Pussi e passaggi nel cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede

Il tema unificante è la realtà della fede. Intorno a questo nucleo fondante si scandiscono le tappe del saggio. Apre una

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Pussi e passaggi nel cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede

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ELMAR SALMANN

PASSI E PASSAGGI NEL CRISTIANESIMO Piccola mistagogia verso il mondo della fede

a cura di Armando Matteo postfazione di Pierangelo Sequeri

Cittadella Editrice

In copertina Sergei Mikhailovich Prok:udin-Gorsk:ii, "Sobor Sv. Marka, Venetsiia" (1905-1915). Sergei Mikhailovich Prok:udin-Gorsk:ii Collection, Library of Congress Prints and Photographs Division Washington.

copertina

Raffaele Marciano traduzione parziale

Armando Matteo cura redazionale

Antonio Lova © Cittadella Editrice -Assisi

www.cittadellaeditrice.com 1a edizione: aprile 2009 ISBN 978-88-308-0964-2

Finito di stampare da Futura snc Sangiustino (PG) Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limm del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 owero dall'a=rdo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno awenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall'ecfrtore.

Questo libro non sarebbe uscito senza l'impegno solerte di Armando Matteo. Lo ringrazio vivamente, come anche Pierangelo Sequeri, per la sua stimolante Postfazione. ELMAR SALMANN

AWIO ALLA LETTURA

Si tramanda che le ultime parole pronunciate da Johann Wolfgang Goethe, sul punto di morte, siano state: «Più luce, più luce». Proprio in un tale desiderio di una luce che non venga meno si potrebbe vedere espresso uno dei caratteri più forti di quella terra che invece nel proprio nome (e forse destino) reca traccia di uno splendore che declina. Diciamo dell'Occidente, terra baciata dal sole che appunto lì vi tramonta. E non appare neppure un caso se l'epoca che più ha evidenziato l'identità profonda degli uomini e delle donne che in questa porzione di mondo abitano accolga e celebri la parola "luce": il tempo dell'Illuminismo, compimento del moderno, sfondo contrastante e contestato del variegato postmoderno nel quale ora ci tocca vivere. Nella terra dunque che fa da letto al bagliore solare, tra i secoli XVIII e XIX, si è levata la luce della ragione umana a dar forza e sostanza al desiderio dell'insuperabile autore del Faust. La stessa religione cristiana, a sua volta, possiede non tenui legami con le regioni e ragioni della luce. Si pensi alla festa di Natale oppure ad uno dei suoi primissimi apologeti, Giustino martire, il quale definisce evento di "illuminazione" il battesimo, porta d'ingresso della vita cristiana Ma più in radicalità è Gesù in persona che si presenta, nelle pagine del Vangelo di Giovanni, quale luce che non solo ridona la vista ai ciechi, ma che in verità porta la luce ai vedenti, i quali, tuttavia, è sempre Giovan-

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Avvio alla lettura

ni nel suo Prologo a ricordarcelo, non l'hanno saputa abbracciare. Infine, proprio dall'illuminismo, categoria teologica sintetica del cristianesimo è quella di Rivelazione, parola che richiama alla mente l'azione principe della luce, la quale mostra ciò che è sottratto alla vista. Tuttavia non sembra che finora sia nata alcuna "amicizia stellare" tra il cristianesimo e l'illuminismo. Tutt'altro, la luce della ragione non pare per nulla disposta ad accogliere accanto a sé alcun partner, condannando alla sorte dell'irrealtà ogni altro rivale. Qui germina il destino sofferto con cui ancora oggi i credenti sono chiamati a confrontarsi: il sospetto che il mondo della fede sia irreale, oggetto di finzione, di invenzione, di falsa proiezione, di inganno, di bugia, piccolo trastullo per menti adolescenziali e sotto gli standard di una corretta istruzione, opera delle tenebre, parto delle ombre. Ed è un sospetto che ha minato e continua a minare la relazione elementare che ogni uomo di buona volontà potrebbe intrattenere con la parola del Vangelo. È come un veleno che si è sparso nell'aria: quale sarà mai la differenza tra Gesù e Babbo Natale? TI sospetto circa la qualità reale dell'esperienza di fede in qualche misura poi tocca e ferisce gli stessi cristiani, i quali da oltre duecento anni sono alla ricerca dei modi per declinare le ragioni e la realtà della loro fede, che evitino i fantasmi - questi, sì, davvero reali - del fondamentalismo e del fideismo. In tutto ciò l'ultima frase/desiderio di Goethe diventa l'auspicio di ogni uomo di buona volontà e d'ogni credente autenticamente pensoso che rivolgono la loro intelligenza al mondo della fede, della preghiera, della trascendenza, delle cose ultime, della morte e di ciò che li attende, attraversata l'ultima soglia. Più luce! È in questo contesto che ha deciso di collocarsi, con passione e acume, la ricerca teologica di Elmar Salmann, benedettino tedesco, cattedratico alla Gregoriana e al Sant' Anselmo di Roma, maestro rigoroso, ricercato conferenzie-

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re, generosa guida dei sentieri dello spirito. Dopo la formazione in Austria ed in Germania presso la scuola del rinomato storico del dogma Peter Hiinermann, si è trasferito in Italia e qui da oltre venticinque anni perlustra i confini che separano gli argini di ciò che normalmente si dice essere l'Occidente, la sua cultura, i suoi sogni, i suoi incubi, e la religione cristiana. Ed è noto che non vi è confine che non sia pure punto di contatto. E questa è, in fondo, la scommessa teorica di Salmann. La sua ampia ricerca ha trovato espressione in vigorosi libri pubblicati in tedesco e in numerosi contributi editi in volumi collettanei e riviste. Il saggio che qui si presenta è nato essenzialmente per permettere al lettore italiano sia di accedere a testi presenti sinora solo nella lingua tedesca sia ad altri pur scritti in italiano ma di non immediata reperibilità. L'accostamento dei testi, alcuni dei quali profondamente rielaborati per l'occasione, ha ora dato vita ad un'opera dal carattere profondamente unitario che non mancherà di alimentare l'intelligenza e la sensibilità di chi vorrà prestarle il suo tempo e la sua dedizione. Il tema che unifica e che risplende nell'insieme dell'opera è stato già anticipato: la realtà della fede. Che cioè il mondo della fede non piova dall'alto di un cielo remoto né spunti dal basso di un'oscura radura. Esso è piuttosto collegato, da una parte, con il processo di scoperta e di configurazione della libertà e della singolarità di ciascuno, e, dall'altra, con la verità che una tale fatica dell'umano trovi un autentico riflesso in quella pratica di inveramento realizzante dei misteri cristiani, che si chiama appunto teologia. È in questo modo che forse diventa possibile una qualche disintossicazione da quel sospetto circa l'irrealtà della fede, che come un tarlo continua a rosicchiare l'anima occidentale. futorno a questo nucleo fondante si scandiscono le tappe del saggio: apre una lettura attenta e frizza.11te del tempo che la comunità credente oggi si trova a vivere, segna-

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to da ambivalenti atteggiamenti di risentimento e di adattamento; segue la fissazione puntuale delle coordinate teoriche che costituiscono lo sfondo intellettuale della riflessione di Salmann. La parte centrale del volume è dedicata ad un ripensamento del cristianesimo sotto le condizioni post-illuministe di cui abbiamo detto, in cui evidente è l'originalità dell'Autore nel mettere in con-tatto una fenomenologia dell'umano nei suoi punti cruciali e nel lasciar in essa e-videnziarsi lo spazio di una possibile costellazione dei misteri cristiani. La terza parte, potremmo dire, è quella più cattolica, dedicata a perlustrare la decisa fedeltà che la religione cristiana intende professare a ciò che più di ogni altra cosa appare reale: il corpo e la corporeità. Sono pagine in cui il lettore potrà apprezzare come la luce della sapienza teologica riesca a mettere in risalto tutto lo "spirito" che la carne possiede e custodisce. Chiudono tre congedi, di straordinaria bellezza letteraria; in essi I' in-contro di illuminismo e cristianesimo viene ricondotto e riletto alla luce del gesto originario dello spirito umano: il gesto dell'ospitalità. Nella curatela dei testi, si è preferito normalmente ridurre all'essenziale l'apparato bibliografico, per consentire una lettura più distesa. Il semplice riferimento al nome di teologi e di filosofi potrà facilmente condurre, grazie alle risorse presenti sul web, all'individuazione dei loro scritti. Che in Italia opere come questa possano - è, sì, il caso di dirlo - vedere la luce lo si deve all'intelligenza e al coraggio di persone speciali, quali Antonio Lova, di Cittadella Editrice, cui spetta la gratitudine di ogni lettore. A Pierangelo Sequeri, infine, vanno sentimenti di profonda riconoscenza, per aver accolto l'invito a redigere la Postfazione a questo saggio. ARMANDo MATrno

parte prima KAIROLOGIA

Awio pratico: il tempo spezzato Awio teorico: tra sfondo ontologico, confronto e apertura

Awio pratico: il tempo spezzato

capitolo primo LA CHIESA CAPOVOLTA - PER UNA VOLTA VISTA IN CONTROLUCE

1. CORAGGIO DI ESSERE MINORANZA

Non sempre la Chiesa è apparsa così malridotta come nell'Occidente europeo degli ultimi trenta anni. Dopo le tre rivoluzioni del Concilio, del 1968 e del 1989 sembra che essa non vada a genio più a nessuno: per i devoti non è devota e sacrale, per i liberali non è liberale, per gli impegnati non è sufficientemente sociale, per quelli delle comunità di base è ancora troppo funzionaria, per gli amanti della vita troppo moralistica, per gli esoterici ed i ricercatori di senso troppo sobria. In generale appare straordinariamente antiquata e contemporaneamente ritoccata in modo moderno, così che quasi nessuno vi si senta a casa. Rabbrividiscono tutti coloro che pensano ad essa, preti, laici, femministe, vecchi devoti e nuovi illuminati; ci si inizia quasi a scusare di essere ancora cattolici. Certo, è lintera immagine e struttura della fede che lentamente e impercettibilmente ha perso la sua energia di illuminazione e la sua forza di convinzione. Non si è cioè persa la fede improvvisamente come si perde un mazzo di chiavi o un portamonete; essa ha smesso solo a poco a poco di dare sostegno e forma alla vita; è diventata irreale, chimerica, oggetto del ricordo di lontani giorni d'infanzia, di ore passate a fare i chierichetti, di solenni liturgie e di tormentate confessioni. Sebbene strati originari dell'anima e visioni sociali possono essere ancora attac-

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cati alla fede e alla Chiesa, il quotidiano e la coscienza media, portatrice di identità, da tempo non hanno quasi più sentore di che cosa si tratta con le preghiere e le parole, le quali cadono, come uccelli infreddoliti, dai pulpiti (aboliti). Il sentimento della libertà, del tirare un respiro di sollievo, che ha animato il cattolicesimo nella sua maggioranza negli anni dal 1959 al 1966, si è poi trasformato in avversione. La Chiesa è diventata un piccolo nano con la gobba, che sempre grida con tono lamentoso e tuttavia falsamente alla moda, che di tanto in tanto si trasforma ancora in folletto soccorrevole e utile, ma in ogni caso non rappresenta più una figura di identificazione. Da ultimo la figura e l'orizzonte di Dio stesso paiono pure essersi oscurati. Sotto il flusso ed il peso dell'informazione televisiva, la quale quotidianamente getta in ogni anima un'incredibile massa di stupidità, di sensazioni e di orribili notizie da tutto il mondo, la questione della teodicea ha seppellito ogni fiducia in Dio su una Terra che offre un livello di sicurezza e di benessere storicamente impensabile. O piuttosto entrambe queste realtà si sono incontrate: lo standard della vita e quella melanconia, che risulta dal compimento di tutte le aspettative e dalla terribile confusione del mondo, hanno semplicemente gettato via la possibilità di fare i conti con una presenza di Dio. Vilma Sturm ha tentato di descrivere, alla fine della sua autobiografia Barfuj3 aufAsphalt [A piedi nudi sull' asfalto], questo processo quasi impercettibile e tuttavia inesorabilmente efficace: Restai nella Chiesa di Sant' Agnese come a casa, trovai lì le mie soddisfazioni, per un lasso di tempo ancora. Questo poi finì. Allora, come una barca, senza vela, senza colpo di remi, scivolai via, spinta dalla corrente ... Certo, ciò non dipendeva da questo o quell'altro errore della Chiesa; questa era diventata per noi già da tempo, eccetto per Papa Giovanni, piuttosto indifferente, una istituzione provocatoria sino alla contraddizione. Ma perché con il tempo ci allontanammo anche

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dalla comunità e dalla pratica liturgica e con ciò dalla Bibbia e dalla preghiera e più in generale da ogni espressione ·di devozione? Non lo so. Mi trovo in mezzo ad un processo di distacco, che mi capita senza che io lo voglia 1•

Così la Chiesa si ritrova quasi come un vecchio peso del passato, irreale e tuttavia ancora in qualche modo opprimente, che viene tollerata scorbuticamente e della quale non si sopporta alcuna replica, sebbene da essa ci si attenda ancora sempre più che da ogni altra istituzione. E qui essa può soltanto semplicemente fallire ...

2. CONTRADDIZIONI E CAPOVOLGIMENTI

E tuttavia l'immagine sin qui disegnata è unilaterale. Mai il Papato, da noi così tanto ingiuriato, ha posseduto una tale autorità morale a livello mondiale (chi potrebbe anche solo da lontano fargli concorrenza, il Segretario Generale dell'Onu o forse uno di questi consigli ecumenici presenti a Ginevra, i cui nomi quasi nessuno conoscerà mai?); in nessun tempo tanti Stati e tante organizzazioni hanno così spesso ed intensivamente chiesto alla Chiesa consiglio, orientamento, assistenza; raramente essa fu così presente a livello di politica mondiale e di tanto in tanto in modo rivoluzionario, a partire dallo scioglimento del blocco orientale sino alle infinite iniziative in Africa, in Asia e in America latina. Chi potrebbe numerare i popoli e gli Stati che le sono riconoscenti, dagli uomini della Lituania a quelli del Mozambico, che qui hanno trovato sostegno e coraggio? Chi avrebbe, alcuni decenni fa, potuto pensare che un Papa visitasse una Sinagoga, pregasse con i dignitari delle altre religioni e avesse qualcosa da dire e da si-

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V. STURM, Barfuj3 auf Asphalt, dtv, Milnchen 1985, 323.

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gnificare a Cuba e a Parigi? Il custode dell'ortodossia nella veste di una nuova spigliatezza? Pochi in genere sono coscienti di quanto Roma sia importante quale posto di comando dell'incontro di culture. Uniati dalla Siria e dall'Ucraina (per i quali Giovanni di Damasco, un padre della Chiesa dell'ottavo secolo, è l'ultima istanza dogmatica), cristiani dalla Corea oppure dal1' Africa, per i quali la Chiesa significa un garante della modernizzazione, di una sintesi di apertura mentale e religione, uomini da terre dove dominano meschinità e persecuzione si imbattono con europei occidentali e con nordamericani, e qui "Roma" ha la funzione di mantenere traducibili le molte visioni ed esperienze. In modo ironico si potrebbe dire che in Roma si sia già da tempo realizzata quella società multiculturale così desiderata dai Verdi (del resto ciò accadde anche durante la guerra mondiale, nella quale ovviamente Alleati e Tedeschi vissero l'un con l' altro nei conventi). Tutto ciò può dipendere dal fatto che una vecchissima religione non può mai essere all'altezza (o alla profondità) del tempo, in quanto la sua custodia, protezione e interpretazione è affidata all'anima degli uomini, la quale in ogni tempo non coincide né con l'intelletto, che è più veloce, né con gli strati superficiali del sentire e della moda. Di quanto tempo necessita l'uomo prima di cogliere ciò che è elementare; quanto il nostro parlare, vedere, valutare e sentire sono ancora fortemente determinati dal mondo pre-copernicano, secondo il quale il sole sorge e tramonta e ovviamente gira intorno alla Terra! E quanto poco abbiamo tutti noi capito della rivoluzione del Nuovo Testamento: è vero piuttosto che portiamo in noi molto di pagano. Siamo ancora scettici, stoici, epicurei, platonici e reagiamo secondo la legge del do ut des, del nudo pareggio degli interessi: ciò che di nuovo vi è nella vita e nella predicazione di Gesù è anche dopo 2000 anni ancora inesplorato, in sé inesauribile e penna-

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nentemente incompreso; è una realtà che abbiamo appena iniziato ad interiorizzare. Ciò che è specificatamente cristiano è quasi soltanto aggiunta, fermento, spezia, orizzonte del pensare e dell'agire, raramente il loro integrale. La Chiesa (almeno quella delle terre latine) spesso sa ciò meglio di tutti i fanatici e di tutti i critici. Forse, è in vista di una tale sapienza e conoscenza delle fonti che risulta comprensibile che lo stesso attuale Stato laico sia eccezionalmente interessato al servizio ed al legame della Chiesa nell'ethos, nella consulenza e nella provvidenza sociale e reagisca nervosamente quando al1' improvviso in nome di immemorabili convinzioni e principi, venga annunciato un contrasto. Ha il presentimento di non poter essere affatto il salvatore, anche se volentieri si spaccia per esso. Quanto è importante avere una Chiesa che contrasta quelli che sono normalmente ritenuti gli idoli attuali: il culto del corpo e della salute, la pretesa di benessere e di felicità, l'assoluta garanzia in relazione al lavoro e alla riuscita della vita, in breve il regime di welfare e di wellness, che oggi tutto determina. E che cosa si dovrebbe mantenere delle chiacchiere intorno alla solidarietà sociale e ai valori, i quali in quanto tali da tempo non garantiscono ancora il loro adempimento e compimento, anzi spesso quasi impediscono ciò che è ordinario? Così qualche volta "Roma" sembra possedere un sentimento più definito per la necessaria separazione e differenziazione critica tra Stato/diritto e società e tra società e Chiesa rispetto a quello di molte Chiese ufficiali occidentali. Queste ultime risultano ancora concentrate sul tema della loro rilevanza sul piano socio-politico e rischiano di cadere sotto gli standard delle differenze già elaborate e raccomandate sotto Ambrogio e Gregorio, per non parlare affatto del decisivo passo del districamento tra società e Chiesa intorno al 1100. E quanto è difficile conservare il

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bilanciamento tra incoraggiamento della ricerca e dell'economia e la critica necessaria rispetto al loro spesso cieco dinamismo interno. Anche qui i testi e le prassi romani sembrano essere più acuti di quelle società illuminate, alle quali essi si rivolgono. Certamente, si può anche fare il calcolo al contrario. Non ha la Chiesa sino agli anni '50 piuttosto ostacolato e combattuto le scoperte moderne come i diritti umani, la tolleranza, la libertà di coscienza, che oggi essa così sicura di sé reclama? E come stanno le cose al suo interno? Neppure si dà la possibilità di pensare ad un'istanza di appello nell'amministrazione della giustizia, né ad una separazione o almeno ad una distinzione di poteri nel suo proprio grembo. Si potrebbe ancora a lungo continuare e descrivere il permanente moto di scambio tra storia (moderna) e Chiesa. Chiaramente qui nessuno ha ragione: sarebbe già molto se si cogliesse quanto necessario sia un reciproco ascolto, il quale ha ovviamente senso se la Chiesa giunge da lontano, attinge alle sue fonti e lascia che dall'oggi e dal suo proprio messaggio venga detto qualcosa che nessuno vuole sentire, se essa fa memoria della distinzione dimensionale (la quale significa talvolta un salto) tra natura e grazia, fortuna e benedizione, cielo e terra.

