravergine d’oliva, dove sta già imbiondendo uno spicchio d’aglio insieme a una ciocca di salvia. Rimenate, rompendo il pane che deve essere ben fritto, e aggiungete 5 etti di pomodori maturi freschi spellati, privati dei semi e tagliati a pezzi (se non ne avete usate i pelati di scorta). Dopo una decina di minuti, ricoprite con acqua bollente, salate e rigirate fino a che il liquido si raddensi e «impappisca»: né troppo sodo, né troppo liquido. Regolate il sale. Lasciate intiepidire e servite dopo un giro di pepe bianco. Nel lettore: Odoardo Spadaro’s «greatest hits»... in particolare Il valzer della povera gente.  CONSIGLIO aggiungete pure acqua calda durante la cottura. La pappa al pomodoro non ama assolutamente il calore, deve essere tiepida, ed è comunque buona anche fredda.  VARIANTI circolano anche versioni più leggere, che non contemplano la friggitura del pane; egualmente buone, più delicate ma un po’ più tristi. e e e DA BERE il già citato Chianti «Sonnino» (vedi p. 17).

Varrebbe la pena farseli avanzare apposta gli spaghetti per provare la ricetta che segue, in realtà si possono anche cuocere ad hoc per preparare la torta di maccheroni al basilico. La ricetta è

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ricavata dal bel libro di Franco Santasilia di Torpino La cucina aristocratica napoletana4. Torta di maccheroni al basilico

Prendete 4 etti di spaghetti in bianco e mescolateli a 2 o 3 uova intere sbattute in una terrina. In una padella antiaderente, fate sciogliere un po’ di burro e metteteci 1/3 degli spaghetti pareggiandoli bene. Su questo strato disponete alcune fette di prosciutto di Parma precedentemente scottato in padella su cui spargerete abbondante basilico, fate poi uno strato di scamorza tagliata a fette sottili. Su questo disponete un secondo strato di spaghetti sui quali porrete i medesimi ingredienti nelle stesse proporzioni e terminate con un terzo strato di spaghetti (in totale occorrono circa 1 etto di prosciutto e 1 etto e 1/2 di scamorza). Pareggiate bene e ponete la padella su un fuoco dolce. «Man mano che cuoce (coperta) la torta di spaghetti», cito da Santasilia, «conviene spostare la padella sul fuoco in modo da assicurarsi che la torta diventi uniformemente croccante e dorata. Il fuoco leggero e la lunga cottura sono essenziali per una buona riuscita della torta. A cottura ultimata della superficie inferiore, rivoltare la torta aiutandosi con il coperchio e procedere alla cottura uniforme del lato opposto (sempre a padella coperta)». Il piatto si esegue canticchiando e facendosi accompagnare da qualsiasi canzone di Murolo. e e e DA BERE il Biancolella «Tenuta Frassitelli» (vedi p. 150).

4. L’idea che nelle case di Napoli, e soprattutto in quelle di famiglie aristocratiche, regnasse una delle migliori cucine del mondo è confermata da questo libro di Franco Santasilia di Torpino, La cucina aristocratica napoletana, Sergio Civita Editore, Napoli 1988: un trionfo di timballi, ricchissimi pasticci, maccheroni, pizze, paste, stemmi e Monzù (così a Napoli si chiamavano una volta i capicuochi di casa). È uno sguardo privato su un mondo che forse è tramontato, ma di cui ci vengono restituite meravigliose vestigia culinarie, raccontate con grazia, arguzia e partecipazione.

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Se poi vi fosse avanzato del risotto in bianco o allo zafferano (vedi una ricetta base, risotto al fondo bruno, p. 19) se ne possono ricavare dei magnifici supplì. Non sono proprio quelli alla romana, ma son comunque «al telefono» con la mozzarella filante. Supplì

Dovreste avere del risotto avanzato, che sarà già condito di burro e parmigiano – diciamo che ne avete 2 etti. Unite 2 uova intere precedentemente sbattute e, se piace, una leggera grattugiata di noce moscata, in modo che ne risulti un impasto piuttosto compatto; se fosse troppo liquido aggiungete un po’ di parmigiano grattugiato, poi regolate il sale. Allargate il risotto su un piano di marmo, o di legno, prendetene una cucchiaiata per volta e ponetela nel cavo della mano (meglio se la mano è leggermente inumidita per evitare che il risotto vi si appiccichi alle dita). Al centro mettete un po’ di mozzarella fior di latte tritata e un pezzettino di prosciutto crudo. Fatene una palla e rotolatela nel pangrattato. Quando avrete preparato i supplì, friggeteli nell’olio bollente e scolateli quando sono dorati, servendoli caldissimi. È questo un caso in cui i supplì sono molto più buoni di quelli dei ristoranti, pizzerie o bar. Il perché è semplice: i supplì pubblici, per così dire, non sono mai caldi quanto dovrebbero, non scatta l’effetto fusione della mozzarella e dei sapori. Sono «gnucchi» direbbero a Milano, «ghiozzi» sul litorale toscano. e e e DA BERE è perfetto il Lambrusco «Concerto» di Ermete Medici

(vedi p. 6).

Il rimedio all’ideologia verduraia Se in un momento di fanatismo salutista ne avete comprata troppa, di quella verdura che solitamente si lessa (s’intende bietola, cicoria, spinaci o quella che a Roma chiamano «mista cam-

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pagnola»), e se dopo il terzo pranzo salubre non ne potete più di farvi del bene, c’è sempre il modo di ritrovare il tempo e il male perduti. Cioè svariati modi di recuperare le verdure lesse e, volendo, di appesantirle. Un classico dell’economia culinaria domestica, cioè di quel tipo di piatti che non si mangiano altrove che a casa propria, è lo sformato di patate, verdura e bacon. Sformato che unisce l’utile, consumare le verdure, al dilettevole, il bacon – ma va bene anche la pancetta –, passando per la consistenza delle patate. Sformato di patate, verdura e bacon

A completare l’avanzo di verdura (e ancora una volta dipende da quanta ne avete a disposizione) 4 patate grandi, 2 etti e 1/2 di bacon tagliato anche questo fino, 2 etti e 1/2 di formaggio, emmental svizzero o quello che avete: vanno ugualmente bene lo stracchino o la mozzarella fior di latte precedentemente fatta sgocciolare, ma il brie lo rende un piatto notevole. Tagliate le patate a lamelle fine e disponetele su una pirofila unta di olio sul fondo; completato un primo strato, salate leggermente e coprite le patate con la verdura, che avrete precedentemente strizzato fra le mani e tagliato grossolanamente, poi con il bacon, quindi con il formaggio. Formate un nuovo strato ripartendo dalle patate, poi la verdura e così via, finché ne avete. Completate con un ultimo strato di patate su cui colerete un filo di olio. Cuocete in forno a 220°C per circa mezz’ora, o almeno finché le patate non saranno diventate croccanti. e e e DA BERE il Pinot Nero «Schweizer» di Franz Haas (BZ), nell’annata in cui lo trovate, perché non sempre viene prodotto. Un vino appassionante che vince la sfida col vitigno più difficile che ci sia.

Non si mangia più l’insalata russa. Un tempo, era l’antipasto principe e non sempre di primo pelo dei ristoranti.

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Insalata russa

Nacque probabilmente nella Parigi gaudente della Belle Époque, in versione di lusso che, insieme alle verdure, prevedeva astice, caviale, tartufo. Prendete 4 patate, 2 carote, 2 zucchini, 2 gambi di sedano, 1 peperone giallo, una manciata di piselli freschi e fagiolini. Tagliate le verdure a dadini e lessatele separatamente lasciandole al dente (non le patate). Nell’acqua degli zucchini aggiungete 2 chiodi di garofano, 3 cucchiai di aceto e 2 di zucchero, per imprimere una sterzata agrodolce. Preparate la maionese (vedi p. 204) che mischierete alle verdure fredde. e e e DA BERE l’ultima annata del Trebbiano d’Abruzzo «Marina

Cveti´c» (CH) d’un indimenticato protagonista della rinascita enologica abruzzese: Gianni Masciarelli.

C’è poi tutta una casistica familiare in cui il problema della verdura avanzata coincide con quello per cui ai bambini la verdura non è mai piaciuta. Quindi succede che la verdura avanza perché i bambini non la mangiano, e che invece «gli farebbe tanto bene». E se non la mangiano nemmeno tirando in ballo Braccio di Ferro, Olivia, Brutus e Poldo (in effetti oggi non sanno chi siano) e le loro disavventure, risolte solamente con l’intervento di una scatola di spinaci, in quei casi la soluzione può essere il riso verde. Cioè un bieco trucco con cui far passare la verdura per riso e nello stesso tempo consumare gli avanzi. Col vantaggio di un piatto delizioso (e dal colore inusuale, che coi bambini non guasta). Riso verde

Anche in questo caso va bene qualsiasi verdura (che sia bietola, spinaci, cicoria) e supponiamo di averne a disposizione un buon piatto colmo. A questa dovremo aggiungere 320 g di riso da minestra e 2 dl di brodo di carne (anche il brodo con un buon estratto di carne può andare bene, visto che si tratta di un recu-

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pero). Fate appassire a fuoco bassissimo mezza cipolla bianca tagliata fina in una pentola dal fondo spesso, con un cucchiaio d’olio extravergine d’oliva. Poi aggiungere la verdura, precedentemente strizzata tra le mani in modo che risulti meno amara, e lasciarla scaldare sempre a fuoco basso per 10 minuti. Versate un «ramaiolo» di brodo caldo. Poi frullate la verdura insieme al brodo, se disponete di un frullatore a immersione potete pure non scomodarla dalla vostra pentola. A quel punto aggiungete il riso e cuocete per 15 minuti circa, finché il riso non è cotto. Versate man mano ancora del brodo caldo. Aggiungete del parmigiano grattugiato a fine cottura e lasciate riposare alcuni minuti. Sempre all’onda, col mestolo che, pian piano, si abbatte. e e e DA BERE l’ultima annata del buon Vermentino Antinori, prodot-

to a Bolgheri.

Già solo saper «ripassare» la verdura è un’arte a sé stante. E la verdura che deve essere ripassata va preventivamente lessata assai poco, solo scottata. Quindi, qualunque sia il nostro obiettivo finale, la prima regola è non lessare la verdura, qualunque essa sia, per più di cinque minuti, comunque scolandola molto al dente. Da ricordare sempre che la verdura si cuoce coperta, senza – o comunque con pochissima – acqua. Il fuoco non deve essere troppo forte. Verdura ripassata

E qui è fondamentale la padella: deve essere con il fondo molto spesso. In quello che è un mistero della globalizzazione e dei tempi moderni, paradossalmente le padelle ideali per ripassare la verdura, pratica originaria di Roma, sono quelle francesi di ghisa pesantissime, che adesso si trovano anche da noi (a prezzi esorbitanti, in effetti – in barba alla globalizzazione). Comunque l’essenza del ripassare sta nel lasciare la verdura in una tale padella con

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1 cucchiaio d’olio (non di più), 2 spicchi d’aglio e peperoncino quanto ne piace, per tutto il tempo che avete a disposizione, a fuoco dolcissimo, ogni tanto ricordandovi di dare una girata. perfetta la bietola cruda a pezzi direttamente nell’olio bollente con uno spicchio d’aglio. 7-8 minuti di cottura in tutto, avendo cura di rigirarla.  TRUCCO se s’asciugasse troppo, a causa di una precedente eccessiva scolatura della verdura, aggiungete un po’ d’acqua. e e e DA BERE il rosso di Montecarlo (delizioso paese toscano della Lucchesia) 2007, prodotto dalla Fattoria del Buonamico.  VARIANTE

Il fatto è che se l’avete ripassata male, la verdura, è un delitto condirci la pasta, quindi bisogna avere un po’ di pratica. Ma una volta acquisita una certa sicurezza si dischiudono universi sterminati dove qualsiasi pasta asciutta, con l’aggiunta di abbondante parmigiano, viene esaltata, e a sua volta esalta qualsiasi verdura ripassata. Gli apici sono due: rigatoni cicoria e pecorino e mezzemaniche coi broccoli che, come tutte le ricette più difficili, non sono affatto complicate nella loro essenza, piuttosto delicate nell’esecuzione. Rigatoni cicoria e pecorino

1 etto e 1/2 di pecorino romano per 4 etti di rigatoni, oltre alla verdura, che deve essere la cicoria: gli spinaci non funzionerebbero affatto nello stesso modo per il fondo «ferroso». Fate delle scaglie con 1/3 del pecorino, grattugiate il resto. Dando per scontato che abbiate ripassato la cicoria ad arte, tagliatela piuttosto fina, lasciandola poi nella sua padella (se è sufficientemente ampia da contenere poi i 4 etti di rigatoni). Cuocete la pasta scolandola, più che al dente, almeno un minuto in anticipo rispetto al suo punto di cottura. Premuratevi di tenere da parte una tazza abbondante di acqua di cottura. Versate la pasta nella padella insieme alla cicoria e fatela andare, con fiamma acce-

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sa, finché non abbia finito di cuocere, aggiungendo quanto necessario dell’acqua di cottura un po’ alla volta. Poi spegnete la fiamma e versateci metà del pecorino grattugiato, girate energicamente e aggiungete l’altra metà del pecorino, girate ancora, poi del pepe (quanto ve ne piace) e infine versate sopra il pecorino a scaglie. e e e DA BERE un «Lacrima di Morro d’Alba» di Monte Schiavo (AN),

nella sua ultima annata. Quest’antico vitigno marchigiano, giustamente riscoperto, dà un rosso fruttato e leggero dagli intensi profumi di ciliegia e di viola. Mezzemaniche coi broccoli

Popolare eppur rara. Quale migliore introduzione di questa, per un classico del Centro-Sud? Ci vogliono almeno 300 g di broccoli siciliani, quelli con le infiorescenze verdi a piccoli grappoli, da bollire per circa 10 minuti (controllate che restino al dente) in acqua salata abbondante, in una pentola per cuocere la pasta. Mentre il broccolo bolle, in un pentolino fatte andare piano 4 dita d’olio d’oliva toscano con 2 peperoncini, 1 spicchio d’aglio e 3-4 acciughe sott’olio spezzettate. Buttate nell’acqua con i broccoli 380 g di rigatoni (controllate il sale: attenzione, c’è l’acciuga), che scolerete al dente assieme ai broccoli lasciando un po’ d’acqua di cottura. Versate la pasta e i broccoli in una zuppiera. Buttateci immantinente l’olio ben caldo e il pecorino romano grattugiato con aggiunta di un po’ di parmigiano. Mescolate vorticosamente e portate in tavola fumante. e e e DA BERE Shiraz, Casale del Giglio (vedi p. 67).

Un gruppo in gola

La cucina è sempre un rito: solitario, terapeutico, abitudinario, labile, sontuoso o dimenticato. Ardito o banale. Ma può essere anche un bel gioco teatrale. Per esercitare una rappresentazione non bisogna, comunque, essere soli e nemmeno in due. Ci vuole almeno un altro che vi guardi. Ma il vero teatro dell’umido o del fritto esige il gruppo. E d’altra parte cos’è una brigata di cucina se non una compagnia che esercita vari ruoli, sotto lo sguardo occhiuto d’un capocuoco regista – primattore alacre e implacabile? Cucinare in gruppo è quanto di più vicino e più lontano dalla cucina professionale si possa immaginare: sia quella colorata e animata di Ratatouille, sia quella ilare e fosca di Antony Bourdain – cuoco-scrittore che, nelle sue Hell’s Kitchen, descrive gironi infernali in cui i grigliatori tentano di far fuori i pasticcieri e i terzi addetti d’infilzare i secondi. Lo stress e l’imperio che regnano nelle cucine di professione non sono nemmeno lontanamente comparabili alla vostra ansia: deludere uno o più clienti non è come sbagliare un fritto d’acciughe con gli amici o una cotoletta coi vostri figli. Loro sanno già cosa possono aspettarsi da voi. Siete voi che non lo sapete e lasciate pian piano gonfiare il vostro ego come un soufflé, che monta al buio in silenzio. E poi platealmente, alla luce, rischia di sgonfiarsi.

Tiranno benigno In qualcosa, però, le cucine dei grandi chef assomigliano alle nostre. Nel rispetto della gerarchia. Da loro come da noi, bisogna

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che comandi uno solo e il gruppo deve poter contare su persone con una certa autonomia tecnica. La domanda «come taglio le patate?», mentre provate il punto di fumo per il tempura al modo vostro, è la puntura di zanzara che inibisce la motilità. L’affiatamento può non esserci, la conoscenza neanche: fa parte del puzzle umano partire da pezzi lontani e separati, anche se è rischioso per la figura finale (il pranzo, la cena) che uscirà fuori. Nel gioco del vivente teatro culinario non fa male però cambiare gli attori ogni tanto, anche se di solito si ripresentano confermate compagnie di giro: l’amico specialista nel fritto misto, vostra moglie maestra di verdure e zuppe, una cognata molto dotata – per questo eternamente incline alla sovversione –, la variabile di bimbi entusiasti, ma dalla scarsa concentrazione e quasi sempre attratti dal maneggiare coltelli. È necessario che si trovi un comandante, dunque: benigno, ma tiranno, atto a concedere oneri e relativa autonomia, salvo saggiare i piatti, dettare correzioni, reprimere deraglianti iniziative. Da evitare serrate discussioni nel fare, stizze sul sale, scatti sul brodo, che condurrebbero la barca a zig zag, scarrocciandola fuor d’ogni rotta verso le tristi secche di pietanze mediocri. Come in ogni teatro, il costume è importante. Carême, il famoso cuoco di Talleyrand e Giorgio IV d’Inghilterra, s’inventò l’attuale toque, tramutando in bianco il copricapo nero dei magistrati inglesi. E dando così una riconoscibile foggia ai berretti dei cuochi che prima erano i più diversi. Gli spagnoli portavano un cappello di lana bianca simile a quello dei toreri; italiani e francesi una specie di cuffia da notte col fiocco, i tedeschi un berretto di forma militare1. 1. Si giunse a una vera e propria fisiognomica della toque, una specie di Lavater del cuoco, che, a seconda del modo d’indossare il cappello, svelava le inclinazioni della personalità: «Chi si compiaceva di portarla leggermente gonfiata alla sommità e inclinata all’indietro (‘a colpo di vento’) era ritenuto autoritario e collerico...», come spiega M.

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Quando recito la parte di capocuoco mi munisco d’un vecchio Panama ormai sformato, dove un tempo avevano fatto nido anche le cicogne d’illusioni amorose. E d’ordinanza indosso una tuta blu da meccanico, con la solenne scritta posteriore «Ferodo». La baratto, la mia divisa d’ordinanza, solo d’estate e solo per certi piatti-concerto da eseguire in grande compagnia, come il cacciucco, che si fa in calzoni corti e canottiera. Non si può non cominciare, per le ricette di gruppo, con una così variegata e vasta zuppa di pesce. Perché la zuppa è di gruppo in quanto tale, di per sé. E quella di pesce rispetta ogni personalità, ogni tipo. Nasce già multietnica (polpi e cozze, boghe e cicale): quindi collettiva. E poi è un piatto totale, più che sufficiente a se stesso: tutti insieme si prepara e tutti insieme si mangia. Poi, al massimo, l’insalata, un dolce leggero e purificatore. Si faccia girare tra i fornelli il Gin Tonic, magari nella versione maniacale, e preferibilmente si ascolti The Best dei Village People ad alto volume, facendo attenzione a non rigare troppo il muro coi coltelli e i forchettoni durante danze liberatorie. Gin Tonic (maniacale)

È la rete connettiva, il «pane» dei cocktail che serenamente, d’estate, taglia in modo indolore le gambe, soprattutto se si cucina alla stregua della temibile dialettica idratazione/disidratazione, tra fuochi e bollori. 3 dita di profumato Bombay Gin (o Gordon’s o Tanqueray) in un tumbler (bicchiere cilindrico lungo), una fetta di lime o limone, almeno 4 cubetti di ghiaccio e acqua tonica. La maniacalità consiste nel ghiaccio che non è formato da acqua normale, ma da acqua tonica. Guarnaschelli Gotti, Grande Enciclopedia Illustrata della Gastronomia, Mondadori, Milano 2007 (p. 391).

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«Cacciucco» deriva dal turco kukut, che vuol dire minutaglia. L’hanno inventato a Livorno, cinquecentesco porto franco di commerci e di menti. Ne esistono molte più versioni dei pesci che arrivano a comporlo, tanto che a Livorno e sulla costa ognuno ha praticamente il suo. Anche perché, per sua natura anarchica e particolaristica, è una vera zuppa mobile che, con certe costanti, ammette variazioni plurime. Credo che molti livornesi vedano nel cacciucco il rispecchiamento della propria personalità individuale, quindi negli anfratti labronici è un piatto dai multiformi riflessi narcisistici pressoché impercorribili, se non da se stessi. Non solo per questo, vi dò la versione che dico viareggina. Cacciucco

Le dosi non possono essere per 4 persone, perché non conviene nemmeno «mettercisi»: il cacciucco è gigantesco, tendente al cosmo. Quindi, per 10 persone prendete: scorfano nero, gallinella, scorfano rosso (pesce cappone), tracina, circa 1 kg in tutto; rana pescatrice, polpi piccoli (600 g circa), grongo (300 g), palombo tagliato a fette tonde (almeno 400 g), seppie e calamari (600 g), cicale, una decina di gamberi, qualche cozza e granchio, una certa quantità di pesci piccoli (ghiozzi, boghe ecc.). Non meno di 3 kg in tutto. Mettete in un grande tegame (meglio se di terraglia) 8 cucchiaiate d’olio con un trito di 4 spicchi d’aglio, una bella cipolla bianca, 1 gambo di sedano, 1 carota media e un po’ di peperoncino. Aggiungete le cozze con la loro acqua filtrata, le seppie, i polpi, i granchi, le teste e le bucce dei gamberi con i pesci piccoli che schiaccerete al fondo senza sfarli molto. Fate cuocere per una decina di minuti, bagnando con un bicchiere di vino bianco. Mettete da parte le cozze, i polpi e le seppie. Passate il resto, ma deliscate il pesce, lasciando le teste. Rimettete questo passato nel tegame e aggiungete 1 kg di

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pomodori da sugo spellati a cui aggiungerete le seppie con i polpi, e dopo circa 20 minuti – o il tempo necessario a renderli teneri – gli altri pesci, cominciando coi più grossi. Lasciate cuocere per circa 20 minuti in totale. Abbrustolite una quindicina di fette di pane toscano strusciato con l’aglio. Non servite bollente, anzi fate posare alquanto. abbondate col fumetto di pesce passato, dà sapore e lega il cacciucco. Volendo, aggiungete qualche foglia d’alloro che poi leverete. e e e DA BERE l’ottimo rosé di corpo «Saltagrilli» (ultima annata) Frescobaldi, o il rosso di Montecarlo, già citato (p. 77), della Fattoria del Buonamico.  TRUCCO

Poi ci sono le variazioni, sempre per rimanere sul tema delle zuppe: metafora e pratica della cucina in gruppo. Volendo contrapporre l’Adriatico al Tirreno, il brodetto. Brodetto dell’Adriatico

Ogni porto dell’Adriatico ha il suo brodetto. In questo versante orientale, tutti concordano nel ritenerlo superiore a quello del Tirreno per la supposta migliore qualità dei pesci. Il cacciucco possiede maggior vigore, il brodetto più gentilezza, dipende da quel che volete. Questa è la versione di San Benedetto del Tronto, per almeno 10 persone. Ci vogliono 3 kg di pesci e molluschi: polpetti, seppie, tracina, scorfano, gallinella, sgombro, sauro, rana pescatrice, palombo, triglia di scoglio, razza liscia, detta occhiatella. Poi 3 peperoni, 3 pomodori non molto maturi, 1 cipolla bianca, 2 bicchieri di aceto bianco, 1 bicchiere di vino bianco secco, 6 cucchiai d’olio d’oliva, sale. Pulite i pesci, togliendo le interiora, le lische, la spina e le teste. Tagliate a pezzi i più grossi, lavateli con acqua leggermente salata e asciugateli. Fate imbiondire nell’olio la cipolla tritata e aggiungete i polpi, le seppie tagliate a rondelle, facendo cuocere per circa 1/4 d’ora, bagnando col vino. Poi

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versate 1 bicchiere di aceto e lasciate sfumare; quindi mettete i peperoni puliti, tagliati a sottili e corte listelle, i pomodori e 1/2 bicchiere di acqua. Fate cuocere lentamente e dopo 15 minuti, mettete prima i pesci più grossi (con intervalli di qualche minuto) lasciando per ultime le triglie. Coprite con acqua. Fate cuocere per 1/4 d’ora, senza mai toccare il pesce, muovendo eventualmente il tegame. A cottura ultimata lasciate riposare per almeno 2 ore. Versate in una zuppiera e servite mediamente caldo, non bollente, in scodelle dove aspettano fette di pane abbrustolito eventualmente strofinato con spicchi di aglio.  CONSIGLIO potete aumentare le dosi del vino; non toccate mai il pesce perché potrebbe sfarsi rovinando ogni cosa.  VARIANTE a questa versione marchigiana e un po’ contadina (ad alcuni la presenza dei peperoni, dell’aceto e della cipolla può far pensare a una preparazione vagamente «alla cacciatora») si può affiancare un brodetto di più semplici e schietti sapori. 1/2 kg di scorfano e circa 1/2 kg di altri pesci a piacere (privilegiate quelli a carne soda e non troppo ricchi di spine), 1 kg di cozze, 1 kg di vongole, 1/2 kg di polpetti o calamaretti, 1 kg e 1/2 di pomodori pelati. Fate aprire separatamente in tegame le cozze e le vongole, e tenetele da parte, dopo averne filtrato il brodo, anch’esso da conservare. Fate soffriggere in un tegame largo 2 spicchi di aglio in 2 dl di olio (poco più di 1/2 bicchiere), versatevi il pomodoro passato, sfumatelo con 1 bicchiere di vino bianco e aggiungete un po’ di pepe. Calate in questa salsa i polpetti o calamaretti facendo cuocere per circa mezz’ora. Se è necessario diluite con parte del brodo delle cozze e vongole. Aggiungete poi gli altri pesci dopo averli lavati e asciugati. Dopo circa 1/4 d’ora buttateci dentro le cozze e le vongole (non sgusciate saranno più scenografiche, ma sgusciate sono più comode). Spegnete quasi immediatamente e cospargete di prezzemolo tritato. Delle fette di pane abbrustolito accompagneranno benissimo il piatto, purché non le mettiate in fondo alla zuppiera dove si ammollerebbero irrimediabilmente. e e e DA BERE Verdicchio di Matelica «Cambrugiano» Riserva 2004, floreale con venature di vaniglia, della Cantina Sociale Belisario (MC).

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Un pesce di nome...? È sempre l’orchestra culinaria ad accordare gli archi. Ma qui la differenza con la preparazione della zuppa diventa sensibile: perché tutta l’orchestra lavora nell’attesa di un’intera esecuzione. Ecco una possibilità: antipasto, un primo leggero, un bel dentice al forno con le patate (o polpo con patate, o ancora filetto di tonno al forno) e un dolce finale freschissimo. Il tutto si può accompagnare costantemente, se d’estate, col più luminoso e aggraziato dei cocktail: il Bellini. Bellini

Meravigliosa ideazione di Arrigo Cipriani, necessita d’attenzione e cura, se non volete che sia semplicemente un pur buono pesche e vino. Prima di tutto, pesche bianche (solo bianche!) mature, sbucciate e passate nel passaverdure o schiacciate con lo schiacciapatate. Non frullatele, acquisterebbero aria e manterrebbero troppe fibre. Si mette sempre prima lo champagne o lo spumante o il Prosecco ghiacciati (7/10) e poi le pesche (3/10). Cevice

Piatto sudamericano dalle innumerevoli versioni. Perfetto come antipasto o come primo a voler star leggeri. Fatevi sfilettare 800 g di cernia, o tracina, o anche merluzzo. Lavati i filetti, una volta asciutti e tagliati a pezzetti, metteteli in una pirofila. Ci si strizzano sopra 4 lime (o 2 limoni), ci si gratta una buona manciata di zenzero fresco, si sala e vi si affettano, sottili, 2 cipolle di Tropea non troppo grandi. Mischiate e mettete in frigo, dopo avere coperto con pellicola, per un’oretta. Sgrondate il lime e servite. si possono aggiungere un po’ di sedano tagliato finissimo e 2 foglie d’alloro da levare alla fine. e e e DA BERE lo stesso «Cambrugiano» Verdicchio di Matelica.  VARIANTE

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Zuppa di cozze

1 kg di cozze, possibilmente sarde o del Golfo della Spezia. Una volta sbarbate, mettetele in una padella larga con poco olio e 1 spicchio d’aglio e fate cuocere a fuoco medio col coperchio. Controllate spesso, perché appena aperte (3-5 minuti) vanno tolte e messe da parte, mentre il prezioso liquido si filtra da un panno. Con 4 cucchiai d’olio si fa imbiondire 1 spicchio d’aglio schiacciato, si aggiunge 1/2 bicchiere di vino bianco secco, lasciandolo sfumare, e 1/2 kg di pomodori pelati (senza liquido) con una presa di sale e 1 cucchiaino di zucchero. Due foglie di basilico e, importante, l’acqua di cottura delle cozze, che si dovrà un po’ ritirare. Si unisce, infine, la salsa alle cozze aperte, dando 2 minuti di cottura a tutto l’insieme in modo che i sapori si possano amalgamare. la salsa di pomodoro base, nostro pilastro identitario, ognuno se la fa come vuole e l’assaggio diretto conta più d’ogni ammaestramento. Io l’ho colta «a’ volo» nella versione per le cozze (e non m’illudo d’averla centrata) da un tavolo di uno dei più bei ristoranti della Costiera amalfitana, Adolfo, incastonato allo sbocco del fiordo di Laurito, su una spiaggetta, a qualche centinaio di metri da Positano. Su tavoli allineati sotto una «canniccia», al ritmo delle onde che disegnano il bagnasciuga, vi portano falanghine, fiani, acciughine, una deliziosa fetta di mozzarella di bufala scaldata su una foglia di limone e tra l’altro la più buona zuppa di cozze mai assaggiata, saporita eppure leggera. Il fatto è che ci mangiate almeno 1/2 chilo di pane per finire tutto il sugo. e e e DA BERE la Falanghina del Taburno, ultima annata, della Cantina del Taburno (BN).  CONSIGLIO

Sauté di vongole

Sauté deriva dal francese sautoir, comodissima padella dai bordi alti adatta a molte cotture, ideale per i risotti e soprattutto per fare aprire i molluschi che, adagiandosi su una larga superficie, sentono direttamente il calore. È semplice. Una volta pulite le vongole (1 kg e 1/2), dopo averle lasciate riposare in acqua fred-

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da con un po’ di sale (eliminate quelle aperte o che vengono a galla), mettetele in una padella con 3 cucchiaiate d’olio e uno spicchio d’aglio spiaccicato già imbiondito. Fatele aprire e filtrate da uno straccio su un colino il loro liquido, con cui le bagnerete ancora calde e coperte di prezzemolo tritato. e e e DA BERE un gran campano, il Furore Bianco «Fior d’uva», ulti-

ma annata: uvaggio di tipici, desueti, vitigni della costiera amalfitana (ripoli, fenile, ginestra) impiantati su vertiginosi terrazzamenti, fatti ormai rifiorire da Andrea Ferraioli e Marisa Cuomo (SA). Zuppetta di moscardini

Facile, di gran resa ed effetto. 1 kg scarso di moscardini puliti, che fate cuocere molto, molto lentamente in un soffritto (anch’esso sempre a fuoco bassissimo) di cipolla bianca (una) con 4 cucchiai d’olio, insieme a 1/2 peperone tritato e 4 pomodori Sanmarzano. Aggiungete una foglia d’alloro, che poi toglierete, e un bicchiere di vino bianco, accompagnando la cottura con 2 o 3 ramaiolate di fumetto di pesce (vedi p. 199). Poco sale. La zuppetta deve restare liquida ed essere servita su pane toscano abbrustolito, meglio se «strusciato» con l’aglio. (per i temerari) friggete le fette di pane nell’olio d’oliva. questa zuppa si può preparare anche con le seppie o con i

 CONSIGLIO  VARIANTI

totani. e e e DA BERE qui il citato rosé «Saltagrilli», Frescobaldi (FI).

Dentice al forno con patate

I più comuni dentici dei nostri mari sono di due tipi: il «mediterraneo» e l’«occhione». Il dentice mediterraneo, più rinomato, in latino ha un bel nome da supereroe, dentex dentex e si presenta color grigio-azzurrino sul dorso che vira verso l’argenteo sui fianchi. Arriva a misurare anche un metro. Il dentice occhione è, invece, rosa con grossi occhi vicino alla bocca e può raggiungere la lunghezza di mezzo metro.

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Anche se le discussioni sul pesce sono le più bizantine, vale la solita regola: non eccedere con la cottura. È poi meglio un dentice da 1 kg e 1/2, piuttosto che 3 dentici da 1/2 kg ciascuno, perché la carne risulta più soda e compatta. Un trito di cipolla, aglio, timo, rosmarino e un po’ di sale nella pancia svuotata del dentice di 1 chilo e 1/2. In una padella, fate cuocere in 3 cucchiai d’olio 1/2 chilo di patate sbucciate, tagliate a rondelle, con un po’ di sale e 30 g di capperi dissalati. Quando sono colorite, mettetele in una teglia da forno e adagiatevi il dentice su cui versare un cucchiaio d’olio. Poi in forno a 180°C per mezz’ora circa, ma controllate tramite un lungo stecchino che deve penetrare nella carne incontrando una media resistenza, senza far uscire sangue. al modo agrigentino, aggiungete alle patate in padella 1 cipolla rossa affettata e quando avranno preso colore mettetele nella teglia su cui si poserà il pesce. Mentre il tutto cuoce in forno, bagnatelo spesso con del brodo di pesce (vedi p. 209), o brodo vegetale (vedi p. 200), utilizzandone 6-7 dl in tutto. È questa la tipica cottura in guazzetto. e e e DA BERE il classico «Regaleali» 2006 di Tasca d’Almerita (CL).  VARIANTE

Polpo con patate

Meglio prendere polpi (1,2 kg) non troppo grossi e sempre a due ventose. Fateveli pulire dal pescivendolo, oppure fatelo da soli, svuotando le interiora che sono nel «cappello», togliendo gli occhi e il «becco» che si trova, sotto, al centro. Cuoceteli senz’acqua, su un battuto di cipolla e sedano, coprendo bene e a fuoco dolcissimo, poi fateli raffreddare nella loro acqua. Per saggiarne la cottura, basta bucarli. Intanto avrete lessato e fatto raffreddare le patate (1/2 kg): tagliatele a dadini e unitele ai polpi, tagliati a piccoli pezzi, dopo averli mondati dalle pellicine scure e dalle ventose. Preparate il condimento: in olio extravergine d’oliva emulsionate il succo di 1/2 limone unendo 1 spic-

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chio d’aglio e abbondante prezzemolo tritati finemente, un po’ di sale e un giro di pepe bianco. e e e DA BERE un vecchio vitigno marchigiano oggi reimpiantato, il

«Pecorino», dà un buon esempio di sé nella versione, grassa, quasi opulenta, di De Angelis (AP), che lo produce nel territorio attorno a Offida, bellissima cittadina, sede di un’Enoteca regionale. Tonno al forno

Va di moda, può risultare antipatico perché ormai troppi lo propongono (tanto che fra un po’ avremo le «tonnerie»), nel Mediterraneo se ne consuma e se ne pesca troppo. Tutto vero, però è buono. Niente a che fare coi tonni stracotti in umido di trent’anni fa. E anche le diatribe su pinna gialla sì o no, tonni d’andata o tonni di ritorno (quelli sfiancati dopo le maternità) lasciamole da parte. Concentriamoci sulla ricetta, come quella sopra, non necessariamente di gruppo. Un bel filetto di tonno da 1 kg, massaggiato con poco sale fino, va in forno preriscaldato (180°C) per 20 minuti scarsi. A parte preparate una marinata di 1 cucchiaino di sale scarso sciolto in 2 cucchiai di aceto bianco gentile (anche di mele), qualche ago di rosmarino e almeno 5 cucchiai di olio extravergine d’oliva. Il tonno deve risultare grigio all’esterno e divenire d’un rosa vivo all’interno. Fuori dal forno riposa almeno 5 minuti prima d’essere servito. Si taglia a fette larghe con lama lunga e sottile (eventualmente calda) e si bagna ogni scaloppa con la marinata.  TRUCCO tutto o quasi sta nella cottura. Non c’è niente di male a tirar fuori dal forno il tonno dopo una decina di minuti e inciderlo sulla sommità accennando il taglio d’una fetta, per controllare la cottura.  CONSIGLIO fate attenzione alla forma del filetto che dovrebbe essere omogenea e non, come spesso accade, diventare più piccola all’estremità verso la coda; in questo caso, per evitare che la parte più piccola risulti troppo cotta (a meno che qualcuno non la voglia così), dovrà essere tagliata e messa a cuocere alcuni minuti dopo.

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e e e DA BERE Sauvignon Vinnaioli Jermann (GO) 2006, struttura

profonda e profumi di fiori di sambuco. Gello di melone

La ricetta di questo squisito ed elegante dolce (forse per le assonanze del nome che giocano sul gelo e sul giallo) è ripresa da A tavola con gli Dei di Stefania Barzini2. Per 6 persone: «1 anguria da 2,5 chili, 80 g di amido di mais, 200 g di zucchero e 60 g di fiori di gelsomino [optional che l’autrice ritiene indispensabile]. Zucca o limone candito, granelli di cioccolata e pistacchi spezzettati. Taglio a metà l’anguria e ne estraggo la polpa con un cucchiaio, cercando di eliminare tutti i semi. La passo quindi con lo schiacciapatate o con il mixer, la setaccio con un colino e ricavo 4 grosse tazze di succo. Aggiungo i fiori di gelsomino e lo faccio riposare per tutta la notte. Il giorno dopo, elimino i fiori e sciolgo l’amido di mais in una tazza di succo di cocomero. Unisco il succo con l’amido al resto, verso in un pentolino e metto sul fuoco basso. Aggiungo lo zucchero e, sempre mescolando, porto a ebollizione. A questo punto conto fino a sessanta e poi spengo. Travaso il gelo in una ciotola di vetro e lo faccio raffreddare. Quindi lo passo in frigorifero per 23 ore. Subito prima di portarlo in tavola aggiungo i fiori di gelsomino, i canditi e i pistacchi. A me piace soprattutto con i pistacchi, possibilmente salati: sul palato il contrasto con il dolce dell’anguria crea un perfetto equilibrio di sapori». e e e DA BERE il passito è troppo carico per questo etereo dolce. Starei

su un raro moscato calabrese, recupero d’un vino antico: Moscato di Saracena (CS), ultimo anno, di Luigi Viola. 2. S. Barzini, A tavola con gli Dei. Memorie e ricette delle isole Eolie, Guido Tommasi Editore, Milano 2006. Non è solo un libro di cucina, bensì anche di cultura eolica, tra reminiscenze letterarie e diario quotidiano di un’eoliana d’adozione.

