Psicologia sociale cognitiva. Un’introduzione 9788858117842

La psicologia sociale studia i comportamenti e la formazione dei giudizi degli individui alla luce del funzionamento del

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Psicologia sociale cognitiva. Un’introduzione
 9788858117842

Table of contents :
Indice......Page 4
Frontespizio......Page 2
1.1. Una definizione preliminare......Page 6
1.2.1. Il bisogno di risparmiare risorse cognitive......Page 8
1.2.2. Processi consapevoli e inconsapevoli......Page 9
1.2.3. L’egocentrismo dei processi di pensiero......Page 11
1.2.4. La resistenza al cambiamento......Page 12
1.2.5. L’accessibilità cronica......Page 13
1.2.6. Il predominio del qui ed ora: l’accessibilità temporanea......Page 14
2.1.1. Comprendere gli altri attraverso il comportamento non verbale......Page 15
2.1.2. La formazione di impressioni: due modelli a confronto......Page 18
2.1.3. Le prime impressioni son dure a morire: l’effetto persistenza......Page 21
2.1.4. Le teorie implicite di personalità e l’aspetto fisico......Page 22
2.1.5. Alla ricerca di informazioni: il desiderio di confermare le proprie ipotesi......Page 23
2.1.6. Le profezie che si autoavverano......Page 25
2.1.7. Il ruolo della similarità percepita nella formazione di impressioni e nel giudizio sociale......Page 27
2.1.8. La previsione degli atteggiamenti e dei comportamenti altrui: l’effetto del falso consenso......Page 30
2.1.9. Crearsi impressioni circa i gruppi: la correlazione illusoria......Page 31
2.2.1. L’euristica della disponibilità......Page 34
2.2.2. L’euristica della rappresentatività......Page 35
2.2.3. L’euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento......Page 38
2.2.4. L’euristica della simulazione: il pensiero controfattuale......Page 39
2.3. L’attribuzione causale......Page 40
2.3.1. La teoria dell’inferenza corrispondente di Jones e Davis......Page 41
2.3.2. Il modello della covariazione di Kelley......Page 42
2.3.3 Il modello di Weiner......Page 44
2.3.4. L’errore fondamentale di attribuzione......Page 47
2.3.5. La differenza attore-osservatore nei processi attribuzionali......Page 52
3.1. La categorizzazione: funzioni generali e conseguenze cognitive......Page 56
3.2. I modelli di categorizzazione......Page 57
3.3. La categorizzazione: processo controllato o automatico?......Page 59
3.4. Gli schemi: una definizione ed una classificazione......Page 60
3.5. Cosa rende attivi gli schemi? Il caso degli stereotipi......Page 62
3.6. Cosa succede una volta che le conoscenze stereotipiche vengono attivate?......Page 65
3.7. Gli effetti degli schemi sul ricordo......Page 68
3.8. Il ruolo della motivazione e delle risorse cognitive nella percezione sociale......Page 70
3.9. La categorizzazione come processo flessibile......Page 74
3.10. Gli effetti automatici delle conoscenze sociali sui comportamenti......Page 77
3.11. La soppressione degli stereotipi......Page 78
4. Percepire, comprendere e giudicare se stessi......Page 84
4.1. Le fonti della conoscenza di sé......Page 85
4.2. Il Sé come schema......Page 88
4.3. La ricerca di informazioni sul Sé: le motivazioni di autoaccrescimento e di autoverifica......Page 90
4.4. Il Sé nel presente per ricostruire il proprio passato......Page 94
4.5. I Sé possibili......Page 95
4.6. Il modello di Higgins circa le discrepanze del Sé......Page 97
4.7. Il Sé operante: la parte del Sé al lavoro......Page 100
4.8. La complessità del Sé......Page 101
4.9. Gli effetti degli stereotipi sull’auto-percezione e sulle prestazioni personali......Page 103
4.10. Le strategie autolesive......Page 105
4.11. L’autoconsapevolezza......Page 106
4.12. Fino a che punto conosciamo noi stessi? Il caso dell’autostima......Page 109
Riferimenti bibliografici......Page 112

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eBook Laterza

Luigi Castelli

Psicologia sociale cognitiva Un'introduzione

© 2004, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: novembre 2014 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858117842 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Sommario

1. La cognizione sociale 1.1. Una definizione preliminare 1.2. Alcuni princìpi generali 1.2.1. Il bisogno di risparmiare risorse cognitive 1.2.2. Processi consapevoli e inconsapevoli 1.2.3. L’egocentrismo dei processi di pensiero 1.2.4. La resistenza al cambiamento 1.2.5. L’accessibilità cronica 1.2.6. Il predominio del qui ed ora: l’accessibilità temporanea

2. La percezione sociale. La formazione di impressioni, l’utilizzo di euristiche di giudizio e la spiegazione dei comportamenti 2.1. La formazione di impressioni 2.1.1. Comprendere gli altri attraverso il comportamento non verbale 2.1.2. La formazione di impressioni: due modelli a confronto 2.1.3. Le prime impressioni son dure a morire: l’effetto persistenza 2.1.4. Le teorie implicite di personalità e l’aspetto fisico 2.1.5. Alla ricerca di informazioni: il desiderio di confermare le proprie ipotesi 2.1.6. Le profezie che si autoavverano 2.1.7. Il ruolo della similarità percepita nella formazione di impressioni e nel giudizio sociale 2.1.8. La previsione degli atteggiamenti e dei comportamenti altrui: l’effetto del falso consenso 2.1.9. Crearsi impressioni circa i gruppi: la correlazione illusoria 2.2. Le euristiche nel giudizio sociale 2.2.1. L’euristica della disponibilità 2.2.2. L’euristica della rappresentatività 2.2.3. L’euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento 2.2.4. L’euristica della simulazione: il pensiero controfattuale 2.3. L’attribuzione causale 2.3.1. La teoria dell’inferenza corrispondente di Jones e Davis 2.3.2. Il modello della covariazione di Kelley 2.3.3 Il modello di Weiner 2.3.4. L’errore fondamentale di attribuzione 2.3.5. La differenza attore-osservatore nei processi attribuzionali

3. I processi di categorizzazione e gli schemi nella percezione sociale 3.1. La categorizzazione: funzioni generali e conseguenze cognitive

3.2. I modelli di categorizzazione 3.3. La categorizzazione: processo controllato o automatico? 3.4. Gli schemi: una definizione ed una classificazione 3.5. Cosa rende attivi gli schemi? Il caso degli stereotipi 3.6. Cosa succede una volta che le conoscenze stereotipiche vengono attivate? 3.7. Gli effetti degli schemi sul ricordo 3.8. Il ruolo della motivazione e delle risorse cognitive nella percezione sociale 3.9. La categorizzazione come processo flessibile 3.10. Gli effetti automatici delle conoscenze sociali sui comportamenti 3.11. La soppressione degli stereotipi

4. Percepire, comprendere e giudicare se stessi 4.1. Le fonti della conoscenza di sé 4.2. Il Sé come schema 4.3. La ricerca di informazioni sul Sé: le motivazioni di autoaccrescimento e di autoverifica 4.4. Il Sé nel presente per ricostruire il proprio passato 4.5. I Sé possibili 4.6. Il modello di Higgins circa le discrepanze del Sé 4.7. Il Sé operante: la parte del Sé al lavoro 4.8. La complessità del Sé 4.9. Gli effetti degli stereotipi sull’auto-percezione e sulle prestazioni personali 4.10. Le strategie autolesive 4.11. L’autoconsapevolezza 4.12. Fino a che punto conosciamo noi stessi? Il caso dell’autostima

Riferimenti bibliografici ai miei genitori

1. La cognizione sociale

1.1. Una definizione preliminare L’ambito di studi che verrà affrontato in questo volume viene denominato cognizione sociale. Come avremo modo di vedere, sotto questa etichetta si cela un universo di teorie, modelli, paradigmi ed interessi di ricerca molti diversificati tra loro. Ciò che li accomuna sono però degli assunti di fondo rispetto al modo in cui funziona la mente umana. L’obiettivo finale è quello di individuare i processi che caratterizzano il funzionamento del nostro sistema cognitivo e che guidano i giudizi che emettiamo nella nostra vita quotidiana, così come i comportamenti che realizziamo all’interno del nostro ambiente sociale. L’elemento centrale di questo approccio è quindi l’individuazione dei processi cognitivi sottostanti, ossia l’esame dei percorsi di elaborazione delle informazioni grazie ai quali ci si predispone alla vita sociale. Questo obiettivo di conoscenza si realizza principalmente attraverso due differenti modalità. Da un lato, è possibile chiedere alle persone di verbalizzare i loro pensieri, impressioni e ragionamenti. Questo metodo, che trova le radici nell’approccio fenomenologico (cfr. per es., Koehler, 1929), permette di individuare quali siano le teorie ingenue che le persone utilizzano nel momento in cui interpretano e danno significato al proprio comportamento e a quello altrui. Dall’altro, la psicologia sociale cognitiva ha fatto propri i modelli e le metodologie di ricerca tipiche della psicologia cognitiva in generale. È nato così un avvincente tentativo di integrazione tra le conquiste ottenute nello studio dei processi di memoria, di apprendimento e di pensiero, e le ambizioni della psicologia sociale di spiegare fenomeni complessi quali la formazione di impressioni, le relazioni intergruppi o l’autopercezione. In questo percorso di esplorazione della psicologia sociale cognitiva, partiamo da un tentativo di definizione di cosa si intende per cognizione sociale:

la cognizione sociale si occupa dello studio scientifico dei processi attraverso cui le persone acquisiscono informazioni dall’ambiente, le interpretano, le immagazzinano in memoria e le recuperano da essa, al fine di comprendere sia il proprio mondo sociale che loro stesse ed organizzare di conseguenza i propri comportamenti.

All’interno di questa definizione sono molti i punti che debbono essere sottolineati. Innanzitutto, vi è la natura scientifica di questo approccio di studio. Ogni ipotesi viene sottoposta a rigide verifiche sperimentali secondo criteri condivisi all’interno della comunità scientifica. Ciò significa che anche le più brillanti intuizioni debbono necessariamente trovare dei riscontri empirici, replicabili attraverso studi indipendenti, prima di poter essere accettate come dotate di fondamento (si veda Leone, 2003). Lo sforzo è quello di isolare processi di tipo generale che, date specifiche condizioni ambientali, si ripresentino con sufficiente regolarità. Ovviamente, i processi oggetto di studio possono variare a seconda del loro grado di specificità. Alcuni processi sono infatti estremamente pervasivi tanto da essere pressoché universali, mentre altri sono assai più legati alle specificità del contesto. L’attuale psicologia cross-culturale sta fornendo importantissime indicazioni in questo senso, permettendo di comprendere le potenzialità esplicative ed i limiti di applicabilità dei risultati ottenuti da studi condotti in un dato ambiente culturale. Un secondo importante aspetto da sottolineare è la natura attiva del processo di acquisizione di informazioni dall’ambiente. Le persone esplorano il proprio ambiente e si interrogano sulle sue caratteristiche. Ad esempio, in continuazione si cerca di cogliere indizi rispetto ai tratti di personalità che contraddistinguono le persone che ci circondano, rispetto a cosa gli altri pensino di noi e così via. Data l’estrema varietà di informazioni potenzialmente a disposizione occorre però operare dei processi di selezione: alcuni elementi verranno percepiti dall’osservatore mentre molte altre informazioni passeranno semplicemente inosservate senza lasciare alcuna traccia (Neisser, 1976). Un’ulteriore caratteristica della cognizione sociale, che costituisce il cuore pulsante di questo approccio di ricerca, è l’idea che le informazioni acquisite dall’ambiente non abbiano un valore di per se stesse, ma che su di esse l’individuo lavori attivamente attribuendo significati e valori personali. Tutto ciò che proviene dall’ambiente è soggetto a processi di interpretazione sulla base delle conoscenze possedute, delle proprie esperienze passate e del proprio stato attuale. Ciò significa che uno stesso evento potrà essere vissuto e spiegato in maniera profondamente

diversa da due individui che abbiano strutture di conoscenza differenti e che siano guidati da differenti motivazioni. Ad esempio, è esperienza comune constatare come gli episodi che si verificano nel corso di un evento sportivo vengano percepiti ed interpretati in modo differenziato a seconda della fede sportiva dell’osservatore. In tal modo, i tifosi di differenti squadre «vedono» cose profondamente diverse (Hastorf, Cantril, 1954). Per comprendere come verrà interpretata una situazione da uno specifico individuo è spesso più importante una conoscenza approfondita dell’individuo percepente piuttosto che della situazione stessa. Le attribuzioni di significato sono infatti in larga misura il frutto della soggettività dell’individuo percepente. Infine, i risultati di questi processi di raccolta di informazioni e di elaborazione vengono depositati in memoria e vanno ad arricchire quel bagaglio di conoscenze ed esperienze che a sua volta è pronto per guidare sia i nuovi processi di acquisizione di informazioni dall’ambiente, influenzando cosa sarà notato e cosa no, sia le operazioni di interpretazione.

1.2. Alcuni princìpi generali Nel paragrafo precedente si è accennato alle differenze individuali nel modo in cui gli stimoli ambientali vengano filtrati ed interpretati. Al di là di queste differenze vi sono però alcuni princìpi generali che contraddistinguono i processi di elaborazione delle informazioni sociali. Su di essi ci soffermeremo ora. 1.2.1. Il bisogno di risparmiare risorse cognitive L’immagine di uomo che viene proposta, e che trova ampi riscontri nella moderna psicologia cognitiva, prevede che le persone abbiano limitate abilità e capacità di elaborazione delle informazioni (Fiske, Taylor, 1991). Ciò implica due importanti conseguenze. La prima è che occorre intervenire col selezionare le informazioni in ingresso, cercando modalità di sintesi che permettano di riassumere la massima quantità di informazioni con il minimo sforzo. La soluzione primaria che viene adottata risiede nel processo di categorizzazione. Ciò significa che vari esemplari vengono inseriti in un medesimo insieme significativo sulla base degli elementi di similarità che li accomunano. In seguito, sarà possibile trattare tali

esemplari in modo sostanzialmente analogo, facendo riferimento alle conoscenze generali già possedute circa la categoria. Ad esempio, incontrando un ragazzo con la testa rasata e degli anfibi ai piedi sarà possibile categorizzarlo come membro del gruppo «skinhead» ed inferire con rapidità altre sue possibili caratteristiche personali prima ancora di avere a disposizione dettagliate e oggettive informazioni su di lui. In continuazione, categorizziamo ed utilizziamo le conoscenze pregresse circa i membri della categoria per giungere ad una approssimativa ma rapida definizione dell’ambiente in cui ci stiamo muovendo. La seconda conseguenza legata alla necessità di formulare giudizi risparmiando risorse cognitive è data dal ricorso a ragionamenti di tipo euristico. Con il termine euristiche si denotano delle scorciatoie di pensiero che utilizziamo per formulare giudizi sulla base di informazioni limitate. Ad esempio, dovendo acquistare una automobile o dovendo decidere dove trascorrere le prossime vacanze, con estrema difficoltà le persone si impegnano in un’analisi sistematica di tutti i possibili dettagli utili per giungere alla migliore scelta possibile. Questi tentativi condurrebbero inevitabilmente a situazioni di stallo in cui ogni decisione assorbirebbe l’individuo al punto tale da rendere impossibile ogni altra attività. Di conseguenza, non si ricerca la soluzione ottimale bensì una soluzione accettabile (Simon, 1983). Quindi, le euristiche possono costituire delle efficaci scorciatoie che permettono di ridurre il tempo e gli sforzi necessari per giungere ad una conclusione soddisfacente, anche se non necessariamente la migliore in assoluto (Tversky, Kahneman, 1974). Tutto ciò ha però i suoi costi: se in generale il ricorso a ragionamenti di tipo euristico offre indubbi vantaggi, esso può talvolta condurre ad una serie di errori di giudizio che verranno discussi più diffusamente in seguito. 1.2.2. Processi consapevoli e inconsapevoli Nella gestione delle informazioni provenienti dall’ambiente è ovviamente possibile operare in modo consapevole attraverso un loro attento e deliberato esame. In queste situazioni, si opera come degli scienziati ingenui che razionalmente analizzano i dati a disposizione per giungere a delle plausibili conclusioni. Parliamo quindi di processi consapevoli, o controllati, ogniqualvolta un processo mentale abbia luogo a partire da un iniziale atto di volontà, possa essere controllato nel corso del

suo sviluppo, e rispetto al quale l’individuo è in larga misura in grado di riportare verbalmente i vari passaggi compiuti (Bargh, 1994). Quindi, le sue caratteristiche peculiari sono l’intenzionalità, la possibilità di controllo e la consapevolezza, almeno parziale, sia delle fasi intermedie del processo che del suo esito finale. In aggiunta, un requisito di fondo affinché un processo consapevole o controllato possa aver luogo è la disponibilità di sufficienti risorse cognitive, in quanto simili processi mentali sono altamente dispendiosi e «consumano» le risorse attentive dell’individuo (Bargh, 1989). Ciò significa che mentre si è impegnati in un compito, quale, ad esempio, la comprensione di un testo scritto, con estrema difficoltà si riuscirà ad eseguire simultaneamente un altro compito controllato che richieda anch’esso risorse attentive, come ad esempio ripercorrere mentalmente le tappe e i luoghi delle ultime vacanze. I processi consapevoli sono quindi tipicamente seriali, nel senso che possono essere eseguiti in successione, e nel momento in cui si tenta di portarli avanti simultaneamente (in parallelo) si ostacolano vicendevolmente. D’altro canto, quando un’attività viene ripetuta nel tempo va incontro a modificazioni nel modo in cui viene eseguita. Pensiamo all’apprendimento delle abilità per suonare la chitarra. Inizialmente è necessario prestare molta attenzione alla posizione delle dita e ad ogni minima azione che viene realizzata sulle corde dello strumento. In seguito, con l’esperienza e la pratica, questi movimenti diventano automatici e possono essere eseguiti anche senza una continua attenzione (Shiffrin, Schneider, 1977). L’azione fluisce pertanto senza un necessario controllo consapevole. In questi casi parliamo di processi inconsapevoli o automatici (Bargh, 1994). Questi processi, poiché prevedono un carico attentivo alquanto limitato, permettono l’esecuzione contemporanea di altre operazioni. Ecco allora che il guidatore esperto sarebbe in grado di compiere complesse manovre anche mentre discute animatamente con il partner, laddove il principiante che volesse effettuare un parcheggio decente dovrebbe sospendere la discussione e concentrarsi sui dettagli della manovra. I processi automatici sono estremamente importanti anche nell’àmbito della cognizione sociale. Anche in questo caso, infatti, le persone utilizzano ripetutamente modalità tipiche di percezione degli altri individui. Ad esempio, si è accennato in precedenza al processo di categorizzazione quale

strumento privilegiato per risparmiare risorse cognitive. Se questo processo diventa routinario si pongono le basi affinché ogni situazione sociale abbia luogo in modo automatico (Brewer, 1988; Fiske, Neuberg, 1990). In effetti, come vedremo dettagliatamente in seguito, una delle prime operazioni che vengono condotte in modo spontaneo e non necessariamente intenzionale ad ogni incontro sociale è quella di identificare le categorie sociali più rilevanti a cui la persona percepita appartiene. In aggiunta, le persone sono frequentemente inconsapevoli dei propri processi mentali anche in un modo più sottile. Infatti, non solo si possono eseguire processi in forma automatica, ma anche quando si portano avanti processi controllati noi siamo consapevoli solo della punta dell’iceberg. La capacità di introspezione rispetto ai propri processi mentali è alquanto ridotta (Nisbett, Wilson, 1977) e così anche quando ragioniamo consapevolmente su un argomento non siamo pienamente a conoscenza di tutti i fattori che stanno influenzando questi nostri processi. Ad esempio, dovendo scegliere tra due candidati per un posto di lavoro, possiamo tentare di operare una scelta razionale basata sulle competenze dei due candidati, ma non riusciremo mai attraverso uno sforzo introspettivo a quantificare con accuratezza l’influenza che altri fattori, quali la somiglianza fisica con una persona importante del nostro passato, una certa tonalità del vestito indossato o il nostro umore in quel momento, possono aver avuto sulla scelta finale (Lewicki, 1985; Nisbett, Wilson, 1977). È ormai opinione condivisa che non esistano processi controllati «puri» e che sempre si verifichi una compresenza, in proporzioni variabili, di componenti controllate ed automatiche (Bargh, 1997). 1.2.3. L’egocentrismo dei processi di pensiero Ogni individuo ha una propria prospettiva privilegiata attraverso la quale osserva il mondo. Risulta però difficile relativizzare questa prospettiva e la tendenza che si riscontra, di conseguenza, è quella di ritenerla valida in assoluto. È curioso rilevare come spesso gli individui rimangano stupefatti o profondamente contrariati dal fatto che gli altri non notino un qualcosa che a loro invece appare lampante, o che a fronte di una serie di premesse altri giungano a conclusioni differenti dalle proprie. Ad esempio, gli spettatori dei quiz televisivi ritengono spesso impossibile

che il concorrente non conosca la risposta ad una domanda alla quale loro saprebbero invece rispondere con facilità, non tenendo conto del fatto che ognuno ha una propria ed unica storia, così come un bagaglio personale di esperienze e conoscenze. Un ulteriore interessante esempio di pensiero egocentrico è costituito dalla cosiddetta illusione di trasparenza (Gilovich, Savitsky, Medvec, 1998), ovvero la credenza erronea che gli altri capiscano immediatamente e con relativa facilità i nostri stati interni. Se si è felici o tristi, sovrastima la facilità con cui gli altri sono in grado di capire lo specifico stato emotivo in cui ci troviamo. Quindi, se qualcuno esegue un comportamento che ci pone in uno stato di disagio siamo indotti a pensare che tale persona non possa non capire questa nostra situazione, modificando la sua condotta futura. I rapporti di coppia sono costellati da simili distorsioni di giudizio, con tutte le inevitabili conseguenze negative, laddove all’origine di tutto vi è solo l’errata convinzione che poiché noi sappiamo di essere a disagio anche il partner debba necessariamente capire che siamo a disagio (Gilovich, Kruger, Savitsky, 1999). Queste forme di egocentrismo, che sono eclatanti nei bambini (Piaget, 1947), si ripresentano sotto altre vesti anche in età adulta influenzando i giudizi ed i rapporti interpersonali. Non solo l’individuo tende a porsi al centro del mondo, ma in aggiunta – almeno in situazioni di «funzionamento normale» – tende a farlo mettendosi in una luce positiva ai propri occhi e a quelli altrui. Una fondamentale motivazione che guida le percezioni, i giudizi ed i comportamenti è infatti quella di raggiungere o mantenere una elevata autostima, ovvero un’immagine positiva di se stessi (Silverman, 1964; Tesser, 1988). Quindi, i processi di elaborazione che vengono posti in essere tendono in modo sistematico a configurare la realtà in modo tale da ottenere una autorappresentazione caratterizzata da attributi positivi, anche quando gli effettivi eventi sembrerebbero suggerire l’opposto (Taylor, 1989; Zuckerman, 1979). 1.2.4. La resistenza al cambiamento In generale, sia i processi che i contenuti di pensiero tendono ad essere alquanto impermeabili rispetto ad ogni tentativo di modificazione. Certe modalità tipiche di rappresentazione del mondo e di interazione con gli altri si cristallizzano e, quindi, con estrema difficoltà e lentezza vanno

incontro a cambiamenti. Questa resistenza al cambiamento è tanto più evidente là dove le credenze dell’individuo permangono stabili nonostante vi siano indicazioni oggettive circa la loro erroneità o quantomeno rispetto alla necessità di operare delle revisioni. Inoltre, è caratteristica peculiare dei processi di pensiero quella di esplorare il mondo alla ricerca di elementi in grado di confermare le proprie aspettative. Questo è un aspetto che verrà ampiamente trattato nel corso di tutto il volume. Il risultato finale di questa tendenza sarà nuovamente una rigidità nel modo di rappresentarsi gli eventi, al fine di privilegiare tutto ciò che permetta di mantenere una relativa stabilità piuttosto che quelle informazioni che possano essere di stimolo al cambiamento. 1.2.5. L’accessibilità cronica Il concetto di accessibilità è fondamentale per la comprensione dei processi mentali. L’accessibilità può essere definita come la facilità con cui determinati contenuti di pensiero si presentano alla nostra mente (Arcuri, Castelli, 2000): in altre parole, dato l’insieme di conoscenze depositate in memoria, alcune di queste risultano più semplici da recuperare. La conseguenza importante è che queste conoscenze facilmente recuperabili diventeranno in modo cronico, anche al variare dei contesti, la chiave privilegiata di interpretazione. Ad esempio, persone fortemente interessate ai temi della politica, o addirittura impegnate attivamente in politica, tenderanno sistematicamente a cercare di individuare l’affiliazione politica dei propri interlocutori e i risvolti politici di ogni accadimento. Allo stesso modo, dopo mesi trascorsi a studiare testi di psicopatologia, è fenomeno tipico degli studenti di psicologia quello di decodificare i comportamenti altrui nei termini di categorie diagnostiche. In generale, quindi, i contenuti più accessibili formeranno il quadro di riferimento utilizzato per dare senso a ciò che di nuovo incontriamo così come alle nostre esperienze. Un ulteriore esempio particolarmente rilevante per le sue drammatiche conseguenze è dato dalla situazione in cui si trovano le persone depresse: in questi soggetti diventa cronicamente accessibile un’immagine di sé medesimi in quanto esseri insignificanti, privi di qualità positive e disprezzati dagli altri. Queste persone tenderanno perciò in modo sistematico a rivisitare il proprio passato e ad interpretare le proprie

vicissitudini quotidiane alla luce di questa concezione negativa di se stesse, rendendo quindi assai complesso il superamento del loro stato di difficoltà (Higgins, 1989). 1.2.6. Il predominio del qui ed ora: l’accessibilità temporanea I processi mentali sono fortemente influenzati dallo stato momentaneo dell’individuo, il quale solo in misura minima riesce a tener conto del fatto che si tratta di uno stato momentaneo e tende invece ad ampliare la sua importanza più del dovuto. Ad esempio, se si viene bocciati ad un esame, frequentemente si formulano giudizi generali negativi sulle proprie capacità e sulla propria soddisfazione nell’aver intrapreso un determinato corso di studi, ponendo in secondo piano tutta la propria storia passata di impegno, piacere e magari successo in altri esami. Le situazioni contingenti rendono alcuni contenuti mentali temporaneamente più accessibili rispetto ad altri, e questi contenuti maggiormente accessibili esercitano l’impatto maggiore sugli stati emotivi, i giudizi ed i comportamenti. Ancora un esempio: l’innamorato appena abbandonato dalla persona amata diffonde la sua delusione e sofferenza a tutti gli àmbiti della propria vita e ritiene che anche il futuro non potrà essere altro che un inconsolabile tormento. L’esperienza ci insegna che fortunatamente le cose non stanno propriamente così. Per la persona coinvolta, però, è il qui ed ora che conta e che pervade i contenuti dei suoi pensieri. Se questo principio generale è massimamente evidente in riferimento agli eventi più rilevanti della vita, esso opera tuttavia anche nelle assai più banali situazioni della quotidianità: il ricordo di una pubblicità può indurre ad acquistare un determinato prodotto piuttosto che un altro, semplicemente perché di fronte ad uno scaffale di supermercato il prodotto pubblicizzato risulta più evidente di altri e verrà notato con maggiore probabilità in mezzo alla gamma di altre marche disponibili. Analogamente, la lettura di un articolo di cronaca può portare a ritenere che la criminalità sia la questione più importante da affrontare, mentre il giorno successivo i resoconti di stragi sulle strade renderanno queste il problema centrale da risolvere. Il messaggio di fondo quindi è che ciò che predomina nel qui ed ora pone chiari indirizzi ai processi mentali, e che dall’interazione tra costrutti cronicamente e temporaneamente accessibili vengono definite le coordinate di riferimento attraverso le quali viene dato un senso al proprio mondo sociale.

2. La percezione sociale. La formazione di impressioni, l’utilizzo di euristiche di giudizio e la spiegazione dei comportamenti

In questo capitolo prenderemo inizialmente in esame le modalità attraverso cui ci formiamo impressioni circa le persone che ci circondano e formuliamo giudizi rispetto alle loro caratteristiche. Successivamente, verranno affrontate alcune delle principali euristiche che caratterizzano il giudizio sociale. Infine, ci soffermeremo sui processi di spiegazione dei comportamenti, sia propri che altrui, ovvero sui cosiddetti processi di attribuzione causale.