3. MUOVERSI SUL CRINALE E IL FUTURO APERTO

Ci troviamo dunque ad un bivio, dove ci si deve attendere e pretendere da ogni cristiano il peso e lavventura di un "ascolto stereofonico" e di una prassi a più livelli e talvolta anche contraddittoria. Vogliamo visitare e misurare ancora alcuni di questi doppi fronti nel loro peso e nella loro portata.

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4. CHIESA DI POPOLO O CHIESA DI MINORANZA

Palesemente la gestione di una Chiesa di popolo presuppone una naturalezza della fede ed un ambiente che non si danno più; emette troppi assegni scoperti, che nessuno garantisce, eleva pretese che lo Stato e la società respingono sempre più spesso e pienamente a ragione. La Chiesa ufficiale utilizza ancora altoparlanti e megafoni usati nell'antica festa di "Cristo re" e nelle dimostrazioni di forza politico-religiose. Possiede oggi gli stessi conventi e monasteri come nel tempo in cui ci furono religiosi in gran quantità, dona istruzioni e promette accompagnamento e sicurezza, come se disponesse ancora di fila compatte - mentre tutto ciò è in evidente declino. Non sarebbe più umile e più coraggioso il riconoscersi come minoranza, l'offrire in modo qualificato ascolto e orientamento, il ridurre lentamente l'apparato, tutto ciò nella consapevolezza che il cristianesimo nell'Occidente europeo avrebbe da parlare con una voce più discreta e più marcata, più immedesimata e tuttavia originale e cosciente della propria singolarità? Questo non esclude la gioia per i residui e le forme di una Chiesa di popolo e non significa in alcun modo il ritorno allo stato di setta. Al contrario accade che, nel momento in cui la Chiesa ha ancora specifiche pretese in riferimento a sé e alla società, essa usa sempre più una lingua che nessuno comprende, mostra dunque aspetti ermetici e settari, nonostante (oppure proprio perché) perde il suo profilo. Da qui l'impressione della deprimente nullità che emerge da molte comunicazioni e rappresentazioni della vita ecclesiale. Come sarebbe, al contrario, se una fiera e sciolta gioia regnasse nel doppio ruolo, certamente difficile, del passaggio da una Chiesa ancora di popolo a una Chiesa di minoranza nascente e tutto venisse intrapreso per preparare la strada a quest'ultima? Allora si vivrebbe l'oggi non solo come decostruzione,

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ma come una trasformazione molto pesante ma tuttavia anche attenta ed allettante.

5. CHIESA E STATO

A lungo andare ciò condurrà ad un successivo districamento tra Stato e Chiesa, che sarà per entrambi doloroso ma inevitabile e che si fa strada nello sfondo dei recentissimi confronti. Anche in questo caso sarebbe bene non portare avanti combattimenti di retroguardia, ma a partire da se stessi proporre primi passi di allentamento. Che accadrebbe, se si collaborasse in ciò che resta ancora a metà tra il vecchio e nuovo regime sociale, invece di restare attaccati con piagnucolosa aggressività a posizioni di possesso, che da tempo sono perse? Un atteggiamento, questo, che ora non fa brillare affatto il messaggio cristiano della rinuncia, che volentieri si propina ed impone agli altri.

6. ESTRANEITÀ DEL CRISTIANESIMO

Che sarebbe, se si riconoscesse quanto poco la comunità media conserva e dà buona prova dei misteri centrali della fede? Nell'essenziale si va a finire ad un messaggio umanamente piacevole, che dovrebbe favorire un clima di prossimità e il benessere del singolo in nome di un Dio ben disposto ed infinitamente interessato ovviamente a ciascuno/ciascuna. Questa non è certo una falsificazione del Credo, ma trascrive soltanto il dieci per cento appena di ciò che - per dirlo da lontano - ci sarebbe da pregare e da mettere in circolazione. Tale restringimento si trova in ogni epoca e in ogni uomo. Nessuno è all'altezza di rappresentare e di vivere in modo esaustivo oppure anche soltanto in modo conveniente la ricchezza senza misura e

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impenetrabile della fede; sempre imbottigliamo le sue correnti torrenziali nei nostri piccoli vasi. Da uomini sapienti si dovrebbe semplicemente sapere quanto poco ciò rappresenta e che cosa il cristianesimo avrebbe ancora da offrire in motivi, in consolazione, in visioni metafisiche ed in profondità religiose, quando solo si volesse scavare nella sua miniera oppure avventurarsi nel suo paesaggio con la gioia degli scopritori. Siamo dunque molto lontani dal1' essere cristiani, lo stiamo forse tutt'al più diventando. Da qui la gioia per ogni seme di fede, per ogni segno della presenza dell'essere e del senso del divino, della presenza divino-umana nella parola e nel gesto della vita. Di più a noi mortali non è dato - e questo sarebbe già più che sufficiente.

7.1..'.0BLIO DI DIO

«Temo che Dio non esista», ha detto in un'intervista Max Horkheimer. Preoccuparsi di Dio, sentire la mancanza della sua presenza, condividere la sua solitudine, non poter lasciare il pensiero di Dio per la causa dell'uomo. Infatti, se la parola "Dio" dovesse avere un significato, Egli sarebbe: la riconciliazione inaccessibile all'uomo di forza e amore, di necessità e libertà, di giustizia e misericordia, modello e rappresentazione di un amore riuscito e salvato. All'odierna indifferenza non è concessa neppure la nostalgia di questo totalmente Altro, ci rimarrebbe sempre la paura che quel Dio possa non essere la prima e l'ultima impronta, la traccia, il barlume di speranza e l'orizzonte per il nostro viaggio di vita.

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8. TRADIZIONE E ATTENZIONE ACCOGLIENTE

Al momento la Chiesa viene lacerata da uno sbilenco tradizionalismo e contemporaneamente da un impulso quasi frenetico di adattamento a ciò che va più di moda. Che sarebbe, se con gioia dessimo retta ai testimoni molto diversificati della grande tradizione, li ascoltassimo di nuovo, avessimo amici tra i grandi teologi e i santi, potessimo vedere quanti stili di pensiero e di vita si sono dati, in quale grande misura il cristianesimo, nella storia del1' arte, della musica, dell'architettura, della filosofi.a e ancora di più in mille forme del vissuto quotidiano, è stato sostegno, consolazione, fonte di ispirazione? Con un tale sapere lungimirante alle spalle potremmo rivolgerci con un'accoglienza sciolta all'ugualmente molteplice oggi, misurando in modo distanziato, commentando in modo critico-genetico, pronti ad accogliere la possibilità di rischiare almeno nel tempo con questa o con quella tendenza del momento. Ci vuole l'arte di un humour sofferto, quando si considerano i cambiamenti della Chiesa negli ultimi quaranta anni. E chi, in relazione ·a tali perdite e a tali liberazioni, avrebbe un giudizio pronto su ciò che è ora giusto e su ciò che addirittura sarebbe vero?

9. LIBERTÀ OSPITALE E RESISTENZA

Da un tale sapere circa i percorsi di cambiamento della vita e la condizionatezza di ciascuna epoca sorge una forza per la resistenza contro le idolatrie, i dogmi non confessati, che ogni tempo in modo sorprendente produce e ai quali si sottomette volentieri e masochisticamente. Tutte le onde che ci sono passate sopra, come apparirebbero alla luce del Vangelo o della sapienza immemorabile di un Tommaso o di una Teresa d'Avila o anche soltanto di

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un Portoghese e di un Africano? Cosa ci giova infatti il nostro impulso a viaggiare se questo non ci porta almeno una volta a vedere da fuori l'attuale stile di pensiero e di vita, e non invece ad incontrare solo il nostro turismo dell'io? E forse sorgerebbe addirittura anche un senso di gratitudine nei nostri cuori nel pensare all'ampiezza e alla libertà dei nostri orizzonti, alle possibilità a noi concesse almeno nel tempo, al cristianesimo illuminato e impegnato a livello mondiale, che a noi è dato e concesso di vivere. Anche se non sappiamo quanto a lungo potrà conservarsi questo straordinario standard della nostra epoca.

1O. SAPIENZA DI VITA ED ETHOS

Al sapere cristiano della vita appartiene che ciascuno è cosciente della sua grazia e del suo peso. Tutto è concesso, messo a nostra disposizione nel tempo: corpo e salute, sessualità e intelligenza, partner, bambini, compagni, stile di vita; tutto ciò va accolto con fiducia, va difeso, curato e sviluppato, sino alla revoca, sino a quando ci viene tolto, diminuisce, si deve restituire. L'uomo riceve molti talenti, ma in ciò è anche molto sovraffaticato e sovraccaricato. Quanto poco egli viene a capo anche solo di ciò che è elementare: concepimento, nascita, morte, educazione, fedeltà, il linguaggio del corpo e dell'altro; quanto poco conosce se stesso. Egli è portato costantemente a sottovalutarsi o a sopravvalutarsi, ad essere borioso o depresso. Una tale situazione altalenante non può essere gestita solo con prescrizioni morali e comandamenti, come troppo spesso la Chiesa ha fatto. Sarebbero piuttosto necessari un linguaggio cp.e descriva con cautela ed acutezza la povertà e la signorilità di ciò che è terreno, ed una disposizione che incoraggiasse l'uomo a stringere la sua vita nel cuore e a prenderla in mano, ad attingere alle sue

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forze, ad ottenere gioia per la vita, a sopportarne coraggiosamente le ripercussioni e rimettere tutto il resto a Dio - al destino. Dunque nessun annuncio morale limitante, sorto dal risentimento, in caccia di sintomi, ma un linguaggio ed un'atmosfera promoventi, aprenti prospettive e coraggio, consapevoli anche dell'elemento tragico di cui è succube ogni uomo. In sintesi, si dovrà dire che la Chiesa in quasi tutti i campi non ha ancora trovato un tono ed uno stile che fossero d'aiuto. Il rifiuto delle sue affermazioni sul campo della sessualità è così palese come sul campo della ricerca, dell'intelletto e dello sviluppo di uno stile di vita. Un qualche salutare pudore qui sarebbe appropriato, da qui potrebbe allora essa diventare sapiente e generosa, senza essere debole e accomodante. Infatti solo raramente il mortale dovrebbe porsi la domanda circa l'ultimo fondamento e motivo della consistenza della sua prassi, del suo matrimonio o della sua vocazione, poiché queste in tal modo sono esposte al niente, alla volubilità e alla invivibilità. A che cosa ha giovato l'eroica perseveranza di Antigone? Non ha precipitato se stessa, il suo sposo e Creonte nella disgrazia? E che cosa avrebbe significato per la collettività, se essa si fosse sottomessa? Non lo sappiamo. Soltanto da lontano l'uomo può essere consapevole della fragilità e della discutibilità come della benedizione che nonostante tutto sostiene la sua esistenza Se cioè ci si pone in modo inesorabile davanti ad un'alternativa, allora si giunge ad un giuramento del quale nessuno è all' altezza, e tutti rimangono là nudi ed imbarazzati. Raramente il cristianesimo offre perciò "soluzioni" definitive, piuttosto sa che nelle grandi cose può prevalere una maledizione e nella disgrazia una benedizione. Se a partire da quanto detto si volge lo sguardo all' attuale società e al paesaggio dell'anima occidentale, e infine alla prassi ecclesiale ufficiale, molti saranno sopraffat-

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ti da lacrime e da rabbia impotente. Ma si dà pure il dono delle lacrime, di una incertezza attenta e lieta nell'attesa, la quale in modo chiaro è conscia della grandezza e della miseria della situazione e si prepara a superarla con coraggio, con dignità e con la gioia della scoperta. Del resto, da dove dovrebbero giungere istruzione, sostegno, consolazione, speranza - se non dalla storia e dalla sapienza di un cristianesimo sobrio, profondamente valutato e vissuto con ogni discrezione?

capitolo secondo RADIOGRAFIE DELLA NOSTRA CONDIZIONE SPIRITUALE POSTCONCILIARE

Le radiografie non sono fotografie. Piuttosto le ràdiografie illuminano gli sfondi, le genesi, le viscere, che altrimenti non si vedono - e questo ovviamente solo in parte. Ci sono probabilmente tante persone che hanno sperimentato il Concilio e il tempo postconciliare come liberazione e rinnovamento, quante altre che lo hanno vissuto come sconfitta e minorazione. Ed entrambi hanno sempre ragione, ciascuno a partire dalla sua prospettiva: entrambi sono giustificati. Qui si vorrebbe chiarire un poco questa posizione di equilibrio, questa situazione contraddittoria. Rappresentiamoci allora un pastore, di Gelsenkirchen o di Genova, o un portiere comunista di Bari o di un sobborgo di Mosca negli ultimi trenta anni. Che cosa è capitato a questi uomini? Attraverso che cosa sono passati nella storia del cambiamento? Pensiamo ad un pastore che nel 1963 era parroco di 8000 "anime", come allora si diceva in modo adeguato, attualmente esse sono ancora 3000. Quando egli arrivò, la frequenza della Chiesa si attestava intorno al 45%, ora al 12% - e di 3000. Una carriera, la sua, con un bilancio in rosso. Dunque la Chiesa è chiaramente, nonostante ogni alta lode del Concilio, che a suo modo era kairologicamente necessario, anche una negativa azienda fallimentare. Questo significa che ha perso un terzo dei suoi clienti nell'Europa occidentale e naturalmente ci si riferisce all'Europa occidentale e non all' Africa o a Ceylon. Che cosa questo possa significare per la

Radiografie della nostra condizione spirituale postconciliare

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storia dell'anima di un normale pastore medio o per la storia di un convento di suore, che ora muore nel corpo vivente, lo si può immaginare. Chiaramente col tempo non si è persa soltanto ogni sicurezza ideologica, ma in tutto ciò è sorta un'insicurezza ancora più fondamentale nei confronti del futuro: nessun uomo sa come si svilupperà il rapporto tra individualità, autodeterminazione e società nelle forme di vita come per esempio nel matrimonio; nessun uomo sa se e come nei rapporti plurali di società e di conoscenza un concetto di verità potrà resistere o rinnovarsi; nessun uomo sa come potrà alla lunga definire se stesso in relazione al lavoro e al tempo libero; nessun uomo sa come andranno le cose con l'industrializzazione e con i problémi ecologici: tutto ciò ovviamente gioca un ruolo anche per i credenti e per la loro visione del mondo. In questa situazione vi sono due possibilità di comportamento da parte della Chiesa: da un lato, ci si può ritirare su una linea fondamentalistica chiara, cioè affermare qualcosa, senza riflettere sulla genesi, sulla condizionatezza storica e relatività della propria affermazione. Ci sono sufficienti porzioni nella Chiesa che puntano su questa strategia, cosa che è umanamente comprensibile. Un'altra è laccomodamento del discorso ecclesiale proprio a ciò che è corrente, concentrando il proprio messaggio su un po' di umanitarismo, di solidarietà, su Gesù quale amico, quale soccorritore e cose del genere -in sé stesse per nulla false, ma è una scelta non priva di ambiguità. È necessaria ora una più precisa valutazione. Si paragoni, allora, da un punto di vista sacramentale, quel cattolico che circa 35 anni fa andava due volte all'anno a confessarsi, che l'una o l'altra domenica dopo la confessione prendeva la comunione dopo tre ore di astinenza (e quale terrore, quando si aveva bevuto soltanto un sorso d' acqua!), quel cattolico insomma che curava una religiosità,

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con quello che oggi va a prendere l'ostia con un look da tempo libero. Si consideri che è lo stesso uomo - almeno in generale. E ovviamente il cattolico del tempo che fu si asteneva dai rapporti sessuali durante gli otto giorni in cui si comunicava: questo era ancora per tutti ovvio. Ora si compari questo cattolico con quello di oggi, con tutte le implicazioni che si debbono trarre: che cosa tutto ciò presuppone, quale immagine del mondo, quale immagine del mondo del sacro - qui già ci si meraviglia che questo uomo, che noi, che ciascuno di noi possa ancora dire io. E un tale cambiamento vale anche per molte altre cose di tipo sociale: come accennato, perfino il fatto più elementare del poter dire io - cioè la nostra identità - è del tutto inaffidabile. Tutto cambia a livello fisico e psichico. Eppure non possiamo non affermare la nostra ipseità. Appartiene a ciò che è più conturbante e più affascinante. Che razza di uomini erano allora, come pensavano, come sentivano? Chiaramente nulla di ciò che passa nel cuore e nel cervello dell'uomo odierno. Ci si deve spaventare di questa rottura e svolta di mentalità e meravigliare della storia del cambiamento dell'uomo. Fin qui l'elemento atmosferico. Esaminiamo ora più da vicino la situazione del sacro, dell'ecclesiale e della rappresentazione di ciò che è santo.