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Mondo dorato Il mondo dorato è quello del fritto misto, piatto principe da preparare in gruppo, sotto influssi rock. Nel segno del nome, e non solo, comincerei con i Cream (ma ci sarebbero anche i Vanilla Fudge, mentre lascerei da parte i Marrons Five) e finirei in fase di cottura, quando ci vuole maggiore attenzione, coi più melodici Negramaro. Il fritto misto all’italiana per antonomasia è forse quello alla piemontese; altrettanto famosi sono il bolognese, il romano e il fiorentino. Tutti hanno degli elementi in comune, ma la varietà di carni e verdure è tale che bisogna mettersi il cuore in pace: non è mai completo. È un piatto da fare in gruppo, perché anche se il fritto si può tenere in caldo nel forno, l’ideale è servirlo subito caldissimo. Quindi ognuno potrebbe farsi il suo fritto, sganciarsi il grembiule e da cuoco diventar commensale. A tavola poi ci si scambia i fritti. Si sparecchia e si lava il giorno dopo. Fritto misto alla piemontese

È difficile pensare a piatti barocchi e pantagruelici come questo, traducendoli in dosi agilmente moderne; quindi pensiamolo almeno per 8 persone. 8 cotolette di vitella e 8 di petto di pollo, 8 polpettine di carne di vitella macinata, 1 cervello, 3 etti di schienali o filoni; 3 etti di animelle; 8 fettine di fegato; 8 pezzi di salsiccia; 8 amaretti; semolino dolce più 8 uova e olio extravergine d’oliva. Preparate il semolino in anticipo: buttate 300 g di semola raffinata di grano duro in 1 litro di latte bollente zuccherato (con 2 etti di zucchero) e la scorza grattugiata di un limone. Amalgamate bene con la frusta e, dopo 5 minuti, rovesciate in uno stampo e fate riposare almeno 10 ore. Sbattete 4 uova in cui passerete le carni, e anche le animelle, gli schienali, il cervello che saranno stati prima sbollentati per circa 3 minuti. Impanateli col pangrattato. Preparate poi gli amaretti e il se-

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molino tagliato a losanghe. Bagnate gli amaretti nel latte, strizzateli, infarinateli insieme al semolino e passate tutto in 2 uova sbattute. Pensate, quindi, alle polpettine (vedi p. 64), unendo le 2 uova sbattute rimaste a circa 4 etti di carne macinata con 30 g di parmigiano. Fate friggere nell’olio prima il dolce poi il salato. Il fegato s’infarina e si rosola a parte con la salsiccia.  VARIANTI più che varianti, aggiunte. Tagliate a rondelle 3 mele renette ripulite del torsolo e sbucciate, fatele marinare per 2 ore in una terrina con del rhum, 3 cucchiai di zucchero e la scorza grattugiata di 1/2 limone; preparate una pastella di acqua e farina e friggetele nell’olio. Alla carne di pollo e vitella, si possono aggiungere anche 8 cotolettine d’agnello. Zucchini (tagliati a fette longitudinali), melanzane (a fette rotonde), cavolfiore, carciofi a pezzi, si passano in una pastella di tuorlo d’uovo, farina, latte con un po’ di noce moscata (vedi p. 213) e si friggono.  CONSIGLIO per friggere si può pensare anche a un misto d’olio d’oliva e burro. Il dolce e il salato si friggono in padelle separate o si rinnovano i grassi di cottura. Come per tutti i fritti, si sala solo alla fine. Prima di passarle nell’uovo, tagliuzzate i bordi delle cotolette, che potete battere un po’ e tagliare ulteriormente in due parti. e e e DA BERE durante le articolate fasi del fritto ci si disseta con una Bonarda piena e briosa: la «Cabella» 2006 della Cantina Sociale La Versa (PV).

L’equivalente estivo del grande fritto misto all’italiana è il fritto di pesce. Fritto di pesce

Ancora per 8 persone: 6 etti di calamaretti, 8 etti di triglie piccolissime, 8 etti di gamberetti e altri pescetti fra cui soglioline e naselletti. Insomma circa 2,5 kg di pesce. Dichiarate al vostro pescivendolo l’intenzione di farvi un bel fritto, perché col pesce bisogna partire da quel che c’è. La prima questione è: che olio usare? «D’arachidi perché più neutro»; «no, d’oliva perché si ottiene più carattere»; «sì, però è carattere dell’olio e non del pe-

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sce». Usate quello che preferite a seconda di come vi sentite psicologicamente. Se volete volare in ultraleggero (si fa per dire, è sempre un fritto) olio di semi di arachidi; se siete usciti dalla dieta, conquistatevi il diritto a ripiombarci tra poco e usate extravergine d’oliva. Anche qui, grazie al gruppo, si può cuocere in più padelle. Una volta puliti dal buzzo e dagli occhi, se i calamaretti sono piccoli, cuoceteli interi; altrimenti separate la testa in due parti, e tagliate a rondelline il resto. Infarinateli e buttateli nell’olio caldissimo. Cercate di rivoltarli e dopo circa 3-5 minuti scolateli su carta gialla o da cucina. Si friggono così anche le trigliette che, se piccole, non si sbuzzano (vedi anche la ricetta dedicata alle sole triglie fritte, p. 192). I naselli piccoli si puliscono storcendo la testa e sfilandola, poi si aprono a libro e si leva la lisca. I gamberetti si puliscono e s’infarinano. Si sala sempre e solo a frittura ultimata. quando friggono, i totani tendono a scoppiettare, quindi coprite con una rete. Quando finite una frittura, rialzate il fuoco per 1 minuto circa. I pesci devono stare comodi e agiati, non uno appiccicato all’altro. La fretta, in cucina, è la nemica numero uno; per il friggitore è devastante e pericolosa. e e e DA BERE prima, durante e dopo, si allevia l’ardore con un Vermentino Colli di Luni «Sarticola», 2006, di Ottaviano Lambruschi, prodotto in Lunigiana (SP).  CONSIGLIO

Maionese piccante

Provate a servire a parte questa maionese piccante come la suggerisce Zenone Benini3, che deve avere qualche ascendenza nordico-continentale, perché nei paesi scandinavi il fritto s’accomuna alla maionese; la mostarda e i cetriolini fanno il resto. «Preparate un battuto molto fine con 4 cetriolini sott’aceto, 2 3. Z. Benini, La cucina di casa mia, Il Vantaggio, Firenze 1999 (19581), p. 19. Vedi anche n. 7 a p. 28 di questo volume.

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cucchiaini colmi di capperi, i filetti di 2 acciughe e un ciuffetto di prezzemolo. Aggiungete 1 cucchiaino raso di buona mostarda o, se preferite, una puntina di senape, od anche un po’ dell’una e un po’ dell’altra. Spolverate con un briciolo di pepe bianco. Sciogliete quest’ammanitura in un cucchiaio di aceto bianco e preparate una maionese classica. Sentirete che questa salsa è deliziosa col pesce fritto, per quanto più d’uno storcerà la bocca a sentir parlare di maionese – o di alcunché del genere – con una vivanda calda: ma avrà torto. Molto bene, questa maionese piccante, si sposa con le cotolette alla milanese fredde e con tutte le carni fredde in generale».

Un gruppo, a pezzi Ma non è detto che la cucina di gruppo significhi necessariamente una varietà o vastità di alimenti che si finiranno per friggere. Ci si può pure concentrare su di un unico enorme elemento monotematico: passare tre ore, tutti insieme, a preparare e friggere, una sola cosa: la cotoletta alla milanese o il pollo fritto alla fiorentina. Pollo fritto alla fiorentina

Ci vuole un pollo novello di circa 1 kg che dovrete dividere in 10 pezzi. Le 2 cosce, le 2 ali, le 2 anche dimezzate, le due parti del petto divise ciascuna in 2. Lasciateli marinare per 2 ore circa nel succo di 2 limoni, cui avrete aggiunto una presa di sale. Sgocciolateli, asciugateli. Passate i pezzi nella farina, poi in 2 uova sbattute, e fateli friggere in olio extravergine d’oliva a fuoco medio per circa 20 minuti; gli ultimi 5 minuti, alzate la fiamma per ottenere una bella crosta. e e e DA BERE Chianti «Castello di Montespertoli», 2006, sempre del

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barone de Renzis Sonnino. Un Sangiovese «quasi» in purezza con una minima aggiunta di canaiolo: poderoso e gentile, sa lontanamente di liquorizia e vaniglia.

Ma la regina dei fritti resta la cotoletta alla milanese: banalizzazione da «costoletta» o transumanza dalla francese côtelette? Figlia o sorella dell’austriaca Wienerschnitzel? Segno tangibile della dominazione austroungarica o creazione autoctona? Si propende per la seconda interpretazione e non tanto per le differenze oggettive (la cotoletta milanese è, infatti, tagliata nella lombata di vitella e non s’infarina prima di passarla nell’uovo impanarla e friggerla nel burro; l’austriaca è tagliata nella coscia, s’infarina, si impana e si frigge nello strutto), piuttosto perché carta canta. Il maresciallo Radetzky scriveva al conte Attems, suo aiutante di campo, d’aver scoperto, a Milano, una meravigliosa cotoletta. Tanto stupore non si spiegherebbe in un austriaco avvezzo alla sua Wienerschnitzel. Per cui è probabile che la cotoletta impanata, da Milano, sia stata traghettata a Vienna. La prova della precedenza meneghina si evince anche da quanto scrive Pietro Verri nella sua Storia di Milano, in cui è citato un menù d’un pranzo offerto nel 1134 ai canonici di Sant’Ambrogio, dove figurano i «lombulos cum panito». Ne conosciamo quasi meglio le varianti – di pollo, tacchino, maiale, della stessa vitella tagliata in fettine appiattite –, ma la ricetta madre è questa. Cotoletta alla milanese

Una costoletta con l’osso tagliata nella lombata d’una vitella da latte, di un po’ meno di 2 cm, viene immersa nell’uovo leggermente sbattuto e pepato. Si passa poi nel pangrattato (i puristi dicono di sola mollica di pane bianco molto secco). Si fa poi friggere per circa 6 minuti (ma vale sempre il controllo vivo) per lato, in burro rosso (al primo stadio di cottura) che ha quasi ter-

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minato di schiumare. Attenzione: mai salare l’uovo. Il sale, dopo, a fritto fatto. più d’uno. Prima di tutto, dopo aver impanato la cotoletta, pressate bene il pan grattato da ambo i lati, magari aiutandovi con della carta stagnola. Poi dovete fare in modo che l’impanatura non si stacchi: cosa difficile perché la carne di vitella quasi sempre rilascia umidità. Conviene allora, come suggeriscono in molti (vedi p. 200), friggere la cotoletta nel burro chiarificato.  VARIANTI come detto, di solito chiamiamo cotoletta alla milanese altri tipi di carne, che hanno tutti la caratteristica d’essere molto battuti per renderli sottili. La cosiddetta «orecchio d’elefante» è una mezza lenzuolata di vitella panata e fritta, buonissima e che non rischia il distacco dell’impanatura. Normalmente si fanno delle piccole cotolettine di vitella, passandole nell’uovo e impanandole (cioè pressando bene il pangrattato) alla stessa maniera. Ci siamo talmente abituati a queste versioni (anche di pollo e maiale) che mangiare una costoletta croccante fuori, ma morbida dentro, è alquanto esotico.  CONSIGLIO con tutti questi generi di cotolette autentiche o improprie, comunque buonissime, provate il «burro d’acciuga»: dissalate 4 filetti d’acciuga, o prendetene 4 di quelli sott’olio, metteteli nel mixer insieme a 1 etto di burro ammorbidito. Passate da un colino fine e ponete in frigorifero. Più semplicemente amalgamante al burro una certa quantità di pasta di acciughe. Il burro d’acciughe deve restare piuttosto chiaro. e e e DA BERE si beve una Bonarda (vedi p. 92) o un Lambrusco (vedi p. 6) oppure, passando a tutt’altro, un buonissimo Dolcetto: il Ca’ Viola «Barturot» 2006, prodotto a Dogliani (CN), profumato di lamponi e ciliegie, fin troppo potente.  TRUCCO

Un’alternativa, forse leggermente più praticabile, ma ugualmente sociale, può essere, in italico, un pesce e patate. Sembrerà strano, ma questa è una ricetta inglese, terra di solito da noi dimenticata se non per il roast beef, il cheese cake e la salsa alla menta da mettere sull’agnello in forno: fish and chips sono la pizza albionica.

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Fish and chips

Il pesce inglese da passeggio: 1/2 kg di filetti di merluzzo freschi, 3 uova, pangrattato, 6 patate a pasta gialla e 4 cucchiai di farina «00». Fatevi preparare i filetti dal pescivendolo tagliati a rettangoli, passateli nella farina, nell’uovo sbattuto e nel pangrattato. Lasciate riposare 10 minuti. Pelate e tagliate a spicchi le patate lasciandole in acqua fredda, cambiandola più volte. Friggete le patate (vedi patate fritte, p. 58) in olio di semi di arachidi o d’oliva non troppo saporito (ligure o del Garda) in una padella; in un’altra friggete il merluzzo che avrà una crosta dura e un cuore tenero. Salate tutto alla fine. Il fish and chips è un fan di Brian Ferry (These Foolish Things). e e e DA BERE Franciacorta «Saten» Selezione millesimato 2002, di

Contadi Castaldi. Un perlage finissimo, per questo champenois che nobilita la ricetta. Ottimo anche il «solito» Rotari.

Sempre con l’idea di dare ristoro, allo strenuo delle forze rimaste: un sorbetto. Ne andava matto Giacomo Leopardi (ma non di questo vodka e lime). Insospettabile gourmet, l’autore del carme L’infinito vergò di suo pugno un nutrito elenco di ricette e morì a Napoli per una congestione – pare – causata dai sorbetti. Sorbetto vodka e lime

In 2,5 dl d’acqua bollente sciogliete 150 g di zucchero con la scorza grattugiata di 1 lime. Aggiungete il succo di 4 lime (circa 2,5 dl) e 2 dl di vodka. Mettete in freezer, mescolando ogni ora.

A polentate Un altro piatto da preparare insieme, magari trovando un faticatore, ovvero il grinder di turno (negli equipaggi da regata, di solito i grinder sono ex rugbisti che il più velocemente possibi-

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le devono avvolgere drizze e scotte tramite i cosiddetti macinini, grinder appunto), è la polenta. Niente come una polentata richiama enormi tavolate: tutti insieme, ebbri, facendo a chi più velocemente ruba il pezzo di salsiccia dal piatto del vicino. Invernale, ma nelle sue versioni più semplici (arrosto o fritta) anche come antipasto per ogni stagione. Polenta base

Una volta era il camino, il fuoco e il paiolo appeso. Ora l’inverno è diverso; se ne può fare a meno. I tempi e le quantità dipendono dalla grossezza del grano. 400 g di farina fine o mista con la grossa, una pentola con 1 litro e 1/2 d’acqua, fuoco basso, un lungo mestolo e molta voglia di girare per togliere i grumi e far cuocere la polenta, che deve sobbollire appena, lanciando ogni tanto qualche sbuffo come un’acqua albula. Per quest’operazione, la muscolatura del rimenante è importante. Quando l’impasto comincia a staccarsi dalle pareti della pentola, la polenta è pronta. Se l’acqua è poca, si può aggiungere, purché sia bollente. La polenta si rovescia su un tagliere di legno e si serve fumante con burro e parmigiano o al ragù. Ma i modi di condirla sono infiniti. se non avete il camino, il paiolo, il mestolo speciale di più di mezzo metro incurvato alla fine e il vostro piemontese valligiano – o il bergamasco o il furlan – lasciano a desiderare, è inutile fare i puristi. Usate un comodo paiolo elettrico, che vi aiuterà a fare un’ottima polenta.  VARIANTI per la base, le variabili son solo la grossezza del grano e la consistenza desiderata. Se si vuole una polenta dura a grana grossa, si usa farina grossa in 1,8 litri d’acqua, per una cottura di poco meno di 2 ore. e e e DA BERE Grignolino «Montecastello» 2006, della Tenuta Isabella (AL).  CONSIGLIO

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Polenta «cunsa»

Buonissima specialità biellese. A metà cottura, si uniscono alla polenta pezzi di fontina e toma fresca in eguali proporzioni, per una quantità totale pari al peso della farina. Una volta cotta si aggiunge parmigiano grattugiato e vi si macina un po’ di pepe. e e e DA BERE un grandissimo vino, il Valtellina «Sfursat» 2004 di Nino Negri (SO), capostipite degli eccellenti Nebbioli d’altura, governati con uva appassita. Costa assai meno del più rinomato e moderno «Sfursat 5 stelle».

Polenta sulla spianatora

Mentre la polenta di farina fina viene lavorata dal vostro attrezzo meccanico, fate un soffritto di 1/2 cipolla, aglio, prezzemolo e 50 g di lardo. Dopo circa 10 minuti, unite 400 g di costine di maiale. Salate e, passato qualche minuto, aggiungete 1/2 bicchiere di bianco secco. Una volta sfumato, si mettono 2 cucchiai di concentrato di pomodoro sciolto in un po’ d’acqua, 2 foglie d’alloro e si lascia cuocere a fuoco dolce per 1/4 d’ora. Si aggiungono 2 salsicce tagliate a pezzi e si cuoce ancora per una decina di minuti. Rovesciate quindi la polenta sul tagliere e al centro ricavate un cratere in cui verserete il sugo. Infine una grattugiata di pecorino romano. Ci si serve direttamente dal tagliere. e e e DA BERE Aglianico «Contado» di Di Majo Norante, gran prodot-

to molisano di Campomarino (CB).

Arrosto vivo, arrosto morto L’arrosto è meditativo e richiama, quindi, una compagnia di uguale tipo. L’idea è quella di riflettere, ma non troppo, magari con l’aiuto d’un contraltare un po’ barocco, ma di sostanza: il Whiskey Sour, nell’attesa che il forno (o il tegame) compia il suo dovere.

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Whiskey Sour

3/10 di succo di limone, 7/10 di bourbon o rye (per esempio Four Roses), un cucchiaino di zucchero sciolto in poca acqua. Molto ghiaccio nello shaker, poi nell’old fashioned. La dizione «rosbiffe» fu usata per la prima volta da Giuseppe Mazzini nel 1837 ed è la toscanizzazione dell’inglese roast beef (bue arrosto), un piatto importato, molto probabilmente, dagli inglesi residenti a Firenze. La ricetta originale prevedeva un taglio molto grosso, vicino ai 3 kg, ricavato dalla costata comprendente anche l’osso. La carne doveva essere di bovino adulto, marmorizzata da qualche venatura di grasso e veniva cotta allo spiedo. Un roast beef magnanimo e spettacolare si mangia ancor oggi, a Londra, nello Strand, da Simpson, dove vi viene tagliato all’impronta in generosi vassoi protetti da grandi cupole argentee. Il compunto trinciante, a cui va sempre consegnata almeno una ghinea, nel mio caso proveniva da Avellino. La ricetta che propongo è l’anglobecera. Rosbiffe

Circa 1 kg di lombata di manzo adulto senz’osso (si possono prendere anche il filetto o lo scamone). Spennellate con un rametto di rosmarino intinto nell’olio. S’inforna in una teglia dal fondo coperto di olio dove avrete posato un altro rametto di rosmarino, a 250°C per 10 minuti, quindi si abbassa a 160°C continuando a ungere di tanto in tanto con l’olio. Si lascia cuocere per altri 20 minuti, se lo si vuole al sangue. Si sala e si toglie dalla teglia, in cui si aggiunge poco meno di una tazza di brodo o ancor meno di fondo bruno, e si deglassa. Ricordatevi di far riposare la carne almeno 10 minuti prima di tagliarla. Il rosbiffe è buonissimo anche freddo (mai marmato). Eccellenti sono i panini con quello cucinato il giorno prima: un po’ di rafano o mostarda di Digione, una foglia di lattuga e sottili fette di pomodoro maturo. Nel lettore, il già citato «greatest hits» di Odoardo Spadaro.

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per tarare la cottura potete bucare la carne col forchettone e premere con un mestolo vicino ai buchi. Se esce sangue è appunto al sangue, se vedete del liquido incolore è a cottura completa. Se non esce nulla, sarà tiglioso: per rimediare fatene delle polpette. Ma attenzione: bucare troppo la carne è sempre sconsigliabile perché la si priva di succhi essenziali. e e e DA BERE un vino tra i grandi di Toscana, potente, eppur capace di sposarsi con gentilezza alla carne poco cotta: il «Montesodi» 2005. Sangiovese, non cede alle mode di vini eccessivamente ammorbiditi, ma si presenta con una stoffa apparentemente ruvida, in realtà assai complessa e raffinata. Antico e godibile. È prodotto da Frescobaldi nella Fattoria di Nipozzano, sulle colline della Rùfina, vicino a Pontassieve (FI).  CONSIGLIO

L’alternativa volatile al rosbiffe è il piccione, col vantaggio che poi non si litiga nel gruppo, a ognuno mezzo piccione, o uno intero, dipende dalla fame. Complessa, ma neppure troppo, la preparazione si addice alle catene di montaggio, si fa per dire. Resta solo da scegliere se farlo «vivo» o «morto»: distinzione di mera cottura (vedi p. 215) e di visione della carne. Piccione al tegame (morto)

L’esempio più magistrale d’arrosto morto è il piccione (deve avere qualche mese, non qualche anno) in tegame, che cuoce su un battuto d’uno spicchio aglio, 1 cipolla piccola, 100 g di rigatino (pancetta tesa magra), 1 carotina, 2 gambi di sedano. Il tutto dovrà appassire lentamente in 5 cucchiai d’olio. Si alza il fuoco e si mettono i piccioni, che saranno stati riempiti con foglie di salvia, alloro, sale e pepe. Si rivoltano spesso. Dopo una decina di minuti ci si versa sopra un bicchiere di Chianti e si va avanti per una mezz’ora almeno. S’infila un ago nel petto che esce pulito se il piccione è cotto. Si taglia in due e si serve. e e e DA BERE il Chianti Classico Fonterutoli (SI), 2006, che viene prodotto nell’omonima bellissima fattoria. Un vino famoso per le sue doti di piacevolezza. Oppure il già citato Pinot Nero di Franz Haas.

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Altra foggia magistrale d’arrosto, questa volta invece «vivo», è lo stesso piccione cotto in forno come fanno i francesi, che in sostanza lo lasciano al sangue. Eccone un esempio raffinato. Piccione al tegame (vivo)

Imburrate generosamente il petto d’un piccione e fatelo colorire leggermente proprio nei petti, appoggiandoli sul bordo del fuoco nella curva d’un padellino. Pochi minuti a fuoco medio, con l’aggiunta d’un cucchiaino d’olio. Unite uno spicchio d’aglio, 20 g di burro e passate nel forno preriscaldato a 270°C. Irrorate col fondo di cottura e fate cuocere il piccione 3 minuti su una coscia e 3 sull’altra. Lasciate in tutto 7 minuti nel forno. Togliete il piccione, e tagliatene le due cosce con le ali e il petto, conservandolo coperto al caldo. Rompete il resto del piccione in più pezzi in una padella con lo spicchio d’aglio e 1 dl di fondo bianco (vedi p. 199). Fatelo cuocere a fuoco vivo per 5 minuti schiacciandolo per far uscire gli umori. Levate le ossa e passate tutto al passaverdura con ruota sottile. Rimettete in padella con un po’ d’acqua e 10 g di burro, lavorando tutto con la frusta. Versate la salsa sul piccione ancora caldo. Sono due arrosti (due diversi mondi), ma diversi sia per il modo, sia per i tempi di cottura. e e e DA BERE un rosso potente dalla terra di Puglia, il Graticciaia 2002

di Vallone (LE), prodotto da uve negramaro raccolte tardivamente.

Due arrosti mezzi morti o mezzi vivi. Il primo è l’arista di maiale, rosolata allegramente in tegame poi finita in forno; l’altro è un grande piatto piemontese come il brasato, perché, dopo la prima cottura sui fornelli, cuoce lentamente in forno. Arista di maiale con le mele

Fatevi preparare 1 kg di una bell’arista di maiale che abbia il suo grasso. Steccatela con 2 spicchi d’aglio – inserendoli cioè a metà

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della polpa, dopo avere praticato un foro con un coltellino – e appoggiateci, o meglio legateci, un rametto di rosmarino. Massaggiatela con sale e pepe nero appena macinato e mettetela in una larga teglia o pirofila con 50 g di burro e 4 cucchiai d’olio dalla parte del grasso. Fatela cuocere a fuoco medio 10 minuti, rigiratela, lasciatela altri 5 minuti, metteteci intorno 4 mele Golden intere, poi infornate a 200°C. Controllate la cottura con un forchettone: non deve uscire il sangue. Dieci minuti prima di spegnere versateci un bicchiere di cavaldos. e e e DA BERE toscani d’alta classe: il «Lamaione» (2005), gran Merlot

in purezza prodotto da Frescobaldi a Montalcino (SI), o l’avvolgente e potente «Siepi», sangiovese e merlot ai massimi livelli, prodotto dalla famiglia Mazzei a Fonterutoli (SI). Brasato al barolo

1 kg di scamone o fesa o fesone di spalla (nel quarto anteriore) di bue. Infarinate la carne e fatela rosolare bene a fuoco vivo in 4 cucchiai d’olio e 50 g di burro oppure in 100 g di lardo tritato e sciolto. Toglietela e lasciate cuocere lentamente nel grasso di cottura un trito di 2 spicchi d’aglio, 1 cipolla, 1 carota, 1 gambo di sedano, 1 carota, 2 foglie d’alloro. Rimettete la carne salata e pepata con 1 chiodo di garofano, una grattata di noce moscata e una punta di cannella in polvere. Lasciate cuocere a fuoco dolce per circa 10 minuti e aggiungete 1/2 bicchiere d’acqua, poi 1 bicchiere di barolo (va bene anche il nebbiolo con anni alle spalle). Lasciate sfumare il vino, che rimetterete di volta in volta, a bicchieri, consumando l’intera bottiglia. Chiudete, quindi, quasi ermeticamente, frapponendo tra coperchio e tegame della carta d’alluminio. Poi in forno, per circa 3 ore, a temperatura bassissima (140°C). La cottura è perfetta quando uno spiedino entra facilmente. e e e DA BERE Barolo Monfortino, 1997, di Giovanni Conterno (CN)

o il Barbaresco «Santo Stefano di Neive» di Bruno Giacosa (CN), 1998. Entrambi i vini sono monumenti a una tradizione che non tramonta.

C’è un grande piatto verde

Con la fine delle ideologie che dettavano astratti tragitti della Storia e vaste interpretazioni del mondo, gli atteggiamenti ideologici non sono cessati. Sono migrati altrove. Ma la necessità di credere permane, propagandosi in varie forme di fedi, nei più svariati campi. Nelle chiese, nei municipi, nella natura, nel calcio e anche nella cucina. In questo settore, la dottrina vegetariana appare il più radicato di tali credi. Finita la lotta di classe, è così cominciata quella di carne. Ma al di là di visioni della vita, che continuano a nascondersi liofilizzate in ogni anfratto, o d’interdizioni normative del nostro andare, di verdura si può campare. Magari con qualche deroga (un po’ di lardo ben sciolto e poco visibile, le uova, i pesci...) alle tavole, poco lapidee, di cogentissime leggi interiori.

Elogio del mercato Lo confesso: sono un supermarkettista pentito, ma per fatali ragioni (gli orari, il perenne stato ormai ancestrale di ritardo, il tiranno rapporto tempo/risultato, l’ultimo tuffo – a sera inoltrata – per brancare il latte del giorno dopo) spesso ci ricasco. Si fanno anche delle scoperte al supermarket: il nuovo spazzolino da denti vibrante, uguale però a quelli vecchi (senza testina rotante) con doppie setole di nylon e gomma; il burro d’Insigny se si è davvero fortunati (il migliore al mondo fra i commercializzati, perché non pastorizzato); l’Epoisse, talmente odoroso e potente

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formaggio borgognone la cui ingestione da parte del signore permetteva alle vergini di sottrarsi – unico caso – allo ius primae noctis; ostriche in arrivi forse non quotidiani ma sufficientemente periodici; Laphroaig di 10 anni, splendidamente fenico e salmastro, a prezzi davvero competitivi, che in Scozia se li sognano. Però il fatto è che da lì si esce non tanto allegri, anzi un po’ intristiti. Automatici. Non è questione di gentilezza, inefficienza, difficoltà a trovare i biscotti senza latte o lo yogurt luterano-biologico marcato Demetra. Anzi è tutto molto più comodo e razionale, rispetto al vociante, spesso ripetitivo e ridondante mercato rionale. Ma ci si sente soli, ci si rispecchia in volti, se non cupi, certo avviluppati in se stessi. È difficilissimo parlarsi al supermarket, si è più silenziosi che alla Casanatense o alla Marucelliana. Siamo una folla solitaria che popola un acquario di merci e spinge carrelli entro labirinti elementari. In queste acque anche le sirene (ce ne sono!) perdono il canto e il consumatore Ulisse non sente il bisogno di legarsi all’albero. Al mercato no. È un’altra cosa. Si parla, si perde tempo in slalom tra finocchi e carciofesche «mamme» romane, costoluti pomodori genovesi o grossi cuori di bue, gobbi fiorentini, violette di Napoli o mostruose di New York (entrambe melanzane), rape trentine e spadoni trevigiani. Al mercato, vi capano le puntarelle (anche se i puristi questo lavoro di fino se lo fanno da soli); assaggiate le fave fresche, v’imbattete nel gigante d’Italia (carnosa varietà invernale del porro), vi stupite d’un radicchio ispido da sembrar mochettato. Chi sta di là dal banco ha autorità, confidenza, rispetto: come un barman o un croupier. E competenza, spesso passione. Conosce i segreti dei ravanelli, l’esotismo del topinambur, anche se ne ha visti pochi. Da lì vi parla, officia, risponde alle invocazioni femminili e ai lamenti sui prezzi, accetta ordinazioni cervellotiche di anziane imperiose («mezza lattuga, tre mandarini, una pera

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piccola ma morbida... il carciofo senza spine, senza spine...»), elargisce generiche promesse, e soprattutto vi fa entrare nel giro della conversazione. Ma, al mercato, ci vuole un patto di fedeltà: sempre lo stesso banco, altrimenti rien ne va plus. Il mio fruttivendolo si chiama Tonino. È un uomo giovane e antico; nemmeno cinquant’anni, segaligno; in lui anche i baffi son secchi. Gli occhi grifagni, va al ritmo delle stagioni: porta quello che nasce, la domenica spesso «fa» le patate o le cipolle, pota i polloni degli ulivi. Regala immediatamente il «tu» italico, intonato a una dolce confidenza, che si basa sulla comune e palese appartenenza al genere umano. Dalla Sabina viene in città due o tre volte la settimana, la mattina. Si divide part-time tra orti e banco. Da anni ha inaugurato l’ultimo grido che va oggi di moda a Londra, Amsterdam, Lione: la farm seller, la fattoria o l’orto che vende direttamente dal produttore al consumatore. Indubbiamente piace, è ferino e gentile, di poche parole, ma dai sorrisi larghi. Le signore gli si assiepano intorno; lui, nel camice carta da zucchero, sta alto sul suo officinale e dispone: arance, sedani, lattughe, cicorie. Lento e ferale. Forse fatale. Alla notizia d’un mio amico scomparso, che s’era affacciato più volte al suo banco, Tonino ha espresso un intenso elogio funebre: «Gli piaceva tutto, ma proprio tutto. Non dico le ciliegie, i carciofi... anche il cicorione». A voler continuare in quest’elogio del rapporto personale col banchetto o il negozio, basterebbe pensare al pescivendolo. Siccome non c’è modo di sapere se un pesce è veramente fresco (o fresco in modo accettabile) e non è possibile affidarsi all’occhio, alle branchie, all’odore, all’argento più o men sodo delle carni... l’unico sistema è la fiducia verso chi ve lo vende. Lo stesso per il macellaio e non solo per la qualità: l’unico modo per imparare razze e tagli è quello di parlarci e di guardarlo. Riconoscere uno scamone, un bicchiere, una rosetta, un girello innanzi a un tagliere è come, una

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sessantina e più d’anni fa, parlare tedesco con un tedesco in Italia, sopra la linea gotica: ve la sareste comunque cavata. Quindi, sulla scia dell’amore per il fruttivendolo, ecco un grande piatto del Centro Italia, che segna l’esordio della primavera; un piatto, dettato dalla stagione, di cui probabilmente ci sono più versioni. Questa è quella laziale. Vignarola

Prendete 800 g di fave fresche e 800 g di pisellini appena sgusciati; 3 carciofi romaneschi (quelli grandi) oppure 4 di quelli con le spine, puliti e tagliati a quarti, tenuti in acqua acidulata col limone per non farli annerire. Aggiungete le foglie d’un piccolo cespo di lattuga. In un tegame con 2 cucchiaiate d’olio d’oliva, fate soffriggere 100 g di guanciale di maiale tagliato a listarelle di 5 cm di lunghezza e qualche cipollina novella tritata o intera. A grasso sciolto mettete le fave, i carciofi e i piselli. Non fate passare 10 minuti e buttateci la lattuga con 1/2 bicchiere di vino bianco. Fate sfumare, coprite e cuocete a fuoco molto dolce per mezz’ora. la forza della vignarola sta nel suo brodo originato dai succhi vegetali, perciò non aggiungete mai acqua, ma fate attenzione che le verdure non diventino scure. Come sempre lasciate cuocere lentamente il guanciale. C’è una ragione in più, oltre quella di non farlo rinsecchire e annerire troppo; se riesce a sciogliersi, si maschera meglio e si rispetta l’interdizione vegetariana. e e e DA BERE un Chiaretto del Garda, ch’altro non è se non un Bardolino più tenue, un rosé delizioso, con profumi di ciliegia: il Ca’ dei Frati 2006 (BS).  CONSIGLIO

Ma la conversazione al mercato non si svolge tra un Socrate agreste e un Alcibiade inurbato. Anch’io so dir la mia. Ho risposto a taluni ammaestramenti con i miei formulari, con la vi-

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chyssoise, per esempio. Buttandola così sull’internazionale, ma ben presto è diventata la «viziosa», ripiombando bruscamente nel nazionale. Vichyssoise

Dell’inventore, francese operante negli Stati Uniti, s’è perso il nome. Cuocete a fuoco dolce in una casseruola con coperchio poco più di 200 g di porri tritati in 50 g di burro. Quando saranno sciolti (nel caso aggiungere acqua) metteteci 300 g di patate pelate, tagliate a dadini; girate spesso e dopo una decina di minuti versate un litro abbondante di brodo di pollo, un mazzetto guarnito, sale e pepe. Fate bollire piano per un’ora scarsa. Frullate tutto e aggiungete 2 dl di panna da cucina, oppure, per chi non ama la panna, 1/2 litro di latte caldo. Rimettete sul fuoco, riportando a bollore sbattendo con una frusta. Fate raffreddare e mettete in frigorifero per 2 ore. Servite con erba cipollina tritata e crostini di pane al burro. Elegante, ma un po’ rigida; l’opposto della vignarola. È possibile anche servirla calda, cosparsa di prezzemolo tritato e accompagnata da crostini di pane tostato. e e e DA BERE come la vignarola, anche questo piatto si accompagna

con lo stesso Chiaretto del Garda, Ca’ dei Frati 2006 (BS).

Se dovessi portare a un amico un regalo da Roma, non esiterei: non cioccolate, dolci, stoffe, vini. Né mozzarelle. Non finti busti antichi. Porterei le puntarelle, capate ma non ancora ricce, chiuse in bianchi sacchetti di propilene, come ve le preparano al mercato. E in casa, poi, gliele cucinerei. Puntarelle

Le puntarelle altro non sono che germogli della catalogna, cioè la cicoria, detta «spigata». Non saprei nemmeno dire il peso, per

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4 persone: le puntarelle vanno a numero e a vista. Chiedetelo al fruttivendolo. Prendetene un sacchetto di appena mondate («capate»), che sarà equivalente a circa 1/2 chilo, e fatele riposare per almeno mezz’ora nell’acqua gelida, dove si arricceranno. In una ciotola pestate 1 spicchio d’aglio e 3 acciughe dissalate e diliscate (potete usare anche il mixer) che vanno diluiti con circa 1 cucchiaio di aceto forte. Alla fine si aggiungono 4 o più cucchiaiate di olio extravergine d’oliva di carattere, cioè toscano. Amalgamate bene ed eventualmente salate un po’. Irrorate con la salsa le puntarelle e girate. Coi cardi, sono la verdura più carnosa che ci sia, ma sono più fresche. le puntarelle devono essere croccanti, perciò vanno sempre messe prima nell’acqua gelida, poi condite e servite. Se le fate aspettare troppo, lavorate dall’aceto s’ammosciano e perdono il loro fascino. e e e DA BERE sulle acciughe un vino robusto non guasta. Potete osare e provare uno Sherry Fino «Tio Pepe» di Gonzales Byass, da bere freddo.  CONSIGLIO

Per finire, la caponata. Il nome è d’incerta derivazione: da «cappone» ossia grosso paranco; dal latino caupona (osteria in cui si sarebbe trovata sempre pronta)? È comunque un grande classico siciliano, buono come antipasto freddo o come contorno e quasi come secondo, nel suo contrasto di sapori agrodolci. Caponata

Per 8-10 persone perché potete conservarla anche in frigo se coperta con la pellicola trasparente: 1 kg di melanzane lunghe tagliate a cubetti, salate con sale grosso e disposte in uno scolapasta di modo che sgrondando perdano l’amaro. Fate soffriggere nell’olio 1/2 kg di cipolle di Tropea affettate sottili, quando saranno dorate e morbide aggiungete 1/2 kg di pomodori maturi, scolati, spellati, privati dei semi e tagliati a pezzetti; poi 100 g di gambi di sedano tagliati in piccoli pezzi, 100 g di olive nere snocciolate e 50 g di capperi dissalati. Si fanno quindi insa-

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porire bene tutti gli ingredienti. Avrete intanto fritto in abbondante olio caldo le melanzane: unitele all’intingolo preparato. Mescolate aggiungendo 2 cucchiai di zucchero e 1/2 bicchiere di aceto forte. Riducete la fiamma e cuocete fino a che l’aceto non sia evaporato. A questo punto aggiungete basilico fresco sminuzzato.  VARIANTE insieme alle melanzane si possono aggiungere 2 peperoni dolci tagliati a listarelle e precedentemente fritti nell’olio. e e e DA BERE l’impressionante Chardonnay 2006 di Tasca d’Almerita (PA), punta di diamante della Sicilia, in completa concorrenza con se stesso fra bianchi e rossi sempre più eccellenti.

