Provare l'io. Julius Evola e la filosofia
 9788855291293, 9788855291309

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Ringraziamenti
Magismo, arbitrarietà e individuo assolutoIl pensiero estremo di Julius Evolanella lettura di Michele Ricciotti

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Michele Ricciotti

Provare l’Io Julius Evola e la filosofia

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 22 - Proposte

Michele Ricciotti

Provare l’Io Julius Evola e la filosofia Prefazione di Massimo Donà

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 22 - novembre 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-129-3 ISBN – Ebook: 978-88-5529-130-9 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Brain model concept made from gears and cogwheels on grey background © vetre – stock.adobe.com

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Ringraziamenti

Il lavoro di interrogazione e scavo condotto in queste pagine rappresenta il risultato di un quinquennio di studi universitari durante il quale ho avuto il privilegio di godere del magistero del prof. Massimo Donà, tra i cui meriti va annoverato l’essersi fatto autorevole “riscopritore” della riflessione evoliana. Devo a lui e al suo costante supporto, umano non meno che speculativo, quanto di valido ho potuto mettere per iscritto. Esprimo inoltre la mia riconoscenza al prof. Giovanni Sessa per avere, in questi anni di studio, messo a mia disposizione la sua straordinaria competenza, dandomi consigli imprescindibili. Rivolgo un sentito ed amichevole ringraziamento al dott. Marco Bruni, al dott. Giacomo Petrarca e al dott. Giulio Goria per i loro preziosi suggerimenti e i costanti stimoli. Ringrazio i miei genitori, mia sorella Giulia e mio fratello Stefano, per non aver mai messo in dubbio la bontà di una scelta e per averla “ironicamente” accettata; i miei più cari amici, Luca, Federico e Stefano, per il sostegno che non hanno mai fatto mancare. Ringrazio infine tutti gli amici e le amiche del San Raffaele, troppi per poterne elencare i nomi, con i quali il confronto e il dialogo continuo si sono dimostrati di incommensurabile valore per il mio percorso (non solo) accademico.

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Magismo, arbitrarietà e individuo assoluto Il pensiero estremo di Julius Evola nella lettura di Michele Ricciotti Prefazione di Massimo Donà

Nata da lui, questa morte (il dolore cupo e muto della privazione, come l’indicibile crocifissione nel mondo della necessità) l’individuo la assume ora con gioia; egli è sufficiente ad essa; egli sa che soltanto il suo proprio, sovrannaturale valore di “essere fatto di possesso” ne è la causa; egli la riconosce come la materia, dalla quale soltanto egli potrà trarre lo splendore di una vita ed una realtà assolute. Ed allora l’oscurità gradatamente si illumina, allora dall’abisso della necessità sorge il fiore terribile dell’Individuo assoluto. Egli si erge lentissimamente nel cielo senza stelle, traendosi dalla vampa di ciò che egli divora nella sua potenza. Le cose e gli esseri muoiono nell’intensità vertiginosa di lui che, gradatamente, irresistibilmente, diviene – che, spaventevole nella sua purità, è “Signore del Sì e del No” e Dominatore dei “tre mondi”. E in lui, ente di possesso, ente che “arde e fiammeggia”, il processo dell’universo avrà con il suo atto, la sua consumazione o perfezione finale.1

Filosofia, ma ancor di più, prassi, o meglio ancora, forma di esperienza filosofica tutt’altro che riducibile ad un semplice, per quanto complesso e finanche vertiginoso, sistema concettuale: perché il vero filosofo, per Evola, non può limitarsi a 1.  J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Mediterranee, Roma 2015, pp. 43-44.

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“dimostrare”. Ma deve anzitutto sperimentare sulla propria pelle la veridicità di guadagni che, davvero, mai potranno essere semplicemente “teorici”. Di questo Evola prende coscienza sin da subito; da quando, cioè, ancor giovane, prende parte, da protagonista (e animato sempre da grande entusiasmo), alle movimentate vicende generate dalla diffusione del dadaismo in Italia e soprattutto in Europa. Ce lo mostra con grande acume speculativo ed ermeneutico in questo intenso e raffinato volume il giovane, ma già “profondo” studioso, Michele Ricciotti. Frutto della rielaborazione di una bellissima tesi di laurea, questo saggio ci conduce per mano nel cuore di uno dei più rigorosi e spigolosi pensatori del Novecento; un pensatore per moltissimi versi “maledetto”, che in Italia è ancora difficile anche solo nominare. Vittima di pregiudizi ideologici e di vera e propria ignoranza delle sue opere, il “Barone” è stato infatti stigmatizzato da buona parte della cultura italiana della seconda metà del Novecento. Ghettizzata, la sua testimonianza si sarebbe quindi ritrovata, non di rado, appannaggio di un ambiente animato più da ciechi fanatismi (non meno ideologici di quelli degli avversari) che da autentica comprensione del suo pensiero. Pur disegnando, il complesso della sua opera, il vertice di un processo di rigorizzazione della matrice idealistica che avrebbe condotto l’idealismo a roteare su se stesso – come la trottola kafkiana – e a farsi sorprendentemente “altro” da sé. Sino a dare vita a un vero e proprio nuovo inizio del pensare; che ritengo sia nostro compito svolgere e valutare in tutte le sue ancora per lo più inespresse implicazioni. Ed è proprio in tale direzione che si muove l’illuminante studio di Ricciotti: a pensare Evola, interrogarlo sino a farne sangui-

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nare le pagine, rendendo soprattutto evidente la portata innovativa di una proposta filosofica che ha ancora tantissimo da insegnare, a noi abitatori di un ventunesimo secolo fin troppo spento, o quanto meno non particolarmente affollato di grandi e rivoluzionarie proposte teoretiche. Ripercorrendo un itinerario speculativo tanto tormentato quanto originale, Ricciotti vede proprio nella declinazione “magica” assunta dall’idealismo evoliano uno dei nuclei teorici più rilevanti, tra quelli capaci di giustificare l’indiscussa originalità di una tale esperienza di pensiero. Già nel periodo dadaista, d’altro canto, Evola si sentiva agitato da furori eroici e sempre anche magici, molto simili a quelli bruniani; anche se, solo attraverso uno sviluppo complesso e articolato delle intuizioni maturate in un incessante confronto con le entusiasmanti provocazioni di Tzara, egli avrebbe saputo farsi carico di un afflato anarchico e negativo davvero estremo. Ritrovandosi – lui, idealista radicale – ben al di là di una tradizione (come quella idealistica, per l’appunto) che avrebbe comunque continuato a considerare imprescindibile. Sino a misurarsi con il compito forse più difficile: provare l’Io. Sì, quello stesso che il grande idealismo avrebbe continuato a considerare presupposto inviolabile di qualsivoglia riflessione – pur continuando a pensarlo come semplice potenza negatrice, di fatto estranea al patimento connesso solo alla morta positività. Per Evola, comunque, l’individuo assoluto – impegnato a farsi carico dell’arbitrio e della libertà più abissali – avrebbe dovuto riconoscersi anche in una storia, sua e universale, concepita di fatto come vera e propria “simbolica”… in grado di farci fare i conti, in ognuna delle sue tappe, con la potenza incondizionata dell’Origine. A partire dalla quale nulla sarebbe potuto apparire come davvero impossibile, se non il fatto che una qualsivoglia impossibilità potesse realmente ostacolare o con-

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dizionare l’arbitrio della volontà e le sue comunque ingiudicabili espressioni. Sì, perché anche l’impotenza riesce a farsi, in Evola, espressione della potenza incondizionata dell’origine, e dunque dell’Individuo assoluto. Pensatore assolutamente paradossale è infatti il “Barone”; un pensatore che Ricciotti, da studioso di talento, non si esime certo dall’interrogare, giungendo a mostrare le abissali ma per ciò stesso affascinanti aporie che puntellano molti aspetti del suo sistema, nonostante gli esiti talvolta discutibili e in qualche modo problematici delle medesime. Vero e proprio alchimista dell’argomentazione, Evola è anche perfettamente consapevole del fatto che la logica filosofica abbia quanto mai bisogno di farsi rigenerare da quella potenza volatile che solo l’alchimia e il magismo ermetico avrebbero potuto insufflare nel corpo spesso pesante del mondo oggettivo. Come l’artista dadaista, insomma, il teorico dell’Individuo assoluto sa che solo negando può farsi testimone di un’affermazione davvero “assoluta”. Facendosi altresì produttore di vere e proprie determinazioni dell’assoluto. Ossia, artista, anche indipendentemente dalla produzione di opere – che è quanto avrebbe sempre voluto, peraltro, ogni “vero” dadaista. Imparando a de-cidere; e magari a lasciarsi alle spalle la goffaggine di un idealismo semplicemente “dialettico”, e ad affidarsi in toto alle trame gratuite e casuali che, sole, avrebbero potuto dischiudere le porte di un idealismo magico realmente capace di venire a capo del residuo dualistico ancora presente in molti degli idealismi tradizionali. Il suo doveva diventare, quindi, un vero e proprio progetto ultrafilosofico, ci spiega Ricciotti; necessario per consentire all’Io di destarsi come l’indeterminato del determinare. Attitudine in forza della quale, solamente, il medesimo avrebbe potuto ri-

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trovarsi finalmente assoluto. E “provare”, in-uno, di essere l’Io che sempre sarebbe anche dovuto diventare. Questo, d’altro canto, poteva accadere solo là dove ci si fosse impegnati ad assecondare un processo infinito in cui all’Io venisse consentito di ridisegnare il rapporto intrascendibile sussistente tanto tra l’Individuo assoluto e la dialettica di matrice fichtiana, quanto tra l’operaio e il borghese messi a tema da Jünger. E di riconoscere, solo nelle “immagini”, la diretta manifestazione di quel che nessuna parola avrebbe mai potuto affidare a una naturale, ma sostanzialmente impotente, attitudine semantica. Anche perché, tanto la via dell’Altro quanto quella dell’Individuo Assoluto avrebbero finito per cancellare, nella loro astratta oppositività, quel che solo il silenzio dell’immagine avrebbe potuto farci esperire, per quanto nella forma di una rigorosamente ingiudicabile impossibilità d’espressione.

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Introduzione

Julius Evola e la filosofia. Il binomio è tutt’altro che scontato, se è vero che il legame tra il pensatore romano e la riflessione filosofica fatica a essere non già interrogato, ma anche solo “accettato” nelle sue più radicali implicazioni teoretiche. Proprio tale legame è assunto a oggetto della presente ricerca. Per riassumere il senso autentico della speculazione evoliana si è scelto la formula “provare l’Io”, per quella quasi impercettibile sfumatura “pratica” che rende il provare non esauribile nel semplice dimostrare. E una filosofia non disposta a lasciarsi schiacciare su vuoti formalismi logici è proprio quella di Evola. Ne è testimonianza la stessa vicenda del suo formarsi, a partire dalla giovanile e tutt’altro che parentetica adesione alla dirompente esperienza dadaista. Nel primo capitolo si tenterà di mostrare in che modo essa si configuri come il luogo in cui inizia a prendere dimora il problema dell’Io, della sua affermazione e della sua “prova”, non prima di aver brevemente messo a tema il significato spirituale che l’Arte Regia ermetico-alchemica riveste nella parabola intellettuale evoliana. Abbandonata bruscamente la pratica artistica, Evola si dedica alla filosofia e delinea una radicale forma di idealismo, da lui chiamato, con spirito novalisiano, «idealismo magico». Tale prospettiva speculativa si propone di assumere e «integrare» l’esigenza di «certezza»

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caratterizzante tutta la filosofia moderna per condurla alle sue più estreme conseguenze. Nel secondo capitolo si esaminerà il nucleo filosofico della riflessione evoliana nei suoi rapporti con l’idealismo classico e con il neoidealismo gentiliano. A questo proposito è opportuno anticipare che, alla luce delle premesse stesse dell’impianto teoretico evoliano, il confronto con l’attualismo si configura a nostro avviso come una stazione che deve essere necessariamente attraversata dall’Io per farsi – da trascendentale qual è – «magico». Non è esagerato affermare che i limiti dell’attualismo sono per Evola i limiti stessi del pensiero, di un pensiero restio a farsi negazione reale di sé (e sul senso di tale realtà si misura tutta la distanza di Evola da Gentile). Se, come è stato scritto, «la storia dell’idealismo italiano è soprattutto la storia di una crisi, di una lenta consumazione dell’idealismo stesso, e, con esso, della filosofia»1, certo è che l’idealismo magico evoliano intende porsi sulla dorsale di questa crisi per vedere oltre. Con ciò, viene delineandosi il problema della relazione tra sapere filosofico e prassi «magica». Come scrive Massimo Donà, «non vi è opposizione tra filosofia e magia. Né si può dire che la magia sia una scienza imperfetta e la filosofia un sapere astratto e puramente concettuale. Entrambe sono sempre state – là dove siano state colte nella loro verità – due tratti di un medesimo orizzonte, alla cui luce il sapere e il fare riuscivano sempre a corrispondersi»2. In questo orizzonte si colloca l’interrogazione evoliana. Che rimane tale, interrogazione, anche là dove più sembra discostarsi dal «cammino del dubbio e della disperazione» che chiunque si immetta negli impervi sentieri del pensiero inevitabilmente deve attraversare. Negli esiti “esoterici” della riflessione di Evola non va infatti ravvisato in alcun modo un allontanamento dall’esigenza di una «prova» dell’Io, sebbene in tale contesto «magico» essa si 1.  M. Mustè, La filosofia dell’idealismo italiano, Carocci, Roma 2008, p. 10. 2.  M. Donà, Magia e filosofia, Bompiani, Milano 2004, p. 9.

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colori delle tinte di una autentica esperienza iniziatica3. L’Individuo assoluto, la cui figura Evola viene abbozzando nelle sue faticose pagine filosofiche, è dunque colui che è certo del mondo grazie al suo farsi identico ad esso, in virtù della capacità di renderlo un’immagine la cui magica potenza si identifica con la stessa volontà incondizionata dell’Io. Nel terzo capitolo di questo lavoro si prenderà in esame la «discesa» dell’Io assoluto nel mondo storico, e il relativo tentativo evoliano di costituire una vera e propria «simbolica della storia», la quale, se da un lato prosegue e radicalizza i guadagni speculativi delle opere giovanili, dall’altro rischia di consumarli nello sforzo di recupero di una mai-stata e u-topica unità originaria. In conclusione, si prenderà in considerazione la lettura evoliana dell’Arbeiter jüngeriano, tentando di ravvisarvi il riesplodere delle istanze fondamentali che segnano la riflessione filosofica di Evola, portando le aporie ad essa connesse a un ulteriore livello di complessità e consapevolezza. Il presente lavoro non ha pretese di esaustività rispetto alla incredibilmente varia e vasta produzione saggistica evoliana. Esso nasce altresì dalla profonda convinzione della non indifferente portata teoretica della riflessione filosofica di Evola. Tra i primi a coglierla fu Franco Volpi che, con giudizi ormai noti agli studiosi di cose evoliane, ebbe a definire quella di Evola «una voce insopprimibile, che ricorda la presenza nell’Ita­lia di allora di un’“altra” filosofia accanto a quelle dominanti di 3.  Sul rapporto tra filosofia ed esoterismo in generale, appare opportuno riferirsi qui ai lucidissimi giudizi di Franco Volpi, il quale sottolinea che da un lato «l’esoterismo risulta strettamente connesso con lo sviluppo del pensiero e della filosofia, ed esso non è certo un oscuramento passeggero della ragione, come alcuni propendono a credere» e dall’altro lato «rappresenta l’altra faccia del razionalismo contemporaneo. È il corrispettivo e la compensazione della sua unilateralità» (F. Volpi, Presentazione, in G. Wehr, Novecento occulto. I grandi maestri dell’esoterismo contemporaneo, Neri Pozza, Vicenza 2002, pp. 11-18: risp. pp. 11 e 12).

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Croce e Gentile»4. Parole, queste, che hanno contribuito non poco ad avvicinare alle opere evoliane diversi esponenti del mondo accademico, al di là della – essa sì, molto ben indagata5 – “compromessa” postura politica del pensatore romano. Molte osservazioni potrebbero essere fatte, sono state fatte, sul carattere di tale “compromissione” che, per il fatto stesso di andare ben oltre la semplice adesione “storica” al fascismo (adesione che peraltro, proprio “storicamente”, mai ci fu) può apparire ancor più tenebrosa e inquietante. Né appaia il silenzio di questo lavoro sul «razzismo spirituale» evoliano un goffo tentativo di ammansire l’autore in esame, smussando i lati più spigolosi della sua riflessione per costringerla in una cornice puramente speculativa, non macchiata dalle drammatiche vicende dell’«Italia di allora»6. Casomai, le pagine che seguono si muovono in direzione esattamente opposta, tentando di mostrare quali aporie e quali insolubili dilemmi filosofici stiano a fondamento degli “esiti”, anche i più controversi, del pensiero di Julius Evola.

4.  F. Volpi, L’idealismo dimenticato del giovane Julius Evola, in J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2006, p. 23. 5.  Ad esempio in P. Chiantera-Stutte, Julius Evola dal dadaismo alla rivoluzione conservatrice (1919-1940), Aracne, Roma 2001. 6.  La prospettiva del «razzismo spirituale» evoliano prende forma in un arco temporale piuttosto determinato, segnatamente in quattro opere: Tre aspetti del problema ebraico (1936), Il mito del sangue (1937), Indirizzi per una educazione razziale (1941), Sintesi di dottrina della razza (1941). Su tale delicata questione, cfr. almeno F. Germinario, Razza del sangue, razza dello spirito. Julius Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2001.

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Capitolo I

L’esigenza della filosofia tra magia e arte

L’eterna libertà è l’eterno volere-potere, l’eterno Mögen, non il volere-potere qualcosa, ma il volere-potere in sé, ossia, per usare un altro termine equivalente, l’eterna magia. (F.W.J. Schelling, Conferenze di Erlangen)

1. Uno sguardo retrospettivo «La philosophie, c’est la réflexion aboutissant à reconnaître sa propre insuffisance et la nécessité d’une action absolue partant du de[d]ans». Si potrebbe sostenere che in queste parole di Jules Lagneau, da Evola apposte in esergo ai suoi Saggi sull’idealismo magico, sia perfettamente riassunto il programma evoliano di superamento della filosofia stessa. Che tale programma sia stato portato a termine in ognuno dei suoi punti sembrerebbe essere testimoniato dalla vita stessa del filosofo romano, il quale, dopo quella che ancora oggi è spesso considerata poco più che una parentesi all’interno del suo itinerario spirituale, dismetterà l’abito filosofico per approdare ad altri lidi. La centralità della riflessione filosofica evoliana è quanto anzitutto intendiamo guadagnare nel presente capitolo a partire da un’indagine – per così dire – di secondo livello, condotta cioè sulla stessa riflessione retrospettiva operata da Evola nella sua autobiografia, Il cammino del cinabro. Ivi Evola ricorda: L’impulso ad esprimere in modo sistematico col dovuto apparato erudito e nel gergo tecnico accademico convenuto la

22 visione del mondo e dei valori che già prendeva forma in me fu dovuto, in parte, ad una situazione polemica. Nei miei studi filosofici il mio interesse si era portato sulla corrente dell’idealismo trascendentale post-kantiano. A differenza della gran parte dei seguaci di tale scuola, io però vedevo chiaramente il fondo non-filosofico, prerazionale, di questa preferenza. Per me, tale fondo era la volontà di dominio.7

Va da sé che la perentorietà del giudizio evoliano presuppone il guadagno teoretico di tale posizione. D’altro canto, va sottolineata l’intenzione di confrontarsi con l’idealismo sul campo da gioco dischiuso dall’idealismo stesso, conformandosi al suo linguaggio e rivisitando polemicamente le categorie filosofiche da esso squadernate. Senonché l’individuazione del fondo prerazionale della stessa speculazione idealistica viene indicata quale elemento distintivo della dottrina di cui lo stesso Evola si era fatto latore in gioventù. Un primo problema che ci si presenta è dunque quello di riconoscere tale dottrina, di circoscriverne i contorni il più dettagliatamente possibile, di disegnarne il perimetro prima di affrontarne i nodi teoretici principali. A tal fine, è anzitutto opportuno discutere la legittimità della suddi-

7.  J. Evola, Il cammino del cinabro, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2014, p. 101. Evola ricorda lo stesso motto di Lagneau così traducendolo: «La filosofia è la riflessione che finisce col riconoscere la propria insufficienza e la necessità di un’azione assoluta partente dall’interno» (ivi, p. 102). Per quanto riguarda ruolo e significato del Cammino del cinabro nella produzione evoliana, si veda il giudizio di Alessio de Giglio: «La biografia evoliana […] deve essere considerata come una fonte tra le altre, senza primati (soprattutto di interpretazione) o pensando che possa risolvere più dubbi di quanti in realtà ne semini. Tra innumerevoli imprecisioni ed errori, l’opera contiene comunque una profonda verità (nonché strumento ermeneutico primario), su cui Evola ha tanto (inutilmente?) insistito: l’incomunicabilità dell’esperienza personale, l’impossibilità di assumere l’esperienza esistenziale di Evola come parametro assoluto» (A. de Giglio, La maschera di Evola. Scienza e coscienza dell’Assoluto, in J. Evola, Autobiografia spirituale, a cura di A. Scarabelli, Mediterranee, Roma 2019, pp. 144-145).

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visione del pensiero evoliano in “fasi” o “periodi”8. Si insisterà poi sulla collocazione della speculazione evoliana in una posizione di confine, vale a dire interna ed esterna insieme, rispetto alla tradizione idealistica. È ancora ne Il cammino del cinabro, vale a dire circa quarant’anni dopo essersi dichiaratamente allontanato dagli interessi filosofici, che Evola si misura con la propria esperienza giovanile parlando esplicitamente di «periodo speculativo»9. La suddivisione della vita e dell’opera evoliana in “periodi” appare dunque immediatamente giustificata sulla base delle indicazioni forniteci dallo stesso autore10. Non va però dimen-

8.  Quella della presunta continuità (o discontinuità) dell’iter speculativo evoliano è una questione che ha interessato pressoché tutti gli interpreti. Basti qui ricordare due posizioni in proposito. Quella di R. Melchionda è volta a sottolineare la centralità della filosofia evoliana e la “consequenzialità” dell’approdo a rive tradizionali: «L’idealismo integrale o pratico è conclusione in quanto è simultaneamente un inizio. Cessa quel tipo di sapere che chiamiamo filosofia e si fa avanti un sapere di tipo diverso. La conclusione si appunta ad un principio» (R. Melchionda, Il volto di Dioniso. Filosofia e arte in Julius Evola, Basaia, Roma 1984, p. 33). Di diverso avviso L. Pirrotta, che mette in guardia rispetto ai rischi – opposti ma parimenti deleteri – di improprie uniformizzazioni e di sterili scorporazioni dell’opera evoliana: «Se non è condivisibile la lettura di chi non scorgendo differenze rilevanti fra veemenze giovanili e ponderata sentenziosità della maturità sostiene il sussistere del corrusco modulo del magico dominatore – e con quello l’effettiva invarianza di leitmotiv – nell’intero arco della speculazione evoliana, non è neppure accettabile l’opposta, che nega strette parentele fra il primo periodo (artistico, filosofico e magico) e il secondo (‘tradizionale’)» (L. Pirrotta, La maschera di pietra. Julius Evola dall’Idealismo Magico alla Tradizione, Atanòr, Roma 2014, p. 50). 9.  Il terzo capitolo dell’opera porta infatti il titolo: Il periodo speculativo. L’idealismo magico e la teoria dell’Individuo Assoluto (cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp. 95-132). 10.  Secondo M. Fraquelli questo fa sì che nel caso di Evola il problema interpretativo della schematizzazione dell’opera non si ponga affatto, laddove «si pone semmai il problema inverso, quello di ritrovare un quid che consen-

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ticata la funzione che Evola attribuiva al Cammino del cinabro: l’intento principale di quest’opera «è di fornire una guida a chi, interessandosi retrospettivamente all’insieme dei miei scritti e della mia attività, volesse orientarsi e stabilire quel che in essa può avere un significato non soltanto personale e episodico»11. Tale guida si rivela necessaria se si porta l’attenzione al fatto che nella mia attività, che ha avuto diverse fasi e che si è applicata a diversi domini, l’essenziale ha bisogno di essere separato dall’accessorio, e specie nei libri giovanili conviene tener conto di una preparazione necessariamente incompleta e di influenze dell’ambiente culturale solo in seguito eliminate a poco a poco, grazie ad una maggiore maturità.12

È chiaro che i «libri giovanili» a cui l’autore si riferisce sono le opere propriamente filosofiche, quelle, appunto, riconducibili a pieno titolo al «periodo speculativo», giacché la «fase artistica», seppur enormemente proficua per un poco più che ventenne, non aveva portato alla pubblicazione di veri e propri «libri», ma di un importante manifesto avanguardistico e di un poema a quattro voci scritto in francese, oltre che ad articoli disseminati in numerose riviste13. La finalità “didattica” che Evola attribuisce alla propria autobiografia spirituale giustifica dunque una certa maniera schematica di procedere

ta di rintracciare un filo logico, una unitarietà profonda al di là delle schematizzazioni che lo stesso Evola ha proposto per distinguere i vari momenti della sua attività e della sua produzione» (M. Fraquelli, Il filosofo proibito. Tradizione e reazione nell’opera di Julius Evola, Terziaria, Milano 1994, p. 3). 11.  J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 37. 12.  Ibidem. 13.  Tutti questi lavori giovanili, insieme ai componimenti poetici, al carteggio con Tristan Tzara, ad articoli e saggi della maturità dedicati all’arte sono stati meritoriamente raccolti in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2018.

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che comprende la stessa segmentazione del proprio percorso intellettuale. Certamente l’autore del Cammino del cinabro non è più il giovane filosofo dell’idealismo magico, non solo per l’intervallo temporale che separa i Saggi dal Cammino, ma per gli orizzonti spirituali che nel frattempo si schiudono dinanzi all’uomo Evola. Il giudizio nei confronti della produzione filosofica giovanile proviene infatti da un Evola ormai totalmente immerso nell’orizzonte senza tempo della Tradizione e conseguentemente portato alla posizione di una netta quanto irrimediabile dicotomia polemica tra «scienza sacra» e sapere profano. In quest’ultima categoria rientra ormai a pieno titolo la speculazione filosofica, con le sue argomentazioni astratte e il suo lessico fumoso. D’altro canto, durante tutto l’arco della sua vita, anche in seguito alla curvatura in direzione della determinazione di un concreto senso di Tradizione14, Evola tornerà sui propri passi filosofici, «ortopedizzando»15 Teoria dell’Individuo assoluto e forse predisponendo un’analoga revisione di Fenomenologia, non realizzata a causa della morte sopravvenuta pochi mesi dopo la ristampa della prima versione dell’opera. La «maggiore maturità» di cui si parla nel passo sopra riportato non può comunque essere intesa come derivante esclusivamente dal passare degli anni, assumendo al contrario i tratti di una vera e propria svolta all’interno dell’itinerario spi-

14.  Del passaggio da una fase all’altra della speculazione evoliana in termini di “curvatura” parla espressamente Romano Gasparotti. Secondo il filosofo veneziano, attento lettore di Evola, il passaggio è da un modo di concepire la Tradizione come Arché dinamica e attiva, presente nelle opere filosofiche, a un altro più usurato, che vede nella Tradizione un’Origine depotenziata innanzitutto dal suo stesso costituirsi come crono-logicamente determinata (cfr. R. Gasparotti, Evola e la filosofia dell’eros. Il simbolo infranto, in G. de Turris [a cura di], Julius Evola e la sua eredità culturale, Mediterranee, Roma 2017, p. 167). 15.  L’espressione è dello stesso Evola, cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 126.

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rituale dell’autore. È del resto lo stesso Evola a fornirci una preziosa indicazione a proposito della necessità di armonizzare le diverse fasi del suo pensiero: «Come conciliare l’Individuo Assoluto senza leggi, distruttore di ogni vincolo, col concetto di Tradizione? In realtà […] si trattò solo di una discesa dell’Individuo Assoluto da solitarie altezze astratte e rarefatte nella concretezza della storia»16.

2. Oltre l’idealismo magico: impero interiore e «alchimia dello spirito» L’inizio di tale «discesa» può essere fatto coincidere con la pubblicazione, nel 1928, di Imperialismo pagano, opera che si presenta come la meccanica applicazione politica dei guadagni speculativi ottenuti negli anni immediatamente precedenti17 (va ricordato che in questo periodo la produzione delle opere filosofiche è già conclusa, nonostante la pubblicazione di Fenomenologia dell’Individuo assoluto risalga al 193018). In Imperialismo pagano la veemenza dell’invettiva anticattolica, che causerà all’autore non poche reazioni provenienti da diversi versanti culturali19, si accompagna alla condanna di un certo conservatorismo di derivazione idealistico-liberale. Le illumi16.  J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 178. 17.  Le motivazioni profonde della vacuità di tale operazione potranno emergere solo nel secondo capitolo del presente lavoro. 18.  Per quanto concerne le vicende editoriali che hanno determinato questo ritardo nella pubblicazione dell’opera, cfr. G. de Turris, Nota del Curatore, in J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2007, p. 7. 19.  Per una veloce rassegna di tali reazioni cfr. G.F. Lami, Un percorso critico-bibliografico, appendice II a J. Evola, Imperialismo pagano, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2004, pp. 333-335.

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nanti intuizioni filosofiche di pochi anni prima si trovano calate in un contesto di polemica politica che finisce fatalmente per depotenziarne l’efficacia teoretica. A sostegno di questa tesi si potrebbero portare le parole del Cammino del cinabro dedicate a Imperialismo pagano, letto come un’opera giovanile non solo “inverata”, ma del tutto superata da quelle successive20. Tale giudizio è volto a giustificare la scelta di non ripubblicare il testo, consegnandolo al contesto storico in cui solo poteva avere senso – nonché velleitarie pretese – il tentativo di condurre il regime fascista verso lidi “pagani”, tentativo che lo stesso Evola, con il senno del poi, definirà «abbastanza chimerico»21. Vale tuttavia la pena di soffermarsi su taluni aspetti filosoficamente rilevanti di tale testo che segna nella produzione del pensatore romano una tappa importante. Cuore della trattazione evoliana è l’elaborazione della figura di un soggetto sovrano22 capace di istituire la legge ponendosi fuori e sopra di essa, facendosi rappresentante di un’incondizionata libertà: «È che la libertà non tollera compromessi: o la si afferma, o non la si afferma. Ma se la si afferma, bisogna affermarla sino in fondo, senza paura – bisogna affermarla, cioè, quale libertà incondizionata»23. La stessa polemica anticristiana assume allora una fisionomia diversa da quella della mera invettiva di ispirazione neopagana. Il cristianesimo viene interpretato come il male morale che ha 20.  «Nel libro, – osserva Evola nel Cammino – lo slancio di un pensiero radicalistico facente uso di uno stile violento si univa ad una giovanile mancanza di misura e di senso politico e ad una utopica incoscienza dello stato di fatto» (J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 149). 21.  Ivi, p. 144. 22.  Cfr. F. Ingravalle, Il soggetto sovrano? Esoterismo e politica nel Novecento italiano: Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova 2019. Per una discussione critica dell’«imperialismo pagano» evoliano a partire dall’omonimo articolo pubblicato nel 1927 su «Vita Nova», cfr. F. Cassata, A destra del fascismo. Profilo politico di Julius Evola, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 22-44. 23.  J. Evola, Imperialismo pagano, cit., p. 84.

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incatenato il soggetto alla propria finitezza, istituendo una netta e irriducibile disequazione tra finito e infinito o, trasferita sul piano storico, tra regalità e sacralità24. Così facendo, ha negato l’autosufficienza e l’autonomia dell’Io, rendendo la sua azione estroflessa in direzione di una finalità sempre ancora da raggiungere, trascendente l’attualità e l’immediatezza dell’azione sovrana, tale essendo solo l’azione pura, assoluta: L’azione è qualcosa di elementare. È qualcosa di semplice, di terribile, di irresistibile. Non vi è posto, in essa, per la passione, né per l’antitesi, né per lo «sforzo», e ancor meno per l’«umanità» e il «sentimento». Parte da centri assoluti, senza odio, senza brama e senza pietà, da una calma che atterrisce ed immobilizza, da un livello di «indifferenza creatrice» superiore ad ogni opposizione.25 24.  Sulla distinzione tra «tradizione regale» e «tradizione sacerdotale» si veda un saggio da Evola scritto con lo pseudonimo Ea e pubblicato su «Ur»: Considerazioni sulla magia e sui poteri, ora in Introduzione alla magia, 3 voll., a cura del Gruppo di Ur, Mediterranee, Roma 1971, vol. I, pp. 279-296. 25.  J. Evola, Imperialismo pagano, cit., p. 123. Si tratta di una dimensione – quella dell’agire-senza-agire – costantemente riaffermata da Evola, fin dalla prima curatela del Tao Tê Ching di Lao-tze risalente al 1923: cfr. J. Evola, Introduzione, in Id., Tao Tê Ching di Lao-tze, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 1997, pp. 27-39. In essa si afferma: «Lasciar andare: il lasciar andare testimonia profonda radice, forte tronco, sentiero alla potenza immortale […]. E, presso al possesso più profondo, voler senza voler volere, agire senza voler agire, sentire senza voler sentire […]; così si è al di sopra di ogni influenza e lotta (ivi, p. 35). Nell’introduzione all’edizione del ’59 Evola scrive: «Circa il “non-agire” taoista, wu-wei, la sua controparte positiva è l’“agire senza agire”, wei-wu-wei […]. [I]l wu-wei vuol dire soltanto non-intervento dell’Io periferico, esclusione del “fare” in senso stretto e materiale, dell’uso del potere esteriorizzato – come condizione per il manifestarsi di una forma superiore di azione, che è appunto l’“agire senza agire”, weiwu-wei» (ivi, pp. 86-87). Cfr. anche J. Evola, É. Coué e l’‘agire senza agire’, ora in Id., I saggi di Bilychnis, Edizioni di Ar, Padova 1987, pp. 11-23. A testimonianza di quanto tale aspetto rimarrà decisivo anche nelle opere più tarde, cfr. J. Evola, Cavalcare la tigre, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2009, pp. 70-78.

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Ecco il motivo per cui «Ogni vero imperialismo deve essere intensamente positivo, epperò riconoscere una sola realtà: quella dell’individuo»26. Un individuo che sia pura potenza, possesso di sé medesimo che si traduce nella possibilità della rinuncia alla potenza stessa: «Aver bisogno della potenza è una impotenza […]. Come ogni bisogno, ogni brama, e ogni passione esprime una privazione dell’essere, il no detto a tutto ciò integra, accresce, esalta l’essere, e lo sospinge verso una vita superiore, centrale, solare»27. Senonché il ripiegamento di queste stesse premesse nella direzione dell’affermazione di una fumosa «Tradizione mediterranea», che avrebbe informato di sé le civiltà precristiane fino a protrarsi – esotericamente trasmessa – ai misteri mithraici28, finisce per generare quella curvatura teoretica di cui si diceva, 26.  J. Evola, Imperialismo pagano, cit., p. 92. Sul concetto di «impero interiore» in Evola, cfr. C. Bonvecchio, Evola e l’Impero interiore: una fine e un inizio, in J. Evola, Imperialismo pagano, cit., pp. 17-51 e G. Sessa, Prologo. Filosofia della liberazione e impero interiore: l’utopia evoliana, in Id., Julius Evola e l’utopia della Tradizione, OAKS, Sesto San Giovanni 2019, pp. 1940. È ancora Bonvecchio a chiosare: «L’impero non è riducibile ad una mera azione politica: è piuttosto qualcosa che inerisce, prevalentemente, alla sfera spirituale. […] L’impero, d’altronde, è la costruzione o meglio la ri-costruzione di una realtà metafisica, di un ordine perduto di cui è la cifra simbolica» (C. Bonvecchio, Al di là della modernità: Evola e l’impero, in G. de Turris [a cura di], Julius Evola. Un pensiero per la fine del millennio, Fondazione Julius Evola, Roma 2001, p. 109). 27.  J. Evola, Imperialismo pagano, cit., p. 88. 28.  Già a partire dall’edizione tedesca di Imperialismo pagano, pubblicata nel 1933, Evola introdurrà una distinzione, poi mantenuta nelle opere successive, tra tradizione mediterranea e tradizione primordiale nordico-solare, quest’ultima all’origine della stessa romanità pagana. Cfr. J. Evola, Heidnischer Imperialismus, in Id., Imperialismo pagano, cit., pp. 193-197. Circa il riferimento evoliano a una tradizione mediterranea, l’influenza più immediata, ancor prima che in Guénon, è da ricercare nel contatto diretto con l’esoterista Arturo Reghini. Un’interessante disamina dei rapporti tra i due è fornita da Elémire Zolla in quello che rimane di fatto l’unico scritto – pressoché sco-

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andando a limitare la stessa capacità creatrice dell’Individuo assoluto. Esso si vede costretto a rinunciare alla pura formalità del suo esserci per farsi forma determinata di un contenuto altrettanto determinato. Ulteriore testimonianza si tragga dalla critica di quel «realismo universalistico» applicato alla sfera della politica e da Evola bruscamente ricondotto alla sua presunta matrice hegeliana. Considerare astrattamente lo Stato, la nazione, il popolo, rischierebbe di far perdere di vista l’individuo quale unico protagonista della storia: «Lo Stato, la nazione – e anche la “tradizione” – sono delle astrazioni (al più, dei compiti), le quali sono solamente nella realtà di alcuni individui che si impongono, creano vie dove non vi erano vie, fanno unità ciò che non era che molteplicità»29. Alla luce di ciò, Imperialismo pagano può essere interpretato come inizio del limen della stagione filosofica del nostro autore, come varco in cui si incunea un sempre più determinato concetto di «Tradizione». Non è qui luogo per mostrare come nelle opere successive, già da Rivolta contro il mondo moderno, tale concetto andrà assumendo via via nuova vitalità e dinamismo, pur rimanendo saldamente legato al magistero guénoniano da un lato e a un sostanziale dualismo di fondo dall’altro30. È tuttavia

nosciuto – che l’intellettuale torinese ha dedicato a Evola; cfr. E. Zolla, The evolution of Julius Evola’s thought, in «Gnosis», n. 14, 1989-1990, pp. 18-20. 29.  J. Evola, Imperialismo pagano, cit., p. 92. Si veda, a tal proposito, quanto sottolinea Gian Franco Lami in un suo pionieristico lavoro: «Anti-idealista, dunque, è l’impero evoliano, almeno nel senso di una costituzionale avversione per tutte le pseudo-etiche e retoriche patriottarde, socialistiche e religiose. […] Per Evola si tratta appunto di riconsegnare all’uomo e al singolo l’opportunità di costruire una nuova gerarchia, di farsi “capo”, ma, soprattutto, di vivere nuovamente quei caratteri che fanno naturalmente un individuo diverso dall’altro» (G.F. Lami, Arte e filosofia in Julius Evola, a cura di G. Sessa, Fondazione Julius Evola-Pagine, Roma 2017, p. 193). 30.  Per una sintetica ma completa disamina dei principali punti di convergenza e di rottura tra Evola e Guénon riguardo al tema della Tradizione,

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appena il caso di fare un ulteriore accenno a un’altra opera di passaggio, di tre anni successiva, La tradizione ermetica, edita da Laterza nel 1931. Un grave errore che si può essere portati a compiere nell’approcciare questo come numerosi altri testi evoliani consisterebbe nel considerarli testi con una valenza esclusivamente erudita, perdendo di vista tanto le finalità alla luce delle quali l’autore li elabora quanto le premesse filosofiche che ad essi soggiacciono. L’opera evoliana sull’ermetismo viene preparata da alcuni articoli apparsi sotto pseudonimo sulle riviste «UR» e «KRUR»31, di cui Evola era direttore, non-

cfr. A. Ventura, Evola e Guénon: la Tradizione contro il mondo moderno, in R. Guénon, La crisi del mondo moderno, tr. it. di J. Evola, a cura di G. de Turris, A. Scarabelli e G. Sessa, Mediterranee, Roma 2015, pp. 227-249. Per quanto riguarda la specificità dell’elaborazione teorica dell’idea evoliana di Tradizione, cfr. P. Di Vona, Metafisica e politica in Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova 2000, pp. 65-81. Per uno studio comparativo “sistematico” circa l’elaborazione teorica di Evola e Guénon, con uno sguardo privilegiato per quest’ultimo, cfr. P. Di Vona, Evola, Guénon, De Giorgio, SeaR, Borzano (RE) 1993. Dichiaratamente dipendente dall’indagine di Di Vona ma comunque rilevante sul tema è il capitolo La Tradizione oltre la filosofia, in M. Fraquelli, Il filosofo proibito, cit., pp. 50-71. A proposito della collocazione di un altro testo di “passaggio”, L’uomo come potenza, cfr. infra, cap. II, pp. 161-162, nota 189. Basti ora anticipare quanto puntualmente osservato da Luciano Pirrotta: «Il libro [L’uomo come potenza] rappresenta […] uno snodo cruciale sia come coerente sbocco dell’approccio speculativo adottato dal futuro ‘maestro della Tradizione’, che nella prospettiva di prolungamento applicativo di quanto esposto prima sul piano meramente concettuale» ribadendo comunque che «i suoi contenuti restano ancora inquadrati in uno schema squisitamente filosofico» (L. Pirrotta, La maschera di pietra. Julius Evola dall’Idealismo Magico alla Tradizione, Atanòr, Roma 2014, pp. 55-57). 31.  I fascicoli di tali riviste verranno ripubblicati, opportunamente riveduti, a cura dello stesso Evola nel ’55, con il titolo di Introduzione alla magia quale scienza dell’Io (cfr. Introduzione alla magia, cit.). Per una rassegna dell’affascinante esperienza del gruppo di Ur, di cui fecero parte, tra gli altri – oltre a Evola – Girolamo Comi, Nicola Moscardelli, Arturo Reghini, Massimo Scaligero, cfr. R. Del Ponte, Evola e il magico «Gruppo di Ur», SeaR, Borzano (RE), 1994. Sullo scontro che portò alla fine della rivista, cfr.

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ché da un denso saggio apparso nel 1930 su «Bilychnis»32. Si potrebbe anzitutto osservare che, come Imperialismo pagano, anche La tradizione ermetica è un’opera che trova la sua iniziale ragion d’essere, il suo punto d’avvio, nell’avvisaglia di un «pericolo cristiano». In quest’ultimo caso però tale pericolo non viene trattato alla luce dei suoi immediati e – a parere dell’autore – esiziali esiti politici, quanto in una prospettiva eminentemente “spirituale”, studiando quella tradizione alchemica che tanti fraintendimenti avrebbe ingenerato negli interpreti proprio a causa della sua natura ermetica. L’errore del cristianesimo storico rispetto alla sapienza ermetico-alchemica sarebbe stato anzitutto quello di “democratizzare” l’idea tradizionale di sopravvivenza e immortalità, svincolandola da qualsivoglia pratica iniziatica: Stabilito così l’equivoco, pervertita in tal senso la verità, l’iniziazione non poteva più apparire necessaria: il suo valore di operazione reale ed effettiva non poteva più esser compreso. Ogni possibilità veramente trascendente fu a poco a poco obliata. E quando si continuò a parlar di «rinascita», il tutto di massima si esaurì in un fatto di sentimento, in un significato morale e religioso, in uno stato più o meno indeterminato e «mistico». Far capire, in secoli dominati da questo errore, che qualcosa d’altro è possibile; che ciò che gli uni tenevano

A. Iacovella, Il dissidio Evola-Reghini, appendice a J. Evola, Imperialismo pagano, cit., pp. 297-301. 32.  Cfr. J. Evola, La dottrina della palingenesi nell’ermetismo medioevale, ora in Id., I saggi di Bilychnis, cit., pp. 96-117. Gli interessi evoliani per l’ermetismo alchemico vanno ulteriormente retrodatati se solo si considerano i frequenti ed evidenti richiami all’alchimia in alcune opere pittoriche risalenti per lo più al biennio 1919-20. A riguardo, cfr. l’ottimo saggio di E. Valento, Homo Faber. Julius Evola fra arte e alchimia, Fondazione Julius Evola-­Europa Libreria Editrice, Roma 1994, pp. 45-60, e C.F. Carli, Evola: la pittura e l’alchimia; un tracciato, in Aa. Vv., Julius Evola e l’arte delle avanguardie. Tra Futurismo, Dada e Alchimia, Fondazione Julius Evola-Europa Libreria Editrice, Roma 1998, pp. 49-60.

33 per un sicuro possesso e gli altri per una gratuita speranza, è un privilegio legato ad un’Arte segreta e sacra […] dichiarar dunque la relatività di tutto ciò che è religione, speculazione e morale umana per additare il punto di vista della realtà nella sua trascendenza rispetto ad ogni costruzione mortale […] darsi a tentativi di questo genere, sarebbe stato ormai vano […]. Molto meglio parlar dunque di Mercurio e di Solfo, di metalli, di cose sconcertanti e di operazioni impossibili, ottime per attrarre l’avidità e la curiosità di quei «soffiatori» e di quei «bruciatori di carbone» dai quali doveva nascere la chimica moderna, e per non lasciar sospettare agli altri, nelle rare ed enigmatiche allusioni, che si trattasse, nell’essenza, di un simbolismo metallurgico per cose dello spirito.33

Dalla poderosa sinossi di fonti diversissime e materiali variegati squadernata da Evola in quest’opera, sono due gli elementi che anche una lettura senza pretese di esaustività, come vuole essere la nostra in questo contesto, può ricavare. Da un lato il carattere di realtà dei processi spirituali di cui la trasformazione dei metalli è simbolo, dall’altro la dimensione attiva del cammino di assolutizzazione dell’Io. Nel sottolineare questi due aspetti dell’Arte Regia Evola intende “misurare” l’Individuo assoluto, mettere alla prova i propri guadagni speculativi verificandoli nel confronto diretto con una sapienza millenaria. Finalità del procedimento alchemico è di consentire all’Io di avere causalità sul mondo, di dominarlo in piena autonomia e libertà. Viene in questo modo escluso ogni misticismo, in cui l’Io permane in una situazione di subalternità e passività rispetto all’assoluto. Da ciò deriva la specificità della lettura evoliana dell’ermetismo alchemico: Se ci si tiene al senso prevalente che il termine «misticismo» ha assunto in Occidente dopo il periodo dei Misteri classici e soprattutto col cristianesimo, noi mostreremo che non si tratta 33.  J. Evola, La tradizione ermetica, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 1996, pp. 109-110.

34 di misticismo: mostreremo che si tratta di una scienza reale, nella quale la reintegrazione non ha un significato «morale», bensì concreto e ontologico.34

L’intenzione è dunque di condurre l’ermetismo in un territorio in cui sia immediatamente delegittimata ogni sua interpretazione in chiave esclusivamente gnoseologica o contemplativa: «l’Arte ermetica non è intesa a scoprire l’Oro, ma a fabbricarlo»35. Ma come fabbricare l’Oro? Come giungere a quello stato di assolutezza che discioglie ogni vincolo mondano? Senza voler ripercorrere l’intera trattazione evoliana,

34.  Ivi, p. 24. 35.  Ivi, p. 81. Circa la “modernità” dell’interpretazione dell’alchimia offerta da Evola si veda il giudizio di Piero Di Vona: «Evola è convinto che l’oro e il sole nel loro significato più profondo esprimano il principio chiamato Io dai moderni. Questo può manifestarsi in forma volgare come un riflesso trascinato dalla corrente delle acque, oppure può essere puro e vivente, congiunto solo con sé, come un puro metallo nobile […]. L’oro e il sole hanno relazione col corpo. Quando l’essere interiore spirituale acquista la stabilità dei rigenerati, allora i princìpi del corpo, trasposti su di un piano superiore in una corporeità spirituale, prendono il nome di Pietra filosofale» (P. Di Vona, Julius Evola e l’alchimia dello spirito, Edizioni di Ar, Padova 2003, p. 46). La lettura evoliana dell’alchimia si distingue nettamente anche dall’interpretazione che ne diede Carl Gustav Jung, il quale pur apprezzerà l’opera evoliana tanto da citarla positivamente nel suo Psychologie und Alchemie. Conformemente a quanto sostenuto da Evola, lo psichiatra svizzero condanna la lettura volta a fare della tradizione alchemica poco più che una chimica in nuce, salvo discostarsi dal filosofo romano nell’intendere il simbolismo alchemico come in toto riconducibile al processo psichico di «individuazione» (cfr. C.G. Jung, Psicologia e alchimia, tr. it. di R. Bazlen, riv. da L. Baruffi, a cura di M.A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino 2006). Per quanto concerne il giudizio di Evola su Jung, anche in riferimento alla sua interpretazione dell’arte ermetica, cfr. Ea, L’esoterismo – l’inconscio – la psicanalisi, in Introduzione alla magia, cit., vol. III, pp. 383-407. Per la critica alla psicanalisi, cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2008, cap. III, pp. 63-83. Cfr. inoltre J. Evola, L’infezione psicanalista. Scritti sulla psicanalisi 1930-1974, intr. di A. Segatori, Fondazione Evola-Controcorrente, Roma-Napoli 2012.

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basti qui concentrarsi su una formula, quel «solvere il fisso e fissare il volatile» che riassume senso e scopo dell’operazione alchemica. Il solve et coagula ermetico si configura come vera e propria fenomenologia dell’individuo, attraversamento di diverse fasi (opera al nero o nigredo, opera al bianco o albedo e opera al rosso o rubedo) verso la progressiva integrazione della facoltà percettiva e conoscitiva. Particolarmente esplicativa a questo proposito risulta l’analogia con il modo di rapportarsi a un testo scritto: ci si imagini di trovarsi dinanzi ad una scritta in una lingua non conosciuta. Essa non potrà valermi che come un gruppo di segni da me semplicemente guardati. Non diverso lo stato volgare dei «fissi»: ciò che io sono, come questo essere vivente con dati organi, facoltà possibilità ecc., in grandissima misura io mi trovo semplicemente a constatarlo, ad «esserlo»: ed «essere» è una cosa; comprendere, volere, poter volere altrimenti, è un’altra cosa.36

A tale situazione di deficienza e impotenza rispetto al puro essere di ciò che è si può sopperire attraverso un’integrazione spirituale, vale a dire, per reintrodursi nella metafora, imparando a leggere quella lingua sconosciuta: allora io non guardo soltanto, ma leggo e comprendo: i segni mi divengono un puro appoggio, una semplice traccia per un atto del mio spirito. Essi, nella loro materialità, è come se non esistessero più: l’iscrizione potrebbe andar distrutta – ma io potrei riprodurla, partendo dal mio spirito e finendo in quei segni, invece di partire e finire in questi ultimi, come ne era il caso quando essi non mi valevano che come segni incomprensibili. Estendendo l’analogia all’essere corporeo si chiarisce dunque come il corporeo possa trasformarsi in ciò che non è corporeo, pur non cessando di essere tale.37

36.  J. Evola, La tradizione ermetica, cit., p. 163. 37.  Ibidem.

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Occorre vivere la morte dell’essere corporeo per farsene una rappresentazione, in cui la cosa vive in una forma indipendente e autonoma ancora estranea all’Io. In essa il corpo viene separato dal proprio principio vitale, la determinatezza originaria cessa allora di esser quel che è, dal momento che è il corpo a rivestire un ruolo individualizzante. La morte filosofale è determinata dal dissociarsi autonomo dell’anima dal corpo e non dal disfarsi naturale del corpo. È in questo intervallo tra la morte e il salto nello zero non qualitativo, la cosiddetta «prova del vuoto», che si innesta il processo che conduce alla realizzazione di una nuova corporeità. All’interno di questa cornice Evola fa riferimento ad alcune interpretazioni ermetiche di episodi biblici, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento; la morte in croce e la risurrezione di Cristo divengono simboli della morte filosofale e della rinascita celeste, il Sepolcro svolgendo il ruolo di Atanòr alchemico; esegesi analoga viene ricavata dal mito del diluvio universale, la cui interpretazione ermetica, secondo la quale il dilagare e il ritrarsi delle acque altro non simboleggerebbe che il solve et coagula alchemico, sarebbe vieppiù avvalorata dalla figura del corvo nero che non fa ritorno (nigredo) e dalla bianca colomba con il ramoscello di ulivo (albedo), testimonianza di una nuova e rigenerata vita, di un nuovo corpo completamente spiritualizzato38. Ciò che preme sottolineare è che il mutamento di condizione cui ci si riferisce non assume nei testi ermetici i tratti di una alterazione qualitativa, di un divenire altro da parte di qualcosa di originariamente determinato, quanto il carattere di un’integrazione in intensità che conduce all’identificazione di corpo e spirito, designata dalla natura doppia del Rebis o «androgine». Osserva Evola: «la distinzione fra queste due fasi [Opera al Bianco e Opera al Rosso] (cui corrispondono i termini di “piccola” e “grande Medicina”) può dirsi intensiva: si tratta di 38.  Ivi, pp. 156-157.