1. UNA RADIOGRAFIA E UN RENDICONTO

Come si è configurato negli ultimi 25 anni il rapporto della Chiesa con l'ambiente sociale? Dal punto di vista di chi scrive, gli ecclesiastici e i fedeli sono schiacciati tra due fronti principali. Da una parte, tra l' antimodernismo della Chiesa, la quale fondamentalmente nutre ancora un risentimento nei confronti della modernità e della contemporaneità, e ciò che tutti noi per lo più a livello spirituale

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viviamo e dobbiamo vivere, cioè lessere uomini contemporanei e postmoderni. Dall;altra parte, la Chiesa entra in confidenza, anche in modo singolarmente curioso e a volte scioccamente, con ciò che è in voga e si lega a realtà che per la decadente modernità sono già divenute quasi obsolete. Spesso accoglie dalla modernità proprio quelle cose che i contemporanei lasciano andare o che giudicano equivoche. Si veda per esempio il recente pathos ecclesiale della scienza. Dopo sospetti e battaglie di ritirata durati secoli, il mondo ecclesiale festeggia il progresso della scienza proprio nel momento in cui a tutti noi è divenuto chiaro quanto ambigua sia la scienza. O che il Concilio accolga posizioni dell'illuminismo - in ogni caso ad un livello più basso (diritti dell'uomo, tolleranza, lingua natale, ecc.)- nel tempo in cui l'illuminismo appare in sé ambiguo. Si tratta di un processo totalmente bizzarro. Per questo bisogna un po' comprendere le difficoltà dei preti ed anche la loro perdita di :fisionomia, divenuti per lo più raffinati funzionari, che non sanno come debbono muoversi: da una parte incrociano un risentimento antimodemo della Chiesa e dall'altra un adattamento a modelli fondamentali della decadente modernità, che sono già stati quasi dismessi da quest'ultima. Su questo doppio fronte la Chiesa si muove già da tempo, come si può per esempio vedere nella storia della Neoscolastica. Da una parte essa venne reintrodotta in quanto antimodema (Teologia e filosofia della preistoria, così un titolo famoso), dall'altra la Neoscolastica ha imitato dalla mentalità moderna un razionalismo molto scarso e povero, ed ancora ad un livello più basso. E ciò che Kant, l'illuminismo e i teologi pastorali intorno al 17701790 hanno scritto è stato introdotto nella Chiesa dai 180 ai 190 anni più tardi, ovviamente senza capire che cosa lì si faceva e a che cosa si andava incontro. La situazione è così difficile! Se i credenti fossero sem-

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plicemente antimoderni e bloccati, allora sarebbe semplice: potrebbero costituire una setta; ma la realtà è più complicata, cosa che si intende qui chiarire attraverso alcune coordinate.

1 .1 . Soggettività

La Chiesa prova angoscia rispetto alla libertà e alla contrastante densità dell'esperienza del soggetto, cioè di fronte al progetto dell'illuminismo. Certamente essa ha accolto qualcosa di ciò: parla oggi di diritti umani, di tolleranza, di libertà di coscienza del singolo (sebbene poi si debba sempre barcamenare, quando per esempio si tratta della sessualità). Ed essa stessa al suo interno incontra molte difficoltà con tutto ciò. Si pensi per esempio alla mancanza di divisione di poteri nella Chiesa: non sussiste alcuna separazione tra potere esecutivo, legislativo e di giurisdizione, ma è sempre la stessa istanza. Quanto in modo elementare appartiene alla consistenza fondamentale della modernità, non è in essa in generale ancora assicurato. Esige verso l'esterno dunque democrazia e divisione dei poteri, cosa che ali' interno ancora non vive neppure in modo approssimativo: una situazione precaria, come si vede. Dall'altra parte si deve naturalmente anche dire che il soggettivismo, la ricerca di libertà e di esperienza oggi sono forse già giunti ad un limite, che cioè la stessa modernità nella sua fase postmoderna si è spinta sino alle estreme conseguenze e si è già quasi ribaltata. Noi siamo oggi ricercatori di esperienze, vitalmente orientati senza limiti ("Luna Park collettivo", dice Kohl, non totalmente a torto), urtiamo ad un limite della mobilità umana e di ciò che ci si può permettere a livello di autorealizzazione. Tutto ciò cade su di sé in modo catastrofico: I' antimo-

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dernismo della Chiesa, cioè una paura di fare della soggettività, dell'esperienza e della concretezza della vita il luogo della teologia (la teologia della liberazione, per esempio, fa diventare le esperienze di un piccolo gruppo, di una determinata Chiesa, luogo teologico fondamentale, dal quale poter dunque ottenere criteri e anche argomenti positivi - esattamente ciò che le viene contestato) e la situazione fondamentale di crisi della nostra società aperta.

1.2. Democrazia La Chiesa ha difficoltà con l'ideale democratico, il quale

al momento non soltanto viene politicamente applicato, ma ci è migrato nell'anima. L'anima stessa è diventata "parlamento", con molte frazioni; noi pensiamo e sentiamo in modo multiprospettico, democratico. Non si tratta dunque solo di una forma esterna di ordine, ma la democrazia è divenuta una forma interna di percezione. Essa viene raccomandata dalla Chiesa in modo enfatico, i teologi si comportano a volte come se essa fosse l'unica forma di governo con la quale si possa essere cristiani, dal1' altra parte gli ambienti ecclesiali, come appena mostrato, sono molto lontani da questa mentalità.

1.3. Sguardo psicologico e sociologico della società

La Chiesa ha difficoltà con lo sguardo psico-sociologico della nostra società. Da una parte lo sminuisce, cerca di giustificare il mistero contro lo "psicologismo", così come si dice, dall'altra entra in confidenza con esso nella sua parte liberale, nella sua cura d' anime. Non si tratta di lamentarsi di tale situazione, ma di proporre un'analisi dei fenomeni.

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1.4. Mentalità plurale, ermeneutica ed ecumenica La Chiesa ha anche difficoltà con una mentalità che non procede da una verità sostanziale, ma dalla gioia per la traduzione di e tra le prospettive - e in tal modo vive ciascuno di noi oggi, perfino quello che si stima ortodosso e "fondamentalista". Si pensi alla questione, nella discussione ecumenica, della comunione eucaristica, la quale da una parte viene ostacolata da un ideale di unità e di verità di natura astratta, sebbene tutti dall'altra parte si abbandonano quasi senza limiti alla mentalità ecumenico-ermeneutico-plurale - almeno nel linguaggio. Come sarebbe da pensare l'ecumenismo senza questa costrizione? Quale rapporto di saluto, di correzione e di ospitalità potrebbe sorgere?

1.5. Funzionalismo e strutturalismo Da una parte la Chiesa cerca di reggersi su qualcosa di sostanziale, su qualcosa che si opponga alla funzionalità e allo strutturalismo, dall'altra essa per esempio nell'immagine del prete ha quasi senza ritegno funzionalizzato e strutturato la fisionomia del mestiere: tutto viene sistemato in direzione del concetto di servizio, cosa che risulta una falsificazione. Non si può in verità funzionalizzare la professione, definirla totalmente a partire dal servizio, e contemporaneamente mantenere una così arcaica rinuncia come quella del celibato - questo non sta in piedi. Qui la Chiesa si deve decidere, non può volere ed ottenere entrambe le cose: i due linguaggi non possono concordare, cosa che ogni cieco vede, mentre sfugge a quasi ogni ecclesiastico. Qualunque fenomenologo o psicologo delle religioni confermerebbe immediatamente che coslnon può andare. Ma con sublime pathos, sebbene un po' disperato, viene annunciato l'ideale escatologico, l'assoluta di-

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sponibilità, realtà che tuttavia non coincidono più con la effettività spirituale della collocazione della professione ecclesiale. Questi erano ora alcuni ambiti fondamentali, nei quali i credenti da una parte si chiudono a riccio e dall'altra si adattano. E stanno proprio in mezzo e questo rende la Chiesa al presente qualcosa di misero. Sorge un'immagine totalmente oscillante tra un sublime e irremovibile tener fermo, che pur sta su piedi di argilla, e dall'altra parte nella prassi un gergo ed una frenesia, dei quali non si sa già più che cosa ne dia ragione. In mezzo a ciò ci si trova un po' congelati, naturalmente anche più liberi di primaciascuno cucina la sua zuppa, cosa che è pure bello: tutto è così cucinato in modo più appetitoso, più soffi.ce, più leggero. Nella cura delle anime i pastori cercano da una parte anche di dire che la Chiesa incentiva tutto ciò che reca gioia all'uomo, ciò che è bello ed umano, dall'altra se la prendono proprio con questo: parlano permanentemente di una "società consumistica", sono scontrosi e aggressivi. Anche qui mancano un linguaggio ed un atteggiamento che siano abbastanza equilibrati. Non si sa dunque alla fine che cosa fare con il cristianesimo e con la modernità. Fin qui la radiografia, che è rivolta ai sintomi della malattia. Si deve ora fare un passo indietro e osservare da lì.

2. ESAME DELLO SFONDO DELLA CONDIZIONE SPIRITUALE ATTUALE

2.1. Secolarizzazione quale crollo del retromondo platonico

Il cristianesimo vive, almeno dal secondo secolo, da Origene, di platonismo. Ha assunto una visione del mondo ed ha incorporato primati precisamente definiti, idee,

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valutazioni e possibilità di esperienze del sacro. Per i cristiani fino al 1960 era stabilito che c'era un primato dello spirito sul corpo, dell'ascesi sulla vita, dell'unità sulla molteplicità, della volontà e dell'intelletto sul sentimento, deil' eternità sulla temporalità ecc. In realtà questo mondo già intorno al 1300, per dirla con Umberto Eco intorno al 1327, è crollato con la nascita del nominalismo, con il famoso sorriso, che il bibliotecario cieco del romanzo Il nome della rosa intende ostacolare, perché il sorriso è fin troppo sovversivo, distrugge l'ordine gerarchico e ribalta proprio i primati platonici sopra richiamati. Qui allora non e' è più lessere sostanziale, ma il libero dare nomi. Oggi viviamo un mondo di tutt'altro tipo, con un primato della molteplicità sull'unità, del corpo sullo spirito, della storicità sulla verità, della vita sulla privazione della vita e sull'ascesi, della critica sulla positività, della possibilità sull'effettività e sull'essere, dell'oltrepassamento tentante sulla trascendenza (siamo una società che tutto sperimenta, vive di piccoli attraversamenti di confini, cosa che non coincide affatto con la trascendenza), del sentimento sull'intelletto. È evidente che ancora non è chiaro che cosa si dovrebbe fare con tutto ciò a livello teologico, che cosa esso significhi per gli stati di vita. Gli ordini religiosi come anche lantico ideale del matrimonio vivevano dell'ideale e del primato platonico. Così siamo stati educati rutti, o almeno i più anziani, e ora non sappiamo che fare con tutto ciò. Freud faceva i conti ancora con una società di nevrotici ossessivi, che in modo isterico volevano e dovevano sovvertire gli antichi valori platonici. Le donne prese in cura da Freud erano isteriche, volevano distruggere l' antica morale di coppia, il primato del mascolino e la forza anteposta al sentimento vissuto. Oggi questo è in larga misura accaduto. Non c'è nessuna forza centrale, nessuna gerarchia, alcuna rappresentazione che si imponga più.

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Oggi non si è più nevrotici ossessivi e isterici, forse eccetto che nel bisogno di mobilità, ma piuttosto depressivi e schizoidi, e per tali cosi non vi è alcun rimedio. Ciascuno di noi, che ogni giorno vede la televisione e che ancora va in Chiesa, vive in troppi mondi; saltella di qua e di là e soltanto raramente gli riesce una traduzione tra di essi. E si diventa depressi: se tutto è possibile, niente è poi così reale e si va avanti galleggiando, il che a volte risulta piacevole. Si vede che cosa a partire dalla società degli anni cinquanta sia cambiato: il crollo del mondo platonico. In sé e per sé il cristianesimo non è sposato con il platonismo, ma 1500/1600 anni di storia del sacro pesano molto e non ci si può sbarazzare di essi da un giorno all'altro, tanto più che l'anima necessita di un tempo lungo, molto di più dell'intelletto e la Chiesa è prima di tutto naturahnente una comunità di anime.

2.2. Stutturalismo al posto della sostanzialità Si consideri l'immagine del mondo tra gli anni 1905 e 1910: allora subentrò, ad un ordine di rappresentazione di tipo gerarchico-sacramentale ed ad un mondo segnato da una prospettiva centrale, un mondo strutturale multiprospettico e democratico, e questo a tutti i livelli. Si confrontino i romanzi di Theodor Fontane con quelli di Proust. Si vedrebbe come qui abbia avuto luogo un balzo quantistico: incommensurabile. Pensiamo all'ultimo Mahler e alla sinfonia da camera di Schonberg del 1906, nella quale non si trova alcuna dominante, alcuna armonia, ma ogni tono ha lo stesso valore. Pensiamo al sorgere di ciò che oggi chiamiamo arte "astratta" o "non-oggettuale": a Les Demoiselles d'Avignon (1907) di Picasso. È il primo quadro astratto, con la

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perdita della forma, della riconoscibilità, dell'identificabilità, dell'oggettività a favore di un processo di visione anonimo e di un rapporto democratico tra immagine ed osservatore, il quale per così dire deve rivendicare la molteplicità ·di significati dell'immagine stessa. Sorge la sociologia, un'analisi differenziata delle società complesse: Simmel, Durkb.eim. La psicologia del profondo: l'anima non è più un'entità spirituale, ma una struttura di istinti e la stessa morale è parte di questa struttura nel super-Io. La coscienza è un debole medio tra le strutture e gli istinti (Freud 1905). Il suffragio universale si impone e diventa per la prima volta un ideale. Inizia ciò che viene chiamata la "critica del linguaggio": il linguaggio non viene più percepito in modo sostanziale, ma si comincia ad analizzarlo. In tal modo non si dà più nulla di centrale, nessun narratore, nessuna oggettività, soltanto ancora possibilità di classificazione perfmo nella fisica, dove nella teoria della relatività non si dà più alcun nesso causale di tipo newtoniano, piuttosto tutto ricade sulla prospettiva e sul sentimento temporale dell'osservatore, dai quali dipende che cosa si offra a lui di obiettività (esattamente non più presente). Lo stesso vale per la fenomenologia di Husserl, dove si ha a che fare con le diverse possibilità circa il gioco tra la posizione dell'osservatore e il mondo di volta in volta presente, che così sorge. Per questo Husserl ha messo in movimento infmite analisi, lasciando 40.000 pagine inedite, poiché il gioco può andare avanti addirittura infinitamente: ciascuno di noi ha molti atteggiamenti e se si mettono insieme più uomini ciò si moltiplica: ciascuno ha in sé un'intera gamma di corrispondenze tra le diverse ottiche e mondi. Questa si può defmire immagine strutturale del mondo: concatenamenti e libero gioco tra prospettive e livelli strutturali- questo definisce l'immagine della vita e dell'io. Anche in questo caso non si sa ancora come e in qua-

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le misura si deve introdurre tutto ciò nella vita della Chiesa e della teologia. Pensiamo alla discussione sull'eucaristia: transustanziazione o transignificazione? Modello sostanziale o modello ermeneutico? Al momento sembrano ancora escludersi. Pensiamo all'intero apparato gerarchico della Chiesa con la sua forza, anche con la sua potente forza nel giusto senso della rappresentazione della doxa, della gloria. Tutto ciò ha qualcosa di impressionante nel duplice senso del termine: imponendosi in modo pesante come il piombo, provocando meraviglia e consolazione al tempo stesso. Passeremo dal modello patriarcale a quello fraterno nella Chiesa? Da una dogmatica verso una mistagogia del cristianesimo, da una morale proibente-prescrivente verso una liberante ed incoraggiante?

2.3 Il primato del pensiero ebraico su quello cristiano

Gli ebrei secolarizzati sono gli scopritori del postmoderno. Quasi tutti gli autori citati sono ebrei. Ciò significa che il pensiero ebraico determina il nostro inconscio. Tutto ciò che oggi ci determina in modo totalmente naturale nella nostra visione dei valori e del mondo, è ebraicamente plasmato: socialismo, psicologia del profondo, scuola di Francoforte, dia-logismo (Levinas, Rosenzweig, Buber), Schonberg e Einstein, Simmel in quanto sociologo, filosofi.a della vita (Bergson), Kafka, Karl Kraus, Wittgenstein e altri. Qual è ora il significato di tutto ciò? Il pensiero ebraico nel nostro secolo significa: impossibilità di una prospettiva centrale, impossibilità di un centro della storia, impossibilità di scrivere una storia dei vincitori. A partire da ciò è difficile essere cristiano, puntare su un Logos, su un evento storico di salvezza, sulla storia vittoriosa del dogma e della Chiesa. Ecco la fatalità: le persone, che a partire dalla Lettera agli Ebrei erano rite-

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nute eliminate, stanno dal punto di vista della mentalità in prima linea, fatto che si traduce per il cristianesimo in una situazione precaria. Si pensi ancora allo sguardo di Kafka, dal basso, dall' ottica della vittimaferita; ad Adorno e alla scuola di Francoforte, che ci mostrano come ogni affermazione assoluta della verità distrugge troppo e si rende da sé impossibile. Tutto viene visto sempre dall'altra parte. Si riflette subito, appena qualcuno afferma qualcosa in modo troppo convinto, su quali interessi egli nutra, su che cosa nasconda, contro che cosa egli sia effettivamente, che cosa in verità desideri soffocare - e quale posizione ambisce ad occupare. Pertanto non si recepisce più il lieto annuncio della Chiesa. I giovani hanno una sensibilità acuta per l'attenzione esatta del momento.L'attenzione è l'unico sacramento che oggi resta, la porta attraverso la quale ogni uomo può entrare. Essi sono, dunque, per l'assolutezza del momento e per la relatività del tutto. L'intero ha sempre torto. È sempre dispari, dice Adorno. Non possiamo più in modo veritiero esperire qualcosa di intero, di assoluto, di totale, alcun senso totale. Al contrario il discorso ecclesiale è ancora sempre determinato dall'antico modo di pensiero: l'"unico Logos", l"'unico Cristo", che è il vincitore (nel secolo scorso è stata introdotta la festa di Cristo re e si parla ancora della unità politica dei cattolici oppure di una verità). Con ciò non è detto che un tale pensiero strutturale abbia ragione e che la Chiesa sia nel torto. Qui si descrive solo l'ingranaggio nel quale.essa si imbatte.