Un piatto più leggero, a metà fra un contorno e un antipasto caldo, sono i sedani alla Popoff, che Pilaf Bay (non è il nonno di Allan) situa nel suo prontuario erotico Venere in cucina: Sedani alla Popoff

Tagliate il sedano in pezzi lunghi quanto un dito, poneteli in una casseruola con un un po’ di burro; condite con sale, pepe, noce moscata e copriteli con brodo ristretto. Fate cuocere a fuoco lento fino a giusta cottura e fino a che il liquido sia stato interamente assorbito. Disponeteli allora in un vassoio, cospargeteli di formaggio grattugiato e serviteli caldi. e e e DA BERE lo splendido Moscato Giallo di Alois Lageder (BZ) nel-

l’ultima annata. Il moscato secco è poco apprezzato rispetto alle sue qualità: la varietà gialla, intensamente aromatica, dell’Alto Adige, produce poi, come in questo caso, un vino irresistibile.

Per operare una «circonvenzione di vegetariano» il brodo dovrebbe essere un bel ristretto di carne. Avrebbe fatto sicuramente così l’autore che si cela sotto lo pseudonimo di Pilaff Bay, ovvero Norman Douglas, di cui si ricordano Old Calabria e Vento del Sud oltre alla sua avventura umana spesa in gran parte a Capri.

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I petonciani Petonciani: chi sono costoro? Così l’Artusi chiama le melanzane («Il petonciano o melanzana è un ortaggio da non disprezzarsi per la ragione che non è né ventoso, né indigesto») che forse vantano il primato della maggior varietà di denominazioni nei dialetti italiani: marignani nel Lazio, malignane in Campania, milangiane in Calabria, mulinciani in Sicilia. La questione principale che attanaglia il melanzanomane è la seguente: le melanzane vanno fatte spurgare della loro acqua amarognola tagliandole a fette, cospargendole di sale e impilandole l’una sull’altra con un pondo, un peso, sulla sommità che le sprema ben bene? C’è chi dice di sì, ma solo per la varietà oblunga come la Black Beauty o la Violetta di Napoli, non per quelle tonde. C’è chi dice di no perché il sale, anche dopo una lavata, penetra troppo nel tessuto e comunque quel po’ d’amaro è la caratteristica dell’ortaggio. Un’altra scuola meno conosciuta consiglia di stendere le melanzane tagliate su un panno o su un ampio scolapasta, esposte al sole. In pochi minuti si imperleranno di piccole gocce e man mano perderanno la loro acqua amara. La tendenza è di non spurgarle sempre. Come in queste due ricette. Purè di melanzane

È un piatto marocchino ma, con alcune varianti, si può dire nordafricano e mediorientale. Prendete 1 kg di melanzane tonde sbucciate, tagliate a dadi e cotte a vapore (se non avete lo speciale cestello bucherellato o il bambù cinese, usate un colino appoggiato su una pentola d’acqua bollente coperta). Versatele in una padella con 4 cucchiai d’olio d’oliva già caldo, insieme a 2 spicchi d’aglio schiacciati, 1 cucchiaino di paprika dolce e smorzate la fiamma. Lasciate cuocere per circa 10 minuti mescolando continuamente finché non si otterrà un composto omogeneo.

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questo purè è buonissimo spalmato sul pane arabo, che va tagliato in due fette uguali da spennellare con una chiara d’uovo su cui cospargere dei semi di cumino. Una volta eseguita quest’operazione, il pane va messo a scaldare in forno a 180°C per 15 minuti circa. e e e DA BERE il Gewürztraminer «Am Sand» 2006 di Alois Lageder, dal corpo pieno, coi profumi della vendemmia tardiva.  CONSIGLIO

Lo stesso purè è il presupposto per fare le buonissime polpettine di melanzane. Polpette di melanzane

Stefania Barzini, nel suo A tavola con gli Dei1 dedicato alla cucina eoliana, offre questa ricetta di Alicudi. «Taglio 4 melanzane in grossi pezzi e le faccio cuocere in abbondante acqua salata. Quando si sono ammorbidite, le scolo, le lascio raffreddare e le strizzo per eliminare tutta l’acqua in eccesso. Poi con l’aiuto d’una forchetta, le riduco in purè. Aggiungo 20 grammi di uvetta, 20 grammi rispettivamente di pinoli e di capperi lavati, 20 grammi di pecorino, 1 ciuffo di menta e di prezzemolo tritati, sale, pepe e tanto pangrattato quanto ne occorre per ottenere una certa consistenza (il composto non deve essere né troppo duro, né eccessivamente morbido). A questo punto con le mani formo tante polpettine che passo nella farina e metto a friggere, senza ammassarle, nell’olio bollente. Quando sono uniformemente dorate le scolo e le faccio asciugare su carta da pane. Sono da mangiare bollenti, quasi da ustione!». un po’ in tutto il Meridione, una volta ridotte a purè le melanzane vi si aggiungono 2 uova, una cucchiaiata di parmigiano grattugiato, abbondantissimo basilico fresco tritato e il pangrattato, quanto ne occorre per una giusta consistenza. Le polpettine vanno poi infarinate e fritte.  VARIANTE

1. S. Barzini, A tavola con gli Dei. Memorie e ricette delle isole Eolie, Guido Tommasi Editore, Milano 2006. Vedi anche n. 2 a p. 90 di questo volume.

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e e e DA BERE ai fritti vegetali spesso s’accompagna un bianco di sostan-

za, ma siccome le melanzane sono vegetali carnosi, soprattutto in questa versione, fate un azzardo e provate il vino (se lo trovate) d’un grande produttore veneto: Giuseppe Quintarelli che crea ottimi Recioti e Amaroni, ma le cui doti potrete scoprire, con questo piatto, stappando un Valpolicella Classico Superiore «Monte Ca’ Paletta» 2000, o in altre annate disponibili (VR). Tende all’opulenza, fra i massimi per qualità e prezzo.

Ma la melanzana, al di là di certe sofisticherie, è al contempo l’essenza d’un piatto nazionale, un monopiatto «cosmico»2, multipietanzale: la parmigiana di melanzane, secondo la dizione meridionale, altrimenti melanzane alla parmigiana. La fenomenologia della parmigiana è complessa, quasi quanto la fenomenologia della melanzana; qui se ne dà un sostanzioso, ma umile, assaggio. Parmigiana di melanzane

Tagliate a fette sottili 4 melanzane (meglio quelle lunghe), con poco sale fra una fetta e l’altra, impilatele e fatele lacrimare ponendo sopra un peso per togliere l’amaro. Dopo averle lavate e asciugate, friggetele in olio bollente (non troppo, non devono imbrunire eccessivamente), cercate di far perdere l’olio in eccesso stendendole o tamponando con carta da cucina, ponetele a strati in una pirofila e su ogni strato mettete mozzarella (fior di latte) a fettine, una grattata abbondante di parmigiano, qualche cucchiaio di sugo di pomodoro ben tirato ma non eccessivamente cotto (tenendo conto che cuocerà ulteriormente in forno) e foglie di basilico abbondanti. Terminate con uno strato di melanzane e salsa, coprite ancora con pangrattato e parmigiano; poi in forno a 180°C per mezz’ora o più. Fate riposare almeno 2. Il monopiatto sufficiente a se stesso, autonomo, indipendente e nient’affatto orfano: dopo il quale una bella insalata può essere messaggera di freschezza e liberazione.

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mezz’ora; la parmigiana è buona chambré a temperatura ambiente e soprattutto il giorno dopo. Potete prepararla e surgelarla prima di cuocerla in forno.  VARIANTE per alleggerire la parmigiana, ma anche impoverirla, si possono non friggere le fette di melanzane bensì farle grigliate, aumentando però leggermente il tempo di cottura in forno. e e e DA BERE ci darei dentro, proprio per il monopiatto, Sagrantino di Montefalco «Collepiano» (se lo trovate, il 2003) di Arnaldo Caprai (PG) alfiere del risorgimento di questo vitigno, che dà corpo a uno dei migliori vini d’Italia e non solo. Assaggiate, con i dolci, l’antica versione del Sagrantino: il Passito.

E le patate Non sempre la melanzana può venirci in aiuto, cioè d’inverno o per alternanza. Sempre volendo seguire quella preziosa consuetudine della fedeltà a Tonino, l’ortolano. E se lui davvero mantiene la sua fedeltà alla stagione, d’inverno le melanzane non le porta. Dunque l’altro monopiatto, non altrettanto nazionale – né, s’è per questo, multipietanzale – è il gattò di patate, d’ascendenza napoletana. Gattò di patate

Lessate 1 kg di patate (a pasta compatta) con tutta la buccia. Sbucciatele e passatele ancora calde nello schiacciapatate. Lavoratele con un mestolo e aggiungetevi 80 grammi di burro, 80 g di parmigiano grattugiato, 40 g di pecorino, 3 uova, 80 g di prosciutto o salame tagliato a dadini, una manciata di prezzemolo tritato. Aggiungete all’impasto un poco di latte solo se questo risultasse troppo sodo, poco sale, volendo un pizzico di pepe. Alcuni preferiscono mettere gli albumi delle uova montati a neve, in modo da ottenere un impasto più soffice ed evitare il lat-

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te. Imburrate una pirofila, e spolverizzatela di pangrattato. Fate un primo strato con metà dell’impasto, stendetevi sopra circa 150 g di mozzarella tagliata a fettine o a dadini e 80 g di provola affumicata, anch’essa a pezzetti. Coprite con il restante del composto, spolverizzate la superficie con pangrattato e distribuite dei fiocchetti di burro. Infornate a forno caldo (180°C). Occorreranno circa 30-45 minuti di cottura. Quando comincia a «crostinare» levare dal forno. Servite a mezzo calore dopo congruo riposo, ma è buono anche freddo. aggiungere all’impasto il tuorlo di un uovo e sostituire eventualmente il latte con un po’ di brodo. e e e DA BERE il Soave «La Rocca» di Pieropan (VR) 2005 o ultima annata.  TRUCCO

C’era la fantesca abruzzese di una vecchia signora romana che un giorno sì e uno no, timidamente e ossequiosa, verso mezzogiorno si presentava in sala: «Signorina Lea», richiamava l’attenzione, «e se facessi due gnocchi?». Erano loro due, sole: la signorina Lea, per altro, vecchia pittrice della scuola romana (Capogrossi, Scipione, Mafai), faceva una vita abbastanza bohémien, viaggi, mostre, concerti... al pranzo ci pensava poco: «E fatteli, Mimma, fatteli per te», rispondeva. Per dire che gli gnocchi non sono poi così difficili come sembra e si possono pure impastare lì per lì, a mezzogiorno, quando dal Gianicolo suona il cannone, per pranzare «alla mezza» come si usa a Roma: burro e salvia, o pomodoro e basilico, fan sempre una gran figura, come «pasta fresca» preparata all’impronta. Gnocchi di patate

Come per la pasta all’uovo fatta in casa, anche per la preparazione degli gnocchi un piano di legno o di marmo è una condizione quasi essenziale. Comunque: per 6 persone prendete 2 kg di patate e lessatele, sbucciatele e schiacciatele con una forchet-

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ta. Dopo aver aspettato che si siano freddate impastatele con 4 etti di farina setacciata finché non ne sarà venuta fuori una pasta morbida e malleabile («dategli la farina che prendono», si dice). A questo punto arrotolate dei cannelli larghi quanto un dito e tagliateli a pezzetti di un paio di centimetri. Lasciateli riposare su di un canovaccio infarinato.  TRUCCO per cuocerli l’accorgimento, ben noto, è quello di non buttarli tutti insieme, ma un po’ alla volta. Nell’acqua salata in pieno bollore calatene una manciata, aspettate che tornino a galla e quindi tirateli su con la schiumarola, scolandoli bene, disponeteli in una zuppiera e ricopriteli con uno strato di sugo. E così, avanti, con i successivi.  CONSIGLIO naturalmente «muoiono» burro e salvia, ma anche con la salsa di pomodoro (vedi p. 202) oppure con il pesto di basilico (vedi p. 208) o ancora con il ragù di carne (vedi p. 206). e e e DA BERE come per il gattò di patate, il Soave «La Rocca» di Pieropan (vedi p. 115) è l’abbinamento ideale.

Di tutt’altra filosofia, essenza, consistenza e potenzialità: insomma dalla parte opposta degli gnocchi, la fonduta di patate. Fonduta (di patate)

Dal francese fondue, ma assai diversa la nostra versione piemontese da quella francese, che non prevede la fontina messa a macerare nel latte. 600 g di fontina valdostana non stagionata, tagliata a dadini, devono stare per circa 6 ore a bagno in 1/2 litro di latte. Mettete in una casseruola a bagnomaria (cioè in acqua bollente) la fontina, il latte, 100 g di burro, 4 tuorli d’uovo, sale. Fate scaldare bene lavorando energicamente con una frusta. La fonduta si può servire su patate bollite con la buccia, spelate e poi tagliate a rondelle, su una polenta dura o su pane tostato. La sua morte è comunque con il tartufo bianco finemente affettato.  CONSIGLIO

se si vuole rendere meno intensa, si può usare 1/4 di Fon-

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tal. Un cucchiaino di farina è non proprio ortodosso, ma facilita molto la coagulazione di latte, formaggio e uovo.  TRUCCO usate una cosiddetta bassina, un recipiente col fondo dai bordi arrotondati, per poterci sempre arrivare con la frusta o il mestolo di legno.  VARIANTE fatela uguale, ma cambiate formaggio: provate con una toma piemontese. e e e DA BERE chi volesse l’abbinata canonica dovrebbe procurarsi dello Chasselas svizzero. Celeberrimo quello di Lavaux, nell’omonimo vigneto impiantato dai cistercensi, che digrada sulle sponde del Lago di Ginevra. Da quest’uva si ricava il piacevolissimo Fendant. Un altro ottimo vino svizzero è il Gewürztraminer, 2006, di Jean-Michel Novelle, prodotto a Satigny. Con la toma osate e cambiate tutto: il cosiddetto mondo a parte, che esalta ogni umido e carne rossa, il Barolo «Granbussia» Riserva 1999 di Aldo Conterno (CN) ma che innalza le tome a vette siderali, se c’è anche il tartufo bianco.

Forse il più celebre dei gratin (da «grattare», perché la crosta è la parte più squisita, da grattar subito per mangiarsela) è quello che porta il nome della regione francese del Delfinato: Gratin dauphinois

1 kg di patate farinose sbucciate e tagliate a fette (1 cm circa di spessore) e messe in un’insalatiera con sale, pepe e una grattata di noce moscata. Aggiungete 100 g di gruyère grattugiato (oppure parmigiano) e mescolate bene. Imburrate una teglia o una pirofila e livellateci le patate. Nel mixer frullate la parte bianca di un porro, 1 spicchio d’aglio, 2 uova intere e 6 dl di latte. Versate tutto sulle patate, cospargete con altri 50 g di gruyère grattugiato e con pezzetti di burro. Coprite con un foglio d’alluminio e mettete in forno a 200°C per circa 50 minuti. Levate il foglio e fate gratinare col grill per 10 minuti. e e e DA BERE sempre il Moscato Giallo (2006) di Alois Lageder (BZ).

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Bagna cauda e altre zuppe Il regno vegetale del nostro paese si situa soprattutto al Centro e nel Meridione, anche se forse il più pantagruelico e patriarcale trionfo di verzure è piemontese: la bagna cauda. Antiminimalista per eccellenza, questo piatto (tradotto in italiano perde molto del suo fascino, divenendo «bagna calda») si mangia per lo più nelle case, d’inverno, e non s’intona all’intimità. Vuole il calore, la ressa, il rumore, l’incontro tra più generazioni e un pomeriggio aperto sulla siesta. Bagna cauda

Tritate finissimamente 4-5 spicchi d’aglio da cuocere molto lentamente in un tegame di coccio con 100 g di burro. Una volta sciolto l’aglio, che non deve prendere colore, si aggiungono circa 1/4 di litro d’olio che non dovrebbe essere fruttato (meglio quello ligure o del Lago di Garda). Quando è caldo vi si fanno sciogliere una decina di acciughe dissalate e diliscate per ottenere una salsa fluida. Poi si mette il tegame su un fornello a spirito in mezzo alla tavola, in cui s’intingono sedani, peperoni tagliati a listarelle e privati dei semi, foglie bianche di verza, ravanelli e, volendo, patate lesse. I cardi, puliti e messi a bagno per un po’ nell’acqua acidulata, si esaltano con la bagna cauda. su questa base sono molte e riguardano soprattutto il rapporto olio/burro, che molti usano in pari quantità. Per condizionare un po’ il potere dell’aglio, si può immergere qualche ora nel latte. Una bagna cauda in versione tascabile è la seguente: mettete in forno caldo 4 peperoni (rossi, gialli e verdi), fate raggrinzire e abbrustolire la buccia. Grattate eventuali parti bruciate e tagliateli per lungo in circa 6 pezzi. Mentre il peperone è in forno, sciogliete in un po’ di burro e olio le solite acciughe che metterete poi sulle fettine gialle, rosse e verdi. È un ottimo antipasto da servire freddo. e e e DA BERE Bramaterra (1998), un uvaggio a base di nebbiolo del Piemonte del Nord che assomiglia al Gattinara, prodotto da Sella (BI).  VARIANTI

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Un altro grande piatto a base di verdure è la calabrese licurdia, di cui si ripropone la ricetta tratta dal Libro d’oro della cucina e dei vini di Calabria e Basilicata di Ottavio Cavalcanti3. Licurdia

«Affettare 300 grammi di cipolle rosse di Tropea e farle cuocere a fuoco basso per 1 ora o più in 150 grammi di sugna [cioè di strutto], bagnando ogni tanto con poca acqua per tenerle morbide e salandole appena. In una pentola lessare in acqua bollente salata, per 50 minuti, 100 grammi di bietole o scarola o lattuga, 300 grammi di patate a pasta gialla, 150 di carote, tutto grossolanamente tritato. Scolare le verdure, unirle alla cipolla e insaporire insieme per qualche minuto. Mettere nei piatti fondi individuali delle fette di pane abbrustolito, cosparse a piacere di scagliette di peperoncini piccante e versarvi sopra la zuppa di verdure». e e e DA BERE Critone, dei Fratelli Librandi, 2006 (KR), un ottimo

bianco calabrese, morbido e pieno, che può reggere il peperoncino.

E questa zuppa porta immediatamente all’insuperata soupe à l’oignon. La più buona l’ho assaggiata a Tournus, incantevole città della Borgogna, nota per le sue case in pietra, la cattedrale, il suo Hôtel-Dieu (così erano chiamati i primi ospedali); il pittore Greuze e il grande letterato Albert Thibaudet, che qui ebbero i natali e a lungo ci vissero. Ma Tournus era nota anche in ragione d’uno chef francese fuori moda (da poco ritiratosi, si faceva chiamare cuisinier) e scarsamente lodato dalla critica militante, forse perché troppo ancien régime. Il suo ristorante, tutto in pietra coi caminetti accesi, le luci calde e le tovaglie bianche, qualche bella specchiera, pochi grandi quadri, è uno dei più semplici e più belli, oltre che dei migliori, in cui mi sia imbattuto. 3. O. Cavalcanti, Il libro d’oro della cucina e dei vini di Calabria e Basilicata, Mursia, Milano 1979.

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Da Jean Ducloux, Cuisinier a Tournus4, ecco la zuppa di cipolle gratinata. Zuppa di cipolle gratinata

«In 60 grammi di burro, fate diventare le cipolle (150 g) color caramello. Versateci un bicchiere di vino bianco, 1 litro e mezzo d’acqua e lasciate cuocere dolcemente per tre quarti d’ora. Se i vostri ospiti amano la zuppa di cipolle, ma non sopportano di vederle galleggiare a pezzi, frullate il tutto. Mentre la zuppa cuoce, tostate in forno alcune fette di pane. Disponetele in una teglia e cospargetele di formaggio (150 g di gruyère) grattugiato. In forno, fate prendere colore al pane, che diventerà una specie di unica ‘gallette’ (il formaggio fondendo unisce le fette). Quando la zuppa è pronta, mettetela nella zuppiera e appoggiateci sopra la ‘gallette’ che galleggerà come un iceberg. Questa tecnica – diversamente dall’uso comune di mettere il pane tostato nella minestra, ricoprire quest’ultima col gruyère e farla gratinare al forno – permette di servire un pane croccante invece di spugne imbevute e poco appetitose». raddoppiate le dosi. e e e DA BERE stappate un Cortese di Gavi, acidulo e fruttato, come il già citato «Castello di Tassarolo» (AL), 2006, che ha un ottimo rapporto qualità/prezzo. Da visitare il bel castello con l’annessa cantina.  CONSIGLIO

Ancora un’altra possibilità nel trionfo di verzura: una zuppa come Dio comanda: la minestra di lenticchie. Minestra di lenticchie

1/2 kg di lenticchie umbre di Castelluccio coperte per l’altezza di 4 dita d’acqua fredda, un gambo di sedano tagliato, una cipolla, 2 spicchi d’aglio, 2 foglie d’alloro. Fate bollire per 1/2 ora 4. J. Ducloux, Cuisinier a Tournus, France Loisirs, Paris 1988.

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e aggiungete 4 pomodori pelati senza il sugo con 1/2 bicchiere d’olio; lasciate cuocere per altri 10 minuti, controllando sempre che non sia troppo secca. Si lascia riposare e si serve tiepida. e e e DA BERE Rubino 2006, prodotto a Stroncone in Umbria (TR).

L’insalata amazzonica Forse il più semplice e primario tra gli approcci al regno vegetale è quello dell’insalata. È proprio l’insalata che oggi non ci fa dimenticare l’attitudine erbivora dell’uomo. La più sfolgorante e ubertosa è italiana, non si prepara in cucina, si fa al mercato: è la mesticanza. Mesticanza

Indefinibile e libera per sua stessa natura, la mesticanza è un misto d’erbe che nell’Italia centrale trovate sui banchi. Dire che dovrebbero esserci almeno lattuga di campo, crescione, pimpinella, dente di leone, erba stella, ruchetta, raperonzolo, cime di finocchio selvatico... non vuol dir niente. C’è quel che ci trovate dentro, ma di solito è un misto ricchissimo, di vari profumi, differenti foglie e durezze. Non è raro trovare, nella mesticanza, erbe tendenti al peloso o steli vicini al legno, ma è il suo bello: un’insalata che in fondo è sempre quella, senza esser mai uguale. la mesticanza, come le altre insalate, va condita con discernimento perché, in fondo, la differenza tra una buona e una cattiva insalata, oltre alla fragranza delle verdure, la fa proprio il condimento. Il condimento base è questo (le proporzioni ve le scegliete voi): sciogliete un po’ di sale (non si può pesare una presa media di sale) in 2 cucchiaiate di aceto e aggiungete tre volte d’olio. Diatribe tra olio vivace toscano, umbro, laziale e olio languido del Nord (Liguria, Garda, Brisighella) non vale la pena farle: l’olio è peggio del pane e del vino, chi ci tiene veramente è abituato al suo, a quello che ha assorbito fin da bambino e non lo cambia. Piuttosto bisognerebbe che fosse sempre extra-

 CONSIGLIO

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vergine d’oliva, possibilmente di fattoria. È importante invece che si osservi la sequenza sale-aceto-olio e, soprattutto, che si agisca con calma, partecipazione, concentrazione. Insomma coinvolti in un rito. e e e DA BERE Pinot Bianco del Collio di Attems, nell’ultima annata, pressoché perfetto nel suo equilibrio, che ne fa un vino estivo se non quotidiano.

Non so quanto l’insalata quale sostanzialmente la concepiamo oggi – varia e cruda con molteplici condimenti – rivestisse nel passato un posto centrale come ai nostri giorni, sostenuto anche dall’imperativo di cibi più leggeri a basso tasso di calorie. Dai ricettari di altri tempi, che comunque decantano la verdura, non sembrerebbe. L’insalata è sempre stata collegata alla nostra alimentazione, ma per lo più gli ortaggi e le erbe si consideravano soprattutto da cuocere. Il romano Apicio, tra tante ricette di ortaggi cotti che elenca, cita solo le erbe di campo, la cicoria e la lattuga. Nell’anonimo ricettario toscano del Trecento troviamo un compendio vegetale del tempo in cui quasi tutta la verdura è cotta. Anche se Giovan Battista Marino nella XXXVI Fischiata della Murtoleide cita esplicitamente l’insalata («Onor dell’insalata inclito, erbette / rose, borace, cavoli fronzuti...»). Ancora, l’Artusi d’insalate ne elenca appena quattro e nessuna è di verdura cruda, mentre gli erbaggi son tutti cotti. Fra le insalate crude dei nostri giorni, una delle più ricche è la nizzarda. Insalata nizzarda

La nizzarda tipo dovrebbe (perché di nizzarde ne circolano parecchie) essere questa. Due pomodori maturi tagliati a cui si aggiungono: 1 peperone, 1 cetriolo medio sbucciato, 4 ravanelli, 1 cipolla rossa di Tropea, tutti tagliati a fettine sottili; unirvi anche 400 g di fave fresche sgusciate e private della loro pellicina (in primavera avanzata si possono sostituire con sottili spicchi di carciofi), 1 piccolo gambo di sedano bianco a pezzetti, una grossa manciata di olive verdi e di olive nere, snocciolate, 2 spic-

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chi d’aglio che si possono poi togliere. Al momento di condire unire 2 uova sode (meglio barzotte) a spicchi, 10 filetti d’acciuga dissalati e 240 g di ventresca di tonno. Condire in una ciotola con 3 cucchiai d’aceto, 6 d’olio, qualche foglia di basilico strappata. Mescolare bene tutto. e e e DA BERE lo stesso Attems.

Insalata andalusa

Tagliate a julienne, cioè a bastoncini, 2 peperoni dolci e in quattro quarti 2 pomodori maturi a cui mescolare 200 g di riso patna lessato al dente. Mescolate e condite con una citronnette (vedi p. 39) aggiungendo 1 cucchiaino di paprika, 1/2 spicchio d’aglio grattugiato, 1/2 cipolla rossa di Tropea tritata con un po’ di prezzemolo. Condite con aceto, olio, sale e un po’ di pepe. potete aggiungere due patate lesse fatte marinare per 1/2 ora nel vino bianco; in questo caso ridurrete la quantità di riso. e e e DA BERE il Pinot Bianco «Haberle», 2006, di Alois Lageder.  VARIANTE

Solo una scusa E quando, invece, le verdure sono solo una scusa: quasi un contorno che conquista il centro. Ma prima un elenco di aperitivi pressoché tutti gentili che ben s’intonano ai piatti e al lavoro col verde in cucina. Spritz

Acqua e vino bianco. Che cosa c’è di più semplice? Eppure l’«acqua e vin» si beveva a Venezia fin dai tempi di Marco Polo ed è la vera capostipite di tutti i «cobbler» (ciabattino) il cui nome deriverebbe appunto da un ciabattino inglese che aveva mischiato acqua e sherry. Lo spritz prevede vino bianco secco con aggiunta di seltz o acqua che deve essere a mille e più atmosfe-

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re. Un consiglio è di prepararselo nel tumbler (il bicchiere lungo) mettendoci tanto ghiaccio tritato. In fondo i long drink sono compagni di viaggio, che vi stanno accanto mentre lavorate: più son lunghi, meno vi abbandonano. Rossini

Della famiglia prosecchi o champenois con l’aggiunta di frutta. Il Rossini prevede 1/3 di fragole frullate e 2/ 3 di spumante brut. Passate le fragole nel passaverdura a disco fine con un po’ di spumante per creare un composto cremoso, versate lo spumante molto freddo in un calice, quindi aggiungete piano piano, frenando col cucchiaino, le fragole e girate delicatamente. In tutti questi cocktail a base di champagne o spumanti e frutta, quest’ultima (come nel caso del Bellini) va messa nel bicchiere dopo e non prima, altrimenti monta una spuma debordante. Mimosa

In una calice di spumante ghiacciato, versate il succo di mezza arancia, secondo il metodo descritto sopra. Julep

È originario del Kentucky, ci vorrebbe quindi il bourbon whiskey (Jack Daniel’s per esempio) ma si può usare anche un rye (Four Roses) o uno Scotch Blended. È semplice, ma profumato e verace, come le terre del Sud. Pestate della mentuccia fresca su cui verserete il whiskey, con un po’ di zucchero e tanto ghiaccio spezzettato grossolanamente (potete batterlo dentro un canovaccio). Se il Martini cocktail e il Mojito hanno dalla loro Hemingway, il Julep vanta dalla sua parte il grande Faulkner, che ne è stato un generosissimo e disinteressato testimonial. Data una sostanziosa rosa di aperitivi, per tornare in un qualche modo alla verdura, i fiori di zucca fritti, caldi (ma attenzione al

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bollore interno), sono buonissimi d’accompagnamento. Come antipasto, soprattutto. E siccome fanno venir sete ci volevano, appunto, dei long drink o degli sparkling con la frutta. Fiori di zucca fritti

Bob Dylan’s Greatest Hits: non è vero che è noioso, anzi il suo è un gorgheggio da gatto con gli stivali e la sua tristezza è sempre danzante, piena d’energia. I fiori di zucca o di zucchini (leggermente più piccoli) si trovano, di solito, da maggio a tutto luglio. Devono essere freschi, non molli e senza parti annerite. Una volta puliti delicatamente a mano, togliendogli il pistillo, si possono friggere dopo averli semplicemente infarinati e passati nell’uovo sbattuto, ma il modo migliore è friggerli con la pastella. Per fare la pastella prendete 140 g di farina, 1 uovo intero, 1 cucchiaio d’olio d’oliva e 1 bicchiere di birra fredda. Amalgamate il tutto fino a raggiungere la consistenza d’una crema e mettere in frigorifero per un po’. In una padella medio-larga scaldate dell’olio d’oliva in abbondante quantità e quando avrà raggiunto un’alta temperatura metteteci i fiori di zucca, che prima avrete passato nella pastella. Quando saranno dorati, levateli con la schiumarola e metteteli su carta gialla o carta bianca da cucina e salateli.  CONSIGLIO i modi per preparare la pastella sono molti. Con acqua, uovo e farina; con farina, uovo e lievito di birra sciolto nel vino bianco o secondo il modo descritto sopra. È importante eleggerne uno e ritornarci più volte per imparare a saggiare la consistenza della pastella. Non conviene mai lavare i fiori di zucca, perché rischiano di assorbire acqua e friggere malamente. Come per ogni fritto, l’uovo non va mai salato, perché il sale produce quell’umidità che non permette un’aderenza ottimale.  TRUCCO è meglio usare la birra o acqua gassata gelida e mettere poi la pastella in ghiaccio. Più sarà fredda, più si otterrà l’effetto tempura, ossia una leggerezza e una secchezza assoluti.  VARIANTE quella più deliziosa prevede una farcitura del fiore con un pezzetto di mozzarella e un pezzo di acciuga sott’olio.

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e e e DA BERE il Lambrusco di Sorbara Cavicchioli «Vigna del Cristo»

(ultima annata), gradevolissimo, profumato di lampone e ribes. Purè di fave con cicoria

2 etti di fave secche sbucciate, 2 etti di patate, 1 kg di cicoria, 1 bella cipolla rossa. Tenete in ammollo nell’acqua le fave per circa 1 ora. Poi fatele bollire insieme alle patate sbucciate e tagliate a pezzi, in acqua a filo senza coprire, con poco sale. Raggiunto il bollore, lasciate cuocere a fuoco dolce per altre 2 ore. Infine aggiungete 4 cucchiaiate di olio extravergine d’oliva e amalgamate il tutto, utilizzando anche il frullatore a immersione. Lessate la cicoria in poca acqua, schiacciandola durante la cottura per far uscire il liquido. Servitela accanto al purè condita con un po’ d’olio extravergine. più che variante, aggiunta: insieme al purè, potete preparare una bella cipolla affettata fine e fatta riposare nell’acqua gelida per almeno un’ora, poi condita con sale, aceto, olio. A parte soffriggete (5 minuti scarsi), con un po’ d’olio e una foglia d’alloro, 1/2 etto di olive grosse dolci.

 VARIANTE

e e e DA BERE la Puglia ha rilanciato il suo vino soprattutto con il rosso, Primitivo e Negramaro in testa, ma anche i bianchi sono di gran qualità. Come questo Castel Del Monte «Pietrabianca», uno Chardonnay di Tormaresca (BR) da prendere nell’ultima annata, anche se sostiene assai bene l’invecchiamento.

Se volete stupire, ecco un piatto facile ma faticoso perché va fatto in tempo reale: Salvia fritta

Una trentina di grosse foglie di salvia (possibilmente imberbi), lavate e perfettamente asciutte, e una pastella fatta con 125 g di farina, 1 dl di vino bianco frizzante e freddissimo, 1 tuorlo d’uovo. Immergete le foglie di salvia nella pastella e buttatele in olio bol-

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lente extravergine (questa volta saporito: tosco, umbro o laziale). Si servono calde su carta gialla dopo una spolveratina di sale. Fagioli

Così, semplicemente fagioli e in un modo solo: bolliti. Bollire, anzi sobbollire i fagioli è un’arte raffinata tutta toscana. Vanno messi in una pentola (meglio se di coccio) coperti da due dita d’acqua fredda, con una ciocca di salvia e un po’ d’olio. Devono cuocere pianissimo e mai bollire, nemmeno tremare: ore, non minuti. Verso la fine si aggiunge il sale e si lasciano raffreddare nella loro acqua. Tutto questo per non far sentire la buccia. Si condiscono poi con solo olio d’oliva extravergine toscano. Magistrali con l’olio nuovo, quello ancor verde di novembre. I fagioli secchi si lasciano prima ammollare una notte nell’acqua. forse i fagioli più buoni in assoluto, saporiti ed eterei, sono quelli di Sorana, nei pressi di Pescia (PT). Cari e difficili da trovare, sono meravigliosi da Cecco a Pescia, celebre per asparagi, bistecche e pollo al mattone. Uno dei ristoranti più veri e di carattere d’Italia.  VARIANTE bolliti con un po’ d’olio e bottarga di muggine tritata finissima. e e e DA BERE Chianti «Sonnino» (vedi p. 17) o il Montecarlo rosso della Fattoria del Buonamico (LU).  CONSIGLIO

Zucca al caramello

4 etti di zucca, 2 uova, 4 dl di latte e 250 g di zucchero. Una volta cotta la zucca in acqua bollente, si scola e si fa asciugare in forno. Poi si sbuccia, si tolgono i semi e si passa al passaverdura col disco medio. Si fa bollire il latte con lo zucchero e 1/2 stecca di cannella a cui si aggiungono le uova sbattute e la zucca. Si prepara un caramello (vedi p. 29) per rivestire uno stampo da budino, che si riempie col composto di zucca. Si fa cuocere a 160°C in forno a bagnomaria per circa un’ora. e e e DA BERE un ottimo Moscato d’Asti (ultima annata), profumato e

ricco di dolcezze, come quello prodotto da Saracco (AT).

Ricette parlate: al telefono, discusse, perdute e ritrovate

Esiste una cucina veloce e parlata. Il che non vuol dire insipida o astratta, ma piuttosto essenziale. Fatta di domande e risposte, che tende a piatti base, con spiegazioni rapide e sintetiche. Capita di fornire consigli, o vere e proprie ricette, in corsa, rivolgendosi ad ascoltatori1 tra i più vari: dall’adolescente che va di fretta, alla suocera soave, ma ferma nel volere un imprimatur che varia la «vostra» ricetta, alla merenda improvvisa della bimba, o all’amico competitivo che vi vuole saggiare e provocare. O anche a voi stessi, che ripescate nella memoria tra sapori ricordati e sapori inventati, alla ricerca della testimonianza di qualche piatto ridotto a puro nome, crisalide sonora di cui s’ignora la sostanza. La cucina al telefono è così. Vi ghermisce improvvisa, traguardata tra un incrocio, un batticuore e una castroneria gastronomica. È una cucina chat, modernissima e impossibile, straparlata, interrotta. Banalissima, ma dove nulla è scontato. In cui chi chiede aiuto per lo più va preso per mano con calma, pazienza e precisione; ma necessita di un ricettario a singulti, che comunque costringe a una sintesi implacabile. Chi sa dare ricette al telefono a un adolescente in motorino con cellulare incastrato tra orecchio e casco, deve elargire lucidamente dosi, tempi, fuochi (alti o bassi). Ma anche glosse che s’allargano improvvise a spiegare financo gli attrezzi («la schiumarola?... È il mestolo?»). Chi 1. In altri tempi si sarebbe dovuto dire target con un termine brutto ma senza dubbio «comunicazionale».

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sa tranquillizzare la suocera sulle vongole che non sono da aprire nell’acqua bollente – così come chi è capace di tenere a bada un’amica napoletana sul fatto che il polpo no, non va randellato prima di sbatterlo in tegame –, beh, per farlo, spiegare o dibattere una ricetta al telefono, deve avere le idee chiare: perché provando ad aiutare le persone, bisogna prendersi anche le proprie responsabilità. E perché poi, magari, il polpo esce (direbbero a Napoli) granitico, la vongola moscia e l’amatriciana senza nerbo. Si va a memoria e ne va della vostra fama: con parenti e amici o comunque con tutti quelli che compongono la ristretta, ma vorticosa sfera dei «conoscenti».