2.1. La formazione di impressioni 2.1.1. Comprendere gli altri attraverso il comportamento non verbale I movimenti del corpo, gli sguardi e le espressioni del volto forniscono molte informazioni circa la persona che li esegue (Argyle, 1975). Essi costituiscono dei segnali attraverso i quali possiamo inferire le qualità personali dell’interlocutore e cosa egli pensi di noi. Un’inclinazione del corpo in avanti o al contrario protesa all’indietro ci indicherà un atteggiamento ora positivo ora negativo nei nostri confronti (Maass, Castelli, Arcuri, 2000; Mehrabian, 1972). Allo stesso modo, attraverso la quantità dei contatti oculari potremo formulare ipotesi circa il grado di estroversione o timidezza (Kleinke, Meeker, La Fong, 1974; Zimbardo, 1977). Ogni cultura prevede i suoi particolari codici che regolano la comunicazione non verbale. Ad esempio, se in alcune culture il contatto fisico viene percepito come un segnale di amichevolezza, in altre culture il contatto viene vissuto con maggiore ansia e si cerca quindi di limitarlo. D’altro lato, ogni comportamento non verbale non ha un significato in

assoluto, ma a seconda dei contesti in cui si realizza e delle modalità specifiche con cui viene eseguito può produrre conseguenze differenti. Infatti, se il contatto oculare segnala apertura e desiderio di condivisione, un contatto oculare eccessivamente sostenuto può creare all’opposto disagio ed irritazione. In uno studio sul campo, ad esempio, alcuni ricercatori hanno verificato che i camerieri ricevevano mance più elevate quando nel portare il resto ai propri clienti riuscivano a stabilire un breve contatto fisico, come il toccare loro la mano per mezzo secondo, piuttosto che in assenza di alcun contatto (Crusco, Wetzel, 1984). Quando però il contatto si prolungava, l’entità della mancia ricevuta iniziava a diminuire. Ciò significa che attraverso il comportamento non verbale è possibile inviare dei messaggi, ma che è anche opportuno calibrare adeguatamente le modalità di esecuzione di tale comportamento affinché venga trasmesso il messaggio desiderato. Il comportamento non verbale è, inoltre, anche un importante segnale del ruolo sociale degli attori coinvolti. Ad esempio, il contatto fisico avviene frequentemente in modo asimmetrico tra persone con uno status sociale differente, e può quindi diventarne un indicatore: le persone con uno status sociale elevato toccano infatti con maggiore probabilità le persone con uno status sociale più basso del proprio, rispetto a quanto non facciano queste ultime (Henley, 1973). Differenze importanti si riscontrano anche nella capacità di decodificare i comportamenti non verbali. Innanzitutto, sembra emergere una superiorità da parte delle donne rispetto agli uomini in questo specifico dominio (Hall, 1984). Le donne sembrano più abili nel cogliere le sfumature e nel comprendere il significato dei comportamenti non verbali manifestati da altre persone. A fronte di questi risultati, si è posto il dilemma del perché esista questa asimmetria. Da un lato, vi sono spiegazioni di tipo evoluzionistico che associano queste superiori competenze nella decodifica dei segnali non verbali con la funzione primaria di accudimento della prole da parte delle donne. Dall’altro, sono state suggerite spiegazioni che rimandano alla strutturazione interna della società. Alice Eagly ha proposto una teoria denominata «teoria del ruolo sociale» la quale prevede che le donne più degli uomini siano inserite all’interno della società in ruoli di servizio agli altri, come ad esempio la casalinga, la commessa o l’infermiera (Eagly, 1987). Per una efficace esecuzione di questi ruoli risulta necessario capire con rapidità e sufficiente

precisione le richieste provenienti dalle altre persone, ed una buona lettura dei loro comportamenti non verbali agevola sicuramente questo compito. Inoltre, le persone con uno status sociale più basso debbono sviluppare una maggiore sensibilità nel comprendere gli stati interni, gli umori e i desideri di coloro che si collocano più in alto nella scala sociale. Per una segretaria è fondamentale comprendere se il suo capoufficio sia di umore positivo o negativo, mentre per il capoufficio conoscere l’umore della propria segretaria può non essere altrettanto importante. Poiché le donne sono state a lungo in una posizione subordinata rispetto all’uomo, secondo Eagly, questo può essere un ulteriore motivo di spiegazione delle asimmetrie tra i due sessi nelle abilità di decodifica dei comportamenti non verbali. Nella vita quotidiana in continuazione inviamo e riceviamo messaggi non verbali. Queste operazioni avvengono il più delle volte in modo non consapevole e spontaneo. Alla vista di una persona cara che da molto tempo non incontriamo, immediatamente sorridiamo, senza che questo comportamento debba essere intenzionalmente pianificato. Talvolta, però, si esercita un attento controllo consapevole sui propri comportamenti non verbali, come nei casi in cui cerchiamo di gestire in maniera strategica il modo in cui ci presentiamo agli altri (Schlenker, 1980): si può ad esempio decidere di essere particolarmente sorridenti per ingraziarsi qualcuno. Un’altra situazione particolare in cui i comportamenti non verbali possono diventare oggetto di attenzione consapevole è data dalle menzogne. Riuscire però a controllare simultaneamente tutti i propri comportamenti non verbali risulta essere un compito praticamente impossibile da realizzare. In questo senso, i comportamenti non verbali possono diventare degli indicatori alquanto importanti per identificare chi stia mentendo e chi no (Ekman, 1992). Quando le persone si impegnano a capire se l’interlocutore stia mentendo, sono infatti le peculiarità del suo comportamento non verbale, ed in particolare le cosiddette microespressioni (Ekman, Friesen, 1975), che consentono con un buon grado di accuratezza di scoprirlo. Allo stesso modo, tanto più una persona si sforza di mentire tanto più il suo comportamento non verbale sarà rivelatore (De Paulo, Stone, Lassiter, 1985). Per comprendere il perché di questo fenomeno dobbiamo fare riferimento ai princìpi generali di funzionamento della mente umana affrontati nel precedente capitolo. Esercitare un controllo

consapevole sul proprio comportamento risulta essere dispendioso. In particolare, le persone che mentono prestano la massima attenzione ai contenuti verbali che trasmettono, per evitare di cadere in contraddizione o di fornire informazioni di cui l’interlocutore possa agevolmente verificare la mancanza di veridicità. Tutto questo sforzo nel monitorare il proprio comportamento verbale si traduce in una diminuzione del controllo del comportamento non verbale che può allora diventare massimamente diagnostico. In modo curioso, ma illuminante dal punto di vista teorico, gli osservatori esterni, proprio in quanto possono non prestare attenzione ai contenuti verbali, risultano essere più abili nello smascherare chi mente (Gilbert, Krull, 1988): in questo caso, dando poco peso agli aspetti meno diagnostici poiché controllati da colui che sta mentendo, riescono a focalizzarsi su quegli elementi del comportamento che possono aiutare a comprendere gli intenti più o meno sinceri dell’interlocutore. 2.1.2. La formazione di impressioni: due modelli a confronto letteratura sono presenti due principali modelli che tentano di spiegare come i vari elementi vengano ad integrarsi tra loro per dar vita ad una impressione unitaria: il modello algebrico proposto da Norman Anderson (1965) e il modello configurazionale proposto da Solomon Asch (1946). Questi due modelli affondano le loro radici in due modi profondamente differenti di concepire il funzionamento della mente umana e per lungo tempo sono stati considerati come mutuamente esclusivi. Secondo il modello algebrico ciò che ha la priorità assoluta sono i dati in ingresso. Venendo a conoscenza del fatto che una persona è intelligente e fredda, ad esempio, si procederebbe recuperando inizialmente la valenza di ciascuno dei due singoli tratti e successivamente calcolando la media algebrica dei singoli valori. Il risultato finale di questa operazione andrebbe a costituire la valutazione globale nei confronti della persona descritta. In questa prospettiva, la valutazione del tratto «intelligente» sarà la medesima, a prescindere da quali altri attributi caratterizzino la persona descritta. Diversamente, secondo il modello configurazionale, nato all’interno della corrente denominata Psicologia della Gestalt, la priorità viene data alle operazioni mentali che vengono eseguite sui dati in ingresso. Quindi, secondo questo modello bisognerebbe lavorerare in modo olistico sull’insieme delle informazioni ricevute, procedendo ad interpretare ogni

singolo tratto non solo per il suo peculiare significato – come suggerito dal modello algebrico – ma soprattutto alla luce delle altre informazioni presenti. Così, il tratto «intelligente» acquisirebbe un significato estremamente differente a seconda che si accompagni al tratto «freddo» o al tratto «caldo». Nel primo caso l’impressione finale sarà probabilmente quella di un cinico calcolatore, mentre nel secondo quella di una persona saggia. Secondo Asch, alcuni tratti hanno inoltre un’influenza particolare nel modificare il significato degli altri attributi che si accompagnano ad essi. Questi tratti, definiti centrali, debbono probabilmente la loro forza alla vaghezza e generalità che li contraddistingue. Ad esempio, tratti quali «caldo» o «freddo» indicano delle disposizioni di fondo in grado di colorare tutti i comportamenti anche al variare dei contesti. Per questo motivo, questi tratti centrali assumono un ruolo così importante nell’interpretare le altre caratteristiche della persona descritta. Ulteriori indicazioni a sostegno del modello configurazionale provengono dagli effetti dell’ordine con cui le informazioni vengono acquisite. Proviamo a leggere la seguente descrizione di un comune studente: Marco uscì di casa per andare a comprare alcuni articoli di cancelleria. Camminò lungo la strada assolata con due suoi amici, godendosi il calore del sole. Marco entrò nella cartoleria che era piena di clienti. Mentre attendeva di essere servito scambiò alcune parole con alcuni ragazzi che conosceva di vista. Una volta fuori dal negozio, si fermò a parlare con un suo compagno di studi che stava invece per entrare nel negozio. Lungo la strada incontrò la ragazza che gli era stata presentata la sera precedente. Scambiarono due parole e poi Marco si incamminò verso l’Università. Dopo la lezione, Marco uscì da solo dall’aula e si diresse subito verso casa. La strada era piacevolmente assolata, ma Marco preferì proseguire nel lato in ombra. Vide venire in direzione opposta la ragazza carina che aveva conosciuto la sera prima. Marco preferì attraversare la strada ed entrò in un bar. Il bar era affollato di studenti, ma Marco non conosceva nessuno di loro. Marco aspettò tranquillo fino a quando il cameriere non prese la sua ordinazione. Si sedette in un tavolo laterale per bere la sua bibita. Finito di bere tornò a casa (adattato da Luchins, 1957, pp. 34-35).

Nella descrizione appena fornita, vi sono due parti ben distinte. Nella prima parte, infatti, Marco viene descritto come una persona abbastanza amichevole, mentre nella seconda parte appare come piuttosto introverso e solitario. Che tipo di impressione si formerà la gente rispetto a Marco? Luchins (1957) riscontrò che il 78% delle persone che aveva letto il breve passaggio appena proposto ritenne che Marco fosse una persona amichevole e gioviale. Ma l’elemento interessante è constatare cosa succede proponendo il medesimo contenuto, ma invertendo la prima e la seconda parte della storia, ovvero facendo leggere dapprima i

comportamenti di Marco dopo l’uscita dalla sua lezione. In questo caso, solo il 18% dei rispondenti percepisce Marco come una persona amichevole e gioviale. In generale le prime informazioni che riceviamo hanno il massimo impatto sulle impressioni che ci formiamo. Questo effetto viene denominato effetto di priorità (primacy effect). I primi elementi descrittivi che vengono letti creano lo sfondo interpretativo sulla base del quale si dà significato alle successive informazioni, e per questo motivo hanno un peso maggiore nel determinare l’impressione finale (Asch, 1946). Per di più, le prime informazioni ricevute vengono anche meglio ricordate. Questo effetto è nuovamente legato allo status privilegiato accordato alle prime informazioni acquisite, grazie alle quali vengono poste le fondamenta su cui si costruiscono le impressioni. Tutte le informazioni aggiuntive che via via verranno acquisite saranno dei mattoncini che andranno ad arricchire la costruzione non potendo però stravolgerne la struttura di fondo e gli elementi portanti (Queller, Smith, 2002). In modo interessante, gli effetti di priorità si realizzano non solo in riferimento alla percezione di caratteristiche di personalità, ma anche rispetto alle competenze percepite. Ad esempio, ad un campione di soggetti è stato proposto il filmato di un ragazzo che eseguiva una serie di 30 difficili prove, riuscendo a superarne 15. Per metà dei partecipanti allo studio, le prove eseguite correttamente si collocavano in massima misura tra le prime all’interno della sequenza di 30, mentre per l’altra metà dei partecipanti tendevano ad essere collocate verso la fine. Questi cambiamenti nella sequenza di presentazione produssero effetti consistenti sulle stime del numero di prove correttamente superate. La prima metà dei soggetti ritenne infatti che il ragazzo avesse risposto esattamente a 21 domande, e quindi ben al di sopra della sua effettiva prestazione. Coloro che invece avevano visto il superamento delle prove verso la fine del filmato ritennero che solo 13 prove fossero state superate e quindi fornirono una valutazione leggermente inferiore alla realtà (Jones, Rock, Shaver, Goethals, Ward, 1968). Dunque, la visione iniziale dei successi del ragazzo porta a percepirlo come abile e competente e questa impressione si mantiene nel tempo nonostante le sue successive prestazioni non confermino appieno l’impressione iniziale. Il modello algebrico riesce con difficoltà a render conto degli effetti d’ordine e degli effetti di priorità, se non con l’introduzione di ulteriori

corollari che rendono assai complesse le spiegazioni dei dati empirici osservati. Attualmente, quindi, il modello di tipo configurazionale proposto da Asch gode di maggior credito, anche se esistono probabilmente àmbiti specifici in cui anche i modelli algebrici possono rivelarsi utili, come ad esempio nei casi in cui vi sia una scarsa motivazione a formarsi un’impressione accurata. L’adozione congiunta di entrambi i modelli può quindi talvolta aumentare le capacità di prevedere quale impressione finale il soggetto percepente verrà a formarsi (Arcuri, Castelli, 2000). 2.1.3. Le prime impressioni son dure a morire: l’effetto persistenza Negli esempi riportati nel precedente paragrafo risultava evidente come i passaggi iniziali nel processo di formazione delle impressioni fossero fondamentali per dare una fisionomia ben precisa all’impressione che si stava formando. Con il procedere delle informazioni acquisite queste hanno sempre minore peso e risulta quindi difficile modificare le prime impressioni. Gli effetti di priorità rispecchiano quindi la resistenza al cambiamento ed il «conservatorismo» con cui opera il nostro sistema cognitivo. Quanto resistenti siano le prime impressioni ci viene dimostrato nel modo più chiaro da uno studio condotto da Ross, Lepper e Hubbard (1975). Ai partecipanti allo studio veniva fatta eseguire una serie di prove, e dopo ogni prova veniva dato un feedback circa la correttezza o meno della risposta fornita. In realtà, i feedback forniti erano assolutamente casuali e alcuni dei partecipanti ricevevano molti feedback positivi, che segnalavano quindi una certa abilità nell’esecuzione del compito, mentre altri partecipanti ricevevano una preponderanza di feedback negativi. Al termine delle prove si informavano tutti i partecipanti della natura casuale dei feedback e quindi del fatto che essi, essendo stati dati a caso, non fornivano alcuna informazione circa la reale prestazione nel corso della prova. A questo punto ai partecipanti veniva richiesto di stimare il numero di prove a cui si era risposto correttamente. Come si può vedere nella Fig. 2.1, i partecipanti che nel corso della prova si erano formati un’impressione di sé medesimi in quanto scarsamente capaci, in quello specifico compito continuano a ritenere di essere poco abili e di aver risposto correttamente ad un numero più limitato di domande, e ciò, nonostante sapessero ormai che l’impressione che si erano formati fosse basata su feedback

assolutamente fasulli e perciò per nulla diagnostici rispetto alle loro reali capacità. Modificare le proprie impressioni è quindi un processo assai difficile, e anche di fronte ad elementi che indichino chiaramente l’infondatezza delle nostre impressioni si è comunque alquanto restii ad abbandonarle.

Fig. 2.1. Stima della prestazione personale in funzione del feedback ricevuto (adattata da Ross, Lepper, Hubbard, 1975).

2.1.4. Le teorie implicite di personalità e l’aspetto fisico Come si è visto, almeno nei casi in cui vi sia una sufficiente motivazione, si procede cercando di dare un significato coerente alle informazioni riguardanti altre persone. Questa ricerca di coerenza, a fronte delle effettive informazioni frammentarie a disposizione, è però solo una faccia della medaglia. Infatti, le impressioni vengono arricchite aggiungendo anche elementi di cui non siamo venuti direttamente a conoscenza. Ad esempio, il sapere che una persona è sincera induce ad inferire che tale persona sarà probabilmente anche generosa e gioviale. In altre parole, a partire dai pochi dati di cui si è in possesso, si ricostruiscono altre caratteristiche che si presume ben si accordino con i dati disponibili. Per compiere questa operazione, uno degli strumenti principali a cui si fa ricorso sono le teorie implicite di personalità (Bruner, Tagiuri, 1954; Schneider, 1973). Queste teorie ingenue, costruite nel corso dell’esperienza, racchiudono le credenze circa quali tratti di personalità si accordino fra loro e quali invece male si combinino. Costituiscono quindi delle mappe di riferimento che permettono di arricchire la nostre impressioni con un minimo sforzo, risparmiando quelle preziose e limitate risorse cognitive che sarebbero, al contrario, necessarie per cercare ulteriori informazioni nell’ambiente. Ovviamente, le inferenze che vengono prodotte a partire dalle teorie implicite di personalità non sempre si

rivelano accurate. Ad esempio, una persona sincera può rivelarsi tutt’altro che gioviale nel momento in cui utilizza questa sua dote per sottolineare impietosamente i difetti altrui e manifestare senza inibizioni ciò che pensa di tali punti di debolezza. L’occasionale mancanza di accuratezza è però bilanciata dal vantaggio primario che deriva dall’uso di teorie implicite di personalità, ovvero la possibilità di giungere ad impressioni articolate a partire da poche informazioni di base e con un dispendio limitato di energie. Processi sufficientemente simili hanno luogo anche a partire dalla percezione delle caratteristiche fisiche delle persone. L’aspetto fisico viene utilizzato come un indicatore delle caratteristiche di personalità, possedendo anche in questo caso delle teorie ingenue rispetto a quali tratti di personalità si accordino a determinate peculiarità somatiche. Ad esempio, le persone dall’aspetto fisico piacevole vengono considerate anche come più simpatiche e socievoli (Dion, Berscheid, Walster, 1972; Feingold, 1992), e, ricordiamolo, questa operazione di inferenza viene prodotta anche in assenza di elementi oggettivi che giustifichino una effettiva percezione di simpatia e socievolezza. Molti studi sono stati inoltre realizzati in riferimento al fenomeno della baby-faceness: le persone con caratteristiche del volto tipicamente infantili – come, ad esempio, occhi grandi e rotondi e un mento piccolo – tendono ad essere percepite come oneste, ingenue, ma anche poco sicure di sé e incerte nelle decisioni più o meno importanti della vita (Zebrowitz, 1997). Così, dunque, a partire da informazioni limitate, si va al di là di esse «mettendoci del proprio», ovvero colmando i vuoti di conoscenza col ricorso alle proprie teorie ingenue, le quali, come si è visto, prevedono co-occorrenze sistematiche tra differenti tratti di personalità da un lato o tra aspetto fisico e tratti di personalità dall’altro. 2.1.5. Alla ricerca di informazioni: il desiderio di confermare le proprie ipotesi Nella definizione di cognizione sociale fornita all’inizio di questo volume, un aspetto che veniva sottolineato era la ricerca attiva di informazioni nell’ambiente. Infatti, non ci si limita ad accogliere passivamente ciò che proviene dall’ambiente, ma ci si impegna anche attivamente andando a raccogliere quelle informazioni che potrebbero essere utili per i nostri obiettivi. Così, nel formarci un’impressione, faremo

domande alla persona direttamente coinvolta, oppure, in modo indiretto, interrogheremo altri che abbiano avuto l’opportunità di conoscerla. Volendo sapere, ad esempio, se una determinata persona potrebbe essere un buon candidato per svolgere il lavoro di animatore turistico dovremo cercare di capire in che misura sia estroversa, socievole, energica, paziente e così via. Nel portare avanti questa raccolta di informazioni si possono seguire due strategie opposte tra loro. Infatti, è possibile procedere sia cercando di confermare le nostre ipotesi di partenza sia, all’opposto, cercando evidenze empiriche che disconfermino le ipotesi iniziali. In altre parole, seguendo l’esempio appena fatto, si potrebbero cercare elementi a sostegno del fatto che il candidato sia una persona estroversa, oppure si potrebbero cercare indizi che depongano a favore della sua introversione. Snyder e Swann (1978) hanno indagato sperimentalmente quale sia la strategia preferita dalle persone nel momento in cui debbano formarsi delle impressioni. Lo studio veniva presentato come un’indagine sul modo in cui le persone si comprendono a vicenda, e per questo motivo a metà dei partecipanti si richiedeva di capire se il loro interlocutore fosse estroverso. L’altra metà dei partecipanti aveva invece la consegna di capire se l’interlocutore fosse introverso. Per poter giungere ad una conclusione, tutti i partecipanti avevano la possibilità di porre 12 domande da una lista predefinita di 26 domande. Di queste 26 domande, una parte riguardava comportamenti tipicamente estroversi («Ti piace incontrare nuove persone?»), una parte rimandava a comportamenti tipicamente introversi («Quando in presenza di altri ti senti a disagio?»), ed una parte invece non aveva a che fare né con l’estroversione né con l’introversione. Quanto è emerso ha mostrato che coloro che dovevano capire se la persona fosse estroversa ponevano principalmente domande inerenti i comportamenti di estroversione, mentre, nell’altra condizione dello studio, ovvero chi doveva capire se la persona fosse introversa privilegiava le domande che ruotavano attorno ai comportamenti in grado di segnalare introversione. Quindi, la ricerca di informazioni veniva svolta seguendo una strategia di conferma delle proprie ipotesi iniziali, in contrasto con quanto suggeriscono i principi della ricerca scientifica, secondo i quali occorrerebbe procedere attraverso strategie di disconferma piuttosto che di conferma. Nella nostra vita quotidiana formuliamo in continuazione ipotesi sulle caratteristiche altrui e queste ipotesi funzionano poi da guida

rispetto al modo in cui ci avviciniamo agli altri e li conosciamo (Devine, Hirt, Gehrke, 1990; Skov, Sherman, 1986). Allo stesso modo, con estrema frequenza i clinici adottano delle strategie di conferma nella loro attività professionale, formulando iniziali ipotesi di lavoro circa il disturbo o patologia del paziente e cercando in seguito, in modo privilegiato, informazioni che confermino la propria diagnosi iniziale piuttosto che informazioni che possano mettere in discussione l’ipotesi iniziale (Arcuri, 1994). Ciò significa che in modo selettivo si va alla ricerca di ciò che possa confermare le nostre credenze ed aspettative, anche laddove non vi siano ragionevoli motivi per ritenere che tali credenze ed aspettative siano valide. 2.1.6. Le profezie che si autoavverano Come abbiamo visto, le persone si avvicinano alle situazioni di interazione sociale con un bagaglio di ipotesi ed aspettative rispetto alle possibili caratteristiche dell’interlocutore, mettendo in atto delle strategie di scoperta dell’altro mirate più a confermare le proprie ipotesi che non a disconfermarle. Le proprie ipotesi circa le altre persone possono però produrre degli effetti ancor più sottili, andando effettivamente a modificare la realtà percepita. Infatti, gli individui, con il proprio comportamento, possono involontariamente creare le condizioni affinché le proprie aspettative si realizzino. In uno studio ormai diventato un classico della psicologia sociale, Rosenthal e Jacobson (1968) hanno dimostrato in modo brillante questo fenomeno nell’àmbito scolastico. I due autori si sono chiesti in che modo le aspettative che gli insegnanti nutrono rispetto ai loro giovani allievi possano concretamente incidere sullo sviluppo delle capacità degli studenti stessi. A tal fine, somministrarono un test di intelligenza a tutti gli studenti che presero parte allo studio, ed indicarono agli insegnanti alcuni specifici studenti che dai risultati del test apparivano essere altamente brillanti e promettenti. In realtà, questi studenti indicati agli insegnanti erano stati selezionati casualmente e non avevano perciò alcuna particolare dote in più rispetto ai loro compagni di classe. Durante il corso dell’anno scolastico i ricercatori osservarono periodicamente le interazioni che si realizzavano all’interno della classe e al termine dell’anno somministrarono nuovamente dei test di intelligenza. I risultati indicarono che i bambini etichettati inizialmente in quanto possessori di capacità potenziali eccezionali al termine dell’anno scolastico riportarono

effettivamente i punteggi più elevati. La profezia iniziale si era tradotta in una evidente modificazione delle prestazioni di tali studenti. Gli insegnanti riferirono di non aver fatto nulla di particolare per avvantaggiare gli studenti etichettati come delle «promesse», ma un’analisi del loro comportamento in aula evidenziò al contrario un trattamento privilegiato proprio a favore di essi. Infatti, gli insegnanti dedicavano a questi studenti una maggior attenzione, li incoraggiavano maggiormente creando intorno ad essi il clima emotivo più favorevole. Inoltre, ad essi davano i compiti più stimolanti, fornendo feedback più articolati rispetto a quelli destinati al resto della classe. In sintesi, a causa delle aspettative indotte dagli sperimentatori, gli insegnanti misero in atto comportamenti selettivamente più favorevoli nei confronti degli studenti verso i quali nutrivano aspettative positive, e questi comportamenti ebbero a loro volta l’effetto di incrementare le capacità e le prestazioni di quei pochi privilegiati studenti. Lo studio di Rosenthal e Jacobson ha dimostrato gli effetti delle aspettative che si autoavverano in un contesto assai rilevante come quello dello sviluppo dell’intelligenza. Peraltro, anche nelle semplici situazioni della vita quotidiana le profezie che si autoavverano giocano un ruolo cruciale nella strutturazione delle interazioni sociali e nella formazione di impressioni. Immaginiamo un’individuo che debba interagire telefonicamente con uno sconosciuto il quale gli sia stato descritto come una persona molto simpatica oppure come molto antipatica. Quello che andremo a rilevare assistendo all’interazione sarà probabilmente un comportamento profondamente differente a seconda dell’aspettativa posseduta. In aggiunta, però, anche il comportamento dell’interlocutore ne verrà, per tutta risposta, influenzato: chi nutrendo un’aspettativa di simpatia si comporta in modo amichevole eliciterà, infatti, nel suo interlocutore un comportamento anch’esso cordiale ed amichevole; all’opposto, una aspettativa di antipatia innescherà un iniziale comportamento diffidente e di distanza che indurrà l’interlocutore a porsi sulla medesima linea di condotta. L’elemento importante da sottolineare è qui la natura dinamica del processo. Le aspettative presenti nella mente di un individuo vanno a predisporre comportamenti coerenti con queste aspettative, e gli specifici comportamenti eseguiti produrranno appropriate risposte nell’interlocutore, le quali andranno infine a confermare le ipotesi di partenza con cui l’interazione aveva avuto inizio (Darley, Fazio, 1980).

Ciò significa che la formazione di impressioni non è esclusivamente un processo «a tavolino» di organizzazione di informazioni che si ricevono passivamente dall’esterno, ma è anche ricerca attiva di informazioni sulla base delle proprie ipotesi, così come «costruzione» di queste informazioni attraverso l’azione che le proprie aspettative esercitano sul comportamento altrui. Mark Snyder, uno degli studiosi che più si è occupato di studiare queste tematiche, in questo modo sottolinea la rilevanza che le profezie che si autoavverano assumono nei contesti sociali (Snyder, 1984): Agire sulle credenze relative a oggetti ed eventi fisici non modifica la realtà di tali oggetti ed eventi nello stesso modo in cui l’agire sulle credenze circa le persone e gli eventi sociali influenza invece la realtà di tali persone e dei loro comportamenti. Per esempio, una lettiga non diventerà mai una macchina sportiva per quanto io pensi che lo possa essere e mi comporti come se lo fosse. Al contrario, una persona può diventare amichevole e socievole semplicemente perché io sono convinto che sia così e mi comporto nei suoi confronti come se lo fosse.

Questi argomenti ci indicano come in molte occasioni possa risultare inappropriato ritenere che una data persona possegga una determinata serie di stabili caratteristiche di personalità o di abilità, senza renderci conto che, almeno parzialmente, siamo noi stessi artefici del modo in cui si comporta in nostra presenza. In ultima istanza, dunque, si è non solo degli osservatori più o meno attenti della realtà, ma anche degli attivi costruttori della stessa. 2.1.7. Il ruolo della similarità percepita nella formazione di impressioni e nel giudizio sociale È evidente che la valenza delle informazioni che riceviamo circa una persona ha un impatto determinante sul contenuto dell’impressione che ci si sta formando e sui giudizi di piacevolezza o meno che verranno emessi nei confronti di tale persona. A prescindere dalla connotazione valutativa delle informazioni, un elemento fondamentale che incide sulla qualità delle impressioni è la similarità percepita con la persona su cui ci stiamo formando un’impressione. Tutti gli indicatori che in qualche modo segnalano elementi comuni e condivisi fanno sì che ci si predisponga in modo positivo nei confronti di tale persona. Basti pensare alle strategie messe in atto dai venditori più esperti o da abili politici che sottolineano ad arte presunte identità di interessi o comuni caratteristiche sociodemografiche per aumentare il proprio impatto persuasivo (Cialdini, 1984). Byrne e Nelson (1965) hanno dimostrato ad esempio che

all’aumentare del numero di atteggiamenti condivisi i giudizi di piacevolezza ed il grado di attrazione reciproca cresce in modo lineare (si veda la Fig. 2.2). In altre parole, sembra esserci una relazione di proporzionalità diretta tra similarità percepita e giudizi di piacevolezza. Newcomb (1961) ha riscontrato risultati analoghi analizzando la creazione dei rapporti di amicizia tra gli studenti universitari che abitavano nella medesima casa dello studente. Nelle prime settimane di conoscenza reciproca vi era una profonda variabilità nei giudizi e nei compagni con cui si interagiva, ma dopo circa 8 settimane le amicizie privilegiate iniziavano a configurarsi in modo sufficientemente chiaro seguendo delle regole prevedibili. Infatti, il ricercatore mise in luce come il grado di condivisione di atteggiamenti, ma anche di caratteristiche socio-demografiche (per esempio il provenire da zone rurali piuttosto che urbane), permetteva di prevedere quali relazioni di amicizia si sarebbero instaurate, nonché la forza di questi legami interpersonali. In modo più specifico, uno degli argomenti rispetto ai quali la condivisione di opinioni si rivelava massimamente importante era il giudizio nei confronti degli altri abitanti della casa dello studente. Nello sviluppo dei legami di amicizia appare molto importante non solo avere valori ed atteggiamenti simili, ma anche trovarsi d’accordo nel giudicare le altre persone (G.H. Neimeyer, R.A. Neimeyer, 1981). La similarità di vedute nel modo di valutare gli altri si configura come un potente collante nei rapporti di amicizia e costituisce forse un elemento indispensabile per la loro nascita e continuità nel tempo.

Fig. 2.2. Giudizi di attrazione interpersonale in funzione del grado di condivisione di atteggiamenti (adattata da Byrne, Nelson, 1965).