2.4. Reellenizzazione: il ritorno al mito dell'Ellade Nel postmoderno accade una sorprendente mescolanza di razionalità, di ragione tecnica e di mistica. Ciascun

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uomo vuole essere un mistico, vuole avere sentimenti profondi, ma vuole al contempo essere razionale, ali' altezza della ragione tecnica: una straordinaria posizione di equilibrio tra irrazionalismo e razionalismo. Lo stesso si dica dell'uomo e della natura, soprattutto sotto il segno del1' ecologia: non si sopporta più l'antropocentrismo ed il centralismo storico del cristianesimo, e si vuole tornare alla natura, essere naturali, circondati dal verde, avere una nicchia - naturalmente a partire da ragioni di sopravvivenza. Karl Lowith (discepolo di Heidegger, grande amico di Gadamer a Heidelberg) ha descritto, oltre 40 anni fa, tutto ciò come ebraico e "greco", come l'umano mediterraneo. Lo stesso si dica dell'elemento androgino della nostra società: nessun uomo nell'Occidente europeo vuole essere più effettivamente maschio, piuttosto ciascuno desidera essere sensibile, la femminilità è "in". La forza maschile è fin da principio sospetta. L' "uomo" deve essere smascherato, trasformato. Parole come "forza", "autorità", ecc. sono a priori sinistre. Si è imposta un'atmosfera che tende all'omofilia, un'atmosfera androgina: ciascuno è sensibile, vuole sempre prevenire l'altro, sebbene ciascuno allo stesso tempo vuole e deve in modo narcisistico ed in modo sottilmente brutale cavarsela. Così qualcosa è più camuffato, ma non di meno evidente. I maschi diventano dunque femminei, le donne in qualche misura si mascolinizzano e noi non sappiamo ancora che cosa ciò significhi per il matrimonio e per i ruoli nella Chiesa, per il maschio celibatario, il quale ha il potere e per le molte teologhe laiche, le quali a ragione chiedono un maggior riconoscimento. E non sappiamo neppure che cosa ciò significhi per l'immagine di Dio: si scoprono tratti materni in Dio. Che cosa significa ciò per la rappresentazione di questo Dio nella sua Chiesa? Debbono continuare ad esercitare ciò i maschi, debbono essere maschi sposati? Che cosa significa ciò per le pari opportunità del-

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l'uomo e della donna in una coppia? Al momento ciò significa che nessuno sa più che cosa si debba fare. Già sul come chiamarsi, in molti stati europei, non si sa più come procedere. Ogni formazione di un nome è un gruppo di Laocoonte. Ci si perde nella sterpaglia del doppio nome. Tutto ciò è segno di una società che è saltata in aria. Ciascuno deve inventare la sua vita dal punto zero e deve arrangiarsi. La vita come arrangiamento: in qualche modo libero e bello, ma anche sovraccarico. Infine sorge un'atmosfera gnostico-orfica: il terrestre, l'archetipo, il sentimentale, l'olistico, qualcosa che oscilla tra scienze naturali ed empatia, e che unisce Est ed Ovest. Si prende un po' di buddismo e di personalismo, un po' di meditazione e di fede e ciò è bello, raffinato, sottile, attraente, ci si può in esso bagnare e cullare. Certamente è difficile ottenere da tutto ciò un concetto di vita e portarlo avanti per sessanta anni - questo è il problema. Al presente ci si muove in qualche modo tra Hermann Resse, Carl Gustav Jung, Teilhard de Chardin e zen-buddismo, e a partire da ciò ciascuno mescola la sua fede a modo suo. Tutte le correnti si uniscono nel movimento del '68, non come esso era nei suoi inizi marxisti o pseudomarxisti, ma nelle sue conseguenze anarchico-marxiste in quanto rivoluzione della cultura, che hanno colpito noi tutti dentro la nostra anima. Qui esso ha avuto un immenso successo. Esso era anarchico: cioè rappresentava l'elemento liberale, il singolo, la libertà, 1' arruffato, esigeva 1' autosviluppo: ciascuno è qualcosa di eccezionalmente particolare - e marxista: tutti sono uguali. I due movimenti si sono allora incrociati, cosa che si manifesta in segni esterni come nell'impulso costante al dare del tu e nel continuo look da tempo libero, ma soprattutto nel fatto che sono spariti gli stati di vita. Sinò al 1965 ogni uomo ragionevole apparteneva almeno a cinque stati di vita, dai quali derivava le regole dell'esistenza e la sua dignità collettiva:

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posizione cli lavoro e di matrimonio, nazione, "ideologia" (partito, chiesa), associazione e posizione militare. Ciò dava - pur con ogni limitazione - un ordine alla vita, un sostegno, un'aura, un'affidabilità. Oggi ciascuno deve inventare il suo stile e il suo valore dipende da ciò che riesce a fare di sé. Ciò ci ha resi infinitamente più liberi, ma anche esposti e sovraccarichi, ora ciascuno deve inventare la sua identità, e questo è difficile. Questa appare la principale conseguenza del movimento del '68, per questo si sopporta appena qualcosa cli oggettivo ed i discorsi della Chiesa cadono nel vuoto e risultano quasi ridicoli: la anima umana, pur infinitamente capace cli cambiamento, dinanzi a tutto ciò si trova impotente.

3. OPZIONI E PROSPETTIVE FUTURE

Si ascolti un testo da un libro su Meister Eckhart: «Esseri capaci cli sensazioni e di conoscenza possono sperimentare un processo cli trasformazione in diversi modi. Possono farlo accadere su cli sé con riluttanza quale violenta modifica cli una data situazione, che essi vogliono conservare. Possono in modo anonimo sopportarlo e arrendersi ad esso, senza sapere che cosa loro capiterà. Ma essi possono anche accogliere tutti i suoi momenti in libertà, alla luce della nascita cli una vita più alta. Nel primo caso essi subiscono il processo come alteratio, come alterazione, nel secondo lo riconoscono e lo sanno come generatio, come concepimento di una nuova vita>>.

3.1 . Ogni tempo è kairos ed è vicino a Dio Contro l'ordinario risentimento antimodemo della Chiesa, che fa male solo a se stessa e la fa essere irrilevante per

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gli altri, si deve scommettere sul fatto che la modernità e la postmodernità siano un klliros per la rivelazione di Dio e per la sua presenza. Il Medioevo non era più vicino a Dio e a Cristo che la modernità. Il cristianesimo puro non si dà, in nessun tempo - forse si è dato nel momento in cui Cristo è salito in croce e dopo ciò il cristianesimo è fermento, sale, orizzonte, idea regolativa, rimemorazione, schematismo ermeneutico del mondo. Nello stesso tempo scompare anche e sempre nell'incredibile minestra della normale esperienza del mondo. Perciò noi partecipiamo in fondo ad una possente storia di trasformazione, ad una storia del ruolo del cristianesimo, nella quale si costellano il tempo di volta in volta presente e ciò che esso ha compreso della fede. Per questo non si dovrebbe parlare permanentemente di "secolarizzazione"; la modernità infatti è debitrice di elementi essenziali della Riforma, delle sette, della mistica del cristianesimo (democrazia, interiorità, pensiero trascendentale) e il cristianesimo a sua volta si modifica sotto la pressione ed il seguito della contemporaneità. Così il tempo postmoderno rappresenta il sacro in un nuovo modo - come resta pure bisognoso di compimento e di rederizione. Su ciò si deve possibilmente puntare.

3.2. Ogni tempo sta per così dire sulla soglia del Nuovo Testamento Gli uomini d'oggi reagiscono ancora in modo anticotestamentario, pagano, ellenico, almeno per il 90% della loro vita. Il passo nell'effettività del discorso della montagna e del Nuovo Testamento è sempre davanti a loro, perciò l'elemento ebraico, pagano ed ellenico non è oggi qualcosa di inquietante, è qualcosa di normale. La terra promessa, la realizzazione del Nuovo Testamento sta ancora

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davanti anche per gli stessi credenti - ciò è avvilente, ma è anche fonte di consolazione. In questo modo bisogna forse occuparsi di storia della salvezza.

3.3. Il cristianesimo non più quale verità ideologica, ma come motivo invitante

Innanzitutto, come in un museo: nel cristianesimo vi è molto da vedere, esso possiede una storia enormemente ricca, tante cose degne di amore e tanta ricchezza culturale. I misteri svelano un paesaggio, nel quale per prima cosa si può a lungo spaziare. Non si deve subito e sempre credere, per una volta si può anche vedere. Che si debba subito ritenere vera la fede, è una strettoia. Vi è là moltissimo da scoprire ad un primo livello mistagogico. Il cristianesimo come motivo della volontà: incoraggiante, che insegna la scoperta. Come motivo e compito della comprensione, che fa comprendere meglio la vita. Come motivo della sinfonia della vita sullo stile delle melodie wagneriane, che difatti determinano un intero filo del destino e impastano il tessuto vitale. Che sarebbe, se i misteri del cristianesimo venissero offerti e presentati in modo esistenziale, sapienziale e in quanto motivi? I credenti si risparmierebbero molti spasmi. Un motivo è qualcosa di più forte! Non è in alcun modo indefinito, ma ha qualcosa che va verso la direzione del credere, del puntare, della scommessa, del fidarsi.

3.4. Cristianesimo come mistica

Senz'altro quell'attuale è l'epoca della privazione di Dio. Dio non si verifica più nel modo dell'entrare in azione come accade nella Bibbia, così che lo si possa discer-.

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nere da ciò che è mondano. Egli è diventato anonimo, ed in ciò Balthasar e Rahner concordano: entrambi parlano dell'anonimità della rivelazione. Questo costituisce per i credenti una grande difficoltà. Nella Bibbia Dio si mostra ancora in modo storico attraverso eventi pubblici, in certa misura in maniera verificabile, con una qualche forma e fisionomia, e proprio questo si è completamente perso. Il nostro è un mondo strutturale, cioè non gerarchico, un mondo non più caratterizzato da differenze essenziali. Pertanto credere è diventato difficile. Si vive per così dire in una notte dell'agnosticismo, dell'agnosia - e questo deve essere accolto in modo completamente realistico quale comune destino di credenti e non credenti. Tutti, orfani di Dio. E Giovanni della Croce e Teresa di Lisieux e altri grandi santi hanno qui già scavato molti tunnel.

3.5. Un'altra immagine di Dio ... .. .dipende proprio da tutto ciò. Da Lutero e da Hegel in poi - e questa è un'opinione comune della teologia Dio si manifesta in modo anonimo, non più quale il potente, onnipotente "Padreterno", il quale entra in azione, non più quale prospettiva centrale, non più come l'uomo sulla luna, ma quale accadimento trinitario: povero, debole, in qualità di mendicante, trinitario, dunque in quanto struttura, multiprospettico, quale reciproco dono. E forse, questa è la scommessa di chi scrive, si scoprono ora alla . fine della modernità per la prima volta in tale purezza molte autentiche tracce del concetto cristiano di Dio. Per la prima volta con Hegel, la Trinità, la rivelazione, la povertà di Dio, la rivelazione di Dio in croce diventano il centro del. la riflessione e della storia. Per tutto ciò non si hanno ancora forme di rappresentazione ecclesiale. Non si sa ancora come ciò possa diveni-

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re in qualche modo visibile sul livello sociale e sul livello elementare dell'esistenza. I santi, che godono di grossa popolarità come Francesco, sono in questa direzione come dei "fanali". Come dovrebbe diventare visibile il Dio cristiano, non più il Dio pagano, non più Zeus, il Dio cristiano, che in sé reca un'essenza materna, patema, filiale, razionale e accogliente? Forse a partire da qui sarebbe possibile anche un consenso ecumenico.

3.6.

~essenza

del cristianesimo sorge nuovamente

Sorge di nuovo nel tempo presente in un modo preciso il tentativo di fissare !"'essenza del cristianesimo". Non a caso appaiono continuamente dal passaggio di secolo scritti con tale titolo. Il cristianesimo viene per la prima volta percepito dall'esterno: quale è propriamente la sua fisionomia? Ed in ciò si compie una riduzione ed una centralizzazione dei misteri: che cosa è Trinità, creazione, il creato, l'incarnazione, il Venerdì santo e la Pasqua, che cosa la grazia? Questi misteri fondamentali del cristianesimo non si possono impacchettare, bloccare: non si lasciano fissare neanche dogmaticamente, ma sono pieni di mistero e precari, ovvero passaggi bisognosi di preghiera. Tali misteri, come già i grandi dogmi fanno, possono venire abbozzati e circoscritti formalmente solo con concetti negativi, ma il loro centro non può essere fissato. Sono spazi e passaggi. Proprio ciò che oggi è chiesto di vivere ad ogni credente sono anche le stigmate dei misteri cristiani: essere passaggio, essere povero, ricettivo, coraggioso e umile. Si dovrebbe trovare gioia in un cristianesimo così riscoperto e allora si potrebbe attraversare il nostro tempo in modo diverso. E questo sarebbe l'atteggiamento da augurarsi: gioia nell'avventura, gioia nella molteplicità del-

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la storia del cristianesimo e delle sue forme, confessione della nostra mancanza di linguaggio (non sappiamo ancora come sia da rappresentare questo Dio) e un humour, che saltelli qui e là tra cielo e terra, tra antico e nuovo, tra angoscia e gioia dell'avventura. Questo humour manca in modo evidente nella Chiesa attuale - a tale scopo dovrebbero forse gli stessi credenti venire privati ancora di più e spogliati delle proprie sicurezze, come scrive Eckhart: «La cosa più alta e più estrema che un uomo può fare è poter lasciare Dio per volontà di Dio. Così san Paolo lasciò Dio per volontà di Dio: lasciò tutto ciò che poteva prendere da Dio, e lasciò tutto ciò che Dio poteva donargli e tutto ciò che egli poteva ricevere da Dio. Quando lasciò ciò, egli lasciò Dio per volontà di Dio. E allora gli rimase Dio così come Dio è in se stesso fonte eterna, un divenire accogliente e un divenire ricevuto, sempre di nuovo, eternamente giovane».

Awio teorico: tra sfondo ontologico, confronto e apertura

capitolo terzo CONOSCERE IL MONDO IN DIO Per una nuova visione dell'ontologismo

Le vicende del cosiddetto ontologismo nella storiografia e nella valutazione ecclesiale sono state piuttosto infelici, come del resto la storia di molti semi teorici del pensiero agostiniano 1• Dato il divorzio tra teologia e mistica sotto il dominio di un tomismo aristotelico e la sua teoria dell'astrazione e dell'analogia entis et nominum, si è offuscata la semplice verità che Dio di per sé non può essere un oggetto o una scoperta posteriore, ma deve presentarsi come fondamento e orizzonte, garante e sorgente, come unica vera condizione trascendentale e luce di ogni essere e conoscere. Vi è una circolarità tra le due movenze del pensare e conoscere: da un lato conosciamo Dio per via del mondo, a mo' di un'illazione, di un rinvio simbolico di una ascesa analogica; ma, appunto, queste forme di approccio non possono giungere alla loro meta e il mondo limitato non può essere concepito come tale senza I' orizzonte infinito, la luce intramontabile di una verità presupposta. Mondo e conoscenza risultano concrezioni di una compresenza del principio di ogni essere nonché della sua "esperienza". Non già che avessimo una conoscenza di-

1 Perfino nell'ultimo resoconto di questa storia (K..H. MENKE, LThK, vol. I, terza ed., 1056s) prevale un tono puramente negativo e apologetico, che presuppone un concetto giobertiano della nostra causa, mentre noi pensiamo ad una concezione agostiniana più vasta, condivisa in fondo anche da quell'esimio studioso di Rosmini che Menke è.

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retta o tematica del divino prima della percezione della realtà contingente (come lo asserisce l'ontologismo giustamente sospetto di un Gioberti), nondimeno è grazie alla luce del divino che intravediamo le cose e noi stessi, anche se non ce ne accorgiamo. «Alla tua luce vediamo la luce» (Sal 36,10): Dio è il primo conosciuto sul piano trascendentale, non su quello categoriale, per usare le categorie suggestive, ma discutibili di Rahner. E infatti, autori tanto diversi come Augusto Del Noce, Karl Rahner e Henri De Lubac2 sottolineano con certo pathos e con molti riferimenti ad una grande tradizione anche tomista (da Tommaso fino a Gardeil e Maréchal) questa verità fondante del cristianesimo. L'intento del nostro piccolo contributo è quello di voler indicare e individuare alcuni tipi e tappe di un tale ontologismo ortodosso, che potrebbe aiutarci a tener insieme teologia, filosofia e mistica, conoscenza del mondo e visione di Dio, giustificando così uno stile di concepire il rapporto tra la contingenza e l'eterno che è stato sottovalutato e perfino scomunicato. E mi pare un buon segno che le condanne inflitte al Rosmini ultimamente sono state revocate. Questo gesto del magistero potrebbe incoraggiarci a rivedere una storia tanto tormentata quanto promettente. La sorgente e culla, l'integrale di una tale Denkform si trova senza dubbio in Agostino. Rientrando in sé, l' occhio della mente intravede con l'aiuto di Dio la luce intramontabile che è più alta e sublime perché ha creato la stessa mente. «Qui novit veritatem, novit eam, et qui novit eam, novit aeternitatem. Caritas novit eam»3 • La mente ricono-

2 Cfr. K RAHNER, Corso fondamentale della fede, Paoline, Roma 1984; H. DE LUBAC, Sur les chemins de Dieu, Cerf, Paris 1956 (la storia tormentata delle diverse edizioni di questo volume, al quale si rimprovera appunto una concezione ontologista della conoscenza di Dio, dimostra già da sé la necessità di una revisione del concetto); A DEL NOCE, n problema dell'ateismo (1964), Il Mulino, Bologna 1990, 377-511. 3 Confessiones VII,10.16 (da comparare con la Visione di Ostia in IX,10).