Piatti base: per l’inquieta adolescenza e per chi va in Erasmus2 «Babbo?». «Sì...». «Quanta amatriciana ci va nella cipolla... no... volevo dire: ci vuole la cipolla? L’aglio lo metto alla fine?». «No, no... aspetta, l’aglio non c’entra nulla... ma perché, dove mangi stasera?». «A casa... Volevo cucinare io... c’è una tipa». «...». «Con l’amatriciana non si sbaglia mai... C...». Sinistro stridore di freni. Eccola l’amatriciana al telefono (incidente permettendo). Ricetta che vorrei definire fondamentale per tutti i tardoadolescenti 2. Agli studenti universitari che, grazie al progetto Erasmus, frequentano un semestre presso un ateneo straniero, si offre un’occasione per multiformi nuove esperienze; in cui, spesso, non è contemplato lo studio.

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italiani: Nord, Centro e Sud, isole comprese3. L’amatriciana è un piatto totem (primo, secondo e terzo), un archetipo dorsale, che riempie ogni solitudine e governa le moltitudini, pasce, seduce. Fa rifulgere l’artefice di un’aureola eroica e ferina. Il «bamboccione» che la sa fare, diventa automaticamente un cavaliere in arme. Forse per questo, anche se le versioni più sublimi sono uscite da mani e cuori femminili, è una ricetta fondamentalmente maschile. I ventenni italiani in Erasmus non partano prima di averla bene a mente e a pratica. Con questa e con la carbonara, si va lontano e ovunque si diventa re, per una sera almeno. Come tutti i piatti-tipo che si rispettino, l’amatriciana è tiranna: qual è originale? Bisogna avere avuto un lontano cugino di Amatrice (sui gibbosi monti tra Lazio e Abruzzo) per solo accostarvisi? E: cipolla sì o cipolla no? Va inglobato lo sciolto pianto – il grasso – del guanciale? E via così in una tiritera infinita. Rassegnatevi, non sarà mai perfetta, perché ci saranno sempre (o quasi) un santone pronto a sfoderare il comandamento originario, la vestale dell’archetipo, l’interprete del verbo4. E allora ecco un’interpretazione, non telefonica, dell’amatriciana a fronte di chissà quant’altre. Amatriciana

1/2 kg di spaghetti o rigatoni (è un piatto totale, diamoci dentro). Anche se la tradizione prescriverebbe i bucatini, ma quelli, vispi e «schizzosi», vorrebbero poi che il commensale sia o lenzuolato o a torso nudo. Quindi: 200 g di guanciale tagliato in 4 fette e ridotto a corte listarelle; 1/2 cipolla rossa (o una piccola intera), 700 g di pomodori pelati, 100 g di pecorino romano. 3. Come diceva Guido Angeli, quello di «provare per credere». 4. Sembra ci siano 135 diverse ricette accreditate, per l’amatriciana: non occorre sapere altro.

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Tagliate in pezzi non troppo piccoli le strisce di guanciale (meglio se di bestia d’Abruzzo) e metteteli in una padella antiaderente di media larghezza a fuoco moderato. Manteneteli fintanto che non frittellino e si abbrunino (non troppo) rilasciando il grasso, evitando così, se potete, di aggiungere olio. Che, nel caso, va aggiunto in proporzione minima. Intanto in una pentola, nei pelati, con un’aggiunta di 1/2 cucchiaio d’olio e una punta di peperoncino rosso sbriciolato, sobbolle piano, ma a lungo, la cipolla in un sol tocco. Quando il pomodoro comincia a ritirarsi e la pasta (attenti al sale, anche se il guanciale di solito non è irsuto, ma il pecorino romano sì) s’avvicina al dente, ci versate la padellata intera del guanciale. Si condisce con abbondante pecorino romano, badando che non risulti troppo secca. Per questo è bene non scolarla troppo e tenere un po’ dell’acqua di cottura per eventuali aggiunte, facendo però attenzione che non risulti un condimento slavato. c’è chi non ci mette la cipolla, chi butta via il melodioso grasso sciolto del guanciale, chi usa il parmigiano (e farlo, in parte, non è sbagliato) al posto del più rustico pecorino. Chi, insomma, la ingentilisce al punto di dissanguarla (e allora che si chiami «ciana»). Molti optano per un guanciale tagliato a piccoli dadini e alcuni la rinfrescano, adoperando un sugo di pomodori crudi maturi preparato e cotto, comunque assai, all’istante. Si può anche fare un trito di cipolla da soffriggere piano con un po’ d’olio. e e e DA BERE il già citato Shiraz Casale del Giglio, 2005.  VARIANTI

La gricia

Altro non è che un’amatriciana senza pomodoro e cipolla, ma con più olio. Definirla variante è comodo, ma ingiusto. Infatti la «gricia» sembra essere la progenitrice dell’amatriciana. Solo che nella selva dello jus primogeniturae gastronomico ci si perde: quindi sorvoliamo. Basti dire che è magistrale e poco diffusa oltre i confini capitolini. Apparentemente semplice deve ga-

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rantire, alla fine, un equilibrio di scivolosa consistenza, lubrificata dall’olio, frenata dal pecorino, esaltata dal guanciale. e e e DA BERE Marino «Colle Picchioni Selezione Oro» 2006 (RM), il

vino che ha saputo rilanciare i Castelli Romani.

L’altro caposaldo, anch’esso frutto d’innumerevoli «a modo mio», è la carbonara. Non facile, non viene quasi mai uguale e spesso, non si sa perché, quella della volta prima era «meglio». Al telefono poi è quasi impossibile. Carbonara

Sempre per 4 persone (e sempre, poco elegantemente, 1/2 chilo di pasta): 2 uova intere sbattute in una scodella grande da portata, pecorino romano grattugiato, un po’ di sale e una macinata di pepe. Fate soffriggere in padella con l’olio il guanciale a pezzi, a fuoco moderato, come per l’amatriciana; una volta ben dorato, sgocciolatelo e tenetelo da parte. Nella terrina dove avete sbattuto le uova aggiungete il pecorino e il pepe. Nel frattempo fate cuocere la pasta al dente, scolatela e rovesciatela caldissima nella terrina, aggiungete il grasso del guanciale, anch’esso molto caldo, poi il guanciale a pezzetti e girate prontamente. Il segreto consiste nella rapidità con cui si distribuisce il condimento e nel calore degli ingredienti, in modo che l’uovo si rapprenda. L’uovo non deve conservare la consistenza e il gusto del crudo.  TRUCCO conviene aggiungere parte del pecorino alla fine, rapidamente ma un po’ alla volta, per dosare il grado di secchezza, che non deve mai eccedere.  VARIANTE la carbonera. A Roma vi farebbero «li morti...» o quasi, però è assai buona la carbonara classica con l’aggiunta non ortodossa di un soffritto lento (cotto lungamente a fuoco dolce) di cipolla in un po’ d’olio dove, a metà cottura, ci va il guanciale. È questa la versione che ne dà Ada Boni nel suo classico Talismano della felicità.

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e e e DA BERE anche alla carbonara si addice il Marino «Colle Picchio-

ni Selezione Oro» 2006. Carbonara con gamberi

I puristi possono storcere il naso. È vero, va di moda; sa di cucina «furba» e ammiccante a chissà quali raffinatezze, però l’ho assaggiata fatta dallo chef veneto Andrea Miron e l’ho trovata buonissima. A 400 g di linguine condite con la carbonara classica (ma va da sé: niente pecorino, né pepe), aggiungerete 400 g di gamberi sgusciati e puliti, che avrete fatto cuocere meno d’un minuto, col guanciale. Mentre la pasta bolle, frullate nel mixer i gusci con le teste dei gamberi e cuoceteli con un po’ di burro e 1 bicchiere di bianco secco. Fate ridurre di 3/4 e aggiungete il fumetto così ottenuto alla pasta scolata. Questa carbonara deve restare un po’ «lenta». e e e DA BERE Soave Inama (VR), Vigneto du Lot, nell’ultima annata

disponibile, avvolgente e profumato.

«Va beh! Ho capito... va beh, uso quella pancetta già preparata a dadini nelle confezioni di plastica... No! Non venire, che sei scemo?...». Sta andando così: male. Vuole fare anche qualche antipasto «strano» con i cocktail. Ormai è puro, temerario, controllo a distanza: voi siete la torre di Airport e telecomandate a voce l’avvocato prestante (vostro figlio), che con la cloche (padelle, fornelli...) tra le mani tenta l’atterraggio di fortuna. Dio abbi pietà di noi5. «Dalle dei tarallucci (sono lì, nel sacchetto vicino al pane) con un po’ di vino bianco». «No! faccio un Mojito!». 5. Cioè dell’olio, del tegame, del fuoco, del bollore, delle lame affilate, della cucina, della casa...

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No! Il Mojito no!... È ormai un atterraggio senza carrello in una landa buia. «Ti manca il lime, ti manca il...». «Ma c’è il limone, il rhum bianco...». Sì, ma che ci fa? Gli manca soprattutto l’herba buena, la menta piperita... Lasciasse perdere... ci vorrebbe lo zucchero di canna... anche se... Perché non prende il prosecco, due pere e la ricotta? «No! Voglio partire forte!». Vuole partire forte, lui. «Faccio un Margarita, con la tequila...». «Ma ci vuole il Cointreau o il Triple sec...». Così s’inanellano raccomandazioni e rilanci della cucina verbale, una cucina che ci sfugge, deborda e tracima. Una cucina ormai liquida6. Allora cerchiamo di fissarla e, un po’, di riaddensarla nella pratica. Un antipasto facile, che fa un certo effetto, è quello suggerito: Crema di formaggio con le pere

Sempre per quattro persone: 4 pere Abate mature ma non troppo, 150 g di ricotta di mucca o di pecora e 80 g di gorgonzola dolce, 1 cucchiaio di latte. Mischiate in una ciotola con un cucchiaio di legno latte, ricotta e gorgonzola fino a ottenere un composto omogeneo; servitelo, a temperatura ambiente, in un piatto insieme agli spicchi di pera. e e e DA BERE un buon Prosecco di Valdobbiadene come il Brut «San-

ta Eurosia» (TV).

Un altro antipasto facile, e telefonico, sono le aringhe alla livona. 6. Liquida come tutto ormai (la musica, i rapporti sociali, l’informazione ecc.) secondo la nota formula di Zygmunt Bauman.

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Aringhe alla livona

Fate macerare per almeno mezza giornata, meglio di più, 300 g di aringhe affumicate dorate in circa 1/2 litro di latte. Sgocciolatele, asciugatele e tagliatele a dadini. Tagliate sempre a dadini una mela renetta sbucciata e due patate gialle lessate. Un po’ d’olio, aceto leggero e prezzemolo. e e e DA BERE sempre Prosecco di Valdobbiadene (vedi sopra).

Ma quei cocktail ricordati al telefono, e oggi di gran moda, non vanno dimenticati. Mojito

Un bicchiere alto e spesso, un cucchiaino colmo di zucchero bruno (va bene anche bianco), innumerevoli foglie di menta piperita, spicchi di lime. Pestate attentamente il tutto nel bicchiere con un pestello di legno: lo zucchero buca la menta, che s’infila nel lime, che si spreme... e via così. Versate 4 dita di rhum bianco e 3 scarse di soda, o acqua minerale gasatissima, cubetti di ghiaccio e «sovesciate» delicatamente. Al Floridita dell’Avana, Hemingway ci nuotava nei Mojito, certo ben più ricchi di profumi tropicali rispetto ai nostri. A Cuba, la versione locale prevede acqua non frizzante, ma liscia. Margarita

A base della «temibile» tequila vuole, oltre a questo succo d’agave messicano da utilizzare nella misura di 2/3, Cointreau o Triple sec (1/3). Poi 1/2 lime spremuto. Aggiungere abbondante ghiaccio tritato grossolanamente e far gelare lo shaker, muovendolo con vigore. Variando le dosi si può prepararne un caraffone – a patto di servirlo poi subito. Come si sa, il ghiaccio tritato si scioglie più facilmente e l’acqua inquina lo spirito.

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se non avete il tritaghiaccio, mettete i cubetti in uno straccio e batteteli su una superficie dura.  TRUCCO

Il Margarita va versato in speciali bicchieri: flute che si allargano a coppa, simili a quelle bellissime da champagne d’un tempo. Mentre il Mojito è estivo, il Margarita è preferibilmente invernale. Della stessa famiglia centroamericana, in disparte e un po’ dimenticato, sta il Daiquiri. Daiquiri

Semplice, essenziale, classico: 1 cucchiaio di zucchero sciolto in acqua calda, 1/2 lime spremuto, meglio evitare il limone, e Ron Blanco. Si serve nel medesimo bicchiere del Martini, dopo averne disegnato il bordo, precedentemente imperlato di lime, con dello zucchero, sempre de cana.

Suocera mon amour «Quelle acciughine, ti ricordi? Come si fanno?» sibila insinuante la migliore delle suocere, cioè quella del tipo che con la cucina ha un rapporto distante. Decisamente meglio che sia così, altrimenti non permetterebbe mai che voi ci mettiate piede, in cucina, e sarebbe un peccato. Dunque, proprio perché si affida a voi, non va assolutamente delusa. «Quelle crude, cioè cotte nel limone, non le mangio più. Sono tornato a quelle classiche. Quelle olio e prezzemolo». Di solito, comunque, la suocera è esigente: cambia spesso idea e ha tutta una serie di parametri dietetici, di gusto, di esigenze sue personali, a cui dovrete sottostare. Acciughe classiche

4 etti di acciughe sotto sale. Se ne tolgono testa e lische, aprendole a libro, poi si passano sotto l’acqua corrente e si asciugano.

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Si tritano finissimi 2 spicchi d’aglio, che si mettono in una pirofila con 10 cucchiaiate d’olio, prezzemolo, un po’ di peperoncino e le acciughe. Si mescola delicatamente su un fuoco debole e si lascia riposare qualche minuto. Si servono con pane tostato. e e e DA BERE Chardonnay «Lowengang», 2005 o 2006 (ma questi vi-

ni hanno un ottimo potenziale d’invecchiamento), di Alois Lageder (BZ). Acciughe bianche

4 etti di acciughe fresche. Si puliscono, diliscandole e togliendo le teste. Si asciugano, si salano e si coprono col succo di circa 3 limoni in un piatto fondo, lasciandole riposare per circa 3 ore. Si scolano e si dispongono in un piatto lungo da portata, condendole con sale, olio e 2 limoni spremuti. Si aggiunge prezzemolo tritato e un po’ di peperoncino. Si fa riposare per 1/2 ora.  VARIANTE si può usare 1/2 bicchiere di aceto bianco gentile al posto del limone per marinare. Adatte le acciughe piccole. Quelle di Monterosso, nelle Cinque Terre, sono fra le migliori. e e e DA BERE lo stesso Chardonnay.

Poi c’è il caso dell’errore grossolano, macroscopico. Perché se non sa cucinare, non sa cucinare sul serio: «le vongole per la pasta invece si sbollentano prima...» persevera un’eterea, soffusa, madre di vostra moglie. Ma di fronte a una suocera soave, messaggera di dolcezza e pazienza con tutta la famiglia, che fare? Già, gli spaghetti alle vongole, altro italico archetipo in cui sappiamo ancora riconoscerci, come la Nazionale di calcio, indeclinabile ad altre longitudini e latitudini, che non siano le nostre. Piatto davvero inesportabile, che fuori dai nostri confini non può attecchire.

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Spaghetti alle vongole

Prima simpatizzavo per le veraci, gonfie e opulente. Ora, chissà perché, mi paiono pompate, come i culturisti con gli anabolizzanti. Perciò, a quelle palestrate, preferisco le più tapine travet delle sabbie e se possibile di acque piuttosto fonde (per esempio quelle siciliane) o quelle che a Roma chiamano lupini. 1,2 kg di vongole. Un’ora in acqua fredda salata, poi «spazzolatura». Mettete a vivo fuoco le vongole in una padella coperta, dopo poco scuotete energicamente una o due volte la padella afferrandola per il manico per far aprire tutti gusci. Levate l’acqua che è uscita, filtratela con un panno sottile e mettetela in una tazza. Togliete le vongole dai gusci e lasciatele a parte; fate un soffritto, a fuoco dolce, con olio e aglio tagliato fino e, se si vuole, peperoncino. Quando l’aglio è quasi sfatto – senza mai farlo annerire – aggiungete le vongole con la loro acqua, portate quasi a bollore il condimento e versatevi dentro 4 etti di spaghetti davvero al dente. Mescolate per meno d’un minuto in padella sul fuoco vivo e poi prezzemolo tritato. La pasta deve in pratica finire di cuocere nella padella assorbendo il condimento, ma restando più che umida, mantecata. filtrate sempre attraverso un panno l’acqua delle vongole; controllate che non vi sia la vongola «sòla» riempita di limo nero; riducete o eliminate il sale, lasciando sciogliere nel soffritto una o due acciughe sott’olio di quelle che si comprano in barattoli di vetro. C’è chi lascia anche i «cocci» delle vongole negli spaghetti, chi ci aggiunge una sparuta quantità di pomodoro fresco e pelato, sbollentandolo per poco in acqua calda, per rendere la pasta rosé. Una buona idea è arricchirla con qualche gambero sgusciato e unito negli ultimi 30 secondi di cottura. Ma diventa un mezzo scoglio.  TRUCCO SEGRETO pestate o passate le teste dei gamberi e, con poca acqua, fatene un brodino ristretto da far tirare, all’ultimo, dagli spaghetti che cuociono in padella. e e e DA BERE un meraviglioso Sauvignon «Vulcaia Fumé» d’Inama  TRUCCO

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(VR) nell’annata in cui lo trovate: anche questo vino bianco tollera un lungo invecchiamento.

In italiano si chiamano cannolicchi, ma il nome «coltellacci» è quello giusto, che definisce la cosa. Sono quei mitili lunghi con due gusci stretti e rettangolari che di solito stanno nella sabbia. Ogni tanto spezzandosi, s’infilavano, a mo’ di lame affilate, nella pianta dei piedi del bagnante immergente. Si pescavano, in vista d’un piccolo soffione sul fondo, infilzandoli con un ferro sottile. Si trovano ancora talvolta in Versilia e in pochi altri fondi renosi, ma per lo più provengono dalla Spagna. Dolci e saporiti, con gli spaghetti son squisiti. Spaghetti coi coltellacci

Procedete come per la ricetta delle vongole, ma dopo averli spurgati a lungo in acqua salata (i coltellacci sono pieni di sabbia), aperti (sempre in padella) e sgusciati, tagliateli fini perché altrimenti risulterebbero un po’ callosi. Aggiungete al soffritto 2 o 3 pomodori freschi senza buccia. Tenuto conto che i coltellacci rilasciano meno acqua delle vongole, aiutatevi con un po’ dell’acqua di cottura degli spaghetti. Prezzemolo e pepe bianco per completare la preparazione. e e e DA BERE il cremoso Pinot Bianco di Toros, 2006, prodotto a

Cormons (GO).

E sempre lei, la suocera, potrebbe predisporvi, cioè interrogarvi anche sulle ricette adatte ai nipoti, che detestano lische e tentacoli, ma il pesce «gli» fa tanto bene. Vi chiede, cioè, un secondo di pesce, ma non quello arrosto con le scaglie, né bollito o tantomeno i tentacolari totani in zimino, perché, appunto, venerdì ha i due nipotini per pranzo. Quale ricetta? Un pesce finto o mascherato, come la terrina di mare.

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Terrina di mare

Prendete 300 g di filetti di branzino, 200 g di filetti di salmone, 300 g di tranci di pescatrice, 1 albume, 1 pomodoro maturo. Tagliate a listarelle i filetti di branzino e di salmone. Togliete le lische alla pescatrice e fatene dei pezzetti che frullerete con poco sale, pepe e l’albume. Imburrate una terrina da forno e mettete sul fondo il salmone, poi fate uno strato col composto di pescatrice e un terzo col branzino fino a esaurimento. Fate cuocere a bagnomaria nel forno a 180°C per poco meno di un’ora. Intanto avrete fatto una salsina col pomodoro sbucciato e sminuzzato, un po’ di erba cipollina, aneto e prezzemolo, che metterete sulla terrina lasciata un po’ intiepidire. Potete servirla con delle patate lesse. per rafforzare il piatto, fate rosolare le lische della pescatrice ed eventualmente quel che resta degli altri pesci sfilettati (anche le teste) in padella, con un po’ di burro e 1/2 cipolla bianca tritata. Appena sgrillettano, togliete le teste, aggiungete 1 bicchiere d’acqua e 1/2 bicchiere di vino bianco, con un mazzetto aromatico di prezzemolo, carota, poco sedano e una foglia d’alloro. Fate bollire finché non si riduce parecchio e filtrate. Si tratta, insomma, d’un fondo di pesce (o fumetto, vedi p. 199) che passerete da un colino e potrete aggiungere alla terrina, prima di metterla in forno. e e e DA BERE un bianco immediato e armonioso come il Soave 2005 di Inama (VR).  CONSIGLIO

Fantasmi Succede di andare indietro, di voler riagganciare alcune ricette un po’ desuete e dimenticate: per una esigenza di recupero epifanico, cioè per ricordarsi di vecchi sapori. Preso da un raptus improvviso, quasi da gravida attesa, pur conoscendo le compromesse condizioni d’una nonna «allettata» e lontana, non esitai a

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chiamarla al telefono. Ne fu felice, ma i convenevoli affettuosi durarono poco. Trovai il coraggio, giocando sui pedali dell’ipocrisia sentimentale, d’andare al dunque e le chiesi la prelibata ricetta d’una fantesca che era invecchiata alla sua ombra. Non voglio pensare che la faticosa descrizione abbia contribuito a minare le sue già deboli forze. Fatto sta che poco dopo (ore, non giorni) avermi dettato al telefono la ricetta degli spaghetti al cognac, spirò. Spaghetti al cognac

A fuoco dolce mescolare 150 g di burro sciolto con mezzo bicchiere di cognac, 4 gocce di tabasco e 10 gocce di Worcester Sauce. Aggiungere un piccolo peperoncino e un cucchiaino di panna liquida, quindi un altro bicchierino di cognac facendo sfumare. Unire 350 g di ragù alla bolognese (vedi p. 206). Cuocere 400 g di spaghetti, scolarli al dente e mantecare con burro e parmigiano grattato. c’è chi fa sempre sfumare prima gli spiriti, il vino, il brandy ecc. lasciandoli bollire in modo che la parte acidula si volatilizzi con l’alcool. È un mezzo per ammorbidire i sapori, ma anche per metter loro la sordina. Dipende da voi, dall’ora e dal momento. e e e DA BERE il Nobile di Montepulciano «Vigna Asinone» (2004) prodotto da Poliziano (SI): solido, ricco, profumato, capace di tener testa al sapore impetuoso di questo piatto. Oppure un grande Cabernet toscano, come il «Mormoreto» (2005) dei Frescobaldi (FI).  CONSIGLIO

Dunque le ricette possono servire per ricordare e per ritrovare i fantasmi. E forse i fantasmi si presentano nel teatro della mente prima di tutto palesandosi attraverso un nome. Mitonate, rifrullava costantemente questo nome, nei momenti più vari della giornata. E più il suono cadeva in picchiata, più il significato s’allontanava. Mitonate? Chi sono costoro? Poi un senso e un volto. Deliziose cotolettine impanate, servite da un

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sussiegoso cameriere piemontese, nella mezz’ombra d’una grande sala da pranzo in un vasto terzo piano di corso Vittorio Emanuele a Torino. Recuperare la ricetta non è stato facile, ma tramite ricerche e un prefisso telefonico (più numero) d’Alessandria, una voce perduta, d’altro capo del filo, ha faticosamente sospirato la formula. Non era il cuoco, bensì il vecchio cameriere che era andato in pensione senza essere diventato maggiordomo. Mitonate

In piemontese «mitonare» vuol dire sobbollire. Nella ricetta si capisce. Da 600 g di vitello ricavati dal «bicchiere» o da un altro taglio di forma regolare ma che si mantenga tenero alla cottura, fatevi tagliare dal macellaio una decina di fettine. Battetele leggermente, immergetele in 2 o 3 uova sbattute, sollevatele e passatele poi da entrambe le parti nel pangrattato. Premetele fra le mani in modo che il pangrattato aderisca bene e friggetele in olio d’oliva, appena imbiondite mettetele su carta gialla o carta bianca da cucina in rotoloni e salatele un poco. Riempite una pirofila capiente con due dita di brodo vegetale (vedi p. 200) e brodo di carne (manzo più pollo). Metteteci le cotolette, qualche grano di pepe nero e bacche di ginepro. Infilate le mitonate nel forno ben caldo e fate in modo che il brodo si rapprenda alquanto. Fuori dal forno, aspettate 5 minuti e servitele. e e e DA BERE ci vuole un vino austero ma non troppo, come la Bar-

bera d’Alba «La Lena» di Valter Bera (CN), 2006. Il 2006 è stata un’annata eccellente per Dolcetto e Barbera.

Si possono servire con dei carciofi piani, anche se il carciofo come il cioccolato è acerrimo nemico del vino. Pazienza, alternerete con l’acqua.

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Carciofi piani

È semplicissimo. Pulite alla morte 6 carciofi e di volta in volta poneteli nell’acqua acidulata col limone. Poi con 3 cucchiaiate d’olio metteteli nella pentola a pressione aperta, ognuno diviso in quattro spicchi. Fate soffriggere per circa 5 minuti, aggiungete 2 bicchieri d’acqua e chiudete la pentola dopo aver messo una presa di sale. Al sibilo, abbassate il fuoco al minimo e fate cuocere per circa 5 minuti. Devono restare col proprio sugo abbondante a cui si aggiunge qualche goccia di limone. Talvolta senz’aglio si riscoprono i sapori. Quello del carciofo in particolare. e e e DA BERE forse – il carciofo è una brutta bestia, si sa, per il vino –

un bianco secco deciso come il Sauvignon «Lehen» di Alois Lageder, vigneto Maso Lehenhof (BZ) del 2005. Lageder, lo abbiamo già incontrato, produce alcuni dei bianchi più appassionanti d’Italia.

C’era una nonna, la capostipite di un enorme matriarcato, una signora di grande intelligenza e cultura che (tolto il fatto assai grave che avesse bandito aglio e cipolla da ogni sua ricetta) riusciva a trasmettere nella sua cucina quell’intelligenza e quella cultura, oltre ad uno sconfinato amore. Faceva dei pomodori col riso memorabili e irripetibili: il marito amava un po’ il bruciato, li cuoceva senza il coperchio del pomodoro, così il riso si abbrustoliva per bene. Dunque: è stato calcolato che abbia preparato per 1500 volte lo stesso dolce: ogni compleanno, onomastico, anniversario di ogni suo pronipote, nipote, figlia, figlio o cognato, preparava lo stesso dolce: il pasticcio di gnocchi. Il dolce è rimasto lì insieme alla memoria di questa donna, il fantasma di una ricetta a vagare nei ricordi e nei sapori di tre generazioni. Bene, la ricetta della signora Valletti, in memoriam, e trafugata dal suo quaderno di ricette:

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Il pasticcio di gnocchi

Si tratta di una torta di pasta frolla, che andrà distribuita per metà sul fondo della tortiera imburrata riempita di una crema molto densa e poi ricoperta con l’altra metà della pasta, una specie di pie. La ricetta per la crema è: «1 litro di latte, 4 uova, 160 g di farina, 160 g di zucchero, scorza di limone grattata. Si battono le uova, poi si mescolano la farina e lo zucchero e piano si mischiano alle uova. Man mano che s’infittisce si aggiunge il latte e si mette tutto a bollire, girando sempre. Quando si stacca bene dalla pentola si mette a freddare su di un piatto bagnato. Per l’esterno vedi la pasta frolla». Alla voce pasta frolla scrive: «250 g di farina, 125 g di strutto o burro, 110 g di zucchero, 1 uovo intero e 1 tuorlo, 1 cucchiaino di marsala, 1 presina di sale, scorza di limone. Lavorarla poco e lasciarla riposare». sempre dal quaderno della signora Valletti, ne viene citata una variante, di misure, detta «della Marchesa» (e chi lo sa chi fosse questa marchesa esperta di impasti dolci?): «Farina 100 g, zucchero 50 g, burro 50 gr, 1 rosso d’uovo». E c’è da immaginarsi che venga fuori una cosa completamente diversa. e e e DA BERE un vino dolce. Il Marsala è un ideale richiamo, ma quello buono è secco, come il Florio «Baglio Oro». Va bene anche tutt’altro: Barolo Chinato di Cappellano (CN).  VARIANTE

Ti ho cucinato per allergia Sempre per razzolare in quel magnifico mondo dei ricordi, delle ricette raccontate e delle storie di famiglia: in occasione del Premio Viareggio, erano giunti a casa nostra una famosa scrittrice e altri amici, che componevano la giuria. Regnava l’estate, ma si riusciva a mangiare al fresco, in un ampio interrato. Per questo, spesso gli amici venivano durante l’affocato gior-

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no. Solo che la visita fu improvvisa e la risposta altrettanto obbligata: spaghetti al pomodoro a cui aggiungere, fortunatamente, qualche filetto di triglia. Quando Natalia Ginzburg si vide arrivare una fumante pasta col pesce, gettò un grido di sconforto: «Non posso mangiarla!» decretò timida e decisa. Pensammo alle triglie, a inderogabili precetti vegetariani, che travolgevano perfino il pesce. E invece no. Era allergica al pomodoro. Mio padre fu lesto a sottrarle il piatto e riportarlo in cucina. Tenendo gli spaghetti a mani nude come Perseo la medusa o Totò i maccheroni, mise la chioma di grano duro sotto l’acqua. Una volta sbiancata, la servì ancora umida. Dopo il primo boccone, sbocciò uno sguardo di profonda riconoscenza: «Non ho mai mangiato spaghetti così buoni!» disse la Ginzburg. Qualcuno, partecipe, chiese la ricetta, che non fu mai data: certi piatti son inconfessabili, restano segreti del cuoco, anche se portano un nome. Quelli furono battezzati «gli spaghetti desnudi»; un piatto unico, nel senso che venne fatto una sola volta e mai ripetuto. Piatto complesso, come tutti i minimalismi che si rispettino. Per ripeterlo dovreste, infatti, fare un ragù di triglie, cuocere gli spaghetti e finirli (anche se è improprio) nel sugo, mantecarli e una volta conditi, unti, grondanti, metterli sotto l’acqua per ridurli a nudo, come vermi svestiti e vergognosi. Dovreste anche procurarvi chi è allergico al pesce o al pomodoro... Spaghetti con le triglie

Prima di tutto, occhio alla triglia: triglia di scoglio o triglia di fango? Detto così non ci son dubbi: triglie di scoglio, perché a quella di fango, che per altro molto spesso è buonissima, può succeder ciò che di solito capita ai muggini di canale: aver dei saporacci. Non così per lo scoglio. Ma come riconoscere la dif-

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ferenza tra i due tipi? La triglia di scoglio ha una fronte con un andamento dolcemente curvo; quella di fango vien giù più dritta, quasi camusa. Se non vi aiuta la fisiognomica, controllate la prima pinna dorsale: il ventaglio della membrana reca strisce gialle e bianche nella triglia di scoglio, è trasparente in quella di fango. Prendete dunque circa 8 etti di triglie medie di scoglio e con molta delicatezza togliete loro le scaglie (o fatelo fare al pescivendolo). In una padella, fate rosolare 3 cucchiaiate d’olio d’oliva toscano con 2 spicchi d’aglio schiacciati e 1/2 cipolla tritata. Unite 1 peperoncino sbriciolato e un trito di basilico e prezzemolo, sfumate con 1 dl di vino bianco. Quando l’aglio comincia a imbiondirsi, aggiungete 5 etti di pomodori freschi maturi sbollentati e spellati, privati dei semi e tagliati a dadini. Fate tirare mediamente la salsa a fuoco medio per una quindicina di minuti e salate. Mettete con molta attenzione le triglie nella padella ricoprendole col sugo di pomodoro, evitando di rigirarle. Abbassate il fuoco e fate andare per una decina di minuti scarsa, scuotendo la padella perché non si attacchino. Sfilettate le triglie, riunitele al sugo e a 400 g di spaghetti al dente. la mitologia della triglia è vastissima e veritiera. È un pesce talmente delicato che non si può congelare con buoni risultati, si conserva per brevissimo tempo, va manipolato con molta cura perché incline a rompersi, è buono in mille modi fuorché lesso. E infine, i devoti non la sventrano, considerandola «la beccaccia del mare». Il segreto principale consiste nel toccarla il meno possibile, traendola gentilmente per la coda e, una volta posata, non toccarla più. Invece di sfilettare le triglie dopo cotte, fatevele preparare dal pescivendolo, avendo cura di portarvi a casa lische e teste, con cui fare un fumetto (vedi p. 199) da aggiungere al pomodoro. e e e DA BERE Etna Bianco «Pietramarina» Benanti (CT) 1998. Guardate l’anno: sì, questi bianchi come i grandi francesi reggono la prova  TRUCCHI

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del tempo. Forse troppa opulenza per una mozartiana triglia? No, questo Etna è minerale, ma senza eccessi, né arzigogoli: un siciliano fiero e rigoroso.

Si tratta in fondo di preparare delle triglie alla livornese, lasciandole in una salsa più lunga. Simile a questo classico piatto, ma più delicato e gentile, la ricetta di Gualtiero Marchesi7 che necessita di sensibile bilancia. Filetti di triglia in guazzetto, con pomodoro e basilico

«Farsi sfilettare delle triglie di scoglio per ottenere 600 grammi netti di filetti. Scottare in acqua bollente dei pomodori da salsa, pelarli, strizzarli leggermente per eliminare l’acqua di vegetazione e i semi: ne servono 260 netti. Tagliare a cubetti 60 grammi di questa polpa, passare il resto. In una ciotola riunire il pomodoro a cubetti e quello passato, aggiungere 8 foglie di basilico tritato, 4 centilitri di olio extravergine d’oliva, 4 centilitri d’acqua, sale. Imburrare un tegame da forno, mettere 5 grammi di scalogno tritato, sistemare i filetti di triglia salati, aggiungere 4 spicchi d’aglio e coprire con la salsa appena preparata. Mettere nel forno e far cuocere a 220°C per 6-7 minuti. Disporre il pesce nei piatti caldi, cospargerlo di salsa e dare una manciata di pepe bianco». e e e DA BERE un Soave Classico Superiore di Leonildo Pieropan (VR)

nelle sue annate più recenti.

È decisamente meno mediterranea, ma tiene in conto certa sacralità della triglia, l’interpretazione che ne dà il grande cuoco svizzero Frédy Girardet. 7. G. Marchesi, La mia nuova grande cucina italiana, Rizzoli, Milano 1980.

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Filetti di triglia di scoglio alla crema di rosmarino

«Squamate le triglie di scoglio (ne vanno prese 4 da 150-200 grammi l’una) e levatene i filetti. Potete domandare al vostro pescivendolo di farlo, ma sorvegliate che vi dia anche il fegato e le frattaglie di cui avete bisogno [...] Tritate finemente il fegato delle triglie, pelate e tritate 2 scalogni medi. Prima di tutto preparate un fumetto: in una casseruola fate sciogliere 30 grammi di burro, aggiungete le teste e le lische delle triglie, a pezzi, e fatele rosolare uno o due minuti, schiacciandole con una spatola. Unite il trito di scalogno, mescolate, lasciate soffriggere 2 minuti, poi unite il rametto di rosmarino, spezzato in 4 pezzi, e bagnate con un dl di vino bianco e un dl d’acqua. Fate cuocere a fuoco dolce, per 5 minuti. Filtrate il fumetto attraverso un passino a trama sottile. Rimettetelo nella casseruola, su fuoco vivace, e fate ridurre della metà. Riscaldate il fumetto ristretto, unitevi 2,5 dl di panna liquida e continuate la cottura finché la salsa veli leggermente il dorso di un cucchiaio. Ritirate la casseruola dal fuoco e incorporate alla salsa, con la frusta, i 20 g di burro rimasti. Unite il fegato tritato delle triglie, condite con sale, pepe e un filino di succo di limone. Tenete da parte al caldo. Fate scaldare 2 padelle antiaderenti. Versate 1 cucchiaio d’olio in ciascuna di esse e distribuitevi i filetti di triglia, con la parte rossa verso il fondo. Salate e pepate. Rivoltate i filetti dopo 1/2 minuto e lasciate cuocere ancora 30 secondi. Togliete dal fuoco. Coprite il fondo dei piatti caldi con la salsa, anch’essa molto calda. Posatevi sopra i filetti e guarnite con un ramoscello di rosmarino. Servite immediatamente»8. e e e DA BERE Pigato Riviera Ligure di Ponente 2006 di Laura Asche-

ro (IM): piena macchia mediterranea.

8. F. Girardet, La cucina creativa, Arcana, Milano 1987.

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Dibattere sul battere «E tu battilo, ribattilo finché puoi!». «Ma non ce n’è bisogno. Magari provo a spellarlo». «Battilo, battilo...». Quello da battere allo stremo è il polpo secondo il diktat di un’amica napoletana. In effetti, la questione del polpo esacerba non poco il dibattito nella cucina italiana. E il paese, come per ben più ponderosi contesti, risulta diviso in due: tra filobattitori e antibattitori. Il polpo o «pulpitiello», nella sua versione più solare, gentile e musicale, non ha bisogno di battitura. Basta saperlo scegliere. Ecco cosa dice in proposito Zenone Benini: «Il polpo di scoglio porta due file di ventose su ogni tentacolo. È buono tutto l’anno, purché non superi il mezzo chilo di peso. Occorre fare attenzione e non confondere questa pregevole bestia con la coriacea ‘polpessa’, che porta sì anch’essa due file di ventose sui tentacoli, ma ha questi peraltro smisuratamente lunghi. Una ‘polpessa’ di 500 grammi, per esempio, ha i tentacoli lunghi fino a un metro!»9. Insomma ci vuole il polpo di scoglio a due ventose e non quello di sabbia «monoventoso». Pulpitielli in tegame

Prendete circa 8 etti di polpi e metteteli in una pentola dove ha iniziato a soffriggere, in 3 cucchiaiate di olio, 1 cipolletta, 1 gambo di sedano, 1 carota piccola, 4 pomodori maturi spelati. Una presa di sale e zucchero, peperoncino a scelta. A fuoco dolcissimo (usate, nel caso, una retina), coprite e sul coperchio ponete un peso. Fate cuocere almeno un’ora e lasciate intiepidire il tutto nel brodetto formato coi sughi delle verdure e gli umori del polpo. I polpi «usciranno» morbidi e profumati: «avrete 9. Z. Benini, La cucina di casa mia, Il Vantaggio, Firenze 1999 (19581). Vedi anche n. 7 a p. 28 di questo volume.

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la sorpresa di vedere che il polpo [...] è diventato come una specie di grosso crisantemo rossastro, tenerissimo, galleggiante in un brodo squisito, che la munifica bestia ha generosamente elargito»10. nel soffritto, che come sempre deve andare lentissimamente, si può aggiungere una foglia d’alloro e si può usare, con tempi di cottura diversi, anche la pentola a pressione. Questi polpi sono molto buoni da soli, ma anche come sugo per gli spaghetti, che in tal caso scolerete molto al dente per finirli nello stesso tegame. e e e DA BERE è un piatto del Mediterraneo pieno, ci vuole un bianco generoso, marino e legante: il già citato Ischia Biancolella «Tenuta Frassitelli» Casa D’Ambra (ultima annata), agrumi e albicocche d’isola.  CONSIGLIO

I polpi rimandano alle seppie, le seppie ai calamari (loro cugini), questi ultimi ai sublimi moscardini (polpi bonsai buoni dalla metà d’agosto a metà dicembre): e tutti compongono il romanzo dei Cefalopodi: molluschi «coronati di tentacoli», in genere appellati totani. Il segreto per saper scegliere nella numerosa famiglia dei totani è sostanzialmente uno: non prendeteli mai troppo grossi. Meglio le seppiette delle seppione, i calamaretti dei calamaroni che dovrebbero sempre essere di «penna», dotati d’una specie di stecca cartilaginea. Una classica, antica ricetta toscana è quella dei totani (seppie, polpi o calamari) in zimino. Totani in zimino11

Circa 1 kg di totani giovani, puliti. Fate un battuto di cipolla bianca mediana e uno spicchio d’aglio con 5 cucchiaiate d’olio, a fuoco basso. Aggiungete poi i totani e alzate il fuoco. Diventeranno rosa, cacciando fuori tutta la loro acqua che deve asciugare quasi totalmente. A questo punto, buttateci 1 bicchiere di 10. Così dice Ada Boni nel suo Talismano della felicità, Colombo Editore, Roma 1973 (19291), ancor oggi perfetto nel suo ecumenismo culinario.

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vino bianco e fatelo sfumare. Via via, aggiungete acqua o ancor meglio brodo di pesce (vedi p. 209) e poi 3 pomodori maturi sbucciati e tritati o qualche pelato. Quando i totani son quasi alla fine e il pomodoro s’è in parte ristretto, metteteci 3 palle di bietole lessate strizzate fra le mani e tagliate, ancor verdastre (e non molto cotte). I totani devono rimanere piuttosto «liquidi» nel loro sughetto. potete farli anche in bianco senza pomodoro e aggiungere un tocco di basso mediterraneo mettendoci un po’ di uva passa, prima lievemente ammollata nell’acqua tiepida. Al posto del vino bianco, si può usare 1/2 bicchiere di cognac, che farete «flambare» dandogli fuoco con un fiammifero. Un’ottima idea, per questo piatto unico totale, è accompagnare ai totani un risotto (vedi ricetta base, p. 19) con l’accorgimento di far cuocere la cipolla nell’olio e di usare brodo di pesce. Un’ulteriore variante può essere costituita dalle patate – 3 se di media grandezza, tagliate a dadi non grossi – al posto della bietola. In questo caso vanno aggiunte nel pomodoro appena questo comincia a insaporirsi in modo da non prolungare troppo la cottura. È bene ricordare che i molluschi, se cuociono davvero troppo, si induriscono e diventano gommosi. e e e DA BERE potete abbinare un rosé classico, di struttura, come il Salento Rosso «Five Roses» di Leone De Castris (LE) 2006, o l’ultimo anno dell’ottimo «Saltagrilli», rosé dei Frescobaldi (FI).  VARIANTI

Dibattere per dibattere, va da sé che in cucina si possa discutere praticamente di tutto, non solo del polpo o della «cipolla sì, cipolla no» nell’amatriciana. Spaghetti, linguine, spaghettini, vermicelli o spaghettoni: quali i più adatti a uno specifico piatto? Con le vongole, vermicelli? o linguine? Aglio e olio, spaghettini? Alla fine ognuno faccia come gli pare, ma per carità 11. Zimino deriva dall’arabo samin («grasso»), che ha la stessa radice del verbo samana («ungere una pietanza con burro fuso»). Il Novo Dizionario Universale della lingua italiana del Petrocchi (Milano 1887-1891) così lo descrive: «salsa per piatti di magro, a base d’aglio, cipolla, pomodoro, vino bianco e erbe aromatiche».

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col pomodoro e basilico la giusta misura è negli spaghetti: lì è tutto un equilibrio, difficilissimo equilibrio, a cominciare dei maccheroni, appunto (che a Napoli si chiamano così). E per dare un’idea di quanto possa essere diverso e speciale ogni semplice piatto di spaghetti al pomodoro e basilico, ne citiamo quattro differenti, storiche ricette: Spaghetti al pomodoro e basilico Pellegrino Artusi: «Per grammi 300 di maccheroni lunghi, che

sono sufficienti per tre persone, mettete a soffriggere in un tegame o in una cazzaruola due grosse fette di cipolla con grammi 30 di burro e due cucchiaiate d’olio. Quando la cipolla, che bollendo naturalmente si sfalda, sarà ben rosolata, strizzatela col mestolo e gettatela via. In quell’unto a bollore versate grammi 500 di pomodori e un buon pizzico di basilico tritato all’ingrosso; condite con sale e pepe, ma i pomodori preparateli avanti perché vanno sbucciati, tagliati a pezzi e nettati dai semi più che si può, non facendo difetto se ve ne restano. Col sugo condensato, con grammi 50 di burro crudo e parmigiano, condite i maccheroni e mandateli in tavola, che saranno aggraditi specialmente da chi nel sugo di pomodoro ci nuoterebbe dentro». Ada Boni: «1 chilo di pomodori da sugo, basilico, un quarto di

litro di crema di latte, 100 grammi di burro, sale. Lavate, sminuzzate le foglie di basilico e mettetele a rosolare in un largo tegame con il burro per una decina di minuti. Aggiungete i pomodori lavati, spellati e tagliati in pezzi, salate e lasciate cuocere per altri dieci minuti. Versate nel tegame la crema di latte, fate addensare e insaporire per qualche minuto ancora». Come dire: puro meneghinismo. Nino Bergese: «Sbollentare 1 chilo di pomodori maturi, striz-

zarli per togliere acqua e semi. Tagliarli e saltarli a fuoco vivo in padella per circa 5 minuti in 3 cucchiaiate d’olio e qualche fo-

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glia di basilico con un po’ di sale». Il monumentale minimalismo dei grandi. Anonimo: «1 kg di pomodori spellati, 1/2 cipolla rossa tritata fi-

ne fatta appassire in 4 cucchiaiate d’olio; una carota in 3 pezzi e un tocchetto di sedano. Far cuocere gli odori una decina di minuti, poi mettere i pomodori. Poco sale e mezzo cucchiaino di zucchero. Far sfumare il liquido e, verso la fine, aggiungere 2 foglie di basilico». e e e DA BERE in ogni caso un Chianti Classico come il Badia a Colti-

buono (SI) 2005, fruttato e morbido.

Altro dibattito magniloquente, dopo la battitura del polpo e il sugo al pomodoro e basilico, è quello sull’uovo alla coque, o uovo barzotto. Ma, di suo, molto più colto e «alto», con code letterarie. Per cominciare: Maestro Martino, famoso cuoco comasco del Quattrocento, l’ha definito fin d’allora meglio di tutti: «Ova tuffate con la sua cortece»12. A cui risponde, a distanza di secoli, con minor essenzialità, ma più consapevolezza filosofica, Aldo Buzzi nel suo L’uovo alla kok, a tutt’oggi il più bel libro d’oltrecucina: «Il radicchio, se non è il radiceto (radicchietto) di Trieste, deve essere tagliato finissimo, con un’arte speciale che lo trasforma in una soffice, aromatica nuvola verde. Il radicchio tagliato vuole l’uovo sodo, che al ristorante spesso è duro come un sasso e viene servito già sbucciato, magari con qualche impronta digitale sulla porcellana del bianco [...] Col radicchio tagliato è indispensabile l’uovo bazzotto (o barzotto), col rosso molle e il bianco appena rappreso. Mischiandolo all’insalata l’uovo sembra quasi scomparire, ma il radicchio ne risulta incre12. L’opera di Maestro Martino Libro de arte coquinaria composto per lo egregio Maestro Martino coquo olim del reverendissimo monsignor camerlengo et patriarcha de aquileia è pubblicata in Arte della cucina. Libri di ricette, testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini dal XIV al XIX secolo, a cura di E. Faccioli, Edizioni Il Polifilo, Milano 1966.

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dibilmente addolcito e più digeribile. Come ha detto qualcuno: ‘mangiare è umano, digerire è divino’»13. Uovo barzotto

L’uovo di suo non dev’essere freddo, va poi calato dolcemente con un cucchiaio e senza farlo ammaccare in un pentolino in cui l’acqua bolle. Da qui contate 5 minuti, poi mettetelo sotto l’acqua fredda e sgusciatelo. Da solo l’uovo barzotto non serve a molto, è però in grado di fare di un’insalata un piatto memorabile, come insegna Buzzi. 13. A. Buzzi, L’uovo alla kok, Adelphi, Milano 1979.

Meravigliose catastrofi

Dalle sconfitte e dagli errori, forse anche dalle catastrofi, c’è sempre da imparare, proverbialmente. Anche in cucina. Ecco dunque alcune esemplari e personali débâcles intime e pubbliche, che dovrebbero servire a incoraggiare e a osare. Comincio dalla prima, che non è la peggiore, perché la posta era alta. I ravioli. Col senno di poi, sui ravioli non si poteva nutrire alcuna speranza. Il fallimento era dunque annunciato o annusato: l’ardimento di provare a tirare la sfoglia significava da sé già un bel passo, anzi qualcosa di più. Ed era solo la premessa al successivo scoglio: costruzione della forma-raviolo, delicata e ardita. Farsi la pasta in casa, comunque, rappresenta il passaggio d’un confine psicologico. Tutta la pasta secca1 ce la compriamo già fatta e oggi esistono eccellenti paste all’uovo o sfoglia o fillo già preparate. Le nostre bisnonne molto difficilmente le abbiamo conosciute e osservate all’opera, tanto che questa preparazione base, frutto e simbolo d’un mondo passato, ci sembra sempre più lontana ed estranea. Quasi impossibile. E invece è lì, dietro l’angolo. Ma le spiegazioni sono sempre troppo poche o incomplete, quasi orfiche: «Fatto l’impasto, tiratelo in due sfoglie molto sottili». Impasto, tirare: un sostantivo e un verbo gravidi di 1. Siamo sempre stati i primi, in questo campo, ma oggi la pasta italiana vanta molteplici casi d’eccellenza e un paese interamente a essa dedicato. Andate a Gragnano, in Campania, in via Roma, dove Franceschiello scendeva dalla carrozza e si fermava nelle botteghe a odorare i maccheroni che stavano seccando. La pasta di Gragnano è commercializzata e le buone pizzicherie ve la fanno trovare. Provate quella del piccolo, ma grande, Pastificio Afeltra (spaghetti, mezzemaniche, rigatoni, trofiette): indimenticabile, anche per un italico allevato a grano duro.

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minacciose conseguenze. Prima di tutto l’impasto va lavorato a lungo, la farina setacciata assai (ai nostri giorni il setaccio s’è perso di vista) e tirare una sfoglia col matterello esige concentrazione, spazio, tempo. Se non hai la tavolona di legno, almeno un bel tavolo di marmo infarinato ci vuole. Comunque, nel mio caso, lo spazio era poco, la tiratura estemporanea e il risultato fu una pasta troppo grossa. L’ansia dell’inconnu fece il resto. Ma avevo rotto il ghiaccio e dopo, invece della tavola, mi sono comprato la macchinetta con i rulli. Ci si può fare tutto, dalle sfoglie alle tagliatelle, in meno tempo; la pasta è fresca, buona e la differenza la noteranno solo un veterano del secolo scorso o qualche meraviglioso esemplare d’una razza sempre più rara: quelle (il rito della pasta fresca ammette, per lo più, mani femminili) che stanno in cucina delle ore, esercitando la propria maestosa regalità domestica capace di regalare irripetibili frutti.

Ci vorrebbe un’amica Dai libri, forse nemmeno da questi, s’impara del tutto a fare la pasta fresca all’uovo. Forse, per potere semplicemente incominciare ci vorrebbe un’amica, qualcuno da osservare, a cui domandare senza ritegno. Accostarsi silenti alle mosse e alla sapienza. Quindi il primo consiglio è trovare chi sappia fare la sfoglia e che vi mostri come fa. Il secondo è quello di avviarsi a questa bonaria lezione teoricamente preparati e di leggersi prima la ricette base. La pasta fresca all’uovo: impastare, «tirare», tagliare, cuocere Impastare: 300 g di farina «00», 3 uova intere. Dosi abbondan-

ti, perché la pasta fresca si conserva in frigorifero per 2 giorni e volendo si può surgelare. Versate sulla tavola da cucina la farina «a fontana», cioè a forma di vulcanetto: un cono con un cra-

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tere in mezzo. Nel cratere mettete tuorli e albumi e cominciate a impastare piano, facendo attenzione che l’uovo non fuoriesca dalla farina. Lavorate il composto con energia, riavvolgendolo e schiacciandolo con i pugni. Quando sarà una palla liscia e soda, con qualche buchetto in superficie (ci vogliono circa 20 minuti), copritela e lasciatela riposare un’altra ventina di minuti. Tirare a mano: infarinate appena la spianatoia e il matterello, al-

largate l’impasto e cominciate a far scorrere il matterello prima in un senso poi nell’altro. Girate spesso la sfoglia per procedere in modo omogeneo e formare un disco largo. Quando sarà sottile e di spessore omogeneo, copritela con un panno per una decina di minuti. l’amica che v’insegna dovrebbe essere emiliana e avanti negli anni. In questo caso, l’emiliana vi aumenterà senz’altro la quantità di uovo: un uovo intero più un tuorlo per ogni 100 g di farina. Un cucchiaino d’olio aiuta a tirar meglio la sfoglia.

 CONSIGLIO

Tirare a macchina: lavorate l’impasto un po’ meno di quanto è

necessario col metodo classico. Dopo avere infarinato la palla di pasta, la si taglia a pezzi. Si mette il primo pezzo nella macchina a rulli, impostata alla misura più ampia, poi si ripiega la striscia, si infarina e si ripassa nella macchina alla stessa misura. Si procede sempre così, passando la sfoglia almeno 2 volte alla stessa misura, facendo attenzione a ripiegare in tre parti su stesso il rettangolo di pasta, passandolo sempre dal lato più corto. Se le strisce diventano troppo lunghe, si possono tagliare trasversalmente. Tagliare a mano: per tagliare la pasta a mano, arrotolatela deli-

catamente senza stringere troppo e affettatela con un coltello a lama larga. I tagliolini dovranno essere molto sottili, le fettuccine di 1/2 cm, le tagliatelle di circa 1 cm. Per i ravioli si fanno invece due sfoglie rettangolari della stessa misura e si procede al

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taglio dopo aver messo l’impasto tra due sfoglie, spennellando con poca acqua quella inferiore e pressando con le dita intorno al ripieno. Si taglia con uno stampino. Con lo stesso stampino potete segnare, incidendola appena, la sfoglia disegnando così tondi o quadratini al cui centro mettere l’impasto, usando un cucchiaino, o una tasca da pasticceria a bocca liscia. Tagliare a macchina: è più semplice perché la macchina è pre-

disposta per alcuni formati. Impostata la misura, s’inserisce la sfoglia e si raccoglie all’uscita tagliata, facendone poi dei mucchietti. Si lasciano seccare un po’ prima di cuocerli. Cuocere: acqua salata in abbondanza, almeno 8 volte il peso del-

la pasta (per 3 etti, circa 2 litri e 1/2); e forte ebollizione, a eccezione della pasta ripiena. La pasta fresca ha tempi di cottura assi più brevi di quella secca, anche se «il dente» in questo caso è generalmente più soffice. Un cucchiaio d’olio nel bollore impedisce alla pasta – che dovrà essere rimestata subito col forchettone – d’attaccarsi. A proposito di pasta fatta in casa e di ravioli, provo a darvi questa ricetta d’un famoso cuoco italiano, Luigi Carnacina, tratta da un suo libro2 scritto con Veronelli oltre quarant’anni fa, quando si presumeva giustamente che con la pasta all’uovo si intrattenesse la stessa familiarità che oggi sappiamo coltivare con gli spaghetti al pomodoro: Tortelloni con la ricotta

«Un impasto di 400 g di farina setacciata, 2 uova, 1 cucchiaio d’olio, un pizzico di sale e l’acqua necessaria (se si preferisce al posto dell’acqua si possono aggiungere altre 2 uova), 400 g di ricotta freschissima, 40 g di prezzemolo tritatissimo, 2 uova, 140 2. L. Carnacina - L. Veronelli, La cucina rustica regionale, Rizzoli, Milano 1966.

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g di burro, 150 g di parmigiano grattugiato. Sale, pepe e un pizzichino di noce moscata. Lavorare l’impasto, farlo riposare 1 ora e, col matterello, tirarlo in sfoglie. Tagliare le sfoglie in dischi di 8 cm di diametro. Mettere in una terrina la ricotta passata al setaccio, il prezzemolo e 50 g di parmigiano grattugiato, condire con sale, pepe e noce moscata e fare un composto bene amalgamato con le uova. Riempire, cuocere e condire i tortelloni come descritto per i Tortelli di zucca alla modenese». In pratica Carnacina consiglia un ragù con rigaglie di pollo, ma il burro fuso con la salvia basta e avanza. Il modo di chiudere i dischi di pasta con un po’ di composto è questo: «inumidirne la circonferenza con un po’ d’acqua, mettere il composto, appoggiare sopra un altro disco di pasta anch’esso inumidito e pressare. Far poi lessare i tortelli in acqua bollente salata». e e e DA BERE Chardonnay Cornell «Formigar» 2005 della Cantina

Produttori di Colterenzio (BZ).

I miei tortelli, invece, si sfecero: nessuno mi aveva detto che conviene sempre metterli nell’acqua prima che abbia spiccato il bollore. Ma anche l’impasto e la tiratura della pasta andrebbero provate diverse volte, prima di esporsi e soprattutto, appunto, ci vorrebbe un’amica. «Le lasagne», diceva il Tommaseo nel Nuovo Dizionario dei Sinonimi della Lingua Italiana (18301), «son larghe e sottili, irregolari, e si fanno in casa e alla fabbrica; ma sono ite in disuso nel senso proprio, nel traslato crescono in lungo e in largo». E di fatto, Parini, nel Giorno non si lasciava sfuggire l’occasione icastica: «Le cadenti lasagne avido ingoia». Eppure, già nel Dugento, Jacopone con grande spunto gastro-politico riportava: «Chi guarda a maggioranza spesse volte s’inganna / Granel di pepe vince per virtù la lasagna».

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Benché «Lasagne bolognese» rimanga uno dei piatti più presenti nei menù popolari fuori d’Italia, ho l’impressione che da noi la lasagna sia in lento declino, anche se non se lo merita. Lasagne alla bolognese

Per 6 persone. Da 500 g di pasta all’uovo stesa, ritagliare rettangoli di circa 7 cm di larghezza e 12 di lunghezza. Fate lessare le lasagne poche per volta in pentola larga e bassa in acqua salata; man mano che le scolate ponetele su uno strofinaccio disteso sul tavolo, in modo che si asciughino un po’ e si raffreddino, sì da poterle maneggiare. Disponete un primo strato in una pirofila imburrata e copritelo di sugo di carne – un ragù (vedi p. 206) ottenuto con 1/2 kg di pomodori pelati e, se troppo denso, allungato con un po’ d’acqua di cottura. Aggiungete qualche pezzo di burro e una spolverata di parmigiano grattato. Poi stendete un secondo strato di pasta, coprite con ragù e così via. Arrivati all’ultimo strato coprite completamente con una coltre di besciamella (vedi p. 201): ve ne servirà 1/2 litro. nella prima cottura, per evitare che le lasagne si attacchino, mettete un cucchiaio d’olio nell’acqua bollente.  VARIANTE le lasagne abruzzesi, più leggere, ammettono lo stesso procedimento ma si negano alla besciamella. In compenso si deve aggiungere una mozzarella fior di latte, tagliata a pezzetti e cosparsa rada sopra lo strato di sugo, insieme al parmigiano. e e e DA BERE Avvoltore (ultimo anno disponibile) di Moris Farms (GR), ottimo uvaggio di Maremma, basato su syrah, sangiovese e cabernet sauvignon. Della stessa fattoria, a prezzi più contenuti, il già citato Morellino di Scansano 2006.  TRUCCO

Le lasagne alla bolognese danno un senso di grande opulenza, forse troppa. Una lasagna tradizionale, ma più semplice e agile, è quella di Genova.

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Lasagne col pesto genovese

Da 1/2 kg circa di pasta fresca tirata a sfoglia ritagliare dei rettangoli di circa 7 cm di larghezza e 12 di lunghezza. Fateli lessare in una pentola larga e bassa in acqua salata. Scolateli e poneteli ad asciugare su uno strofinaccio. In una pirofila imburrata fatene uno strato su cui stendere alcune cucchiaiate di pesto (vedi pesto genovese, p. 208) allungato con un po’ d’acqua di cottura a cui aggiungere qualche pezzetto di burro e parmigiano grattugiato. Proseguite così a strati terminando con uno strato di pasta ricoperto di parmigiano e un filo di olio. lasagne col pesto e gamberi. Si può prevedere qualche cucchiaiata di besciamella (vedi p. 201) su ogni strato di lasagne, con l’aggiunta di code di gamberi sgusciati. In questo caso le lasagne vanno appena sbollentate, poste a strati con la besciamella e qualche gambero, quindi messe in forno a 160°C.  TRUCCO mettere i gamberi crudi sulle lasagne; con le loro teste preparare un fumetto (vedi p. 199) schiacciandole in padella con un po’ di burro, 1/2 scalogno tritato, alloro, rosmarino e vino bianco. Dopo 10 minuti circa, filtrate e aggiungete alla besciamella. e e e DA BERE il Pigato già citato di Laura Aschero, o il Vermentino, anch’esso citato, di Lambruschi. Entrambi liguri.  VARIANTI

Naturalmente, una volta entrati nel mondo della pasta all’uovo fatta in casa, è difficile uscirne indenni, anche in barba alla storia delle difficoltà e delle personali débâcles. Dalla base della sfoglia s’apre evidentemente una galassia: ravioli, lasagne, tagliatelle. Ravioli genovesi di magro

Da La vera cuciniera genovese3 di Emanuele Rossi (la ricetta sarebbe per 12 persone, qui si riducono le dosi per 4 persone). «Far bollire 3 cespi di scarola e 1 mazzo di borragine, spremer3. E. Rossi, La vera cuciniera genovese, Bietti, Milano 1933.

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li e metterli da parte. Far rosolare in casseruola con burro e sale 8 etti di cappone o meglio di rana pescatrice; poi togliere al pesce tutta la polpa facendo attenzione che non vi resti alcuna spina, e tritarla minutamente assieme alle verdure suddette, rendendo tutto come una pasta. Aggiungervi 3 uova ben sbattute, 100 g di ricotta, 40 di parmigiano grattugiato, una grattata di pepe e noce moscata. Rimestare bene e con forza (oppure usare il mixer): questo è il ripieno per i ravioli (il sale è dato anche dalle erbe lessate in acqua salata). Preparate la pasta e i ravioli come indicato nella ricetta precedente, usando 300 g di farina, 1 uovo, acqua tiepida e 1 cucchiaino d’olio. Il sugo per condirli viene fatto mettendo al fuoco (nelle stessa casseruola in cui ha rosolato li pesce e dove è rimasto un fondo di burro) teste, lische e ritagli, unendovi sedano, cipolla, prezzemolo e poco sale. Mescolare rapidamente, poi unire 300 g di pomodori spellati, leggermente strizzati, puliti dei semi e tritati; far soffriggere tutto, schiacciando con un cucchiaio di legno le teste e le lische per migliorarne la resa nel sugo; dopo 30 minuti circa, passare tutto a un passaverdura o a un setaccio. Rimettere questo sugo in altra casseruola, aggiungervi 20 g di burro e un cucchiaio di farina abbrustolita a secco in un tegame, con 20 g di pinoli abbrustoliti anch’essi e pestati nel mortaio. Far rosolare ancora per qualche minuto, poi condire i ravioli con questo sugo e il parmigiano grattugiato». i genovesi preparano la pasta all’uovo in modo tradizionale, ma usano meno uova rispetto alla stessa quantità di farina e aggiungono acqua. La pasta risulta più morbida. La sfoglia si tira nel modo classico, così come alla stessa maniera si preparano i ravioli, che però cuociono più presto. e e e DA BERE Rossese di Dolceacqua «Vigneto Morghe» di Giobatta Mandino Cane (vedi p. 43).  CONSIGLIO

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Taglierini nei fagioli

Ricetta apuana: il lardo è importante. 8 etti di fagioli borlotti secchi lasciati a bagno per una notte, 1 cotenna di maiale, 1 patata, poco peperoncino, 1 ciocca di salvia, 1 foglia d’alloro ed eventualmente, seguendo la tradizione locale, 1/2 verza tagliata a striscioline. Coprite con acqua e fate cuocere, a fuoco dolcissimo, per almeno 2 ore. A cottura ultimata, passate 2/3 dei fagioli e le verdure, tagliate la cotenna a pezzettini e unitela, insieme alla passata, ai fagioli interi nel loro liquido di cottura. Si ottiene un brodo denso a cui va aggiunto un soffritto preparato a parte con 1 cipolla, 1 carota, 1 gambo di sedano, 1 spicchio d’aglio, 80 g di lardo a pezzetti e 1 cucchiaio d’olio. Aggiustate il sale e riportate il tutto all’ebollizione. Versate quindi 400 g di taglierini freschi (tagliatelle lunghe e strette), agitandoli perché non si incollino; quando salgono a galla, aspettate 2-3 minuti e spegnete. Lasciate riposare una decina di minuti prima di servire. si dovrebbe usare il famoso lardo di Colonnata, di cui, comunque, ultimamente si abusa, perché ve lo propongono in ogni dove d’Italia. e e e DA BERE un vino del posto. Il Candia «Acinodorato», ultima annata, di Roberto Castagnini (MS). Un uvaggio a base di vermentino, con modeste parti di albarola e di trebbiano toscano.  CONSIGLIO

Tagliatelle al prosciutto

1/2 cipolla piccola tritata fatta appassire in una padellina con 70 g di burro a cui aggiungere dopo circa 10 minuti circa 50 g di grasso di prosciutto a quadratini. Quando è sciolto mettere un etto di prosciutto magro anch’esso tagliato a quadratini. Cuocere e scolare, ma non troppo, un po’ meno di 400 g di tagliatelle di pasta fresca, condirle col sugo e parmigiano grattato. e e e DA BERE Albana di Romagna Secco Celli (FO) «I Croppi», ulti-

ma annata, meno di moda delle versioni dolci, ma intenso e fruttato, degno delle leggendarie Albane d’un tempo.

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Monumentali pasticci «... quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto di argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito. Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo minaccioso del padrone di casa troncò subito queste manifestazioni indecorose. Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le filettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio». Era il Gattopardo. Impavido Principe di Salina che, a cavallo della sua virile malinconia, riusciva a non stupirsi più di niente. Noi, invece, ancora ci stupiamo dinnanzi a questo piatto del Regno delle Due Sicilie, che evoca sostanza materiale e immaginazione. Una specie di scrigno che non si vede l’ora di deflorare. Ma prima bisogna trovarlo, ovvero farlo. E, naturalmente, il primo tentativo, forse non solo quello, sarà per voi, come è stato per me, un mezzo fallimento. Ma non desistete: coraggiosi, verso un prossimo e trionfale successo. In fondo non esistono piatti difficili o, senza un po’ di passione-attenzione, lo sono tutti. Vedremo fra poco come si fallisce senza troppi com-

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plimenti anche dinnanzi a una stracciatella o una crème caramel; ma tanto vale, dovendo sbagliare, cominciare col farlo in tono grandioso, gattopardesco, appunto. Che poi vorrebbe dire: far finta di niente. Da La cucina napoletana4 di Jeanne Carola Francesconi: Timpano di maccheroni al ragù

«Per 8 persone, fare un ragù napoletano partendo da 1 kg di lacerto di maiale: mettere insieme alla carne, nella prima fase 250 g di salsicce (cervellatine), punzecchiarle e toglierle appena cotte (dopo circa 10 minuti). Mettere a bagno in acqua bollente 20 g di funghi, poi farli cuocere nella stessa acqua per circa 1 ora, finché diventano teneri; spezzettarli e rimetterli nel loro brodo. Fare delle polpettine grandi come nocciole con 200 g di carne, 1 uovo, 75 g di pane pesato asciutto poi bagnato in acqua o latte e strizzato, 30 g di parmigiano, un ciuffo di prezzemolo, sale e pepe. Far saltare per qualche minuto in un filo d’olio 1 fegatino e 1 cuore di pollo e spezzettarli. Mettere in una casseruola 50 g di pancetta affettata, farla fondere, unirvi 1/4 di cipolla sottilmente affettata; far rosolare a fuoco lento, poi unire 0,5 dl di vino bianco, lasciarlo evaporare e infine aggiungere 250 g di pisellini teneri. Dopo 10 minuti aggiungere anche i funghi con la loro acqua di cottura, qualche cucchiaiata di ragù denso, le salsicce tagliate a fettine, il fegatino e le polpettine. Far sobbollire tutto a fuoco lento per 10 minuti, poi lasciar raffreddare. Fare una pasta frolla (vedi p. 144) con 350 g di farina, 175 g di burro, 175 g di zucchero, 3 o 4 tuorli d’uovo, sale; lasciarla riposare per 1ora. Far rosolare nel burro con 1/5 di cipolla i petti di 1 piccione, bagnarli con 0,5 dl di vino bianco, poi, evaporato questo, con altrettanta acqua, salarli, peparli e, dopo 10 minuti di cottura, ta4. J.C. Francesconi, La cucina napoletana, Fausto Fiorentino, Napoli 1963.

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gliarli a listarelle. Tagliare a fettine 200 g di mozzarella o fior di latte. Tagliare a spicchi 2 uova sode. Stendere la pasta frolla e foderarne uno stampo liscio del diametro di 20 cm e alto 12 cm, unto di strutto (o imburrato). Lessare al dente 500 g di perciatelli (maccheroni), condirli con ragù e parmigiano, disporne uno strato sul fondo dello stampo; disporvi sopra metà del piccione, metà del sugo con rigaglie e polpettine, della mozzarella, delle uova sode; coprire di ragù e parmigiano; rifare l’operazione con un altro strato di maccheroni e dei ripieni; finire con uno strato di maccheroni e ricoprire con ragù e parmigiano. Stendere la parte di pasta frolla riservata per il coperchio, disporla sullo stampo, chiudere bene. Infornare a 200°C finché l’esterno del timballo non è dorato (circa 3/4 d’ora). Lasciare riposare per 10 minuti, poi sformare e servire». il tipico piatto da fare in gruppo, anche per darsi coraggio. Uno pensa al ragù, l’altro alle polpettine e ai maccheroni, un altro ancora alla pasta frolla. Il problema principe sta nel momento in cui il timpano deve uscire dallo stampo. Lì si vive in apnea. Oggi esistono stampi di silicone, non rigidi, che facilitano ogni tipo di sformato, anche se la pasta frolla deve essere perfetta. Musica: la Jupiter di Mozart per iniziare; il Concerto per pianoforte e orchestra di Schumann (nell’interpretazione di Dinu Lipatti); il primo tempo della Sinfonia di Cesar Franck, quando si sforma. e e e DA BERE durante e dopo, si beve e si stempera la tensione con il Lettere della Penisola Sorrentina, 2006, delle Cantine Grotta del Sole (NA).  CONSIGLIO

Ho contemplato questa ricetta qualche anno prima di ardire a realizzarla. Avevo tutti contro: esplicitamente o in silenzio. L’argomentazione più comune era «Chissà come lasci la cucina!» (se non imparate a ignorare questi interdetti, non avvicinatevi ai fornelli: lasciate fare agli altri). È duro partire per un sesto grado con la gente che scuote la testa: vi vedete già stesi sul ghiaio-

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ne... Ma non siete soli, qui ci vuole davvero un’agguerrita brigata. Questo framasson è una meravigliosa gigantesca brioche, che racchiude ogni ben di Dio, opera d’un famoso Monzù napoletano e riproposta da Santasilia di Torpino nel suo libro. Framasson di Monzù Terremoto

«Dosi per 10 persone: prima di tutto coraggio; poi, per la pasta di brioche, 600 g di farina, 50 g di lievito di birra, 5 uova intere, 150 g di burro, 2 cucchiaini di zucchero, sale. Per il riso: 300 g di riso tipo patna, 50 g di burro, 100 g di parmigiano grattugiato, sale. Per il ripieno: 1 kg di vongole, 1 kg di cozze, 200 g di gamberetti, 1 aragosta, 1 mazzetto odoroso, 1 cucchiaino di polvere di curry, 130 g di farina, 100 g di burro. Cuocere l’aragosta intera per 20 minuti gettandola in 3 litri d’acqua bollente. Farla raffreddare, riservare tutta la polpa. Tritare grossolanamente tutta la carcassa e le chele e rimetterle nell’acqua di cottura con il mazzetto odoroso. Sgusciare a crudo i gamberetti, togliere il budellino scuro sul dorso, e conservarli. Tritare grossolanamente gli involucri e le teste e aggiungerli alla carcassa e alle chele dell’aragosta. Saltare i gamberetti sgusciati in una padellina con un po’ di burro per qualche minuto e riservarli. Far sobbollire il liquido di cottura con i gusci di aragoste e gamberi per un paio d’ore, aggiungendo acqua se necessario. Filtrare bene con un panno e conservare il liquido. In una pentola coperta cuocere le vongole. Toglierle quando sono tutte aperte, sgusciarle e conservarle. Filtrare bene con un panno il liquido di cottura e conservarlo. Stessa operazione per le cozze. Mescolare insieme il brodo dei crostacei e i liquidi dei molluschi (devono risultare almeno 2 litri e 1/2 di liquido). Preparare la brioche nel modo che segue: sciogliere in una tazza grande il lievito con un po’ d’acqua appena tiepida. Mescolarci 100 g della farina fino a formare un panetto molto molle.

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Lasciarlo crescere coperto con una panno di lana per un’ora circa fino a quasi triplicarne il volume. Disporre a fontana la farina e versarci dentro il panetto lievitato, le uova intere, il sale e il burro preventivamente ammorbidito e lo zucchero. Lavorate il tutto a lungo con le mani e con un movimento di allungamento della pasta dal basso verso l’alto (la pasta deve filare), per poi sbatterla ripetutamente sul piano di lavoro cercando di racchiudere nella pasta stessa il più possibile aria. Ovviamente la pasta dovrà essere molto morbida e filante, il che si ottiene dosando opportunamente l’acqua da aggiungervi. Normalmente la lavorazione si aggirerà intorno ai 20-30 minuti, fino a che la pasta comincerà a staccarsi in un sol pezzo dal piano di lavoro. Farla riposare sotto un panno per circa due ore. Preparare il ripieno: in un tegamino fare sciogliere sul fuoco 100 g di burro, cui aggiungere un cucchiaio per volta la farina mescolando accuratamente, e la polvere di curry. Quando il burro avrà bene assorbito la farina, aggiungere poco alla volta, come per una besciamella, il brodo dei crostacei e dei molluschi, fino a ottenere una salsa liquida e vellutata. Versarvi dentro le cozze, le vongole, i gamberetti e la polpa di aragosta tagliata a piccoli pezzi. Fare sobbollire per un minuto e poi spegnere. Far raffreddare. Con il brodo rimasto e il burro, preparare un buon risotto adoperando tutto il riso, che deve rimanere piuttosto al dente. Imburrare uno stampo del diametro di 25 cm con bordi alti; stendere sul fondo uno strato uniforme di 5 mm di pasta di brioche (circa un terzo di tutta la pasta); pareggiarvi successivamente sopra il risotto per un’altezza di altri 2,5 cm, facendo in modo di lasciare lungo tutta la circonferenza una striscia di pasta brioche non ricoperta dal riso. Successivamente versare sopra il riso il ripieno di crostacei e besciamella per un’altezza di 3,5 cm lasciando sempre libera la striscia di pasta brioche della base. Ricoprire il tutto con il resto della pasta di brioche avendo cura di farla scendere sui lati fino a saldarla con la pasta di

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base. Cuocere in forno a 180°C fino a coloritura. Sfornare, farlo scivolare in un piatto di portata (riso sotto, ripieno sopra) e servirlo ben caldo».  CONSIGLIO il punto forse più dolente dei timballi o degli sformati è l’estrazione dallo stampo. La sformatura è molto facilitata se si usa uno stampo a cerniera, o se si foderano le pareti dello stampo con carta da forno oppure si usano (ma dovete trovare la forma adatta) contenitori, per cosi dire, morbidi, di silicone che resistono ad alte temperature. Ma, attenzione, acquistateli di marca, italiani, francesi o tedeschi. e e e DA BERE un monumento degno del piatto. Forse il più sontuoso tra i vini bianchi: il Corton-Charlemagne, Bonneau du Martray (1993), Grand Cru di Borgogna: una grazia opulenta di spezie e miele.

Non particolarmente complicata, ma fondata sull’impasto, è la pizza alla Campofranco. Pizza alla Campofranco

È un tipico piatto della grande cucina domestica napoletana, che può far da antipasto o anche da primo. Per 6 persone: 500 g di farina, 25 g di lievito di birra, 130 g di strutto o burro, 4 uova, 1 cucchiaino di zucchero, 400 g di mozzarella, 600 g di pomodori pelati, olio extravergine di oliva, 1 cipolla, un ciuffo di basilico, 80 g di formaggio grana grattugiato, sale, pepe. Sbriciolate il lievito in una ciotola, aggiungete 1/2 bicchiere di acqua tiepida, mescolate con un pizzico di zucchero e 100 g di farina; fate lievitare per un’ora. Mettete in una terrina la farina e lo zucchero residui, poco sale, le uova sbattute, lo strutto o il burro ammorbidito, 2 cucchiai di grana, il panetto di pasta lievitata, impastate e fate lievitare per 1/2 ora. Lavorate l’impasto sulla spianatoia fino a renderlo sodo ed elastico, stendetelo in una teglia rotonda unta di olio di circa 28 cm di diametro. Coprite con un panno e lasciate lievitare per 2 ore. Intanto avrete messo a sgocciolare la mozzarella tagliata a dadini in un colapasta. Fate rosolare la cipolla ta-

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gliata sottile in 1 cucchiaio di olio, aggiungete i pelati, un pizzico di sale e una macinata di pepe. Fate cuocere per un quarto d’ora. In ultimo aggiungete le foglie di basilico spezzettate. Infornate la pizza a 170°C per 35 minuti. Sfornatela, tagliatela rapidamente a metà trasversalmente e cospargetevi la metà della salsa di pomodoro con metà della mozzarella e grana. Ricoprite con l’altra metà della pizza, disponetevi sopra gli ingredienti restanti e infornate nuovamente a forno caldo a 230°C per 10 minuti. È ottima calda, ma anche il giorno dopo fa la sua figura. e e e DA BERE sempre un vino allegro della penisola Sorrentina: il Gragnano 2006 delle Cantine Grotta del Sole (NA).