Anche per quanto riguarda le relazioni di coppia, la similarità tra le due persone coinvolte influisce sulla probabilità di formazione della relazione intima e sulla stabilità del rapporto (Caspi, Herbener, 1990; Hill, Rubin, Peplau, 1976; Rubin, 1973). Questi risultati contrastano con alcune

assunzioni di senso comune secondo le quali nei rapporti di coppia sarebbe importante «completarsi» a vicenda, presumendo che ciascuno debba portare nella coppia quelle caratteristiche mancanti all’altro membro. Ad esempio, secondo questa ipotesi della complementarietà, se una persona ha una personalità dominante la relazione di coppia maggiormente funzionante dovrebbe essere con un partner sottomesso e remissivo. Indubbiamente in molti casi ciò risponde al vero, ma questa non sembra essere la norma. I dati di ricerca sono in questo senso alquanto chiari: la similarità gioca un ruolo assai più importante rispetto alla complementarietà (Meyer, Pepper, 1977; Strong et al., 1988). In linea generale, è il grado di similarità tra due individui piuttosto che la loro complementarietà a determinare la qualità dei giudizi reciproci ed il desiderio di intrattenere relazioni. La similarità percepita tra due individui si basa non solo sulle espressioni verbali d’atteggiamento o sulla manifestazione delle proprie caratteristiche socio-demografiche, ma anche su indicatori assai più sottili come ad esempio i comportamenti non verbali. La ricerca degli ultimi anni ha dimostrato che in modo del tutto spontaneo e non intenzionale le persone tendono ad imitare i comportamenti non verbali dei propri interlocutori, quali la specifica postura, i gesti, le inflessioni del linguaggio (Chartrand, Bargh, 1999). Questo effetto è stato denominato «effetto camaleonte» in quanto come l’animale fa proprie le sfumature cromatiche dell’ambiente in cui si trova, allo stesso modo le persone tendono a far proprie le peculiarità del comportamento non verbale di chi si trovano di fronte. Ciò significa che parlando con una persona che tende ripetutamente a portarsi una mano davanti al volto o a tamburellare con le dita, vi sarà una elevata probabilità di eseguire noi stessi questi identici comportamenti senza rendercene conto. In modo non consapevole, ci si comporta quindi creando degli elementi in grado di accrescere la similarità con l’interlocutore, e ciò risulta particolarmente vero tanto più vi è il desiderio di creare una buona impressione e di instaurare una relazione positiva (Lakin, Chartrand, 2003). Dal punto di vista evolutivo, l’effetto camaleonte risulta funzionale, in quanto accrescendo la similarità tra le persone in interazione tra loro rende più probabile che l’interazione stessa vada a buon fine e venga vissuta come piacevole (Lakin, Jefferis, Cheng, Chartrand, 2003). L’imitazione non consapevole dei comportamenti altrui

può costituire perciò una efficace strategia per rendere più fluide e gradevoli le interazioni con reciproca soddisfazione di tutte le persone coinvolte. Talvolta, l’imitazione dei comportamenti non verbali altrui può essere consapevolmente utilizzata per suscitare una buona impressione sulla persona imitata, rivelandosi una tattica pianificata in grado di dare esiti positivi. Ad esempio, è stato dimostrato che i camerieri addestrati ad imitare i comportamenti dei propri clienti ricevevano mance significativamente più elevate rispetto ai camerieri che non imitavano tali comportamenti (van Baaren, Holland, Steenaert, van Knippenberg, 2003). In fin dei conti, come sarebbe possibile non provare simpatia per qualcuno che con i suoi comportamenti ci ricorda così tanto noi stessi? 2.1.8. La previsione degli atteggiamenti e dei comportamenti altrui: l’effetto del falso consenso Intavolando una chiacchierata con il nostro sconosciuto compagno di scompartimento ferroviario, qual è l’idea più probabile che ci formeremo circa i suoi atteggiamenti politici, la sua visione del mondo o circa il fatto che gli piacciano o meno i cantautori italiani? L’assunzione di fondo che viene spontaneamente formulata è che le altre persone abbiano pensieri e condotte simili alle nostre. Questa tendenza, denominata effetto del falso consenso, può essere definita come la tendenza a sovrastimare la misura in cui i propri comportamenti, credenze ed atteggiamenti siano diffusi nella popolazione e condivisi dalle altre persone. Si tratta quindi di un’euristica di giudizio in cui, in situazioni di incertezza, si utilizzano le proprie personali opinioni per prevedere quelle altrui. Ross ed i suoi collaboratori (Ross, Greene, House, 1977) hanno dimostrato questo effetto in una serie di studi la cui struttura è estremamente semplice. Si tratta di chiedere alle persone di formulare dei giudizi e, in seguito, di indicare quale potrebbe essere la risposta fornita da altre persone. Ad esempio, in uno studio veniva chiesto a degli studenti universitari americani se sarebbero stati disposti ad andare in giro per il campus con dei cartelloni pubblicitari appesi al collo in cambio di un compenso. Circa il 60% dei rispondenti si dichiarò disponibile a fare l’«uomo sandwich», ma il dato più interessante è relativo alla previsione delle risposte altrui a seconda della propria personale decisione. Come si può vedere nella Tabella 2.1, coloro che si dichiarano disponibili a farlo

ritengono che il 62% degli studenti di tale college sarebbe anch’esso disponibile a compiere un simile lavoro. Uno scenario di previsione completamente opposto emerge invece da coloro che non sarebbero disposti in prima persona ad andare in giro per il college con la scritta «Eat at Joe’s» appesa al collo: infatti, i loro giudizi di previsione indicano che la larga maggioranza degli studenti (67%) non acconsentirebbe ad impegnarsi in questa attività.

Tab. 2.1. Previsione rispetto a quante persone sarebbero disposte a compiere un dato comportamento in funzione della disponibilità o meno a compierlo in prima persona (adattata da Ross, Greene, House, 1977).

In situazioni di incertezza, le persone utilizzano quindi le proprie personali opinioni proiettandole negli altri. Questo fenomeno è stato dimostrato in centinaia di studi ed in riferimento agli àmbiti più disparati (Krueger, 1998; Marks, Miller, 1987). Ancora parzialmente controversa è invece la spiegazione del fenomeno. Esistono infatti varie possibili spiegazioni che mescolano aspetti cognitivi e motivazionali. Da un lato, condividiamo il nostro tempo e le nostre esperienze principalmente con persone simili a noi, che quindi hanno un’immagine del mondo simile alla nostra. Ciò significa che si verifica una esposizione selettiva a persone con i nostri stessi atteggiamenti e la nostra stessa visione del mondo e questo può condurre a sovrastimarne la diffusione. Dall’altro lato, ritenere che molti la pensino come noi può rivelarsi rassicurante e confermarci la bontà e l’accuratezza delle nostre idee. Inoltre, come visto in precedenza, l’egocentrismo è una delle caratteristiche basilari delle modalità di pensiero ed anche in questo caso le credenze ed i comportamenti personali, per il semplice motivo che si tratta dei propri, possono essere soggettivamente ritenuti più «veri» e «corretti». A fronte di questa percezione di veridicità e fondatezza, si è indotti a ritenere che le altre persone non possano far altro che condividerle ed accettarle anch’esse. Inoltre, essendo i propri pensieri e le proprie credenze gli elementi più salienti per l’individuo, saranno anche quelli che, con maggiore probabilità, verranno proiettati ed attribuiti ad altri individui. 2.1.9. Crearsi impressioni circa i gruppi: la correlazione illusoria

Le impressioni vengono costruite non solo in riferimento a singoli individui, ma anche rispetto a gruppi sociali. Immaginiamo uno studente che debba decidere in quale casa dello studente andare ad abitare l’anno successivo, e che per prendere questa decisione decida di basarsi sul grado di simpatia dei ragazzi che abitano già nell’una e nell’altra struttura. Egli si porrà perciò il problema di capire quale dei due gruppi abbia le caratteristiche maggiormente positive. Quindi, raccoglierà informazioni su chi abita in ciascuna casa dello studente e sui comportamenti amichevoli o scontrosi che li caratterizzano. Se in questa operazione si ottengono più informazioni sugli abitanti di una specifica casa dello studente e su una specifica tipologia di comportamenti, ad esempio i comportamenti amichevoli, si creano le premesse affinché si produca una distorsione nella percezione dei due gruppi. Questa distorsione viene denominata correlazione illusoria e può essere definita come la tendenza a ritenere che due eventi siano tra loro associati anche quando nella realtà una simile associazione non è presente. Per comprendere meglio questo fenomeno vediamo lo studio originario condotto da Hamilton e Gifford (1976), grazie al quale il fenomeno è stato per la prima volta messo in luce. Nel loro studio, i partecipanti consideravano una serie di 39 frasi in ciascuna delle quali veniva descritto un comportamento positivo oppure negativo. Inoltre, per ciascun comportamento veniva sempre specificato a quale gruppo appartenesse l’attore, che poteva appartenere al Gruppo A oppure al Gruppo B (ad esempio, «XY, un membro del gruppo A, nel suo tempo libero si dedica al volontariato»). In generale, vi era un numero maggiore di comportamenti positivi piuttosto che negativi ed un numero maggiore di comportamenti eseguiti da membri del Gruppo A piuttosto che del Gruppo B. L’elemento essenziale che contraddistingueva le informazioni lette, però, era l’uguale rapporto tra comportamenti positivi e negativi in ciascuno dei due gruppi. Infatti, come si può osservare nella Tabella 2.2, sul totale dei comportamenti eseguiti dai membri di ciascun gruppo, 2/3 sono comportamenti positivi ed 1/3 negativi. Quindi, non vi era nessuna ragione logica per ritenere che uno dei due gruppi fosse migliore dell’altro. Nonostante ciò, le percezioni dei partecipanti allo studio furono ben diverse. Infatti, dopo aver visto il materiale appena descritto emergeva una tendenza sistematica a considerare il Gruppo B in termini più negativi rispetto al Gruppo A, e nel ricordo dei partecipanti vi era la tendenza a

sovrastimare il numero di comportamenti negativi eseguiti dai membri del gruppo B. In altre parole, veniva a crearsi una associazione tra l’essere membro del Gruppo B e l’esecuzione di comportamenti negativi, associazione che era però unicamente nella mente di chi percepiva i gruppi e non nella realtà. Ma perché si crea questa associazione illusoria e soprattutto perché è proprio il Gruppo B ad essere percepito in maniera negativa? Il principio sottostante al fenomeno della correlazione prevede che quando si verificano simultaneamente due eventi infrequenti – e nell’esempio l’appartenenza al Gruppo B ed i comportamenti negativi sono relativamente più rari – questa co-occorrenza viene subito notata e rimane ben impressa. Quindi, gli episodi in cui vi sia la combinazione tra due eventi infrequenti risultano meglio codificati e sono in seguito maggiormente accessibili.

Tab. 2.2. Schema del materiale presentato ai partecipanti (Hamilton, Gifford, 1976).

Lo studente che stava decidendo il suo futuro abitativo, quindi, potrà formarsi impressioni differenti sui due gruppi semplicemente perché riceve quantità differenti di informazioni su tali gruppi e perché un certo tipo di comportamento è più frequente dell’altro. La sua scelta potrà perciò essere, infine, erroneamente guidata dalla convinzione che gli abitanti di una casa dello studente siano effettivamente più simpatici ed amichevoli, convinzione legata alle peculiarità di funzionamento dei suoi processi mentali piuttosto che alle caratteristiche oggettive delle persone percepite. Queste distorsioni nella percezione dei gruppi sono molto importanti in quanto possono costituire uno dei passaggi iniziali attraverso i quali vengono a costituirsi e consolidarsi rappresentazioni stereotipiche dei gruppi sociali (Spears, van der Plight, Eiser, 1985). Innanzitutto occorre sottolineare che dal punto di vista probabilistico molti comportamenti negativi sono, fortunatamente, abbastanza infrequenti e sono quindi degli eventi salienti. Ciò significa che i gruppi minoritari, ovvero i gruppi numericamente inferiori in una data situazione sociale, come ad esempio i gruppi etnici immigrati, tenderanno in virtù della correlazione illusoria ad essere associati a comportamenti negativi ben al di là di quanto consentirebbero i dati statistici.

2.2. Le euristiche nel giudizio sociale Qui di seguito verranno illustrate alcune tipiche euristiche che contraddistinguono i processi di giudizio. Ricordiamo che con il termine euristiche si intendono delle scorciatoie di pensiero grazie alle quali si cerca di formulare giudizi a partire da informazioni limitate. 2.2.1. L’euristica della disponibilità Qual è la percentuale di studenti universitari che lavora oltre a studiare? Frequentemente per rispondere a domande di questo tipo utilizziamo l’euristica della disponibilità che si basa sul recupero dalla memoria di specifici esempi (Tversky, Kahneman, 1973; 1974). Quindi, si potrebbe procedere pensando a tutte le persone conosciute che si trovano in questa veste di studenti-lavoratori e, a seconda del numero e della facilità con cui questi esempi sono stati recuperati, verrebbe formulato il giudizio. Questa operazione è di per sé utile quando non disponiamo di informazioni già definite su un argomento, come ad esempio dei dati statistici ufficiali. Ad ogni modo, si tratta di una strategia fortemente soggetta a possibili distorsioni. Infatti, può essere relativamente difficile pensare ad esempi di studenti-lavoratori in quanto, per definizione, sono meno presenti ai corsi e alle varie attività tipiche degli studenti universitari. Inoltre, anche quando vi sono occasionali opportunità di incontro, come ad esempio durante gli esami, non vi è nulla nell’aspetto fisico che segnali la loro condizione di studenti-lavoratori. Il risultato finale sarà probabilmente una sottostima del numero di studenti-lavoratori. All’opposto, pensiamo ad un candidato politico che stimasse la percentuale di voti ottenibili alle future elezioni sulla base del fatto che in ogni città visitata moltissime persone fossero presenti ai suoi comizi. Questa operazione sarebbe alquanto pericolosa, perché viziata dal fatto che chi assiste ai comizi non costituisce un campione rappresentativo della popolazione, bensì una porzione ben selezionata di essa, mentre le persone che al contrario non voteranno per tale candidato, tenendosi ben lontane dalle sue apparizioni pubbliche, gli risulteranno in un certo qual modo invisibili. In generale, tutti gli esempi che sono vividi e salienti risultano meglio codificati in memoria e più facili da recuperare. Di conseguenza, anche i relativi giudizi di probabilità possono risultare distorti. Slovic ed i suoi

collaboratori hanno mostrato come le morti per omicidio vengano ritenute più frequenti rispetto alle morti per tumore allo stomaco, nonostante i dati oggettivi dimostrino che queste ultime sono ben 17 volte più frequenti (Slovic, Fischhoff, Lichtenstein, 1982). Il fatto che i casi di omicidio vengano trattati ampiamente dai media e catturino l’attenzione porta a sovrastimarne la reale diffusione. Questo tipo di distorsioni di giudizio si presenta frequentemente anche all’interno delle relazioni di coppia. Ad esempio, chiedendo separatamente al marito quale sia le percentuale di lavori domestici che abitualmente svolge, e ponendo la stessa domanda anche alla moglie, si scopre che nella maggioranza dei casi la somma delle singole riposte supera il valore 100 (Ross, Sicoly, 1979). Per chi ha eseguito i lavori, ha lavato i piatti o cucinato, è facile ricordarsi i propri comportamenti, mentre più difficile è ricordarsi ciò che ha fatto il proprio partner. Quindi, una differenza nella facilità di recupero può portare a percezioni asimmetriche all’interno della coppia, con le successive spiacevoli discussioni che ne possono seguire. L’euristica della disponibilità può essere utilizzata anche come strumento per il cambiamento personale. Ad esempio, chiedendo alle persone di immaginarsi in situazioni future può facilitare la percezione che una simile situazione futura sia realizzabile, e aumentare quindi l’impegno in tale direzione. Gregory, Cialdini e Carpenter (1982) hanno mostrato questo effetto in modo molto interessante chiedendo alle persone di immaginare di installare la televisione via cavo a casa propria e di rappresentarsi tutti i vantaggi derivanti da tale installazione. A distanza di tempo, hanno verificato quante persone avessero effettivamente installato questo servizio, constatando che tra coloro che avevano eseguito quel processo di immaginazione la percentuale era decisamente più elevata rispetto a coloro a cui i benefici della televisione via cavo erano stati semplicemente illustrati. Rendendo più facile pensarsi come possessori della televisione via cavo induce a ritenere che un cambiamento in quella direzione sia uno sviluppo naturale e probabile delle cose e, se non vi sono seri motivi per ostacolarlo, lo si asseconda. 2.2.2. L’euristica della rappresentatività Anche l’euristica della rappresentatività gioca un ruolo importante nell’emissione di giudizi di probabilità. Frequentemente siamo chiamati a

compiere operazioni di giudizio probabilistico in situazioni di incertezza, ovvero in presenza di informazioni non esaustive e non altamente diagnostiche. Ad esempio, data una descrizione di personalità può essere difficile stabilire con esattezza se la persona descritta sia effettivamente un membro di una data categoria oppure no. Consideriamo la seguente descrizione tratta da uno studio di Tversky e Kahneman (1974): Steve è una persona molto timida che tende a stare in disparte. È sempre pronto ad aiutare gli altri, ma mostra uno scarso interesse per il mondo e per le persone che lo circondano. È tranquillo e remissivo e ha bisogno che tutto sia sempre chiaro e preciso mostrando una passione per i dettagli.

I partecipanti allo studio di Tversky e Kahneman dovevano indovinare la professione della persona descritta tra una serie di possibili opzioni. L’elenco fornito includeva professioni quali l’artista, il pilota, il bibliotecario, l’operaio, il trapezista o il chirurgo. Ciò che i due ricercatori rilevano è che la maggior parte dei rispondenti ritiene che Steve sia un bibliotecario. Nell’emettere i propri giudizi, i rispondenti hanno confrontato il profilo di personalità di Steve con l’immagine prototipica associata a ciascuna professione riportata nell’elenco, verificando in quale caso fosse maggiore la somiglianza tra i due. Nel nostro esempio, Steve assomiglia molto all’immagine tipica del bibliotecario e ciò porta ad includerlo in tale categoria. Questa operazione che all’apparenza sembra del tutto logica può spesso però nascondere degli errori di ragionamento. Infatti, nel compiere questo confronto con il caso tipico della categoria le persone non tengono adeguatamente conto di altre rilevanti informazioni. Tra queste informazioni che non vengono utilizzate in modo appropriato nella formulazione dei giudizi vi è la cosiddetta probabilità di base: ciò significa che le persone non prendono in considerazione il fatto che, in generale, nella popolazione nel suo insieme, alcuni eventi sono più probabili di altri. Ad esempio, nella popolazione vi sono molti più operai piuttosto che bibliotecari e quindi, a parità di altre condizioni, dovrebbe essere più probabile che Steve sia un operaio piuttosto che un bibliotecario. Nonostante, dunque, vi siano di fondo delle differenti probabilità di occorrenza degli eventi, in cui l’essere un operaio è largamente più probabile dell’essere un bibliotecario, le persone non riescono ad integrare nel modo opportuno questa informazione nei loro giudizi. La ricerca in questo àmbito ha mostrato che vi è una sistematica non considerazione delle probabilità di base (base-rate fallacy; Kahneman,

Tversky, 1973; Nisbett, Ross, 1980), e che l’elemento chiave che attrae l’attenzione e guida i giudizi è semplicemente la somiglianza con il caso tipico, senza la considerazione di quanto tale caso tipico sia effettivamente diffuso. Una chiara dimostrazione di questo fenomeno proviene dal cosiddetto errore di congiunzione (conjunction fallacy), studiato anch’esso da Tversky e Kahneman (1982). I due autori proponevano ai propri soggetti un brano come il seguente: Linda ha 32 anni, è single, brillante e vivace. Ha una laurea in filosofia. Quando era studente era particolarmente sensibile ai temi della discriminazione e della giustizia sociale ed inoltre ha partecipato a manifestazioni contro il nucleare.

Ai partecipanti veniva poi chiesto di stabilire quale delle due seguenti opzioni fosse più probabile: a) Linda è un’impiegata di banca b) Linda è un’impiegata di banca ed è attiva nel movimento femminista

La maggioranza dei rispondenti, corrispondente a circa il 90%, indicò la seconda opzione, ovvero ritenne come più probabile il fatto che Linda fosse simultaneamente un’impiegata bancaria e un’attiva femminista. Ciò vìola ovviamente una regola fondamentale del calcolo probabilistico in quanto la congiunzione o co-occorrenza tra due eventi non può essere più probabile di ciascuno dei due eventi presi singolarmente. Poiché le informazioni contenute nella descrizione sono altamente coerenti con l’immagine delle femministe ecco che i rispondenti vengono attratti da questo dettaglio e si lasciano fuorviare nei loro giudizi. Le errate conclusioni a cui si può giungere a causa del ricorso all’euristica della rappresentatività sono molteplici. Basti pensare ai casi di diagnosi clinica in cui occorre stabilire se una data costellazione di sintomi possa essere ricondotta ad uno specifico disturbo. In simili situazioni, molteplici studi hanno dimostrato l’inaccuratezza del giudizio umano che risulta eccessivamente influenzato dalla similarità con il caso tipico a discapito dei dati oggettivi di tipo epidemiologico. Pericolose conclusioni possono essere tratte anche in riferimento alle percezioni di differenti gruppi sociali. Dovendo decidere se un determinato crimine sia stato commesso da un italiano oppure da un immigrato, si potrebbe essere indotti a sovrastimare la probabilità che il colpevole sia un immigrato, in quanto l’immagine stereotipica ad essi associata ha molti elementi di somiglianza con la rappresentazione astratta di criminale. Tuttavia, ad un esame più attento, ci si accorgerebbe che la popolazione italiana è

decisamente più ampia della popolazione costituita da immigrati e che quindi le probabilità di base sono fortemente differenti. Alla luce di queste differenti probabilità di base, l’inferenza spontanea secondo cui è più probabile che il reato sia stato commesso da un immigrato perderebbe il suo sostegno logico. 2.2.3. L’euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento Questa specifica euristica nasce dalla scarsa capacità delle persone di liberarsi dalle àncore di giudizio che vengono fornite loro. In moltissime occasioni, le persone sono chiamate ad emettere dei giudizi secondo successive approssimazioni, dapprima valutando la propria posizione rispetto ad un punto di riferimento predefinito e poi, con successivi aggiustamenti, raggiungendo una decisione finale. Ciò che decine di studi dimostrano è che il punto di riferimento iniziale rispetto al quale occorre esprimere il proprio giudizio influenza notevolmente le caratteristiche del giudizio finale che verrà prodotto. Immaginiamo di chiedere ad un gruppo di persone di indicare se la percentuale di paesi africani all’interno delle Nazioni Unite sia maggiore o inferiore al 65%. Ad un differente gruppo di persone viene invece chiesto di indicare se tale percentuale sia maggiore o inferiore al 10%. A tutti viene infine chiesto di riportare l’esatta percentuale di paesi africani che essi ritengono essere presenti nelle Nazioni Unite. I risultati mostrerebbero stime decisamente più elevate nel primo gruppo di rispondenti piuttosto che nel secondo: Tversky e Kahneman (1973), in un loro studio, riscontrarono stime rispettivamente pari al 45% e al 25%, spiegando questi dati alla luce della difficoltà che le persone incontrano nel compiere una correzione adeguata – accomodamento – rispetto alla percentuale fornita quale àncora nella precedente domanda. Simili effetti di ancoraggio sono stati riscontrati in svariati àmbiti di giudizi e il fenomeno appare alquanto robusto e difficilmente eliminabile (Plous, 1993). Ad esempio, è stato rilevato che anche l’introduzione di ricompense economiche per coloro che fossero in grado di fornire risposte accurate non era sufficiente a far scomparire il ricorso all’ancoraggio (Wright, Anderson, 1989). Tra gli àmbiti applicativi in cui questa euristica è stata maggiormente studiata vi è quello giudiziario: i verdetti che vengono emessi dalle giurie appaiono fortemente differenti tra loro a

seconda del fatto che i giurati si siano soffermati subito prima a pensare quale sia il massimo o il minimo della pena previsto per lo specifico reato da sanzionare (Greenberg, Williams, O’Brien, 1986). Le condanne risultano assai più severe quando si è preso come iniziale punto di riferimento il massimo della pena, evidenziando una volta ancora la difficoltà di «aggiustare» adeguatamente le proprie valutazioni una volta che nel campo psicologico sia stata introdotta un’àncora di giudizio. 2.2.4. L’euristica della simulazione: il pensiero controfattuale In un piacevole recente film, Sliding doors, vengono mostrate le vite profondamente differenti che la protagonista avrebbe potuto vivere a seconda del verificarsi o meno di piccole coincidenze iniziali. Il fatto di riuscire o meno a prendere la metropolitana può innescare una serie di eventi a catena dalla portata difficilmente prevedibile. Al di là della finzione cinematografica, le persone sono frequentemente impegnate in riflessioni su come la propria vita sarebbe potuta essere se certi eventi non si fossero verificati, se certe decisioni non fossero state prese e così via. Attraverso un’attività immaginativa viene «smontato» il passato e ricostruito mentalmente il futuro che si sarebbe potuto realizzare, ma che non è stato. A questa particolare tipologia di pensieri è stato dato il nome di pensiero controfattuale. L’interesse primario per queste caratteristiche operazioni di simulazione mentale è legato al fatto che possono influenzare in maniera sostanziale il nostro modo di interpretare gli eventi e soprattutto le nostre risposte emozionali ad essi. Ad esempio, quando si verifica un evento negativo, tanto più è facile immaginare un corso alternativo degli eventi tanto maggiori saranno gli stati d’animo di sofferenza e di rimorso. Vediamo il seguente scenario (Kahneman, Tversky, 1982): Mr. Crane e Mr. Tees dovevano prendere aerei differenti previsti però con un identico orario di partenza. A causa dell’intenso traffico arrivarono all’aeroporto con 30 minuti di ritardo rispetto all’orario previsto di partenza. A Mr. Crane viene comunicato che il suo aereo è partito in orario. A Mr. Tees viene comunicato che l’orario di partenza del suo aereo era stato differito, ma che nonostante questo l’aereo era ormai partito da 5 minuti.

Nonostante l’esito finale sia il medesimo per entrambi i protagonisti, ovvero entrambi hanno perso il proprio aereo, le persone ritengono che sarà Mr. Tees a provare le più forti esperienze di tristezza e disappunto. Nel suo caso è più facile immaginarsi cosa sarebbe successo «se solo l’aereo

avesse tardato ancora qualche minuto» o «se solo uno dei semafori incontrati lungo la strada non fosse stato rosso». La facilità con cui degli esiti alternativi sono immaginabili da parte dell’individuo rende più estreme le reazioni affettive provate. Un ulteriore esempio in questo senso ci viene dall’esame dei volti dei protagonisti delle competizioni sportive. Medvec, Madey e Gilovich (1995) hanno videoregistrato le premiazioni degli atleti nel corso delle Olimpiadi del 1992, rilevando come i vincitori delle medaglie di bronzo fossero assai più felici e sorridenti rispetto ai secondi classificati che avevano vinto la medaglia d’argento. Per i terzi classificati il più vicino futuro alternativo alla realtà risultava essere un piazzamento fuori dal podio e quindi manifestavano gioia per quanto ottenuto. Al contrario, per i secondi classificati, essendo arrivati così vicino al suo conseguimento, era mentalmente più rilevante la possibilità di vittoria. Ciò faceva sì che tali atleti non riuscissero a godere appieno del loro comunque ottimo risultato, ma si tormentassero per questo irrealizzato futuro alternativo che era così vicino ad essi. Questi fenomeni si realizzano non solo ripensando al passato ma anche nel momento in cui si tratta di prendere delle decisioni che possono influenzare il futuro. In questi casi, ci si rappresenta mentalmente come ci si sentirà qualora dovessimo prendere una specifica decisione e gli eventi successivi dovessero poi darci torto. Immaginiamo di proporre ad una persona che abbia appena giocato una schedina al superenalotto di vendercela in cambio della somma appena pagata più un ulteriore incentivo economico. Quanto si rileva è che pochissime persone sono disposte a farlo proprio perché si raffigurano quale stato di profondo malessere proverebbero qualora la loro schedina dovesse risultare vincente (Bar-Hillel, Neter, 1996). Sebbene dal punto di vista razionale la vendita immediata della propria schedina risulterebbe essere un conveniente affare, la paura del rimorso futuro rende assai riluttanti a cederla.