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sce se stessa e Dio «quale fondamento apriorico del conoscere, in sé trascendente e nello stesso tempo operante nell'interno della coscienza. Nel ritorno a se stesso il pensiero si confronta dunque in modo consapevole con la struttura dialetti.ca dell' in-esistenza e della trascendenza della assoluta verità>>, per riconoscere in tutto ciò Dio stesso come lucifica lux e sorgente di ogni conoscenza vera e illuminazione4. Come tale si esprime congenialmente nel VerboFiglio e invita la ragione a rientrare e a riflettersi in sé per comprendersi come riverbero del Verbo e della chiarezza della autopresenza trinitaria di e in Dio. Più la mente si riflette e si coglie in sé, più si realizza in modo differenziato nella propria struttura dinamica e si accorge delle condizioni trascendentali della stessa conoscenza di sé e del mondo, del suo intelligere, valutare, parlare e amare: un vero laboratorio della exercitatio mentis che trova il suo acme e compimento nei libri VIII-X/XIV-XV del De Trinitate. In questi libri, l'approccio cauto e circospetto al mistero dal basso e la percezione rivelatrice ed illuminante del carattere simbolico ed espressivo della ragione si incrociano sempre di nuovo, un cammino che non sarebbe possibile senza aver ricevuto qualche luce divina apriori in vista del carattere simbolico della stessa ragione. Assistiamo al cambio continuo di prospetti.ve tra una riduzione fenomenologico-trascendentale e la dischiusura deduttiva della sua condizionatezza fondata in Dio, un ritmo che determina la dinamica e la composizione di questa opera geniale e quanto mai complessa (e che ritroveremo nell'andamento del Corso foTUiamentale di Rahner) 5 •

4 W. BEIERWALTES, Platonismus im Christentum, Klostennann, Frankfurt 1998, 180-183; lo., HWPh 5 (1980) 284. 5 De Trinitate VIll,3; VIII,6.9/8.12; IX,4-9; X,1; XIV,6; XV,10. Cfr. H.I. MARRou, Sant'Agostino e la fine della cultura antica, Jaca Book, Milano 1994, 267-276; J. BRACHTENDORF, ed., Gott umi sein Bild. Augustins "De Trinitate" im Spiegel gegenwiirtiger Forschung, Schoningh, Paderbom 2000.

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Sulla scia di una tale riflessione di Agostino (si deve aggiungervi pure la sua teoria della mistica del libro XII del suo commento alla Genesi) si muove anche la visione di S. Benedetto, riportataci da S. Gregorio Magno nei suoi Dialoghi sui miracoli dei Padri italici. Il Santo, vegliando di notte alla fmestra della sua cella, vide «quasi compendiato in un sol raggio di sole il mondo intero (omnis etiam mundus, velut sub uno solis radio collectus, ante oculos eius adductus est) e poté scorgervi l'anima di Germano portata in cielo dagli angeli in un globo di fuoco». Significativo è il commento teologico di Gregorio. «Animae videnti Creatorem angusta est omnis creatura>>, perché «rapita nel lume divino, l'anima del veggente trascende se stessa dilatandosi e capisce, nello stato di esaltazione, come sia minuscolo ciò che, nello stato di umiliazio' ne, non poteva valutare nella sua interezza» (II,35). Non si tratta, dunque, di una contrazione della sfera mondana, ma di un allargarsi dell'orizzonte del veggente. Potremmo dire che ciò che normalmente avviene in modo atematico e anonimo (cioè la visione del mondo alla luce del divino e della sua presenza), nella visione straordinaria di Benedetto si esplicita; non è solo un'esperienza trascendentale, ma piuttosto un'esperienza del trascendentale e delle vere proporzioni che vigono tra il finito e l'infinito, e in tutto questo vi è un inveramento condensato di quella certezza ed evidenza che accompagna e sorregge il processo conoscitivo e il giudizio di ogni persona in quanto vive e conosce "in verità". Il Monologion di S. Anselmo si rifà del tutto alla logica del De Trinitate VIII,3, pur sottolineando e formalizzando la circolarità argomentativa che sorregge l'impianto agostiniano, allargandolo ed approfondendolo mediante una teoria stringente della logica intratrinitaria (Mono!. 29-62). L'unico argomento del Proslogion (che corregge eri-fonda la logica del Monologion) si deve, inoltre, alla

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grazia di una illuminazione e condensa così l'itinerario di Agostino e di Gregorio sul piano logico-formale. Siamo al punto culminante del connubio tra mistica e "illuminismo" razionale. L'id quo maius cogitari nequitè l'intrigo stesso tra il concetto massimo della autoriflessione della ragione che riflette (sul)le ultime condizioni di possibilità del suo intelligere e un concetto e nome che non può non essere l'integrale, il garante_ e la quintessenza primordiale di ogni conoscere6• Non siamo lontani dalla pretesa e dal punto culminante del viaggio visionario di Dante che si compie e si articola nell'ultimo canto della Commedia, ove l'incisività e la pregnanza della visione sinottica risultano la sorgente della sua forza poetica (Par. 33,67-93): O somma luce, che tanto ti levi da' concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la mia lingua tanto possente ch'una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente.

Grazie all'acume (sofferto) del vivo raggio della luce divina, Dante contempla la sorgente unica e unente di tutto ciò che per noi rimane disperso: Nel suo profondo vidi che s'interna, legato con amore in un volume, ciò che per l'universo si squaderna; sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch'i' dico è un semplice lume.

6 Per Anselmo: E. SAIMANN, «Korreflexive Vemunft und theonome Weisheit in der Logik. von "Monologion" und ''Proslogion"», in M. HoEdEN, ed., L'attua.lità filosofica di Anselmo d'Aosta, Benedictina, Roma 1990, 143-228 (164ss); ID., Presenza di Spirito. n cristianesimo come gesto e pensiero, Messaggero,

Padova 2000, 223ss.

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Raggiungiamo qui la vetta, se non della visione di Dio, almeno della visione del mondo e di tutta la parabola dantesca alla luce ... della luce divina. In Cusano, la concezione ontologica del non-aliud, della contrazione e concentrazione sorgiva e strutturale del diverso nella identità divina si rispecchia anche nella sua gnoseologia; e viceversa, la visio Dei (genitivo oggettivo e soggettivo) risulta il luogo e il processo dell'inverarsi e realizzarsi della ontologia di una sempre maggiore forza dell' "implicazione" divina in mezzo ad una pur tanto grande differenza dimensionale tra le sfere. Non basta più una illazione o proiezione da parte dell'uomo, ma, data la coimplicazione tra finito e infinito, il progetto dell'argomento ontologico deve concretarsi in una reciprocità corriflessiva tra lo sguardo di Dio e quello umano, in un gioco prospettico tra le libertà che, sia pure asimmetricamente, si evocano a vicenda: «Nemo te videre potest nisi inquantum tu das ut videaris. Nec est aliud te videri quam quod tu videas videntem te» 7 . «Omnis igitur facies, quae in tuam potest intueri faciem nihil videt aliud aut diversum a se, quia videt veritatem suam» (VI, 112). Una tale dialettica e convergenza speculare e speculativa della verità umana in Dio (e viceversa) porta necessariamente ad una reciprocità nell'accrescimento della libertà dei soggetti. «Necessitares enim libertatem, cum tu non possis esse meus nisi et ego sim mei ipsius», aspettando che l'uomo scelga se stesso come soggetto della sua visione del mondo e della sua azione def mondo (VII, 120). · Un tale occhio liberato potrà imparare da Dio come si contempla l'universo in modo originale e sinottico, co7 NIKOLAUS VON Kurs, De visione Dei V: Philosophisch-theologische Schriften III, Herder, Wìen 1964, 108 (citeremo sempre i capitoli dell'opera e poi le pagine secondo questa edizione); per il concetto di visione e l'architettura dell'ospizio di Kues: A. DE SANTIS, Metamorfosi dello sguardo. n vedere tra mistica, filosofia ed arte, Benedictina, Roma 1996, 130ss.

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gliendo l'unità sorgiva e la particolarità individuale di ognuno, allo stesso modo di come tu, Dio, «unico intuito simul et singulariter discemas» (VIII, 124). Non vi è più nessuno iato tra essere, vedere, conoscere, tra unità e differenza, tutto converge e coincide in Dio, senza perdere la sua originalità e diversità; tutto è un "presente" della (e perciò presente alla) compresenza assolvente e concipiente divina (IX-X). E Dio, pur essendo invisibile, viene, nondimeno, intuito da ogni veggente in qualsiasi momento e in qualsiasi oggetto, come se Dio stesso fosse la similitudine delle cose - e magari la nostra creatura - un'illusione pmspettica necessaria per garantire la verità e libertà del1' essere umano che non può cogliere la verità sua e quella del mondo se non in Dio stesso ed in una co-azione sinottica e speculare con Esso: O inexplicabilis pietas, offers te intuenti te quasi recipias ab eo esse et conformas te ei, ut eo plus te diligat, quo appares magis similis ei ... Ostendis te Deus quasi creaturam nostram ex infmitae bonitatis tuae humilitate, ut sic nos trahas ad te ... Et coincidit in te Deus creaci cum creare ... Si ego enim in te similitudine mea diligere debeo ... (XV, 162).

È ovvio che qui ci moviamo su un crinale tra arditezza speculativa e proiezione, tra Anselmo e Feuerbach/Freud. Già Anselmo (Monol. 29-33) aveva toccato questo punto delicato ove visione umana e rivelazione divina si incrociano e non si sa più chi sia l'archetipo dell'altro. A questo punto, ci vorrà una conversione alle vere dimensioni e proporzioni del finito e dell'infinito. Questa visione è, in verità, la realizzazione intuitiva e concreta di una cogitatio che trova il suo acme, il suo riflesso gnoseologico fondante e finale nell'argomento ontologico e nella ontologia della coincidenza. Una visione dell'uni-verso che si rispecchia in modo congeniale nella cappella dell'ospizio costruito dallo stesso Cusano, ove la colonna centrale nella quale tutte le volte.della navata (uno spazio quasi qua-

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drato) si concentrano impedisce lo sguardo al coro, pur rinviando ad esso; e proprio nel coro le forme e i motivi di tutte le chiavi di volta si rifigurano e coincidono. La colonna figura, quindi, come rappresentazione e promessa della coincidenza e come quel muro che la nasconde e rivela. Sembra che l'argomento ontologico e "l' ontologismo" siano teoremi, anzi visioni della realtà, espresse da e per animi arditi, da quei cavalieri dello spirito (per riprendere alcune espressioni di Kierkegaard e di Guardini) che si avventurano ad esplorare i limiti e il baricentro del1' intelligenza umana e divina nonché del loro riflettersi a vicenda8• Un tale cavaliere che si inserisce perfettamente in questa linea è secondo molti anche Cartesio9• L'idea (evidente e di per sé chiara ed illuminante) dell'infinito, del1' ens necessarium e assolutamente perfetto risulta la base per ogni rapporto conoscitivo attendibile al mondo oggettivo e alle idee e percezioni dello stesso soggetto. Solo un tale Dio potrà strapparci dal turbine del dubbio e delle illusioni. In Malebranche molte delle idee fmora presentate si ripropongono e si condensano in una figura di pensiero alquanto originale. Siccome l'atto conoscitivo presuppone e si realizza come un processo di unione tra soggetto e oggetto, la mente umana (essendo spirito) può, . sì, percepire, ma non conoscere immediatamente i corpi

R. GUARDINI, PascaJ., Morcelliana, Brescia 1980, 187-234.. la linea accennata: W. P ANNENBERG, Systematische Theologie L Vandenhoeck & Ruprecht, GOttingen 1988, 380ss; H. HEIMsoEIB, Die sechs grojJen Themen der abendliindischen Philosophie, Stuttgart 1958, 114s.; W. SCHULZ, Der Gott der neuzeitlichen Metaphysik, Klett-Cotta. Pfullingen 1957; H. Rrnv!BACH, Substanz-System-Struktur. Die Ontologie des Funktionalismus und der philosophische Hintergrund der modernen Wissenschaft I, Alber, Freiburg, 1966, 150ss., 355ss., 438ss.; E. HlRsCH, Geschichte der neueren evangelischen Theologie I, Mohn, Giitersloh 1964, 144, 161. 8

9 Per Cartesio e

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o il mondo (poiché sono troppo lontani) e nemmeno se stessa (essendo troppo vicina), ma a causa e per via di un'affinità spirituale conosce soltanto Dio in modo immediato, per una semplice vue. E questo per due motivi positivi: da un lato, sembra evidente che Dio si conosce non per illazioni e per vie traverse, ma solo mediante Dio stesso, in uno sguardo semplice, nel quale visione, intuizione e pensiero coincidono. Dio non può essere un oggetto separato, che sarebbe ancora da scoprire o da escogitare. Non può essere un'idea soggettiva o una fantasia né può dovere la prova della sua esistenza ad un ragionamento supplementare o posteriore. Egli deve intendersi da sé e in sé, e come tale è colto in una visione immediata, sinottica, poiché è già da sempre pr~sente in ogni pensiero dell'infinito il quale fa parte integrale, anzi, è l'integrale dell'intelligenza umana. E qui tocchiamo il secondo motivo, la concezione malebranchiana della conoscenza del finito e soprattutto dei corpi che non potremmo percepire come estesi se non vedendoli in Dio, cioè per via delle loro idee e alla luce e nella prospettiva di uno spazio infinito. Solo in Dio vediamo la verità e la relatività, l'idealità delle cose, che non possono che in-esistere in Dio il quale è il garante della loro verità ideale e reale, della rettitudine del giudizio e dell'agire umano sul piano ontologico e morale, gnoseologico-veritativo e dialogico. In questa prova ontologica si riprendono intuizioni anselmiane e cusaniane dopo Cartesio e Spinoza O'idea dell'estensione intelligibile infinita rispecchia un'ossessione del Seicento e prepara lidea kantiana delle categorie e degli schemi trascendentali dello spazio e del tempo). Senonché Malebranche corregge le idee affatto chiare sulle idee che si trovano in Cartesio. Queste non possono essere oggetti mentali, interiori (innate) né puramente oggettive o extramentali, ma devono determinare sia la verità oggettiva che quella mentale, di-

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stinguendosi da entrambe. Perciò, le idee non possono essere create, ma risultano identiche alla vita e alla conoscenza di Dio stesso che solo può incidere sulla mente umana. Pertanto guardiamo e percepiamo (regarder) le cose a livello sensibile, ma le vediamo (voir) nella loro verità solo in Dio, la cui esistenza necessaria viene intuita nel medesimo momento come istanza ontologica e trascendentale del nostro essere e conoscere. «Se si pensa Dio, bisogna che egli sia ... Non si può vedere l'essenza dell'infinito senza l'esistenza ... Così vedete che la proposizione "C'è un Dio", è per se stessa la più chiara di tutte le proposizioni che affermano 1' esistenza di qualcosa ... Inoltre vedete ciò che Dio è, poiché Dio e l'essere, ossia l'infinito, sono semplicemente la stessa cosa>> 10 • Tuttavia, questo semplice sguardo che coglie la semplicità dell' essere infinito e di Dio come apriori di ogni conoscenza (vision de Dieu) non è una conoscenza diretta dell'essenza di Dio (questo sarebbe un ontologismo giustamente incriminato), ma intravede nel medesimo attimo «in quel che egli è il rapporto alle creature possibili» in quanto Dio comunica a tutte le creature le sue perfezioni (vision en Dieu) 11 • Non ci sono dunque rappresentazioni approssi-

10 N. MAlEBRANCHE, Colloqui sulla Metafisica, la religione e la morte II, 5-6, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1999, 128s; per la nostra interpretazione: H. GoUHIER, La philosophie de Malebranche et son expèrience religieuse, Vrin, Paris 1948, 312-353; M. EcKHOLT, Vemunft in Leiblichkeit bei N. Malebranche. Die christologische Vermittlung seines rationalen Systems, Tyrolia, lnnsbruck 1994, 136-216; per la concentrazione cristologica: P. HONERMANN, Jesus Christus-Gottes Wort in der Zeit, Aschendorff Verlag, Mfulster 1994, 281-301: «La Parola incarnata è la luce nella quale la soggettività moderna scopre se stessa» (282). 11 Si veda la ripresa di Malebranche in Blondel: «Nel fondo della mia coscienza c'è un io che non è più io, ma vi è riflessa la mia immagine peculiare. Io non vedo che in lui. Il suo mistero impenetrabile è come lo strato di stagno che riflette in me la luce» (L'Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi [1893], San Paolo, Cinisello Balsamo [Mi] 1993, 449). Il contesto è la ripresa raffinata dell'argomento ontologico che tiene conto di Anselmo, Cartesio e della sco=essa di Pascal, reintegrandoli nella dinamica dell'azione: l'idea

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mative di Dio, ma solo una visione precisa della sua infinitezza, senza la quale non si potrebbe cogliere e definire nulla come il finito. Teocentrismo, razionalismo scettico e illuminato, senso geometrico e passione dell'infinito si fondono in questa visione originale del mondo che andrebbe ancora completata dall'idea di un ordine cosmico semplice (che riflette la logica degli attributi di Dio), regolato da alcuni meccanismi elementari (cioè, l'occasionalismo ontologico e trascendentale: tutto è occasione per vedere le cose in Dio e per intuire la sua potenza nel funzionamento dei nessi strutturali nella storia) e dalla configurazione e concentrazione cristologia di tutte le linee del sistema nella figura di Cristo come adoratore congeniale del/al Padre e mediatore della grazia (naturale) del poter desiderare Dio. Una raffigurazione affine a queste idee si trova nella pittura di Philippe de Champaigne e di E. Le Sueur. Nelle tele San Carlo Borromeo in preghiera e La messa di Santa Giuliana non vediamo «una· immagine accessibile ai sensi, ma un oggetto del pensiero. Esso tende ad orientare la meditazione verso il prototipo e non verso la sua rappresentazione. In un'operazione di translatio, mette in comunicazione il fedele non con l'immagine in sé e le sue illusioni, ma con cìò che l'immagine rappresenta». Tutto è posto «al di là delle contingenze temporali ... Lo spazio vuoto non lascia posto allo spettatore: è solo riempito dalla presenza di Dio ... Champaigne riesce a dipingere non il racconto di una visione, ma la visione stessa, il dialogo semplice e fervente tra l'uomo e Dio, il cerchio e il qua-

di perfezione >, in A MOLJNARO - E. SALMANN, ed., Filosofia e Mistica. Itinerari di un progetto di ricerca, Anselmiana, Roma 1997, 129-160; Francesco di Sales è forse lesempio più compiuto di un' affettività raffinata, composta e in-differente per ogni differenza: cfr. L.E. Bous, «I sensi della fede. Esperienza cristiana e corpo spirituale», in AA.Vv., L'idea dell,a spiritualità, Glossa, Milano 1999, 61-84.