Per concludere con un diminuendo, due dolci di pesche. Entrambi abbastanza facili. Ma si può scivolare anche qui, andando a occhio con le dosi, almeno le prime volte. Pesche ripiene

4 pesche gialle mature, che vanno sbollentate, sbucciate, tagliate a metà e private dei noccioli. In una scodella si impastano 100 g di amaretti sbriciolati, 30 g di cacao in polvere, qualche mandorla tritata, 20 g di zucchero e la polpa schiacciata di 1/2 pesca. Se il composto risultasse troppo asciutto, diluitelo con un pochino di vino Moscato. Si distribuisce quest’impasto in ogni incavo di pesca (volendo si può scavare un po’ per dare più capienza) e sopra ci si mette un fiocco di burro. Si pongono le pesche ripiene in una pirofila da forno imburrata, si bagnano con due cucchiai di Moscato, si spolverizzano leggermente con lo zucchero e si fanno cuocere a 160°C per circa 1/2 ora. e e e DA BERE Brachetto d’Acqui «Pineto», 2006, di Marenco (AL): uno spumante rosso e amabile, che sa di rosa.

Oppure, in alternativa:

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Sorbetto di pesche bianche

Spelare e tagliare 750 g di pesche bianche mature, passarle nel passaverdura a rondella fine o nel mixer; aggiungere il succo di 2 limoni. Preparare uno sciroppo di zucchero con 3,5 dl d’acqua e 250 g di zucchero. Fare sciogliere piano lo zucchero nell’acqua, mantenendo umide le pareti del pentolino. Appena lo zucchero è sciolto, si alza la fiamma e, ai primi bollori, con un mestolino forato si schiuma. Si spegne e si fa raffreddare, per unirlo poi alle pesche. S’incorpora infine nella passata 1/2 albume d’uovo montato a neve; il tutto messo in una zuppiera si fa rassodare nel freezer, smuovendolo di tanto in tanto, fino a portarlo al primo gelo. lo sciroppo di zucchero deve cuocere su una fiamma che non tocchi i bordi del pentolino.

 CONSIGLIO

Microtracolli Fallire su un timballo, un framasson, sui primi ravioli è comprensibile: sui risotti no. Lo è ancor meno per piatti che la vulgata dà per semplici. È possibile franare su una stracciatella, sbagliare una pasta col pesce, rendere irriconoscibili le care, amichevoli uova al pomodoro d’un tempo, strasalare delle banali melanzane impanate? Sì, è possibile. Come è facilmente dato di vedere una crème caramel pallida e afasica, che non sa prender corpo. Sono i microtracolli. I più insidiosi. Quelli che minano la sicurezza e vi fanno tornare coi piedi per terra da quei due metri, non sopra il cielo, ma appena sopra la cantina in cui vi eravate illusi di essere giunti. Ecco il catalogo dei miei più imbarazzanti errori dai quali, più che da tutto il resto, ho talvolta imparato a cucinare.

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Stracciatella

In 1 litro di brodo di carne (meglio se di gallina) ben sgrassato a bollore, versate 4 uova sbattute con 40 g di parmigiano grattugiato, un po’ di sale, noce moscata e pepe. Sbattete vigorosamente con la frusta, fino a che non riprende il bollore. Non fate come me, non spegnete il fuoco appena buttato l’uovo, perché così l’albume non si rapprende col risultato d’un tuorlo sfilacciato che galleggia in una sfera trasparente dentro il brodo.  CONSIGLIO

e e e DA BERE

non ci sta male un po’ di limone spremuto. il Tocai Friulano (ultima annata) Le Vigne di Zamò

(UD).

Il rischio, nel prossimo piatto, è di fare un sughetto così politicamente corretto (con dei bei pesci, gli spaghetti al dente, un buon profumo) da saper poi di poco e dover rimediare con peperoncino in abbondanza per non beccarvi il solito «delicati, delicati». Spaghetti al sugo di pesce

Attenzione al pesce che si usa. Non scegliete per il sugo né per i fumetti spigole, ombrine, orate. Fatevi sfilettare cernie, scorfani, tracine, anche rombi. Tenete teste e lische e chiedetene qualcuna d’avanzo al vostro pescivendolo. Preparate un fumetto con 40 g di burro, uno scalogno tritato, le teste schiacciate con le lische dei pesci, alloro, timo e rosmarino. Fate appassire lo scalogno e aggiungete 1/2 bicchiere di vino bianco. In una padella capace, aggiungete a un soffritto finissimo di 1 spicchio d’aglio (deve cuocere molto dolcemente) in 4 cucchiai d’olio, un’ acciuga sott’olio e 1/4 di vino bianco. Ad aglio sfatto, è il momento di 2 pomodori maturi non grandi, spellati, e un po’ di fumetto che versate attraverso un colino. Fate ritirare in parte e unite 1/2 kg di cernia e scorfano a dadini; se avete la triglia aggiunge-

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tela dopo un minuto. Ancora un minuto e spegnete. Scolate nella padella 400 g di spaghetti cotti a tre quarti e finiteli nel sugo da arricchire con un po’ di fumetto. A fuoco spento rinverdire con prezzemolo tritato. Sul fondo deve restare un po’ di sugo. Se volete, metteteci 1/2 peperoncino tritato. se avete ancora un po’ di fumetto allungatelo con un po’ di vino e acqua, premete teste e lische sul colino per spremere ben bene il pesce. Ricavatene 4 tazze di brodo su cui strizzate del limone. Se avete lessato a parte due patate, potete aggiungerle e farle dissolvere dentro. È un ottimo antipasto caldo. e e e DA BERE ancora il Tocai Friulano Le Vigne di Zamò (vedi p. 172).  CONSIGLIO

Oggi sembrano un po’ in disuso, eppure sono un gran piatto. Recentemente, in un giorno da single, le ho riprovate, ma qualcosa non è andato: erano addirittura acquose, il sugo troppo lento non si legava con i tuorli quasi crudi, le bucce dei pomodori stonavano ancor più. Invece conviene far così: Uova al pomodoro

In un tegame da forno, preparare una salsa di pomodori spellati (700 g) con basilico, olio e 1 spicchio d’aglio, che risulti mediamente densa (vedi p. 202). Unire 4 uova e mettere in forno a 220°C per 4-5 minuti. Salare l’albume alla fine. dato che la cottura delle uova dentro il forno presenta non pochi rischi – il tuorlo tende a cuocere troppo, l’albume a vetrificarsi – potete cuocere le uova nella salsa di pomodoro direttamente sul fuoco. Si aprono le uova nella salsa ben calda, poi si abbassa subito il fuoco al minimo e si copre. Quando dopo pochi minuti l’albume si è rappreso ma il tuorlo è ancora morbidissimo, le uova sono pronte. Una leggera macinata di pepe non guasta. e e e DA BERE Bardolino Chiaretto «Vigne Alte», ultima annata, dei Fratelli Zeni (VR).  VARIANTE

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Altro microdramma: o troppo acquose o con l’albume sperso. Ma chi ve lo dice come si fanno davvero le uova in camicia? Non basta mica: «buttatele nell’acqua bollente e quando il bianco è rappreso ritiratele». Dopo il fallimento, grazie a sagaci consigli, ho trovato la chiave. Uova in camicia

In 1 litro d’acqua salata e 2 cucchiai di aceto forte, fate scivolare velocemente un uovo intero e abbassate un poco la fiamma. Con una schiumarola, avvicinate l’albume al tuorlo; contate 3 minuti e con la stessa schiumarola mettetele su un piatto freddo nel forno caldo semiaperto. Vanno fatte una per volta. Sono squisite sopra gli asparagi lessi, cosparse di burro fuso e parmigiano. Si possono mettere anche su crostini di pane fritti con un po’ di burro d’acciuga (vedi p. 96). e e e DA BERE come per le uova al pomodoro, l’abbinamento è con il

Bardolino Chiaretto «Vigne Alte», 2005.

Nutrendo grande incertezza nell’affrontare i dolci, faccio molta attenzione, mi comporto da farmacista e seguo la letteratura. Però ho pochissima dimestichezza e non raddrizzo quasi mai la barca che comincia a sbandare. L’amato latte portoghese o crème caramel, preparato con canonica dedizione, franò sul bagnomaria, perché flutti capricciosi «rovinarono ogni bene», come dice il Benini da cui ricavo la ricetta e gli accorgimenti, rapportando le dosi per 4 persone. Crème caramel

«Lavorate in un’insalatiera 2 rossi d’uovo e 2 uova intere con 80 g di zucchero. Aggiungete, mescolando ben bene, 4 dl di latte freddo, che avrete fatto prima bollire con qualche scorzetta di limone sottilissima, tagliata cioè al di sopra della parte bianca

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della buccia. Mettete in uno stampo 80 g di zucchero; e fatelo liquefare sul fornello. Movendo quindi destramente lo stampo fra le mani, fate in modo che la superficie interna di esso si ricopra tutta d’un velo caramellato. Ciò fatto versateci il composto preparato prima; e mettetelo a cuocere a bagnomaria. Ed operate precisamente così: mettete un panno, ripiegato più volte in fondo a un largo tegame. Ponete sul panno lo stampo, coperto da un testo (un pesante disco di terracotta che, reso incandescente, cuoce di solito piadine e testaroli). Per ottenere una buona chiusura, interponete un foglio di carta pergamena fra il testo e lo stampo. Versate nel tegame tant’acqua, da arrivare a tre dita dall’orlo dello stampo medesimo. Mettete il tegame sul fuoco. Abbassate la fiamma non appena l’acqua spiccherà il bollore; e lasciatela bollire per una mezz’oretta, finché il dolce non sarà completamente rappreso. Levate ora lo stampo dal fuoco, lasciatelo intiepidire, e mettetelo poi in frigorifero. Sformate il latte alla portoghese al momento di servirlo, innaffiato dal bel sughetto che avrà formato intanto lo zucchero bruciato». potete aggiungere al latte una stecca di vaniglia che andrà poi tolta. Si può mettere lo stampo in forno a fuoco moderato (160°C) invece che cuocere a bagnomaria. Tempo previsto: una ventina di minuti.  CONSIGLIO attenzione al caramello, che non farei direttamente nello stampo, ma in un pentolino largo, con aggiunta d’acqua (vedi p. 29). Se non avete il testo di terracotta, usate un coperchio con qualche peso sopra. e e e DA BERE Moscato d’Asti 2006 o ultima annata di Paolo Saracco, un piccolo (nel senso dell’estensione dei vigneti) produttore piemontese che produce anche l’ottimo Moscato d’Autunno.  VARIANTI

Una solitudine molto profumata

Un proverbio, attribuito alla tribù dei nativi Irochesi, recita più o meno così: «In cucina, anche da soli, non si è mai soli». Forse perché le cucine degli Irochesi erano per lo più all’aperto. E attorno a un fuoco, in mezzo a un accampamento, la gente non doveva mancare. Ma non c’è bisogno d’essere un nativo per non soffrire di solitudine in cucina. Quella solitudine può essere di vari tipi: vissuta, ricercata, trovata, imposta, addirittura agognata, comunque mai sofferta. Il lavoro manuale non ti lascia mai solo. Apparecchiarsi la propria solitudine in silenzio, soprattutto la sera dopo una giornata di lavoro, che è forse la più feconda genitrice di misantropia, rappresenta una tappa importante. Prepararsi da mangiare è un segnale: lo stop, lo spartiacque che divide in due, con un confine, il tempo continuo e circolare della routine. Uno sparuto, quotidiano vallo d’Adriano, al riparo del quale ci si sente difesi, oltre il quale la cucina si trasforma in una specie di tana gastronomica, con la sera-prateria (musica, televisione, libro) davanti. La fame è il nostro inquilino interiore, che ci fa compagnia. Un inquilino quasi digiuno perché, spesso, all’una o alle due non ci siamo neanche seduti nel bar che offre quei primi e secondi, immortalati come nature morte al fondo d’un acquario. In quei luoghi, la vitalità non è del cibo, ma del rifrullo umano, delle casse e delle cassiere, dell’ansia del barista cameriere. Di fatto, in barba ai consigli degli alimentaristi, preferisco tirar dritto sostenuto dalla rinuncia, fino alle sette, sette e mezzo. E così, finalmente solo, all’inizio della sera,

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con la fame che bussa, risi, paste e padelle son gli alleati più sicuri. Questo digiuno è una specie d’indulgenza plenaria preventiva: per poter peccare ancora. Prima di tutto, per cominciare a rilassarsi: un Camparone. Camparone

Definirlo un cocktail è una guasconata, ma risulta insostituibile, adatto ad ogni stagione e soprattutto è tanto (anche raddoppiabile) capace d’accompagnarvi mentre cucinate. In un bicchiere alto, 3 dita di Bitter Campari, molto ghiaccio e molta acqua minerale gassata. Fetta d’arancia. I fanatici, invece del ghiaccio semplice, usano cubetti di spremuta ghiacciata. Campari, uno degli orgogli nostrani nel mondo... Nel lettore: una qualsiasi compilation di Charles Trenet, a patto che contenga Que reste-t-il de nos amour? e Boum. Dopodiché bisogna cominciare a organizzarsi: da soli non c’è nessun vincolo. E se non ci sono vincoli diventa tutto più difficile. Non si deve per forza mettere in piedi un intero menù, oppure sì, con antipasto, primo, secondo, contorno, dolce: dipende dal vuoto che è in noi. Prima di tutto, apparecchiarsi la tavola con il servizio «bono» e due argentei candelabri muniti di candele color avorio, al centro. Oppure una serata monotematica: tramezzini e sandwich davanti a un vecchio film di Cukor o di Lubitsch (Mancia competente, in cui compare un’insuperata definizione d’indigenza: «Io sono un parvenu della miseria!»); o frittate: una generosa frittata di cipolle; uno sformatino di carciofi e una omelette dolce. Due etti e mezzo (il mezzo è per il compagno a 4 zampe, se ne avete uno) di spaghetti cacio e pepe: nessuno potrà dirvi di «non esagerare». Oppure tentare il colpo grosso: un piatto difficilissimo, che neanche sotto tortura provereste per una cena ufficiale, pubblica. Da soli non c’è nessun vincolo: se riuscite a

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farvi venire in mente un motivo per cui qualcuno potrebbe impedirvi, o sconsigliarvi, di cucinare qualcosa, questa è l’occasione per infischiarvene e dedicarvi a voi stessi. Ecco sei possibili percorsi: profondamente diversi, tra di loro, in un crescendo per un finale di onanismo culinario di grande effetto (per voi).

Quand’è solo il monopiatto Si può pure considerare un monopiatto, va da sé che la porzione dovrà essere abbondante, esagerata: due etti di spaghetti cacio e pepe, si intende per una persona. Comunque: facile a dirsi... Semplice, geometrica, elementare, eppure «vaca boia» non una volta che riescan bene: una volta son liquidi, l’altra secchi, il pepe è svanito, il cacio «ammappato». La tentazione di metterci un po’ d’olio crudo alla fine, per lubrificare il tutto, è forte. Ma astenetevi. È un trucco che sa di tradimento. Meglio rischiare, soprattutto se cucinate per voi. Accompagnate il vostro piatto con voi stessi, mentre seguite passo passo, a voce tonante, il grande Nucci, nel Gianni Schicchi, a cominciare da «Povero zio...» (sia lode certo a Puccini, ma anche a Forzano autore del libretto). Spaghetti cacio e pepe

2 etti di spaghetti grossi (ci vogliono così anche se oggi vanno di moda, con buone ragioni, gli spaghettini) al dente scolati non completamente e non molto salati. Conditeli con circa una cucchiaiata di pecorino romano (ha la scorza nera), un’abbondante macinata di pepe nero e girate prontamente. si fa per dire, perché ci vuole occhio e senso del ritmo: aggiungete un po’ d’acqua bollente, se il formaggio si ammassa. Il pepe deve essere fresco e profumato.

 TRUCCO

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e e e DA BERE un vino laziale, che ancora non ha trovato la fortuna di

altri suoi cugini, di fronte a cui non demerita affatto: Cesanese del Piglio «Torre del Piano», 2006 (FR), un buon vino dalla terra della Ciociaria. Una versione dal prezzo più abbordabile è il Cesanese del Piglio «Casale della Ioria», 2006.

Aglio e cipolle È sempre godibile leggersi l’Artusi, anche per le ricette più semplici. Dopo aver brillantemente tratteggiato la vicenda dell’aglio1 lo pone al centro di questa nostra basilare ricetta, pensata per 4 o 5 persone, che qui si dà per una. Spaghetti alla rustica

«Fate un battutino con mezzo spicchio d’aglio e un buon pizzico di prezzemolo e l’odore del basilico se piace; mettetelo al fuoco con olio a buona misura e appena l’aglio comincia a colorire gettate nel detto battuto 2 o 3 pomodori a pezzi condendoli con sale e pepe. Quando saranno ben cotti passatene il sugo e col medesimo [...] unito a parmigiano grattato, condite gli spaghetti [...] ma abbiate l’avvertenza di cuocerli poco e di mandarli subito in tavola, onde non avendo tempo di succhiar l’umido, restino succosi».  CONSIGLIO all’epoca dell’Artusi i pomodori eran di stagione e maturi. Oggi si trovano tutto l’anno e non solo d’estate. Non sempre son zuccherini al punto giusto. Aggiungere, allora, una punta di zucchero non è peccato, anzi.

1. «Gli antichi romani lo lasciavano mangiare all’infima gente e Alfonso, re di Castiglia, tanto l’odiava da infliggere una punizione a chi fosse comparso a Corte col puzzo dell’aglio in bocca. Più saggi, gli antichi Egizi lo adoravano in forma di nume, forse perché ne avevano sperimentato le medicinali virtù...» (P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Garzanti, Milano 1973).

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usate, d’estate, i pomodorini che vengono dal Meridione a grappoli. Non dico Pachino, perché come in altri casi (per esempio il lardo di Colonnata) son quei passepartout di massa che trasformano l’unicità del genius loci in luoghi comuni. Comunque prendete una manciata di quei pomodorini tagliati a metà, buttateli in padella con olio e 1 spicchio d’aglio schiacciato, e fateli cuocere vivacemente con coperchio. Quando son sfatti, teneteli ancora un minuto sul fuoco, scoperchiati. Alla fine rompeteci qualche foglia di basilico. Parmigiano facoltativo. e e e DA BERE un rosso leggiadro: il Lago di Caldaro Scelto «Puntay» 2006 o ultima annata, fresco, sapido e dal prezzo abbordabilissimo di Prima & Nuova (Erste & Neue) prodotto proprio a Caldaro (BZ).  VARIANTE

Agli spaghetti alla rustica si accoppierebbe bene una frittata di cipolle (per la ricetta base della frittata, vedi p. 181). Frittata di cipolle

Data la ricetta base, affettate una cipolletta di 100 g o una 1/2 cipolla, mettetela in padella con 1 cucchiaio scarso d’olio, salatela e fatela cuocere pianissimo fino a farla appassire. Levatela dal fuoco e lasciatela raffreddare; mescolatela alle due uova sbattute all’impronta, salate e fate cuocere coperto, senza rivoltare. e e e DA BERE continuate con il Lago di Caldaro Scelto «Puntay», o

stappate un bianco d’eccezione e dall’ottimo rapporto qualità/prezzo: il Soave «Capitel Croce», 2005, di Anselmi (VR).

E due uova molto sode C’è un esilarante sketch dei fratelli Marx in Una notte all’Opera, in cui Chico nascosto nella cabina di una nave da crociera continuava a ordinare al cameriere: «...e due uova molto sode». Uova sode a parte, una possibilità sarebbe quella di celebrare il trionfo delle uova: riso all’uovo e frittata, a seguire.

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Riso all’uovo

Bollite 2 pugni abbondanti di riso a persona (Roma o Arborio van benissimo) in acqua salata. Scolate il riso al dente, conservando a parte un po’ d’acqua. Buttateci sopra un tuorlo d’uovo e una piccola scamorza affumicata sminuzzata. Amalgamate bene il tutto in modo che il riso resti all’onda. Se è secco aggiungete un po’ di burro fuso. Alla fine, una macinata di pepe nero. Piatto totale. e e e DA BERE ancora il Soave o il Caldaro.

Forse è esagerato, ma sapersi fare una buona frittata è fondamentale, nelle lande della quotidianità – quasi come una volta, diceva Jack London, «farsi un fuoco» in altre terre. Qui se ne offre un breve, ma conciso compendio. Frittata base

Le frittate non si rivoltano, non ce n’è bisogno. Artusi docet. Il loro segreto è che restino morbide, umide, bavose. Fare una frittata per sé di sole due uova è comunque più facile che farne una di 12: a causa delle cotture e delle padelle di non comune portata. Prendete 2 uova intere e sbattetele appena con una forchetta; salate e versatele in una padella antiaderente dove il burro (poco più di 10 grammi) inizia a scoppiettare e rosseggiare. Tenete il fuoco medio e impugnandola, muovete la padella con piccole scosse, mandando l’uovo a toccare i bordi. Con un mestolo di legno alzate questi ultimi e fate in modo che l’uovo passi sotto, a diretto contatto con il fondo. Spostate a destra e a sinistra la padella sul bordo della fiamma per una ventina di secondi così che cuocia anche il centro. Staccate con una spatola di legno e mettete su un piatto. e e e DA BERE gli stessi abbinamenti del riso all’uovo o il «San Leone»

(2005), buon Merlot con leggera aggiunta di Sangiovese e Petit Verdot, sempre prodotto a Montespertoli dal barone de Renzis Sonnino.

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Dagli ammaestramenti di Aldo Buzzi e del suo L’uovo alla Kok: Frittata di un uovo

«Mescola bene in una scodella 2 cucchiai di farina e una tazza da tè circa di latte. La pastella deve risultare piuttosto liquida e liscia. Sala, aggiungi un uovo sbattuto e mescola di nuovo. Versa la pastella in una padella di teflon dove avrai scaldato olio e burro. Appena la pastella è rappresa, volta la frittata aggiungendo un pezzo di burro. Abbassa la fiamma, copri e cuoci per almeno altri 5 minuti, scuotendo ogni tanto la padella perché la frittata non attacchi. Se la padella non è grande, la dose basta per 2 frittate». e e e DA BERE per un solo uovo, basta una bottiglia. La stessa indicata

per la ricetta precedente.

Volendo, poi, si può arricchire la faccenda: Tortilla

Lessate 2 patate a pasta gialla, tagliatele prima a fette e poi dividetele in pezzetti. Mettetele in un tegame dove ha soffritto lentamente in poco olio, per una ventina di minuti, la solita cipolla o mezza di 100 g, mescolate e fate cuocere per circa 3 minuti. Levate dal fuoco e lasciate intiepidire. Sbattete 3 uova con sale e pepe bianco e mettetele con le patate e la cipolla in una padella non troppo larga, ma con i bordi alti dove ha cominciato a scaldarsi una cucchiaiata abbondante di olio d’oliva. Coprite e tenete il fuoco basso. È necessario rivoltarla perché, essendo spessa, deve cuocere bene, anche se bisogna che resti morbida e non gommosa. e e e DA BERE tanto per essere in sintonia: «Sangre de Toro» Torres 2005, Catalogna (Spagna). Forse tende allo zucchero, ma ha un buon carattere, con profumi d’erbe e spezie. Buon rapporto qualità/prezzo.

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Sfogliare il carciofo? Squisito, ma non facile. Ostico al vino, spesso il carciofo m’è rimasto stopposo o non perfettamente amalgamato. Il miglior tortino di carciofi, soffice, quasi spumoso, con carciofi morbidi e saldi l’ho mangiato al Sostanza2 di Firenze dove anche a domanda non vi raccontano nulla oppure non ve lo fanno capire. Allora dò questa versione, tratta da Zenone Benini3. Tortino di carciofi

Scrive Benini: «Se avete a che fare con dei carciofi piccoli, come sarebbero i violetti di Toscana, prendetene una decina e tagliateli in quattro. Altrimenti se saranno di quei grossi, ve ne basteranno 6, che taglierete a fette per il verso del lungo; e che ogni fetta sia alta un centimetro o poco meno». Si puliscano i carciofi strusciando la lama col limone e, man mano, si buttino in acqua acidulata sempre con limone. «Prendeteli di qui, asciugateli alla grossa con un panno e quindi passateli nella farina. Metteteli in una teglia, o in un altro recipiente adatto per esser poi mandato in tavola, con 10 cucchiai d’olio. Salateli, e fateli rosolar bene da tutte le parti. Sgrondate l’olio che fosse rimasto, e lasciateli lì, in attesa del momento d’andare in tavola. Questo momento arrivato, sbattete 8 uova con un pizzico di sale. Rimettete la teglia coi carciofi sul fuoco, versateci le uova sbattute. Intaccate ed alzate qua e là con una forchetta, tenuta quasi orizzontale, la superficie del tortino via via che le uova si rappren2. Verace e intonsa trattoria d’uno stanzone con mattonelle bianche, detta «il Troia». Si trova in via degli Orti Oricellari. Altro piatto memorabile: il petto di pollo, una specie di fagotto al burro fondente che vi arriva in un tegamino arroventato. Caldissimo e caloroso. Forse, detto così, non è un granché; una volta provato, invece, è indimenticabile. 3. Z. Benini, La cucina di casa mia, Il Vantaggio, Firenze 1999 (19581). Vedi anche n. 7 a p. 28 di questo volume.

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dono, in modo che la parte ancora liquida di esse s’insinui nel varco e si rappigli sulla teglia rovente. Queste intaccature debbono succedersi frequenti e fitte per evitare che il tortino s’attacchi e bruciacchi sulle pareti e sul fondo. Levate la teglia dal fuoco quando c’è ancora parecchio umidiccio, altrimenti il tortino cuoce troppo, e non è più un tortino». e e e DA BERE generalmente alle frittate non si addicono i vini rossi corposi, il carciofo poi si abbina con difficoltà: meglio un Sauvignon, tra quelli citati.

Omelette dolce

Se avete voglia d’un dolce, potete farvelo all’impronta. Si tratta della solita frittata base di 2 uova a cui aggiungere quando è ancora sul fuoco e non perfettamente cotta 2 o 3 cucchiaiate di marmellata (amarene o albicocche) da disporre nel mezzo prima di piegarla in tre parti. Quando è a mo’ di rotolo metteteci un po’ di zucchero. e e e DA BERE se ce l’avete in casa – se no premuratevi di averne, di

scorta – Recioto di Soave «I Capitelli», 2003, di Anselmi (VR): un passito fuoriclasse.

Dal tramezzino al club sandwich Facili, buoni, classici, ma con i dovuti accorgimenti: sono tramezzini, toast e club sandwich. Pare che sia stato D’Annunzio, geniale nell’italianizzare lo straniero, a denominare tramezzino il sandwich. Il Panzini già nel 1935 lo definisce sbrigativamente, nel suo vocabolario, «panino imbottito». I tramezzini tagliati non a triangolo, bensì a rettangoli avendo asportato l’esile crosta del pane in cassetta, rappresentano in effetti un buon inizio, ancora in salotto o sui divani.

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Tramezzini di pollo

Il pane in cassetta sofficissimo e candido (in questo caso niente biodinamiche integralità) è la condizione necessaria. A questa si aggiunga la maionese (vedi p. 204 ) di uno o più tuorli d’uova (dipende da quanti si è) montata a solo olio, senza limone o aceto, con una punta di mostarda di senape. Sulle fette di pane spalmate con poca maionese si aggiunge qualche pezzo di pollo bollito e le foglie più bianche d’un cespo di lattuga. Sempre sul fronte delle due fette di pane, pochi accorgimenti fanno dimenticare i frettolosi toast dei bar, presentandoli in una luce nuova. Toast

Ci vuole un pane in cassetta bianco in perfetto stato e meglio se di taglia grossa (una volta aperta la confezione industriale o del fornaio, mantenetela poi ben chiusa in frigorifero) e una piastra elettrica doppia. Imburrate due fette di pane, mettete su una fetta una sottiletta e due fette sottili di prosciutto cotto; sovrapponete l’altra fetta di pane a chiusura e poi nella piastra. E la differenza da un toast normale, del bar, sta nel suo essere ricco, particolarmente ricco, di burro; e assolutamente cotto sulla piastra doppia. Una variante molto opulenta è il club sandwich non più tanto in voga, almeno in Italia, ma buonissimo. È un panino totale, che sostituisce un pasto. Di solito si mangiava negli alberghi, in bar molto attrezzati o nei night, ristoro al termine della notte. Club sandwich

Prendete il solito pane in cassetta e fatene tostare moderatamente tre fette. Imburratele leggermente e stendeteci sopra un velo di maionese (vedi p. 204), poi qualche foglia di lattuga bianca e

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pomodoro fresco a dadini. Aggiungete quindi pezzettini di pancetta affumicata o bacon, che avete prima ben sfrigolato in padella, e listarelle di pollo arrosto. Coprite con una fetta di pane spalmata di maionese. Ripetete l’operazione e chiudete con una terza fetta di pane finale preparata come la prima. Tagliate con cura a triangolo. cuocere un pollo intero per farsi un club sandwich potrebbe non valere la pena. Se non ne avete degli avanzi da utilizzare, prendete piuttosto dei tagli di coscia o anca e cuoceteli come il pollo arrosto, prima in padella, poi in forno. Oppure usate dei petti di pollo o di tacchino cotti allo stesso modo. Si può anche aggiungere alla maionese un po’ di mostarda. e e e DA BERE per tutti e tre (sandwich, tramezzino e toast) ci vuole la birra. L’italiana Menabrea, in bicchiere lungo, sempre prima imperlato d’acqua fredda. Ma buono e giovanile – se volete utilizzare, questi panini o tramezzini, come appetizer, magari tagliati a fette quadrate – anche lo Spritz nella versione più modaiola, Spritz young, che da Venezia ha conquistato mezz’Europa, Spagna in testa.  CONSIGLI

Spritz young

In un bicchiere di media altezza e largo (tipo old fashioned) metà vino bianco secco non particolarmente profumato, 2 dita di Aperol, un’abbondante spruzzata di seltz o acqua gasatissima e ghiaccio Alla fine, se per qualche calcolo avete deciso di non dormire, fatevi una torpedine. Torpedine

D’origine e di tratto prettamente livornese: l’esecutore più noto, nella città labronica, è il Bar Civili (ma ne fanno un’ottima versione anche al Cro, Centro Ricreativo Operaio nella darsena di Viareggio); è oggi meglio conosciuta come «ponce», da non confondere con il vocabolo punch inglese e da pronunciare ri-

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gorosamente con «o» ben larga ed «e» bella piena e prolungata. A un caffè bollente aggiungete un dito o più di rum fantasia (ben diverso dal rhum caraibico). Un cucchiaio di zucchero e una bella scorza di limone. Più che un digestivo è un esplosivo.

Trattarsi bene «Solus ad solam» scriveva D’Annunzio, voi ditevi «Solus ad solum» e non negatevi nulla. Walter Benjamin, forse non a torto, pensava che «la peggior droga è se stessi». Contradditelo con l’aiuto di terzi: vini, cibi, spiriti e tempo. Lo stress è il peggior nemico di tante cose, certamente della cucina e del mangiare. Elemento fondamentale, dello stress, sono gli altri. Così se riuscite a ricavarvi una serata in totale solitudine, non c’è niente di più profondamente piacevole ed edonistico che prepararsi una cena e abbandonarvisi interamente, alla Hogarth. Ma anche l’abbandono ha bisogno di preparazione. E stavolta sarà un menù complesso, laborioso, a partire dalla spesa la mattina stessa. Più tempo ci si dedica e più felice sarà, quello stesso tempo. Permettendosi il lusso, incredibile lusso per i nostri tempi, di fare attenzione a ogni proprio gesto, ai suoni, agli odori, e poi ai dettagli e ai sapori. Per cominciare, il livello deve essere altissimo, sin dall’inizio. Dunque: un grande vino (scaraffatevene mezza bottiglia e finitevelo poi tutto) come un Pinot Noir, Gevrey-Chambertin Bernard Dugat-Py (Borgogna) del 1997, un Masseto 2001 dell’Ornellaia (Bolgheri) o un Amarone di Allegrini del 2003. Tecnicamente richiamerebbero tutti delle grandi carni: anatre, stracotti, ariste di maiale... ma stanno benissimo anche con un po’ di pane e parmigiano. Comunque siete l’ospite di voi stesso e l’ospite è sacro. Potete dedicargli anche dei piatti laboriosi, lunghi, difficili: in fondo la solitudine è la migliore delle compa-

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gnie, diceva con ben più elegante chiasmo («Beata solitudo, o sola beatitudo...») san Brunone. N.B.: Se non volete morire, riducete le quantità qui previste per quattro persone. Un buon antipasto, nell’attesa di voi stessi, cioè che cominciate a prepararvi il primo, è quello del famoso ristorante di Forte dei Marmi, Lorenzo: crocchette di gamberetti. Crocchette di gamberetti

Fate una besciamella (vedi p. 201) con 75 g di burro, 100 g di farina, 4 dl di latte, un po’ di sale e pepe. Sciogliete piano il burro nella farina e fate cuocere appena; aggiungete un po’ alla volta il latte caldo lavorando il composto con la frusta. Continuare a bollore per 10 minuti. In un court bouillon di 1,5 litri d’acqua, 1/4 di litro di vino, pepe in grani, 1 cipollina, 1 gambo di sedano, 1 carota e un po’ di sale – che avranno bollito per una ventina di minuti – cuocete i gamberetti, sgusciati e privati del budellino nero sul dorso, per 4 minuti. Toglieteli con la schiumarola, aggiungeteli alla besciamella, amalgamateli bene e fate freddare. Con quest’impasto formate delle palline, passatele nel pangrattato e fatele rassodare per qualche ora in frigo. Infine cuocetele, immergendole in olio bollente per qualche minuto. intanto potete aggiungere un fumettino ristretto con le teste dei gamberi e i gusci, un po’ di burro, 1/2 bicchiere di vino bianco, un po’ di timo e rosmarino. Sfumato il vino, scolate in un passino e unite alla besciamella, avendo cura di non allentarla troppo (nel caso aggiungete un po’ di farina). Potete anche variare la materia prima, usando pesce meno pregiato: merluzzo, baccalà, aggiungendo qualche vongola o arsella sgusciata. e e e DA BERE il Soave di Anselmi (vedi p. 180).  VARIANTE

Direttamente da Catania, dove la chiamano «c’a Norma», con riferimento a Bellini ma anche al fatto che «c’a Norma» è un

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modo di dire catanese, per significare «ben fatto». Secondo Pino Correnti, studioso di gastronomia siciliana, il commediografo catanese Nino Martoglio usò appunto tale espressione di fronte a una pasta con le melanzane particolarmente buona. Ecco, questo è un buon modo per cominciare quella celebrazione dell’Io che è un intero menù dedicato a se stessi: «c’a Norma». Pasta alla Norma

Preparate una salsa di 600 g di pomodori maturi con 1 spicchio d’aglio, 3 cucchiai d’olio, qualche foglia di basilico da mandare a fuoco dolcissimo per 1/2 ora. Fate friggere nell’olio le fettine, tagliate per lungo, di 3 melanzane allungate e buttate nell’acqua bollente 400 g di spaghetti o rigatoni. Grattugiate 120 g di ricotta salata e dividetela in 2 mucchietti diseguali. Scolata la pasta al dente in una zuppiera, cospargetela col mucchietto di ricotta più grande, poi col pomodoro. Appoggiateci le melanzane fritte con 2 cucchiai del loro olio e qualche bella foglia di verde basilico. Aggiungete l’altra ricotta. Portate in tavola con questa foggia e mescolate davanti ai commensali. e e e DA BERE «Camastra» (taglio di nero d’Avola e merlot), 2005, di

Tasca d’Almerita (CL).

Oppure un altro ottimo e alquanto dimenticato primo sono gli spaghetti alla Novelli, dal nome del noto divo teatrale Ermete Novelli che, oltre a essere un grande attore, era anche un grande gourmet: Spaghetti alla Novelli

Ecco la sua voce: «Prendete moltissima cipolla e tritatela in minutissimi pezzi. Poi ponete questa cipolla in una padella con pochissimo olio. Quando la cipolla è rosea ben cotta, ma per carità, non bruciata, contate 2 acciughe per ciascuna persona e

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mettetele a soffriggere insieme alla cipolla, avendo cura, con un cucchiaio di legno, di schiacciare ben bene le acciughe. Aggiungete a ciò molto prezzemolo, sedano, rosmarino e salvia ben tritati, e fate prendere a tutto questo un po’ di colore. Unite pomodoro fresco (o della salsa di Napoli). Lasciate cuocere, aggiungete 1/2 bicchiere di vino bianco, fate riscaldare, senza bollire, coprite la padella e mettete in disparte. Quando i maccheroni sono pronti per essere scolati, scaldate il sugo e condite con formaggio, metà pecorino e metà parmigiano». e e e DA BERE Nebbiolo d’Alba «Vigna di Lino», 2005, della Cascina Val del Prete, di Priocca (CN).