2.3. L’attribuzione causale I comportamenti, sia verbali che non verbali, presentano molti elementi di ambiguità. Non è agevole risalire in modo univoco a cosa si celi dietro un comportamento e lo abbia determinato. Nei giorni in cui queste pagine sono state scritte, alcuni fatti di cronaca dominano le pagine

dei quotidiani, i servizi dei telegiornali e gli immancabili talk-show televisivi: alcuni commercianti nel corso di tentativi di rapina ai loro negozi hanno reagito con violenza uccidendo dei rapinatori. L’acceso dibattito su questi episodi vede due posizioni tra loro contrapposte: da un lato, taluni accusano i commercianti implicati di essere persone violente, che hanno abusato del possesso di un’arma per uccidere deliberatamente altre persone, pur in mancanza di motivi sufficientemente gravi che giustificassero questo ricorso alle armi; dall’altro, all’opposto, molti altri hanno preso le difese di tali commercianti sostenendo che in simili circostanze tutti si sarebbero comportati nello stesso modo, e che i commercianti «in quella specifica situazione non avrebbero potuto comportarsi altrimenti». Ciò che ci interessa sottolineare nell’esame di queste vicende è che il primo tipo di spiegazione rimanda a caratteristiche interne delle persone coinvolte, ritenute violente e poco attente al valore della vita umana, e quindi le vede responsabili di quanto accaduto. La seconda spiegazione rimanda invece alle caratteristiche della situazione, ritenute cause determinanti dei comportamenti, diminuendo quindi la responsabilità delle persone implicate. Questa differenza sostanziale nei due tipi di spiegazione è l’elemento cardine delle teorie sull’attribuzione causale che vedremo di seguito. In generale, ciò che risulta importante è in che misura i comportamenti vengano spiegati facendo riferimento a caratteristiche interne dell’attore (cioè, cause disposizionali), o a caratteristiche esterne che rimandano alla situazione in cui il comportamento si realizza (cioè, cause situazionali; Heider, 1958). 2.3.1. La teoria dell’inferenza corrispondente di Jones e Davis Questa teoria cerca di comprendere quando un comportamento verrà spiegato facendo riferimento ad attribuzioni disposizionali oppure situazionali (Jones, 1990; Jones, Davis, 1965). In particolare, secondo Jones e Davis, una serie specifica di elementi viene analizzata per definire se una attribuzione a caratteristiche interne sia adeguata: la volontarietà dell’azione, gli effetti non comuni, la desiderabilità sociale e le aspettative. Immaginiamo di voler comprendere perché uno studente decida di andare ad abitare in una casa dello studente piuttosto che in un’altra. Innanzitutto occorre verificare se il comportamento è espressione di un atto di volontà. Se manca questo aspetto di volontarietà, perché ad esempio

vi sono forti pressioni esterne verso una determinata scelta, non potremo ricondurre il comportamento a caratteristiche interne dell’attore. In secondo luogo, occorre verificare quali elementi di differenza contraddistinguano le due case dello studente. Infatti, gli elementi comuni non sono affatto informativi, ma sono gli effetti non comuni della scelta effettuata che ci permettono di capire qualcosa di più. Ad esempio, se entrambe le case dello studente si trovano nello stesso quartiere, godono degli stessi vantaggi logistici, ma se una di esse ha una sala per la proiezione di film mentre l’altra ha una palestra, ecco allora che il sapere che la scelta è stata in favore dell’abitazione dotata di palestra ci permette di inferire che lo studente ama probabilmente fare sport e si dedica alla cura della sua forma fisica. In terzo luogo, i comportamenti diventano particolarmente informativi delle caratteristiche interne dell’attore quando essi vengono socialmente disapprovati e quindi violano le norme e i princìpi di desiderabilità sociale. Infatti, se un comportamento viene eseguito per compiacere gli altri ci dice poco rispetto alle reali caratteristiche di chi lo esegue. Al contrario, il fare qualcosa a dispetto della disapprovazione degli altri segnala una forte motivazione interna e quindi diventa diagnostico delle disposizioni interne della persona. Infine, le aspettative rivestono un peso importante, in quanto le attribuzioni interne sono più probabili per i comportamenti che contrastano con le nostre aspettative. Ad esempio, se un tenente dell’esercito si trova in panne con la sua macchina ed un sergente che passava di lì casualmente accorre in suo aiuto, sarebbe difficile riuscire a trarre conclusioni univoche sull’altruismo del sergente, in quanto il suo comportamento potrebbe essere davvero il frutto di altruismo, ma anche delle prescrizioni associate al suo ruolo e alla sua posizione gerarchica; al contrario, se ad accorrere in aiuto fosse un colonnello risulterebbe più probabile attribuire il comportamento ad una sua disposizione interna di altruismo (Thibaut, Riecken, 1955). 2.3.2. Il modello della covariazione di Kelley Questo modello proposto da Kelley (1967) prevede che di fronte ad ogni comportamento gli individui lo valutino lungo tre differenti dimensioni per giungere ad una definizione delle cause che lo hanno prodotto. Queste tre dimensioni sono la distintività, la coerenza ed il consenso, e ciascuna di essa può assumere valori elevati oppure bassi. Da

ciascuna possibile combinazione tra alti e bassi livelli di queste tre dimensioni nascono attribuzioni differenti, che possono coinvolgere primariamente le caratteristiche interne della persona o la situazione. Il modello di uomo proposto da Kelley è quello di un essere razionale, una sorta di scienziato ingenuo, in grado di esaminare le covariazioni tra le dimensioni e di trarre da esse le inferenze più appropriate. Supponiamo che un amico ci consigli di andare a mangiare in una determinata trattoria elogiando le prelibatezze che ha gustato in quel locale. Secondo Kelley, per capire in che misura fidarsi del consiglio, l’individuo dovrebbe cercare innanzitutto informazioni sul consenso, ovvero informazioni rispetto a quante altre persone siano restate effettivamente soddisfatte dopo aver mangiato in quella trattoria. In secondo luogo, bisognerebbe avere indicazioni circa la distintività del comportamento, verificando se l’amico che ci ha dato il consiglio sia una buona forchetta che ogni trattoria riesce a soddisfare oppure se l’amico sia una persona dai gusti difficili che raramente si sbilancia in giudizi entusiastici. In ultima istanza occorre verificare la coerenza, ovvero chiedersi se sempre, quando l’amico va in quel locale, risulta soddisfatto oppure se si tratti di un evento episodico. Come detto, dalla combinazione delle tre dimensioni derivano attribuzioni differenti: ad esempio, se quasi nessuno mangia bene in quel locale (consenso basso), il nostro amico è sempre entusiasta di tutti i locali in cui mangia (distintività bassa), e sempre si dichiara soddisfatto di quello specifico locale (coerenza elevata), allora l’attribuzione più probabile sarà riconducibile alle caratteristiche interne dell’amico; al contrario, se quasi tutti mangiano bene in quella trattoria (consenso elevato), il nostro amico difficilmente si sbilancia in elogi (distintività elevata), ma sempre mangia bene in quella specifica trattoria (coerenza elevata), risulta probabile che siano le effettive ottime caratteristiche della trattoria l’origine dei positivi apprezzamenti. Infine, se quasi nessuno mangia bene in quel locale (consenso basso), il nostro amico è parsimonioso nel dare giudizi positivi sulle trattorie (distintività elevata), e nel passato non si era mai trovato così bene nel mangiare in quel locale (coerenza bassa), l’attribuzione più probabile è di tipo situazionale. Bisognerebbe quindi cercare nelle specifiche circostanze il perché di questa soddisfazione e magari scoprire che l’amico si è semplicemente invaghito della cameriera che è stata da poco assunta in tale trattoria.

Il limite sostanziale del modello di Kelley è che raramente le persone hanno a disposizione tutte le informazioni su consenso, coerenza e distintività. In particolare, con estrema infrequenza si dispone di informazioni dettagliate ed affidabili rispetto a cosa pensino le altre persone. Per questo motivo, la dimensione del consenso assume un peso inferiore rispetto alla distintività che, a sua volta, è meno utilizzata rispetto alla coerenza (Harvey, Weary, 1981). Inoltre, procedere con l’esame simultaneo di tutte e tre le dimensioni richiede estrema attenzione, ed è quindi un tipico caso di processo controllato che richiede risorse cognitive per essere eseguito, tanto da ricorrere ad esso probabilmente solo nelle occasioni in cui si è fortemente motivati, ma non nelle spontanee attribuzioni che realizziamo nella nostra vita quotidiana. 2.3.3 Il modello di Weiner Questo modello più che soffermarsi su quali informazioni debbano essere utilizzate in modo prescrittivo nei processi di attribuzione, come invece fanno il modello di Jones e Davis ed il modello di Kelly, valuta, al contrario, le conseguenze a cui il compiere determinate inferenze può portare (Weiner, 1979; 1986). In particolare, vengono valutate le spiegazioni che le persone forniscono nei casi di successo e di fallimento, osservando come al variare dell’utilizzo di tre specifiche dimensioni siano anche differenti le conseguenze per la persona che è andata incontro a successo o fallimento. Le tre dimensioni critiche previste dal modello sono il locus dell’attribuzione, che può essere interno (cioè, caratteristiche della persona) o esterno (cioè, caratteristiche della situazione), la stabilità dei fattori coinvolti, ovvero se sono stabili nel tempo oppure transitori, e la controllabilità o meno di tali fattori da parte della persona coinvolta. Immaginiamo uno studente che superi brillantemente un esame e che si soffermi a cercare di spiegare questo successo. Come si può vedere nella Tabella 2.3, dalla combinazione delle tre dimensioni scaturiscono 8 possibili modalità di spiegazione. Tanto più si farà ricorso a spiegazioni interne e di tipo stabile, come ad esempio il possesso di abilità o la tenacia abitudinariamente posta nel raggiungimento degli obiettivi, tanto più la persona aumenterà la fiducia in se stessa e la consapevolezza che in futuro potrà nuovamente ottenere simili risultati positivi. Al contrario, all’aumentare dell’instabilità il successo ottenuto diventa meno diagnostico

rispetto agli esiti di prestazioni future e il ricorso a spiegazioni esterne diminuisce l’accrescimento personale che può derivare dal conseguimento di un importante risultato. Un’applicazione importante del modello di Weiner ha proprio a che fare con le strategie di mantenimento dell’autostima. Infatti, diventa particolarmente utile verificare le strategie di spiegazione dei propri comportamenti da parte di persone che soffrono di una bassa autostima, e che quindi hanno una immagine di se medesime abbastanza negativa. Quello che si riscontra è che queste persone tendono sistematicamente a spiegare i propri successi nei termini di cause esterne non controllabili – come ad esempio il fatto di aver avuto fortuna nello svolgere un compito o la considerazione che il compito risultava alquanto semplice – e non prendono invece in considerazione la possibilità che le proprie qualità di intelligenza e competenza possano aver condotto al risultato positivo. All’opposto, nei casi di insuccesso il richiamo immediato è alle proprie limitate capacità che in generale si ritiene non permettano il raggiungimento di alcun successo. Queste strategie attribuzionali diventano così un pericoloso meccanismo attraverso il quale gli esiti negativi vengono usati per confermare un’immagine negativa di sé e gli esiti positivi non riescono a scalfirla, venendo spiegati sulla base di elementi esterni che nulla hanno a che fare con le doti personali.

Tab. 2.3. Schema riassuntivo del modello di Weiner (1986) applicato alla spiegazione di un risultato positivo.

Il tipo di spiegazione fornita in risposta ai propri successi e fallimenti conduce quindi ad importanti conseguenze, ed alcuni autori si sono interrogati circa la possibilità di modificare gli stili attribuzionali disfunzionali (Wilson, Linville, 1982). Ad esempio, facendo in modo che persone con una bassa autostima inizino a prendere in considerazione anche le cause esterne che possono aver condotto ai propri insuccessi, ci si attendono miglioramenti nel modo in cui queste persone affronteranno gli impegni della vita. Brockner e Guare (1983) hanno indagato esattamente questa possibilità, facendo svolgere ai loro partecipanti, studenti con bassa o alta autostima, un compito estremamente complesso che nessuno riusciva a risolvere. Quindi, tutti andavano necessariamente incontro ad un

fallimento nella prova. Al termine del compito, gli sperimentatori intervenivano dicendo ad una parte dei soggetti che il compito era alquanto semplice e che quindi il loro fallimento doveva esser dovuto ad una mancanza di capacità (attribuzione interna). Ad altri partecipanti allo studio, invece, veniva detto che il compito era particolarmente difficile e che questo era sicuramente il motivo per cui non erano stati in grado di risolverlo (attribuzione esterna). Ad un terzo gruppo di partecipanti, infine, non veniva detto nulla circa il compito (condizione di controllo). In seguito tutti i partecipanti erano chiamati a svolgere una seconda prova, più semplice della precedente, e l’elemento di interesse riguarda proprio il livello di prestazione nelle varie condizioni dell’esperimento: da un lato i partecipanti con un elevato livello di autostima non venivano particolarmente influenzati dal feedback ricevuto circa le probabili cause del fallimento nel compito precedente, dall’altro i partecipanti con un basso livello di autostima risultavano essere alquanto sensibili al tipo di feedback. Infatti, nella condizione in cui viene indotta una attribuzione interna e nella situazione di controllo la loro prestazione, nella seconda prova, risulta essere alquanto bassa. Al contrario, quando viene indotta una attribuzione esterna la performance nel compito successivo diventa particolarmente brillante. Questi risultati ci indicano che queste persone con una bassa autostima tenderebbero spontaneamente a spiegare i propri insuccessi sulla base di attribuzioni interne, e che questo comportamento si riflette in basse prestazioni in compiti successivi. Se però questo meccanismo viene spezzato, forzando il ricorso ad attribuzioni di tipo esterno, si riscontra invece un miglioramento delle prestazioni, a dimostrazione del fatto che frequentemente non sono le capacità in assoluto che determinano la qualità delle prestazioni, ma anche il modo di percepirsi in relazione ad esse e le modalità attraverso le quali interpretiamo gli eventuali successi o insuccessi del nostro passato.

Fig. 2.3. Prestazione di soggetti con bassa autostima a seconda del feedback ricevuto dopo un precedente insuccesso (tratta da Brockner, Guare, 1983).

2.3.4. L’errore fondamentale di attribuzione Nelle normali situazioni della vita quotidiana, osservando i comportamenti delle altre persone si hanno, come detto, due tipologie ben differenti di attribuzioni possibili: attribuzioni disposizionali, che rimandano alle caratteristiche interne della persona («X ha dato un euro ad un mendicante perché è altruista»), oppure attribuzioni situazionali, che rimandano alle specificità del contesto in cui il comportamento ha avuto luogo («X ha dato un euro ad un mendicante perché voleva far colpo sulla sua nuova compagna»). I dati di ricerca mostrano che il ricorso a queste due tipologie di attribuzioni non avviene in egual misura. La tendenza sistematica che si riscontra è quella di sottostimare la misura in cui i comportamenti vengono plasmati dalle caratteristiche della situazione e di sovrastimare, invece, la misura in cui tali comportamenti sono il riflesso di caratteristiche interne dell’attore. Questo fenomeno viene definito errore fondamentale di attribuzione, o errore di corrispondenza (Gilbert, Malone, 1995; Jones, 1990). Seguendo eventi sportivi in televisione si rimane frequentemente sbalorditi dalla ricchezza di dettagli che alcuni cronisti forniscono circa la carriera dei giocatori in campo, i precedenti incontri tra le squadre coinvolte e così via. In questi casi, gli ascoltatori compiono frequentemente inferenze circa la preparazione e la competenza dei cronisti. Sono del tutto lecite queste inferenze? Infatti, con ogni probabilità non vengono accuratamente prese in considerazione le condizioni in cui lavora il cronista, come ad esempio il fatto di avere su ogni giocatore delle schede dettagliate che in molti casi deve semplicemente limitarsi a leggere

agli ammirati ascoltatori. Ross ed i suoi colleghi hanno dimostrato questa tendenza a sottovalutare l’influenza del contesto attraverso la simulazione di un gioco a quiz (Ross, Amabile, Steinmetz, 1977). Un partecipante allo studio aveva il ruolo dell’intervistatore che doveva porre le domande, un secondo partecipante assumeva il ruolo del concorrente, e ad altri invece veniva chiesto di fare da pubblico. Il compito dell’intervistatore era quello di recuperare tra le proprie conoscenze 10 domande abbastanza difficili, ma non impossibili, da porre al concorrente. Quindi, era l’intervistatore a decidere quali domande porre. In media, il concorrente riusciva a rispondere a 4 domande sulle 10 che gli venivano poste. Al termine di questa simulazione, a tutti i partecipanti coinvolti veniva chiesto di formulare un giudizio sul presunto grado di conoscenza generale posseduto dall’intervistatore e dal concorrente. Come si può vedere nella Fig. 2.4, l’intervistatore è consapevole del ruolo privilegiato in cui si trova e dà giudizi molto simili su se stesso e sul concorrente. Al contrario, sia il concorrente che il pubblico non riescono a tener conto del fatto che l’intervistatore poteva scegliere le domande a suo piacimento e quindi, ovviamente, porre domande di cui conosceva la risposta. Questa sottovalutazione delle influenze situazionali li portava perciò ad esagerare il grado di conoscenza generale posseduta dall’intervistatore, ritenendolo una persona di grandissima cultura. Con ogni probabilità, se l’intervistatore ed il concorrente avessero invertito i loro ruoli si sarebbero ribaltati anche i giudizi. In modo chiaro, vengono effettuate inferenze disposizionali ignorando la rilevanza che la specifica strutturazione della situazione può aver avuto.

Fig. 2.4. Giudizi sulle conoscenze generali possedute dall’intervistatore e dal concorrente (adattata da Ross,

Amabile, Steinmetz, 1977).

Un ulteriore studio classico che ci mostra questa tendenza a sottovalutare la forza con cui le situazioni plasmano i comportamenti è stato condotto da Jones e Harris (1967). I due autori erano interessati a verificare il modo in cui gli individui inferiscono gli atteggiamenti delle altre persone a partire da comportamenti che non sono il frutto di una libera scelta. Immaginiamo un portavoce che debba assolvere i suoi obblighi professionali leggendo un documento in cui si annunciano nuove tasse e un irrigidimento delle modalità di accesso all’Università. Cosa possiamo dire circa l’atteggiamento di tale portavoce? Sapendo che egli ha semplicemente letto un comunicato scritto da altri in quanto previsto dal suo ruolo, dal punto di vista logico non possiamo compiere alcuna inferenza circa i suoi atteggiamenti. Nonostante ciò, la tendenza risulta quella di inferire un accordo con i contenuti pronunciati. Jones e Harris (1967) hanno chiesto ai partecipanti al loro studio di leggere un brano, scritto da un altro studente, in cui venivano proposti argomenti a favore o contrari al regime castrista a Cuba. Il compito era quello di cercare di indovinare quali fossero le reali opinioni dell’autore del brano nei confronti del regime castrista. L’elemento chiave dello studio era però la suddivisione dei partecipanti in due gruppi. Infatti, ad alcuni partecipanti veniva detto che l’autore del brano aveva potuto decidere quale posizione sostenere all’interno del suo scritto, mentre ad altri veniva detto che la posizione da difendere era stabilita a priori e quindi l’autore del brano doveva seguire le direttive esterne che lo obbligavano a scrivere qualcosa a favore o contro Fidel Castro. Come si può vedere nella parte sinistra della Fig. 2.5, quando si ritiene che vi sia una libera scelta, i rispondenti ragionevolmente inferiscono che se gli argomenti avanzati sono a favore di Castro anche l’atteggiamento dell’autore sarà favorevole a Castro, e viceversa per i brani con argomenti contrari al regime castrista. Sebbene con minor forza, lo stesso pattern di risultati emerge anche qualora si sappia della mancanza di scelta nel decidere quali argomenti sostenere. Anche in questo caso, dal tipo di comportamento si inferisce un atteggiamento sottostante, non tenendo conto del fatto che il comportamento era unicamente riconducibile alle costrizioni della situazione e quindi non poteva essere in alcun modo diagnostico rispetto alle effettive opinioni dell’autore del brano.

Fig. 2.5. Stima dell’atteggiamento dell’autore del brano a seconda del contenuto del brano e della libera scelta o meno accordata all’autore del brano (adattata da Jones, Harris, 1967).

Daniel Gilbert (1989) ha proposto un modello a due fasi per spiegare i processi attribuzionali. Secondo Gilbert, la prima operazione che viene spontaneamente realizzata prevede l’inferenza di caratteristiche disposizionali a partire dall’osservazione dei comportamenti. Queste inferenze disposizionali avverrebbero quindi in modo automatico, e sistematicamente condurrebbero all’errore fondamentale di attribuzione. Solo in un secondo momento si dà il via, talvolta, ad un processo aggiuntivo di correzione o aggiustamento, volto ad integrare anche le informazioni inerenti le influenze situazionali. Questo processo di analisi dei fattori contestuali che possono aver influenzato i comportamenti non sempre però viene portato avanti, e comunque non necessariamente riuscirà a prendere in considerazione nel modo più adeguato tutte le effettive influenze situazionali. Quindi, attraverso questo secondo stadio di elaborazione non sempre si raggiunge un ottimale accomodamento (Gilbert, Pelham, Krull, 1988). Ad esempio, incontrando una donna che si comporta in modo particolarmente agitato, l’inferenza che viene immediatamente prodotta è che si tratti di una donna «ansiosa e nervosa», ma anche volendo essere maggiormente accurati, ricercando quindi i fattori situazionali coinvolti, molti di essi, quali i cicli ormonali della persona o i suoi dissidi di coppia, rimarranno ignoti facendo sì che siano sempre le inferenze disposizionali a dominare la percezione sociale. La costante ricerca dei presunti elementi disposizionali che possono aver condotto all’esecuzione di uno specifico comportamento è probabile che svolga una importante funzione adattiva per l’individuo. Infatti, è

lecito presumere che le attribuzioni causali siano funzionali per un buon adattamento all’interno del proprio ambiente sociale. Riuscire a spiegare i comportamenti passati di una persona, ovvero capire perché abbia agito in un determinato modo, può risultare altamente utile al fine di prevedere i comportamenti futuri di questa stessa persona. In questo senso, le attribuzioni disposizionali racchiudono in sé la massima capacità informativa. Infatti, spiegando un certo comportamento nei termini delle caratteristiche della situazione significa acquisire elementi per prevedere come l’attore si potrebbe comportare solo se dovesse ripresentarsi la stessa identica situazione. La capacità previsionale sarebbe alquanto accurata, ma anche vincolata alle specificità del contesto in cui l’azione si realizza. Ad esempio, sapere che una persona si comporta in modo agitato perché la moglie gli ha appena comunicato di essere incinta, ci permette di prevedere cosa succederà nel caso in cui questa persona dovesse ricevere in futuro ulteriori simili notizie. Del resto, spiegare il comportamento di agitazione sulla base dell’azione di fattori esterni non permette di compiere inferenze circa il comportamento in altre situazioni. Le attribuzioni disposizionali consentono al contrario di generalizzare le conclusioni a cui si è giunti a partire dall’osservazione di un singolo comportamento. Riconducendo il comportamento di agitazione ad una stabile caratteristica di personalità dell’attore diventa plausibile ritenere che, anche al variare dei contesti, l’attore stesso si comporti in modo coerente e manifesti quindi agitazione. Tutto ciò, ovviamente, non significa che le previsioni formulate a partire da attribuzioni disposizionali si rivelino corrette. Tali previsioni costituiscono però delle preziose «ipotesi di lavoro», delle aspettative sui probabili comportamenti da attendersi, che permettono quindi di affrontare le interazioni con un sufficiente senso di controllo. Lo studio dei processi attribuzionali, e dell’errore fondamentale di attribuzione in particolare, ha permesso di comprendere il ruolo fondamentale che viene assolto dalla cultura di appartenenza nell’indirizzare e regolare molti processi cognitivi. Infatti, la tendenza ad inferire caratteristiche disposizionali dai comportamenti risulta estremamente forte nelle culture occidentali, che vengono definite individualiste, mentre si attenua alquanto nelle culture orientali definite collettiviste (Morris, Peng, 1994). Nelle società individualiste viene valorizzato l’individuo con la sua identità personale ed unica, e per questo

motivo diventa importante cercare di ricostruirne i tratti essenziali attraverso il ricorso ad inferenze disposizionali. Diversamente, nelle società collettiviste è la fitta rete di rapporti sociali tra gli individui che assume la massima importanza, e quindi l’individuo viene sempre percepito come un elemento legato agli altri e non isolabile rispetto al contesto sociale in cui è inserito. Questa è probabilmente la ragione per cui in questo tipo di società vi è un maggiore utilizzo di inferenze situazionali che cercano, appunto, di integrare anche le possibili influenze contestuali nella spiegazione dei comportamenti. 2.3.5. La differenza attore-osservatore nei processi attribuzionali Sebbene, almeno nelle culture occidentali, la tendenza a compiere attribuzioni interne all’attore piuttosto che esterne sia particolarmente marcata, ciò non si verifica quando si tratta di spiegare i propri personali comportamenti. Ad esempio, quando dobbiamo spiegare perché altre persone nel traffico cittadino eseguano spericolate manovre si è sempre ben pronti a ricondurle a non particolarmente positive caratteristiche interne del guidatore, mentre quando si è in prima persona autori di qualche azzardo, ecco che spiegazioni situazionali vengono prontamente difese («Sono stato costretto ad andar veloce perché se fossi arrivato tardi al lavoro avrei rischiato il posto»). In modo assai semplice è possibile dimostrare questo effetto di asimmetria proponendo una lista di tratti di personalità con tre possibili opzioni di risposta, «Sì», «No» e «Dipende dalla situazione», e chiedendo di rispondere descrivendo se stessi oppure delle persone ben conosciute. Quello che si rileva è che l’opzione «Dipende dalla situazione» viene scelta in modo significativamente più frequente in riferimento a se stessi piuttosto che agli altri (Goldberg, 1978; Nisbett, Caputo, Legant, Marecek, 1973). In sintesi, le differenze attoreosservatore possono essere descritte come la tendenza sistematica a spiegare il comportamento altrui nei termini di fattori disposizionali, ed il proprio nei termini di influenze situazionali (Jones, Nisbett, 1972). Una spiegazione delle asimmetrie attore-osservatore nei processi attribuzionali è riconducile a processi cognitivi di base legati al differente tipo di informazioni che queste due figure posseggono. Infatti, l’osservatore esterno indirizza la sua attenzione verso colui che sta eseguendo il comportamento ed è, quindi, secondo il punto di vista

dell’osservatore, la figura dell’attore che domina la scena. Di conseguenza, questa figura dominante costituita dall’attore andrà a catalizzare i processi esplicativi dell’osservatore. Al contrario, il focus dell’attenzione che contraddistingue l’attore stesso è principalmente rivolto all’esterno piuttosto che verso se stesso. Chi esegue un dato comportamento non ha la possibilità di vedersi mentre realizza il comportamento stesso, ma sarà massimamente attento alle caratteristiche della situazione ed ai feedback che provengono dall’ambiente. Ecco allora che il proprio comportamento non risulterà particolarmente rilevante in confronto alle forze situazionali esterne che fanno da cornice all’azione. Per l’attore saranno quindi queste forze situazionali esterne ad assumere un ruolo predominante nei processi attribuzionali. Una chiara dimostrazione di questi fenomeni è stata fornita dai lavori di Storms (1973) e di Taylor e Fiske (1975): grazie a questi studi si è rilevato che è il particolare punto di vista delle persone a determinare la qualità delle attribuzioni prodotte. Ad esempio, le persone che assistono all’interazione tra due individui vedendone direttamente uno solo, tendono a sovrastimare il ruolo giocato da questo attore per loro percettivamente saliente a discapito dell’altro. Si ritiene quindi che siano principalmente le caratteristiche interne dell’individuo che è possibile vedere direttamente a determinare il corso dell’interazione. Allo stesso modo, un attore a cui sia data la possibilità di rivedere il proprio comportamento grazie ad una videoregistrazione, tende a modificare le iniziali attribuzioni situazionali prodotte per spiegare il proprio comportamento, rendendo ora più marcato il ricorso ad attribuzioni disposizionali. Questi risultati testimoniano la forza con cui gli elementi che dominano il campo percettivo, risultando altamente salienti, possono dominare anche il campo psicologico, determinando il modo in cui la realtà viene soggettivamente interpretata. Un ulteriore motivo sottostante alle asimmetrie tra attore ed osservatore è legato alle differenti conoscenze pregresse possedute da queste due figure. Immaginiamo un giovane studente che debba fare una serie di presentazioni in aula e in ciascuna di esse si comporti in modo particolarmente ansioso. Il docente, avendo modo di vedere lo studente solo nel contesto dell’aula, sarà portato ad inferire che l’ansia è una caratteristica disposizionale dell’attore in quanto sistematicamente il suo comportamento segnala ansia. L’osservatore non dispone di altre situazioni

in cui egli possa sottoporre a verifica la conclusione a cui è giunto. Al contrario, l’attore può essere consapevole del fatto che, in altri contesti, come ad esempio quando suona con la sua band, il suo comportamento è alquanto disinibito e tutt’altro che ansioso, e ciò gli permette quindi di attribuire alla specifica situazione d’aula la propria ansia piuttosto che ad una stabile caratteristica di personalità sottostante. In altre parole, l’attore nel compiere le proprie attribuzioni può basarsi su uno spettro più ampio di informazioni e sapere che certe inferenze disposizionali non risultano valide ed applicabili, in quanto al variare delle situazioni variano anche i suoi comportamenti. Il singolo comportamento diventa quindi per l’attore meno diagnostico delle caratteristiche di personalità possedute. Questi argomenti si ricollegano ad un problema di tipo più generale che ha a che fare con il grado di accuratezza con cui si formulano attribuzioni e con cui ci si forma delle impressioni. Confrontando il modo in cui una persona descrive se stessa ed il modo in cui gli altri la percepiscono, si scopre che queste due rappresentazioni sono solo scarsamente coincidenti. Osservando una persona anche solo per pochi minuti è possibile formarsi una prima sommaria impressione, che è in grado di catturare alcuni elementi che contraddistinguono l’attore, ma il grado di imprecisione di questa iniziale impressione è assai elevato (De Paulo, Kenny, Hoover, Webb, Oliver, 1987). Nonostante questa elevata imprecisione, le persone nutrono però eccessiva fiducia nella correttezza delle proprie impressioni, sovrastimandone l’accuratezza (Dunning, Griffin, Milojkovic, Ross, 1990). Ovviamente, la qualità delle proprie impressioni si perfeziona con l’aumentare della conoscenza diretta: gli amici intimi possiedono quindi reciproche rappresentazioni più articolate e precise. È comunque sorprendente rilevare come anche nel caso di amici intimi il modo in cui una persona vede se stessa presenta assai ampie differenze rispetto al modo in cui è percepita dagli amici (Funder, Colvin, 1988), nonostante questi amici siano convinti di conoscersi a fondo e di non aver segreti gli uni per gli altri. Esiste inoltre una terza classe di ragioni per cui si riscontrano differenze sostanziali tra le attribuzioni degli attori e quelle degli osservatori. Queste ragioni sono più propriamente di tipo motivazionale e si evidenziano con chiarezza nel momento in cui i comportamenti sono marcatamente positivi o negativi. Infatti, quando i comportamenti sono positivi anche

l’attore risulta propenso a ricondurli a stabili caratteristiche interne. In questo caso si parla di attribuzioni a proprio favore (self-serving attributions), in quanto la loro funzione non è semplicemente quella di dare un senso agli eventi, ma di farlo permettendo di raggiungere o mantenere una positiva immagine di sé (Miller, Ross, 1975). Ad esempio, in uno studio sulle attribuzioni effettuate dagli insegnanti si rilevava come i successi degli studenti venissero prevalentemente ricondotti alle proprie capacità di insegnamento, mentre le scarse prestazioni degli studenti fossero attribuite a colpe o incapacità degli studenti stessi (Johnson, Feigenbaum, Weisbeg, 1964): da un lato si ha un autoinnalzamento nei casi di risultati positivi, e dall’altro attribuzioni protettive qualora i risultati siano negativi.

3. I processi di categorizzazione e gli schemi nella percezione sociale

In questo capitolo esamineremo dapprima le modalità con cui le persone categorizzano ciò che incontrano nell’ambiente, per poi occuparci di come, a partire da queste avvenute categorizzazioni, si proceda utilizzando le conoscenze schematiche ad esse associate. In particolare, verranno affrontati soprattutto i processi relativi alle conoscenze schematiche che si riferiscono ai gruppi sociali, ovvero gli stereotipi.

3.1. La categorizzazione: funzioni generali e conseguenze cognitive Attraverso la categorizzazione, oggetti differenti vengono classificati all’interno del medesimo insieme. Come già discusso in precedenza, la funzione primaria di questa operazione è quella di semplificare la complessità dell’ambiente. In questo modo, ogni volta che incontriamo un nuovo oggetto sociale non dobbiamo ripartire da capo per comprendere le sue caratteristiche, ma possiamo cercare di definirne la categoria di appartenenza e poi fare ricorso alle nostre precedenti conoscenze circa la categoria, ovvero agli schemi – di cui tratteremo in seguito. Quindi, le funzioni primarie dei processi di categorizzazione sono la semplificazione dell’ambiente e la possibilità di compiere rapide inferenze. Ciò però conduce anche ad una ulteriore, importante conseguenza: gli specifici esemplari racchiusi all’interno di una medesima categoria verranno trattati in modo sostanzialmente analogo, verranno cioè considerati come elementi intercambiabili, privati delle proprie peculiarità individuali. In altre parole, le caratteristiche che differenziano i vari esemplari all’interno di una categoria tendendo ad essere messe in secondo piano e ad essere sottovalutate rispetto agli elementi condivisi che li rendono simili. Questo fenomeno è stato illustrato in modo estremamente chiaro da Tajfel e

Wilkes (1963). Nel loro studio, che verrà illustrato in modo sintetico, i partecipanti dovevano stimare la lunghezza di una serie di 8 linee presentate una alla volta. I partecipanti, in questa condizione sperimentale, riuscivano ad eseguire il compito con un buon grado di accuratezza. Quanto interessava verificare era il cambiamento nella percezione degli stimoli una volta che alle linee venisse sovrimposto un criterio di categorizzazione, anche se del tutto arbitrario, come ad esempio una lettera A sulle linee più corte e una lettera B sulle linee più lunghe. Una volta create queste due fittizie categorie, le linee A più brevi e le linee B più lunghe, le percezioni dei partecipanti subiscono delle profonde modificazioni in due direzioni. Innanzitutto, si riscontrano degli effetti di assimilazione intracategoriale: la differenza percepita tra gli stimoli appartenenti ad una stessa categoria viene ridotta rispetto a quanto non sia nella realtà. Quindi, le differenze tra i membri della categoria vengono smussate, e si tende a percepire un grado di omogeneità interna alla categoria superiore rispetto a quanto i dati oggettivi suggeriscano. In secondo luogo, la distanza tra le due categorie viene accentuata nella percezione delle persone. Questo effetto, denominato differenziazione intercategoriale, indica che la differenza esistente tra due categorie viene estremizzata e percepita come ben superiore rispetto alla realtà. Nella percezione dei gruppi reali si può verificare, ad esempio, che gli immigrati albanesi vengano percepiti come simili ed indifferenziati tra loro (assimilazione intracategoriale), ed allo stesso modo che gli aspetti che li differenziano dagli italiani vengano massimizzati a discapito degli elementi che accomunano i due gruppi etnici (differenziazione intercategoriale). Quindi, dal semplice ricorso ad un criterio di categorizzazione si possono instaurare le precondizioni di tipo cognitivo per la creazione di atteggiamenti di pregiudizio e di discriminazione.