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due momenti successivi dello stesso processo di “fissazio­ne”»39. Si tratta di un passaggio dalla potenza all’atto, quest’ultimo effettivamente realizzato solo nel ritorno alla Terra come superamento della fase contemplativa della Grande Opera: «È insegnamento concorde e caratteristico di tutta la tradizione che non ci si debba arrestare al “Bianco”»40, e ancora: «là dove Bianco e Luce hanno il primato si tradisce una spiritualità che pur potendo avere eventualmente anche un carattere iniziatico, sta prevalentemente sotto il segno della contemplazione, della “conoscenza” e della sapienza, e che quindi è più vicina alla tradizione sacerdotale che non a quella regale»41. Senonché tale interpretazione del sapere alchemico occidentale non può esimersi dal rendere ragione di una esegesi letterale dei testi ermetici. La produzione dell’oro metallico assume allora la valenza di un «segno» paragonabile ai miracoli nella tradizione cristiana42. Esso indica l’avvenuta ricostituzione del regno di Saturno (non a caso re dell’età dell’Oro43) e il riempimento della privazione di cui la materia è simbolo. Essa è Penia, bisogno costantemente alimentato dal desiderio e dalla mancanza che trova quiete solo nel possedersi del Bene, che è «l’attualità dell’Individuo Assoluto, legata alla “calce onnipotente” – al risorgere e al trasfigurarsi del titanico»44. 39.  Ivi, p. 164. 40.  Ivi, p. 165. 41.  Ivi, p. 179. 42.  Cfr. ivi, p. 187. 43.  Evola in nota fa riferimento a un saggio di P. Negri (pseudonimo di Arturo Reghini), il quale avrebbe rilevato la corrispondenza Saturno-Oro-Essere: «Decomponendo in Sat-urnus, e considerando “urnus” nello stesso valore di di-urnus, noct-urnus ecc., la radice sat coincide col termine sanscrito che vuol dire essere e che figura nella designazione indù dell’età corrispondente all’esiodea “età dell’Oro”: satya-yuga» (J. Evola, La tradizione ermetica, cit., p. 92, nota 246). 44.  J. Evola, La tradizione ermetica, cit., p. 93.

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Con ciò è rischiarato il senso della formula alchemica che Evola aveva già utilizzato nelle opere filosofiche a proposito dell’inaf­ ferrabilità dell’Io: il processo per il quale l’Io si concretizza in una determinatezza e al contempo mostra la sua irriducibilità a tale determinatezza «può intendersi come un “volatile” generantesi dal continuo disciogliersi del “fisso”, sia come un “fisso” generantesi dal continuo determinarsi e possedersi del “volatile”»45. A partire da questo angolo visuale ci si trova dunque dinanzi a una evidente continuità, linguistica e concettuale, con il periodo filosofico. Nel secondo capitolo del presente lavoro si vedrà come il movimento spirituale descritto tramite la simbologia alchemica trovi un suo preciso fondamento speculativo nelle opere propriamente filosofiche di Evola. D’altro canto, La tradizione ermetica è anche il primo testo evoliano in cui si presenta una sistematizzazione argomentativa riproposta nelle opere della maturità e su cui è bene soffermarsi per comprendere il ruolo di cerniera svolto da questo testo. La prima parte dell’opera è infatti dedicata a una accurata indagine intorno ai simboli dell’ermetismo alchemico46, mentre è solo la seconda a penetrare nel dinamismo dei processi alchemici per interpretarli alla luce di tale simbologia. Si potrebbe allora avanzare l’ipotesi che quella intorno all’ermetismo alchemico sia la prima vera indagine condotta secondo quel «metodo tradizionale» indagato da W. Hein-

45.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, Bocca, Torino 1927, p. 232. 46.  Cfr. quanto puntualmente osserva Davide Bigalli: «la sistemazione della simbologia alchemica, nella prima parte, viene a configurarsi come un vero e proprio alfabeto, a stabilire un universo retto dalla analogia» (D. Bigalli, Evola e la tradizione ermetica, in G. de Turris [a cura di], Julius Evola e la sua eredità culturale, cit., p. 49).

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rich47 e che vedrebbe in Evola uno dei suoi principali promotori. Tale metodo è fondato sui principi di analogia e corrispondenza e consiste nel rintracciare, nel materiale offerto dalla storia, un patrimonio simbolico comune a tutte le civiltà cosiddette «tradizionali», mediante un’operazione che Evola classificherà come un passaggio «dal differenziale all’integrale». Far emergere la dimensione simbolica della storia vuol dire svelarne l’intrinseca dinamicità, cogliendo insieme ciò che nel metamorfico orizzonte storico rimane costante. Scrive Evola in proposito: Quello che è stato chiamato il «metodo tradizionale» consiste nello scoprire una unità o corrispondenza essenziale di simboli, di forme, di miti, di dogmi, di discipline di là dalle espressioni varie che i corrispondenti contenuti di significato possono assumere nelle singole tradizioni storiche. Tale unità può risultare da una penetrazione in profondità della varia materia tradizionale.48

Symbolon è infatti ciò che tiene insieme il particolare e l’universale, lo storico e il sovrastorico, dando vita a una grammatica in grado di interpretare la storia alla luce del mito e non viceversa. Va altresì sottolineato che proprio tale impostazione teorica è sintomo del ripiegamento verso un piuttosto marcato

47.  Cfr. W. Heinrich, Sul metodo tradizionale. Vico, Bachofen, Guénon, Evola, tr. it. di S. Wiesel, a cura di S. Arcella, Fondazione Julius Evola-Pagine, Roma 2017. Heinrich recupera l’espressione «metodo tradizionale» da un testo di Evola, Il mistero del Graal, la cui traduzione tedesca era stata rivista dallo stesso filosofo romano. In essa si parla di metodo traditionsgebunden, «legato alla tradizione», fondato sui principi di analogia e corrispondenza. A parere di Heinrich sarebbero precursori di tale metodo Vico (solo in parte) e soprattutto Bachofen e Schelling. La tematica del «metodo tradizionale» e della sua importanza nell’evoluzione del pensiero di Evola sarà affrontata in maniera più sistematica nel terzo capitolo, cfr. infra, cap. III, § 2. 48.  J. Evola, L’arco e la clava, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2000, p. 226.

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dualismo metafisico nonché a una fossilizzazione del dinamismo della giovanile «teoria» a vantaggio di forme di conoscenza diretta, puramente intellettuale49. A titolo puramente esemplificativo, si legga il seguente passo tratto da Rivolta contro il mondo moderno: Vi è un ordine fisico e vi è un ordine metafisico. Vi è la natura mortale e vi è la natura degli immortali. Vi è la regione superiore dell’«essere» e vi è quella infera del «divenire». Più in generale: vi è un visibile e un tangibile e, prima di là da esso, vi è un invisibile e un non tangibile quale sovramondo, principio e vita vera. Dovunque nel mondo della Tradizione, in Oriente e in Occidente, in una forma o nell’altra, è stata sempre presente questa conoscenza come un asse incrollabile intorno al quale tutto il resto era ordinato. Si dice conoscenza e non “teoria”.50

Da questa prospettiva interpretativa lo studio sull’ermetismo non solo determina il punto d’avvio a partire da cui circoscrivere un metodo d’indagine fermamente contrapposto alla metodologia positiva, ma insieme porta a originale compimento l’iter speculativo evoliano, rintracciando nella simbologia alchemica l’origine di un possibile rinnovamento spirituale. Lungi dal rappresentare una mera sistematizzazione di materiale di studio raccolto nel corso degli anni precedenti, La tradizione ermetica segna l’inizio di un modo nuovo di guardare la storia, intesa come ciò che nell’immanenza e singolarità dell’evento dispiega la possibilità del suo trascendimento51. A livello puramente metodologico, lo sguardo che informa di sé la materia 49.  Già René Guénon sosteneva che l’autentica conoscenza metafisica potesse aversi solo tramite un’intuizione intellettuale pura, distinta da quella di ordine sensibile e sub-razionale cui si appellavano filosofi irrazionalisti e vitalisti (cfr. R. Guénon, La crisi del mondo moderno, cit., p. 87). 50.  J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2003, p. 43. 51.  Seppur in un senso molto distante da quello qui delineato, un sentore del carattere dirimente de La tradizione ermetica è stato manifestato da

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di studio è pertanto caratterizzato da un costitutivo strabismo, dalla nostalgia di una perduta origine che diviene, nel momento in cui tale origine viene intenzionata, u-topica proiezione in un orizzonte futuro52.

3. Arte pura e Tao: verso il formalismo assoluto In una intervista rilasciata alla televisione francese tre anni prima della sua morte, Evola riattraversa la propria esperienza dadaista utilizzando queste parole: per Tzara e per me tutte queste esperienze non avevano un valore esclusivamente artistico. Erano una sorta di riflesso di una crisi esistenziale profonda (sopraggiunta nel mio caso subito dopo la guerra, quando avevo fatto ritorno dal fronte; non era uno stato in cui avrei potuto soggiacere a lungo). Qui risiede la differenza, a mio giudizio, tra l’arte astratta di allora e quella odierna. Allora essa aveva una dimensione esistenziale profonda, laddove oggi è solamente una sorta di convenzione, di “maniera”, sprovvista di una qualsivoglia profondità.53

A.C. Ambesi, Evola e l’alchimia in G. de Turris (a cura di), Testimonianze su Evola, Mediterranee, Roma 1985, pp. 19-27. 52.  Per una lettura tesa a valorizzare il carattere utopico del pensiero evoliano, cfr. G. Sessa, Julius Evola e l’utopia della Tradizione, cit. Tale carattere è stato altresì letto come condannante la fase matura del pensiero evoliano a un esito irrimediabilmente dualistico nonché nichilistico: «Nichilistico nel riferimento ad un nihil – la Tradizione ‘inesistente’ (vero ou tòpos, non-luogo) […]; nichilistico nell’aver dedotto da essa dei valori (un duplice nichilismo dato dal derivare valori da un nihil e dal pensare per valori; nichilistico nel riaffacciarsi della metafisica scandita da dualismi ontologici in cui l’esistente dovendo tendere “verso l’alto” viene svalutato rispetto a un sovraesistente […] decantato ma dai connotati indefiniti» (L. Pirrotta, La maschera di pietra, cit., p. 121). 53.  J. Evola, Autobiografia spirituale, cit., p. 37.

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Si intende ora entrare nel dettaglio del «valore non esclusivamente artistico» che il dadaismo ebbe per Evola, tentando di ravvisarvi l’istanza di un’affermazione incondizionata dell’Io quale forma assoluta. Visto l’andamento “genetico” che abbiamo intenzione di seguire, finalizzato a ricostruire il processo che conduce all’insorgere di un vero e proprio sistema filosofico evoliano, non risulterà azzardato prendere le mosse dagli stessi esiti cui l’esperienza artistica evoliana giungerà al culmine del suo sviluppo. Tali esiti trovano espressione in due significativi luoghi: nell’appendice ai Saggi sull’idealismo magico, intitolata Sul significato dell’arte modernissima, e nel paragrafo 20 della seconda sezione della Fenomenologia dell’Individuo assoluto, dedicato all’arte pura quale categoria ultima dell’epoca della personalità54. Questi due luoghi condividono un’analoga “storicizzazione” dell’esperienza artistica dadaista, ciò che ne segna, più che il superamento, l’avvenuta interiorizzazione all’interno delle strutture categoriali dell’idealismo magico e della dottrina dell’Individuo assoluto55. La logica interna allo sviluppo stori54.  Cfr. F. Tedeschi, Arte astratta e Dada nella prospettiva degli scritti di Evola, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 21-32. A parere di Tedeschi gli scritti evoliani «di precisazione e orientamento sul dadaismo e i suoi risvolti filosofici e spirituali, pubblicati fra 1922 e 1923, si possono già considerare alla luce di una lettura retrospettiva di un movimento al quale Evola ha aderito e partecipato […]. Da qui, gli altri suoi contributi alla riflessione sull’arte d’avanguardia vanno letti all’interno del suo percorso filosofico-spirituale, a cominciare dal testo che compare a conclusione dei Saggi sull’idealismo magico del 1925» (ivi, p. 22). Per un inquadramento generale circa l’Evola artista e l’ambiente in cui si forma, cfr. anche G.F. Lami, Arte e filosofia in Julius Evola, cit., pp. 57-119; E. Valento, Homo Faber, cit., pp. 13-43; R. Melchionda, Il volto di Dioniso. Filosofia e arte in Julius Evola, Basaia, Roma 1984, pp. 165-197; E. La Rosa, Il dadaismo di Julius Evola nelle lettere a Tristan Tzara, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 297-322; F. Tedeschi, Il problema del dadaismo di Evola, in Aa. Vv., Julius Evola e l’arte delle avanguardie, cit., pp. 33-48. 55.  A proposito del primo dei due testi citati, osserva Elisabetta Valento: «in Sul significato dell’arte modernissima […] è ripreso il percorso in parte

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co dell’arte è riassumibile nella formula – introdotta proprio in Fenomenologia – di «processo autoconsuntivo». Ciò che guida e indirizza l’arte nel corso della storia è la tendenza al proprio logoramento, alla progressiva negazione di sé che finisce per corrispondere all’autoaffermazione del fattore soggettivo della produzione artistica fino al completo svincolamento rispetto alla necessità che un’espressione artistica si dia. Tale processo è cadenzato secondo tappe precise, quasi figure di un ideale itinerario fenomenologico. Vale la pena di percorrerle. Evola rivela anzitutto la propria rinuncia ad adottare gli strumenti tradizionalmente impugnati per interpretare i fenomeni artistici: non si tratta né di fissare lo sguardo sul contenuto artistico né di catalizzare l’attenzione sull’aspetto puramente formale. Tutte le letture volte a decifrare l’enigma dell’opera d’arte attraverso la lente dell’intenzionalità dell’artista, della sua abilità o del significato determinato dell’opera, sono destinate a non centrare l’obiettivo: «Tali criteri non soltanto sono generici e astratti, ma della cosa toccano solamente il fenomeno; del significato, del senso dell’arte, di ciò che essa in generale rappresenta per l’Io, essi non dicono nulla: il valore dell’arte in quanto è arte e non altro, cade interamente fuori dalla loro stregua»56. Il rilievo dato al termine «valore» impedisce di interpretarlo nella sua accezione generica; è infatti improbabile che ponendo la questione dell’arte in termini di valore l’autore non facesse riferimento al significato eminentemente filosofico da lui stesso attribuito a tale concetto negli anni immediatamente precedentracciato in Arte astratta: si delinea il concetto di arte negli ultimi secoli per giungere a Dada, definizione ultima dell’arte, storicizzandolo, ed è in tale cristallizzazione che l’esperienza artistica evoliana può dirsi definitivamente conclusa» (E. Valento, Evola fra arte ed antiarte, in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, a cura di E. Valento, Fondazione Julius Evola, Roma 1994, p. 13). 56.  J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, ora in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 102.

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ti. Senza voler anticipare temi che saranno discussi in seguito, basti qui far leva su due elementi. Innanzitutto, il concetto di «valore» nella prospettiva filosofica evoliana non ha alcuna attinenza con l’ambito morale. In seconda istanza, esso assume il significato generale di «mediazione», luogo della relazione. Porre il problema dell’arte in termini di valore vuol quindi dire concentrarsi sulla «funzione» che l’opera d’arte riveste nel determinare il modo in cui l’Io si rapporta col mondo. Ciò significa considerare l’arte come puro atto, prescindendo tanto dall’intento espressivo di tale atto, quanto dalla sua perfezione formale: «allora si può dire che ciò che interessa è la forma della forma»57. In questo senso anche l’arte, come (vedremo) la filosofia, è dominata da un intimo principio che la conduce ad automediarsi progressivamente. La trattazione evoliana prende infatti le mosse dalla cosiddetta «grande arte», categoria cui corrispondono le teorie estetiche da Platone a Schelling, avendo esse in comune il fatto di rimettere a una qualsivoglia alterità il principio del fare artistico, ciò che si traduce in una “quasi-soggettivazione” dell’arte stessa, la quale perviene in tal modo a possedere l’artista più che a esserne posseduta. Si può affermare che tale estroflessione del principio verso un che di esterno alla volontà dell’artista trovi il suo compimento nella figura dell’artista-vate, di colui che crea in sé il vuoto, disponendosi all’accoglimento della voce divina. È tale carattere di immediatezza-mediata a rendere la grande arte in sé superabile, degna di essere «moralizzata» e quindi in grado di condurre a una suprema mediazione. Un primo passo lungo questo cammino di moralizzazione è compiuto dal simbolismo, con il suo trasformare il mondo in un universo di segni, ancora vincolati al loro sostrato naturalistico, cui fa seguito «un continuo stracciarsi e incendiarsi in ogni cosa»58 che culmina nella lirica 57.  Ivi, p. 103. 58.  Ivi, p. 107.

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rimbaudiana e che conduce l’io a disperdersi: Je est en autre59. Con l’analogismo di Mallarmé ha inizio quell’interiorizzazione del contenuto che culminerà nell’arte astratta. Esso tuttavia mantiene una dualità, seppur interiorizzata, dovuta alla percezione dell’infinito come una negatività dell’Io, a cui rimane ancora in qualche modo estraneo. Un primo tentativo di recupero dell’oggettività moralizzata viene effettuato dal cubismo, corrente artistica in cui la regola rappresentativa è subordinata all’arbitrio individuale, sebbene ancora operante. Menzione a sé merita l’avanguardia artistica che tanto attirò il giovane Evola, vale a dire il futurismo. La breve indagine compiuta in Sul significato dell’arte modernissima sicuramente non rende giustizia all’influenza che tale corrente ha esercitato sullo stesso Evola, foss’anche per il solo e unico fatto di averlo condotto verso altri lidi dopo una prima, breve adesione. La ricerca del puro dinamismo, dello sconfinamento lessicale attraverso la parola libera, inizialmente interpretati come affermazione pura, vengono ad assumere la forma dell’ossequiosa osservazione della legge naturale, del divenire come orizzonte intrascendibile. Non era quello che il giovane Evola cercava, ansioso com’era di pervenire alla negazione di ogni presupposto. Se poteva affermare, in chiusura del suo primissimo scritto, che «la nuova pittura futurista si differenzia dalla primitiva e dalla passatista in genere in quanto attribuisce un valore enorme al volere a scapito del solito sentimento da romanticismo più o meno mascherato»60, sarà la presa di coscienza del progressivo emergere, nel futurismo stesso, di tale «sentimento da roman59.  La penetrazione profonda del significato del motto di Rimbaud è stata fatta coincidere con il passaggio da una prima tendenza artistica, detta dell’«idealismo sensoriale», a una seconda, più “mediata” forza d’arte, detta «astrattismo mistico», poi «dadaista» (su tutto ciò, cfr. R. Melchionda, Il volto di Dioniso, cit., pp. 165-197). 60.  J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, ora in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 33.

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ticismo», mascherato da dinamismo meccanico, ad allontanarlo da tale movimento61. Tenendo fermo il criterio del puro valore, autentico punto luminoso che orienta l’indagine critica operata da Evola, nel futurismo l’Io si trova ancora decentrato in direzione di un altro, si pone come libero ma non come libero rispetto alla sua stessa libertà, guadagnando la fisionomia di una natura colta nel suo esser già naturata, secondo una legge che non è in grado di dominare. Si potrebbe affermare che se il futurismo ha intuito la necessità di oltrepassare l’orizzonte dell’umano, ha erroneamente indicato tale oltrepassamento nell’esaltazione dei tecnicismi meccanici, il che, lungi dall’innalzare l’uomo verso l’affermazione della propria libera individualità, lo ha fatto regredire verso la stupefatta esaltazione della sfera sensibile. Scrive Evola: Ora nell’arte postrimbaudiana l’artista, affascinato dalla sua nuova possibilità di mago creatore, anziché valersi di questa liberazione per realizzare l’Io in centralità, la sfruttò per costruirsi nuovi mondi super o ipersensibili: ma con ciò cadde in una nuova forma di coscienza eccentrica, con ciò continuò, per usare una imagine dello stesso Rimbaud, a sentirsi ottone solamente allo svegliarsi in funzione di tromba. È invece al principio primordiale e incondizionato che tese il dadaismo […]. In quanto il dadaismo si volge a consumare quest’antitesi, si pone in un primo momento secondo il tema della negazione: l’Io, attraverso l’agitazione arbitraria e la crescente

61.  La più completa – nonché impietosa – disanima del futurismo fornita da Evola si trova in un articolo pubblicato nel 1930 sul quindicinale fondato dallo stesso filosofo romano, «La Torre». Ivi il futurismo è inteso come simbolo di decadenza, esaltata e malsana celebrazione di tutto ciò che è dinamismo, divenire, velocità. Evola prende inoltre di mira la stessa “estetizzazione” della politica, vista come ulteriore sottomissione «dei principi superiori della personalità» (J. Evola, Simboli della degenerescenza moderna: il futurismo, ora in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 127-132).

47 rarefazione e disorganizzazione del mondo delle formazioni estetiche, cerca di risolvere in sé, come nella forma della pura libertà, la determinazione.62

Non solo Dada non intende riprodurre alcuna realtà, ma vuole elevare l’Io alla propria funzione autenticamente poetica, creatrice, istitutrice di una realtà arbitraria e letteralmente anarchica. L’oggettività della determinazione viene radicalmente trasfigurata, assume i tratti sfuggenti di una produzione assoluta. Ciò non può che trasfigurare lo stesso soggetto facendone un autentico individuo63, e in tale potenza metamorfica Evola ravvisa il «valore» dell’arte, nel senso tecnico cui sopra si è fatto riferimento. L’arte è mediazione assoluta in quanto scardina la relazione dialettica, svincolandosi dalla necessità di doversi esprimere in un’opera. Osserva Evola: «Artistica non è invero da dirsi una certa opera in sé stessa bensì una certa funzione dell’Io, secondo la quale questi fa divenire un dato oggetto della sua esperienza ciò che poi verrà definito come opera d’arte»64. Alla luce di ciò diviene agevolmente comprensibile anche il ruolo che all’arte pura viene ritagliato nella Fenomenologia dell’Individuo assoluto. A testimonianza della centralità di tale posizione si legga la seguente valutazione, situata nella

62.  J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, cit., p. 109. 63.  A commento di un frammento novalisiano, Massimo Donà ha utilizzato parole che ci sembrano ben attagliarsi al contesto in esame: «L’Io, insomma, non deve affermarsi a scapito del proprio altro, escludendolo in quanto portatore di inquietudine e pericolo costanti; non ha da affermare l’Io che esso è, ma al contrario deve trasformarlo, trasfigurandolo. Deve smuoverlo dalla sua rigida fissità (quella caratterizzante il concetto in quanto tale) e consegnarlo alla sua originaria assolutezza. Come in un vero e proprio esercizio di perfezionamento costante; volto allo scioglimento dell’uno e dell’altro, e dell’altro nell’uno; stante che nulla sta, di là dalla dimensione illusoria e fantasmatica del “concetto”» (M. Donà, Di un’ingannevole bellezza. Le “cose” dell’arte, Giunti-Bompiani, Firenze-Milano 2017, p. 162). 64.  J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, cit., p. 112.

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nota all’edizione 1963 del giovanile poema a quattro voci La parole obscure du paysage intérieur: Quanto a quel tempo, per riferirsi a ciò che mi significò “esistenzialmente”, avessi preso sul serio l’esperienza dell’arte modernissima e del dadaismo, lo mostra che di essi feci una categoria nello sviluppo dialettico esposto nella mia opera filosofica Fenomenologia dell’Individuo assoluto (1930, II sez. § 20): categoria che situai al limite di forme, oltre le quali v’è la rivelazione della nuda essenza dell’Io e la possibilità rischiosa di esperienze superrazionali e superindividuali.65

L’apertura al sorgere dell’individualità corrisponde al pervenire, a livello artistico, a un formalismo assoluto che è propriamente in-differenza di forma e contenuto, ogni considerazione relativa al contenuto dell’opera d’arte essendo destinata «a cogliere nell’arte ciò che non è arte»66.

65.  J. Evola, La parole obscure du paysage intérieur, ora in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 275. Sulla ripubblicazione del poemetto è interessante l’“autogiustificazione” da Evola consegnata alla propria autobiografia: «Ho acconsentito alla sua ristampa quattro decenni dopo, per le edizioni Scheiwiller, anche per significare che io non rinnego affatto le mie passate esperienze e che sono lungi dal considerarle come dei “peccati di gioventù”; ho però avuto cura di spiegare la situazione e il periodo in cui il poema nacque: senza di che, il riapparire di quella composizione avrebbe costituito motivo di perplessità per coloro che mi conoscono solo per la mia attività più recente d’orientamento “tradizionale”» (J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp. 73-74). 66.  J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 102. Cfr. il commento di Massimo Donà a questa considerazione evoliana, che il filosofo veneziano considera «importantissima», giacché essa «mostra come ad Evola sia perfettamente chiaro almeno un fatto: che nulla, di quello che il giudizio può riuscire a rinvenire, dell’oggetto e nell’oggetto (ovvero, le sue caratteristiche specifiche, le sue qualità, la sua quantità, il suo colore, le sue proporzioni etc. etc.), potrà mai dirci qualcosa sul mistero dell’artisticità […]. Considerare l’oggetto in questa prospettiva infatti, significherebbe considerare l’azione destinata a produrlo come vincolata a principi, regole, valori, e dunque tecniche; in modo tale

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Nella categoria dell’arte pura il rapporto «entusiastico» con la trascendenza si inverte. Non è più l’artista a creare in sé il vuoto che lo dispone all’accoglienza dell’altro, bensì l’Io in quanto altro da sé che giunge a possedersi in assoluta immanenza. Tale rovesciamento spiega la successione fenomenologica dalla coscienza mistica all’arte pura, ove la prima si riferisce all’oggettività estatica in cui l’Io si perde per ritrovarsi, quale artista, in persona autenticamente autarchica. È ancora al momento mistico che può dunque venire ricondotto il rimbaudiano Je est un autre. In questo modo è raggiunta una sintesi; senonché, osserva Evola, «questa unità va ora attratta nel valore del conseguente, essa deve divenire cioè la materia in cui si media e gradatamente si manifesta, sino a pura espressione, la ritornante coscienza soggettiva»67. Il problema, ineludibile, è ora dunque di intuire cosa si intenda per «pura espressione» e il ruolo centrale che tale concetto svolge all’interno della filosofia dada, non solo evoliana. Ora, la rinnovata soggettività che segue la purificazione mistica porta con sé un a sua volta rinnovato modo di guardare al mondo. Si tratta in senso proprio di una «nuova oggettività», quella Neue Sachlichkeit cui Evola continuerà a guardare anche una volta esauritasi l’esperienza artistica. In realtà lo stesso inserimento dell’arte pura nell’itinerario fenomenologico ha come esito l’apertura di un nuovo percorso, contraibile nel punto dell’espressione pura, e la cui descrizione è consegnata a un articolo pubblicato su «Vita Nova» nel 1931. Ivi il sorgere dell’arte astratta viene interpretato come supeda rendere palese ciò che, nell’oggetto, sembra imporsi all’Io negando (in modo più o meno vincolante) la sua (sempre dell’Io) irrinunciabile libertà» (M. Donà, L’arte dal punto di vista dell’idealismo magico, in Aa. Vv., Studi evoliani 2017. Evola 120. Il pensiero tradizionale nel XXI secolo, a cura di G. de Turris, D. Gianandrea e G. Sessa, Fondazione Julius Evola-Arktos, Roma-Carmagnola 2018, pp. 54-55). 67.  J. Evola, Arte pura, ora in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 122.

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ramento del romanticismo in direzione dell’autonomizzazione della funzione espressiva individuale: Senonché per tal via si sbocca a qualcosa che dal punto di vista comune ben difficilmente si può chiamare arte. A meno di arrestarsi a metà strada, dal sottrarre i valori estetici a ogni riferimento trascendente e dal rimetterli al puro Io, doveva necessariamente seguire la riduzione dell’arte a giuoco e arbitrio puro […]. A questo punto il processo si arresta. Afasia. Sincope nell’impulso creativo. Estinzione della spontaneità entusiasta. Dionisismo dei senza-legge.68

Solo ora si dischiude la possibilità del recupero di una oggettività pura, della naturalità «non macchiata di spirito» di cui parla Nietzsche. Un processo analogo a quello che caratterizza il passaggio dall’arte moderna all’arte «modernissima» si verifica tanto nella scienza quanto in filosofia. L’esito coerente di questo sviluppo è l’apertura alla nuova oggettività cui si è fatto cenno, il ridestarsi del primordiale. Non risulta allora casuale il rimando all’orizzonte semantico musicale, l’idea per la quale i mezzi espressivi nell’arte modernissima assumono un valore «armonico», «essi non vogliono più dire nulla di concreto, e una specie di contrappunto, di pura sinfonizzazione e composizione di linee e colori, di parole e imagini, di toni e accordi che ha fine in se stessa, va a costituire la nuova opera d’arte»69. Segno della guadagnata nuova oggettività, risultato dell’espressione pura, diviene allora il jazz. Il fascino esercitato su Evola da tale «modernissimo» fenomeno è testimoniato dalle riflessioni che il filosofo vi dedica nell’arco di un trentennio. In particolare, il jazz compie il passo decisivo nel processo di formalizzazione in ambito musicale, segnando l’avvenuto superamento del romanticismo ottocentesco, incarnatosi sia nella forma «tragico68.  J. Evola, Superamento del romanticismo, ora in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 136. 69.  Ivi, p. 135.

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patetica» di un Beethoven che in quella «eroica» wagneriana. Scrive Evola: Nello sviluppo della musica moderna in genere, il processo già detto di “formalizzazione” è assai visibile: l’interesse armonico – cioè l’interesse per una “musica pura” – vi prende via via il sopravvento su tutti gli altri interessi, fino a Schönberg e a Strawinskij: la cosidetta “musica dell’anima” (Beethoven, Wagner) viene liquidata: di là dal “patetico”, dal “melodico” e dall’“eroico”, si passa al contenuto naturalistico della musica descrittiva, e si giunge a un tessuto ritmico come valore in se stesso: musica pura, intensità sonora, ritorno dell’elemento menadico. Strawinskij, col suo Sacre du Printemps, ha portato al limite questa direzione. Dopo Strawinskij, vi è appunto lo jazz.70

Ancora una volta, attraversando la catena delle mediazioni, si perviene a una nuova immediatezza o mediazione assoluta. Non è tanto il primordiale inteso esclusivamente come prespirituale a emergere, quanto una materia totalmente compenetrata di spirito, al punto da non costituirsi più come materia di una forma. La riflessione sul jazz si dimostra di centrale importanza anche per la comprensione del concetto di arte «aumana». Infatti, [l]a caratteristica dello jazz è di essere una musica che trascura di fermarsi all’“anima”, ma passa direttamente a incitare e a muovere il corpo: essa è asentimentale e primordialmente dinamica, riconduce a impulsi non ancora “umani”, non ancora psicologizzati. Si sa che ogni musica di danza è ritmo: ma nel caso dello jazz il ritmo ha qualcosa di primitivo che […] evoca una intensività pura, a ogni tempo trattenuta epiletticamente dai sincopati fino a un punto, ove il muoversi col corpo, l’agire, si impongono. Il lato di spontaneità, di flessuosa melopea, e così pure di gioia e di sensualità più o meno palese che sempre si ritrova nelle altre danze, qui non esiste: invece, v’è qualco70.  Ivi, p. 140.

52 sa di sottilmente demonico e di barbaricamente disgregatore nella sua primordialità che circola a freddo sotto la frivolezza apparente di questi ballabili.71

Parole pressoché identiche torneranno in un articolo di pochi anni dopo intitolato Filosofia del “jazz”72, nonché, inserite in un preciso contesto “programmatico”, in un capitolo di Cavalcare la tigre, opera pubblicata nel 1961. A questo punto, indicati gli “esiti” della riflessione di Evola sull’arte, possiamo volgere lo sguardo indietro, verso i primi scritti evoliani, applicandovi retrospettivamente i guadagni fino ad ora ottenuti. È bene riferirsi immediatamente al celebre giudizio di Massimo Cacciari, secondo cui il filosofo romano sarebbe «uno degli autori che più profondamente penetra nell’eso­terismo Dada»73. Esoterismo che qui non è piatto fa-

71.  Ibidem. 72.  Nel rilevare l’importanza dell’interpretazione evoliana del fenomeno jazz, Massimo Donà mostra l’intima connessione tra questa e alcuni dei più folgoranti guadagni speculativi ottenuti dal filosofo. Il jazz condividerebbe infatti con l’atto magico dell’Io la capacità di dispiegare la potenza costitutiva di ogni determinatezza, evocando quell’Assoluto che non può costituirsi come semplicemente “altro” dal finito, pena la sua stessa irrealizzabilità, ma sorge per via integrativa a partire dalla stessa imperfezione dell’Io. «Proprio come nel jazz – chiosa Donà – dove la perfezione ricercata dal musicista non viene mai concepita come qualcosa di situato al di là dell’imperfezione e dell’incompiutezza caratterizzanti quel che si potrà essere di volta in volta riusciti a creare». Ecco allora che il ritmo jazz si fa vero e proprio simbolo del movimento tramite il quale l’Io nega qualsivoglia alterità. L’originaria privazione in cui l’Io si imbatte è superata dal movimento puro che la musica sincopata riesce a generare (cfr. M. Donà, Prefazione. Evola e la musica. Verso una simbolica dell’incondizionato. Ovvero, sul jazz, su Wagner e sulla canzone, in J. Evola, Da Wagner al Jazz. Scritti sulla musica 1936-1971, a cura di P. Chiappano, pref. di M. Donà, Jouvence, Milano 2017, pp. 7-38). 73.  M. Cacciari, Marginalia a Dada, in G. Buonfino - M. Cacciari - F. Dal Co, Avanguardia Dada Weimar, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia 1978, p. 22.

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scino per l’occulto né arbitraria volontà del silenzio, ma im-­ possibilità dell’espressione: «Esprimere è uccidere. Dunque non si può né si deve esprimere», osserva Evola nel manifesto Arte Astratta74. L’impossibilità dell’espressione è l’impossibilità di un’espressione impura, che istituisca daccapo la disequazione tra segno e significato. Esprimere vorrebbe dire rioccupare lo spazio del soggetto, farsi nuovamente forma di un contenuto. Prosegue Cacciari: «Noi, siamo ormai fuori – siamo usciti, scesi dal fondamento. Non esprimiamo più dal fondamento – non ex-sistiamo»75. Autentico artista è chi non ha nulla alle proprie spalle, si libera del peso del mondo e della stessa necessità che un mondo, una storia, si dia76. Dada ha un unico problema, di ordine teoretico anche se non esauribile in termini speculativi: immaginare (ein-bilden) uno stato di libertà tale da porre come nulla i processi differenzianti necessariamente connessi al logos discorsivo, tale da annullare la separazione metafisica, il distacco, tra la forma-che-dice e la cosa-detta. Il rifiuto di ogni espressività, il programmatico non-pathos Dada […] vogliono rappresentare (ma nel senso dell’ein-bilden) l’atto spontaneo, semplice, in-intenzionale, «refrattario alle passioni», inutile – l’evento, il Caso: scrittura finalmente liberatasi dal logos, segno assolutamente liberato dal dovere di esprimere. Questo perfetto egoismo del segno rappresenta il completo essere-emerso del Soggetto, e dunque il nostro essere ormai fondati su Nulla.77

74.  J. Evola, Arte astratta, ora in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 155. 75.  M. Cacciari, Marginalia a Dada, cit., p. 22. 76.  Si comprende a tal proposito la nuova carica propulsiva assunta dal motto cartesiano, fatto proprio da Tristan Tzara: «non voglio nemmeno sapere che sono esistiti degli uomini prima di me!» (cit. in T. Tzara, Le surréalisme et l’après-guerre, Nagel, Paris 1947, pp. 17-18). 77.  M. Cacciari, Marginalia a Dada, cit., p. 23.

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Il raggiungimento di questo “fondamento” su Nulla intralcia irrimediabilmente la ricerca di ogni criterio estetico, morale o rappresentativo: Energia e immagine sono una cosa. Dall’energia si produce spontaneamente l’immagine – senza logica a priori, oltre ogni possibile giudizio di coerenza o incoerenza. Per questo gioco ogni evento è equi-valente. La sistematica dislocazione dell’Io in quanto centro ordinatore, impone la equi-valenza degli eventi. Non sono possibili strutture gerarchiche, non è possibile forma. Senza intenzione, senza arte, si impone l’immagine della energia semplice dell’evento. L’indifferenza dada è in realtà equi-valenza. Non v’è Valore – il Valore appartiene al Soggetto, al Fondamento.78

L’esser risospinti al tema del valore non è casuale. Si è già precisato che anche per Evola l’arte come valore dice qualcosa di essenzialmente diverso da un presunto valore dell’arte. Non solo in essa non vi è valore, ma essa non ha propriamente alcun valore, è valore nella misura in cui è equivalenza di valore e disvalore. Qualsivoglia assoluta polarità collassa verso quel centro in cui ogni differenza è destituita, giacché tutto si fa immediata figura dell’interiorità che, beninteso, non ha più alcuna esteriorità fuori di sé. La produzione pittorica di Evola annovera una quantità di dipinti recanti come titolo «paesaggio interiore», indicanti l’effettivo superamento della dicotomia soggettooggetto, giacché l’interiorità si presenta come «paesaggio» ed è lo spettatore stesso, nel medesimo atto che lo rende spettatore, a essere oggetto contemplato79. 78.  Ivi, p. 24. 79.  Come rileva E. Valento i paesaggi interiori evoliani, poi chiamati «paesaggi dada», «non hanno più punti di contatto con gli “stati d’animo” di una tematica che dal simbolismo è giunta al futurismo e a certo astrattismo […] ché sono stati d’animo che fanno ancora parte di un modo dell’essere che, parafrasando Nietzsche, è “umano troppo umano”» (E. Valento, Homo Faber, cit., p. 43).

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Nel manifesto Arte Astratta Evola prende le mosse dalla presa di coscienza del perpetuo non esser sé da parte dell’Io, dell’impossibilità di persuadersi. L’Io viene paragonato a una corrente d’acqua che dalle cime dei monti si riversa in pianura, andando a muovere turbine, irrigare terreni, scontrarsi contro dighe, ecc.… «Così in me l’Io non è l’Io, ma io-pratica, io-sentimento, io-filosofia»80. Questa continua estroflessione è ciò che caratterizza l’«uomo del mercato», è l’«inerzia spirituale» che consegna l’individuo a verità il cui unico, reale “fondamento” è la preferenza arbitraria: Volere che lo spazio abbia n dimensioni, anzi che tre, che non vi sia Dio, che non esista una verità, che i principi di identità e causa non siano indispensabili nel ragionamento logico, è un entrare in un altro ordine di possibilità […] se si può chiamare errore, la preferenza di uno che abbia l’automobile di compiere un viaggio a piedi, è errore dell’identico grado.81

La distruzione di ogni legge si rivela funzionale a una produzione autenticamente affermativa, ogni legge configurandosi in termini negativi. Così la legge d’inerzia afferma che ogni corpo si muove di moto rettilineo uniforme se non intervengono cause esterne a modificarne il movimento, «ma senza queste cause lo stesso principio d’inerzia non avrebbe potuto essere percepito»82. E allo stesso modo in cui possa utilizzare una bilancia solo chi dalla bilancia si distingua, la verità della filosofia può essere valutata solo chiamandosene fuori: «la filosofia contradice l’atteggiamento stesso che pone un fondamento di validità nella “Kritik der reinen Vernunft” di Kant, nella “Wissenshaftlehre” di Fichte, nella logica di Hegel, in ogni metafi-

80.  J. Evola, Arte astratta, in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 149. 81.  Ivi, p. 150. 82.  Ibidem.

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sica, insomma: nega sé stessa»83. Senonché l’atto attraverso il quale si assume una posizione deangolata rispetto alla filosofia non può consistere in una mera astrazione, pena il ricadere nella logica «della coerenza e del mercato». Evola si pone alla ricerca di un metodo che neghi ogni finalità pratica e che quindi neghi il suo stesso esser metodo: «ma ogni ricerca è malattia. Chi non ha, cerca: convulsione isterica e vana della superficie che nella coscienza di esser tale aspira a qualcosa fuori di sé»84. Non v’è metodo per dire la verità, ogni metodo non conducendo altrove che a una determinatezza sempre legata al suo carattere negativo. Ciò si traduce in un eterno rincorrersi da parte dell’Io senza mai affermativamente possedersi. L’arte si profila come strumento in grado di istituire tale affermazione assoluta, quando si svincoli dall’intenzionalità, solo così potendo profilarsi come espressione di assoluta libertà: «La libertà, la proprietà, è un momento mistico di illuminazione: una grazia: e, appena pensata, appena pronunciata, essa è già cosa morta, cade scorza sporca ed estranea nella terra dei bruti e dei mercanti»85. Da ciò deriva il carattere intimamente egoistico dell’arte, giacché essa non può dire nient’altro che sé: «Arte è egoismo e libertà». Non si tratta nemmeno, allora, di dare forma a un nuovo linguaggio, essendo il linguaggio il luogo di rappresentatività dell’idea, della sua comunicabilità. Ma l’arte, per Evola, non ha nulla da rappresentare, nulla da comunicare, «è necessario non farsi capire»86. In tale assoluta incomunicabilità 83.  Ivi, p. 151. 84.  Ivi, p. 152. 85.  Ibidem. 86.  Ivi, p. 155. All’interno della medesima cornice di incomunicabilità e di polemica contro l’espressione impura può essere collocato il poemetto a quattro voci, pubblicato un anno dopo Arte Astratta nello stesso catalogo della collection Dada. Come ha notato M. D’Ambrosio, artefice di un’importante lettura della poesia evoliana, la dimensione ermetica del poema ne determina l’inesauribilità esegetica, giacché «l’attività interpretativa viene paralizzata da

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è ravvisabile la radice profonda del carattere eminentemente «aumano» dell’arte: «l’automobile al posto della Nike samotrace è evidentemente una umanità al posto di un’altra; e non sono da superarsi le umanità, bensì l’umanità»87. La negazione futurista non è abbastanza radicale: mantiene intatto ciò che nega, confermandolo; afferma altri valori sostituendoli semplicemente ai precedenti. L’aumanità dell’arte astratta chiama invece in causa una negazione intensiva, quell’alfa privativo che nega l’umano, impedendo all’arte stessa di farsi categoria universale, astratta ipostasi passibile di dar vita a un “canone” o a una “scuola”. A comprovare l’evidenza di tale impossibilità basti riferirsi alla tutt’altro che omogenea rassegna di precursori dell’arte astratta proposta da Evola in chiusura di manifesto: L’arte astratta non potrà essere storicamente eterna ed universale: questo, a priori – Plotino, Eckhart, Maeterlinck, Novalis, Ruysbroeck, Svendemborg, Tzara, Rimbaud… tutto ciò non è che un breve, raro ed incerto balenare attraverso la grande morte, la grande realtà notturna della corruzione e della malattia. Parimenti, la rarità delle gemme indicibili fra le enormi gange fangose.88

Difficile credere che Evola non avesse in mente il motto gnostico ricordato ne Il cammino del cinabro e in una lettera a

ricorrenti fenomeni di eccedenza della significazione» (M. D’Ambrosio, Futurismo e altre avanguardie, Liguori, Napoli 1999, p. 114). E ancora, sempre a proposito del poemetto a quattro voci: «L’io linguistico, comunicativo, espressivo – umano – di Evola, a compimento dell’esperienza iniziatica, si trasforma insomma in un io superiore, che non ha bisogno del linguaggio e della comunicazione» (ivi, p. 129). Conforme a tale concezione “privatistica” dell’opera d’arte anche il celebre Manifeste Dada di Tzara: «L’arte è una cosa privata, l’artista la fa per se stesso; un’opera accessibile è un prodotto giornalistico» (T. Tzara, Manifesto dadà 1918, in Id., Manifesti del dadaismo, Ghibli, Milano 2014, p. 40). 87.  J. Evola, Arte astratta, cit., p. 158. 88.  Ivi, p. 160.

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Tristan Tzara, di poco posteriore alla pubblicazione di Arte Astratta: «si ridestò al Grande Giorno e per aver creato le tenebre conobbe la luce»89. Non il semplice attraversamento, ma la creazione della tenebra è ciò che dispone alla vera conoscenza. Il carteggio con Tzara ci informa di un altro importante elemento, relativo alla curatela evoliana del Tao Tê Ching di Lao-tze e al ruolo che tale testo giocò nella definizione della dottrina filosofica evoliana. Poco prima della sua pubblicazione tale curatela viene infatti indicata a Tzara quale tentativo di mostrare come l’insegnamento del sapiente cinese possa assumere il ruolo di «presupposto trascendentale della posizione dadaista»90. L’introduzione al testo contiene in realtà un solo riferimento esplicito al problema estetico, quando, a sostegno della dimostrazione dell’attualità dell’insegnamento di Lao-tze, si sostiene che «[l]’uomo moderno deve ancora imparare quell’Io che ancora non sa che balbettare in quelle deformi immagini che son l’Unico di Stirner, o l’Uomo delle ideologie sociali di Marx e Lenin, l’Io assoluto dell’idealismo o il soggetto lirico dell’estetica d’avanguardia»91.

89.  Cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 74, e Id., Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 358: «Esiste un mito che conoscete bene, suppongo, e la cui importanza sta nel ritrovarsi in tutte le religioni e le filosofie iniziatiche comuni: è che l’uomo è un Dio decaduto; che il compito dell’uomo è di redimersi dalla materia e dal desiderio, per riscattare il Dio malato che è in lui: “poiché crea le tenebre, conosce la Luce”». 90.  J. Evola, Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), cit., p. 364. 91.  J. Evola, Introduzione a Lao-tze, Il Libro della Via e della Virtù, ora in J. Evola, Tao Tê Ching di Lao-tze, cit., p. 38. In nota Evola precisa ancora: «Si può notar qui di passaggio come delle teorie di Lao-tze si rivelino come i presupposti metafisici – talvolta anche consci – del più strano e significativo frutto dell’odierna cultura europea, del Dadaismo» (ibidem, nota 5). Al di là di questo riferimento esplicito, è stata lamentata un’eccessiva negligenza da parte degli studiosi, rei di non aver colto la centralità de Tao Tê Ching nella formazione e nello sviluppo del pensiero di Evola: l’opera, infatti, «ad una

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Se il riconoscimento dei limiti filologici e dei fraintendimenti interpretativi che emergono dalla prima edizione dell’opera porterà Evola, all’altezza della fine degli anni ’50, a curarne una seconda totalmente riveduta, va detto fin da ora che dal punto di vista che a noi qui interessa sono esattamente tali limiti e tali fraintendimenti a rendere il testo particolarmente pregnante. La premessa è probabilmente ciò che renderà il testo successivamente impresentabile agli occhi del suo stesso autore: «in questo cinese del 7° secolo a.C. troviamo anticipati i capisaldi dell’idealismo tedesco»92. Relativamente alla prima domanda che, inevitabilmente, si impone, circa «che cos’è Tao?», va anzitutto riconosciuto che «le nostre abituali categorie sono incapaci di afferrarlo»93. Vi è tuttavia un “che in noi”, una funzione dell’Io, che lo rende presente in ogni cosa, esso «può essere compreso come non-distinto, impercepibile ed in-concreto: essenzialmente, come forma della mancanza

lettura attenta, rivela in nuce, già in questa fase, tutti i temi di indagine che egli [Evola] ha perseguito nel corso dell’attività di scrittore. Vi troviamo l’esperienza dell’avanguardia artistica, dei cui fondamenti teorici Lao-tze gli sembra portare conferma, la sua originale interpretazione della filosofia idealistica […], e, infine, i primi cenni dell’assimilazione di una cultura “esoterico-occultistica”, negli Anni Venti legata alla sua frequentazione di circoli teosofici, che avrebbe dovuto assolvere alla funzione di controparte “operativa” rispetto all’apparato speculativo che Evola andava elaborando» (S. Vita, Il «Tao-tê-ching» di Julius Evola: dalla filosofia alla Tradizione, ivi, p. 18). 92.  J. Evola, Introduzione a Lao-tze, Il Libro della Via e della Virtù, cit., p. 29. Nell’introduzione alla nuova edizione del libro Evola riconoscerà i limiti dell’edizione del ’23: «in quella edizione l’opera di Lao-tze era stata assunta isolatamente, e al suo contenuto noi avevamo dato un inquadramento interpretativo seguendo una linea di pensiero risentente dell’idealismo trascendentale […] secondo il genere degli studi di cui allora ci occupavamo» (J. Evola, Introduzione a Lao-tze, Il Libro del Principio e della sua Azione, ora in J. Evola., Tao Tê Ching di Lao-tze, cit., p. 75). 93.  J. Evola, Introduzione a Lao-tze, Il Libro della Via e della Virtù, cit., p. 29.

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di forma, fenomeno del non fenome­no»94. Il Tao, la Via, non è dunque identificabile con alcuna positività determinata, ma conduce in direzione di un territorio che evoca lo sfumato orizzonte della negazione, la quale non può a sua volta chiamare in causa un’altra positività: la forma della mancanza di forma non dice una forma sic et simpliciter distinta dalla forma che è presenza di forma, ma una forma assoluta, non riferita a uno specifico contenuto. L’impianto categoriale su cui viene a costituirsi, secondo la trattazione evoliana, la metafisica di Lao-tze, si ritroverà nelle opere filosofiche evoliane, a ulteriore testimonianza delle libertà esegetiche che il filosofo romano si prese nel commentare il testo orientale. Si afferma, ancora nell’introduzione: «La visione centrale che Lao-tze ci dà del mondo è una fenomenalizzazione dell’Uno in un’opposizione di nominabile e innominabile; all’universale – innominabile – si contrappone il particolare e lo determina con ciò come divenire nominabile»95. Subito dopo viene ribadito che «tale opposizione è soltanto fenomenica». D’altro canto, affinché il divenire non si acquieti in una identità immobile e priva di vita, è necessario che l’opposizione fenomenica venga costantemente alimentata da un principio ad essa non totalmente riducibile. Ancora una volta è la pura speculazione filosofica a venire in soccorso, giacché concepire tale principio come radicalmente altro dall’ente fenomenico vorrebbe dire non tenere fede al principio dell’immanenza che fonda la “storia dello spirito”. Se si concepisce il principio come trascendente, «non si mostra allora d’ignorare che tutta la speculazione europea, dai Greci fino a Hegel e Gentile non ha avuto altro scopo che portar la verità, che per gli antichi cadeva fuori dalle cose, nelle cose stesse?»96. Basterebbe questo per avere 94.  Ibidem. 95.  Ivi, p. 30. 96.  Ibidem.

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ulteriore contezza di come il rigore filologico sia, nel giovane Evola, del tutto subordinato all’esigenza speculativa. Perché mai un testo sapienziale estremo orientale dovrebbe concordare con i guadagni teorici di secoli di filosofia occidentale? Ma il “fraintendimento” evoliano emerge soprattutto nella caratterizzazione del Tao come «atto»: «Il Tao è assoluto atto, quindi non è se non si pone, ma ponendosi crea, cioè trapassa nelle cose concrete, nell’altro termine che è così necessario per la realtà del primo […]; il Tao perciò ponendosi si nega, ma anche, poiché solo il fatto attua, dimostra l’atto, negandosi si pone; dalla morte la vita e dalla vita la morte»97. In altre parole, il Tao crea il mondo essendo altro da sé, dà vita alla realtà fenomenica semplicemente autoponendosi. Un concetto meglio di ogni altro avrebbe potuto descrivere tale processo, sebbene in questo contesto rimanga sullo sfondo senza mai emergere in superficie: il concetto di «autoctisi»98. Evola preferisce riferirsi direttamente al testo orientale, in cui si legge: «Il principio originario appare come la Madre dell’uomo; riconoscer la Madre significa sapersi suo figlio; sapersi figlio significa riconoscersi come continuazione della vita della Madre,

97.  Ivi, p. 31. 98.  Va ricordato che il riferimento all’attualismo gentiliano si fa esplicito, nonché polemico, nell’appendice al testo, ove Evola scrive: «L’attualismo del Tao, in quanto concreto non ha nulla a che fare con lo schlecht und billig attualismo che si può professare a parole dall’alto di una cattedra di università occidentale» (ivi, p. 70). La distanza dall’impronta attualistica è comunque molto meno marcata nella prima edizione. Non è un caso che chi ha inteso ravvisare già nell’interpretazione del Tao una chiara presa di distanze dalla speculazione idealista abbia anacronisticamente fatto riferimento all’edizione del ’59. Il che sarebbe legittimo, se solo non la si ritenesse una prova del fatto che già negli anni ’20 Evola considerasse la filosofia nient’altro che una via spuria per agganciarsi a forme tradizionali di sapere (ci pare che proprio in tale fraintendimento cada M. Fraquelli nel suo pur fondamentale studio Il filosofo proibito, cit., pp. 19-20).

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e ciò vuol dire superare ogni corruzione della vita umana»99. Il riconoscimento del proprio esser figlio non si distingue dal sapersi anche Madre, la Madre vive nel figlio e il figlio vive la vita della Madre. Analogamente, il fatto che l’orizzonte fenomenico sia sinonimo di movimento e divenire non pone l’essere assoluto, in sé perfettamente stabile, semplicemente da un’altra parte. Il divenire è verità a se stesso, non ha una potenza da attualizzare né un telos da raggiungere; è il puro, disinteressato, “lasciar essere” ciò che è. A questo si collega l’altro lato, eminentemente etico, del Tao Tê Ching. Il Teh indica propriamente un metodo che conduce alla virtù. Stante quanto fin qui stabilito, appare evidente che ciò a cui il metodo conduce non può essere semplicemente altro dal metodo stesso, pena il rendere il metodo docile servo della finalità in vista della quale si costituisce come metodo. La via per la perfezione non conduce da una condizione a un’altra per via estensiva, ma a un approfondimento intensivo che è anche, sub eodem, estrinsecazione dell’interiore. «Perfetto» è allora colui che si rivela in grado di incamminarsi lungo la Via senza volerlo, chi persegue la Virtù senza ridurla a legge morale estrinseca100. Si legge nel testo di Lao-tze: «Esser realmente nella Virtù è non voler esser nella Virtù: e la Virtù che così si possiede è quella della Via»101; in nota a questo passo Evola precisa: «la via della Via è l’assenza di via»102. Solo l’indifferenza impassibile si rivela come l’autentica disposizione spirituale che dispiega

99. Lao-tze, Il libro della Via e della Virtù, cit., p. 59. 100.  Nell’edizione del ’23 «Perfetto» traduce shen-jên. Nell’edizione del ’59 Evola rettificherà la precedente traduzione, colpevole ai suoi occhi di esser foriera di fraintendimenti tali da portare a ritenere la figura dello sheng-jên poco più che un uomo moralmente retto (cfr. J. Evola, Introduzione a Laotze, Il Libro del Principio e della sua Azione, cit., pp. 85-86). 101. Lao-tze, Il Libro della Via e della Virtù, cit., p. 55. 102.  Ibidem.