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entro pochi minuti. E secondo la leggenda, si sveglia dal suo sonno-sogno-spettacolo solo allorquando un insegnante lo induce a togliersi la maschera, a mostrare il viso, a guardarlo negli occhi, invocando il suo nome in attesa di un riconoscimento e di una risposta. Così, il killer perde la sua intoccabilità virtuale e può essere spinto e rinchiuso in una stanza vuota. Passiamo dal teatro cerebrale delle illusioni (si pensi a Il lupo nella steppa di H. Hesse) alla realtà toccante, ali' impatto coi sensi che ricordano in modo inesorabile e riscattante il senso della realtà chiedendo una corrispondenza umana, realistica ed etica. I sensi chiamano al riscontro con la vulnerabilità e con la felicità del singolo e domandano di rispettarlo, di toccarlo e di prestare un orecchio alle necessità e alla realtà di ognuno. Lévinas ha colto, come pochi altri, questo carattere fondante e sfondante dell' in-contro sensuale nel quale si dà anche la sensàtezza della nostra solitudine e del nostro stare insieme. Eppure, il mistero dei sensi non si esaurisce nel confronto, nel realizzarsi della realtà. Stranamente, l'uomo non è mai all'altezza di se stesso, non sa riflettersi in modo congeniale. Non può odorarsi, toccarsi, non riesce a vedere il suo profilo, e nemmeno nello specchio si vede come gli altri lo guardano. Nessuno riconosce e coglie leco della propria voce se non da lontano e in modo alterato. Nessuno sa cogliere e individuare la propria fisionomia, la tonalità e sfera emotiva che si crea attorno a lui, l'alone intercorporeo che costituisce il campo tangibile della sua presenza: da lì risulta il terrore quando ci vediamo fotografati, ri-tratti o quando sentiamo la nostra voce registrata sul nastro oppure ci accorgiamo della forza di attrazione o riserva che emaniamo e che provoca la reazione degli altri. Dobbiamo affidarci ad istanze esterne, ricevere noi stessi e il senso dei nostri sensi da lontano. L'ordine degli affetti, la loro trasparenza e incisività si realizzano, se

Lo stile: il cristianesimo come prassi corporea

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impariamo a riceverli. Non ci è dato di dominarli, appena tentiamo (frivolamente tentati) di farlo, cominciamo ad estraniarci dal nostro proprio corpo o finiamo sotto la tortura e le raffinatezze apparenti del sadomasochismo: la violenza che ci compenetra e attanaglia, i riflettori che ci accecano e non ci permettono di chiudere gli occhi, il rumore assordante che pervade e sviscera la nostra intimità: il corpo esposto e fissato, oggettivato, mentre i sensi redenti sono sciolti, trasparenti, guidati da uno spirito libero e concreto. Ecco, l'immagine del Logos incarnato, del corpo pneumatico, reale e simbolico, unico e comunicativo, remoto.e donato. E in questo evento eucaristico (che è la memoria del corpo del Logos dato e condiviso in libertà e gratitudine) si rivela e si dà il senso trasfigurato della nostra esistenza, perché quel Logos ha preso su di sé il destino della sensibilità intercorporea in tutta la sua ricchezza e finezza - fino all'estremo della tortura, salvandola nei gesti della sua prassi di una presenza signorile e coinvolta che si condensa e riflette nell'illtima Cena e nel giorno della Pasqua, dell'incontro toccante, visivo e dialogico, della vita restituita, rigenerata e testimoniata.

5. MISTICA - FILOSOFIA - TEOLOGIA

Riprendendo la tesi di fondo formulata all'inizio di questo capitolo, potremmo specificare meglio l'ordine del sapere che si deve alla dinamica e all'ordine degli affetti e dei sensi 21 : - Alla base della conoscenza umana vi è un'esperienza elementare, una dinamica dell'unità differenziante, passi-

21

Per lo sfondo teorico di queste asserzioni: SALMANN, Presenza di Spirito,

41-75, 193-208, 224-255.

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va e formativa della conoscenza tra i diversi sensi che si fondono, arricchiscono e criticano a vicenda, tra i sensi e il senso, tra il senso e il processo di inveramento della verità nel rapporto tra l'uomo e il mondo, tra la cognizione oggettiva del mondo e la percezione indiretta del mistero della luce, dell'orizzonte, del tocco fondamentale, della voce che sottendono e interpellano la nostra esistenza. Questa esperienza di fondo potrebbe essere chiamata la mistica elementare della vita, in quanto essa è l'insieme sperimentato cli queste coordinate, che ci fa intuire e vivere la verità. Perciò, in mezzo ad una pur tanto grande e intensiva autonomia (riflessa e gestita) l'uomo non possiede se stesso, ma nasce e cresce grazie ad una dinamica sensuale-sensata che lo attraversa, rapisce e costituisce. - Il pensiero filosofico è una delle forme della realizzazione di questa realtà conoscitiva fondante. La filosofia pensa, coglie, riflette la dialettica tra lo sfondo oscuro e illuminante del conoscere ed esistere e il loro realizzarsi, media tra le diverse logiche e dimensioni dei sensi, tra tocco, contatto e sensibilità, tra sguardo e visione, tra suono, voce e ubbidienza, infine anche tra le dinamiche dei diversi sensi e il rispettivo senso che ne nasce e che da parte sua in essi si riflette e si concreta. La filosofia è la riflessione esplicita e, critica di/su questa circolarità, che coglie l'esperienza elementare del sentire e pensare come situazione trascendentale e simbolica e come passaggio metaforico, nei quali il senso e la verità del destino e del1' essere si manifestano. - La teologia riflette l'esperienza elementare e il simbolismo filosofico dello stesso pensare come locus theolo gicus, come luogo ed evento della rivelazione del Logos e del Figlio divino nella carne sensitiva e razionale dell'uomo, come manifestazione del dialogo trinitario nel tessuto relazionale del corpo sociale; la teologia nel suo

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nucleo non è altro che la circoscrizione e concrezione riflettuta di questa circolarità tra la dinamica simbolica della realtà, della carne e della ragione e la presenza rivelatrice e sanante del divino. - La mistica vissuta, sofferta e riflettuta sperimenta questo processo e si sa coinvolta, anzi travolta dalla logica teologica della vita e della riflessione nell'intimo della sua coscienza e del vissuto carnale. Essa percorre e subisce le situazioni trascendentali come loci teologici, come luoghi della presenza qualificante e stimmatizzante del divino nel soggetto; nell'intimità della sua autopresenza spontanea e della sua ragione sensibile e valutante, il mistico non può sperimentarsi e definirsi senza il suo rapporto viscerale e limpido al fondo di una luce, all'aura di una presenza, all'incisività di una voce, all'ampiezza sterminata di un orizzonte infinito che lo assalgono e lo contrassegnano dal di dentro e da fuori, da vicino e da lontano, in una dialettica lacerante e ispirante tra un'unione coinvolgente e un distacco rinviante. La mistica naturale e il ragionamento ftlosofico-teologico si condensano in e si nutrono da questo cammino avventuroso che è la loro anima e la loro meta. Il "come" si fa esistenziale. - Potremmo parlare della costituzione di un pensiero forte e umile, radicato nell'humus dei sensi, vibrante della dinamica del senso, in cerca di una verità incarnata che sfida e anima la vita sensibile e intelligente, passiva e responsabile della persona umana. Questa umiltà non è debole, ma è il midollo, la linfa vitale di un coraggio speculativo ed esistentivo di cui l'esperienza quotidiana, il pensiero ftlosofico, la teologia e la prassi della testimonianza della vita avrebbero bisogno. Essa sarebbe anche lo spirito e l'atteggiamento di una loro collaborazione, di un loro rapporto di saluto urbano, disinvolto e impegnativo, di una comparatistica nella quale ognuno degli interlocutori si

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farebbe pegno della sua verità e di un critico compiacersi concreativo della verità altrui. L'esperienza sensibile-intelligente, la filosofia razionale, una teologia ragionevole e responsabile e la mistica hanno bisogno di una tale rete di interdipendenza per non cadere vittime della sterilità da cui è affetta qualsiasi forma di vita e di riflessione che vorrebbe ad ogni costo fondarsi e affermarsi in se stessa e cui mancherebbe quell'umiltà che sa di dover ricevere la propria verità sempre da lontano e da quel pozzo inscandagliabile che si spalanca e si apre nel centro della propria autopresenza.

capitolo tredicesimo IL CORPO SEGNATO. LABORATORIO DI UNA PRESENZA INDICIBILE

In ciò che segue, ho deciso di seguire una logica particolare che faccia emergere il corpo come destino, come luogo di presenza di una persona e della sua parabola di vita, come haecceitas segnata, perché ritengo che ci sia sempre il pericolo di parlare del corpo in modo astratto. Il corpo è sempre legato a una persona, a un nome, a una biografia e a una mitobiografia. Vorrei dare forma, sagoma e polpa al discorso dell'incarnazione: corpo come parte integrante della biografia di una persona, della gestualità di una libertà. Il corpo è sempre contestualizzato, è muto, esposto, mediatico, spesso in-audito. Ne sono esempio il destino del corpo di P.G. Welby forse artificialmente tenuto in vita, contro natura; o il corpo di Berlusconi, mediatico, "tecnicamente immortale" l'ha definito il suo medico; ma forse lo spettacolo più abissale di un corpo mediatico è stata la vicenda di Giovanni Paolo Il. Operaio in Belgio, attore, grande lettore di Giovanni della Croce e di Scheler, con due approcci molto diversi dunque al1' eros e alla corporeità. Drammaturgo e poeta, come papa è stato un itinerante, grande protagonista, a volte attore a volte guitto. Lui sfonda ogni attesa, ogni ruolo, oscilla permanentemente tra il ruolo ufficiale e il corpo privato. È forse il primo uomo nella storia che si vede pregare e morire in pubblico, cioè nelle azioni più pudicamente private: un fatto strepitoso, assistere in milioni al gesto

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della preghiera di una persona e del suo ultimo rantolio. Tutta l'ambivalenza del corpo umano si è manifestata nelle peripezie, nella mitobiografia, nella "messa in scena" di questo papato. Il cristianesimo si muove nella concezione del corpo al di qua e al di là di questa "messa in scena". Il Verbo quando si incarna si fa bimbo, gestualità e tocco signorili e poi oggetto di tortura, eppure inafferrabile; risorto e introvabile. Dunque, si affaccia alla scena della nostra piccola esistenza un volto al di là delle invenzioni teatrali del corpo umano. Nella gestualità del Verbo incarnato c'è qualcosa che fa saltare i nostri schemi di intercorporeità - e qui ci avviciniamo alla centralità della tesi di questo capitolo che verte sul carattere poliedrico-semantico-metaforico del corpo come luogo biografico ed epifanico. Hoc est enim corpus meum: nessuno di noi potrebbe dirlo con una tale incisività e pregnanza, perché il nostro corpo è sempre anche una maschera. Il cristianesimo può dunque essere accostato come religione del corpo, segnato, infranto, trasfigurato, relazionale, vivificato dallo Spirito e vaso, simbolo protologico e metafora escatologica del Logos. Ma perché sia tutto questo occorre riferire il corpo ad altri concetti ancestrali e archetipali: spirito, anima e verbo. Corpo, spirito, anima e verbo si realizzano e si definiscono insieme e a vicenda, come volto, biografia, missione, parabola di vita di una persona. E ciò permette di infrangere ogni ideologizzazione o feticizzazione: per esempio dell'anima (nel platonismo), o dello spirito (nell'idealismo tedesco), o della parola (nella filosofia linguistica), o del corpo che tende a prendere il sopravvento oggi, nella postmodernità. Nel cristianesimo il corpo è invece una meraviglia. Evoca una figura, una biografia, l'espressione di una persona singolare. Per questo occorre scrivere la storia del corpo, della biografia nella rivelazione e nelle vicende cri-

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stiane, la qual cosa verrà fatta nei primi due momenti della presente analisi.

1. ITINERARI E FISIONOMIE

Un primo momento allude a itinerari e fisionomie nella Scrittura e consente di inserire il corpo nel paesaggio dei nomi e dei gesti che si fanno loci teologici, luoghi della rappresentazione e della "appresentazione" del divino. Ci sono quattro tipologie che vorrei proporre. a) C'è il corpo profetico, itinerante, esposto, sofferente, simbolico, strumento, il corpo che si fa passaggio e parabola dello spirito e del Verbo. Ne è esempio la vicenda di Abramo e di suo figlio, fino alla immolazione del corpo: Abramo itinerante, senza casa, esule girovago nello spirito e nella carne, che deve abbandonare suo figlio al quale è legata tutta la promessa umana e divina. E ne è esempio il corpo di Mosè. È il corpo tirato dalle acque del Nilo ed è lo stesso corpo che poi attraverserà il Mar Rosso; educato alla vita cortigiana alla corte del faraone, dunque corpo reale, rappresentativo, poi uccisore e quindi avvocato degli oppressi, che infrange la legge egiziana e si fa legislatore del Sinai, che attraversa tanti deserti. È sacerdote, profeta, legislatore e re. E potremmo scrivere una vita di Mosè, non soltanto come vicenda mistica- come fa Gregorio di Nissa, o come figura politico-pastorale - ma una storia del corpo signorile e contestato fino alla morte sul monte senza entrare nella Terra Promessa. Della sua morte si trova un ultimo riverbero nella Seconda Lettera ai Corinzi: lo splendore sul volto coperto di Mosè. Il corpo appare qui come veicolo, strumento, presenza infranta e splendida di una logica di vita di cui non siamo mai signori. E cosa dovremmo dire delle vicende di Osea, che spo-

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sa una prostituta, di Geremia, celibe, che oscilla e deve far la spola tra gli dèi degli astri della Mesopotamia e gli dèi degli inferi in Egitto? Franz Werfel, nel suo grande romanzo Ascoltate la voce, ha descritto queste peripezie, le vicissitudini dell'errare di Geremia. E che dire di Ezechiele il cui corpo si fa simbolo reale della impossibilità del rapporto tra il divino e l'umano? O di Giona, di Giovanni Battista: corpi erranti, stigmatizzati, trasformati eppur signori1i parlano di un'altra distanza di cui si fanno veicolo e locus, locus theologicus. b) Ci sono poi corpi istituzionali, reali, splendidi, con tutta la loro ambivalenza tra incarico, ufficio e vita privata; fra vocazione religiosa e responsabilità politica. Saul, unto del Signore che finisce negli inferi della negromante di Endor, poi ucciso auto-uccidentesi; Davide o Elia, uomini troppo forti, troppo tentati, troppo deboli. Fino a Erode, Pilato, tutte figure degne delle tragedie di Sofocle e di Shakespeare. c) E non si può dimenticare il corpo delle donne emarginate, confinate nel loro ruolo, eppure figure portatrici di promessa: Abigail, la moglie di Uria, Tamar, Sara e laserva e pensiamo alle con-sorti che condividono la sorte dei profeti: un destino abissale dover essere la moglie di Osea, di Isaia, di Ezechiele; di dover morire senza che il marito possa piangere. E nessuno ha mai parlato dei padri, delle mogli, dei figli degli apostoli: loro pagano il fio per la cosiddetta sequela di Cristo, rimangono a mani vuote. Noi sottacciamo tutti questi destini in modo spudorato. E ovviamente Elisabetta e Maria, due madri i cui figli· saranno uccisi, e che ne esaltano il destino: nei primi capitoli di Luca commovente è il loro abbraccio e il loro canto di lode. d) Tutto questo si condensa nelle vicende del corpo di Cristo: il corpo individuale, esposto, signorile; Lui che

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attraversa le folle senza essere toccato eppure sa toccare tutti; ma è in fondo intoccabile persino nella sua storia di passione. Corpo trasfigurato, isolato, comunicativo, torturato, messo a morte, risorto, eucaristico, ecclesiale, si espande a una comunanza primordiale; poi il corpo celeste (analogia corporis). Forse la filosofia cristiana sarebbe più incisiva se non si fosse soffermata soltanto sull'analogia entis. Gli stati di aggregazione del corpo e il suo destino evidenziano un'analogia molto più attinente e "incarnata" di quella dell'analogia entis et nominum, perché unisce in sé katologia discendente e la salita mistica, cioè tutto un processo di realizzazione.

2. BIOGRAFIE ESPOSTE

Queste vicende si ripropongono all'insegna della sequela di Cristo, che ci porta ad affrontare il secondo momento della riflessione, quello che si potrebbe definire delle biografie esposte. a) Nel corpo dei martiri, delle vergini e dei monaci, questi "scapigliati" dello spirito, avviene una strana coincidenza tra il corpo comunionale e individuale, legata ad una estraneità nei confronti del versante sociale del mondo. Ecco la prima grande prestazione del cristianesimo. Sono stati questi corpi esposti, straziati, estraniati, sradicati che volevano testimoniare lalterità di Dio, la diversità del cristianesimo nei confronti del mondo. Sono loro i profeti sotto le condizioni dell'impero romano e del cristianesimo nascente. b) Tornano poi alla ribalta i corpi reali, istituzionali, le grandi forme di rappresentazione: pensiamo ad Ambrogio nel De officiis, la riproposizione dell'ufficiale romano

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con tutto il decoro, la dignità, lo splendore e l'incisività del potere; un Cicerone redivivo nel suo impatto tra corte e società e ideali cristiani, tra amministrazione, teologia e vita contemplativa. Agostino invece è molto più lacerato; straordinario l' incrociarsi tra una sensibilità soggettiva e un'apertura al1' oggettività del testo biblico e del mistero nel De Trinitate e nelle Confessioni: la strana composizione tra i primi 1O libri delle Confessioni e gli ultimi 3 libri, che si ripete nella configurazione nel suo commento alla Genesi che si conclude, dopo la lunga esposizione biblica ed esegetica, con la prima fenomenologia della mistica cristiana nel XII libro. Andrebbero letti insieme, per trovare un equilibrio tra il discorso soggettivo, biografico-mistico e quello oggettivo, esegetico-misterico. I papi Leone Magno e Gregorio Magno erano grandi rappresentanti della gestione del potere imperiale in un tempo di passaggio lasciando uno spazio alla presenza umile e forte della potenza di Dio e del Verbo incarnato (indivise, incofuse) in mezzo alle vicissitudini della storia. Da lì l' ambivalenza del ruolo dei Papi fino al Rinascimento. San Francesco riprende l'ideale dei martiri, delle vergini, dei monaci, sotto le condizioni di una Chiesa rappresentativa e dominante. Egli sa celebrare la natalità e la morte: la natalità con il culto del presepe, del bimbo inerme, della meraviglia della vita nuova; e la morte con la identificazione nelle stigmate, il corpo stigmatizzato. Il miracolo della vita nuova e il corpo segnato e, tra loro, la grande forza di poter vivere e interpretare il mondo in chiave simbolica. Tutto può parlarci di Dio, sole e luna, nascita e morte, malattia e sofferenza, splendore, povertà e ricchezza. Tutto si trasforma nel palco del riverbero della luce e della parola divina. Tutto può farsi corpo di Cristo, essere tras-figurato.