3.2. I modelli di categorizzazione Come si arriva a stabilire se un oggetto o una persona siano membri di una data categoria? Per lungo tempo si è ipotizzato che questo processo avesse luogo verificando se l’oggetto o la persona in questione possedesse tutte le caratteristiche definenti la categoria. Questo modello, che nasce dalla filosofia aristotelica ed è denominato modello classico (Smith, Medin,

1981), prevede che i tratti che definiscono una categoria siano singolarmente necessari e complessivamente sufficienti per poter includere un esemplare nella categoria (Job, Ruminati, 1984). Ciò significa che vi è un insieme di caratteristiche che deve essere obbligatoriamente presente affinché si verifichi l’inclusione categoriale. Seguendo i princìpi formali del modello classico, se un esemplare dovesse presentare tutte le caratteristiche eccetto una non potrebbe comunque essere considerato un membro della categoria. Questo tipo di modello ha il pregio di essere preciso dal punto di vista formale, ma difficilmente riesce a cogliere le modalità con cui il nostro sistema cognitivo effettivamente opera. Basti pensare ad una qualunque categoria per rendersi conto di come al suo interno vi siano alcuni esemplari migliori di altri, ovvero più tipici e rappresentativi della categoria stessa (Wittgenstein, 1953). Per fare un esempio, un camionista in canottiera e sporco di grasso corrisponde meglio alla nostra immagine di questa categoria rispetto ad un camionista con il farfallino e l’aspetto ben curato. Secondo il modello classico, però, queste differenze dovrebbero essere irrilevanti poiché si tratta di elementi che non sono né necessari né sufficienti per l’inclusione nella categoria. Il fatto di vestire una canottiera o un farfallino non dovrebbe dirci nulla rispetto alla categoria dei camionisti. Nell’ottica del modello classico ogni esemplare, una volta incluso nella categoria, viene trattato al pari di tutti gli altri esemplari già all’interno della categoria stessa. In questo senso, non è previsto che alcuni esemplari siano più rappresentativi della categoria rispetto ad altri. Un modello alternativo proposto per superare i limiti del modello classico sostiene invece che l’appartenenza ad una categoria sia un fatto di gradazione piuttosto che del tipo «o tutto o nulla». Questo modello, detto modello probabilistico (Rosch, 1978), prevede che le persone si formino un’immagine astratta di un membro della categoria che assommi in sé le caratteristiche peculiari di essa. Questa specifica rappresentazione viene definita prototipo, e può quindi essere considerata il migliore esempio possibile della categoria. Per decidere se un nuovo individuo sia membro di una specifica categoria si procederà verificando il grado di somiglianza tra questo esemplare ed il prototipo. Se la somiglianza con il prototipo della categoria in questione supera la similarità con il prototipo di categorie alternative avverrà l’inclusione nella categoria. Allo stesso tempo, il grado di somiglianza con

il prototipo definirà quanto l’esemplare possa essere considerato tipico della categoria oppure un esemplare periferico e poco rappresentativo di essa (Rosch, Mervis, 1975). In anni recenti, questo modello è stato ulteriormente sviluppato utilizzando, talvolta, come elemento di confronto non un prototipo inteso come una rappresentazione astratta, bensì alcuni specifici membri della categoria facilmente accessibili. Così, per definire se una persona possa essere depressa, una via è quella di confrontare le sue caratteristiche con quella di una persona conosciuta che già sia stata inclusa nella categoria dei «depressi». Questo modello basato sugli esemplari (Smith, Zárate, 1992) non è alternativo ad un modello probabilistico, ma assume che talvolta, come ad esempio quando abbiano limitate conoscenze circa le caratteristiche astratte di una categoria, sfruttiamo le rappresentazioni di persone conosciute direttamente o viste in televisione quali punti di riferimento per mettere ordine e categorizzare le nuove informazioni che riceviamo dall’ambiente.

3.3. La categorizzazione: processo controllato o automatico? Sicuramente la categorizzazione può essere portata avanti in modo controllato e consapevole. L’aspetto di interesse consiste però nel comprendere se sempre si verifichi attraverso uno sforzo consapevole oppure se, in taluni casi, il processo di categorizzazione si realizzi anche in mancanza di tale controllo consapevole. I dati di ricerca sembrano suggerire che in molte occasioni la categorizzazione avvenga effettivamente in modo automatico. Proviamo ad immaginare una situazione in cui vi siano 6 ragazzi, 3 bianchi e 3 neri, intenti a discutere tra loro, e che ognuno pronunci un numero predefinito di frasi. In un momento successivo, vengono riproposte tutte le frasi ascoltate poco prima e viene richiesto di indicare chi tra i sei ragazzi le avesse effettivamente pronunciate. Uno scenario simile è stato realizzato in uno studio condotto da Taylor e alcuni suoi collaboratori (Taylor, Fiske, Etcoff, Ruderman, 1978), e la procedura è stata denominata «chi ha detto cosa», proprio perché il compito richiedeva di abbinare correttamente le frasi con chi le aveva formulate. Ciò che interessava principalmente agli autori era il tipo di errori commessi. Infatti, una frase pronunciata da un bianco poteva essere erroneamente attribuita ad un altro bianco oppure ad un nero; analogo

discorso valeva per le frasi pronunciate da neri. I risultati di questo studio indicano che gli errori più frequenti sono costituiti da attribuzioni ad una persona della stessa razza rispetto a chi aveva formulato la frase. Ciò suggerisce che nel momento in cui i partecipanti hanno ascoltato le frasi, non si sono soffermati pienamente sulle caratteristiche distintive delle persone, ma hanno comunque prestato attenzione alle loro appartenenze razziali, tanto che in seguito non ricordano chi precisamente avesse detto una determinata cosa, ma sono in grado di stabilire se si fosse trattato di un bianco oppure di un nero. Nonostante non vi fosse alcuna specifica ragione per categorizzare tali ragazzi in quanto bianchi e neri, questa operazione di classificazione è stata comunque spontaneamente portata avanti. Quello che i dati di ricerca ci suggeriscono è che, a parte alcune specifiche situazioni, nella stragrande maggioranza delle occasioni non è possibile non categorizzare una persona dalla pelle nera in quanto tale. Nella percezione sociale vi sarebbe quindi una iniziale categorizzazione automatica e spontanea delle persone che incontriamo, la quale si incentra soprattutto sulla loro appartenenza etnico-razziale, sull’appartenenza di genere sessuale e sugli indicatori che segnalano la loro età (Arcuri, 1982; Brewer, 1988; Stangor, Lynch, Duan, Glass, 1992). D’altro luogo, tutti i fattori che rendono saliente una determinata categoria aumentano la probabilità di utilizzo di essa. Ad esempio, l’accessibilità cronica o temporanea di una categoria (Higgins, Rholes, Jones, 1977), oppure il fatto che una persona si distingua dal contesto per le sue caratteristiche, come ad esempio un uomo ad un raduno di femministe (effetto solo; cfr. per es. Abrams, Thomas, Hogg, 1990), influenzano quali dimensioni categoriali verranno utilizzate in un data situazione e guideranno la percezione sociale.

3.4. Gli schemi: una definizione ed una classificazione Categorizzare sarebbe di scarsa utilità se alle etichette categoriali non andassimo ad associare delle conoscenze più specifiche. Ad esempio, il sapere che un abitante di una sperduta isola del Pacifico appartiene al gruppo dei Tikopiani piuttosto che degli Agarabi risulterebbe inutile in assenza di informazioni su questi due gruppi. Dalla conoscenza del gruppo di appartenenza non potremmo trarre benefici per capire come interagire

con lui e cosa aspettarci da lui, e tutto ciò perché rispetto a questi due gruppi è probabile che buona parte dei lettori non possegga alcuno schema. Uno schema può essere definito come un insieme organizzato di credenze e pensieri basato sulle precedenti esperienze. Ad esempio, le teorie implicite di personalità possono essere considerate una forma di schema; allo stesso modo, gli stereotipi ed ogni altro tipo di generalizzazione rappresentano degli esempi di schema. Gli schemi costituiscono quindi dei contenuti mentali che guidano l’esplorazione dell’ambiente, influenzano l’elaborazione e la codifica in memoria delle informazioni raccolte, così come la loro interpretazione (Fiske, Taylor, 1991). Sono state identificate varie tipologie di schema, ma le quattro principali sono: gli schemi di persona, gli schemi di sé, gli schemi di ruolo e gli schemi di eventi (Taylor, Croker, 1981). a) Gli schemi di persona si riferiscono all’insieme di caratteristiche che riteniamo siano associate ad alcuni profili tipici di persona, come ad esempio l’estroverso, il «macho» o l’amico ideale. Ci aspettiamo quindi che se una persona viene considerata un «macho» dovrà possedere tutta una serie di attributi interni, elementi di abbigliamento, comportamenti e pose che si accordino con questa definizione. Come detto, lo specifico esemplare che meglio racchiude in sé le caratteristiche previste dallo schema viene definito prototipo, e costituisce quindi l’esempio più rappresentativo dello schema. b) Gli schemi di sé rimandano invece all’autopercezione, ovvero all’immagine che la persona ha di se stessa (Markus, 1977). A prescindere dalla correttezza o meno di questa immagine, ciascuno si percepisce come caratterizzato da una serie di tratti di personalità, all’interno dei quali alcuni sono estremamente importanti per la propria autodefinizione, altri lo sono decisamente meno. Quando una persona reputa importante per la propria immagine di sé una determinata dimensione, come ad esempio l’altruismo, si dice essere schematica lungo la dimensione dell’altruismo; al contrario se una dimensione non è rilevante, la persona si dice essere aschematica lungo questa dimensione. c) Gli schemi di ruolo racchiudono le aspettative associate al ruolo sociale occupato dalla persona oggetto di percezione. Ad esempio, ci si aspetta che una persona che ricopra il ruolo di barman sia socievole, disponibile, ma anche un po’ ruffiana. Ogni ruolo sociale è collegato ad una serie di

prescrizioni rispetto a come «si dovrebbe essere» per ricoprire tale ruolo. Ciò è particolarmente vero per i ruoli sociali acquisiti, come ad esempio il barman, ovvero ruoli che non sono biologicamente determinati, ma scaturiscono da una scelta personale. D’altronde, vi sono moltissimi ruoli che non vengono scelti, ma sono di tipo ascritto essendo al contrario biologicamente determinati. Facciamo riferimento in questo caso ai ruoli di genere sessuale, legati ai gruppi etnico-razziali o all’età. d) Gli schemi di eventi non riguardano tipologie di persone, ma definiscono le sequenze comportamentali (script) più adeguate in determinate circostanze (Schank, Abelson, 1977). Ogni situazione richiede forme di comportamenti specifici e, con l’esperienza, queste sequenze comportamentali vengono apprese in modo tale da poter essere eseguite in maniera spontanea senza dover ogni volta riflettere sul da farsi. Se la prima volta che si usano mezzi pubblici in un paese straniero occorre capire se i biglietti vadano comprati a terra o in vettura, se vadano obliterati o meno e così via, presto si acquisiscono le necessarie conoscenze che permettono una esecuzione efficace degli opportuni comportamenti. Si strutturano quindi dei repertori comportamentali che predispongono in maniera pronta ed efficace all’azione.

3.5. Cosa rende attivi gli schemi? Il caso degli stereotipi Se i sistemi di riferimento categoriale vengono spontaneamente utilizzati (cfr. per es., Taylor et al., 1978), come si passa allo stadio successivo di recupero delle conoscenze associate alla categoria, ovvero degli schemi? Una volta ancora, il nostro sistema cognitivo funziona in modo tale da recuperare in modo automatico, e quindi senza sforzo, anche tutte le conoscenze più rilevanti che abbiamo depositato in memoria circa la categoria che abbiamo appena applicato. Possiamo pensare che i concetti depositati in memoria vengano codificati sotto forma di complessi reticoli, in cui i concetti vengono definiti nodi, e in cui vi sono dei canali (link) che collegano tra loro concetti semanticamente relati (Anderson, 1983; Collins, Loftus, 1975). L’esempio riportato di seguito (cfr. Fig. 3.1) potrebbe raffigurare alcuni aspetti delle rappresentazioni possedute da un ragazzo che veda se stesso fortemente associato al fatto di essere uno studente, di essere intelligente e di essere un tifoso di calcio. La forza delle

connessioni che legano due concetti, indicata dallo spessore delle linee, segnala quanto questi due concetti siano considerati associati tra loro, ad esempio quanto il fatto di essere studente sia importante nell’autodefinizione dell’individuo. Allo stesso modo, all’interno di queste rappresentazioni possono essere racchiusi anche i legami di tipo interpersonale con figure significative, quali, ad esempio, il proprio nonno. A sua volta, questo concetto sarà collegato a tutta una serie di attributi (per es., smerorato) e di etichette categoriali (per es., pensionato).

Fig. 3.1. Esempio di rete associativa tra concetti.

L’idea di fondo è che non appena un nodo viene attivato, questa attivazione si diffonde anche a tutti gli altri nodi collegati, privilegiando quelli con il più forte legame associativo. Ciò significa che se incontriamo l’etichetta categoriale «anziano», anche gli attributi stereotipicamente associati all’anziano, come ad esempio «smemorato» e «debole», verranno attivati diventando quindi maggiormente accessibili. Un modo per sottoporre a verifica sperimentale questa ipotesi prevede il ricorso ad un paradigma di ricerca denominato priming semantico. Questo paradigma si basa sulla presentazione sequenziale di due stimoli. Il primo stimolo, denominato prime, ha la funzione di attivare un concetto. Ai partecipanti non viene chiesto di far nulla in risposta allo stimolo prime, mentre lo sperimentatore deve sincerarsi che questo stimolo sia stato recepito dal sistema percettivo del partecipante allo studio. Successivamente al prime, compare un nuovo stimolo, detto target, in seguito al quale questa volta i partecipanti devono compiere delle operazioni o formulare dei giudizi. L’elemento di interesse è la facilità con cui si riesce ad elaborare lo stimolo target. L’assunto teorico sottostante è che attraverso la presentazione del concetto prime vengono immediatamente attivati anche tutti i concetti ad esso collegati, e quindi se lo stimolo target nella rappresentazione del

partecipante è semanticamente collegato al prime, questo stimolo target verrà elaborato con maggiore facilità in quanto potrà godere di questo stato di pre-attivazione. Ad esempio, dopo la visione della parola «mucca» diventa più facile elaborare la parola «latte», in quanto tutti i concetti semanticamente legati alla parola «mucca», tra cui il concetto «latte», diventano temporaneamente più accessibili. Al contrario, se il significato della parola target è incongruente con la rappresentazione posseduta rispetto al concetto prime, le risposte allo stimolo target risulteranno più difficoltose. Wittenbrink, Judd e Park (1997) hanno applicato questi princìpi per verificare quali siano le risposte automatiche che si innescano nel momento in cui attiviamo le categorie «bianchi» e «neri». Negli Stati Uniti, dove sono stati condotti questi studi, a fronte di molteplici cambiamenti sociali e culturali che hanno permesso una maggiore integrazione ed accettazione degli afroamericani, permangono comunque immagini stereotipiche negative associate a questo gruppo. Wittenbrink ed i suoi collaboratori si sono per l’appunto chiesti quali siano gli attributi che immediatamente vengano recuperati dalla memoria, da parte di studenti bianchi americani, quando viene loro attivata la categoria «neri». Nel loro studio, che descriveremo solo nei suoi passaggi più essenziali, ai partecipanti venivano proposti in modo subliminale degli stimoli prime, costituiti dalla parola «White» oppure «Black». Queste parole comparivano sullo schermo del computer in maniera così rapida (15 millisecondi) e con specifici accorgimenti tecnici da rendere impossibile per i partecipanti riuscire a leggerle. Il fatto che i partecipanti non avessero alcuna consapevolezza della parola presentata assicura che i processi che si realizzano rispecchino le modalità spontanee di funzionamento del sistema cognitivo. Subito dopo lo stimolo prime compariva un nuovo stimolo, questa volta ben visibile. Il compito dei partecipanti era quello di dire se si trattasse di una parola dotata di significato nel vocabolario inglese oppure se fosse una parola inventata (cioè compito di decisione lessicale: Lexical Decision Task). Tra le parole dotate di significato vi erano termini negativi e positivi stereotipicamente associati ai neri (per es. aggressivo e atletico), così come termini negativi e positivi stereotipicamente associati ai bianchi (per es. materialista e istruito). I risultati mostrarono in modo chiaro che dopo la presentazione della parola «Black» gli stimoli che venivano elaborati con maggiore facilità erano le parole stereotipicamente associate ai neri e

aventi una valenza negativa. Al contrario, dopo la presentazione della parola «White» erano gli stimoli positivi, stereotipicamente associati ai bianchi, ad essere prontamente elaborati. Questi risultati ci forniscono importanti indicazioni sia su come vengano organizzate e recuperate le informazioni in memoria, sia sui contenuti delle rappresentazioni che si riferiscono ai gruppi sociali dei bianchi e dei neri. Infatti, i risultati mostrano che a partire dalla definizione di una categoria vengono spontaneamente resi accessibili tutti i tratti stereotipici che si riferiscono ad essa, e suggeriscono inoltre che queste rappresentazioni stereotipiche che si riferiscono al gruppo dei neri sono ancora fortemente caratterizzate in senso negativo.

3.6. Cosa succede una volta che le conoscenze stereotipiche vengono attivate? La risposta a questa domanda è alquanto semplice: aumenta la probabilità che queste conoscenze vengano utilizzate. Una dimostrazione assai convincente in questo senso proviene dai lavori di una ricercatrice americana, Patricia Devine, che si è appunto chiesta quali siano le conseguenze derivanti dall’attivazione di una categoria sociale e delle connesse rappresentazioni stereotipiche (Devine, 1989). Innanzitutto, Devine è partita dal presupposto che tutte le persone che vivono all’interno di un medesimo ambiente socio-culturale, abbiano una comparabile conoscenza rispetto a quelli che sono i tratti stereotipicamente associati a determinati gruppi sociali, e ciò a prescindere dalle personali convinzioni e credenze. Quello che i dati di ricerca dimostrano è, infatti, una sostanziale coincidenza tra le risposte di persone con basso ed alto livello di pregiudizio. Sebbene solo le persone con un più elevato pregiudizio considerino gli stereotipi come accurate descrizioni dei gruppi sociali, tutte sono a conoscenza dei contenuti di tali rappresentazioni stereotipiche. Ad esempio, sia gli individui che apertamente discriminano le persone di colore, sia gli individui più aperti a concezioni ugualitarie, sono a conoscenza del fatto che, negli Stati Uniti, i tratti «aggressivo», «violento», «sporco», «atletico» e «musicale» sono tipicamente attribuiti ai neri. Il ragionamento di Devine è che, poiché nel corso dei processi di socializzazione non è possibile evitare di venire esposti agli stereotipi, ad

esempio attraverso i mezzi di comunicazione di massa o, più in generale, attraverso gli agenti primari e secondari di socializzazione, tutti apprendono quale sia l’immagine stereotipica dei più rilevanti gruppi sociali. Devine si è quindi chiesta quando queste informazioni verranno utilizzate e quando, al contrario, la persona mossa da intenzioni ugualitarie sarà in grado di non lasciarsi influenzare da queste conoscenze stereotipiche. L’ipotesi formulata, che trova riscontro nei dati empirici raccolti, prevede che ogniqualvolta vi sia l’attivazione di una categoria, e quindi delle conoscenze associate ad essa, la tendenza spontanea sia quella ad utilizzare simili conoscenze, e che solo attraverso un attento controllo consapevole sia possibile sfuggire alla loro influenza. Dal punto di vista sperimentale, Devine riscontra che i partecipanti ai quali la categoria «neri» sia stata attivata in modo subliminale e quindi inconsapevole, tendono a distorcere le proprie percezioni sociali successive in direzione dello stereotipo attivato. Ad esempio, dopo aver avuto la categoria «neri» attivata, i comportamenti sufficientemente ambigui di una persona incontrata subito dopo (per es. «si rifiuta di pagare l’affitto del suo appartamento finché questo non venga imbiancato nuovamente») tendono ad essere percepiti come più aggressivi e violenti e quindi in accordo con lo stereotipo attivato. Devine riscontra che questi effetti si presentano sia in persone con un alto pregiudizio sia in altre con un basso pregiudizio, riconducendo ciò al fatto che tutti in ugual misura sono a conoscenza delle caratteristiche stereotipiche dei neri ed hanno quindi reti associative simili. Lavori più recenti dimostrano però che sono soprattutto gli individui con elevato pregiudizio ad attivare automaticamente conoscenze stereotipiche (Lepore, Brown, 1997): infatti, chi ha un elevato pregiudizio fa ricorso con maggiore frequenza a giudizi stereotipici nella sua vita quotidiana, e questo suo comportamento rafforza il legame associativo tra la categoria stigmatizzata e i relativi tratti stereotipici. Il modello proposto da Devine prevede che, se sul versante delle risposte automatiche vi siano limitate differenze individuali, in funzione del livello di pregiudizio, profonde differenze emergano invece rispetto ai giudizi controllati. Quando i giudizi vengono emessi con la consapevolezza del fatto che potrebbero essere influenzati dagli stereotipi, ecco allora che le persone con un basso pregiudizio tenderanno ad

esercitare un maggiore controllo sulle risposte e riusciranno a limitare l’influenza degli stereotipi. Questo punto è estremamente importante in quanto significa che le persone non sono sempre e necessariamente vittime di giudizi stereotipici: attraverso un attento controllo è possibile «depurare» i propri giudizi e comportamenti. In generale, però, tutti i concetti che per qualunque ragione risultano in uno stato di attivazione tendono spontaneamente a colorare i giudizi e le percezioni, e questo avviene anche nel caso degli stereotipi, a meno che non ci si impegni per fare in modo che ciò non accada. Studi sperimentali ed osservazioni sul campo ci dicono che gli stereotipi influenzano in vari modi i processi interpretativi anche in persone che si definiscono democratiche ed ugualitarie (Darley, Gross, 1983; Duncan, 1976; Dunning, Sherman, 1997). Un recente spot pubblicitario americano può essere utile per comprendere questi fenomeni. Durante lo spot, la parte sinistra dello schermo era occupata dalla fotografia di un afroamericano, mentre nella parte destra lentamente comparivano delle frasi che andavano a comporre un sorta di comunicato. Il contenuto del testo era il seguente: «Michael Conrad. – Maschio. – Età 28 anni. – Rapina a mano armata. – Aggressione. – Stupro. – Omicidio». Dopo una breve pausa il testo riprendeva in questo modo: «Arrestato nell’Agosto 1994 dal tenente di polizia Joseph Cruthers, mostrato nella foto». Questo spot è stato creato negli Stati Uniti proprio per mostrare come spontaneamente si tenda ad associare gli afroamericani a comportamenti criminali, e come queste credenze inducano tutte le persone esposte allo spot a ritenere che il criminale descritto sia l’afroamericano mostrato accanto (Fazio, Hilden, 2001). Durante la visione dello spot non vengono prese in considerazione altre possibilità interpretative, come invece sarebbe stato probabilmente fatto se la persona rappresentata fosse stata di pelle bianca, e fino alle ultime parole del messaggio si rimane nella convinzione che il criminale sia effettivamente afroamericano. Gli schemi posseduti circa i gruppi sociali inducono ad interpretare le situazioni in modo coerente con tali schemi, e quindi si è portati a costruirsi mentalmente delle rappresentazioni degli eventi che ben si accordino con i nostri schemi. A facilitare questo processo di interpretazione intervengono anche dei processi di tipo attentivo e di memoria. Di fronte ad una molteplicità di informazioni, alcune coerenti

ed altre incoerenti con i nostri schemi, quali verranno notate e ricordate con maggiore probabilità? Questo punto verrà affrontato dettagliatamente nel prossimo paragrafo.

3.7. Gli effetti degli schemi sul ricordo Se gli schemi costituiscono dei filtri interpretativi privilegiati attraverso cui si dà significato alla realtà, ecco allora che le informazioni incontrate che confermano i propri schemi giungono a godere di uno status particolare. Esse si configurano come delle informazioni in grado di confermare le nostre aspettative indotte dallo schema, e permettono quindi una rapida comprensione della situazione. Per questi motivi, si è particolarmente sensibili rispetto alle informazioni presenti nell’ambiente, che siano in accordo con le conoscenze pregresse. Dimostrazioni in questo senso giungono propri dagli studi sulla percezione di individui appartenenti a gruppi sociali rispetto ai quali vi siano radicati e condivisi stereotipi. Ad esempio, Bodenhausen e Lichtenstein (1987) hanno studiato il ricordo di elementi a favore o a sfavore della colpevolezza di un imputato, a seconda della appartenenza etnica dell’imputato stesso. Nel contesto simulato di un’aula di tribunale, i partecipanti allo studio che vestivano i panni dei giurati, ascoltavano una serie di testimonianze, alcune a sostegno dell’innocenza dell’imputato ed altre invece che fornivano vaghi elementi a sostegno della sua colpevolezza (per es., «quella sera era parecchio litigioso»). In modo interessante, ciò che i giurati ricordavano al termine di tutte le deposizioni era profondamente differente a seconda del fatto che l’etnia dell’imputato fosse sconosciuta, oppure che fosse evidente dal suo nome (Carlos Ramirez) che si trattasse di un ispanico immigrato negli Stati Uniti. Come si può vedere nella Tabella 3.1, quando l’appartenenza etnica dell’imputato non viene specificata, i giurati ricordano più informazioni a sostegno della sua innocenza piuttosto che della sua colpevolezza. Al contrario, il quadro si ribalta quando l’imputato viene identificato in quanto ispanico: in questo caso le informazioni maggiormente ricordate sono quelle che supportano una sua possibile colpevolezza. Poiché l’immagine stereotipica associata agli ispanici – a cui le produzioni cinematografiche fanno ampio ricorso – li raffigura come frequentemente dediti ad attività criminose e particolarmente pronti a far

ricorso alla violenza, le informazioni incontrate che si pongono in accordo con questa immagine risultano meglio archiviate in memoria. In aggiunta, Bodenhausen e Lichtenstein (1987) dimostrano che non è solo il ricordo ad essere influenzato dalla conoscenza di quale sia l’appartenenza etnica dell’imputato, ma che ciò ha dei diretti riflessi anche sui giudizi emessi. Infatti, nel caso dell’imputato ispanico, al maggior ricordo di informazioni a favore della sua colpevolezza, facevano riscontro effettivi giudizi più severi nei suoi confronti, che si traducevano in una maggiore propensione alla condanna ed al ritenere che in futuro questo imputato avrebbe commesso con maggiore probabilità nuovi reati dello stesso tipo.

Tab. 3.1. Proporzione di informazioni ricordate, a seconda dell’appartenenza etnica dell’imputato e del loro sostegno alla sua innocenza o colpevolezza (modificata da Bodenhausen, Lichtenstein, 1987).

In generale, quindi, l’utilizzo di schemi di riferimento nella percezione sociale può condurre ad un miglior ricordo per le informazioni che si presentano come coerenti con tali schemi. D’altro lato, sia l’esperienza diretta che i dati di ricerca ci mostrano la forza con cui notiamo e ricordiamo informazioni altamente discrepanti rispetto ad uno schema. Queste informazioni, che rompono in modo brusco le aspettative indotte da uno schema, sono altamente salienti e spiccano rispetto ad uno sfondo dal carattere di regolarità. Per cercare di conciliare questi due diversi effetti che riguardano le informazioni coerenti ed incoerenti con uno schema, Hastie (1981) ha proposto un modello che lega la probabilità di ricordo di un evento al grado di coerenza/incoerenza di tale evento rispetto allo schema: quando l’evento è fortemente inusuale o all’opposto altamente tipico, il ricordo diventa altamente probabile; al contrario, le informazioni irrilevanti, ovvero le informazioni che non si presentano con un carattere di sistematicità rispetto allo schema, e che non contengono elementi significativi rispetto ad esso, tendono ad essere maggiormente ignorate e peggio ricordate (si veda la Fig. 3.2).

Fig. 3.2. Rappresentazione grafica della relazione tra coerenza con lo schema e probabilità di ricordo (adattata da Hastie, 1981).

Vari studi hanno dimostrato la validità della proposta teorica di Hastie (cfr. per es. Hastie, Kumar, 1979), e a partire da essi ci si è chiesti quali specifici processi intervenissero nell’influenzare il ricordo di informazioni incongruenti. Un elemento importante in questo senso è la realizzazione di processi inferenziali. Poiché le informazioni incoerenti con uno schema non si accordano con le aspettative dell’individuo percepente, ecco allora che di fronte ad esse avranno luogo processi di pensiero volti a cercare di spiegare cosa stia succedendo e a ristabilire ordine e prevedibilità negli eventi. Questo lavorio mentale implica che alle informazioni incoerenti venga dedicato maggior tempo di elaborazione nonché una maggiore integrazione tra esse e le altre informazioni disponibili (Fiske, Taylor, 1991). Infatti, poiché gli schemi non possono venire in nostro aiuto, si cerca di ritrovare nelle altre informazioni fin lì raccolte le possibili chiavi interpretative che permettano di dar significato agli elementi di novità. Il risultato finale sarà quindi una buona codifica in memoria delle informazioni incoerenti. Questo processo è però abbastanza dispendioso dal punto di vista delle risorse cognitive, e, una volta ancora, laddove esse siano scarse – e non vi siano particolari motivazioni – è proprio la codifica delle informazioni incoerenti con lo schema a peggiorare, mentre la codifica di informazioni coerenti con lo schema ne risulta meno affetta (Stangor, McMillan, 1992). Questo specifico aspetto verrà trattato nel prossimo paragrafo, in cui verranno proposti gli elementi essenziali dei principali, recenti modelli nell’àmbito della percezione sociale.