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la possibilità del pieno possesso della Virtù: «Un possesso imperfetto della Virtù è mostrato dalla preoccupazione di non deviare dalla Virtù […]. La Virtù superiore è azione non voluta e non volontà d’azione»103. Da ciò deriva anche il paragone con l’acqua, inarrestabile di fronte a qualsiasi ostacolo proprio per la sua adattabilità e capacità di conformarsi a ogni cosa. Solo facendosi simile all’acqua «l’individuo si adegua al dato, al mondo, cessa la sterile opposizione in estensione, la forza che ora è libera può invece spostarsi in profondità, e l’Io è liberato perché va a possedersi nell’atto»104. Tale è il processo che conduce «dal pieno al vuoto» che segna la riconquista del mondo, da leggere in parallelo alla rinascita alchemica e alla «nuova oggettività» artistica. Da quanto detto dovrebbe riuscire più comprensibile la stessa affermazione evoliana contenuta nella lettera a Tzara per la quale il Libro della Via e della Virtù rappresenterebbe il «presupposto trascendentale» del dadaismo. Tale affinità si mostra palmare in almeno due tra gli aspetti evidenziati105: 1) l’astrazione in intensità, non riducibile alla semplice negazione estensiva; 2) l’indifferenza di fronte a ogni determinatezza che coincide con l’equi-valenza della stessa. L’intimo legame che

103.  Ibidem. 104.  J. Evola, Introduzione a Lao-tze, Il Libro della Via e della Virtù, cit., p. 36. 105.  Per un quadro generale dell’influenza esercitata dalla dottrina taoista sul movimento Dada nel suo complesso, cfr. M. D’Ambrosio, Futurismo e altre avanguardie, cit., pp. 133-134, nota 129. Sulle consonanze tra Dada e Tao è stato osservato: «alcuni studiosi hanno accennato a una sorta di “Tao dadaista”, inteso come una religione dell’indifferenza, luogo spirituale di risoluzione degli opposti […]. D’altra parte però, in stretto contatto con simili scelte di passivo distacco dal mondo, continuò a svilupparsi una forte volontà di devastazione. Sotto questo profilo, il movimento ebbe piuttosto la funzione di un ordigno, inserito nella compagine dei linguaggi artistici al fine di provocare la loro disintegrazione» (V. Magrelli, Profilo del dada, cit., p. 21).

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unisce questi due aspetti è quanto mai manifesto in un articolo sul dadaismo coevo alla curatela del Tao. Scrive Evola: In un primo tempo si ha dunque il tema della negazione: l’Io assoluto, attraverso l’agitazione arbitraria, la rarefazione e la disorganizzazione cerca di risolvere in sé – nella forma della pura libertà – la determinazione della sua natura data. Senonché la coscienza si accorge dell’inganno di tal soluzione: poiché l’Io in tanto può negare, in quanto è polemico, il che vale a dire in quanto decade dall’assoluta libertà e si lascia determinare nella sua funzione negatrice dalla determinazione del suo opposto da cui è preoccupato. Onde la negazione non riesce che alla naturalizzazione dell’Io puro (il no – dice un manifesto Dada – è un modo malato di dir sì) e la libertà che il processo qui realizza è confinata al solo prodotto, è la morta libertà periferica dell’arte astratta.106

Finché l’Io permane nella preoccupazione, nella condizione di polemica opposizione ad altro, esso non può ambire ad altra condizione che non sia quella dell’irriflessa spontaneità naturale. Per innalzarsi ed esser realmente “fuori” necessita di una visione del mondo completamente rinnovata, retta su una negazione non più riducibile a «un modo malato di dir sì». Non si tratta, pertanto, di assumere una posa di ascetico diniego del mondo, ciò che condannerebbe la libertà dell’Io a rimanere vincolata a ciò di cui è negazione. D’altro canto, il «lavoro negativo» messo in opera dagli autori dadaisti non consiste nemmeno in una vitalistica esaltazione dell’istintività immediata. Scrive Evola a riguardo: Il dadaismo è al contrario assoluta mediazione; per questo egli dissolve in un primo momento la determinazione in arbitrio (dada nie tout), ma per questo egli diffida della sua stessa volontà negatrice e, in quanto vuole possedere la negazione

106.  J. Evola, Sul dadaismo, in Id., Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 91.

65 e non che la negazione possegga lui, afferma altresì che “le vrai Dada est contre Dada” e sa potenziare la negazione nella indifferenza.107

4. Il ruolo del pensiero In cosa consiste, allora, la proposta affermativa evoliana? La risposta a tale domanda non può che chiamare in causa la discussione critica della “fase” centrale rispetto a quelle analizzate e attraverso la cui indagine si è inteso abbozzare i contorni di tale periodo, intravedendo gli sfumati perimetri di quello che si vedrà essere a tutti gli effetti un sistema filosofico. In esso le categorie che si sono viste “in opera” tanto negli scritti sull’arte quanto, seppur in fase di progressiva dissoluzione, in Imperialismo pagano e La tradizione ermetica, godono della loro massima forza propulsiva. Se nella fase artistica la discussione razionale di tali categorie è subordinata all’intento, tipicamente “avanguardistico”, di «sconfinare»108, rendendo vano qualsivoglia tentativo di sistematizzazione, sarà nelle

107.  J. Evola, A proposito di “Dada”, ora in Id. Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 99. 108.  Sul carattere “sconfinante” dell’arte – segnatamente della poesia – evoliana, cfr. V. Conte, La poesia di Evola come testo sconfinante, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 211-220. Dello stesso autore, cfr. Evola e l’arte poesia, in G. de Turris (a cura di), Julius Evola e la sua eredità culturale, cit., pp. 23-37. In riferimento ai tratti di dada che più eserciteranno fascino su Evola è stato osservato: «nelle manifestazioni di quell’arte, immediatamente, si scoprì l’impulso dell’uomo, che si opponeva alla freddezza dell’intelletto, ma che non voleva rimanere invischiato nelle maglie del sentimentalismo […]. Da-da era il demolitore dei luoghi comuni, il distruttore delle intangibili reputazioni. Oltre la sua euforia era impossibile ogni benessere dello spirito. Tutto era ammesso pur di arrivare ai suoi fini: il riso e il pianto, la confusione e l’insulto, la pubblicità, l’affermazione

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opere propriamente speculative che concetti quali quello di «valore», «mediazione», «preoccupazione», «arbitrio», «assoluto», troveranno collocazione e sviluppo. La filosofia, lungi dal rappresentare una mera parentesi, una fallace deviazione dal retto percorso che conduce a forme di sapere che poco hanno a che vedere con il logos discorsivo, si configura al contrario come autentica esigenza. Se la riflessione artistica evoliana può – come si è tentato di mostrare – essere intesa come un progressivo avvicinamento a una forma espressiva pura in grado di svincolarsi non solo dalla necessità del riferimento a un contenuto, ma anche del darsi della stessa espressione pura, si analizzerà ora la “piega” che tale esigenza assumerà in un contesto in cui le urgenze deduttive prevarranno inevitabilmente sul gusto tutto dadaista dello sberleffo provocatorio e dello spontaneismo esasperato109. Nel prossimo capitolo si tratterà di mostrare come il tentativo di far pervenire l’Io a una pura forma non possa esimersi da un – almeno nelle intenzioni dell’autore in esame – risolutivo corpo a corpo con l’idealismo, tanto nella sua declinazione “classica” quanto nella sua radicalizzazione attualista. Se quanto fin qui detto sembra avvalorare la tesi “continuista” per la quale non vi sarebbe una sostanziale cesura almeno tra la prima e la seconda fase della parabola intellettuale evoliana, sembra rimanere del resto inevasa la questione del perché il filosofo romano abbia repentinamente abbandonato l’interesse artistico per abbracciare quello filosofico. In realtà, si è già avuto modo di constatare che il “gesto” evoliano non è semsconcertante e la negazione ossessiva» (G.F. Lami, Arte e filosofia in Julius Evola, cit., pp. 76-78). 109.  Si intende dunque fin da ora mettere in questione il giudizio di Antimo Negri secondo cui il discorso filosofico evoliano sarebbe segnato da «un ribollente fraseggio che sollecita il lettore nella sua emotività, non nella sua intelligenza» (A. Negri, Julius Evola e la filosofia, Spirali, Milano 1988, p. 9).

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plicemente un abbandono dell’arte, quanto un suo riassorbimento nel compiuto sistema, debitamente ridotta a categoria interna all’evoluzione fenomenologica. Tale gesto è lungi dallo scardinare l’autonomia dell’arte, visto il ruolo centrale che questa riveste nella costruzione dell’Io, ma molto più radicalmente mette in discussione che di qualcosa come “arte”, intesa quale semplice disciplina, si possa parlare. La componente su cui l’Evola filosofo si soffermerà è più la forma di un fare creativo, poietico, che non il nome che questo fare assume nel commercio umano. È come se la luce emanata dall’esperienza artistica evoliana dovesse passare attraverso il prisma della filosofia affinché si determini quella dispersione ottica che sola può consentire di cogliere le diverse componenti dello spettro visibile, la cui varietà cromatica viene a coincidere, uscendo dalla metafora, con la produzione evoliana post-filosofica, a partire dalle opere da cui ha preso avvio la presente indagine.

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Capitolo II

L’Individuo come forma assoluta e l’«inalterità» dell’Altro

Quanto più scendiamo negli insondabili abissi della negazione, tanto più saliamo sulle vette dell’istante e dell’atto. (A. Emo, Quaderno 359)

1. Genesi dell’idealismo magico Come è noto, l’espressione «idealismo magico» venne coniata da Friedrich von Hardenberg – in arte Novalis – nel contesto di un radicale rinnovamento dell’ancora embrionale idealismo fichtiano1. Operazione per certi versi analoga sarà compiuta da 1.  A insistere molto sulla derivazione fichtiana dell’idealismo magico di No­ valis è stato anzitutto Luigi Pareyson, il quale ravvisa in una radicale e “destinale” confusione di Io assoluto e io empirico l’origine dello stesso romanticismo. Pareyson sottolinea inoltre come l’epiteto di «magico» con cui Novalis aggettiva il proprio idealismo faccia riferimento esattamente al punto di vista della coscienza comune. È questa, infatti, a interpretare come “magica” quella che agli occhi del filosofo-mago è la semplice naturalità degli enti. Si tratta dunque di riconoscere che ciò che ci appare come “altro” è in realtà nient’altro che una nostra inconscia produzione: il suo carattere «magico» è dovuto al fatto che l’alterità ci ammalia proprio come se avesse un’origine totalmente esterna all’Io. «L’idealismo magico non è soltanto una filosofia, un’affermazione teorica, ma è anche fede pratica in una progressiva potenza dell’uomo, un programma d’azione e di attività pratica. I limiti che si oppongono alla potenza dell’uomo in realtà non sono che limiti che l’io pone a sé stesso e che quindi, come sono stati posti dallo spirito, così possono da lui essere spostati e soppressi. La stessa attività dell’uomo consiste precisamente

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Evola rispetto al sistema di pensiero che più di ogni altro, in Italia, ha riattivato le istanze speculative fatte valere da Fichte: l’attualismo di Giovanni Gentile2. Prima di mettere in relazione il contenuto dell’idealismo magico evoliano con gli orizzonti speculativi di alcuni degli autori appena evocati è opportuno entrare nel vivo della proposta filosofica del pensatore romano, facendo emergere il movimento teoretico che egli compie nei confronti della tradizione di pensiero della quale l’idealismo magico viene esplicitamente posto come il supremo compimento. La riflessione propriamente filosofica di Evola si colloca all’incirca, secondo l’indicazione dello stesso autore, tra il 1923 e il 19273. È certo, del resto, che al momento della pubblicazioin questo continuo spostamento del limite, in questa continua spiritualizzazione e umanizzazione del mondo. La potenza magica dell’uomo, auspicata e teorizzata da Novalis, non è che un approfondimento del concetto fichtiano che bisogna spiritualizzare la natura e recuperare il non io all’io, spostando il limite che l’io ha posto a sé stesso» (L. Pareyson, Estetica dell’idealismo tedesco, vol. II, Fichte e Novalis, a cura di G. Garelli e F. Vercellone, Mursia, Milano 2014, pp. 111-112). Su questa commistione originaria di idealismo e magia ha fatto leva Marcello Veneziani per giustificare l’impresa filosofica evoliana: «la storia dell’idealismo conferma di fatto i suoi legami con la magia. Senza ricorrere alle rinascite del platonismo che furono sempre legate al diffondersi della magìa, al combinarsi con la teurgìa, l’alchimia, la kabbala […], basta riferirsi alla rinascita dell’idealismo moderno, intrecciata al fiorire della magica. Hölderlin e Tieck, Novalis e Goethe mediano nell’istanza poetica l’incontro fra filosofia e magia» (M. Veneziani, Julius Evola tra filosofia e Tradizione, Ciarrapico, Roma 1984, p. 54). 2.  Nonostante la vicinanza speculativa tra il primo idealismo fichtiano e l’attualismo gentiliano sia spesso data per assodata – tanto che è divenuto celebre il giudizio di Michele Federico Sciacca che vedeva in Gentile «il Fichte esplicito attraverso lo Hegel» – non sono in realtà molti gli studi sui rapporti tra questi due autori. Per una lettura aggiornata, cfr. M.M. Malimpensa, Fichte e Gentile. Studio sull’umanesimo trascendentale, Il prato, Saonara (PD) 2018. 3.  Cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 95. Come si è mostrato nel capitolo precedente, i confini delle “fasi” del pensiero di Evola sono molto

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ne dei Saggi sull’idealismo magico, nel 1925, Evola avesse già sistematizzato i propri guadagni in campo filosofico in un’opera che verrà suddivisa in due volumi, Teoria dell’Individuo assoluto e Fenomenologia dell’Individuo assoluto, pubblicate rispettivamente nel ’27 e nel ’30. Visto il ruolo di “introduzione al sistema” che lo stesso pensatore assegna ai Saggi, è bene prendere le mosse dall’indagine di quest’opera prima di addentrarsi nell’intricato sistema dell’Individuo assoluto. Il pensatore romano muove da una constatazione: «Il problema fondamentale della filosofia moderna è il problema gnoseologico o problema della conoscenza»4. Con ciò si intende dire che la modernità vuole dare ragione della possibilità della conoscenza in ogni sua sfaccettatura, dall’immediata percezione sensibile alle forme più complesse di sistemi scientifici. Per conferire certezza al sistema della conoscenza nel suo complesso e mettere fuori gioco ogni possibile interferenza scettica, la riflessione filosofica ha progressivamente “sfrondato” il sistema del sapere da qualsivoglia residuo di trascendenza, rimettendo all’Io, e unicamente ad esso, la responsabilità della piena coincidenza di certezza e verità. Questa operazione delegittima sul nascere le pretese di tutti quei sistemi che intendono imporsi sulla scena del pensiero senza aver previamente posto il problema del conoscere. Vi è in particolare un “sistema” che ha pensato la questione della conoscenza e della certezza nella sua massima radicalità, traendone le estreme conseguenze sul piano gnoseologico, l’idealismo: «la soluzione data dalla speculazione moderna al problema gnoseologico è, in massima, l’idealismo o, più precisamente, nella concezione del mondo dell’idealismo si è andati a riconoscere la condizionalità per un più sfumati di quanto lo stesso pensatore non voglia far credere in un libro con finalità prevalentemente “didattiche” quale dichiaratamente è la sua autobiografia. 4.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 29.

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sistema dell’assoluta certezza»5. Merito dell’idealismo – categoria quanto mai vaga ma per Evola grossomodo coincidente con i sistemi filosofici di Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Louis Weber (il neoidealismo gentiliano meritando un discorso a parte, che svolgeremo più avanti) – è anzitutto di aver portato a coscienza la costitutiva “relazionalità” del mondo. Il mondo è per l’Io. Di nulla può essere affermata l’esistenza se si prescinde dalla relazione con la facoltà conoscitiva di un soggetto, comunque lo si chiami (cogito, Io penso, Io assoluto, atto puro). A poco servirebbe obiettare che le cose che costituiscono il mondo pur mi appaiono come “altre” da me, giacché l’apparire come “ulteriori” ed esteriori rispetto alla soggettività non inficia minimamente il carattere relazionale del loro darsi. Scrive Evola a tal proposito: «In ogni caso è chiaro questo, che un tale carattere di esteriorità delle cose, affinché ne possa parlare, deve figurare come una certezza della mia coscienza, così che appare soltanto come un particolare carattere che io conosco nella cosa: v.d. questa esteriorità per me delle cose è condizionata da un mio atto, con cui pongo la cosa come esteriore»6. Ogni possibile od attuale trascendenza rispetto all’Io, ogni suo “fuori”, viene ricondotto all’interno dell’Io nel momento stesso in cui intende porsi come “fuori”. Riprendendo un’immagine prima fichtiana e poi gentiliana, si potrebbe dire che la circonferenza dell’Io non ha limite, il suo raggio è infinito. Scrive ancora Evola: «Dal punto di vista gnoseologico, nulla è dunque, che non sia posto dall’Io: come Mida non poteva toccare nulla, che subito non trasformasse in oro, così il conoscere non può affermarsi su nulla, senza che con ciò non lo riduca a un che di condizionato da esso e da esso posto»7. A questo livello del discorso il riferimento esplicito è a Kant e alla sua «rivoluzione copernicana». 5.  Ivi, p. 30. 6.  Ibidem. 7.  Ivi, p. 50.

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Egli scopre il ruolo attivo che la coscienza svolge nella creazione dell’oggetto esterno più che nella sua passiva conoscenza. O, meglio, è la conoscenza stessa a rappresentare un primo grado di attività non riducibile alla passività della coscienza intesa come tabula rasa alla maniera lockiana: «Coscienza, da per sé, significa mediazione, quindi attività, autocoscienza»8. Tale, dunque, la profonda verità dischiusa dall’idealismo. Senonché la preoccupazione di Evola si sposta ora in direzione della dimostrazione di come tale verità non rimanga segregata negli angusti anfratti della speculazione filosofica, ma penetri diverse sfere del sapere umano, dal senso comune ai più recenti guadagni scientifici9. Tale rassegna interna al discorso evoliano è funzionale alla dimostrazione di due tesi: anzitutto, il carattere onnicomprensivo dell’idealismo nell’accezione molto ampia cui si è fatto riferimento. L’idealismo si rivela infatti quale inconscio di ogni forma di sapere (quanto meno di quel sapere che in opere più tarde Evola definirà «profano»), anche di quella più apparentemente lontana dall’indagine filosofica. In secondo luogo, la sussunzione dell’intero sapere umano all’interno dell’autocoscienza idealistica consente di evidenziare il limite superiore di questa stessa autocoscienza, di mostrare ciò che oltre l’idealismo rimane ancora «da fare»: «l’idealismo come finora si trova esposto nella filosofia, non è tale che a metà e questo è precisamente l’unico punto per cui si può andare di là da

8.  Ivi, p. 31. 9.  Quello della relazione tra Evola e la scienza contemporanea, verso la quale il filosofo dimostrò sempre acceso interesse, è certamente un settore ancora poco indagato. Alcune indicazioni, volte più a contestualizzare l’ambiente culturale in cui viene formandosi il sistema evoliano che a mostrare l’effettiva presenza delle teorizzazioni scientifiche più recenti in tale sistema, sono ricavabili da F. Coniglione, Apoteosi del soggetto e annichilimento della corporeità in Julius Evola, in «Magazzino di filosofia», V, n. 13, 2004, pp. 66-95.

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esso»10. Il suo principale limite è di aver attribuito ogni capacità teoretica e pratica, ogni facoltà umana, non tanto all’individuo in carne e ossa, quanto a un «furiosamente ambiguo» Io trascendentale, «astratto soggetto del conoscere, si badi, non del mio o di qualunque altro reale conoscere, bensì del conoscere in generale»11. Senonché il riferimento “retorico” a ipostasi logiche quali l’Idea hegeliana o l’atto puro gentiliano è indice di una deviazione rispetto alla fondamentale istanza animante lo stesso pensiero idealistico. Il punto è che nessuna coscienza può attualmente riconoscersi in tali idee, dunque è l’idealismo stesso, nel momento del suo affermarsi, a non soddisfare l’esigenza di certezza da cui ha preso le mosse e da cui è stato animato nella sua vicenda storica. Da questo angolo visuale lo stesso noumeno kantiano si rivelerebbe allora tutt’altro che un residuo dogmatico, come la tradizione idealistica postkantiana, in maniera tutto sommato uniforme, sarà portata a intenderlo. Esso diviene il simbolo dell’impotenza dell’Io di fronte al proprio lato oggettivo. Stante che non si dà alcuna esperienza se non mediata dalla sintesi a priori in cui l’io quale appercezione trascendentale consiste, il permanere di una disequazione tra tale attività sintetica e la “cosa” altro non dice che l’insufficienza dell’attività stessa rispetto a sé medesima. Scrive Evola nell’ultima sezione di Teoria: «Kant effettivamente stava di qua dall’idealismo astratto e così mentre teneva fermo che nulla è,

10.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 34. È stato osservato in proposito: «Evola si guarda bene dall’affermare che l’idealismo abbia risolto il problema del conoscere assoluto […]. Egli si limita a riconoscere che l’idealismo, a differenza di altre filosofie, ha saputo formulare le condizioni necessarie per sciogliere l’interrogativo». D’altro canto, «Evola si affretta a mostrare l’inadempienza totale dell’idealismo nei confronti delle premesse poste a garanzia del conoscere, che tanto più disattende nella sua evoluzione storica – dall’idealismo trascendentale all’idealismo assoluto e attualistico – quanto più le formula con rigore formale» (R. Melchionda, Il volto di Dioniso, cit., p. 67). 11.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 50.

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che non sia per l’Io […], avanzava una istanza ulteriore sulla quistione del modo e del significato della forma stessa (donde il “differenziale” del noumeno)»12. Senonché l’errore di Kant sarebbe consistito nell’aver voluto riservare un ruolo «discorsivo», in ordine alla questione del conoscere, a ciò che a rigore rappresenta nient’altro che il simbolo di una privazione dell’Io. L’idealismo perviene così alla possibilità di una verifica pratica, giacché una volta pervenuti alla piena sussunzione del sapere umano in un principio unitario, rimane l’effettiva potenza dell’individuo, ciò che egli può realmente e concretamente: «la verità o la falsità dell’idealismo […] non può venire dimostrata teoreticamente: essa può venire decisa non per un atto intellettuale ma per una realizzazione concreta»13. Ciò vuol dire realizzare concretamente l’assoluto, attualizzarlo nell’immanenza dell’Io negando qualsivoglia distanza tra Io assoluto e io empirico. Evola osserva inoltre che se l’idealismo rappresenta il punto di fuga del problema gnoseologico nel suo complesso, la necessità del suo superamento deve essere affermata sulla base di ragioni anche logiche o, meglio, sulla base di ragioni coerenti con lo stadio cui lo sviluppo storico della logica è pervenuto. Il problema viene in seguito posto nei seguenti termini: «Alla sufficienza formale o gnoseologica si oppone un’insufficienza, dirò così, intensiva. L’idealismo, come condizione per una assoluta certezza, è un valore morale, un dover essere: esso deve essere; eppure non può, nella coscienza reale, essere»14. Non è però possibile compiere tale realizzazione permanendo all’interno della sfera della sola discorsività o affrontando il problema in termini puramente gnoseologici: solo un atto magico può recidere il nodo gordiano di fronte al quale

12.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 285. 13.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 35. 14.  Ivi, p. 37.

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l’idealismo metafisico si è arrestato. Evola riconduce a questa situazione di stasi la stessa “crisi” che si manifesta nei diversi ambiti della cultura, dalla crisi dello stesso idealismo a quella delle religioni, dall’approdo a lidi “relativistici” da parte della scienza alla distruzione della tradizione in ambito artistico, fino al disfacimento della stessa idea di Stato sul piano politico15. A questo livello viene introdotta una delle tesi più ricche di conseguenze – nonché più teoreticamente problematiche – dell’intera riflessione evoliana. Per farsi completamente attivo, l’Io deve farsi carico dell’insufficienza pratica cui l’idealismo è pervenuto e così finalmente «consistere». Condizione affinché questo avvenga è che l’Io non rimetta ad altro la causa della propria limitata potenza, deve anzi negare la datità di tutto ciò che si presenta come altro, in un processo di progressiva mediazione e interiorizzazione. In un passo spesso ingiustamente trascurato si legge: «In questo processo, a cui si propone il termine idealismo concreto o magico, è da riconoscersi il compito di una futura civiltà e però la soluzione positiva della crisi dello spirito moderno»16. Ora, tale raccoglimento di tutta la potenza di cui l’Io può disporre porta con sé la conseguenza teoreticamente rilevantissima che tutto ciò che comunemente indichiamo come altro da noi in realtà è nient’altro che il lato negativo del nostro esserci, nient’altro che il simbolo del “compito” ancora da realizzare di cui si parla nell’ultimo passo riportato. L’apparire di tale fallace alterità è dunque la condizione stessa della realizzazione e del compimento dell’idealismo astratto in idealismo magico. Perché questo compimento si realizzi è 15.  Per una lettura della stessa filosofia evoliana come pensiero della “crisi”, cfr. G. Sessa, Transidealismo, filosofia della crisi e dionisismo nel pensiero di Tradizione di Julius Evola, in Id., Julius Evola e l’utopia della Tradizione, cit., pp. 43-60. Sullo stesso tema, con un focus particolare sulla Crisi guénoniana, cfr. anche G. Sessa, La crisi e la “letteratura della crisi”, in R. Guénon, La crisi del mondo moderno, cit., pp. 209-225. 16.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 39.

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necessario che l’immediatezza della realtà quale stéresis venga persuasa tramite un processo negativo e sintetico insieme. «Nell’idealismo magico – scrive Evola – non è quistione di atto, di immediatezza – bensì di processo, di mediazione»17. Sulla base di tale fondamentale intuizione si innesta la stessa critica all’occultismo, reo di non aver debitamente fatto i conti con la filosofia idealistica, ciò che lo porta su posizioni da tempo confutate sul piano della logica, quale l’affermazione di un concetto di Assoluto del tutto statico, privo di vita e già in sé compiuto, vanificante così il processo che dovrebbe condurre al suo compimento. A questo punto è inevitabile appellarsi al mito gnostico della «caduta originaria» che, se spiega il processo, non spiega sé stessa: costretta a presupporre nell’Assoluto un principio da esso distinto (giacché se è lo stesso Assoluto ciò che determina la «caduta», questa non è più tale, l’assolutezza essendo da intendersi […] non come una norma trascendente, ma come l’attributo di ciò che il principio originario vuole), essa non spiega il dualismo presupposto ma, semplicemente, lo sposta.18

È dunque nel modo astratto in cui l’occultismo concepisce l’assoluto che esso si dimostra sostenitore di posizioni di retroguardia rispetto a quelle fatte valere dall’idealismo magico: «il mondo appare invece come qualcosa di positivo, come qualcosa che ha valore, da superare non traendosi indietro, ma affermandolo sino in fondo, dominandolo: l’Assoluto non sta dietro, ma avanti (questa è l’irreducibile conquista che l’Occidente, col suo attivismo, ha realizzato sull’Oriente)»19. Si tratta pertanto di esten-

17.  Ivi, p. 40. 18.  Ivi, p. 42. 19.  Ivi, p. 43. Curiosamente, una critica analoga a quella mossa all’occultismo verrà da Evola rivolta anche a Guénon, in una lunga e importante recensione all’opera del pensatore di Blois L’Homme et son devenir selon le Vêdânta. Ivi Evola critica Guénon per il suo eccessivo «razionalismo» e «intellettualismo»,

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dere il principio vichiano del verum et factum convertuntur a ogni sfera del sapere, solo così potendo pervenire a una conoscenza realmente assoluta, in quanto incondizionata rispetto a

denuncia la «remissione all’Oriente quasi come all’ancora di salvezza di uno che nulla ha e tutto chiede», laddove invece «lo spirito occidentale è specificatamente caratterizzato dalla libera iniziativa, dall’affermazione, dal valore dell’individualità, da una concezione tragica della vita, da una volontà di potenza e di azione» (J. Evola, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, ora in Id., L’idealismo realistico (1924-1928), a cura di G.F. Lami, Fondazione Julius Evola-Pellicani, Roma 1997, pp. 87-102: p. 91). Un’altra fondamentale esigenza messa in campo da Evola nella stessa recensione, qui in esplicita polemica con l’occultismo, è quella, già evocata, di “dare ragione” delle stesse istanze occultistiche attraverso il linguaggio discorsivo-razionale, contro l’abitudine di riferirsi a una vaga e fumosa «interiorità»: «Quindi delle due, l’una: o si resta chiusi nell’ambito iniziatico, i cui sistemi autoverificativi e comunicativi non possono però, salvo casi eccezionali, entrare in linea di conto per un “profano”; ovvero si parla. Ma se si parla, si è tenuti a parlare correttamente, ossia: a render conto di ciò che si dice, a rispettare le esigenze logiche che qui sono così inoffensive come quelle grammaticali, a far vedere che l’oggetto della realizzazione metafisica sia pure per accidente (nella sua “forma propria” cadendo nella pura interiorità dell’Io) dà reale soddisfazione a tutte quelle esigenze e quei problemi che nell’ambito puramente umano e discorsivo sono destinati a rimanere puramente tali» (ivi, pp. 92-93). Ancora una volta è però soprattutto verso un astratto concetto di assoluto che Evola indirizza i suoi strali: nel Vêdânta, posta l’attualità di Brahman, il manifestarsi degli enti non può che costituirsi come sua negazione, e perciò mâyâ. L’eterno esser in atto di Brahman nega il divenire reale degli enti e dello stesso individuo, «nel Vêdânta l’universale non comprende, ma esclude il particolare, giacché esso non può comprender questo che negandolo nell’indeterminata “identità”, nel mero “etere di consapevolezza” (cid-âkâça), notte – per dirla con lo Hegel – in cui tutte le vacche sono nere» (ivi, p. 97). All’astratto universalismo vedântino Evola oppone la più “occidentale” visione tantrica del mondo, con la sua dottrina – tanto teorica quanto pratica – della potenza. Su questi temi cfr. F. Coniglione, Julius Evola: tradizione e orientalismo, in «Civiltà del Mediterraneo», XIII, n. 25, 2014, pp. 183-226. A proposito della critica evoliana a un Assoluto compiuto e immobile nota giustamente G. Damiano: «se Evola sottopone a critica ogni posizione che non sia radicalmente immanentistica […], è perché la Trascendenza in quanto Essere-già-tutto-dato, in cui nulla accade, finirebbe per rappresentare lo sterile trionfo della necessità,

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ogni variazione contenutistica. Solo di ciò di cui si è produttori si può essere realmente certi. D’altro canto, o il sapere perviene, per questo tramite, alla piena coincidenza di certezza e verità, o è inutile rivendicare la certezza solo di alcuni settori del sapere, alla maniera vichiana20. Per giungere a tale coincidenza non basta però la sistematizzazione del sapere secondo un sapere assoluto con cui l’Io concreto non sa identificarsi; al fondo della certezza riposa una volontà di certezza che richiede di essere riconosciuta e affermata: posso dirmi assolutamente certo solo di quelle cose di cui ho il principio e le cause entro di me, quale incondizionata libertà v.d. secondo funzione di possesso […]. Il processo del conoscere e quello dell’assoluta autorealizzazione, dell’elevazione dell’individuo a Signore universale, cadono allora in uno stesso punto, dal che appare altresì essere il principio dell’errore e dell’oscurità nulla più che quello dell’impotenza. Il criterio dell’errore e della verità è semplicemente il grado di intensità dell’affermazione e del possesso: un’affermazione assoluta e a sé stessa interamente sufficiente è verità: l’errore è una verità debole, la verità un errore intenso e potente. Anche qui, come per il possibile e il reale, la differenza non è qualitativa, ma quantitativa; si tratta di gradi del continuum omogeneo e dell’affermazione individuale.21

Perché possa affermarsi in assoluta libertà, la volontà deve poter definirsi a prescindere da qualsivoglia legge, sia essa morale o logica. È questo uno dei punti più discussi della speculazione evoliana, giacché un così radicale concetto di volontà libera conduce quest’ultima a farsi pericolosamente prossima a un ideale di puro arbitrio. A questo livello non abbiamo però an-

l’espunzione della libertà» (G. Damiano, La filosofia della libertà in Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova 1998, p. 29). 20.  Cfr. J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 48. 21.  Ivi, p. 53.

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cora guadagnato gli strumenti interpretativi per discutere tale fondamentale plesso teorico, per la cui messa in questione si rimanda ai paragrafi successivi. Basti qui riferirsi ai due luoghi “classici” da Evola richiamati per porre il problema della precedenza della volontà. Innanzitutto, circa il problema della posizione del valore morale, la volontà libera non può che porre incondizionatamente la bontà di ciò che è buono, al pari del Dio di Duns Scoto e contro il “realismo” morale dell’Eutifrone platonico. Anche rispetto al problema logico il precedente cui riferirsi è individuato nella filosofia scolastica, segnatamente nella questione delle verità eterne. Una volontà realmente libera quale quella divina rende costantemente revocabile lo statuto veritativo anche dei principi “umanamente” più saldi. In ciò, una certa filosofia medievale ha certamente intravisto il concetto dell’autentica e incondizionata libertà, ancora però attribuita al Dio trascendente22.

2. Deduzione dell’idealismo magico Un ulteriore passo richiede di essere mosso prima di discutere le tesi centrali della dottrina dell’Individuo assoluto. Si è già accennato alla necessità di una «deduzione» dell’idealismo magico onde mostrare l’intrinseca necessità del suo affermarsi. Tale deduzione assume nelle pagine dei Saggi un duplice volto: da un lato viene offerta una deduzione «gnoseologica», dall’altro una «storica». La prima è fondata su un ribaltamento della pretesa kantiana di fondare la scienza a partire da un sistema di conoscenza già in qualche modo “certo” quale la scienza newtoniana. In realtà, il progetto kantiano viene da Evola interpretato già alla luce del suo progetto “ultrafilosofico”: «se deve esistere per

22.  Cfr. ivi, pp. 59-60.

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l’Io un sapere universale e una certezza assoluta, allora l’Io deve risultare come una potenza di costruzione cosmica. Si tratta di due termini, che sono l’uno condizione dell’altro: l’uno è posto se l’altro è posto. Ma, si può chiedere, è poi effettivamente uno dei due posto?»23. Il fraintendimento dell’intento kantiano – stante che Kant riteneva che proprio il mantenimento di un punto di vista trascendentale, aderente alla finitezza dell’Io, fosse la condizione per una corretta fondazione del sapere – è funzionale, nel discorso evoliano, alla deduzione, per così dire, “genetica”, dello stesso idealismo magico e già assunta come un anello della catena di tale deduzione. Scrive ancora Evola: Kant partì dal presupposto che esista di fatto un sistema di assoluta certezza, dato dalle scienze positive, che restava solo da spiegare nella sua possibilità; e da esso inferì alla concezione dell’Io pensante come legislatore cosmico. Senonché la premessa è arbitraria. L’ulteriore sviluppo della cultura ha mostrato che non esiste di fatto né una esperienza tipica, inquadrabile una volta per tutte in dati schemi, e nemmeno una conoscenza a priori unica e universale, v.d. tale che non ne ammetta altre presso di sé come egualmente possibili. Ma se così stanno le cose, l’universalità e l’assoluta certezza non risultano più come un dato da spiegare, bensì come una mera esigenza, come un Sollen e, in conseguenza, anziché postulare con la loro esistenza di fatto la realtà dell’altro termine che la renderebbe comprensibile (v.d. l’Io come potenza), essa può avere giustificazione e realtà oggettiva soltanto presso il presupposto dell’esistere di fatto di questo secondo termine stesso. Tale è la «deduzione gnoseologica» dell’idealismo magico.24

Con ciò si rivela immediato lo strettissimo legame con l’altro lato, storico, della deduzione dell’idealismo magico, di cui la critica all’idealismo è parte integrante. «Dedurre storicamente» la dottrina in questione significa non soltanto manifestarne 23.  Ivi, p. 67. 24.  Ibidem.

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l’“esigenza” teoretica, ma mostrarne la necessità, individuare un processo la cui intima trama conduce direttamente ad essa. Va da sé che tale processo non può venire inteso come movimento reale indipendente dall’Io, pena il cadere nella contraddizione per cui si stabilisce la necessità dell’affermarsi della dottrina che intende negare qualsivoglia necessità. Per uscire da tale impasse, Evola fa riferimento alla teoria di derivazione kantiana della idealità del tempo: in quanto il passato non esiste che dentro l’atto […] con cui faccio apparire temporalmente la mia varia affermazione, non il passato condiziona o determina il presente, ma il presente condiziona o determina il passato […]. Dal che segue essere la storia null’altro che un modo secondo cui l’Io proietta sulla tela del tempo, direi quasi come in una figurazione mitica, ciò che egli si trova a volere internamente ed intemporalmente.25

Ancora una volta ci troviamo di fronte a una radicalizzazione di tesi idealistiche: il problema della possibilità di accogliere la totalità della storia all’interno dell’atto conoscitivo dell’Io non si pone, dacché questo stesso atto è il vero creatore della storia, la possibilità trascendentale che qualcosa come una storia si dia. La determinazione evoliana dell’atto che comprende la storia come costitutivamente metastorico è certamente dettata dall’esigenza teoretica di mantenere l’eccedenza dell’idealismo magico – alla luce della cui affermazione la stessa sua «deduzione» si rivela possibile – dal processo storico reale che ad esso conduce. Senonché questa stessa eccedenza minaccia la tenuta di una relazione essenziale tra l’idealismo magico e il processo storico stesso. Infatti, o il processo storico possiede in sé una legge di sviluppo che ne fa un movimento autoriflessivo autonomo, oppure il tentativo di riservare una qualsiasi autonomia all’idealismo magico rischia di riconsegnare il processo stesso al movimento irriflesso della natura. Paradossalmente, 25.  Ivi, pp. 109-110.

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le parole dello stesso Evola sembrano andare a suffragare la plausibilità di questo esito problematico: La teoria dell’idealità del tempo fa dunque della storia una facoltà plastica e in sé indifferente della libertà – non più un fato tirannico che violenta l’individuo, bensì una creatura docile che questi domina e che gli rispetta e gli conferma immancabilmente a posteriori ciò che egli a priori e metastoricamente va ad affermare: anzi, propriamente, dovrebbe dirsi che la storia non è null’altro che la facoltà stessa della libertà di rispecchiare e dimostrare a posteriori, lungo la catena del tempo, la sua determinazione avvenuta a priori in un punto intemporale e metastorico.26

Senonché è lecito chiedersi, una volta che la storia sia ridotta a tale docile creatura, a che cosa serva fornire una «deduzione storica» dell’idealismo magico, giacché il suo imporsi non dipende in alcun modo dal processo storico. Il punto è – e ciò risulterà più chiaro in seguito, trattando dell’opzione trascendentale e della Fenomenologia evoliana – che nessuna continuità è a priori possibile tra idealismo dialettico e idealismo magico: quest’ultimo de-cide, taglia radicalmente. Non è dunque un caso che la deduzione in questione si concretizzi, di fatto, nella presa in considerazione di alcune posizioni teoriche da Evola interpretate come «esigenze contemporanee verso l’idealismo magico». Tra esse il pensatore romano annovera cinque figure in particolare, la prima delle quali è Carlo Michelstaedter27. Il concetto su cui si incentra il “recupero” del 26.  Ivi, p. 110. 27.  Non sono pochi gli studiosi ad aver visto in Michelstaedter l’autentico anticipatore della filosofia evoliana. Pur sottolineando che «fino al 1921 l’avventura di Evola procedette al di fuori di qualsiasi influenza diretta di Carlo Michelstaedter», Melchionda osserva polemicamente che «gli storici della filosofia che si domandano chi abbia proseguito la linea di Michelstaedter in Italia non farebbero male a dare un’occhiata alla teoria dell’Individuo assoluto» (R. Melchionda, Il volto di Dioniso, cit., pp. 210-211). Massimo Donà

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pensiero del filosofo goriziano da parte di Evola è certamente quello di «persuasione». È persuaso colui che «consiste», che si libera da ogni desiderio e pre-occupazione, simboli della deficienza dell’Io e responsabili dell’esistenza dell’altro28. Affinché l’opera di persuasione sia realizzata nella sua portata «cosmica» e il mondo sia risolto in «valore» è necessario che l’altro sia posto come non-valore. Senonché l’uno e l’altro non devono op-

ha invece posto l’accento sulla radicale estraneità dell’idea evoliana di verità rispetto a una concezione come quella michelstaedteriana, ancora totalmente invischiata nella logica escludente di derivazione parmenidea: «La via della “rettorica” – osserva il filosofo veneziano – è, dal punto di vista di Evola, sempre ancora possibile; mai potendo cioè la persuasione porci definitivamente al sicuro. Innanzitutto perché tale sicurezza comporterebbe, e nella forma più radicale, la definitiva rinuncia a qualsivoglia autentico pensiero della “libertà”. E soprattutto perché nulla di più lontano da Evola potrebbe esservi del radicale pessimismo (tragico pessimismo!) michelstaedteriano» (M. Donà, Un pensiero della libertà. Julius Evola: filosofia e magia al cospetto dell’impossibile, in J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 25). F. Coniglione sottolinea che «ciò che in Michelstaedter rimane al livello di conato, di istanza meramente ottativa – destinata a frangersi contro le dure asperità della vita quotidiana – in Evola invece assume il valore di un compito positivo, di una via possibile da percorrere, grazie alla quale l’individuo è in grado di pervenire alla propria realizzazione secondo potenza, sino a riprendere in sé quella realtà che, quando gli si contrappone estrinsecamente, sembra schiacciarlo sotto il suo peso» (F. Coniglione, Apoteosi del soggetto e annichilimento della corporeità in Julius Evola, cit., p. 83). Per un completo e organico confronto tra Evola e Michelstaedter, volto, tra l’altro, a caratterizzare la filosofia del primo come pensiero dell’«autoliberazione» e quella del secondo come filosofia della libertà, cfr. G. Sessa, Evola e Michelstaedter. Idealismo magico e persuasione tra libertà e liberazione, in Id., Julius Evola e l’utopia della Tradizione, cit., pp. 61-80. 28.  A scopo esemplificativo può esser presa la prima pagina de La persuasione e la rettorica, in cui la tragedia della persuasione è esemplificata dall’immagine del peso, che «quant’è peso pende e quanto pende dipende». Se per caso il peso riuscisse a possedere in un istante la totalità del tempo e dello spazio, riuscisse dunque a esser «persuaso», «in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 39).

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porsi estensivamente, ma l’altro va redento nella sua negatività quale momento del farsi assoluto dell’Io: «vivere secondo un possesso perfetto ogni atto e quindi trasfigurare l’insieme delle determinazioni mondiali sino a non esprimere che il corpo stesso dell’infinita potestas, dell’Individuo assoluto fatto di potenza, tale è dunque il senso della consumazione cosmica»29. Il punto in cui il pensiero del filosofo goriziano si arresta è quello della negazione della «rettorica». Tale negazione permane sul piano «estensivo», non penetra in profondità la questione del «valore». La dimensione retorica viene così consegnata alle determinazioni stesse e non all’Io quale loro funzione pratica. Il persuaso non annulla il mondo, lo nega affermandolo: Il vero Signore non ha, in generale, bisogno di negare (nel senso di annullare) e, col pretesto di renderla assoluta, esiliare la vita in un’immobile indifferenziata unità o folgorazione: l’atto creatore, l’atto di potenza – che non è atto di desiderio o di violenza, ma atto di dono – anziché distruggere il perfetto possesso, lo testimonia e lo riconferma.30

Se il principale merito di Michelstaedter risiede nell’aver reso evidente l’antitesi da superare, rimanendo però vittima dell’incapacità di superare la contraddizione tra l’assoluto e la propria vita, un ulteriore tentativo in direzione di tale risoluzione è quello di Otto Braun. Morto giovanissimo, Evola vede nella sua breve vita la testimonianza di uno slancio volontaristico teso a risolvere il mondo in arbitrio, pura forma e assoluto valore. Anche in Braun, come in Michelstaedter, Evola individua però un limite, stavolta consistente nell’aver mantenuto il presupposto di un qualche valore rimasto esterno all’attualità dell’Io e ravvisabile, nelle giovanili pagine di Braun, nello Stato o in Dio quali fonti esteriori del «dovere». Scrive Evola:

29.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 114. 30.  Ibidem.

86 È che il Braun, assorto nel principio della potenza in atto, in un certo modo spostò il fuoco dell’Io dopo il punto della centralità originaria: e però nell’incodizionalità di questa non seppe interamente riconoscersi […] così come il Michel­staedter, nella sua passione per l’assoluto, centrale consistere, in un certo modo si alienò la potenza di un’azione sufficiente.31

Di tutt’altro tenore speculativo si rivela il confronto con Gentile, indicato in queste pagine quale terza «esigenza» verso l’idealismo magico e di cui ci occuperemo più avanti. Ultime due figure chiamate in causa sono Octave Hamelin e Hermann Keyserling. Il primo ha avuto un’influenza straordinaria su Evola specie in relazione a quella “riforma” della dialettica su cui riposa la stessa fenomenologia dell’Individuo assoluto32. In essa non è più il “negativo” a fungere da motore dello sviluppo dialettico, stante che l’antitesi sorge spontaneamente dalla tesi e ad essa si integra dando vita a sempre nuove e non deducibili forme. Tale dialettica «sintetica» rovescia lo stesso rapporto tra universale e particolare, ponendo quest’ultimo come esito del processo dialettico e non come suo momento iniziale: In virtù del principio hameliniano dei distinti, l’universale che per i razionalisti platonizzanti (e ogni razionalismo, di necessità, non può essere che un platonismo) era il punto di arrivo, viene fatto il punto di partenza, il grado più povero della realtà che, mediante uno sviluppo sintetico – dal più semplice al più complesso, dal meno al più – tende a possedersi nell’individuale come nella sua perfezione.33

Si perviene così al centro della relazione conoscitiva, all’origine e al fondamento di ogni rappresentazione: la libera personalità. Il processo dialettico si realizza nell’antitesi tra libertà e necessità, ma Evola si chiede: «che cosa sta prima, la libertà o 31.  Ivi, p. 118. 32.  Cfr. infra, cap. II, § 2.4. 33.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., pp. 128-129.

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la legge della distinzione? La libertà è una categoria, sia pure la suprema, del processo, ovvero essa è ciò che contiene e da cui trae vita l’intero processo? O, infine: lo spirito costruisce la propria libertà (intesa come il termine ultimo dello sviluppo delle categorie) liberamente o secondo necessità?»34. Le questioni squadernate a questo livello della “deduzione” si impongono in tutta la loro portata teoretica soltanto nella Fenomenologia. La risposta a queste domande de-cide l’idealismo magico, lo separa dalla sua provenienza idealistica. Lo stesso Hamelin non approfondisce la sua intuizione della personalità libera come volontà pura nella misura in cui non disegna le tappe del dispiegamento “operativo” di tale originaria libertà. In questo modo l’Io permane nella distinzione rispetto al mondo naturale dominato dalla necessità, residuo di oggettività ancora non mediata. Un passo in questa direzione è mosso da Keyserling che, rivisitando la nozione kantiana di sintesi a priori e facendone, da funzione impersonale e astratta qual è nel sistema kantiano, una «potenza incondizionata e immanente dell’Io reale», riduce il mondo a espressione simbolica della facoltà intellettuale del soggetto. In questo modo la realtà naturale perde la propria autonoma sussistenza costituendosi come il precipitato, la «coagulazione» dell’originaria agilità dell’Io. Il «senso» viene vissuto secondo gradi sempre più profondi di coscienza, fino alla figura del Sapiente, nel quale conoscenza e vita, dottrina e potere, sono congiunti in perfetta sintesi. Keyserling interpreta il comprendere come una funzione più profonda del semplice sapere, come sintesi di senso ed espressione. Tale prospettiva teorica sarà da Evola brevemente analizzata anche nella prima sezione de L’uomo come potenza, nel contesto di una rassegna di alcune visioni paradigmatiche del rapporto tra Oriente e Occidente (e che vede analizzate, oltre a quella di Keyserling, le prospettive teoriche 34.  Ivi, p. 130.

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di Hegel e di Steiner). La distinzione tra la visione del mondo occidentale e quella orientale viene ivi interpretata alla luce della distinzione keyserlinghiana tra senso ed espressione: se l’Oriente esaurisce la totalità del reale nella sfera del «senso» quale interiorità senza espressione, l’Occidente sposta lo sguardo sul mondo, sulla natura oggettiva, in breve: «l’Oriente rappresenta il momento unilaterale del “senso”, l’Occidente rappresenta il momento unilaterale dell’“espressione”: là un’anima senza corpo, qui un corpo senz’anima»35. Anche in questo caso viene però individuato un limite nella dottrina in esame: la mediazione dell’oggettività secondo la funzione del senso non può (e, a rigore, non deve) lasciare intatta alcuna legge storica, logica e nemmeno «grammaticale», persistenti invece nella dottrina di Keyserling quali irriducibile sostrato dell’attività dell’Io36. Così dedotto, l’idealismo magico è posto come fondamentale esigenza dell’Io, come suo compito e destinazione (da intendersi qui nell’accezione fichtiana della Bestimmung, come destinazione-determinazione essenziale dettata dalla “cosa”). Il contesto storico-filosofico in cui si colloca l’idealismo magico è allora quello di una crisi interna all’idealismo, le cui radici profonde sono con tutta probabilità da ravvisare già nella tarda filosofia schellinghiana37. Tale riferimento chiarisce la stessa dif35.  J. Evola, L’uomo come potenza, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 2011, p. 23. 36.  Per una completa disamina sulla presenza di Keyserling nell’opera evoliana, volta a mettere in evidenza le stesse oscillazioni nella considerazione dell’opera del pensatore estone, cfr. A. Musto, Il pensiero filosofico di Hermann Keyserling negli scritti evoliani, in Aa. Vv., Studi evoliani 2011. Julius Evola e la filosofia, vol. II, a cura di G.F. Lami et al., Fondazione Julius Evola-Arktos, Roma-Carmagnola 2013, pp. 129-147. 37.  Il tratto decisivo che accomuna Evola a Schelling è senz’altro il tentativo di rintracciare il fondamento nella volontà quale essere originario totalmente infondato. A tale elemento si annoda la sostanziale consonanza delle

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ficoltà relativa a una «deduzione» dell’idealismo magico messa in risalto in precedenza: se l’idealismo richiede di essere compiuto in direzione della realizzazione dell’ideale (dopo che il reale è stato perfettamente idealizzato, vale a dire pienamente ricondotto a un principio razionale immanente), tale passaggio non può che presentarsi anzitutto nella forma di un “salto” al di là di qualsivoglia sistematizzazione razionale. In questo salto consiste l’integrazione dell’idealismo in «trans-idealismo»38. «Ciò che distingue l’idealismo magico – osserva Evola – è il suo carattere essenzialmente pratico: la sua esigenza fondamentale è non di sostituire una intellettuale concezione del mondo ad un’altra, bensì di creare nell’individuo una nuova “dimensione” e una nuova profondità di vita»39. Lo stesso sviluppo del pro-

critiche di Evola e Schelling all’idealismo dialettico. Come è stato osservato, Schelling, nella sua tarda filosofia, avrebbe condotto «la problematicità della dialettica speculativa dell’Idealismo sul terreno della Libertà, dove necessariamente s’infrange la soluzione interamente logica del nesso ontologico: ovvero la pretesa che nel concetto essere e pensiero si convertano integralmente» (E.C. Corriero, Vertigini della ragione. Schelling e Nietzsche, Rosenberg & Sellier, Torino 2018, p. 96). 38.  La fortunata espressione è di R. de Mattei, coniata in un importante articolo volto a “riscoprire” – Evola ancora vivente – il contributo propriamente filosofico del pensatore romano (R. de Mattei, Il trans-idealismo di Julius Evola, in «Intervento», n. 11, 1973, pp. 107-120). 39.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 83. Più di un interprete ha accostato l’esigenza “pratica” evoliana alla medesima esigenza fatta valere da Marx nella sua critica alla dialettica hegeliana, al di là della pressoché totale assenza di ogni riferimento esplicito al pensatore di Treviri nelle opere filosofiche di Evola. Evocando la celebre XI tesi su Feuerbach, Piero Di Vona chiosa: «Anche Evola era convinto che l’attualismo gentiliano […] avesse l’obbligo di passare alla realizzazione effettiva dei suoi assunti teoretici in sede pratica […]. La soluzione prospettata da Evola, e da lui ritenuta la sola valida per il superamento dell’idealismo, non era, però, il rovesciamento della teoria filosofica in prassi politica. Questa per lui era destinata a lasciare comunque intatta la dipendenza dell’uomo dalla servitù della natura e della storia, o comunque rimandare la sua liberazione dalla natura e dalla storia ad un

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blema gnoseologico in direzione della sua definitiva soluzione va letto sotto la lente del «valore», solo così potendo ravvisarvi effettivamente un “progresso”. Il primato del pratico sul teoretico, elemento centrale della declinazione «magica» dell’idealismo, non vuole essere la semplice affermazione di una priorità della filosofia morale su quella teoretica né la segnalazione di una essenziale coappartenenza tra la fondazione formale dei presupposti teorici di un sistema e la sua diramazione “etica”, ma intende erigere l’idealismo magico a dottrina interpretante l’atto discorsivo come manifestazione elementare del giudizio di valore. Senza voler anticipare temi che verranno discussi più avanti, basti osservare che lo stesso giudizio teoretico perde la propria autonomia, non potendo giustificarsi a prescindere da un più profondo atto di volontà, secondo una rivisitazione dell’insegnamento nietzscheano, agente anche se non sempre esplicito nelle pagine evoliane: «Il riabbassamento dell’“essere” dell’ontologia e della gnoseologia a “dover essere” e il potenziamento dell’attività del giudizio di valore, in cui si è dunque trasfigurato lo stesso giudizio teoretico, sino a giudizio di esistenza, ad atto di fede cosmicamente creativo, tale è l’essenza della presente dottrina»40. Per riassumere quanto fin qui guadagnato, si può dire che se Evola vede nell’idealismo l’unica possibile filosofia e nell’ideipotetico, lontano e problematico avvento di una società comunista» (P. Di Vona, Le origini del pensiero filosofico evoliano, in J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1973], a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 1998, pp. 15-16). Fa riferimento alla medesima convergenza tra Marx ed Evola circa il problema del superamento dell’alterità tra soggetto e oggetto anche R. Gasparotti, Danzare l’esperienza. Immagini, non oggetti; corpi di pensiero, non persone eloquenti, in «Giornale critico di storia delle idee», n. 12-13, 2014-2015, pp. 87-101: p. 100, nota 12. Si veda anche R. Gasparotti, L’opera oltre l’oggetto. Sull’esperienza simbolica dell’evento artistico, Moretti & Vitali, Bergamo 2015, p. 16, nota 9. 40.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 83.

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alismo magico l’unico suo possibile esito, quest’ultimo rimane, al culmine del primo, una pura esigenza pratica, un compito ideale41. Si è visto inoltre come la stessa valutazione critica dell’idealismo sia animata dalla volontà di affermare l’Io reale contro la «menzogna» dell’Io trascendentale. Si può qui già ravvisare un’ulteriore eco nietzscheana: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?… Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!»42. Stante che il mondo «vero» è per l’idealismo solo quello fondato sull’unità sintetica dell’Io trascendentale, una volta che questa sia tolta di mezzo non rimane l’altro io, quello empirico, ma un Io del tutto rigenerato, per così dire, dinanzi a cui si dispiegano possibilità letteralmente inaudite43. L’indicazione di tali possibilità rappresenta il culmine della «deduzione», la segnalazione della possibilità dell’idealismo magico senza poter pervenire alla dimostrazione della sua necessità, almeno fintanto che si intende rimanere nell’ambito del filosofico. Esso rimane «esigenza», un postulato della volontà di certezza animante la stessa speculazione idealistica.

41.  È stato opportunamente notato che l’intento di Evola non è in alcun modo quello di opporre all’idealismo dialettico il proprio idealismo magico, giacché così facendo «finirebbe per applicare, confermandone in pieno l’incontrovertibilità, la medesima logica diairetica, oppositiva ed escludente, su cui si fonda il logocentrismo stesso, il quale legifera e domina sulla totalità dell’essente attraverso l’imperium del differenziare opponendo» (R. Gasparotti, L’Individuo assoluto e la magica potenza dell’immagine, in J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 13). 42.  F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa col martello, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1983, p. 47. 43.  Nell’invettiva evoliana contro l’Io trascendentale Antimo Negri ha visto nient’altro che «un’adesione incondizionata alla favoletta critica e storiografica secondo la quale l’io empirico, hic et nunc, in carne ed ossa, è travolto dal “fatalismo trascendentale” dell’attualismo» (A. Negri, Julius Evola e la filosofia, cit., p. 26), continuando però, ci pare, a presupporre la distinzione che l’eliminazione di un termine delegittima definitivamente.

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Senonché vien fatto di chiedersi: può una teoria culminante nella sussunzione del reale in un chimerico principio ideale costituire il fondamento (foss’anche solo gnoseologico) di una dottrina che pretende di essere la sua (della prima teoria) verità? In altri termini: può la menzogna dell’Io trascendentale postulare l’Individuo assoluto come sua integrazione veritativa? La risposta di Evola è: sì, nella misura in cui una tale integrazione si verifica di fatto. L’esito paradossale cui si perviene è pertanto l’impossibilità dell’idealismo magico quale filosofia, l’indimostrabilità della sua fondatezza logica. Si vuole qui sostenere la tesi che la dottrina dell’Individuo assoluto – così come essa trova rappresentazione speculativa in Teoria e Fenomenologia e narrazione “mitologica” in L’individuo e il divenire del mondo – si configura come un tentativo di fuoriuscita da questa esiziale aporia. Al di là del poderoso dispositivo dialettico impiegato dall’idealismo per risolvere la totalità del reale nel concetto, Evola percepisce il permanere di un residuo di alterità che ancora vincola tale concetto, non lo rende autenticamente Ab-solutus44. Il fatto che permanga un dualismo nella sfera del concetto è simbolo della permanente disequazione tra l’orizzonte razionale e la dimensione reale,

44.  È ancora Gasparotti a notare che il cuore della lettura evoliana dell’idealismo assoluto consiste nel ravvisare il permanere della dualità metafisica all’interno dell’orizzonte del concetto, giacché per Evola «l’operazione idealistico-hegeliana si basa sulla riduzione della totalità dell’essente a das Logische, ovvero a concetto, il quale, non potendo mai apparire nella sua assoluta concretezza – come Hegel stesso ammette – mantiene la sua intrinseca valenza escludente, respingendo da sé e così ponendo come altro-da-sé, tutto ciò che non è concetto, vale a dire la realtà esistente della vita stessa, che l’impotente Io idealistico-dialettico seguita, perciò, a dover desiderare e inseguire vanamente e ad indefinitum» (R. Gasparotti, L’inudibile tono del filosofare. Quando il pensiero va in loop…, in A. Emo, In principio era l’immagine, a cura di M. Donà, R. Gasparotti e R. Toffolo, Giunti-Bompiani, Firenze-Milano 2019, pp. 17-18).

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tra essenza ed esistenza. A partire da tale prospettiva si comprende con ancora maggior chiarezza come l’idealismo magico evoliano possa con buone ragioni essere collocato nel novero delle filosofie nascenti dalla crisi dell’hegelismo, dalla radicale messa in questione della pretesa di includere le trame reali dei processi vitali all’interno dell’orizzonte eterno del sapere assoluto, il quale, rispetto a tali trame, rivela tutta la sua debolezza e la propria incapacità di «consistere». Scrive Evola in L’uomo come potenza: con la conoscenza discorsiva il tema del possesso resta ancora in una fase embrionale e ciò per una doppia ragione. Anzitutto perché la relazione realizzata dal concetto fra l’Io e le cose non è immediata, ma mediata: mediante il concetto posso dominare quanto definisce idealmente una cosa – ossia ciò che tecnicamente si chiama l’essenza, il τι ἐστιν della cosa – ma la cosa stessa, l’esistenza, il nudo fatto del suo esserci come cosa reale, il το ὅτι di essa – per esso mi sfugge. La filosofia, nel suo sviluppo critico, ha dimostrato che dietro al concetto della cosa non è da cercarsi altro, ossia che il concetto esprime non un pensiero intorno alla cosa, bensì ciò che la cosa in sé stessa è. Ciò, correttamente, vuole semplicemente dire che dietro alla essenza della cosa non è da cercarsi un’altra essenza (il che è interamente legittimo) ma non che l’essenza della cosa, ossia ciò che della cosa domino mediante il concetto, ne comprenda anche l’esistenza, v.d. che per il pensiero, discorsivamente inteso, l’«altro» sia risolto sotto ogni senso.45

Si tratta ora di penetrare a fondo il senso della «relazione immediata» che l’Io deve instaurare con le cose se vuole stabilire su di esse un rapporto di «dominio». Perché ciò accada, l’assoluto deve risolversi in pura forma, portando l’Io a una immediatezza quale risultato.

45.  J. Evola, L’uomo come potenza, cit., p. 31.

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3. Io, libertà, alterità 3.1. «Valore» e mediazione: la relazione assoluta Si è visto che la lettura evoliana dell’idealismo moderno orbita attorno al problema della certezza, alla luce del quale lo stesso cammino del pensiero assume i connotati di un processo di coerentizzazione che culmina, come si vedrà, nell’attualismo gentiliano. L’idealismo magico raccoglie l’esigenza di certezza fatta valere dalla speculazione idealistica, riformulandola in termini di «valore», concetto cui si è più volte fatto riferimento nel corso dell’esposizione e alla cui chiarificazione è consacrata l’Introduzione di Teoria dell’Individuo assoluto, ove è anche riassunto l’intero progetto “ultrafilosofico” di Evola. Da una corretta analisi di quelle pagine dipende in buona misura la giusta comprensione di tale progetto. Per quanto concerne il concetto di valore, va subito rilevato che si tratta di uno dei non frequenti termini “tecnici” introdotti da Evola nel proprio lessico filosofico. Scrive Evola: Intendiamo per valore la relazione assoluta fra il nudo principio dell’Io e quanto nell’Io è distinto da tale principio. Questo distinto lo si indichi come essere: allora il valore resta definito come la forma in cui la relazione fra Io ed essere diviene un’estrema istanza, qualcosa di incondizionato, un punto, di là dal quale non si può andare […]. Ora il valore si definisce come la mediazione soggettiva di tale [dell’Io] incondizionalità, cioè piena riduzione alla potenza dell’Io di quel che nell’essere in quanto essere è in sé e per sé come un «altro».46

46.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 1. Per ragioni di coerenza si farà prevalentemente uso della prima edizione di Teoria, ormai pressoché introvabile, rispetto alla seconda, «ortopedizzata» da Evola intorno alla fine degli anni ’40 e pubblicata solo nel ’73. Per quest’opera – e solo per questa – si preciserà comunque sempre tra parentesi dopo il titolo la data di pubblicazione dell’edizione di riferimento. Per una discussione puntuale delle differenze tra le due edizioni, cfr. R. Melchionda, “Teo­ria”

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Ancora: Essere e valore sono i limiti della serie dei vari, possibili atteggiamenti che l’Io può assumere rispetto ad una sua esperienza generica. L’essere perciò non è la «cosa in sé», ma un significato: è il modo del semplice esistere di fatto di un oggetto o potenza per l’Io; valore è invece una trasparenza a sé stessa dell’essere di fatto nell’Io: il puro modo dell’essere di diritto, la perfezione della relazione […]. Nel suo limite, il valore può intendersi come l’intera risoluzione di ciò che è materia in ciò che è forma.47

Ciò che si intende per «nudo principio dell’Io» è precisato da Evola nelle pagine successive tramite un movimento di approssimazione progressiva, che ora brevemente si intende ripercorrere. Materia e forma rappresentano gli elementi di ogni esperienza. L’esperienza possibile viene da Evola sussunta sotto tre macrocategorie, che sono le possibili forme in cui ci si può rapportare all’ente: la conoscenza, il possesso e la volontà. Queste tre funzioni fanno a loro volta riferimento a una funzione originaria, la quale può relazionarsi alla determinatezza in cui consiste l’esperienza in maniera tale che la funzione finisca per rapportarsi solo con se stessa, annullando la materia che ha originariamente reso possibile l’esperienza stessa. Tale funzione è l’Io, che viene dunque inteso come originaria e immediata trasparenza a se stesso. Posta in esso una dualità, e chiamato «essere» ciò che, nell’Io, si contrappone all’Io, l’estremo del valore è rappresentato dalla perfetta corrispondenza tra l’Io quale sintesi unitaria che sta all’origine di ogni relazione, e la relazione stessa in cui il darsi del mondo consiste, dalla perfetta

prima e seconda, appendice a J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1973], cit., pp. 195-204. 47.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], pp. 1-2.

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consumazione della materia in forma. Precisa Evola: «questo elemento che si mantiene uguale a sé nei tre fenomeni non è il più astratto, quel che vi è di più povero e di più generico in essi, bensì il più intenso e il più essenziale: è quell’atto che non riluce che nella più profonda interiorità dell’individuale e che pertanto nell’ordine delle condizioni della realtà come esperienza è ciò che sta prima»48. L’atto «sta prima» del proprio determinarsi secondo l’una o l’altra funzione, prima del suo rapportarsi all’oggetto. In ogni esperienza data, si tratterà allora di risalire dalla forma dell’esperienza, che in quanto è forma di un’esperienza è forma di un contenuto, alla forma di ogni forma, la forma assoluta. Il processo è sintetico, riassumibile nella formula matematica utilizzata nei Saggi per descrivere la magica: dalla derivata alla funzione. Compito della dottrina dell’Individuo assoluto sarà allora di ridurre l’intervallo tra la forma dell’esperienza e l’esperienza in generale, per fare in modo che questa sia totalmente compenetrata di attività dell’Io, di libertà. La forma dovrà essere resa coestensiva al reale, il valore coestensivo all’essere, giacché «valore» è eminentemente relazione assoluta, «riduzione dell’incondizionato dell’“essere” (ἄλογος= privazione della condizione) all’incondizionato dell’individuo (λόγος = perfezione della condizione)»49. Evola ribadisce altresì che per la dottrina dell’Individuo assoluto la posizione del valore è originaria, essendo la forma che rende possibile ogni esperienza: «nulla saprebbe venire sperimentato, che non incorpori già in una certa misura il momento del valore»50. In questo senso l’intero itinerario fenomenologico tracciato da Evola può essere descritto come 48.  Ivi, pp. 5-6. 49.  Ivi, p. 6. 50.  Ivi, p. 8.

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un riacquisto dell’originario (del valore in quanto immediatezza originaria). Con ciò rimane però inevasa la questione della posizione del problema del valore. In quanto problema “fondamentale”, esso non ha altro fondamento che l’atto di assoluta libertà, si dica pure di «arbitrio», che consiste nella posizione stessa del problema. Di tale atto, osserva Evola, «non tanto non si può, quanto piuttosto non si deve chiedere una superiore ragione»51. Senonché «se il problema è posto, l’essere come essere non è più posto», giacché «appare già come un momento interno al problema stesso»52. La sua posizione coincide con la sua risoluzione, sì che la stessa esistenza primitiva e irriflessa, che nella Fenomenologia assumerà la denominazione di «epoca della spontaneità», può già considerarsi un momento interno al mondo in quanto valore. La difficoltà che si pone a questo livello è relativa al fatto che il luogo dell’apparire del problema è l’Io in quanto riflettente, dunque già scisso in un soggetto riflettente e in un oggetto riflettuto. Così stando le cose, la Teoria evoliana si collocherebbe in medias res rispetto alla complessività dell’itinerario fenomenologico, presupponendo l’epoca dell’irriflessa adesione al mondo naturale quale “preistoria” dell’Io, oscura realtà alle spalle della coscienza, residualità non mediata e non riconducibile a valore. Tale lettura sembrerebbe avvalorata da quanto il filosofo afferma all’inizio de L’individuo e il divenire del mondo, opera in cui l’iter fenomenologico dettagliatamente tracciato nella Fenomenologia viene velocemente ripercorso secondo le sue tappe salienti. Ivi Evola, esponendo la prima fase attraversata dall’Io, sostiene che a questo livello il problema della certezza non può considerarsi “posto”, dacché la cer51.  Ivi, p. 11. 52.  Ibidem.

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tezza «è invece materia di diretta esperienza, è un “questo”, qualcosa di intuitivamente evidente rivelantesi caso per caso senza mediazione»53. Si configura così un ulteriore problema, che viene a coincidere con quello della priorità “genetica” dei due testi evoliani. Tale problema è stato acutamente posto in questi termini: Teoria e Fenomenologia sono due parti solidali di un tutto unico o, se si vuole, due diversi punti di vista del medesimo oggetto; se il punto di vista è genetico in ordine al criterio logico-filosofico […], siamo alla Teoria che in tal caso precede la Fenomenologia, la quale si presenterà come suo sviluppo ed applicazione; se genetico in ordine al principio di potenza […], il secondo libro dovrà precedere e contenere il primo, esattamente collocandolo nel punto in cui la categoria della filosofia trapassa nella categoria della «individualità», al finire della seconda epoca.54

Non si tratta evidentemente soltanto di un problema storicofilosofico né tantomeno di una mera sofisticheria erudita. Il valore si situa “prima” tanto della Teoria quanto della Fenomenologia, ma può essere posto solo dal punto di vista del suo compimento, che investe (o vorrebbe investire) tanto il criterio logico-filosofico quanto quello della potenza, come si vedrà. Si tratta di una difficoltà analoga a quella riscontrata a proposito della deduzione dell’idealismo magico. È l’atto stesso del compiersi del valore a sostenere e spiegare l’intero processo del suo compiersi, l’ultimo (e meramente possibile), a dare ragione del primo (e necessario). A proposito del rapporto tra la Teoria e la Fenomenologia, si può dire che se nella seconda opera viene offerta la descrizione del cammino dell’Io in direzione della propria assolutezza, 53.  J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 27. 54.  R. Melchionda, Il volto di Dioniso, cit., p. 55.

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nella prima la ricostruzione è propriamente genetica. Il problema è uno con quello dell’individuo, giacché a partire dalla spontaneità a cui l’Io è consegnato nella conoscenza empirica può destarsi l’individuale in quanto potenza, prendendo le mosse dalla sua stessa inesauribilità nell’atto del determinarsi. L’Io è infatti «l’indeterminato del “determinare” immanente ad ogni determinazione»55. 3.2. Provare l’Io Se si volesse riassumere lo sforzo speculativo evoliano con un’unica formula, questa potrebbe essere: provare l’Io56. In una importante nota dei Saggi il pensatore scrive: «La cultura moderna ha tagliato tutti i ponti dietro all’individuo: se questi deve ancora vivere, occorre che tragga da sé la sua vita; se un punto fermo deve ancora esistere, solo il suo Io può essere un tale»57. Esso va provato in quanto Io, nella sua identità con se stesso, al di là di ogni astratto universalismo e di ogni vuota identità meramente logica. Stante il principio idealistico, da Evola pienamente assunto e radicalizzato, della “soggettività” del reale58, dare ragione dell’Io significherà dare ragione dell’intera realtà, a partire dall’identità dell’Io con la determi55.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 18. 56.  Il riferimento è naturalmente alla formula con cui Bertrando Spaventa riassumeva la filosofia hegeliana: «Per me tutto il valore di Hegel, qui, è questo: provare la identità» (B. Spaventa, Schizzo di una storia della logica. Appendice alle lezioni, in Id., Opere, a cura di F. Valagussa, Bompiani, Milano 2009, pp. 1363-1430: p. 1396). 57.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 39, nota 19. 58.  Melchionda vede nella «soggettività del reale» e nella «libertà del soggetto» quale attività mediatrice i due «capisaldi dell’idealismo» che Evola fa suoi, pur nel significato radicalmente mutato dall’esser essi assunti alla luce di un contesto speculativo rinnovato (cfr. R. Melchionda, Il volto di Dioniso, cit., p. 72).

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natezza empirica. La costruzione teorica che si sviluppa dalla prima alla quarta sezione di Teoria assume allora, come anticipato, i tratti tipici di una ricostruzione “genetica”, volta a rintracciare le condizioni della duplice possibilità del darsi della medesima esperienza (secondo lo «stato empirico di esistenza» e secondo «valore»). Quest’ultima, al termine di tale processo, sarà elementarmente resa «valore». È inoltre all’interno di questo stesso processo che si perviene alla postulazione di un atto assoluto dell’Io: La determinazione esiste; la possibilità della determinazione postula inconvertibilmente il soggettivo; l’essenza del soggettivo postula, con uguale necessità, la negatività della determinazione quale è in lui fattiziamente attuale nell’esperienza data – questo conflitto è la verità della coscienza immediata: in essa una violenza congiunge, in un punto di là dal quale non si può risalire, l’essere di diritto e l’essere di fatto, il valore e il non-valore, l’assoluto e il finito, la libertà e la necessità. In essa la coscienza è assolutamente ambiguità, oscillazione, problema, antiteticità: ciò in cui le riluce la vita è anche ciò per cui soffre la morte. Questo è il fatto, l’ὅτι elementare – il primo «essere» che bisogna trascendere in «valore».59

Di là dal soggetto contrapposto all’oggetto e al soggetto che si risolve nel proprio oggetto – secondo la concezione dell’attualità del pensiero che, nel proprio esser attuale, dà origine tanto al soggetto quanto all’oggetto – deve esser riconosciuto l’Io quale assoluta potenza, atto incondizionatamente libero. Per essere autenticamente tale, esso non deve presupporre alcunché, ma da tutto essere presupposto. Ciò significa anzitutto che la coscienza empirica – da cui pure prende avvio l’indagine evoliana – non può rappresentare il “vero” inizio, dacché essa richiede già la scissione tra soggetto e oggetto, quindi un certo grado di manifestazione della potenza originaria.

59.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 60.

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Il sorgere dell’individuale corrisponde al venire alla luce della contraddizione tra l’infinità possibile dell’Io e la condizionatezza empirica che contraddistingue la coscienza finita. Di là dalla «promiscuità obliqua» di una coscienza assorta nella propria dimensione empirica appare l’atto incondizionato di libertà in cui l’individuale consiste. Nell’impossibilità di definire tale atto, pena il ricondurlo entro quella sfera del discorsivo di cui vuole essere l’intima e profonda “ragione”, Evola tenta con fatica di mantenersi distante da due atteggiamenti, ai suoi occhi parimenti esiziali, ugualmente indirizzati alla penetrazione del principio. Da un lato il pericolo è di rimettersi a una qualsiasi forma di intuizione intellettuale onde spiegare la conoscenza diretta, immediata, dell’Io quale assoluta trasparenza a se stesso. Dall’altro lato il pensatore romano si premura di non cadere nel sofisma che potremmo definire della “teologia negativa”, vale a dire della definizione del principio via negationis, stante che l’Io «non è che non possa, ma non deve venire detto»60, ma «rispetto ad esso si può far qualcosa di meglio che non pensarlo o conoscerlo, e cioè: possederlo, esserlo – non ucciderlo in un concetto, idea o nome, ma realizzarlo, coglierlo attualmente cogliendosi in quel centro, in quella assoluta immanenza che già si è e che ad ogni mediazione si presuppone»61. Vale allora la pena di riferirsi direttamente alla pagina di Teoria che più di ogni altra mette in luce l’esigenza del pensiero di svincolarsi da qualsivoglia residuo di “teologia negativa”. Scrive Evola: Distogliersi dal guardare a sé – dall’esser coscienza di sé – penetrarsi invece ed impugnarsi nell’essere puro, centrale, ardente, questa è la condizione elementare per colui che non ha paura delle cose, per colui che vuole metterne a nudo la fondamentale natura problematica e tragica. Vive al disotto della realtà, vive al disotto del problema dello stato empirico

60.  Ivi, p. 37. 61.  Ivi, p. 38.

102 di esistenza chi è incapace di ciò. Devo dire così: Di una «autocoscienza in generale» non è che non so nulla – so invece che essa è un nulla, una pallida larva dell’astrazione metafisica. Non vi è autocoscienza che come questa, che è la mia autocoscienza, che è da, in e per me, essere individuo. E se in questa individualità e in questa immanenza non ci si pone dall’inizio, ad esse non si potrà più giungere. L’astrazione potrà sì dall’individuo dedurre una «autocoscienza in generale», ma il passaggio inverso è radicalmente assurdo – e l’ultima istanza sarà un mondo di illusione apollinea che, come quello delle idee platoniche, un abisso incolmabile separa da tutto ciò che è individuale e concreto. I nomi, non importano: «ich denke», Atto puro, Assoluto, Io trascendentale, Sapere ecc. – tanti travestimenti dell’«unum bonum», del pallido universale impotente a trarre da sé nemmeno un atomo di realtà. Questo è il mondo del fenomenismo più raffinato, verità di quanto invece si crede idealismo assoluto, radicale positivismo, immanentismo.62

Si tratta pertanto di scardinare la pretesa di cogliere “rettoricamente” il principio, tramite l’ipostatizzazione del medesimo apparato “apollineo” che orienta la coscienza comune e di definire, a partire dall’orizzonte logico, il rapporto tra il pensiero e, per così dire, quod cogitare praecedit. Nessuna facoltà particolare è adibita alla conoscenza dell’Io quale principio, non foss’altro che per il fatto che qualsivoglia tipo di conoscenza finirebbe per riproporre quella dualità che fatalmente presuppone lo stesso Io, in quanto “luogo” del suo (dell’Io) determinarsi. A questo riguardo, Evola distingue due tipologie di astrazione: la prima è l’«astrazione in estensione», corrispondente al gesto tipicamente “intellettuale” di negare una determinatezza per affermarne un’altra. Questo tipo di astrazione, collocandosi sul terreno piano dell’estensione e dell’oggettività, non consente

62.  Ivi, p. 43.

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la penetrazione del principio, ma si limita alla conoscenza di forme determinate e perciò consegnate alla ineludibile “impurità” di ogni esperienza, tanto empirica quanto “concettuale”. Ma un’altra forma di astrazione viene indicata come capace di restituire all’esperienza la purezza del proprio esser riferita a qualcosa di semplicemente individuale. È quella che il pensatore romano definisce «astrazione in comprensione» o «in intensità». Di tale astrazione viene detto: Questa investe dunque la determinatezza nella sua realtà vivente di soggettività e procede a penetrare ciò che nell’oggetto vi è di incondizionato, la sua radice più interiore, quel principio che nell’ordine della realtà come esperienza, come realtà positiva o per l’Io, è la condizione elementare. Essa non nega, e non ha bisogno di negare, la determinazione: l’approfondisce, la lascia dietro di sé distogliendosene soltanto. E il suo termine non è il vuoto universale […], bensì l’individuale, ciò che si dice solo di sé, in modo unico […]. È l’oggettivo e il determinato preso in sé e per sé che le si rivela come ciò che, solo, è veramente astratto ed irreale, e l’astrazione da esso, invece, come la potenza centrale, l’evidenza nuda e indivisibile presente, come sua più profonda vita, in quanto è ed è certo. Questo astratto, che è tale assolutamente, è l’assolutamente concreto – l’Io.63

Ciò a cui qui ci si riferisce non è una forma di conoscenza, comunque evocativa di una dualità, per quanto sempre rinnovantesi, ma una particolare struttura dell’agire, una praxis. «Ciò che si dice solo di sé» non può infatti essere un “dire”, ogni “dire” assumendo, per il fatto stesso di essere detto, la caratteristica di poter esser detto sempre anche di altro, trovandosi così impossibilitato ad affacciarsi direttamente all’individuale. Si tratta ora di penetrare tale struttura dell’agire per comprendere appieno la modalità di relazione all’ente che sola può dire

63.  Ivi, pp. 25-26.

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la reale libertà dell’Io. Funzionale a questo fine sarà anzitutto la presa in esame delle due «vie» o «opzioni» individuate da Evola in Teoria e rispettivamente descritte nelle sezioni quinta e sesta dell’opera e che, lungi dal rappresentare una mera riproposizione del dualismo michelstaedteriano, si configurano come la dettagliata descrizione delle possibilità di relazione all’oggetto da parte dell’Io64. Si tenterà ora di vedere come il modo della relazione che contraddistingue la «via dell’Altro» o opzione oggettiva, per come esso viene caratterizzato e criticato in queste pagine, sia senz’altro riconducibile a un’impostazione tipicamente “idealistica”, segnatamente fichtiana. 3.3. La «via dell’Altro»: un tentativo di rilettura Va anzitutto sottolineato che le due opzioni non devono essere intese alla stregua di semplici alternative contrapposte, giacché l’esser pervenuti alla formulazione della problematica del valore quale relazione assoluta consente di porre la stessa «coalescenza» del soggettivo in oggettivo nei termini di valore. Osserva infatti Evola: «il valore, che abbia la fatalità del positivo, non è valore; l’assoluto e la libertà se sono soltanto e incondizionatamente assoluto e libertà, non sono né l’assoluto né la 64.  È stato puntualmente osservato che il determinarsi del principio secondo una opzione o l’altra corrisponde a un momento successivo al porsi stesso del principio soggettivo secondo l’originaria indifferenza. Solo dopo che il valore è posto, la libertà originaria può richiedere di essere confermata. I due livelli di libertà, che la speculazione idealista avrebbe erroneamente fatto collassare nel medesimo atto, sarebbero dunque quello della libertà tetica quale indifferenza di porre e non-porre e quello della libertà reale quale indifferenza di porsi come affermazione o porsi come negazione: «Se la forma fosse necessitata, se l’Io non avesse scelta, l’originario atto di libertà si convertirebbe immediatamente in atto di spontaneità […]. Non basta affermare la libertà teticamente, occorre che la libertà – sorta da sé – nuovamente si affermi di fronte a quel mondo che ha suscitato di contro a sé, se ad esso non vuol soccombere» (R. Melchionda, Il volto di Dioniso, cit., p. 127).

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libertà […], il valore che è il valore, è l’indifferenza del valore e del non valore»65. L’istanza fondamentale che anima la stessa elaborazione di un contingentismo trascendentale è ravvisabile nella formulazione di una radicale idea di libertà. Scrive Evola: il carattere della vera libertà è precisamente questo, di potere essere eternamente in contradizione con «sé stessa»; poiché questo «sé stessa» è un «Unding», libertà significa possibilità, e la possibilità non ha nulla da cui possa essere contradetta. Se la libertà non è il potere del sì come del no, essa è un flatus vocis. Una libertà schiava del principio di identità è la negazione della libertà.66

L’opzione trascendentale allora si costituisce come un secondo momento di contingenza, dopo il primo consistente nell’indifferenza di porsi o non porsi della libertà e coincidente con l’atto assoluto dell’Io. Tale opzione si situa comunque “fuori” dal tempo, giacché se così non fosse la scelta non potrebbe essere libera. Come in altro contesto è stato osservato: «Nella successione del tempo non si dà libertà, ché il susseguente è incatenato al precedente come l’effetto alla causa»67. La scelta fonda il tempo, lo rinnova continuamente. Il tempo quale forma che con-tiene l’intuizione empirica, secondo la lezione kantiana, rimanda a una forma più originaria, più pura, non costretta a orientarsi in direzione di un contenuto a cui dare-forma. È tale forma pura che Evola si propone di guadagnare nella sua Fenomenologia. Ma procediamo con ordine. L’opzione oggettiva o «via dell’Altro» è quella in cui l’Io si trova costantemente pre-occupato dall’esserci della determinatezza oggettiva quale vincolante il suo volere. Tale volere si vede condizionato dal contenuto di cui è forma e la relazio-

65.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 63. 66.  Ivi, pp. 88-89. 67.  V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, p. 86.

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ne con l’alterità, con l’oggettivo, è posta secondo la modalità del «desiderio». Nell’opzione oggettiva l’Io si trova dunque «estravertito», rivolto ad altro, ciò da cui deriva la conformazione dell’agire sempre in relazione a un compito, a una finalità esterna. Di più: l’oggetto stesso assume la connotazione di un «compito». Il momento tetico dell’Io coincide con quello della posizione di un non-Io di contro a sé. La dualità è riproposta, l’attività dell’Io lascia eternamente un residuo di materia fuori di sé: «Questo residuo l’Io qui cerca di spingerlo e risolverlo nell’oggettivo; ma esso risorge in ricorrenza nel punto del farsi reale di ogni oggettivazione – come materia di un nuovo travaglio»68. Il momento della via dell’Altro viene assunto come un distanziamento interno della libertà da se stessa, in essa è posto il divenire come suprema istanza e il dover-essere come modalità essenziale di relazione con l’ente. Tale struttura dell’agire conduce in realtà a un perfetto fenomenismo, dal momento che l’Io abdica alla propria infinità possibile rimandandola a una successione infinita di finitezze reali. Nell’opzione oggettiva l’Io infinitamente dipende dall’azione: questa a lui si presuppone secondo un intervallo infinito, giacché ogni divisione della serie mostra in modo uniforme che tutto ciò che sta prima è nulla, che nulla è già fatto, che tutto è ancora da fare: che in nessun punto vi è un possesso, ma sempre una richiesta e una promessa, un essere per altro in un futuro ricorrente […]; resosi esteriore a sé, l’Io si risolve nell’assorta demiurgicità della genesis.69

Un’ulteriore determinazione dell’opzione oggettiva può essere ottenuta se la si concepisce come la direzione entro cui l’Io vede eternamente frustrato il proprio tentativo di cogliersi

68.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 78. 69.  Ivi, p. 79.

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secondo la propria facoltà razionale, come «contenuto di una mediazione»; ciò è impossibile, giacché «l’autoaffermazione sfugge a sé stessa: una conoscenza non la può avere in sé, ad essa è invece, e soltanto, adeguato l’infinito sviluppo del conoscere, il compito infinito, il ritmo ricorrente, in quanto indeterminatamente ricorrente o continuo, di questo atto»70. L’eterno rimando a una alterità mai “risolta” in effettivo possesso determina il venir meno non solo del soggetto quale elemento preponderante della relazione, ma dello stesso oggetto in quanto determinatezza autonoma, essendo essa assoggettata, al pari del soggettivo, alla pre-potenza del divenire dialettico. Il cuore della via dell’altro è anzi proprio il fatto che, posto l’altro, l’oggetto, come valore, esso non viene mai raggiunto, avendo l’Io sempre e solo a che fare con la propria rappresentazione dell’altro. Ogni dottrina della durata o del divenire va ricondotta alla presa di consapevolezza che dell’altro possiamo conoscere solo ciò che noi vi abbiamo posto. In questo modo non è solo l’Io a vedere la propria attività vincolata nelle maglie d’acciaio di una qualsivoglia dialettica, ma anche l’oggetto “puro”, sempre di là da quello da cui l’Io è eternamente «pre-occupato». Il punto è che l’oggetto è sempre per l’Io ma non è mai, realmente, l’Io. Difficile, a questo proposito, non richiamare la critica hegeliana a Fichte e alla sua «cattiva infinità». Al netto della precisazione di Evola secondo cui la condizionalità appena descritta non corrisponde a una precisa filosofia ma a una modalità formale di rapportarsi all’ente a cui sarebbe riconducibile, da ultimo, ogni filosofia, la caratterizzazione che viene data di tale relazione sembra infatti chiamare in causa direttamente Fichte e la sua peculiarissima dialettica di Io e non-Io. Fin dalla Differenzschrift del 1801 Hegel prende di mira Fichte in quanto non conseguente con le sue stesse premesse, con il

70.  Ivi, p. 80.

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suo intento di fondare la scienza in generale facendo della filosofia una vera e propria dottrina della scienza. Esponendo il sistema fichtiano, Hegel evidenzia che «[l]a filosofia deve mostrare di fatto, mediante l’effettivo sviluppo dell’oggettivo dall’io, che la molteplicità della coscienza empirica è identica alla coscienza pura e descrivere la totalità della coscienza empirica come oggettiva totalità dell’autocoscienza»71. Fichte non avrebbe conseguito tale risultato in quanto la conclusione del suo sistema non è coerente con il suo cominciamento. La sintesi che si ottiene al termine della dottrina della scienza è una sintesi solo formale, incapace di restituire una piena coincidenza di pensiero ed essere. Non possedendosi al termine della deduzione del mondo dall’io, l’identità rimane infinitamente postulata, si disperde nell’apertura infinita del sistema. Ciò delegittima la riflessione di contro al punto di vista trascendentale che la ricomprende, esso solo autenticamente scientifico. Scrive Hegel: Secondo il punto di vista trascendentale, io=io, l’io è posto in una relazione di sostanzialità o perlomeno in un rapporto di azione reciproca; invece in questa ricostruzione dell’identità, un elemento è dominante, l’altro è dominato, il soggettivo non è uguale all’oggettivo, ma stanno fra loro in un rapporto di causalità; uno dei due elementi viene posto in un rapporto di subordinazione; la sfera della necessità è subordinata a quella della libertà.72

È significativo che la critica evoliana alla via dell’Altro sia simile nella conclusione ma dissimile nello sviluppo dell’argomentazione: Hegel critica Fichte perché il soggettivo, la libertà, 71.  G.W.F. Hegel, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Id., Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, p. 43. 72.  Ivi, p. 60. Sulla critica hegeliana a Fichte si segnala il volume collettaneo L’esordio pubblico di Hegel. Per il bicentenario della Differenzschrift, a cura di M. Cingoli, Guerini e Associati, Milano 2004.

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mantiene un’eccedenza e un primato sull’oggettivo, sulla necessità; Evola critica la via dell’Altro perché il soggetto assorto nella «demiurgicità» del proprio atto tetico toglie autonomia a sé e all’oggetto. Ma Evola non può sentire questa vicinanza, troppo impegnato, in questo contesto, a polemizzare contro le dottrine dialettiche in generale. A questo livello si tratta solo di affermare il principio individuale al di qua del divenire. Ne è testimonianza il fatto che in conclusione della trattazione della via dell’Altro la stessa dialettica hegeliana viene (erroneamente, ma la ragione di tale fraintendimento apparirà subito dopo) ricondotta proprio a Fichte e alla sua schlechte Unendlichkeit. Scrive infatti Evola: Se si cerca di comprendere nel suo più reale fondamento il divenire della filosofia dello Hegel, si trova il conflitto fra finito ed infinito. La riflessione si applica ad un particolare e nello sforzo di elevarlo alla forma dell’assoluto che a lei si suppone immanente, incontra il momento negativo per il quale quello è appunto particolare: alla potenza della riflessione ogni concetto si mostra dunque inadeguato, e investito da quella, compreso, non può che cedere e trapassare in un altro in cui, mediante la negazione dialettica, il limite è respinto sempre più in là. Resta in sostanza l’idea fichtiana dell’opposizione dell’identità assoluta del «primo principio» al carattere finito proprio al «secondo principio» dei Grundlage der gesamten Wissenshaftlehre ovvero, nell’elaborazione della sua seconda filosofia, dell’«essere assoluto» alla «libertà formale».73

Hegel viene – non senza qualche evidente forzatura interpretativa – schiacciato su Fichte, la dialettica hegeliana presentata come una riproposizione della cattiva infinità fichtiana. Non si tratta ora di stabilire la bontà della lettura evoliana – sarebbe infatti facile osservare che l’intento hegeliano non è quello di 73.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 91.

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“applicare” la riflessione all’oggetto, dal momento che è proprio la riflessione a dar vita a quella soggetto-oggettività soggettiva criticata in Fichte, quanto di mostrare come, nell’oggetto, sia già agente l’Io, il pensiero74. Basti comunque dire che le ragioni del “fraintendimento” divengono più chiare nella pagina successiva a quella appena letta, quando Evola si riferisce direttamente alla prima triade della logica hegeliana. La contraddizione di essere e non essere quali categorie “pure” non può “accadere” a un dato momento, ciò che non spiegherebbe come dal puro essere “sorga” il divenire, ma deve essere originaria. L’impossibilità di pensare il puro essere si traduce immediatamente nell’intrascendibilità del rapporto oppositivo di pensante e pensato «e [nel]lo sforzo del primo a trovarsi nel secondo, il che, per ipotesi, non può che distruggere l’oggetto stesso e, nella reiterazione del movimento, svilupparlo in un infinito divenire»75. A ciò segue una precisazione di fondamentale importanza: «Il pensare il puro indeterminato, di cui parla lo Hegel, è in realtà lo sforzo del pensiero a pensare il pensante, l’individuo»76. L’individuo viene accostato al puro essere, il pensante di ogni pensato, il soggetto a cui ogni opposizione di soggetto e oggetto rimanda. Lo sforzo del pensiero di pensare l’individuale è lo sforzo di pensare il suo paradossale e impossibile “prima”. In ciò si spiega in parte lo stesso schiacciamen74.  «È qui in giuoco l’interpretazione dello stesso nucleo di Hegel: la dialettica. Per Evola, infatti, la dialettica non può ammettere l’“altro” perché porterebbe all’affermazione del dato nell’Io. In effetti egli rimprovera ad Hegel il momento dell’alienazione dello Spirito, la sua forza di guardare in faccia il negativo e di soffermarsi presso di lui. E se per Hegel questa era la forza che riusciva a volgere il negativo nell’essere, per Evola il negativo non può essere, nel senso pregnante della parola, tale: il negativo non è mai Non-Spirito ma soltanto poco-Spirito e, volgendo la questione in termini individuali, quantum di privazione» (F. Coniglione, Apoteosi del soggetto e annichilimento della corporeità in Julius Evola, cit., p. 89). 75.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 92. 76.  Ibidem.

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to della dialettica hegeliana sulla cattiva infinità fichtiana: se il pensiero sopravviene al puro essere, il movimento del pensiero non può che essere infinito, in quanto costitutivamente impossibilitato a giungere a perfetta coincidenza con l’Essere77. Ogni chiusura del circolo non può essere che «rettorica», in quanto condizionata da “ciò” che nel circolo non potrà mai rientrare78.

77.  A proposito dell’opposizione di puro essere e puro nulla, da Evola richiamata anche nei Saggi sull’idealismo magico nel contesto della discussione intorno all’irrazionalità dell’essere, inteso come l’esistere di ciò che è, scrive Donà: «Interessante è poi che, a questo proposito, Evola veda proprio nell’identificazione tra l’essere e il nulla operata dallo Hegel all’inizio della Scienza della logica, una già chiara consapevolezza del fatto che “essere” e “nulla” […] costituiscano i due volti del “medesimo” – il quale, vuoi dicendosi come essere vuoi dicendosi come nulla, mai rinuncerà, in ogni caso, a qualcosa della propria identità. Infatti, nel dirsi come distinto (o come essere o come nulla), il “medesimo” dice sempre e comunque se stesso; ovvero, quel che non sarà né essere né nulla, senza indicare peraltro qualcosa di diverso da entrambi. “Altro” dall’essere e dal nulla essendo, infatti, anche se solo dal punto di vista fenomenico, sempre e soltanto l’esserci determinato […]. Perciò l’essere di tutto ciò di cui possiamo dire che “è” parla di un esser-ci in cui, a determinarsi, non sarà mai l’essere in quanto essere. Ecco perché quello che predichiamo di ogni “determinatezza” (ovvero, il suo esistere) apparirà come un essere misterioso, non concettualizzabile, non positivamente definibile… appunto in quanto sempre originariamente “negantesi”. In quanto, a essere, in tutto quel che c’è, sarà sempre e solamente un essere che non è» (M. Donà, Jünger-Evola. La potenza del “negativo”, tra scienza e magia, in Aa. Vv., Studi evoliani 2016. Evola e la cultura tedesca, a cura di G. de Turris, D. Gianandrea e G. Sessa, Fondazione Julius Evola-Arktos, Roma-Carmagnola, 2017, pp. 64-65). Per una discussione completa di tali decisivi plessi teorici si rimanda a M. Donà, Aporia del fondamento, Mimesis, Milano-Udine 2008, soprattutto pp. 21-98. 78.  A questo livello si potrebbe rilevare un’inedita sintonia tra la lettura di Evola e quella che delle medesime pagine hegeliane è stata offerta da Bertrando Spaventa. Come ha sottolineato Vincenzo Vitiello, per il filosofo abruzzese si dà un Essere prima del pensiero, un Essere rispetto a cui «[a]nche nominarlo ‘essere’ è troppo – anche nominarlo Indeterminato è troppo: in tal modo lo si de-termina. Lo si rende ‘termine’ del pensiero […]. L’essere del pensiero, l’essere che è pensato, non è il Prius: come il Dio di Schelling

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Alla luce dell’intento evoliano di “provare l’Io”, Hegel non si discosta da Fichte giacché fallisce il tentativo del primo di «provare l’identità», secondo la formula con cui Bertrando Spaventa riassumeva l’intero sforzo hegeliano. Il dialettismo dualistico che in Fichte minacciava l’integrità dell’Io, in Hegel minaccia l’integrità e unità del concetto. D’altro canto, Evola forse non sta qui criticando Hegel, neppure quando lo nomina esplicitamente. Sta invece criticando uno Hegel già “riformato”, già letto alla luce di quella sua straordinaria radicalizzazione che è l’attualismo gentiliano. Con ciò l’individuale è postulato, posto come un “dover essere”. Laddove la parola viene inevitabilmente a mancare, non resta che rivolgersi ai simboli: dopo aver affrontato di petto, in termini speculativi, questi fondamentali luoghi del pensiero, Evola ricorre infatti al simbolismo ermetico: al divenire «come ripetizione identica di una identica situazione» fa riferimento il simbolo lunare del circolo, opposto «alla centralità e all’attualità del Sole»79. 3.4. Al di là della dialettica Si è visto che Evola intende il principio come assoluta libertà, indifferenza di porsi e non porsi. In questo senso l’opzione oggettiva (via dell’Altro) e l’opzione soggettiva (via dell’Individuo assoluto) rappresentano la sempre possibile e revocabile scelta di un Io che si è già originariamente posto. Il porsi dell’Io è totalmente incondizionato e indeducibile e solo conseguentemente a tale originario porsi può dischiudersi l’orizzonte dell’opzione trascendentale. All’inizio della trattazione relati-

“è solo a posteriori”» (V. Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia, Inschibboleth, Roma 2018, p. 228). 79.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., pp. 92-93.

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va all’opzione soggettiva, Evola pone la questione del rapporto tra le due vie: «Indicando con A e B le due direzioni, A non è dunque A (dell’opzione) se, come A, non è anche −B (o, più precisamente, se non è la sintesi dei due momenti A in quanto −B e −B in quanto A) e B non è B se, come B, non è anche −A (se non è la sintesi dei due momenti B in quanto −A e −A in quanto B)»80. Ora, qui non si sta dicendo altro che ogni opzione, per essere se stessa, deve contenere l’opzione opposta come negata, distinguersi dall’altra via, affinché l’opzione sia realmente tale81. Tale cioè da definirsi come una reale possibilità di scelta. La necessità di assumere entro di sé l’opzione oggettiva si traduce, in B (opzione soggettiva), nella posizione dell’Io come posizione dell’altro dall’Io. L’Io si pone (primo momento), l’Io si pone come ponentesi (secondo momento, opzione soggettiva), l’Io si pone come posizione del proprio altro (in ciò, le due opzioni si corrispondono, B=A). Ciò significa che in B l’oggetto posto (l’oggetto che l’Io pone) altro non è che A. Precisa Evola in nota: Per B l’unico oggetto, l’unico altro = X non può essere che A, il suo opposto, e questo lo trova necessariamente, dato che ciò che è posto sia precisamente un optare, una problematicità. Ora se B affermandosi escludesse semplicemente A, vi sarebbe in generale qualcosa che pur essendo possibile, non avrebbe valore – dal che B verrebbe senza altro contradetto.82

80.  Ivi, p. 101. 81.  «La “via dell’Altro” è un momento inscindibile dalla “via dell’Io”, le filosofie dell’Altro sono parte integrante della teoria dell’Individuo assoluto. Senza la possibilità di scegliere l’Altro, non sarebbe possibile optare per l’Io, come, in assenza dell’Io, niente Altro. Senza questa reciprocità cadrebbe l’idea di libertà incondizionata e reale su cui si regge la filosofia di Evola» (R. Melchionda, Evola e il pensiero debole, in Id., La folgore di Apollo. Scritti sull’opera di Julius Evola, a cura di R. Gordini, Cantagalli, Siena 2016, p. 49). 82.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 106, nota 1.

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Senonché tale precisazione rischia di far venir meno lo stesso fattore di distinzione tra una via e l’altra. Se la posizione di A in B è necessaria, se il soggetto in B è vincolato alla propria posizione e alla posizione dell’altro per porsi come autonomo, in cosa si distinguerebbe il soggetto descritto nella via dell’Individuo assoluto da quello tratteggiato nella via dell’Altro? Il punto è che, propriamente, le due vie non possono distinguersi. O, meglio, è solo non distinguendosi che possono distinguersi. In B il soggetto deve porsi come ponentesi, pena lo scadere immediatamente in A, opzione in cui l’Io si nega dopo essersi originariamente posto. Ma, come già precisato, nell’atto stesso del porsi in B, atto che segna il distinguersi di B da A, in questo stesso atto B si identifica ad A. Precisamente il porsi stesso dell’Io è A. Per questo Evola deve dire che l’oggetto posto in B è A. A poco giova la precisazione per cui «un possesso è inconcepibile senza un substrato di cui esso sia possesso. Il concetto di signore implica necessariamente qualcosa, di cui egli sia signore», ché tale precisazione ha come esito nient’altro che la palese smentita di ogni fattuale distinzione tra una via e l’altra. Se è vero che si può essere signori solo ammettendo l’esistenza di qualcosa di cui si è signori, in cosa si distinguerebbe, per così dire, la via del signore da quella del servo? Entrambi sarebbero vincolati a una forma di alterità che renderebbe servo l’uno e signore l’altro. Scrive Evola: «L’opposto non è che in quanto materia per il possesso: esso dunque propriamente non è che per non essere; se l’oggettivo, il cui nome è esistenza, è posto dall’Io di questa opzione – e non può non esser posto – ciò accade solamente perché l’essenza di questo si trae dalla consumazione della sua esistenza»83. L’antitesi è dunque solo per la sintesi, la materia per la sua risoluzione in forma, l’immediato per la mediazione. L’infinito che in A era rimesso a una «assorta demiurgicità», a 83.  Ivi, p. 107.

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una brama senza soddisfazione, è ora posseduto in un istante fuori della serie. In questo modo, «il principio oggettivo perde cioè aseità e il senso che aveva come A, appare vuoto del valore individuale che ora invece gli si contrappone come a una astratta condizione, la quale a sua volta dal proprio venire infranta ha la sua condizione»84. Se dunque in A l’atto soggettivo è rivolto ad altro e il soggetto vive esclusivamente per l’oggetto, in B l’oggetto, la determinazione, esprime l’atto stesso con cui l’infinito si possiede. Al fine di distinguere formalmente un atto dall’altro, inevitabilmente l’argomentazione abbandona la rigidità formale per farsi immagine: Questo atto che non è che in quanto immediatamente da sé si libera e si consuma tutto in un punto immateriale, in una «luce», si può indicare come folgorazione […]. L’infinita potenza scatenata e selvaggia di creazione, voluta assolutamente, va uno actu di là da sé, ad eccedersi nell’immobile solare e vertiginoso della dominazione, in pura distanza […]. L’«intervallo» non è più di dipendenza: il suo termine l’ha in sé stesso, lo possiede; l’assoluta fluidità vi è vinta nella funzione del limite sufficiente in cui la determinazione si redime e si consuma nell’Io, da esso congiuntavi secondo il rapporto incondizionato del valore. Nell’intervallo eccedendo dunque l’attualità, l’Io per il limite va ora di là dall’infinito, è transfinito: l’infinito, egli lo arde, lo «fissa» nel suo pugno: procedendo nella determinatezza, lo libera nell’esperienza in atto di un infinito di possesso.85

L’atto assoluto è ancora bisognoso di una materia di cui essere forma. Il fatto che la materia di tale atto sia l’atto stesso in quanto divenire dialettico, vale a dire A, poco o nulla muta il discorso. A questo livello la Teoria si interseca con la Fenomenologia, si fa vera e propria introduzione dell’itinerario fenomenologico. Il problema che si presenta è infatti quello del rapporto effettivo tra l’Io e la determinazione, la reale consu84.  Ivi, p. 108. 85.  Ivi, pp. 109-110.

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mazione della seconda nella forma assoluta dell’individuale. Prima di analizzare la struttura della Fenomenologia e studiare la peculiare dialettica che ne sta alla base, una precisazione. Si è in precedenza fatto riferimento alle due “funzioni” dell’Io, da Evola indicate come «astrazione in estensione» e «astrazione in intensità». Da quanto detto fin qui è risultato che l’astrazione estensiva è il modo di rapportarsi all’ente caratteristico di A, modalità che non consente all’Io di comprendersi nemmeno sul piano logico, giacché il pensante si vede eternamente postulato e presupposto quale condizione di possibilità (di “pensabilità”) di ogni pensato. Dall’altro lato, si sta chiarendo come l’astrazione in intensità o comprensione debba venire qualificata come l’autentico “organo” che anima la via (fenomenologia) dell’Individuo assoluto, fondata su una dialettica riformata rispetto a quella che domina A. Se ne analizzeranno ora gli aspetti principali, partendo dalle indicazioni contenute in Teoria per poi riferirsi al vero e proprio “discorso sul metodo” evoliano, vale a dire l’Introduzione alla Fenomenologia. 3.5. Fenomenologia e «coscienza filosofica» Il primo fenomenologico è condizionato da un momento di assoluto arbitrio, a partire da cui l’intero itinerario si configura come un movimento di individuazione progressiva. Nell’atto stesso del proprio porsi, l’Io «dà luogo alla determinatezza, alla categoria stessa della determinatezza in generale che poi, formaliter, coincide con quella della spontaneità», vale a dire la prima epoca fenomenologica. Se nell’opzione oggettiva la contingenza originaria è tolta nella stabilità di un divenire che è esclusivamente se stesso, l’opzione soggettiva propone un terzo momento di contingenza, dopo il momento tetico dell’Io e quello per cui l’Io si pone secondo l’opzione affermativa. È tale terzo momento a “fondare” l’intero itinerario fenomenologico. Osserva Evola nell’Introduzione:

117 In quanto basati sulla libertà, tanto l’ordine dell’opzione affermativa che quello dell’opzione negativa sono contingenti. Pertanto, dominata dall’«altro», la contingenza propria al secondo caso porta ad una assoluta indeterminabilità: rispetto alla propria possibile esperienza l’Io ne peut jurer de rien, ché con il principio di essa egli sta in un rapporto esteriore e dipendente. Non così nell’altro caso, qui la contingenza si fa positiva, è cioè quella di una libera potenza di determinare, che l’Io si appropria, e così è possibile fissare un sistema definito, assoluto, inequivocabile di forme – un sistema assolutamente certo, appunto perché è l’Io che ne determinerà, in funzione di dominio, il principio e la struttura.86

Il principio individuale dunque si “domina”, si possiede in un sistema definito di categorie. Come sono determinate tali categorie? Quale ritmo dialettico le sostiene? Evola risponde così: «L’elemento di divenire che genererà le varie categorie, nel presente ordine è positivo, individuale, concreto, libero, sintetico»87. L’intento fondamentale che muove la riflessione evoliana è qui ancora quello di defilarsi da ogni possibile ricomprensione nell’alveo di una dialettica puramente analitica o, potremmo dire, «estensiva»: La dialettica sintetica si opporrà dunque alla hegeliana per questo: che per tesi o punto di partenza prenderà un partico86.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 43. Già da ora ci si potrebbe domandare chi è l’Io di cui parla la Fenomenologia, quale sia l’autentico «protagonista» dell’itinerario fenomenologico, stante la volontà evoliana di non cedere alle astrazioni idealistiche relative a soggettività evanescenti. Una risposta insieme suggestiva e persuasiva è offerta da Lami: «Il vero protagonista delle pagine di Fenomenologia è l’uomo», per poi chiosare: «In quella stessa successione delle “tre epoche” di Fenomenologia […], lo scrittore ci parla ancora e soltanto di una riflessione personale e di una personale esperienza» (G.F. Lami, Arte e filosofia in Julius Evola, cit., p. 154). Perché questo non faccia scadere la riflessione evoliana in uno scetticismo relativista dovrebbe già risultare chiaro, avendo presente l’esigenza di certezza che muove Evola a considerare l’Io personale quale ultima istanza. 87.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 46.

118 lare inteso come qualcosa che già, sia pure incompletamente, è «essere», di contro al quale l’antitesi non sarà la sua contradizione e la sua negazione, sibbene il suo completamento, la sua integrazione, qualcosa di cui mancava così che, trapassandovi, la tesi perviene, secondo una continuità di composizione, ad un più alto grado di perfezione.88

Il carattere positivo, individuale, concreto, libero e sintetico della dialettica “riformata” che Evola eredita da Hamelin, riformandola a sua volta, intende segnare il punto di convergenza delle due “astrazioni”, estensiva e intensiva. Risulterebbe facile obiettare che tale era esattamente l’esito cui la dialettica hegeliana conduceva, venendo in essa a coincidere il movimento orizzontale “negativo” e quello verticale “positivo”: la successione logica delle categorie è, in uno, «rivelazione del profondo» nelle figure fenomenologiche; il movimento è uno e medesimo89. Si è già visto però che la stessa prospettiva hegeliana viene da Evola schiacciata su un dialettismo senza sintesi di chiara impronta fichtiana. In Evola, inoltre, affinché l’Io sia provato nella sua identità con se stesso, non basta che esso sia forma immobile ed eterna di un contenuto mutevole, dacché il mutare del contenuto finirebbe fatalmente per compromettere la stabilità della forma. Perché l’Io sia, perché consista, è necessario rimuovere il contenuto, ma questa rimozione può avvenire solo tramite un itinerario fenomenologico complesso, in cui a rendersi manifesto, a farsi superficie, non è il profon-

88.  Ivi, p. 48. 89.  «Le due relazioni – l’orizzontale: dall’io al non-io, e la verticale: dal profondo alla superficie – sono in Hegel una ed una sola relazione. O meglio: sono un solo “movimento”. L’io uscendo dalla propria radice si fa mondo, sapere e azione del mondo» (V. Vitiello, Hegel in Italia, cit., p. 88). È proprio tale doppio movimento che Evola non coglie in Hegel, riconducendo strumentalmente la sua dialettica a una forma di pura analiticità. Sul “movimento” fenomenologico hegeliano, cfr. almeno P.-J. Labarrière, Structures et mouvement dialectique dans la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, Aubier, Paris 1992.

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do che già comunque da sempre è, come nella fenomenologia hegeliana, bensì ciò che potrebbe anche non essere o, come è stato osservato, ciò che «deve poter non essere mai stato ciò che è stato; senza che ciò costringa al riconoscimento dell’insormontabile datità del già stato»90. L’individuazione di un itinerario fenomenologico in cui il fondamento trova realizzazione deve dunque venire inteso come il riconoscimento del processo che l’Io può compiere stante la dialettica della contingenza che, lungi dal condizionarlo, lo lascia essere come vuole essere. Nelle tappe dell’itinerario pratico tracciato da Evola non è allora il massimamente universale ciò che deve essere raggiunto a partire dal proprio esserci individuale; il dettame spinoziano per cui omnis determinatio est negatio viene rifiutato in nome di una riformata dialettica, il cui sviluppo lungo l’asse verticale dell’affermazione fa dell’individuale stesso il risultato del processo. Alla luce di tale impostazione metodologica, appare chiara la ragione che conduce Evola a individuare come prima tappa della fenomenologia proprio l’epoca dell’essere o spontaneità, vale a dire l’epoca dell’irriflessa adesione al mondo naturale. L’individuale è una conquista che mai potrà essere conseguita rimanendo nei limiti imposti di una ragione simpliciter dialettica, convinzione che spiega il ripiegamento di Evola verso forme di sapere magico ed esoterico dopo la pur decisiva – perché decide della successiva sua produzione – esperienza filosofica91. L’impianto teore90.  M. Donà, Un pensiero della libertà, cit., p. 17. 91.  Può forse risultare utile ricordare come in tale riaffermazione dell’individuale si avverta l’eco dell’Unico stirneriano, l’individuo che pone la sua causa su nulla, che si svincola da ogni determinazione, da ogni «proprietà». Pur rivestendo un ruolo centrale nello svincolamento dell’Io dall’astrattezza del principio idealistico (di volta in volta individuato da Evola nell’Io assoluto di Fichte, nell’Idea hegeliana e nell’atto puro gentiliano), l’Unico stirneriano permane vincolato a ciò di cui è negazione: posto che «lo Stirner dice che l’unica causa deve essere il mio e il semplice freie Genuss in quanto tale

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tico così elaborato conduce il pensatore romano a pensare l’Io come (accadere della) libertà, come il fondamento in virtù del quale tutto si fa simbolo dell’origine. Quale allora il senso complessivo della sinteticità dialettica? Risponde Evola: «sviluppo di gradi crescenti di possibilità, di potenza arbitraria e di agilità interiore da un certo sistema di rigidità e di determinazione univoca, verso il limite di una assoluta individuazione», così che «il processo si estenderà dunque simultaneamente in estensione e in comprensione»92. Per quanto riguarda il ritmo dialettico che sta alla base dell’itinerario fenomenologico, l’elemento che più di ogni altro lo contraddistingue è l’indeducibilità di ogni momento dal precedente. Questo deve essere affermato per tenere fermo il carattere assoluto e dinamico dell’atto dell’Io. A differenza della dialettica hegeliana, in cui ogni parte del processo risulta vera solo in quanto originariamente inserita nel processo stesso93, in Evola

[…] ancora una volta, si può chiedere: quale è il criterio che può garantire che una determinazione è effettivamente mia, che essa ha per fondamento il puro amore della essenza nuda dell’Io e non una eteronomia – per usare il termine stirneriano: una “ossessione”?» (J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 204). In questo senso l’Unico di Max Stirner va considerato, nell’itinerario di Evola e nella sua ricerca di un principio assoluto di mediazione, poco più che una «tappa», come ben nota Melchionda (cfr. R. Melchionda, Il volto di Dioniso, cit., pp. 199-204). 92.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 48. 93.  Nel contesto di un’accurata comparazione tra la dialettica hegeliana e la dialettica magica, di derivazione ermetica, riassumibile nel rapporto tra micro e macrocosmo, Massimo Donà ha mostrato come nella struttura della dialettica hegeliana, la parte, l’astratto, sia la manifestazione temporale di un eterno comunque già da sempre “dato”. Questo fa sì che nell’apparire della parte «a mostrarsi è sempre e solamente un Assoluto che, lungi dal contrapporsi astrattamente al modo in cui tutto quel che si manifesta, di fatto, si manifesta, si dice nel semplice non esser quel che è da parte del manifestantesi – ossia, nel suo non esser quel che, del medesimo, sempre e solamente si manifesta» (M. Donà, Hegel tra dialettica e magia. Saggio sul rapporto tra

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ogni categoria è valore a se stessa, sebbene una sequenzialità progressiva sia ravvisabile almeno a partire dalla coscienza filosofica, come subito si vedrà. Dialettica sintetica è quella che ammette non solo il sorgere spontaneo di un certo contenuto, ma della stessa forma categoriale, sì da espungere ogni residuo di analiticità. A questo livello si colloca una precisazione fondamentale. Prendendo le distanze dalla stessa impostazione hameliniana, ancora legata a un’analiticità formale, osserva Evola: Se nella tesi è determinabile a priori una privazione, se una tale privazione si può dire inerire ad essa non relativamente ma essenzialmente […], ciò che la sua particolarità chiamerà di contro e in cui potrà integrarsi sarà necessario, il processo materialiter sintetico, formaliter resterà analitico, analitico appunto per quel determinato posto vuoto presupposto nell’antecedente.94

Si tratta pertanto di eliminare anche quel «posto vuoto» quale apertura alla possibilità di accogliere un qualsiasi contenuto; solo così potrà darsi una dialettica materialiter e formaliter sintetica. La privazione non può e non deve inerire all’Io all’altezza di una categoria prima che tale categoria sia superata, essa viene eccitata al culmine della potenza di una determinata caalterità e negazione, in M. Donà - F. Valagussa [a cura di], Alterità e negazione, Inschibboleth, Roma 2019, p. 78). 94.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 49. R. Melchionda segnala come Hamelin abbia riformato la dialettica hegeliana in senso aristotelico, ed Evola lo abbia seguito in ciò. In realtà, la dialettica evoliana appare in contrasto tanto con quella hegeliana quanto con quella aristotelica se è vero che il movimento conoscitivo procede per lo stagirita (ma anche per Hegel) dal «primo per noi» al «primo per natura». L’elemento aristotelico da ravvisare in Evola è semmai relativo alla coincidenza di archè e telos, origine e fine, testimoniato dalla stessa parola ἐντελέχεια, che Aristotele utilizza per indicare l’atto, lo stare dell’ente nella propria forma compiuta e che, come ben notò Heidegger, indica il possedere in sé il proprio telos (cfr. M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della Physis. Aristotele, Fisica, B, 1, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 193-255).

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tegoria aprendo al suo superamento. È il passaggio a istituire la differenza, l’alterità e l’eventuale privazione ma esso, il passaggio, è prius assoluto, atto incondizionatamente libero tanto rispetto alla materia quanto rispetto alla forma. A proposito del movimento fenomenologico qui delineato, si è opportunamente parlato di una «dialettica non-dialettizzabile»95. Poche righe dopo quelle appena esaminate, Evola precisa ancora: Nessun determinato posto vuoto rispetto a cui non resterebbe altra alternativa fuor che riempirlo o non riempirlo. Il conseguente rimane sempre originale, radicalmente contingente ed imprevedibile rispetto all’antecedente pur essendo connettibile ad esso secondo continuità razionale dopo che la sintesi sia avvenuta.96

Ogni categoria è dunque posizione di una relazione, di un «intervallo» tra antecedente e conseguente. Il dinamismo spirituale è la progressiva (progressiva solo alla luce della connessione logica tra le categorie individuata ex post) consumazione della materia propria dell’antecedente nella forma del conseguente, fino a che «tutta la “materia” è arsa in una pura relazione di possesso»97. L’itinerario fenomenologico si articola in tre «epoche», rispettivamente denominate epoca della «spontaneità», della «personalità» e della «dominazione». Il processo dice una progressiva mediazione della funzione secondo cui l’Io si vive. Nella prima epoca esso si sperimenta secondo potenze oggettive. Solo nel momento del farsi oggetto a se stesso sorge l’Io in quanto libertà, manifestantesi dapprincipio come «persona», un che di puramente formale e ideale: «La coscienza od oggettività di sé

95.  M. Donà, Il filosofo della libertà, in M. Iacona (a cura di), Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola, Controcorrente, Napoli 2008, p. 70. 96.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 49. 97.  Ivi, p. 51.

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come rappresentante è l’ultima potenza della mediazione della libertà […]: il trapasso nel punto del puro incondizionato e il compito di una rappresentazione del rappresentante sono così una sola e medesima cosa»98. L’originaria e irriflessa adesione al mondo delle potenze naturali si completa nella posizione di un nuovo intervallo che contrappone forma e contenuto, un Io rappresentante e un Io oggetto della rappresentazione99. Dal momento che rappresentare l’Io quale soggetto rappresentante vuol dire negarlo in quanto tale, esso deve porsi come non posto: «[u]n porre come non posto correlativo all’assoluta libertà della riflessione, è dunque ciò che individua la sintesi propria alla nuova categoria»100. Evola precisa ancora che l’Io non si situa qui più dal lato formale dell’immagine che da quello materiale del rappresentato, ma è piuttosto nell’intervallo tra i due, è questo stesso intervallo. Quella che era esperienza viene ora resa oggetto di esperienza, ciò che era puro porre viene posto come non posto. Solo ponendosi come la relazione dei due termini distinti la distinzione posta non è definitiva. Come spesso accade nei testi evoliani, nei luoghi più teoreticamente cruciali il linguaggio tende a farsi massimamente evocativo: «Nel fatto bruto si può allora intendere, con il Fichte, il corpo dello stesso Assoluto – delle stesse potenze dell’essere – mediato, concluso in sé stesso, che la riflessione si oppone e distingue; epperò nella persona il trapasso, l’eccedersi degli dei»101. La medesima situazione viene così descritta in L’individuo e il divenire del mondo: 98.  Ivi, p. 87. 99.  Tale è il senso della seconda epoca fenomenologica, denominata appunto epoca della personalità o della riflessione. Come è stato osservato, «[i]n quest’epoca l’Io approfondisce il solco che lo separa dal mondo oggettivo, attua una distinzione non più poggiantesi sulle categorie dell’immediatezza (Epoca della Spontaneità) bensì attraverso le categorie dell’autocoscienza e della riflessione» (M. Fraquelli, Il filosofo proibito, cit., p. 46). 100.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 88. 101.  Ivi, p. 94.

124 in questo secondo stadio, succedente all’“epoca della spontaneità”, l’Io volge verso una autonomia e una esistenza individuale […]. Allora ciò che prima era intimo all’individuo, gli si fa straniero ed impenetrabile, ciò che la sicurezza intuitiva gli rivelava in indiscutibile evidenza si fa dubbioso, problematico. Dinnanzi all’Io sorge il non-Io, dinnanzi all’uomo la natura.102

Ora, affinché l’Assoluto sia pienamente attualizzato, questa stessa nuova opposizione deve essere tolta, conchiusa a sua volta in una categoria fenomenologica. A tal fine un ruolo di primo piano è giocato – all’interno dell’epoca della personalità – dalla categoria della moralità. In essa l’alterità è pienamente sussunta nella sfera dell’Io quale principio formale resosi indifferente rispetto a qualsivoglia contenuto. Il richiamo, esplicito, è all’imperativo categorico kantiano. Tuttavia, la coscienza morale mantiene uno scarto tra sé e la legge, per quanto tale scarto sia pienamente ricondotto nell’alveo dell’interiorità. Analogamente, nella coscienza scientifica, che segue la categoria della moralità, la dualità si vede nuovamente riproposta nella contrapposizione tra il concetto e l’esperienza. Attraverso un’accurata rassegna di alcune delle più rilevanti teorizzazioni scientifiche, Evola mostra come siano tutte comunque riconducibili alla struttura esperienza-legge scientifica, fino all’indagine scientifica «dei fenomeni del soggetto considerati oggettivamente»103: la scienza psicologica. L’integrazione di questo tipo di scienza è rappresentata dalla considerazione scientifica delle leggi storiche, giacché non è possibile prendere in esame l’uomo senza considerarlo insieme causa ed effetto di un orizzonte sociale, politico, etico. Ora, nella considerazione scientifica della storia il modello che regola tutte le altre forme di scienza non può essere replicato, giacché si ha

102.  J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 28. 103.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 141.

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adesso a che fare con un oggetto che dà forma alla propria legge e con una legge immanente al proprio oggetto. Scrive Evola: la storia in tanto è possibile, in quanto lo scienziato si fa la riflessione della storia stessa, in quanto cioè il concetto, che ha immanente il momento dell’altro, cessando di essere in sé, di viversi nell’immediata affermazione relativa alla coscienza descrivente ed osservante, si fa per sé e quindi riflessione che in quanto tale è produzione, produzione che è tale soltanto in quanto è anche riflessione.104

La forma diviene così indistinguibile dal proprio contenuto. A questo punto, due sono gli esiti possibili: o la scienza si immerge nel flusso della storia, cessando perciò stesso di definirsi scienza, oppure essa si fa scienza “che comprende se stessa oggettivamente” e allora, radicalizzando la stessa istanza scientifica, si supera nella categoria della coscienza filosofica. Che tale categoria goda di un primato nella gerarchia della successione fenomenologica è quanto risulta evidente dalle parole che chiudono la categoria stessa. Scrive infatti Evola: La presente esposizione delle categorie, in quanto esse siano assunte come significati, abbiamo detto che si trae da una riflessione della libertà secondo l’opzione affermativa. Quando invece la si assuma ad una stregua semplicemente filosofica, detta esposizione viene scomposta in due parti da un limite o centro, che è appunto la categoria della filosofia: la prima parte riprende le categorie finora descritte, che allora saranno da intendersi come gli elementi risultanti da una analisi delle condizioni di possibilità della forma filosofica stessa (filosofia teoretica); la seconda parte riprenderà l’insieme delle ulteriori categorie, che diverranno dei postulati, cioè determinazione ideale di compiti, la cui effettiva realizzazione è condizione per l’assoluto farsi sufficiente dell’Io al problema che immane nella filosofia.105

104.  Ivi, p. 142. 105.  Ivi, p. 153.

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Se osservato a partire dall’angolo visuale della filosofia, l’intero processo assume allora il connotato della necessità. Già nell’introduzione Evola aveva infatti affermato che dal punto di vista in cui il processo arde nella categoria logica, esso non potrà che perdere il tratto di contingenza che caratterizza il succedersi delle categorie nel momento del loro sorgere e superarsi. D’altro canto, trova solo ora una risposta il problema relativo alla posizione del «valore». Nel corso della trattazione della prima epoca, Evola aveva posto la questione della possibilità stessa dell’esposizione delle prime categorie, rigettando l’idea che la descrizione a priori dell’iter fenomenologico fosse resa possibile da particolari facoltà adibite alla conoscenza del “passato” dell’Io. A questo proposito, aveva chiamato nuovamente in causa il principio dell’idealità della storia, «per il quale questa non è reale che in quelle affermazioni secondo cui l’attività trascendentale si pone da un punto che, in sé, è certamente metastorico. La determinazione delle categorie allora appare semplicemente come la riflessione su un certo ordine di atti possibili della libertà»106, per poi ribadire: «Il passato viene dopo il presente, è determinato da questo e non viceversa»107. Ciò significa che prima della conquista della coscienza filosofica, l’Io vive l’essere come un bruto dato, come un che di immediato. A prescindere dalla coscienza filosofica che riprende in sé tutto il cammino precedentemente percorso dall’Io, l’epo­ca dell’adesione irriflessa alle potenze naturali (spontaneità) verrebbe “prima” dell’affermazione dell’Io, ne costituirebbe un passato irredimibile, essa si situerebbe prima del presente e non dopo esso. Per chiarire ulteriormente questo nodo problematico, passiamo alla caratterizzazione della coscienza filosofica. Funzione fondamentale di tale categoria è di far cadere il criterio della verità non più nell’oggetto, come accadeva nella coscienza scien106.  Ivi, p. 68. 107.  Ivi, p. 93.

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tifica, ma nell’attività di un soggetto ponente, nell’immanenza del concetto. Così facendo la forma compenetra il contenuto, essa è sostanzialmente prassi, attività che dando forma a se stessa insieme in-forma di sé la realtà. Il razionale perviene ad avere in sé la propria negatività, il reale. Il processo di progressiva sussunzione del reale nel concetto è esattamente l’«intervallo» in cui consiste la storia della filosofia, l’intervallo che separa la potenza dal proprio atto. Essa ha inizio con il venir meno della pienezza della conoscenza che contraddistingue non solo la mitica “età dell’oro”108, ma anche la stessa coincidenza di pensiero ed essere affermata da Parmenide. La coscienza filosofica greca sorge con lo strapparsi dell’oggettivo a se stesso, del pensiero dall’essere. Un simbolo di tale lacerazione può essere visto nel riconoscimento del legame che la verità viene a intrattenere con la reminiscenza109. Esso si accompagna alla nostalgia per la stessa “età dell’oro” e alla concezione dell’esistenza individuale quale «caduta» e «ingiustizia» (Anassimandro). Con l’affermarsi del principio razionale il concetto è posto quale organo di mediazione dell’oggettivo, strumento tramite cui «la certezza, che era essere, si fece imagine, sapere»110. Con il cristianesimo il criterio di verità è collocato nel trascendente, laddove la scolastica medievale rappresenta un tentativo di mediazione, per quanto puramente formale, di tale “altro”. La dipendenza del concetto filosofico dalla teologia diviene, nel pensiero rinascimentale, dipendenza dalla natura, il concetto si estroflette non più in direzione di Dio, ma in direzione della realtà naturale. In questo modo inizia il processo che conduce il concetto a farsi 108.  Questo della sapienza originaria che subisce una deformazione nella nascita della filosofia è un tema che Evola riprenderà nelle opere del periodo “tradizionalista”, a partire da Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 304-306. 109.  Evola rimanda in nota al significato di alétheia quale abolizione dell’oblio (cfr. J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 149, nota 39). 110.  Ivi, p. 150.

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espressione stessa del reale e che culminerà nell’idealismo. «In questa formazione della coscienza speculativa – scrive Evola – la discorsività prende definitivamente forma di sufficienza, diviene autocoscienza e ripone in sé stessa il criterio»111. Lo stesso pensiero moderno procede in direzione di una sempre più radicale affermazione dell’identità. Il concetto hegeliano trova la sua reale e storica mediazione trapassando nelle scienze esatte attraverso la sinistra hegeliana e il positivismo. Questo processo – e con esso l’intera categoria della coscienza filosofica – culmina nel momento in cui il concetto «si fa l’atto stesso del particolare e dell’empirico, onde nello sviluppo dell’esperienza oggettiva vede soltanto l’eternità della forma mediata in sé stessa e a sé stessa sufficiente – il puro universale logico»112. È a questo livello che si innesta il decisivo confronto con l’attualismo gentiliano, da Evola letto come il culmine del processo di “immanentizzazione” in cui l’intero intervallo costituito dalla storia della filosofia consiste. Per questo, e per la centralità che si è visto essere attribuita alla coscienza filosofica, il confronto con Gentile merita una trattazione a sé, cui è riservato il prossimo paragrafo.

4. L’«intervallo» dell’attualismo 4.1. Identità e immanenza Si è più volte rimandato, nel corso dell’esposizione, a una puntuale messa a tema dei rapporti speculativi tra il sistema evoliano e l’attualismo. Tale confronto, lungi dall’esser oggetto di un’arbitraria scelta, è chiamato in causa dalla stessa impalcatura sistematica della speculazione evoliana. Del resto, furono diversi i pensatori di scuola attualistica ad avvertire l’urgenza di 111.  Ivi, p. 151. 112.  Ivi, p. 152.

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un confronto diretto con il «transidealismo» di Evola, da Ugo Spirito a Antimo Negri113. Si prenderà ora in considerazione la giovanile istanza evoliana di “superamento” e “rettifica” dell’attualismo, entrando nel dettaglio della corrosiva critica del pensatore romano, elaborata lungo due binari distinti ma complementari – riconducibili rispettivamente all’ultimo dei Saggi sull’idealismo magico e ai paragrafi 18 e 19 della Fenomenologia dell’Individuo assoluto, dedicati rispettivamente alla già introdotta «coscienza filosofica» e alla «coscienza mistica» – e mostrando come tale critica svolga un ruolo di perno rispetto agli esiti più radicali della dottrina filosofica evoliana. Se è vero, come sostiene Salvatore Natoli, che «l’idealismo di Gentile è […] retto da quell’ultima necessità che regola lo svolgimento della soggettività moderna nella direzione dell’immanenza»114, altrettanto certo è che l’idealismo magico evoliano si propone di condurre tale istanza “immanentista” alle sue estreme conseguenze. La prospettiva 113.  Il primo fu autore di un’importante – e critica – recensione ai Saggi evoliani su cui si tornerà in seguito, mentre il secondo ha avuto il merito di condurre il dibattito sul transidealismo evoliano su di un piano eminentemente speculativo. Prendendo le mosse dalla stessa recensione di Spirito, Negri nel suo volume sulla filosofia di Evola corregge il tiro rispetto agli affrettati giudizi di tredici anni prima quando aveva affermato che Evola «invano cerca di uscire dall’attualismo, mescolando idealismo e niccianesimo d’annunzianeggiante», continuando però a ritenere che «la non-evasione dall’attualismo di Evola si può e si deve misurare dalla reale inanità del suo tentativo di “superarlo”» (A. Negri, Julius Evola e la filosofia, cit., p. 8). Sulle relazioni – speculative e biografiche – tra Evola e Gentile, cfr. A. Giuli, Evola-Gentile-Spirito: tracce di un incontro impossibile, in J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., pp. 241-272, cui fa seguito l’intervento di H.A. Cavallera, Giovanni Gentile, Ugo Spirito e Julius Evola: un incontro impossibile?, in Aa. Vv., Studi evoliani 2015. Nuova edizione critica de “La Crisi” di Guénon, a cura di G. de Turris, D. Gianandrea e G. Sessa, Fondazione Julius Evola-Arktos, Roma-Carmagnola 2016, pp. 124-140. 114.  S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 22-23.

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teoretica fatta valere da Evola nelle sue opere a carattere propriamente speculativo può venire interpretata come il coerente sviluppo dell’attualismo gentiliano e delle sue aporie, irrisolvibili restando all’interno del pur robusto sistema elaborato dal pensatore di Castelvetrano. Nell’ultimo dei Saggi sull’idealismo magico, dedicato, come si è visto, alle «esigenze contemporanee verso l’idealismo magico», Evola affronta di petto la filosofia gentiliana nell’intento di disvelare la profonda anima spirituale che la pervade, mettendone in evidenza da un lato i plessi teorici problematici e aporetici e dall’altro lato gli elementi validi, utili all’affermazione integrativa di un Io volto a oltrepassare la sfera meramente concettuale-gnoseologica per farsi «magico». Innanzitutto, non è azzardato affermare che Evola vede in Gentile il culmine del processo autoaffermativo dell’Io animante tutta la speculazione post-kantiana, il punto in cui «lo sforzo di abbracciare e dominare l’insieme del mondo in un principio immanente raggiunge la sua perfezione»115. “Mondo” sta qui a indicare non solo la totalità delle determinazioni esperienziali, ma la storia quale intrascendibile orizzonte dell’accadere di queste stesse determinazioni. L’atto puro gentiliano si profila infatti, nel sistema del pensatore di Castelvetrano, come l’orizzonte trascendentale che solo può dischiudere qualcosa come la storia, intesa come processo sempre rinnovantesi nell’incessante opera creatrice dell’Io. Fin dalla Teoria generale dello spirito come atto puro, Gentile afferma: «è da ben notare che non noi siamo nello spazio e nel tempo; anzi lo spazio e il tempo, tutto ciò che si spiega spazialmente e succede a grado a grado nel tempo, è in noi»116. Siamo qui di fronte alla

115.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 118. 116.  G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, in Id., L’attualismo, Bompiani, Milano 2014, p. 189.

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perfetta sintesi del carattere «trascendentale» dell’Io che per Evola rappresenta il supremo esito della coscienza filosofica. Il «punto infinito» dell’eterno presente non tramezza passato e futuro, ma li istituisce, conferisce loro forma. Ancor prima, nello scritto L’atto del pensare come atto puro Gentile scriveva: Il pensiero è, di là dal tempo, eterno. Il tempo infatti è forma di ciò che pensiamo, e però del pensiero come pensato nella sua astratta oggettività. Quando quel che pensiamo lo guardiamo nell’atto del pensarlo, tutti i punti del tempo, distinti e successivi, si fondono e contraggono in un punto unico e immoltiplicabile.117

Senonché un tale principio, per scongiurare il rischio di andare incontro a un irrimediabile esito mistico, deve poter spiegare le evidenti differenze fenomeniche che ogni semplice esperienza pur attesta. Esso si propone anzi di rendere ragione della varietà fenomenica riconducendola a un orizzonte esperienziale unitario118. La questione fondamentale con cui Gentile si scontra è dunque quella che può, con ogni probabilità, essere indicata come la questione metafisica per eccellenza: la relazione tra identità e differenza, unità e molteplicità. Tale questione assume, nell’orizzonte speculativo tracciato da Gentile nel suo poderoso Sistema di logica come teoria del conoscere, una fisionomia affatto particolare, incentrata sulla dialettica concreto-astratto. Nel citato capitolo dei Saggi Evola dapprincipio individua nel concreto – nell’unità a cui ogni distinta molteplicità si trova ine-

117.  G. Gentile, L’atto del pensare come atto puro, in Id. La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1954, pp. 190-191. 118.  Come è stato giustamente notato, con l’attualismo gentiliano «giunge a piena maturazione quel processo storico del pensiero che sulla spinta dello scarto iniziale tra le esigenze della ragione e il responso dell’esperienza, doveva dar vita al progetto filosofico occidentale» (D. Spanio, Idealismo e metafisica. Coscienza, realtà e divenire nell’attualismo gentiliano, Il Poligrafo, Padova 2003, p. 21).

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vitabilmente ricondotta – il lato propriamente problematico e aporetico del sistema gentiliano. Se ogni distinto, ogni astratto, per costituirsi, deve vedersi mediato dalla concretezza del logo, su che base siamo legittimati a distinguere una logica del concreto e una logica dell’astratto? Se al di fuori della mediazione non vi è propriamente nulla che possa esser indicato come un immediato essere (dal momento che lo stesso “indicare” il presunto immediato sarebbe pur una forma di mediazione operata dal logo), allora «il “pensato” non è nulla fuori da una logica del pensato che lo medi, la quale a sua volta è inconcepibile fuori dal processo concreto del pensare e cioè dall’attualità dello stesso pensante»119. La logica immanente all’atto richiede infatti che un astratto si dia, che si costituisca. Come potrebbe altrimenti l’atto costituirsi come tale? Come potrebbe divampare l’eterna fiamma del pensiero – per usare una metafora cara a Gentile – a prescindere dalla posizione del combustibile di cui la combustione è combustione? Posta la questione in questi termini, essa subisce una torsione che conduce inevitabilmente a spostare il focus della polemica in direzione della logica dell’astratto120. Come è stato osservato su più fronti, Gentile si trova dinanzi al problema di dare ragione dell’identità, della logica dell’identità, all’interno della logica della contraddizione121.

119.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 119. 120.  Tra i primi a cogliere la centralità problematica dell’astratto gentiliano fu Luigi Scaravelli. Nella sua tesi di laurea, discussa nel 1923, si legge: «la logica dell’astratto non ha nell’idealismo attuale una posizione di problema particolare da risolvere e quindi per la sua particolarità, astratto, ma come problema del formarsi dell’oggetto in cui si appunta la coscienza con cui si compie il ritmo autocosciente, è un problema concreto perché implica la totalità del processo spirituale» (L. Scaravelli, La logica gentiliana dell’astratto, a cura di V. Stella, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, p. 60). 121.  Cfr. V. Vitiello, Hegel in Italia, cit., in part. pp. 117-167.

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Problema messo in luce dallo stesso Evola quando osserva: Si ha allora questa situazione: da una parte il pensante o «atto puro» resta la categoria unica, capace di riprendere in sé ogni fenomeno; dall’altra bisogna cercare di dedurre da esso un principio di determinazione, onde esso rende effettivamente conto della molteplicità e diversità dei fenomeni stessi, che va ad assorbire.122

È necessario dimostrare che la logica del pensato (o astratto) gode di una certa autonomia all’interno dell’unico logo concreto. Che l’astratto, cioè, per quanto sempre concretamente considerato (considerato cioè nel momento astratto dell’unico movimento dialettico) si configuri come indipendente dal processo che lo genera. Scrive Gentile: «La logica dell’astratto è la logica del pensiero astratto, ossia del pensiero in quanto oggetto a se stesso, considerato nel momento astratto della sua oggettività, onde rinnova nel pensiero la posizione dell’essere che è puro essere»123, precisando poi: «L’essere dunque oggetto del pensiero, è l’essere identico a se stesso. Questa la legge fondamentale della logica dell’astratto: il principio d’identità»124. La difficoltà di dare ragione dell’altro dal pensiero senza uscire dal pensiero medesimo è dunque un primo nodo problematico individuato da Evola. D’altro canto, se la sua critica si arrestasse a questo punto, pur individuando senz’altro un viluppo concettuale difficile a districarsi e che mina dall’interno il sistema gentiliano, tale critica non andrebbe molto oltre i rilievi che per primo Benedetto Croce rivolse a Gentile, intravedendo nella dinamica spirituale disegnata dall’idealismo attuale il

122.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 119. 123.  G. Gentile, Sistema di logica, in Id., L’attualismo, cit., p. 487. 124.  Ivi, p. 490.

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pericolo di una deriva mistica125. È questo un aspetto di primissima importanza anche per la penetrante critica evoliana, giacché se, come si sta tentando di mostrare, è all’attualismo gentiliano che Evola si riferisce parlando dell’esito conclusivo della coscienza filosofica, non è secondario che questa sia seguita, nell’itinerario fenomenologico tracciato da Evola, dalla «coscienza mistica». Nella polemica gentiliana contro il misticismo, che trova sistematica esposizione nell’ultimo capitolo della Teoria generale, certamente opera in Gentile una ben radicata avversione a ogni forma di conoscenza immediata o intuitiva126. Il “cattivo” misticismo viene da Gentile ricondotto a un intellettualismo presupponente il proprio oggetto al pensiero, dacché «la realtà assoluta del mistico non è soggetto, ma oggetto»127, laddove invece risolvendo nell’atto del pensare (che è poi quel che si dice filosofia) tutta la realtà naturale e storica, non s’intende propriamente d’un assorbimento unico, e in massa, di tutta codesta realtà, ma dell’eterna risoluzione di essa, che si dispiega per 125.  Cfr. E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900/1943. Quindici anni dopo 1945/1960, 2 voll., Laterza, Bari 1966, vol. I, pp. 44-53. È ancora Vitiello a evidenziare l’incomprensione, da parte di Croce, del tentativo che Gentile compie nel Sistema di Logica: «Nel recensire l’opera Croce non pare accorgersi della novità, dello sforzo di Gentile di rispondere al problema che lui stesso nel ’13 gli aveva posto, quello della deduzione dell’astratto» (V. Vitiello, Hegel in Italia, cit., p. 132). Per una panoramica dei rapporti anche biografici tra Croce e Gentile cfr. l’ormai classico J. Jacobelli, Croce e Gentile. Dal sodalizio al dramma, Rizzoli, Milano 1989. 126.  Che la critica all’intuito sia fattore decisivo nella stessa genesi dell’attualismo è quanto dimostra con persuasività d’accenti Del Noce, il quale riconduce tale critica al magistero jajano di Gentile (cfr. A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1990, pp. 17-37). 127.  G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, in Id., L’attualismo, cit., p. 318. Una profonda lettura del misticismo nell’idealismo attuale si trova in G. Sasso, Sul misticismo, in Id., Filosofia e idealismo, vol. II, Giovanni Gentile, Bibliopolis, Napoli 1995, pp. 425-451.

135 tutte le forme che l’esperienza ci addita nel mondo: esperienza che, dal punto di vista metafisico, è l’infinita genitrice di una genitura infinita, in cui si realizza. Non c’è la natura, né la storia; ma, sempre, questa natura, questa storia, in questo atto spirituale.128

D’altro canto, questa natura e questa storia esauriscono tutto ciò che può essere detto natura e storia, la realtà nel suo complesso si dà convegno nell’eterno atto del suo essere pensata. Scrive ancora Gentile: «La mèra molteplicità appartiene sempre al contenuto della coscienza astrattamente considerato; e in realtà è sempre risoluta nell’unità dell’Io. La vera storia non è quella che si spiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell’eterno dell’atto del pensare»129. Le differenze fenomeniche non sono pertanto consegnate all’immobile fissità dell’assoluto mistico, ma a un dialettismo che le salvaguarda, il pensiero pensante essendo tutto e pienamente presente nel suo (essere) pensato. Evola, dal canto suo, comprende appieno la dialettica gentiliana, mettendone in risalto il paradossale movimento, non riconducibile a una concezione del divenire inteso come “semplice” trapasso nel nulla da parte dell’essere e di un “entificarsi” da parte del nulla. Gentile sa bene infatti che, nel movimento dialettico dell’atto, a essere fatto essere è sempre quell’essere che è solo non essendo e che non è solo essendo130. Senonché Evola rimprovera a Gentile di non offrire nessuna giustificazione intorno al perché lo spirito debba divenire, debba farsi eternamente altro. L’atto non può giustificare sé medesimo, non può farsi padrone della sua legge, sì che la pretesa spiritualizzazione della natura si rivela, in verità, nient’altro che una naturalizzazione dello spirito. Scrive Evola:

128.  Ivi, p. 324. 129.  Ivi, p. 326. 130.  Cfr. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., p. 423.

136 In altre parole, del divenire in Gentile si trova una semplice esposizione, non una deduzione trascendentale, il senso di esso non risulta in alcun modo; esso resta un essere di fatto, non un essere di diritto e la necessità che gli si connette apoditticamente non può provenire allora che da una suggestione empirica. Risulta cioè che di qua dalla Logica sta un problema di valore, che però dal Gentile è affatto trascurato.131

Così formulata, la critica che Evola rivolge a Gentile può nuovamente apparire affetta da un grave limite, giacché se essa consiste nella semplice accusa di aver reso natura lo spirito, Gentile potrebbe avere buon gioco a replicare che tale è esattamente l’esito verso cui egli intende condurre l’idealismo, inverandolo nell’attualismo e lasciandosi definitivamente alle spalle l’astrattezza della dialettica hegeliana, valida come spiegazione del divenire ma ancora lungi dalla sua concreta realizzazione132. Il risultato verso cui l’intera «riforma» gentiliana è indirizzata è infatti il disvelamento della verità secondo la quale il processo del farsi natura da parte dello spirito è lo stesso movimento attraverso il quale è la natura stessa a venire spiritualizzata133. Tale, del resto, il significato della «prassi», al centro della riflessione gentiliana fin dai giovanili studi su Marx134.

131.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 120. 132.  Come sottolinea E. Severino, Gentile critica l’idealismo classico tedesco principalmente perché esso «intende il pensiero stesso come qualcosa di presupposto al pensiero attuale, ossia come un “Io”, o un “Assoluto”, o uno “Spirito assoluto” che precedono e sono indipendenti da questo nostro attuale pensare, che dunque non può che “ripensare”, “riflettere” (nachdenken, dice Hegel) sul “pensare” (denken) così presupposto» (E. Severino, Attualismo e storia dell’occidente, in G. Gentile, L’attualismo, cit., p. 31). 133.  Sviluppando questo asse tematico, Antimo Negri ha parlato dell’attualismo come vera e propria filosofia della natura (cfr. A. Negri, L’inquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Le Lettere, Firenze 1992, pp. 183-210). 134.  Nel secondo di tali studi si legge infatti: «La prassi è attività creatrice, per cui verum et factum convertuntur. È sviluppo necessario, perché procede

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Senonché l’incapacità dello spirito di giustificare il proprio movimento indicherebbe la sopravvivenza di una residuale immediatezza che porta al naufragio dello stesso principio di distinzione che intendeva salvaguardare il movimento dello spirito da qualsivoglia deriva mistica. Ciò che Evola pare suggerire è che è solo nell’identità assoluta del differenziarsi dialettico che, propriamente, i distinti (o, dovremmo dire, quelli che pur appaiono come distinti) non si differenziano. In questa paradossale identità naufraga il pensiero quale principio di ogni mediazione evocato dalla riflessione gentiliana, il cui risultato viene dunque profilandosi come un misticismo radicale rispetto al quale perfino l’Assoluto schellinghiano – quell’identità da Hegel paragonata a una “notte in cui tutte le vacche sono nere” – «diviene luce meridiana»135. Tutto ciò non perché l’atto non riesca a costituirsi come tale, beninteso. È nel momento della sua affermazione che l’Io si rivela impotente, in quello del suo agire che si scopre patente. È solo alla luce di questa pur parziale conclusione che si può comprendere l’altro “lato” della critica di Evola all’attualismo e l’istanza del suo (mai definitivo)136 superamento.

dalla natura dell’attività, e s’appunta nell’oggetto, correlato e prodotto dell’attività» (G. Gentile, La filosofia di Marx, Le Lettere, Firenze 2003, p. 87). 135.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 128. Massimo Cacciari ha opportunamente ricordato come sia Gentile stesso ad avvertire il carattere intimamente mistico della propria proposta speculativa: «Mistica, per lui, è la profonda religiosità dell’attualismo – non semplicemente in quanto il pensiero in atto, che nulla presuppone fuori di sé, che tutto ha in sé e da sé produce, è l’assoluto Iniziante, ma in quanto nella sua dimensione più profonda “abita” l’Ignoto» (M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, p. 433). 136.  Sul significato di tale “non definitività” si gioca gran parte della filosofia evoliana, come si è tentato di mostrare nei paragrafi precedenti.

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4.2. Il pensabile non è tutto Torniamo ora alle pagine di Fenomenologia dell’Individuo assoluto dedicate alla «coscienza filosofica» come categoria ultima dell’«epoca della personalità»137, in cui, come si è visto, Evola traccia un breve itinerario di quello che a suo modo di vedere è stato il processo di progressiva “immanentizzazione” operato dalla filosofia nel corso del suo sviluppo storico. A parere di Evola, l’assorbimento hegeliano del «caos al di fuori del sistema» – che ancora inquietava la filosofia critica kantiana – all’interno dell’abbraccio del concetto rappresenta un passo decisivo nel procedere della medesima istanza critica. Come già anticipato, Evola concepisce la filosofia come l’«in­ tervallo» in cui la totalità della storia viene ridotta a unità, come ciò che conferisce certezza alla storia aprendo un varco per il costituirsi di una vera e propria teoria scientifica della storia stessa. Da ciò deriva la concezione evoliana del rapporto tra filosofia e storia secondo i concetti aristotelici di potenza e atto: nella storia è immanente la potenza della sua riduzione a concetto, vale a dire la potenza della filosofia, laddove quest’ultima rappresenta «l’atto della storia, il punto in cui questa si raccoglie ed arde tutta in una pura trasparenza intellettuale»138. Ora, ciò che il pensatore romano chiama in queste pagine «idealismo assoluto» viene descritto come il luogo «ove il concetto […] si fa l’atto stesso del particolare e dell’empirico, onde nello sviluppo dell’esperienza oggettiva vede soltanto l’eterni-

137.  In realtà, nel sistema-itinerario tracciato da Evola, la coscienza filosofica è seguita dalla coscienza mistica e dall’arte pura. Senonché, come già notava Melchionda, è per certi versi legittimo intendere queste due come tappe inscritte in un movimento che può essere contratto nel passaggio dalla coscienza filosofica, realizzata nel misticismo, alla compiuta affermazione dell’individuale (cfr. R. Melchionda, Il volto di Dioniso, cit., p. 115). 138.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 147.

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tà della forma mediata in sé stessa e a sé stessa sufficiente – il puro universale logico»139. L’obiettivo che qui Evola si propone è di scardinare tanto la dialettica hegeliana quanto l’atto gentiliano, ultima concreta realizzazione della coscienza filosofica ed estrinsecazione massima del senso del trascendentale, quale «principio attuale dell’esperienza oggettiva in genere, v.d. il pensante di ogni pensare»140. Senonché tale principio non può che vedersi sempre nella sua forma spuria, determinato e racchiuso nelle maglie del concetto, dunque postulato da qualsivoglia determinazione concettuale volta ad affermarlo. L’istanza critica dunque, nel suo punto di massima tensione e radicalità, evoca il postulato dell’orizzonte dell’immediato quale irriducibile alla sfera logico-discorsiva del pensare, assumendo esso i tratti insieme del telos e del Sollen, facendone il supremo compito dell’Io. Scrive Evola: Il termine ideale della filosofia è possibile soltanto come correlativo al valore dell’incondizionato, del principio che, come principio del pensare, non può, esso, venire ripreso sotto alcuna legge – epperò è infinito; che, come principio del pensare, non può, esso, venir fatto oggetto di un pensare in senso stretto, di quel dedurre e costruire di cui era quistione all’interno della categoria filosofica – epperò è eterologico; che, come principio di ogni mediazione, non può essere che un immediato. Di là dalla correlazione, la sintesi: la forma dell’incondizionato e dell’eterologico deve essere la condizione in cui si risolve quella assoluta, ideale unità, alla quale prima era sufficiente il concetto come Io trascendentale. La categoria, in cui il principio della persona risolve in immanenza il punto dell’eslege e dell’infinito, sia pure mantenuto, in conformità al momento dell’antecedente, nel valore dell’assoluto necessario, della più profonda radice dell’oggettività, si può indicare quale mistica.141 139.  Ivi, p. 152. 140.  Ivi, p. 153. 141.  Ivi, p. 154 (corsivo mio).

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Questa pagina della Fenomenologia evoliana può essere intesa come l’esposizione sistematica del fallimento del progetto gentiliano di fondare il pensiero dal proprio interno, di rendere ragione del logo senza cedere a ciò che sta prima o oltre esso142. Le differenti dialettiche elaborate da Gentile negli anni della stesura della Teoria generale e del Sistema di Logica – le dialettiche pensante-pensato prima e concreto-astratto poi – altro non stanno a rappresentare se non lo sforzo di dare ragione dello sviluppo del pensiero senza presupporvi nemmeno il pensiero stesso, ciò che pare condurre il pensatore siciliano, nel passaggio da una dialettica all’altra, a un mero spostamento del problema e non alla sua risoluzione. Alla fine della sezione del Sistema di logica dedicata alla logica dell’astratto, Gentile afferma apertamente che se l’astratto, il concetto colto nella sua staticità, è la materia del pensiero, quel combustibile a prescindere dal quale la fiamma del pensiero attuale non potrebbe divampare, esso tuttavia non esaurisce il reale: «Il concetto è molto, ma non è tutto; e se si volesse assumere come tutto, esso perderebbe il suo valore, e non sarebbe più niente»143. Come a dire: esso è tutto il pensabile, ma il pensabile non è tutto. Né vale avanzare l’ipotesi che ciò che precede ed eccede l’orizzonte del pensabile sia, in Gentile, il pensante quale soggetto del conoscere, giacché la relazione conoscitiva in cui consiste la verità del Logo è tale da porre i propri termini senza presupporli, sì che l’oggetto quale factum altro non è se non momento del soggettivo facere. Un porre mai quieto, mai domo, tale da far rassomigliare lo spirito al fanciullo che 142.  Su tale fondamentale questione, declinata nei termini del rapporto tra immediatezza e negazione, si vedano le puntuali osservazioni di M. Donà, Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile, Inschibboleth, Roma 2018, pp. 17-42. 143.  G. Gentile, Sistema di logica, cit., p. 581.

141 non fa se non per disfare; […] Eterno insoddisfatto di tutte le cose, perché niente, che sia una cosa, pareggia l’infinita realtà che gli germoglia impetuosa di dentro; e pur volto sempre alle cose, e in esso distratto e distolto da ogni riflessione, poiché il soggetto vive nell’oggetto che genera e da cui si nutre, come il Kronos del mito, divoratore de’ suoi figli.144

D’altro canto, il fatto che Gentile chiuda in questo modo aporetico la logica dell’astratto suggerisce che lo sviluppo di tale aporia debba essere ricercato nella terza parte del Sistema, vale a dire nella logica del concreto. Ivi Gentile precisa che la molteplicità pertiene all’astratto, essendo la modalità di darsi del pensiero quale pensato (di volta in volta pensato nella varietà delle sue manifestazioni, epperò molteplice). Da questo punto di vista il pensante quale irriducibile alla sfera del «pensabile» assume gli sfuggenti tratti dell’Uno145. Non l’Uno della tradizione neoplatonica, costitutivamente oltre ogni sua possibile determinazione e quindi da ultimo riconducibile a una alterità, per quanto “ineffabile” (epèkeina tes ousias, diceva già Platone), ma l’Uno che può dirsi solo ed esclusivamente nelle sue determinazioni (pur restando in qualche modo inevitabilmente di là da esse, consentendo di concepire la molteplicità come una molteplicità), nella sua eterna negazione, vita del molteplice. Tuttavia in questo modo l’aporia, nonché risolta, viene riproposta a un livello ulteriore. Il divenire si dimostra incapace di afferrare il proprio principio nella misura in cui si rinchiude in una «prigione senza muri»146 da cui non è in alcun 144.  Ivi, p. 582. 145.  Sull’impossibilità del pensante di pensarsi in quanto tale, cfr. M Donà, Sapersi non sapendo. Gentile e Socrate: di una sorprendente continuità, in F. Croci (a cura di), La logica non è tutto. Rileggendo Giovanni Gentile, Inschibboleth, Roma 2016, ora in M. Donà, Un pensiero sublime, cit., pp. 139-162. 146.  Tale espressione verrà utilizzata da Evola in Cavalcare la tigre in riferimento alla libertà “negativa” così come essa viene caratterizzata dagli esistenzialisti, specialmente da Sartre (cfr. J. Evola, Cavalcare la tigre, cit.,

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modo possibile evadere, in accordo con il principio gentiliano per cui «la coscienza non si pone se non come una sfera il cui raggio è infinito»147. Appare ora chiaro il motivo in virtù del quale per Evola il principio del pensare, di cui Gentile vuole restituire non solo l’eterno movimento ma la legge che regola questo stesso movimento, non può che essere eslege. Esso è infinito, immediato, eterologico. È l’individuale quale assoluta libertà, non riducibile alla mera spontaneità dell’atto gentiliano. Del resto, l’impossibilità di costringere il fondamento nelle strette maglie di qualsivoglia legge era già stata in qualche misura intuita da Gentile stesso, basti pensare all’affermazione secondo la quale il principio unitriadico che spadroneggia nel campo dell’astratto rimette le proprie armi al concreto. L’identità di A con non-A respinta dal logo astratto rappresenta altresì «la legge immanente del logo concreto»148. D’altro canto, il concreto così come viene caratterizzato da Gentile, in alcun modo può rappresentare una negazione reale del principio di

pp. 82-84). Analoghe critiche all’esistenzialismo si trovano nella seconda edizione di Teoria (cfr. J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1973], cit., pp. 75-76). 147.  G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 104. 148.  Ora, che questo sia il punto più debole del pur straordinario Sistema di logica è già stato osservato da Vincenzo Vitiello, il quale ha tra l’altro mostrato come la distinzione tra un astratto sottoposto al principio di non contraddizione e un concreto svincolato da esso principio non tenga: «Infatti, quando [Gentile] osserva che “Io = Io” non è riducibile ad “A = A”, perché l’“Io”, ponendo se stesso, è piuttosto “= non-Io”, è facile replicare che lo stesso si può ripetere, pari pari, per “A = A”. Come s’è detto, l’uguaglianza dei due “A” non toglie la loro differenza; se la togliesse non ci sarebbe più giudizio. Pertanto “A=A” è propriamente “A = non-A”» (V. Vitiello, Hegel in Italia, cit., p. 139). Un interessante sviluppo di tali decisivi plessi teorici si trova in G. Goria, L’occulta necessità della proposizione: Gentile, Scaravelli e la logica dell’astratto, in «Il Pensiero», LIII, n. 1-2, 2014, pp. 79-100.

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non contraddizione149. Può, al più, esserne la declinazione originaria, avvalorarne l’intrascendibilità. Tale è infatti la legge del concreto in Gentile che, lungi dal negare il principio, ne rappresenta l’affermazione più radicale: il pensiero – il pensiero pensante, s’intende – è se stesso, ma lo è solo nel suo sviluppo storico, nel suo divenire, vale a dire non essendo mai se stesso. Suprema contraddizione che proprio in quanto tale manifesta il suo reverente rispetto del principio, della legge somma del pensare (che si rivela dunque anche legge dell’essere). Non può certamente essere questo il luogo di una discussione – che voglia avere una pur minima pretesa di esaustività – della formulazione gentiliana del principio di non contraddizione. Basti rilevare che l’immediato A, di cui qualsivoglia concetto è negazione, è esattamente ciò che dice la non contraddittorietà del concetto stesso, ogni giudizio A = A istituendosi come originaria mediazione dell’immediato. Ciò significa che qualcosa come un immediato, puro nome privo di contenuto semantico, può essere concepito solo nell’orizzonte – dominato dal principio di non contraddizione – dell’astratto, come suo paradossale “prima”. Qui entra in gioco l’eterologico eslege di cui parla Evola. Parlando di sé, il pensiero parla in realtà sempre di altro, parla di ciò che lo fonda e sostanzia. Il fondamento incondizionato del pensiero logico-discorsivo non può sottostare alle medesime leggi cui tale pensiero è sottomesso, «neppure a quella legge determinata che vorrebbe imporgli di determinarsi come necessariamente “incondizionato”. Come incondizionato piuttosto che come condizionato»150. Un’ulteriore approssimazione 149.  Per quanto concerne il senso di una negazione non riducibile alla forma non contraddittoria di ogni dire, cfr. M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004. 150.  M. Donà, Evola e la filosofia, in G. de Turris [a cura di], Julius Evola e la sua eredità culturale, cit., p. 43.

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a tale principio può avvenire considerando le conseguenze etiche di questo discorso, vale a dire attraversando il problema del rapporto tra volontà e legge in Gentile e tra libertà e spontaneità in Evola. 4.3. Pensare e volere Attraversando questi luoghi del pensiero gentiliano non ci siamo discostati dalla critica di Evola, né abbiamo mosso un passo oltre la categoria fenomenologica della «coscienza filosofica». Tale digressione si rivela necessaria riflettendo sul carattere dirimente che Evola riserva a tale categoria. Si è visto che l’immanentismo gentiliano revoca in dubbio la stessa autosufficienza del pensiero filosofico chiamando in causa un «eterologico eslege» coincidente con il «problema di valore» che si situa «al di qua della Logica». Coerentemente con le premesse gentiliane, tale problema coinvolge la stessa dimensione etica in cui si converte l’atto unitario del pensare. Ha scritto in proposito Vincenzo Vitiello: Gentile, coerentemente con l’impostazione data al rapporto concreto-astratto, riporta la legge sotto il dominio della libertà, fa della libertà il soggetto attivo della legge. Il soggetto è libero non in quanto rispetta la legge facendola sua, ma in quanto pone egli la legge. Il richiamo a Kant e all’autonomia del volere morale viene spontaneo. Ma in Kant la legge si identifica con il volere morale nel senso che essa, la legge, lo costituisce, ne è la base e il fondamento, l’essenza. La legge è per Kant lo stesso volere razionale puro. Gentile inverte i termini: non la legge è il volere, ma il volere la legge […]. L’autoctisi libera il volere da qualsiasi base e condizione. La necessità della legge, incondizionata condizione in Kant, è condizione condizionata in Gentile, per il quale la libertà è il Prius.151

151.  V. Vitiello, Hegel in Italia, cit., pp. 136-137.

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Esiste dunque una profonda continuità nella cesura e una discontinuità nella permanenza che la riflessione del pensatore siciliano manifesta rispetto al nesso pratico tra volontà e legge originariamente istituito dalla riflessione kantiana. Gentile assume e radicalizza l’istanza “autonomista” fatta valere da Kant, instaurando e definendo un circolo tra la libera volontà dell’Io, l’atto puro, e la legge in cui tale volontà si estrinseca. La centralità della questione si spiega considerando che il rapporto tra volontà e legge in Gentile è ciò che decide della libertà dell’Io: «La libertà e la legge disgiunte son dunque due semplici fatti esanimi. La loro vita e il loro valore scaturiscono dal loro nesso; e buona è la volontà che si conforma alla legge, e buona la legge in quanto forma attuale della volontà concreta»152. Osserva a tal proposito Vitiello: «Ciò che distingue l’atto libero dal mero arbitrio è la legge. La legge obbliga, lega cioè la volontà ad un determinato comportamento. La legge dà coerenza all’agire libero, impedisce la sua dispersione»153. Il fatto è che per Gentile autentica libertà può esservi solo nella perfetta coincidenza della libertà con il suo opposto. Nell’atto conoscitivo-volitivo il soggetto può dirsi libero in quanto la sua attività da nulla di estraneo si trova condizionata. D’altro canto, tale incondizionatezza deve vedersi in qualche modo limitata per poter essere reale. L’oggetto in cui il soggetto si risolve limita il soggetto, lo condiziona, lo necessita, ma solo in questo modo l’atto volitivo può in Gentile toccare «il solido terreno del reale»154. La vita dialettica dello spirito è dunque tale da dire la propria libertà solo nella sua negazione, nel suo autolimitarsi oggettivandosi in un imperativo, il quale però non «offende o menoma la libertà come un qualunque principio di legislazione eteronoma, 152.  G. Gentile, Sistema di logica, cit., p. 666. 153.  V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, ETS, Pisa 2009, p. 42. 154.  G. Gentile, Sistema di logica, cit., p. 434.

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perché la differenza del non-Io dall’Io è la determinazione dialettica della loro medesimezza; e infatti nel non-Io l’Io non fa che attuare sé stesso»155. La potenza negativa dell’atto puro travolge dunque qualsivoglia «così fu»156, negandolo quale presupposto naturalistico. Eppure, lo sguardo onnicomprensivo del pensiero lascia necessariamente fuori di sé qualcosa, permane un residuo di oggettività non “redenta”. È in questo varco che si incunea la critica evoliana. Tale residuo è infatti per Evola la legge stessa dell’Io, che si costituisce come l’unico passato non riconducibile alla presente attualità trascendentale del pensiero stesso, residuo naturalistico che la pur pre-potente dinamica negativa del principio non sa ricomprendere. Ora, Evola riconduce tale limite del sistema di Gentile alla matrice “spinoziana” di tutta la tradizione idealista, segnatamente a un modo di concepire il principio come causa sui, libera in quanto incondizionata rispetto ad altro, non spiegabile mediante il rimando a cause superiori o precedenti. Senonché tale libertà, riconducibile da ultimo a nient’altro che a una incon155.  Ivi, p. 665. 156.  Già Emanuele Severino aveva messo in evidenza il limite costitutivo del concetto gentiliano di volontà. In relazione al comandamento nietzscheano di «volere a ritroso», evocato da Zarathustra in uno dei capitoli più densi e commentati del capolavoro del pensatore di Röcken, Severino mostra come, a differenza del superuomo nietzscheano, l’Io di Gentile rimanga intrinsecamente vincolato al proprio «così fu», il presunto atto creativo dello Spirito assumendo così il volto di un atto «ri-creativo», libero in virtù dell’autonomia del suo volere ma necessitato rispetto al proprio divenire dialettico, alla sua legge interna. La tesi di Severino è che le prospettive di Nietzsche e Gentile si integrino vicendevolmente: se è stato il primo a mostrare «il senso autentico della suprema potenza del pensiero e cioè che la potenza suprema è la volontà che vuole l’eterno ritorno di tutte le cose», è il secondo «a mostrare il senso autentico dell’attualità che compete all’attimo attuale in cui la volontà di potenza del superuomo si tiene dinanzi manifesta la totalità dell’ente nel suo divenire» (E. Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999, p. 396).

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dizionatezza esterna, non riesce a escludere ogni possibile vincolo interno, quale la necessità di essere (come per la sostanza di Spinoza) o quella di divenire (è il caso dell’atto di Gentile). Per Evola è sufficiente volgere lo sguardo all’esistenza concreta per comprendere l’astrattezza di un tale concetto di libertà, dal nostro denotato come «spontaneità»: da un lato l’assenza di coercizione esterna può conciliarsi con la necessità, dall’altro la presenza di leggi esterne universali e necessarie non vieta che si possa mantenere di fronte ad esse una interna libertà. In una nota delle pagine finali della Fenomenologia dell’Individuo assoluto, Evola significativamente torna sul tema riguardante il modo di concepire la categoria di possibilità in Spinoza, sostenendo che «per lui la possibilità di attuare un dato elemento è tutt’uno con l’impossibilità di non attuarlo». Dio dunque attuerebbe tutto ciò che è in suo potere proprio in quanto non impedito da alcunché in tale sua realizzazione. Senonché, a una tale posizione si potrebbe obiettare: che cosa potrebbe impedirlo a non attuare ciò che dipende soltanto da lui che sia o no? Infatti, o si toglie al concetto di «potere» il contenuto proprio identificandolo a quello di «dovere», müssen, ovvero bisogna intendervi l’indifferenza del Sì e del No, rompibile soltanto da una affermazione che è a sé stessa, come pura contingenza, la propria ragione sufficiente. F.W.J. Schelling […] nota giustamente che ciò che può soltanto essere e anche non essere (come l’atto puro aristotelico e la sostanza spinoziana), esclude ogni potenza ed ogni libertà: è ciò che esiste senza potenza – è l’essere impotente.157

Da questo angolo visuale, la critica di Evola a Gentile sembra porsi su un binario parallelo e corrispondente a quella avanzata da Schelling nei confronti di Spinoza. Ancora una volta il tentativo è di liberare la volontà da qualsiasi suo possibile con157.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., pp. 225-226, nota 17.

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dizionamento, ivi compresa la sua stessa “necessaria” libertà158. La legge dialettica rimane, per l’atto che la esprime, un contenuto, ciò che impedisce a Gentile di tener fede al principio del «formalismo assoluto»159. 158.  Va comunque rilevata una certa oscillazione nella concezione della «potenza» in Evola. Se da un lato egli sottopone a critica lo “spinozismo” idealistico che fa della possibilità e dell’impossibilità-di-non un tutt’uno, d’altra parte mette in discussione che di autentica libertà si possa parlare là dove questa venga letta a partire dalla «potenza razionale» aristotelica, ridotta dunque a una possibilità-di che è, in uno, possibilità-di-non. La nostra impressione è che tale oscillazione risulti dalla messa in relazione di piani diversi dell’itinerario fenomenologico. La critica alla concezione “spinoziana” di libertà fa valere il carattere arbitrario dell’inizio del processo, là dove l’irriducibilità della potenza individuale alla mera possibilità-di viene letta a partire dal guadagno dell’atto assoluto, cioè dall’ultima epoca fenomenologica. Torneremo sul tema nelle ultime pagine del presente capitolo. 159.  In una arcinota recensione ai Saggi evoliani, dapprima pubblicata sul «Giornale critico di filosofia italiana» (1927), poi inserita nell’opera spiritiana del 1930 L’idealismo italiano e i suoi critici e infine opportunamente collocata dai curatori dell’opera evoliana in appendice all’ultima edizione dei Saggi, Ugo Spirito affronta di petto la proposta evoliana. È bene qui soffermarsi un istante su questo importante testo. Afferma Spirito: «Il dualismo di gnoseologia ed etica può esistere soltanto per chi si fermi alle porte dell’idea­lismo attuale e non ne sappia cogliere l’esigenza fondamentale […]. O l’Evola conviene che essere e conoscere si identificano, e allora non può non dare a questa identificazione un significato pratico; o un significato pratico all’identità non vuol riconoscere, e allora non deve illudersi di poter aderire alla tesi gnoseologica» (U. Spirito, Rassegna di studi sull’idealismo attuale, in J. Evola, Saggi sull’idea­lismo magico, cit., p. 191). L’argomento di Spirito è chiarissimo. Se Evola pensa effettivamente il suo idealismo magico come compimento, inveramento, dell’attualismo, vuol dire che dell’attualismo deve accettare gli assunti, compreso quello dell’identità di pensiero e vita, conoscenza e realtà; ma, in tal modo, sembra perdere completamente senso la stessa pretesa evoliana di innalzare l’Io trascendentale gentiliano al rango di Io magico, l’atto del primo essendo “gnoseologico” e “reale” insieme. Melchionda ha messo in evidenza come Spirito rimanga vittima di talune incomprensioni relative all’idealismo magico evoliano dovute alla mancata presa in considerazione della «dottrina del contingentismo trascendentale», vale a dire della dottrina affermante la duplice possibilità di rapportarsi al non-Io da parte dell’Io.

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4.4. L’arbitrario come valore La sfida di cui Evola intende farsi carico consiste dunque nello scardinare il dispositivo dialettico di matrice spinoziana per il quale può esservi libertà solo laddove essa si concretizzi nell’oggettività di una legge160. A tale finalità è indirizzata la distinzione – ribadita a più riprese da Evola – tra spontaneità e libertà (o volontà libera) e a cui è di fatto consacrata l’intera sezione VII di Teoria dell’Individuo assoluto. Ivi si legge: l’idealismo assoluto espone il trapasso naturale in termini di pensiero e in ciò pretende che la possibilità e la ragione di esso restino senza altro spiegate. Ma, in verità, non ne è niente: finché ci si tenga al piano del razionale, finché ci si tenga a quel concetto di processo, che si è presupposto, il trapasso

La partita si gioca daccapo sulla questione della libertà, che Evola pervicacemente si ostina a non inserire in circolo con la necessità, al modo idealistico. La libertà rappresenta per Evola l’autentica origine che rende possibile l’affermazione della stessa identità di pensare e volere cui l’attualismo con gran fatica giunge. Il punto è che ogni istante dello sviluppo spirituale di cui l’attualismo rappresenta una tappa fondamentale è reso possibile da un atto di assoluta libertà e non può che riattualizzare quella stessa origine. Osserva Melchionda: «L’idealismo che egli [Evola] accoglie è quello che si è già sviluppato in transidealismo, che si è integrato nell’idealismo pratico. La fase iniziale non è affatto l’identificazione di ragione e mondo, di ragione e volontà propria dell’attualismo, ma questa identificazione già venuta in contatto con la soggettività assoluta, e quindi nuovamente dissociata: da una parte, il nuovo e vero assoluto; dall’altra, l’atto che è mondo. Fenomenologicamente, è la coscienza che, distaccatasi dalla autocoscienza idealistica, “scopre” la propria impotenza fattuale nello stesso punto in cui “scopre” la propria infinita potenza possibile» (R. Melchionda, I due idealismi di Evola e Spirito, in Id., La folgore di Apollo, cit., p. 28). 160.  A tal proposito Donà osserva che per Evola «la vera libertà […] è dunque quella che non culmina nello svolgimento di qualcosa come “un destino”. Che è poi il senso del “dialettico” hegeliano. Dove nulla sarebbe potuto diventare altro da quello che è venuto ad essere» (M. Donà, L’arte dal punto di vista dell’idealismo magico, cit., pp. 51-52).

150 portato all’interno del pensiero resta mistero così come lo era nella natura.161

Va da sé che tale movimento conduce il principio evoliano a farsi pericolosamente prossimo a un’idea di libertà intesa come puro, assoluto arbitrio, precedente ed eccedente qualsivoglia sua possibile determinazione. Senonché Evola rifiuta recisamente la possibilità che la libertà possa essere ridotta a concetto o a «pensato», tanto che l’arbitrario, da un punto di vista formale, va inteso «come l’unità e l’indifferenza di arbitrario e non arbitrario»162. Rimanendo all’interno dell’orizzonte puramente discorsivo, come accade all’attualismo gentiliano, tale principio mantiene lo statuto di postulato, di dover-essere163. In ciò si rivela l’incapacità del logos filosofico di consistere e di assumere l’arbitrario quale principio di concreta potenza magica. Tale con-sistere – traducibile come l’istanza che conduce a possedere in sé il fondamento del proprio stare – richiede il libero e creativo sfogo dell’amplesso cosmico, frenato dall’idea­lismo assoluto nell’infeconda autoreferenzialità dell’atto discorsivo. L’attualismo assume in questo contesto i tratti dell’intervallo che conduce, per i motivi illustrati nei precedenti paragrafi, al momento eminentemente mistico della coscienza, al contatto diretto con l’incondizionato, ciò che lo rende – dal punto di vista fenomenologico – l’«estremo avamposto del pensiero 161.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 163. 162.  Ivi, p. 130. 163.  Osserva A. Giuli: «Si tratta per Evola di rifiutare la gentiliana identità di libertà e necessità, per riconoscere lo statuto contingente di ogni legge che, in quanto tale, deve presupporre un legislatore condizionante, ossia un Io concepito come norma sui. Perché ciò sia possibile, il discorso filosofico necessita di un trapasso che trascenda la coscienza logico-discorsiva, nella dimensione dello spirito» (A. Giuli, Evola-Gentile-Spirito: tracce di un incontro impossibile, cit., p. 248).

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astratto moderno»164. La verità della filosofia tout court è dunque la religione; essa, a sua volta, ha per oggetto «il sovrannaturale, nel senso di ciò che è superiore alle leggi, che è capace di arbitrio, di “miracolo”, di compimento di quel che rispetto ad un certo sistema di determinazioni appare come assurdo o impossibile»165. L’intervallo della mistica è la realtà di tale impossibile, la compenetrazione di forma e contenuto, il superamento del dualismo di soggetto e oggetto. Se il fondamento dell’intero itinerario fenomenologico è la libertà come possibilità assoluta, tale fondamento, nella coscienza mistica, si rovescia in assoluta impossibilità, nell’esser possibile dell’impossibile, nell’essere del nulla: «Credo quia absurdum», aghatana-patîyasi (= ciò per cui l’impossibile è reso possibile) – questo è l’elemento proprio all’oggetto religioso in quanto tale – che dunque costituisce una categoria e un valore a sé, distinto sia da quello filosofico che da quello scientifico. «Io credo» significa: l’impossibile È possibile, tutto quel che è non è da sé, quel che non è trascende infinitamente ciò che è, e questo non-essere È.166

Senonché la compenetrazione di soggetto e oggetto che ha luogo nella coscienza mistica rimane vincolata a una passività di fondo che fa sì che sia il contenuto dell’estasi mistica a prevalere sulla forma. Essa si distingue dalla «prassi cosmica», dal momento che «[n]on vi è rapimento d’estasi così assoluto, che l’estatico non torni a risvegliarsi alla propria carne»167. Tale risveglio corrisponde allo «stupefatto fenomenismo» cui abbiamo visto andare inevitabilmente incontro la prospettiva attualista. La coscienza mistica non corrisponde a un attivo possesso di 164.  L’espressione è di G. Sessa, Julius Evola e Andrea Emo: l’eco della negazione nel ’900, in Id., Julius Evola e l’utopia della Tradizione, cit., p. 88. 165.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 156. 166.  Ivi, pp. 156-157. 167.  Ivi, p. 157.

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Dio, ma a un passivo esser posseduti, a un creare in se stessi il vuoto per accogliere il trascendente. «Ora – osserva Evola – nell’esperienza mistica l’oggettività è allo stato incondizionato, il che vuol dire: allo stato che comprende la possibilità della sua crisi, la libertà di trascendersi, di passare in altro – in altro, ossia nel soggettivo»168. Con tale possibilità è aperto il passaggio alla categoria dell’arte pura, transito che riconduce alla fine del primo capitolo del presente lavoro. Tale categoria segna il punto in cui l’Io non necessita più di una natura fuori di sé su cui imporsi secondo valore. Nell’arte, l’Io si reimpossessa progressivamente e mediatamente dell’assoluto mistico. Pertanto, la forma perviene a piena sufficienza, consuma ogni contenuto in indifferenza e libertà e la persona si afferma assolutamente, attualizzando il principio che soggiace all’intera seconda epoca fenomenologica. La libertà assoluta si ricongiunge così all’indifferenza originaria, il «mondo» è pienamente consumato nell’Io quale principio formale e ideale, dunque pienamente «moralizzato» e ricondotto a libertà. Afferma Evola in nota: «In forma sintetica, si può dire che il dato e la necessità apparenti in vario modo nell’intera seconda epoca sono la ratio cognoscendi dell’arbitrio, il quale tuttavia ne resta la ratio essendi»169. A questo livello si situa la netta presa di posizione di Evola, ribadita in tutti i suoi scritti teoretici, rispetto al «solipsismo». Lungi dal rappresentarne il catastrofico esito, esso costituisce il valore fondamentale cui il movimento che culmina nell’Individuo assoluto aspira170. 168.  Ivi, p. 159. 169.  Ivi, p. 177, nota 62. 170.  Su tale assunzione “positiva” del solipsismo si appunta buona parte delle critiche di parte “neoidealista” piovute sulla dottrina evoliana. Melchionda sottolinea che il «cosiddetto solipsismo» è per Evola «non già quella temibile aporia che tutti paventano, ma la condizione per accedere a una visione autenticamente spirituale, puramente metafisica, non distratta e inquinata da considerazioni sensistiche e da preoccupazioni di ordine morale e sociale»,

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Una volta risolta in libertà la totalità del reale si pone infatti il problema di non poco momento di conservare tale libertà, fare in modo che non si dissipi. Senonché ogni determinazione che potesse racchiuderla e conservarla, ogni legge, è stata superata in quanto residuo di oggettività non redenta. L’Io non ha nulla e nessuno di contro a sé, nulla su cui esercitare il proprio conquistato dominio. In questo frangente l’Io vive l’assoluta solitudine, il mondo è nient’altro che privazione e oscurità, la “realtà” è stéresis, ad essa non viene riconosciuta alcuna positività171. Afferma Evola in L’individuo e il divenire del mondo: «Gli altri Io, in quanto sono “altri”, non sono “Io”, bensì dei particolari contenuti, presenti nella mia esperienza – dunque degli oggetti, dei “conosciuti”, al più il concetto di un conoscente e di un soggetto, non il soggetto, non il conoscente quale è in sé stesso (cioè: come autoesperienza), ché, come tale, esso è unico e incomunicabile»172.

ricordando la provocatoria definizione evoliana di solipsismo come «spauracchio dei semifilosofi» (R. Melchionda, La filosofia di Evola in rapporto alla restante sua opera e alla odierna battaglia culturale, in Id., La folgore di Apollo, cit., p. 45). 171.  Rispetto alla dottrina della «privazione», da Evola chiamata in causa per escludere che ciò di cui l’Io non è causa abbia altre cause fuori dall’Io, è stato criticamente osservato: «il nostro avrebbe anche potuto evitare di riferirsi alla “privazione”, stante che nulla di positivo poteva venire sostituito al me di cui si stava appunto riconoscendo il non-esser causa. Infatti, se nulla può venire sostituito al mio esser causa di una determinata cosa, se non v’è un’altra causa (implicitamente indicata dal non esserne io, la causa) che non sia io, la negazione in questione non priverà mai la cosa di una causa (ché privare è sempre sottrarre qualcosa a qualcuno, da parte di qualcun altro). ‘Privare’, infatti, significa escludere qualcosa dal possesso di qualcuno. Ma come potrei, là dove mi accorgessi di non essere me stesso, senza essere qualcos’altro… come potrei riconoscermi privo di quel “me” indipendentemente dal quale non avrei mai potuto farmi sua negazione?» (M. Donà, Prefazione. Evola e la musica, cit., p. 18). 172.  J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 31.

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5. Individuo assoluto e riacquisto del mondo Molti equivoci sorti attorno al pensiero evoliano sono nati dalla convinzione che il punto testé raggiunto, quello del «solipsismo», fosse l’ultima istanza del sistema dell’Individuo assoluto173. In realtà, come risulta evidente dalle pagine dedicate all’«In­ dividualità» (§ 21 della Fenomenologia), tale condizione di solitudine assoluta è funzionale a un riacquisto del mondo secondo la funzione di potenza. Scrive Evola: In correlazione alla perfezione dell’essere, si ha la perfezione della riflessione, la forma che ha risolto del tutto l’«altro» e si è fatta interamente sufficiente a sé medesima. Ma come la perfezione dell’essere implica il suo passar di là da sé, così pure accadrà per la perfezione della riflessione, che ne è il correlativo nell’ordine formale.174

Così come al termine della prima epoca una nuova antitesi sorgeva dal porsi dell’Io come non posto, e l’essere veniva contrapposto alla riflessione che progressivamente lo mediava e

173.  A una complessivamente positiva considerazione dell’opera evoliana (che lo aveva portato, nel 1931, a inserire un brano di Evola nell’Italien-Heft della rivista «Logos»), Guido Calogero associa una critica fondata proprio su questo punto: se «[p]ochi come l’Evola hanno […] compreso con tanta nettezza come la più moderna soluzione idealistica del problema dell’essere e del conoscere esiga la totale, integrale, incondizionata, negazione di ogni “realtà” ed “oggettività” di fronte o in seno alla consapevolezza dell’io, e come […] quella resistenza e stabilità delle “cose”, che tradizionalmente genera l’idea della loro realtà […] possa quindi essere spiegata solo in sede di filosofia della pratica, come ostacolo contrapposto alla volontà […], [q]uel che bensì l’Evola non vede, è come tale ostacolo sia poi la base stessa dell’azione, la quale si attua sì tanto più quanto più rimuove quell’ostacolo modificando il reale, ma neppure potrebbe mai attuarsi se esso sempre non ci fosse, a fornirle la base di partenza evitandole di brancolare nel nulla» (G. Calogero, Come ci si orienta nel pensiero contemporaneo? Con un’appendice sulla filosofia italiana del dopoguerra, Sansoni, Firenze 1940, p. 58). 174.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 165.

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riconduceva a sé, ora al contrario «il superato è la forma, il superante è il punto dell’essere»175. L’Io riflessivo, riconducendo a sé ogni alterità, ha dato vita a un circolo chiuso e infrangibile. Senonché, internamente a tale circolo, l’Io deve vedere contrapposto a sé un nuovo «essere». Esso deve essere «ciò che nella forma l’Io può porre come negazione della forma. Ma il carattere della forma è la pura libertà; ne segue che ciò a cui nell’assoluta riflessione, nel suo estremo possesso, la persona si contrappone, è la necessità»176. Solo al termine del processo di radicale “scepsi” in cui le prime due epoche fenomenologiche consistono, la realtà può sorgere di contro all’Io nella sua “innocente” necessità177. Il mondo appare ora come il puro “non” dell’Io; il reale non può infatti venire inteso come contrapposto a una qualsiasi “essenza”, dal momento che ciò riproporrebbe un dualismo ormai superato con l’aver ricondotto ogni possibile essenza alla pura formalità dell’Io. Essenza ed esistenza non devono pertanto venire intese come distinte sul piano qualitativo o, si dica pure, «estensivo», ma unicamente come gradi diversi di affermazione «intensiva». Scrive Evola: che un oggetto di cui si sia interamente penetrato ciò che è, sia, il nudo fatto del suo “esser là” come oggetto reale, ciò costitui­ sce un punto che sfugge interamente alla spiegazione razio175.  Ivi, p. 166. 176.  Ibidem. 177.  Sulla componente “scettica” della postura evoliana, Franco Volpi ha sottolineato che nell’idealismo magico «la annihilatio mundi con cui l’idealista classico azzera la realtà del mondo esterno, per poterla ricostruire in forza dell’Io quale unico principio creatore, perde il carattere fittizio di semplice esperimento mentale, e diventa un vero e proprio processo di demolizione. Si tratta al tempo stesso di un cammino di iniziazione, che passa per tre prove “pratiche”», che sono rispettivamente la «prova del fuoco», della «sofferenza» e dell’«amore» (F. Volpi, L’idealismo dimenticato del giovane Julius Evola, cit., p. 15).

156 nale, è un αλογος – e principio esplicativo ad esso adeguato è non il concetto, bensì la volontà o, per meglio dire, la potenza. Infatti, il puro essere delle cose costituisce per me un mistero fin quando esso ha il carattere di bruto dato, di qualcosa che è là senza partecipazione del mio volere, imponendosi anzi secondo violenza a questo; breve: come una privazione della mia attività. Mentre l’essenza posso pensarla e quindi “costruirla”, l’esistenza semplicemente la patisco – e per questo mi costituisce una oscurità.178

In Teoria lo stesso concetto è espresso come segue: all’essenza, al «che cosa è» di una data realtà, principio esplicativo è il concetto. Quando il concetto riesca a costruire geneticamente la cosa in tutte le note che la individuano, l’istanza esplicativa nell’ordine dell’essenza è esaurita. Tuttavia che un oggetto, di cui si sia interamente penetrato «ciò che è», sia, il fatto nudo del suo «esserci» come oggetto reale, ciò costituisce un punto che sfugge interamente alla spiegazione concettuale, è qualcosa dinnanzi a cui la logica si arresta.179

La costruzione storico-genetica delle condizioni che rendono possibile la determinatezza rappresenta un primo momento nel cammino che conduce al pieno «dominio». Tale è l’estremo “umano” del sapere. Il culmine dell’affermazione della volontà di certezza si traduce nel riconoscimento del «mistero» dell’esistenza. Certo, l’esigenza di certezza deve (nel senso del Sollen) spingersi oltre tale riconoscimento e ricondurre la stessa nuda esistenza al criterio extrafilosofico dell’individuale in quanto pura volontà. Ma ciò non significa annullarla, ché così facendo la libertà dell’Io rimarrebbe eternamente condannata a essere quella libertà che essa è. D’altro canto, l’individuale non può nemmeno essere considerato un criterio esterno di causazione di una ek-sistenza, come Evola precisa in una im178.  J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 39. 179.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 293.

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portante nota di Teoria180, giacché in tal modo sarebbe daccapo riprodotto il dualismo che si vuole invece superare. Solo aprendosi all’irruzione dell’essere, della necessità, la libertà può confermarsi quale assoluta possibilità, in accordo con le premesse della Teoria evoliana. Riconfigurandosi come esperienza pura svincolata dalla forma essenziale-rappresentativa, l’esperienza magica restituisce il senso di un agire non più orientato secondo scopi e significati determinati, ma gratuito e libero. Due sono allora gli esiti – apparentemente contrapposti ma intimamente solidali – di tale consumazione del reale nell’attualità dell’Io: da un lato la divinizzazione dell’Io stesso (si è opportunamente parlato in proposito di «apoteosi del soggetto»181), dall’altro lato il dischiudersi di un nuovo senso della natura, non più vissuta secondo la forma della rappresentazione, ma ricondotta alla propria originaria potenza, solo ora perfettamente “attualizzata”. Ora la «tenebra» rappresentata dall’impotenza dell’Io è risolta in atto. «Di una tale tenebra, – scrive Evola – di una tale privazione, la libertà è l’atto e la fiamma luminosa; e il mondo diviene»182. Si riporta ora una pagina in cui tale “passaggio” è riassunto con accenti evocativi e quasi lirici: Questa assoluta coscienza implica una distinzione ulteriore, e però porta al punto superiore della libertà come potenza rea­ le, rispetto a cui si fa non-essere, privazione, necessità, tutto ciò che, secondo il suo tempo, come forma o idealità, era essere, vita, libertà. Un principio di insufficienza reale si riaf180.  Cfr. ivi, p. 295, nota 1. 181.  Il riferimento è al già più volte evocato articolo di F. Coniglione, Apoteosi del soggetto e annichilimento della corporeità in Julius Evola, cit. Sul tema, seppur con uno sguardo più “esoterico”, cfr. anche. H.T. Hakl, Deification as a Core Theme in Julius Evola’s Esoteric Works, in «Correspondences», VI, n. 2, 2018, pp. 145-171. 182.  J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 38.

158 ferma dunque dentro l’ordine chiuso della sufficienza ideale; un nuovo mondo si strappa dall’Io e gli resiste, ed egli si trova in nuda affermazione, privo di ogni sostegno, in mezzo ad una natura che gli è affatto straniera ed altra, benché sia da lui riconosciuta, in virtù della mediazione che questa stessa affermazione presuppone, come null’altro che lui, come suo corpo, come la sua stessa sostanza e condizione. […] Solamente quando l’esperienza oggettiva si è interamente svolta, e alla persona viene suggerita dalla discorsività la coscienza dell’autonomia, sgorga la separazione netta e l’antitesi, e ciò che era «dato» e semplice «altro», diviene il non essere mortale e nemico all’Io. Essere, quando la persona era il nonessere di una semplice idealità, la natura diviene non-­essere rispetto alla persona conquistantesi nel valore della sufficienza ad un principio reale. Ma questa nascita dell’antitetico non è una violenza: tale non era alla personalità, perché mancava il termine, in relazione a cui essa potesse risultare tale; tale non è all’individuo, poiché questo ora è assoluta riflessione, e vede l’oscurità trasparente di luce: egli ha la coscienza che essa diviene soltanto da una libertà che si strappa dalla propria sostanza e rinnega ciò che nelle sue potenze formali ha costruito; egli prende interamente su sé la responsabilità del proprio atto e non vuole rimettere a chicchessia il peso. Egli è dunque sufficiente alla privazione – nata da lui, causata dal suo proprio, sovrannaturale valore di individuo, egli ora l’assume con gioia e vi riconosce la materia dalla quale soltanto potrà trarre una vita e una realtà assolute. Vano bagliore sperduto nel deserto tenebroso e sconfinato della necessità e della privazione, l’individuale sa pertanto che in quella luce è la ragione e condizione di un tale ordine, l’atto, il τέλος a cui tutto il resto, come muta potenza, si appende.183

Con la terza e ultima epoca fenomenologica l’Io si fa atto, pieno possesso di sé. Tale atto, come si legge alla fine del passo appena citato, è ciò «a cui tutto il resto, come muta potenza,

183.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., pp. 167-168.

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si appende». È questo atto, corrispondente alla piena e reale coincidenza di finito e infinito, che dovrebbe, nell’orizzonte di pensiero disegnato da Evola, spiegare l’idealismo, risolvendo al contempo le aporie che minacciano, sul piano logico, lo stesso sistema evoliano in quanto sistema filosofico. Una volta che il criterio logico sia stato pienamente assorbito dall’imporsi della potenza, la prova per l’Io diviene unicamente pratica. In una nota di L’individuo e il divenire del mondo Evola lo afferma in maniera nettissima: La spiegazione che l’idealismo magico esige […] è una spiegazione mediante l’azione, una spiegazione risolutiva: è explicare, ossia attuare, rendere perfetto: far passare in atto ciò che è in potenza, in perfezione ciò che è imperfezione, in sufficienza ciò che è insufficienza, secondo un processo sintetico, originale, creatore. Questa è la sola, vera spiegazione. Il resto è passatempo.184

Certo, questa suona come una rinuncia a mostrare la necessità logica secondo la quale l’idealismo dialettico deve essere superato nella forma compiuta dell’idealismo magico; necessità che, come si è visto all’inizio del presente capitolo, era una delle condizioni affinché se ne potesse dare una autentica «deduzione». Da un lato Evola sembra dunque affermare la necessità che l’idealismo magico dimostri anche secondo il criterio logico la necessità del superamento dell’idealismo dialettico, dall’altro riconosce che sulla base dello stesso criterio il primo non può che venire postulato dal secondo, venendo così rimessa totalmente al criterio della potenza la de-cisione dalla filosofia. È questa, ci pare, una ambiguità che rimane irrisolta nell’orizzonte speculativo evoliano. Del resto, se l’atto magico non fosse in grado di mostrare la necessità anche logica dell’oltrepassamento del dispositivo filosofico-rappresentativo rimarrebbe,

184.  J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 37, nota 6.

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almeno rispetto a tale necessità, impotente, incapace di mediarla e ricomprenderla185. Da questo angolo visuale, la costruzione di una “forma pura”, che si è visto essere il cuore dell’operazione filosofica evoliana, rappresenta il limite che segna la postulazione dell’atto magico. Nella prospettiva in esame, tale atto accade se accade, ha in sé la propria intima ragione e corrisponde al giungere a perfetto congiungimento della volontà originaria con se stessa. Scrive Evola: l’idealismo lo supera – cioè: lo completa – chi riconduce l’«es­ sere», il fattore intensivo di ogni rappresentazione, all’unica individuale volontà; quando invece si esteriori e reifichi ciò che è semplicemente una deficienza di tale volontà in una «volontà della natura» o in «altre» volontà, si passa dall’ordine del positivismo critico a quello dell’astratto ipotetico e del dogmatico – congiunzione, questa, che l’idealismo, almeno secondo la sua esigenza, ha sorpassata.186

Come è stato osservato da Massimo Donà, si tratta di dimostrare la possibilità «di una pura iniziativa della libertà», capace di farsi irrazionale fondamento di ogni espressione del proprio razionalistico logicizzare. Da ciò la possibilità dello stesso radicale superamento, di natura ineluttabilmente «magica» ed iniziatica, di ogni oggettualità e di ogni concettualità. Un superamento in cui queste ultime troverebbero il loro stesso naturale 185.  Inoltre, se il criterio logico venisse pienamente assorbito in quello “magico”, non si spiegherebbe gran parte della critica di Evola a Gentile, critica che, come si è visto, finisce per rimproverare all’attualismo di non aver fornito una adeguata deduzione del divenire dialettico. Appare dunque un poco forzato il giudizio di Melchionda secondo cui «il riconoscimento dell’antinomia presente nell’attualismo serve soltanto da battistrada all’argomento decisivo, serve a mostrare i limiti invalicabili della filosofia […], ed a predisporre il terreno per l’eventuale suo superamento» (R. Melchionda, I due idealismi di Evola e Spirito, cit., p. 27). 186.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 322.

161 prolungamento, ovvero il ritrovamento reale del centro di un Io ormai «libero» e dispiegantesi in conformità al puro potere evocativo del principio magico dell’analogia.187

Si è detto che l’esito cui l’itinerario fenomenologico si apre nella sua ultima epoca («epoca del dominio») è un riacquisto dell’esistente in quanto potenza magica. A tale operazione di «rifidanzamento col mondo»188 può anzitutto essere ricondotto L’uomo come potenza, testo che dà voce al lato propriamente “operativo” del sistema filosofico evoliano attraverso lo studio della teoria e della pratica della dottrina orientale dei Tantra189. 187.  M. Donà, Un pensiero della libertà, cit., p. 31. 188.  L’espressione è utilizzata da K. Löwith per descrivere l’operazione nietzscheana (cfr. K. Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, a cura di O. Franceschelli, Donzelli, Roma 2018, pp. 121-150). 189.  Il testo nella sua versione originale, pubblicata nel 1926, porta il sottotitolo I Tantra nella loro metafisica e nei loro metodi di autorealizzazione magica. Va segnalato che, a livello squisitamente teorico, l’indagine evoliana appare significativamente segnata da una prepotente “occidentalizzazione” della dottrina in esame (con esiti simili a quelli della prima edizione del Tao, di cui ci siamo occupati nel primo capitolo). Per questo motivo, nonostante l’eccentricità della materia d’indagine, il testo sui Tantra può pienamente essere fatto rientrare all’interno del sistema dell’Individuo assoluto. Di questa opinione è l’orientalista N. D’Anna, che sostiene la tesi secondo cui il volume in questione «mostra alcuni limiti dottrinali evidenti scaturiti dal sottofondo culturale “europeo” cui ancora Evola dava grande importanza», riconoscendo comunque «il valore innovativo del libro di Evola e la sua capacità di indicare le basi metafisiche di un complesso rituale e dottrinale che gli Orientalisti dell’epoca consideravano alla stregua di una specie di perversione sessuale» (N. D’Anna, Tra Oriente e Occidente, in M. Iacona [a cura di], Il Maestro della Tradizione, cit., pp. 136-137). M. De Martino ribadisce la distanza abissale presente tra il testo del ’26 e la sua revisione degli ultimi anni Trenta che porterà alla pubblicazione, nel 1949, di Lo Yoga della potenza: «Il libro della metà degli anni Venti è fondamentalmente un tentativo riuscito di assimilare il tantrismo nella filosofia dell’idealismo, nella fattispecie magico» (M. De Martino, Tantra e Idealismo magico, ovvero East and West, in J. Evola, L’uomo come potenza, cit., p. VII). Gian Franco Lami ha giustamente evidenziato che se L’uomo come potenza «indica la strada del

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Senza entrare nel dettaglio della peculiare lettura che Evola ne fornisce, si procede a metterne in risalto alcuni elementi significativi e utili per la presente indagine. Nel primo capitolo dell’opera, dedicato a Lo spirito dei Tantra in relazione ad Oriente e Occidente, Evola si preoccupa di far scemare le infondate convinzioni di chi vede nelle dottrine orientali poco più che l’espressione di una cultura affatto “contemplativa” comunque rivolta a negare qualsiasi verità al mondo, liquidato come «mâyâ, non-realtà, illusione». Di fronte ad esso, due sono gli atteggiamenti possibili: il primo corrisponde alla negazione del mondo in quanto sua esclusione, «secondo una esclusione intollerante che significa annichilazione, piatto dissolvimento di ogni forma». Dall’altro lato il mondo può essere negato nella sua semplice alterità, «fino a non vivervi più che l’espressione della propria potenza»190. Anche in questo caso – scrive Evola – il mondo è negato, è fatto inesistente, ma negato solamente in quanto è qualcosa di «altro» e di antitetico; è invece affermato, assolutamente e nell’infinità stessa delle sue concrete determinazioni, in quanto corpo in cui si manifesta e trionfa la potenza dell’Io […], nei çakti-tantra […] si ha una dottrina del mondo come potenza così elaborata ed organica, che ancora in Europa di qualcosa de-condizionamento, per questo offrendo un modello di vita, che non può che apparire “differenziato” rispetto alla normalità, il criterio logico proposto dall’autore non si allontana, nella sostanza, dal sistema tracciato al tempo di Fenomenologia» (G.F. Lami, Arte e filosofia in Julius Evola, cit., p. 160). In sostanziale accordo con Lami, Coniglione sottolinea che «[i]n questo volume è evidente come ancora il cammino nel pensiero non sia stato da Evola del tutto rifiutato: questo deve portare di là di se stesso, ma non senza prima avere attraversato tutti i suoi territori. L’Oriente, da questo punto di vista, non è la negazione dell’Occidente, ma deve rappresentare una sua integrazione, un completamento di ciò che esso ha già realizzato. E se il razionale non è l’‘ultima istanza’, ciò non significa che esso possa essere saltato a piè pari» (F. Coniglione, Tradizione e orientalismo, cit., p. 196). 190.  J. Evola, L’uomo come potenza, cit., p. 27.

163 di simile – se si fa astrazione da Nietzsche – non si ha nemmeno il sospetto.191

L’invito ad “astrarre” da Nietzsche risulta tutt’altro che peregrino, se si riflette sul fatto che in analoghi – e decisivi – luoghi della produzione filosofica evoliana il richiamo al pensatore tedesco si fa quanto mai urgente. Se ne tratterà brevemente in apertura del terzo capitolo. Basti ora sottolineare che Evola intravede nei Tantra una dottrina capace di rimettere alla potenza l’esigenza di certezza che fonda l’intera speculazione occidentale, in particolare idealistica. Va rilevato che Evola si riferisce al principio-guida del sistema dei Tantra utilizzando una formula troppo specifica perché il suo impiego possa essere considerato casuale o poco ragionato: «pragmatismo trascendentale»192. La formula apparteneva al lessico filosofico di Adriano Tilgher, autore verso il quale Evola manifesterà un vivo interesse anche una volta esauritasi la fase propriamente filosofica della sua evoluzione intellettuale193. Nella riduzione 191.  Ibidem. 192.  Ivi, p. 33. La medesima espressione viene utilizzata da Evola nel 1927 in un articolo su Il valore dell’occultismo nella cultura contemporanea apparso su «Bilychnis» nel 1927 (ora in J. Evola, I saggi di Bilychnis, cit., pp. 67-90). 193.  L’interessante epistolario tra i due è stato pubblicato nel sito della Fondazione Julius Evola. Ma cfr. anche G.F. Lami, Per una lettura dell’epistolario Evola-Tilgher, in «Futuro presente», n. 6, 1995, pp. 71-78. Di Tilgher cfr. la raccolta di saggi Teoria del pragmatismo trascendentale, Bocca, Torino 1915, testo in cui il filosofo di Resina prova ad allontanarsi dal magistero crociano mediante quella che può essere considerata – ben oltre le intenzioni dello stesso autore – una originale rilettura del non ancora pienamente elaborato attualismo gentiliano. Proprio Lami mette in luce la necessità di un confronto tra Evola e Tilgher che non si limiti al solo piano biografico ma che scandagli in profondità i movimenti speculativi che agitano le loro dirompenti reazioni al gentilianesimo. Lami spiega così il brusco allontanamento dei due: «Evola, in qualche modo, [fu] ricondotto nel territorio gentiliano, di un idealismo “prassista”, anche se affidato alle tentazioni “irrazionali” dell’individuo, proiettato verso la realtà di un mitico passato. Tilgher, emblematicamente sospinto al salvataggio di un crocianesimo (laico), rimasto vittima dell’insidia

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dell’ontologia all’etica operata da Tilgher, il pensatore romano vede un passo in direzione di quella «integrazione» dell’idealismo di cui egli stesso intende farsi latore. Senonché l’affermazione pratica dell’Io rimane, nel pragmatismo tilgheriano, al livello di Sollen, di puro dover essere, in accordo con l’insegnamento fichtiano194. Scrive Evola: «Dover essere – dice Tilgher – è il principio di una volontà che non ha per criterio nessun oggetto particolare, ma invece soltanto sé stessa, al di sopra di ogni impulso sensibile. Ottimamente. Ma se è così, di grazia, perché parlare di un “dover essere”? Che senso ha un dovere per la volontà autarca, signora assoluta di sé stessa?»195. Mutuando ancora il lessico della critica di Hegel a Fichte, si potrebbe dire che la prassi trascendentale teorizzata da Tilgher si mantiene al livello di una soggetto-oggettività solo soggettiva, senza riuscire a coincidere perfettamente con il divenire cosmico del mondo. A partire da questo angolo visuale, può essere penetrato fino in fondo il senso del passaggio evoliano dalla filosofia alla magia. Il farsi azione magica da parte del pensiero filosofico non sancisce in alcun modo la definitiva sortita dalla filosofia. La de-cisione dalla filosofia è de-cisione della filosofia, la quale diventa altro rimanendo se stessa, realizzando praticamente la verità dell’atto gentiliano che dichiarava l’esser storicista» (G.F. Lami, Per una lettura dell’epistolario Evola-Tilgher, cit., p. 78). Di recente, Roberto Esposito ha individuato in Tilgher e nella sua riflessione su vita e forma una anticipazione di taluni temi costitutivi del cosiddetto Italian Thought (cfr. R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2016, pp. 165-166). Per un completo inquadramento del pensiero di Tilgher, cfr. le informatissime monografie di G.F. Lami, Introduzione a Adriano Tilgher. L’idealismo critico e l’uomo integrale del XX secolo, Giuffrè, Milano 1990, e R. Faraone, Adriano Tilgher. Tra idealismo e filosofie della vita, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005. 194.  Si ricordi che Tilgher aveva tradotto, nel 1910, la Dottrina della scienza fichtiana per la collana “Classici di filosofia” dell’editore Laterza. 195.  J. Evola, La filosofia di Adriano Tilgher, in Id., L’idealismo realistico (1924-1928), cit., p. 136.

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se stesso del pensiero essendo sempre altro da sé, senza tuttavia conseguire attivamente tale verità. Il fatto che l’attualismo venga collocato al limite superiore della seconda epoca fenomenologica, che rappresenti questo stesso limite, suggerisce che nella prospettiva evoliana le aporie dell’attualismo sono i confini invalicabili di una ragione filosofica condannata a essere unicamente ciò che è. L’identità rimane presupposta a sé medesima, indimostrata, non mediata. L’atto dell’Individuo assoluto (che coincide con il divenire del mondo), cui «tutto il resto si appende», è dunque la stessa espressione della sua potenza in atto, la manifestazione della attualità di una possibilità assoluta. Come è stato osservato in riferimento alla dynamis dell’Uno in Plotino, essa non è riducibile alla semplice possibilità-di: «Se la possibilità-di, in quanto tale, può essere anche indifferentemente possibilità-dinon, essa non potrebbe dar luogo ad alcun potere infinitamente e incondizionatamente produttivo qual è quello dell’attività dell’Uno»196. Un discorso analogo può essere fatto relativamen196.  R. Gasparotti, L’amentale. Arte, danza e ultrafilosofia, Cronopio, Napoli 2019, p. 76. Sembra dunque che l’atto dell’Individuo assoluto non sia pienamente riducibile a quello aristotelico, stante che, nonostante i numerosi (e spesso fuorvianti) richiami di Evola ad Aristotele, nello Stagirita l’atto è sempre il correlativo di una potenza che, in quanto potenza di un atto, è una possibilità «determinata». Come ha notato V. Vitiello, la potenza aristotelica «non è possibile in relazione a sé. Non è possibile possibilità. Non è quindi anche impossibile. Ma solo se è insieme – nello stesso tempo: hama, simul – possibile e impossibile, la possibilità è davvero tale. E cioè: non soggetta alla bebaiotáte arché, al principium firmissimum dell’essere: il principio di non contraddizione» (V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, p. 46). G. Damiano ha mostrato come l’intera filosofia evoliana sia fondata sulla triade «non dialettica» libertà-potenza-volontà, dove il secondo termine indica lo «snodo decisivo» in cui si decide «la fuoriuscita dall’idealismo dialettico», mentre il terzo, la volontà, è ciò che garantisce che il passaggio dalla potenza all’atto sia frutto di un atto di libertà incondizionata e non un movimento necessitato (cfr. G. Damiano, Il problema della potenza nella filosofia evoliana, in Aa. Vv., Studi evoliani 2010.

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te all’Individuo assoluto evoliano. In esso l’arbitrio assoluto che “regola” l’attività dell’Io non si distingue dall’attualità di tale arbitrio, possibilità assoluta e assoluta necessità convergono nel punto della «persuasione» cosmica in cui ogni alterità è eliminata: «L’intera natura si sveglia, si anima, si fa qualcosa di vivente: tutto in essa va a comporsi in un essere organico il cui insieme dice: Io»197. La riduzione di ogni presupposto alla pura forma dell’Io si rivela strumento del recupero della nuda esistenza del mondo. Raggiunto tale livello, la presente indagine si riannoda alla conclusione del primo capitolo, ove si mostrava che la ricerca del formalismo assoluto in ambito artistico procede parallelamente al recupero di forme espressive pure in cui forma e contenuto siano perfettamente compenetrati l’una dell’altro. È a questo livello, e solo a questo (dopo, cioè, che la coscienza filosofica è stata attraversata), che entra in gioco la magia quale forma di un sapere-fare intimamente simbolico. Nel prossimo capitolo ci si connetterà al punto in cui l’intera indagine ha preso avvio, si discuterà la questione del simbolo attraversando alcune opere dell’Evola “maturo”, tentando di mostrare come – relativamente alla prospettiva “ultrafilosofica” disegnata dal filosofo – si possa parlare di un’autentica “immagine magica del mondo” in un duplice senso: da un lato le conclusioni cui siamo pervenuti nel presente capitolo suggeriscono che sia il mondo stesso a presentarsi sotto forma di immagine reale, in quanto pienamente coincidente con l’attività dell’Io; dall’altro lato, l’incontro dell’individuale quale principio-­libertà con l’orizzonte storico genererà nel pensiero evoliano una torsione destinata a ridurre la potenza dell’immagine a favore di un dispositivo simbolico-segnico volto a cogliere i significati profondi di pratiche e saperi riassunti da Evola nella categoria di «Tradizione». Julius Evola e la filosofia, vol. I, a cura di G.F. Lami et al., Fondazione Julius Evola-Arktos, Roma-Carmagnola 2013, pp. 147-154). 197.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 203.

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Capitolo III

L’immagine magica del mondo

Solo quando Dio ha pace nell’uomo, la natura può festeggiare il suo Sabbath. (F. von Baader, Dogmatica speculativa)

1. Dall’immagine al simbolo L’esito cui il «transidealismo» evoliano perviene è la restituzione di un puro e vivente agire, svincolato da qualsivoglia finalismo e intenzionalità1. Tale è la profonda verità dischiusa dalla via dell’Individuo assoluto. L’alterità, in ogni sua forma, compresa quella della finalità, è annullata, di ogni “altro” è saputa la reale «inalterità»2. A tale verità, ricorda Evola in Teo­ ria dell’Individuo assoluto, «Nietzsche è ancora colui che ha

1.  Ci pare che tale prospettiva non sia lontana da quella che definisce il «canone minore» di cui ha parlato R. Ronchi. In tale filone speculativo, di cui secondo Ronchi sarebbero massimi rappresentanti Bergson, James, Whitehead e Gentile, viene messo a tema un concetto di «esperienza pura», atto in atto, che si svincola da ogni forma trascendenza presupposta per riacquistare il senso di un atto che è perfetto nel suo semplice accadere, tale da dar forma a una esperienza che non presupponga una coscienza di cui essere esperienza (cfr. R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017). 2.  L’espressione è mutuata dal saggio di M. Donà, Per un’esperienza dell’inalterità, in M. Donà - G. Rametta, Essere e divenire. Riflessioni sull’incontraddittorietà a partire da Fichte, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 4769.

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saputo andarvi più vicino»3. Il filosofo di Röcken è colui che più ha saputo andare a fondo nel disvelamento della «verità» del mondo oltre le «menzogne» di una ragione orientata alla distinzione e alla separazione. Il momento “nichilistico” che l’Io inevitabilmente attraversa, determinato dal non aver più alcun saldo appoggio cui aggrapparsi, è così descritto da Evola: Tutto crolla. Resta uno spavento, un vuoto assoluto. Le potenze vibrate roteano intorno ad oggetti, che non esistono più. Si scopre che tutti i «valori» non sono che parvenze da cui la volontà fu giocata e portata sempre più in là, in ricorrente conferma del suo deficere, senza mai pervenire a soluzione. Ci si accorge che attraverso il divenire nulla è realizzato, nulla è raggiunto. Un divenire puro resta la sola realtà – nessuno scopo, nessuna ragione, nessuna utilità.4

La scoperta di tale dimensione “pura” corrisponde al disvelamento del carattere intimamente simbolico del reale. È quanto si può ricavare anzitutto dai testi più esplicitamente “nietzscheani” di Evola, a partire da Par delà Nietzsche. In questo breve saggio le intuizioni teoretiche sistematizzate nelle opere filosofiche vengono reinterpretate alla luce di categorie squadernate dal filosofo tedesco. Apollo diviene simbolo dell’alterità dietro cui si maschera il terribile volto di Dioniso, la pura esistenza di ciò che è nella sua magica e simbolica potenza5. Dismessa la maschera differenziante che domina la «via dell’Altro», «si rivela il tragico primordiale di un caos ardente dove, in un lampeggiamento, si coglie il valore

3.  J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto [1927], cit., p. 133. 4.  Ivi, pp. 133-134. 5.  Circa il «dionisismo» (non solo) evoliano, cfr. le preziose indicazioni offerte da G. Sessa, La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, Milano 2014, in part. pp. 151-154, ove si legge in particolare: «L’assunzione del dionisiaco è il non recedere di fronte alla scoperta del nulla originario, il tener fermo di fronte all’abisso, il corrispondervi» (ivi, p. 152).

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individuale, il possesso assoluto come potenza cosmica di affermazione e di negazio­ne»6. L’insegnamento nietzscheano, ereditato nella sua sfaccettatura dionisiaca, si riconfigura ben presto nella attivazione di istanze magiche ed esoteriche. L’affermazione di Dioniso, il suo vincere Apollo, viene letto da Evola come il raggiungimento di una più-che-vita corrispondente a sua volta a un più-che-agire. Tale forma della praxis coincide per Evola con l’agire donativo, amoroso, gratuito, afinalistico dell’Individuo assoluto. Il mondo redento, ricondotto alla volontà libera dell’Io, è allora il mondo vissuto nell’originarietà simbolica di ogni suo elemento. Alla fine di Par delà Nietzsche Evola afferma che questo mondo è un mondo di «esseri nuovi», «infiniti», e in questa via dominatrice essi si bruciano, nella loro giustificazione suprema, al di là di essi stessi, tra le cose che non sono più cose ma simboli, gesti, folgorazioni di «poteri» [et dans cette vie dominatrice ils brûlent en leur acte, en leur justification suprême, par delà eux-mêmes, parmi des choses qui ne sont plus des choses mais des symboles, des gestes, des fulgurances de “pouvoirs”].7

Con ciò si è pervenuti a un crocevia di fondamentale importanza all’interno dell’evoluzione filosofica di Evola. Si può infatti sostenere che da questo punto in poi il pensiero di Evola subisca la torsione di cui si è parlato nel primo capitolo. Tale torsione è interpretabile come il progressivo rendersi esplicito del carattere simbolico del reale. Tuttavia, non si comprenderebbero appieno le ragioni della curvatura teoretica subita

6.  J. Evola, Attraverso e di là da Nietzsche, in Id., Oltre il superuomo. Scritti su Friedrich Nietzsche (1926-1973), a cura di G. Perez, Fondazione Julius Evola-Pagine, Roma 2017, p. 62. 7.  Ivi, p. 66, e J. Evola, Par delà Nietsche, in Id., L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 130.

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dal pensiero evoliano, se non ci si soffermasse ulteriormente sugli esiti problematici cui esso mette capo. L’impianto teoretico cui Evola dà vita è interamente votato al superamento della forma del rappresentare. È quanto emerge da alcuni luoghi nevralgici dell’opera evoliana a partire dalla trattazione critica della «via dell’Altro» quale dispositivo dialettico eternamente riproducente la forma contrappositiva soggettooggetto. Si è visto che la strategia da Evola adottata per mettere in scacco tale prospettiva teorica è quella di una sua estremizzazione e della sua assunzione secondo «valore» all’interno della via dell’Individuo assoluto. Il criterio della potenza, cui viene da ultimo rimesso l’effettivo superamento dell’idealismo, è da intendere allora come puro potere quel che si può, solo così potendo avere sfogo incondizionato l’assoluta libertà dell’Iotutto. A tale orizzonte problematico è tra l’altro riconducibile l’interrogativo circa il permanere o meno dell’idealismo magico evoliano all’interno del paradigma volontaristico di derivazione cristiana8. Un problema analogo si era già posto, nel Novecento, proprio a proposito di Nietzsche, della sua presunta appartenenza alla metafisica occidentale di cui pur si presentava come il distruttore, e dell’ambiguità racchiusa nel continuare a parlare di «volontà» anche dopo aver proclamato la «morte di Dio»,

8.  Il primo a segnalare questo problema è stato P. Di Vona, Esame della filosofia di Evola, in M. Bernardi Guardi - M. Rossi, Delle rovine e oltre. Saggi su Julius Evola (a cura di), Pellicani, Roma 1995, pp. 121-166, cui fa seguito un importante articolo di G. Damiano, Il problema della potenza nella filosofia evoliana, cit. Sul tema si è interrogato G. Sessa, Itinerari nel pensiero di Tradizione, Solfanelli, Chieti 2015, pp. 111-128. Si segnala inoltre un intervento, ancora di Damiano, che torna – a quasi due anni dalla morte dello studioso – sull’interpretazione che Di Vona ha fornito di Evola anche al di là del saggio in questione: G. Damiano, Su Piero Di Vona interprete di Evola, in Aa. Vv., Studi evoliani 2018. L’opera artistica completa di Julius Evola, a cura di G. de Turris, D. Gianandrea e G. Sessa, Fondazione Julius EvolaArktos, Roma-Carmagnola 2019, pp. 123-128.

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cioè di tutte le «verità» della metafisica tradizionale, in primis l’idea di Soggetto9. Come rilevato da Heidegger, per Nietzsche, la filosofia occidentale intesa come platonismo […] è alla fine. Nietzsche intende la sua filosofia come la controcorrente della metafisica, cioè, per lui, del platonismo. Ma, in quanto semplice controcorrente, essa resta necessariamente conforme, come ogni «anti-», alla natura di ciò contro cui si volge.10

In tale maniera, Nietzsche non riuscirebbe a sottrarsi al dispositivo della rappresentazione che, a parere di Heidegger, domina l’intera storia della metafisica moderna. La volontà di potenza ne sarebbe anzi l’espressione più radicale, in quanto principio che pone se stesso come valore, dando così forma a una vera e propria «immagine del mondo». Per Heidegger, infatti, la forma moderna dell’ente, del suo “presentarsi”, è proprio la rap-presentazione dell’ente come un oggetto (Gegenstand). Tale oggettivazione «si compie in un rappresentare, in un porre-innanzi [vor-stellen] che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo calcolatore possa esser sicuro [sicher], cioè certo [gewiss] dell’ente»11. A partire da tale 9.  Rilievi fondamentali sulla critica di Nietzsche al soggetto classicamente inteso sono quelli di M. Cacciari. Per Cacciari, Nietzsche comprende la “falsità” del rapporto tra ordine ideale e oggettività “pura”. Il carattere delle forme che ci consentono di conoscere scientificamente il mondo «non è più l’ordo idearum che riflette immediatamente la sostanza dei processi naturali – ma ha cessato anche di potersi fondare su un rapporto “lineare” soggettooggetto, osservazione positiva e dato […]. Abbiamo a che fare con l’esserci contraddittorio-dinamico – non con l’essere già “ridotto” alla misura della soggettività – e con un soggetto che vi partecipa intrinsecamente» (M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976, p. 63). 10.  M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 198. 11.  M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, cit., pp. 83-84.

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modalità di relazione all’oggetto, il moderno costruisce la propria immagine del mondo. Si chiede in proposito il pensatore tedesco: «Che cos’è un’immagine del mondo? Evidentemente una raffigurazione del mondo. Ma che significa qui “mondo”? E che significa “immagine”?»12. Ancora: «Il sorgere di qualcosa come l’immagine del mondo fa tutt’uno con una decisione essenziale intorno all’ente nel suo insieme. L’essere dell’ente è cercato e rintracciato nell’esser-rappresentato dell’ente»13. Ora, applicando tali indicazioni heideggeriane al discorso fin qui proposto sull’idealismo magico, si comprende il rilievo appena fatto secondo cui la tensione dell’intera speculazione evoliana in direzione della costruzione di una “forma pura” volge alla delegittimazione di ogni istanza “rappresentativa”. Al culmine del processo fenomenologico l’ente non è ciò che sta dinnanzi a un soggetto presentandosi nella sua disponibilità e manipolabilità14. Tale sarebbe casomai il risultato dell’opzione corrispondente alla «via dell’Altro», integrata e superata nella via dell’Individuo assoluto. Il fatto che tra l’una e l’altra non vi sia possibilità di distinzione formale evidenzia inoltre l’impossibilità di ricondurre il perseguimento di una di esse a una «decisione essenziale intorno all’ente nel suo insieme», nega cioè il carattere “destinale” della decisione stessa. Fino a che

12.  Ivi, p. 86. 13.  Ivi, p. 88. 14.  Circa il tema, qui appena abbozzato, dei rapporti speculativi tra Evola ed Heidegger, G. Sessa ha mostrato come «il filosofo romano debba essere letto in una prospettiva di ricerca postmetafisica, in quanto cosciente, già a metà degli anni Venti, di quanto Heidegger chiarirà in termini definitivi solo nella Lettera sull’umanesimo, e cioè che il pensare per valori è un impoverimento concettuale occultante l’essere, perché ogni valutazione, anche quando è positiva, cela una soggettivizzazione» (G. Sessa, La meraviglia del nulla, cit., pp. 151-152). Cfr. anche G. Sessa, Heidegger lettore di Evola. Una polemica incontenibile, in Id., Julius Evola e l’utopia della Tradizione, cit., pp. 189-197.

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si dà rappresentazione l’Io non può dirsi pienamente libero, giacché si trova vincolato anzitutto dalla propria condizione di “rappresentante”. L’immagine del mondo cui l’idealismo magico dà accesso non va allora intesa come l’unità essenziale che definisce il significato dell’ente in una determinata epoca, ma come il reale farsi immagine da parte del mondo. Nella misura in cui a essere ridotto a immagine è il “tutto”, l’immagine si svincola dalla necessità di costituirsi come immagine-di-­ qualcosa, quindi “rappresentazione”. In un articolo di dubbia e dibattuta attribuzione apparso su «Ur» nel 1927 e firmato con lo pseudonimo “Abraxa”15, si legge: In un essere risvegliato la mente non è più «pensiero». È attività che determina per immagini istantanee […]. All’atto materiale e alla «volontà» degli uomini egli [il mago] sostituisce la forza dell’immagine. Ma, anzitutto, è necessario destarsi alla

15.  È risaputo che i membri del “Gruppo di Ur” scrivevano i loro saggi sotto pseudonimo, in conformità con il principio esoterico dell’«impersonalità attiva», nella consapevolezza che ciò che conta è l’insegnamento che si intende trasmettere e non “chi” lo trasmette. Dietro lo pseudonimo sotto la cui firma è apparso l’articolo in questione, Abraxa, R. Del Ponte ha visto Ercole Quadrelli, un kremmerziano membro del “Gruppo di Ur” (cfr. R. Del Ponte, Evola e il magico “Gruppo di Ur”, cit.; dello stesso autore si veda anche la prefazione al primo volume dell’edizione americana di Introduzione alla magia: Preface. Julius Evola and the UR Group, in Introduction to Magic, tr. eng. di G. Stucco, Inner Traditions, Rochester [VT] 2001, pp. XI-XXXVIII). È stato G. de Turris ad avanzare per primo l’ipotesi che tale pseudonimo fosse, insieme ad altri che compaiono in «Ur» (Ea, Iagla, Arvo), attribuibile a Evola. Nell’ultimo suo scritto, de Turris sembra accettare l’attribuzione a Quadrelli (cfr. G. de Turris, Julius Evola. Un filosofo in guerra 1943-1945, Mursia, Milano 2016, p. 163). È possibile che la stesura originaria fosse di Quadrelli e – come spesso accadeva in «Ur» – l’articolo sia poi stato rivisto e “sistemato” da Evola. È del resto particolarmente significativo che anche quando Evola ripubblicherà, con corpose modifiche, gli articoli di «Ur» e «Krur» in Introduzione alla magia, l’articolo in questione rimarrà, salvo marginalissime correzioni, pressoché immutato (cfr. Introduzione alla magia, cit., vol. I, pp. 289-296).

174 rapidità senza tempo nel sentire, nel concepire, nell’arrestare, nell’intervenire.16

Occorre “sintonizzarsi” sulla rapidità dell’immagine affinché questa non venga ridotta a «fatto», a semplice “rappresentato”. Lo stesso termine imago viene ricondotto a una presunta etimologia indicante un «agire dal profondo (imago = imum ago)»17. «Nell’immagine magica – prosegue Abraxa – non vi è sforzo, né tendenza, né intervallo di compimento: è un agire che è un vedere e un vedere che è un agire»18. Sforzo, tendenza, intervallo sono caratteristiche fondamentali della evoliana «via dell’Altro» (in particolare il termine «intervallo» indica nella Fenomenologia il permanere di un non ancora risolto dualismo). Abraxa prosegue distinguendo l’agire dell’immagine in quanto «immagine agìta» e l’agire orientato da immagini intese quali finalità determinate: Nell’intelligenza e nella volontà la fine del movimento è una idea, un ideale da compiere, qualcosa che può essere, ma che non è ancora: una possibilità da realizzare. Ma il subentrare della brama porta identificazione, immedesimazione oscura, necessità. Essa accosta sempre più l’atto alla realizzazione a cui esso tende: la durata del movimento si contrae, la virtualità si confonde con la tendenza e la tendenza con l’azione.19

«La degradazione della libertà in spontaneità», il collasso della tendenza sul suo scopo, sull’«idea», è responsabile dell’apparire degli atti come «fatti», ek-sistenze. Spenta la brama, appare un mondo fatto non di materia ma di pure immagini: «Nel tuo Sì (amore, consenso), vivrai trasfigurati in specie di atti intel-

16. Abraxa, La magia dell’immagine, in Ur 1927 (rist. anastatica dei fascicoli originali), Tilopa, Roma 1980, p. 262. 17.  Ibidem. 18.  Ivi, p. 263. 19.  Ivi, p. 267.

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lettuali le forze oscure degli enti»20. Difficile non richiamare a tal proposito l’ultima delle tre prove iniziatiche che l’individuo deve affrontare per rendersi realmente assoluto, la «prova dell’amore». Di essa si trova menzione nei Saggi e nell’ultima epoca della Fenomenologia. La «prova dell’amore» segue altri due momenti iniziatici rispettivamente denominati «prova del fuoco» e «prova della sofferenza». La prima corrisponde al momento radicalmente scettico del processo di liberazione dell’Io, tale da spingerlo a rifiutare qualsivoglia forma di datità e presupposizione, tale cioè da investire in potenza negativa ogni forma: negare ogni fede, violare ogni legge sia morale che sociale, disprezzare ogni sentimento di umanità, ogni amore e generosità, ogni passione […]. In una parola: egli deve a sé stesso farsi l’estrema ragione – lo stirneriano ich habe meine Sache auf Nichts gestellt gli deve divenire una realtà vivente.21

Ma perché l’Io non si renda dipendente da ciò che nega per il fatto stesso di negarlo occorre che esso viva la sofferenza (seconda prova) di una reale separazione assimilabile all’esperienza del saggio stoico o a quella di certi mistici cristiani. Si tratta di «una negazione che si esaspera distanziandosi dalla negazione, che la ritorce e riflette su sé, la distacca, abbastanza forte per sussistere senza riferirsela»22. Da ultimo subentra la terza prova, quella, appunto, dell’amore, la quale corrisponde al momento del riacquisto del mondo nella potenza magica della sua immagine. In essa la relazione all’ente non avviene più secondo scopi determinati, ciò che implicherebbe sempre una qualche violenza sulle cose:

20.  Ivi, p. 268. 21.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 87. 22.  J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, cit., p. 189.

176 Violentando le cose, si va in realtà a violentare solo l’Io, poiché ciò implica sbalzare l’Io fuori dal punto che non ha nulla di contro a sé. Il principio fondamentale della magica è che per avere realmente una cosa, occorre volerla non per l’Io ma per sé stessa, ossia amarla; che desiderare, è precludersi la via alla realizzazione; che la violenza è il modo del debole e dell’impotente, l’amore e la dolcezza quello del forte e del signore.23

Il farsi immagine da parte del mondo implica la possibilità di agire “magicamente” su di esso in quanto perfettamente compenetrato di individualità. In questo modo viene a delinearsi un primo senso in cui è lecito parlare di “immagine magica del mondo” in riferimento alla prospettiva filosofica evoliana, quale rimedio al dualismo cui ogni sistema “rappresentativo” – evolianamente riconducibile alla «via dell’Altro» – inevitabilmente conduce. Il problema con cui Evola si scontra dopo il compimento del proprio sistema filosofico è dunque quello di marcare in maniera netta il distacco con la forma rappresentativa di relazione all’ente. D’altro canto, se l’esito ultimo della speculazione evoliana corrisponde al disvelamento dell’elemento simbolicoanalogico del reale, altrettanto certo è che la conquista di tale dimensione magica rimane vincolata al problema propriamente filosofico della certezza, problema che un Heidegger riconosce come la radice ultima del «nichilismo europeo»24. L’ipotesi che 23.  J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, cit., p. 89. 24.  Viene così delineandosi la costitutiva ambiguità dell’immagine, messa in luce, tra gli altri, da un pensatore la cui vicinanza a Evola è stata segnalata da più di uno studioso, Andrea Emo. Nel 1967 il pensatore veneto annota: «L’immagine e l’idea sono necessarie per rappresentare ciò che non è più né immagine né idea. L’immagine è la via regale per arrivare all’abolizione dell’immagine, alla suprema iconoclastia […]. Ambiguità dell’immagine e ambiguità dell’iconoclastia. L’immagine è ambigua appunto perché vuole essere soltanto immagine, unicamente immagine e non oggetto di un’altra immagine, l’immagine è ambigua perché vuole essere soltanto soggetto e

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si intende ora avanzare è che per uscire da tale ambiguità il filosofo romano metta progressivamente in atto un radicale cambio di prospettiva, indirizzando il proprio sguardo in direzione di una metafisica della storia istituita su una specifica teoria del simbolo, inteso non come ipostasi formale ma come fattore operativo interno alla storia stessa, in modo che questa non venga intesa “positivamente”, ma venga letta nei suoi significati mitici e, appunto, simbolici. Al contrario di quanto numerosi critici hanno rilevato, la concezione evoliana della storia non conduce in alcun modo a una sua condanna a favore di principi sovrastorici e quindi sottratti al metamorfico orizzonte del reale. Per comprenderne il motivo è necessario procedere per gradi, ripercorrendo brevemente le tappe che conducono il pensatore ad abbracciare quel complesso ordine di idee, insegnamenti, pratiche, indicato dalla parola «Tradizione»25.

2. Simbolo e storia L’interesse evoliano per la simbolica della storia si colloca agli inizi degli anni Trenta26 e diviene operativo attraverso il fonda-

l’iconoclastia è ambigua, perché è forse la negazione delle immagini oggettive e il riferimento ad un’immagine superiore, cioè soggettiva» (A. Emo, In principio era l’immagine, cit., p. 162). Sul tema dell’immagine in Emo, cfr. G. Sessa, La meraviglia del nulla, cit., pp. 169-198. 25.  Per quanto possa infastidire, la lettera maiuscola quando si parla di «Tradizione» in riferimento ad autori quali Evola e Guénon va adoperata – per usare le parole di un altro autore “tradizionalista” – «per l’esattezza e non per accorgimento rettorico» (E. Zolla, Che cos’è la Tradizione, Adelphi, Milano 1998, p. 133). 26.  Si veda a questo proposito il carteggio evoliano con Laterza e Croce per la pubblicazione di un’antologia di scritti bachofeniani, progetto che non andrà in porto se non quasi vent’anni dopo, per i tipi di Bocca (cfr. J. Evola, La

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mentale e decisivo incontro con l’opera di René Guénon. Nel testo che forse più di ogni altro chiarifica la concezione guénoniana del simbolo e del suo rapporto con la storia, Il simbolismo della croce (1931), il filosofo francese determina anzitutto il rapporto sussistente tra la Tradizione primordiale e la molteplicità delle forme in cui essa può manifestarsi. Esse vengono descritte come nient’altro che «vesti di una medesima verità» metafisica che, una volta colta per via intuitiva, rende “indifferente” la forma “storica” in cui si estrinseca. Da quel momento ci si potrà servire di una qualunque di queste forme, a seconda del vantaggio che se ne avrà, proprio come, per esprimere uno stesso pensiero, si possono usare lingue diverse secondo le circostanze, al fine di farsi capire dagli interlocutori cui ci si rivolge; è questo, d’altronde, ciò che certe tradizioni designano simbolicamente come il «dono delle lingue».27

Guénon si premura di distinguere tale metodologia da un procedimento semplicemente «sincretistico». Quest’ultimo consisterebbe «nel radunare, dall’esterno, elementi più o meno disparati che, visti sotto questo aspetto, non hanno possibilità alcuna di essere veramente unificati; si tratta, in definitiva, di una specie di eclettismo, con tutto ciò che esso sempre com-

biblioteca esoterica. Evola-Croce-Laterza. Carteggi editoriali 1925-1959, a cura di A. Barbera, Fondazione Julius Evola-Pellicani, Roma 1997, pp. 7579). Nell’introduzione al volume A. Barbera ricorda che l’idea di Evola di proporre a Laterza un’antologia di Bachofen doveva probabilmente essere stata precedentemente suffragata da Benedetto Croce, con cui Evola ebbe modo di confrontarsi di persona in almeno un paio di occasioni. Su ciò, cfr. A. Barbera, Il carteggio Evola-Laterza, ivi, pp. 11-33. Cfr. inoltre Lettere di Julius Evola a Benedetto Croce (1925-1933), a cura di S. Arcella, Fondazione Julius Evola, Roma 1995). 27.  R. Guénon, Il simbolismo della croce, tr. it. di P. Nutrizio, Adelphi, Milano 2012, p. 15.

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porta di frammentario e di incoerente»28. Non dunque un semplice accumulo di materiale storico, onde individuare in esso una qualche raffazzonata «unità», ma un procedimento inverso, procedente dall’interiorità sintetica della verità tradizionale all’esteriorità molteplice delle sue determinazioni storiche. Se questo è il «metodo» cui deve conformarsi ogni indagine «tradizionale», quale ruolo è in esso riservato al simbolo? Guénon lo chiarisce immediatamente e nella maniera più chiara possibile, facendo riferimento alla simbologia che costituisce il cuore teorico del testo in questione, quella della croce: La croce, abbiamo detto, è un simbolo che, in forme diverse, si trova quasi ovunque, fin dalle epoche più remote; essa è dunque ben lungi dall’appartenere in modo specifico al cristianesimo […]. Occorre anche dire che il cristianesimo stesso, almeno nel suo aspetto esteriore e generalmente noto, sembra aver perso un poco di vista il carattere simbolico della croce, per ritenerla ormai soltanto un segno di un evento storico […]. In particolare, se Cristo è morto sulla croce, è proprio, possiamo dire, per il valore simbolico che la croce ha in se stessa e che le è sempre stato riconosciuto in tutte le tradizioni; ed è perciò che, senza affatto sminuirne il significato storico, si può considerarla come semplicemente derivata da questo stesso valore simbolico.29

Il simbolo è dunque ciò che tiene insieme (da sym-ballein, tenere insieme, unire) la determinatezza storica del proprio manifestarsi e il carattere «sovrastorico» riconducibile alla verità di cui tale manifestarsi si fa portavoce. Un lato non si afferma a discapito dell’altro, ma entrambi sono conservati nell’abbraccio del simbolo. Esso è tale da non escludere alcun possibile suo significato, ivi compresi quelli storici o semplicemente «letterali». Tale compresenza di significati è salvaguardata da una delle 28.  Ivi, p. 14. 29.  Ivi, pp. 15-17.

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leggi fondamentali che regolano e orientano il «metodo tradizionale» cui si è accennato nel primo capitolo in riferimento a La tradizione ermetica, la legge di «corrispondenza». Secondo tale legge – scrive Guénon – ciascuna cosa, procedendo essenzialmente da un principio metafisico da cui trae tutta la sua realtà, traduce o esprime questo principio a suo modo e secondo il suo ordine di esistenza, sicché da un ordine all’altro tutte le cose si concatenano e si corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale, la quale, nella molteplicità della manifestazione, è come un riflesso della stessa unità principiale.30

Oltre a Guénon, un autore che ha esercitato una profonda influenza sul modo in cui Evola legge la storia è Bachofen31. Per

30.  Ivi, p. 16. P. Di Vona ha ben colto il significato del simbolismo nel pensiero guénoniano, insistendo sulla sua indissolubile relazione con l’intuizione intellettuale quale conoscenza del reale nel suo aspetto di eternità: «il simbolismo è il mezzo, di cui si serve l’intelletto per comprendere le verità immutabili ed eterne. Esso apre alla mente umana prospettive illimitate. La conoscenza, che si conforma con la dottrina tradizionale, è intellettiva, simbolica e sintetica» (P. Di Vona, Evola, Guénon, De Giorgio, cit., p. 277). Di Vona riconduce la conoscenza puramente intellettuale della verità del simbolo al terzo genere di conoscenza spinoziano, sottolineando altresì la radicale irriducibilità, in Guénon, di tale conoscenza alla ragione analitica e discorsiva. Senonché, «la differenza nella concezione della ragione non impedisce che Guénon dipenda da Spinoza per il modo, con il quale ha concepito l’intuizione intellettuale che per entrambi è superiore alla ragione. Sia in Spinoza, sia in Guénon, l’intuizione intellettuale è connessa con la conquista del punto di vista dell’eternità, il trascendimento del tempo, lo sfuggire alla morte e l’eternizzarsi dell’uomo. Quale differenza resta? Una sola e cospicua. Guénon ritiene che l’intuizione intellettuale possa esprimere le sue prospettive illimitate solamente coi simboli, e non con le idee. Egli integra l’intuizione intellettuale ed il punto di vista dell’eternità del simbolo» (ivi, p. 279). 31.  Sulla lettura evoliana di Bachofen, cfr. G. Moretti, Premessa, in J.J. Bachofen, Le madri e la virilità olimpica. Storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, a cura di J. Evola, Mediterranee, Roma 2010, pp. 11-30, e G. Sessa,

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stabilire con esattezza la portata di tale influenza è opportuno riferirsi immediatamente alle riserve che Evola stesso avanza nei confronti della prospettiva del pensatore di Basilea. Anzitutto, egli vi ravvisa il permanere di residui “evoluzionistici”, riscontrabili nella successione tra stadio afroditico-eterico, ginecocratico-­demetrico (matriarcale) e patriarcale. A parere di Evola, tale successione non farebbe che riproporre, mutata di contenuto, la forma del paradigma moderno del progresso. Evola vi si oppone prendendo apertamente posizione contro la priorità cronologica del matriarcato32. Ciò rispetto a cui egli manifesta una marcata vicinanza alla prospettiva bachofeniana è però il metodo adottato dal filosofo svizzero. Nel primo dei testi bachofeniani antologizzati da Evola, l’introduzione a Der Mutterrecht, ove il filosofo svizzero enuncia e rende esplicite le sue principali tesi relative all’interpretazione dei culti e della politica delle popolazioni antiche, si legge: «il ricercatore deve essere capace di abbandonare interamente le idee del tempo suo e di trasporsi nel centro di un mondo spirituale assolutamente diverso. Senza questo uscir di sé, non si speri di conseguire dei seri risultati in fatto di esplorazione dell’antichità»33. Come ha sottolineato Giampiero Moretti, la «scienza dell’antichità» (Altertumswissenschaft) cui Bachofen dà forma intende

Evola e la simbolica della storia di Bachofen. L’origine sempre possibile, in Id., Julius Evola e l’utopia della Tradizione, cit., pp. 145-167. 32.  Tale presa di posizione, al di là della sua esattezza storiografica, è sottolineata da Moretti quale rilevante contributo nella storia delle interpretazioni di Bachofen, la cui opera invita il lettore a porsi apertamente il quesito: «l’umanità ha, nel suo complesso, effettivamente attraversato uno stadio matriarcale, come quello di cui Bachofen racconta nelle sue opere? […]. Evola, in questo senso, prende una posizione netta: l’uomo “tradizionale” non ha conosciuto, né conosce (poiché spiritualmente non può conoscerlo), il matriarcato» (G. Moretti, Premessa, cit., pp. 29-30). 33.  J.J. Bachofen, L’era della madre e il suo superamento, in Id., Le madri e la virilità olimpica, cit., p. 63.

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tenersi parimenti distante dagli opposti atteggiamenti dell’incondizionata e “positiva” adesione alle fonti storiografiche e del soggettivo interesse del ricercatore, animato da una relazione “empatica” con il proprio oggetto di indagine: «L’incontro armonico tra le fonti è insomma per Bachofen il risultato di un’operazione alchemica che va, per così dire, propiziata, officiata dal ricercatore»34. Con ciò la ricerca del filosofo svizzero assume i connotati dell’empiricità, contro l’astrattezza formale di visioni coeve comunque riconducibili a forme più o meno larvate di filosofia della storia. Bachofen intende porsi alla ricerca del principio simbolico in grado di dire l’essenziale coappartenza di mito e storia, cosmo e uomo, religione e diritto. Fin dalla sua Introduzione all’antologia, Evola manifesta pieno apprezzamento per tale metodologia: In Bachofen, in primo luogo, è interessante il metodo. Questo metodo è nuovo e rivoluzionario rispetto al modo generale, scolastico ed accademico, di considerare le antiche civiltà, gli antichi culti, i miti, solo perché è “tradizionale” in senso superiore. Vogliamo dire che il modo con cui l’uomo di ogni civiltà tradizionale […] si accostava al mondo della religione, dei miti, dei simboli, è più o meno lo stesso di quello con cui

34.  G. Moretti, Premessa, cit., p. 14. È ancora Moretti a mostrare come Bachofen rappresenti il punto di fuga di un romanticismo carsico, fondato su una concezione della natura e della storia assai distante da quella messa in campo dal dominante filone idealistico-jenese: «In Hegel, nell’idealismo compiuto, giunge a realizzazione l’idea di natura inaugurata nel Settecento, di quantità disponibile, certo “organica” ma pur sempre misurabile, quella mera materia cui l’Io continuamente si oppone per superarla riducendola a sé (Fichte), il “passato” dell’Io, che la produce alla sua maniera (Schelling), la forma inferiore che lo Spirito, lungo il suo cammino, elimina (Hegel). In Bachofen si compie invece la linea Herder-Görres-Creuzer-Grimm, l’idea rivoluzionaria della natura che lo Sturm und Drang aveva dato alla luce nella sfera letterario-poetica e che si era poi trasferita sul piano del mito e del simbolo» (G. Moretti, Heidelberg romantica. Romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 107-108).

183 Bachofen ha cercato di scoprire il segreto del mondo delle origini. La premessa fondamentale di tutta l’opera del Bachofen è che simbolo e mito sono testimonianze, di cui ogni scienza storica completa deve tenere serio conto.35

D’altro canto, come anticipato, Evola intravede nella «lotta dei sessi», nel succedersi alternativo dei principi cosmici che regolano tanto il mito quanto la storia, il permanere di una residuale filosofia della storia di impronta evoluzionistica36. Nella elaborazione evoliana di una “metafisica della storia e morfologia delle civiltà” deve essere pertanto riconosciuta la volontà di distanziarsi da un approccio ai suoi occhi ancora “rappresentativo” nei confronti della storia, a privilegio esclusivo di un metodo volto a disvelarne l’intima radice simbolica. L’operazione bachofeniana di “risalita” al fondamento cultuale-religioso delle civiltà si rivela dunque, agli occhi di Evola, passibile di integrazione. Cerchiamo ora di comprendere come tali influenze, appena ripercorse, agiscano su Evola e sul suo modo di interpretare la storia. Il luogo del “discorso sul metodo tradizionale” evoliano può essere individuato nell’introduzione alla terza edizione di Rivolta contro il mondo moderno. Dopo aver esplicitamente posto il «dualismo» di civiltà moderna e civiltà tradizionale, Evola espone il metodo secondo cui è orientata la propria indagine. Esso viene anzitutto collocato in una posizione alternativa 35.  J. Evola, Introduzione, in J.J. Bachofen, Le madri e la virilità olimpica, cit., p. 36. 36.  Circa la possibilità che la lettura bachofeniana della storia lasci spazio a forme di «evoluzione» e «sviluppo», Moretti replica: «Anche, forse; sottoposti però alla legge dell’alternanza che è propria delle relazioni cosmico-storiche fra sessi. Nessuna filosofia della storia, che non volesse annullare se stessa fin dall’inizio, potrebbe poggiare su questo principio, che non consente mai un dispiegamento compiuto del significato della storia: tale significato resta infatti pur sempre nel mistero del simbolo» (G. Moretti, Heidelberg romantica, cit., pp. 118-119).

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al paradigma “positivo”, incapace di penetrare in profondità lo spirito delle civiltà delle origini, dei loro miti e delle loro leggende. Si tratta di un radicale cambio di direzione esegetica: non più dalla storia al mito ma dal mito alla storia. Scrive Evola: mentre dal punto di vista della «scienza» si dà valore al mito per quel che esso può fornire di storia, dal nostro si dà invece valore alla stessa storia per quel che essa può fornire di mito, o per quei miti che si insinuano nelle sue trame, quali integrazioni di «senso» della storia stessa.37

A tal proposito vale la pena riferirsi a una nota di poche pagine prima in cui Evola richiama, in riferimento alla differenza “qualitativa” e non solo “relativa” di modernità e Tradizione, Schelling e la sua interpretazione del mito38. Nella sua filosofia della mitologia, che lo interessò per l’intera seconda metà della sua vita, il filosofo tedesco aveva criticato le posizioni dei suoi contemporanei, rei di interpretare il mito in maniera allegorica, “naturalistica” o “cosmogonica”. Senza passare in rassegna tutte queste critiche, ciò che ci condurrebbe troppo lontano dal nostro tema, basti qui ricordare la soluzione schellinghiana. Il fatto che ogni interpretazione “filosofica” del mito conduca ad avvilupparsi in irrisolvibili aporie, è indice della necessità di spogliare il mito da ogni interpretazione, riconoscendone la «tautegoricità». Il mito è «tautegorico», dice esattamente quel 37.  J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 30. 38.  Come ricordato di passaggio nel primo capitolo, W. Henrich riconosce, seppur in maniera piuttosto rapsodica, nel filosofo tedesco (oltre che in Bachofen) uno dei precursori del «metodo tradizionale» (cfr. W. Henrich, Sul metodo tradizionale, cit., pp. 55-56). Circa l’attribuzione a Schelling di una separazione netta tra temporalità storica e mitica, Moretti ci informa che tale attribuzione risale anzitutto ad A. Baeumler, ammonendo però che «se in effetti tale separazione caratterizzava tutte le analisi dei romantici sulla preistoria mitica, essa non arrivò mai a significare […] un’implicita o esplicita rinuncia da parte di quei pensatori al misterioso vigere del mito nella storia» (G. Moretti, Heidelberg romantica, cit., p. 12).

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che dice, non dice-altro come l’allegoria (da allos agorèuein). Ora, purificare il mito da qualsivoglia interpretazione significa tentare di recuperarne il significato letterale. L’interpretazione «tautegorica» del mito è in realtà una non interpretazione volta a disvelare ciò che non è velato, a portare all’evidenza ciò che originariamente è il massimamente evidente39. Se tutto ciò appare perfettamente in linea con l’esigenza, fatta valere da Evola, di non proiettare sul materiale tradizionale le categorie moderne di interpretazione, altrettanto certo è che egli si discosta dall’impostazione schellinghiana per quel tanto che, in Schelling, la mitologia viene intesa come preistoria della coscienza, vale a dire come storia reale del suo formarsi, finendo in tale maniera per subordinare il carattere simbolico del mito alle esigenze speculative di un sistema filosofico. Torniamo a Evola e alla sua caratterizzazione del «metodo tradizionale». Nella citata introduzione di Rivolta, Evola fa riferimento a due principi cardine di tale metodo. Il primo è il principio di corrispondenza, già incontrato in riferimento a Guénon e relativo alla possibilità stessa di una unificazione categoriale del molteplice e polimorfo materiale storico. Tale principio «assicura una correlazione funzionale essenziale fra elementi analoghi, presentandoli come semplici forme omologhe di apparire di un significato centrale unitario»40. Ne Il mistero del Graal, che di tale metodo rappresenta una delle prime “applicazioni”, si legge: La caratteristica del metodo che noi, in opposto a quello profano – empiristico o critico-intellettualistico, chiamiamo «tradizionale», è di mettere in rilievo il carattere universale di un simbolo o di un insegnamento col riportarlo ad altri corri-

39.  Su tali decisivi plessi teorici il testo fondamentale di Schelling è Filosofia della mitologia. Introduzione storico-critica, a cura di T. Griffero, Guerini e Associati, Milano 1998. 40.  J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 32.

186 spondenti di altre tradizioni, tanto da stabilire la presenza di qualcosa di superiore e di anteriore a ciascuna di queste formulazioni, diverse fra loro, ma pure equivalenti.41

Il secondo principio messo in campo è quello di «induzione», per chiarire il quale è opportuno riferirsi a un passo de Il cammino del cinabro, ove, parlando della stesura di Rivolta, il pensatore tradizionalista scrive: Si trattava dunque di risalire dalla materia prima fornita dalla storia a date idee basali, in essa palesi o implicite, aventi un simile valore normativo o superstorico […] con un procedimento paragonabile a quello che, in matematica, è il passaggio dal differenziale all’integrale.42

La storia ha le sembianze di una derivata che deve essere ricondotta, attraverso l’integrale, alla sua funzione originaria. Ma tale funzione originaria preesiste alla sua derivata o è da essa preceduta? L’interrogativo riconduce alla discussione intorno al tema del simbolo. Si è visto che se in Guénon il simbolo è sbilanciato dal lato del trascendente, del sovrastorico (si ricordi il passo sopra richiamato in cui si afferma che Cristo è morto in croce per il carattere simbolico della croce, ciò che suggerisce che tale valenza rimane non scalfita, indipendente e autonoma dagli avvenimenti storici che pure inevitabilmente la evocano), in Bachofen, al contrario, la «poesia della storia», intesa come 41.  J. Evola, Il mistero del Graal, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 1996, p. 37. 42.  J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 252. L’identica formula si trova in Metafisica del sesso, ove Evola si riferisce alla possibilità di far affiorare gli elementi metafisici dell’eros a partire dalle sue manifestazioni «profane»: «come per atrofia, determinati aspetti dell’eros sono divenuti latenti fin quasi all’indiscernibilità nella grandissima maggioranza dei casi, che nell’amore sessuale corrente restano di essi solo delle tracce e degli indizi, sì che per poterli far risultare occorre una integrazione, un procedimento analogo a ciò che in matematica è il passaggio dal differenziale all’integrale» (J. Evola, Metafisica del sesso, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 1996, p. 27).

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principio cosmico-storico che informa di sé la storia, è tutt’uno con la sua stessa proiezione storica. Dal canto suo Evola, se da Guénon eredita l’idea della valenza trascendente e sovrastorica del simbolo, da Bachofen ne recupera la storicità, il fatto che esso vada sempre colto nel suo carattere “operativo” e agente. Il pensatore romano ingloba entrambi questi impulsi, riconvertendoli in una lente d’indagine di cui solo sporadicamente rinuncerà di qui in avanti a servirsi. Il simbolo si fa autentico organo di mediazione tra il piano immanente della storia e quello trascendente della Tradizione, si rivela lo strumento adatto per indagare ciò che, nella storia, dice il più che storico, l’originario colto nella sua vigenza temporale43. Pertanto, nulla di più distante da Evola della netta, esplicita e volontaria contrapposizione di Tradizione e storia44. Caratteristica del simbolo è di

43.  Il tema della vigenza dell’origine nel pensiero evoliano è ben analizzato e sviluppato da G. Sessa, Evola e la simbolica della storia di Bachofen, cit., pp. 145-167. 44.  Quella di un irrimediabile (e non mediabile) contrapposizione tra «valori tradizionali» e mondo storico è una lettura che annovera tra i suoi propugnatori numerosi studiosi. Cfr. anzitutto M. Veneziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione, cit. A giudizio di Veneziani, Evola cadrebbe spesso in un’eccessiva “destoricizzazione” della tradizione, ad esempio là dove indica l’«idea» come autentica «patria»: «Quando Evola sostiene che “la nostra patria è l’idea” […] taglia i ponti su cui si regge la Tradizione, la destoricizza e la disumanizza, ne fa un’essenza disincarnata che può ben figurare nel campionario delle ‘ideologie’ moderne» (ivi, p. 123). F. Germinario, da un’ottica più storiografica che filosofica e che va oltre l’analisi del solo pensiero evoliano, scrive: «Che fosse o meno progressiva o curvata in senso vettoriale, la Storia era pur sempre movimento, e perciò gravida di Futuro: il Presente era tale perché anticipava il Futuro; e proprio la Storia e il Futuro diventavano gli avversari da contrastare, perché costituivano pur sempre un distacco dal mondo della Tradizione. Quest’ultima, viceversa, non aveva Futuro, perché non aveva né Passato né Storia; era al di fuori del Tempo, perché non contemplava il confronto col Tempo medesimo» (F. Germinario, Tradizione Mito Storia. La cultura politica della destra radicale e i suoi teorici, Carocci, Roma 2014, pp. 28-29). Furio Jesi, dal canto suo, definì la Tradizione «una

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non escludere nulla, nessun significato, la trascendenza è totalmente tradotta nell’immanenza. Non esiste tradizione al di là della storia né storia al di là di uno sguardo capace di coglierne i significati reali, e quindi simbolici. Senonché, il momento in cui Evola sembra farsi semplice “continuatore” dei propri guadagni speculativi, consegnando l’uomo alla natura simbolica del reale, è anche quello che segna la ricaduta entro posizioni ampiamente “superate” dalle sue folgoranti intuizioni giovanili. Si ribadisce: il punto non è il permanere di un astratto dualismo tra principi tradizionali e metamorfico orizzonte storico, ma la ricostituzione della disequazione tra una forma e una materia, ora disegnate con i tratti della forma tradizionale della storia e del suo mutevole e variegato contenuto. La preminenza data da Evola al “fianco” storico del simbolo, benché lo salvaguardi dall’astrattezza in cui rischia di incorrere il «tradizionalismo integrale» guénoniano45, costringe la storia a un’apertura “univoca”, unidirezionale. Il simbolo tende a convertirsi in “schema”, sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile» (F. Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, Nottetempo, Roma 2011, p. 287). A questo proposito, Piero Di Vona è stato certamente tra i primi a mettere in atto un cambio di prospettiva esegetica, facendo attenzione anzitutto proprio al «metodo» messo in campo da Evola, il quale «considera come validi in assoluto e sussistenti in sé stessi, al di là e al di sopra delle contingenze storiche, principi ed idee, per sostanziare i quali egli si trova costretto a rivolgersi ad avvenimenti ed a istituzioni, a leggi, figure e concezioni, che ebbero ed hanno avuto una loro esistenza nel passato storico, remoto o prossimo […]. Ma la visione tradizionale del mondo, e le categorie normative a priori sulle quali essa si appoggia, non vengono premesse come principi, e presupposte come principi puri a priori, al mondo storico. Al contrario, è da questo mondo che vengono desunte le testimonianze che permettono di dare forma universale e superstorica a ciò che Evola chiama la natura dello spirito tradizionale» (P. Di Vona, Metafisica e politica in Julius Evola, cit., pp. 65-66). 45.  Per una efficace sintesi del giudizio evoliano su Guénon, cfr. J. Evola, René Guénon e il «Tradizionalismo integrale», in Id., Ricognizioni. Uomini e problemi, Mediterranee, Roma 1974, pp. 205-213.

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a concettualizzarsi, a porre una distanza tra i due “fianchi”, della storia e della Tradizione, nel momento stesso in cui sancisce la loro unione. Esso si rivela un dispositivo meno potente dell’immagine: tiene insieme, ma tenendo insieme anche separa, lacera. L’appello al simbolo per interpretare la storia non riesce a dissipare la contraddizione tra metafisica della storia e filosofia della storia, tra tempo ed eterno. In questo modo l’immagine magica del mondo, nell’accezione di mondo ridotto a immagine, si riconfigura in immagine del mondo in senso “tradizionale”, come semplice “rappresentazione” di un mondo. È quanto accade nella maniera più evidente in Metafisica del sesso ove, dopo aver evocato il principio weiningeriano del carattere «archetipico» del principio maschile e di quello femminile, Evola chiama esplicitamente in causa la questione del simbolo nel modo in cui essa viene posta nel Simposio platonico46. Secondo quanto ricordato nel dialogo, symbolon è un «nome che designava un oggetto spezzato in due parti, anticamente usato per far riconoscere due persone, quando la parte esibita dall’una combaciava perfettamente con quella conservata dall’altra»47. Ha scritto Romano Gasparotti a commento del passo appena richiamato: Evola riporta l’attenzione sul fatto che Platone, nel Simposio, afferma che Eros agisce nel senso del symbolon, ovvero simballicamente, ma poi mostra di travisare completamente

46.  Si legge nel dialogo: «Dunque, da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura. Ciascuno di noi, pertanto, è come una contromarca (symbolon) di uomo, diviso com’è da uno in due, come le sogliole. E così ciascuno cerca sempre l’altra contromarca che gli è propria» (Platone, Simposio, tr. it. di G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Giunti-Bompiani, Firenze-Milano 2018, 191d, p. 501). 47.  J. Evola, Metafisica del sesso, cit., p. 56.

190 il senso, secondo il quale Platone, in quel testo, aveva inteso il symbolon stesso […]. Il symbolon, infatti, già inteso come quell’oggetto – un semplice pezzo di coccio – il quale testimoniava l’indissolubile legame tra due amanti, era, invece, – proprio come il simbolo del Tao – una unità segnata da una interna linea d’incisione, che non spezzava affatto, però, l’intero in due parti. Non si danno all’origine due metà già determinatesi quali differenze “complementari” (come le chiama Evola) destinate a essere successivamente riunificate. Perché le due metà non sono altro che l’effetto dell’avvenuta distruzione del symbolon stesso!

Prosegue Gasparotti: Nella vita quotidiana dell’antica Grecia, solo allorché i due amanti erano costretti dalle circostanze della vita a separarsi – nell’impossibilità di dar seguito alla loro relazione eroticosessuale – l’oggetto unitario del symbolon veniva spezzato in due parti, in modo che ognuno ne conservasse una metà, nella speranza e nell’auspicio di tornare un giorno a farle ricombaciare, ripristinando così l’unità dell’intero.48

Sfruttando queste ultime importanti indicazioni, sviluppiamo due elementi. Chiediamoci anzitutto: è questo un Evola che semplicemente fraintende il significato profondo del simbolo o non piuttosto un Evola già perfettamente consapevole dell’essere in sé frantumato del simbolo? Quanto detto fin qui non può che farci propendere per la seconda opzione. Esso è lacerato nel suo esser uno, infranto nel proprio comporsi, esattamente come la dialettica senza sintesi caratterizzante la «via dell’Altro» (nella cui orbita verrebbe riassorbita per Evola la stessa «sintesi» hegeliana, come si è visto nel secondo capitolo). D’altro canto, – e questo è il secondo elemento – è esattamente l’impulso a far ricombaciare le due metà del simbolo a

48.  R. Gasparotti, Evola e la filosofia dell’eros, cit., p. 172.

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condurre Evola a sondare i terreni della Tradizione nelle sue forme molteplici e variegate. L’origine che l’atto magico riattualizzava perpetuamente, negando la stessa originarietà di tutto ciò che incontrava (senza per questo situare l’origine stessa da un’altra parte né in un altro tempo, ché la totalità del tempo si contraeva nell’istante dell’immagine magica), viene ora postulata dal simbolo, situata in un irraggiungibile “prima”. Non è proprio questo “prima”, la tensione magnetica verso di esso, a spiegare l’attenzione riservata da Evola al «metodo tradizionale»? «Metodo» è strada, hòdos, percorso, via, in direzione di una meta. Meta del metodo tradizionale è la Tradizione in quanto origine e mai-stata unità. Ma l’esistenza stessa di un metodo per raggiungerla non chiama forse in causa un’idea di verità che sembrava ormai superata dalla radicale speculazione evoliana? Il metodo non è forse la stessa speranza di far ricombaciare le due metà del coccio? Esso è segno di una intenzionalità rivolta a una residuale forma di “presupposto” quale ineludibilmente è ogni “passato” che sia mantenuto come tale. Questa intenzionalità corrisponde al volgere lo sguardo in direzione dell’origine, nella u-topica speranza di riguadagnarla e riattualizzarla, di ristabilire l’unità delle due metà infrante. Il metodo tradizionale si configura pertanto come “interpretazione” del simbolo. Senonché, “interpretare” il simbolo vuol dire decostruirne la simbolicità, ridurlo a segno. L’interpretazione, ha scritto Carlo Sini, «mettendo in opera il Significato del segno, fa sorgere il polo Oggetto (ovvero ciò a cui il segno rimanda)»49. Il metodo è ciò che porta a cor-rispondere alla chiamata della Tradizione. È sufficiente dire, come in alcune occasioni fa Evola, che il metodo deve essere concepito come «approssimazione discorsiva» a verità che possono esse-

49.  C. Sini, Immagini di verità. Dal segno al simbolo, Spirali, Milano 1990, p. 138.

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re conosciute solo per via diretta, per intuizione intellettuale? Evidentemente no, giacché per quanto “diretta” o puramente intellettuale ogni conoscenza riproporrà una qualche forma di dualismo. Del resto, questa era una possibilità presa in esame e coerentemente scartata da Evola stesso nelle sue opere propriamente filosofiche, come si è visto nel secondo capitolo50. Tale stretta connessione tra simbolo e intuizione intellettuale trova compendio in un articolo originariamente uscito sulla rivista «Antaios», diretta da Ernst Jünger e Mircea Eliade, e in seguito inserito da Evola nella raccolta L’arco e la clava: Sussiste […] un’analogia tra il verbo συμ-βάλλω (io unisco, porto assieme) e σύμ-βολον, simbolo, in relazione all’atto della unificazione, in opposizione all’analisi, allo smembramento. È questo il riferimento ad un conoscere che si realizza in una βολή, ossia in una irradiazione, in una proiezione, in una folgorazione (fulguratio), presso cui contenuti sensibili e parziali vengono afferrati in una semplice unità trasfigurante, in una pura luce intellettuale […]. La forma, l’elemento sensibile nel simbolo e nel mito determinano soltanto il punto di partenza. La sua polivalenza e indeterminatezza, che si oppone all’astratta determinatezza del concetto logico, ha un preciso riferimento, mediante reali rapporti di analogia, alla molteplicità, che nell’atto dell’intelletto – intuitio intellectualis – viene unificata.51

50.  È questa una obiezione analoga a quella che lo stesso Evola rivolgeva a Guénon, al quale rinfacciava l’adesione all’«autoritarismo» del sapere esoterico-iniziatico, salvo poi ravvisare la contraddizione in cui incappava nella misura stessa in cui egli «parlava», o meglio «scriveva» (cfr. supra, cap. II, pp. 75-76, nota 19). Cfr. F. Coniglione, Filosofia, esoterismo e limiti del dicibile in Guénon ed Evola, in F. Carori - C. Pace (a cura di), Io e l’antropologo. Scritti in onore di Paolo Chiozzi, Bonanno, Acireale-Roma 2013, pp. 47-60. 51.  J. Evola, Il simbolo, il mito e la falsa strada dell’irrazionalismo, in Id., Antaios (1960-1970), a cura di L. Siniscalco, Fondazione Julius Evola-­Pagine, Roma 2019, pp. 50-51.

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Dopo essersi ripiegata su se stessa nella “figura” dell’Individuo assoluto, l’origine si apre alla storia definendosi nell’inestricabile intreccio con essa, perdendo così il carattere spontaneo del proprio libero determinarsi. Non è forse in ciò da ravvisare l’esito problematico della mancata chiarificazione del nesso tra filosofia e magia, la permanenza di un’ostinata volontà a pensare secondo la modalità del “dover-essere”? E la stessa piega “paternalistica” che il pensiero tradizionale rischia di assumere non è testimonianza dell’essersi fatto “segno” da parte del simbolo, dell’aver ricostituito la distanza tra ciò che è e ciò che deve essere? La “parte” viene così a farsi mancante del tutto, la storia si definisce come assenza di Tradizione. La vetta teoretica su cui l’idealismo magico arrestava la propria scalata era infatti l’eliminazione del problema dell’origine, il suo riassorbimento nell’attualità dell’esistente. È ancora Gasparotti a chiosare: Vincolare le immagini – il cui ritmo costituisce la condizione di possibilità di ogni temporalizzazione epocale – alla dimensione storico-crono-logica, comporta la conseguenza di alienare le immagini, reificandole. E – alla luce del fatto che, per Evola, l’immaginazione è ciò che inizia, attiva, accompagna e può arrestare ogni atto erotico-sessuale – comporta privare le immagini della loro originaria natura ninfale, nonché di ogni potenza erotica.52

Chiediamoci dunque: è questo l’esito ultimo della filosofia evoliana? È il simbolo, ridotto a segno, destinato a privare l’immagine quale pura forma della sua magica potenza? Se ci si arresta alla lettura canonica dell’opera e del pensiero evoliani la risposta a tali quesiti non può che essere drammaticamente positiva.

52.  R. Gasparotti, Evola e la filosofia dell’eros, cit., p. 175.

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3. Il ritorno della forma Nell’arco del biennio 1960-61 Evola dà alla luce due opere apparentemente minori. Si tratta di L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger (1960) e Cavalcare la tigre (1961). Una prima difficoltà che si presenta agli occhi di chi le approcci è senz’altro quella di trovare la loro giusta collocazione all’interno della parabola spirituale evoliana. Esse non si presentano come opere propriamente speculative, né d’altra parte possono essere ricondotte, se non con eccessiva disinvoltura filologica, nell’alveo della riflessione sulla metafisica della storia e la morfologia delle civiltà. D’altro canto, è certo che nessuna delle due opere avrebbe visto la luce a prescindere dalla precedente posizione del problema della storia e del suo significato “simbolico”. Entrambe focalizzano l’attenzione su un «tipo umano» cui viene affidato il compito di «tenersi in piedi tra le rovine», secondo una metafora tanto presente in Evola quanto abusata dai suoi più acritici lettori. Ci si concentrerà ora maggiormente sullo scritto del 1960, tentando di ravvisarvi il riesplodere delle istanze speculative caratteristiche del “sistema” cui Evola aveva dato forma nelle sue opere giovanili. Il miglior modo per incominciare a parlare della lettura evoliana dell’Arbeiter consiste probabilmente nel riferirsi al giudizio che il pensatore romano darà di un’altra opera di Jünger, An der Zeitmauer, che Evola tradurrà sotto pseudonimo nel 1965. In un articolo apparso su «L’italiano» e in seguito inserito in Ricognizioni, Evola scrive: Il libro nuovo dello Jünger, Al muro del tempo (An der Zeitmauer, Klett-Verlag, Stuttgart 1959), segna daccapo un cambiamento di rotta e riporta in una certa misura al campo dei problemi trattati ne L’Operaio […]. Dal punto di vista oggettivo, non aggiunge però molto a quel che nelle precedenti posizioni era valido e che a noi più interessava. La trattazione non è sistematica; e invece di approfondire i problemi immanenti della formazione interiore e dei significati sovraordinati dell’e-

195 sistenza nell’“èra dell’Operaio”, essa in gran parte si porta in un dominio diverso, in quello della escatologia e della metafisica della storia.53

Subito dopo, Evola precisa che in tali ambiti le intuizioni di Jünger perdono validità in quanto non sorrette da «precisi insegnamenti tradizionali»54. Il giudizio appare perentorio: tutto quanto v’è di “buono” e “valido” in An der Zeitmauer era già presente in Der Arbeiter. Tenendo presenti questi rilievi, addentriamoci più specificamente nella “cosa”. Il «muro del tempo», se da un lato separa lo storico dal preistorico (nel senso già richiamato di “epoca” qualitativamente diversa da tutto ciò che è storia), dall’altro lato, in corrispondenza del suo limite “superiore”, separa la storia dal mondo senza tempo dell’Operaio. Ancora una volta si è di fronte a una completa cesura, alla totale soluzione di continuità tra un’“epoca” e l’altra, tra l’epoca del caos e quella dell’ordine, tra quella del «borghese» e quella dell’«Operaio». Vincenzo Vitiello ha sottolineato in proposito:

53.  J. Evola, «Al muro del tempo», in Id., Ricognizioni, cit., p. 151, ora anche in Id., L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 1998, p. 157. Per esemplificare i rapporti speculativi tra Evola e Jünger, Marino Freschi ha attinto termini dall’orizzonte semantico dell’ermetismo: «credo che Evola apprezzasse in Jünger l’“opera al nero”. Il tedesco ha scarnificato l’individualismo ottocentesco con una prassi di vita che non si fermava di certo alla scrivania ed ha intuito la figura dell’Arbeiter da giovane proprio al fronte. Questo affascina Evola, lo convince dell’incredibile dimensione esistenziale, innovativa, del tedesco, del contatto con la morte, che viene vissuto con un nuovo medium che è quello della macchina, quello della guerra materiale, della Materialschlaft […]. Non c’è più spazio per il beau geste, ma soltanto per una solarità o per una padronanza, un dominio assoluto della propria emotività più profonda» (M. Freschi, Il messaggio jüngeriano, in M. Iacona [a cura di], Il Maestro della Tradizione, cit., pp. 375-376). Dello stesso autore, cfr. Jünger e Evola: un incontro pericoloso, in J. Evola, L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit., pp. 15-27. 54.  J. Evola, «Al muro del tempo», in Id., Ricognizioni, cit., p. 151.

196 Dal mondo borghese al mondo operaio non v’è continuità, passaggio, ma «salto». I due mondi indicano stratificazioni storiche diverse – ed il movimento che conduce dall’uno all’altro non è il medesimo movimento del tempo storico. Lo strato che si raggiunge col salto non è dopo quello da cui s’è spiccato il salto. È semmai prima – nel senso che è stato sempre presente.55

L’epoca dell’operaio fa collassare in sé la totalità della storia, assorbe nella pura formalità dell’Arbeiter l’intero mutevole contenuto storico. Non è allora casuale che l’interpretazione evoliana dell’Arbeiter muova dalla reiterata insistenza sul tema dell’«elementare»56. Così Evola: Il concetto dell’elementare ha una parte centrale nel libro dello Jünger. Come in altri scrittori tedeschi, il termine “elementare” qui non viene usato nel senso di primitivo; designa piuttosto le potenze più profonde della realtà, che cadono fuor dalle strutture intellettualistiche e moralistiche e che sono caratterizzate da una trascendenza, positiva o negativa che sia, rispetto all’individuo: come quando si parla delle forze elementari della natura. Nel mondo interiore, sono quelle 55.  V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., pp. 57-58. 56.  Tale insistenza è ricordata da Quirino Principe nell’introduzione all’edi­ zione da lui curata dell’Arbeiter: «Un interprete il cui nome può infastidire, Julius Evola, aggiunge a una lettura lucida e penetrante dell’Arbeiter un contesto di tesi generali che è nostro diritto non condividere, e che fu suo diritto difendere. Per Evola, il problema centrale del libro jüngeriano è l’ele­ mentare che si scatena nella guerra moderna, in cui l’umano si misura con il non-umano, ossia con il Golem della tecnica» (Q. Principe, L’età del gelo e la rivoluzione della forma, in E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, a cura di Q. Principe, Guanda, Parma 1991, p. X). In altro luogo lo stesso Principe osserva: «Nella sua lettura di Jünger, Evola ricompone due idee che sono il nerbo di libri precedenti: la superiorità (Rivolta contro il mondo moderno […]) e la libertà, che della superiorità è prerogativa (Teoria dell’individuo assoluto)» (Q. Principe, Der Arbeiter di Ernst Jünger nell’interpretazione di Julius Evola, in G. de Turris [a cura di], Julius Evola. Un pensiero per la fine del millennio, cit., p. 28).

197 potenze che possono irrompere nella vita sia personale che collettiva da uno strato psichico più profondo.57

Quanto emerge dalle indicazioni di Jünger è che l’epoca borghese sia l’epoca stessa dell’irruzione dell’elementare, che si presenta sotto la forma del pericoloso e dell’anacronistico. Evola cita Jünger: «sono note ad ognuno le relazioni esistenti fra ideali di fratellanza universale e patiboli, fra diritti dell’uomo e massacri»58. L’operazione messa in atto dalla ragione borghese di fronte al pericolo dell’elementare è l’«impermeabilizzazio­ ne» della ragione stessa, la costruzione di una cinta immunitaria che la assicuri. Ma quanto più il mondo borghese prende precauzioni per difendersi dall’elementare, quanto più lo esclude, tanto più esso avanza minaccioso alle spalle di tutto ciò che è coscienza, Stato, individuo. Se l’atteggiamento borghese di fronte all’elementare è un atteggiamento “immunitario”, negativo-escludente, con la Prima guerra mondiale irrompe la possibilità di stabilire un rapporto attivo con l’elementare stesso, di “mediarlo”. In tale contesto appare la figura del «tipo umano», descritto da Evola come colui che si fa capace di «forme superiori di lucidità, di coscienza e di autodominio, di disindividualizzazione e di realismo, perché conosce il piacere di prestazioni assolute, di un massimo di azione con un minimo di “perché?” e di “a che scopo?”»59. Nulla a che vedere con l’«operaio» inteso quale tipo umano riconducibile a una specifica classe sociale, giacché tale figura rientra a pieno titolo nel novero dei prodotti del mondo borghese. Se l’Arbeiter è il «tipo umano» che abita il nuovo mondo, la forma del suo agire (dell’agire con cui l’operaio si identifica in toto) è quella del lavoro, sotto la cui categoria è concepibi-

57.  J. Evola, L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 46. 58.  Ivi, p. 50; cfr. E. Jünger, L’Operaio, cit., p. 19. 59.  J. Evola, L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit.,p. 53.

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le ogni dinamica si presenti nel mondo pienamente «mobilitato». Anche a questo proposito Evola è diretto e chiarissimo: «In genere, come lavoro nel senso dello Jünger si può intendere la categoria dell’“essere in atto”, con relazione a un tipo umano caratterizzato da rapporti attivi, inattenuati, efficienti con le forze pure, oggettive della realtà, da un nuovo connubio con l’elementare in sé e fuori di sé»60. Ancora: qui il “lavoro” appare come una grandezza autonoma, non derivata, non subordinata alla economia, alla politica e alla cultura; vale come un modo d’essere, che non è quello dell’homo faber semplicemente, ma di chi sente di stare nell’essere e di partecipare all’essere in quanto è assolutamente in atto […]. Nei suoi aspetti speciali (o meglio, specializzati), il lavoro subisce la condizionalità del suo oggetto; nel suo aspetto totale ha la qualità indivisibile di un unico modo d’essere, e si riferisce al tutto.61

È questo un elemento di fondamentale importanza. Il lavoro considerato nel suo carattere totale, quale coincidente con la forma-operaio, non è vincolato a uno scopo, come invece accade nel lavoro «specializzato». Esso non è la riproposizione del dualismo ma il suo superamento, l’annullamento di qualsivoglia distanza, compresa quella tra meccanico e organico, giacché a manifestarsi nel lavoro – seppur in forma totalmente inedita – è la vita nel suo insieme. A tutto ciò fa riferimento il carattere puramente formale dell’operaio. A proposito della dottrina della Gestalt, da Evola tradotto con «figura», il filosofo romano scrive: «Le figure non divengono, non evolvono, non sono i prodotti di processi empirici, di rapporti orizzontali di causa ed effetto. Trattandosi di puri modi dell’esistenzialità, ad esse non si possono applicare valori morali e estetici. Il loro valore è la

60.  Ivi, p. 55. 61.  Ibidem.

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loro realtà»62. La forma è il puro essere che si rivela in grado di accogliere e annullare la stessa volontà di potenza che si impone dopo il deserto del nichilismo, dopo la «fase di transizione». Pertanto, sentenzia Evola: «la dottrina della figura, Gestalt, può chiamarsi la “metafisica” del mondo dell’operaio»63. L’altro termine che figura nel sottotitolo di Der Arbeiter, Herrschaft, viene letto da Evola come volontà ripiegantesi su se stessa, istante della piena coincidenza di potenza e diritto. Herrschaft è l’atto con cui l’elementare è assunto nella forma dell’operaio, nell’istante a-temporale del suo apparire. In questo terreno affonda le radici la stessa concezione jüngeriana della libertà dell’operaio, identificata all’ubbidienza. Commenta Vitiello: Nel mondo dell’Operaio l’estraneità del singolo al Tutto – l’illusione e la finzione della storia «borghese» – è aufgehoben,

62.  Ivi, p. 58. 63.  Ivi, p. 59. Sono noti i rilievi critici di Heidegger alla dottrina della «forma» dell’Arbeiter. In particolare, di fronte all’esigenza fatta valere da Jünger di oltrepassare la «linea» del nichilismo, Heidegger invita a sostare sulla linea, intendendo l’über di Über die Linie come un de linea contrapposto al trans lineam jüngeriano. Egli riconduce inoltre la metafisica dell’Arbeiter all’interno del preciso orizzonte dischiuso dalla nietzscheana rappresentazione dell’ente come volontà di potenza. A partire da questa prospettiva esegetica, Heidegger mostra come l’Arbeiter jüngeriano continui imperterrito a muoversi all’interno della metafisica occidentale e quindi di quel nichilismo la cui «linea» pretenderebbe di oltrepassare. Ne è testimonianza lo stesso linguaggio di cui l’Arbeiter si appropria. Lo stesso concetto di «forma», al centro dell’Arbeiter, viene inteso da Jünger, secondo Heidegger, in analogia con quello di «idea» e quest’ultimo a sua volta ricondotto alla forma della «rappresentazione». Heidegger si interroga radicalmente anche sul significato di «lavoro» che viene dischiuso dall’Arbeiter jüngeriano, portando a evidenza l’ambiguità semantica per la quale da un lato il lavoro sarebbe «la rappresentazione della forma del lavoratore», dall’altro esso rappresenta lo strumento con cui la forma dell’Arbeiter pervade e mobilita il mondo (cfr. M. Heidegger, La questione dell’essere, in M. Heidegger - E. Jünger, Oltre la linea, tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989, pp. 107-167).

200 tolta, superata. Non v’è libertà se non come ubbidienza. Questa identificazione va, però, compresa: essa non indica soggezione al tiranno […]; esprime, al contrario, un più elevato livello di libertà. La libertà come interiore necessità.64

Questo più intenso grado di libertà è ciò che distingue il Tipo dall’individuo borghese. Tale distinzione trova altresì fondamento in una ragione più profonda, peculiarmente filosofica. Scrive Evola: Il nuovo fatto dell’integrazione antindividualistica del singolo in una totalità si delinea anche su di un piano più alto. Mentre l’individuo per cogliere il senso di sé e trovare la propria conferma, sentiva il bisogno di contrapporsi il mondo, il “Tipo” si sente parte di esso e si muove a suo agio in un nuovo spazio che solo ad un occhio esterno può apparire meraviglioso o terribile.65

Nel mondo dell’operaio è risolto anche quell’ultimo residuo della vecchia epoca borghese rappresentato dal conflitto tra individuo e massa. In esso si concretizza una precisa gerarchia di «tipi umani», ove il gradino più alto è riservato a colui che si pone in rapporto immediato con il carattere totale del lavoro, inteso come agire puro svincolato da ogni legge che non sia autoimposta. La libertà «negativa» dell’epoca borghese (libertàda) lascia spazio a una libertà «positiva» che non richiede più di essere distinta dal proprio opposto. «La tecnica è una nuova lingua», osserva Evola, tentando di mantenersi ugualmente distante dagli opposti atteggiamenti – ingenuamente ottimistici e sterilmente pessimistici – di fronte alla tecnica e al suo rapporto con l’uomo: Ciò che induce a interpretare negativamente gli effetti della tecnica sull’uomo e che è effettivamente la causa dell’a-

64.  V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., p. 57. 65.  J. Evola, L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 76.

201 narchia e della crisi da essa determinate, si lega al fatto che è l’uomo di ieri ad usare e a cercar di dominare il mondo della tecnica, sperando di poterlo ordinare a valori, forme e leggi di vita ad esso non adeguate, partendo dall’errato concetto che il dominio della tecnica sarebbe neutro, riguarderebbe unicamente il campo dei mezzi. La situazione cambierà radicalmente quando alla figura del borghese e dell’uomo del XIX secolo si sostituirà quella dell’operaio; questi nella nuova lingua riconoscerà la sua propria lingua e la parlerà [qui Evola cita direttamente Jünger] «in termini non di mera razionalità, di progresso, di utilità e di comodità, bensì nei termini di una lingua primordiale».66

È di tale nuovo «mondo della parola» che l’operaio si fa autentico “soggetto”67. Nel «paesaggio da officina» di cui parla Jünger ogni forma determinata è negata, nulla sta, ma tutto è

66.  Ivi, p. 85 ; cfr. E. Jünger, L’Operaio, cit., p. 151. 67.  Si utilizza l’espressione «mondo della parola» per segnare l’analogia tra il mondo dell’operaio e la realtà magica che viene tematizzata in molteplici luoghi dell’opera evoliana. Tale espressione si riferisce alla dottrina indiana dei mantra, secondo cui il Verbo è principio supremo di tutte le cose create. Esso si articola in una successione emanativa gerarchica: «nella prima, suprema potenza del Verbo, chiamata çabdabrahman, parola e significato sono una sola e medesima cosa, la espressione è pura autorivelazione […]. Il Verbo nel suo farsi carne si gemina, per il suo stesso procedere ciò che era un significato si scioglie da lui e si fa oggettivo in una ex-sistenza. In questo processo dicotomico il “suono supremo” (para) assume due aspetti. Il primo è detto “stato sottile o causante” (sûkshma, kârana) del suono e corrisponde alla “natura naturante” […]. In questa seconda potenza del “suono” si ha dunque un insieme di funzioni cosmogone corrispondenti ai lógoi spermatikói della speculazione greca e alle “lettere di luce” della Kabbalah e che appunto sono chiamate “lettere allo stato causante” o mâtrkâ (piccole madri) […]. Dalla “combinazione” di queste lettere procederebbero tutte le cose del mondo» (J. Evola, Della ‘purità’ come valore metafisico, in Id., I saggi di Bilychnis, cit., pp. 31-32. Riferimenti alla dottrina orientale dei Mantra, sia nell’originaria declinazione vedica che nella rielaborazione tantrica, si trovano in J. Evola, Lo Yoga della potenza. Saggio sui Tantra, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 1994, soprattutto pp. 130-137).

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compreso nel proprio «essere in atto», secondo la forma assoluta dell’operaio. La «nuova lingua» non esclude l’elementare formando un cordone immunitario volto a esorcizzarlo, ma lo trans-figura. Scrive Evola: di là dalla dissoluzione del mondo borghese operata dalla tecnica, di là dal regime di puro dinamismo di forze quasi autonomizzatesi, subentrato a tale dissoluzione, ci si deve avviare verso un mondo nuovo della stabilità e del limite, quindi, in un certo modo, verso un nuovo classicismo dell’azione e del dominio, dove significati d’un ordine superiore dovranno esprimersi attraverso la nuova lingua meccanica integrata, divenuta univoca perché fissata in uno stato di perfezione.68

Nella presente «fase di transizione» il «paesaggio da officina» che prelude all’avvento del Tipo convive con il «paesaggio da museo», retaggio dell’epoca borghese. Nello stesso mondo dell’arte, come Evola ribadisce a più riprese, l’operaio si riavvicina all’impersonale fare poietico delle origini distanziandosi dal “soggettivismo” borghese animato dalla ricerca dell’oggettività pura. L’attività dell’operaio «avrà per oggetto forme aventi un carattere non più soggettivistico ma “tipico”»69. Questo movimento non è però teso al recupero di un’origine determinata. Gli stessi accostamenti del “fare” dell’operaio all’arte tradizionale – che pure non mancano nella lettura di Evola – sono invero molto timidi e rapsodici70. L’avvicinamento alle 68.  J. Evola, L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 87. 69.  Ivi, p. 98. 70.  Discutendo il problema della techne quale forma dell’aletheuein in Heidegger, M. Cacciari ha scritto: «se […] la salvezza coincide con un modo determinato del disvelamento, quello proprio del fare poietico, la cui somma possibilità è già apparsa in quell’arte che portò alla presenza “il dialogo del destino divino e del destino umano”, ci troviamo di fronte a una risposta assai prossima a quella del tradizionalismo (da Sedlmayr a Coomaraswamy), ma ancora il non-ancora non sembra giustificarsi poiché qui esso in effetti si ri-piega, rammemorando, in una forma già apparsa di disvelamento pro-

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civiltà tradizionali si affianca invece al riferimento, più presente nell’opera di Jünger, al mondo della natura, cui il filosofo tedesco si appella per fornire la spiegazione del suo modo di intendere la forma. Evola riporta queste parole del pensatore tedesco: Nell’immensa varietà delle specie che popolano il nostro mondo vige una legge rigorosa che cerca di garantire nette strutturazioni e la costanza scrupolosa di ogni forma […]. Non vi è nulla di più regolare della disposizione degli assi dei cristalli o dei rapporti architettonici di quelle piccole opere d’arte calcaree, cornee o silicee che popolano il fondo dei mari; e non senza ragione vi è stato chi ha pensato di fare una unità di misura del diametro di una cella di alveare.71

Il richiamo alla “forma del fare” propria alla physis suggerisce il tentativo di sottrarsi a tutto ciò che è teleologismo, scelta, anticipazione di un fine. Solo nella libera spontaneità della physis è ravvisabile qualcosa di simile all’attività dell’operaio in quanto piena corrispondenza di libertà e ubbidienza. Nel lavoro dell’operaio viene meno lo scarto tra la dimensione eidetico-universale del telos che orienta la techne e l’orizzonte pratico-particolare del pro-dotto della tecnica stessa72.

ducente» (M. Cacciari, Salvezza che cade. Saggio sulla questione della Tecnica in Heidegger, in M. Cacciari - M. Donà, Arte tragedia tecnica, Cortina, Milano 2000, p. 10). 71.  Cit. in J. Evola, L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit., pp. 103104; cfr. E. Jünger, L’Operaio, cit., p. 204. 72.  Per una discussione completa di tali decisive questioni, volta anche, tra le altre cose, a definire i rapporti tra il concetto classico e quello moderno di techne e – soprattutto – tra il fare “tecnico” e il fare “artistico”, cfr. M. Donà, Il fare perfetto. Dalla tragedia della tecnica all’esperienza dell’arte, in Id., M. Cacciari, Arte tragedia tecnica, cit., pp. 67-112. Sugli stessi temi si veda anche R. Gasparotti, Poiesis e Chronos, in M. Cacciari - M. Donà - R. Gasparotti, Le forme del fare, Liguori, Napoli 1987, pp. 11-45.

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Del resto, Jünger lo afferma in maniera chiara: «tecnica e natura non sono in contraddizione»73. Il concetto di una libertà dell’individuo che si afferma sulla (e a discapito della) natura è un concetto ancora «borghese», che trova nella legge della concorrenza in economia e nel paradigma del progresso in filosofia della storia le sue immediate corrispondenze74. Nelle «considerazioni finali» dell’opera Evola ridiscute alcuni temi centrali della propria lettura dell’Arbeiter. Viene anzitutto rievocato il tema dell’elementare. La sua irruzione è testimoniata da una molteplicità di espressioni tipiche del mondo moderno: Oggi vi sarebbe solo l’imbarazzo della scelta per raccogliere una documentazione adeguata e aggiornata di forme molteplici di compensazione, di evasione o di rivolta, di nevrosi pandemiche, di un regime di stupefacenti, di criminalità gratuita, di aperture anche collettive verso il primitivistico e il sessuale.75

Ciò è testimonianza del permanere del “compito” dell’integrazione di tali forme non mediate. Il retaggio residuale del Sollen testimonia la non ancora raggiunta mediazione assoluta tra ciò che è e ciò che deve essere. La “vigenza” dell’elementare è, in uno, segno del non ancora ac-caduto mondo dell’operaio e del dovere di farlo accadere. Ancora un dover-essere si presenta dunque all’individuo. Nella figura dell’operaio prende forma la possibilità di compiere tale Sollen stabilendo un nuovo rapporto con l’elementare. In ciò, come detto, non si ha una mera ricostituzione della civiltà tradizionale, il recupero di un’origine

73.  E. Jünger, L’Operaio, cit., p. 179. 74.  Cfr. ivi, p. 204. 75.  J. Evola, L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 118. Una completa discussione di tali espressioni, interpretate come epifenomeni dissolutivi interni al mondo dell’arte, si trova in J. Evola, Cavalcare la tigre, cit., pp. 133-150.

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determinata, ma l’attualizzazione dell’origine stessa in quanto negata, secondo un movimento in sostanziale accordo con quello caratterizzante l’Assoluto nelle opere filosofiche evoliane. Ne L’Operaio il lavoro riceve inoltre un’impronta metafisica e ciò, sottraendo tale concetto al suo significato esclusivamente “profano”, gli conferisce un carattere sacrale che scardina la stessa dottrina tradizionale della «regressione delle caste». Essa prevede infatti una decadenza irrevocabile, ciclica, continua, da epoche in cui dominano le caste “superiori” a quelle in cui a ottenere la guida delle civiltà sono gli “Stati inferiori”76. Sviluppando le intuizioni jüngeriane, Evola si dimostra disposto a inserire una discontinuità internamente a tale successione. Così scrive Evola: l’attualismo de L’Operaio non deriva né da esperienze filosofiche, come quello di certi epigoni dell’idealismo assoluto, né da applicazione del marxismo, come quello concepito in certi settori dell’area comunista; è un attualismo “esistenziale” scoperto per la prima volta da un tipo umano altamente differenziato fra le esperienze della grande guerra. Così è come se ai processi potenzialmente distruttivi per la civiltà del Terzo Stato, o civiltà borghese, venisse riconosciuto soltanto un 76.  In accordo con tale dottrina la storia viene intesa come progressiva assunzione del potere da parte delle caste più basse, con corrispondente decadenza nel passaggio di “visione del mondo” da una civiltà all’altra. Dai capi sacrali si passa alla nobiltà guerriera, da questa al dominio della borghesia e infine al collettivismo caratteristico del dominio del Quarto Stato, con relativa estensione del modo di vita e dell’etica del lavoratore a ogni ambito del reale. Sia detto di passata che, a partire da Rivolta, Evola interpreta la concezione che vede nel pensiero un’azione, un fare, un produrre – tipica di certo idealismo – come un segno dei tempi e una elevazione del modo tipico della quarta casta, il lavoro, a paradigma anche filosofico. Su tutto ciò, cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 369-378, ove in nota Evola opportunamente riconduce la dottrina della regressione delle caste alla dottrina tradizionale delle «quattro età», avente come paradigma “occidentale” Esiodo (ivi, p. 369, nota 1).

206 valore tattico, avendo come mèta positiva non una civiltà del Quarto Stato, ma strutture e leggi di vita affini come spirito a quelle proprie a civiltà del Secondo Stato. […] Per gli accenni molteplici alla “metafisica” del mondo del lavoro e alla figura a esso sovraordinata, per gli esempi scelti da civiltà tradizionali a sfondo malgrado tutto sacrale quando egli ha voluto dare una suggestione delle forme terminali, non più dinamiche, rivoluzionarie e attivistiche, del mondo del Tipo, lo Jünger si è spinto ancor più oltre verso le origini.77

Il sigillo «metafisico» che Jünger attribuisce al lavoro mantiene l’operaio sideralmente distante dal tipo umano che abita l’epoca della «pandemia del lavoro» e del dominio del Quarto Stato: «In effetti, presi nel senso jüngeriano, lavoro, operaio, e Stato del lavoro non sono più categorie del Quarto Stato, appaiono integrati con valori di carattere eroico, attivistico e, in un certo senso, anche ascetico-guerriero»78. D’altro canto, il carattere totalizzante della tecnica è tale da negare ogni forza di tipo non tecnico, quali le potenze spirituali e le loro proiezioni, gli edifici di culto, tematica che il pensatore tedesco reintrodurrà, in chiave storico-metafisica, in An der Zeitmauer, dove si legge: «Alla nascita di ogni luogo sacro si lega tuttavia anche una certa perdita, perché esso crea nel contempo zone aventi un minore significato spirituale. Nel giardino dell’Eden non esistevano ancora sacrari»79. Destino dell’Arbeiter è forse allora quello di ristabilire la sacralità originaria mediante il perfetto dominio dell’elementare. Senonché, come si è visto, l’irruzione dell’elementare è letta da Evola come apertura di una possibilità che lacera la stessa narrazione storica così come essa viene intesa da Jünger medesimo:

77.  Ivi, p. 120. 78.  Ibidem. 79.  E. Jünger, Al muro del tempo, tr. it. di C. d’Altavilla (J. Evola), Volpe, Roma 1965, p. 70.

207 lo Jünger dà quasi per certo che, obbedendo alla sua nascosta metafisica, l’èra della tecnica e del lavoro condurrà al mondo del “Tipo” e alla sua sovranità. Ciò equivale a dire che non ci sarebbe dubbio circa una futura civiltà universale, in cui l’elementare ridestatosi nei tempi ultimi non sarà escluso ma anzi assunto e fatto parte integrante e positiva di una esistenza potenziata e perfino trasfigurata, di là da tutte le categorie, i valori e gli ideali di tipo borghese. Sta però di fatto che l’elementare può anche prorompere conservando le sue valenze negative, perfino demoniche; e questa possibilità, sufficientemente attestata dai tempi ultimi, con inclusa la Seconda guerra mondiale, ne L’Operaio non è affatto considerata.80

È questa semplicemente una critica all’eccessivo “ottimismo” intravisto nell’idea dell’operaio-dominatore? Oppure vi è una ragione teoretica che la sorregge e sostanzia? In tale critica sembra riemergere l’insecuritas da cui l’Io è minacciato lungo tutto l’itinerario fenomenologico tracciato da Evola. Può egli dirsi sicuro della quiete raggiunta una volta oltrepassato lo stesso movimento dialettico? In termini jüngeriani: può l’operaio liberarsi definitivamente dai tratti dell’individuo borghese? E questo liberarsi-da non è forse la testimonianza del non essersi per nulla liberati (del resto, la libertà-da è esattamente la libertà che appartiene all’individuo borghese, l’operaio definendosi come colui che è libero-per)? Ha scritto Massimo Cacciari: L’Operaio è il soggetto della tecnica; nella sua figura si compie il dinamismo che la domina. La tecnica viene con ciò portata al suo limite, che è anche la sua perfezione […]. Il movi-

80.  J. Evola, L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 121. In un articolo apparso nel 1943, quindi quasi vent’anni prima del libro sull’Arbeiter, Evola sembra in realtà avanzare l’ipotesi che la possibilità della “vittoria” dell’elementare sia contemplata in un’altra opera di Jünger, Sulle scogliere di marmo, ove «il mondo del “Forestaro” finisce col sopraffare quello della Marina e delle Scogliere di Marmo» (cfr. J. Evola, L’“Operaio” e le Scogliere di Marmo, in Id., L’“Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger, cit., pp. 131-142).

208 mento si acquieta nella libertà-per dell’Operaio: libertà per la creazione di “costruzioni organiche”, di “paesaggi pianificati”, di associazioni “di volontà nel quadro di processi necessari e oggettivi”.81

Il processo di sussunzione della totalità della storia nella pura formalità dell’Arbeiter si arresta di fronte all’ultimo atto di tale sussunzione. L’epoca dell’operaio non riesce a de-cidersi da quella del borghese, esattamente come rimaneva incerta la decisione della magia dalla filosofia, dell’Individuo assoluto dall’Io trascendentale. E dal momento che, per Jünger, è solo nell’orizzonte dell’operaio che la storia assume il connotato della necessità, la storia stessa in quanto processo necessario non riesce a costituirsi come un tutto unitario. Aporia lucidamente ed efficacemente messa in luce da Vincenzo Vitiello: se con la «forma-Operaio» entra nel mondo una «necessità» non presente negli strati precedenti della storia, come può tale forma coprire l’intero spazio storico, ancorché ad un determinato livello? Là dove domina l’accidentalità del tempo come dire presente l’ordine necessario della Totalità? In Der Arbeiter emerge in piena luce un contrasto […]. La coscienza storica che caratterizza la forma-Operaio ne coinvolge l’essere, che pertanto non s’identifica più con l’accadere della storia, ma solo con un momento di questo. La distinzione tra essere e coscienza (= forma), tra il non storico accadere della storia e la storica «formale» consapevolezza di questo accadere risulta

81.  M. Cacciari, Salvezza che cade, cit., pp. 35-36. A parere di Cacciari, pertanto, l’Arbeiter permane pienamente all’interno del paradigma teleologico e dunque nell’orizzonte del Soggetto, seppur di un «Soggetto sui generis: un Soggetto che nasce dalla cancellazione dei “ceti”, dal dissolvimento di ogni trascendenza, dal farsi generale della volontà. Eppure, l’istanza soggettiva rimane ancora evidentissima nell’effetto di signoria che l’Arbeiter – certo, al culmine soltanto della sua Gestalt – riesce a esprimere nei confronti della produttività di per sé indefinita della tecnica. Il Soggetto permane in questa istanza di ordine e di forma che, provenendo dalla stessa mobilitazione totale, finisce col renderla “perfetta”» (ivi, pp. 36-37).

209 impossibile. Risulta impossibile liberarsi dal tempo; impossibile il salto dalla storia al Presente. La forma-Operaio subisce il contraccolpo del tempo. Il movimento «verticale» tra i vari strati della storia è così livellato al movimento «orizzontale» del tempo storico.82

La «mobilitazione totale» raggiunge nella forma dell’operaio la sua quiete, la sua legge (in Über die Linie si legge: «La quiete abita nella forma, anche nella forma del lavoratore»)83. Ma per Evola l’elementare potrebbe anche non venire completamente illuminato dalla luce emanata da tale forma, la possibilità del permanere nell’ombra deve essere mantenuta e affermata. Se l’elementare permane, l’operaio è colui che è chiamato a lasciarlo essere, a «cavalcare la tigre» senza fronteggiarla apertamente. È in tale ricevere-dar forma che si concretizza la libertà dell’Individuo assoluto. In questo modo siamo ricondotti al giudizio evoliano relativo a An der Zeitmauer. In tale opera Evola vedrà probabilmente la riproposizione dell’ottimismo metafisico dell’Arbeiter. Il problema dell’elementare è ivi riproposto nei termini di «fondo primordiale», Urgrund, «materia», l’“attualizzazione” del quale può essere intesa in due modi: 1) L’uomo in quanto essere spirituale può coglierla e isolarla; egli può dunque suscitare allo stato puro una potenzialità nascosta nella materia, assumerla e contesserla nello stile mondiale, al modo di un artista o di un artigiano. 2) La spiritualizzazione quale forza della terra può investire e includere l’uomo, irradiandosi attraverso lui e le sue opere come da vertici. In tal caso la materia nella sua forma più profonda, la materia come fondo primordiale s’impadronirebbe dell’uomo, facendolo servire alla spiritualizzazione del mon-

82.  V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., pp. 58-59. 83.  E. Jünger, Oltre la linea, in M. Heidegger - E. Jünger, Oltre la linea, cit., p. 99.

210 do. Le monadi dell’intelligenza universale e umana allora si armonizzerebbero, si conformerebbero le une alle altre. E dal mondo quale creazione spirituale, nel quale rientra anche l’aspetto puro della materia, risuonerebbe, per l’uomo, il «Questo, sei tu» […]. Ci si può immaginare che il fondo primordiale tenda alla spiritualizzazione, servendosi, a tal fine, fra l’altro, dell’uomo quale mezzo. Si tratterebbe di una nuova fase della spiritualizzazione della terra, dopo le molte altre che vi sono state, e nel suo collaborare l’uomo dovrebbe sentire la responsabilità di fare in modo che il corrispondente movimento non si fermi, di impedire che esso si cristallizzi magicamente. Ovvero si può concepire che l’uomo con una sempre maggiore consapevolezza (da non confondersi però con la libertà) penetri attraverso una serie di strati, il più recente dei quali ha il nome di storia, fino a raggiungere, in un certo modo, il fondo primordiale, per spiritualizzarne e attivarne delle parti. Nei punti dove lo toccherà, si avranno possenti risposte.84

84.  E. Jünger, Al muro del tempo, cit., pp. 149-151. Vitiello mette in evidenza come la riflessione jüngeriana sulla storia sia fondata su una particolare logica «combinatoria», distinta dalla logica «aritmetica» classica. A partire da tale mutato quadro prospettico Jünger muove la sua critica all’«alessandrinismo» spengleriano e alla sua «morfologia». Vitiello vede altresì nella successione di epoche indicata da Jünger il retaggio residuale di una concezione antropocentrica catalogabile sotto la voce di “filosofia della storia”: «per quanto Jünger intenda varcare la soglia della storia dell’uomo, alcune determinazioni proprie di questa restano anche nella storia oltre-umana. Storia dell’uomo, del mondo, della Terra saranno pure strati differenti di tempo, ma tra essi v’è un ordine, una successione – anche se non lineare – che tradiscono la presenza dell’umana, troppo umana idea della filosofia della storia: l’idea di progresso […]. Jünger non si è mai chiesto onde e come sorga l’ordine, l’ordine del tempo e della storia – domanda che pur si posero e Vico e Hegel, anche se subito coprendola con una risposta che ne tradiva il thàuma. Ora è solo questa domanda che impedisce alla meditazione sulla storia di fermarsi, soddisfatta, alla pur ricca morfologia della storia che il più “alessandrino” autore del nostro tempo ha saputo costruire e che Jünger ha giustamente criticato. Ma questa domanda impone che nell’interrogarci sull’origine noi si sappia custodirne l’alterità, e con essa il senso della nostra

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Ancora in An der Zeitmauer Jünger afferma: La conquista del mondo da parte del tipo dell’Operaio avviene anzitutto con la penetrazione dell’invisibile e del non-misurabile. A tutta prima vengono gettate reti di ragno, con le quali poi si fanno fili, corde e infine catene. Ogni esperienza e ogni prassi sono precedute da prese spirituali di possesso. Le immagini della mente tracciano le vie che conducono verso nuovi domini.85

Così ragionando, si esce forse da quello che Jünger stesso chiama il «dominio familiare della storia» o non si resta piuttosto quanto mai avviluppati in esso, eternamente prigionieri del proprio antropocentrico punto di osservazione? Problema che rimane aperto e privo di soluzione e che anche Evola avverte. L’«uomo differenziato», i cui contorni egli tenta di disegnare in Cavalcare la tigre, è colui che inserendosi nel ciclo predeterminato della storia agevola i processi dissolutivi per accelerare la fine della decadenza e far incominciare un nuovo ciclo. Il «tipo umano» che Evola ha di mira in questo testo è – si potrebbe dire, mutuando il lessico jüngeriano – colui che si porta in prossimità del «muro del tempo», vi si arrampica e guarda oltre. Salvo subito forse accorgersi, con enorme e tragico stupore, che di là dal muro lo attendono gli stessi identici paesaggi in cui ha vissuto al di qua.

4. Considerazioni finali Si è visto che la de-cisione del Tipo, dell’operaio, dal borghese, è un atto incondizionato, privo di fondamento. Ciononostanradicale finitezza» (V. Vitiello, La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumenberg a Vico, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 41; ma cfr. pp. 27-42). 85.  E. Jünger, Al muro del tempo, cit., p. 160.

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te, Jünger si pone alla ricerca di una mediazione. Si potrebbe anzi azzardare l’ipotesi che tutto l’Arbeiter non sia altro che un tentativo di trovare tale mediazione, di inventarla. Compito quanto mai arduo, se per descriverlo il pensatore tedesco ricorre a una immagine tanto evocativa quanto di non immediata comprensibilità: «Il nostro compito di giocatori non è quello di fare le puntate come avversari del tempo, bensì quello di puntare sul banco di cui il tempo è croupier»86. È quanto viene adombrato anche nelle seguenti parole: «Non si può evitare che prima del salto l’intenzione prenda il posto dell’effettiva visione»87. Ogni agire, compreso quello che conduce dall’agire secondo uno scopo a un agire puro, “sacrificale”, è orientato da un’intenzionalità che oscura la vista. La dialettica della durata non può essere vinta opponendovisi direttamente. A questo livello siamo risospinti a Evola: dall’angolo di osservazione così raggiunto, appare chiaro che il rapporto sussistente tra l’operaio e il borghese è l’equivalente di quello che intercorre tra l’Individuo assoluto e la dialettica di matrice fichtiana (si potrebbe dire «borghese») che si è visto contraddistinguere la evoliana «via dell’Altro». Ciò significa altresì che il problema del rapporto tra mondo borghese e mondo operaio è il medesimo problema del rapporto tra filosofia e magia che turbava e inquietava le pagine degli scritti filosofici evoliani. L’impressione che se ne trae è che, nel pieno della fase “tradizionalista” della propria riflessione, ricompaiano dinanzi a Evola le aporie delle sue speculazioni giovanili. Nell’Arbeiter jüngeriano egli non vede la risoluzione di tali aporie, ma la cor-rispondenza ad esse. Insieme, vi intravede forse la possibilità di “calare” l’Individuo assoluto nella storia per una via alternativa a quella della ricerca di un u-topico passato tradizionale. Lo sforzo dell’Arbeiter è indirizzato a risolvere l’alterità dell’origine nell’attuali86.  E. Jünger, L’Operaio, cit., p. 43. 87.  E. Jünger, Al muro del tempo, cit., p. 166.

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tà della forma, a dare vita a un mondo senza centro in cui ogni punto possa essere contemporaneamente centro e periferia, così come il compito dell’Io assoluto evoliano era di affermare il proprio dominio su tutto ciò che potesse presentarsi come alterità, attivando una peculiare forma di «agire senza agire», indisponibile ad accogliere ogni tipo di “urto”88. Eppure, non è proprio in questa operazione di radicale riduzione dell’alterità alla pura forma dell’Io che si apre lo squarcio da cui irrompe una nuova, assoluta alterità? La forma dell’Arbeiter è, al pari dell’Individuo assoluto, lo spazio del farsi immagine del mondo. Ma l’immagine è lacerata al suo interno dalla mancata mediazione, dalla mancata indicazione di come si passi dal mondo alla sua immagine, dalla filosofia alla sua proiezione e “prosecuzione” magica. Il loro rapporto rimane un puro dato, un “che” di non spiegato. La sinfonia simballico-analogica che unisce Io e mondo subisce un improvviso arresto. È l’istante in cui l’assoluta libertà irrompe, riconducendo all’inizio, al punto in cui il mondo deve essere ancora «moralizzato», ricondotto a «valore» (nel senso illustrato). Torniamo allora al punto cruciale attorno a cui ruota tutto quanto si è fin qui detto, vale a dire alle pagine della Fenomenologia dell’Individuo assoluto dedicate alla coscienza filosofica. Nel secondo capitolo si è osservato come in esse emerga un disallineamento tra il criterio logico della certezza e quello magico della potenza che rende il primo non pienamente sussumibile nel secondo. Tra essi si apre un varco che corrisponde alla stessa lacerazione dell’immagine magica del mondo; esso è lo spazio in cui l’Io si accorge che ogni incontro con l’altro non è che l’incontro con il più 88.  Come ha rilevato Massimo Donà, al mago «spetta intuire di là da ogni argomentazione e deduzione» la potenza incondizionata di cui ogni fenomeno è espressione, «facendola diventare esperienza concreta nel contesto di un agire che sarà veramente mio solo là dove io sappia che, ad agire, in me, non sarò mai Io (non sarà mai l’Io che, in me, si contrapporrà al Non-Io costituito dal mondo e dalle sue forme)» (M. Donà, Jünger-Evola, cit., p. 66).

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profondo se stesso89, ma, insieme, che tale cammino eroticognostico di riconoscimento è sempre ancora da realizzare, mai definitivamente risolto. L’alchemico solve et coagula è un processo infinito, il sacrificio di Dio che si crocifigge al «legno del mondo» va sempre ancora compiuto90. In conclusione, una suggestione. Nel suo libro su Giordano Bruno e la tradizione ermetica, la studiosa Frances A. Yates individua nel filosofo nolano uno dei più eminenti rappresentanti della tradizione filosofico-ermetica avviatasi durante il primo Rinascimento con l’attribuzione di una serie di testi di epoca tardoantica a Ermete “tre volte grande”. Bruno sarebbe un decisivo anello della aurea catena di quella prisca philosophia che dall’antichissimo Ermete giunge – più o meno esotericamente trasmessa – agli albori della modernità91. Convinzione comune a tutti i “maghi” rinascimentali è il carattere complementare di filosofia e magia, convinzione che si traduce in una concezione eminentemente operativa e pratica della filosofia stessa. Da questo punto di vista, l’opera di Evola presenta i requisiti necessari per venire inserita in quella che possiamo chiamare la tradizione “magica” del pensiero italiano92. Se in Bruno,

89.  Si potrebbe osservare che qui Evola ritrova proprio Fichte, dopo averne additato la dialettica senza sintesi come matrice formale della «via dell’Altro». 90.  Tale simbologia ermetica, affiancata a molte altre di diverse tradizioni, riempie le pagine dell’ultima epoca della Fenomenologia dell’Individuo assoluto. 91.  Cfr. F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, tr. it. di R. Pecchioli, Laterza, Roma-Bari 2010. 92.  Va rilevato, a questo livello, come l’incontro tra Evola e Bruno sia un confronto “mancato”. Fatta eccezione per Metafisica del sesso – in cui il nome del nolano compare esclusivamente in relazione a Gli eroici furori – e ad altri rapsodici riferimenti in Imperialismo pagano e Rivolta contro il mondo moderno, fa quasi impressione la scarsa attenzione da Evola rivolta all’opera bruniana. È stato osservato che tale sostanziale silenzio fosse probabilmente dovuto, specie nel periodo a cavallo delle due guerre, alla monopolizzazione

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come ha sottolineato Massimo Donà in riferimento al Lampa triginta statuarum, si configurano due sensi della negazione, uno riconducibile al Vuoto o Caos – che è «estraneo all’agire e al patire, perfettamente impassibile (al contrario della Materia, che ‘patisce’ poiché è ‘formabile’), il Caos è assolutamente ozioso, è pura indifferenza»93 – l’altro ravvisabile nel semplice «distinguersi» di ogni ente da ogni altro, la stessa duplicità può essere ravvisata in Evola, segnatamente in quelle che abbiamo visto essere chiamate «astrazione in estensione» e «astrazione in intensità», considerabili le forme caratteristiche di manifestazione dell’ente all’interno rispettivamente della «via dell’Altro» e della «via dell’Individuo assoluto». Inoltre, Evola invita, in sintonia con ogni sapere magico, a porre l’attenzione sulla valenza pratica e pragmatica dell’immagine come puro «mostrarsi dell’esistere di ciò che esiste»94 al di là di ogni sua valenza meramente segnica. Già in Bruno, come ricorda la Yates, arte, magia, amore e mathesis sono strumenti per recuperare la «comunione magica con la natura»95 che i pedanti dottori delle università, contro cui Bruno indirizza i propri strali, avevano contribuito in maniera decisiva a frantumare e che la visione delle «ombre delle idee» può aiutare a reinstaurare96. È

degli studi bruniani da parte della scuola gentiliana (cfr. D. Bigalli, Evola e la tradizione ermetica, cit., p. 49). 93.  M. Donà, Magia e filosofia, cit., p. 129. 94.  R. Gasparotti, L’amentale, cit., p. 73. 95.  F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 298. 96.  Scrive la Yates: «ritengo che le “ombre delle idee” bruniane siano le immagini magiche, le immagini archetipe celesti, che sono più vicine alle idee della mente divina di quanto non lo siano le cose inferiori […]. Le immagini magiche erano collocate sulla ruota del sistema mnemonico, al quale corrispondevano altre ruote su cui erano indicati tutti i contenuti fisici del mondo terrestre – elementi, pietre, metalli, erbe e piante, animali, uccelli, e così via – e il complesso della conoscenza umana accumulata attraverso i secoli, simboleggiato dalle immagini di centocinquanta grandi uomini e inventori.

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un movimento non dissimile da quello da Evola descritto ne Lo Yoga della potenza ove, tratteggiando il processo realizzativo yoghico, si fa riferimento alla sollecitazione magica dell’immaginazione a partire da determinati simboli grafici (yantra, mandala). Tramite essi lo yogî può pervenire al superamento della forma determinata fino a entrare in contatto con la pura potenza incondizionata (shakti) soggiacente ai fenomeni, fissandola e possedendola in un «gesto magico-simbolico» (mudrâ). Quest’ultimo, «letteralmente: sigillo – può venire anche riferito a posizioni rituali di figure divine col senso di una specie di “forma (di Gestalt) del gesto”, che, una volta compresa, avrebbe un potere illuminante e rivelatorio»97. Evola richiama poi la tecnica della «animazione prânica (prânapratishtha)» dell’immagine della divinità (sia essa una raffigurazione pittorica o una statua) in un processo analogo a quello narrato nell’Asclepius ermetico, relativo ai riti egiziani di fabbricazione e animazione delle statue degli dèi98. La filosofia stessa può dunque essere considerata, in Evola, lo strumento tramite cui riacquistare tale «comunione magica», Chi era in possesso di un simile sistema si innalzava al di sopra del tempo e rifletteva nella propria mente l’intero universo della natura e dell’uomo» (ivi, pp. 219-220). Yates mette dunque in relazione le immagini magiche con il «sistema magico bruniano della memoria» quale strumento di conoscenza della «realtà oltre la molteplicità delle apparenze» (ivi, p. 221). 97.  J. Evola, Lo Yoga della potenza, cit., p. 124. 98.  Ivi, p. 125. Come si è visto nel primo capitolo, cuore della interpretazione evoliana dell’ermetismo è l’identificazione di tradizione ermetica e alchimia. Nella lettura che Evola fornisce dello Yoga tantrico riemergono taluni elementi ermetico-alchemici, la maggior parte dei quali attraversa la mediazione del De occulta philosophia di Cornelio Agrippa. Relativamente ai rituali sessuali tantrici, Evola mostra la loro affinità analogica con quelli indicati dal simbolismo alchemico: l’«incesto filosofale» alchemico avrebbe un corrispettivo nella vivificazione di Shiva da parte di Shakti e nel successivo passare di Shakti nella forma di Shiva (in conformità con il simbolismo alchemico del figlio che, congiungendosi con la madre, genera la madre stessa).

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l’organo di mediazione che rende l’immagine diretta manifestazione dell’Uno, «medium dell’irradiazione, circolazione e proliferazione d’immagini potenti e, perché no, magiche»99, messa in atto di una potenza che vive solo ed esclusivamente nel proprio reale negarsi. La natura magica dell’immagine è ciò che solo può renderla in grado di mostrare l’individuale tacendolo, rivelando al contempo l’assoluta inanità di ogni tentativo di dire ciò che si lascia unicamente e «innocentemente» vedere. «Tutto è immagine; e questo è il mistero di tutto»100.

99.  R. Gasparotti, L’individuo assoluto e la magica potenza dell’immagine, cit., p. 22. 100.  A. Emo, In principio era l’immagine, cit., p. 152.

Indice

Ringraziamenti

p. 9

Magismo, arbitrarietà e individuo assoluto. Il pensiero estremo di Julius Evola nella lettura di Michele Ricciotti Prefazione di Massimo Donà

p. 11

Introduzione

p. 17

Capitolo I L’esigenza della filosofia tra magia e arte 1.  Uno sguardo retrospettivo 2.  Oltre l’idealismo magico: impero interiore e «alchimia dello spirito» 3.  Arte pura e Tao: verso il formalismo assoluto 4.  Il ruolo del pensiero

p. 21 p. 26 p. 41 p. 65

Capitolo II L’Individuo come forma assoluta e l’«inalterità» dell’Altro 1.  Genesi dell’idealismo magico 2.  Deduzione dell’idealismo magico

p. 69 p. 80

3.  Io, libertà, alterità 3.1.  «Valore» e mediazione: la relazione assoluta 3.2.  Provare l’Io 3.3.  La «via dell’Altro»: un tentativo di rilettura 3.4.  Al di là della dialettica 3.5.  Fenomenologia e «coscienza filosofica» 4.  L’«intervallo» dell’attualismo 4.1.  Identità e immanenza 4.2.  Il pensabile non è tutto 4.3.  Pensare e volere 4.4.  L’arbitrario come valore 5.  Individuo assoluto e riacquisto del mondo

p. 94 p. 99 p. 104 p. 112 p. 116 p. 128 p. 138 p. 144 p. 149 p. 154

Capitolo III L’immagine magica del mondo 1.  Dall’immagine al simbolo 2.  Simbolo e storia 3.  Il ritorno della forma 4.  Considerazioni finali

p. 167 p. 177 p. 194 p. 211

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Novecento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Creazione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo. 8.  Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo.

11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un possibile itinerario. 14.  Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alterità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17.  Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Sistema e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità di tutti gli enti. L’opera di Emanuele Severino. 20. Massimo Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero. 21. Giuseppe Gris, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino. 22. Michele Ricciotti, Provare l’Io. Julius Evola e la filosofia.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 22 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN ebook 9788855291309

Arte, storia ed esoterismo sono solo alcuni dei variegati ambiti del sapere entro cui il controverso pensiero di Julius Evola si destreggia. Evola fu però anzitutto un filosofo ed è in quanto tale che questo lavoro intende interrogarne criticamente la riflessione. Intrecciando istanze neoidealistiche e suggestioni “volontaristiche”, la prospettiva evoliana si configura come un estremo tentativo di «provare l’Io» oltre ogni sua semplice dimostrazione. Se da un lato ciò conduce ad una riconfigurazione del rapporto tra teoria e prassi tale che la prima tende a risolversi nella seconda, d’altro canto tale risoluzione rimane vincolata ad un criterio di certezza (Evola lo chiamerà «valore») che mina la stessa possibilità di una prova risolutivamente magica dell’Io. Può la prassi ricondurre a sé il criterio sulla base del quale viene postulata? È possibile soddisfare l’esigenza di una prassi senza riconfermare l’inquietudine che l’ha generata? Il presente lavoro rappresenta il tentativo di assumere una postura corretta dinanzi a tali quesiti, interrogando le premesse teoretiche che fondano l’intero orizzonte delle ramificazioni “extrafilosofiche” della riflessione evoliana. Michele Ricciotti (Brescia, 1995) ha studiato presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove ha conseguito dapprima la laurea triennale in Filosofia e poi quella magistrale in Filosofia del Mondo Contemporaneo, entrambe sotto la supervisione del prof. Massimo Donà. Presso il medesimo ateneo, ha studiato, tra gli altri, con i professori Cacciari, Severino, Vitiello. Nel corso dei suoi studi ha approfondito il pensiero italiano del Novecento, con particolare riferimento all’attualismo gentiliano e alle reazioni speculative da esso generate.

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