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c) La cosa si rende più intricata con l'esordio della modernità: vi incontriamo persone molto più soggettive. S. Ignazio nel quale vita, biografia e opera si incrociano in modo affascinante. Da un lato questo corpo segnato, il cavaliere claudicante che fa il suo ingresso con i suoi compagni a Parigi, che vorrebbe andare a Gerusalemme e finisce a Roma (strano destino). Ignazio si presenta come un cavaliere rinascimentale, un don Chisciotte redivivo o ante litteram che comprende la sua vita come esperimento; perciò istituisce un laboratorio nel quale il corpo si esercita: gli Esercizi. Con tante forme di esercitazione corporea, di applicazione dei sensi cerca di far emergere una sensibilità ed affettività dove corpo privato e pubblico si configurano in vista della missione, in vista del ritrovarsi di una libertà umana, che trova il suo posto assegnato. Il corpo come laboratorio, un campo di esercitazione dell'anima per incarnare il ruolo che la volontà divina avrebbe previsto, il luogo destinato, la pace che si deve all'oggettivarsi. In Santa Teresa troviamo l'altro linguaggio, del corpo malato, povero e trasfigurato in una strana simbologia, un incrocio simbolico fra linguaggio erotico e mistico, soprattutto nella mansione del castello interiore. Ma anche il corpo da imprenditrice, da fondatrice. I suoi diversi scritti riflettono tutti questi aspetti: donna forte e debole, donna sensibile, erotica e mistica, donna della sofferenza e della sprezzatura. E cosa dire di Francesco di Sales? Lui ha inventato, ideato una figura di devozione, o meglio di sequela, di prassi cristiana spicciola per tutti gli stati di vita. Non è necessario farsi monaco o martire o prete; ogni stato di vita, ogni prassi corporea può farsi luogo della vicinanza di Dio. Il che non esclude per nulla, nel Teotirrw, le forme più sublimi dell'incontro, dell'esercitazione di corpo e anima in vista dell'incontro con l'eros divino. Ed emerge

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di nuovo la zona dell'ambivalenza tra eros e agape, nel suo epistolario con M.me de Chantal: lincontro oscilla permanentemente tra l'intersecarsi di due biografie in modo ambiguo e lo splendore oscuro della missione ritrovata. Dunque, non c'è nulla di grande senza attraversare l'ambivalenza e perfino l'ambiguità. La purezza univoca, "sterile" non è data ai mortali (sarebbe opprimente); essa va conquistata esponendosi al regno dell'impuro, dei compromessi, dei passaggi precari. d) Le esistenze postmoderne, molto più emarginate, dubbiose, esposte, si muovono sulla soglia, ai margini del cristianesimo, per farsi testimoni di un cristianesimo ritrovato. C. de Foucauld, M. Delbrel, T. Merton, D. Bonhoeffer, S. Weil, D. HammarskjOld. Tutti personaggi polifrenici; queste esistenze vengono riflettute dalle teorie e dall'esistenza di M. de Certeau, un gesuita fuori legge e norma che ha saputo riflettere le vicende della soggettività nascente moderna, nella mistica seicentesca Stranamente, questi soggetti sono poi anche stati emarginati e sottoposti ad una osservazione clinica, come nel caso di Surin o dei posseduti di Loudun o nel caso di Anna Caterina Emmerick, all'epoca del romanticismo: donna soggetta ad una triplice tortura, prima da parte dei romantici, che hanno voluto verificare il carattere soprannaturale della mistica sottoponendola a tanti esperimenti e laboratori di mesmerismo, magnetismo, ecc. Poi da parte dello Stato Prussiano che non voleva tollerare fenomeni soprannaturali sul proprio territorio e ha istituito una commissione di indagine; e, infine, intervenne la Chiesa cattolica che in fondo non ama mai i mistici. Così anche la diocesi di Mtinster ha creato una commissione per mettere alla prova il carisma di questa donna. L'ambivalenza di tutte queste esistenze, di M. de Certeau, di S. Weil, di T. Merton e delle loro vicende, tra scapigliatura ed esotismo, eros e agape, esistenza privata ed

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esistenza ecclesiale, la troviamo anche nei grandi teologi. Nel 1929 K. Barth ha fatto quattro esperienze fondamentali: ha incontrato S. Ansehno e in questo anche l'impostazione, la chiave teorica per la sua Dogmatica; ha trovato la sua casa di vacanza che gli permetteva di scrivere queste dodici e tredici mila pagine della Kirchliche Dogmatik e incontrò la sua futura amante che diventò la sua segretaria senza la quale non avrebbe mai potuto compiere il suo lavoro, vergare il grande canto sul primato della Grazia! E cosa dire dell'ambivalenza del destino di Balthasar, che ha tanto esaltato la verginità, l'ubbidienza ecclesiale, lui che visse 7 anni senza incardinazione (negli anni Cinquanta!) e in un triangolo quanto mai equivoco nella casa di Adrienne von Speyr e di suo marito W. Kaegi, grande erudito e storico (del quale nessuno tra i teologi parla)? Un abisso di maschere nude e dell'ambivalenza del gioco teatrale del nostro corpo teologico.

3. VISIONI SINOTTICHE

Il corpo si iscrive nella circolarità benedetta e infranta tra corpo, spirito, verbo e anima. a) In tutte queste vicende il corpo si è rivelato come ambiguo, tragico e splendido: siamo corpo, ma questo ha il sopravvento su di noi, ci soggioga. Tutte e tre prospettive sono vere: siamo signori del corpo, siamo corpo, ma anche il corpo ci soggioga, ci assoggetta. Lui è signore e servo nella nostra biografia. Detto più visceralmente, più teologicamente, esso è esposto e manifesta il finito e l'infinito, il peccato e la santità, è opaco e comunicativo, ci isola e ci rende comunicativi, ci fissa sul nostro posto e ci rende itineranti. È sempre un corpo segnato, stigmatizzato, oggettivato, per certi versi immolato, emarginato, messo alla berlina: ognu-

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no di noi è un "Santissimo esposto". Ma nello stesso momento è trasparente, lieve, comunicativo, rappresentativo, metafora aperta; esso rappresenta il dramma tra nascita e morte, tra passione e grazia, un corpo che viene consumato, contemplato e comunicato. È sempre velo, maschera e rivelazione, per questo è rinvio: non si esaurisce in sé, non si intende da sé, sembra la realtà più banale, più ~vvia, più alla portata di mano, eppure si sottrae in questa presenza banale, in questo rivelarsi ed essere velo rinvia a istanze inedite, spesso inaudite. b) Nel corpo e mediante il corpo si realizza e rappresenta lo spirito che non è un concetto astratto, una realtà sottile o remota, ma piuttosto la forza e la forma della realizzazione sincrona del poter incarnarsi e del prendere la distanza dal corpo, della solitudine e del comunicare, della sovranità e vulnerabilità di una persona. Lo spirito si/ci tiene nella tensione polare, ci preserva da ogni unilateralità ideologica, garantisce la freschezza della vita - e perciò incide sulla sensibilità dell'uomo, un tema caro alla teoria dei sensi spirituali, da Origene fino a Rahner e Balthasar. c) Dunque, si tratta dell'incrocio tra spirito e carne, non però lo spirito selvaggio ma, al contrario, uno spirito a servizio del miracolo del verbo; anche il verbo si fa carne. Non c'è la purezza dello spirito, né del verbo, né dell'intelletto, né della carne: si contaminano reciprocamente, si favoriscono ed elevano insieme. Per questo la carne è anche in attesa di una parola chiave e di sollievo: sed tantum dic verbo et salvabitur anima mea. Strano ablativo: la parola qui non è soltanto comunicazione o informazione, ma è il medium quo, ciò che ci fa comunicare, la forza del risanamento e di significazione del corpo. Mediante la parola la carne viene tran-sostanziata, tran-. significata e trans-finalizzata, si rende trasparente per il suo senso protologico ed escatologico. Teoria e teologia

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eucaristica che trova la sua espressione incantevole negli Inni di San Tommaso. d) Poi c'è una presenza molto trascurata in tutto questo. Forse il riscontro del verbo e dello spirito nella economia dell'uomo, ciò che noi chiamiamo classicamente anima, e che oggi viene vituperata, tacciata di platonismo come se noi potessimo rinunciare a una fetta della sapienza classica. Cosa saremmo senza l'anima? Mi pare sia il riscontro antropologico dell'intrigo tra corpo, spirito e verbo; non è afferrabile, non è qualcosa, ma il vuoto fecondo, ricettivo in noi: la potentia oboedientialis, la relazionalità, ciò che ci rende espressivi, sorgivi e fecondi. Forse è il nostro essere in relazione al mistero della vita, inafferrabile eppure è tutto lo channe, la bellezza, il càrattere scintillante e sorgivo, ma anche la forza della nostra attenzione e ricettività feconda. e) Così l'anima si lascia dire soltanto mediante l'ablativo e come forza "dell'oblativo", del poter abbandonarsi al mistero dell'esserci. Tutte queste istanze si re-incarnano: spirito, verbo, anima non esistono se non re-incarnati e incorporati. Ci sono alcuni sacramenti di questa costellazione: il sacramento del volto, dove tutto si esprime e il nostro santissimo esposto, e di cui non siamo padroni; nessuno è all'altezza della espressività, ma anche della vulnerabilità del suo volto. Tutta la vita ha lasciato le sue tracce sulla nostra faccia, e allo stesso tempo tutto lo splendore; ma anche il nostro essere bambino e l'essere già dedicati e dediti alla morte. Si rispecchia in questa nostra fisionomia il nostro bisogno di amore, di essere riconosciuti, siamo nella nostra faccia mendicanti che implorano il pane quotidiano dell'essere riconosciuti dagli altri. Lungo è il cammino di conversione verso la faccia: dal grugno (oggettivato, preso a sberle, squallido), il muso (imbronciato), la faccia

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(come maschera o spudoratamente sfacciata), la sembianza (lo splendore tra verità e apparenza), la maschera (nuda, raffinata, ludica), il viso (veggente e visto), il volto (che si deve al rivolgersi reciproco tra me e l'altro - la materia in cerca dell'anima e l'anima in cerca di un corpo con-geniale). Oppure le mani, la gestualità. Valéry ha scritto pagine straordinarie sulla snellezza, mobilità, forza espressiva, sensibilità delle mani, il loro toccare ed essere toccate, carezzare, pizzicare, spingere, tracciare, tirare, sfiorare, colpire, picchiare, mostrare. Tutto è nella forza, nel potere delle mani; per questo, persino l'impronta digitale è individuale, è animata, e tutto ciò si esprime nel tatto squisito, quella sensibilità che si trova nelle punta delle dita. La voce e la musica: riconosciamo la voce di un altro al telefono a volte dopo anni, la musicalità dove eros, corpo, verità, intelligenza e sensibilità si sposano. C'è un mistero della voce e non potremmo capire il fascino del1' opera musicale da Monteverdi fino a Wagner o Verdi dove eros e thanatos si configurano permanentemente, senza questo afflato della nostra esistenza, senza lambivalenza e le polarità della nostra anima. In questa circolarità infranta e ristabilita tra spirito, anima, verbo e corpo, nel volto~ nella musica, nelle mani (pensiamo alle mani nel gioco tra Maria e l'angelo in Botticelli, in Bellini o fra Dio e Adamo in Michelangelo, o nella grande tela della sepoltura del Conte di Orgas di El Greco, le mani del conte come farfalle). Qui tocchiamo il mistero della benedizione come intrigo fra rivelazione e quotidianità all'insegna di questa circolarità ristabilita, risanata e espressiva. Il gesto della benedizione vuole iscriverci in questo "circolo virtuoso".

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4. PROSPETTIVA TEOLOGICA

Ci sono diverse strategie per integrare la realtà corporea nel discorso teologico. Classico caso e quasi unico è Ireneo. fu lui abbiamo la analogia camis et corporis con tutta la strumentalità orchestrale. a) Tutto quello che è stato detto prima sulla analogia corporis viene dispiegato nell'Adversus haereses. Per questo Ireneo è l'unico teologo sistematico che, senza usare una filosofia di importazione, prende la linfa vitale anche dall'agnosticismo che combatte. E. Mersch, teologo francese degli anni Trenta, riprende questo filone nel contesto del Novecento. Questa sarebbe una possibilità da valorizzare. b) Una seconda è la ripresa critica, che rileva il corpo trascurato dalla teologia classica. Esso viene riproposto come chiave di lettura della teologia dei Padri, per es~m­ pio nel grande libro di P. Brown, Corpo e società, dove si ricostruisce il midollo e la linfa vitale della teologia dei Padri e dello stile di vita nelle loro comunità, a partire dal loro discorso sul matrimonio e sulla sessualità. Un' analoga impostazione si trova in M. de Certeau, fenomenologo della mistica, in chiave profetica (in vista di una chiesa postmoderna). c) Terza possibilità è liturgico-sacramentale-antropologica seguita dalla scuola di Padova (l'Istituto liturgicopastorale), e la dogmatica poetica di A. Stock che prende le mosse dalla liturgia e dall'estetica come locus theologicus. d) Sul versante simbolico-teorico di Rabner e Ricoeur è già stato detto molto. e) Un nuovo filone più promettente è quello psicologico-affettivo che riprende le istanze della psicologia umanistica di Kohut-Wmnicott, ma anche di Lacan. Da citare

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anche H. Wahl, autore poco conosciuto in Italia, la dissertazione di R. Maiolini con la sua fenomenologia degli affetti e ancora K. Stock, teologo protestante, con un libro su Amore e Eros che ha scritto nel momento della morte del figlio diciassettenne. t) Poi c'è il versante etico-pratico: corpo e nome di una persona sono bisognosi di essere riconosciuti e benedetti come simbolo singolare e vanno favoriti, incoraggiati come gesto sorgivo, con-creativo, e formativo. Sarebbe l'intuizione di un diverso stile di etica cristiana (E. Schockenho:ff, D. Mieth) che non parte più dalla norma e dalla proibizione, ma dalla descrizione e dall'incoraggiamento; cioè dalla dinamica concreativa della vita e del rapporto tra i soggetti. Non è casuale che in Mieth si intravede un nesso forte tra letteratura e morale e mistica, in Schockenhoff una reinterpretazione suggestiva di Origene (Festa della libertà) o di Tommaso, nonché un'Etica della vita e della verità. Oggi, una tale sensibilità si esprime nelle teologie femministe, estetico-poetiche (H. Timm, J. Huizinga, G. Larcher) e in ecclesiologie che si occupano della vivibilità della comunità cristiana (D. Vitali, M. Kehl, le teologie della liberazione).

g) Un ultimo tipo di teologi sono quelli della vita: opere e mitobiogra:fie di A. Schweitzer, esegeta, medico, organista, editore delle opere di Bach; o di J. Moltmann che ha saputo accompagnare e orchestrare le sue esperienze in una gamma di teologie e incarnare la sua teologia in una grande apertura di vita. Sono queste alcune tappe di una incarnazione della teologia, di un suo concretarsi. Non ci sarà teologia senza una fenomenologia simbolica del corpo. Perché il corpo, forse, rimane un mistero più dello spirito. Lo spirito è molto più agile, molto polivalente, cambia registro, sa interpretare se stesso, compenetrare le proprie dinamiche e falde. Il corpo è molto più enigmati-

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co nel suo oscillare tra fissazione, incarnazione e mobilità, tra maschera e rivelazione. È un mistero e soggetto di una dottrina non scritta, una meraviglia da tramandare oralmente e col gesto della vita. Chi potrebbe mai cogliere il pianto o il sorriso di Gesù che pure hanno sotteso e accompagnato le sue gesta e le sue parole. Le parabole, le domande («Chi di voi ... »; «Non sapevate ... ») mi risultano impensabili senza un riso lieve, comprensivo, saggiamente ironico, sollevante che tocca e scalfisce lesistenza dei presenti. Sono i piccoli sacramenti del corpo, dell'anima, dello spirito oltre ogni parola.