Beninteso, nessuno vi proibisce, anche per prendervi un po’ in giro, di farvi un tris di primi, come in certi ristoranti da bosco e da riviera che sembrano usciti indenni direttamente dagli anni Cinquanta. Dunque, due paste asciutte e un risotto: allo champagne. Desueto, era un’isola felice o meglio una zattera che, nelle notti ruggenti, traghettava fino all’alba. Risotto allo champagne

Riso Carnaroli (2 pugni abbondanti a persona) e un battuto di 1 cipolla bianca, 100 g di burro. Fare imbiondire la cipolla facendo attenzione a non bruciacchiarla (deve cuocere molto lentamente) e quando è del tutto sfatta aggiungere il riso. Alzare di poco la fiamma, girare col mestolo e farlo tostare con mezzo bicchiere di champenois italiano. Aggiungere uno o più ramaioli di brodo di carne o di verdura e continuare a tirare il riso utilizzando circa 1/2 bottiglia dello stesso champenois. Salare (poco). Quando è ancora al dente e all’onda (il mestolo nel mezzo si deve inclinare lentamente), aggiungere parmigiano grattugiato in abbondanza e qualche pezzetto di burro.  TRUCCHI

il risotto allo champagne va fatto in padella perché il riso

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«prende meglio» la cottura. Aspettare qualche minuto prima di servire: il risotto si deve «posare», perdendo calore acquista più sapore. Strappo alla regola: se non avete il brodo e volete farlo all’impronta, usate il vecchio estratto di carne, magari un prodotto di brodo vegetale liofilizzato (è molto culinary scorrect, ma basta che non ci sia il glutammato). e e e DA BERE il grande champenois della Franciacorta « Cuvée Annamaria Clementi» di Ca’ del Bosco (vedi p. 48). Non si cura nemmeno di certi francesi, ma guarda e passa...

La ricetta che segue si fa in poco più di un’ora e ha il pregio di sembrare molto più preziosa di quel che è. Ammesso che si abbia piacere a ingannare se stessi. Millefoglie di verdure al basilico

1 patata a pasta gialla grande, 2 zucchini, 1 carota grande. Pelate le patate e tagliatele sottilissime, come anche gli zucchini e le carote, e alternate queste verdure a strati, salando appena e con un filo di olio su ogni strato, in una pirofila da forno, pressando bene il tutto. Mettete in forno a 180°C per circa 20 minuti. Mentre le verdure cuociono, pestate in un mortaio o frullate in un mixer 7 foglie di basilico, 1 cucchiaio di pinoli e 2 cucchiai di olio d’oliva. Mettete poi questa crema sul millefoglie intiepidito. se non volete che il basilico rischi di annerirsi, prima di tritarlo mettetelo con un po’ d’acqua in un contenitore per cubetti di ghiaccio e fatelo congelare; o, meglio ancora, pestatelo in un mortaio. e e e DA BERE vino di montagna, gran rapporto (anche se va assottigliandosi) qualità/prezzo, lo Chardonnay Le Crêtes, Cuvée Frissonière (AO), ultima annata disponibile.  CONSIGLIO

Se lo scopo ultimo è l’autostima, la celebrazione del sé, la costruzione attenta e meticolosa del proprio piacere, non si può

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non friggere qualcosa. Anche poco, due trigliette, due, piccole, ma freschissime. Triglie fritte

Piccole triglie fritte, sbuzzate e pulite. Prima passate nella farina e poi in abbondante olio di semi di arachidi bollente. Nella padella devono stare comode e non ammassate. prendetele delicatamente per la coda e fatele oscillare leggermente come pendoli di alchimisti. Cadrà una leggera neve di farina e saranno pronte ad affrontare il loro ultimo mare. e e e DA BERE un più gentile Pinot Bianco, come quello del Collio di Attems (vedi p. 122).  TRUCCO

L’Italia ormai non ha niente da invidiare agli altri paesi in fatto di cioccolata e se volete finire innalzandovi con un cognac, pur restando con i piedi per terra, puntate in alto: Delamain «Vesper», Cognac Grande Champagne. E fondente nero di Amidei o dell’astro nuovo ormai splendente nei cieli di Torino, Gobino, o dell’antico, settecentesco Romanengo, principe pasticciere di Genova e non solo. I dolci alla cioccolata sono la scusa o la pedana per elevare lo spirito con gli spiriti. Questi sformatini stanno a metà tra il flan e i pastosi crunchie. Sformatini al cacao

Setacciate 200 g di farina insieme a 4 cucchiai di cacao, un pizzico di sale e 2 prese di lievito. Mescolate 4 uova sbattute con 4 cucchiai di zucchero, 20 g di burro fuso e 2 cucchiai di marmellata di lamponi. Aggiungete la farina e il cacao e unite poco più di 1 dl di latte tiepido, mescolando. Versate in uno stampo da crème caramel e fate cuocere a bagnomaria in forno per 40 minuti. Fate raffreddare.

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La cucina del dottor Caligari Non il Gabinetto, nel senso del terribile studio in cui il dottor Caligari osava perpetrare i suoi terribili esperimenti, bensì la cucina, e non per efferatezze culinarie. Ma per provare, in libertà e lontano da occhi indiscreti, ricette difficili anche se tradizionali o ardite. La prima volta che ho provato a farli, ero da solo e ho fatto bene per più d’un motivo. Primo, il cimento manual-culinario mi ha strappato allo spleen. Secondo, non mi ha visto nessuno. Terzo, forse ho capito come si fanno. Si tratta d’un piatto tradizionale e radicato, popolare, che si mangia a Roma soprattutto nelle trattorie o nei ristoranti del ghetto: i carciofi alla giudia. Nel lettore, Gabriella Ferri e il Barcarolo che «va controcorente...». Carciofi alla giudia

Non è facile, lo mangerete raramente nelle case romane. Intanto i carciofi (devono essere quelli romaneschi: tondi e grossi) vanno tagliati in modo speciale. Si elimina il gambo. Poi con un coltellino affilatissimo si tornisce il carciofo dal basso verso l’alto, facendolo girare con la sinistra. Man mano che sono pronti allargateli leggermente. I carciofi puliti si mettono nell’acqua acidulata con limone. Si asciugano e si mettono a testa in giù sul tagliere tenendoli per il gambo e si schiacciano facendo attenzione a non farli rompere in modo che si aprano a fiore. Scaldate abbondante olio d’oliva in una padella – la tradizione vorrebbe in un tegame di coccio – e mettetevi i carciofi (immersi nell’olio fino a metà altezza) seduti con le punte in su; cuoceteli per 10 minuti, smuovendoli di tanto in tanto con una paletta. A questo punto girateli a punte in giù aiutandovi con due forchette e cuocete ancora per 10 minuti. Quando le foglie appariranno ben dorate e croccanti, scolateli e poneteli a perdere

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l’unto su un foglio di carta assorbente da cucina. Serviteli ben caldi. e e e DA BERE saltate un giro e bevete l’acqua, oppure un qualsiasi Sau-

vignon, fra quelli incontrati prima.

Alla fine, insomma, i carciofi si presenterebbero come un bellissimo crisantemo dorato. Per me, invece, furono fiori malefici: forse non avevo aperto a sufficienza le punte o non li avevo asciugati bene. Tant’è che all’immersione ci fu una reazione virulenta: l’olio bollente schizzò, il carciofo si coricò su un fianco e tentando di raddrizzarlo urtai il tegame, facendo tracimare il liquido che in parte s’incendiò. Non fu affatto una meravigliosa catastrofe, secondo quanto diceva Zorba il greco, fu una catastrofe meschina, come quelle del demone di Sologub. E comunque qualcosa imparai, riprovando sempre da solo e sempre tacendo sul risultato. Poi a fronte d’un giudice poco severo, ritentai ed ebbi fortuna. Forse quegli sfortunati tentativi solitari sono serviti a qualcosa, ma lo confesso: i carciofi alla giudia è meglio mangiarli al ristorante. Andando avanti, esperimento numero due: più che altro per il pesce, per l’altisonanza dell’effetto, per la vetta marina che si vuole raggiungere. Allora, all’epoca di quest’antico piatto romano, la razza non era nobile. Ora invece... Minestra d’arzilla

1 kg abbondante di arzilla (razza) pulita dal pescivendolo. Si mette in una pentola con 2 litri di acqua fredda e tutti gli odori. Da quando alza il bollore, farla cuocere per 1/2 ora. Spegnere, trasferire l’arzilla in un piatto, toglierle la pelle e sfilettare la polpa eliminando le cartilagini, quindi filtrare il brodo. In un tegame con aglio e olio, spezzettare 4 filetti di alici e fare sciogliere a fuoco lento. Si uniscono 6 o 7 pomodorini o 250 g di pelati, 1 kg di cimette di broccolo romanesco e si fa insaporire per 10 minuti. Ag-

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giungere il brodo del pesce e fare bollire per 1/4 d’ora. Versarvi 3 etti di spaghetti spezzati. Quando la pasta è quasi cotta, unirvi l’arzilla sfilettata e ridotta a piccoli pezzi, tenendone da parte una certa quantità. Versare nei piatti ponendovi sopra dei pezzetti di arzilla, prezzemolo tritato e un po’ di peperoncino. questa squisita minestra si può preparare anche con il pesce san pietro o la rana pescatrice (tagliandoli a pezzetti piccoli) o con il brodo d’altri pesci. e e e DA BERE Shiraz Casale del Giglio (vedi p. 67).  VARIANTE

Questo che segue, invece, è piatto complicato, di difficile fattura. Va sperimentato. Il problema è: quanto il sugo di mare sarà brodoso, cioè in misura sufficiente a far sì che le linguine finiscano di cuocersi? Linguine al cartoccio di mare

1 kg e 1/2 fra cozze, vongole e tartufi di mare fatti aprire in padella con 1 cucchiaio d’olio e 1 spicchio d’aglio. Levate il liquido, filtratelo e mettetelo da parte. Nella stessa padella fate scottare, in 4 cucchiai di olio caldo, 1 spicchio d’aglio e un po’ di peperoncino, 600 g di calamari puliti e tagliati a rondelle; quando i calamari sono quasi cotti, aggiungete qualche coda di gambero sgusciata e triglie sfilettate, cui unite il liquido dei frutti di mare e una salsa di 4 pomodori freschi tritati con basilico, prezzemolo, sale e 1/2 cucchiaino di zucchero, precedentemente cotta per una decina di minuti. Fate cuocere il tutto insieme per pochi minuti. In acqua salata fate bollire 400 g scarsi di spaghetti e scolateli dopo 5 minuti. Passateli in padella con i molluschi per meno di 1 minuto. Mettete in una teglia un grosso foglio di carta da forno, versateci gli spaghetti dalla padella e chiudete arricciando i bordi della carta. Infornate a forno già caldo a 250°C per 4 minuti. Fate riposare per 1 minuto circa e aprite il cartoc-

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cio rigonfio davanti ai commensali. In questa ricetta la rapidità e il tempismo sono tutto. con le lische, le teste e i gusci di pesci e gamberi potete preparare un fumetto leggero (con 1 porro o 1/2 cipolla bianca, rosmarino e 1/2 bicchiere di vino) da aggiungere all’inizio alla salsa di pomodoro. e e e DA BERE Biancolella «Tenuta Frassitelli» Casa D’Ambra, dell’isola d’Ischia (vedi p. 150).  TRUCCO

Quando, da soli, a tavola, magari d’estate con la finestra aperta sulla sera, aprirete il cartoccio e una nuvola di vapore si sprigionerà sul vostro viso, penserete «ah, il mare, che cosa meravigliosa!». Sarete ben contenti di stare da soli, in città, nella deserta plaza de toros d’un ferragosto che non è più qualunque.

La tavola di Mendeleev

Dmitrij Ivanovicˇ Mendeleev è passato alla storia per avere ideato il pilastro (la tavola appunto) della chimica moderna, fondamentale per lo studio delle proprietà degli elementi. L’idea della chimica, che tanto successo ha nella gastrosofia molecolare odierna (Ferran Adrià, il cuoco-filosofo più famoso della contemporaneità, vi presenta nei suoi menù, prenotati a bienni, 50 cucchiaini di cibo destrutturato), è all’opposto della cucina, forse un po’ anarchica e quotidiana, fatta di necessità, curiosità, concretezza, tradizioni e divertimento di questo libro: pietanze, non atomi. È buona, invece, l’idea di fare un po’ d’ordine fra dettami e pratica, apparecchiando una tavola con gli elementi base, utili a una qualsiasi navigazione tra alimenti e fornelli. Magari solo per predisporsi a viaggi immaginari lungo le infinite e non sempre facili rotte del palato. Mendeleev, tavole della chimica... forse è esagerato. Questi sono solo alcuni meridiani e paralleli in cui ritroverete, talvolta ripetute, tecniche e preparazioni di base per molte ricette, con l’aiuto di qualche esempio da usare eventualmente per leggervi le mappe prima di una partenza.

Toccare il fondo I fondi si distinguono in due grandi famiglie: fondi veri e propri e fondi di cottura. I fondi veri e propri sono preparazioni più o meno complesse, composte da più elementi, che diventano la

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base invisibile, capace di tracciare il carattere di fondo di un piatto: per esempio il fondo bruno, il fumetto di pesce... Sono basilari proprio perché servono a dare gusto e fisionomia alle pietanze oltre che a legare le salse o a divenire la salsa stessa. I fondi di cottura sono invece elementi singoli come burro, olio, vino ecc. che intervengono nelle preparazioni. Il fondo bruno

In sostanza è un brodo d’ossa di vitello. Prendete 300 g di carote, 2 cipolle a cui avrete inchiodato 2 chiodi di garofano, 1/2 gambo di sedano, 2 kg e 1/2 di ossa (1 ginocchio e anche 1 piedino se potete) e ritagli di vitello. Fate tostare in forno a forte calore, circa 250°C, le ossa e la carne. Saltate le verdure in padella con un bouquet garni (timo, prezzemolo, alloro) e 1 spicchio d’aglio. Dopo circa 20 minuti, mettete tutto in una pentola grande con circa 5 litri d’acqua e fate bollire molto lentamente per 6 ore, schiumando e sgrassando. Si filtra col colino fine. Si avrà circa 1 litro e 1/2 di fondo. aggiungete al fondo un po’ di carne magra di vitello di secondo taglio fatta prima rosolare nel burro e bagnata più volte col brodo del fondo. Lasciatela bollire per un’altra ora e rifiltrate il tutto. Più si bolle, più il fondo si restringe, diventando al grado estremo «glace de viande», una specie di sciroppo che è il progenitore artigianale degli estratti di carne. Il demi-glace, a metà strada tra lo sciroppo e il brodo, è forse la versione più consigliabile: basta un po’ di vino o burro per fare una buona salsa. Ma i fondi bruni ristretti servono per uno Chateaubriand, per fare un brodo all’istante per i risotti, per un pesce in guazzetto, per un banalissimo petto di pollo infarinato in padella, che così diventa un gran piatto. Il fondo bruno rapido si ottiene anche sgrassando con del vino o del brodo (l’operazione è detta deglassare) un qualsiasi grosso pezzo di carne cotto in casseruola, ma lo avrete in minor quantità.  CONSIGLIO fatevi una buona scorta di fondo bruno da surgelare in  VARIANTI

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contenitori di stagnola o in barattolini con tanto di etichetta. Un’altra idea maniacale è quella di congelarlo infilandolo nei sacchetti di plastica a cellule singole (monodose) con cui di solito si fanno i cubetti di ghiaccio. Fondo bianco o di pollo

In pratica fate un brodo di pollo, con aggiunta di rigaglie, la solita cipolla picchiettata col chiodo di garofano, il mazzetto aromatico (vedi p. 215), 1 spicchio d’aglio, 1 porro, 100 g di carote e un po’ di sale. Mettete tutto in 4 litri d’acqua e dopo 4 ore a fuoco lento levate il pollo (ottimo per le crocchette) e filtrate con colino e telo di mussola bagnata. Avrete circa 2 litri e 1/2 di fondo. Per il concentrato, vale quanto detto prima. Questo fondo è perfetto per arricchire besciamelle e anche per risotti. Fumetto di pesce

1 kg di teste, lische e ritagli di pesce spurgati sotto l’acqua fresca: i più adatti sono i rombi, le sogliole, le razze, le code di rospo ma anche le triglie, le gallinelle, le tracine, gli scorfani; meno adatti i pregiati, orate o spigole. Uniteli in una casseruola a 1 cipolla, 1 scalogno e 1 porro rosolati in 50 g di burro, aggiungete prezzemolo, basilico, timo, alloro, qualche grano di pepe nero, un piccolo pezzo di rosmarino e cuocete per 5 minuti mescolando. Fate stufare e aggiungete 1/4 di litro di vino e 3/4 di litro d’acqua. Lasciate bollire piano, schiumando, per 30 minuti. Passate al setaccio, poi fate nuovamente ridurre. Volendo aggiungere più sapore potete usare anche il fegato tritato di pesci di scoglio, come triglie e scorfani. Fondamentale per spaghetti di mare e anche per il pesce al forno. potete farvi un fumetto espresso tutte le volte che non usate le teste e le lische del pesce (per esempio col san pietro o con la rana pescatrice).

 CONSIGLIO

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Coulis di crostacei

Carcasse e teste di gamberi, cicale, astici si tritano al mixer con 60 g di burro ammorbidito e si mettono a sudare in padella, dove già stavano rosolando 1 spicchio d’aglio, 1 cipolla e 20 g di sedano. Arrivate a ottenere, rigirando spesso, una pellicola sul fondo della casseruola che bagnerete con 1 dl di vino bianco e acqua (meglio quella dove hanno bollito i crostacei). Aggiungere timo, prezzemolo, rosmarino e lasciate cuocere per 1/2 ora. Passate al colino fitto di forma conica, detto chinois. Perfetto per spaghetti allo scoglio. Brodo di verdura

Fate bollire per 3 ore, in 1 litro d’acqua e 1/2 litro di vino bianco secco, 2 pomodori, 1 porro, 1 carota, 1 cipolla tagliata, 1/2 testa di sedano, 2 scalogni, il solito mazzetto aromatico (vedi p. 215), sale marino, qualche grano di pepe schiacciato. Otterrete 1 litro di brodo da passare al setaccio. È utile per allungare salse troppo ristrette e comunque dà sapore, con ferma gentilezza, anche ad arrosti o carni in padella o in umido. Burro chiarificato

Molto di moda, soprattutto al Nord, permette fritture a più alte temperature e maggiormente prolungate ed evita le perniciose conseguenze dell’effetto umidità (ideale ad esempio per la cotoletta alla milanese). È il famoso ghee della cucina indiana. Due parole sul burro: il migliore è quello francese d’Insigny non pastorizzato, ma la cui produzione è soggetta a improvvise e rigorose ispezioni. Non è facile trovarlo. Il burro artigianale impiega più tempo a sciogliersi e sta fermo, quello più scadente si squaglia rapidamente e scoppietta, schiumando copiosamente. Si fa cuocere appena sotto il bollore in una casseruola a bagnomaria 1 kg di burro per circa 1 ora. In questo modo l’acqua evapora e la caseina si deposita al fondo, separandosi colorata in

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bruno, dalla materia grassa che si dispone in superficie. Filtrate quest’ultima con una garza attraverso un imbuto, versandola in un barattolo da conservare in frigorifero. Otterrete oltre 600 g di burro chiarificato, che ha il pregio di permettere una gran resa: se ne può utilizzare la metà di quello normale.

Le salse madri e relative figlie Le 5 salse madri sono (o meglio erano): la besciamella, la spagnola, la vellutata, l’alemanna e la salsa al pomodoro. Diciamo che ne restano in vita, per gli usi più comuni, solamente tre: besciamella, vellutata e salsa di pomodoro. Le salse figlie hanno, comunque, altrettanta dignità. Besciamella

Artusi la chiama belsamella, che la rende d’una bellezza più ottocentescamente rotonda. Nonostante certe campane a morto che la volevano desueta, inutile e pesante, la besciamella è una vera salsa madre che governa le calde oscurità del forno: soufflé, lasagne, timballi, sformati di verdura, senza besciamella non sono immaginabili. Il suo inventore è ritenuto da alcuni il finanziere Louis de Béchameil, maggiordomo di Luigi XIV. Ne esistono versioni più o meno «lente». Maggiori dosi di farina aiutano la consistenza, ma creano minor finezza. Una buona besciamella è leggera e avvolgente al tempo stesso. Questa è di media densità: per 50 g di burro, 50 g di farina e 1/2 litro di latte caldo da incorporare in un pentolino. Si mette prima il burro a fuoco dolce e quando è sciolto si aggiunge la farina lasciando cuocere pianissimo, mescolandola in continuazione senza far prendere colore. A poco a poco si aggiunge il latte, sbattendo con la frusta. Un po’ di sale, una grattata di noce moscata e si fa addensare, sempre girando, per una decina di minuti.

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per renderla più leggera si può passare la salsa al colino. Ma siccome è la farina – nemica/amica della besciamella – che potrebbe aggravarla, si adopera una maggior quantità di latte e si cuoce a fuoco dolcissimo per almeno un’ora, magari arricchendola con 1 cipolla, 1 foglia di alloro e qualche grano di pepe infranto.  CONSIGLIO lavorate le salse sempre in un recipiente di forma bombata perché la frusta raggiunga ogni anfratto della superficie interna. Se si usa la besciamella per legare preparazioni già cotte (per esempio verdure) o per legare altre salse (come una bernese semplificata), si tiene di media intensità; mentre per crocchette o soufflé va ottenuta più densa, diminuendo la quantità di latte o facendola cuocere più a lungo.  VARIANTE

Salsa vellutata

Una besciamella col fondo bianco o col brodo al posto del latte: 40 g di burro e 40 g di farina con 1 litro di brodo. Stesso inizio prudente e oculato della besciamella classica, poi si aggiunge 1/2 litro di brodo, preferibilmente di pollo, aromatizzato con i consueti odori da cucina (vedi p. 215), escluso il pomodoro. Fate cuocere piano mescolando finché la salsa non abbia ripreso il bollore. A questo punto aggiungete, un cucchiaio per volta, ancora 1/2 litro di brodo. Fate cuocere a fuoco molto basso per circa 1 ora. Controllate la densità e passate da un colino. Per petti di pollo e carni bianche; ma è anche la base della villeroy. col fumetto di pesce si fa una vellutata da aggiungere ai pesci cotti in padella.

 VARIANTE

Salsa di pomodoro

In Italia ognuno ha la sua salsa di pomodoro: «dacci oggi la nostra pummarola quotidiana». E abbiamo già accennato (vedi p. 152) a come possa essere anche fonte di essenziali dibattiti o di rimandi ai grandi maestri della cucina italiana. Dunque ogni prescrizione è aleatoria. Ecco una prima versione base della salsa: in 1 cucchiaio di olio s’imbiondisce 1 spicchio d’aglio e 1/2

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cipolletta tritata. Si uniscono 1 kg di pomodori pelati, 1 cucchiaino di sale, 1 cucchiaino abbondante di zucchero e si cuoce per una quarantina di minuti. Oppure, in alternativa: tagliate a pezzetti 1/4 di cipolla, 1/2 carota, 1 gambo di sedano, prezzemolo, basilico e fate rosolare in padella con 3 cucchiai d’olio. Unite 1/2 kg di pomodori spellati e fate cuocere senza coperchio: 15 minuti, se è per condire la pasta; il doppio e ancor più, passando poi tutto al passaverdura, per una salsa che può anche accompagnare il bollito. Salsa olandese

Delicata, ma di personalità. A bagnomaria o sul bordo d’un fornello (il nemico dell’olandese è il calore troppo forte) sbattete con una frusta 4 tuorli d’uovo insieme a 4 cucchiai di brodo; quando la salsa si addensa aggiungete 150 g di burro fuso poco alla volta, sempre sbattendo e mettendone un po’ solo dopo che il precedente sia ben incorporato. Unite infine pian piano il succo di un limone. preparate una besciamella lenta e incorporatevi 2 rossi d’uovo già sbattuti con un po’ d’acqua fredda. Mescolate con la frusta sul bordo del fornello e aggiungete, come sopra, il burro poco alla volta. Alla fine aggiungete il limone. Questa versione è più semplice e sicura di quella canonica, che può impazzire facilmente.  CONSIGLIO cotture dolcissime e sbattiture furiose, non come per la maionese, ma come montereste i chiari a neve. Si può usare la frusta elettrica. L’olandese è ideale per i pesci lessi, gli asparagi e il pollo lesso servito col riso bollito.  VARIANTE

Villeroy

Deriva dalla vellutata ed è la matrice della famosa frittura che porta il suo nome. La versione più comune prevede una besciamella densa a cui aggiungere 2 rossi d’uovo, da amalgamare con energia lavorando prima sul bordo e poi al centro del fuoco: si

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fa sobbollire appena, fino a che la salsa aderisca al legno del cucchiaio. Si passa al colino e si lascia raffreddare. Cotolette di vitella o agnello, ma anche petti di pollo o tacchino si immergono nella salsa calda e si lasciano raffreddare. Si lisciano con la lama di un coltello, si passano nell’uovo sbattuto e nel pangrattato, poi si mettono nell’olio caldo a friggere. Bordolese

Salsa bruna perfetta per carni in padella o alla griglia. Si fanno «sudare» a lungo in una casseruola 2 scalogni tritati finemente, con 25 g di burro. Si aggiungono poi: 1 foglia d’alloro, qualche grano di pepe, 2 gambi di prezzemolo, 1 rametto di timo e 1 bicchiere di rosso. Si fa bollire finché il vino non si riduce di 3/4, quindi si arricchisce con una pari quantità di fondo bruno. Si filtra e si fa ridurre ancora un po’; in ultimo si aggiungono fiocchetti di burro freddo e un cucchiaio di midollo di bue, montando con la frusta.  CONSIGLIO non c’è bisogno di usare un gran vino, basta che non sia ricco di tannini.  VARIANTE sostituendo il fondo bruno con un fumetto di pesce e con un procedimento uguale (usando però il vino bianco invece del rosso), si ottiene una salsa ottima per i tranci di salmone e per le triglie in padella.

Maionese

La regina delle salse fredde, detta anche «condottiera» perché numerose sono le sue derivate. Deriva il nome da Port Mahon, città di Minorca conquistata nel 1756 dalle truppe del duca di Richelieu (pronipote del famoso cardinale), che festeggiò l’evento con la preziosa invenzione del suo cuoco personale? O fu la consolazione della cocente sconfitta subita dal duca di Mayenne, appassionato ghiottone che si attardò nelle cucine, mentre infuriava la battaglia di Arques? Vittorie e sconfitte furono dimenticate, la maionese no. I Francesi comunque si sono rivela-

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ti abilissimi a far emergere le ricette dalla storia, quasi sempre militare, conferendo loro le stimmate di un’ardita nobiltà. La maionese ha un nemico: il freddo. Le uova devono essere a temperatura ambiente, mai appena tolte dal frigorifero. 2 tuorli d’uovo in una terrina, un pizzico di sale e si comincia a girare molto lentamente sempre nello stesso senso con una forchetta, una frusta o un mestolo di legno, lasciando cadere piano piano l’olio a filo. Quando comincia a raddensarsi, si può aumentare la velocità. Si aggiunge qualche goccia di aceto bianco o, all’uso italiano, un po’ di limone spremuto. Per i pesci bolliti, il pollo, le verdure lesse, i club sandwich... Con solo olio d’oliva di carattere (tosco, umbro o laziale) avrete una maionese forte che può tendere all’amaro; con olio ligure o del Garda sarà meno forte; con quello di semi, l’avrete più delicata e appena un po’ più piatta. per essere sicuri che non impazzisca, usate sempre uova a temperatura ambiente; scaldate prima la terrina con acqua bollente, asciugatela e cominciate subito a girare. Riprendere la maionese e correggerla in corsa è una vera e propria arte. Si può tentare con qualche goccia d’acqua sulle pareti della terrina da incorporare energicamente. Oppure ricominciare separatamente con un uovo. O ancora, come suggerisce Ada Boni, ci si può aiutare con una cucchiaiata scarsa di farina sciolta in 1/2 bicchiere d’aceto e fatta poi cuocere per qualche minuto sbattendo con una frusta: quando il composto è elastico, si lascia raffreddare e vi si unisce poi piano la maionese impazzita.  VARIANTI infinite. Se si vuole una maionese più leggera, si può aggiungere un po’ d’albume. In questo caso utilizzate la frusta elettrica.  CONSIGLIO

Rémoulade

È una maionese con l’aggiunta d’un cucchiaino di mostarda di Digione, che si mette alla fine con 3 cetriolini sott’aceto tritati (prima vanno strizzati e asciugati) e 1/2 cucchiaiata di dragoncello (la cui stagione è giugno-luglio) e prezzemolo, anch’essi tritati. Ottima per carni fredde e crostacei.

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Tartara

4 tuorli d’uovo sodo (facoltativo un tuorlo crudo) lavorati con un cucchiaio di legno, sale e olio a filo come per la maionese. Quando il tutto sarà amalgamato, aggiungete un cucchiaino di mostarda di Digione e qualche goccia d’aceto, insieme a un trito d’erba cipollina o di dragoncello. Va preparata poco prima d’andare in tavola, perché si smonta. Perfetta per carni fredde, in gratella, petti di pollo o tacchino impanati e fritti. Aioli

La salsa provenzale per eccellenza, bandiera dell’Occitania, tanto che nel 1891 il poeta Frédéric Mistral fondò ad Avignone un giornale intitolato «L’Aïoli», come se a Napoli pubblicassero «La Pummarola». Fate una maionese (vedi p. 204) con 2 rossi d’uovo e 4 spicchi d’aglio pestati in un mortaio con un po’ di sale grosso. Alla fine aggiungete un po’ di limone e pepe di Caienna. Perfetta per il pesce bollito (la sua morte è la razza in padella al burro nero), è buona anche con le costolette d’agnello. Da non confondere con il meno noto aioli greco: vinaigrette con mollica di pane setacciata e aggiunta di noci, mandorle, nocciole e aglio tritati. Ragù deriva dal francese ragoût, il termine che indica una salsa a base di carne generalmente usata, da noi, per condire la pasta. Ecco alcuni eccelsi ragù italiani. Ragù di carne alla bolognese

Preparate un soffritto con 4 cucchiai d’olio, 1/2 cipolla, 1/2 gambo di sedano, 1 carota piccola e 50 g di pancetta tesa tritata, facendolo cuocere piano. Unite 2 etti di polpa di maiale e 2 etti di spalla di manzo macinati; quando la carne avrà assunto un colore uniforme, aggiungete 1/2 bicchiere di vino rosso, fatelo sfumare quasi del tutto e bagnate con un un po’ di brodo di carne. Aggiungete 1 cucchiaino di concentrato di pomodoro

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e un altro po’ di vino. Fate ridurre e versateci 200 g di pomodori pelati. Deve cuocere a fuoco dolce e a tegame coperto per almeno 1 ora, con l’eventuale aggiunta di un po’ di brodo (ma deve risultare abbastanza denso). ci si può unire anche qualche fegatino di pollo tritato o un po’ di funghi secchi con la propria acqua d’ammollo e il solito mazzetto aromatico (timo, basilico, prezzemolo, alloro).

 VARIANTI

Ragù toscano

2 etti di carne di manzo e circa 1 etto di carne avanzata di pollo o meglio ancora di piccione, tagliati a tocchetti grossi come olive e fatti soffriggere in 5 cucchiaiate d’olio, insieme a un trito di 1 cipolla media, 1 carota, 1 gambo di sedano, qualche foglia di basilico, il giusto sale. Procedete a fuoco vivo rimenando con un mestolo e lasciando attaccare appena il sugo. Bagnate con un bicchiere di vino rosso e grattate il fondo per farlo sciogliere nel vino. Sfumato il vino, aggiungete un ramaiolo di brodo. Togliete la carne, disossate gli eventuali pezzi di piccione o pollo e tritate finemente tutto, poi continuate a far cuocere dolcemente per circa un’ora. Quando siete a un 1/4 d’ora dal termine, aggiungete pochi pomodori freschi spellati. mantecate i rigatoni, le penne o gli ziti al dente, non troppo scolati e direttamente nella pentola, facendo staccare il bollore per 1 minuto. Via dal fuoco, aggiungere abbondante parmigiano. Siate parchi di pomodori: va dato quasi in bianco.

 CONSIGLI

Ragù napoletano

Lunghe cotture, sugo dell’attesa, di vasti, sospesi pomeriggi meridionali. Non a caso questa era la salsa dei portieri, un occhio all’androne, l’altro alla cucina mentre il ragù «pippiava» lento e inesorabile. Per 6 persone: con 100 g di prosciutto a fette, 50 di pancetta, un po’ di prezzemolo tritato e pepe, lardellate 1,5 kg di maiale tagliato nella coscia. Legate la carne con spago alimen-

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tare. Tritate finissimi nel mixer 400 g di cipolle, 2 spicchi d’aglio, 50 g di lardo, 50 g di pancetta e unite tutto alla carne in una casseruola, con 1 dl d’olio e 100 g di strutto. Coprite e fate cuocere a fuoco bassissimo per circa 1 ora. Quando le cipolle saranno imbiondite, bagnate con 2,5 dl di vino rosso secco, aggiungendolo poco per volta. Fate sfumare del tutto e aggiungete 2 cucchiai di concentrato di pomodoro. Lasciatelo ritirare e ripetete l’operazione fino a che non siano stati assorbiti 400 g di concentrato. Continuate a far cuocere aggiungendo acqua o brodo vegetale (vedi p. 200) per almeno 2 ore: la salsa deve presentarsi lucida, scura e densa come la testa d’un guappo d’antan. Togliete la carne che avrà ceduto ormai tutta se stessa e servirà come secondo. Ci vuole una cottura di almeno un pomeriggio intero, un après-midi napoletano (senza fauni, ma coi portieri). Ideale come condimento per gli ziti. Pesto genovese

Un altro archetipo. Si pestano in un mortaio di marmo, con un pestello di legno, 60 foglie adolescenti di basilico insieme a un pizzico di sale grosso, una manciata di pinoli (30 g) e 2 spicchi d’aglio. Per quanto si chiami pesto, nel mortaio non va pestato dall’alto, ma schiacciato con un movimento rotatorio: è il sale grosso che taglierà le foglie del basilico. Quando il basilico, l’aglio e i pinoli saranno ben frantumati, aggiungerete 50 g di pecorino e 100 g di parmigiano: ne verrà un impasto corposo e denso; a quel punto aggiungerete 1,5 dl d’olio a filo. Se dovrete poi conservarlo, l’importante è che un dito d’olio sovrasti il pesto nel barattolo, così che lo protegga a lungo. Mettete a lessare una patata e qualche fagiolino in acqua abbondante, dove farete cuocere gli spaghetti – o meglio le trenette o le trofie – da scolare al dente. Condirete la pasta con il pesto, aggiungendo volendo altro parmigiano o pecorino.  CONSIGLIO

non date eccessivo peso alla diatriba «carsica» che esiste

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tra Nord e Sud (sempre latente e sempre pronta ad erompere) sul basilico; è vero che secondo la ricetta tradizionale le foglioline di basilico devono essere germogli liguri, privi di quel profumo di menta che spesso emana dalle varietà coltivate altrove. Ma voi fatelo con le foglie che avete e fatelo pure nel mixer, in alternativa al mortaio, anche se si può scurire perché, tagliato dalle lame, il basilico si ossida. Pesto alla trapanese

Verso sud. Pestate nel mortaio 4 spicchi d’aglio con molto basilico, ruotando il pestello sulle pareti. Unite olio d’oliva, versandolo a filo, finché la pasta non sia cremosa. A parte pestate 5 cucchiai colmi di mandorle fresche spellate crude, da unire al pesto. Mescolate il tutto con 400 g di pomodori maturi spellati, senz’acqua, tagliati a pezzetti. Aggiungete altri 3 cucchiai d’olio. Ci vorrebbero i «busiati», una specie di fusilli all’uovo tipici di Trapani, ma va benissimo ogni tipo di pasta. Perfetto d’estate.

Bollire Abbiamo affrontato il piatto re di questo modo basilare di cottura (anche gli spaghetti si bollono), cioè il bollito misto, ma esistono varianti e differenti modi di bollitura. Qui trovate i principali. Court bouillon (e brodo di pesce)

Forse è un’illusione, ma fondamentale per la civiltà occidentale nei confronti del pesce. Nella pesciera, in 3 dita d’acqua – o quella comunque necessaria a coprire a filo il pesce – fate bollire 1 cipolla bianca, 1 carota, 1 gambo di sedano, 3 rametti di prezzemolo, 1 foglia d’alloro e 1 bicchiere di vino bianco secco. Dopo un’ora spegnete e lasciate raffreddare, poi mettete il pesce da bollire. Il brodo di pesce, da non confondere con il court bouillon, si prepara semplicemente facendo bollire teste e scarti o pesci pic-

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coli, con un mazzetto guarnito e 1 cipolla in abbondante acqua, che poi si filtra, per almeno un’ora. Essenziale per i risotti di mare (che potete anche arricchire con un po’ di fondo bruno). Ad acqua libera tumultuosa

Gli scampi: buttateli rossi e grossi nell’acqua allegra, quando l’acqua riprende il bollore scolateli. Non è cosa da poco, per un piatto fra i più prelibati (la semplicità esige rigore). Fate aspettare 5 minuti, poi mangiateli così: si apre la coda ai lati, scrocchiandola come fosse fatta di tanti gancetti, e tirando il carapace centrale avrete la polpa candida in mano; poi succhiate la testa e rompete con i denti le chele. Protagoniste le mani, oltre al palato. A parte, sarà necessario lavarle con acqua e limone – o fate come Susan Sarandon, in Atlantic City, che lavorava in un ristorante di pesce e si faceva la doccia due volte al giorno con il lime. La base di questo piatto sono gli scampi, che vanno inseguiti dal pescivendolo. I più buoni che abbia assaggiato sono quelli prenotati da Volpe a Viareggio, dopo lunghi conversari (arrivano alle sette e mezzo di sera o alle tre del pomeriggio dal mare, al largo dell’isola d’Elba). Questo per dire che il pescivendolo vi stimerà di più se parlate con lui del regno d’Atlantide. Ad acqua frenata

L’esempio principe della bollitura minimale, quasi indifferente, è quella necessaria per i fagioli. L’acqua in cui cuociono i fagioli deve tremare soltanto. Senza muoversi, i fagioli dovrebbero assopirsi coperti appena da una coltre d’acqua che li sopravanza d’un dito, con un po’ d’olio e una ciocca di salvia. Il modo più bello di cuocere i fagioli era quello del fiasco, all’uso toscano, tenendolo vicino al fuoco del camino. A Colle di Val d’Elsa, città di vetrai, oltre che di Maccari e di Bilenchi, potete trovare una moderna e bella versione di fiasco, con speciale foro d’uscita, per cuocere i fagioli all’antica, su fuochi contemporanei.

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Friggere e non solo Breve preambolo sulla cottura alla fiamma, una cottura arcaica, oggi di lusso. Per farla ci vuole un camino e uno spiedo. Se ce l’avete, avrete provato a cuocere alla fiamma un pollo, un’anatra, un fagiano che sgrondano allegri sulle patate raccolte nella ghiotta. È inutile spiegarlo, lo sapete già. Ricordatevi solo di lardellare con pancetta o lardo i lombi e le cosce della carne. Ma sapete come si cuoce una bistecca? Come si cuoce una bistecca (fiorentina)

Una bistecca, semplice a farsi nelle sue scansioni essenziali, non sarà mai uguale a un’altra, anche con le medesime braci e le stesse griglie, perché la carne non è mai uguale. Prima regola: mai fredda, la carne deve essere già fuori del frigorifero da almeno 3 ore; seconda: il taglio è nella lombata col filetto, deve essere visibile il classico osso a T; terza: alta almeno 7-8 cm e del peso di 800 g circa. Si cuoce 3 minuti per parte al sangue e si sala il lato già cotto col sale grosso; si serve caldissima su piatti bollenti da tenere in mano con un canovaccio. Potete anche cuocerla per poco verticalmente, per far sciogliere un po’ il grasso. Gli stessi tempi valgono per la griglia o per la piastra. Vale la regola di utilizzare vitellone di Chianina frollato almeno 5 o 6 giorni, ma la bestia più vecchia, che rischia qualche durezza, è più saporita. Fondamentale, per una buona bistecca, il rapporto con il macellaio. Teoricamente si può fare con altre carni, come lo straordinario «vitello della coscia» o Fassone piemontese, o la francese Charolais, ma il problema è rappresentato dal taglio, che è un po’ come i dialetti: ognuno ha il suo. La brace è piccola e la bistecca dovrebbe stare a circa 20 cm di distanza. I maniaci distinguono le braci, che dovrebbero essere di taglio parco: di tralci di vite, d’olivo...  VARIANTE

se avete un forno a legna, compratevi un bel pezzo di carré

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di bistecca e fatelo cuocere in rapporto alla grossezza, saggiando con un ferro appuntito il grado di cottura. Si può fare anche in un forno domestico. A Firenze, si chiama «il pezzo grosso». Friggere (a orecchio)

I modi sono tanti. Si frigge direttamente nell’olio o infarinando prima gli alimenti, passandoli nell’uovo o nell’uovo e pangrattato, o prima in una salsa (vedi villeroy, p. 203) oppure immergendoli in una pastella. Quello del fritto è un mondo vario, delizioso e multiforme come abbiamo visto, ma ricordatevi che il colore deve risultare dorato, non scuro. Ci sono almeno tre temperature, a seconda di ciò che si frigge. Quella media, fra i 140°C e i 160°C, serve per i tranci di pesce, il coniglio, il pollo e per le patate (160°C); quella alta per i cibi in pastella, le frittelle, le crocchette; e infine la cottura molto alta a 185°C – limite che non va superato – per la «fragaglia» (pesciolini), le patate fiammifero o la seconda cottura delle patate fritte (vedi p. 58). Sarebbe utile usare una friggitrice che mantiene le temperature costanti; ma di solito, nelle case, non si fa. I virtuosi friggono a orecchio: buttano una goccia d’acqua nell’olio bollente e dallo scoppio più o meno forte riconoscono il grado di riscaldamento (per i primi esperimenti munitevi di tuta e casco da palombaro aperto sulle orecchie). Altrimenti si fa la prova del pane. Un pezzetto di pane, a forma vagamente cubica di circa 1 cm di lato, s’indora in 40 secondi a temperatura media, in 30 a quella alta, in 25 a quella altissima. Lo so, è cucina col cronografo... che va comunque sempre tarata sulla pratica. Altra regola: non ammassate mai gli alimenti e non salateli prima. Meglio friggere in più volte e riservare nel forno al minimo. Tentate di posare gli alimenti nell’olio o in altro grasso (per esempio lo strutto) insieme e velocemente: la rapidità è essenziale per un fritto uniforme. Subito dopo alzate la fiamma leg-

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germente e dopo circa 10 secondi riportatela al livello precedente. Fatelo anche quando rivolterete i pezzi. Scolate col ragno e non col mestolo forato, che sgronda assai meno, e appoggiate su carta da cucina, senza ammassare: l’umidità ammoscia il fritto che deve respirare e restar secco. Pastelle

La pastella si compone essenzialmente di acqua e farina, con eventuale aggiunta di birra, lievito, albumi, vino o tuorli e serve per rivestire carni, verdure, pesci. Setacciare 4 cucchiaiate colme di farina «00» in una ciotola con 1 cucchiaio d’olio. Unire un bicchiere d’acqua sbattendo con la frusta. Non deve essere troppo elastica. Si fa riposare e vi si incorpora delicatamente all’ultimo momento, prima di friggere, 1 chiara montata a neve, sempre mischiando con la frusta.  VARIANTE

aggiungere birra fredda invece dell’acqua.

Tempura

Forse, se riesce, il migliore dei modi. Leggero, arioso, fragrante, il tempura è una nuvola dorata e croccante importata dal paese del Sol Levante. Sbattete un tuorlo d’uovo e aggiungete acqua gasata (Perrier, San Pellegrino) a mille atmosfere mischiando grossolanamente. Unite 1 tazza di farina tutta in una volta, mescolando adagio senza temere i grumi, ma facendo attenzione che la pastella non diventi collosa. Mettetela nel freezer per un’ora, controllando che non geli. Immergete nella pastella gli alimenti (code di gamberi, zucche tagliate a listarelle, zucchini e carote alla stessa maniera, cipolline novelle ecc.) dopo averli leggermente infarinati, e fate friggere in 1 litro almeno di olio di semi o d’oliva leggero. Salate alla fine.

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Panare

Abbiamo visto alcune ricette che prevedevano il passaggio nell’uovo e nel pangrattato e poi la frittura nell’olio. Importante ricordarsi di non esagerare nello sbattere le uova e di non salare mai prima niente. Il pangrattato andrebbe fatto in casa, di sola mollica e messo a stufare in forno. Siccome ci sono sempre grandi scorte di pane secco e molte raffinate ricette recitano di farsi il pangrattato in proprio, ci ho provato. Ho scartato l’idea, suggerita da qualcuno, d’usare i grissini, perché sono troppo grassi e cambiano l’impanatura. Provate, dunque, a fare il pangrattato coi tozzi duri. A mano è impossibile: con la grattugia la fatica è improba, il risultato scarso. Nel mixer, il pangrattato risulta sospetto, perché s’inumidisce. Allora dovreste provare a passarlo poi in forno. A questo punto, dopo la ripassata in forno, l’ho usato per impanare delle cotolettine. Risultato: son venute scrostate, che è quanto di peggio. Carne grigia a macchia di leopardo da una parte, impanatura abbrunita a galleggiare nell’olio dall’altro. Eppure erano state ben immerse nell’uovo sbattuto e poi lavorate a dovere, premendo, più volte con le mani, la carne impanata. L’errore era nel pangrattato: troppo grosso. Il consiglio? Procedete come detto, ma controllate che il mixer ve lo frantumi fine, oppure potete setacciarlo, in modo da avere del pangrattato fine e del pangrattato grosso secondo le esigenze. Ad esempio con le verdure al gratin è preferibile quello grosso. Altrimenti, come me, compratelo già fatto, verificando che la data di scadenza non sia dietro l’angolo e il pangrattato troppo anziano. Compratelo magari, assicurandovi che sia fresco, non industriale ma preparato dal fornaio. Quando impanate la carne, premete sempre bene tutta la superficie. (generale): si frigge quasi sempre con l’olio, ma un tempo si usava lo strutto di maiale che è tornato in circolazione. Provate a friggere le patate nello strutto: sono deliziose. È un sapore antico, prepotentemente nuovo.

 VARIANTE

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Al vapore

È la cottura, di derivazione orientale, che più mantiene intatto il sapore dei cibi. Al vapore si cuociono verdure, pesci e anche carni. Esistono delle speciali vaporiere elettriche o dei cestelli forati, di canna o d’alluminio, da infilare nelle pentole sopra l’acqua che bolle. Gli asparagi sono l’unica verdura che non si taglia a pezzi, si cuociono al vapore, mettendoli ritti, direttamente nella pentola per la pasta, in 3 dita d’acqua, coprendo con un’altra pentola che non schiacci le punte; tutte le altre verdure (carote, zucchini... ma non sempre le patate) si tagliano prima a pezzi. a metà cottura circa, si rigirano gli alimenti. Si possono inventare vapori aromatici arricchendo il cestello con mazzetti odorosi (erba cipollina ecc.) e l’acqua con sherry o brodi più o meno odorosi.  CONSIGLIO

Arrosto vivo e morto

Per la distinzione, profonda, di cottura arrosto rimandiamo volentieri alle relative ricette del piccione alle pp. 101-102. Forse vivo non esiste, ma è per distinguerlo dall’altro. «Morto» è in tegame, «vivo» in forno. Sono due modi diversi di cuocere la stessa pietanza ma, come è facile intuire, il modo migliore di capirne le differenze sta nell’assaggiarli: quindi cucinarli, e il piccione ne è l’esemplificazione migliore. Ma esiste anche una versione del roast beaf in tegame, cioè arrosto morto.

Terrazzo guarnito Quando gli orti di erbe aromatiche e medicinali di Pisa e Padova cominciarono a diventare famosi, Cosimo de’ Medici non volle essere da meno e creò, a Firenze, il Giardino dei Semplici. Le erbe aromatiche non dovrebbero mai mancare nella vostra

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cucina. Potete coltivarle in terrazzo o su un balcone se le avete. Ecco le fondamentali e i loro principali usi. Basilico: è di vari tipi, quello genovese si distingue per le foglie

più piccole. Essenziale per i pesti e per il sugo di pomodoro cotto o crudo (semplicissimo quest’ultimo: pomodori spelati, olio, aglio schiacciato, sale e molto basilico; il tutto a riposare per almeno 2 ore). Ottimo, alla fine, sulla pizza Margherita. Prezzemolo: sul pesce, su alcuni risotti, paste di mare e mine-

stre. Alcuni lo mettono nell’impasto delle polpette. Menta: di vari tipi. Serve per il Mojito, per la trippa in bianco…

In una sua versione toscana, detta nipitella, è fondamentale nei funghi in umido («al funghetto») e negli stufati. Dragoncello: si usa per aromatizzare l’aceto, ma sta bene sia col

pollo arrosto, sia col pesce al forno. Si può friggere come la salvia. Si dice che venne coltivato per la prima volta dai monaci di Sant’Antimo, vicino a Montalcino. Timo: perfetto per la carne, soprattutto per l’agnello, il maiale e

la cacciagione. Salvia: si usa con le carni in padella, per i fagioli lessati, col bur-

ro per condire tortelli, gnocchi... Molto buona fritta in pastella. Rosmarino: nella carne e nel pesce arrosto, nel fumetto di pe-

sce. In Toscana, sul castagnaccio. Alloro: «Odio l’allor ch’è sempre eterno» diceva l’abate Zanella.

Noi no. Il sacro, ma comune lauro, entra sempre nel mazzetto guarnito e nei sughi; esalta gli umidi di pesce, arricchisce il court bouillon per bollire il medesimo. Necessario assolutamente per i fegatelli di maiale, con relativa rete, in tegame. Da usare preferibilmente fresco e con parsimonia.

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Erba cipollina: comune nei prati, ma coltivabile, si segnala per

il gentile profluvio di cipolla. Aromatizza le omelette, profuma le insalate e sta bene nelle minestre. Borragine: amatissima nell’Ottocento, oggi un po’ dimentica-

ta. Se ne fa una minestra o si salta in padella con olio e aglio. Si può aggiungere all’insalata. Finocchio selvatico: cresce selvatico nei campi o ai bordi delle

strade di polvere. Nel pesce arrosto o bollito, con la carne di maiale. Essenziale nella pasta con le sarde.

Esotismi Salse e preparazioni base che proiettano qualche suggestione orientale nella nostra quotidianità. Limoni alla marocchina

Prendete 12 limoni non grandi e metteteli in ammollo in una conca piena d’acqua fredda per 5 giorni, cambiando l’acqua ogni giorno. Scolateli e incideteli con 4 tagli longitudinali usando la punta d’un coltello, ma state attenti a tenere intatti i limoni ai due poli. Insomma devono restare 4 spicchi uniti. Mettete 1/4 di cucchiaino di sale grosso in ciascun taglio e disponete i limoni in un vaso a chiusura ermetica, che riempirete fino al tappo con acqua bollente, mettendoci un cucchiaio di sale grosso e il succo filtrato di mezzo limone. Conservare i vasi in luogo asciutto per 3 settimane. Quando si usano i limoni, si toglie la polpa utilizzando solo la scorza. Con questo sistema fate un ottimo spezzatino o una preparazione in umido. I limoni canditi dal sale si possono usare anche con il pesce in guazzetto.

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Curry vandaloo

Il curry non esiste, o meglio è un invenzione inglese, che deriva dall’hindi turkarri («umido, stufato»). Per gli inglesi e gli olandesi che avevano vissuto nelle colonie delle Indie Orientali, dove avevano scoperto e apprezzato la gran varietà di turkarri, una volta tornati in patria non era facile trovare tutte le spezie fresche (coriandolo, cardamomo, zenzero, curcuma, cumino, tamarindo, peperoncino ecc.); così idearono le miscele esotiche di spezie seccate o in pasta, già preconfezionate. Sono quelle che utilizziamo ancor oggi, ma il curry o meglio il turkarri, forse il miglior umido del mondo, oggi ce lo possiamo preparare come in India con gli ingredienti freschi: merito del melting pot. Questo è il vandaloo, il classico «fiery curry» nato a Goa. Fate indorare una grossa cipolla tagliata fine in 5 cucchiaiate d’olio. Marinate 700 g di polpa di maiale con 2 cucchiai d’aceto di vino bianco e 1 cucchiaio d’acqua. Mettete nel mixer le cipolle, 2 cucchiaini di semi di cumino, 4 peperoncini secchi, 6 pezzi di cardamomo, 1 stecca di cannella, 1 cucchiaio di semi di coriandolo, 1 cucchiaino di semi di mostarda. In una casseruola cuocete il maiale tagliato a pezzetti con 6 cucchiaiate di ghee facendolo rosolare. Aggiungete 4 spicchi d’aglio tritato, un pezzo di zenzero fresco grattugiato, 2 pomodori spellati, 1 cucchiaio di zucchero di canna e 250 g di patate sbucciate tagliate a pezzi. Un po’ di sale e aggiungete le spezie tritate nel mixer. Fate cuocere piano per un’ora. Il vandaloo vuol veder l’uomo in faccia. Chutney

È una salsa agrodolce ideale per tutte le carni. Prendete una grossa cipolla rossa tagliata a rondelle e fatta stufare in 40 g di burro; aggiungete 3 mele renette sbucciate a pezzi, 5 cm di zenzero fresco grattugiato, 1 cucchiaio di zucchero, 3 cucchiai di aceto, coriandolo fresco, un po’ di sale. Fate cuocere a fuoco medio finché non otterrete una specie di marmellata abbastanza

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omogenea in cui il dolce s’incontra col vigore dello zenzero e la frutta con le punte dell’aceto. Si può fare anche con le pere e si conserva a lungo in frigorifero, in un barattolo chiuso. Un chutney forte e rinfrescante è quello di lime, da accompagnare a stufati e carni rosse. Tagliate un lime molto sottilmente e fatelo riposare con 1 cucchiaino di sale. Tagliate finemente 2 peperoncini verdi e 2 rossi e fateli macerare in un po’ d’aceto di vino bianco. Levateli dall’aceto e mischiateli a 1 cucchiaio di succo di limone, 1/2 cucchiaio di zucchero, 2 scalogni tritati e 1 cucchiaio d’olio. Aggiungete il lime e mischiate vigorosamente. Rinforza, volendo, un curry gentile. Sali, pepi

Si assiste a una certa salomania (studi sul sale, contemplazione dei cristalli, visite guidate in bellissime saline...), anche se il sale più usato resta quello raffinato marino dal color bianco che si trova dappertutto, mentre sarebbe meglio che fosse integrale, dal color grigio più ricco e intenso. Danese, Fleur de Guérande, Maldon, Cervia, Camargue... si potrebbe fare un lungo e affascinante elenco. Le descrizioni più sintetiche e poetiche del sale son quelle contenute in un piccolo libro d’un mio omonimo (Le zuppe di Pompeo, L’Ancora Editore, di Cesare Matteucci) purtroppo fuori commercio. «Non esiste elemento», vi si legge, «che crei maggior discrimine tra dannazione e salvezza. Ogni tipo di sale ha colore, profumo, forma differente. Il Danese, ancor oggi di fattura vichinga, viene affumicato con legno di quercia, faggio, olmo, ciliegio, ginepro. Ogni legno gli dà destino diverso. Fleur de Guérande, amato da Luigi XIV, profuma di violetta, è grigio, ricco di minerali, nasce in Bretagna. Integrale di Cervia, nasce nella riserva di Camillone in compagnia del Salfiore. Si raccoglie al mattino con un retino per prendere le farfalle. Ha sapore zuccherino».

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Si potrebbe continuare ancora per molto e giungere al sale star del momento: il Maldon, che molti chef sottolineano essere assolutamente necessario. «Bianco e nevoso, nasce», sempre da Matteucci, «a Essex, Inghilterra. È delicato, ha aroma di brezza marina, è chiamato caviale del mare». Prima o poi dovremmo provare anche il Diamante del Cashmere, nato 250 milioni d’anni fa: «forze occulte lo hanno sottoposto a terribili pressioni, che gli hanno procurato 84 componenti d’incerta classificazione». Il pepe nero e il pepe bianco provengono dalla stessa pianta. Solo che il primo si ottiene essiccando le bacche acerbe al sole, il secondo con bacche mature, sbucciate e seccate al sole. I pepe bianco è meno forte e profumato di quello nero e si usa, per lo più, per pepare una salsa chiara. Il pepe col tempo perde profumi, non mordente; va sempre usato al momento, non pestato o ancora peggio macinato prima. Oltre ai due pepi fondamentali, si trovano altre bacche piccanti dallo stesso nome: pepe verde e pepe rosa. Il primo è pepe nero non essiccato conservato in salamoia; il secondo proviene da un’altra pianta. Il pepe verde è assurto alla notorietà grazie al celebre filetto che porta il suo nome. Si cuoce un filetto in padella con un po’ di burro per breve tempo e si mette da parte; si deglassa con un po’ di cognac la padella aggiungendo qualche cucchiaiata di fondo bruno e si fa ridurre. Alla fine si lega la salsa con un po’ di burro e si aggiungono i grani di pepe verde.

Indici

Indice alfabetico delle ricette

A

acciughe bianche 137  acciughe classiche 136  agnello con patate novelle 19  aioli 206  amatriciana 130  aringhe alla

livona 135  arista di maiale con le mele 102 B

bagna cauda 118  bagnet ross 27  bagnet verd 27  Bellini 85  besciamella 201  bistecca (fiorentina) 211  Black Russian 35  Bloody Mary 4  bollito misto 25  bonèt 29  bordolese 204  brasato al barolo 103  brodetto dell’Adriatico 83  brodo di carne 26  brodo di pesce 209  brodo di verdura 200  burro chiarificato 200 C

cacciucco 82  Camparone 177  caponata 109  carbonara 132  carbonara con gamberi 133  carciofi alla giudia 193  carciofi piani 143  carne cruda all’albese 18  carpaccio di manzo alle erbe 8  cevice 85  chutney 218  ciambellette al vino 54  cipolle ripiene 69  club sandwich 185  conchiglie fredde 22  condimento base dell’insalata 121  Corpse Reviver 36  cotoletta alla milanese 95  coulis di crostacei 200  court bouillon 209  crema di formaggio con le pere 134  crème caramel 174  crocchette di gamberetti 188  crocchette di pollo 67  crostini con fegatini di pollo 16  crostini di mozzarella 6  curry vandaloo 217 D

Daiquiri 136  dentice al forno con patate 87

q.b. Indice alfabetico delle ricette

224

F

fagioli 127  fagiolini in umido 53  filetti di triglia di scoglio alla crema di rosmarino 148  filetti di triglia in guazzetto, con pomodoro e basilico 147  fiori di zucca fritti 125  fish and chips 97  fondo bianco o di pollo 199  fondo bruno 198  fonduta (di patate) 116  framasson di Monzù Terremoto 167  fricassea di pollastri squisita alla genovese 42  frittata base 181  frittata di cipolle 180  frittata di un uovo 182  frittelle di pangrattato 70  fritto di pesce 92  fritto misto alla piemontese 91  Fruit and Tonic 56  fumetto di pesce 199 G

gattò di patate 114  gazpacho 37  gello di melone 90  Gin Tonic (maniacale) 81  gnocchi di patate 115  Godmother 35  gratin dauphinois 117  gricia 131  grissini alla Caraceni 36 H

hamburger all’italiana 59  horseraddish sauce 28 I

insalata andalusa 123  insalata di pollo 66  insalata nizzarda 122  insalata russa 75  involtini di prugne e bacon 18 J

Julep 124 L

lasagne alla bolognese 160  lasagne col pesto genovese 161  lesso alla Marengo 66  lesso alla marsigliese 65  licurdia 119  limoni alla marocchina 217 M

macedonia 23  maionese 204  maionese piccante 93  Margarita 135  Martini cocktail 51  melone al porto 45  merluzzo alla fiorentina 16  mesticanza 121  mezzemaniche coi broccoli 78  millefoglie di verdure al basilico 191  Mimosa 124  minestra di

q.b. Indice alfabetico delle ricette

225

lenticchie 120  minestrone 30  mitonate 142  Mojito 135  mousse nigrita (al cioccolato) 44  mozzarella in carrozza 5 O

ombrina al vapore 41  ombrina lessa 40  omelette dolce 184 P

pappa al pomodoro 71  parmigiana di melanzane 113  Parson’s special 35  pasta alla Norma 189  pasta brisé 68  pasta coi piselli 57  pasta con gli zucchini 57  pasta fresca all’uovo 156  pasta frolla 144  pastelle 213  pasticcio di gnocchi 144  patate fritte 58  patate rifatte 63  pâté di peperoni 56  pavese 26  pere al vino rosso 49  pesche ripiene 170  pesto alla trapanese 209  pesto genovese 208  petto d’anatra al calvados 48  piccione al tegame (morto) 101  piccione al tegame (vivo) 102  pie di carne 68  pizza alla Campofranco 169  polenta base 98  polenta «cunsa» 99  polenta sulla spianatora 99  pollo al curry 14  pollo fritto alla fiorentina 94  polpette 64  polpette di melanzane 112  polpo con patate 88  pulpitielli in tegame 49  puntarelle 108  purè di fave con cicoria 126  purè di melanzane 111 R

ragù di carne alla bolognese 206  ragù napoletano 207  ragù toscano 207  ravioli genovesi di magro 161  rémoulade 205  rigatoni cicoria e pecorino 77  riso all’uovo 181  riso pilaf 15  riso verde 75  risotto al fondo bruno 19  risotto al limone ed erbette 9  risotto allo champagne 190  risotto al nero di seppia 6  roesti di patate (e würstel) 13  rosbiffe 100  Rossini 124 S

salsa della tata 28  salsa di pomodoro 202  salsa olandese 203  salsa vellutata 202  saltimbocca alla romana 7  salvia fritta 126  sauté di vongole 86  scaloppine 43  sedani alla Popoff 110  sformatini al cacao 192  sformato di patate, verdura e bacon 74  sorbetto di pesche bianche 171  sorbetto vodka e lime 97 

q.b. Indice alfabetico delle ricette

226

soufflé al formaggio 47  spaghetti aglio e olio 52  spaghetti al burro 11  spaghetti al cognac 141  spaghetti alla bottarga 10  spaghetti alla Novelli 189  spaghetti alla rustica 179  spaghetti alle acciughe 12  spaghetti alle vongole 138  spaghetti al pomodoro e basilico 152  spaghetti al sugo di pesce 172  spaghetti cacio e pepe 178  spaghetti coi coltellacci 139  spaghetti con le triglie 146  spezzatino di vitello con piselli 41  Spritz 123  Spritz young 186  straccetti 52  stracciatella 172  supplì 73 T

tagliatelle al prosciutto 163  taglierini nei fagioli 163  tartara 206  tartrà 21  tempura 213  terrina di mare 140  timpano di maccheroni al ragù 165  toast 185  tonno al forno 89  Torpedine 186  torrone al cioccolato 20  torta di maccheroni al basilico 72  torta fritta 62  tortelloni con la ricotta 158  tortilla 182  tortillas in salsa piccante 37  tortino di carciofi 183  totani in zimino 151  tramezzini di pollo 185  triglie fritte 192 U

uova al pomodoro 173  uova in camicia 174  uova strapazzate 32  uovo barzotto 154 V

vellutata di patate con gamberi 39  verdura ripassata 76  vichyssoise 108  vignarola 107  villeroy 203  vitello tonnato 22  Vodkatini 35 W

Whiskey Sour 100 Z

zabaione 60  zucca al caramello 127  zucchini al rosmarino 8  zuppa di cipolle gratinata 120  zuppa di cozze 86  zuppetta di moscardini 87

Indice dei piatti

I COCKTAIL

Bellini 85  Black Russian 35  Bloody Mary 4  Camparone 177  Corpse Reviver 36  Daiquiri 136  Fruit and Tonic 56  Gin Tonic (maniacale) 81  Godmother 35  Julep 124  Margarita 135  Martini cocktail 51  Mimosa 124  Mojito 135  Parson’s special 35  Rossini 124  Spritz 123  Spritz young 186  Torpedine 186  Vodkatini 35  Whiskey Sour 100 GLI ANTIPASTI

acciughe bianche 137  acciughe classiche 136  aringhe alla livona 135  carne cruda all’albese 18  carpaccio di manzo alle erbe 8  cevice 85  crema di formaggio con le pere 134  crocchette di gamberetti 188  crostini con fegatini di pollo 16  grissini alla Caraceni 36  insalata russa 75  involtini di prugne e bacon 18  pâté di peperoni 56  salvia fritta 126  sauté di vongole 86  tartrà 21  tortillas in salsa piccante 37  tramezzini di pollo 185 I PRIMI

amatriciana 130  bagna cauda 118  brodetto dell’Adriatico 83  brodo di carne 26  cacciucco 82  carbonara 132  carbonara con gamberi 133  conchiglie fredde 22  framasson di Monzù Terremoto 167  gazpacho 37  gnocchi di patate 115  gricia 131  lasagne alla bolognese 160  lasagne col pesto genovese 161  licurdia 119  mezzemaniche coi broccoli 78  minestra di lenticchie 120  minestrone 30  pappa al pomodoro 71  pasta alla Norma 189  pasta coi piselli 57  pasta con gli zucchini 57  pavese 26  pizza alla Campofranco 169  purè di fave con cicoria

q.b. Indice dei piatti

228

126  ravioli genovesi di magro 161  rigatoni cicoria e pecorino 77

 riso all’uovo 181  riso verde 75  risotto al fondo bruno 19  risotto al limone ed erbette 9  risotto allo champagne 190  risotto al nero di seppia 6  soufflé al formaggio 47  spaghetti aglio e olio 52  spaghetti al burro 11  spaghetti al cognac 141  spaghetti alla bottarga 10  spaghetti alla Novelli 189  spaghetti alla rustica 179  spaghetti alle acciughe 12  spaghetti alle vongole 138  spaghetti al pomodoro e basilico 152  spaghetti al sugo di pesce 172  spaghetti cacio e pepe 178  spaghetti coi coltellacci 139  spaghetti con le triglie 146  stracciatella 172  supplì 73  tagliatelle al prosciutto 163  taglierini nei fagioli 163  timpano di maccheroni al ragù 165  torta di maccheroni al basilico 72  tortelloni con la ricotta 158  vellutata di patate con gamberi 39  zuppa di cipolle gratinata 120  zuppa di cozze 86  zuppetta di moscardini 87 I SECONDI

agnello con patate novelle 19  arista di maiale con le mele 102  bistecca (fiorentina) 211  bollito misto 25 brasato al barolo 103  cotoletta alla milanese 95  crocchette di pollo 67  dentice al forno con patate 87  filetti di triglia di scoglio alla crema di rosmarino 148  filetti di triglia in guazzetto, con pomodoro e basilico 146  fonduta (di patate) 116  fricassea di pollastri squisita alla genovese 42  frittata base 181  frittata di cipolle 180  frittata di un uovo 182  frittelle di pangrattato 70  fritto di pesce 92  fritto misto alla piemontese 91  hamburger all’italiana 59  insalata di pollo 66  lesso alla Marengo 66  lesso alla marsigliese 65  merluzzo alla fiorentina 16  millefoglie di verdure al basilico 191  mitonate 142  ombrina al vapore 41  ombrina lessa 40  petto d’anatra al calvados 48  piccione al tegame (morto) 101  piccione al tegame (vivo) 102  pie di carne 68  polenta base 98  polenta «cunsa» 99  polenta sulla spianatora 99  pollo fritto alla fiorentina 94  polpette 64  polpette di melanzane 112  polpo con patate 88  pulpitielli in tegame 49  rosbiffe 100  saltimbocca alla romana 7  scaloppine

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43  sformato di patate, verdura e bacon 74  spezzatino di vitello

con piselli 41  straccetti 52  terrina di mare 140  tonno al forno 89  torta fritta 62  tortilla 182  tortino di carciofi 183  totani in zimino 151  triglie fritte 192  uova al pomodoro 173  uova in camicia 174  uovo barzotto 154  vitello tonnato 22 I MONOPIATTO

club sandwich 185  crostini di mozzarella 6  curry vandaloo 217  fish and chips 97  gattò di patate 114  mozzarella in carrozza 5  parmigiana di melanzane 113  pollo al curry 14  roesti di patate (e würstel) 13  toast 185  uova strapazzate 32 I CONTORNI

caponata 109  carciofi alla giudia 193  carciofi piani 143  cipolle ripiene 69  fagioli 127  fagiolini in umido 53  fiori di zucca fritti 125  gratin dauphinois 117  insalata andalusa 123  insalata nizzarda 122  mesticanza 121  patate fritte 58  patate rifatte 63  puntarelle 108  purè di melanzane 111  riso pilaf 15  sedani alla Popoff 110  verdura ripassata 76  vichyssoise 108  vignarola 107  zucchini al rosmarino 8 I DOLCI

bonèt 29  ciambellette al vino 54  crème caramel 174  gello di melone 90  macedonia 23  melone al porto 45  mousse nigrita (al cioccolato) 44  omelette dolce 184  pasticcio di gnocchi 144  pere al vino rosso 49  pesche ripiene 170  sformatini al cacao 192  sorbetto di pesche bianche 171  sorbetto vodka e lime 97  torrone al cioccolato 20  zabaione 60  zucca al caramello 127 LE SALSE

aioli 206  bagnet ross 27  bagnet verd 27  besciamella 201  bordolese 204  chutney 218  horseraddish sauce 28  maionese 204  maionese piccante 93  pesto alla trapanese 209  pesto genovese 208  ragù di carne alla bolognese 206  ragù napoletano 207  ragù toscano 207  rémoulade 205  salsa della

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tata 28  salsa di pomodoro 202  salsa olandese 203  salsa vellutata 202  villeroy 203  tartara 206 STRUMENTI

arrosto vivo e morto 215  bollire ad acqua frenata 210  bollire ad acqua libera tumultuosa 210  bollire in court bouillon 209  brodo di pesce 209  brodo di verdura 200  burro chiarificato 200  come si cuoce una bistecca (fiorentina) 211  come si friggono le patate 58  condimento base dell’insalata 121  cottura al vapore 215  coulis di crostacei 200  curry 217  erbe aromatiche 216  fondo bianco o di pollo 199  fondo bruno 198  friggere (a orecchio) 212  fumetto di pesce 199  limoni alla marocchina 217  panare 214  pangrattato 70  pasta brisé 68  pasta fresca all’uovo 156  pasta frolla 144  sali, pepi 219  pastelle 213  tempura 213

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LA PASTA ASCIUTTA

amatriciana 130  carbonara 132  carbonara con gamberi 133  conchiglie fredde 22  gnocchi di patate 115  gricia 131  mezzemaniche coi broccoli 78  pasta alla Norma 189  pasta coi piselli 57  pasta con gli zucchini 57  rigatoni cicoria e pecorino 77  spaghetti aglio e olio 52  spaghetti al burro 11  spaghetti al cognac 141  spaghetti alla bottarga 10  spaghetti alla Novelli 189  spaghetti alla rustica 179  spaghetti alle acciughe 12  spaghetti alle vongole 138  spaghetti al pomodoro e basilico 152  spaghetti al sugo di pesce 172  spaghetti cacio e pepe 178  spaghetti coi coltellacci 139  spaghetti con le triglie 146 LA PASTA ALL ’ UOVO

lasagne alla bolognese 160  lasagne col pesto genovese 161  pasta fresca all’uovo 156  ravioli genovesi di magro 161  tagliatelle al prosciutto 163  taglierini nei fagioli 163  tortelloni con la ricotta 158 RISO E RISOTTI

riso all’uovo 181  riso pilaf 15  riso verde 75  risotto al fondo bruno 19  risotto al limone ed erbette 9  risotto allo champagne 190  risotto al nero di seppia 6 ZUPPE E MINESTRE

brodetto dell’Adriatico 83  brodo di carne 26  cacciucco 82  gazpacho 37  licurdia 119  minestra di lenticchie 120  minestrone 30  pappa al pomodoro 71  pavese 26  stracciatella 172  vellutata di patate con gamberi 39  zuppa di cipolle gratinata 120  zuppa di cozze 86  zuppetta di moscardini 87

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LA POLENTA

polenta base 98  polenta «cunsa» 99  polenta sulla spianatora 99 TORTE SALATE , SOUFFLÉ E SFORMATI

soufflé al formaggio 47  framasson di Monzù Terremoto 167  gattò di patate 114  pie di carne 68  pizza alla Campofranco 169  sformato di patate, verdura e bacon 74  timpano di maccheroni al ragù 165 PESCE , CROSTACEI , FRUTTI DI MARE

acciughe bianche 137  acciughe classiche 136  aringhe alla livona 135  cevice 85  dentice al forno con patate 87  filetti di triglia di scoglio alla crema di rosmarino 148  filetti di triglia in guazzetto, con pomodoro e basilico 147  merluzzo alla fiorentina 16  ombrina al vapore 41  ombrina lessa 40  polpo con patate 88  pulpitielli in tegame 49  sauté di vongole 86  terrina di mare 140  tonno al forno 89  totani in zimino 151  triglie fritte 192 ARROSTI DI CARNE

arista di maiale con le mele 102  bistecca (fiorentina) 211 

brasato al barolo 103  piccione al tegame (morto) 101  piccione

al tegame (vivo) 102  rosbiffe 100 PIATTI DI CARNE

agnello con patate novelle 19  bollito misto 25  carne cruda all’albese 18  carpaccio di manzo alle erbe 8  curry vandaloo 217  hamburger all’italiana 59  lesso alla Marengo 66  lesso alla marsigliese 65  mitonate 142  polpette 64  saltimbocca alla romana 7  scaloppine 43  spezzatino di vitello con piselli 41  straccetti 52  tartrà 21  vitello tonnato 22 IL POLLO E I VOLATILI

fricassea di pollastri squisita alla genovese 42  insalata di pollo 66  petto d’anatra al calvados 48  pollo al curry 14

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FRITTURE

carciofi alla giudia 193  cotoletta alla milanese 95  crocchette di gamberetti 188  crocchette di pollo 67  fiori di zucca fritti 125  fish and chips 97  frittelle di pangrattato 70  fritto di pesce 92  fritto misto alla piemontese 91  mozzarella in carrozza 5  patate fritte 58  pollo fritto alla fiorentina 94  salvia fritta 126  supplì 73 FRITTATE E UOVA

frittata base 181  frittata di cipolle 180  frittata di un uovo 182  omelette dolce 184  torta di maccheroni al basilico 72  tortilla 182  tortino di carciofi 183  uova al pomodoro 173  uova in camicia 174  uova strapazzate 32  uovo barzotto 154 INSALATE

condimento base dell’insalata 121  insalata andalusa 123  insalata nizzarda 122  mesticanza 121 LE VERDURE

caponata 109  carciofi piani 143  cipolle ripiene 69  fagioli 127  fagiolini in umido 53  fonduta (di patate) 116  gratin dauphinois 117  insalata russa 75  millefoglie di verdure al basilico 191  parmigiana di melanzane 113  patate rifatte 63  pâté di peperoni 56  polpette di melanzane 112  puntarelle 108  purè di fave con cicoria 126  purè di melanzane 111  roesti di patate (e würstel) 13  sedani alla Popoff 110  torta fritta 62  verdura ripassata 76  vichyssoise 108  vignarola 107  zucchini al rosmarino 8 DOLCI DI CREMA

bonèt 29  crème caramel 174  mousse nigrita (al cioccolato) 44  sformatini al cacao 192  zabaione 60 DOLCI SECCHI

ciambellette al vino 54  pasticcio di gnocchi 144  torrone al cioccolato 20

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DOLCI DI FRUTTA

gello di melone 90  macedonia 23  melone al porto 45  pere al vino rosso 49  pesche ripiene 170  sorbetto di pesche bianche 171  sorbetto vodka e lime 97  zucca al caramello 127 LE COTTURE

al vapore 215  arrosto morto 215  arrosto vivo 215  bollire ad acqua frenata 210  bollire ad acqua libera tumultuosa 210  bollire in court bouillon 209  come si cuoce una bistecca (fiorentina) 211  come si friggono le patate 58  friggere (a orecchio) 212  panare 214  pastelle 213  tempura 213 SALSE CALDE

bagnet ross 27  besciamella 201  bordolese 204  ragù di carne alla bolognese 206  ragù napoletano 207  ragù toscano 207  salsa di pomodoro 202  salsa olandese 203  salsa vellutata 202  villeroy 203 SALSE FREDDE

aioli 206  bagnet verd 27  chutney 218  condimento base dell’insalata 121  horseraddish sauce 28  maionese 204  maionese piccante 93  pesto alla trapanese 209  pesto genovese 208  rémoulade 205  salsa della tata 28  tartara 206 I FONDI

brodo di pesce 209  brodo di verdura 200  burro chiarificato 200  coulis di crostacei 200  fondo bianco o di pollo 199  fondo bruno 198  fumetto di pesce 199 PANE E PANINI

club sandwich 185  crostini con fegatini di pollo 16  crostini di mozzarella 6  grissini alla Caraceni 36  toast 185  tramezzini di pollo 185