3.8. Il ruolo della motivazione e delle risorse cognitive nella percezione

sociale I modelli attualmente esistenti prevedono che la percezione sociale si realizzi attraverso due momenti distinti (Bodenhausen, Macrae, 1998; Brewer; 1988; Devine, 1989). In un primo momento vi è l’automatica categorizzazione delle persone incontrate, così come l’automatica attivazione delle conoscenze stereotipiche associate. Una volta superata questa fase iniziale, dominata dal ricorso spontaneo a sistemi di categorizzazione e dall’utilizzo di schemi, la persona si trova di fronte a due possibilità: può fermarsi, limitandosi ad una percezione sommaria legata alle più evidenti appartenenze categoriali della persona percepita, oppure può procedere oltre, cercando nuove informazioni più dettagliate sulla persona oggetto di percezione. Possiamo immaginare che la percezione sociale si collochi lungo un continuum, come quello riprodotto in Fig. 3.3, in cui ad un estremo, abbiamo l’esclusivo utilizzo di informazioni categoriali, mentre, all’estremo opposto, abbiamo il pieno utilizzo di tutte le possibili informazioni individuali disponibili che si riferiscono alla persona oggetto di percezione (Fiske, Neuberg, 1990). Per comprendere quale delle due opzioni avrà il sopravvento, e stabilire così il loro peso relativo, è necessario considerare il grado di motivazione dell’individuo nell’esaminare le informazioni a disposizione. Infatti, se la persona che abbiamo di fronte, per un qualunque motivo, attrae il nostro interesse, non ci fermeremo probabilmente ad una superficiale rilevazione delle sue principali appartenenze categoriali; al contrario, si inizierà quel lento percorso di acquisizione di informazioni che ci permetteranno di tratteggiare un profilo «unico» del nostro interlocutore, quale individuo con le sue specificità e diverso da chiunque altro. Questo, ovviamente, succede ogni volta in cui si stanno gettando le basi di un rapporto di amicizia, ma anche quando gli aspetti contingenti della situazione ci inducono a questo sforzo supplementare di comprensione. Ad esempio, in alcuni casi, dobbiamo rendere conto ad altri delle impressioni che ci siamo formati (accountability), e ciò rende più probabile una attenta esplorazione dell’ambiente. Allo stesso modo, il fatto di dover svolgere assieme alcuni compiti (interdependence) induce, anche in assenza di una motivazione intrinseca, a voler conoscere quanto meglio possibile il proprio partner, al fine di ottimizzare la prestazione nel compito. Quindi, vari tipi di

motivazione, sia di tipo interno che dettate dalla situazione, fanno spostare i processi coinvolti verso il lato destro del continuum. Ma la motivazione non è tutto: infatti, occorre anche possedere le necessarie risorse cognitive per potersi muovere verso la parte destra del continuum; tanto più ci si sposta in questa direzione tanto maggiore è il dispendio di risorse cognitive. Senza la necessaria «energia mentale», anche la persona più motivata e meglio intenzionata difficilmente riesce a svincolarsi da percezioni unicamente basate sulle appartenenze categoriali dell’individuo percepito. In sintesi, si potrebbe dire che la motivazione è una condizione necessaria ma non sufficiente per la ricerca, e l’utilizzo delle informazioni individuali disponibili, così come le risorse cognitive, sono necessarie ma non sufficienti. Solo dalla combinazione di alti livelli di entrambe si creano le premesse affinché le persone vengano percepite nella loro complessità che, fortunatamente, va ben al di là delle semplici appartenenze categoriali (Pendry, Macrae, 1994).

Fig. 3.3. Rappresentazione schematica del «continuum» proposto da Fiske e Neuberg (1990) e dei fattori che regolano gli spostamenti lungo il «continuum».

Questo insieme di assunti ci permette quindi di formulare previsioni rispetto a quando sarà massima la probabilità di ricorrere a stereotipi nell’emissione dei nostri giudizi sociali. Infatti, ogni volta che la stanchezza si accumula, che le richieste ambientali diventano pressanti o che ci si trova in stati d’umore particolarmente positivi o negativi, ecco che i giudizi stereotipici diventano più probabili (Bodenhausen, 1993; Kruglanski, Freund, 1983). Questo ci spiega, almeno in parte, perché nelle snervanti situazioni del traffico cittadino i guidatori siano così propensi a manifestare i propri ampi repertori di conoscenze stereotipiche. Bodenhausen (1990) ha mostrato in modo elegante questo fenomeno, verificando i giudizi emessi in differenti momenti della giornata da parte di persone che posseggono una cosiddetta «personalità mattutina» o una «personalità serale». La prima tipologia di persone sprizza vitalità nelle prime ore del mattino, dando il meglio di sé proprio in queste ore. Al contrario, la seconda tipologia di persone tende a considerare il risveglio come una

sottile punizione, sapendo che solo con lentezza, e più tardi, si raggiungerà una buona efficienza. Ai partecipanti allo studio di Bodenhausen veniva chiesto di leggere un brano in cui erano contenute una serie di prove, in parte a sostegno della colpevolezza di un imputato di origine ispanica ed in parte a sostegno della sua innocenza. La variabile dipendente di interesse era il giudizio formulato dai partecipanti circa la colpevolezza o meno di tale imputato ispanico. Come è possibile vedere nella Tabella 3.2, i rispondenti caratterizzati da una personalità mattutina tendevano a considerarlo maggiormente colpevole quando venivano interrogati nelle ore serali piuttosto che nel corso della mattina; l’esatto opposto si verificava invece per coloro che erano caratterizzati da una personalità serale. In generale, quindi, nel momento della giornata in cui i ritmi circadiani dell’individuo rendevano più difficoltoso un attento esame del materiale proposto, emergevano con maggior vigore giudizi in accordo con l’immagine stereotipica degli ispanici immigrati negli Stati Uniti, che li vede come particolarmente dediti ad attività illegali.

Tab. 3.2. Giudizi di colpevolezza nei confronti di un imputato ispanico a seconda delle caratteristiche del rispondente e dell’ora di emissione del giudizio (tratto da Bodenhausen, 1990). A valori più elevati corrisponde una percezione di maggiore colpevolezza.

Lo stretto legame tra disponibilità limitata di risorse cognitive e ricorso a stereotipi ha anche condotto ad una ridefinizione delle funzioni che gli stereotipi possono assolvere per l’individuo che li possiede. Ciò che i dati di ricerca mostrano in modo sempre più chiaro è che gli stereotipi funzionano come delle euristiche di giudizio (Allport, 1954). Macrae, Milne e Bodenhausen (1994) hanno studiato questa funzione degli stereotipi facendo ricorso ad un paradigma sperimentale denominato del doppio-compito. Ai partecipanti viene chiesto di svolgere simultaneamente due compiti. Nel caso specifico, si trattava di formarsi un’impressione circa una persona, attraverso la lettura di una serie di tratti di personalità che sarebbero apparsi sullo schermo di un computer. Contemporaneamente, bisognava prestare attenzione anche ad un nastro audio, in cui venivano fornite informazioni rispetto ad un argomento del tutto differente. L’elemento di maggior interesse risiede nel

fatto che ad alcuni partecipanti veniva detto che la persona di cui dovevano formarsi un’impressione era uno skinhead, mentre ad altri non veniva fornita questa informazione circa l’appartenenza categoriale della persona descritta. Al termine della presentazione del materiale, veniva chiesto di ricordare quanti più tratti possibili tra quelli proposti, molti dei quali erano tratti stereotipici degli skinhead, e di rispondere ad alcune domande che rimandavano ai contenuti della registrazione audio. I risultati dimostrarono che i partecipanti che erano a conoscenza dell’appartenenza categoriale della persona di cui dovevano formarsi un’impressione, ottenevano prestazioni superiori in entrambi i compiti. Quindi, il potersi basare sui propri schemi stereotipici non solo agevolava il compito di formazione di impressioni, aumentando il ricordo di quanto visto, ma «liberava» risorse cognitive che potevano essere impiegate nel secondo compito richiesto, ovvero il prestare attenzione alla registrazione audio.

3.9. La categorizzazione come processo flessibile Se, come abbiamo visto, il processo di categorizzazione può avvenire in modo automatico, gli obiettivi e gli stati interni dell’individuo contribuiscono fortemente nel determinare quali saranno le dimensioni categoriali utilizzate nel percepire una determinata persona (Kunda, Spencer, 2003). Infatti, ogni persona che incontriamo appartiene simultaneamente a varie categorie, ma solo alcune di esse saranno in un dato momento rilevanti nella percezione del nostro interlocutore. La valutazione finale sarà di conseguenza profondamente differente a seconda di quali appartenenze categoriali risultino predominanti. Ad esempio, un ballerino tedesco potrà essere considerato più o meno aggraziato nelle movenze a seconda che a dominare la percezione sia la sua professione o la sua identità nazionale. Gli stati motivazionali dell’individuo intervengono quindi in modo cruciale, influenzando quali categorie sociali andranno a dominare la percezione sociale. Come più volte sottolineato, una delle più importanti spinte motivazionali è quella di autoaccrescimento, ovvero il desiderio di preservare un’immagine positiva di sé. In questo senso, nella percezione delle persone che ci circondano, verranno selettivamente utilizzate le loro appartenenze categoriali che consentiranno di massimizzare la positività

della propria autorappresentazione. Immaginiamo di incontrare una persona che appartenga simultaneamente a due categorie con implicazioni valutative tra loro opposte, come ad esempio un medico nero. Mentre la rappresentazione stereotipica della categoria «medici» risulta essere ampiamente positiva, lo stereotipo culturalmente associato ai neri lo è assai meno. Inoltre, queste due appartenenze categoriali differiscono ampiamente per quanto riguarda la dimensione della competenza: mentre i medici hanno una scolarità alquanto elevata, i neri si collocano frequentemente al di sotto della media. Quale impressione ci si formerà di tale medico nero, a seconda del fatto che ci critichi oppure ci lusinghi con degli elogi? Sinclair e Kunda (1999) hanno costruito uno studio proprio per dar risposta a questo interrogativo, facendo in modo che alcuni partecipanti avessero a che fare con un medico nero ed altri partecipanti con un medico bianco. In aggiunta, i due autori hanno manipolato il tipo di messaggio che tale medico inviava al partecipante, messaggio che poteva essere di critica oppure di elogio. Complessivamente vi erano, quindi, 4 differenti condizioni sperimentali date dalla combinazione del tipo di fonte (ossia, medico bianco vs. medico nero) e del contenuto del messaggio (ossia, elogio vs. critica). Tutti i partecipanti svolgevano poi un compito al computer per misurare il grado in cui lo stereotipo associato ai medici e quello associato ai neri fossero stati attivati nelle differenti condizioni dell’esperimento. La prova consisteva in un compito di decisione lessicale (Lexical Decision Task), in cui i partecipanti dovevano rispondere quanto più rapidamente possibile circa il fatto che la parola che compariva sullo schermo fosse stata una parola realmente esistente nel vocabolario inglese, oppure se fosse stata una stringa di lettere senza senso compiuto. In modo importante, sul totale di 200 stimoli che i partecipanti dovevano giudicare, 10 parole erano concetti fortemente associati allo stereotipo del medico e non a quello del nero (per es. ospedale, prescrizione, laboratorio, salute, ecc.), e 12 erano invece associate allo stereotipo del nero, ma non a quello del medico (per es. Africa, crimine, rap, pericoloso, ecc.). Le rimanenti parole dotate di senso avevano invece a che fare con concetti neutrali. La logica di questo strumento prevede che se i partecipanti hanno utilizzato una determinata categoria nel formarsi un’impressione del loro interlocutore, i termini stereotipicamente associati a tale categoria risulteranno ben attivi ed accessibili, e quindi il tempo necessario per rispondere a tali termini nel

compito di decisione lessicale sarà minore. Le ipotesi formulate erano che i partecipanti motivati a pensare in termini positivi nei confronti del dottore nero, in quanto erano stati da lui elogiati, avrebbero utilizzato la categoria «medico» nella loro formazione di impressione e, contemporaneamente, avrebbero inibito la categoria alternativa «nero», la quale, includendo molte componenti negative, avrebbe interferito con la motivazione a crearsi un’immagine positiva dell’interlocutore. Al contrario, quando vi era una motivazione a screditare l’interlocutore, in quanto aveva prodotto giudizi pochi lusinghieri, ci si attendeva il pattern opposto di risultati, ovvero una marcata attivazione della categoria «nero» e l’inibizione della categoria «medico». I risultati hanno pienamente confermato queste ipotesi. Nella Tabella 3.3, sono riportati i tempi di risposta alle parole associate alla categoria dei neri: i tempi di risposta più veloci si hanno proprio laddove i partecipanti avevano avuto a che fare con un medico nero che li aveva criticati (ossia 563 ms), e indicano che questi concetti stereotipici associati ai neri sono ben attivati. Al contrario, i tempi più lenti (ossia 618 ms) si hanno laddove il dottore nero aveva elogiato i partecipanti: in questo caso lo stereotipo risulta inibito proprio perché i partecipanti sono motivati a formarsi un’impressione positiva, e quindi rigettano quelle appartenenze categoriali che potrebbero interferire con il loro obiettivo.

Tab. 3.3. Tempi di risposta, in millisecondi, per decisioni lessicali riferite a parole associate allo stereotipo del nero (modificata da Sinclair, Kunda, 1999).

I risultati proposti nella Tabella 3.4, che si riferisce alle risposte ai termini associati allo stereotipo del medico, sono invece speculari ai precedenti. Ora i tempi più veloci (ovvero 570 ms) si hanno quando il medico nero ha elogiato i partecipanti, ed i tempi più lenti quando i suoi commenti erano invece negativi (ovvero 623 ms). In quest’ultimo caso, quindi, la categorizzazione basata sulla professione viene temporaneamente bloccata, al fine di potersi formare un’impressione negativa sul target. La dimensione professionale è invece particolarmente saliente laddove vi sia una motivazione a formarsi un’impressione positiva (cioè dopo un elogio). Nell’insieme, i dati di ricerca ci dimostrano come i processi di

categorizzazione si realizzino il più delle volte in modo automatico, ma anche come le motivazioni del soggetto possano influenzare questi processi, facendo sì che, a seconda dei contesti e degli obiettivi, siano alcune appartenenze categoriali a prevalere e a colorare le impressioni che ci formiamo.

Tab. 3.4. Tempi di risposta, in millisecondi, per decisioni lessicali riferite a parole associate allo stereotipo del dottore (modificata da Sinclair, Kunda, 1999).

3.10. Gli effetti automatici delle conoscenze sociali sui comportamenti All’interno delle rappresentazioni schematiche vengono incluse tutte le caratteristiche tipicamente associate ad una data categoria. Nel caso delle categorie sociali, oltre agli attributi fisici e alle caratteristiche di personalità, vengono racchiusi anche i comportamenti tipicamente eseguiti dai membri di tale gruppo, così come i comportamenti solitamente eseguiti nei loro confronti. Ciò significa che all’attivazione di una rappresentazione categoriale, anche alcune specifiche tendenze comportamentali possono venir attivate, in modo tale che proprio questi comportamenti risulteranno essere più probabili in quel contesto. Poiché gli schemi costituiscono delle mappe di riferimento attraverso cui ci muoviamo all’interno del nostro mondo sociale, essi assolvono anche la funzione di indirizzare in modo rapido ed efficace verso comportamenti presumibilmente più appropriati in ogni data situazione (Arcuri, Castelli, 2000). Ad esempio, Bargh ed i suoi collaboratori (Bargh, Chen, Burrows, 1996) hanno mostrato che giovani studenti a cui era stata attivata in modo subliminale la categoria «anziani», venivano influenzati nei loro comportamenti successivi, mostrando una maggiore lentezza nel modo di camminare. In modo automatico, la condotta veniva a modellarsi sulla base della categoria e dei relativi schemi motori attivati. Una volta che uno schema motorio viene attivato aumenta anche la probabilità che questo schema vinca la competizione con altri schemi motori alternativi per il controllo del comportamento. Ovviamente, sarebbe errato ritenere che l’attivazione di uno schema motorio conduca sempre ed inevitabilmente alla sua

esecuzione (Macrae, Johnston, 1998): questa sarebbe una visione meccanicistica eccessivamente semplificata che non risponde certamente al vero. Molteplici fattori sono coinvolti nel regolare la corrispondenza tra l’attivazione di schemi motori e la loro traduzione in effettivi comportamenti. In termini probabilistici, e a parità di condizioni, sono però le tendenze comportamentali già preattivate che godono di un privilegio rispetto alle altre e che possono, quindi, avere un peso maggiore nel guidare la condotta dell’individuo.

3.11. La soppressione degli stereotipi In molti casi la percezione sociale può rivelarsi particolarmente complessa e insidiosa. Immaginiamo una persona che si appresti ad interagire con un membro di un gruppo frequentemente discriminato, come ad esempio un immigrato africano, e che desideri portare avanti questa interazione con la chiara intenzione di non utilizzare stereotipi e di non apparire affetto da pregiudizio. Viene quindi posto come obiettivo consapevole quello di controllare le proprie risposte stando attenti a non lasciar filtrare giudizi stereotipici. Come abbiamo visto, le risposte basate sullo stereotipo costituiscono delle reazioni di tipo impulsivo e spontaneo nei confronti dei membri di un gruppo esterno, che, se non opportunamente controllate, vanno a colorare i successivi giudizi. Diventa perciò cruciale comprendere in quali condizioni e attraverso quali processi sia possibile tenere sotto controllo queste reazioni. Ci si è anche chiesti se una elevata attenzione consapevole sulle proprie risposte, la quale verifichi continuamente se elementi pregiudiziali siano presenti, possa costituire un’utile soluzione. Sostanzialmente, dal punto di vista soggettivo si tratta di verificare in continuazione se nei propri pensieri, parole ed azioni, abbiano fatto la loro comparsa indesiderati elementi di tipo stereotipico. Wegner (1994) ha proposto un modello che permette di render conto dei processi coinvolti nella individuazione dei contenuti mentali indesiderati – come ad esempio giudizi stereotipici –, nel tentativo di limitarne l’impatto. Due sono i processi critici identificati da Wegner. Un primo processo, definito processo di monitoraggio, ha lo scopo di controllare che i propri contenuti di pensiero corrispondano con lo stato desiderato. Ad esempio, una persona che desideri non lasciarsi influenzare da

conoscenze stereotipiche dovrà accertarsi che effettivamente contenuti stereotipici non si siano infiltrati nei suoi pensieri e nei suoi giudizi. La scansione dei propri contenuti di pensiero continua ad andare avanti in modo ricorsivo, finché non vengono rilevate anomalie, ovvero finché non si identifica la presenza di elementi indesiderati. In questo caso entra in azione un secondo processo, definito processo operativo, la cui specifica funzione è quella di sostituire i contenuti indesiderati con contenuti maggiormente accettabili e compatibili con il proprio obiettivo, quale, per l’appunto, il desiderio di non utilizzare stereotipi. Una volta che il processo operativo è intervenuto, il processo di monitoraggio ne verifica l’efficacia, confrontando lo stato attuale del sistema con lo stato desiderato del sistema stesso. Per comprendere appieno le conseguenze di questo modello è importante analizzare le specifiche caratteristiche dei due processi coinvolti. Il processo di monitoraggio è un processo che opera in modo largamente automatico, ovvero una volta che l’individuo si pone un dato obiettivo, la ricerca dei contenuti mentali incompatibili con tale obiettivo avviene spontaneamente e con un minimo dispendio di risorse cognitive. Una seconda basilare caratteristica di funzionamento del processo di monitoraggio è data dal suo basarsi sulla preliminare attivazione dei contenuti indesiderati. Il modo migliore per individuare nei propri contenuti di pensiero ciò che non si desidera consiste nell’avere inizialmente ben chiaro cosa sia ciò che si vuole evitare. Questa caratteristica risulta fondamentale per capire cosa avvenga nel momento in cui la motivazione a controllare i propri contenuti di pensiero venga meno. Ma prima di passare ad esaminare questo aspetto occorre chiarire le caratteristiche del processo operativo. A differenza del processo di monitoraggio, il processo operativo richiede molte risorse cognitive per poter lavorare. Si tratta quindi di un processo controllato che avviene sempre sotto uno stretto controllo consapevole. Ciò significa che come tutti i processi controllati è altamente influenzato dagli elementi esterni che possono interferire con il suo realizzarsi. Ad esempio, qualora l’individuo sia stanco o impegnato in altre attività, oppure l’ambiente provochi un elevato disturbo, il processo operativo ha difficoltà a procedere, e può fallire nel suo tentativo di sostituire i contenuti mentali indesiderati con pensieri maggiormente in

linea con gli obiettivi che ci si è prefissati e che, in quello specifico momento, si intende raggiungere. A partire dalle caratteristiche di funzionamento del modello proposto, in alcune circostanze, i tentativi di sopprimere i pensieri indesiderati risultano efficaci: una persona può cioè riportare le sue opinioni circa un membro di un gruppo stigmatizzato, senza lasciarsi influenzare dagli stereotipi. In altri casi però, quando il processo operativo per un qualunque motivo si blocca, si hanno degli effetti paradossali, ovvero si ottiene il risultato esattamente opposto rispetto alle proprie iniziali intenzioni: i contenuti che si volevano allontanare dalla propria mente ritornano in maniera ancora più forte, dominando i flussi di pensiero dell’individuo. Infatti, il processo di monitoraggio rende, inizialmente, particolarmente accessibili i contenuti di pensiero indesiderati al fine di poterli efficacemente individuare, ma se il processo operativo non li rimpiazza con altri contenuti di pensiero maggiormente accettabili, gli elementi indesiderati trovano campo libero nella mente dell’individuo. Nel caso della soppressione degli stereotipi, si può quindi ottenere l’effetto paradossale per cui l’iniziale desiderio di essere egalitari verso membri di gruppi esterni possa condurre, in modo inquietante, ad un aumento successivo di risposte discriminatorie. Una prima verifica sperimentale di queste idee proviene da uno studio condotto da Wegner ed i suoi collaboratori (1993, citato in Wegner, 1994). Essi hanno chiesto ai propri partecipanti di affrontare alcune tematiche sensibili rispetto alla posizione delle donne nella società, stando attenti a non utilizzare stereotipi. In condizioni normali, le persone erano generalmente abili nel seguire questa direttiva. Ben diversa era la situazione per i partecipanti che oltre ad eseguire questo compito erano distratti da un difficoltoso compito aggiuntivo. Infatti, questi partecipanti si rivelarono particolarmente sessisti nelle loro risposte, addirittura in misura maggiore rispetto ad altri partecipanti che eseguirono il compito senza avere la motivazione a sopprimere lo stereotipo associato alle donne. Si ha quindi un effetto paradossale di iper-utilizzo dello stereotipo proprio laddove vi è una motivazione a non usarlo, e tuttavia le condizioni ambientali rendono difficile l’intervento del processo operativo. Un’altra situazione delicata, che può potenzialmente condurre a simili effetti paradossali, è data dal venir meno della motivazione a sopprimere

determinati contenuti mentali. Pensiamo ad una persona che durante un primo incontro con un membro di un gruppo stigmatizzato sia spinta da un desiderio di non utilizzare stereotipi, e che successivamente incontri un secondo membro del medesimo gruppo, senza questa volta una particolare motivazione a non usare stereotipi. In questo caso, durante il primo incontro è presumibile che il livello di utilizzo di stereotipi sia piuttosto basso, ma non appena la motivazione alla soppressione venga meno è presumibile che le conoscenze stereotipiche attivate dal processo di monitoraggio risultino essere particolarmente accessibili e possano dominare la percezione del nuovo individuo incontrato. Per sottoporre a verifica sperimentale questa ipotesi, Macrae ed i suoi collaboratori (Macrae, Bodenhausen, Milne, Jetten, 1994) hanno chiesto ai loro partecipanti di immaginare la giornata tipica di uno skinhead ritratto in una fotografia, descrivendola per iscritto. Metà dei partecipanti doveva eseguire questo compito con l’istruzione a non usare stereotipi, mentre l’altra metà dei partecipanti non riceveva alcuna istruzione a sopprimere gli stereotipi (ossia non vi era condizione di controllo). In un momento successivo, a tutti i partecipanti veniva mostrata la fotografia di un nuovo skinhead e nuovamente bisognava immaginare quali potessero essere le sue abitudini di vita. In questa seconda fase però, nessuno dei partecipanti riceveva alcuna istruzione alla soppressione. I risultati mostrano in modo chiaro che nella prima fase i giudizi dei partecipanti istruiti a non usare stereotipi sono effettivamente meno stereotipici (si vedano le due colonne a sinistra nella Fig. 3.4). Questo risultato è in linea con il modello proposto da Devine, secondo cui attraverso un controllo consapevole è possibile evitare di lasciarsi influenzare dagli stereotipi. Più interessanti sono però i risultati della seconda fase: infatti, in questa fase, sono proprio coloro che in precedenza erano stati attenti a non usare stereotipi che danno libero sfogo a giudizi stereotipici, e in misura maggiore rispetto ai partecipanti nella situazione di controllo. L’effetto paradossale si manifesta quindi in questo iper-utilizzo di conoscenze stereotipiche una volta che la motivazione alla soppressione non sia più un obiettivo che l’individuo desidera perseguire.

Fig. 3.4. Ricorso a conoscenze stereotipiche nella descrizione di uno skinhead in due momenti successivi e a seconda delle istruzioni sperimentali (adattata da Macrae, Bodenhausen, Milne, Jetten, 1994).

In un successivo studio, Macrae ed i suoi collaboratori (Macrae, Bodenhausen, Milne, Jetten, 1994) hanno dimostrato che questi effetti ironici si riscontrano anche sui comportamenti. Ad esempio, dopo aver emesso giudizi con l’istruzione di stare attenti a non usare stereotipi, si tende ad avere successivi comportamenti guidati in misura maggiore dallo stereotipo che non si era potuto utilizzare. Ecco allora che se si descrive la giornata tipica di uno skinhead, evitando i luoghi comuni che la gente di solito impiega quando parla dei membri di questa categoria, ad un incontro successivo con uno di essi si rilevano ancor più forti comportamenti di distacco volti a porre la massima distanza fisica tra sé e lo skinhead incontrato. In accordo con il modello di Wegner, dovremmo attenderci che gli effetti riscontrati nei due studi appena citati siano riconducili ad una elevatissima accessibilità dei contenuti stereotipici proprio per i partecipanti motivati a sopprimere lo stereotipo. Per sottoporre a verifica questa ipotesi inerente i processi cognitivi sottostanti, Macrae ed i suoi collaboratori hanno una volta ancora chiesto ai propri partecipanti di descrivere la giornata tipica di uno skinhead, chiedendo o meno di non utilizzare conoscenze stereotipiche. Successivamente, i partecipanti dovevano svolgere un compito di decisione lessicale, indicando quanto più rapidamente possibile se stringhe di lettere che comparivano sullo schermo del computer fossero o meno parole dotate di senso. Tra le parole presentate, molte di esse rimandavano allo stereotipo dello skinhead. L’ipotesi da verificare prevede che siano i partecipanti che hanno soppresso

lo stereotipo ad elaborare in modo particolarmente rapido ed efficace queste parole, in quanto per essi lo stereotipo risulta ancor più attivato ed accessibile rispetto ai partecipanti nella situazione di controllo, i quali non avevano avuto istruzione di sopprimere tale stereotipo. I risultati confermano pienamente questa ipotesi, ed infatti si può riscontrare che la velocità di elaborazione delle parole non legate allo stereotipo (ossia irrilevanti) è uguale nelle due condizioni, mentre le parole che rimandano allo stereotipo sono elaborate più velocemente proprio dai partecipanti che avevano soppresso lo stereotipo (cfr. Fig. 3.5).

Fig. 3.5. Velocità di elaborazione di parole stereotipiche e irrilevanti in un compito di decisione lessicale in funzione dell’aver precedentemente soppresso o meno lo stereotipo (adattata da Macrae, Bodenhausen, Milne, Jetten, 1994).

Questi risultati sono stati replicati studiando la percezione di vari gruppi sociali e verificando la loro generalità anche in casi in cui la motivazione a sopprimere non derivasse da esplicite richieste da parte di persone esterne, ma fosse il frutto di un desiderio personale di adeguarsi a standard morali interni o a condivise norme sociali di condotta (Macrae, Bodenhausen, Milne, 1998; Wyer, Sherman, Stroessner, 2000). Risulta quindi evidente come il tentativo di liberarsi da giudizi stereotipici e di sfuggire all’influenza delle conoscenze stereotipiche sia un’impresa alquanto complicata e dispendiosa, tale da richiedere una continua vigilanza. Con sforzo, è possibile ridurre il livello di stereotipicità dei propri giudizi, ma occorre essere consapevoli delle possibili conseguenze, paradossali e pericolose, che si possono produrre non appena questo sforzo venga meno.

4. Percepire, comprendere e giudicare se stessi

I nostri sforzi interpretativi non sono esclusivamente indirizzati alla comprensione delle persone che stanno attorno a noi, ma anche al tentativo di rispondere alla ancor più complessa domanda «Io chi sono?». In alcune fasi della vita, come ad esempio durante l’adolescenza, questa domanda può occupare buona parte dei propri pensieri, mentre in altri periodi della propria esistenza può riaffiorare solo sporadicamente, ma ogni volta mostrandoci come sia difficile fornire una chiara e soddisfacente risposta. Parte di questa difficoltà è legata al fatto che la quantità di conoscenze circa se stessi supera di gran lunga quella che possediamo rispetto a qualunque altra persona. Ciò può rendere complesso giungere a giudizi riassuntivi che tengano conto, ad esempio, del fatto che si può essere burberi e seriosi sul lavoro, teneri e sensibili nella vita di coppia, e incoscienti e trasgressivi in compagnia degli amici. In aggiunta, mentre i giudizi rispetto a buona parte delle persone che ci circondano non incidono in modo massiccio sui nostri stati emotivi e sul nostro umore, ogni autovalutazione reca con sé ampi risvolti di tipo affettivo e quindi va gestita con estrema cautela. Un ulteriore elemento di complicazione è dato dal fatto che definire «chi siamo» significa fare i conti anche con «chi eravamo». Ciò implica la necessità di cercare di interpretare non solo il presente ma anche il passato, per giungere ad una percezione sufficientemente coerente di se stessi nel corso del tempo. Gli individui hanno bisogno di percepire una certa continuità temporale nell’immagine di se medesimi, ed il proprio passato viene frequentemente rivisitato con gli occhi del presente proprio al fine di crearsi un’illusione di continuità. D’altro luogo, ciò che una persona pensa di se stessa in un determinato momento costituisce una sorta di nocciola racchiusa tra due tenaglie. Infatti, l’autopercezione si trova a doversi continuamente confrontare con delle pressioni provenienti sia dall’esterno che dall’interno. Le persone

significative che ci circondano, come ad esempio gli amici, la famiglia o il proprio partner, nutrono ciascuna delle aspettative specifiche su come «dovremmo essere», e allo stesso tempo noi stessi ci formiamo degli standard interni rispetto a come «vorremmo essere». Si tratta in quest’ultimo caso di ideali più o meno plausibili da voler raggiungere, ma che al momento si collocano solo tra i desideri personali. Quindi, l’autopercezione non ha unicamente un suo valore in assoluto, ma è anche relativa a quelli che sono gli obiettivi di realizzazione posti dall’esterno o definiti in prima persona. Il tentativo di far luce su tutte queste tematiche sarà l’oggetto di questo capitolo.

4.1. Le fonti della conoscenza di sé Il modo in cui definiamo noi stessi subisce delle variazioni nel corso della vita. Ad esempio, durante l’infanzia e la preadolescenza sono le caratteristiche fisiche che dominano l’autopercezione, mentre con l’avvicinarsi dell’età adulta diventano sempre più importanti le caratteristiche di tipo psicologico (Montemayor, Eisen, 1977). A questo punto, una prima importante fonte di conoscenza di sé è data dall’introspezione. Da alcuni studi emerge che le persone adulte dedicano circa l’8% dei loro pensieri a riflettere su se stesse, una quantità di pensieri abbastanza consistente, ma comunque inferiore al tempo dedicato al pensare al lavoro o alle faccende domestiche (Csikszentmihalyi, Figurski, 1982). Probabilmente non focalizzare eccessivamente i propri pensieri su se stessi e sui propri stati interni è importante per una serie di motivi, sui quali ci soffermeremo in seguito, ma anche perché dall’introspezione può derivare una percezione distorta di se stessi. Le persone sanno di essere nervose, innamorate o eccitate, ma non sempre riescono a ricostruire in modo accurato i motivi che sono alla base di questi loro stati interni (Schacter, Singer, 1962; Wilson, Laser, Stone, 1982). In questo tentativo di risalire alle motivazioni ci si appella frequentemente alle spiegazioni più plausibili, ovvero quelle spiegazioni coerenti con le nostre teorie implicite ed i nostri schemi, oppure quelle spiegazioni che in un dato contesto risultano più accessibili (Dutton, Aron, 1974). Tutto questo, ovviamente, non indica in modo univoco che i risultati degli sforzi introspettivi siano necessariamente inaccurati, ma che questo rischio esiste e diventa

particolarmente rilevante in talune situazioni. Ad esempio, attraverso sforzi introspettivi si può cercare di definire il proprio livello di autostima, ma, come vedremo in seguito, con estrema frequenza questa operazione porta ad una sorta di autoinganno, facendo sì che certe proprie qualità vengano esagerate. Una seconda importante modalità attraverso cui articoliamo la conoscenza di noi stessi è data dall’osservazione dei nostri comportamenti. Così come comprendiamo gli altri attraverso l’analisi delle azioni che compiono, allo stesso modo l’esame dei nostri comportamenti può fornire notevoli indicazioni. La più importante teoria a riguardo, la teoria dell’autopercezione di Bem (1972), prevede che ogni volta che non vi sia una chiara immagine di se stessi lungo una data dimensione, i comportamenti che eseguiamo diventano particolarmente diagnostici. Immaginiamo uno studente che dopo alcuni mesi dall’iscrizione ad un dato corso di laurea si interroghi circa la bontà della propria scelta e circa il possesso o meno delle qualità necessarie per riuscir bene in questo corso di studi. Potrà allora ripercorrere i propri comportamenti del recente passato, per capire se, ad esempio, quando deve prendere in mano i libri di studio temporeggi il più possibile o lo faccia immediatamente e con slancio, oppure se la lettura dei libri proceda a rilento o in modo sufficientemente chiaro e spedito, e così via. In altre parole, i comportamenti eseguiti possono diventare informativi delle motivazioni e delle presunte capacità. Così, lo studente che rievoca molti episodi in cui ha prontamente assolto ai suoi impegni di studio, riuscendo ogni volta a leggere con profitto e soddisfazione molte pagine, potrà concludere che forse ha imboccato la strada giusta. Situazioni potenzialmente pericolose si instaurano però nel momento in cui alcune motivazioni esterne ai propri comportamenti diventano eccessivamente rilevanti. Pensiamo sempre ad uno studente che si applichi con impegno, e che i genitori ricompensano con dei regali o dei soldi per ogni successo scolastico ottenuto. Le ricompense aumenteranno le motivazioni esterne che sostengono il comportamento di studio, e tutto ciò a discapito delle motivazioni interne. Infatti, è stato dimostrato che l’introduzione di incentivi esterni fa sì che questi ultimi non si vadano ad aggiungere alle esistenti motivazioni interne, come ad esempio il piacere di studiare, ma tendano a prendere il loro posto diminuendo quindi la soddisfazione personale che si trae dall’esecuzione del comportamento. Questo

fenomeno si chiama effetto di sovragiusitificazione, in quanto le persone giustificano il loro comportamento focalizzandosi in modo eccessivo sulle cause esterne e ponendo in secondo piano le proprie motivazioni interne al comportamento (Deci, Ryan, 1985; Greene, Sternberg, Lepper, 1976; Lepper, Green, 1978). Una terza importante modalità di acquisizione di informazioni su se stessi è data dal confronto con gli altri. Festinger (1954) ha proposto la teoria del confronto sociale, sottolineando come la conoscenza in assoluto delle nostre caratteristiche non sia particolarmente informativa se non sappiamo quali siano le caratteristiche possedute dalle altre persone attorno a noi. Ad esempio, uno studente che superi un esame con un punteggio di 24/30 dovrà essere contento oppure no? Molto dipenderà dal punteggio conseguito dagli altri studenti che hanno sostenuto l’esame. Se pochissimi hanno superato l’esame, e per di più con un punteggio molto basso, vi sono validi motivi per essere contenti ed orgogliosi della propria prestazione. Al contrario, se buona parte dei voti attribuiti oscillano tra il 28 e il 30, vi saranno minori motivi di soddisfazione. In generale, il confronto con gli altri diventa più probabile quanto più le persone si trovano in una situazione di incertezza circa loro stesse in una determinata area della propria esistenza. Così, il confronto con gli altri studenti sarà particolarmente intenso dopo i primi esami sostenuti, in quanto vi è ancora un margine di incertezza relativo alla propria scelta e alla propria adeguatezza rispetto ad un certo corso di studi, mentre con il passare del tempo dovrebbe via via diventare meno frequente e soprattutto meno determinante per comprendere le proprie caratteristiche ed abilità in questo àmbito. I ricercatori si sono inoltre chiesti chi siano le persone che vengono scelte con maggiore frequenza come elementi di confronto. Non tutti i confronti sociali hanno la stessa qualità informativa. L’elemento che sembra determinante nella scelta delle persone con cui confrontarsi è la similarità: quanto più tali persone vengono ritenute simili, tanto più il confronto risulterà informativo circa le caratteristiche del Sé (Suls, Wills, 1991). In modo ancor più sottile, ci si è chiesti se il confronto venga preferenzialmente condotto con persone che abbiano qualità lievemente superiori oppure inferiori. Nel primo caso si parla di confronto sociale verso l’alto, mentre nel secondo caso di confronto sociale verso il basso. La prima strategia di confronto viene preferita quando si desidera raggiungere un

buon grado di accuratezza circa le proprie prestazioni e capacità (Zanna, Goethals, Hill, 1975). Ad esempio, chi si avvicina ad una disciplina sportiva ha bisogno di confrontarsi con chi eccelle nella disciplina prescelta se vuole comprendere il proprio valore. Non sempre però le persone posseggono un forte desiderio di conoscere il proprio reale valore in un certo àmbito, preferendo cullarsi nell’idea non necessariamente veritiera che questo sia elevato. In questi casi, si opera un confronto sociale verso il basso, che si configura principalmente come una strategia di innalzamento del Sé attraverso la ricerca di termini di confronto che permettano, almeno ai propri occhi, di apparire in una luce positiva (Pyszczynski, Greenberg, La Prelle, 1985). Un esempio di come il confronto sociale verso il basso possa essere utilizzato in modo strategico è fornito dai malati di cancro, che spesso adottano modalità di confronto con pazienti più gravi per ridimensionare ai propri occhi la gravità della propria malattia e poter nutrire un qualche ottimismo circa il suo decorso (Wood, Taylor, Lichtman, 1985).

4.2. Il Sé come schema Il contenuto dello schema di sé, inteso come una generalizzazione circa le proprie personali caratteristiche, varia notevolmente da individuo a individuo. Alcuni si percepiscono come persone estroverse, altre come persone introverse; alcuni si ritengono indipendenti ed altri invece dipendenti. A prescindere da queste differenze individuali, i contenuti dello schema di sé influenzano il modo in cui organizziamo le informazioni in memoria ed elaboriamo le nuove informazioni che acquisiamo dall’ambiente. Per verificare queste influenze dello schema di sé, Markus (1977) ha suddiviso i partecipanti al suo studio in 3 differenti gruppi: un primo gruppo era costituito da persone che si autodefinivano indipendenti, un secondo gruppo includeva persone che si consideravano dipendenti, ed infine in un terzo gruppo vi erano coloro per cui la dimensione della dipendenza/indipendenza non risultava rilevante. Quindi, i primi due gruppi erano schematici per quanto riguarda la dipendenza/indipendenza, mentre l’ultimo gruppo era aschematico. Markus riscontrò che questa distinzione tra dipendenti ed indipendenti influenzava tutta una serie di giudizi relativi al Sé. Ad esempio, dovendo decidere se un

aggettivo fosse descrittivo del Sé, i partecipanti indipendenti rispondevano molto più velocemente ai tratti che rimandavano in qualche modo all’indipendenza, mentre l’opposto accadeva per i partecipanti dipendenti. I partecipanti aschematici lungo questa dimensione non mostravano invece alcuna particolare facilità di elaborazione per alcuna tipologia di tratti. Allo stesso modo, i partecipanti indipendenti riuscivano con facilità a recuperare dalla memoria episodi del proprio passato in cui si erano mostrati indipendenti, così come i partecipanti dipendenti riuscivano a fare con gli episodi legati invece a comportamenti di dipendenza. In sintesi, emerge una elevata accessibilità dei contenuti che sono coerenti con lo schema di sé, e questi contenuti vengono elaborati con estrema facilità ed efficienza. Come accennato in precedenza, questi processi di tipo generale assumono delle connotazioni particolarmente drammatiche nelle persone depresse (Kuiper, MacDonald, Derry, 1983). Infatti, gli effetti riscontrati nello studio di Markus appena descritto si applicano anche laddove lo schema di sé giunge ad essere organizzato attorno a dimensioni negative, quali la convinzione di valere poco, di essere incapaci, non accettati e così via. Uno schema di sé di questo tipo condurrà quindi ad essere particolarmente sensibili nel filtrare le informazioni ambientali coerenti con esso, così come nel recuperare dalla memoria episodi del proprio passato che confermino questa immagine personale negativa e svalutata (Derry, Kuiper, 1981). La centralità dello schema di sé nei processi di pensiero è testimoniata anche dalla profonda accuratezza con cui vengono elaborate le informazioni ogni volta che il Sé sia coinvolto. Ogni volta che alcune informazioni vengono elaborate in riferimento al Sé acquisiscono uno status particolare, e vengono meglio codificate in memoria e meglio recuperate dal magazzino mnestico. Rogers, Kuiper e Kirker (1977) hanno ad esempio riscontrato che il tipo di compito assegnato ai partecipanti ad uno studio, mentre venivano proposti loro degli aggettivi, influenzava marcatamente la probabilità successiva di ricordarli. Se il compito si basava sulle caratteristiche superficiali degli stimoli, come ad esempio le caratteristiche fonologiche (per es., «dimmi se altruista fa rima con artista»), il ricordo era abbastanza limitato. Al contrario, il ricordo aumentava se il compito prevedeva un’analisi semantica degli stimoli (per es., «dimmi se

altruista è sinomino di disponibile verso il prossimo») e diventava massimo quando il giudizio richiesto rimandava alla descrittività o meno del Sé («dimmi se altruista ti descrive»). Non appena i giudizi riguardano il Sé, questi diventano particolarmente rilevanti per l’individuo, che opererà così un’elaborazione estremamente accurata, aumentando così le probabilità di un successivo recupero di tali informazioni. Questi fenomeni segnalano una volta ancora la forte caratterizzazione egocentrica dei processi di pensiero. Gli schemi di sé esercitano anche una importante influenza rispetto alla ricerca di informazioni nell’ambiente. Abbiamo esaminato in precedenza i bias di tipo confermativo nella scoperta delle caratteristiche dei nostri interlocutori (Snyder, Swann, 1978): ad esempio, se si ipotizza che l’interlocutore sia estroverso verranno poste preferenzialmente domande che vadano a confermare questa ipotesi di partenza piuttosto che a disconfermarla. Fong e Markus (1982) hanno dimostrato che le caratteristiche personali guidano in modo analogo l’esplorazione del nostro mondo sociale. Ecco allora che persone estroverse tenderanno ad avvicinarsi agli altri ponendo loro domande che hanno a che fare con l’estroversione, mentre persone introverse privilegeranno domande inerenti l’introversione. Si hanno perciò strategie volte a confermare la similarità tra noi e gli altri lungo le dimensioni che sono rilevanti per l’autopercezione.

4.3. La ricerca di informazioni sul Sé: le motivazioni di autoaccrescimento e di autoverifica Frequentemente abbiamo la possibilità di andare alla ricerca di informazioni rispetto a cosa gli altri pensino di noi oppure rispetto al risultato di una nostra prestazione. Dietro questa acquisizione di informazioni circa il Sé possono però celarsi delle insidie. Ad esempio, potremmo scoprire di non essere apprezzati come avremmo desiderato. Questo tipo di rischi si presenta in modo accentuato laddove l’individuo sappia di esser giudicato lungo delle dimensioni rispetto alle quali è consapevole di essere carente. Immaginiamo una persona impacciata nei rapporti con l’altro sesso, che ad ogni occasione di approccio arrossisce ed inizia drammaticamente a balbettare. Egli potrà a questo punto voler

evitare di sapere cosa gli altri pensino di lui rispetto a questo specifico dominio. Quindi, mossa da motivazioni di autoaccrescimento, la persona potrà raccogliere informazioni sul Sé unicamente in riferimento a domini in cui sa di essere apprezzata ed evitare accuratamente qualunque accenno alle relazioni con l’altro sesso. Questo scenario è sicuramente verosimile e cattura molti elementi di situazioni reali. D’altro lato, non sempre le persone celano e rifuggono da quegli aspetti del Sé che riconoscono come loro punti di debolezza. Infatti, vi sono spesso dei buoni motivi per mostrare agli altri queste nostre debolezze: rendendo consapevoli anche gli altri dei nostri punti deboli si può ottenere il loro supporto. Ad esempio, le altre persone potranno aiutare ad evitare le situazioni più imbarazzanti ed ansiogene intervenendo in nostro soccorso. In aggiunta, una motivazione fondamentale che regola l’acquisizione di informazioni sul Sé è il bisogno di autoverifica. Con questo si intende il desiderio di mantenere una stabile immagine di sé organizzata attorno alle proprie convinzioni personali. Quindi, anche gli aspetti negativi della propria autoimmagine sono comunque dei pilastri sui quali la propria rappresentazione del Sé viene a costruirsi, e risulta importante impegnarsi per mantenere tale rappresentazione. Le situazioni in cui le persone posseggono una immagine negativa di sé lungo una determinata dimensione di giudizio permettono, quindi, di verificare la forza relativa delle strategie di autoaccrescimento e di autoverifica. Seguendo questa logica, Swann e Read (1981), in una serie di studi, hanno esaminato i differenti comportamenti di persone con una elevata opinione di sé o con una immagine di sé piuttosto negativa. Inizialmente, attraverso la compilazione di un questionario, i partecipanti venivano suddivisi tra coloro che pensavano a sé medesimi in quanto persone piacevoli che attraggono con facilità la simpatia altrui, e coloro che, al contrario, ritenevano di non piacere solitamente agli altri. Dopo questa iniziale operazione, si chiedeva di rispondere ad una serie di domande su questioni delicate, come ad esempio la tematica dell’aborto, avvertendo che le risposte sarebbero state in seguito mostrate ad un altro partecipante allo studio, con cui, si diceva, avrebbero dovuto successivamente interagire. Prima di questa presunta interazione, vi erano però le misure di interesse. Infatti, si diceva al soggetto che l’altro partecipante aveva letto le risposte che egli aveva appena fornito e si era formato un’impressione su di lui, impressione che

aveva riportato su due fogli: sul primo foglio vi era un sintetico giudizio di piacevolezza/spiacevolezza, mentre sul secondo foglio vi erano più dettagliate informazioni che specificavano meglio la sua impressione. Metà dei partecipanti, individuati in modo casuale, scopriva di piacere all’altro partecipante, mentre l’altra metà era indotta a credere di non piacergli. La variabile dipendente di interesse era quindi il tempo dedicato alla lettura delle affermazioni specifiche, in cui era possibile scoprire il perché si piacesse o meno al proprio futuro interlocutore. Ora, se il desiderio di autoaccrescimento è sempre predominante, dovremmo poter riscontrare che tutte le persone si soffermano maggiormente sulle informazioni che le mettono in luce positiva, leggendo con attenzione l’impressione positiva che hanno suscitato negli altri. Al contrario, se il desiderio di autoverifica gioca un ruolo importante nella ricerca di informazioni sul Sé, dovremmo attenderci che le persone con una visione negativa di sé dovrebbero comunque preferire ed essere maggiormente attente alla descrizione che conferma l’immagine che hanno di se stesse. In altre parole, questi specifici partecipanti anziché cullarsi in una descrizione che li elogia, scorrendo velocemente la descrizione che li critica, se seguissero un desiderio di autoverifica dovrebbero fare esattamente, l’opposto privilegiando le informazioni coerenti con la propria autoimmagine. I risultati supportano pienamente quest’ultima possibilità, dimostrando che la massima attenzione è sempre dedicata alla descrizione coerente con l’immagine di sé, piuttosto che alla descrizione che potrebbe recare i massimi benefici nei termini di autoaccrescimento (si veda Fig. 4.1): pare dunque che la motivazione all’autoverifica sia più forte della motivazione all’autoaccrescimento.

Fig. 4.1. Tempi di lettura dell’impressione suscitata negli altri a seconda dell’immagine di sé e del contenuto della descrizione (adattata da Swann, Read, 1981).

Swann e Read (1981) si sono anche chiesti quale influenza il desiderio di autoverifica possa esercitare sulle effettive interazioni sociali. Ad esempio, una persona che si considera estremamente piacevole, come si comporterà interagendo con qualcuno che sospetta possa percepirlo come dotato di scarsa socievolezza? E allo stesso modo, quando una persona con una scarsa opinione di sé incontra qualcuno che potrebbe invece ritenerla socievole, quale tipo di condotta metterà in atto? Per rispondere a queste domande Swann e Read hanno nuovamente individuato partecipanti con una alta e una bassa concezione di sé rispetto alla socievolezza, le quali venivano in seguito fatte interagire con un’altra persona. Come nel precedente studio, ad alcuni veniva fatto credere che questa persona si era formata un’impressione su di loro coerente con il modo in cui i partecipanti stessi si percepivano, mentre un secondo gruppo di partecipanti era indotto a credere che l’impressione del partner su di loro era opposta rispetto a come essi stessi si percepivano. L’elemento di interesse dello studio risiedeva nella rilevazione della condotta più o meno socievole messa in atto dai partecipanti nel corso dell’interazione. In modo interessante, i partecipanti con una buona opinione di sé si comportavano in modo particolarmente piacevole con il partner quando ritenevano che egli li considerasse poco socievoli: poiché la propria autoimmagine risultava minacciata si impegnavano per modificare l’erronea impressione che, ritenevano, il partner si fosse formata. In altre parole, vi è un particolare sforzo per ristabilire un accordo tra la percezione personale del Sé e la percezione del Sé da parte di persone esterne. Anche il comportamento dei partecipanti con una bassa opinione di sé si manifestava seguendo la stessa logica. I comportamenti risultavano infatti essere particolarmente poco socievoli proprio laddove il partecipante riteneva che l’interlocutore lo considerasse socievole. Attraverso la propria condotta vi è quindi il tentativo di modificare l’impressione del partner in accordo con le proprie concezioni sul Sé, anche quando questo può significare un peggioramento nell’impressione suscitata negli altri. I due studi appena descritti testimoniano la forza della motivazione all’autoverifica. D’altro lato, questa motivazione deve conciliarsi con una efficace gestione dell’immagine di sé in termini positivi, e non sempre

questi due obiettivi appaiono tra loro compatibili. Quando le persone hanno una visione negativa di se stessi lungo una data dimensione, le due motivazioni sono tra loro incongruenti e, come abbiamo appena visto, possono addirittura portare a volere che gli altri si formino un’impressione negativa. La soluzione adottata prevede che le persone, tipicamente, cerchino feedback dall’ambiente in modo prioritario rispetto a dimensioni positive del sé (Swann, Pelham, Krull, 1989). In questi casi, autoverifica ed autoaccrescimento coincidono. Si cercano quindi soprattutto riscontri ai propri punti di forza piuttosto che ai punti di debolezza, e solo quando questi ultimi non si possono evitare, la motivazione all’autoverifica prende il sopravvento rispetto alla motivazione all’autoaccrescimento. Questi processi assolvono anche importanti funzioni rispetto alla scelta dei propri amici o del proprio partner. Infatti, attraverso lo sviluppo di relazioni interpersonali è possibile soddisfare i bisogni personali sia di autoaccrescimento che di autoverifica. Ad esempio, dai dati di ricerca emerge che la scelta del proprio partner ricade, con maggiore probabilità, su persone che simultaneamente permettono di mantenere una immagine positiva di sé e mostrano di condividere l’opinione che l’individuo ha di se stesso (Katz, Beach, 2000). Quindi, relazioni interpersonali positive si sviluppano laddove la relazione permetta di soddisfare entrambe queste motivazioni di base, ma nei casi in cui l’autoaccrescimento non si realizzi diventa fondamentale almeno la soddisfazione della motivazione di autoverifica.

4.4. Il Sé nel presente per ricostruire il proprio passato Il proprio passato viene costantemente rivisitato in funzione del presente. In questo modo, i nostri ricordi non sono necessariamente uno specchio fedele di come eravamo, di quali atteggiamenti, comportamenti e sentimenti, colorassero la nostra vita anni addietro. Pensiamo agli innamorati che nelle fasi più coinvolgenti del loro rapporto formulano giudizi reciproci estremi ed entusiastici, mentre a distanza di tempo, quando il rapporto è ormai concluso e si sono proiettati in nuovi rapporti di coppia, ridimensionano l’eccezionalità di quel precedente rapporto a suo tempo ritenuta indiscutibile. Seguendo questa logica, McFarland e Ross (1987) hanno intervistato degli studenti universitari chiedendo loro di

valutare il proprio partner in quel dato momento. A distanza di qualche mese intervistarono una seconda volta le coppie sopravvissute, chiedendo sia una nuova valutazione del partner sia di ricordarsi come avessero risposto alcuni mesi addietro. In modo chiaro, se il giudizio attuale era migliorato si tendeva a sovrastimare anche la positività del giudizio formulato nel recente passato. Al contrario, nei casi in cui il giudizio attuale era peggiorato, la tendenza riscontrata era quella di ritenere che nella precedente rilevazione i giudizi fossero più negativi rispetto a quanto invece non fossero stati. Questo stesso fenomeno è stato dimostrato rispetto a vari àmbiti di giudizio, come ad esempio le credenze politiche o l’uso di alcool e marijuana (Collins, Graam, Hansen, Johnson, 1985; Niemi, Katz, Newman, 1980). Le credenze e le abitudini del presente funzionano da punto di riferimento nella percezione e ricostruzione del passato. Nell’esempio che abbiamo visto, il passato viene assimilato al presente per fornire una illusione di continuità. In alcuni casi però la distorsione avviene in senso opposto, ovvero la propria situazione passata viene allontanata da quella presente. Ciò si verifica ogni volta che la persona possiede una teoria del cambiamento in accordo alla quale si preveda di dover cambiare nel corso del tempo (Ross, McFarland, 1988). Pensiamo ad un paziente che si sottoponga ad una terapia contro il cancro di dubbia efficacia oggettiva, ma in cui egli creda ciecamente. In questa situazione, a fronte di una mancanza di miglioramenti nelle condizioni mediche attuali, è possibile che la persona accentui nella propria percezione la gravità dei sintomi nel passato per salvaguardare la propria credenza circa l’efficacia della terapia intrapresa. Allo stesso modo, uno studente che dedichi fatica e denaro per frequentare corsi che migliorino le sue capacità d’apprendimento, potrebbe non trarre alcun giovamento dal corso in sé, ma illudersi di esser migliorato attraverso la svalutazione delle proprie capacità passate, antecedenti alla frequentazione del corso (Ross, Conway, 1986).

4.5. I Sé possibili Oltre a rivisitare mentalmente il proprio passato, le persone dedicano molto tempo ad immaginare se stesse proiettate nel futuro. Sia nella vita privata che in quella professionale, ognuno possiede aspirazioni ed obiettivi

che vanno a configurare «ciò che si vorrebbe diventare» e che si ritiene di «poter diventare». Si tratta quindi di rappresentazioni del Sé non ancora acquisite, ma desiderate e ritenute probabili. Markus e Nurius (1986) hanno chiamato queste rappresentazioni Sé possibili, essendo per l’appunto quelle componenti del Sé non ancora sviluppate ma potenzialmente realizzabili nel futuro. Queste componenti del Sé orientate al futuro non sono dei semplici esercizi immaginativi, ma svolgono una funzione importante nelle strategie d’azione dell’individuo. I Sé possibili vanno a costituire una sorta di faro in grado di orientare i progetti personali verso la loro realizzazione, e ciò risulta particolarmente vero tanto più gli obiettivi da voler raggiungere risultano definiti con chiarezza. Markus e Ruvolo (1989) hanno ad esempio dimostrato sperimentalmente che le persone a cui si chiedeva di immaginarsi proiettate in un futuro lavorativo ricco di successi piuttosto che caratterizzato da delusioni e fallimenti, risultavano assai più efficaci e perseveranti nell’esecuzione di compiti successivi. Secondo le autrici dello studio, l’aver reso saliente un Sé possibile positivo costituisce una forte spinta motivazionale in grado di aumentare e sostenere nel tempo i comportamenti che effettivamente possano aiutare a conseguire un tale Sé futuro. Talvolta, i Sé possibili a cui si aspira si collocano lontani nel tempo, e sono raggiungibili solo attraverso un impegno continuativo assai prolungato. Ad esempio, il giovane calciatore che desideri poter giocare in una squadra di prestigio sa che solo anni di sacrifici e allenamenti quotidiani potranno permettergli la realizzazione del suo obiettivo. Allo stesso modo, lo studente che desideri acquisire una determinata identità professionale, quale quella dello psicologo, deve necessariamente intraprendere un lungo percorso prima di veder concretizzate le proprie aspirazioni. In questi casi, è possibile intervenire con quello che Wicklund e Gollwitzer (1982) chiamano completamento simbolico: nel momento in cui l’obiettivo desiderato sia ancora lontano, ci si può orientare verso la ricerca e l’ostentazione di simboli sostitutivi che segnalino a se stessi e agli altri la propria nuova identità in fase di costruzione. Ad esempio, i bambini che entrano a far parte di gruppi di boy-scout hanno maggior bisogno, rispetto a coloro che da più tempo appartengono al gruppo, di mostrare tutta una serie di elementi d’abbigliamento (decorazioni, fazzoletti, ecc.) che segnalino l’appartenenza al tanto desiderato gruppo; poiché la propria

identità in quanto membri del gruppo si sta lentamente formando, ecco che i simboli sostitutivi intervengono compensando lo stato di incompletezza e rendendo sempre saliente il desiderio di acquisizione di tale identità. Finora ci si è focalizzati su rappresentazioni del Sé nel futuro che sono in qualche modo desiderate dall’individuo, il quale si impegna con passione per il loro conseguimento. Ciò è in larga misura giustificato dal fatto che i Sé possibili, spontaneamente costruiti dagli individui, hanno una valenza prevalentemente positiva. Nel momento in cui ci si vede proiettati nel futuro, la maggior parte delle persone si rivela profondamente ottimista, immaginandosi in situazioni connotate da salute e successo. Tuttavia, in alcuni casi, i Sé possibili possono configurarsi come stati futuri tutt’altro che auspicati. Ad esempio, ci si può vedere proiettati in una situazione di disoccupazione o di solitudine: così come la vividezza dei Sé possibili desiderati può costituire un forte stimolo alla perseveranza e all’impegno, allo stesso modo, tanto più i Sé possibili negativi si impongono alla mente della persona, tanto minore sarà lo slancio con cui si affronteranno le sfide quotidiane, accrescendo quindi la probabilità che tali stati futuri indesiderati si realizzino.

4.6. Il modello di Higgins circa le discrepanze del Sé I Sé possibili, come abbiano appena visto, sono delle rappresentazioni deputate a definire come il Sé probabilmente si evolverà nel futuro. Si tratta cioè di fotografie più o meno accurate in grado di cogliere delle possibili situazioni future. In molti casi queste previsioni future coincidono con i desideri più intimi dell’individuo, ma non sempre è così. Infatti, una realistica previsione del Sé proiettato nel futuro non necessariamente coincide con il Sé che incarna invece gli ideali ed i valori dell’individuo. Higgins definisce come Sé ideale questa componente del Sé che racchiude le aspirazioni più profonde possedute dalla persona (Higgins, 1987). Una seconda importante componente del Sé, secondo Higgins, è il cosiddetto Sé attuale, il quale ha a che fare con il modo in cui le persone pensano a se stesse nel presente e alle caratteristiche che si attribuiscono. Si tratta cioè di una componente che rimanda all’autopercezione. Vi è in aggiunta una terza componente del Sé, di tipo più propriamente normativo, che si

struttura a partire dalle aspettative che le persone significative – come ad esempio i genitori, il proprio partner, o gli amici intimi – nutrono nei nostri confronti. In questo caso, si possiede una rappresentazione di come si dovrebbe essere per soddisfare queste importanti aspettative esterne. Tale rappresentazione viene denominata Sé imperativo. L’elemento cruciale nel modello di Higgins nasce dalla constatazione che questi tre differenti parametri del Sé (ossia: Sé attuale, Sé ideale, Sé imperativo) non sempre sono tra loro coerenti, ma talvolta presentano evidenti elementi di discrepanza. In alcune circostanze, la rilevazione di punti di discrepanza può essere un efficace stimolo al cambiamento personale in una direzione auspicata, ma in altri casi la discrepanza si presenta come non risolvibile o almeno viene vissuta soggettivamente in quanto tale. Nel modello di Higgins particolare attenzione viene posta alla discrepanza tra il Sé attuale e le altre due dimensioni del Sé, in quanto può condurre a rilevanti conseguenze sul piano emotivo ed affettivo. Quando l’immagine che un individuo ha di sé (Sé attuale) è ampiamente lontana rispetto agli ideali che l’individuo si è posto (Sé ideale), vi è il rischio che vengano esperite sensazioni di disagio, inadeguatezza e tristezza, che possono portare ad una «chiusura in se stessi» e a depressione. Al contrario, differenze marcate tra Sé attuale e Sé imperativo possono essere all’origine di stati di agitazione ed ansia. Infatti, quando le richieste esterne sono consistenti, ma si vive nella consapevolezza di non poter far fronte ad esse, l’individuo affronta con ansia questa situazione di mancato adeguamento alle aspettative del proprio ambiente sociale. Dal punto di vista empirico, queste tematiche vengono indagate chiedendo ai rispondenti di elencare separatamente le caratteristiche definenti il Sé attuale, il Sé ideale e il Sé imperativo. Al termine di questa operazione è possibile verificare il grado di sovrapposizione o discrepanza fra le tre descrizioni fornite. Ciò che Higgins ed i suoi collaboratori rilevano, è che l’entità della discrepanza tra Sé attuale e Sé ideale è collegata a punteggi elevati su strumenti psicometrici in grado di misurare le tendenze depressive, mentre il grado in cui la rappresentazione del Sé attuale si discosta dalla rappresentazione del Sé imperativo è un buon predittore della comparsa di ansia sociale. A fronte di marcate discrepanze tra i vari aspetti del Sé si manifestano anche differenti modalità di far fronte agli eventi negativi della vita. In un ulteriore studio, Higgins ed i suoi

collaboratori (Higgins, Bond, Klein, Strauman, 1986) hanno inizialmente identificato soggetti con un Sé ideale o un Sé imperativo assai distante dal Sé attuale. A distanza di qualche settimana, venivano rilevate le risposte emotive di queste persone di fronte ad eventi positivi, come ad esempio una serata con una persona cara, oppure eventi spiacevoli, quali un pessimo voto ad un esame oppure un rifiuto da parte della persona di cui si erano innamorate. In modo interessante, le reazioni dopo un evento positivo erano identiche sia per i rispondenti con una elevata discrepanza tra Sé attuale e Sé ideale, sia per coloro con una elevata discrepanza tra Sé attuale e Sé imperativo. Al contrario, queste due tipologie di persone si differenziavano nelle loro risposte emotive a situazioni negative (si veda la Tabella 4.1). Infatti, quando la discrepanza coinvolgeva il Sé ideale, erano sentimenti di abbattimento e ritiro in se stessi ad essere predominanti (per es. tristezza, infelicità, insoddisfazione, ecc.), mentre quando era il Sé imperativo ad essere lontano dalla rappresentazione del Sé attuale, erano sentimenti di agitazione e di ansia a prevalere (per es. ansia, paura, nervosismo, ecc.).

Tab. 4.1. Risposte di abbattimento o agitazione in seguito ad eventi negativi in funzione del tipo di discrepanza tra le componenti del Sé (adattata da Higgins et al., 1986). A punteggi più elevati corrispondono più forti riposte emotive.

Questa serie di studi dimostra come la sensazione di non veder soddisfatti dei propri standard interni, oppure fissati dall’esterno da altre persone significative, può incidere fortemente sullo stato d’umore e sulle risposte affettive. La forza di queste conseguenze diventa tanto più marcata non solo in funzione dell’entità delle discrepanze riscontrate, ma anche in relazione a quanto la persona si sofferma a riflettere su di esse. Quando una persona dedica molti dei suoi pensieri a ripercorrere la propria situazione di incompletezza rispetto al Sé ideale o al Sé imperativo, queste discrepanze diventano particolarmente accessibili, facendo sì che sempre più si ripresentino alla mente con estrema facilità. Tutto ciò rende infine più estreme le relative risposte emotive di tristezza e abbattimento oppure di ansia e agitazione (Higgins, Shah, Friedman, 1997).

4.7. Il Sé operante: la parte del Sé al lavoro Finora abbiamo parlato dello schema di sé come se si trattasse di una rappresentazione monolitica e ben definita che si presenta costante al variare delle situazioni. In realtà, il Sé è una rappresentazione così complessa che, col variare delle situazioni, presenterà probabilmente alcune sue componenti cronicamente accessibili, sempre al lavoro, ed altre che invece diventano attive proprio in virtù del contesto in cui ci si viene a trovare. Il Sé operante può quindi essere definito come quella porzione dell’autorappresentazione che è attiva in un dato momento e guida i processi di elaborazione, mentre le altre componenti della percezione di sé sono momentaneamente silenti ed esercitano una minore influenza sui processi di elaborazione (Markus, Kunda, 1986). Data la complessa rete di conoscenze, credenze e reazioni affettive possedute in riferimento al Sé, solo un sottoinsieme limitato è operante in ogni determinata situazione. Ad esempio, per un ragazzo che si trovi in un’aula universitaria la propria identità in quanto studente risulterà particolarmente accessibile, e quindi il suo Sé operante sarà fortemente caratterizzato da questa appartenenza categoriale: in altri contesti, invece, il suo essere uno studente può diventare meno centrale per la propria autopercezione e lasciar spazio ad altri aspetti della propria identità personale. Quindi, il Sé operante altro non è che una porzione della stabile rappresentazione di sé attivata dalle richieste poste dallo specifico contesto d’azione. Ciò significa che la stessa persona, a seconda delle configurazioni del Sé selettivamente attivate al variare dei contesti, potrà manifestare atteggiamenti e comportamenti anche molto diversificati tra loro. Le richieste della situazione permettono infatti di recuperare le più adeguate autorappresentazioni ed i repertori comportamentali più funzionali rispetto allo specifico contesto in cui ci si trova. Vi sono tuttavia profonde differenze individuali in queste capacità di adeguamento: infatti, coloro che posseggono un Sé che si sviluppa lungo molteplici dimensioni possono mostrare una elevata variabilità nei comportamenti, passando da una situazione all’altra, mentre coloro fortemente schematici lungo un numero limitato di dimensioni tendono a manifestare comportamenti altamente coerenti anche al variare dei contesti.

4.8. La complessità del Sé Come abbiamo appena visto, nonostante solo una porzione del Sé sia operante in ogni dato momento, lo schema del Sé può essere ampiamente articolato. Alcuni autori hanno ipotizzato che il grado di complessità ed articolazione raggiunto dal Sé possa svolgere importanti funzioni di regolazione. Pensiamo a due studentesse molto differenti tra loro. Per una di esse la propria autopercezione in quanto studentessa è predominante. Le sue scelte circa il tempo libero, le persone da frequentare, ruotano tutte attorno al suo essere una studentessa. Al contrario, la seconda studentessa attribuisce anch’essa un valore molto elevato al fatto di essere una studentessa, ma affianca questa identità ad altri interessi e modalità di autopercezione autonome, come ad esempio il dedicarsi attivamente al volontariato o alla danza latino-americana. Queste due ragazze differiscono per la loro complessità del Sé: ad un estremo abbiamo una rappresentazione di sé organizzata attorno ad un numero limitato di elementi, tutti strettamente interconnessi tra loro, mentre all’estremo opposto si situano rappresentazioni del Sé altamente articolate, in cui sono presenti anche contenuti autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri. Linville (1985, 1987) ha proposto un modello secondo il quale una elevata complessità del Sé costituisce una sorta di protezione nei casi di fallimento in cui l’immagine del Sé sia messa a rischio. Se si fallisce un esame universitario si può ristabilire un buon livello d’umore pensando al piacere tratto dal dedicarsi agli altri o dal danzare. Al contrario, le persone con una bassa complessità del Sé, poiché si percepiscono lungo poche dimensioni e per di più tutte legate tra loro, se falliscono in una di queste dimensioni il senso di fallimento provato sarà particolarmente intenso e si diffonderà anche ad altri aspetti della propria vita. Ad esempio, la studentessa per cui lo studio è l’unica dimensione importante subirà più conseguenze negative dal mancato superamento di un esame, e ciò potrà mettere in crisi anche altre sue scelte, sentendosi in colpa ad esempio per essersi concessa una breve vacanza, o convincendosi che gli amici che frequenta e con cui studia non siano adeguati. In altre parole, per le persone con una bassa complessità del Sé gli eventi negativi rischiano di essere vissuti con particolare intensità e di toccare in modo pervasivo tutti gli aspetti dell’immagine di sé.

Dal punto di vista sperimentale, Linville (1987) ha dimostrato questi effetti attraverso il ricorso ad una procedura alquanto semplice. A degli studenti universitari veniva proposta una serie di tratti di personalità con l’istruzione di suddividerli in gruppi, in modo tale che ogni gruppo rappresentasse un aspetto significativo della loro autopercezione. Non vi era alcuna limitazione al numero di raggruppamenti che si potevano formare, ed ogni tratto poteva essere inserito anche in più raggruppamenti. A partire dal numero di sottoinsiemi creati e dal grado di sovrapposizione tra di essi, Linville ha calcolato per ciascun rispondente un indice di complessità della sua autorappresentazione. In seguito, ha chiesto ai suoi partecipanti di riportare gli eventi negativi e stressanti capitati nelle ultime due settimane, nonché di compilare uno strumento per misurare la depressione, e di indicare poi quali sintomi fisici avessero avuto nelle ultime due settimane (per es. influenza, mal di testa, mal di stomaco, ecc). I risultati indicarono che tra coloro che avevano avuto varie esperienze negative, i rispondenti con una elevata complessità del Sé erano andati incontro a meno problemi di salute e mostravano una minor depressione. Per questi studenti, le esperienze negative rimanevano con ogni probabilità confinate all’àmbito specifico in cui si erano realizzate, senza intaccare gli altri aspetti del Sé; mentre per i rispondenti con una bassa complessità del Sé gli eventi negativi andavano a colorare ogni aspetto della percezione di sé. Vi sono inoltre indicazioni del fatto che coloro che posseggono una bassa autostima, ovvero coloro che valutano il Sé in termini piuttosto negativi anziché positivi (Rosenberg, 1965), tendono anche ad avere sia una minore complessità del Sé che una maggiore insicurezza quando devono autodescriversi (Baumgardner, 1990). In generale, le persone con una bassa autostima appaiono piuttosto incerte circa la propria identità personale e le caratteristiche che le contraddistinguono, diventando quindi più soggette ai feedback provenienti dall’esterno per dare risposta al bisogno di comprendere se stesse (Baumeister, 1998). Una bassa autostima si associa con una scarsa fiducia nella capacità di conoscersi a fondo e di cogliere le proprie qualità personali. D’altro lato, queste stesse persone, con una bassa autostima, si mostrano alquanto sicure quando devono invece giudicare gli altri, dimostrando che esse non sono, in generale, poco sicure nei loro giudizi, ma lo diventano quando il Sé è chiamato direttamente in

causa.

4.9. Gli effetti degli stereotipi sull’auto-percezione e sulle prestazioni personali Nel terzo capitolo sono stati a lungo trattati gli effetti degli stereotipi nella percezione di altri individui appartenenti a specifici gruppi sociali. D’altro lato, ciascuno è consapevole di appartenere a molteplici gruppi sociali, e talvolta queste appartenenze sono particolarmente importanti per la definizione dell’identità personale. Ad esempio, l’appartenenza di genere sessuale o le appartenenze basate sulla provenienza geografica o l’affiliazione religiosa, possono essere assai rilevanti nella definizione che ciascuno soggettivamente fornisce di se stesso. Ci si è quindi chiesti in che misura, e con quali conseguenze, gli stereotipi associati alle proprie appartenenze categoriali vengano assimilati nella percezione di sé e diventino una componente in grado di influenzare i comportamenti. Innanzitutto, la consapevolezza di appartenere ad un determinato gruppo può rendere complesso capire ed interpretare i comportamenti delle altre persone nei nostri confronti. Ad esempio, un nero che non venga assunto per ricoprire un determinato posto di lavoro potrà avere difficoltà a comprendere fino a che punto questa decisione, per lui penalizzante, sia dovuta alle sue effettive scarse competenze oppure ad una forma di discriminazione nei confronti dei neri. Allo stesso modo, a fronte di comportamenti particolarmente amichevoli potrebbe risultare assai poco chiaro comprendere quanto essi siano una manifestazione di sincera simpatia o un tentativo di non apparire affetti da pregiudizio. Per i membri di gruppi stigmatizzati si presentano quindi, con estrema frequenza, situazioni di ambiguità attribuzionale (Crocker, Voelkl, Testa, Major, 1991), in cui per tali persone è difficile capire appieno quali siano le proprie capacità e caratteristiche, proprio perché i feedback provenienti dal mondo esterno, siano essi negativi o positivi, potrebbero essere sempre interpretati come una risposta alla propria appartenenza categoriale piuttosto che una sincera reazione. In questo modo, la costruzione di una definita autorappresentazione può diventare un’impresa assai tortuosa. Vi è poi una seconda importante modalità attraverso cui le appartenenze categoriali possono esercitare la loro influenza. Pensiamo ad

una persona che debba eseguire un compito abbastanza complesso, come ad esempio un compito logico-matematico, e sappia che l’immagine stereotipica associata al proprio gruppo di appartenenza preveda scarse abilità in questo tipo di compiti. In una simile situazione l’individuo dovrà affrontare una duplice difficoltà: infatti, egli dovrà far fronte sia alle complessità del compito in sé che al timore di confermare con la propria prestazione lo stereotipo relativo al proprio gruppo. Questa situazione viene definita di minaccia dello stereotipo (Steele, Aronson, 1995), in quanto vengono vissute in modo ansioso le occasioni in cui, con il proprio comportamento, vi è il rischio di confermare l’immagine stereotipica associata al proprio gruppo. L’elemento più importante di questo fenomeno è legato al fatto che tale paura, e la conseguente ansia, creano proprio le condizioni affinché le prestazioni individuali peggiorino. La paura e l’ansia che derivano dal vivere la situazione come minacciosa, interferiscono con la possibilità di rendere al meglio nel corso dell’esecuzione del compito, e quindi i risultati ne verranno influenzati in modo negativo. Steele e Aronson (1995) hanno dimostrato in modo elegante questo fenomeno, verificando come le prestazioni di studenti afroamericani venissero a modificarsi a seconda della presenza o meno di una situazione di minaccia. Ad alcuni partecipanti allo studio veniva detto che il test da completare serviva a misurare le capacità intellettive e, poiché lo stereotipo degli afroamericani prevede appunto la presenza di scarse abilità intellettive, questa poteva essere vissuta come una situazione di minaccia. Ad altri partecipanti invece non venivano specificate le finalità del test. Quanto si rileva è che le prestazioni degli studenti afroamericani in condizione di minaccia sono decisamente inferiori rispetto a quelle dei partecipanti che eseguono il compito senza conoscerne le finalità (si veda la Fig. 4.2). Nonostante per tutti i partecipanti si tratti del medesimo test, le prestazioni risultano depresse laddove il rispondente consideri il test come diagnostico delle abilità intellettive, ovvero un dominio rispetto al quale il proprio gruppo viene considerato inferiore. È interessante rilevare come nel caso in cui non vi sia minaccia, le prestazioni dei rispondenti afroamericani siano assolutamente analoghe rispetto a quelle dei rispondenti bianchi. Questi dati ci dimostrano come le prestazioni degli individui non siano unicamente il frutto delle loro stabili abilità, ma anche il risultato di come la situazione viene interpretata. In sintesi, dunque,

quando si ritiene che una prova vada ad interessare un àmbito rispetto al quale il proprio gruppo è stereotipicamente considerato poco dotato, l’individuo soffre una situazione di minaccia e di ansia tale, per cui la sua performance nella prova ne risente in modo negativo.

Fig. 4.2. Prestazioni al test a seconda delle finalità dichiarate del test e dell’appartenenza razziale dei rispondenti (adattata da Steele, Aronson, 1995). A punteggi più elevati corrisponde una migliore prestazione.

Questi effetti sono di tipo generico e interessano probabilmente i membri di ogni gruppo rispetto al quale vi siano precisi e consolidati stereotipici. Ad esempio, molteplici studi hanno dimostrato che le femmine possono ottenere risultati inferiori in compiti matematici, proprio a causa della minaccia dello stereotipo (Maass, Cadinu, 2004; Spencer, Steele, Quinn, 1999). Anche in questo caso, il mascherare le finalità del compito, e l’indurre a ritenere che non ci si debbano attendere differenze di genere, fa sì che le donne eseguano il compito senza particolare ansia e che le loro prestazioni finali siano identiche a quelle dei rispondenti maschi. Quando però la minaccia dello stereotipo incombe sulle rispondenti, le loro prestazioni vengono penalizzate, e ciò risulta particolarmente vero per coloro che con maggior forza si autopercepiscono in quanto donne, dando quindi molta importanza alla propria appartenenza di genere.

4.10. Le strategie autolesive In alcune occasioni le persone assumono comportamenti apparentemente irrazionali, come ad esempio ubriacarsi prima di un esame oppure occupare il proprio tempo nelle attività più disparate quando invece dovrebbe essere massimo l’impegno per il raggiungimento di un

obiettivo ritenuto molto importante. Per comprendere questi comportamenti, la storia di Deschapelles, un famoso giocatore di scacchi francese, è particolarmente illustrativa. Deschapelles, dopo una lunga serie di successi, iniziò ad aver paura di poter subire delle sconfitte, e a temere che altri giocatori si mostrassero più abili di lui, decidendo quindi di giocare ulteriori partite solo con avversari che accettassero un grosso vantaggio a loro favore, ovvero il vantaggio del «pedone e della mossa». Questo comportamento, ovviamente, rendeva ancora più complesso per Deschapelles vincere, ma gli forniva un’importante via di fuga in caso di sconfitta. Infatti, anche in caso di sconfitta, l’avversario non poteva essere ritenuto più abile di Deschapelles in assoluto, in quanto aveva goduto di un tale vantaggio che una vittoria diventava per lui quasi un obbligo. Deschapelles in questo modo rischiava di perdere le partite, ma si cautelava circa la possibilità di perdere la propria immagine quale miglior giocatore di scacchi (Berglas, 1985). Le strategie autolesive consistono, quindi, nella ricerca di auto-impedimenti che possono essere essenzialmente di due tipi: inventarsi o crearsi ostacoli che rendano meno probabile una buona prestazione, oppure evitare di impegnarsi adeguatamente in modo da facilitare un probabile fallimento (Berglas, Baumeister, 1993). L’autoimpedimento può perciò essere utilizzato come spiegazione di un eventuale fallimento (attribuzione esterna), limitando così i possibili danni alla propria autostima e alla propria immagine sociale, e allo stesso tempo renderebbe un successo ancor più eclatante se ottenuto nonostante tali impedimenti. In modo chiaro, emerge come una immagine positiva di sé risulti più importante rispetto ad una buona prestazione. Le strategie autolesive possono quindi essere considerate un tentativo attivo, ma spesso disfunzionale, di gestire la propria immagine di sé, creando le situazioni ottimali affinché, qualunque sia l’esito della prestazione, le attribuzioni compiute permettano di mantenere la positività di tale immagine.

4.11. L’autoconsapevolezza Le persone trascorrono molto tempo non solo esplorando l’ambiente esterno, ma anche osservando se stesse, ovvero focalizzando la propria attenzione sul Sé (Duval, Wicklund, 1972). Metaforicamente, è come se l’individuo si ponesse al di fuori del proprio corpo e da lì osservasse sia la

propria vita interiore che i propri comportamenti e il proprio aspetto fisico. Questa operazione ha una importante funzione di autoregolazione, in quanto permette di avere un quadro della situazione attuale in cui ci si trova e verificare se si stia procedendo in maniera corretta per il raggiungimento dei propri obiettivi. Carver e Scheier (1981, 1982) paragonano l’autoconsapevolezza ad un termostato, in quanto entrambi operano sulla base di meccanismi di feedback: così come il termostato verifica la temperatura ambientale e invia segnali alla caldaia, di accendersi o spegnersi, al fine di raggiungere la temperatura desiderata, analogamente, attraverso l’autoconsapevolezza si analizza il Sé e si procede aggiustando i propri comportamenti, in modo tale che consentano di raggiungere gli obiettivi desiderati. L’autoconsapevolezza viene di solito suddivisa in due componenti: l’autoconsapevolezza pubblica e quella privata. La prima rimanda alla consapevolezza di vivere in un contesto sociale, e quindi il Sé viene percepito in quanto oggetto sociale immerso in una serie di relazioni e di obblighi sociali. La seconda invece vede coinvolta la sfera più intima dell’individuo con i suoi valori, sentimenti e opinioni. Se l’autoconsapevolezza assolve un importante ruolo nell’autoregolazione dell’individuo, può però portare a situazioni problematiche nei casi in cui risulti evidente il mancato raggiungimento degli obiettivi che ci si era prefissati. Vari studiosi hanno ipotizzato che una elevata autoconsapevolezza, dopo eventi di fallimento, possa essere legata ai comportamenti di assunzione di alcolici (cfr. per es. Hull, 1981). Secondo questi autori, l’alcol verrebbe utilizzato non tanto per «dimenticare i propri problemi» quanto per «dimenticare se stessi», ovvero per ridurre l’autoconsapevolezza. Ad esempio, le persone timide in situazioni sociali si trovano, tipicamente, in uno stato di elevata autoconsapevolezza che limita la spontaneità dei loro comportamenti. In questi casi l’assunzione di alcol può essere utilizzata proprio come una strategia per inibire i processi di autoregolazione. Uno studio interessante è stato condotto da Hull e Young (1983). In esso veniva inizialmente misurato il livello di autoconsapevolezza dei partecipanti, inteso come un tratto di personalità per cui alcuni individui tendono cronicamente ad avere una autoconsapevolezza più elevata rispetto ad altri. In seguito, ai partecipanti veniva somministrato un test di intelligenza, e, a metà di loro, si diceva di

aver ottenuto un punteggio molto elevato (condizione di successo), mentre all’altra metà si diceva, invece, che il punteggio risultava essere particolarmente basso (condizione di fallimento). Successivamente i partecipanti venivano invitati ad un secondo studio, inerente la valutazione di bevande alcoliche: essi dovevano assaggiare delle bevande alcoliche ed esprimere i propri giudizi. In realtà, ciò che interessava agli sperimentatori non erano i giudizi emessi, ma la quantità di bevanda assunta ad ogni assaggio. I risultati dimostrarono effetti differenti a seconda del grado di autoconsapevolezza e del tipo di risultato ottenuto nel test di intelligenza. Infatti, come si può vedere dalla Fig. 4.3, i partecipanti con un basso livello cronico di autoconsapevolezza non bevono una quantità differente di alcolici a seconda del fatto che abbiano ricevuto un feedback positivo o negativo al test; al contrario, i partecipanti che tendono ad avere in ogni situazione una autoconsapevolezza più elevata, di fronte ad un fallimento, aumentano la quantità di alcol ingerito. L’assunzione di alcolici può permettere un abbassamento del livello di autoconsapevolezza e quindi la possibilità di non pensare a se stessi appena reduci da una situazione di fallimento.

Fig. 4.3. Quantità di alcol assunta (in once) dai partecipanti a seconda del livello di autoconsapevolezza e della valenza del feedback ricevuto (adattata da Hull, Young, 1983).

Come abbiamo appena visto l’autoconsapevolezza influenza gli effetti prodotti dai propri comportamenti passati, d’altro lato, essa può anche influenzare le prestazioni attuali e future. Ad esempio, il sapere che le altre persone si aspettano molto da noi aumenta l’autoconsapevolezza, e ciò può portare a delle performance più scadenti. In merito a ciò, Baumeister ed i suoi collaboratori (Baumeister, Hamilton, Tice, 1985) hanno riscontrato

che i giocatori di video games hanno delle prestazioni di circa il 25% inferiori quando giocano con qualcuno che li osserva. Allo stesso modo, dei dati interessanti sono emersi dall’esame delle partite di baseball giocate negli Stati Uniti per l’attribuzione del campionato nel corso dell’ultimo secolo (Baumeister, Steinhilber, 1984). Infatti, si rileva che nelle prime due partite della serie finale di incontri tra le ultime due pretendenti al titolo è la squadra che gioca in casa ad avere la maggiore probabilità di vittoria, sfruttando quindi il cosiddetto «fattore campo». Al contrario, la situazione si ribalta nella partita decisiva per l’assegnazione del titolo: in questo caso è la squadra che gioca in trasferta ad aver vinto nella maggior parte dei casi. Sembra che nel momento decisivo i giocatori che si trovano di fronte al proprio pubblico vengano schiacciati dalla responsabilità di far bene e dal peso di decine di migliaia di persone che li osservano e si aspettano da loro una vittoria.

Fig. 4.4. Percentuale di partite vinte e perse dalla squadra di casa (adattata da Baumeister, Steinhilber, 1984).

4.12. Fino a che punto conosciamo noi stessi? Il caso dell’autostima Tradizionalmente, l’indagine della personalità, delle conoscenze e delle competenze, viene realizzata attraverso la somministrazione di strumenti, «carta e matita», che rimandano alle cosiddette tecniche di autovalutazione o di self-report. Questi strumenti prevedono di porre al rispondente una serie di domande molto dirette, chiedendo ad esempio di riportare i propri sentimenti ed opinioni, i comportamenti che tipicamente esegue, così come di quantificare il possesso di capacità. Anche nello studio dell’autostima, ovvero della valutazione soggettivamente associata al Sé, si è a lungo operato seguendo questa logica. Uno degli strumenti più popolari,

la scala messa a punto da Rosenberg (1979), si propone appunto di misurare l’autostima verificando in che misura i rispondenti mostrano accordo con affermazioni quali «Penso di avere molte qualità» o «Nell’insieme sono soddisfatto di me stesso». Strumenti di questo tipo si basano però su due problematici assunti di fondo. Innanzitutto, gli strumenti di autovalutazione possono essere considerati validi ed attendibili solo ed esclusivamente se si presume che il rispondente non eserciti alcun controllo strategico sulle sue risposte, ma riporti in modo sincero quello che pensa realmente. In secondo luogo, occorre presupporre che il rispondente abbia una piena capacità introspettiva rispetto ai temi in oggetto. In altre parole, queste tecniche danno per assodato che il rispondente, riflettendo su se stesso, sia in grado di cogliere esattamente quale sia la propria situazione rispetto alla domanda posta. Poiché le persone cercano sistematicamente di fornire un’immagine positiva di sé, il problema del controllo strategico delle risposte si rivela particolarmente rilevante. Attraverso attente operazioni, le risposte fornite possono essere selezionate non tanto al fine di dare una immagine di sé precisa e puntuale, ma al fine di mostrarsi in una luce positiva; e ciò risulta particolarmente vero nei contesti in cui la persona è oggetto di valutazioni, come ad esempio durante un colloquio di selezione per un posto di lavoro. Abbiamo ripetutamente discusso le varie strategie messe in atto per aumentare la positività del Sé, e risulterebbe alquanto anomalo se le persone non intervenissero anche sulle modalità di presentazione del Sé, parlando di se stesse in modo da trasmettere negli ascoltatori unicamente l’immagine desiderata (Goffman, 1959; Schlenker, 1980). Quindi, queste distorsioni nelle risposte si verificherebbero soprattutto in contesti di interazione in cui si voglia accreditare una determinata immagine di sé. D’altro lato, anche le intime riflessioni circa se stessi e le proprie qualità non necessariamente conducono a risposte accurate e soddisfacenti. Paulhus (1986) ritiene che molte persone operino una sorta di autoinganno, costruendosi rappresentazioni del Sé eccessivamente positive e convincendosi della loro veridicità, non rendendosi conto che si tratta invece di autorappresentazioni tendenziosamente favorevoli nei propri confronti. Esistono però delle modalità indirette di misurazione dell’autostima (Greenwald, Banaji, 1995). Ripensando al modello di rappresentazione dei

concetti affrontato nel terzo capitolo, è possibile verificare quali specifici contenuti mentali diventino maggiormente accessibili in modo automatico quando lo schema di sé viene attivato. Quanto più l’autostima risulta essere elevata tanto più forte sarà l’associazione tra il Sé e costrutti positivi piuttosto che negativi. La forza di questa associazione può quindi essere utilizzata come un indicatore indiretto dell’autostima (Farnham, Greenwald, Banaji, 1999). In generale, si rileva che il Sé viene spontaneamente associato in modo preponderante a concetti positivi, indicando quindi che la maggior parte delle persone possiede effettivamente una elevata autostima. D’altro lato, vi sono individui che mostrano delle discrepanze tra quanto verbalmente dicono di se stessi e le loro risposte spontanee, segnalando quindi la presenza di forme di autoinganno. Ciò significa che tali persone non possiedono probabilmente una genuina autostima elevata, ma sono convinte, al contrario, di possederla. Questa discrepanza può avere delle profonde conseguenze sui comportamenti dell’individuo. Innanzitutto, queste persone, nelle situazioni di tipo valutativo, si trovano a maggior disagio e provano maggiore ansia rispetto alle persone con una effettiva autostima elevata. Inoltre, proprio gli individui che presentano queste forme di autoinganno sono particolarmente propensi a mettere in atto strategie per proteggere la propria autostima, in quanto per essi le minacce all’autostima risultano essere maggiormente insidiose. Una persona con una genuina autostima elevata non subirà grosse conseguenze qualora dovesse andare incontro ad un fallimento, in quanto la concezione positiva rispetto a se stessa è ben consolidata. Al contrario, coloro che si autoingannano vivono come particolarmente pericolose tutte le situazioni di fallimento. Per questo motivo, si intraprendono comportamenti selettivamente finalizzati a proteggere l’autostima, tra cui, ad esempio, condotte di tipo autolesivo (Spalding, Hardin, 1999). Erronee credenze rispetto alla propria immagine possono quindi essere associate a comportamenti disfunzionali pur di riuscire a mantenere l’illusione di una positiva immagine di sé.

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