TRE CONGEDI

Congedo ironico-profetico GIONA OVVERO L'IN-SENSATEZZA DI DIO. UNA PICCOLA TEOLOGIA DEL CLOWNESCO

Un uomo, un vigliacco per di più in fuga, si disperde in un'enorme città, grande tre giorni di cammino, richiama la gente dagli affari, dalla vendita e dall'acquisto, dal bere e dal mangiare, dal mettere all'ingrasso e dall'abbeverare il bestiame, dal comandare e dall'ubbidire, dall'eseguire e dal trascurare. E così accade. Gli uomini prendono le distanze da tutto ciò, dal correre e dall'azzuffarsi, dal chiacchierare e dallo stare in silenzio. Si ritirano in loro stessi, si sporgono oltre se stessi, si espongono alle ceneri della loro esistenza, non conoscono nulla più se non il grido lamentoso della disperazione, sia pure come messinscena teatrale. Poiché troppo velocemente si alzeranno dalla cenere. Il re regnerà come prima, il bestiame tornerà all'ingrasso, si riprenderanno gli affari e ci si lascerà afferrare da essi. Non è successo niente. Oppure? Tutt'altro, nel frattempo, nella segreta fenditura del tempo, qualcosa si è rovesciato. Nelle sfere alte, tuttavia, impercettibilmente, quasi lontani rimbombi temporaleschi. Lì qualcosa si è ribaltato nel cuore di Dio: nessuna lava vulcanica, nessun inferno, niente di ciò che era stato minacciato viene alla luce. Una mite brezza di perdono soffia sulla storia, i miscredenti sono ancora una volta scampati. Soltanto il vigliacco in fuga, egli è sconfessato. Niente

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Tre congedi

si è realizzato del suo sogno di un essere profeta forte. E se già si deve essere un annunciatore, allora almeno araldo dell'Onnipotente, maledetto e benedetto sia Egli! Allora almeno signore della morte e del giudizio, che abbandona sorridente i peccatori ali' annullamento. Tuttavia niente di tutto ciò. Non ha più forze, mentre il suo Dio invertebrato, invece, sta al sorgere della sua pietà. Dio e città possono perdonarsi l'un l'altro, ma ora sta al Signore prendersi cura del suo profeta di sventura, di quella pietosa marionetta, di quell'araldo di un giudizio che non ha avuto luogo. Che egli si converta? Tutto in questa storia è invertito, sghembo. Il profeta, che non vuole essere tale, semina sventura e raccoglie controvoglia salvezza, oscilla tra scoraggiamento e coscienza gonfiata della sua missione, tra presuntuosa ira e pusillanime bisogno di giustificazione. Il Dio, che minaccia la distruzione e concede la salvezza a basso prezzo e in:fme riesce appena a portare il suo inviato alla conversione. La città, grande nel pathos della sua confessione, ancora più grande nella sorridente sovranità del suo affare quotidiano. Nessuna proporzione vige nella tessitura leggendaria. Gli attori del dramma sono spostati e impazziti nel loro sviluppo proprio come nel loro reciproco contrasto. Il piccolo profeta, la grande città, il Dio in:fmito. Il Dio umile, la città che espia indaffarata, l'uomo di Dio pieno di ira e preso in giro dal suo Dio. Nessuna proporzione torna qui. Cielo e terra vengono senza preavviso spinti l'uno sopra e contro laltro. E proprio a questo punto fa capolino 1' humour e immerge tutto nella sua lieve e pungente luce. L'humour saltella tra la piccolezza invisibile di un filo d'erba e l'infinitezza dell'orizzonte. Da una parte e dall'altra esso vive giocosamente tra piccolo e grande,

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apparire ed essere, prima e dopo. Si fa spazio tra le pieghe dell'animo e dei tempi, ingrossa i loro contrasti, caricatura le loro proprietà, li estranea, si intrufola nelle loro contraddizioni, per riconciliare alla fine tutto nel suo oscillare. Se un tale saltellare nel frammezzo prende carne in una forma o in una fisionomia, se lo spirituale dell'uomo ottiene un contorno concreto, allora sorge il clown dinanzi ai nostri occhi. Il clown deve prendere su di sé in una forma finita l'ampiezza dimensionale della vita infinita, delle sue varianti e dei suoi poli, per dare alla luce in tutto ciò la sua travagliata figura tragicomica. Per essa non c'è più alcuna misura, e per questo essa riesce tuttavia a ricordare, a coloro che senza tensione si barcamenano nella media, l' infinitamente piccolo e l' infinitamente grande, che l'uomo è. Giona, il nostro piccolo profeta, è una delle plastiche figure del tragicomico. Mai a casa, mai presso di sé, né nel buio delle sue profondità, né nella luce del giorno della sua image, né nella città, né presso Dio, né nella pietà, né nell'ira, né in fuga da se stesso. E tuttavia egli abbraccia tutte queste impossibilità umane, meglio: viene da esse afferrato, provato, scolpito sino a diventare forma, sia pure. una figura da scherno. Il clownesco non è dunque in alcun modo l'attitudine di una vanità impotente, né è barzelletta ammiccante o battuta vivace ed intellettuale e nemmeno il teatro di marionette di un destino in sé chiuso e rappresentabile solo nella tragedia. Piuttosto esso appare esposizione, cambiale e dichiarazione manifestata di bancarotta delle numerose possibilità di gioco del diventare reale, le quali nella nostra favola sono possibilità del sorridente compiacimento di un Dio inafferrabile. La sofferta comicità del clownesco vive della relativizzazione di ogni serietà intramondana rispetto allo spettacolo che abbraccia e fa saltare tutte le proporzioni nel theatrum gloriae Dei.

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Così almeno intende la nostra parabola. Che tutto ciò che esiste sia soltanto una parabola, rappresentazione distorcente dell'eterno nel tempo e una più o meno goffa rappresentazione del temporale in riferimento ad un' eternità immaginata. Oppure anche epilogo di un prologo in cielo. O prologo terrestre di una risata celeste. E non sa l'uomo, nel segreto del suo cuore, di un tale prologo, di una tale inclusione della sua nuda esistenza? Tale sapere non alleggerirà semplicemente il destino di vita di un dottor Faust o di Giobbe, di un Paolo e di Gesù, ma dona ad essi in ogni pesantezza e abissalità quella leggerezza luccicante, nella quale essi non rimangono ottusamente annidati nel loro essere singolare, ma rappresentano il destino dell'essere, lo lasciano venire alla luce nella sua ambiguità. In questa leggerezza della loro tragedia essi sanno sottrarsi ad ogni unilateralità biografica, ad ogni fissazione caratteriale. Essi vivono inattaccabilmente nei nascondigli, nell'arioso spazio del frammezzo, schiacciati dalla massività della vita e tuttavia mai da essa raggiunti. In questo frammezzo oscillante il clown trova il suo posto. Egli pende contemporaneamente tra cielo e terra, Dio e uomo, angelo e diavolo, tra verità interiore e incomprensione dell'ambiente~ mito e demitologizzazione dello pseudoreale, carattere e missione. Egli resta senza patria e senza dimora, da tutti sospettato, incassato e abbandonato. Nel suo equilibrio ciascuno può collocarlo, identificarsi con qualcosa in lui, con lui piangere e ridere, prendersi gioco di lui. E proprio perciò egli è così sporco, e rimane da solo. In breve, nel clown la vita si manifesta come un tipo di gioco di sospensioni, oscillante in modo incerto tra essere e nulla, tra quei contrasti originari, dai quali tutto vive. L'uomo non è altro che una miscela a partire da queste due forze e poli, che lo trascinano e scalfiscono per strapparlo via da sé. El' humour? In esso gioca l'uomo da par-

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te sua con queste forze. Né Dio né bestia, né spirito né carne, né essere né nulla, l'uomo sa di entrambe, riesce a trattare con confidenza e con estraneità le forze, a bilanciare tra di esse, ad esse ed in esse promettersi. In questo strappo tra essere e nulla, tra gioco della vita e serietà della morte si accende il lampo del sorriso, che attraversa il clown e che fende la sua essenza. Ed in questa fenditura appaiono le risate del cielo e dell'inferno, dei demoni e degli dèi. Qui sono le risate stridule, sonore e mordenti dell'inferno e delle masse, il ridacchiare di chi sogghigna e del cinico, di colui che gode del male altrui, del sadico, i quali tutti insieme fissano l'uomo nella sua mancanza di luogo, lo inviano al nulla, lo lasciano chiuso nel suo essere sospeso al frammezzo, al suo pendio verso la morte. Il deriso viene imprigionato nella sua nullità: nel brutale distruggersi della sua forma (di una tale rottura vive ogni comicità e caricatura) fa capolino la morte e lo deride. Coloro che ridono infine, gli schernitori e i cinici, gli scagnozzi e i vassalli della tortura, le masse schiamazzanti, essi cercano di sfuggire alla morte, mentre prendono in giro gli altri sino alla morte; essi mettono a tacere la morte, che in quelli piange, semplicemente urlando e dichiarandosi i vincitori della partita. E non si accorgono che sono già caduti in essa, non si accorgono che non vi è nulla di più quotidiano e plausibile che la morte ed il nulla. In realtà niente è più contestabile, trascurato e insignificante di un sì e niente è più spiritualmente ricco, sagace e vitale che l'appuntito fioretto del nulla, la critica di ogni tipo. In questo modo la demoniaca insensatezza rovescia ogni essere nel nulla e in ciò essa ha la sua apparente onnipotenza, storicamente troppo efficace. E le risate degli dèi? E se nel e accanto al capovolgimento demoniaco e sopra di esso ci fosse pure la forza capovolgente degli dèi, quell'umile ed impotente humour,

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che rovescia e cambia il caos in forma, la morte in vita, l'insulto in simpatia, l'autoaffermazione cinica in momento dell'affezione che si dona senza difese? Si dovranno fare i conti con il fatto che una tale svolta in mezzo al mondo plausibile del nulla appare come una pazzia e come tale viene presa ed esclusa. Beffa nichilistica, convinta gioia dell'altrui male, perfino le risate della rassegnata autolimitazione di uno stoico, il quale un tempo voleva l'assoluto e ora si deve alloggiare nella strettezza della sua spiritosità, tutti questi modi di ridere sono evidentemente intelligenti, potenti, coscienti di sé, razionali, senza humour. Essi riflettono l'umana misura e cementano quell'ordine della ragione, che sa dominare burocraticamente il nulla. L'umano misurare e pianificare considera la morte in quanto morte in modo mortalmente serio e avrà a lungo da ridere, fino a che gli altri debbono patire e morire secondo questa misura. Con argomenti o con la maggiore offerta di cinismo non si può convincere tale ragione. Il nichilismo dell'uomo onnipotente non deve essere contraddetto. Soltanto una simpatia senza misura, un infinito maggiore peso attribuito alla vita (a partire da e in una concessa autodistanza) potrebbe essere la morte di ogni umana misura e del ridere ad esso commisurato. Tuttavia, non inganniamoci. Sarebbe assolutamente ridicolo e irragionevole, smisuratamente esagerato, quando tale simpatia, tale distanza, tale vita assumesse una forma umana. Su essa non vi sarebbe né bellezza né forma. Sarebbe una figura frantumanta, clownesca in modo tragico, che rappresenterebbe nel nulla l'essere, nell'umano il Dio, nella morte la vita, nella vicinanza la concessa e salvante distanza, nel suono il Logos. Essa dovrebbe totalmente impegnarsi nella maschera del troppo piccolo e tuttavia combattere contro di esso, voltarsi nel nulla contro il nulla, nell'apparenza con-

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tro l'apparenza, trasformare ogni falso teatro, ogni borioso apparire in un essere che saprebbe di remotezza. Un dramma, allora, che in modo pazzo offrirebbe e superebbe tragedia e commedia, sapienza stoica e humour sapienziale, i quali si intratterrebbero sempre ancora a porte per lo più chiuse. E tutti accorsero a vedere questo spettacolo ... E lo insultarono i Soldati, i ladroni, i sommi sacerdoti e i dottori della legge (Le 23). Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti (ICor 1/4).

Avevano totalmente ragione dunque i derisori, quando essi rappresentarono il crocifisso come un mostro con la testa d'asino, ma anche totalmente a ragione il gotico ha prodotto il motivo della pietà che ride, di quella immagine di una madre, la quale di fronte alla salma senza vita del figlio scoppia a ridere, non amaramente e cinicamente, piuttosto piena di ardita speranza, poiché essa presagisce la sua rinascita nello spirito. Esiste la pazzia dell'esistenza spirituale, il sorriso di Pasqua, il quale trasforma lo scherno della folla in pentimento spaventato. La vita di Dio è talvolta ancora più capovolgente che il morire degli uomini. Il regno della morte ha perso la sua rassicurante univocità. Non ci si può più fidare nemmeno della morte. Tuttavia non inganniamoci. Niente in questo mondo è puro. Neanche la vita nella svolta di Dio. In mezzo all'insignificante spettacolo del rovesciamento del mondo e della sua forza d'attrazione, è lo stesso rovesciamento del nulla verso la vita ancora una volta minacciato dal rovesciamento e dall'alterazione;

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agisce in modo rovesciato, strano e equivoco. È il paradosso descritto da Kierkegaard di ogni rivelazione nel suo necessario velamento. O essa rimane nelle vesti pazze del puro amore, e allora viene derisa e buttata via e non può essere presa sul serio. Ma se viene presa sul serio, si tradisce da se stessa, affonda nel suo velamento. E vuole essere presa sul serio. La svolta di Pasqua si vede costretta ad affermarsi da parte sua, ad imporsi sotto le condizioni di questo mondo rovesciato, che resta innamorato del niente, che ama la sua attendibile vita fino alla morte più che le vaghe chimere di un futuro privo di potere. La radicale in-sensatezza di Dio deve infine comporsi con la nostra insensatezza, l'humour divino con l'ironia umana, l' eterna pazzia con la sapienza temporale (la quale dinanzi a Dio tuttavia è di nuovo stoltezza), l'umiltà e debolezza divina si devono adeguare all'onnipotente amministrazione umana. Il sorridere ed il patire del clown, la sua silouette tra morte e risurrezione viene ammessa soltanto ancora nel gioco del circo, guardata con stupore come camuffamento liturgico e subito dimenticata Una clownerie priva di luogo si vede all'improvviso disposta nelle nicchie del1' intrattenimento del meccanismo del mondo, diventa parte della sua mortale serietà e proprio in ciò - in un ulteriore capovolgimento - non più presa sul serio. La si può tranquillamente lasciare da parte. Peggio ancora. L'in-senzatezza di Dio diventa infine parte del programma dell'autodefinizione dell'uomo, le Chiese gestiscono ciò che non ha misura moderatamente e con misura; iniziano, prima con esitazione ma poi apertamente, a servirsi delle risate demoniache e della loro superiorità. Così già Paolo sorride dei suoi Corinzi: «Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati». Paolo, in astuta dialettica, che abilmente si intrufola tra l'umiltà di Dio, che egli pretende di vivere, e il proprio

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impulso di giustificazione e potere di affermazione e che sa rivestirsi con entrambi i costumi da pazzo, ironizza sulle pecore, le quali da parte loro lo ritengono un pazzo. «Voi sopportate volentieri uno stolto, voi gente intelligente ... ». Egli li fa sentire piccoli, i Corinzi e i Galati, non si può dire altrimenti. Triste bilancio. Nel nostro mondo la conversione di Dio e le precauzioni e i capovolgimenti dell'uomo, la sapienza del cielo e la pazzia dell'inferno, la stoltezza divina e l'intelligenza umana, il dramma della croce e la liturgia dell' autocelebrazione umana sono indivisibilmente confusi tra loro. E tuttavia l'uomo non vuole restare prigioniero del circolo di un fatalismo che cattura soltanto se stesso. Il fatalismo dell'alzare le spalle degli intelligenti si vede interrotto dalla più grande forza di rottura di un indistruttibile humour, sia che esso, malinconicamente ridente e divenuto modesto, si componga stabilmente nella tensione tra fatticità e assoluto, sia che esso sfugga al girare intorno a sé verso ciò che è privo di luogo e utopico. Qui non ci si può più affidare a dichiarazioni, c'è solo ancora l'apertura che si dà da fare in modo esitante verso l'incerto, il domandare dell'ironia socratica. Non è di nuovo la concessa autodistanza dell'uomo la parte migliore nella quale egli può percepire la propria insignificanza e ancora una volta ridere di essa? E non vive il suo spirito dell'utopia, del sogno di una patria lontana e migliore? E non è ogni ridere necessario e contemporaneamente anarchico, poiché taglia i tessuti diligentemente inventati dell'opportuno e le insondabili misure dell'oggi, poiché esso può giocare con strade del futuro non ancora percorse, poiché esso sa della chiarezza dell'orizzonte, per quanto ancora possa essere ora oscura, poiché introduce nella tristezza dell'ora il sorriso della fine del tempo?

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Beati quelli che ora piangono, perché rideranno ... Guai a quelli che ora ridono, perché piangeranno e saranno afflitti (Le 6).

E questa fantasia del possibile, questo sogno della futura purezza dell'amore, non sono queste immagini e domande della speranza più reali di ogni senso ben piantato della realtà? Non si realizza tutto ciò già nell'humour e nel clown? Non sonnecchia già nelle remote pieghe della nostra anima - infatti da dove, se non da mistiche profondità, emergerebbero tali visioni pazze? E non sono i grandi mistici, confidenti dell'insondabile, pazzi senza luogo e senza tempo? E non ama tutto ciò che è profondo la maschera? Si può farla finita con don Cbisciotte in quanto idiota, con !"'Idiota" in quanto un ingenuo ed un epilettico - e Paolo ha subito entrambe le cose. Ciò non sarebbe certo senza ragione. E tuttavia ci sono pazzi per i quali la vita e la morte non sono qualcosa di consistente, piuttosto esse sono da sperimentare dall'interno. Ci sono pazzi, i quali parlano di cose lontane, profonde, di viaggi all'inferno e di risurrezioni, delle quali non possiamo e non vogliamo sapere niente e che tuttavia sono più vicini a noi stessi di noi stessi. Giona e Parsifal, Qohelet e Giovanni di Tepla, Socrate, Giobbe e Faust, Gesù e Francesco, Paolo e Dostoevskij, Erasmo e Tommaso Moro, HOlderlin e Giovanni, essi con tutti i buffoni e i padri stiliti, i mendicanti e gli eremiti, le prostitute e i santi, i filosofi e i letterati, essi tutti, Filippo Neri e Simeone di Edessa, Heinrich Heine e Nietzsche, don Cbisciotte e Hans Schnier, non hanno patito altezze e profondità, che restano nascoste alle musiche della danza e del lamento delle mode cangianti? Non erano essi forestieri in patria, e non poterono parlare soltanto con le vesti da clown di una libertà, che è vivente in ciascuno e che tuttavia nessuno può vivere?

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A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: Vì abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete I>ianto! E venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio. È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli.

Perfino attraverso Giona.

Congedo profetico-sapienziale IL DIO VICINO E LONTANO: VOLTI DELL'a/ALTRO OSPITATO

Quanto è difficile essere ospitali, trasformare I' estraneità in affinità, e quanto sono vicine e attigue lospitalità e l'ostilità1• È facile che la stretta di mano che di per sé è segno di pace, si trasformi in un braccio di ferro, in un venire alle mani. L'altro ci sta troppo stretto, ma dietro c'è ancora un altro mistero più conturbante: che noi stessi siamo alieni a noi, siamo conturbanti per noi stessi; i nemici, la gente sulla quale sentenziamo, emettiamo i nostri giudizi, nei confronti della quale facciamo cadere la mannaia del nostro sguardo e delle nostre parole, questi sono nemici forse di ciò che odiamo in noi stessi. C'è un versetto abissale nella letteratura tedesca, ripreso dal filosofo politico Carl Schmitt che dice: