Prosaici e moderni. Teoria, traduzione e pratica del romanzo nell'Italia del primo Novecento [I ed.] 9788822906847

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Prosaici e moderni. Teoria, traduzione e pratica del romanzo nell'Italia del primo Novecento [I ed.]
 9788822906847

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«Troppo prosaico e moderno»: con queste parole, sul finire del Settecento, il poeta Novalis liquidava il Wilhelm Meister di Goethe criticandone l’eccessiva attenzione agli aspetti della vita materiale. A lungo trascurato anche a causa di questo verdetto, in Italia il Meister viene tradotto integralmente oltre un secolo più tardi, negli anni in cui, scriverà Debenedetti, i letterati italiani iniziano finalmente a riconoscere anche al bistrattato genere del romanzo quei crismi che fanno «la seria, la colta, la responsabile letteratura». È un radicale cambio di paradigma di cui si fanno interpreti scrittori, come Giuseppe Antonio Borgese o Corrado Alvaro, ma anche editori e soprattutto traduttori, da Alberto Spaini a Barbara Allason e Alessandra Scalero. Questo studio indaga il nesso fra circolazione delle traduzioni, teorie del romanzo e sviluppi italiani dell’“epica in prosa”, attraverso il caso degli autori tedeschi – accanto a Goethe anche Döblin, Kafka, Fallada, Keun – che nei primi decenni del Novecento incarnano per i lettori italiani una nuova e «più prosaica» idea di modernità.

Daria Biagi Prosaici e moderni

Quodlibet Studio Letteratura tradotta in Italia

Sommario: Introduzione - I. Educazione romanzesca - 1. La «Voce» contro il romanzo - 2. Tradurre Wilhelm Meister, «il verbo dell’uomo moderno» - 3. Il problema della discorsività - 4. Goethe, terribile ideale - 5. Bildung per signore. Il caso Allason - II. Tradurre per costruire - 1. L’esperienza della modernità: un patto col diavolo? - 2. Mefistofele in Italia - 3. Giuseppe Antonio Borgese e il mondo tedesco - 4. Romanzo e costruzione - 5. Il diritto a scrivere male - 6. Un’«arte narrativa moderna»: Rubé e Le affinità elettive - 7. Borgese traduttore - 8. La biblioteca romantica come teoria del romanzo - III. Esperimenti di modernità - 1. Ricostruire: concause  2. «Europeo» e «vernacolo senza rimedio»: nuovo realismo metropolitano - 3. Dai margini: metropoli all’italiana - 4. La folla dei piccoli uomini: impiegati, disoccupati e dattilografe - 5. Scene di vita moderna - 6. Sotto controllo: il lato oscuro della modernità - 7. Nella pancia della dittatura - Epilogo. Traduzione e rimotivazione - Bibliografia - Elenco dei fondi d’archivio consultati - Indice dei nomi Daria Biagi lavora presso il dipartimento di Studi Europei dell’Università Sapienza di Roma ed è membro del gruppo di ricerca LTit – Letteratura tradotta in Italia. Si occupa di letteratura del Novecento, di storia e teoria del romanzo, di traduzione. Ha pubblicato un saggio dedicato a Stefano d’Arrigo (Orche e altri relitti, 2017) e curato l’edizione delle lettere tra Giuseppe Prezzolini e Alberto Spaini (Carteggio 1911-1974, 2020).

isbn

26,00 euro

978-88-229-0684-7

QS

Daria Biagi Prosaici e moderni Teoria, traduzione e pratica del romanzo nell’Italia del primo Novecento Quodlibet Studio

Daria Biagi

Prosaici e moderni Teoria, traduzione e pratica del romanzo nell’Italia del primo Novecento

Quodlibet

Prima edizione: gennaio 2022 isbn 978-88-229-0684-7 © 2022 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it

Letteratura tradotta in Italia Collana diretta da Anna Baldini, Irene Fantappiè, Michele Sisto Comitato scientifico: Francesca Billiani (University of Manchester), Arno Dusini (Universität Wien), Bernhard Huß (Freie Universität Berlin), Camilla Miglio (Sapienza Università di Roma), Christopher Rundle (Università di Bologna), Massimiliano Tortora (Università degli Studi di Torino), Blaise Wilfert-Portal (École Normale Supérieure Paris) Volume realizzato nell’ambito del progetto MIUR Futuro in Ricerca 2012 Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: editoria, campo letterario, interferenza (www.ltit.it) e con il contributo di Sapienza Università di Roma (Avvio alla Ricerca 2017)

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Introduzione

i. Educazione romanzesca 37 1. La «Voce» contro il romanzo 41 2. Tradurre Wilhelm Meister, «il verbo dell’uomo moderno» 2.1. Il Meister di Slataper e Prezzolini (p. 41), 2.2. «Spa» e «la P.», traduttori di nuova generazione (p. 46), 2.3. Goethe e Berchet: una polemica (p. 49) 51 3. Il problema della discorsività 3.1. Spaini e la Modernità di Goethe (p. 51), 3.2. «Troppo prosaico e moderno» (p. 54), 3.3. Come parlano i mercanti in Goethe (p. 57), 3.4. Come parlano i mercanti in Novalis (p. 60) 63 4. Goethe, terribile ideale

4.1. Conciliare commercio e letteratura (p. 63), 4.2. Dall’autobiografia al romanzo (p. 68) 70 5. Bildung per signore. Il caso Allason 5.1. «È una carriera il matrimonio?» (p. 70), 5.2. Costruirsi una genealogia (p. 76), 5.3. Quattro amiche geniali: Quando non si sogna più (p. 79)

6

indice

ii. Tradurre per costruire 87 1. L’esperienza della modernità: un patto col diavolo?

7

indice

233

3.

3.1. Una nuova generazione di scrittori (p. 233), 3.2. Barbaro dialettico: Luce fredda (p. 238), 3.3. I costruttori di Quartiere Vittoria (p. 247)

90 2. Mefistofele in Italia 95 3. Giuseppe Antonio Borgese e il mondo tedesco 3.1. Firenze, gli anni di apprendistato (p. 95), 3.2. Berlino, gli anni di pellegrinaggio (p. 98), 3.3. Cosa fare dei morti: Il feretro automobile (p. 100), 3.4. La italienische Reise e il lavoro accademico (p. 104), 3.5. L’allievo Wagner: Borgese contro Croce (p. 108)

Dai margini: metropoli all’italiana

253 4. La folla dei piccoli uomini: impiegati, disoccupati e dattilografe 4.1. Vita ordinaria dei coniugi Pinneberg (p. 253), 4.2. Arredamento e doxa impiegatizia (p. 258), 4.3. La partita doppia di Ciuffo e Gilgi (p. 262) 5. Scene di vita moderna 5.1. L’architettura di Nessuno torna indietro (p. 269), 5.2.

269

Amori squattrinati e cucine all’avanguardia (p. 273), 5.3. Xenia, una donna neusachlich (p. 277)

115

4.

Romanzo e costruzione

120

5.

Il diritto a scrivere male

128

6.

Un’«arte narrativa moderna»: Rubé e Le affinità elettive

6.1. Confezionare libri, condizionare lettori (p. 282), 6.2.

6.1. Lo schema a coppie incrociate (p. 133), 6.2. Tropi (p.

«Dappertutto v’è un tribunale»: immedesimarsi (o no) in Joseph K. (p. 288), 6.3. I perseguitati di Jakob Wassermann (p. 297)

282

6.

139), 6.3. Tempo e spazio (p. 146) 154 7. Borgese traduttore 7.1. Schlemihl e Werther (p. 154), 7.2. Staccare l’autore dal personaggio (p. 156), 7.3. Lingua «piana» e lingua a «sbalzi»: come si scrive un romanzo moderno (p. 161) 170 8.

La biblioteca romantica come teoria del romanzo 8.1. Estetica e romanzo a Milano (p. 170), 8.2. Fine di un’epoca (p. 177)

iii. Esperimenti di modernità 183 1.

214

2.



Ricostruire: concause 1.1. Narrare, narrare (p. 185), 1.2. Cosa si intende per “romanzo” (p. 192), 1.3. Ampliare il repertorio: l’impulso dell’editoria (p. 199), 1.4. Ancora troppo prosaici? (p. 208)

«Europeo» e «vernacolo senza rimedio»: il nuovo realismo metropolitano 2.1. La scoperta di Berlin Alexanderplatz (p. 214), 2.2. Come parlano i proletari (p. 224)

Sotto controllo: il lato oscuro della modernità

301 7. Nella pancia della dittatura 7.1. Berlino a forma di stomaco (p. 301), 7.2. La distopia di L’uomo è forte (p. 305), 7.3. Tre traduttori ribelli (p. 311) 315



Epilogo. Traduzione e rimotivazione

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Bibliografia

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Elenco dei fondi d’archivio consultati

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Indice dei nomi

Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister sono troppo prosaici e moderni […], sono in fondo in fondo un libro antipatico e insulso, così pretenzioso e lezioso, impoetico al massimo grado […]. Chi lo prende sul serio, non leggerà più romanzi. Novalis

Questo appunto è relativamente debole nella letteratura italiana: la prosa, o, meglio ancora che la prosa intesa come genere letterario e ritmo verbale, diremo il senso prosaico: l’interesse, la curiosità osservatrice, l’amor paziente per la vita storica e contingente quale si svolge sotto i nostri occhi. Giuseppe Antonio Borgese

Introduzione

Questo libro racconta quel che accadde nell’Italia dei primi decenni del Novecento quando, nel pieno delle trasformazioni che andavano sospingendo il nostro paese nel novero delle nazioni “moderne”, un manipolo di scrittori e traduttori di romanzi pensò fosse ora di innestare nella nostra cultura letteraria un po’ più di familiarità con la prosa del mondo. Non proprio la storia di un successo, in verità. In evidente inferiorità numerica rispetto ai diciassette milioni di analfabeti e ai cinque milioni di arcadi a cui secondo Pasquale Villari andava attribuita tutta la colpa dell’arretratezza italiana, i fautori del romanzo hanno da sempre vita difficile, in parte avversati dalle forze conservatrici che la stessa modernità contribuisce a liberare, in parte marginalizzati dalla persistenza di una tradizione spiccatamente lirica e drammatica che, come già osservava Manzoni, di romanzi «ha la gloria di non averne o pochissimi»1. Quello che viene spesso presentato come un tratto peculiare della tradizione italiana – la scarsa presenza di romanzi, l’assenza di un’autentica continuità fra i principali narratori – è però soprattutto l’esito di un conflitto, o di una serie di conflitti: conflitti che finiscono per trasformare anche fasi di vivace sperimentazione romanzesca, come quella di cui ci occuperemo qui, in sentieri interrotti di una tradizione che sembra vergognarsi del proprio lato prosaico. La connessione stabilita tra sviluppo del romanzo e trasformazioni d’inizio Novecento, naturalmente, non nega che in Italia esistes1 Alessandro Manzoni, Introduzione (prima stesura contemporanea ai primi capitoli) a Id., I Romanzi, vol. I: Fermo e Lucia, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Mondadori, Milano 2002, pp. 3-9, qui p. 5.

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se già da tempo una ricca cultura romanzesca2: ma col nuovo secolo inizia a modificarsi lo statuto di legittimità che il romanzo occupa nel sistema delle arti, in virtù del quale passa da una condizione di generica subalternità artistica – persino un autore come Verga è a lungo confinato nel limbo dei “bravi scrittori che scrivono male”, in compagnia di Dostoevskij e Stendhal – fino al centro del sistema. Giacomo Debenedetti descriverà infatti la cultura italiana d’inizio secolo come caratterizzata da una certa «sordità» a questo genere letterario, almeno fino agli anni intorno alla prima guerra mondiale: a quel punto, afferma, è «come se gli scrittori rappresentativi, gli scrittori di punta […] fossero stati costretti, o per lo meno portati, a reinventare in Italia il genere romanzo, ricreandolo munito di tutti i crismi di quella che allora era considerata la buona, la seria, la colta, la responsabile letteratura»3. Il discredito che a lungo accompagna il romanzo tocca in egual misura autori italiani e autori stranieri, le cui opere, che viaggiano in gran parte attraverso i poco controllati canali dell’editoria commerciale, subiscono nel corso delle loro peregrinazioni tagli e rimaneggiamenti tali a volte da sfigurarli del tutto. Ciò nonostante l’effetto di rinnovamento del repertorio letterario indotto dalle traduzioni – riuscite o meno che siano, ma comunque realizzate per un interesse specifico del contesto d’arrivo – è determinante nella ridefinizione del concetto stesso di romanzo. Tra la teoria e la prassi degli scrittori si impone così all’attenzione un terzo fondamentale momento, quello della traduzione, che sarà preso in esame qui attraverso il caso della letteratura tedesca e in particolare della sua tradizione narrativa, per la quale l’accusa di eccessiva prosaicità, e insieme di eccessiva modernità, data già, con Novalis, al 1799. Vedremo come i romanzi tedeschi, a lun2  Sull’accidentato cammino del romanzo italiano attraverso il XVIII e XIX secolo ha portato l’attenzione con particolare efficacia Giovanna Rosa in Il patto narrativo. La fondazione della civiltà romanzesca in Italia, Il Saggiatore-Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2008. Il recente studio di Valentina Perozzo, Scrivere per vivere. Romanzi e romanzieri nell’Italia di fine Ottocento (Unicopli, Milano 2020) mostra inoltre come, in termini quantitativi, la pubblicazione di romanzi fosse vivacissima nel trentennio che precede quello esaminato qui. 3 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti [1971], presentazione di Eugenio Montale, Garzanti, Milano 2008, p. 13 e p. 25.

introduzione

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go ignorati, nel giro di pochi anni diventino familiari ai lettori italiani fino a rappresentare una vera e propria moda, e come gli scrittori inizino a riplasmarne forme e temi adattandoli alla propria personale idea di modernità. A differenza dei loro colleghi francesi e inglesi, infatti, fino all’inizio del Novecento gli autori tedeschi sono gravati da una fama di pesantezza ed eccessiva concretezza di dettagli che solo lentamente inizia a essere messa in discussione. Ecco ad esempio come in una rassegna dedicata ai narratori di area germanica, apparsa sulla «Rivista d’Italia» nel 1903, troviamo descritto il giovane Thomas Mann, che con I Buddenbrook ha appena conquistato il pubblico del suo paese: un esatto osservatore d’ambiente ed un profondo, attento scrutatore dell’animo umano. Tutto quel tramestio d’affari e di matrimoni e di eredità e di divorzi, e quella meticolosità – gründlichkeit, dicono eufemisticamente i tedeschi – con cui ogni cosa è rappresentata nei suoi menomi particolari, mostrano certamente in Thomas Mann delle qualità artistiche, che fanno pensare ai migliori rappresentanti del naturalismo. Ma – debbo dirlo? – 1105 pagine stampate mi parvero troppe per una famiglia di negozianti4

L’autore dell’articolo – che nel 1903 consiglia a Mann di «scriver meno e più conciso» e che trent’anni dopo si ritroverà a tradurne un’opera assai più impegnativa come la tetralogia di Giuseppe – è Gustavo Sacerdote, giornalista e studioso di origini ebraiche trasferitosi in Germania dopo aver troncato una promettente carriera di rabbino. Sacerdote scrive per diverse testate dell’ambiente socialista dove è noto con lo pseudonimo di Genosse, “compagno”, ed è tutto fuorché un nostalgico attardato: la sua rassegna della narrativa tedesca è acuta nel descrivere gli intricati percorsi della mediazione letteraria, la supremazia ancora incontrastata della cultura francese, la piaga delle cattive traduzioni spesso affidate a un qualche «infelice» che ha il solo pregio di lavorare per poche lire, o le ambiguità della Heimatkunst che, se in Germania ha avuto il merito di emancipare i romanzieri dai modelli francesi e russi, già minaccia di ripiegare verso posizioni regressive e pericolosamente nazionaliste («di4  Gustavo Sacerdote, I nuovi romanzi tedeschi, «Rivista d’Italia», VI, I, 1, 1903, pp. 81-105, qui p. 99.

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menticando che i grandi maestri saltarono sempre ogni barriera nazionale»5). Ma la meticolosità con cui Mann si dedica per pagine e pagine alla vita quotidiana di comuni «negozianti» è qualcosa di indigeribile anche per lui: perché mai soffermarsi su un soggetto così banale, gretto persino? Nel giudizio che Sacerdote dà di Mann sembra riecheggiare la critica che circa un secolo prima Novalis aveva rivolto ai Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe: troppo «prosaici e moderni», troppo legati alla vita quotidiana, alle attività comuni, e soprattutto troppo infarciti di discorsi sull’economia e sulle merci, cosa «impoetica al massimo grado»6. Nel giro di qualche decennio, però, quel binomio che doveva essere un insulto si era trasformato nel suo contrario, innescando una discussione di dimensioni europee – attraverso gli studi di Wilhelm Dilthey su Goethe e Novalis il tema sarebbe filtrato nelle riflessioni di Lukács e di Bachtin, ma anche in quelle di lettori italiani come Scipio Slataper, Alberto Spaini e Giuseppe Antonio Borgese – in seguito alla quale il romanzo goethiano sarebbe diventato il vertice di una nuova genealogia letteraria per autori, tedeschi e non solo, decisamente propensi ad essere invece molto più prosaici e molto più moderni. Vi allude anche Auerbach, ricordando come i Lehrjahre – «l’opera di gran lunga più realistica» tra quelle goethiane – fossero stati criticati dall’amico Jacobi con l'argomento che la realtà, soprattutto quella dei ceti più bassi, non era da considerare edificante: ma «altri contemporanei e posteri», prosegue l’autore di Mimesis, sarebbero stati affascinati «proprio da questa realtà»7. Che all’inizio del Novecento la polemica sia nota anche in Italia è testimoniato da un volumetto che nel 1905 Giuseppe Prezzolini dedica a Novalis, nel quale i frammenti contro il Meister sono tradotti e analizzati nel quadro dell’«idealismo magico» teorizzato dallo scrittore tedesco8: e se a quest’altezza temporale, nel 5 

Ivi, p. 84. 6 Cfr. Novalis, Opera filosofica, a cura di Fabrizio Desideri, Einaudi, Torino 1993, vol. II, p. 726 (frammento 505) e pp. 734-735 (frammento 536). 7 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, vol. II, p. 214. 8  Giuseppe Prezzolini (a cura di), Novalis, con ornamenti di Cb. Doudelet, Libreria Editrice Lombarda, Milano 1905. Questa la versione di Prezzolini: «Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister sono completamente prosaici e moderni. La poesia

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conflitto tra Goethe e Novalis, le simpatie di Prezzolini vanno ancora a quest’ultimo (proprio nel suo idealismo, nell’essere «profeta dell’Uomo-Dio» starebbe la sua modernità), le cose si invertiranno drasticamente di segno appena qualche anno più tardi, quando, da direttore della «Voce», Prezzolini ospiterà sulle pagine della rivista articoli di più giovani collaboratori concordi invece nell’eleggere Goethe, contro Novalis, a rappresentante di una nuova e più realistica idea di letteratura. È proprio qui, intorno agli anni Dieci del nuovo secolo, che inizia davvero la nostra storia, quando una giovane generazione di autori, traduttori e intellettuali si affaccia alla vita culturale del paese cercando di interpretarne il bisogno di “modernità” innescato dalla rapida trasformazione delle condizioni economiche e sociali. Il primo capitolo di questo libro, intitolato Educazione romanzesca, prende dunque le mosse dal momento in cui, con la prima traduzione integrale dei Lehrjahre goethiani, la discussione sulla necessità di una letteratura “prosaica e moderna” si impone all’ordine del giorno: ad ospitarla sono appunto le pagine della «Voce», la rivista nell’ambito della quale il progetto di traduzione, ispirato da Prezzolini e Slataper e realizzato da Alberto Spaini e Rosina Pisaneschi, prende forma tra il 1910 e il 1914. Il romanzo del giovane borghese Wilhelm, che abbandona un agiato contesto familiare per seguire la propria vocazione artistica e trovare infine, dopo molti errori e peregrinazioni, il proprio posto nel mondo, diventa per i vociani «il verbo dell’uomo moderno»9, la rappresentazione di un’alternativa possibile per quanti guardano alla nuova epoca con aspirazioni analoghe a quelle del protagonista. Pubblicato in Germania tra il 1795 e il 1796, per oltre un secolo il Meister aveva destato pochissimo interesse tra i lettori italiani: condurre liberamente i propri della natura, il meraviglioso, il romantico, rovina fin dalle fondamenta. Il romanzo non si occupa che di cose umane comuni, e dimentica completamente la natura e il misticismo. È una storia borghese e familiare poetizzata. Il meraviglioso vi è giudicato apposta come una poesia chimerica. Lo spirito del libro è l’ateismo estetico. In compenso vi è grande economia; con una materia prosaica e vile vi è raggiunto un effetto poetico» (pp. 98-101). Per il concetto di idealismo magico vedi invece l’Introduzione al volume (ivi, in particolare pp. 57-62). 9  Alberto Spaini, Autoritratto triestino [1963], a cura di Carla Galinetto, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 156.

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anni di apprendistato, del resto, ha senso solo all’interno di un contesto nel quale il percorso di un individuo sia frutto di una scelta e non solo di un destino predeterminato – un contesto, cioè, che solo nell’Italia d’inizio Novecento comincia a diventare una realtà concreta, e per un numero sempre maggiore di uomini e di donne. Per quanto infatti sia possibile retrodatare le origini culturali di un’Italia “moderna”, è solo col nuovo secolo che – per riprendere una fortunata espressione di Marshall Berman – i mille rivoli di questa trasformazione confluiscono in una vera esperienza della modernità, che cambia radicalmente, materialmente, la vita quotidiana delle nuove generazioni. È il «grande cataclisma elettrico»10 che di colpo fa balzare l’Italia tra le nazioni industrializzate, la prima di una serie di accelerazioni – non prive, proprio per la loro natura repentina, anche di una certa violenza – che segneranno il Novecento. Progetti di ristrutturazione urbana e nuovi impianti industriali mutano rapidamente i volti delle città, si amplia la massa di popolazione chiamata a pronunciarsi sulla politica nazionale, crescono l’alfabetizzazione e l’occupazione femminile, coda lunga delle riforme sull’obbligo scolastico introdotte all’indomani dell’Unità. Fasce sempre più ampie della popolazione rivendicano il diritto di essere incluse nel discorso pubblico e il cambiamento che provocano non può più essere ignorato: i figli non fanno più il lavoro dei padri, i provinciali istruiti sottraggono posizioni di prestigio ai rampolli della borghesia urbana, le donne studiano, lavorano e diventano economicamente indipendenti, gli analfabeti votano. Mutamenti tanto pervasivi rappresentano un’alterazione degli stili di vita per tutte le fasce sociali, ed è inevitabile che dal punto di vista delle élite, e di quanti ne imitano gli atteggiamenti pur senza appartenervi, gli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo finiscano per rappresentare il catastrofico crollo di un mondo che sembrava piantato su più solide basi. Ma basta spostare lo sguardo sull’enorme massa dei nuovi beneficiati della modernità per capire che si tratta piuttosto di una crisi di transizione, i cui protagonisti appartengono in gran parte a fasce sociali che solo 10  Guido da Verona, Introduzione a Id., I promessi sposi, Unitas, Milano 1930, pp. V-XXXII, qui p. XI.

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quarant’anni prima non avrebbero avuto neanche diritto di parola. Tra loro ci sono anche molte donne: provenienti soprattutto da famiglie agiate – per una vera inclusione delle donne di ogni ceto si dovrà aspettare il secondo dopoguerra – si fanno avanti in questi anni figure come quelle di Barbara Allason, Rosina Pisaneschi, Lavinia Mazzucchetti o Alessandra Scalero, scrittrici e intellettuali che hanno un peso decisivo nel definire e nel mediare il nuovo repertorio letterario. Il romanzo, considerato un genere inferiore e dunque naturalmente associato al pubblico femminile, ottiene anzi grazie alle sue lettrici molte nuove possibilità di circolazione: romanzieri come Thomas Mann o Alfred Döblin, oggi considerati vertici della letteratura europea d’inizio secolo, devono la loro prima fortuna italiana proprio alla perseveranza di traduttrici come Pisaneschi e Scalero, che per anni insistono a proporne le opere agli editori italiani tra il dileggio dei loro colleghi letterati11. Questo contesto di rapide metamorfosi aiuta a capire come mai, nel giro dei neanche dieci anni che separano il volumetto di Prezzolini su Novalis dalla pubblicazione del Wilhelm Meister, si passi da condividere le ragioni di Novalis a parteggiare per quelle di Goethe. La generazione che prende la parola negli anni Dieci è alla ricerca di forme di rappresentazione che rendano comprensibile, governabile, un cambiamento che sembra mettere in discussione ogni certezza dell’epoca precedente: e l’unica cosa di cui sono certi è che non si tratta di un fenomeno improvviso né circoscritto, bensì di una frattura epocale che ha il suo detonatore nell’Europa di fine Settecento, tra la Rivoluzione francese e l’esplodere della moderna società industriale. E questa è anche l’epoca di Goethe, e di tutta quella cultura filosofica tedesca che, un passo indietro rispetto alle rivoluzioni che scuotevano la Francia, l’Inghilterra e il Nordamerica, elabora in 11 Pisaneschi inizia già nel 1914, durante un soggiorno a Berlino, a tradurre alcuni racconti di Mann, esperimento che viene così accolto da Prezzolini: «Congratulazioni alla Signora per il coraggio di mettersi a tradurre Th.[omas] Mann. Ecco una borsa di studio male spesa, se ci deve costare codesta traduzione» (cfr. Alberto Spaini - Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1911-1974, a cura di Daria Biagi, Edizioni dello Stato del Canton Ticino, Bellinzona 2020, p. 90). Quanto al caso di Alfred Döblin, per la cui prima traduzione ha un ruolo determinante Alessandra Scalero, cfr. infra, cap. III, § 2.

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risposta allo smarrimento di questa fase storica un pensiero che è allo stesso tempo celebrazione della modernità e critica delle sue già intuibili degenerazioni12. La commistione dei due elementi fornirà un indispensabile quadro interpretativo a tutti quei paesi europei che entreranno in questo flusso ancora più tardi, come la Russia, l’Italia o gli stati che nasceranno dalla dissoluzione dell’Impero Austroungarico, e che infatti cercheranno soprattutto negli scrittori e nei filosofi dell’età di Goethe le risposte a una metamorfosi di cui, come l’apprendista stregone, temono di perdere il controllo. È anche per questo che il romanzo tedesco, da oltre un secolo territorio di sperimentazione delle idee della modernità, comincia proprio in questa fase ad attrarre l’interesse degli scrittori e dei letterati italiani. La prefazione che Alberto Spaini scrive alla traduzione del Meister, e che con il titolo La modernità di Goethe viene pubblicata su due numeri della «Voce» nell’inverno del 1914, discute in dettaglio le ragioni per cui Goethe è diventato un punto di riferimento così importante per la generazione presente: in quel secolo di storia che combacia con la sua vita, il mondo quasi si sovverte e gli antichi valori precipitano tutti: l’uomo, suo malgrado, crea intorno a sé, materialmente, uno stato di cose di cui non riesce più a intendere il senso. La nuova civiltà è come un mostro che appena uscito dalle mani del suo creatore, diventa per lui un pericolo, ed egli quasi vi soggiace. L’uomo penetra più a fondo nella natura, scopre nuovi fatti, il mito antico si dissolve in una realtà muta, che non sa più dare significati; e l’uomo vi si perde in mezzo, la domina con la manovella o col tasto elettrico, ma il suo spirito non sa capirla […] E nella Francia stessa, che aveva condotto il mondo alla coscienza di questo stato di cose, in cui tutto ciò era più maturo e più diffuso, non si sa trovare una nuova strada […] si 12 Berman definisce in questo senso la Germania come una sorta di archetipo del paese socialmente, economicamente e politicamente “sottosviluppato”: «Gli intellettuali tedeschi del tempo di Goethe furono i primi a considerare tale la loro società non appena ebbero modo di confrontarla con l’Inghilterra, la Francia e l’America in espansione. In qualche caso questo identificarsi con una realtà di “sottosviluppo” costituì un motivo di vergogna, in qualche altro (come nel caso dell’espressione conservatrice del romanticismo tedesco) motivo di orgoglio, più spesso un’instabile commistione di entrambi» (Marshall Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. L’esperienza della modernità [1982], Il Mulino, Bologna 2002², p. 63).

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crea a poco a poco in Europa una nuova Arcadia, che in nuova forma ripete lo spirito della prima: belato poetico al di fuori della vita e dell’arte13.

Questo ritratto del mondo moderno, in cui l’uomo domina attraverso la tecnica («con la manovella o col tasto elettrico») un insieme di fenomeni naturali su cui va lentamente perdendo la presa, non è soltanto l’epoca di Goethe: «è il nostro tempo»14, aggiunge esplicitamente Spaini qualche riga dopo, ed è appunto questa continuità storica a fare di Goethe un contemporaneo, un autore che si è interrogato con un secolo di anticipo su problemi a cui si continua a cercare soluzione. Nel Meister, peraltro, una soluzione viene proposta: tra tutti i romanzi goethiani, quello dedicato alle esperienze – così Spaini e Pisaneschi traducono il problematico termine Lehrjahre – del giovane Wilhelm è quello che, proprio per la sua natura “prosaica”, più va in cerca di un compromesso pacificatore. Il borghese Wilhelm sposa l’aristocratica Natalie, abbandona i suoi velleitari sogni d’artista per trovarsi una professione socialmente utile e rientra da uomo adulto nel cerchio della vita comunitaria: una parabola di integrazione riuscita, in virtù della quale il romanzo diventerà anche il capostipite, forse persino l’unico esemplare, del romanzo di formazione. La modernità che prende forma in questo romanzo è dunque una modernità accogliente, emancipativa, in cui chi dispone della volontà e dei mezzi necessari a uscire dallo stato di minorità trova ad attenderlo un mondo plasmabile secondo le proprie inclinazioni. Una dialettica che deve sì spezzare molti vincoli – Wilhelm si strappa con dolore dai contesti che lo accolgono, la famiglia prima, il mondo del teatro più avanti –, ma che confida nella possibilità di una sintesi pacifica: è l’utopia della Klassik weimariana, che ben si rispecchia nell’atmosfera di eccitante trasformazione in cui vive l’Italia degli anni Dieci. Questa componente modificatrice è l’elemento che tende a scomparire dal quadro quando prevale la sola narrazione della crisi: tende cioè a scomparire quella modernità che, come vuole 13  Alberto Spaini, La modernità di Goethe (Saggio storico sul “Meister” goethiano) [I], «La Voce», VI, 3, 13 febbraio 1914, pp. 9-33; e II, «La Voce», VI, 5, 13 marzo 1914, pp. 2-39 (la citazione si trova alle pp. 27-28 della seconda parte). 14 Spaini, La modernità di Goethe II cit., p. 28.

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la celebre frase marxiana, trasforma in vapore, e dunque in energia propulsiva, «tutto ciò che è solido», gerarchizzato, stabile15. Le rappresentazioni romanzesche hanno un ruolo cruciale nell’elaborare strumenti capaci di affrontare la destabilizzazione che questo sommovimento comporta, mostrando caratteri e comunità che cambiano, dando spazio ai punti di vista di personaggi in conflitto che entrano in scena con la loro voce e la loro visione del mondo, e mostrando infine come il trauma percepito della fine del mondo sia sempre solo un gradino verso una condizione più complessa. Attraverso l’analisi delle traduzioni è possibile esplorare anche gli aspetti formali e stilistici di questa rappresentazione. Il caso del Meister mostra come per i traduttori diventi progressivamente necessario interrogarsi anche da un punto di vista teorico sulla resa di elementi tipicamente romanzeschi come la costruzione della voce narrante o la concertazione dei diversi modi di parlare dei personaggi: la prosaicità e la modernità del Meister stanno infatti non soltanto nella storia narrata, ma anche nella sua discorsività che, lontana dai distillati linguistici della lirica e della prosa d’arte, farà ancora a lungo rabbrividire i letterati italiani come un marchio di cattiva scrittura. Questo vituperato “scriver male”, che alla metà degli anni Dieci un letterato come Giuseppe De Robertis stigmatizzava sulle pagine della cosiddetta «Voce» “bianca”, è però in fondo nient’altro che lo “sliricamento”, già raccomandato dal Manzoni, e insomma la discorsività inevitabile di ogni romanzo, anche nel più teso e lirico […] Per forza, il romanzo deve accettare, subire la compresenza, la simultaneità di vari livelli stilistici e di linguaggio: deve accettare, diciamo così, un procedimento misto […]; tutto sta nel come arriva a mediare, a concertare questi diversi livelli, a modulare il passaggio dall’uno all’altro. Perché il romanzo, il racconto hanno l’obbligo di dare i fatti, di rendere in prosa quella che si chiama la prosa della vita, sotto pena di diventare quei 15  Il verbo con cui nel Manifesto Marx descrive questo vero e proprio passaggio di stato è verdampft, alla lettera appunto “diventa vapore” (Dampf): la frase evoca così l’immagine di quello che, nella società industriale, è per eccellenza l’elemento che rende possibile il moto, l’azione. Le traduzioni in cui verdampft è reso con «se ne va», «svanisce» o «si dissolve», per quanto corrette, tendono al contrario a veicolare implicitamente l’idea di una perdita, di una solidità a cui si sostituisce il nulla.

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racconti, quei romanzi tutti poetici, espressi a livello liricheggiante, in cui non si vede più nulla, ci si perde in una musicalità senza rive16.

Il concetto di discorsività, così formalizzato da Debenedetti, è molto vicino a quello più noto di «pluridiscorsività sociale» formulato qualche decennio prima da Michail Bachtin17. Per entrambi la compresenza di stili e linguaggi, così come la loro problematica orchestrazione narrativa, non sono tanto scelte stilistiche autoriali quanto elementi costitutivi del romanzo come genere letterario: questa discorsività/pluridiscorsività costituisce insomma un problema eminentemente narrativo, e rappresenta infatti – come vedremo prendendo in esame più da vicino alcuni testi – una delle principali difficoltà che si presentano ai traduttori di romanzi. Nel corso del primo capitolo si cercherà dunque di seguire anche il lento delinearsi, nelle riflessioni dei traduttori, di un’incompiuta teoria del romanzo che si esercita sugli stessi testi (il Meister su tutti) e si serve dello stesso strumentario filosofico (l’estetica di matrice kantiana, la Lebensphilosophie di Dilthey) a cui, negli stessi anni, facevano riferimento teorici come il giovane Lukács o gli studiosi del circolo di Bachtin18. 16 Debenedetti, Il romanzo del Novecento cit., p. 25, mio corsivo. A questa terminologia – in particolare al concetto di discorsività – si farà più volte riferimento nelle pagine che seguono. 17  «Il romanzo è pluridiscorsività sociale, a volte plurilinguismo, e plurivocità individuale artisticamente organizzate» (Michail Bachtin, Estetica e romanzo [1975], Einaudi, Torino 1997, p. 71). La «pluridiscorsività» non va dunque sovrapposta al concetto, più strettamente linguistico, di «plurilinguismo». 18 Come ha mostrato Galin Tihanov, l’interesse di Lukács e di Bachtin per il genere letterario del romanzo ha radici in una tradizione filosofica comune, che dall’estetica kantiana si ramifica a inizio Novecento negli scritti di Dilthey, Cassirer e Simmel (cfr. Galin Tihanov, The Ideology of Bildung. Lukács and Bakhtin as Readers of Goethe, «Oxford German Studies», 27, 1, 1998, pp. 102-140; e Id., Culture, Form, Life: The Early Lukács and the Early Bakhtin, in Craig Brandist, Galin Tihanov (a cura di), Materializing Bakhtin. The Bakhtin Circle and Social Theory, Macmillan, Oxford 2000, pp. 43-69); la stessa tradizione con cui, attraverso i loro studi universitari di letteratura tedesca, entrano in contatto anche letterati italiani come Spaini, Slataper, Allason e soprattutto Borgese. Lukács ricorda nella Premessa del 1962 alla sua Teoria del romanzo l’effetto dirompente che, negli anni della «transizione da Kant a Hegel», gli scritti di Dilthey (in particolare Das Erlebnis und die Dichtung, 1906) avevano suscitato in lui e nella sua generazione (cfr. György Lukács, Teoria del romanzo, a cura di Giuseppe Raciti, se, Milano 2004, in particolare p. 12).

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Le implicazioni di questa riflessione teorica, che insiste sul nesso tra romanzo e cultura della modernità, vengono approfondite nel secondo capitolo, Tradurre per costruire. Negli anni che seguono la prima guerra mondiale, quando le promesse di progresso sembrano ribaltarsi in barbarie e le paure scatenate dalla modernizzazione spingono verso soluzioni regressive, emergono infatti letture più ambigue della trasformazione in corso, vista adesso come una dialettica di forze contrastanti e non necessariamente capaci di riequilibrarsi. Se Goethe è ancora uno degli autori prediletti attraverso cui i letterati affrontano questo conflitto, il personaggio cui guardano adesso non è più l’entusiasta Wilhelm bensì il cupo, tormentato professor Faust – e più ancora il personaggio che fa di lui un uomo davvero moderno: il “povero diavolo” Mefistofele. Bistrattato per tutto l’Ottocento come un capolavoro sbagliato, a partire dagli anni Venti del nuovo secolo il Faust goethiano diventa oggetto d’interesse per lettori e scrittori italiani soprattutto grazie all’attività di Giuseppe Antonio Borgese, scrittore, critico, traduttore, docente universitario e principale teorico della “riedificazione” del romanzo. La centralità di Borgese nel dibattito sul romanzo, testimoniata dai saggi di Tempo di edificare (1923), è stata da sempre oggetto di attenzione da parte dalla critica, ma di rado è stata messa in relazione con il suo lavoro di germanista e con i suoi studi di estetica, disciplina di cui, tra il 1926 e il 1931, ricopre presso la Regia Università di Milano la cattedra voluta per lui dal kantiano Piero Martinetti. Attraverso l’opera di Goethe – autore che Borgese studia, traduce e insegna già nei suoi primi corsi universitari all’università di Roma, di fronte a una platea di studenti poco più giovani di lui che include anche i futuri traduttori del Meister – prendono forma le idee cardine della sua visione del romanzo, a cominciare dal concetto di «costruzione», del tutto controcorrente in anni di frammentismo e strettamente legato alla polemica sull’unità della prima e della seconda parte del Faust. Se ne identificano le tracce nei due saggi goethiani che pubblica nel 1910 con il titolo La disfatta di Mefistofele, e se ne troverà conferma quarant’anni dopo, quando, rientrato dal suo esilio americano, salirà di nuovo sulla sua cattedra universitaria per tenere una prolusione intitolata Goethe e l’unità del mondo.

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Non diversamente da Bachtin o dal giovane Lukács, che cercano nel romanzo come genere letterario la possibilità di tenere insieme dimensione sociale dell’arte e sue manifestazioni immanenti19, anche in Borgese l’interesse per il romanzo scaturisce dunque da un problema di natura filosofica, dall’impossibilità di ricomporre, se non per via di rappresentazione, la frattura che la modernità ha prodotto. Ma se altrove la scelta di affrontare letterariamente questo dilemma dà frutti eccezionali, nell’Italia dominata dal concetto crociano di estetica è destinata a un sostanziale fallimento, e invano Borgese cercherà di svincolarsi dal discorso dominante insistendo a parlare di «poetica» piuttosto che di «estetica»20. L’opposizione di Croce all’esistenza dei generi letterari in quanto tali contribuisce infatti a minare la riflessione sul romanzo, che in questa fase affiora negli scritti di diversi studiosi e scrittori ma che sembra strutturalmente incapace di costituirsi in una tradizione compatta. E ancora una volta è sul terreno della letteratura straniera che si consuma, sottotraccia, buona parte del conflitto: lo studio su Goethe pubblicato da Croce nel 1919, in cui le tesi di Borgese vengono smontate una ad una senza che all’allievo degenere sia mai concesso neanche di essere nominato, ne è forse l’esempio più chiaro. Neppure Borgese arriverà dunque a dare una sistemazione teorica complessiva alla sua estetica romanzesca, che rimane dispersa tra gli scritti filosofici, gli studi su Goethe e le recensioni giornalistiche in cui le sue posizioni emergono attraverso giudizi di lode o di biasimo rivolti ai romanzieri suoi contemporanei21. 19  «Lukács’s and Bakhtin’s later attention to the genre of the novel was the result of frustrated hopes of synthesizing the study of the immanent aspects of arts with that of the social dimension of culture» (Tihanov, Culture, Form, Life cit., p. 43). È singolare che entrambi, come anche Borgese, progettino a lungo di scrivere un lavoro monografico su Goethe, e che in nessuno dei tre casi, per ragioni diverse, questo progetto arrivi a compimento. 20  Cfr. Giuseppe Antonio Borgese, Poetica dell’unità. Cinque saggi, Treves, Milano 1934, p. 15, e infra, cap. II, § 3.5. 21 Un caso particolarmente significativo è in questa chiave la recensione che dedica a Gli indifferenti di Moravia, la quale, oltre a dare inizio alla fortuna del romanzo moraviano, contiene in nuce un’interessante riflessione sul rapporto tra autore e personaggio nel romanzo (cfr. infra, cap. II, § 6.1).

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In linea con la sua idea di poetica come attività eminentemente pratica, dall’inizio degli anni Venti Borgese esplora intanto un ulteriore versante del lavoro letterario, quello della scrittura creativa, che lo porterà alla composizione del suo principale romanzo, Rubé (1921). Amato dal pubblico e osteggiato dalla critica – soprattutto per il suo dichiarato ricorso a moduli del romanzo cosiddetto commerciale, o meglio di quello che all’epoca era bollato come tale – Rubé rappresenta un prezioso anello di congiunzione per comprendere come scrittura originale e traduzione possano interagire nel ripensamento del repertorio letterario. Nel quadro dell’attività complessiva di Borgese è necessario infine integrare un ultimo aspetto, quello cioè del suo lavoro editoriale: per oltre trent’anni è infatti in Italia anche uno dei principali mediatori e divulgatori di letteratura straniera, in veste di traduttore e critico nonché, meno visibilmente, in qualità di consulente editoriale, prima per la collana antichi e moderni di Carabba e poi per la biblioteca romantica di Mondadori, nella quale coinvolge come traduttori i maggiori autori italiani del suo tempo. È in gran parte grazie al lavoro da lui svolto in questo campo se i suoi connazionali hanno finalmente la possibilità di leggere nella propria lingua i caposaldi del romanzo ottocentesco occidentale, noto fino a quel momento in maniera frammentaria nelle cattive traduzioni dell’editoria di massa, o – per pochi – attraverso le versioni francesi22. È come se la riflessione teorica di Borge22  Esplorando le riviste e le collane dei circuiti più commerciali è facile rendersi conto di come il romanzo ottocentesco straniero fosse tutt’altro che sconosciuto. Scrive ad esempio Mario Mariani recensendo un romanzo di Guido da Verona: «Le letterature straniere han già dato almeno seicento romanzi capilavori – Stendhal, Balzac, Hugo, Daudet, Flaubert, Zola, Dostojevsky, Strindberg, De Goncourt, Margueritte, France, Tolstoj, ecc., ecc., ecc. – cinquant’anni fa i romanzi perfetti in Inghilterra li scrivevan le donne – Bronte, Eliot» (Mario Mariani, “Il sogno errante” di Guido Da Verona, «Il Mondo», 23 marzo 1919, pp. 17-18, qui p. 18). A screditare questa tradizione, in Italia, sono però i suoi stessi mediatori, personaggi appunto come Mariani o da Verona che, disprezzati dai letterati del tempo, non entreranno mai a far parte del canone novecentesco. La strategia di Borgese consiste dunque non tanto nel rendere noto un patrimonio sconosciuto (molti autori della romantica sono gli stessi menzionati da Mariani), quanto nel restituirgli un valore letterario condiviso, grazie in particolare al coinvolgimento di scrittori di prestigio in veste di traduttori. È il meccanismo descritto da Debenedetti: nei fatti i lettori non hanno mai smesso di frequentare il romanzo straniero, ma solo a partire da una certa data sono pronti a

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se subisse una battuta d’arresto nel momento in cui lo scrittore comprende che, per gli italiani, non esiste ancora un repertorio di letture condiviso, presupposto indispensabile all’impostazione di qualunque discorso sul romanzo: i cinquanta volumi della romantica sono il primo tentativo organico di colmare questa lacuna, e rappresentano forse – lo testimonierà cinquant’anni dopo un lettore come Italo Calvino – il lascito più duraturo di Borgese alla cultura letteraria del nostro Novecento. Con la biblioteca romantica, varata nel 1930, arriviamo così al terzo e ultimo capitolo di questo libro, Esperimenti di modernità. L’impostazione più corale che lo caratterizza, e il fatto che per dimensioni risulti quasi equivalente ai primi due, deriva in parte dal tentativo di seguire nei suoi diversi filoni l’espandersi di una cultura del romanzo che, grazie soprattutto al moltiplicarsi di collane editoriali interamente dedicate alla narrativa, letteralmente esplode all’inizio degli anni Trenta. Progettata fin dal 1926 con l’intento di offrire ai lettori qualcosa di radicalmente nuovo, al momento in cui arriva sul mercato la romantica si trova infatti affiancata da numerose iniziative analoghe: editori piccoli e grandi, attratti dalle prospettive di guadagno che un sempre più ampio pubblico di lettori può garantire e sostenuti dalla politica culturale del governo fascista – che almeno fino alla metà degli anni Trenta incoraggia le pubblicazioni di romanzi ritenendo di poter veicolare attraverso di essi la propria idea di modernità –, si lanciano nella progettazione di nuove collane che dedicano ampio spazio agli autori stranieri. Con il suo baricentro sul romanzo ottocentesco, la romantica finisce così per apparire quasi un’operazione di retroguardia: gli anni Trenta segnano infatti l’imporsi del romanzo contemporaneo, a lungo sottovalutato dagli editori e adesso protagonista incontrastato di pionieristiche collane di narrativa come la scrittori di tutto il mondo di Gian Dàuli, la letteraria Bompiani e, poco dopo, la medusa Mondadori. La letteratura tedesca, in particolare, riceve in questi anni un’attenzione che non avrà eguali nel resto concedergli i crismi della «colta, seria, responsabile letteratura». Sulla circolazione del romanzo di consumo cfr. Bruno Pischedda, Dieci nel Novecento. Il romanzo italiano di largo pubblico dal Liberty alla fine del secolo, Carocci, Roma 2019.

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del Novecento. E se fin qui la riflessione sulla modernità aveva trovato nelle opere di Goethe un fertile terreno di confronto, di colpo sono i linguaggi stridenti della Neue Sachlichkeit, gli scenari metropolitani di Hans Fallada e di Alfred Döblin o le ragazze indipendenti di Vicky Baum a portare alla ribalta i problemi e le domande del presente. Maggior diffusione delle traduzioni, prima industrializzazione del sistema editoriale, progressivo imporsi della cultura fascista: l’interesse legato alla coesistenza di questi tre fattori ha fatto fiorire, soprattutto in anni recenti, numerosi studi di taglio storico, traduttologico e di storia dell’editoria dedicati a questo periodo23. È dunque un quadro già molto approfondito e frastagliato quello da cui partire per un’analisi dei testi, aspetto che avrà qui un posto di rilievo e non soltanto al fine di confermare conclusioni più generali. Il dato particolare riserva infatti numerose sorprese, sia per quanto riguarda la selezione dei testi tradotti – anche in anni di censura ci sono romanzi che svicolano tra le maglie del sistema per mille “questioni private”, amicizie, favori dovuti, errori di calcolo, pure e semplici casualità –, sia per quanto riguarda le modalità di traduzione – che, protette da una prefazione autorevole o da prese di distanza aggiunte in extremis, portano sulla scena la modernità dissacrante e “degenerata” che su altri fronti il fascismo tenta con ogni mezzo di occultare. Gli anni Trenta – in particolare il periodo che va dal 1929 al 1934, prima che la censura editoriale si doti di un apparato burocratico realmente efficiente – si configurano dunque come un periodo di vivacissima sperimentazione letteraria, che fiorisce proprio grazie al dialogo che si crea tra nuovi editori, traduttori e scrittori. Ogni proposta editoriale, ogni romanzo quasi, è un modo di interpretare la transizione che l’Italia sta attraversando, un diverso esperimento di modernità: e prima che queste diverse modernità vengano schiacciate sotto il giogo unico dell’impero fascista, costringendo molti dei suoi protagonisti al silenzio,

alla clandestinità o all’esilio, si sviluppa una narrativa capace di mettere originalmente in pratica le disordinate riflessioni dei due decenni precedenti. Il legame con la coeva letteratura tedesca è particolarmente sentito in questa fase, e lo dimostrano non soltanto i romanzi di autori come Corrado Alvaro, Umberto Barbaro o Ugo Dèttore, che operano contemporaneamente sul fronte della scrittura originale e su quello dell’editoria come traduttori o consulenti, ma anche quelli di autrici come Alba de Céspedes, in nulla legata al contesto tedesco e nondimeno sensibile a una letteratura che ormai, grazie alle traduzioni, non è più soltanto patrimonio di una piccola cerchia di addetti ai lavori. A contatto con la letteratura straniera contemporanea si definisce così progressivamente il concetto di “romanzo moderno”, caratterizzato da un linguaggio che si affida sempre più disinvoltamente alle risorse della discorsività e a un armamentario di scene tipiche, da quella dell’uomo spintonato tra la folla fino a quella della “partita doppia”, amministrata adesso non più dai saggi borghesi goethiani ma da squattrinate fanciulle affamate d’indipendenza. In parallelo con l’analisi di alcuni testi italiani e tradotti, il terzo capitolo continua inoltre a seguire, in filigrana, il dibattito teorico sul romanzo, che in questi anni recupera centralità sulle pagine di riviste di nuova fondazione come «Il Convegno», «Occidente» o «Pègaso». Animate da intellettuali della generazione più giovane, e talvolta anche per questo ideologicamente vicine al fascismo, queste riviste riportano l’attenzione su molti dei concetti precedentemente individuati da Borgese (nel frattempo caduto in disgrazia presso le gerarchie fasciste), ma cambiandoli radicalmente di segno. Saranno appunto gli elementi compositivi su cui la critica si concentra maggiormente in questi anni – architettura, montaggio, stile delle descrizioni, costruzione dei dialoghi – ad essere privilegiati nell’analisi dei testi, facendo emergere le varie rappresentazioni della modernità dal dialogo tra i romanzi tedeschi selezionati per la traduzione e quelli scritti in Italia negli stessi anni.

23  Mi limito a ricordare qui, ultimo di una lunga serie di titoli, il saggio di Christopher Rundle Il vizio dell’esterofilia. Editoria e traduzioni nell’Italia fascista (Carocci, Roma 2019), che sistematizza le principali acquisizioni degli studi su questo periodo. Una bibliografia più dettagliata, in particolare per quanto riguarda la letteratura tedesca, verrà fornita nel corso del cap. III.

L’impianto del libro poggia su alcuni presupposti di metodo che converrà a questo punto esplicitare. Il nodo che lega il concetto di modernità, il genere del romanzo e la pratica della traduzione costituisce un oggetto non nuovo per gli studi letterari, e

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che tuttavia si presta e si è prestato nel tempo a molteplici metodi di ricerca e di analisi: la stessa idea di un’interdipendenza tra modernità e cultura del romanzo, punto di partenza di questo studio e di molte teorie alle quali si è già avuto modo di riferirsi, è tuttora argomento dibattuto24. Qualunque sia l’altezza cronologica a cui si sceglie di collocare l’avvento della modernità, tuttavia, resta il fatto che questo si configura come l’esperienza di un trauma, di una perdita di senso che mobilita in sua difesa i più diversi dispositivi culturali, da quelli più regressivi (i «belati arcadici» lamentati da Spaini) a quelli più dialettici: e il romanzo è appunto tra questi ultimi25. La centralità dell’elemento “prosaico e moderno” è in questa chiave un tentativo esplicito di risignificare il mondo muovendo dal realistico quotidiano, unico condivisibile punto di partenza per qualsiasi ricostruzione di valori che, d’ora in poi, non potrà che essere soggetta al divenire. La consapevolezza di questo trauma, di cui possiamo rintracciare i primi segni molto addietro anche nella tradizione letteraria italiana, non richiede però una vera presa d’atto finché non diventa esperienza di massa, timore di un reale crollo del mondo e delle sue strutture di fronte al quale le tradizionali forme di signi24  Un filone interpretativo sempre più corposo, a cui si può ricondurre anche un saggio come The Lives of the Novel. A History di Thomas Pavel (Princeton University Press, Princeton 2013), tende ad esempio a rintracciare nel romanzo greco ed ellenistico le origini di questo genere letterario. L’irrompere della modernità nel corso del diciottesimo secolo resta tuttavia un passaggio imprescindibile anche per questo tipo di studi: l’idea che il romanzo si consolidi solo con la cultura della modernità, presupposto da cui muovono già Lukács e Bachtin, continua infatti ad accomunare la maggior parte dei testi classici sul tema, da Ian Watt a Michael McKeon. Questa impostazione è tuttora dominante anche nella riflessione di ambito italiano, come confermano saggi per altri aspetti diversissimi come il già ricordato Il patto narrativo di Giovanna Rosa, Teoria del romanzo di Guido Mazzoni (Il Mulino, Bologna 2011), Novel di Riccardo Capoferro (Carocci, Roma 2017), e i quattro volumi di Il romanzo in Italia curato da Giancarlo Alfano e Francesco De Cristofaro (Carocci, Roma 2018). Una ulteriore distinzione di cui tenere conto è quella tra gli studi che intendono la modernità come realizzazione della cultura borghese e quelli che vi leggono piuttosto l’affermazione di una “sfera pubblica” che nasce dalla dialettica tra diverse ideologie, aspetto su cui, sulla scorta di McKeon, ha di recente riportato l’attenzione il saggio di Capoferro. 25  Cfr. Michael McKeon, Dialectical Method in Literary History, introduzione a The Origin of the English Novel (1600-1749) [1987], John Hopkins University Press, Baltimore 2002, pp. 1-22.

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ficazione non sarebbero capaci di reagire. Prezzolini se ne rende perfettamente conto negli anni della «Voce», quando afferma che ad angustiare la sua generazione è «il fatto di sentirci, noi uomini moderni, senza la fede dei padri»26. E, nel suo consueto miscuglio di lucidità e snobismo, aggiunge: La coscienza nuova che la filosofia dell’immanenza veniva formando in noi, non poteva esprimersi con formule e con sistemi, se non per i filosofi; per gli altri, per la massa, per gli educati, occorreva altro: occorreva quella forma tangibile, fantastica, direi quasi, grossa, con la quale il cattolicismo era riescito ad esprimere efficacemente tante superiori verità27.

Nel momento in cui entra il gioco «la massa» formule e sistemi non bastano più, serve una forma «fantastica», «grossa», alla ricerca della quale si metteranno però figure diverse da Prezzolini: uomini e donne che, inferiori per ceto, per età o per cultura, vedranno della modernità non solo i terrori ma anche il potenziale liberatorio, quel “vapore” che non si dissolve semplicemente nell’aria ma che mette in movimento e spazza via tutto ciò che fino a poco prima era per loro motivo di oppressione. E proprio il romanzo, «suffragio universale della letteratura»28, è scelto come luogo privilegiato per un confronto estetico e ideologico tra diverse ipotesi di modernità. Come gli studiosi di questo fenomeno non si stancano di ricordare, infatti, non si può intendere la modernità come un unico blocco di elementi indivisibili: ogni contesto investito da questa trasformazione ne rielabora e ne reinterpreta le caratteristiche a modo proprio, dando vita a tante declinazioni di essa quanti sono i mondi che ne vengono attraversati, e tanto più interessanti quanto più sono capaci di appropriarsene riplasmando i suoi elementi, senza subirli passivamente. Anche la forma romanzo si sviluppa e si modifica in questa rete di relazioni, di scambi tra culture e letterature che si incontrano, si sovrappongono, si mescolano. Sappiamo che «la prosa romanze26  Giuseppe Prezzolini, Parole d’un uomo moderno. III. La storia, «La Voce», V, 21, 22 maggio 1913, p. 1081. 27  Ibid. 28  Pietro Albonetti, Trafile di romanzi, introduzione a Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1994, pp. 7-117, qui p. 14.

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sca europea nasce e si elabora in un processo di libera (trasformatrice) traduzione delle opere altrui»29, ma per quanto l’impatto di queste opere altrui sia ormai riconosciuto nella costruzione delle diverse letterature nazionali – basta pensare ai numerosi studi sul ruolo del romanzo greco per Cervantes, o della letteratura inglese del Seicento per i romantici tedeschi, e ancora dei romanzieri americani per l’Italia del dopoguerra – non di rado l’esistenza dei testi in traduzione finisce comunque per essere accantonata, oscurata dai corrispondenti originali (spesso mai giunti nelle mani di quanti li hanno reinterpretati30) o da linee di ispirazione tutte nazionali che obbediscono più a criteri di visione e divisione disciplinare che non a dati storici. Per una sorta di tacito accordo, insomma, finisce col prevalere la convinzione che le grandi opere letterarie, nel loro muoversi per il mondo, restino sempre uguali a se stesse. È qui che la traduzione, concreto anello di congiunzione tra culture letterarie diverse, deve invece recuperare il suo spazio: i romanzi che hanno circolazione internazionale sono soggetti ai più vari meccanismi di manipolazione nel passaggio da un contesto all’altro, non tanto per gli inevitabili errori che ogni lavoro umano porta con sé, quanto per il processo di reinterpretazione che necessariamente subiscono nel contesto d’arrivo. Un esempio su cui si avrà modo di soffermarsi a lungo è quello di Berlin 29 Bachtin,

Estetica e romanzo cit., p. 185. 30 «Il modo di lettura “normale” di un testo straniero», osservava quasi quarant’anni fa Antoine Berman «è quello della sua traduzione. Leggere un libro nella sua lingua di origine costituirà sempre un’eccezione, e un’operazione piena di limitazioni. Questa è la situazione culturale normale, alla quale nessun apprendimento delle lingue può né deve rimediare, poiché non ha nulla di negativo. […] Bisogna anche andare oltre, e dire che, in tutta la scrittura letteraria, c’è sempre traccia di un simile rapporto. Proprio come nella nostra parola, dice Bachtin, c’è sempre la parola di altri, e questo intreccio delle due parole costituisce la struttura dialogica del linguaggio umano. Se tutta la scrittura implica un orizzonte di traduzione (questo può essere, in profondità, il senso della Weltliteratur goethiana), è assurdo chiedere a una traduzione di apparire come una “pura” scrittura, essa stessa un mito. Una disciplina come la letteratura comparata vive dell’oblio e dell’occultamento di questa problematica […]» (Antoine Berman, La prova dell’estraneo. Cultura e traduzione nella Germania romantica [1984], a cura di Gino Giometti, Quodlibet, Macerata 1997, pp. 199-200n). Gli studi di storia della traduzione hanno cercato in seguito di ricalibrare questa impostazione: per un approfondimento in questo campo cfr. Antonio Bibbò, Comparative Literature and Translation History, in Christopher Rundle (a cura di), Routledge Handbook of Translation History, Routledge, London-New York, 2021, pp. 139-154.

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Alexanderplatz di Alfred Döblin: acclamato in particolare per il suo linguaggio innovativo, che portava sulla scena il dialetto del proletariato berlinese, in traduzione il romanzo è apprezzato per ragioni del tutto diverse, dal momento che, per esplicita volontà del traduttore, proprio questo aspetto così caratterizzante dell’opera originale viene eliminato del tutto nella versione italiana. Presupposto centrale di tutta la ricerca è dunque la consapevolezza che dal proprio percorso di circolazione ogni testo esce trasformato, e che questa trasformazione è dovuta in massima parte alle convenzioni letterarie del campo d’arrivo. Circolando senza i contesti culturali che li hanno prodotti, i romanzi di cui ci si occuperà sono infatti di volta in volta sottoposti a nuovi processi di selezione, lettura e marcatura che li ricollocano nel contesto d’arrivo e all’interno delle discussioni e dei conflitti tra i suoi protagonisti31. La traduzione produce dunque un testo che è allo stesso tempo collegato eppure diverso dall’originale, ed è a questo fenomeno che si farà riferimento con i termini che una ormai lunga tradizione di studi ha messo a nostra disposizione, primo fra tutti quello di «manipolazione», utilizzato senza alcuna sfumatura negativa ma come semplice constatazione di un dato di fatto32. L’idea che l’opera tradotta sia sempre collocata nello 31  Cfr. Pierre Bourdieu, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées, «Actes de la recherche en sciences sociales», 145, 2002, pp. 3-8, dove vengono sviluppati anche i concetti di sélection, marquage e lecture. Occupandoci qui in primo luogo di analisi dei testi, si farà più volte riferimento all’operazione detta di “lettura”, quella cioè attraverso cui «les lecteurs appliquent à l’oeuvre des catégories de perception et des problématiques qui sont le produit d’un champ de production différent» (pp. 2-3). Si tratta di una nozione che permette, tra l’altro, di aggirare l’obiezione mossa da Antoine Berman allo Steiner di After Babel, secondo il quale ogni traduzione è un’interpretazione: dal momento che l’interpretazione è un atto consapevole, obietta Berman, risulta impossibile tener conto anche della «dimensione incosciente» che caratterizza tutti i processi linguistici, traduzione inclusa (Berman, La prova dell’estraneo cit., p. 199n). Il concetto bourdieusiano di “lettura”, al contrario, conserva sia l’aspetto individuale del lavoro traduttivo (l’interpretazione in senso proprio), sia quello sociale (l’insieme di convenzioni letterarie a cui il traduttore, come qualsiasi altro attore del campo letterario, è inconsapevolmente esposto). 32  Cfr. Theo Hermans, The Manipulation of Literature, St. Jerome, Manchester 1985, e Id., Translation in Systems. Descriptive and System-oriented Approaches Explained, St. Jerome, Manchester 1999 («If it were a matter of technical codeswitching only, translation would be as exciting as a photocopier. Translation is of interest because it offers first-hand evidence of the prejudice of perception», p. 95).

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spazio del contesto d’arrivo, e non in un ipotetico “terzo spazio” neutrale, obbliga inoltre a esaminare il rapporto che la lega alla letteratura nazionale, attraverso una prospettiva sistemica che si sofferma non solo sulle singole opere ma anche sul loro insieme, sulle condizioni che ne permettono l’esistenza e sui vincoli a cui devono inevitabilmente sottostare33. Ciò che si cercherà costantemente di mettere in risalto è insomma la non-passività del contesto di ricezione, in questo caso il campo letterario italiano: non si parlerà di “modelli” né di “influenze”, bensì di opere che vengono importate e tradotte proprio perché produttivamente manipolabili all’interno dei conflitti in corso. Alcune polemiche letterarie che sorgono intorno ad autori tedeschi mostrano con particolare efficacia come il conflitto delle interpretazioni abbia la sua ragion d’essere all’interno del campo di ricezione: è il caso, ad esempio, delle concorrenti interpretazioni intorno al Goethe romanziere. Stabilire se il Meister o le Affinità elettive siano l’esito di un progetto unitario o non finiscano piuttosto per soffocare pagine di autentica poesia in mezzo a inutili scene accatastate «con metodo da magazziniere»34 è un problema che a ben guardare ha poco a che fare con la cultura tedesca: la reale posta in gioco del dibattito è l’idea crociana di opera d’arte coi suoi cascami poetici, contro la quale Goethe viene schierato in quanto rappresentante di una diversa idea di letteratura. Occuparsi del contesto d’arrivo implica infine una ulteriore conseguenza a questo punto ovvia: chiedersi chi sono, quale idea di letteratura abbiano e in quali condizioni lavorino quanti con33  Un tentativo più ampio di esaminare la letteratura tradotta all’interno del sistema letterario nazionale, secondo quanto proposto fin dagli anni Novanta da Itamar Even-Zohar (Polysystem Studies, «Poetics Today», 11, I, 1990), è per l’Italia quello elaborato dal progetto di ricerca LTit – Letteratura tradotta in Italia, all’interno del quale anche questo libro è stato progettato e realizzato. Rimando in proposito al volume inaugurale di questa collana (Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920), Quodlibet, Macerata 2018) e al database delle traduzioni messo a punto nello stesso contesto, liberamente consultabile all’indirizzo www.ltit.it. 34 Benedetto Croce, Goethe. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, Laterza, Bari 1919, pp. 57-58. Croce si riferisce in particolare all’episodio delle Confessioni di un’anima bella all’interno dei Lehrjahre, e afferma che si tratta di un metodo «purtroppo dal Goethe usato ed abusato in lavori posteriori» (ivi, p. 58).

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tribuiscono a far circolare la letteratura straniera in traduzione. Si tratta non soltanto, com’è logico, dei traduttori, ma anche di tutti quelli che vengono qui indicati con il termine più generico di “mediatori” e che prendono parte allo stesso processo in veste di editori o direttori di collana che selezionano le opere, di prefatori che ne suggeriscono una determinata lettura, o ancora di scrittori e critici che hanno il potere di conferir loro rilevanza all’interno del contesto d’arrivo. Questi personaggi sono, in molti casi, gli stessi che hanno costruito il corpus canonico della nostra letteratura nazionale: ma accanto ai nomi di Prezzolini e di Croce, di Borgese o di Vittorini si disegna una rete fittissima di collaboratori oggi in gran parte dimenticati, che spesso hanno avuto un ruolo non meno decisivo nel far conoscere determinati scrittori o correnti letterarie. Il percorso di questo libro non segue dunque la trama dei grandi autori o dei classici canonizzati a posteriori, ma cerca innanzitutto di ricostruire i sentieri accidentati attraverso cui le persone fanno la letteratura, talvolta con una consapevolezza assai parziale di ciò che stanno lasciando a chi verrà dopo di loro. Paradigmatico, in questa chiave, è un caso come quello di Alessandra Scalero, letterata autodidatta che, selezionando e traducendo romanzi per la dauliana scrittori di tutto il mondo e poi per la medusa Mondadori, avrà un ruolo di primo piano nel far arrivare nelle mani dei lettori italiani autori come Döblin, John Dos Passos o Virginia Woolf. Il peso che assumono figure come Scalero è frutto anche della progressiva professionalizzazione dei traduttori che, almeno per quanto riguarda le letterature di area germanica, si può già collocare intorno alla metà degli anni Dieci: l’affermarsi di una nuova generazione di mediatori specializzati in determinate aree letterarie contribuirà infatti a introdurre numerose innovazioni nel sistema della letteratura tradotta. Prima ancora che idee o testi, dunque, ci sono in gioco persone, e relazioni che le legano: il fatto che in molti casi sia stato necessario inseguirne le tracce in archivi, in lasciti inediti e in corrispondenze private è solo la conferma di quanto spesso questa gigantesca mole di lavoro umano venga misconosciuta. Ma l’idea di una letteratura fatta solo di capolavori che in virtù della loro intrinseca grandezza viaggiano indisturbati da una cultura all’altra non è meno misti-

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ficatoria della mentalità che vede solo “velocità” e “leggerezza” nel lavoro contemporaneo, contribuendo a farne dimenticare le reali condizioni materiali. Le culture, le lingue, gli esseri umani oppongono resistenza, e ogni prodotto dell’attività umana, libri inclusi, è frutto di una successione a volte estenuante di compromessi, difficoltà, contraddizioni e testardaggini. Questo libro dà spazio soprattutto a loro, nella convinzione che sia necessario anche per la letteratura andare oltre l’illusione della trasparenza per osservare quello che forse è il suo potere maggiore: la sua inesauribile capacità di riplasmazione, dote indispensabile in un mondo ormai cocciutamente prosaico e moderno.

Questo libro è stato ideato e scritto tra il 2014 e il 2020 nel quadro del progetto firb Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento, e non sarebbe stato possibile senza lo scambio costante che ha caratterizzato fin dall’inizio il lavoro di ricerca: il mio grazie va dunque in primo luogo agli altri componenti del gruppo, Michele Sisto, Anna Baldini, Irene Fantappiè, Stefania De Lucia e Anna Antonello; e ai referenti scientifici del progetto presso Sapienza Università di Roma: Camilla Miglio, che ha sostenuto generosamente il mio lavoro in tutte le sue fasi, e Franco d’Intino, senza il quale questo libro non avrebbe mai trovato la sua forma definitiva. Grazie inoltre a Bernhard Huss, con il quale ho avuto la possibilità di svolgere una parte della ricerca alla Freie Universität di Berlino tramite una borsa daad. Di molti suggerimenti e spunti di ricerca sono debitrice agli amici che hanno letto queste pagine in corso d’opera: Antonio Bibbò, Mimmo Cangiano, Riccardo Capoferro, Sara Culeddu, Flavia Di Battista, Marco Rispoli e Sara Sullam. Ringrazio inoltre gli archivisti e i bibliotecari che hanno facilitato le mie ricerche, in particolare Diana Rüesch dell’Archivio Prezzolini di Lugano, Lidia Ferrua della Biblioteca Civica di Mazzè, Teresa Leo della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce e il personale della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Grazie infine, per l’autorizzazione a pubblicare i documenti inediti, ad Albertina Vittoria, Giovanna Borgese, Nica Mann Borgese ed Emilio Gentile.

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1. La «Voce» contro il romanzo Ich schreibe dir nicht länger – obgleich ich die Absicht hätte einen längeren Brief dir zu schreiben. [..] Wir müßen warten bis Berlin, ich denke, um allein zu sein: dann werden wir uns revanchieren, wie ich in meinem kleinen Zimmer sagte. Manchmal ist es mir ein bißchen traurig, wenn ich denke daß wir nach Berlin zurück müßen […]. Aber dann denke ich dass wir da arbeiten können, und immer zusammen sein: und so ist die Freude für uns auch in Deutschland. […] Ich habe gestern übersetzt und bozze corrigiert. […] Ich warte auf einen Brief und ich küsse dich. Deine kleine Tata1.

Il destinatario di questa cospiratoria lettera d’amore, recapitata nel luglio del 1913 a un casale nelle campagne di San Gimignano, è il ventenne Alberto Spaini, triestino trapiantato a Firenze che figura da alcuni anni tra i principali animatori della «Voce» di Giuseppe Prezzolini. A inviarla è una sua collega di università conosciuta proprio nella redazione della rivista, Rosina Pisaneschi, con la quale Spaini è fidanzato da un paio d’anni. Pur essendo entrambi di madrelingua italiana, i due si scambiano frequenti cartoline in tedesco per aggirare il controllo del padre di Rosina, un affermato medico senese che non vede di buon occhio un eventua1  Cartolina postale ms. di Rosina Pisaneschi ad Alberto Spaini, da San Gimignano, 29 luglio 1913 (conservata presso l’archivio privato degli eredi Spaini a Roma) [«Non ti scrivo di più – anche se avrei intenzione di scriverti una lettera più lunga. [...] Dobbiamo aspettare fino a Berlino, credo, per stare da soli: allora ci rifaremo, mi dicevo nella mia stanzetta. A volte mi viene un po’ di tristezza quando penso che dobbiamo tornare a Berlino. [...] Ma poi penso che lì possiamo lavorare e stare sempre insieme: e allora saremo felici anche in Germania. […] Ieri ho tradotto e corretto le bozze. […] Aspetto una lettera e ti bacio. La tua piccola Tata». Se non diversamente indicato, le traduzioni dal tedesco sono mie].

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le matrimonio tra sua figlia e un laureato in lettere che scrive sui giornali e che, dunque, non ha un lavoro. Nelle numerose lettere che Alberto e Rosina si scrivono durante l’estate del 1913 non si parla però soltanto di come estorcere al signor Pisaneschi il sospirato consenso alle nozze. Dal carteggio emergono anche le fasi di un lavoro che la coppia sta conducendo a quattro mani, quello a cui Rosina allude parlando di traduzioni e bozze da rivedere: si tratta della prima edizione italiana integrale dei Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe, che pochi mesi dopo uscirà in due volumi per l’editore Laterza con il titolo Le esperienze di Wilhelm Meister2. Spaini e Pisaneschi hanno intrapreso la traduzione durante un soggiorno a Berlino – lei fa infatti riferimento alla necessità di tornare in Germania per portarla a termine – e vi hanno lavorato in dialogo diretto con quasi tutta la redazione della «Voce», in particolare con Prezzolini e con Slataper. Siamo in anni di decisive trasformazioni per la cultura italiana, e la rivista di Prezzolini intende porsi come protagonista attiva di quest’accelerazione di modernità dando spazio a discussioni non soltanto letterarie, ma anche sociali e politiche. Il progetto di traduzione del Wilhelm Meister, pietra miliare del romanzo di formazione3, si inserisce in questo contesto e rappresenta uno dei prodotti più maturi della stagione della «Voce», contribuendo a marcare una tappa decisiva sia nel percorso di legittimazione del romanzo come genere letterario, sia nel riconoscimento della figura del traduttore come professionista di una specifica lingua e letteratura. Le pagine che seguono si occupano di capire come mai una traduzione del genere, progettata da un manipolo di letterati che sostenevano il primato della scrittura critica e autobiografica su quella di finzione, si sia sviluppata in un contesto che negli anni aveva ingaggiato più di una battaglia contro romanzi e romanzieri, e abbia finito con l’essere pubblicata in una collana voluta 2 Johann Wolfgang von Goethe, Le esperienze di Wilhelm Meister, a cura di Rosina Pisaneschi e Alberto Spaini, Laterza, Bari 1913 (vol. I) e 1915 (vol. II). La traduzione esce nella collana scrittori stranieri, diretta da Guido Manacorda sotto la supervisione di Benedetto Croce (cfr. Benedetto Croce-Giovanni Laterza, Carteggio I: 1901-1910, a cura di Antonella Pompilio, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 776). 3  Sulla posizione e sulle peculiarità del Meister nel quadro di questo genere letterario resta indispensabile lo studio di Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1986.

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da un altro strenuo oppositore di ogni riflessione teorica sul romanzo, ovvero Benedetto Croce4. Il principio dell’insussistenza dei generi letterari, da lui formulato nelle pagine dell’Estetica5, è infatti nei primi decenni del secolo uno di quei presupposti assiomatici della cultura italiana a cui scrittori e studiosi si attengono «quasi senza dirselo e saperlo»6, contribuendo con ciò a corroborare un sistema di regole non scritte secondo cui i romanzieri sono artisti di seconda categoria. Anche per questa ragione Debenedetti collocherà la rivalutazione del romanzo – inteso come genere letterario prestigioso e non come «letteratura amena» – solo nei pieni anni Venti, con la definitiva consacrazione nel canone di romanzieri come Verga, Pirandello o Svevo che fino a quella data avevano dovuto accontentarsi di pagare di tasca propria la pubblicazione dei loro libri, o di vedersi accostare a narratori screditati come commerciali nelle collane dei grandi editori generalisti. Prima di questa fase, tuttavia, nessuno aveva mai davvero «smesso di frequentare i grandi romanzi russi, francesi e […] inglesi»7. L’interesse nei confronti del romanzo è inscindibilmente legato alla circolazione degli scrittori stranieri, letti inizialmente in francese da una cerchia relativamente ristretta di letterati 4  Sulle pagine della «Critica» compaiono a più riprese recensioni di opere saggistiche dedicate al problema del romanzo che Croce contesta principalmente dal punto di vista dell’impostazione metodologica: cfr. la recensione a Giambattista Marchesi, Studi e ricerche intorno ai nostri romanzieri e romanzi del settecento (Istituto Italiano d’Arti grafiche, Bergamo 1903), «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», 1, 1903, pp. 464-467, nella quale Croce polemizza contro «il presupposto che il romanzo sia come un prodotto manifatturiero che, di qualità scadente nel secolo XVIII, ebbe impronta d’arte dal Foscolo, e fu sollevato a grande altezza morale ed artistica dal Manzoni» (p. 466); e quella ad Adolfo Albertazzi, Il romanzo (Vallardi, Milano 1904, parte della Storia dei generi letterarii italiani) e Giuseppe Spencer Kennard, Romanzi e romanzieri italiani (2 voll., Barbèra, Firenze 1904), ivi, 4, 1906, pp. 123-129. 5  Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Remo Sandron, Milano 1902. La «Critica della teoria dei generi artistici e letterari» – secondo la quale i generi non hanno alcuna valenza conoscitiva, costituendo non oggetti reali ma arbitrarie catalogazioni – è inclusa nel capitolo IV, Istorismo e Intellettualismo nell’Estetica. 6 Debenedetti, Il romanzo del Novecento cit., p. 23. 7 Ivi, p. 13. Sulla circolazione della narrativa straniera in Italia all’inizio del Novecento cfr. inoltre Francesca Billiani, Culture nazionali e narrazioni straniere. Italia, 1903-1943, Le Lettere, Firenze 2007 (in particolare i capp. I e II, dedicati rispettivamente agli anni Dieci e agli anni Venti).

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colti, e poi, grazie alle traduzioni italiane, da un pubblico sempre più ampio e variegato. La diffusione della narrativa straniera in traduzione costituisce anche uno dei perni del lavoro di Borgese: sono numerosi i romanzi che lo scrittore contribuisce a far pubblicare per la prima volta in italiano nella collana antichi e moderni di Carabba, che dirige fin dal 1910 e che può essere considerata un’anticipazione della più celebre biblioteca romantica Mondadori8. Ma la sua, come vedremo più approfonditamente nella seconda parte di questo lavoro, è per il momento una voce isolata: alla metà degli anni Dieci, con poche eccezioni9, i letterati italiani e in particolare quelli più vicini all’ambiente della «Voce» seguono la lezione crociana nel ritenere l’autentica poesia qualcosa di trasversale ai generi letterari, e pertanto indipendente dalle loro specifiche caratteristiche. L’interdizione con cui colpiscono il romanzo ha una duplice natura, formale ed etico-contenutistica: sul versante estetico i vociani prediligono le forme brevi, in particolare il frammento; su quello dei contenuti esortano alla ricerca della “verità”, cosa che porta gli autori a orientarsi verso forme narrative come il diario o l’autobiografia, a scapito delle narrazioni finzionali. Se il primo elemento non può che essere d’ostacolo allo sviluppo del romanzo (poiché il frammento si contrappone per sua natura alle strutture architettoniche che, sosterrà Borgese, sono indispensabili alla costruzione dell’edificio narrativo), il secondo – all’apparenza più pernicioso ancora, in quanto ostile all’invenzione – rivela però dal punto di vista tecnico un’ambigua solidarietà con la narrazione romanzesca. Vera o inventata che sia, una storia che prevede uno sviluppo (termine chiave su cui si tornerà) obbliga infatti a fare i conti con problemi tecnici propri del romanzo – trame, personaggi che si trasforma8  Lo stesso progetto di traduzione del Meister nasce in origine per antichi e moderni, presumibilmente su proposta di Prezzolini che per primo fa il nome di Spaini a Borgese: cfr. le lettere che Borgese e Prezzolini si scambiano tra il 14 gennaio e il 28 febbraio del 1911 (Archivio Prezzolini, fasc. Borgese, I., nn. 38-40 e nn. 42-45), parzialmente riprodotte in Daria Biagi, Una lingua per il romanzo moderno. Borgese editore e traduttore, in Maurizio Pirro (a cura di), La densità meravigliosa del sapere. Cultura tedesca in Italia tra Settecento e Novecento, Università degli Studi di Milano 2018, pp. 167-185. 9  Per esempio Lorenzo Gigli, autore del saggio Il romanzo italiano da Manzoni a D’Annunzio (Zanichelli, Bologna 1914), che ritroveremo negli anni Trenta in veste di traduttore di Conrad, Huxley e Faulkner.

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no, dialoghi. L’innegabile preponderanza del magistero crociano non deve dunque indurci a considerare troppo compatto questo scenario: è anzi proprio a partire dal concetto di sviluppo che possiamo comprendere come nasca e quale importanza rivesta il progetto di tradurre un romanzo come il Wilhelm Meister. 2. Tradurre Wilhelm Meister, «il verbo dell’uomo moderno» 2.1. Il Meister di Slataper e Prezzolini Prima dell’edizione Laterza curata da Spaini e Pisaneschi, il Wilhelm Meister è noto in Italia principalmente attraverso le traduzioni francesi, a cui va aggiunta una versione italiana derivata dal francese e assai lontana dall’originale goethiano10. La vicenda del giovane borghese che arriva a conquistarsi un posto nel mondo dopo lunghe peregrinazioni fra teatri e amori delusi è comunque ben presente agli intellettuali italiani d’inizio Novecento: lo testimonia Papini, che nel 1908, a proposito di Un uomo finito, confida a Boine di aver appena cominciato «a scrivere una specie di Wilhelm Meister tratto dalla mia vita»11. A concretizzare nei vociani l’interesse per quest’opera – interesse che sfocerà poi nel progetto di traduzione – è probabilmen10  Si tratta di Gli anni di noviziato di Alfredo Meister, del sig. Goethe, autore del Werther, stampata per la prima volta a Milano presso la tipografia Destefanis nel 1809. Su questa traduzione, attribuita a Giovanni Berchet e riedita nel 1912 a cura di Domenico Ciàmpoli con il titolo Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, cfr. infra, cap. I, § 2.3. 11  Papini a Boine, da Pieve S. Stefano (Arezzo), 29 aprile 1908, in Giovanni Boine, Carteggio, vol. IV: Amici della «Voce» – Vari (1904-1917), a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1979, pp. 43-44, qui p. 43. Papini legge integralmente il romanzo di Goethe nell’aprile del 1909, nella traduzione francese prestatagli da Soffici (cfr. Giovanni Papini-Ardengo Soffici, Carteggio, vol. II: 1908-1915. Da «La voce» a «Lacerba», a cura di Mario Richter, Edizioni di storia e letteratura, Roma – Fondazione Primo Conti, Fiesole 1999, p. 79: «Ho quasi finito di leggere il Wilhelm Meister ch’è un bel libro sostanzioso e pregno d’intelligenza. Certi personaggi non mi piacciono – alcune scene sono svenevoli o goffe ma l’insieme è degno di un grand’uomo veramente grande»). Anni dopo, recensendo il Lemmonio Boreo di Soffici, Riccardo Bacchelli ricorderà come anche questo romanzo fosse stato a suo tempo annunciato come «il Wilhelm Meister […] dello Sturm und Drang vociano» («La Ronda», III, 8-9, agosto-settembre 1921, p. 599).

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te, come spesso accade, un fatto contingente. Nel 1910, infatti, il romanzo goethiano torna di colpo all’onore delle cronache con la scoperta, in Svizzera, della Missione teatrale di Wilhelm Meister [Wilhelm Meisters Theatralische Sendung], la stesura originaria dei primi sei libri dei Lehrjahre composti da Goethe a Weimar tra il 1777 e il 1785. L’opera, da subito indicata anche con il titolo di Urmeister, era considerata perduta e le scarse notizie intorno ad essa lasciavano appena intuire che aveva come tema cardine la fondazione del teatro nazionale in Germania. Scipio Slataper riporta la notizia del ritrovamento sul Bollettino bibliografico della «Voce», osservando come questo primo abbozzo del romanzo, nel dar conto delle preoccupazioni giovanili dell’autore, rappresenti «un magnifico documento dell’anima passionale nient’affatto “padrona” del giovane Goethe»12. L’Urmeister e i Lehrjahre – termine che Slataper propone di tradurre in italiano con tirocinio13 – sarebbero dunque da considerare opere indipendenti, e la prima, testimoniando la fase iniziale del percorso artistico di Goethe, permetterebbe di comprenderne al meglio lo sviluppo e di evitare «il solito processo di canonizzazione ab inizio»14 che secondo Slataper ha inevitabilmente luogo quando si vuole proiettare il valore di un autore anche sulle sue creazioni giovanili. La grandezza di Goethe, al contrario, si mostra proprio in questa capacità di continuo superamento di sé, superamento che sa conservare però gli elementi più vitali, e persino infantili, della giovinezza. Eppure l’evoluzione che a distanza di nove anni porta Goethe a riscrivere radicalmente l’Urmeister non viene compresa a pieno neanche dai suoi amici più intimi: «A quasi tutti gli amici di G.», nota Slataper «esso piaceva di più che i libri corrispondenti della seconda versione»15. Nei Lehrjahre lo scrittore è infatti or12  Scipio Slataper, L’Urmeister di Goethe, «La Voce», III, 52, 28 dicembre 1911, p. 723. 13  Come altri collaboratori della «Voce» formatisi nelle scuole dell’impero austroungarico, anche Slataper ha una buona conoscenza del tedesco, lingua che approfondirà durante il periodo trascorso ad Amburgo come lettore di italiano. Sul rapporto di Slataper con la cultura tedesca cfr. Lorenzo Tommasini, La personalità eccessiva. Scipio Slataper e Friedrich Hebbel, ets, Pisa 2019. 14 Slataper, L’Urmeister di Goethe cit. 15  Ibid.

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mai entrato in una fase più matura della sua attività artistica, e non può nascondere il suo giudizio negativo, seppure affettuoso, verso il giovane Wilhelm e il mondo dei teatranti, «pupattoli pieni di nervi, d’ignoranza e di fintume»16. Il fatto che il poeta sia indulgente con loro, dimostrandosi capace di comprendere tanto la sentimentalità dei Werther quanto il bisogno di azione concreta dei Wilhelm, è tuttavia secondo Slataper la ragione per cui l’Urmeister ha un’importanza capitale nella storia dello sviluppo, e, in generale, per la comprensione dello spirito di Goethe […]. Quando si pensa a Goethe si dimentica completamente la sua grandezza drammatica. Si dimentica il giovane wertheriano che s’assoggetta alle cure di stato; si dimentica sopratutto il poeta che ha finalmente trovato sé stesso, che è arrivato alla sua meta, e s’accorge che proprio il suo massimo lascia freddi quasi tutti gli amici17.

Il concetto di «sviluppo», su cui Slataper insiste nell’articolo e che tornerà nel titolo della sua tesi di laurea su Ibsen18, diventa cruciale nella riflessione collettiva dei vociani, che negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale cercano con urgenza crescente il modo di tradurre l’attività letteraria in una pratica capace di agire sulla realtà, di modificare il corso delle cose. È inoltre una delle spie linguistiche da cui si può iniziare a capire come la riflessione letteraria di area tedesca venga assorbita nel contesto italiano e reimpiegata a nuovi fini: sviluppo – così come svolgimento, termine che vedremo rimbalzare negli scritti di Spaini, di Pisaneschi, ma anche di giovani studiosi estra16 

Ibid. Ibid., mio corsivo. 18  Ibsen. Suo sviluppo intellettuale e artistico sino ai “Fantasmi” è il titolo completo della tesi discussa nel 1912 sotto la direzione di Carlo Fasola, pubblicata dopo la morte di Slataper con il semplice titolo Ibsen (Bocca, Torino 1916) grazie all’interessamento del germanista torinese Arturo Farinelli, punto di riferimento della cerchia vociana per i suoi pionieristici studi sul romanticismo tedesco. Il termine chiave di «sviluppo» compare inoltre nel passo del Mio Carso in cui il narratore ritrae se stesso nell’atto di iniziare a scrivere: «Accendiamo la sigaretta. Inchiniamoci sul tavolino per venerare il pensiero che gorgoglia, commisto all’inchiostro, giù dalla penna. Lo sviluppo d’un’anima a Trieste. Comincio a scrivere» (Scipio Slataper, Il mio Carso [1912], Libreria della Voce, Firenze 1918³, p. 72). 17 

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nei all’ambiente vociano come Barbara Allason19 – è la traduzione del termine Entwicklung, concetto che Dilthey aveva posto al centro delle sue ricerche letterarie dedicate a Lessing, Goethe, Novalis e Hölderlin e che invitava a considerare la creazione letteraria come l’esito di un’evoluzione dialettica più che come il frutto di un’intuizione20. È quello che intende anche Slataper quando sottolinea che nel Goethe maturo permangono, distanziati, i segni degli entusiasmi giovanili (il teatro): un piccolo ma nitido segnale di insofferenza nei confronti dell’estetica crociana, sotto le cui insegne Prezzolini intende collocare il progetto della «Voce» ma che vedrà sempre recalcitranti i suoi collaboratori più giovani21. L’idea di un superamento degli entusiasmi giovanili a vantaggio di una più realistica azione nel mondo è cara peraltro allo stesso Prezzolini, che all’inizio degli anni Dieci ha già dismesso le grandi aspirazioni artistiche per diventare «un utile cittadino del mondo»22. Non è strano, dunque, che sia proprio lui a mettere materialmente in moto il processo di traduzione dei Lehrjahre, come ricorda Spaini in una pagina del suo Autoritratto triestino: 19  A proposito degli scritti di Spaini e Pisaneschi cfr. infra, cap. I, § 3; su Barbara Allason il § 5. 20  Cfr. Wilhelm Dilthey, Das Erlebnis und die Dichtung. Lessing, Goethe, Novalis, Hölderlin, Teubner, Leipzig 1906. Sulla circolazione del pensiero di Dilthey cfr. Pier Carlo Bontempelli, Dilthey e la Geistesgeschichte, in Id., Storia della germanistica, Artemide, Roma 2000 (pp. 89-116); e specificamente sul suo ruolo nel rendere l’opera di Goethe punto di riferimento della riflessione sulla modernità per tutta una nuova generazione di studiosi, da Cassirer a Simmel a Lukács, cfr. Claude Haas, Johannes Steizinger, Daniel Weidner (a cura di), Goethe um 1900, Kadmos, Berlin 2017, in particolare l’introduzione di Haas (pp. 7-23) e il saggio di Steizinger Vorbild, Beispiel und Ideale. Zur Bedeutung Goethes für Wilhelm Diltheys Philosophie des Lebens (pp. 27-49). 21  Scrive Slataper a Prezzolini il 21 aprile 1911: «La Voce, secondo me, ha una funzione di unificazione dello spirito, più che una funzione esclusivamente pratica. È nata diciamo così crociana, ma a poco a poco va verso Gentile» (Scipio Slataper– Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1909-1915, a cura di Anna Storti, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011, p. 199). La progressiva ostilità di vociani come Slataper e Boine verso l’impostazione crociana, e in particolare verso l’«utopia semantica del linguaggio» in base alla quale ogni vera intuizione o rappresentazione sarebbe, insieme, espressione, è sottolineata da Arturo Mazzarella in Percorsi della «Voce» (Liguori, Napoli 1990, pp. 20-22). 22 Spaini, Autoritratto triestino cit., p. 149.

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ricordo quella sera quando Prezzolini mi parlò del Wilhelm Meister di Goethe. Che cosa conoscevo di Goethe? Il Werther, qualche poesia, qualche dramma, qualche scena del Faust — quello che alla licenza liceale un ragazzo conosce di solito dei grandi autori: un vago alone di luce e mezza dozzina di versi. Ma Werther era il mio personaggio, e ne parlavo con quell’infatuazione che poteva avere al principio del secolo un diciottenne: morire recitando il lamento funebre di Ossian per gli eroi era forse l’aspirazione più alta di quell’epoca che — ora non pare — ma era di un romanticismo estremo. Prezzolini era il temperamento più antiromantico che si potesse immaginare, con una specie di furia contro quelle che forse erano state anche le sue debolezze sentimentali. Nulla di più affascinante per Prezzolini che tentare di distruggere l’idolo che un altro si era costituito; forse perché, nel difenderlo, l’altro lo rendesse più valido e più vero. E per smontare il mio Werther, Prezzolini mi citò Goethe: «Voi entusiasti, voi sentimentali, mi sembrate i ragazzi che gettano pietre nel ruscello dietro casa per farlo spumeggiare e immaginarsi che sia un grande fiume». Sono le parole con cui l’amico Werner smonta gli entusiasmi di Wilhelm; e sono le parole che Wilhelm, alla fine delle sue peripezie, ripete a se stesso, quando rinuncia a tutte le ubbie e si preoccupa di divenire solo un utile membro della società umana, un bravo chirurgo, professione meno splendida di quella dell’attore — ma piuttosto che interpretare in modo mediocre la parte di Amleto è certo meglio salvare una vita umana. Cosi scopersi questo romanzo, il Meister di Goethe, di cui sapevo solo che alla sua pubblicazione i giovani ardenti della Scuola Romantica l’avevano giudicato «troppo prosaico e moderno»23.

Rinunciare alle ubbie romantiche e diventare «un utile membro della società umana»: è qui, per Prezzolini, che Wilhelm supera Werther, proponendo ai suoi lettori un’immagine finalmente costruttiva, realistica, del ruolo che l’uomo può aspirare ad assumere nella società moderna. La vocazione pragmatica, l’impulso all’azione che accomunava Prezzolini, Spaini, Slataper e in generale tutti i collaboratori della “prima” «Voce» trova nel personaggio di Wilhelm Meister una potente rappresentazione artistica, nella quale lo sviluppo dell’anima individuale è tutt’uno con la possibilità effettiva di trovare il proprio posto nel mondo. Naturalmente per i vociani il Meister non è interessante in quanto romanzo, ma semmai nonostante sia un romanzo: è lo «svolgimento spirituale» di un’anima, la geistige Entwicklung 23 

Ivi, pp. 155-156.

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di Wilhelm ad attrarli24, in piena sintonia con quella propensione alla verità autobiografica che, scriverà Prezzolini, era assai più del frammentismo il vero filo conduttore dell’attività della «Voce»25. Questa attenzione all’esperienza interiore del personaggio, tuttavia, assume una sfumatura diversa, molto meno astratta, nel momento in cui il testo entra nella fase materiale della traduzione, e per di più nelle mani di due traduttori come Spaini e Pisaneschi che nel frattempo sono diventati allievi di Borgese a Roma e che stanno evidentemente sviluppando una sensibilità del tutto nuova al problema “romanzo”. 2.2. «Spa» e «la P.», traduttori di nuova generazione Il viaggio di Wilhelm – che è un viaggio esteriore, nella realtà, molto più che un viaggio interiore dello spirito – si presenta infatti ai traduttori sotto forma di problemi architettonici e stilistici da risolvere. Facciamo a questo punto un piccolo passo indietro per sapere chi sono, e quali conoscenze hanno, i due giovani traduttori del romanzo. Il triestino Spaini appartiene a quella generazione di intellettuali “di frontiera” che negli anni Dieci calano in Italia dai confini dell’impero austroungarico portando in dote una conoscenza della letteratura in lingua tedesca ignota ai loro coetanei fiorentini, unita al desiderio di affermarsi in quella che vedono come la patria della cultura italiana26. Come Slataper, Tavolato, i fratelli 24  «Wilhelm s’educa, è vero; ma la sua educazione c’interessa fino a un certo grado; la cosa importante è il suo svolgimento spirituale» (Spaini, La modernità di Goethe II cit., p. 8, mio corsivo). 25  «Il frammentismo venne dopo, quando il Serra incominciò ad avere influenza e La Voce fu regalata a De Robertis. Ma nei primi anni, il culto della verità ad ogni costo mi pare che portasse piuttosto ad un indirizzo differente, ossia all’autobiografia […] Non erano “frammenti” pubblicati come belle scritture. Non erano “pezzi”. Erano “verità”. Il culto del “frammento” e della “bella scrittura” o “d’impegno” verrà dopo, dimenticando la verità e l’autobiografia» (Giuseppe Prezzolini, L’italiano inutile. Memorie letterarie di Francia, Italia e America, Longanesi, Milano 1953, pp. 171-172, corsivi dell’autore). 26  Sulla generazione dei triestini cfr. Angelo Ara-Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 1982; Roberto Pertici (a cura di), Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze, 1900-1950, Olschki, Firenze 1983; Thomas Harrison, 1910: The Emancipation of Dissonance, University of California Press, Berkeley 1996; e Renate Lunzer, Triest. Eine italienisch-österreichische Dialektik, Wieser, Kla-

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Stuparich – e come Carlo Michelstaedter prima di loro –, Spaini frequenta l’Istituto di Studi Superiori di Firenze, dove segue sia corsi di letteratura italiana che di lingua tedesca. Qui conosce Rosina Pisaneschi, senese, di un paio d’anni più grande di lui: entrambi diventano assidui collaboratori della «Voce», sebbene il loro lavoro sia quello più anonimo di chi, pur essendo sempre presente, raramente finisce sotto le luci della ribalta. «Essere “vociani”», dirà infatti Spaini molti anni dopo ripensando a quell’esperienza, non voleva dire scrivere grandi articoloni: Arturo Mugnoz, Biagio Marin [...] non hanno mai scritto sulla Voce, almeno in quegli anni; [...] ma aiutare Prezzolini a correggere le bozze, Slataper a rispondere alla corrispondenza più urgente, Jahier a mettere ordine negli scaffali della libreria, ci sembrava che fosse il giusto obbligo dei nostri poveri mezzi, per questa impresa di cui eravamo innamorati. [...] Qualcosa cui Goethe aveva pensato quando scrisse il Wilhelm Meister e compose quell’inno il quale incomincia: «Attivo sia l’uomo, comprensivo e buono»27.

Nell’estate del 1911 Spaini e Pisaneschi si fidanzano, dando inizio a una duratura relazione sentimentale e professionale. Il lavoro di traduzione del Meister inizia pochi mesi dopo; Rosina è a Berlino e riceve da Spaini una lapidaria comunicazione previa cartolina: «Comprami i Lehrjahre W.M. di Goethe. Ed. Reclams Klassiker Ausgaben – costa 90 pfennig»28. Il Meister sarà il primo di una lunga serie di classici tedeschi che «Spa» e «la P.» (così i due si apostrofano scherzosamente nel carteggio) tradurranno insieme, affermandosi fin dai primi anni di attività come due dei più affidabili interpreti della cultura tedesca in Italia. Entrambi sono infatti da annoverare anche tra i primi laureati in letteratura genfurt 2002. Specificamente sulla traiettoria di Spaini cfr. Carla Galinetto, Alberto Spaini germanista, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, Gorizia 1995; e Albertina Vittoria, Alberto Spaini e «La Voce», «Rivista di letteratura italiana», XV, 1-3, 1997, pp. 276-286. 27 Spaini, Autoritratto triestino cit., p. 152. Significativo il lapsus: la citazione goethiana, tratta dalla ballata Das Göttliche, è in realtà «Edel sei der Mensch, hilfreich und gut!» – ovvero “nobile sia l’uomo”, non “attivo”. 28 Cartolina postale ms. di Spaini a Pisaneschi, da Arles, 3 settembre 1911 (Archivio privato eredi Spaini, Roma). La traduzione viene poi condotta a partire dall’edizione Cotta (Goethes Sämtliche Werke, voll. 17 e 18 a cura di Wilhelm Creizenach), come indicato nel colophon del volume pubblicato.

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tedesca, materia appena istituita come insegnamento universitario strutturato, ed è probabilmente per seguire questo specifico corso di studi che nello stesso 1911 i due si trasferiscono alla Regia Università di Roma, dove la cattedra di letteratura tedesca è stata appena assegnata a Borgese29. I mesi seguenti li vedono ancora per lunghi periodi a Berlino, metropoli «catastrofica» da cui Spaini mantiene con Prezzolini un fitto contatto epistolare, informandolo dei suoi contatti con l’ambiente espressionista della rivista «Der Sturm», della scoperta di autori come Wedekind e Büchner portati alla ribalta dai teatri d’avanguardia berlinesi, e delle sue letture di autori contemporanei ancora poco noti in Italia come Thomas Mann, Alfred Döblin o Else Lasker-Schüler30. Grazie a Spaini e a Pisaneschi molti di questi nomi compariranno sulle pagine della «Voce» e delle altre riviste con cui collaborano31, ma altrettanti loro tentativi di far conoscere gli scrittori contemporanei, soprattutto romanzieri, resteranno a lungo frustrati. Il caso più significativo è proprio quello di Thomas Mann, che fin dagli anni Dieci i due traduttori cercano con scarsissimo successo di far apprezzare al pubblico italiano: fallito il tentativo di pubblicare un articolo a lui dedicato sulla «Voce» – dove Mann è considerato «un tedesco pesante noioso ostinato, e in fondo stupido e grigio»32 –, Spaini e Pisaneschi riusciranno con molta fatica a collocare alcune traduzioni di suoi racconti, e solo presso riviste ed editori di scarso

29  Spaini si laurea con Borgese discutendo una tesi dal titolo Federico Hölderlin. Storia dell’uomo e dell’artista (in cui si avverte, fin dal titolo, l’impostazione ancora “vociana” che pone nettamente l’accento sul momento autobiografico); Pisaneschi discute invece una tesi intitolata Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis, su cui tornerò più avanti. 30  Cfr. Spaini-Prezzolini, Carteggio cit. 31  Oltre a un articolo panoramico dal titolo Moderna letteratura tedesca. I «Lyrische Flugblätter» dell’Editore A.R. Meyer, pubblicato sulla «La Voce» (VI, 8, 28 aprile 1914, pp. 44-53), Spaini scrive su Franz Werfel, Carl Spitteler, Stefan George, Hugo von Hofmannsthal e Rainer Maria Rilke su testate come «Il conciliatore», «La Tribuna», «L’Idea Nazionale» o «Lo spettatore italiano». L’articolo Thomas Mann rifiutato da Prezzolini esce invece sulla «Nuova Antologia» (V, 175, 1° gennaio 1915, pp. 46-55). Quanto a Pisaneschi, suo è il primo articolo italiano dedicato al teatro di Büchner, che esce sul «Conciliatore» di Borgese nel settembre 1914. 32  Cfr. Spaini-Prezzolini, Carteggio cit., p. 76. Per un quadro più ampio degli autori mediati in questi anni da Spaini e Pisaneschi si veda l’Introduzione al carteggio (pp. 7-21); del caso Mann si parla in particolare alle pp. 15-17.

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prestigio33. L’esperienza di questa fase continuerà comunque a caratterizzare il loro lavoro di traduttori, particolarmente attento alla letteratura moderna e contemporanea: insieme tradurranno, dopo il Meister, opere di Wedekind e di Büchner34, e negli anni Trenta Spaini firmerà alcune delle traduzioni romanzesche più importanti del Novecento, da Berlin Alexanderplatz di Döblin al Processo di Kafka35. 2.3. Goethe e Berchet: una polemica Questo percorso da germanisti professionisti ci permette di capire più chiaramente il senso della polemica che nel 1913 Spaini innesca sulla «Voce» contro il traduttore Domenico Ciàmpoli, che l’anno precedente aveva curato la ristampa della traduzione ottocentesca del Meister. L’opera, intitolata Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister e attribuita a Giovanni Berchet, traduceva in realtà una imitation francese di Charles-Louis de Sévelinges36, 33  Tradotti da Rosina Pisaneschi, la quale come si apprende dal carteggio tra Spaini e Prezzolini vi lavora almeno dal 1914, escono a puntate Tonio Kröger («Rassegna Italiana Politica Letteraria e Artistica», XXIV, 30 aprile 1920, pp. 536-549; XXV, 31 maggio 1920, pp. 35-49, e XXVI, 30 giugno 1920, pp. 134-158); e “Tutto dev’essere in aria” [Der Kleiderschrank] («Il Mondo. Rivista settimanale illustrata per tutti», VI, 10, 1920, pp. 77-78). Il secondo di essi confluirà poi nella raccolta Ora greve, Tristano e altri racconti, uscita a firma di entrambi presso l’editore milanese Morreale nel 1926. Sulla prima ricezione italiana di Mann cfr. Elisabetta Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener, Peter Lang, Frankfurt a.M. 2009; Lorenzo Mirabelli, Centotre anni di bibliografia in lingua italiana su Thomas Mann (1908-2011), Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2012 e Michele Sisto, Literary Journals and Book Series as Agents of Consecration.Thomas Mann and Franz Kafka in the Italian Literary Field (1908-1938), in Laura Fólica, Diana Roig-Sanz, Stefania Caristia (a cura di), Literary Translation in Periodicals. Methodological Challenges for a Transnational Approach, Benjamins, Amsterdam 2020, pp. 69-92. 34  Franz Wedekind, Fuochi d’artificio e Mine-Haha, Leonardo Potenza Editore, Milano 1921. Nel corso degli anni Venti il Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia mette inoltre in scena, nella versione di Spaini, i drammi Lo Spirito della Terra, Lulù, Il castello di Wetterstein e La Morte e il Diavolo. Di Büchner, invece, Spaini e Pisaneschi traducono fin dagli anni Dieci i drammi Lena e Leonce, La morte di Danton, Woyzeck e il racconto Lenz, poi riuniti nell’edizione delle Opere pubblicata da Carabba tra il 1928 e il 1931. 35  Su queste due traduzioni cfr. infra, cap. III, rispettivamente ai § 5 e § 9.2. 36  Sulla possibilità che la traduzione italiana derivasse dal rifacimento di Sévelinges, Ciàmpoli era stato peraltro già messo in guardia dal germanista Carlo Faso-

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libera reinterpretazione del romanzo goethiano piena di «amputazioni, fusioni e aggiunte»37. Traducendo direttamente dal tedesco, Spaini ha buon gioco a screditare Ciàmpoli elencando interi passi della versione italiana che non hanno riscontro alcuno nell’originale goethiano, e negando con ciò qualsiasi interesse dell’opera per il lettore contemporaneo. Spaini arriva anche a mettere in dubbio che un tale pasticcio possa essere davvero opera di Berchet, il quale aveva dato prova di molta maggiore accuratezza traducendo in italiano la Lenore e il Wilde Jäger di Bürger: «non vorrei» conclude «che oltre la cattiva e inutile idea di ristampare questo libro il signor Ciàmpoli abbia avuto la disgrazia di prendere questo granchio così madornale»38. La conferma non tarda ad arrivare. Due mesi dopo la «Voce» ospita un secondo intervento dedicato al Meister “di Berchet” a firma di Lavinia Mazzucchetti, brillante germanista appena laureatasi a Milano con una tesi su Schiller in Italia39. L’approfondita conoscenza filologica che Mazzucchetti ha dell’Ottocento lombardo le permette di contestare incontrovertibilmente l’attribuzione dell’opera a Berchet, e di criticare la faciloneria non solo del curatore, ma anche dell’«intraprendente “Verleger” di la, che aveva notato l’analogia tra l’originario titolo italiano (Gli anni di noviziato di Alfredo Meister) e quello francese (Alfred ou les années d’apprentissage de W. Meister). Sulla figura di Ciàmpoli, scrittore e traduttore abruzzese di formazione positivista, cfr. Emiliano Giancristofaro, Nicola Celiberti, Angelo Staniscia (a cura di), Domenico Ciàmpoli. Atti del convegno di studi. Atessa, 21-22 marzo 1981, Carabba, Lanciano 1982. 37  Alberto Spaini, Goethe e Berchet, «La Voce», V, 5, 30 gennaio 1913, p. 1004. 38  Ibid. 39 Cfr. Lavinia Mazzucchetti, Schiller in Italia, Hoepli, Milano 1913, e Ead., Goethe e Berchet, «La Voce», V, 13, 27 marzo 1913, p. 1046. A conferma della rilevanza di questa polemica è interessante notare che ancora vent’anni dopo, curando per la romantica di Borgese l’edizione del Visionario di Schiller tradotto da Berchet, Mazzucchetti non mancherà di ricordare che Berchet non aveva invece mai tradotto il Meister (cfr. Lavinia Mazzucchetti, Nota a Yorik (Lorenzo Sterne), Viaggio sentimentale lungo la Francia e l’Italia, tr. di Didimo Chierico (Ugo Foscolo) – Federico Schiller, Il visionario, ossiano Memorie del conte, tr. di Giovanni Berchet, Mondadori, Milano 1932, pp. 197-199). Sulla figura di Mazzucchetti, che diventerà nel corso del Novecento una delle principali mediatrici della cultura tedesca in Italia e su cui si tornerà nel corso del cap. III, cfr. Anna Antonello, Michele Sisto (a cura di), Lavinia Mazzucchetti. Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2017.

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Lanciano», Gino Carabba40, colpevole di averne avallato troppo frettolosamente la pubblicazione. L’edizione viene dunque affossata all’unisono dai due giovani traduttori-studiosi, che non si conoscono di persona ma condividono una formazione comune e, soprattutto, una posizione analoga all’interno del nascente campo letterario italiano. Rimarcando la propria distanza da intellettuali come Ciàmpoli, considerato la personificazione stessa di una visione superficiale e ormai antiquata della letteratura, Spaini e Mazzucchetti contribuiscono a far sì che il Wilhelm Meister diventi, oltre che un primo passo verso la rivalutazione del romanzo come genere chiave della modernità, anche un punto di svolta nell’affermazione di una nuova figura di traduttore – un traduttore non più soltanto letterato, ma specialista di una data lingua e cultura41. 3. Il problema della discorsività 3.1 Spaini e la Modernità di Goethe Tra il 1910 e il 1913 l’uscita dei Lehrjare viene dunque “preparata” da una serie di interventi che contribuiscono a creare intorno al romanzo un’atmosfera di partecipazione e di attesa. A distanza di oltre un secolo dalla pubblicazione dell’originale, il contesto che accoglie l’opera in traduzione è profondamente diverso da quello che l’ha prodotta, e per questo diventa dunque determinante capire che tipo di lettura danno dell’opera goethiana i due traduttori42. È anzitutto attraverso l’introduzione al primo volume, firmata da Spaini e poi ripubblicata sulla «Voce» con il titolo La 40 Figlio del più noto editore Rocco Carabba, Gino Carabba aveva fondato nel 1911, in rotta con il padre, una propria casa editrice indipendente, sempre a Lanciano. 41  Sul fenomeno della professionalizzazione dei traduttori, che avviene con modalità simili in Francia a cavallo tra Otto e Novecento, cfr. Blaise Wilfert, Cosmopolis et l’Homme invisible. Les importateurs de littérature étrangère en France, 18851914, «Actes de la recherche en sciences sociales», 144, settembre 2002, pp. 33-46. 42  Per il concetto bourdieusiano di lettura cfr. l’Introduzione, nota 31.

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modernità di Goethe43, che possiamo farci un’idea della linea interpretativa da loro seguita. «Modernità» e «moderno» sono fra le parole d’ordine di questi anni, e si è già osservato come per gli intellettuali della nuova generazione questo concetto non indichi una contemporaneità a corto raggio quanto, più genericamente, l’età moderna, che si apre alla fine del Settecento con il crollo dell’ancien régime e che ha nella rivoluzione francese e nell’affermarsi della moderna industria manifatturiera i suoi principali propulsori. «La rivoluzione francese, la dottrina della scienza di Fichte e il Meister di Goethe sono le più grandi tendenze dell’epoca»44, aveva affermato Friedrich Schlegel sulla rivista «Athenäum», esplicitando come alla fine del Settecento, almeno in Germania, questa modernità avesse già trovato i suoi teorici e i suoi poeti. Nell’epoca che assiste anche al dispiegarsi del genio di Goethe, il Meister rappresenta dunque, a un tempo, una reazione alla modernità, e l’opera che trovava nel tempo moderno la più saggia filosofia, il più ricco mondo poetico. Così si sfata la leggenda di Goethe classico, olimpico. In tutta la sua maturità, se non in tutta la sua vita, l’opera sua emerge faticosamente da questo mondo caotico […]45

Spaini non intende semplicemente ricostruire il quadro storico in cui l’attività di Goethe prende forma, ma connetterlo a un presente che continua ad averne i tratti: «è il nostro tempo»46, afferma, chiarendo perché la narrativa goethiana, e il Meister in particolare, possa avere adesso una funzione guida. Il processo di modernizzazione che ha avuto inizio almeno un secolo addietro comincia infatti a concretizzarsi, in Italia, proprio negli anni a cavallo fra i due secoli: e uno dei suoi effetti è la generazione “colta” degli Spaini e dei Borgese – ma anche delle donne come 43 Spaini, La modernità di Goethe cit. Il saggio pubblicato in rivista rappresenta una versione più ampia e approfondita dell’introduzione al volume (Goethe, Le esperienze di Wilhelm Meister cit., vol. I, pp. 5-24), pur non discostandosene nelle tesi fondamentali. 44  Friedrich Schlegel, Atheneaum 1798-1800. Tutti i fascicoli della rivista di August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schlegel, a cura di Giorgio Cusatelli, traduzione, note e apparato critico di Elena Agazzi e Donatella Mazza, postfazione di Eugenio Lio, Bompiani, Milano 2008, p. 181. 45 Spaini, La modernità di Goethe II cit., p. 30. 46  Ivi, p. 28.

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Pisaneschi e Mazzucchetti47 –, prodotto della cultura di massa e dell’istruzione obbligatoria istituita all’indomani dell’Unità. Spaini sembra avere ben presente il senso di questo arco temporale quando assimila la vita di Goethe a quella dei geni che «previvono d’un secolo ai loro contemporanei», sperimentando nello spazio di una sola esistenza ciò che le generazioni successive vedranno solo molti anni più tardi48. Goethe, in altre parole, è «moderno» perché assiste a una frattura epocale intuendone le conseguenze a lungo termine. Dal punto di vista testuale l’introduzione di Spaini insiste sull’unità del Meister, rifiutandone ogni lettura frammentaria: l’esperienza berlinese, unita agli studi condotti a Roma sotto la guida di Borgese, stanno evidentemente facendo maturare nel giovane traduttore un’idea di letteratura sempre più lontana dall’impostazione vociana, che infatti affiora – non di rado con toni polemici – anche nelle lettere inviate in questi anni a Prezzolini e negli articoli che dedica intanto ad autori italiani come Oriani e Palazzeschi49. Ma altrettanto evidente, nella sua analisi, è il desiderio di far emergere quella linea di «sviluppo» o «svolgimento sentimentale»50 che caratterizza il personaggio del protagonista, un aspetto in cui, al contrario, si avverte ancora la continuità con l’esperienza vociana. Tanto Goethe che il suo personaggio sono per Spaini eroi del divenire, del tempo che trasforma uomini e cose. Il traduttore osserva in particolare 47  Pisaneschi è esempio assai rappresentativo di questa nuova generazione: grazie ai suoi studi è capace di mantenersi da sola anche in una città straniera (dal carteggio tra Spaini e Prezzolini veniamo a sapere che a Berlino «guadagna in media 200 marchi al mese ed ha così la vita assicurata», p. 87), e convive con Spaini fin dagli anni universitari nonostante l’opposizione della famiglia. Per la sua traiettoria biografica cfr. Daria Biagi, Rosina Pisaneschi e la letteratura tedesca. Una voce in ombra, online su LTit (www.ltit.it, consultato il 15.03.2021); mentre sulla condizione delle donne prima dell’avvento del fascismo vedi infra, cap. I, § 5.1. 48 Spaini, La modernità di Goethe [I] cit., p. 10. Questa idea di un Goethe perennemente attuale, «contemporaneo dei posteri», è anche il punto di partenza del discorso La personalità di Goethe, che Borgese aveva tenuto nell’aprile del 1910 in occasione del suo insediamento come docente alla Regia Università di Roma (cfr. infra, cap. II, § 2). 49  Rimando ancora al carteggio con Prezzolini (in particolare alle lettere 20, 22, 23 e 29), e alle pagine 18-20 dell’Introduzione al volume. 50 Spaini, La modernità di Goethe [I] cit., p. 27; e II, p. 8, et passim.

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come questo Goethe che ininterrottamente comprende e supera le contraddizioni dell’epoca in cui vive nasca all’indomani del viaggio in Italia, nel momento in cui trova il coraggio di staccarsi dalle sue passioni giovanili e di riprendere in mano la vicenda di Wilhelm per fare di lui un uomo finalmente votato alla «vera vita», all’«azione»51. Se prima Wilhelm vedeva e giudicava la vita attraverso l’arte (il teatro), adesso «l’ideale teatrale è sostituito da un ideale di vita», in cui il valore di un uomo si decide «nei suoi rapporti con gli altri uomini»52. È dunque in virtù di questo sviluppo che il Meister, come voleva Prezzolini, superava il Werther (nonché, potremmo aggiungere, l’Urmeister), e con esso anche la tentazione nichilista da cui i vociani, a oltre un secolo di distanza, continuavano a sentirsi minacciati. 3.2. «Troppo prosaico e moderno» Spaini non limita però la sua riflessione a un discorso morale. In cosa consiste concretamente questa modernità, quali sono a livello testuale gli elementi – di costruzione, di stile, di linguaggio – che rendono il Meister un testo moderno? Da traduttore, non potendo aggirare questa domanda, si trova perciò costretto a proseguire su un terreno più tecnico. Per identificare tali elementi chiama dunque in causa il più celebre critico del Meister: Novalis. La sua definizione negativa dell’opera goethiana («durchaus prosaisch – und modern»), menzionata da Spaini nel ricordo dell’Autoritratto, compare infatti già nell’introduzione del 1913. Novalis aveva criticato i Lehrjahre in due frammenti scritti tra il 1799 e il 1800, nei quali il romanzo veniva giudicato appunto troppo prosaico e moderno, troppo limitato alle comuni attività umane («Er handelt blos von gewöhnlichen menschlichen Dingen»), borghesi e casalinghe («bürgerliche und häusliche Geschichte»), e pieno di discorsi impoetici sull’economia e sulle merci («Sehr viel Ökonomie [...] undichterisch im höchsten Grade», «die ökonomische Natur ist die Wahre»). Ai suoi occhi il Meister era una satira contro la 51 Id., 52 Id.,

La modernità di Goethe [I] cit., p. 31. La modernità di Goethe II cit., p. 3.

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poesia, e contro la sua sacralità53. Ora, questa critica di Novalis al romanzo è un argomento che nei primi decenni del Novecento risuona a distanza negli scritti di molti studiosi: Prezzolini la menziona nel 1905 nel suo volumetto di frammenti novalisiani54 e nel 1913 Spaini ne fa un punto cardine dell’argomentazione nel suo saggio su Goethe; ma vi alludono anche Lukács nella Teoria del romanzo – progettata com’è noto negli anni della prima guerra mondiale55 – e Bachtin negli scritti dedicati a Goethe e al problema del romanzo di educazione56. È un esempio di quel repertorio condiviso su cui va formandosi una nuova generazione di letterati, tramite il quale concetti chiave dell’idealismo e 53  Cfr. Novalis, Schriften, vol. III: Das philosophische Werk II, a cura di Richard Samuel, in collaborazione con Hans-Joachim Mähl e Gerhard Schulz, Darmstadt 1983, pp. 638-639 (Fr. 505) e pp. 646-647 (Fr. 536). Per la traduzione italiana cfr. Id., Opera filosofica, vol. II, cit. (rispettivamente alle pp. 726 e 734-735). 54 Prezzolini, Novalis cit. Nel 1914 Prezzolini fa ristampare il volumetto nella collana cultura dell’anima diretta da Papini per Carabba, con alcune modifiche che lasciano intuire come la sua interpretazione del poeta tedesco sia ormai distante da quella che ne aveva dato nel 1905. Il tema del contrasto tra Goethe e Novalis, secondo il quale l’autore del Meister era «il prototipo dell’“artista economico”», torna inoltre negli Studi e capricci sui mistici tedeschi (Quattrini, Firenze 1912), dove la grandezza di Goethe, osservata appunto nel passaggio dal Werther al Meister, è paragonata da Prezzolini a un fenomeno della natura governato dall’intervento umano («Egli possedeva i fulmini, ma volle anche la scienza elettrica per condurli a sua guisa, e con tutto il suo olimpismo restò sempre nel fondo un uomo dello Sturm und Drang, in cui, però, la tempesta aveva ceduto le proprie forze a uno stabilimento di produzione industriale», ivi, p. 9). 55 Lukács, Teoria del romanzo cit., pp. 125-136 («Novalis, che proprio a questo riguardo ha respinto come prosaica e impoetica la creazione goethiana, contrappone al tipo di figurazione del Wilhelm Meister la trascendenza realizzata, la fiaba quale meta e canone della poesia epica. “Il Wilhelm Meister”, egli scrive, “è in certo qual modo prosaico da cima a fondo e moderno […]”», p. 132). 56  Nello studio preparatorio al perduto libro su Goethe, Bachtin sottolinea come nel moderno romanzo di educazione uno dei tipici percorsi del personaggio sia quello «dall’idealismo e dal romanticismo giovanili all’assennatezza e al praticismo della maturità», e contrappone «la soggettività anemica di un romantico come Novalis» a quella «che cresce, matura, invecchia» rappresentata invece da Goethe nel Wilhelm Meister (Michail Bachtin, Il romanzo di educazione e il suo significato nella storia del realismo, in Id., L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, a cura di Clara Strada Janovič, Einaudi, Torino 2000, pp. 195-244, in particolare le pp. 208-209 e la nota a p. 410). Il presupposto per cui nella modernità «il romanzo non deve essere “poetico”» è ribadito ancora in Epos e romanzo (cfr. Id., Estetica e romanzo cit., p. 451).

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dell’estetica hegeliana – in particolare quello di “prosa del mondo”, o l’opposizione tra epos e romanzo con tutto il sistema dei generi implicito in essa – filtrano e si diffondono nella riflessione europea d’inizio secolo. Un ruolo particolarmente rilevante hanno in questa dinamica i già menzionati studi di Wilhelm Dilthey, che nel saggio su Novalis poi incluso in Das Erlebnis und die Dichtung dedicava ampio spazio al conflitto sorto intorno al Wilhelm Meister57. Perché questa discussione potesse avere anche in Italia uno spazio di rilievo, era dunque indispensabile disporre almeno di una traduzione affidabile e integrale del romanzo goethiano – una, cioè, che non eliminasse proprio quegli elementi prosaici e impoetici che erano stati alla base della critica novalisiana. Spaini si propone così di mantenere nella versione italiana questo aspetto messo in luce ex negativo da Novalis, di cui giustifica l’ostilità sulla base del fatto che Goethe aveva vissuto nel giro di un anno – tra il 1795 e il 1796, subito prima di riprendere in mano il Meister – quello che per i suoi contemporanei sarebbe durato un quarto di secolo. E la nuova visione del mondo a cui Goethe è addivenuto si coglie bene, secondo il traduttore, confrontando i passi che compaiono sia nell’Urmeister (scritto prima del 1795) sia nei Lehrjahre: alcune scene sopravvivono infatti nella seconda stesura, ma ora l’autore le racconta usando «altro stile, altro modo»58.

57 

Cfr. Dilthey, Das Erlebnis und die Dichtung cit., pp. 255-265; e supra, Cap. 1, nota 20. A delineare l’importanza di Dilthey per la generazione di Bachtin e Lukács bastano le parole dedicategli da quest’ultimo nella Premessa del 1962 alla Teoria del romanzo: «Vivevo allora la transizione da Kant a Hegel senza tuttavia mutare alcunché nel mio rapporto alle cosiddette metodiche delle scienze dello spirito; tale rapporto si fondava essenzialmente sulle impressioni giovanili che avevo ricavato dai lavori di Dilthey, Simmel e Max Weber […] Penso ad esempio al fascino esercitato dal diltheyano Das Erlebnis und die Dichtung (Lipsia, 1905), un libro che per molti aspetti poteva apparire come una terra incognita. Questa terra ci sembrò allora un universo di pensiero che rendeva possibili sintesi grandiose, vale a dire teoriche e storiche» (cit., p. 12). Per una più ampia disanima del repertorio filosofico comune ai due studiosi cfr. Galin Tihanov, The Master and the Slave. Lukács, Bakhtin, and the Ideas of their Time, Clarendon Press, Oxford 2000. 58 Spaini, La modernità di Goethe [I] cit., p. 25.

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3.3. Come parlano i mercanti in Goethe È il caso del famoso “elogio della partita doppia” formulato dall’amico Werner, il personaggio che incarna nel modo più completo quello spirito del commercio che Wilhelm rifugge: mentre nella prima versione del testo Werner è «un simbolo», un fantoccio che il narratore disprezza; nella seconda «è visto con altri occhi, ha una sua giustificazione, ha un suo diritto alla stima degli uomini; e Goethe è il primo a tributargliela»59. Ecco come Werner viene presentato al lettore nella Teatralische Sendung: La sera s’avvicinava, ed egli discese: dette ancora un’occhiata, passando, ai magazzini, esaminò le ceste di zucchero, i fusti di caffè e d’indaco, per cui aveva una speciale tenerezza, giacché portavano buoni guadagni. E poi si sedette nell’ufficio, aprì i registri, e si edificò a questa lettura, più che se si fosse trattato delle migliori opere poetiche, giacché il guadagno vi appariva subito evidente. In quella entrò Wilhelm che, tutto pieno della sua avventura e dei posti che aveva visitato, incominciò a raccontare a suo cognato con gran vivacità. Questi, con la sua solita longanimità, stette un po’ a sentirlo: pure quel giorno era lui stesso tanto animato dalla sua passione, che, alla domanda di Wilhelm: che cosa avesse fatto fin allora, s’affrettò a volgere il discorso sull’argomento che più lo interessava: – Stavo appunto scorrendo i nostri registri, e, per la facilità con cui si riesce a dominare tutta la situazione dei nostri affari, mi meraviglio ancora una volta dei vantaggi che offre al commerciante la partita doppia60.

La scena, commenta Spaini, è talmente esplicita nel mettere in cattiva luce il personaggio di Werner che per il lettore è impossibile provare simpatia nei suoi confronti. Ciò accade perché in questa prima stesura del passo «il giudizio di Wilhelm sul commercio, è anche il giudizio del poeta»61, mentre nella seconda il mondo del commercio, nonostante Wilhelm continui 59 

Ivi, pp. 26-27. p. 26. Il brano è incluso nel saggio di Spaini e sua è la traduzione, anche se non specificato. A quest’altezza temporale non esiste ancora una versione italiana della Missione teatrale, che verrà tradotta per la prima volta da Silvio Benco nel 1932 per la romantica di Borgese. 61  Ibid. 60  Ivi,

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a sentirsene distante, costituisce un punto di vista autonomo e legittimo, che si esprime nella figura di Werner e in tutte quelle digressioni economiche e quotidiane che tanto spiacevano a Novalis. La legittimità di questo diverso modo di vedere le cose è tale che alla fine del romanzo – come ricordava giustamente Prezzolini a Spaini – Wilhelm “ripete a se stesso” le parole di Werner, arriva cioè a comprendere, a introiettare dialetticamente il punto di vista dell’altro. Ecco allora come viene riscritta la scena nei Lehrjahre, a cominciare dalla costruzione spaziale: adesso è Wilhelm il personaggio intento a rimuginare sulle sue attività, mentre Werner, l’uomo attivo, irrompe nella stanza a distoglierlo dalle sue elucubrazioni: Werner entrò, e nel vedere il suo amico occupato coi noti quaderni esclamò: – Sei di nuovo su quei fogli? Scommetto che non hai ancora intenzione di terminarne uno! Li guardi e li riguardi e in ogni caso cominci qualcosa di nuovo. – Terminare non è compito dello scolaro, basta ch’egli si eserciti. – Ma pur qualche cosa la compie, meglio che può. – E tuttavia si potrebbe benissimo porre il problema: se non si possano concepire buone speranze anche per un giovane che, accorgendosi d’aver intrapreso qualcosa di disadatto, non prosegue nel suo lavoro e non vuole sprecare fatica e tempo per cosa che non può mai avere valore. – Lo so bene, non era mai la tua specialità portar qualcosa a compimento, eri sempre stanco prima di arrivare a mezzo62.

Goethe trasforma la scena in un dialogo botta e risposta fra i due amici, il cui modo di parlare lascia già intuire quanto ideologicamente lontane siano le loro posizioni. Werner – un po’ come farà poi Mefistofele nel Faust – si esprime con un linguaggio veloce, immediato, più improntato di quello dell’artista Wilhelm alla discorsività del parlato quotidiano. Ma non è solo la lingua ad essere diversa: in un breve passaggio metaletterario, nel quale Werner rimprovera a Wilhelm di aver rappresentato negativamente il mondo del commercio in una delle sue opere giovanili, Il giovane al bivio, si esplicita come l’innovazione risieda soprattutto in una nuova modalità rappresentativa:

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– Mi viene giusto tra le mani il Giovane al bivio – rispose Wilhelm tirando fuori un quaderno dalle altre carte: – questo almeno è finito, e per il resto poi può essere come vuole. – Mettilo via, buttalo nel fuoco! – gridò Werner. – L’invenzione non è per nulla degna di lode; già allora questo componimento m’indispettì assai, e ti attirò lo sdegno di tuo padre. Possono anche essere dei versi eleganti; ma il modo di rappresentazione [Vorstellungsart] è del tutto falso. Mi ricordo ancora della tua personificazione del commercio e di quella sibilla intristita e compassionevole. Devi averne ripescata l’immagine in qualche bottega di robe vecchie. Allora tu non avevi neppure un’idea del commercio. Io non saprei quale spirito possa e debba essere più largo di quello d’un vero commerciante. Che bell’aspetto ci presenta l’ordine in cui noi conduciamo i nostri affari! In ogni momento ci lascia scorgere il tutto, senza che abbiamo bisogno di perderci nel particolare. Quali vantaggi offre al commerciante la partita doppia dei libri! È una delle più belle trovate dello spirito umano, e ogni buon padrone di casa dovrebbe introdurla nella sua amministrazione63.

La triste allegoria del commercio messa in scena da Wilhelm nella sua opera giovanile (e da Goethe nella Missione teatrale) è certo ben fatta da un punto di vista stilistico («Possono anche essere dei versi eleganti…»), ma la «Vorstellungsart» – il «modo di rappresentazione», traduce Spaini – non funziona affatto. Ecco allora che in questa nuova versione è Werner a prendere la parola, lanciandosi in quella che dal suo punto di vista è invece una rappresentazione adeguata e realistica del mondo del commercio. Werner si sofferma sulla varietà delle merci che gli scambi internazionali rendono disponibili («Dà un po’ un’occhiata ai prodotti naturali e artificiali d’ogni parte del mondo…»), descrive con entusiasmo la frenesia travolgente del lavoro nelle città e nei porti («Visita un paio di grandi città commerciali, un paio di porti, e sarai certo preso nella grande piena») ed esalta le capacità degli uomini che, con la loro attività, sottomettono la natura per ricavarne ricchezza («I principi di questo mondo hanno i fiumi, le strade, i porti in loro potere e hanno un forte guadagno da quello che ci passa…»64). La sua descrizione del mondo contemporaneo, in cui tutti gli uomini si affaccendano per realizzare biso63 

62 Goethe,

Le esperienze di Wilhelm Meister cit., vol. I, p. 58.

59

64 

Ivi, pp. 59-60. Ivi, pp. 60-61.

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gni forse neanche necessari, fa largo uso di termini legati all’economia («doppelte Buchhaltung»65, «die Summe […] ziehen», «Spedition», «Spekulation», «Zirkulation»…), ed è volutamente, per usare l’espressione di Novalis, “impoetica”. Lo stesso aspetto sarebbe stato criticato anche da Croce, che proprio parlando del Meister accusa Goethe di inserire nei suoi romanzi inutili parti di raccordo «con metodo da magazziniere, che stipa la merce dove può»66. A oltre un secolo di distanza dalla lettura di Novalis, dunque, scene come questa continuavano a risultare disturbanti e superflue per molti lettori, e non a caso l’unica edizione italiana esistente all’epoca le aveva ridotte a sole otto righe67. 3.4. Come parlano i mercanti in Novalis Per comprendere la portata dell’innovazione goethiana è utile confrontare il passo con la rappresentazione dei commercianti che dà invece Novalis. Sappiamo che, col progetto di “superare” il Meister correggendo quelli che ai suoi occhi appaiono come dei limiti, Novalis scrive, a partire dal 1798, l’Heinrich von Ofterdingen. A questo punto non sembrerà una coincidenza, ma piuttosto una conferma di come sia il contesto d’arrivo a orientare la logica delle traduzioni, il fatto che nel 1914 anche l’Ofterdingen esca in versione italiana – e ad opera di Rosina Pisaneschi, per la collana antichi e moderni di Borgese. Il problema del «pro65  Stranamente l’espressione a cui Spaini dedica le sue riflessioni risulta poi tradotta con «partita doppia dei libri»: può darsi che la svista (chiaramente indotta da “Buch-”) sia dovuta ai rimaneggiamenti sopraggiunti in fase di revisione, dei quali il traduttore si lamenta in una lettera a Prezzolini del 30 gennaio 1914 («Manacorda ha fatto in bozze una quantità di cambiamenti nel Meister. Indegno! Letico con lui e con Laterza. Ti scriverò che porcheria», in Spaini-Prezzolini, Carteggio cit., p. 85). Il giorno precedente Pisaneschi e Spaini avevano in effetti scritto una lettera di protesta anche all’editore (cfr. Benedetto Croce-Giovanni Laterza, Carteggio II: 1911-1920, a cura di Antonella Pompilio, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 370-371). 66 Croce, Goethe cit., pp. 57-58. 67  Cfr. Goethe, Gli anni di noviziato cit., p. 12: il lungo scambio tra Werner e Wilhelm – che in questa versione è rinominato “Alfredo” – si riduce a una breve battuta («So bene che per voi altri mercadanti diviene chimera tutto ciò che non si può convertire in effettivo denaro. Noi non parliamo entrambi lo stesso linguaggio; per conseguenza taciamo ambedue»), nella quale il traduttore non tralascia peraltro di specificare che i due personaggi parlano lingue diverse.

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saico e moderno» rimbalza dunque nella prefazione della traduttrice all’Ofterdingen, e più approfonditamente ancora nella sua tesi di laurea, intitolata Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis e discussa con Borgese nello stesso 1914. Pisaneschi, che per almeno due anni ha lavorato contemporaneamente al Meister e all’Ofterdingen68, riprende il problema della modernità di Goethe facendolo emergere in modo forse ancor più perspicuo di quanto non faccia Spaini nel saggio della «Voce» – saggio che, per quanto uscito a firma singola, dev’esser stato comunque, se non scritto, almeno progettato a quattro mani. L’argomentazione che Pisaneschi sviluppa nella tesi è infatti sostanzialmente la stessa: pur avendo perfettamente compreso la dottrina di Fichte, secondo cui l’essere si afferma per mezzo della volontà di agire, Novalis confina lo sviluppo del suo protagonista entro uno spazio totalmente interiore, impedendogli proprio l’azione, il contatto con quella realtà materiale che si esprime prima di tutto nei prosaici e impoetici «discorsi sul commercio». Perciò, afferma Pisaneschi, «d’intendere la modernità a Novalis era precluso: la sua mente spazia al di fuori delle contingenze pratiche e quotidiane: in esse cerca il rapporto con l’infinito, ma i rapporti pratici tra la vita e l’individuo non riesce ad intenderli»69. Non solo: la visione di Novalis – e qui, rispetto a Spaini, c’è un passo ulteriore in chiarezza – ha una ben precisa ricaduta stilistica, visibile nel modo in cui vengono resi i modi di parlare dei personaggi: «Tra Heinrich e i mercanti non sapremmo trovare nessuna caratteristica che distingua i loro discorsi. Il dialogo tra Matilde e Enrico alla fine dell’ottavo capitolo si differenzia solo perché Enrico fa dei discorsi più lunghi: del resto potrebbe anche essere un monologo»70. L’andamento linguistico dell’Ofterdingen è dunque unitariamente attestato su un registro alto, poetico, che accomuna 68  Da una lettera di Spaini a Prezzolini del 19 marzo 1912 (cfr. Carteggio cit., pp. 46-47), si evince che a questa data Pisaneschi ha probabilmente già ultimato la traduzione dell’Ofterdingen, per la quale riceve le lodi di Borgese. 69  Rosina Pisaneschi, Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis, tesi di laurea, Roma 1914, p. 68 (Istituto Italiano di Studi Germanici in Roma, Fondo Alberto Spaini, faldone 24). 70  Ivi, p. 118.

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voce narrante e personaggi. Neanche i mercanti (indicati sempre collettivamente come «die Kaufleute», come se parlassero all’unisono) adottano l’“impoetico” linguaggio delle merci, e pur affermando di non sapere nulla di poesia filosofeggiano sull’arte come imitazione adottando lo stesso linguaggio del protagonista: Risposero i mercanti: – […] Il canto dell’usignolo, il sibilar del vento, e le luci più belle, e i colori, e le figure ci piacciono perché esse attirano piacevolmente i nostri sensi e perché i nostri sensi hanno avuto tale disposizione dalla natura, che ha prodotto anche il resto, così ci deve piacere l’imitazione artistica della natura. La natura poi vuol godere della sua arte meravigliosa, per questo essa si è trasmutata in uomini, per gioire essa stessa della sua magnificenza e sa separare il gradevole e il bello delle cose e lo produce da sola, in tal maniera che essa ne possa avere e godere, in vari modi, in ogni tempo e in ogni luogo. […] – Voi mutate la mia curiosità in un’impazienza irrequieta – disse Enrico – Vi prego, raccontatemi dei cantori che avete udito...71

Nel rendere il brano, la traduttrice ha cura di mantenere il tono all’interno di un registro analogo a quello dell’originale, privilegiando stilemi del linguaggio poetico italiano (il troncamento di «sibilar») e adottando un lessico elevato («trasmutare» e «mutare» per verwandeln – naturalmente con variatio –, o «udire» per hören). Qui, proprio come nel primo Meister, la mancata resa dei diversi modi di parlare corrisponde anche a una negata legittimità dei diversi punti di vista sul mondo: l’effetto finale è dunque quello di «un monologo», di un assorbimento dei personaggi entro un’unica voce, ovvero quella dell’autore che aderisce interamente a quella del protagonista. Fino ai Lehrjahre non emerge insomma quella “discorsività” data dall’apporto delle parlate quotidiane, delle voci altrui, un aspetto che Spaini e Pisaneschi, da traduttori, arrivano a individuare precocemente attraverso il concreto lavoro sul testo, ma che assumerà tutta la sua importanza solo quando studiosi quali Bachtin e Debenedetti lo teorizzeranno come elemento costitutivo del romanzo moderno72. 71 Novalis, Enrico d’Ofterdingen, tr. di R. Pisaneschi, Carabba, Lanciano 1914, vol. I, pp. 45-46. 72  Sul concetto di discorsività cfr. supra, Introduzione, p. 21.

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4. Goethe, terribile ideale 4.1. Conciliare commercio e letteratura Nell’interpretazione che Spaini e Pisaneschi danno dei Lehrjahre, e a partire dalla quale condurranno la loro traduzione, si avverte l’eco dell’argomentazione già elaborata da Slataper nell’articolo sull’Urmeister. Lo sviluppo dell’artista Goethe nasce dal superamento delle passioni giovanili, che pur non essendo mai guardate con disprezzo («È stupido – ma è bello vivere così») vengono adesso sottoposte a critica: al loro posto subentra l’apertura all’azione, identificata con la realtà del commercio che il giovane Wilhelm (così come il Goethe più “stürmeriano”) aveva sempre rifiutato. Questo andare oltre se stessi, col rischio di non essere compresi neanche dai propri compagni di strada, è quanto i vociani sentono di dover compiere a loro volta, in primo luogo attraverso le opere letterarie. È stato osservato come il giudizio di Slataper sull’Urmeister riemerga fra le righe di una lettera a Elody dove Il mio Carso viene definito «la mia opera egoistica», finendo così per rappresentare «un momento già superato della traiettoria letteraria dell’autore»73, che stava infatti progettando di scrivere un secondo romanzo ispirato proprio ai carteggi con Elody, Anna e Gigetta74. Meno egoistico doveva evidentemente apparire a Slataper il lavorìo “collettivo” intorno ai Lehrjahre, romanzo a più voci che pur essendo una traduzione, e non un’opera originale, si integrava più coerentemente nel progetto vociano di fornire un modello ideologico alla borghesia colta in ascesa. È per questo che il Goethe dei Lehrjahre – ben oltre il Novalis di Pisaneschi, l’Ibsen di Slataper e il Werther romanticamente idolatrato dal giovane Spaini – rimane per tutti il punto di riferimento costante, 73  Elena Coda, Scipio Slataper, Palumbo, Palermo 2007, p. 40. La lettera a Elody è del 6 giugno 1912 (cfr. Scipio Slataper, Alle tre amiche, a cura di Giani Stuparich, Mondadori, Milano 1958, p. 243). 74 «[…] scriverò il romanzo: Le tre amiche. Ci saranno tre amiche e un giovane che vuol far del bene agli uomini […]. Sarà il seguito del Mio Carso. […] io sogno forsennatamente di scrivere un libro dove ci sia l’umanità» (lettera a Gigetta del 9 settembre 1911, in Slataper, Alle tre amiche cit., p. 374, corsivi dell’autore).

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il «terribile ideale» (come lo chiama Slataper in una lettera75) capace di cogliere il tragico degli elementi in conflitto e di vivere organicamente la complessità umana. Per i triestini della «Voce», del resto, gli elementi contraddittori di questa dialettica, commercio e letteratura, sono chiari da tempo e associati a due luoghi ben precisi: da un lato Firenze, con la sua tradizione umanistica e le sue riviste letterarie; dall’altro Trieste, col suo porto commerciale, gli scambi, l’aggressività del lavoro d’impresa – quel porto descritto in un passo celebre del Mio Carso: Anche la città è divertente, sebbene qualche volta m’abbia seccato. Mi piace il moto, lo strepito, l’affaccendamento, il lavoro. Nessuno perde tempo, perché tutti devon arrivare presto in qualche posto, e hanno una preoccupazione. Nei visi e negli stessi passi voi potete riconoscere subito in che modo il passante sta preparando l’affare. Se guardate bene, siete subito presi in un gioco eccitante d’operosità, e la vostra intelligenza batte e rimanda istantaneamente i possibili attacchi d’astuzia, di coltura, di bontà, di vendetta. […] E io vado per le strade di Trieste e sono contento ch’essa sia ricca, rido dei carri frastornanti che passano, dei tesi sacchi grigi di caffè, delle cassette quasi elastiche dove fra trine e veli di carta stanno stivati i popputi aranci, dei sacchi di riso sfilanti dalla punzonatura doganale una sottile rotaia di bianca neve, dei barilotti semisfasciati d’ambrato calofonio, delle balle sgravitanti di lana greggia, delle botti morchiose d’olio, di tutte le belle, le buone merci che passano per mano nostra dall’Oriente, dall’America e dall’Italia verso i tedeschi e i boemi. Se voi venite a Trieste io vi condurrò per la marina, lungo i moli quadrati e bianchi nel mare, e vi mostrerò le tre nuove dighe nel vallon di Muggia, fisse nell’onde, confini della tempesta, costruite su enormi blocchi di calcare cementato. Per il nuovo porto minammo e frantumammo una montagna intera. Mesi e mesi di furibondi squarciamenti che rintronavano l’orizzonte e s’abbattevano come il terremoto sulle nostre case piene di finestre. E piccoli vaporini, un po’ superbi del loro pennacchio di fumo, facevan rigar dritte lunghe file di maone tutte pancia, – e dalla strada napoleonica si vedeva sfolgorar nel mare i carichi di pietra scintillante. Quest’è il quarto porto di Trieste. La storia di Trieste è nei suoi porti. […] Io avrei dovuto fare il commerciante. Mi piacerebbe di più trattare e contrattare che studiare i libri. La bella cosa viva che è l’uomo!76

75 

Lettera a Gigetta del 28 gennaio 1912, ivi, p. 419. Il mio Carso cit., pp. 51-53.

76 Slataper,

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I vociani come Slataper e Spaini avvertono con forza la necessità di conciliare queste due anime della cultura italiana, di trovare una mediazione ideologico-culturale che comprenda tutta la realtà anche nelle sue forme «apparentemente contraddittorie, commercio e letteratura, salotto e città vecia, carso e lastricato, sloveni e italiani»77. Durante i primi anni trascorsi a Firenze i triestini si sentono segnati in negativo dal carattere «essenzialmente trafficante» della loro città d’origine78, e tanto più doveva dunque apparirgli rivoluzionario il “consiglio” che Goethe dava loro per bocca di Werner: «Visita un paio di grandi città commerciali, un paio di porti, e sarai certo preso nella grande piena»!79 Tutto ciò che fino a quel momento aveva rappresentato ai loro occhi un’eredità di scarso valore, quasi da nascondere di fronte ai «più intelligenti e più colti» amici fiorentini80, poteva adesso essere riletto in una nuova chiave. Il mio Carso di Slataper, con il suo narratore monologante, ha certo ben poco della complessità discorsiva dei Lehrjahre, ma per quanto riguarda la Vorstellungsart è già molto vicino al romanzo goethiano. Nella descrizione del porto di Trieste ritroviamo ad esempio, uno dopo l’altro, i tratti positivi dell’attività commerciale messi in luce da Werner: la frenesia che “trascina con sé” chiunque («Mi piace il moto, lo strepito, l’affaccendamento, il lavoro. […] siete subito presi in un gioco eccitante d’operosità»), la varietà dei prodotti messi a disposizione dagli scambi internazionali («le belle, le buone merci che passano per mano nostra dall’Oriente, dall’America e dall’Italia verso i tedeschi e i boemi»), e soprattutto l’ammirazione per l’attività umana che sottomette la natura ai 77 Lettera a Gigetta dell’8 febbraio 1912, in Slataper, Alle tre amiche cit., p. 425. Per una contestualizzazione di questo tema cfr. i saggi di Alberto Abruzzese, Da Trieste a Firenze: lavoro e tradizione letteraria (in Lucia Strappini, Alberto Abruzzese, Claudia Micocci, La classe dei colti. Intellettuali e società nel primo Novecento italiano, Laterza, Bari 1970, pp. 215-311) e di Romano Luperini, Scipio Slataper, La Nuova Italia, Firenze 1977. Per quanto di lunga tradizione, gli studi dedicati a questo aspetto non hanno tuttavia mai preso in considerazione l’apporto dato dalla riflessione sul Wilhelm Meister. 78  Cfr. lo Slataper delle Lettere triestine, pubblicate sulla «Voce» tra l’11 febbraio e il 22 aprile 1909 e poi riedite negli Scritti politici a cura di Giani Stuparich (Mondadori, Milano 1954, pp. 9-57, qui p. 13). 79  Cfr. la descrizione del commercio secondo Werner esaminata supra, cap. I, § 3.3. 80 Slataper, Il mio Carso cit., p. 71.

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suoi fini economici («Per il nuovo porto minammo e frantumammo una montagna intera»…). Trieste ha insomma ciò che manca a Firenze, ed è infatti agli amici fiorentini che si rivolge implicitamente l’invito a visitare la città («Se voi venite a Trieste io vi condurrò…»), quasi un’eco delle parole di Werner a Wilhelm. Slataper è il primo a riconsiderare l’ipotesi di eleggere Trieste a punto di partenza per la costruzione di una nuova cultura: «nella mia testa si organizza tutto il piano della nostra vita,» scrive a Elody il 4 febbraio 1912 «dove tutti noi, tutti, Guido, e Elsa, e Ella, Lucilla e Fritz, Marcello, Stuparich, Spaini e tutti gli altri che cercano hanno il loro posto di combattimento e di gioia»81. Trieste è la città ideale per questo nuovo progetto culturale proprio perché comprende in sé gli elementi contraddittori della modernità, compreso quel mondo del commercio che altrove risulta inconciliabile con la tradizione umanistica e letteraria, ma che pure è necessario per raggiungere l’ideale dell’«uomo completo». E Wilhelm Meister, che dopo l’esperienza del viaggio di Goethe in Italia vede il mondo del commercio come «un cerchio più largo di vita»82 e che dall’infatuazione per il teatro arriva infine a scegliersi una professione utile, è il personaggio che più compiutamente incarna il paradigma del nuovo intellettuale borghese, nutrito di una solida coscienza umanistica ma anche di una vera cultura commerciale. È proprio «per favorire sul serio la cultura commerciale, per creare forti e intraprendenti teste direttive»83 che nel 1914 Slataper sostiene con forza l’apertura dell’università commerciale «Revoltella», un nuovo modello di accademia ispirato alle Scuole superiori di commercio tedesche e in particolare all’Università di Francoforte, nata di recente proprio nell’ambito dell’accademia commerciale. Slataper ritiene infatti che sia necessario creare una «indissolubile alleanza fra alta coltura e interesse economico», adoperarsi affinché letteratura e commercio non siano più due mondi incompatibili:

81 Id.,

Alle tre amiche cit., p. 230. L’Urmeister di Goethe cit. 83  Scipio Slataper, Per l’università commerciale «Revoltella» [1914, inedito], poi in Id., Scritti politici cit., pp. 122-130 (qui p. 125, corsivo dell’autore). 82 Id.,

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è su per giù un fatto che qui si fanno affari (e si dà soldi per la coltura), e là si fa della letteratura (e si ammirano, si parla male e soprattutto non ci si interessa dei commercianti). Da noi la coltura è ancora troppo sinonimo di “professore” e “filologia”, come commercio di “buon naso” e “destrezza”. Queste due opposizioni si riscontrano per lo più nel campo politico, sotto il nome di tendenza realistica e tendenza idealistica. Si capisce: finché il mondo è mondo ciò sarà sempre inevitabile: ma intanto bisogna pur favorire la formazione (già bene iniziata) d’un centro comune di scambi e di comprensione84.

Si tratta insomma di creare una scuola per giovani Wilhelm, dove si insegni l’arte della “partita doppia” tanto quanto la storia letteraria, e non solo quella del proprio paese («la lotta nazionale ci ha fatto ancorare nel porto magnifico e sicuro della letteratura italiana. Ciò non basta. Bisogna sciogliere le vele»85). L’infatuazione per il mondo del commercio che Slataper esprime nel Mio Carso («Io avrei dovuto fare il commerciante»), nonché in scritti ancora antecedenti come Ai giovani intelligenti d’Italia86, trova finalmente uno sbocco fattivo nel progetto dell’università Revoltella, che si propone di fornire ai giovani triestini – e in generale italiani – non più soltanto modelli ideali ma anche luoghi concreti dove poter compiere il proprio percorso di formazione. Questa visione altamente etica del lavoro e del commercio non è comunque al riparo da derive reazionarie, che si manifestano ora nella tentazione nichilista di alienarsi nel lavoro come fuga dalla realtà (e già se ne avverte la minaccia nelle righe del Mio Carso sulla «frenesia di dolore che vuol dimenticarsi»); ora nella tendenza ad accettare lo status quo, nell’adesione supina alle scelte della classe dominante. Come accade a Wilhelm Meister, per il quale la realizzazione personale finisce per coincidere con il riconoscimento del “destino” stabilito per lui dalla Società 84 

Ivi, pp. 126-127. Ivi, p. 128. 86  «[...] parrebbe che la giovine Italia sia una generazione di mercanti di nuvole e solidificatori del vuoto! E io non ho detto mica che ci facciamo contadini o facchini di porto o muratori o mercanti di porci; e neppure – ma sarebbe tanto bene! – bravi ingegneri e industriali animosi e commercianti» (Scipio Slataper, Ai giovani intelligenti d’Italia, «La Voce», I, 37, 26 agosto 1909, poi in Id., Scritti letterari e critici, a cura di Giani Stuparich, Mondadori, Milano 1956, pp. 184-189, qui p. 186). 85 

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della Torre, anche per i giovani della «Voce» il desiderio di integrazione rischia così di potersi attuare solo all’ombra dell’ordine sociale esistente87. Queste contraddizioni si riveleranno allo scoppio della guerra mondiale, che spezza il fronte di quanti hanno tentato fino a quel momento di prendere attivamente parte alla costruzione dell’Italia moderna – Slataper per primo, la cui morte durante un’azione militare fa pensare al destino di un Hans Castorp qualunque più che a quello di un Wilhelm Meister. I vociani che sopravvivono al conflitto si disperdono negli anni successivi, tanto in senso geografico (Spaini viaggerà in lungo e in largo per l’Europa come giornalista), quanto in senso ideologico, prendendo direzioni diverse e aderendo in molti casi al fascismo in ascesa. La stagione della «Voce» si conclude così senza aver lasciato alla cultura italiana le grandi opere che i suoi protagonisti si erano proposti di realizzare, e per quanto essi stessi contribuiscano nei decenni successivi ad alimentarne il mito – Stuparich curando le opere e i carteggi di Slataper; Spaini e Prezzolini raccontandone l’esperienza nell’Autoritratto, nel Diario e in innumerevoli altre pubblicazioni – i suoi meriti sembrano spesso solo quelli di aver dato testimonianza di una «crisi». 4.2. Dall’autobiografia al romanzo Eppure il ripensamento creativo della tradizione letteraria stimolato dai vociani è radicale. Se si pensa alla loro attività in termini di trasformazione del repertorio – trasformazione che non è indotta solo dalla pubblicazione di opere originali, ma anche dalla reinterpretazione di quelle del passato attraverso l’attività critica, e dall’ampliamento a quelle straniere attraverso le traduzioni – allora il contributo dei vociani risulta decisamente più profondo. La traduzione del Wilhelm Meister, in particolare, sancisce importanti acquisizioni all’interno di almeno tre ambiti 87  Sull’ambiguità di questa fase vedi l’analisi di Mimmo Cangiano, La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura 1903-1922, Quodlibet, Macerata 2018, in particolare le pp. 445-497 dedicate alla traiettoria di Slataper. Il desiderio di sintesi tra cultura commerciale e tradizione umanistica sarà del resto, pochi anni più tardi, uno dei bersagli di Robert Musil nell’Uomo senza qualità, dove il tentativo di conciliare “anima e capitale” è incarnato dal personaggio di Arnheim.

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diversi: in primo luogo nell’affermarsi di una nuova idea di traduzione, che in termini contemporanei potremmo definire “professionale”; in secondo luogo nella costruzione di un modello di riferimento ideologico per il nuovo ceto sociale emergente; e infine – quasi per una sorta di eterogenesi dei fini – a favore della rivalutazione del romanzo come genere letterario della modernità, rivalutazione destinata a consolidarsi soprattutto grazie all’attività di Borgese nei successivi anni Venti. I tre aspetti sono del resto interconnessi: l’attenzione alle traduzioni (che almeno per il tedesco è efficacemente espressa dalla polemica di Spaini e Mazzucchetti contro Ciàmpoli) obbliga i traduttori a porsi problemi specifici (di costruzione, di stile) intorno alla forma romanzo, problemi che evidentemente non era necessario formulare finché gli stessi romanzi venivano letti in francese e soprattutto fino a che il genere letterario in questione non era considerato tale da porre problemi tecnici specifici. La riflessione su questi aspetti, che occupa il periodo tra i proclami antinarrativi della «Voce» all’inizio degli anni Dieci e la rivalutazione del romanzo negli anni Venti, nasce a sua volta, nei traduttori, dalla riflessione sulla modernità, dal bisogno di trovare una rappresentazione adeguata alle preoccupazioni di questa precisa fase storica. Il Wilhelm Meister si incardina costruttivamente in questo processo anche perché, per la sua struttura che può essere letta come biografia e come romanzo, ben si presta a fare da “ponte” tra queste due diverse visioni: l’opera va infatti incontro tanto al desiderio di verità autobiografica espresso da Prezzolini e da Papini quanto, più avanti, alla nascente sensibilità che vuole edificare il romanzo moderno. È qualcosa di simile a quello che accade a Il mio Carso di Slataper, acclamato negli anni della «Voce» come autobiografia lirica e riletto dieci anni dopo da Stuparich come «il romanzo di Pennadoro»88. La predilezione per l’autobiografia caldeggiata dalla «Voce» si rivela insomma meno dannosa del previsto allo sviluppo del romanzo: quanti la praticano (Slataper come scrittore, Spaini e Pisaneschi come traduttori) si trovano infatti obbligati a misurarsi con problemi poco interiori e molto strutturali, concreti. Pur non leggendo il 88 

Giani Stuparich, Scipio Slataper [1922], Mondadori, Milano 1950, p. 130.

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Wilhelm Meister come un romanzo vero e proprio contribuiscono a orientare la riflessione in questo senso, rifiutando la nozione di “frammentismo” e leggendo sia il Meister sia l’Ofterdingen come opere unitarie e coerenti in virtù della presenza al loro interno di una linea progressiva di sviluppo, di svolgimento dell’individualità del personaggio. La lettura del Meister data da Slataper e Prezzolini, e poi da Spaini e Pisaneschi, è inoltre, lo si è detto, una lettura della modernità. Il saggio che Spaini pubblica sulla «Voce» del 1914 contribuisce a far sì che lo scrittore tedesco si imponga come uno dei punti di riferimento dell’epoca: non Kafka né Joyce, dunque, ma ancora Goethe è nei primi anni del Novecento l’autore privilegiato attraverso cui porsi il problema dell’età moderna, con le sue grandi possibilità e le sue continue minacce. E la modernità che in Goethe vedono Spaini e Pisaneschi è quella delle grandi promesse di emancipazione, quella in cui l’anima si sviluppa e sviluppandosi trova il suo posto nel mondo, quella in cui tutti hanno “diritto di parola” – quella insomma che, come il protagonista dei Lehrjahre, può aspirare a un lieto fine. Ma è un ottimismo che sembra durare pochi anni: gli eventi della prima guerra mondiale contribuiscono fortemente a far emergere le inquietudini e le paure che questa trasformazione porta con sé, e a stravolgere il liberatorio romanzo di formazione nelle storie di uomini e donne che dalla modernità vengono sempre più spesso schiacciati. 5. Bildung per signore. Il caso Allason 5.1. «È una carriera il matrimonio?» L’idea di formazione veicolata dalla figura di Wilhelm Meister non è comunque appannaggio di una platea esclusivamente maschile. Nell’Italia d’inizio secolo l’istruzione femminile è ancora fortemente condizionata dalle differenze di classe, ma le donne che riescono ad accedere all’università, pur rappresentando una percentuale minima del totale, non ricevono un’educazione diversa da quella dei loro colleghi maschi, di cui si trovano dunque

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a condividere legittimamente le aspirazioni e le possibilità89. Una figura come quella di Rosina Pisaneschi, cresciuta in una famiglia borghese e formatasi in un contesto intellettuale eminentemente maschile, mostra bene quali e quante fossero le strade tra cui, prima dell’avvento del fascismo, una donna istruita poteva permettersi di scegliere: studiare, viaggiare da sola, lavorare per mantenersi, contestare ai genitori il diritto di decidere se sposarsi o meno e con chi, sono tutte manifestazioni di quella modernità che per molti – e soprattutto per molte – è una liberazione prima che una crisi. È anche in virtù di questo mutato contesto sociale che i problemi posti da un romanzo come Wilhelm Meister arrivano a interessare trasversalmente un’intera generazione, ora che la possibilità di costruirsi un’autonomia intellettuale e materiale fuori dalla tutela di padri e mariti diventa per le giovani donne una realtà sempre più concreta e seducente. Si pone così, di conseguenza, la necessità di rappresentare in modo realistico queste “esperienze” anche dal loro punto di vista: i romanzi di questi anni affrontano infatti con altrettanta determinazione il problema dell’educazione femminile, un’educazione che non vuole essere più l’apprendistato al ruolo di mogli o di madri ma una Bildung in senso moderno, che forma in primo luogo donne adulte, cittadine. Considerato da sempre un genere che si rivolge soprattutto alle lettrici, il romanzo non ha peraltro mai smesso di occuparsi dell’educazione sentimentale e sociale delle ragazze: nell’Italia d’inizio Novecento anch’esso riceve tuttavia un rinnovato impulso, grazie a una nuova generazione di scrittrici reclutate in gran parte tra le donne colte della borghesia settentrionale90. 89 Victoria de Grazia (Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993) ricorda che la legge Casati del 1859 non aveva proibito l’istruzione in scuole miste né creato percorsi differenziati per le donne, pertanto quelle che potevano accedere agli studi universitari (circa il 6 per cento degli studenti) «acquisivano la stessa istruzione degli uomini» (p. 207). La democratizzazione del sistema scolastico, considerata la principale causa della crescente disoccupazione intellettuale (argomento di cui si discute a lungo anche sulla «Voce»), era tuttavia destinata a creare uno scontento sempre maggiore nelle classi dirigenti: le riforme del periodo fascista avrebbero così favorito percorsi differenziati per uomini e donne, svantaggiando queste ultime allo scopo di «selezionare e promuovere solo l’élite» (pp. 208-209). 90  Ivi, p. 182.

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Queste autrici innestano nel tradizionale romanzo rosa le domande poste dalla nuova cultura della modernità, riuscendo a raggiungere attraverso i canali dell’editoria di massa – poiché quelli più selettivi dell’editoria intellettuale, in genere, sono loro preclusi – un pubblico ampio e differenziato. Una di loro è Barbara Allason, in questi anni studentessa di letteratura tedesca all’Università di Torino. A far circolare l’idea goethiana di modernità nell’ateneo torinese è soprattutto Arturo Farinelli, studioso del romanticismo che già conosciamo come uno degli intellettuali di riferimento della generazione vociana91. Futura traduttrice di classici e contemporanei, alla fine degli anni Dieci Allason esordisce come narratrice con il romanzo Quando non si sogna più per la casa editrice Sonzogno, che già ospita autori da migliaia di copie come Guido da Verona e Mario Mariani e che si appresta a lanciare sul mercato nuovi successi pensati per il pubblico femminile, come il romanzo d’esordio della bolognese Murà, al secolo Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri (Perfidie, 1919), o la traduzione del best-seller francese La garçonne di Victor Margueritte (La giovinotta, 1923). Quello di Allason è dunque un esordio senza eccessive pretese di letterarietà, che passa per i canali di un’editoria di consumo ben diversa dal circuito ristretto entro cui pubblicano autori come Slataper o Papini, di cui Allason è comunque aggiornata lettrice92. 91  Farinelli, che nel 1916 fa pubblicare la tesi di Slataper su Ibsen (cfr. supra, cap. I, § 2.1), collabora alla «Voce» con alcuni articoli sul romanticismo tedesco (I due Schlegel, II, 13, 10 marzo 1910, pp. 281-282; e Novalis, Wackenroder, Tieck, II, 16, 31 marzo 1910, pp. 294-295), e nel 1911 tiene alla Biblioteca Filosofica di Firenze un ciclo di conferenze destinate ad avere grande influenza sulla generazione dei vociani. Il suo volume Il romanticismo in Germania. Lezioni introduttive (Laterza, Bari 1911) viene inoltre recensito molto positivamente da Prezzolini («Il periodo del romanticismo tedesco è la nostra epoca classica: quell’epoca cioè che ci ha dato tutte le idee sulle quali viviamo. […] Arriviamo tardi. Cento anni di ritardo. Il romanticismo tedesco ignoratissimo da noi comincia ora a svelarsi», G.[iuseppe] Pr.[ezzolini], Romanticismo, «La Voce», III, 4, 26 gennaio 1911, p. 496). 92  Nei taccuini conservati presso l’archivio del Centro Studi Piero Gobetti di Torino (Fondo Allason, cart. 7: Taccuini e quaderni manoscritti di BA, fasc. A e B) sono minuziosamente annotate le letture che l’aspirante scrittrice compie fin dagli anni giovanili, e che vanno dai romanzieri ottocenteschi fino ai contemporanei francesi e italiani, tra cui Papini. L’interesse per quest’ultimo si trasforma tuttavia col tempo in aperto fastidio, soprattutto a causa della sua interpretazione di Nietzsche («… la lettura di Papini mi riconfermò nella mia avversione per lui. […] Papini è spaccone,

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Quando non si sogna più è un esperimento di moderno romanzo di formazione al femminile, costruito come un classico romanzo rosa e che però, alla maniera di Wilhelm Meister, si sviluppa attraverso i progressivi conflitti dei personaggi con le strutture sociali e ideologiche del mondo esterno. Le prime tappe di questa formazione sono rappresentate dalla possibilità di studiare e di viaggiare: la protagonista, Lilì, entra in scena mentre tra amori futili e passeggiate a cavallo prepara una tesi di laurea su Nietzsche, e una volta completati gli studi parte per la Germania. Il viaggio la porta a passare per Dresda e per Praga, dove incontra per la prima volta i parenti ebrei della famiglia materna, e ad approdare infine nella Berlino in piena espansione che precede di qualche anno lo scoppio della guerra. Sistematasi in una «pensione modesta in un quartiere eccentrico»93, Lilì conosce la città elegante dei teatri e delle biblioteche e quella popolare delle taverne in cui gli operai socialisti leggono il «Vorwärts», fino a che la morte improvvisa del padre la costringe a rientrare in Italia, concludendo bruscamente quelli che vengono esplicitamente definiti i suoi «anni di tirocinio»94. Il richiamo al Wilhelm Meister è dunque evidente, e anzi persino tematizzato con qualche ironia: la protagonista che si identifica nella figura di Wilhelm, giovane dalle aspirazioni concrete, è messa infatti garbatamente in frizione con quella di un nonno cresciuto coi miti della vecchia generazione, il quale nato in piena decadenza romantica, si era nutrito tutta la vita di malinconie ossianiche e di sogni byroniani. Perciò la sua fantasia si era volta al lugubre e allo sconsolato: le pareti della sua stanza erano tese di seta nera a strisce argentee […] e le immagini che adornavano i muri rappresentavano Werther, Jacopo Ortis e Chatterton95.

cattivo, crudele, maligno e beffeggiatore, e per i deboli, gli oppressi, i poveri di spirito non ha più pietà di quel che ne abbia Nietzsche, senz’averne il tormento e le nobiltà», Barbara Allason, Memorie di un’antifascista, Vallecchi, Firenze 1946, p. 169). Sulla lettura che Allason dà di Nietzsche, evocata anche dalla protagonista del suo primo romanzo, cfr. Francesca Goll, Barbara Allason e la letteratura tedesca. Dal romanticismo all’antifascismo, online su LTit (www.ltit.it; consultato il 15.03.2021). 93  Barbara Allason, Quando non si sogna più, Sonzogno, Milano 1919, p. 94. 94  Ivi, p. 95. 95  Ivi, pp. 73-74.

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Il tempo presente, come si dichiara fin dal titolo, è al contrario quello in cui non si sogna più, quello in cui le wertheriane «ubbie romantiche» – come le avrebbe definite Prezzolini – devono lasciare il posto alla concretezza e all’azione, al tentativo di trovare il proprio posto nel mondo. La consonanza tra il sistema di valori espresso in questo romanzo e quello di cui si facevano promotori a Firenze i vociani più giovani si spiega facilmente ripercorrendo la traiettoria di Allason che, pur essendo di qualche anno più anziana di loro (classe 1877), si affaccia al mondo delle lettere nei loro stessi anni, e in condizioni parzialmente analoghe. Nata a Pecetto Torinese ma cresciuta a Napoli, si dedica fin da giovanissima alla scrittura e al giornalismo anche grazie al supporto del padre Ugo, generale d’artiglieria che nonostante le sue idee conservatrici e monarchiche non ha nulla da obiettare al fatto che la figlia desideri «una vita di indipendenza e di lavoro»: sono i tratti che in Quando non si sogna più vengono attribuiti al generale d’Angis, padre di Lilì, che ironizza sulle aspirazioni pragmatiche delle nuove generazioni («è una carriera il matrimonio?») di fronte ai programmi di vita della figlia, fatti di studio, scrittura, viaggi e legittimi flirt96. Anche il periodo in Germania narrato nel romanzo deriva dall’esperienza personale dell’autrice, che studia per alcuni mesi in quella stessa Berlino meta dei viaggi di formazione di Slataper, di Spaini e di Pisaneschi. Ma quando Allason parte per la Germania ha già un figlio e un marito che non sembra vedere di buon occhio il suo bisogno di indipendenza97, e questa è probabilmente una delle ragioni per cui si separa da lui e torna a vivere a Torino, dove, a 35 anni, ha inizio per lei la vera maturazione intellettuale. Nel 1912 decide infatti di riprendere gli studi universitari e l’anno successivo si laurea in letteratura tedesca con Farinelli, discutendo una tesi dedicata alla figura della scrittrice romantica 96  «Io viaggerò, andrò all’estero, prima in Germania, poi a Parigi, poi a Londra, poi a Nuova York, e per istrada leggerò, visiterò musei, ascolterò concerti e… flirterò. Perché credo che anche questo rientri nel mio programma di vita», ivi, p. 11. 97 Nel 1906 Allason aveva sposato il latinista siciliano Carlo Federico Wick, conosciuto a Napoli: dal matrimonio era nato nel 1909 il figlio Gian Carlo, che sarà poi un noto fisico teorico.

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Caroline Schlegel. Grazie alla mediazione di Benedetto Croce la tesi viene pubblicata nel 1919 da Laterza con il titolo Caroline Schlegel. Studio sul romanticismo tedesco, e attrae l’attenzione di un giovanissimo Piero Gobetti, che nel recensirla, pur non individuandovi radicali elementi di novità nell’interpretazione del periodo romantico rispetto agli scritti di Farinelli, la ritiene fortemente innovativa per il modo in cui rappresenta i protagonisti dell’epoca: gli Schlegel, Novalis, Fichte, Goethe, Schiller non sono guardati nel saggio come artisti compiuti e inimitabili, bensì còlti «nella vitalità del loro svolgimento spirituale di ogni giorno, a contatto col mondo»98. È un’annotazione che ci riporta a uno dei concetti chiave di cui abbiamo già discusso e che permette di capire perché Allason potesse facilmente essere identificata come una compagna di strada anche da intellettuali molto più giovani di lei. Proprio l’amicizia con Gobetti, nata in questa occasione, è l’inizio di quella che lei stessa definirà una nuova vita: grazie a lui si distacca infatti definitivamente dalla cultura conservatrice e monarchica in cui è cresciuta, avvicinandosi sempre più a posizioni antifasciste ed entrando, nel 1929, tra i militanti di Giustizia e Libertà99. Una lettera di solidarietà inviata nello stesso anno a Benedetto Croce, che Allason considerava un suo maestro e che la stampa fascista andava attaccando per la sua opposizione ai Patti Lateranensi, le costerà infine il posto di lavoro: esclusa dall’insegnamento scolastico e obbligata sempre più spesso a pubblicare sotto pseudonimo i suoi lavori, grazie alla protezione di Farinelli 98  P.[iero] G.[obetti], Letterature straniere in Italia. Barbara Allason, Caroline Schlegel (Bari, Laterza, 1919), «Energie nove», II, 9, 31 ottobre 1919, pp. 203-204 (qui p. 203, mio corsivo). A proposito del concetto di “svolgimento”, cfr. supra, cap. I, § 2.1. 99  Cfr. Allason, Memorie di un’antifascista cit. (in particolare il capitolo V). La svolta è dovuta in particolare all’omicidio Matteotti (1924), di cui Allason considera corresponsabile la famiglia reale: a questo proposito cfr. Noemi Crain Merz, L’illusione della parità. Donne e questione femminile in Giustizia e libertà e nel Partito d’azione, Franco Angeli, Milano 2013, che esamina l’evoluzione intellettuale e politica di Allason evidenziandone anche i limiti («Le gielliste […] si indignano se qualcuno considera le donne come individui intellettualmente meno dotati, ma non giungono a criticare le disparità più generali e rinunciano a fare rivendicazioni su un piano sociale più ampio. Vivono in un mondo borghese che condannano per il suo coinvolgimento con il fascismo, ma che nel complesso non mettono radicalmente in discussione», p. 24).

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Allason inizierà a lavorare a tempo pieno come traduttrice dal tedesco, ritrovandosi quasi per caso – insieme a Lavinia Mazzucchetti e ad alcuni colleghi giellini come Massimo Mila e Franco Antonicelli – tra le protagoniste della rivoluzione letteraria a cui l’editoria italiana assisterà nel corso degli anni Trenta100. 5.2. Costruirsi una genealogia Il percorso di emancipazione intellettuale di Barbara Allason passa dunque per una serie di riferimenti che la scrittrice torinese condivide con la “generazione del 1910”, primo fra tutti quello al Wilhelm Meister. A questo panorama letterario di cui conosciamo ormai le coordinate essenziali si intreccia però un ulteriore sistema di letture straniere fatto soprattutto di voci femminili, attraverso cui Allason cerca di costruirsi una propria, originale genealogia. È soprattutto nell’ambito della cultura di lingua tedesca – ereditata dalla madre, la viennese Pauline Künzler, e fatta propria attraverso gli studi universitari – che Allason identifica le sue autrici di riferimento, esplorate attraverso la traduzione e la riflessione critica. Come ricordato poco sopra, la traduzione diventa per Allason una professione vera e propria solo a partire dalla seconda metà degli anni Venti, e per ragioni estremamente contingenti. I suoi primi lavori in questo campo risalgono tuttavia agli anni della sua adolescenza napoletana, quando grazie al favore di Matilde Serao si inserisce nell’ambiente del giornalismo e pubblica ritratti di scrittori e scrittrici di lingua tedesca su varie riviste, tra cui la «Nuova Antologia»101. Uno di essi, dedicato all’austriaca Marie von Ebner-Eschenbach, è seguito dalla traduzione di un suo breve ma già celebre racconto, Krambambuli102. A differenza di quasi tutte le traduzioni in volume che Allason realizzerà in seguito, non si tratta in questo caso di un lavoro su 100 

Su questa seconda fase della sua vita vedi infra, cap. III, § 6.1. Lo ricorda Allason stessa in un dattiloscritto inedito dal titolo Confessioni di una letterata (Fondo Allason, cart. 5: Versioni manoscritte o dattiloscritte di scritti di BA/2, fasc. B, s.d.), a proposito del quale cfr. Gianfranco Petrillo, Zia Barbara e Anita/1, «tradurre. teorie pratiche strumenti», 2, primavera 2012 (consultato il 15.03.2021), che data il testo all’inizio degli anni Cinquanta. 102  Marie von Ebner-Eschenbach, Krambambuli, «Nuova Antologia», XL, 813, 1° novembre 1905, pp. 55-62. 101 

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commissione, ma di un testo che lei stessa seleziona: l’archivio della sua corrispondenza conserva infatti una lettera inviatale dall’autrice, che nell’aprile del 1905 rispondeva positivamente da Roma alla richiesta di tradurre in italiano il suo racconto103. Nell’articolo di presentazione Allason ritrae Ebner-Eschenbach come una scrittrice originale e discreta, che nonostante le sue origini aristocratiche ha scelto con dedizione assoluta la strada della letteratura e che, dopo aver collezionato un buon numero di insuccessi scrivendo per il teatro, si è ritrovata in tarda età a essere acclamata come la più importante scrittrice vivente in lingua tedesca grazie ai suoi racconti e ai suoi romanzi104. EbnerEschenbach fornisce dunque un prototipo interessante di autrice bandita dai territori della cultura prestigiosa (il teatro, in Austria saldamente collocato al centro del sistema delle arti) e in seguito riscattatasi per le sue doti di narratrice, evidenti secondo Allason soprattutto nelle rappresentazioni degli ambienti e nelle sottili analisi psicologiche dei personaggi («l’arte sobria e squisita di un Dickens, di un Thackeray»105). Questo spazio intermedio tra letteratura alta e letteratura di consumo, in cui la prosa e persino l’ancora esecrabile arte del romanzo non generano alcuno scandalo, è del resto quello dove più di frequente si incontrano all’opera figure femminili, scrittrici e mediatrici sovranamente indifferenti alle “regole dell’arte” stabilite da una società letteraria che le esclude in ogni caso106. Per loro, che leggono con entusiasmo romanzieri guardati con sufficienza dagli intellettuali 103  Lettera ms. di Marie von Ebner-Eschenbach ad Allason, da Roma, 6 aprile 1905 (Fondo Allason, cart. 1: Corrispondenza A-Mi, fasc. B). 104 Barbara Allason, Letteratura tedesca contemporanea. Maria von EbnerEschenbach (con due ritratti), «Nuova Antologia», XL, 809, 1° settembre 1905, pp. 57-65. 105 Ivi, p. 58. Questo scritto della Allason ventottenne rivela anche i pregiudizi della cultura blasonata in cui è cresciuta: vi leggiamo ad esempio che EbnerEschenbach descrive così bene l’aristocrazia perché in questo ambiente «trova da analizzare degli stati d’animo, da analizzare dei problemi di coscienza che naturalmente fra il popolo non s’incontrano» (ivi, p. 61). 106  Nei termini di Bourdieu, anche Allason può essere in questo senso ricondotta a quella generazione di «nuovi entranti» che provano a cambiare le regole del gioco letterario non potendo aspirare – per ragioni di genere o di prestigio – all’inclusione nel circuito ristretto dei dominanti (cfr. Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, introduzione di Anna Boschetti, Il Saggiatore, Milano 2005).

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più affermati – pensiamo ancora a Pisaneschi o a Mazzucchetti che apprezzano Thomas Mann già negli anni Dieci –, si aprono facilmente le porte di riviste e collane che si rivolgono al grande pubblico e che non disdegnano la prosa: ed è assai significativo, per l’osservatore di oggi, che sulla «Nuova Antologia» la traduzione di Krambambuli appaia in compagnia di una novella di Pirandello, Va bene, e di una positiva recensione a due saggi dedicati alla «forma oggi dominante, il romanzo» – ovvero i due studi di Kennard e Albertazzi che Croce aveva fatto a pezzi pochi mesi prima sulla «Critica»107. Allason inizia dunque a costruire la propria genealogia di scrittrice tenendosi consapevolmente in questa terra di mezzo: se la vicinanza all’ambiente del giornalismo e della letteratura femminile le permette di occuparsi di scrittrici come Ebner-Eschenbach, grazie ai suoi studi di germanistica ha modo di entrare a far parte anche del mondo letterario più all’avanguardia, rappresentato da figure come Croce o Gobetti che, lo si è ricordato, sono tra i suoi primi estimatori. Il saggio su Caroline Schlegel, pubblicato nella prestigiosa biblioteca di cultura moderna che Croce dirige, rappresenta il suo primo passo all’interno di questo mondo: dedicato alla figura di Dorothea Caroline Albertine Michaelis, una delle poche protagoniste femminili del romanticismo di Jena, il saggio ricostruisce la mentalità e le possibilità di emancipazione di una donna d’inizio Ottocento, in un contesto di grandi trasformazioni politiche e culturali come quello dell’Europa postrivoluzionaria. Allason descrive l’isolamento culturale di Caroline che dopo il primo matrimonio lascia la sua città, Gottinga, per trasferirsi in un paesino sui monti dello Harz, e gli anni in cui legge tutti i romanzi che le passano per le mani guadagnandosi i rimproveri di Friedrich Schlegel – «come avete potuto mandar giù tutto quel ciarpame? […] voi avete letto tutti i cattivi libri, da Fielding a La Fontaine»108 – fino al momento in cui, rimasta vedova e 107  U.[go] Fleres, Romanzi italiani moderni, «Nuova Antologia», XL, 813, 1° novembre 1905, pp. 48-54. Sulla stroncatura di Croce cfr. supra, cap. I, § 1. 108 Barbara Allason, Caroline Schlegel. Studio sul romanticismo tedesco, Laterza, Bari 1919, p. 13. La frase di Friedrich Schlegel compare nella celebre Lettera sul romanzo (1800), ed è rivolta a un’interlocutrice di nome Amalia dietro cui si nasconde la figura storica di Caroline (cfr. Friedrich Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, a cura di Vittorio Santoli, Sansoni, Firenze 1937, p. 208).

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con una figlia a carico, nel tentativo di riprendere in mano la sua vita finisce col trovarsi coinvolta nell’assedio di Magonza e di lì addirittura in galera, accusata di essere una collaborazionista dei francesi. Sposatasi in seconde nozze con August Wilhelm Schlegel, insieme al quale avrebbe tradotto le opere di Shakespeare, Caroline si sarebbe in seguito legata al filosofo Friedrich Schelling, una scelta che l’avrebbe resa celebre soprattutto per la sua scandalosa vita privata e che Allason – osserva Gobetti nella sua recensione – tratta invece senza quei «pregiudizi di moralistica ipocrisia» che la critica aveva sempre adottato109. Nel descrivere l’intreccio di pubblico e privato, e i modi in cui la protagonista cerca di svincolarsi dalle forme tradizionali di femminilità, il saggio di Allason è dunque anche «una ricerca sulla propria identità di genere»110, un’esplorazione delle possibilità di formazione concesse alle donne agli albori dell’età moderna, progettata come un consapevole controcanto ai racconti di esperienze che, negli stessi anni, potevano fare i “Wilhelm Meister”. 5.3. Quattro amiche geniali: Quando non si sogna più Il modo in cui il problema generazionale della Bildung entra in dialogo con la necessità di una genealogia tutta femminile emerge ancor più nitidamente in Quando non si sogna più. Se dal punto di vista tematico il romanzo condivide infatti questioni che abbiamo già affrontato occupandoci della traduzione del Wilhelm Meister, dal punto di vista formale sono diversi gli elementi nuovi che entrano in funzione, legati proprio a quelle 109 Gobetti,

Letterature straniere in Italia cit., p. 204. Merz, L’illusione della parità cit., p. 50. Alcuni passaggi del libro mostrano tuttavia la contraddizione ancora viva in Allason tra il proprio bisogno di indipendenza e gli stereotipi di genere assorbiti nell’ambiente d’origine: Caroline Schlegel viene definita ad esempio, nonostante la sua intelligenza, «troppo donna perché i bisogni del cuore non abbiano in lei il sopravvento su tutti gli altri» (Allason, Caroline Schlegel cit., p. 16). Allason pubblicherà in seguito altri lavori biografici di taglio analogo: uno studio sulla scrittrice Bettina Brentano (UTET, Torino 1927), una Vita di Silvio Pellico (Mondadori, Milano 1933) e un saggio sulla religiosa francese Paolina Maria Jaricot (L.I.C.E., Torino 1938). Al 1925 risale inoltre il progetto di un libro sulla vita di Goethe, che avrebbe dovuto comparire in una collana di biografie ideata da Gobetti e rivolta «al gran pubblico delle persone colte» (se ne legge l’annuncio sul «Baretti», II, 9, 25 maggio 1925, p. 38). 110 Crain

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letture romanzesche rivolte al grande pubblico (di donne) con cui, come abbiamo visto, Allason aveva ampia familiarità. Nel romanzo confluiscono inoltre numerosi spunti provenienti dal saggio su Caroline Schlegel, che con le sue sortite sottilmente ironiche e i suoi colpi di scena sapientemente costruiti può essere già considerato un primo esperimento di scrittura narrativa111. Mentre il lavoro critico di Allason aveva visto la luce sotto gli auspici di due uomini, Farinelli e Croce, il suo esordio letterario è dovuto all’intervento di una scrittrice, Annie Vivanti, che Allason conosce nel luglio del 1916 quando entrambe si trovano sul fronte orientale come corrispondenti di guerra112. Nata in Inghilterra da padre italiano e madre tedesca, Vivanti ha una vasta cultura internazionale e da alcuni anni è tornata a imporsi all’attenzione del pubblico con il romanzo I divoratori (1911), saga familiare al femminile pubblicata in inglese e poi riscritta in italiano. È lei a spingere l’amica verso la scrittura letteraria, e a suggerirle di trattare temi autobiografici raccontando la vita di tutti i giorni («mettici tutto, la tua scuola, la tua cuoca, le tue lezioni di equitazione, il primo uomo di cui ti sei innamorata e l’ultimo») e dimenticando i grandi modelli greci e latini («tutti quei seccatori»)113. Madre di una bambina e scrittrice di successo, Vivanti diventa ben presto una fonte d’ispirazione per Allason, che 111  Si veda ad esempio il finale a effetto del capitolo introduttivo, in cui Caroline, chiusa in cella e ormai pronta a togliersi la vita, chiede a un amico di fornirle i mezzi per uccidersi: e «quell’amico venuto per assisterla in vita ed in morte era Augusto Guglielmo Schlegel» (Allason, Caroline Schlegel cit., p. 20). Gobetti definisce esplicitamente il saggio «un tentativo artistico presentato come opera critica» (Presentazione di un poeta: B. Allason, «Il Resto del Carlino», 28 gennaio 1921, ora in Id., Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di Paolo Spriano, Einaudi, Torino 1969, pp. 495-501, qui p. 495). 112  Allason rievoca l’amicizia con la scrittrice italo-britannica nell’articolo Ricordi di Annie Vivanti («Nuova Antologia», LXXXVII, 1816, aprile 1952, pp. 369-381), nel quale allude anche alla pubblicazione del suo primo romanzo e ai consigli che l’amica scrittrice le impartiva («Barbara, non fare dell’entrospezione!», p. 375). 113  I consigli di scrittura di Annie Vivanti sono ricordati da Allason nel già menzionato inedito Confessioni di una letterata: alcuni passaggi si leggono inoltre in Noemi Crain Merz, The Great Devourer. Annie Vivanti’s Friendship with Barbara Allason (1917-1921), in Sharon Wood, Erica Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti. Transnational Politics, Identity, and Culture, Fairleigh Dickinson University Press, Madison 2016, pp. 161-174, qui p. 163.

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ha sempre manifestato un certo scetticismo nei confronti delle rivendicazioni femministe e teme di essere etichettata solo come autrice di romanzi rosa: attraverso l’amicizia con Vivanti sembra riconciliarsi con questo importante aspetto della sua esistenza, riuscendo anche a trovare, a quarant’anni, la forma adeguata per comporre il suo primo romanzo. La struttura di Quando non si sogna più deve molto a un filone letterario all’epoca considerato d’interesse esclusivo delle lettrici. Al destino di Lilì si accompagnano infatti le vicende di altre tre figure femminili, con le quali la protagonista ha condiviso gli anni universitari: la cugina Paolina Donaudy, laureata in scienze che vorrebbe diventare insegnante nonostante l’ostilità del padre, un possidente dell’astigiano; Annamaria Vivalda, figlia di un’aristocratica che si disinteressa di lei e deride le sue convinzioni morali; ed Elena Carminati, la più povera delle quattro amiche, costretta a provvedere con il suo lavoro a tre fratelli più piccoli lasciati a se stessi da una madre malata e da un padre alcolizzato. Sul piano compositivo, dunque, lo schema “wilhelmeisteriano” che fa da palinsesto alla vicenda di Lilì si contamina con quello, tipico della letteratura per ragazze, dei destini femminili messi a confronto: si pensi alle quattro sorelle March in Piccole donne, cui Allason allude chiaramente, o a un classico come Orgoglio e pregiudizio, che non era ancora uscito in italiano ma che con buone probabilità figurava tra le letture fatte dall’autrice in francese, lingua correntemente parlata in famiglia114. Il romanzo di Austen è richiamato del resto anche dalla figura del padre di Lilì che, sebbene certamente ispirato al padre biografico dell’autrice, sembra avere un illustre precedente letterario nel personaggio del signor Bennet, il padre comprensivo e incoraggiante che è il solo ad apprezzare l’anticonformismo della figlia Elizabeth. Ulteriormente filtrato dalla lettura dei romanzi di Vivanti, questo schema costituisce dunque l’ossatura portante di Quando 114  Come altri grandi classici della letteratura ottocentesca, il romanzo di Austen apparirà in italiano solo negli anni Trenta nella biblioteca romantica di Borgese, tradotto da Giulio Caprin con il titolo Orgoglio e prevenzione (Mondadori, Milano 1932). Fra gli scrittori che vengono coinvolti come traduttori nella romantica c’è anche Annie Vivanti, a cui viene affidato il progetto, poi non realizzato, di tradurre in italiano Tess dei d’Ubervilles di Thomas Hardy.

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non si sogna più – con l’aggiunta di un piccolo ma non trascurabile elemento. Mentre nei romanzi sopra citati le protagoniste sono sorelle, e provengono dunque tutte dallo stesso ambiente sociale, Allason costruisce la sua storia intorno a quattro amiche, includendo così nel problema dell’educazione femminile anche le questioni legate alle differenze di ceto. Questo comporta innanzitutto uno sfaccettarsi della riflessione sulla Bildung, che nei contesti concreti delle quattro giovani si rivela subito qualcosa di estremamente difficile da applicare: mentre Annamaria, insegnante in una scuola delle Orsoline, lamenta la stupidità e l’arretratezza dei programmi tradizionali; Paolina, trattenuta in campagna dal padre, è costretta a mettere le sue energie al servizio di un mondo per nulla intellettuale; ed Elena, pur di guadagnarsi da vivere, deve accettare senza possibilità di scelta gli incarichi che le vengono proposti, trovandosi infine in una situazione insostenibile. È proprio attraverso il personaggio di Elena che emerge il problema più spinoso del romanzo, a cui lo schema delle quattro amiche doveva inevitabilmente condurre: quello cioè di un’insormontabile diseguaglianza a cui neanche l’istruzione sembra in grado di porre rimedio. Mentre Lilì, Annamaria e Paolina, nonostante le difficoltà dovute anche alla loro condizione di donne, riescono infine a prendere in mano il proprio destino, la sorte di Elena rimane la più cupa: nella solitudine del suo lavoro di istitutrice si lascia sedurre dall’avvocato Prielli, che le presta del denaro in un momento in cui la sua famiglia è in difficoltà e che poi, stufatosi di lei, le trova un posto da insegnante in una scuola media servendosi della propria influenza. L’abuso viene però alla luce, ed Elena, che perde per questo anche l’affetto dell’unico ragazzo che sembrava interessarsi a lei, si uccide gettandosi sotto un treno. Più che nella vicenda di Lilì, che come è stato notato si conclude di fatto con un ripiegamento verso i valori più tradizionali115, 115  Dopo la morte del padre, anche Lilì si trova ad attraversare un periodo di difficoltà economiche («purtroppo la vita ha delle esigenze terribili prosaiche giornaliere inesorabili», scrive all’uomo che sta per sposare, p. 123), che la porterà al divorzio e alla decisione di dedicarsi interamente al figlio: pur scontrandosi con le convenzioni sociali, dunque, al termine del romanzo la protagonista torna al suo ruolo tradizionale di madre.

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è dunque nella dialettica tra le diverse posizioni rappresentate che si può individuare la forza del romanzo, aspetto che avrebbe infatti suscitato l’ammirazione di un lettore non certo fanatico di letteratura rosa come Gobetti116. Le vicende delle quattro ragazze mettono in scena altrettanti modi di fronteggiare le possibilità di emancipazione offerte dalla modernità, ma il fatto che il destino peggiore sia riservato a quella che fin dall’inizio è la più svantaggiata lascia ben intuire come la Allason quarantenne non si faccia più troppe illusioni circa le garanzie che l’istruzione, da sola, può dare. È un tema che Quando non si sogna più lascia in eredità alle generazioni successive, e che infatti incontreremo ancora nei romanzi degli anni Venti e Trenta, soprattutto in quelli più interessati alla questione femminile: un esempio è Nessuno torna indietro di Alba de Cèspedes, che potenziando lo schema dei quattro destini femminili – le ragazze in questione, stavolta, sono otto – presenta a sua volta le protagoniste nel momento in cui si avviano a concludere gli studi, e scoprono che quello che sembrava un sicuro lasciapassare verso la vita adulta è di fatto una conquista assai fragile, pronta ad essere ridimensionata nel contesto dei reali rapporti di forza117. È certo infatti che, complice anche il senso di smarrimento lasciato dalle macerie della prima guerra mondiale, l’entusiasmo dell’epoca vociana per lo sviluppo individuale – a cui come abbiamo visto anche Allason prende indirettamente parte – inizia ben presto ad assumere tinte fosche. Goethe resterà ancora per alcuni anni una stella polare nella riflessione sulla modernità, ma a venire in primo piano saranno poco a poco non le opere 116  Gobetti parla con entusiasmo del romanzo sia nell’articolo Presentazione di un poeta (cit.) sia nella recensione intitolata L’idillio della rinuncia («L’ordine nuovo», 6 febbraio 1921, poi in Id., Scritti storici, letterari e filosofici cit., pp. 501-505), nella quale sembra apprezzare in particolar modo proprio l’intreccio di rapporti tra le quattro protagoniste, che «nega ogni tentativo autobiografico» (p. 502). Il favore con cui viene accolto il romanzo, ristampato nel 1928, spingerà Sonzogno a pubblicare negli anni seguenti altre prove narrative di Allason (la raccolta di novelle Il domani dei baci nel 1922 e il romanzo Risblancheda nel 1926, riedito nel 1932 con il titolo La luce che torna), che non otterranno tuttavia un analogo successo di pubblico. 117 Su Nessuno torna indietro, pubblicato da Mondadori nel 1938, cfr. infra, cap. III, § 5.

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che, come Wilhelm Meister, ne hanno raccontato le possibilità di emancipazione, quanto piuttosto quelle che ne hanno messo in evidenza gli aspetti più dolorosi. Ad andare a fondo di questo secondo e più spinoso aspetto del problema sarà soprattutto Borgese, che nelle sue riflessioni teoriche lo porrà nella forma di un dilemma tragico: occuparsi delle opportunità offerte all’uomo dall’epoca moderna non ha più senso se non interrogandosi anche sui mostruosi costi umani che essa impone. Analizzando la figura di Mefistofele nel Faust, traducendo il Werther – e dando, con Rubé, una forma artistica alla sua riflessione – Borgese si spingerà così dentro il Novecento, analizzando della modernità anche il volto più violento e distruttore.

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1. L’esperienza della modernità: un patto col diavolo? Accanto alla visione che della modernità recepisce soprattutto l’energia liberatrice, si sviluppa negli stessi anni una riflessione parallela che, pur rimanendo all’interno del paradigma moderno, ne mette in luce soprattutto i limiti e le contraddizioni. Non si tratta del tentativo di porre in discussione le conquiste della contemporaneità resuscitando improbabili utopie reazionarie, bensì di un’opzione che potremmo in senso lato definire “tragica” poiché colloca sullo stesso piano, come elementi difficilmente conciliabili ma ugualmente legittimi, emancipazione individuale e diritti della collettività, progresso tecnico e danni da esso provocati, plurivocità e necessità di criteri di giudizio. Se il giovane Wilhelm Meister, capace di assorbire entro un nuovo cerchio di vita ogni ostacolo posto alla sua evoluzione, era diventato il personaggio simbolo di una modernità che si lasciava plasmare e permetteva di cercare liberamente il proprio posto nel mondo, la figura goethiana che meglio esprime la vocazione tragica dell’epoca è ora piuttosto quella di Faust, che con la sua sete di conoscenza e di azione incarna «lo scatenamento dell’energia antropologica trasformatrice» e insieme i rischi che questo stesso scatenamento comporta1. Nella versione goethiana della storia 1  Su Faust come figura fondativa della modernità cfr. in particolare Marshall Berman, Il «Faust» di Goethe: la tragedia dell’evoluzione, in Id., Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria cit., pp. 55-116; Ian Watt, Miti dell’individualismo moderno. Faust, don Chisciotte, don Giovanni, Robinson Crusoe, Donzelli, Roma 2007²; e Gerhard Kaiser, Faust, o Il destino della modernità, a cura di Aldo Venturelli, Guerini, Milano 1998 (la citazione è a p. 22).

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a ogni nuova fase Faust accetta infatti di pagare un prezzo più alto al suo Streben – dal tradimento di Margherita fino all’efferata uccisione di Filemone e Bauci, i due vecchi rei di occupare un fazzoletto di terra sfuggito alla sua bonifica –, legittimando le proprie azioni in nome dei grandi progressi umani che si sente chiamato a realizzare. Werther, il primo grande personaggio tragico goethiano, rifuggiva ogni forma di violenza e, preoccupato degli insetti che schiacciava col suo semplice incedere, finiva per rivolgere la pistola contro se stesso; Faust, al contrario, impara ben presto l’arte della “partita doppia” fra costi e benefici grazie a un consigliere d’eccezione messogli accanto da Dio in persona: Mefistofele. È così che la riflessione sulla modernità, fin dalle sue prime rappresentazioni simboliche, comincia ad assumere l’aspetto di un pericoloso patto col diavolo. All’inizio del Novecento le riforme seguite all’unità nazionale fanno sì che anche l’Italia, come le principali nazioni europee, veda anni di rapidi progressi materiali e di crescente prosperità: sotto la guida di Giovanni Giolitti, che nel Goliath Borgese descriverà come «a thoroughly prosaic and realistic mind», la prima decade del secolo è secondo lo scrittore «the happiest time the Italian people ever lived»2. Si è visto nel capitolo precedente come la modernità smetta di essere un’aspirazione per diventare finalmente un’esperienza reale, che include progressivamente nel suo avanzare categorie fino a quel momento vissute ai margini, dai piccolo borghesi e proletari che adesso hanno accesso all’istruzione e diritto di voto, fino alle donne che, ancora escluse dalla vita pubblica, cominciano però a rappresentare una parte sempre più significativa della forza lavoro del paese e a rivendicare diritti e autonomia. Questa esperienza della modernità che dissolve tradizioni, valori, assetti di potere e strutture familiari consolidate si trasforma però altrettanto rapidamente, soprattutto in seguito alla prima guerra mondiale, nel timore che il mondo stia piuttosto precipitando verso una nuova incontrol-

2  Giuseppe Antonio Borgese, Goliath. The March of Fascism, Viking Press, New York 1937, p. 99. Uscito originariamente in inglese, il saggio verrà pubblicato in italiano dopo la seconda guerra mondiale nella versione di Doletta Caprin Oxilia (Golia. Marcia del fascismo, Mondadori, Milano 1946).

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lata barbarie3. È sullo sfondo di questo scenario di entusiasmi e repentine inversioni di rotta che fa realmente il suo ingresso nel repertorio letterario italiano il “mito moderno” di Faust: a lungo disprezzato come esponente di una cultura fumosa e cervellotica, il personaggio del vecchio scienziato viene riletto all’inizio del Novecento grazie soprattutto all’interpretazione che ne dà Borgese, all’epoca giovane docente di letteratura tedesca all’università di Roma, destinato a diventare uno dei più brillanti intellettuali della prima metà del secolo. Nel canone italiano il nome di Borgese è legato in primo luogo alla rivalutazione del genere romanzo, operazione ancora minoritaria nel contesto letterario degli anni Venti e da lui perseguita non soltanto come scelta estetica – o, come forse egli avrebbe preferito dire, «poetica» – quanto come possibile risposta filosofica al dilemma della modernità. Fin da giovane Borgese sembra coltivare dentro di sé la convinzione di essere destinato a condurre una vita segnata da una sorta di costante mefistofelica: a testimoniarlo, scherzosamente, è l’amico poeta Benno Geiger, che ricorda come negli anni berlinesi una seduta spiritica improvvisata si fosse conclusa con un’apparizione che lo ammoniva «Vita tua usque ad finem certamen cum diabolo»4, e che per questo sua madre, la pittrice Pauline Geiger, aveva dipinto un ritratto di Borgese «con un profilo di Mefistofele a fianco»5. La riflessione sul tema faustiano del patto col diavolo, che come mostreranno le pagine che seguono è intimamente connessa al problema estetico dell’architettura dell’opera, ha per Borgese un ruolo cardine nel gettare le basi di quella “riedificazione” culturale e artistica che si esprimerà nel suo lavoro di scrittore (Rubé, 1921 e I vivi e i morti, 1923), di critico letterario (soprattutto con i saggi poi riuniti in Tempo di edificare, 1923), di traduttore (del Peter Schlemihl, 1924, e del Werther, 1930) e di consulente editoriale (per antichi 3  Cfr. il quadro che ne dà Ruth Ben-Ghiat, secondo cui «la pura e semplice rivelazione della capacità della macchina di uccidere e mutilare milioni di uomini impartì una nuova urgenza alle riflessioni contemporanee circa i costi umani del progresso industriale» (Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2000, p. 10). 4 Benno Geiger, Memoria di G.A. Borgese, «Nuova Antologia», LXXXVIII, 1830, giugno 1953, pp. 191-209, qui p. 196. 5  Ivi, p. 204.

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e moderni di Carabba dal 1911, e per la biblioteca romantica Mondadori dal 1930). Per circa vent’anni Borgese contribuirà significativamente a modernizzare la cultura dei suoi contemporanei favorendo la traduzione e la circolazione di un genere letterario come il romanzo, nel cui potenziale dialettico intravede una possibile via d’uscita dal dilemma faustiano: questo almeno fino a quando, all’inizio degli anni Trenta, la crescente conflittualità con le gerarchie fasciste non lo convincerà che il suo spazio d’autonomia è esaurito e che l’esilio è ormai l’unica soluzione. La sua figura funge dunque da punto di riferimento per indagare questa delicata fase storica in cui l’esperienza della modernità comincia a mostrare il suo lato oscuro, e in cui attraverso il romanzo, in Italia non ancora del tutto legittimato ad accedere ai territori dell’arte, si sperimentano nuovi modi per fornire agli uomini una rappresentazione realistica, credibile, del loro contraddittorio presente.

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Tra tutte le creazioni goethiane, il Faust rimane a lungo quella che più attrae gli strali sarcastici dei letterati italiani, da Giosue Carducci a Vittorio Imbriani, secondo cui il fatto che Goethe avesse lavorato al poema per oltre sessant’anni dimostrava appunto che non era mai riuscito a «trovarne il bandolo»7. A rendere ostica la diffusione dell’opera nel contesto italiano era certamente l’oggettiva complessità della sua struttura e del suo linguaggio, ma a questa andava ad aggiungersi, almeno secondo Imbriani, l’incompetenza dei traduttori: A dare un saggio della lor buaggine, basti ‘l dire, che traducono […] Eröffne ich Räume vielen Millionen Nicht sicher zwar, doch thätigfrei zu wohnen (schiudo spazî dove molti milioni abiteranno, se non sicuri, operosamente liberi almeno) per – «Io schiudo un territorio per miriadi d’uomini, i quali si trarranno ad abitarlo, se non rassicurati da certezza, che non ammetta dubbio alcuno, con isperanza almanco di godersi la libera attività dell’esistenza» – Chiaman poi oscuro il Fausto! Diamine, se l’imbrogliate di questa fatta!8

Il rinnovamento del repertorio letterario che Borgese favorisce già a partire dagli anni Dieci si realizza non soltanto attraverso l’immissione nel canone di nuove opere letterarie italiane e straniere, ma anche tramite la reinterpretazione di opere e personaggi già appartenenti alla tradizione. È questo il caso del Faust: nonostante l’attenzione che i traduttori italiani avevano dedicato al poema goethiano fin dagli anni Trenta dell’Ottocento, realizzandone versioni in prosa (la prima è quella pubblicata da Giovita Scalvini nel 1835, poi completata da Giuseppe Gazzino) e in versi (Federigo Persico, Anselmo Guerrieri, Andrea Maffei), l’opera aveva avuto un percorso di ricezione piuttosto impervio6.

Secondo un giudizio all’epoca largamente condiviso, il difetto principale dell’opera risiedeva nell’eterogeneità e nella disarmonica composizione dei materiali, ovvero nell’assenza di quello che nella sua stroncatura Imbriani definisce a più riprese «un concetto organico»9. L’idea che il Faust racchiuda passaggi riusciti e poetici («troviamo qua e là idillî passabili, non brutti brani lirici, discreti epigrammi»10) tenuti insieme alla meglio da parti di raccordo («E qua una zeppa, e là un puntello, più su mastice, più giù colla; e dovunque e soprattutto intonaco e vernice di spirito […]! E poi allegoria in buon dato per nascondere le commettiture…»11) diventa così un assunto della critica letteraria italiana, e ancora a inizio Novecento risuonerà nelle pagine di Croce e di Papini. «Il Faust – farsa fiabesca in trop-

6  Sulla ricezione italiana del Faust cfr. Paola Del Zoppo, Faust in Italia. Ricezione, adattamento, traduzione del capolavoro di Goethe, Artemide, Roma 2009; Ida De Michelis, Il viaggio di Faust in Italia. Percorsi di ricezione di un mito moderno, Viella, Roma 2017; e Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia, Quodlibet, Macerata 2019 (in particolare i capp. Individuazione di un capolavoro. I primi mediatori del Faust di Goethe (1814-1835), pp. 39-68, e Gli editori e il repertorio della letteratura tradotta. Breve storia delle edizioni del Faust (1835-2018), pp. 69-153).

7  Vittorio Imbriani, Un capolavoro sbagliato (Il Fausto del Goethe) [1865], in Id., Fame usurpate, a cura di Benedetto Croce, Laterza, Bari 1912, pp. 113-240, qui p. 113. 8  Ivi, p. 120. 9  Ivi, p. 198 e p. 232. 10  Ivi, pp. 199-200. 11  Ivi, p. 198.

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pe scene», scrive Papini su «Lacerba» alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia contro gli imperi centrali «è un libro mediocre che risponde perfettamente al suo fine: raccogliere, in forma mitica, le confusioni, i luoghi comuni, le smanie enfatiche e le finali bancarotte dell’anima tedesca»12. Se l’opera e il suo protagonista non sono particolarmente amati in Italia, un’accoglienza ben diversa è riservata però al personaggio dell’avversario, il “povero diavolo” Mefistofele. Per i lettori italiani d’inizio secolo, svezzati a melodramma e liturgia cattolica, la figura del diavolo è assai più familiare di quella del professore alchimista, anche grazie alla versione teatrale realizzatane da Arrigo Boito che eleggeva Mefistofele a protagonista assoluto dell’azione13. Ancora Papini: Mefistofele è l’unico personaggio simpatico di tutto il poema […] e in poche parole lo convince a concludere il famoso contratto. S’è infinitamente sottilizzato, in Germania, sulle condizioni di questo patto ma nessuno s’è accorto che la massima richiesta di Faust contradice ed infirma tutta la sedicente grandezza della sua figura. Il significato del Faust è la salita, lo sforzo: egli è, anche nelle parole del Signore, der strebend[e] Mensch. Il suo ruolo nel mondo sembra quello di colui che vuol ascendere sempre più in alto, che aspira sempre a più libere cime, che mai può riposarsi e contentarsi nei piani terrestri. Invece egli chiede a Mefistofele precisamente il contrario. Egli vuole che il demonio gli dia precisamente ciò che distrugge tutto il senso e il succo della sua vita: il riposo. Desidera che giunga, per arti diaboliche, il momento in cui possa dire: Fermati, sei bello. [...] Il suo fondo è borghese: vuol mettersi a sedere anche lui. Verweile doch! Così la patria sua, dopo aver dato ad intendere al mondo di cercar l’assoluto nel mondo celeste della metafisica, s’è rivelata più filistea di ogni altra nazione e oggi, colla scusa di portare a tutti una civiltà superiore, vuol assicurarsi terre, mercati e clienti per riposarsi nella più grande ricchezza. Questi puri tedeschi son tutti così. Anime di servitori che girano e mangian fumo in gioventù finché non hanno una poltrona e un pezzo d’arrosto. Anche Faust ha l’anima dello schiavo e pur di arrivare a quella calma ch’egli dovrebbe, per definizione, sfuggire come il peccato

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e la morte, s’ingaggia come servo del diavolo. Il quale, come vedremo, ha tutte le ragioni del mondo di divertirsi alle sue spalle. S’è parlato di una disfatta di Mefistofele ma se v’è stata – e difatti l’anima di Faust a forza di preghiere e piagnistei femminili sale nel seno del suo caro Iddio – è dovuta piuttosto alla prepotenza divina che alla giustizia. Però Mefistofele era troppo intelligente per tenerci sul serio, all’anima svariata di Faust. Egli ha cercato, al contrario, di educarlo, di fargli capire qualcosa e intanto s’è burlato, com’è suo santo costume, dell’uomo e degli uomini. Faust è un burattino nelle sue mani. Lo contenta in tutti i suoi capricci per fargli sentir meglio quanto son fanciulleschi e meschini i suoi desideri e sempre più ci persuade, standogli accosto, dell’irrimediabile inferiorità della specie umana. E anche il vecchio Signore ci fa, alla fine, una brutta figura. Vince la scommessa perché vuol vincerla ma il vero trionfatore è Mefistofele, lo spirito libero, l’antitedesco14.

A partire dalla figura di Mefistofele e dal significato del famoso patto, Papini costruisce un’interpretazione del poema che vede in Faust la perfetta raffigurazione dell’«eroe tedesco», ovvero del filisteo borghese che, dopo aver finto di interessarsi alle grandi questioni dell’animo umano, aspira solo a «mettersi a sedere» e a riposarsi tra comodità e ricchezze. La sua salvazione finale, lungi dall’essere un atto di grazia, è piuttosto un atto di prepotenza da parte della divinità15, a conferma di come il vincitore morale della scommessa sia, in fondo, «l’antitedesco» Mefistofele. La data di pubblicazione del pezzo e la sua collocazione su «Lacerba» – che sta conducendo una dura campagna antitedesca a favore della posizione interventista – lasciano pochi dubbi sul fatto che la polemica letteraria è qui il veicolo di un attacco politico, volto a screditare la Germania con l’accusa di nascondere, sotto la bandiera di una presunta superiorità culturale, il desiderio di accaparrarsi «terre, mercati e clienti». E tuttavia, dietro gli intenti politici e nazionalistici, si nasconde anche qualche regolamento di conti a più corto raggio. Non è infatti 14 Papini,

12 Giovanni

Papini, L’eroe tedesco, «Lacerba», III, 3, 17 febbraio 1915, pp.

17-19, qui p. 17. 13 Il Mefistofele scritto e musicato da Boito fu in realtà, alla sua prima rappresentazione milanese del 1868, un fiasco completo. Ma come ricorda anche Borgese nel Goliath (cit., p. 184), questa versione operistica, poi frequentemente portata sulle scene, contribuì molto a rendere familiare agli italiani la storia del patto col diavolo.

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L’eroe tedesco cit., p. 18. anche questa che risale a Imbriani (Un capolavoro sbagliato cit., pp. 169-170): «In fine alla seconda parte […] la persona di dio è sparita ed invece troviamo non so quale – “eterna muliebrità”, – che la surroga e scrocca l’anima di Fausto peccatore a Mefistofele. […] Pensiero, artisticamente parlando, stupendo; per quanto possa sembrare immorale ed irreligioso! […] La divinità, che scende a sotterfugî, de’ quali un capobrigante, un camorrista, che si rispetta, rifuggirebbe!». 15 Idea

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solo contro un’astratta idea di Germania che Papini si scaglia: tra i suoi bersagli polemici ci sono anche, come sempre, amici e nemici letterati. La «disfatta di Mefistofele» di cui, come scrive, «s’è parlato», è infatti un’allusione – cristallina per i lettori del tempo – proprio a Borgese, e più precisamente al suo scritto del 1909 che portava appunto questo titolo16. Ancora vicino a Papini per passione politica (è a sua volta interventista), in questi anni Borgese è però sempre più distante dalle sue convinzioni estetiche e dalle sue modalità d’azione; e anche nell’interpretare il finale del Faust segue una linea diametralmente opposta a quella dell’amico e compagno di un tempo. Torneremo più avanti sul modo in cui Borgese legge il poema goethiano, facendone un primo gradino della sua riflessione sull’opera d’arte come struttura unitaria: intanto consideriamo piuttosto la centralità accordata anche da lui alla figura di Mefistofele, che – scrive – «è certamente mille volte più popolare di Faust e del Padre Eterno»17. Faust e Mefistofele non sono, a suo parere, due lati dell’anima tedesca, ma le rappresentazioni universali di una condizione umana che, nell’epoca moderna, si trova di fronte a possibilità e a pericoli mai sperimentati18. Se il Faust è il vertice della poesia moderna così come la Commedia dantesca lo è stata di quella medievale, Mefistofele è dunque un Virgilio all’altezza dei tempi, con meno scrupoli ma altrettanto indispensabile all’eroe. Il diavolo è qui insomma «una tesi del dramma»19, il passaggio dialettico che il poema «supera e comprende» – e appunto in questo suo essere eternamente mezzo di una salvezza superiore sta la sua “disfatta”. L’impossibilità di eliminare il negativo che Mefistofele rappresenta, con tutto il potenziale di violenza che svilupperà nel 16  Giuseppe Antonio Borgese, La disfatta di Mefistofele, «Il Rinnovamento», III, 5, 1909, poi in Id., Mefistofele. Con un discorso su La personalità di Goethe, Casa Editrice Italiana, Firenze 1911, pp. 79-162. 17  Ivi, p. 91. 18 L’interpretazione del Faust come «dramma del genere umano» e non semplicemente del popolo tedesco è tipica delle riletture di Goethe che si diffondono a partire da questi anni (cfr. supra, cap. I, § 2.1, nota 20): se ne vedranno le tracce ancora nei Faust-Studien di Lukács (György Lukács, Scritti sul realismo, a cura di Andrea Casalegno, Einaudi, Torino 1978, vol. I, pp. 321-418). 19 Borgese, La disfatta di Mefistofele cit., p. 101.

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corso del dramma, è per Borgese una condizione intrinseca della modernità, della condizione adulta dell’uomo: intorno a questo dilemma si costruisce il nucleo della sua riflessione etica ed estetica, e per questo il tema del patto col diavolo affiora come un basso continuo tanto nelle opere giovanili quanto in quelle più tarde. È a Mefistofele che dedica il suo primo scritto importante di letteratura tedesca, è seguendo la stessa pista che arriverà a interessarsi alla storia dell’«uomo senz’ombra» e a tradurre il Peter Schlemihl, e allusioni a questo personaggio risuoneranno ancora nel Goliath, dove ad aver sottoscritto il famigerato patto (modernità in cambio dell’anima?) è ormai, al di là di ogni dubbio, l’Italia di Mussolini. L’apprendistato nel mondo della letteratura tedesca, che Borgese conduce soprattutto nella prima fase della sua vita alternandosi nei ruoli di giornalista, di critico letterario, di docente e di traduttore, continua dunque anche nel periodo successivo a dare impulso alla sua attività critica e creativa. E la figura di Mefistofele rimane costantemente presente come la domanda che porta con sé: quanto costa la modernità, cosa si è disposti a dare per vederla realizzata? 3. Giuseppe Antonio Borgese e il mondo tedesco 3.1. Firenze, gli anni di apprendistato Per quanto da più parti auspicato, la poliedrica attività di Borgese non è stata finora oggetto di uno studio biografico complessivo, e sono ancora molte le ombre che avvolgono soprattutto la prima parte della sua vita, fino al trasferimento del 1931 negli Stati Uniti20. Il suo legame con il mondo tedesco, decisivo 20 Per tutti i riferimenti biografici relativi agli anni Dieci e Venti ci si è basati dunque in primo luogo sui carteggi, sia quelli editi (con lo zio Giuseppe Borgese, con Papini, Gentile, Otto von Taube, Benno Geiger e Clotilde Marghieri), sia quelli inediti a cui è stato possibile avere accesso (con Prezzolini, Croce e Liliana Scalero). Il periodo “americano” della vita di Borgese ha assistito invece a un crescendo d’interesse soprattutto in anni recenti, grazie anche alla possibilità di accedere al cospicuo materiale biografico conservato presso il Fondo Borgese della Biblioteca Umanistica dell’Università degli Studi di Firenze. Indicazioni precise sui fondi consultati e sulle relative pubblicazioni verranno forniti man mano nelle note che accompagnano questo capitolo.

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in questa fase e indagato per ora da pochi studiosi21, è stato inoltre di rado messo in connessione con gli altri campi della sua attività: le pagine che seguono si propongono dunque in primo luogo di ricostruire il filo rosso dell’interesse di Borgese per la letteratura e la cultura tedesca all’interno della sua più generale attività di scrittore, e segnatamente il ruolo che questo interesse ha rivestito nella sua concezione del romanzo, il genere letterario a cui dedica la parte più cospicua della sua riflessione. È Borgese stesso a sintetizzare gli anni della sua formazione e del suo apprendistato intellettuale in una lettera dell’aprile 1924 inviata a Papini, che gli ha chiesto una nota di accompagnamento per alcuni suoi brani destinati all’antologia Poeti d’oggi:

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Pur nella loro stringatezza, i cenni a quella che Borgese definisce la sua «biografia esteriore»23 bastano a delineare le tappe di un percorso di rapidi successi, che lo porta ad affermarsi giovanissimo sulla scena letteraria italiana. Dopo un lungo conflitto con il padre che lo vuole iscritto alla facoltà di legge di Palermo,

accantonata la possibilità di proseguire gli studi in Germania24, è a Firenze che muove i primi passi da letterato, seguendo le lezioni di Pio Rajna, Pasquale Villari e Guido Mazzoni all’Istituto di Studi Superiori e soprattutto partecipando all’attività delle riviste letterarie del luogo. La prima di esse, nel 1902, è la «Medusa» di Alfonso Bertoldi, sulla quale il giovane Borgese, che già conosce francese, inglese e tedesco25, pubblica non soltanto novelle e poesie di suo pugno, ma anche traduzioni e articoli su scrittori stranieri, tra cui Gogol’ e Mistral26. A questa esperienza faranno seguito le collaborazioni al «Leonardo» di Papini e al «Regno» di Corradini, fino alla fondazione di una propria rivista, «Hermes», insieme alla poetessa Maria Freschi, sua futura moglie. Sono però gli articoli usciti sul «Leonardo», dedicati a D’Annunzio, a Pascoli e a problemi di estetica, a fare di lui un nome noto: due di essi (Metodo storico e metodo estetico e Parola e immagine27) gli varranno la stima di Benedetto Croce, che conosce di persona nel 1903 e grazie al quale pubblica la sua tesi di laurea, Storia della critica romantica in Italia (1905). Anche l’approfondimento della lingua tedesca è legato a questa fase della sua formazione, durante la quale Borgese condivide con i coetanei fiorentini l’interesse per l’età romantica letta in chiave antipositivistica: ma la Germania “immaginata” tra la Sicilia e Firenze è assai lontana dalla potenza moderna che si va intanto costituendo, e che Borgese conoscerà a Berlino nei suoi anni da giornalista, tra il 1907 e il 1908.

21  Si vedano ad esempio gli articoli di L. Mario Rubino (La nuova Germania di G.A. Borgese, «Quaderni dell’Istituto di Lingue e Letterature straniere della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo», II, 1992, pp. 99-113) e di Chiara Piola Caselli (G.A. Borgese traduttore del Werther, «Kwartalnik Neofilologiczny», 62, 2, 2015, pp. 171-180), che pur limitandosi all’analisi di singole opere permettono di gettare uno sguardo approfondito sul lavoro di Borgese. Cfr. inoltre le due più sintetiche ricognizioni di Nello Saito (Borgese germanista, in Giorgio Santangelo (a cura di), G. A. Borgese. La figura e l’opera. Atti del convegno nazionale, PalermoPolizzi Generosa, 18-21 aprile 1983, Palermo 1985, pp. 451-459) e di Giuseppe Bevilacqua (La questione tedesca nella riflessione di G.A. Borgese, «Rivista di letterature moderne e comparate», XLIX, 3, luglio-settembre 1996, pp. 349-356). 22  Giuseppe Antonio Borgese, Lettere a Giovanni Papini e Clotilde Marghieri (1903-1952), saggio introduttivo e note di Mariarosaria Olivieri, ESI, Napoli-Roma 1988, p. 131. 23  Ibid.

24  Lo testimoniano le lettere indirizzate allo zio Giuseppe Borgese, suo punto di riferimento durante gli studi liceali a Palermo, riprodotte in Leonardo Sciascia, Per un ritratto dello scrittore da giovane, Sellerio, Palermo 1985, pp. 23-24. Per quanto frammentarie, le lettere permettono di farsi un’idea dell’attività del giovane Borgese e soprattutto del suo carattere: spicca, da questo punto di vista, l’autoironico resoconto di una festa da ballo durante la quale l’aspirante letterato, Tonio Kröger ante litteram, si copre di ridicolo a causa della sua goffaggine (pp. 29-30). 25  Ivi, p. 27. Si tratta tuttavia, almeno per il tedesco, di una conoscenza per lo più libresca; l’apprendimento vero e proprio della lingua avverrà negli anni berlinesi (cfr. infra, cap. II, § 2.2). 26  Cfr. ivi, pp. 27-39, e Paola Baioni, Giuseppe Antonio Borgese poeta su «Medusa» (1902), «Rivista di letteratura italiana», XXIII, 1/2, 2005, pp. 427-438. 27  I due articoli, usciti nel 1903, saranno poi ripubblicati in appendice a Poetica dell’unità, a testimoniare – scrive l’autore – «gl’inizi e gli errori da cui in gioventù, o posso ben dire in adolescenza, partii» (Borgese, Poetica dell’unità cit., p. VI).

Nato il 12 ottobre 1882 a Polizzi Generosa (provincia di Palermo). Studente a Palermo fino al 1900. In seguito a Firenze. Laurea nel 1903 (Storia della critica romantica). 1903-1910 giornalismo e varie residenze (Napoli – Berlino – Torino). 1910 cattedra universitaria a Roma. 1918 domicilio a Milano. 1921 Rubè, 1924 L’Arciduca. Collaborazione al «Corriere della Sera» dal 191222.

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3.2. Berlino, gli anni di pellegrinaggio È lo scrittore in persona, a distanza di anni, a prendere in giro il se stesso ventiquattrenne che arriva nella capitale tedesca con la testa piena di stereotipi romantici: Quando mi recai in Germania avevo appena ventiquattr’anni; ne avevo ventisei quando la lasciai […]. Non solo ero giovanissimo e inesperto; ma non avevo mie e personali idee di politica estera, aderendo passivamente, come la maggior parte dei miei connazionali, al dato di fatto della Triplice Alleanza […] La Germania era per me la terra della filosofia che cominciavo a studiare e ad amare. Vi andai pieno d’un’ammirazione preconcetta e un po’ convenzionale, non senza colorito romantico; e mi pareva di seguire le orme di Madame de Staël. Quando vi ebbi passato qualche mese, la delusione era già divenuta aspra e veemente. Perfin troppo: il provinciale educato a una vita chiusa e raccolta, il siciliano venuto su in un’atmosfera di scrupolo e di fanatismo morale tanto simile a quella del dramma spagnuolo e poi un po’ levigato esteticamente al contatto della modesta grazia fiorentina, si rivoltava contro quella furibonda e davvero quasi selvaggia smania di vivere e di stravivere che imperversava nel Nord. Munito di conoscenze antiquate, credeva quasi di trovar lassù musica, ballate, le corti delle Muse, le umili case di legno e le caste nevicate fra gli abeti. Ed ecco questa impetuosa e prepotente Germania moderna, questa Germania che egli un po’ ingenuamente chiamava la nuova Germania contrapponendola a una sua cara fantasticheria; questo popolo di conquistatori spietati e di smodati goditori; questa bolgia di violenti28.

Il giovane «provinciale» di saldi principi, che appena qualche mese prima schiaffeggiava davanti agli avventori di un caffè napoletano un giornalista che aveva offeso l’onore della regina d’Italia29, è costretto a rivedere molte delle sue convinzioni una volta a 28 Giuseppe Antonio Borgese, Introduzione a La Nuova Germania (Treves 1917², pp. VII-IX). Rispetto all’edizione originale, pubblicata dai Fratelli Bocca nel 1909, mancano nella seconda versione circa un centinaio di pagine, e molti dei giudizi più tranchant che il Borgese venticinquenne aveva dato sulla cultura e sulla “decadenza” tedesca. Già poco dopo la pubblicazione del libro, del resto, l’autore scriveva a Geiger di provarne fastidio (un «libro mediocre») e di pentirsi di molti dei suoi giudizi. Sulla prima edizione cfr. Rubino, La Nuova Germania cit., che inserisce l’opera nel filone dei reportage di viaggio pubblicati al tempo. 29  Cfr. Giulio Fioretti, L’incidente Borgese Monicelli, «Il Mattino», 27-28 settembre 1906, p. 1.

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contatto con la prepotente vita metropolitana. La Berlino d’inizio Novecento è una città in vorticosa trasformazione, che per gli osservatori giunti da fuori assume progressivamente i tratti di una nuova Babilonia, meccanizzata e nevrotica. Scrittori e giornalisti come Corrado Alvaro, Paolo Monelli e Rosso di San Secondo realizzeranno negli anni successivi numerosi reportage per le testate italiane, attraverso i quali l’ideale di una Germania fatta di musica e filosofia verrà scalzato da una nuova idea di nazione all’avanguardia della modernità, un modello destinato poi a radicarsi nell’immaginario collettivo attraverso i romanzi e il cinema della Neue Sachlichkeit30. Gli articoli che Borgese invia tra il 1907 e il 1908 al «Mattino» e alla «Stampa», poi raccolti nel volume intitolato appunto La Nuova Germania, sono precoci nel testimoniare questo cambiamento di sguardo: Borgese scrive di letteratura (su Wedekind e Hauptmann), di musica (su Joachim, Wagner, Strauss) e di politica (sul cancelliere von Bülow, sul congresso dei socialisti a Stoccarda e sul processo a Harden), ma anche di costume, dedicando molta attenzione alla vita metropolitana (Il feretro automobile, Berlino criminale) e a nuovi stili di vita che gli appaiono superficiali e allettanti a un tempo. Le tracce di un moralismo duro a morire sono ancora tangibili nei pezzi dedicati alle donne tedesche e ai loro disinvolti modi di trattare l’amore, il sesso, il lavoro (La vergine Annetta, Signorine di buona famiglia): le giovani lavoratrici, che stanno in fabbrica o in ufficio otto ore al giorno per pagarsi la birra da sole e che tanto scandalizzeranno i reporter italiani degli anni Venti, sono descritte con un misto di ammirazione e di repulsione, come la punta più avanzata di una metamorfosi forse non del tutto desiderabile, ma certamente irresistibile31. Nonostante i ritmi di lavoro intensi – sette articoli al mese sono il minimo per mettere insieme un salario decente –, a Berlino 30  Cfr. L. Mario Rubino, I mille demoni della modernità. L’immagine della Germania e la ricezione della narrativa tedesca contemporanea in Italia fra le due guerre, Flaccovio, Palermo 2002. 31 L’immagine di Berlino come metropoli della perdizione, soprattutto per le giovani donne, comincia intanto a emergere anche nella letteratura di finzione: un esempio è il romanzo Marienbad di Sholem Aleichem (1911), in cui una giovane donna ebrea si perde nei grandi magazzini della metropoli. Il romanzo, scritto in yiddish, verrà tradotto in italiano nel 1918 da Alfredo e Rachele Polledro per l’editore modenese Formiggini.

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Borgese ha l’opportunità di entrare in contatto con artisti e intellettuali suoi coetanei, che come lui conducono vite da bohémien nelle pensioni della capitale. Attraverso la mediazione di Papini stringe amicizia con Benno Geiger, che a sua volta gli fa conoscere Stefan Zweig e Otto von Taube32; nei club berlinesi che i quattro amici frequentano discute di letteratura con Hugo von Hofmannsthal e Frank Wedekind, e di politica con Walther Rathenau, il futuro ministro degli esteri della Repubblica di Weimar che fornirà ispirazione a Musil per il personaggio dell’imprenditore Arnheim nell’Uomo senza qualità. «Nei primi mesi del 1907 io ero, intellettualmente e moralmente, un suicida», ricorda in una lettera del dicembre 1909 indirizzata a Geiger «Non dimenticherò mai che al contatto della tua febbrile personalità dovetti in gran parte la mia salvezza»33. È ancora grazie a Geiger – viennese cresciuto in Italia, poeta e traduttore di Dante e di Pascoli – che Borgese approfondisce la sua conoscenza dei classici tedeschi (in particolare del Faust, che i due leggono insieme «dalla prima parola del Prologo all’ultima del Coro Mistico») e della lingua, divenendo in poco tempo capace di padroneggiarla perfettamente34. A lui infatti dedicherà il Mefistofele, ricordando nella lettera introduttiva le appassionate letture del secondo Faust fatte insieme a Berlino, «invasi da una concorde emozione e da un’identica intuizione»35. 3.3. Cosa fare dei morti: Il feretro automobile L’esperienza berlinese non è fatta dunque soltanto di cabaret e mode passeggere, ma anche di «acerbe, profonde, disperate indagini sul bene e sul male»36. L’ambiguo atteggiamento di Bor32  Cfr. Geiger, Memoria cit.; e Borgese, Lettere a Giovanni Papini cit. Sul rapporto con il barone estone Otto von Taube, studioso di storia dell’arte e scrittore, cfr. Mariarosaria Olivieri (a cura di), Per una cultura europea. Le lettere di Giuseppe Antonio Borgese a Otto von Taube (1907-1952), esi, Napoli 2002. 33 Lettera di Borgese a Geiger, da Torino, 28 dicembre 1909, in Francesco Zambon e Elsa Geiger Ariè (a cura di), Benno Geiger e la cultura italiana, Olschki, Firenze 2007, p. 23. 34 Geiger, Memoria cit., p. 193. 35 Borgese, Mefistofele cit., p. 7. 36  Lettera di Borgese a Geiger, da Torino, 1° maggio 1909, in Zambon-Geiger Ariè, Benno Geiger e la cultura italiana cit., p. 21.

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gese nei confronti di una modernità che sembra non arrestarsi di fronte a nulla è già evidente in alcuni articoli di questo periodo: ne è un esempio il pezzo intitolato Il feretro automobile, che descrive un funerale berlinese durante il quale il defunto, con grande stupore del reporter, anziché a piedi viene accompagnato comodamente in macchina al camposanto. Borgese si sente in dovere di inventare un neologismo per descrivere un fenomeno che gli appare tipicamente tedesco («feretro-automobile» è un calco letterale del tedesco Leichenwagen, “carro funebre”), quasi inconsciamente rifiutando l’idea che di lì a non molto pratiche del genere sarebbero inevitabilmente diventate comuni anche in Italia. Il ritratto della metropoli che spinge ai suoi margini estremi la sofferenza e la morte, fino a dare l’illusione che lì mai nessuno «si fratturi l’osso del collo», spiega meglio di qualsiasi analisi perché Berlino, e la Germania in generale, sia diventata in questo primo squarcio di Novecento sinonimo stesso di modernità: Il più gran successo della stagione berlinese è stato il feretro-automobile. Ce n’è uno solo, finora, di questi carri funebri a benzina, ma è facile prevedere che l’esempio sarà ben presto imitato e che avremo fra qualche mese una società anonima per il trasporto dei cadaveri a grande velocità. […] con la piccola innovazione di cui vi parlo si apre uno di quegli spiragli dai quali si può guardare molto a fondo nell’anima di un popolo e di una città. […] Berlino ha espulso oltre la cerchia dei suoi sobborghi tutte le cause della malinconia e della meditazione. Pensate a una qualunque città dell’Italia centrale, a Firenze, se volete. La vecchiaia, la miseria, la morte son presenti ai vostri occhi ad ogni svolto di vicolo e ad ogni ora del giorno. Se un disgraziato cade sotto un carro e si frantuma una gamba, la Misericordia lo trasporta all’ospedale in una bara scoperta con accompagnamento d’incappucciati e con tintinnio di campanelli. Un funerale è un avvenimento cittadino, e le confraternite salmodianti arrestano per un quarto d’ora la circolazione, mentre le torce resinose spandono lividi luccicori sul lastrico. Le chiese – monumenti creati dalla vita all’immortalità, dalla terra all’al di là – costituiscono l’anima e il nòcciolo della topografia cittadina. Le campane vi svegliano, le campane vi chiamano al lavoro, le campane vi riconducono a casa quando imbrunisce, le campane vi addormentano. La loro incessante melodia, se non v’induce a pregare, vi seduce a pensare. Ma a Berlino, per lo meno nel centro, chi ode le campane? Per un bizzarro controsenso della liturgia protestante, cantano a gran voce solo nel venerdì di passione. L’opera di assistenza è prestata con un sistema

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misterioso. Si può vivere per anni ed anni a Berlino con l’illusione che nessuno si fratturi l’osso del collo, e che la morte non abbia mai provato il filo della sua falce in questa terra incantata. Le chiese, che presso di noi invitano i viventi a profondarsi per qualche istante nell’ombra dell’eternità, sono piccoli e brutti teatri, dove, dalle loro sedie prenotate, le signore consiglieresse e le signore colonnelle ascoltano di tanto in tanto un discorsetto sul più e sul meno. È passato il tempo che le città gareggiavano per aver la più splendida e più vasta cattedrale. È tramontata anche l’epoca in cui i berlinesi vantavano le loro caserme e il loro arsenale. Lo Stato prevalse già sulla Chiesa, e la Banca con la sua figliola maggiore, l’Industria, prevalgono oggi sullo Stato. […] Non c’è posto per i morti nella vita moderna. Un tempo vivevano fianco a fianco coi successori, poi la civiltà li cacciò dalle chiese per confinarli nelle necropoli di campagna: ora li manda via in automobile. Il che è gentile senza dubbio, ma piuttosto sbrigativo. I morti hanno fretta. Avevano fretta anche prima, a Berlino; ed anche nelle antiquate vetture a trazione animale correvano al camposanto soletti soletti in modestissimo incognito. Figuratevi ora con gli hp 24! È giusto che sia così. Di giorno ci sono gli affari, di sera il teatro, il cabaret, il buffet, l’alcova. Si va a letto disfatti, e ci si alza intontiti. Dove troverà tempo per i cadaveri l’uomo moderno? e, se gli negate l’uso del teuff-teuff, come accompagnerà all’estrema dimora l’amico suo diletto, suicida per fallimento?37

Nella città moderna non c’è posto per i morti. Non c’è posto neanche per le campane, quelle che salvano Faust un istante prima che beva dalla sua coppa avvelenata: nella Berlino d’inizio Novecento nulla interviene a fermare il gesto del «suicida per fallimento». Modernità è sinonimo di vita, e tutto ciò che è morto, malato, stanco, deve essere spedito fuori dai confini della città. Ricordati di vivere, il motto che nel Wilhelm Meister veniva fatto incidere sopra la Sala del Passato dopo la morte di Mignon, è del resto la parola d’ordine di tutte le città moderne e di tutti i modernizzatori, a cominciare da Goethe, descritto da Borgese in un passo del Mefistofele come qualcuno che sa uccidere le passioni turbolente ma non ha «né tempo né forza d’incenerirne i cadaveri»38. Questa vocazione superatrice della modernità, così manifesta nella capitale tedesca, sembra affascinare particolarmente i visitatori 37 Borgese, 38 Id.,

Il feretro automobile, in Id., La nuova Germania cit., pp. 158-164. Mefistofele cit., pp. 70-71.

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italiani che abitando a Firenze, a Roma e a Napoli hanno, come si sottolinea nell’articolo, la sofferenza e la morte continuamente e rumorosamente sotto gli occhi. E viene da pensare che il motto goethiano dovesse risuonare di frequente nella redazione napoletana del «Mattino», dal momento che ne sentiamo gli echi non solo nelle pagine di Borgese ma anche in quelle della sua direttrice Matilde Serao («Ricordatevi di vivere: ma non dovete dimenticare i morti», ammoniscono le sue Norme di buona creanza nel capitolo dedicato al lutto39), e più ancora in quelle di Benedetto Croce, a lungo tormentato – lo ricorderà Ernesto de Martino – dalla dura esortazione a lasciare i morti al loro destino40. Gli scritti di Borgese risalenti a questi anni testimoniano così la consapevolezza di essere in qualche modo affidatario di due eredità in conflitto: quella che vuole vivere, dividendosi tra affari, teatro e cabaret; e quella che non vuole dimenticare i morti, o quanto meno vuole trovar loro un posto nella vita moderna. È un tema cardine della sua opera, affidato per il momento alla trattazione schematica della pagina di giornale ma ripreso in forma narrativa, a oltre quindici anni di distanza, nel suo secondo romanzo, I vivi e i morti: qui, in una Milano assolata e distratta, il protagonista Eliseo Gaddi si ritrova a seguire un allegro corteo accompagnato dalla musica, accorgendosi solo strada facendo che si tratta del funerale di un suicida: Una mattina si ritrovò verso Porta Volta, su marciapiedi ove l’ombra degli ippocastani diventava violetta per l’eccesso di luce, fra strade rutilanti sotto un sole sontuoso. La musica di una banda, portata da un buffo di scirocco, gli parve così turgida e calda che dovette fermarsi, riconoscere la direzione e avviarsi da quella parte. Quasi era entrato nel corteo, quando s’avvide d’improvviso che era un funerale. Ma veramente s’andava di buon passo, molti vestivano di chiaro, con cappelli di paglia, e la banda sonava musiche marziali e riconfortanti, con brevi pause tra un pezzo e 39  Matilde Serao, Saper vivere. Norme di buona creanza [1900], Treves, Milano 1923, p. 218. 40  «Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? “Dimenticarli”, risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. “Dimenticarli”, conferma l’etica. “Via dalle tombe!” esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni» (Benedetto Croce, Saggi filosofici, vol. VI: Frammenti di etica, Laterza, Bari 1922, p. 22).

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l’altro durante le quali si udiva lo scalpiccio e il chiacchierio di centinaia di persone che andavano avanti senza più pensare al senso e alla meta di quella passeggiata. Bisognava proprio saperlo ch’era un funerale; certo notevole, a giudicare dalla molta curiosità e dalla poca pietà di quanti stavano sui marciapiedi per godersi il corteo. A uno di questi che teneva un giornale in mano, si accostò Eliseo e, cavandosi il cappello e chiedendo scusa, gli domandò chi fosse il morto. – Il banchiere Manante. S’è ucciso ieri. Non ha visto? E gli spiegava sotto gli occhi il giornale41.

Gli scenari milanesi di Rubé e dei Vivi e i morti, ritratti della città che più di ogni altra, in Italia, mostra i segni della modernizzazione, devono molto agli articoli berlinesi redatti da Borgese fra il 1906 e il 1908: in essi sono spesso racchiusi, infatti, i nuclei iniziali di riflessioni che avranno lungo corso nella sua opera saggistica e narrativa. 3.4. La italienische Reise e il lavoro accademico Nonostante il suo entusiasmo per la bohéme metropolitana, nell’autunno del 1908 Borgese decide comunque, quasi senza preavviso, di tornare in Italia. «[…] mi sono deciso, da quel buon tedesco che sono, a intraprendere la mia italienische Reise»42, scrive a Geiger dalla Svizzera durante il viaggio che lo riporta a casa. Ad attenderlo in Italia ci sono un figlio di cinque anni, Leonardo, la donna che nel giro di pochi mesi diventerà sua moglie e le collaborazioni giornalistiche ormai regolari con «Il Mattino» e con «La Stampa». Borgese si stabilisce inizialmente a Torino, dove entra in contatto con Arturo Farinelli che in questi anni tiene corsi universitari su Goethe e sul Faust: Farinelli avrà un peso decisivo nel fargli ottenere, qualche mese dopo, la cattedra di letteratura tedesca alla Regia Università di Roma, con un concorso per molti aspetti anomalo che scatenerà non poche polemiche43. 41  Giuseppe Antonio Borgese, I vivi e i morti, Mondadori, Milano 1923, pp. 124-125. 42  Lettera di Borgese a Geiger, da Lauterbrunnen (Svizzera), 15 settembre 1908, in Zambon-Geiger Ariè, Benno Geiger e la cultura italiana cit., p. 18. 43  La cattedra affidata a Borgese, una delle prime in Italia di letteratura tedesca, si era resa improvvisamente vacante in seguito alla morte del suo titolare Giacomo

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Con l’inizio dell’attività accademica si apre una nuova fase nella vita di Borgese, che nel 1910 si trasferirà stabilmente a Roma con moglie e figlio. Il ricongiungimento familiare, l’alleviarsi delle preoccupazioni economiche, la convinzione di poter finalmente impiegare le proprie forze in un lavoro appagante e con cui sente allo stesso tempo di rendere «qualche utile servigio»44 al proprio paese, lo mettono in condizione di disporre al meglio delle sue energie, per realizzare quell’ideale goethiano di uomo attivo e “intero”. «Ora, per me, il passato è passato; e vivo piuttosto di futuro, ma soprattutto di presente», scrive ancora a Geiger. «Ho una moglie che amo molto, un bambino che adoro, e molto (forse un po’ troppo) lavoro. Non mi lamento, e vivo»45. L’impegno profuso nell’insegnamento è testimoniato da lettere come questa, ma più ancora dall’entusiasmo degli allievi che – come abbiamo visto con Spaini e Pisaneschi – arrivano da diverse parti d’Italia per seguire i suoi corsi. Borgese diventa un punto di riferimento intellettuale per la generazione più giovane, e attorno alla sua cattedra si radunano aspiranti scrittori, critici e traduttori, sia a Roma sia – dopo l’ulteriore trasferimento del 1917 – a Milano. «Era uno dei migliori e più appassionati scrittori italiani, di straordinario influsso sulla gioventù»46, scriverà Stefan Zweig in Il mondo di ieri, evidenziando, nelle poche righe dedicate a Borgese, proprio il tratto carismatico della sua personalità. In questo contesto il progetto di un libro «unitario e complessivo» su Goethe47, concepito ai tempi delle letture con Geiger e più volte ribadito nelle lettere e nei diari, non riuscirà ad essere portato a termine: ma il suo contenuto viene in qualche Boner, scomparso nel terremoto di Messina del dicembre 1908. Borgese, in questi anni esterno all’accademia, è avversato dalle gerarchie interne ma ottiene il sostegno di molti intellettuali (da Croce ai vociani) che vedono nella sua nomina la vittoria del loro “antiaccademismo”. Sulla vicenda del concorso cfr. Michele Sisto, Nascita di una disciplina. Le prime cattedre di germanistica in Italia (1898-1915), in Id., Traiettorie cit., pp. 155-176 (in particolare p. 164 sgg.). 44  Lettera di Borgese a Geiger, da Alassio, 18 agosto 1910, in Zambon-Geiger Ariè, Benno Geiger e la cultura italiana cit., p. 25. 45  Ibid. 46  Stefan Zweig, Il mondo di ieri, tr. di Lavinia Mazzucchetti, Mondadori, Milano 1954, p. 317. 47 Lettera di Borgese a Geiger, da Roma, 10 aprile 1912, in Zambon-Geiger Ariè, Benno Geiger e la cultura italiana cit., p. 29.

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modo “riversato” in tutte le attività di questi anni, a cominciare proprio dai corsi universitari che, soprattutto all’inizio, hanno costantemente per oggetto le opere goethiane48. In linea con un ideale di vita che non disgiunge mai pensiero e azione, Borgese estende inoltre la sua attività all’ambito editoriale, favorendo la pubblicazione di opere straniere (soprattutto tedesche) attraverso la collana antichi e moderni di Carabba, nella cui realizzazione coinvolge allievi e colleghi49. Anche il lavoro accademico assume così un posto ben definito all’interno del progetto di costruire una cultura italiana più moderna e internazionale, che si interessi tanto di Manzoni e di Foscolo quanto di Novalis, di Goethe e di Hofmannsthal. Nei circa quindici anni in cui lavora come docente di letteratura tedesca, Borgese si occupa infine, com’è ovvio, di scrivere saggi e articoli relativi alla sua disciplina, poi parzialmente raccolti nei tre volumi di La vita e il libro (1913-1915), negli Studi di letterature moderne (1915) e in Ottocento europeo (1927). Gli autori e i temi trattati spaziano dalla letteratura medievale al contemporaneo (verso cui non sembra peraltro nutrire particolare interesse), passando per Schopenhauer e Hebbel, per Heine e Sudermann, per Schiller, Kleist e Chamisso. Il primo atto di questa attività di germanista è la pubblicazione del già menzionato Mefistofele, che racchiude la prolusione inaugurale all’insegnamento universitario (La personalità di Goethe, pronunciata il 15 aprile 1910) e il saggio dal titolo La disfatta di Mefistofele. Al di là delle chiavi di lettura con cui Borgese interpreta il Faust, e che oggi possono in parte apparire superate, fondamentale è in 48  Cfr. ancora le lettere a Geiger, in cui Borgese descrive gli argomenti dei suoi primi corsi (ivi, in particolare pp. 27-28), e i registri delle lezioni tenute presso l’allora Regia Università di Roma (Archivio Storico Sapienza Università di Roma, Attività didattica, Facoltà di Lettere, fasc. G.A. Borgese), in cui i temi trattati sono puntualmente elencati: il suo primo corso, tenuto nella primavera del 1910, è interamente dedicato al Faust (con particolare attenzione al Faust II), mentre quello dell’anno seguente muove dai predecessori di Goethe per culminare con il Werther (alla data del 24 maggio 1911 l’argomento della lezione è «Costruzione e stile del Werther», corsivo di Borgese). Sono inoltre annotate le relazioni tenute dagli allievi, tra i quali figurano Pisaneschi, Spaini e Rodolfo Bottacchiari. 49  Vedi il progetto di includervi la traduzione del Meister (cfr. supra, cap. I, § 1, nota 8) e il caso dell’Ofterdingen di Novalis affidato a Pisaneschi (cap. I, § 3.4).

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questo suo scritto l’insistenza a considerare l’opera come costruzione unitaria, cosa che comporta una particolare attenzione al secondo Faust e al personaggio di Mefistofele, letto come indispensabile gradino dialettico che permette all’opera di espandersi verso una forma progressivamente più complessa. Mettendo in parallelo le scene del primo e del secondo Faust e rifiutando di leggere come semplici “puntelli” gli elementi di raccordo inseriti da Goethe nel passaggio dall’Urfaust alla versione definitiva50, Borgese inizia qui a testare l’efficacia dell’idea di architettura narrativa che troverà piena formulazione negli anni Venti con i saggi di Tempo di edificare. Stabilire questo punto è anzi, in ultima analisi, lo scopo principale del Mefistofele, come l’autore stesso apertamente riconosce nelle pagine conclusive: Bisognava prima di tutto dimostrare che il Faust non è una mostruosa maceria poetica, ove i diamanti splendano fra i calcinacci. Una nozione generale sulla struttura unitaria e sulla volontà occulta del poema è viatico indispensabile a chi vuole tentare la sua strada verso questo, che della poesia moderna è il vertice supremo51.

Con uno di quei gesti perentori che tanto spesso gli avrebbero procurato l’accusa di presunzione e arroganza, Borgese prende così le distanze dalle coeve interpretazioni italiane del Faust, e anziché omaggiare con opportuna deferenza gli studiosi che lo hanno preceduto difende la via da lui seguita come l’unica plausibile. Ma una simile chiusa non poteva che suonare come una dichiarazione di guerra alle orecchie del più importante dei suoi maestri, che tante energie dedicava intanto a distillare la vera poesia dalle incrostazioni della non-poesia: Benedetto Croce.

50  Si veda a titolo di esempio il passo che analizza la celebre scena del dialogo tra Mefistofele e lo studente nello studio di Faust, leggermente modificata da Goethe – ma in modo tale, secondo Borgese, da cambiarne radicalmente il senso – nel passaggio tra l’Urfaust e il Faust (Borgese, Mefistofele cit., pp. 93-97). Il confronto tra le due stesure della scena della “partita doppia” su cui si sofferma Spaini nella sua prefazione al Meister (cfr. supra, cap. I, § 3.3) deve certamente molto a questo modello di analisi. 51  Ivi, p. 162.

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3.5. L’allievo Wagner: Borgese contro Croce Il passaggio critico verso una fase della vita più attiva e matura, che Borgese sente compiersi intorno al 1910, finisce così inevitabilmente per segnare anche la rottura definitiva con quello che era stato il suo mentore, se non in senso stretto il suo maestro. È una rottura che fa gridare all’ingratitudine, poiché Borgese deve gli inizi folgoranti della sua carriera proprio alle lodi che Croce aveva fatto sulla «Critica» dei suoi primi saggi letterari, nonché all’interesse preso da questi alla pubblicazione della sua tesi di laurea. Dei vantaggi di una presunta vicinanza alla linea crociana, che a ragione o a torto aveva individuato in lui il più brillante portavoce di un nuovo spirito intellettuale, antiaccademico e anti-positivistico, Borgese avrebbe inoltre beneficiato fino alla competizione per la cattedra di letteratura tedesca a Roma. Stando alla versione dei fatti da lui fornita, a dare inizio al conflitto è però proprio l’insofferenza di Croce nei confronti del suo buon nome così presto acquisito: «La storia è lunghissima, e gliela racconterò a Palermo esponendole i documenti», scrive allo zio da Monaco, dove si è recato nel settembre del 1910 per preparare i corsi universitari. «Ma, in breve, si riduce a questo. Croce è seccato perché si dice troppo bene di me. Pare impossibile che i grandi uomini siano capaci di così meschine gelosie! Non sapendo più resistere, scrisse e pubblicò in luglio un articolo nel quale parlava, in genere, con sarcasmo di quelli che vogliono superare i maestri»52. 52  Cfr. la lettera del 16 settembre 1910 riportata in Sciascia, Per un ritratto dello scrittore cit., p. 49. L’articolo di Croce cui Borgese allude è Il superamento («La Voce», II, 31, 14 luglio 1910, p. 358), al quale aveva fatto seguito Ancora del “metodo critico” («La Critica», 8, 1910, pp. 39-40), ulteriore invettiva contro gli allievi recalcitranti che, invece di contestare le sue osservazioni sulla letteratura moderna («cosa impossibile»), avrebbero fatto meglio a «svolgere, approfondire e […] considerare da altri punti di vista» gli argomenti da lui studiati (p. 40). Il racconto di Borgese allo zio è confermato da una lettera dell’agosto 1910 conservata tra la corrispondenza di Croce, nella quale il giovane critico chiede al maestro di smentire quello che definisce un «pettegolezzo» circa il loro difficile rapporto (lettera ms. di Borgese a Croce, da Alassio, 28 agosto 1910, Fondazione Biblioteca Benedetto Croce, Archivio di B. Croce, Carteggio, per anno e corrispondente, a. 1910, n. 176): ma Croce, «pur fra le proteste di affetto», gli avrebbe confermato di aver voluto effettivamente alludere a lui (Sciascia, Per un ritratto dello scrittore cit., p. 50).

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È dunque covato da tempo il conflitto che esce allo scoperto alcuni mesi più tardi, quando Borgese pubblica la recensione al saggio di Croce La filosofia di Giambattista Vico, nella quale, pur riconoscendo il valore del libro, contesta il metodo d’indagine adottato dal suo autore53. Strappando la figura di Vico al suo concreto ambiente storico e sociale, Croce si dimostrerebbe infatti incapace di comprendere il «dilemma tragico» del filosofo napoletano, riducendolo a un geniale ma confuso precursore delle proprie teorie. A sostegno dell’argomentazione, Borgese riprende, variandola, l’immagine dello studioso che vuole separare «diamanti» e «calcinacci», finendo col distruggere l’unità organica del suo oggetto: Ecco dunque, in un pugno o in una sporta, tutto l’oro di Vico. Ma la roccia, da cui quell’oro fu estratto, è ancora là, in tutta la sua immensità misteriosa, e la ferita che l’esploratore le inferse non è valsa ad alterarne neppure una linea. Più ci ripensiamo, più ci persuadiamo – con segreto e commosso spavento – che quella roccia vale più di quel pugno o di quella sporta d’oro. Uscendo di metafora, comprendiamo che il còmpito d’un vero storiografo di Vico consisteva nel vedere, nell’interpretare, nel sentire tutta la massa di quella imperiosa personalità e non nel purificarla, nel distillarla, nell’impoverirla insomma54.

Esattamente come nel caso del Faust, non esiste conoscenza che possa passare per una “purificazione”, per l’eliminazione di elementi considerati contingenti. Borgese rifiuta un metodo che decontestualizza e assolutizza uomini e opere, che sente gli es53  Giuseppe Antonio Borgese, G.B. Vico in un libro di B. Croce, «La Stampa», 10 aprile 1911, p. 3 (uscito anche sul «Mattino» del 13-14 aprile). Croce replica con lo scritto Pretese di bella letteratura nella storia della filosofia («La Critica», 9, 1911, pp. 223-229), a cui Borgese ribatte nuovamente in Croce e Vico, Croce e i giovani («La Cultura Contemporanea», IV, 3-4, marzo-aprile 1912). I due scritti di Borgese saranno poi inclusi dall’autore in La vita e il libro. Terza serie, Bocca, Torino 1913, pp. 325-399. A proposito di questo episodio cfr. Riccardo Scrivano, Borgese critico, in Letteratura italiana, dir. da Gianni Grana, vol. III: I critici, Marzorati, Milano 1976, pp. 234-226; e Mario Sansone, Croce e Borgese, in Santangelo, G. A. Borgese. La figura e l’opera cit., pp. 113-134, che tuttavia, nonostante le dichiarazioni di equanimità, si basa essenzialmente sul resoconto che si legge in Benedetto Croce, Pagine sparse raccolte da G. Castellano. Serie prima: Pagine di letteratura e di cultura, Ricciardi, Napoli 1919, pp. 323-328. 54 Borgese, La vita e il libro. Terza serie cit., p. 331.

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seri viventi come «risultati» anziché «come forze meritevoli che crescono, si modificano, periscono, si eternano nel flutto della vita»: quella che cerca è una filosofia capace di rendere conto del tempo, della contingenza, delle “macerie”, ovvero di quello «stadio intermedio» che esiste «tra i concetti universali e i fenomeni individuali» e che per Croce non sembra meritare alcuna attenzione55. Sono i primi passi in direzione di un’estetica che Borgese non formulerà mai compiutamente, ma che inizia a prendere forma negli scritti di questi anni, a cominciare da Critica del concetto di originalità nell’arte, la memoria da lui pronunciata nel 1908 in occasione del Congresso filosofico di Heidelberg al quale anche Croce aveva preso parte56. Nel seguire le tracce del conflitto tra Croce e Borgese, dunque, è essenziale tener conto di questa radicale differenza nel modo di intendere il concetto stesso di estetica: pur rimanendo fedele a importanti acquisizioni del pensiero crociano (per esempio rispetto al concetto di autonomia dell’arte57), Borgese inclinerà sempre più convintamente in direzione di un’estetica di stampo kantiano, soprattutto dopo il trasferimento a Milano e l’intensificarsi del legame con Piero Martinetti, che avrà un ruolo decisivo nella sua nomina alla cattedra milanese di estetica e al quale, significativamente, sono dedicati i saggi di Poetica dell’unità58. Intorno al 1910, tuttavia, 55 

Ivi, p. 330. Giuseppe Antonio Borgese, Critica al concetto di originalità nell’arte, Sonderabdruck aus den Verhandlungen des III. Internationalen Kongresses für Philosophie, Carl Winter, Heidelberg 1908, poi con il titolo Personalità e stile in Id., Poetica dell’unità cit., pp. 1-20. Allo stesso convegno Croce era intervenuto con un intervento dal titolo L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte. 57  L’idea che il discorso critico «non debba essere mescolato a considerazioni politiche, sociali o morali» è senza dubbio uno dei «temi crociani che Borgese riprende consapevolmente o raggiunge d’istinto in un’epoca di cui Croce forma o riassume il gusto» (cfr. Luciano Parisi, Borgese, Tirrenia Stampatori, Torino 2000, p. 17). 58 Borgese, Poetica dell’unità cit., p. XIII: «Questo scritto piacque al Martinetti: credo la maggior mente filosofica dell’Italia d’oggi. Del permesso, ch’egli allora mi diede, di dedicare al suo nome tutto il libro, mi valgo come di un raro onore». Piero Martinetti, docente di filosofia morale all’Accademia scientifico-letteraria di Milano (dal 1923 Regia Università degli Studi), aveva sostenuto con convinzione il passaggio di Borgese dalla cattedra di letteratura tedesca a quella di estetica, e negli interventi in suo favore aveva valorizzato in particolare la riflessione da lui formulata in Critica del concetto di originalità nell’arte e nelle lezioni dell’a.a. 1919-1920, dedicate ancora al Faust di Goethe (cfr. il verbale ms. della seduta del Consiglio di Facoltà da56 

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non sono ancora divergenze teoriche così esplicite a determinare la rottura tra lui e Croce, quanto piuttosto il basilare diritto che Borgese ritiene di avere – come rivendica in una lettera inedita a Prezzolini – a non «officiare» il credo crociano: Il libro sul Vico pecca dal lato morale: o è un’imposizione oltrecotante dello storico sul personaggio della sua storia, in modo che nulla lo interessa nel Vico se non ciò che lo fa precursore del sistema morale. Avrei dovuto tacere del libro, poiché non mi entusiasmava: e di quest’umile subordinazione avevo dato prove al Croce, numerose e qualcuna tu la conosci. Ma il Croce stesso – in un modo che ti narrerò – mi mise e si mise in una situazione falsa. Purtroppo egli è divenuto un poco intemperante e smanioso. Manca ormai di liberalità e rinunzia volentieri a capire l’anima e la vita altrui. Dispiace anche a me la polemica che seguirà: sono sicuro ch’egli mi ferirà crudelmente e che, tra risposte e controrisposte, si andrà molto in là. Ma ho la coscienza abbastanza tranquilla: so d’averlo amato, so di rispettarlo e di ammirarlo, so di aver tollerato – con pazienza in un temperamento come il mio quasi incredibile – molte cose spiacevoli. Credevo che la polemica carducciana gli avesse insegnato a distinguere, a capire, a tollerare. M’ingannavo. Inutile aggiungere che non ti dico queste cose per persuaderti. Sono anche cose dette male e confusamente. Ma dovevo in un modo qualunque rispondere a quelle tue parole così leali e anche un po’ accorate. L’errore è credere che io sia nato per divulgare Croce e, se non faccio questo, che mi voglia ribellare per affermare la mia personalità e (risum teneatis!) per contrappormi a Croce! Il vero è che io, con le mie piccole forze, né coincido col Croce, né lo contrasto. Sono qualche cosa di diverso. La liaison fu fondata su ragioni serie, ma anche su equivoci innumerevoli. Il Croce, tato 30 aprile 1924 e firmato da Martinetti e Giuseppe Zuccante, conservato presso l’Università degli Studi di Milano, Apice, Archivio storico, Archivio proprio, Ufficio personale, Fascicoli del personale cessato, fasc. n. 466 Borgese Giuseppe Antonio). La vicinanza di Borgese al pensiero di Martinetti ha ricevuto un’attenzione molto minore rispetto al rapporto con Croce nelle ricostruzioni successive, che tendono a misurare e giudicare la sua riflessione sul metro dell’estetica crociana (cfr. Paolo D’Angelo, Un transfuga del crocianesimo: Giuseppe Antonio Borgese, in Id., L’estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 134-141). Borgese era del resto ben consapevole del fatto che in Italia non fosse possibile parlare di “estetica” al di fuori dell’Estetica di Croce (cfr. Poetica dell’unità cit., p. VIII): la sua vicinanza al filone neokantiano e a pensatori come Hermann Cohen o Ernst Cassirer, rivelatasi «un vicolo cieco» tanto nell’Italia fascista che in quella post-fascista, è stata infatti considerata tra le concause della sua rimozione dal canone letterario (cfr. in proposito Massimo Onofri, Il caso Borgese in Id., La modernità infelice, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni 2003, in particolare pp. 26-30).

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per vedermi come voleva, si figurò un Borgese a modo suo: tutto ragione e critica di quella data specie; e, dopo esserselo figurato a quel modo, lo volle anche realizzare a quel modo. Io – un po’ per vanità, un po’ per ammirazione, un po’ per entusiasmo di rispetto e d’amicizia e poi per gratitudine e poi per disordine e poi per debolezza – lasciai fare, chiusi gli occhi anch’io, prorogai ecc. ecc. C’era un errore di persona; errore non senza colpa morale (colpa del Croce e colpa mia). La liaison era fondata sopra un compromesso e una reciproca bugia: era dangereuse. Ma, dopo l’art. del superamento, scrissi alcune lettere molto leali e calorose al Croce: era il momento giusto per separarci virilmente con una bella stretta di mano, per riconoscere l’errore, per restare amici, per continuare a lavorare, – egli grande, io piccolo – ciascuno con le sue forze, col suo metodo, per vie diverse, che – come tu dicesti magnificamente nella tua risposta ai nazionalisti – finiscono poi sempre per confluire. Non fu possibile. Da quando ha finito il Sistema, Croce grande educatore va diventando pedagogo. Ti leggerò un giorno quelle mie lettere e le sue risposte. Tu hai una sensibilità morale che ti farà giusto anche verso di me. Ora la rottura sarà dolorosa per l’uno e per l’altro. Credi pure, caro Prezzolini, che voglio dominarmi, che vorrei che anch’egli si dominasse e che, a nessun costo, voglio trascendere contro un uomo ch’io so grande59.

Agli occhi di Borgese, Croce non è (o non è più) un dialettico, ma un maestro che tende a diventare «pedagogo», a irrigidirsi sulle proprie posizioni: sotto la sua egida non è dunque più possibile sviluppare una strada autonoma, come quella che Borgese sta appunto cercando adesso di costruire. La polemica, come giustamente intuisce, andrà per le lunghe60, e negli anni immediatamente successivi si consumerà in gran parte sul ter59  Lettera ms. di Borgese a Prezzolini, da Roma, 2 maggio 1911 (Archivio Prezzolini, fasc. Borgese, I., n. 49, corsivi dell’autore). Si veda inoltre la lettera inviata a Gentile il 13 giugno 1921, all’indomani dell’uscita di Rubé, nella quale il conflitto con Croce viene ricondotto anche al tentativo di quest’ultimo di indirizzarlo esclusivamente verso la critica, scoraggiando le sue aspirazioni di scrittore (cfr. Giuseppe Antonio Borgese, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di Giuliana Stentella Petrarchini, Archivio Guido Izzi, Roma 1998, pp. 106-108). 60  Il conflitto non si esaurirà infatti neanche con la sua partenza per gli Stati Uniti: stoccate più o meno esplicite da parte di Croce continuano negli anni successivi (cfr. ad esempio l’articolo Vittorio Imbriani: contro l’ammirazione convenzionale per la Germania e la sua letteratura, «La Critica», 30, 1932, pp. 95-108, in particolare la nota 3 a p. 96), e gli attacchi che Borgese lancerà dagli Stati Uniti contro gli intellettuali italiani contribuiranno a esasperare le posizioni di entrambi. La corrispondenza tra i due si protrarrà tuttavia fino al 1936.

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reno dell’interpretazione goethiana, in forme indirette ma non per questo meno aspre. Goethe diventa un campo di battaglia su cui testare la validità delle proprie interpretazioni, del proprio “sistema”, proprio perché è a lui che viene ormai riconosciuto il ruolo di «comune maestro di tutti i moderni»61. Un esempio di questo conflitto a distanza è la diversa interpretazione del personaggio di Wagner, l’assistente di Faust che nutre una fiducia incondizionata nella scienza ma che, a differenza del maestro, sa creare con la sua erudizione soltanto forme prive di vita (l’“homunculus” del Faust II). Nel Mefistofele, quasi presagendo lo scontento che il suo lavoro è destinato a suscitare, Borgese rimarca come il servilismo, l’ignoranza e la malcelata superbia dell’allievo Wagner non facciano che esasperare il suo maestro e muovere a «compassionevole riso» il lettore62: questa, sembra dire, la sorte degli allievi troppo obbedienti. E Croce, quando quasi dieci anni dopo darà alle stampe il suo Goethe, non si limiterà a criticare l’ex-allievo prediletto dedicando al suo lavoro una pagina di stroncatura (senza peraltro farne il nome)63: in più punti del libro troviamo allusioni e commenti che si richiamano polemicamente al Mefistofele, così che, pur senza esservi mai nominato, Borgese finisce per essere l’interlocutore più presente dell’opera. Al «pedante Wagner» – verso cui afferma di nutrire «una certa tenerezza»64 – Croce dedica 61 Borgese,

Mefistofele cit., p. 68. Ivi, pp. 115-116. Da notare come poche pagine prima Borgese riservi un giudizio simile a Imbriani, che gli appare, «non ostante il suo fervidissimo ingegno, scolaro di quelli che non fanno progredire le dottrine del grande maestro, anzi le cristallizzano in una applicazione fedele, e gretta, qualche volta» (p. 105; il “grande maestro” è qui naturalmente Francesco De Sanctis, che fu professore di Imbriani a Zurigo). 63 Nell’Appendice al volume, intitolata Il Goethe e la critica italiana, Croce passa in rassegna i saggi goethiani di Mazzini, De Sanctis, Imbriani, Canello, Trezza, Nencioni, Panzacchi, Zumbini, Kerbaker, Curto, Foà, Farinelli e Gabetti, dedicando infine qualche riga generica alla «critica enfatica e decadentistica, sofistica e superficiale, accalorata e gelida, che negli ultimi anni si è compiaciuta di esercitarsi presso di noi anche sul Goethe, dilettandosi nell’annunziarlo “genio ancora incompreso”, ed esaltando la seconda parte del Faust come opera di sublime “trascendentalità”, e trattandola ora come “nevoso picco di montagna” ed ora come “fascio di raggi ultravioletti”, e simili» (Croce, Goethe cit., p. 141). L’esaltazione della seconda parte del Faust, così come il paragone tra certe arditezze espressive e i picchi montani, comparivano appunto nel saggio di Borgese. 64 Croce, Goethe cit., p. 24. 62 

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addirittura un intero capitolo, descrivendolo come un personaggio certo non brillante ma positivo e umano, «a volte finanche interessante e commovente»65. Ai suoi occhi Wagner è insomma, nonostante tutto, il prototipo dell’allievo ideale, che «non si è lasciato inorgoglire dalla fama acquistata; e venera sempre la memoria del suo antico maestro e padrone»66. Se le lettere di Borgese allo zio potevano far sospettare un eccesso di presunzione da parte sua, queste parole confermano a distanza di anni come il reale nodo del conflitto fra maestro e allievo risiedesse effettivamente nel timore di un “superamento”. La frase che loda l’allievo Wagner non è l’unica frecciata rivolta a Borgese. I riferimenti polemici al Mefistofele affiorano soprattutto nei passi relativi alla questione dell’unitarietà o non-unitarietà del Faust e alla legittimità di un metodo di studio analitico – quello crociano – che non deve aver alcun timore di distruggere l’organismo creato dal poeta, perché tale organismo, semplicemente, non esiste67. Croce torna a sottolineare la mancanza di continuità tra il primo e il secondo Faust68 e la presenza di «pezzi di saldatura» interposti fra le parti autenticamente poetiche69, fino a suggerire che il modo migliore di leggere il poema sia quello di «aprirlo or qua or là»70. «Si vede da ciò che si è detto», conclude infine «quanta poca importanza abbiano gli sforzi di coloro che scrutano e interpretano ogni scena e ogni particolare con l’intento di scoprirvi e mettere in chiaro il disegno e l’unità dell’opera»71. Il rifiuto della lettura data dall’allievo Borgese è totale, e non c’è dunque da stupirsi se nel descrivere la fine di quest’amicizia lo scrittore siciliano affermasse, non senza una certa ironia mefistofelica, di essersi sentito cacciato, «come un nero angelo ribelle, dai culmini del paradiso crociano»72. 65 

Ivi, p. 28. p. 32. Il suo esatto opposto è, per Croce, l’apprendista stregone (alias «l’alunno di magia»), la cui vicenda «si potrebbe volgere ad apologo contro tutti i mal destri scolari e imitatori, in iscienza, in arte, in politica e dappertutto» (p. 207). 67  Ivi, p. 52. 68  Ivi, p. 112. 69  Ivi, p. 50. 70  Ivi, p. 119. 71  Ivi, p. 116. 72 Borgese, Poetica dell’unità cit., p. 90. 66 Ivi,

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4. Romanzo e costruzione All’altezza del 1910, per quanto a fatica, Borgese si è dunque distaccato dai maestri e dai modelli della sua giovinezza e, forte del riconoscimento ottenuto nei diversi campi della sua attività, si avvia a elaborare una poetica autonoma. È appunto verso un’idea di poetica – più che di estetica – che lo scrittore tenderà ad orientarsi, poiché mentre quest’ultima «piena e quasi intrisa di pura sensibilità, di sensorialità, sembra incoraggiare col suo stesso suono le decadenze», la prima gli appare più «legata all’idea di creare, di fare»73. Per tutto il ventennio successivo, fino alla sua partenza per gli Stati Uniti, Borgese si occuperà dunque di creare e di fare, in tutti i contesti che risulteranno alla sua portata. Sono gli anni difficili della prima guerra mondiale, e quelli non meno complicati del dopoguerra. Nell’Italia che si dibatte tra opzioni di modernità antitetiche e che ben presto imboccherà la strada del fascismo, Borgese si trova a ricoprire incarichi di sempre maggiore responsabilità, nella convinzione che sia necessario, e persino doveroso, prendere parte alla costruzione dell’Italia postbellica. Una lettera inviata a Prezzolini a proposito del comune amico Andrea Caffi, che Borgese ha per due volte raccomandato come giornalista al «Corriere» e che per due volte è sparito nel nulla, è sintomatica dei sentimenti da lui nutriti in questa fase. Pur apprezzando l’intelligenza di Caffi, infatti, Borgese non riesce a giustificare la sua inaffidabilità e la sua incapacità di integrarsi in una qualsivoglia struttura: «L’essenziale», afferma «è che, se si vuole agire, bisogna ingranarsi negli organismi esistenti»74. Negli anni fra le due guerre pochi intellettuali italiani possono in effetti dirsi “ingranati” quanto lui nelle strutture esistenti – accademia, giornali, editoria –, e dall’interno di esse continua ad agire fino al momento in cui il compromesso con il fascismo non gli apparirà intollerabile. In questo lasso di tempo la sua attività conosce due fasi principali: una che si 73 

Ivi, p. 15. ms. di Borgese a Prezzolini, da Milano, 21 maggio 1919 (Archivio Prezzolini, fasc. Borgese, I., n. 71). 74  Lettera

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esprime ancora principalmente attraverso il canale della critica letteraria, e che culminerà nei saggi di Tempo di edificare; e una seconda che va dalla pubblicazione di Rubé alla partenza per gli Stati Uniti, caratterizzata invece dalla prevalenza del lavoro creativo di romanziere e drammaturgo. Nella riflessione teorica Borgese pone gli artisti della sua generazione di fronte alla necessità di «edificare», di fornire alla dispersione del dopoguerra una risposta artistica costruttiva che rifiuti il «frammentismo» e il «calligrafismo» dominanti nel decennio precedente, e da molti considerati ancora l’unica forma legittima di arte. Nell’elaborare questa poetica di ricostruzione, i cui primi segnali, come abbiamo visto, si lasciano individuare già nel Mefistofele, gioca un ruolo fondamentale il suo trasferimento a Milano (1918), che contribuisce ad accrescere la sua notorietà e ad avvicinarlo al mondo dell’editoria di massa. A Milano si intensifica infatti la sua collaborazione al «Corriere della Sera», iniziata nel 1912, grazie alla quale diventa una delle penne più autorevoli del panorama critico contemporaneo, sia nel campo della politica che in quello più strettamente letterario. Dalle colonne del «Corriere» Borgese promuove scrittori esordienti e crea interesse intorno alle opere del momento, presentandole al grande pubblico ma riuscendo anche – cosa di non minor conto – a imporle all’attenzione dei letterati “puri” che lo accusano di «imbestiare così quel suo ingegnaccio»75. Scrive dei successi letterari di Guido da Verona e di Dario Niccodemi senza lo snobismo dei suoi colleghi fiorentini o romani, e anzi quasi con un certo gusto nel disobbedire ai dogmi letterari in voga: «non posso sottomettermi, egregi amici, alle scomuniche minori o maggiori con cui vorreste vietarmi di parlare di letteratura milanese»76. Milano, nel primo dopoguerra, è infatti già 75 Le letture che Borgese dichiara di fare in questi anni (Antonelli, Mariani, Calzini, Gino Rocca, Salvator Gotta, ma anche Pirandello) scandalizzano in particolare i redattori della «Ronda», secondo i quali «la qualità di “scrittore geniale” e la popolarità milanese son cose che si pagano a cotesti prezzi di sangue» (Parevami d’essere in una villetta, «La Ronda», II, 3, marzo 1920, pp. 219-220, qui p. 220). 76  Giuseppe Antonio Borgese, Tempo di edificare [1923], ristampa anastatica a cura di Massimo Rizzante, Editrice Università degli Studi di Trento, Trento 2008, p. 102 [110]. Nello stesso saggio Borgese ironizza su come, subito dopo il suo trasferimento nella capitale, «svillaneggiare Roma» fosse di moda tra gli intellettuali del

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sinonimo di editoria di massa e la determinazione con cui Borgese insiste nel cercare una cinghia di trasmissione che concili “commercio e letteratura” è decisamente minoritaria nel panorama del tempo, nel quale gli scrittori cercano piuttosto di ritagliarsi uno spazio sempre più orgogliosamente impermeabile agli «intrugli mercantili»77. Con alle spalle l’esperienza di direttore di collana accumulata con antichi e moderni, invece, Borgese si avvicina prima al maggior editore letterario d’Italia, Treves, presso il quale pubblica molte delle sue opere, e poi ad Arnoldo Mondadori, destinato a diventare di lì a poco protagonista incontrastato della scena editoriale: per lui si occupa dell’edizione delle opere di Federico Tozzi, ripubblica il Rubé precedentemente uscito da Treves e progetta la più importante delle sue imprese editoriali, la biblioteca romantica78. La rivoluzione letteraria che Borgese auspica, e che scuoterà la gerarchia vigente dei generi letterari ponendo al vertice il romanzo, avverrà in realtà solo un decennio più tardi, anche grazie all’“intrusione” massiccia delle logiche dell’editoria di massa79: ma Borgese sembra già intuirlo all’inizio degli anni Venti, quando a sostegno della sua visione anti-frammentista cita uno dei futuri protagonisti di quella stagione, Gian Dàuli. «Secondo Gian Dàuli», scrive infatti nel dicembre del 1921 «la letteratura di domani “s’accorgerà che v’è nel mondo un dramma più vasto e più interessante del dramma del proprio io in rapporto alla donna o all’arte”»80. In attesa di questo domani, Borgese si occupa intanto di fare piazza pulita dei pregiudizi che, dall’inizio del secolo, hanno portato la letteratura italiana a rifiutare il romanzo a favore di «un lirismo un po’ squallido e un po’ esibizionista»81, incapace di porre i contemporanei di fronte a una rappresentazione obiettiva del proprio presente. È al Pascoli del saggio sul fanciullino che Borgese fa risalire il disprezzo per l’«arte applicata» – quella dei momento (fa i nomi di Papini e Prezzolini), che poi vi si sarebbero trapiantati tutti alla spicciolata. Lo stesso destino toccherebbe adesso a Milano, destinata dunque, secondo le sue previsioni, a diventare la vera capitale della cultura italiana. 77  Ivi, p. 85 [93]. 78  Su cui cfr. infra, cap. II, § 8. 79 Cfr. infra, cap. III, § 1.3. 80 Borgese, Tempo di edificare cit., p. 254 [262]. 81  Ivi, p. 46 [54].

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grandi poemi, dei grandi drammi, dei grandi romanzi –, un’arte che racchiuderebbe in sé ben poca «poesia pura», così come il mare racchiude ben poche perle: E allora, pensarono i letterati, o perché non ci mettiamo a fare poesia pura e basta? Poi sopraggiunse Croce, e, paragonando anch’egli la poesia al bel fanciulletto che sta sul gradino infimo della scala spirituale, disse che “un gran poema potrebbe contrarsi tutto in un’esclamazione di gioia, di dolore, di ammirazione di rimpianto”. E allora, pensarono, perché non mettersi a fare esclamazioni, a pronunciare parole dapprincipio in libertà provvisoria e dopo, via via che si siano abituate all’aria, libere addirittura?82

In questa breve “controstoria” della letteratura italiana, in cui Pascoli, Croce, frammentisti e futuristi rappresenterebbero altrettante tappe di una visione che culmina in una «ars poetica dell’innocenza interiettiva»83, Borgese tratteggia le ragioni del rifiuto del romanzo e di tutti i generi letterari colpevoli di costruire una trama o di dare vita a un personaggio. Ma è sua convinzione che i dogmi imposti dagli «ateniesi»84 – ovvero gli intellettuali fiorentini con la loro colonia romana – stiano ormai perdendo di forza. Che parli delle costruzioni narrative di Verga, della tecnica descrittiva di Tozzi o degli agili dialoghi di Guido da Verona, Borgese ribadisce come lo scrivere romanzi, a lungo considerato «una scelleratezza contro le Muse», stia adesso rispondendo ai bisogni di una nuova società, che non si sente più rappresentata da frammenti e interiezioni e che preferisce cercare se stessa in una letteratura concreta, sebbene spesso di bassa lega: e a suo parere «merita indulgenza la modesta cialtroneria di chi presenta uno specchio, seppur torbido, a sé medesimo e ai suoi contemporanei e scrive libri scomposti ma che almeno riescono ad accendere un qualche barlume d’emozione»85. L’aumento dell’interesse per le forme di scrittura romanzesche è il segno di un nuovo modo di sentire che secondo Borgese si sta già imponendo all’inizio degli 82 

Ivi, pp. 80-81 [88-89]. Ivi, p. 81 [89], osservazioni analoghe sono ribadite e a p. 190 [198]. Una linea alternativa, tutta improntata invece a un’idea di costruzione, verrà sistematizzata da Borgese nel saggio Il senso della letteratura italiana (Treves, Milano 1931). 84 Borgese, Tempo di edificare cit., p. 72 [80]. 85  Ivi, p. 250 [258].

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anni Venti: «Sintesi, architettura, libro: queste le parole con cui approssimativamente si può contrassegnare il nuovo gusto»86. L’ideale ricostruttivo di Borgese ha dunque una doppia radice. Da un lato una radice “materiale”, ancorata al contesto storico e sociale in cui si sviluppa: Milano, il nascente mondo dell’editoria di massa, la redazione culturale del «Corriere», un ambiente insomma che spinge lo scrittore a riconsiderare con distacco quello fiorentino e romano della sua formazione, con i suoi dogmi e la sua fede nell’“arte pura”. Dall’altro, è evidente che l’approdo di Borgese al romanzo è anche l’esito di una riflessione poetica di lungo corso, che in polemica col concetto crociano di estetica cerca di agganciare il mondo fenomenico ad un’unità trascendente. «Tra i concetti universali e i fenomeni individuali, Croce non sente stadio intermedio»87, rimproverava Borgese al maestro di un tempo, e identificava il principio di questa incomprensione in un metodo critico tutto volto a distinguere e a separare «ciò che è vivo» da «ciò che è morto» (in Hegel), i «diamanti» dai «calcinacci» (nel Faust), «l’oro» dalla «pietra» (in Vico), un metodo che – come si esplicita in Tempo di edificare – derivava a sua volta dalla convinzione pascoliana di dover estrarre, come le perle dal mare, la «poesia pura» dall’«arte applicata». La forza dell’opera d’arte, per Borgese, risiede al contrario proprio nella capacità dialettica di tenere insieme diamanti e calcinacci, di “superare conservando” il dilemma tragico che caratterizza la condizione dell’uomo nella modernità. «Quella contraddizione è tutto Vico, come il dissidio fra la riflessione e la passione è tutto Amleto, come il dissidio fra l’uno e l’altro dovere filiale è tutto Oreste»88: in questa serie di esempi, che trapassano impercettibilmente dal mondo degli uomini a quello dei personaggi di fantasia, è forse già leggibile il desiderio di Borgese di sganciarsi dall’ambito della riflessione filosofica per entrare nei territori della scrittura di finzione. La vicenda tragica che lega Vico alla sua epoca – aggiunge infatti poco dopo – avrebbe dovuto essere «materia di epica e drammatica storia»89. Ormai, per lui, è solo

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Ivi, p. 255 [263]. G.B. Vico in un libro di B. Croce cit., p. 330. 88  Ivi, p. 331. 89  Ivi, p. 332. 87 Borgese,

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attraverso la rappresentazione artistica che è possibile comprendere e dare ragione del mondo «intermedio», poiché nessuna intuizione umana si concretizza in espressione se non passando attraverso gesti reali, fatti, discorsi, dialoghi – attraverso, come scriverà Debenedetti, «una serie di atti corpulenti» visibili agli occhi e non soltanto accessibili alla mente90. La più diretta risposta di Borgese all’estetica crociana è insomma nella sua poetica (e pratica) del romanzo, inteso come genere letterario specifico dotato di proprie tecniche compositive e dunque strutturalmente incompatibile con le “regole dell’arte” stabilite da Croce. 5. Il diritto a scrivere male Tempo di edificare si apre con la lapidaria affermazione di Borgese secondo cui il libro segnerebbe la conclusione della sua attività di critico letterario. Questa fase del suo lavoro, iniziata come lui stesso indica intorno al 1910, cederebbe ora il passo a un periodo di edificazione, ovvero di concreta attività creativa nel campo della scrittura romanzesca e drammatica. Secondo la sua diagnosi, infatti, si è ormai aperta una nuova epoca interessata alle «costruzioni robuste» e ai «problemi seri»91, e gli intellettuali della sua generazione sono chiamati a prendervi parte anche in quanto scrittori. È assai curioso che Borgese dia per conclusa nel 1923 una partita che, nei fatti, è ancora tutta da giocare. Come ricordato nel paragrafo precedente, infatti, un’autentica rivalutazione del genere romanzo non si avrà che all’inizio degli anni Trenta, quando l’editoria di massa – che cerca nel romanzo il modo di soddisfare le crescenti richieste di un nuovo e più vario pubblico 90  «Il romanzo fa veder dentro, nei personaggi e nell’uomo, attraverso una serie di atti corpulenti, non nella parola lirica che si immedesima da sola con l’evento interiore, senza bisogno di articolare gli atti, i gesti, i discorsi, i dialoghi, i fatti attraverso cui l’evento interiore si manifesta nella vita; e poi non fa soltanto vedere lo “spirito” […] fa vedere il fisico, la psiche in tutta la loro forza di dimostrare l’uomo preso nelle spire di un destino: ed è costretto, il romanzo, a svilupparsi attraverso la rappresentazione, visibile agli occhi e non soltanto accessibile alla mente» (Debenedetti, Il romanzo del Novecento cit., p. 24). 91 Borgese, Tempo di edificare cit., p. 256 [264].

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di lettori – e il governo fascista – che lo ritiene, almeno per alcuni anni, il terreno ideale su cui costruire l’immagine di una nuova identità italiana – investiranno concretamente nel suo sviluppo, destinandogli risorse (finanziamenti, sovvenzioni, premi) e incoraggiando la discussione pubblica intorno ad esso. Gli anni Venti sono ancora un decennio di fermento in cui estimatori e detrattori si fronteggiano, e in cui gli stessi estimatori hanno idee profondamente diverse su cosa sia un “buon romanzo” e su come debba essere scritto. E come era accaduto dieci anni prima con la traduzione del Wilhelm Meister, anche stavolta la riflessione sul romanzo è un modo per mettere a confronto opzioni antitetiche di modernità, le stesse che la società italiana vede fiorire in ambito politico, culturale, economico, e che verranno progressivamente eliminate dal disegno totalitario del fascismo. Se esaminiamo il trattamento riservato dalle riviste dell’epoca agli scrittori che Borgese ritiene ormai riconosciuti come maestri da qualsiasi «letterato rispettabile»92 – Manzoni, Verga, il Pirandello romanziere, Tozzi – dobbiamo infatti ammettere che il giudizio complessivo è assai oscillante. Decisamente scarso, poi, è il favore raccolto da scrittori più commerciali come Guido da Verona o Dario Niccodemi, a cui Borgese riconosce invece la rara dote di saper costruire solide strutture narrative. I letterati puri che negli anni Venti continuano a essere riconosciuti come i soli legittimi, e che Borgese chiama polemicamente «calligrafi»93, insistono a estromettere i romanzieri dalla cittadella delle lettere per un motivo assai preciso e squisitamente tecnico: Verga, Pirandello, Tozzi, lo stesso Borgese – ma anche Svevo, Dostoevskij, Stendhal – scrivono male. Si tratta di una critica che è tanto più efficace quanto più rimane evanescente nelle sue determinazioni: a un vero letterato non c’è neanche bisogno di spiegare cosa non vada nella prosa di un Pirandello o di un Borgese, ed è evidente come preconcetti del genere riescano facilmente a concretizzarsi in una vera e propria «tradizione di sorveglianza»94. 92 

Ivi, p. 33 [41]. Ivi, soprattutto alle pp. 143-144 [151-152]. 94  L’espressione «tradition de surveillance» è di Jérôme Meizoz, che in Le droit de «mal écrire» (a cui questo paragrafo è fortemente debitore) esamina, a partire dal caso francofono, come l’ingiunzione intimidatoria dei critici a “scrivere bene” generi 93 

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Borgese insomma sa benissimo che gli autori da lui inclusi in Tempo di edificare tracciano una linea tutt’altro che condivisa dai letterati italiani. Se un certo consenso esiste intorno alla figura di Manzoni95, già con Verga non accade lo stesso, tanto che Borgese si chiede esplicitamente perché un autore del suo calibro non sia ancora letto come un classico: Perché? Qualcuno dice perché Verga scrive male. Vedo che questo è il più tenace fra gli errori critici intorno a Verga. Anche fra quelli che lo ammirano come grande scrittore (e lo ammirano tutti) non manca neppur oggi chi ripeta che Verga è un grande scrittore, sì, ma scrive male. Questa contraddizione in termini non è ammessa per nessun’altra arte, non si dice mai che un grande pittore dipinge male. Ma è ammessa in letteratura96.

meccanismi di sorveglianza e auto-sorveglianza negli scrittori: «Je propose de nommer tradition de surveillance (Ramuz parle de «système d’intimidation») l’ensemble des injonctions et rappels à l’ordre du genre «dites/ne dites pas» qui s’exercent sur les écrivains francophones, tant par le biais de la critique française (surveillance) que suisse (autosurveillance)» (Jérôme Meizoz, Le droit de «mal écrire». Trois cas helvétiques (xviiième-xxème siècle), «Actes de la Recherche en Sciences Sociales», 111-112, 1996, pp. 92-109, qui p. 94). 95  Già saldamente inserito nei programmi scolastici, anche il Manzoni romanziere conosce comunque a partire dagli anni Venti una rinnovata fortuna: non ultimo grazie al centenario dei Promessi Sposi, che per molti scrittori della nuova generazione rappresenta l’occasione di vincere le proprie resistenze e riscoprirne la grandezza «d’accordo coi professori delle scuole medie» (così ad esempio Umberto Barbaro, su cui cfr. infra, cap. III, § 3.2). Sul ruolo di Manzoni per Borgese cfr. Giuseppe Langella, Borgese e Manzoni, «Aevum», LX, 3, settembre-dicembre 1986, pp. 397-414; Luciano Parisi, Borgese e Manzoni (1997) in Id., Borgese cit., e Raffaello Palumbo Mosca, L’ombra di Don Alessandro. Manzoni nel Novecento, Inschibboleth, Roma 2020, pp. 47-73. Per quanto precoci e significative siano le letture manzoniane di Borgese, non si può comunque far a meno di notare come persino l’autore dei Promessi sposi venga infine filtrato dalla lente interpretativa goethiana, che porta Borgese a paragonare l’Innominato a Faust (Studi di letterature moderne, Treves, Milano 1915, p. 45), e a scrivere che il suo creatore «potrebb’essere un Goethe» (Il senso della letteratura italiana cit., p. 55). 96 Borgese, Tempo di edificare cit., p. 12 [20], questione che torna anche a p. 72 [80] («Il Verga, di cui per molto tempo gli ateniesi si sbrigarono sentenziando che scrive male...», corsivo dell’autore). Albonetti (Trafile di romanzi cit., pp. 26-27) ricorda in effetti che a quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione un romanzo come I Malavoglia aveva venduto circa 8000 copie, a fronte delle 70.000 che la Storia di Cristo di Papini aveva venduto nel solo 1921. Solo sul finire degli anni Trenta, infatti, Verga entrerà «nel giro delle buone tirature» (Enrico Decleva, Arnoldo Mondadori [1993], UTET, Torino 2007, p. 233).

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Un giudizio analogo era quello che la critica dava in genere dei romanzi di Pirandello, considerati sullo stesso piano di quelli di Luciano Zuccoli o Mario Mariani (anche perché pubblicati nelle stesse collane): lungi dal dar voce a un’opinione condivisa, dunque, anche in questo caso Borgese è semmai uno dei primi critici italiani a dedicare attenzione al Pirandello del Fu Mattia Pascal97. Del Tozzi romanziere poi, che intanto veniva stroncato sulla «Ronda»98, parla come del più interessante fra i contemporanei, mettendo in evidenza la qualità della sua scrittura («la potenza di quella lingua comune, modesta e onesta nel lessico e ricca nella sintassi ed elastica nelle giunture […] raggiunta dai grandi classici nella prima metà del secolo XIX») in contrapposizione alle tendenze stilistiche dominanti («… dilapidata dagli ultimi eredi che si sforzarono proprio di raggiungere il contrario»99). Pur non identificando nel panorama contemporaneo alcun romanzo davvero meritevole di approvazione incondizionata100, Borgese si sofferma infine sulle diverse tendenze dei generi in voga, dal «romanzo d’armistizio» alla letteratura femminile, arrivando risolutamente a concludere che «questo diluvio di prosa narrativa non ha lasciato soltanto fango»101. Come si evince dalle pagine di Tempo di edificare, nonché di altre sue opere saggistiche, Borgese è inoltre un dichiarato ammiratore di Dostoevskij. Da sempre amatissimo dai lettori italiani, Dostoevskij è uno scrittore che neanche i calligrafi possono permettersi di ignorare, purché con le opportune prese di distanza: nel 1922 la «Ronda» ospita un lungo articolo 97  Cfr. il capitolo a lui dedicato (Tempo di edificare cit., pp. 224-232 [232-240]) e le osservazioni sulla condanna implicita dei suoi romanzi in quanto romanzi (p. 82 [90]). 98  Cfr. l’opinione di Aurelio Emilio Saffi, che parla di «monotona struttura del romanzo», e di «tritume grigio che non si muove né avanti né indietro» (A.E.S., recensione a F. Tozzi, Con gli occhi chiusi, «La Ronda», I, 5, settembre 1919, pp. 73-74). 99 Borgese, Tempo di edificare cit., p. 35 [43]. 100  Innegabilmente, come ha osservato Massimo Rizzante, la «volontà di Borgese di imporre il romanzo come sintesi, architettura e sintassi di valori […] è talmente forte che la qualità dei singoli romanzi può passare in secondo piano» (In quella terra quasi di nessuno, in Borgese, Tempo di edificare cit., pp. XI-XXXIII, qui p. XVIII). 101 Borgese, Tempo di edificare cit., p. 249 [257].

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di Soffici contro lo scrittore russo102; e ancora nel 1926, dopo aver affermato nella loro dichiarazione programmatica che «Dostoevskij è un grande scrittore», i solariani si affrettano ad aggiungere che non per questo perdoneranno ai collaboratori della rivista licenze ingiustificate in materia di stile, quasi le due cose fossero una la conseguenza dell’altra103. Negli stessi anni in cui lo scrittore russo si afferma come uno degli autori di riferimento per la riflessione teorica sul romanzo (basti pensare al Dostoevskij di Bachtin o allo studio incompiuto che gli dedica il giovane Lukács), si va diffondendo infatti la retorica parallela per cui riconoscere che Dostoevskij è un grande-scrittore-sì-mascrive-male diventa una sorta di biglietto da visita del vero, fine letterato. E anche in Italia il suo nome avrebbe figurato ancora a lungo in questo singolare pantheon, in compagnia di colleghi come Svevo e Stendhal104. 102  Ardengo Soffici, Osservazioni intorno alla letteratura russa, «La Ronda», IV, 3-4, marzo-aprile 1922, pp. 200-208: «come scrittore propriamente detto, come artefice del verbo, cioè come poeta, Dostojewski non ha lasciato una pagina che possa dare ad alcuno la minima gioia estetica, che possa insegnar nulla a chichessia; tanto meno poi a noi italiani appartenenti ad una stirpe e ad una civiltà che han dato al mondo capolavori imperituri di bellezza e perfezione sostanziale e formale». 103  «Solaria» sarà poi, com’è noto, una delle riviste che più contribuiranno all’affermazione di romanzieri italiani e stranieri (Svevo o Tozzi, a cui saranno dedicati numeri monografici, ma anche Joyce, Proust, Virginia Woolf), grazie soprattutto a collaboratori come Debenedetti e Vittorini. Quella a favore del romanzo è tuttavia anche su «Solaria» una linea inizialmente minoritaria, tanto che ancora nel 1930 Vittorini recensisce Svevo sottolineando come «sembra impossibile che molti dei nostri critici e letterati abbiano trovato e ancora trovino enormi difficoltà nell’accostarsi all’arte di Svevo solo perché essa non terrebbe conto “di certe leggi di stile, di certi abbandoni e reticenze” che la consuetudine calligrafica ha reso cari al loro orecchio e ha stabilito nel gusto generale» (recensione a Italo Svevo, Una vita, «Solaria», V, 12, 1930, pp. 47-58). Per quanto presente nella riflessione teorica, inoltre, proprio il romanzo «risulta essere escluso dalla proposta creativa del periodico», con la sola eccezione del Garofano rosso di Vittorini (cfr. Isotta Piazza, La «sostanza di romanzo» (senza romanzo) in «Solaria», in Caroline Patey, Edoardo Esposito (a cura di), I modernismi delle riviste. Tra Europa e Stati Uniti, Ledizioni, Milano 2017, pp. 167-180). 104  Nel saggio che chiude Tempo di edificare, Borgese si diverte a far dichiarare incomprensibile il successo di Dostoevskij nientemeno che a Tolstoj, riportando una frase a lui attribuita («nel suo sangue v’era qualcosa d’ebreo. Fu sospettoso, gonfio d’amor proprio, pesante e sfortunato. È strano che lo si legga tanto; non capisco perché», p. 262 [270]). Per una panoramica della discussione italiana vedi Sergia Adamo, Dostoevskij in Italia. Il dibattito sulle riviste. 1869-1945, Campanotto, Udine 1998.

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Le pagine più acuminate contro i calligrafi restano comunque, in Tempo di edificare, quelle dedicate a Guido da Verona. Romanziere erotico di fama, soprattutto dopo il successo internazionale di Mimì Bluette fiore del mio giardino (1916), da Verona veniva fatto a pezzi dalla critica italiana ad ogni sua nuova pubblicazione105, con una ferocia che Borgese giudica incomprensibile nei confronti di un autore che non ha in fondo alcuna aspirazione a entrare nei prestigiosi circuiti dell’art pour l’art. «Quando mai la critica aveva stroncato i libri di Carolina Invernizio?»106 Per Borgese il fastidio dei letterati nei suoi confronti è dovuto a tre precise ragioni: la prima è che da Verona vende troppo, la seconda – naturalmente – è che scrive male, e la terza e più grave è che «compone, scrive romanzi, porta a termine ciò che ha cominciato, insomma fa qualche cosa»107. Il suo stesso scrivere opere organiche – e sembra qui di risentire le parole di Werner rivolte al giovane e inconcludente Wilhelm – suona come un rimprovero silenzioso per i tormentati (e inconcludenti) calligrafi italiani, dato anche il fatto che il romanziere in questione, indubbiamente dotato di una «reale capacità di rappresentazione», sa costruire dialoghi brillanti e intrecci sensati, salvo poi rovinarli da solo con qualche suicidio da rotocalco108. Nei suoi libri si trovano anzi passi lirici di tale eleganza – qui Borgese 105  Vedi ad esempio, sulla «Ronda», gli articoli Un colpo di sonda di Antonio Baldini (I, 2, maggio 1919, pp. 55-60, che con da Verona attacca «tutta la letteratura del cuore di Milano», p. 56); I poeti d’un verso solo di Emilio Cecchi (II, 2, febbraio 1920, pp. 137-140, che si conclude con una stoccata a da Verona); e Letteratura servile. Guido da Verona, Sciogli la treccia, Maria Maddalena, Bemporad 1920 di Riccardo Bacchelli (ivi, pp. 146-152, che definisce «letteratura servile» tutti quei «prodotti eleganti, umanitarii, di facili costumi, antirettorici, cocotteschi e spregiudicatissimi, di quella nuova Corte dei Miracoli letteraria, più che altro milanese, dei nuovi apostoli della “letteratura che finalmente costituisce una posizione”», p. 146). Su da Verona, ebreo fascista di fede dannunziana caduto in disgrazia dopo la pubblicazione di una parodia erotica dei Promessi sposi e reinventatosi traduttore negli anni Trenta, cfr. Silvia Morgana, Giuseppe Sergio (a cura di), Guido da Verona e il suo archivio. Interpretazioni e riletture, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011. 106 Borgese, Il sogno errante di Guido da Verona, in Tempo di edificare cit., pp. 69-79 [77-86] (qui p. 74 [82]). Come molti dei testi che compongono il volume, anche questo è un articolo già pubblicato da Borgese in precedenza (Guido da Verona a mezza strada, «I libri del giorno», II, 4, aprile 1919, pp. 171-174). 107  Ivi, p. 76 [84]. 108  Ivi, pp. 75-76 [83-84].

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sferra l’attacco definitivo – che opportunamente estrapolati dal contesto sarebbero indistinguibili da quelli dei più raffinati poeti e prosatori: Ma prendete un qualunque volume di frammentista, di lirico puro, e cercate, se vi riesce, di differenziarlo da Guido da Verona. Sensualità amareggiata e nostalgie vagabonde nei lirici puri e nell’impuro romanziere; in quelli e in questo assoluta mancanza di ubi consistam; in tutti ugualmente dannunzianesimo saziato e scontento. Se poi Guido da Verona, invece d’irritare i letterati mettendo insieme romanzi, avesse adunato in uno o due volumi le sue più belle pagine […], che frammentista di prima qualità! Che lirico puro! Che collaboratore di riviste d’avanguardia!109

È evidente che ricostruendo questa genealogia dei bravi scrittori che scrivono male, nella quale rientrano come affluenti minori anche quanti hanno alimentato la tradizione narrativa attraverso il romanzo di genere, Borgese non sta affatto sintetizzando il nuovo gusto dei letterati italiani: sta piuttosto preparando il terreno per la sua attività di narratore, come presagendo la sorte a cui il suo lavoro creativo è destinato ad andare incontro. Con la pubblicazione di Rubé110, infatti, anche lui si trova ad essere immediatamente incluso nel panorama della deteriore «letteratura milanese». Dopo averlo dichiarato nemico generazionale111, «La Ronda» pubblica una stroncatura del romanzo firmata da Riccardo Bacchelli, che a suon di terne aggettivali impartisce al collega quella che a suo parere è una lezione di bella scrittura definendo il suo romanzo «stanco, mediocre e stentato», la lingua «oziosa, irricordabile e spuria» e il suo ingegno «talentoso, intraprendente e indaffarato»; e non mancando di ricordargli che le cose, nella vita, sono molto più «feconde, promettenti e gravi»112. L’amico Emilio Cecchi – che quasi con109 

Ivi, p. 192 [200], corsivi dell’autore. Giuseppe Antonio Borgese, Rubé, Treves, Milano 1921. 111 Cfr. L’inutile chintana, «La Ronda», II, 4, aprile 1920, pp. 292-299, dove Borgese è definito «paladino del malcostume e, non si sa perché, di quella ultima tralignazione del romanzo sociale, sperimentale, commovente, moralista magari a rovescio, che è sempre stato fuori dall’arte» (p. 293). 112  Bacchelli recensisce Rubé insieme a Tre mondi di Salvator Gotta («La Ronda», III, 6, giugno 1921, pp. 54-62), affermando che «il romanzo è un genere che 110 

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temporaneamente esordisce come prosatore con Pesci rossi – paragona con evidente disdegno le atmosfere realistiche di Rubé agli scenari di Guido da Verona113, mentre Pietro Pancrazi sul «Resto del Carlino» ed Eugenio Levi sul «Convegno» pronunciano ulteriori verdetti negativi114. A queste voci faranno seguito prese di posizione analoghe da parte di critici come Adriano Tilgher115, Arrigo Cajumi116 e Alfredo Gargiulo, il quale si rivelerà particolarmente vendicativo nei suoi attacchi117. Le accuse mospermette, coi pretesti dei documenti e della coscienza contemporanea, la sciatteria della scrittura ed eventualmente le scene lubriche e impressionanti» (p. 61). Dopo un esordio da romanziere con Il filo meraviglioso di Lodovico Clo’ (1911), in questi anni anche Bacchelli predilige infatti forme di scrittura liriche e di taglio filosofico-morale: tornerà però al romanzo alla fine degli anni Venti con Il diavolo a Pontelungo. 113  Emilio Cecchi, “Rubè” di G.A. Borgese, «La Tribuna», 12 aprile 1921, p. 3, poi con il titolo Borgese romanziere, in Id., Letteratura italiana del Novecento, a cura di Pietro Citati, Mondadori, Milano 1972, vol. I, pp. 460-465, qui p. 462. A risultare vincente in questi anni sarà proprio l’opzione letteraria proposta da Cecchi con Pesci rossi (1920), capace di coniugare giornalismo e prosa d’arte. 114  Pietro Pancrazi, Il romanzo di Borgese, «Il Resto del Carlino», 14 maggio 1921; poi con il titolo Il romanzo di un critico, in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Vallecchi, Firenze 1923, pp. 155-165; Eugenio Levi, “Rubè” di G.A. Borgese, «Il Convegno», II, 8-9, 1921, pp. 426-435, poi in Id., Il lettore inquieto, Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 133-143. 115  Adriano Tilgher, Ricognizioni, Libreria di Scienze e Lettere, Roma 1924, pp. 214-225. 116 Arrigo Cajumi, Commemorazione di Borgese, «Il Baretti», IV, 1, gennaio 1927, pp. 1-2. La stroncatura, rivolta principalmente a Ottocento europeo, non tralascia di menzionare le altre opere di Borgese, in particolare Rubé («visione approssimativa e ambiziosa della guerra, cronacaccia gonfiata a furia di schemi e di problemi allo scopo di imitare Dostoiewski») e Tempo di edificare (una «olla potrida»). 117  Alfredo Gargiulo, Conclusioni sul “Rubé”, «L’Italia Letteraria», 12, 1931, poi in Id., Letteratura italiana del Novecento, Le Monnier, Firenze 1940, pp. 185191. La traiettoria di Gargiulo è da molti punti di vista affine a quella di Borgese, ma non coronata dallo stesso successo: incoraggiato agli studi umanistici da Croce, anch’egli inizia ben presto a elaborare un autonomo tentativo di estetica che, sotto l’influsso del pensiero kantiano (nel 1907 traduce per Laterza, probabilmente su invito di Croce stesso, la Critica del giudizio), rifiuta la visione dell’arte come conoscenza intuitiva e riporta l’attenzione sulle specifiche tecniche artistiche; tentativo che rimarrà tuttavia confinato in saggi per lo più inediti. Avvicinatosi alla critica letteraria, nel 1908 scrive una monografia su D’Annunzio che vedrà la luce solo nel 1912 (mentre Borgese si afferma come critico proprio grazie al saggio dannunziano del 1909), per legarsi infine a Cecchi e all’ambiente della «Ronda» dopo il suo trasferimento a Roma, dove lavorerà tutta la vita come bibliotecario dell’Istituto Internazionale di Agricoltura (cfr. la voce a lui dedicata, a cura di Domenico Proietti, nel Dizionario

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se a Borgese sono le stesse che erano state in precedenza rivolte ai suoi colleghi romanzieri: cattiva scrittura, intreccio inutilmente cervellotico, «sciatteria» (Bacchelli, Cecchi), nonché un uso costante di «puntelli» narrativi che appesantiscono le pagine più autenticamente poetiche – argomento che, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, ha alle spalle una lunga tradizione118. La ricerca di strutture architettoniche complesse, che rendano conto di quelli che Borgese chiama stadi intermedi, desta ben poco interesse nei suoi contemporanei, che giudicando secondo le categorie in voga del frammentismo e della prosa d’arte vedono in esse solo inutili scorie, “calcinacci” che si intromettono indebitamente fra le autentiche illuminazioni poetiche. 6. Un’«arte narrativa moderna»: Rubé e Le affinità elettive L’accusa quasi unanime di intellettualismo, mossa a Rubé al momento della sua pubblicazione, è facilmente comprensibile se la si pensa rivolta a un autore noto all’epoca soprattutto come storico della filosofia e come critico letterario. Né si può dire che gli venga rivolta del tutto a torto, poiché è effettivamente il tentativo di rispondere a un problema filosofico a spingere Borgese verso il romanzo: l’impasse tragica della modernità, la necessaria Biografico Treccani, vol. 52, 1999). Che Gargiulo si prenda la briga di stroncare Rubé dopo dieci anni dalla sua uscita, per di più in un momento in cui Borgese attraversa una fase di serie difficoltà politiche, non si spiega se non col risentimento personale, e se ne trova infatti conferma in una lettera del 1931 inviata da Borgese a Liliana Scalero, che ha sollecitato una sua reazione all’articolo: «Sono ormai vent’anni, vent’anni, che avendo scritto sul D’Annunzio di Gargiulo un articolo che non gli piacque, ne ebbi per lettera la promessa che si sarebbe vendicato. Ora è diventato un vecchietto, e continua a vendicarsi. E sì, si dice che la vendetta si gusta fredda, ma che gelo cadaverico!» (lettera ms. Borgese a Liliana Scalero, da Milano, 21 marzo 1931, Fondo Scalero, Lettere di Borgese a Liliana, n. 119). 118 Cfr. supra, cap. II, § 2. L’argomento è utilizzato ancora da Renato Serra per attaccare il saggio di Borgese su D’Annunzio (cfr. Debenedetti, Il romanzo del Novecento cit., p. 649). Questa condanna contro Borgese, «propiziata da un irritatissimo Croce, allestita e promossa da Renato Serra e Luigi Russo», sarà negli anni «ripetuta all’infinito da infiniti altri, senza nemmeno più il beneficio d’una verifica sui testi, con un accanimento davvero stupefacente, nella sbrigativa e generale convinzione che la sua fosse stata una fama usurpata» (Massimo Onofri, Borgese e Debenedetti, «Nuovi argomenti», V, 15, luglio-settembre 2001, pp. 145-163, qui p. 147).

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rottura di un’unità dopo la quale l’uomo rischia di potersi affacciare soltanto su un panorama di rovine, gli appare insolubile per via razionale, per via di “distinzioni”. Già nel saggio su Vico, lo si è visto nei paragrafi precedenti, affermava che una vicenda tragica come quella che legava il filosofo napoletano al suo tempo poteva essere soltanto «materia di epica e drammatica storia»: Borgese ritiene insomma di non poter (o semplicemente di non saper) risolvere la contraddizione dei moderni con gli strumenti della filosofia, e sposta così la sua ricerca dal piano analitico a quello narrativo, servendosi della forma espressiva che più gli appare capace di dialettizzare la contraddizione, il romanzo. Ancora a distanza di molti anni, quando ormai negli Stati Uniti scriverà il Goliath, motiverà così la sua personale adesione a questo genere letterario: oggigiorno vi sono tre modi di considerare la storia, ognuno dei quali sembra ignorare gli altri due. Il primo è quello dello storico di professione, influenzato dalla teoria del tardo romanticismo, specialmente tedesco, che pensa in termini di movimenti di masse e di conflitti economici; gli individui sono per lui delle marionette, i cui fili sono tirati da mani anonime. Il secondo, quello dei biografi – ne sono fioriti a centinaia in questo ultimo ventennio – imitano, per lo più inconsciamente, Plutarco o Cornelio Nepote: per essi l’individuo è tutto e l’ambiente è uno sfondo neutro, simile a un tendaggio grigio sul quale il protagonista o il solista esibisce le sue abilità. Nelle biografie spesso Freud o Jung prendono il posto che nella storia hanno Hegel o Marx: sensualità, emotività, libidine, repressione fanno ciò che altrove è fatto dalla dialettica delle idee o dalla lotta di classe. Il lettore che conosca queste due specie di libri si trova a non saper più che cosa pensare. Forse trova un certo equilibrio nella lettura di una terza specie di libri, i romanzi. Il romanziere, se è un buon romanziere, sa dosare determinismo e libertà, ambiente e personalità, lotta economica e necessità fisiche e morali119.

Quando Borgese si accinge a scrivere Rubé, il suo progetto è quello di mettere in pratica questa personale poetica, affidando all’attività creativa e alla narrazione il compito di creare la connessione necessaria fra strutture astratte e singoli fenomeni individuali, fra «determinismo e libertà». È dunque effettivamente 119 Borgese,

Goliath cit., p. 171 (tr. it. Golia cit., p. 189).

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il filosofo – «il dialettico», per usare le parole di Pancrazi120 – a fornire il materiale di partenza al narratore: Borgese sarebbe stato probabilmente il primo a sottoscrivere questa accusa, se di accusa si vuole parlare. La sua poetica cerca nel romanzo la risposta a quello che a suo parere è il limite dell’estetica crociana, l’incapacità di tenere insieme “diamanti e calcinacci” e dunque di dare ragione di un mondo fenomenico che né vive per sé né si lascia pacificamente assorbire entro un sistema, entro una totalità, ma che resta con essa in perenne tensione. Il problema filosofico si trova così ad essere riconvertito in un problema di rappresentazione. Questo aspetto della ricerca di Borgese non sfugge affatto ai suoi contemporanei, che gli riconoscono almeno di aver aperto la strada a un nuovo ordine di problemi rappresentativi, finalmente attuali. Così ancora Pancrazi, in chiusura alla sua recensione: Eppure in Rubé, come in nessun altro romanzo degli ultimi anni, c’erano la visione e gli elementi per quel dramma completo e impegnativo di una coscienza moderna – che ancora aspettiamo. […] Se altro merito non avesse, certo il Borgese potrebbe vantare questo; e grandissimo: di aver voluto aprire all’arte narrativa moderna, in Italia, un campo di umanità, di critica, di filosofia, vasto, complesso – tale da impegnare la totalità di una coscienza moderna – e quale nessuno dei nostri narratori aveva ancora saputo indicare121.

Ciò che i critici come Pancrazi ritengono fallito nel romanzo è più precisamente il modo in cui questa contraddizione viene affrontata artisticamente, tanto sul piano dello stile che su quello della forma narrativa. La via che Borgese sceglie di seguire, infatti, consiste nel presentare il conflitto attraverso le forme ben collaudate di un romanzo più vicino al feuilleton che alle finezze della prosa rondista, utilizzando personaggi, trame e situazioni anche estremamente tradizionali. Scettico nei confronti delle 120  L’espressione compare nella seconda versione (Romanzo di Borgese) del già citato articolo di Pancrazi, che attenua molto il giudizio negativo su Rubé. A partire dagli anni Quaranta il critico ripubblica più volte il testo, rimaneggiandolo al punto di farlo risultare, anziché la stroncatura che era, uno dei primi articoli scritti in favore dell’opera. 121 Pancrazi, Il romanzo di un critico cit., p. 164.

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sperimentazioni del coevo romanzo europeo122, Borgese non rifugge dall’uso di situazioni narrative trite e ritrite (dalla seduta spiritica alla vincita al gioco che rimette improvvisamente in moto la trama), parlando senza calligrafismi del costo degli affitti, della ricattabilità del lavoro intellettuale nel mondo dell’industria moderna, delle conseguenze deleterie che può comportare, in certi salotti, la scelta di un abbigliamento inadeguato. «Mai, in un romanzo contemporaneo, la crisi degli alloggi aveva avuto tanta parte! Mai in un romanzo contemporaneo, nemmeno in quelli di Guido da Verona, s’eran visti staccare, ad uso del protagonista, tanti biglietti ferroviari, di tutte le classi!», lo redarguiva Cecchi123, facendo riecheggiare ancora una volta l’accusa di “troppa prosaicità” che oltre un secolo prima Novalis aveva rivolto al Wilhelm Meister di Goethe124. Per quanto il giudizio limitativo dei primi critici sia stato ritrattato nel corso del Novecento, fino ad essere anzi ribaltato del tutto, il problema della costruzione del romanzo ha continuato a suscitare un interesse piuttosto marginale negli studi intorno a Rubé, né l’insistenza di Borgese su questo aspetto è stata messa in relazione con i suoi studi di letteratura tedesca che, come qui si è più volte sottolineato, prendono in esame soprattutto questioni compositive, dalla «costruzione» del Werther all’interdipendenza fra la prima e la seconda parte del Faust. Sono evidentemente moltissimi gli influssi letterari che possiamo rintracciare in un romanzo della densità di Rubé, nutrito di Ottocento francese – già le prime recensioni straniere avvicinavano Borgese a Stendhal e il suo protagonista a Julien Sorel125– e dell’arte dei grandi romanzieri russi: ma se la lettura di Stendhal e Dostoevskij lascia tracce profonde nel carattere del protagonista e nelle tecniche tramite cui l’autore indaga le sue pulsioni più segrete, nonché nella predilezione per uno stile scarno e quasi “protocollare”, 122  Borgese parla in più occasioni della sua scarsa simpatia per il romanzo contemporaneo, in particolare per Proust (cfr. infra, cap. II, § 8.2). 123 Cecchi, “Rubé” di G.A. Borgese cit. 124 Cfr. supra, cap. I, § 3.2. 125  L’osservazione, che si legge anche in apertura alla recensione di Cecchi, torna negli articoli di Louis Gillet (Un Julien Sorel italien, «Revue des deux mondes», XCI, 65, 1° settembre 1921, pp. 205-216) e di Ernest Boyd (Powerful Novel by an Italian Stendhal, «New York Tribune», 11 marzo 1923).

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rispetto alla costruzione narrativa è piuttosto ai classici tedeschi che l’autore guarda. E tra tutti i romanzi che Borgese poteva tenere presente in questi anni, quello che presenta la costruzione architettonica più vicina a Rubé è senza dubbio Le affinità elettive (Die Wahlverwandtschaften, 1809), il romanzo in cui Goethe, attraverso la metafora chimica dei legami tra gli elementi, offriva ai suoi contemporanei una pessimistica analisi della disgregazione delle relazioni umane nella modernità. Scritto all’indomani dell’invasione di Weimar da parte delle truppe napoleoniche, che portando le conseguenze della Rivoluzione francese nel cuore della Germania ponevano fine alla pace di cui gli stati tedeschi avevano goduto grazie ai trattati di Basilea, Le affinità elettive rappresentano una delle fasi più cupe della riflessione goethiana, segnata dalla dolorosa rinuncia all’utopia della Klassik weimariana. Per tutto l’Ottocento, tuttavia, l’opera viene interpretata essenzialmente come un romanzo d’amore, e giudicata – ora con sdegno, ora con favore – soprattutto in base alle affermazioni in essa contenute sul valore sociale del matrimonio e sulla legittimità dell’adulterio. A incuriosire il pubblico è infatti in primo luogo la trama dell’opera, una trama costruita con un’eleganza architettonica che anche i detrattori riconoscono come magistrale126, e che poggia sulla misteriosa alchimia tra i quattro protagonisti, i coniugi Charlotte ed Eduard e i personaggi di cui entrambi, ricambiati, si innamorano, e cioè il Capitano amico di Eduard e la giovane nipote di Charlotte, Ottilie. Anche in Italia, complice il giudizio poco lusinghiero dato del romanzo da Madame de Staël, Le affinità elettive circolano a lungo come un libro quasi scandalistico – «non v’ha qui donna gentile, la quale non si vergognasse di confessare in un’onesta brigata d’averlo letto», tuona uno dei primi recensori127 –, e per di più in traduzioni parziali e poco 126 Secondo

Giovanni Sampaolo (Critica del moderno, linguaggi dell’antico. Goethe e Le affinità elettive, Carocci, Roma 1999, p. 57) l’apprezzamento per la «costruzione sottilmente calibrata» del romanzo è per decenni l’unico elemento su cui i critici si trovino d’accordo. 127  La recensione compare sulla «Rivista Viennese» di Giovanni Battista Bolza (II, 2, aprile-maggio-giugno 1839, p. 268), a firma G.B.B., evidentemente il direttore stesso.

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affidabili128. All’inizio del Novecento il romanzo si trova sul mercato nell’edizione della biblioteca amena dell’editore Treves o in quella della biblioteca universale Sonzogno, collane di larghissima diffusione ma decisamente prive di valore agli occhi degli intellettuali e degli scrittori che in questi anni decidono cosa è letteratura e cosa no129. Per Borgese però, come si è avuto modo di verificare nei paragrafi precedenti, il fatto che un romanzo venga bollato come commerciale dai suoi contemporanei è tutt’altro che un motivo di disinteresse, soprattutto se il suo impianto risulta essere ben congegnato. E dalle popolari e “indecenti” Affinità elettive lo scrittore sembra trarre appunto due importanti elementi di costruzione: lo schema chiastico che lega i quattro protagonisti e che fa culminare la loro vicenda in una morte per annegamento, e l’uso ricorrente di tropi (soprattutto in relazione all’elemento acquatico) finalizzati a sostenere e collegare a distanza i passaggi più significativi del romanzo. 6.1. Lo schema a coppie incrociate In Rubé, come già il titolo lascia intuire, la vicenda narrata ruota in gran parte intorno alla sorte del protagonista. Dotato come Julien Sorel di ambizione e talento, nonché di una certa tendenza all’autosabotaggio, Filippo Rubé non vive però nella splendida solitudine del protagonista stendhaliano. Fin dall’inizio del romanzo la sua storia si sviluppa entro una fitta rete di relazioni amicali e sentimentali, quelle che lo legano a Federico Monti, a Mary Corelli e a Eugenia Berti, e che, illuminando da diverse angolazioni la sua personalità, contribuiscono a costruirne la figura. I principali filoni interpretativi del romanzo – tanto quello storicista che legge nella vicenda di Rubé la biografia in128  La vicenda della prima traduzione italiana, pubblicata nel 1837 dallo stampatore milanese Angelo Ceresa con l’infelice titolo di La scelta dei parenti, è ripercorsa da Marco Rispoli in «Alfredo Meister». Kurioses aus der frühen italienischen Goethe-Rezeption, «Jahrbuch des Freien Deutschen Hochstifts», 2018, pp. 148-179. 129  Se infatti nel frattempo le lettrici moderne avevano smesso di scandalizzarsi, lo stesso non si può dire degli «onesti scrittori», i quali – secondo quando riferisce Cecchi – di fronte ai romanzi Sonzogno «torcevano il viso inorriditi, si tappavano il naso, scappavano da ogni parte» (Cecchi, Borgese romanziere cit., p. 464).

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tellettuale di una generazione che quello più interessato a rilevarne le caratteristiche che lo accomunano al coevo romanzo europeo – tendono tuttavia a concentrare il fuoco dell’analisi sul solo protagonista, strappandolo dalla trama di relazioni in cui è immerso e correndo il rischio, assolutizzandone l’importanza, di ripetere nella sostanza il pregiudizio dei primi critici per cui autore e personaggio dovrebbero coincidere130. È la presenza di una struttura narrativa complessa ad assicurare l’autonomia del romanzo dalla storia individuale che racconta. Con struttura non si vuole qui intendere la trama, quanto piuttosto la rete di relazioni fra i personaggi o, più precisamente, tra le diverse voci, tra i diversi punti di vista in gioco (non necessariamente incarnati da un personaggio), orchestrati da un narratore che si avvicina o si allontana, di volta in volta, dalle varie posizioni, illuminandone le ragioni da prospettive diverse. In Rubè, come nel romanzo goethiano, lo schema compositivo base è creato dal quadrato di tensioni che si crea fra le due coppie di protagonisti: Filippo ed Eugenia da un lato, Federico e Mary dall’altro. Filippo è attratto, e sembra ricambiato, dall’affascinante Mary, mentre il posato medico Federico, se non fosse per le insistenze di sua madre, sarebbe felice di avere al suo fianco una figura dimessa come quella di Eugenia: ma le convenzioni di ceto fanno sì che i due personaggi maschili sposino le donne a loro più vicine nella scala sociale, sacrificando così i legami di “affinità elettiva”. Il topos delle coppie male assortite, caro alla novellistica e alla commedia – basti pensare allo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate, dove il lieto fine è garantito appunto dalla ricombinazione delle coppie di innamorati secondo le ragioni del desiderio – arriva insomma nella modernità voltato in tragedia: lo ritroviamo alla fine dell’Ottocento in Senilità 130  L’identificazione tra autore e personaggio è un elemento ricorrente delle prime recensioni (cfr. in particolare quelle di Cecchi, Bacchelli, Tilgher e Gargiulo citate supra, cap. II, § 5), e permane in gran parte della critica successiva. Che la «concentrazione ossessiva sul protagonista» porti a una «sottovalutazione della struttura complessiva del testo» è opinione al contrario di Gian Paolo Giudicetti (La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese. Una risposta alla crisi letteraria e di valori del primo ’900, Cesati, Firenze 2005, p. 72), che segue la linea tracciata da Luciano De Maria nel riportare l’attenzione sull’impianto compositivo del romanzo (Introduzione a Borgese, Rubé, Mondadori, Milano 1974, pp. v-xx, in particolare p. VI).

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di Svevo e alla fine degli anni Venti negli Indifferenti di Moravia, ma non, come in Goethe, con una struttura chiastica analoga a quella di Rubé, per cui entrambe le coppie vengono a invertire i loro legami sentimentali. Questo schema elementare di opposizioni ha in primo luogo la funzione di far sì che tutti i temi trattati nel romanzo entrino nel campo di forze che si disegna, rifrangendosi nelle prospettive dei diversi personaggi. La pulsione all’autoanalisi che arriva a distruggere l’io, il problema dell’interventismo e della diserzione, il contrasto tra la moderna vita cittadina e la seduzione regressiva della campagna, il senso di colpa: nessuno dei temi portanti del romanzo viene affrontato al di fuori delle concrete posizioni dei personaggi, che cambiano nel tempo e che si contraddicono – a volte anche semplicemente per dispetto – le une con le altre. Come nelle Affinità elettive, dunque, «ogni personaggio incarna una differente tendenza, una delle diverse possibilità umane aperte nel momento attuale», e la forma del romanzo «disegna un quadro differenziato del trapasso culturale in atto (“relazioni sociali e i loro conflitti”, dice Goethe)»131. La rappresentazione artistica di questa conflittualità di posizioni, che delimitano lo spazio delle concrete possibilità umane, è il risuonare dialogico delle voci. Le affermazioni e le azioni di Filippo Rubé, lungi dal poter essere lette come prese di posizione del suo autore, sono costantemente ridimensionate e dialettizzate da quelle degli altri personaggi, a cominciare dalla dostoevskijana pulsione all’autoanalisi che fin dalla prima pagina viene presentata come il suo tratto distintivo (la sua tendenza «a spaccare il capello in quattro»132). Poche scene più avanti, infatti, questa stessa tendenza viene candidamente smitizzata dalle parole di Eugenia, che, pur senza essere «un miracolo d’intelligenza», rivendica di aver letto qualche libro anche lei e di sapere «che questa si chiama introspezione»133. Più esplicita è la messa in discussione delle convinzioni interventiste di Filippo, come mostra la scena della visita medica effettuata al momento di partire 131 Sampaolo,

Critica del moderno cit., p. 63. Rubé cit., p. 3. 133  Ivi, p. 99. 132 Borgese,

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per il fronte: convinto che i suoi mali siano dovuti a un abuso delle facoltà intellettuali a scapito di quelle fisiche, il giovane si dichiara pomposamente deciso a sottomettersi alla dura vita militare per invertire questo squilibrio, e il medico «che giudica antiquate queste distinzioni d’anima e corpo», scuote la testa al punto di farlo arrossire134. Il narratore, in questi passaggi, non solo non fa coincidere affatto la propria posizione con quella del protagonista, ma arriva anzi a metterla bonariamente in ridicolo dando spazio alle voci degli altri personaggi. Il conflitto centrale è tuttavia quello con l’amico Federico Monti, per contraddire il quale Filippo si arrocca sulle proprie ragioni forse più di quanto vorrebbe realmente fare. La voce di Federico, convinto che se la guerra è inevitabile non per questo ha senso incoraggiarla, scava nella mente dell’interventista Rubé come un rimprovero continuo, che sembra risuonare ovunque: quando ad esempio Eugenia gli consiglia di non analizzare ogni cosa, altrimenti «perfino la buona acqua di Trevi ci parrà impossibile a bere»135, Filippo ribatte stizzito «la so anch’io quella frase di Federico, che non bisogna guardare col microscopio l’acqua di Trevi», come se il rimprovero fosse arrivato direttamente da lui136. E a sua volta sembra voler costantemente punzecchiare un Federico assente ogni volta che parla della guerra come di qualcosa che serve solo a dar lavoro ai dottori («il vero disastro erano i medici, i chirurghi, le dame infermiere…»137), o quando cerca una conferma della sua scelta di partire volontario nella constatazione di essere scampato integro al conflitto («mica come Federico, che ci ha rimesso una gamba!»138). Questo duello a distanza si inasprisce dopo il matrimonio di Federico con Mary, e anche la loro decisione di trasferirsi a vivere in campagna – mentre Filippo ed Eugenia vanno ad abitare a Milano – diventa un ulteriore elemento di confronto a cui si allude di continuo, per esempio attraverso la signora milanese che, quasi dando voce ai due amici assenti, consiglia a Filippo

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ed Eugenia di lasciar perdere la città e di trovarsi piuttosto una “casetta” lontana dalla metropoli139. L’autore è attento a mantenere sempre operante questo quadrato di tensioni, anche con un semplice moto di gelosia (come quello che Mary prova verso Eugenia quando capisce che solo lei, in quanto infermiera, potrà assistere Federico al momento dell’amputazione della gamba140) o con brevi frammenti di dialogo. Tutto quello che ciascuno dei quattro personaggi centrali dice o fa “risuona” insomma continuamente nelle vite e nelle voci degli altri tre, come in una sfida a botta e risposta che non si placa mai. Le due coppie si scrutano attraverso il tempo, confrontandosi a distanza sulle scelte che hanno segnato le loro vite e quasi cercando nel fallimento altrui una conferma alle proprie – altrettanto infelici – decisioni. Senza esserne il punto focale (né Rubé né Le affinità elettive sono soltanto storie d’amore), il sistema delle coppie in opposizione struttura così il romanzo, permettendo al narratore di non accordare alle ragioni di nessun personaggio una preferenza assoluta. Tanto che perfino il giudizio finale resta ambiguo: frasi spesso citate come “morali” autoriali – Rubé era «naufragato nella folla»; Rubé «vedeva tutte le possibilità e aveva smarrito tutti i criteri» – sono in realtà giudizi espressi dai personaggi (il primo da Eugenia, il secondo da Federico), che il narratore qualifica anzi esplicitamente come opinioni141. La tessitura di questo articolato sistema ha in primo luogo la funzione di ridimensionare il peso del personaggio centrale, dialettizzando la sua posizione e dunque sganciandola da ogni univoca identificazione con quella dell’autore. Siamo ancora una volta di fronte al problema goethiano della necessità di non far coincidere acriticamente la posizione del protagonista con le idee del suo autore, affrontato da Borgese sia a proposito della composizione del Werther, sia analizzando la figura di Mefistofele nel Faust, dove, «per una tendenza comune ai lettori colti ed incolti, s’identifica volentieri la persona di Mefistofele col pensiero di Goethe»142. In un romanzo l’autore empirico non è

134 

Ivi, p. 24. Ibid. 136  Ivi, p. 101. 137  Ivi, p. 105. 138  Ivi, p. 244. 135 

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139 

Ivi, p. 217. Ivi, p. 122. 141  Ivi, pp. 417-418. 142 Borgese, Mefistofele cit., p. 95. 140 

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obbligato a condividere la posizione del narratore, tantomeno quella di un personaggio: la peculiarità di questo genere letterario, in cui Borgese ritiene di trovare una via d’uscita dall’univocità dell’argomentazione razionale, risiede fondamentalmente qui, in questa possibilità di rappresentare persino le proprie sacrosante ragioni nel dialogo inevitabilmente mobile e contraddittorio della realtà. Si può dunque ben comprendere il fastidio di Borgese nei confronti dei suoi primi recensori, che davano per intesa la coincidenza fra il personaggio di Rubé e il suo creatore proprio perché ignoravano del tutto l’impianto architettonico del romanzo, considerandolo poco più che un’impiallacciatura intellettuale. Borgese infatti non replica a nessuno di loro. Per trovare una sua esplicita presa di posizione su questo tema dobbiamo cercare in testi secondari: negli scritti che dedica ad alcuni autori esordienti, ai quali fa notare debolezze di composizione e possibili strade alternative; o persino in lettere private143. La sua celebre recensione agli Indifferenti di Moravia, che esce sul «Corriere» del 21 luglio 1929, è da questo punto di vista particolarmente significativa. Borgese apprezza molto le qualità di narratore del giovane autore romano che all’epoca del suo esordio ha appena ventidue anni, ne loda la scrittura asciutta e innovativa, ma non tralascia di rimarcare come, dopo due terzi, il suo romanzo perda forza: Poi decade il romanzo. Decade perché l’indifferenza di Michele […] da oggetto del romanzo ne diventa soggetto; o, in altri termini, Michele da protagonista ne diventa l’autore, e Alberto Moravia si mette tutto intero, metamorfosandosi, nei suoi panni144.

143  In

una lettera a Liliana Scalero del 12 ottobre 1945, ad esempio, Borgese afferma polemicamente che Rubé «non è il libro di Rubé, è l’Antirubè, ferocissimo, e incomparabilmente meno rubista di quanto, p. e., Werther sia wertheriano». Per una riproduzione di questa lettera e per una ulteriore riflessione intorno al problema dell’identificazione autore-personaggio, cfr. Daria Biagi, L’autore contro l’eroe. Borgese, Rubé e la teoria del romanzo d’inizio Novecento, «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», 15, 2021, pp. 1-18. 144  Giuseppe Antonio Borgese, Gli indifferenti, «Corriere della Sera», 21 luglio, p. 3, poi in Id., La città assoluta e altri scritti, a cura di Mario Robertazzi, Mondadori, Milano 1962, pp. 218-219.

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Dal momento in cui l’autore prende ad aderire interamente alle ragioni del suo personaggio – come faceva Goethe nei suoi primi esperimenti romanzeschi145 – l’opera è condannata a “decadere”, proprio come un edificio di cui collassi la struttura portante. Peccato veniale in un autore giovane come Moravia, sembra dire Borgese, ma che nondimeno è necessario superare. Un’osservazione analoga si legge nella sua recensione ai racconti di Guido Piovene, autore che a suo parere rivela grandi abilità di rappresentazione nel delineare personaggi femminili diversi, mentre nel descrivere quelli maschili sembra alludere sempre a uno stesso personaggio col nome cambiato – insomma: l’autore travestito146. Che la riflessione su questo problema sia un portato del lavoro di Borgese sulla letteratura tedesca, e sulle opere di Goethe in particolare, risulta chiaro dalle annotazioni di cui si è provato a seguire le tracce, e che confluiranno poi nella postfazione alla sua traduzione del Werther, dove – connettendo il problema del personaggio a quello della lingua e a quello del romanzo come genere – Borgese spiegherà perché l’opera abbia avuto tanta rilevanza per lo sviluppo di una moderna «epica in prosa»147. 6.2. Tropi Torniamo però alla struttura del romanzo. Tanto nelle Affinità elettive quanto in Rubè la rete che lega i personaggi si costruisce anche, come è stato osservato, attraverso il ricorrere di tropi (immagini, situazioni, espressioni) che riecheggiano da una parte all’altra del racconto, svelando talvolta solo a distanza il loro vero significato148. Anche questo aspetto della narrativa di 145  Si ripensi alla discussione sulle differenze tra la prima e la seconda stesura del Wilhelm Meister, condotta sulla «Voce» soprattutto da Slataper e da Spaini (cfr. supra, cap. I). 146  Giuseppe Antonio Borgese, Libri di giovani – “La vedova allegra”, «Corriere della Sera», 1° novembre 1931, p. 3 (poi in Id., La città assoluta cit., pp. 228-231). Il vicentino Piovene, laureatosi in filosofia alla Statale di Milano, era stato tra gli allievi di Borgese. 147 Cfr. infra, cap. II, § 7 e § 8. 148  Per l’analisi di questo aspetto nelle Affinità elettive rimando al già ricordato saggio di Sampaolo (Critica del moderno cit.), che compendia anche la critica tedesca sul tema; per Borgese mi riferisco al filone interpretativo inaugurato da Luciano De

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Borgese, messo generalmente in relazione con le sperimentazioni del romanzo psicologico primonovecentesco149, ha una profonda radice goethiana e svolge una funzione essenzialmente compositiva. Per osservarlo è utile concentrarsi sui due personaggi delle Affinità elettive e di Rubé che rivelano maggiore prossimità: Ottilie ed Eugenia. Entrambe posizionate a uno dei vertici del quadrilatero sentimentale, queste due figure femminili condividono fin dalle loro prime apparizioni una singolare incapacità di adeguarsi alle convenzioni e ai valori dell’epoca in cui vivono, candidandosi progressivamente a diventare, nel corso dei rispettivi romanzi, le uniche depositarie possibili di un’umanità che non si arrende alla dissoluzione del moderno. L’entrata in scena di Ottilie, giovane e bella ma socialmente svantaggiata in quanto orfana nullatenente, è un raffinato esempio di come il narratore goethiano, anziché esprimere giudizi diretti sui personaggi, lasci che sia il rifrangersi della loro immagine nelle coscienze altrui a decretarne le caratteristiche. La presentazione di Ottilie avviene infatti in maniera obliqua, attraverso le lettere – non esattamente lusinghiere – indirizzate dalla direttrice del suo collegio a Charlotte, sua tutrice e zia: da esse emerge un carattere ancora acerbo e tutt’altro che brillante, una personalità chiusa, lenta e apparentemente incapace di trarre profitto dall’istituzione scolastica. Questo tratto del suo carattere risalta in modo particolare nel confronto con un personaggio minore ma significativo, quello di Luciane, figlia di primo letto di Charlotte, che con la sua vitalità e spigliatezza (è brava a scuola, impara in fretta e parla le lingue) è invece il prototipo per eccellenza della giovane moderna. L’unica opinione discorde nel descrivere Ottilie è quella del suo istitutore personale, che avverMaria (Introduzione cit., p. VI), in seguito ripreso e approfondito da molti altri interpreti del romanzo: cfr. in particolare Giudicetti, La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese cit., pp. 96-105; e Marco D’Urso, Romanzo come tragedia. Il tragico nel romanzo italiano moderno, Bulzoni, Roma 2008, che sottolinea anche come «il richiamarsi e riconnettersi di immagini, parole, intuizioni, da un capo all’altro dell’intreccio» sia «caratteristica portante, strutturante, di una trama tragica» (p. 61). 149 De Maria lo qualifica come «simbolista» (Introduzione cit., p. XV). Cfr. inoltre l’analisi di Giovanni De Leva, Dalla trama al personaggio. Rubé di G.A. Borgese e il romanzo modernista, Liguori, Napoli 2010, che nel tropo ricorrente delle immagini acquatiche legge ad esempio un riferimento al vitalismo (p. 54).

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te in lei la ricchezza dei frutti più veri e sostanziosi, e per questa ragione più lenti a sbocciare150. Ottilie sembra dunque vivere secondo ritmi biologici più legati alla ciclicità della natura che non al tempo vettoriale della modernità, e la sua “indole vegetale” si confermerà al momento dell’arrivo nel feudo di Eduard e Charlotte, dove dedicherà tutto il suo tempo alla cura delle piante. Altrettanto in sordina ha luogo, in Rubé, l’entrata in scena di Eugenia. Figlia di un maggiore d’artiglieria abbandonato dalla moglie – e dunque a sua volta marginalizzata per la condotta immorale di sua madre –, Eugenia compare per la prima volta a casa di Federico Monti confusa in mezzo a una compagnia di giovani che discutono dell’imminente scoppio della guerra, e solo dopo un po’ prende la parola di persona, peraltro per ripetere l’opinione di suo padre: Poco dopo, Eugenia Berti, che aveva sempre taciuto, disse senza staccarsi dalla poltrona di canna a dondolo su cui giaceva tenendo le mani intrecciate sul capo come un’aureola: «Papà dice» era figlia un maggiore d’artiglieria «che se c’è una guerra sul serio gli esplosivi moderni riducono il mondo in poltiglia». Le parole caddero insieme ai primi rintocchi dell’avemaria. Altri seguirono e la campagna ch’era già debole nell’attesa del novilunio ne fu come sconfortata; tanto quei suoni parvero ammollire le linee degli acquedotti e dei colli, che pocanzi spiccavano di chiari contorni, e spandere da cavità erbose una blandizia di dissoluzione151.

In queste poche righe c’è tutto il carattere di Eugenia, pura e innocente (più avanti paragonata a una «vergine preraffaellita»), inizialmente poco autonoma dal punto di vista intellettuale (lei stessa ammette di non essere «un miracolo d’intelligenza») eppure dotata di una sua strana forza naturale: sembra infatti quasi che sia lei, misteriosamente in sintonia con un tempo cosmico misurabile solo dai rintocchi delle campane, a far calare il buio e a confondere i contorni della campagna circostante. Come Ottilie, anche Eugenia ha insomma l’apparente fragilità e lentezza della vegetazione (Filippo la soprannominerà «Betulla»), di nuo150  Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, in Id., Opere, a cura di Lavinia Mazzucchetti, vol. III, Sansoni, Firenze 1963, pp. 893-1133, qui p. 918. 151 Borgese, Rubé cit., p. 10.

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vo messe in risalto dal confronto con una donna più moderna e intraprendente di lei come Mary Corelli – ricca, abituata a viaggiare e a parlare le lingue. «Sola Mary Corelli gli piaceva e gli pareva interamente donna», afferma il narratore interpretando i pensieri di Filippo «ma la fama l’assegnava a Federico. Era anche troppo ricca perché le sue speranze osassero guardare fino a lei». Rubé si rassegna dunque a sposare Eugenia, un matrimonio senza amore di cui la ragazza è la prima vittima. Nel brano sopra citato emerge un terzo elemento decisivo nel tracciare una continuità tra la figura di Ottilie e quella di Eugenia, ovvero il loro implicito legame con il mondo dell’oltretomba. Per quanto giovani e belle, infatti, entrambe le figure appaiono costantemente circondate da un’ombra di morte: Ottilie si rende responsabile di quella del figlio di Eduard e Charlotte; Eugenia viene spesso associata, come nel passo sopra riportato, a immagini funebri, al punto che persino la sua bellezza fa «trasalire come un presentimento di lutto»152. La coincidenza di questi tre elementi – bellezza/giovinezza/mortalità – ha fatto identificare dietro il personaggio goethiano di Ottilie il palinsesto arcaico del mito persefoneo153, rivelando la trama mitologica sottesa all’intera costruzione delle Affinità elettive: intorno a questo iniziale «nucleo traumatico», da Goethe già preso in esame in esperimenti letterari antecedenti154, si svilupperebbe dunque l’intero impianto narrativo dell’opera. L’interesse per il topos della giovane rapita e condotta anzitempo alla morte, che Goethe trasforma in una sorta di «schema esemplare della modernità»155, identifica la morte con la corruzione data dal contagio della vita moderna, che comporta per il personaggio femminile la distruzione dell’“idillio” (per esempio nel Werther) o del “piccolo mondo” (nel Faust) e il suo conseguente perdersi nel disordine del moderno. A fare anche di Eugenia una figura persefonea non è dunque soltanto la presenza delle caratteristiche sopra ricordate: analogo è 152 

Ivi, p. 57.

153 Sampaolo,

Critica del moderno cit., p. 95. Cfr. soprattutto il monodramma Proserpina (1776-1777) e La figlia naturale [Die natürliche Tochter] (1803), in cui la protagonista porta peraltro il nome di Eugenia. 155  Giuliano Baioni, Il giovane Goethe, Einaudi, Torino 1996, p. 29. 154 

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soprattutto il destino che la attende per mano di un uomo che, impossessandosi di lei più per egoismo che per amore, la strappa al suo mondo per trascinarla nel vortice sociale del presente (in Rubé identificato soprattutto con la metropoli milanese). Filippo Rubé condivide infatti a sua volta con il barone Eduard delle Affinità elettive un tratto fondamentale: entrambi sono prototipi di quell’egoismo moderno che, incapace di stabilire un reale contatto con i propri simili, cerca il possesso come affermazione del sé. Rubé è fin troppo consapevole di aver contratto la malattia della modernità, quella coazione a distinguere, a spezzettare (nel suo linguaggio: a «spaccare il capello in quattro») che gli impedisce di “amare” (ovvero di stabilire una relazione organica con l’altro); la stessa malattia che nelle Affinità elettive Goethe esprime attraverso la metafora della chimica, “l’arte della divisione” (Scheidekunst) che viviseziona e uccide ciò che dovrebbe invece vivere in forma organica. Rivelatore è l’atteggiamento che tanto il barone quanto Rubé hanno nei confronti della guerra, luogo infero della modernità nel quale tutti i destini individuali diventano per definizione indifferenti: partendo volontari per le guerre del loro tempo, entrambi cercano l’annientamento del proprio io dentro l’annientamento collettivo, nella convinzione di poter cancellare solo così la colpa originaria di essere “individuati”156. A strutturare la trama tragica, che come anticipato culmina in entrambi i romanzi con una “morte per acqua”, concorre poi in maniera decisiva il tropo delle immagini acquatiche. In tutti e due i casi a morire annegato è un personaggio che non fa parte del quartetto sentimentale di base, ma che morendo ne altera irrimediabilmente l’equilibrio: nelle Affinità elettive è il figlio appena nato di Eduard e Charlotte, in Rubé è Celestina, l’affascinante francese che Filippo ha condotto con sé in barca sul Lago Maggiore157. Ampiamente studiato sia per Goethe che 156  Sul significato della guerra nelle Affinità elettive cfr. ancora Sampaolo, Critica del moderno cit. (in particolare p. 143); mentre a proposito di Rubé rimando soprattutto al secondo capitolo del romanzo, nel quale il protagonista, durante il viaggio che lo porta al fronte, si augura «una qualche smemoratrice malattia, un tifo, una meningite, che lo esonerasse dal governo di sé e lo riducesse in balìa del volere altrui» (Borgese, Rubé cit., pp. 22-23). 157  Celestina, di cui Filippo Rubé si innamora durante il soggiorno a Parigi, sembra scardinare il quadrato delle relazioni sentimentali: narrativamente la sua figura

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per Borgese, questo elemento non è stato tuttavia mai messo in relazione nei due autori, che ne fanno un uso speculare e che è dunque utile analizzare congiuntamente. In Goethe, com’è noto, l’acqua è in genere rappresentata come una forza disgregatrice, negativa in quanto recalcitrante a qualsiasi governo razionale e capace di distruggere ogni principium individuationis della modernità: l’acqua travolge l’apprendista stregone, seduce il pescatore facendolo sprofondare in mare, rischia di uccidere il figlio di Wilhelm Meister al termine dei Wanderjahre e apparentemente accetta di piegarsi solo alla violenza di Faust, che alla fine della sua vita sembra davvero riuscito a domarla per mezzo di monumentali opere di bonifica. Nelle Affinità elettive l’acqua compare soprattutto come una forza statica, ma non per questo meno minacciosa. Ricorrendo a un campionario di immagini condiviso e dunque facilmente decodificabile dai lettori europei del suo tempo, Goethe mostra qui i suoi protagonisti intenti a progettare giardini e disegnare canali il cui razionalismo esprime la possibilità umana di governare civilmente la natura, eppure, al centro del feudo di Eduard e Charlotte, il lago continua a esercitare un potere d’attrazione infernale: in esso cadono, rischiando la vita, gli invitati alla festa di compleanno del barone, sul lago si manifesta l’inquietudine di Charlotte durante una gita in barca col Capitano che di colpo sembra trasformarsi in un traghettatore d’oltretomba, e tra le sue onde annega infine il figlio appena nato dei due coniugi, quando Ottilie, sconvolta dall’apparizione di Eduard che vuole farla sua, perde il controllo della barca su cui lo stava riportando a casa158. Il piccolo Otto, concepito durante l’amplesso “infedele” di Charlotte ed Eduard che immaginano in realtà di congiungersi con il Capitano e con Ottilie159 – è la scena che aveva destato scandalo tra i primi lettori –, dovrebbe permettere alla piccola comunità di tornare alla quiete e all’ordine tende tuttavia a sovrapporsi a quelle degli altri due personaggi femminili, riprendendo sia alcuni tratti di Eugenia (esplicitati nell’immagine del violoncello associata a entrambe, cfr. ivi, p. 153 e 266) sia di Mary (il risuonare del tema I remember/I don’t remember che accompagna le due figure, ivi, pp. 64, 286, 346). 158 Goethe, Le affinità elettive cit., rispettivamente alle pp. 987-988, 976, e 1101. 159  Ivi, p. 973.

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iniziali, ma accade invece l’esatto contrario: la sua morte segna un punto di non ritorno, è la catastrofe decisiva che porta infine anche Ottilie, tormentata dal senso di colpa, a lasciarsi morire. In Rubé, dal punto di vista narrativo, la scena dell’incidente sul lago costituisce uno snodo analogo, a seguito del quale la vicenda comincia a correre quasi meccanicamente verso l’“autoeliminazione” del protagonista che, sebbene assolto dalla giustizia ufficiale, non smette di considerarsi un assassino. L’inquietudine che deve culminare nel momento in cui Filippo e Celestina escono in barca sotto il temporale viene preparata, anche in questo caso, attraverso un’insistenza percussiva sulle immagini acquatiche, associate alla vita che ristagna (le frequenti immagini della palude), che scorre (le immagini del fiume) e che diventa morte (l’immagine di Venezia fra palazzi «cariati dall’acqua stantìa» e «gondole nere come bare»160). A percepire dichiaratamente l’acqua come una presenza minacciosa è soprattutto Eugenia: in uno dei suoi primi colloqui con il futuro marito confessa infatti di aver paura dei temporali161, e sarà ancora lei, alla fine del romanzo, a fissare la morte di Filippo nell’immagine divenuta proverbiale del naufragio nella folla162. Da una posizione marginale, il personaggio di Eugenia arriva così a conquistare definitivamente il centro della scena. Lo si vede soprattutto nel breve dialogo conclusivo con Federico, quando egli, nel maldestro tentativo di consolarla, sembra quasi suggerire che la morte di Filippo sia stata un bene, altrimenti la sua inquietudine avrebbe finito per trascinare nel precipizio anche lei: «Il pensiero che mi avete appena espresso appartiene a quel genere di pensieri che hanno distrutto Filippo», replica asciutta lei163. L’autonomia che questa frase rivela anche rispetto all’autorevole figura di Federico porta in primo piano la consapevolezza della donna, che nel finale si colloca così in una posizione quasi di superiorità rispetto alla vicenda tragica164. Sia Ottilie che Eugenia, infatti, 160 Borgese,

Rubé cit., p. 28. Ivi, p. 49. 162  Ivi, p. 417. 163  Ivi, p. 419. 164  La centralità del personaggio di Eugenia e in generale delle figure femminili viene notata anche da Bacchelli, peraltro con una certa stizza: «Eccezione onorevole 161 

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“sopravvivono” in qualche modo al dramma della disgregazione di cui sono testimoni e vittime. L’apoteosi di Ottilie, che nel finale delle Affinità elettive viene santificata dalla fede popolare con grande dispiego di allusioni cristiane, è stata interpretata da molti lettori di Goethe come una conclusione parodica, ma per quanto sia chiaro che l’autore non intende suggerire con essa soluzioni mistiche al dramma dei moderni è altrettanto vero che in Ottilie – la cui ultima frase, rivolta all’uomo che l’ha rovinata, è la più generosa delle preghiere: «Promettimi di vivere» – Goethe vuole anche indicare una possibilità umana ancora aperta, che passa attraverso il mondo infero dei moderni senza lasciarsene interamente distruggere165. Il romanzo di Borgese, a sua volta, non termina semplicemente con il «naufragio» di Rubé: l’ultima figura a rimanere in scena è proprio Eugenia, che con un lungo sguardo d’amore chiude gli occhi al protagonista e che – come la divinità che a ogni stagione «muore e diventa» – passa attraverso la morte per ridare la vita: il lettore sa infatti che è incinta. A queste figure femminili è affidata dunque l’estrema proposta etica del romanzo, la continuazione di un’idea di umanità fortemente messa a repentaglio dalla cultura moderna, ma non ancora del tutto sconfitta. 6.3. Tempo e spazio I tropi appena analizzati hanno nelle Affinità elettive non soltanto la funzione di strutturare la vicenda narrata, ma anche quella di connetterla al momento storico in cui si svolge, ovvero quello post-rivoluzionario. Che parli di cura dei giardini, di corsi d’acqua deviati per migliorare l’irrigazione dei campi si può fare per quasi tutte le figure di donna, specialmente per Eugenia, Celestina Lambert e la siciliana Sara. Ma gli uomini! quel che dicono, come si decidono e le cose che succedon loro! Valga per tutti l’inopinabile e inopinata cancrena del Dottor Federico» (Bacchelli, recensione a Rubé cit., pp. 55-56). 165  Pur tenendosi prudentemente a distanza da qualsiasi lettura del romanzo in chiave religiosa, anche Sampaolo sottolinea infatti che «l’opera finirà per diventare il romanzo di Ottilie» (Critica del moderno cit., p. 90). Si tratta di un aspetto recepito già dai primi lettori del romanzo: una delle prime traduzioni francesi delle Wahlverwandtschaften esce non a caso con il titolo Ottilie, ou le pouvoir de la sympathie (Veuve Le Petit, Paris 1810).

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o di tableaux vivants messi in scena dai chiassosi ospiti della tenuta, nel 1809 Goethe sa di rivolgersi a un pubblico di lettori che riconosce in queste immagini i dibattiti e i conflitti del proprio tempo, ed è dunque in grado di interpretarli come precise prese di posizione. Un romanzo come Le affinità elettive, tuttavia, in cui nessun avvenimento storico viene menzionato esplicitamente e in cui nessun luogo geografico è riconoscibile in modo univoco, comincia ben presto ad essere percepito come astratto, capace di registrare il dato genericamente “umano” ma non di collocarlo entro una compagine storica determinata. Questa interpretazione destoricizzante delle opere goethiane è particolarmente diffusa nella Germania dei primi decenni del Novecento: ne fa fede un saggio come quello dedicato alle Affinità elettive da Walter Benjamin, secondo cui il richiamarsi a elementi mitologici sarebbe qui da leggere come un tentativo di fuga di fronte a una realtà ormai inaffrontabile166. Il giovane Borgese studioso di Goethe risente di questo stesso clima letterario quando afferma che Goethe non si rivela quasi mai, nell’opera sua, per uno storico. Anche quando sceglie personaggi di epoche tramontate o di popoli stranieri, egli considera quei personaggi sotto la specie dell’eternità: li svelle dall’ambiente, dalla tradizione, dalla razza, dal costume, e, postili in solitudine e in libertà, li colloca innanzi alla natura e a Dio. Le misure del tempo e dello spazio gli sono ignote. La concezione dell’umanità come di un organismo che porti in sé medesimo i germi del suo svolgimento e divenga progressivamente quel che già era in potenza è estranea al suo modo di pensare e di sentire. Fra l’individuo e il tutto non conosce e non riconosce intermediari. Ignora le razze, trascura i popoli, non distingue le epoche, non sente drammaticamente il progresso167.

Queste osservazioni si leggono nel già menzionato saggio La personalità di Goethe, con cui Borgese inaugura la sua attività accademica. È lecito credere che quando si accinge a scrivere Rubé – 166 Cfr. Sampaolo, Critica del moderno cit., p. 144. L’idea di un Goethe che tende a «dissolvere frequentemente il dato storico in quello generalmente umano» è ancora presente nell’analisi di Gerhard Kaiser (Faust, o Il destino della modernità, cit. p. 23). 167 Borgese, Mefistofele cit., pp. 37-38.

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dieci anni più tardi, e soprattutto con alle spalle una ormai lunga esperienza di studioso di letteratura tedesca – la sua visione di Goethe non sia più del tutto aderente al saggio del 1910, e tuttavia due aspetti qui formulati meritano attenzione: in primo luogo il riferimento al problema delle connessioni tra singolarità e totalità («Fra l’individuo e il tutto non conosce e non riconosce intermediari»), che abbiamo visto rappresentare uno dei cardini della sua riflessione filosofica e che si conferma essere anche un problema letterario, narrativo. In secondo luogo, è inevitabile osservare come il «limite» che Borgese ritiene qui di identificare nelle opere di Goethe venga da lui in un certo senso “corretto” proprio con la scrittura di Rubé. Il romanzo, così vicino alle Affinità elettive dal punto di vista della costruzione architettonica, se ne discosta infatti proprio nel modo di rappresentare il tempo e lo spazio, ovvero nel modo di calare nella grande Storia vicende e personaggi. La contestualizzazione spazio-temporale della vicenda, che Goethe demandava ai tropi socioculturali dell’epoca ma che i lettori successivi non saranno più in grado di decodificare, avviene in Rubé in maniera assai più semplice: facendovi irrompere la Storia in senso proprio, con le sue date e i suoi luoghi. Se il feudo di Eduard e Charlotte poteva sembrare uno spazio utopico e astratto, le vicende di Eugenia e Filippo si svolgono principalmente nelle ben riconoscibili metropoli contemporanee di Roma e di Milano; se la guerra per cui partiva Eduard rimaneva indistinta, quella che combatte Filippo Rubé è esplicitamente la prima guerra mondiale; se nel romanzo goethiano a dettare la formazione e lo scioglimento delle coppie erano impalpabili affinità chimiche, in Rubé sono invece concreti vincoli di ricchezza e di classe sociale. Per evidenziare il tratto universalistico e poco incline all’analisi della contingenza che a suo parere caratterizza la personalità di Goethe, nel Discorso del 1910 Borgese si sofferma in particolare sull’episodio della battaglia di Valmy inserito dallo scrittore tedesco nella Campagna di Francia (Campagne in Frankreich 1792), il resoconto autobiografico della spedizione militare austro-prussiana contro l’esercito rivoluzionario francese168. Invitato dal 168  Pubblicato da Goethe nel 1822, si tratta ancora una volta di un testo che in Italia non suscita particolare interesse almeno fino alla prima guerra mondiale, quan-

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duca di Weimar ad accompagnarlo in quella che avrebbe dovuto essere una semplice passeggiata in Francia, Goethe si trova in questa occasione ad essere testimone del momento in cui l’esercito prussiano, all’epoca considerato il più potente del mondo, si vede respinto da un disarticolato manipolo di rivoluzionari inferiore per numero e per organizzazione militare. Il racconto goethiano, effettivamente più intento a osservare le reazioni esterrefatte dei soldati che a elucubrare di geopolitica, è quanto di più antieroico si possa leggere in un resoconto di guerra: i nostri vennero ritirati dal fuoco e sembrava, invero, che nulla fosse accaduto. Una grandissima costernazione invase tutto l’esercito. Ancora al mattino non s’era pensato ad altro che ad infilzare e fare un boccone di tutti quanti i Francesi: io stesso ero stato indotto a partecipare a questa pericolosa spedizione dalla fiducia incondizionata in un esercito simile e nel duca di Brunswick; ma ora ognuno se ne stava per conto suo, nessuno guardava in faccia l’altro, oppure se avveniva, non era che per imprecare o maledire. Casualmente, proprio sul far della notte, avevamo formato un circolo, in mezzo al quale non era nemmeno permesso accendere – come di consueto – un fuoco: i più tacevano, alcuni parlavano mentre ad ognuno mancavano, a dir vero, cognizioni ed elementi di giudizio. Infine si fece appello a me perché dicessi quel che ne pensavo: io solevo infatti, rasserenare e rianimare sempre il gruppo con brevi motti. Questa volta dissi: «Di qui, oggi, ha origine una nuova epoca della storia mondiale, e voi potrete dire d’essere stati presenti». In quei momenti in cui nessuno aveva da mangiare, mi diedi a reclamare un boccone di quel pane procuratomi la mattina; anche di quel vino distribuito largamente il giorno avanti era rimasto tanto da riempire una boccetta d’acquavite ed io perciò dovetti rinunziare del tutto alla baldanzosa parte del ben gradito taumaturgo fatta presso il fuoco il giorno innanzi169.

do a distanza di alcuni anni escono la traduzione di Marino Lesti, realizzata nel pieno del conflitto per la diffusissima biblioteca universale Sonzogno (Volfango Goethe, La Campagna di Francia. L’assedio di Magonza, Sonzogno, Milano 1916), e quella di Edvige Levi (Id., La campagna di Francia, Rinascimento del Libro, Firenze 1931). Quanto l’antieroico resoconto goethiano abbia influito non solo su Borgese ma anche su altri scrittori italiani che negli anni successivi pubblicano romanzi e memorie legati agli episodi della prima guerra mondiale, sarebbe uno studio tutto da approfondire. 169  Johann Wolfgang Goethe, Campagna di Francia del 1972, tr. di Maria Teresa Mandalari, in Id., Opere, a cura di Lavinia Mazzucchetti, Sansoni, Firenze 1952, vol. II, pp. 1047-1249 (qui pp. 1103-1104).

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Nel rievocare questo passo della Campagna di Francia con i suoi studenti universitari, Borgese sa di menzionare un argomento a loro ben noto. La battaglia di Valmy, di per sé una battaglia di piccola entità che non aveva causato gravi perdite né sul fronte francese né su quello austro-prussiano, aveva infatti assunto nel corso dell’Ottocento un enorme valore simbolico in quanto prima vittoria inflitta da truppe rivoluzionarie a un esercito regolare: in Italia la sua fama era stata amplificata da Carducci, che in uno dei sonetti del Ça ira prendeva spunto proprio dal racconto di Goethe per inserire anche lui nel coro dei profeti che avevano annunciato l’inizio di una «novella storia»170. Prima mossa di Borgese è dunque quella di smontare la lettura eroicizzante di Carducci, per restituire il testo goethiano alla sua originale prosaicità. Nel resoconto della spedizione, infatti, dopo lo smacco subito non solo i soldati sono quasi incapaci di rivolgersi la parola l’un l’altro, ma persino il poeta, che per sua stessa ammissione deve le sue doti “taumaturgiche” più all’acquavite che all’ispirazione, sembra preso dalle proprie necessità fisiologiche anziché dalle svolte della Storia, le quali, peraltro, non fanno che susseguirsi indifferentemente: Voi sentite come Carducci, tratto dal suo santo furor partigiano, abbia alterato non solo l’accento, ma anche la parola di Goethe. Eine neue Epoche der Weltgeschichte, ha detto Goethe, e non già «die neue Epoche»: un nuovo ciclo di storia, non già la novella istoria. L’umanità non arrivava per lui ad una mèta radiosa; si fermava a una qualsivoglia tappa, un solo istante, e riprendeva l’eterno cammino. La «novella istoria» valeva agli occhi di Goethe non più delle istorie defunte che l’avevano preceduta, non più delle istorie future che l’avrebbero seguita. […] Se si fosse trovato nel campo avverso, Goethe avrebbe probabilmente pronunciato quelle identiche parole. E, pronunciato che le ha, non un guizzo di commozione si propaga nella sua anima di duro cristallo. «In questi momenti – così prosegue immediatamente la lettera – in questi momenti nei quali nessuno aveva da mangiare, io reclamai un pezzo di pane…». Qui la concordia tra il pensiero da semidio e la vita da borghese diventa stupefacente171.

170  Giosue Carducci, Ça ira [1883], Zanichelli, Bologna 1909, p. 48 («E da un gruppo d’oscuri esce Volfango / Goethe dicendo: al mondo oggi da questo / Luogo incomincia la novella storia»). 171 Borgese, La personalità di Goethe cit., pp. 48-50.

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Borgese prosegue continuando a porre l’accento sul racconto delle necessità quotidiane fatto da Goethe: il desiderio di cibo e di vino, il bisogno di dormire, e infine il momento in cui, insieme al duca di Weimar, il poeta arriva addirittura a scavarsi una piccola fossa dove coricarsi comodamente, incurante degli avvertimenti del colonnello secondo cui quei giacigli sarebbero troppo esposti alle cannonate francesi. Del resto «non era la prima volta in cui Goethe osservava che gli uomini, pur di sfuggire agli incomodi, accettano perfino i pericoli»172, commenta Borgese. L’aspetto che della scrittura goethiana viene messo più in risalto è ancora una volta la prosaicità: Borgese – e di conseguenza i suoi allievi – apprezzano questo tratto molto più che non l’imperturbabile sguardo del cronista, quella «olimpicità» che sarà invece il caposaldo dell’interpretazione crociana. Una tale rappresentazione antieroica della vita militare, in cui tutta l’attenzione va alle quotidiane necessità umane che non smettono di esistere sotto le bombe, lascia una traccia profonda nelle pagine di guerra che aprono Rubè. Un esempio tra i tanti è il dialogo fra il protagonista e il disilluso maggiore Berti, che cerca di stemperare con un invito a pranzo gli eroici furori del giovane tenente appena giunto nella zona di guerra: – […] Eh sì, c’è tempo prima d’andare al fronte. Il gruppo esiste sulla carta, ma ci vogliono i cannoni, le munizioni e l’istruzione degli uomini. Eppoi ci vuole anche la guerra. È sicuro lei che ci sarà la guerra? Io no. Filippo gli domandò che cosa sarebbe accaduto se, mentre il gruppo si preparava, gli austriaci calavano giù a invadere la piana veneta. – Eh, allora siamo fritti. No? Quando s’è in ballo si balla. Spareremo con gli 87 di bronzo che sono pittoreschi173.

E aggiunge, di fronte all’insistenza di Rubé: – Ih che furie! Tenente, non siamo né io né lei che salveremo la patria. Si fa quel che si può. Si collabora. Si sta al nostro posto pronti a tutto. Venga a pranzo con me. Ci sono le fragole174.

172 

Ivi, p. 51. Rubé cit. p. 28. 174  Ivi, p. 29. 173 Borgese,

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Se Borgese mantiene un tono fortemente prosaico e antieroico nel narrare la guerra di Filippo Rubé – una guerra, come si sa, a cui lui stesso aveva preso parte –, qualcosa interviene tuttavia ad alterare lo sguardo di «duro cristallo» che, almeno nel 1910, gli appariva come un limite della scrittura goethiana. Ed è qualcosa che ha appunto a che fare con la sua concezione della Storia e di ciò che è transeunte, fenomenico: qualcosa che non è – come per Goethe – un Gleichnis (il controverso termine con cui si chiude il Faust e che nella prolusione accademica Borgese traduce con «simbolo»175), quanto, in linea con l’estetica di stampo kantiano a cui lo scrittore si va nel frattempo avvicinando, l’unica forma di conoscenza, di esistenza, che all’uomo sia dato concretamente raggiungere. Un confronto fra la scena della cannonata di Valmy descritta da Goethe e quella del bombardamento aereo che dà inizio all’esperienza militare di Filippo Rubé può permetterci di fare qualche considerazione più precisa su questo aspetto. Anche la scena della cannonata, e più esattamente il racconto di come Goethe vi si trovi involontariamente coinvolto, viene presa in esame da Borgese nella prolusione del 1910: è la giornata decisiva della battaglia, e Goethe, persuaso che lo scontro non sia imminente o che, in ogni caso, l’esercito prussiano gli assicuri un’assoluta protezione, esce a cavallo spingendosi fin quasi a ridosso del fronte nemico e ritrovandosi sotto una pioggia di palle di cannone che solo per un caso non arrivano a colpirlo. Borgese: Come a Verdun aveva lungamente osservato un fenomeno di luce, così a Valmy, mettendo quasi a rischio la pelle, studia attentissimamente gli effetti fisiologici che sull’organismo umano ha il clamore della cannonata. La massima parte dell’epistola è occupata dalla relazione di questi esperimenti176.

Goethe, «impassibile cronista»177, sembra attratto soltanto dalla reazione del proprio corpo, improvvisamente pervaso da un calore – paragonabile, dice, a una febbre – che provoca l’effetto di vedere ogni cosa intorno a sé come immersa in una colorazione

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rossastra. Particolarmente degno di nota gli appare il fatto che tutto ciò sia scatenato solo «per tramite degli orecchi; giacché causa di tali impressioni sono effettivamente il rombo del cannone e il mugolio il sibilo e il rimbombo dei proiettili nell’aria»178. Gli effetti fisiologici che sull’organismo umano ha il clamore della cannonata: è la stessa esperienza che Filippo Rubé è costretto a fare la notte in cui il fragore dei colpi di cannone dichiara l’inizio delle ostilità fra l’Austria e l’Italia. Filippo è ben lontano dalla linea del fuoco, e tutto ciò che il suo corpo può percepire sono appunto rumori – degli aerei, delle bombe, dei furgoni militari che in piena notte partono sferragliando verso il fronte: eppure, nonostante la distanza, la sua reazione è tutt’altro che impassibile, e proprio da questa momentanea perdita di controllo ha inizio, per lui, l’angoscioso processo con cui accusa se stesso di essere un mediocre e un codardo. Di fronte al frastuono delle esplosioni, insomma, non solo il personaggio non è in grado di osservare le sue sensazioni fisiologiche e di deliziare i suoi lettori con un inatteso trattatello di acustica, ma proprio nel tentativo di analizzarle viene da queste completamente sopraffatto, al punto di precipitare, infine, in un delirio auto-punitivo: La sera innanzi, al fragore sordo delle esplosioni, egli s’era sentito accelerare un poco il polso, forse né più né meno di com’era accaduto a tanti altri. Ma poi, incamminandosi in silenzio verso l’albergo, quella lieve emozione gli si fuse col ricordo dello sgomento visionario che aveva provato la sera del 31 luglio alla Rustica e di quell’altro, più torbido, che l’aveva sopraffatto la notte del passaggio dei furgoni; e, via via che l’esplorava, l’emozione gli s’ingrandiva a dismisura. Sulle prime disse a se stesso che era pietà della patria in guerra, del sangue che stava per scorrere; e poté assopirsi. Ma verso la metà della notte si destò tutt’a un tratto, con una convinzione feroce d’aver avuto paura. Soffocato da una disperazione di vergogna, temette di urlare; si alzò; si rivestì; misurò centinaia di volte lo spazio angusto della camera, con l’animo di un prigioniero condannato a morte179.

È fin troppo ovvio sottolineare che i bombardamenti a tappeto della prima guerra mondiale – e qui vediamo l’emergere della sto-

175 Borgese,

La personalità di Goethe cit., p. 44. Ivi, p. 47. 177  Ivi, pp. 47-48. 176 

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178 Goethe, 179 Borgese,

Campagna di Francia cit., p. 1103. Rubé cit., pp. 43-44.

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ria materiale, una storia che non è mero accidente di una condizione umana immutabile – non sono le cannonate delle guerre settecentesche. Si tratta, al contrario, di quegli «esplosivi moderni» che «riducono il mondo in poltiglia»180 menzionati da Eugenia Berti al momento della sua entrata in scena. Il romanzo di Borgese riposiziona così nella storia a lui contemporanea l’immagine goethiana dell’uomo moderno che si aggira inconsapevole sotto un fuoco di palle di cannone, identico – pur trovandosi in una condizione mai vista prima nella Storia – all’uomo pre-moderno terrorizzato dal temporale. L’intento dei bombardamenti a tappeto era del resto proprio quello di fiaccare il morale di militari e civili ponendoli in una condizione di totale impotenza, facendoli sentire esposti a qualcosa di incontrollabile come un evento di natura, che giunge dall’alto «con l’autorità di un castigo supremo»181. L’accuratezza compositiva di Borgese mostra tutta la sua forza nel richiamare, proprio a questo punto, la paura dei temporali confessata da Eugenia: i due protagonisti si trovano così accomunati da un sentimento che, fino alla fine, sembra costituire il loro unico vero legame, quella paura che l’arcaica Eugenia prova di fronte al «fuoco del cielo» e il moderno Filippo di fronte al «fuoco della terra»182. 7. Borgese traduttore 7.1. Schlemihl e Werther Quando all’inizio degli anni Venti Borgese compone le sue opere narrative più importanti, il repertorio di opere tedesche che più o meno direttamente agisce sulla sua scrittura è un patrimonio in gran parte personale, condiviso al massimo con gli allievi dei suoi corsi universitari di letteratura. L’inizio dell’attività editoriale a fianco di Mondadori, negli anni che seguono il suo trasferimento a Milano, segna una svolta anche da questo punto di vista: attraverso il lavoro di mediatore editoriale – come traduttore ma 180 

Ivi, p. 10, e cfr. supra, cap. II, § 6.2. Rubé cit., p. 49. 182  Ivi, p. 54. 181 Borgese,

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soprattutto come ideatore e consulente della biblioteca romantica – Borgese contribuisce a far sì che nel giro di un decennio i più significativi romanzi della cultura occidentale diventino patrimonio di tutti i lettori italiani, e non solo di quelli che, come lui, hanno accesso almeno a una lingua straniera. Questo suo ruolo organico al mondo della produzione libraria, generalmente trascurato rispetto all’attività di scrittore e di critico letterario183, rende la sua figura particolarmente rilevante rispetto a quelle di molti altri scrittori-traduttori dello stesso periodo: come mostreranno i prossimi paragrafi, i romanzi che Borgese mette in circolazione nel repertorio letterario italiano contribuiscono infatti alla diffusione delle sue idee non meno dei suoi scritti narrativi e teorici. Prima di osservare come la proposta estetica di Borgese si concretizzi nel progetto della romantica, è utile analizzare più da vicino il suo lavoro di traduttore. Sebbene un interesse per la traduzione sia evidente nei suoi scritti almeno dagli anni Dieci – decisamente puntigliosa nel confrontare tedesco e italiano è la recensione che pubblica nel 1911 alla Giuditta di Hebbel curata da Scipio Slataper e Marcello Löwy184 –, non sono molti i testi che si occupa poi personalmente di tradurre in italiano: tra essi figurano due romanzi – I dolori del giovane Werther di Goethe (Die Leiden des jungen Werther, 1774) e la Storia meravigliosa di Pietro Schlemihl di Adalbert von Chamisso (Peter Schlemihls wundersame Geschichte, 1814) – e il goethiano Lied der Auswanderer (1829), pubblicato all’interno di una raccolta mondadoriana del 1932 con il titolo Canzone degli emigranti185. Come Rubé e I vivi e i morti, anche lo Schlemihl e il Werther di Borgese, realizzati pochi anni dopo e destinati a confluire nella romantica, rappresentano due tappe della sua ricerca di forme 183 Il lavoro editoriale di Borgese rimane in ombra, ad esempio, anche in un testo assai sensibile alla sua opera critica e narrativa come Il romanzo del Novecento di Debenedetti. Fatto tanto più singolare se si pensa che Debenedetti fu in prima persona tra i collaboratori della romantica: è lui infatti a firmare traduzione e postfazione del romanzo Il mulino sulla Floss (The Mill on the Floss) di George Eliot, 48° volume della collana, programmato fin dal 1926. 184  Giuseppe Antonio Borgese, Hebbel e la “Giuditta”, «La Cultura», XXX, 9, 1° maggio 1911, poi in Id., La vita e il libro. Terza serie cit., pp. 291-304. 185 Cfr. Amalia Vago, Tomaso Gnoli (a cura di), Liriche scelte dalle migliori traduzioni italiane, Mondadori, Milano 1932, p. 227.

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narrative per il presente, e in quanto tali vanno interpretati nel quadro più ampio della sua produzione letteraria. In entrambi si riconosce il filo rosso della riflessione sul romanzo come genere letterario della modernità, elaborata lungo due direttrici principali: la prima, su cui già si è avuto modo di soffermarsi parlando di Rubé, è quella che riguarda la creazione di una distanza estetica tra voce narrante e personaggio protagonista; la seconda – che sarà invece possibile approfondire meglio proprio partendo dalle traduzioni – è quella relativa alla necessità di una lingua italiana moderna, prosaica, piana e polifonica allo stesso tempo. 7.2. Staccare l’autore dal personaggio La traduzione del romanzo di Chamisso viene pubblicata in prima battuta dall’editore milanese Guido Modiano, in un’edizione a tiratura limitata accompagnata da illustrazioni originali del figlio di Borgese, Leonardo186. Accanto alla Storia di un buono a nulla di Eichendorff (Aus dem Leben eines Taugenichts, 1826) e alla Novella di Goethe (Novelle, 1828), il racconto avrebbe poi dovuto essere ristampato come 18° volume della romantica187, ma il trittico, probabilmente anche a causa del trasferimento di Borgese negli Stati Uniti, non verrà mai completato. Peter Schlemihl resta così, accanto a Werther, l’unico personaggio a cui lo scrittore abbia dato una voce italiana. L’interesse che lo spinge ad interessarsi alla sua storia si manifesta fin dal titolo scelto per il volume, leggermente difforme da quello originale e forse ispirato da una precedente traduzione francese: L’uomo senz’ombra mette infatti in rilievo il tratto saliente del protagonista, il quale, in cambio di una borsa da cui è possibile cavare all’infinito monete d’oro, ha venduto la propria ombra a un misterioso «uomo in grigio». Quella di Schlemihl è dunque un’ulteriore variazione, stavolta in tono fiabesco, della tragedia 186  Adalbert

von Chamisso, L’uomo senz’ombra. Storia meravigliosa di Pietro Schlemihl, G. Modiano, Milano 1924. 187  Come tale viene annunciato infatti nel volumetto programmatico Biblioteca Romantica diretta da Giuseppe Antonio Borgese (Mondadori, Milano 1930), che comprende una presentazione della collana e l’elenco dei cinquanta titoli inizialmente progettati.

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di Faust; e nella vendita dell’ombra è facile identificare una rappresentazione più popolare e immediata della rinuncia all’anima. Borgese aveva esplicitato questa interpretazione già in un articolo del 1914, dove affermava che, nel racconto di Chamisso, «il mito più grandioso del romanticismo, il sentimento più tragico dell’uomo moderno» si erano cristallizzati in una «piccola e perfetta gemma fiabesca»188. Come quello di Faust, il gesto di Schlemihl è tragico e moderno perché ambiguo, stretto fra il desiderio legittimo di uscire da uno stato di minorità (nell’articolo Borgese ricorda anche l’interesse di Chamisso per il pensiero kantiano) e il rischio di mettere a repentaglio la sua natura umana: Sospirando verso l’assoluto, Pietro Schlemihl rinunzia materialmente alla sua relatività, all’ombra; e vive in piena luce. Abbandona al diavolo la sua umanità; e come segno della raggiunta indipendenza, ne ottiene un borsellino inesauribile. Ne è venuto un Faust per fanciulli189.

Accanto al motivo tematico, inoltre, il romanzo di Chamisso offre a Borgese l’occasione di prendere (o riprendere) in esame il problema dell’identificazione autore-personaggio, opposizione che costituisce, come abbiamo visto, uno dei pilastri della sua estetica romanzesca. La strana storia di Peter Schlemihl – che Borgese considera ispiratrice di Poe, di Wells, e di tutto un filone romanzesco che gli italiani già leggono con passione ma «senz’ordine e senza regola», non riconoscendovi una «tradizione»190 – è introdotta infatti da una serie di cornici narrative, l’ultima delle quali, aggiunta da Chamisso nel 1822, ironizza appunto sulla tendenza dei lettori a identificare il personaggio e il suo creatore. Quasi a volerli spiazzare ulteriormente, Chamisso compone questa avvertenza in forma di poesia: cinque ottave rivolte «Al mio vecchio amico Peter Schlemihl», la seconda e la terza delle quali suonano come segue nella versione di Borgese: 188  Giuseppe Antonio Borgese, L’uomo che vendette la sua ombra, «La Lettura», 1° luglio 1914, pp. 603-608 (qui pp. 606-607). L’articolo viene poi incluso, con poche modifiche, in Ottocento europeo (Treves, Milano 1927, pp. 172-183). 189  Ivi, p. 606, mio corsivo. Non si può dimenticare che Borgese scrive queste righe a pochi giorni di distanza dallo scoppio della prima guerra mondiale. 190  Ivi, p. 604. È anche in risposta a questa mancanza di tradizione che nasce il progetto “organico” della romantica.

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Non che il Maligno abbia di me lo scempio fatto che di te fece, o sventurato. Vero è che invano alzai le preci al tempio azzurro, e il sospirar non m’ha giovato; che sperai molto e poco ebbi; ma all’Empio vantarsi della mia ombra è negato. L’ombra ch’ebbi nascendo preservai; non l’ho venduta né perduta mai. Pur non mi valse l’essere innocente, ché della colpa tua portai la pena. Or vedi somiglianza sorprendente! Gridavano: «Schlemihl, l’ombra?», ed appena io l’indicava ai piedi miei, la gente incredula ridea con nuova lena. Fui paziente. L’anima ch’è pura sopporta l’ingiustizia e la sventura191.

Al centro dell’immagine sta come si vede una rivendicazione di integrità da parte dell’autore, il quale, se pure ha narrato la storia di un personaggio che vende l’ombra (ovvero l’anima), non per questo l’ha venduta a sua volta. Fiato sprecato: anche Chamisso, come il suo traduttore un secolo dopo, dovrà vedersela con un pubblico di critici che rimproverano a lui le mancanze del suo personaggio. Ed è proprio Borgese a sottolinearlo, nel notare come il romanzo abbia fino a quel momento circolato in Italia in maniera irriconoscibile: in un’edizione ottocentesca, ricorda, «leggiamo infatti sulla copertina: Pietro Schlemihl, La storia meravigliosa, obliterato affatto il nome di Chamisso, come se Schlemihl fosse autore anzi che protagonista»192. L’attenzione che Borgese dedica a questo aspetto si riverbera anche nella sua traduzione del Werther, forse in assoluto il romanzo della letteratura moderna per il quale l’identificazione tra autore e personaggio è stata più insistita. Nata effettivamente da uno spunto autobiografico – la nota vicenda dell’innamoramento di Goethe per Charlotte Buff, unita a quella del suicidio dell’amico Jerusalem – la storia di Werther aveva perseguitato per anni il suo 191 Chamisso, 192 Borgese,

L’uomo senz’ombra cit., pp. 7-8. L’uomo che vendette la sua ombra cit., p. 604.

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inventore, che ancora in tarda età non si capacitava del perché i lettori non capissero che la morte del personaggio coincideva con la guarigione e la liberazione del suo autore. Borgese inizia a tradurre il romanzo intorno al 1926193, per poi pubblicarlo nel 1930 come secondo volume della romantica, accompagnato da una Nota del traduttore: in essa vengono ripercorsi ancora una volta gli avvenimenti di Wetzlar che avevano fornito al poeta la materia narrativa, ma subito dopo si fa riferimento alle varie rielaborazioni che Goethe aveva fatto del romanzo tra il 1774 e il 1787 (dunque alla costruzione dell’opera), arrivando a una stesura definitiva che, fra le altre cose, contribuiva a «relegare in ultimo piano il motivo dell’amor proprio socialmente offeso»194. Analizzando la «costruzione del Werther» – quella che Borgese spiegava ai suoi studenti romani nelle lezioni che riportano questo titolo – si evince infatti come nel passaggio dalla prima all’ultima stesura la scrittura goethiana evolva verso una progressiva relativizzazione del protagonista, ottenuta spesso attraverso strumenti assai sottili come l’aggiunta di un commento da parte di un altro personaggio, la modifica di un verbo di percezione, il rafforzamento della cornice narrativa. L’autore, che inizialmente aderisce alle ragioni del personaggio Werther (come nella prima stesura del Wilhelm Meister aderisce a quelle di Wilhelm195), ottiene così quel delicatissimo equilibrio di prossimità e distanza che permette al lettore di immedesimarsi nella “malattia” di Werther e insieme di vederla lucidamente da fuori. Tutto il senso del libro, secondo Borgese, è insomma nella contemporaneità, veramente fulminea, dell’estrema passione romantica e della sua chiarificazione secondo ragione. Goethe, al tempo stesso, è Werther e lo giudica dall’alto, con benevolenza divina […] e la 193  Così afferma il traduttore nella Nota che accompagna il romanzo: «Questa che ora pubblico mi sorse, posso dire, dall’intimo, come il bisogno di pellegrinare, wertherianamente parlando, verso una venerabile fonte. La scrissi negli anni ’26 e ’27; e la rielaborai ripetute volte negli anni successivi» (Giuseppe Antonio Borgese, Nota a Volfango Goethe, I dolori del giovane Werther, Mondadori, Milano 1931², pp. 263-267, qui p. 267). Il volume è dedicato a Stefan Zweig, che Borgese aveva conosciuto grazie a Geiger negli anni berlinesi (cfr. supra, cap. II, § 3.2). A revisionare la traduzione sono Lavinia Mazzucchetti, con cui Borgese collabora all’Università di Milano, e l’amica di lei Dora Mitzky. 194  Ivi, pp. 272-273. 195 Cfr. supra, cap. I, § 3.3.

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sorte dell’infelice è descritta come il viaggio di una cometa, l’errore di un arbitrio, frammezzo alle stelle fisse […]196.

È certo l’occhio del romanziere, più che quello dello studioso, a suggerire a Borgese considerazioni di questo tipo. Le domande che pone a Goethe sono almeno in parte quelle che pone a se stesso nel momento in cui sceglie come protagonisti dei suoi romanzi uomini che, per quanto rappresentativi di un’epoca e segnati da esperienze che coincidono in larga misura con le sue, sono soltanto uno stadio – e uno stadio superato nell’attimo stesso in cui comincia a scrivere – della sua visione del mondo. In Rubé, lo si è osservato nei paragrafi precedenti, le ragioni del protagonista sono costantemente controbilanciate da quelle degli altri tre personaggi principali, e a relativizzarle bastano a volte interventi quasi impercettibili di figure marginali (come nella scena della visita medica). Lo stesso accade in I vivi e i morti con il personaggio di Eliseo Gaddi, la cui indole contemplativa, con annesso ritiro in campagna, è guardata dal narratore con simpatia e sempre come una sorta di tentazione: ma anche stavolta, a ridimensionare il rischio di immedesimazione, interviene un secondo personaggio – quello della madre, per molti aspetti più moderna del figlio. Anziché esultare del suo ritorno nella tenuta di famiglia, veniamo infatti a sapere, in verità la madre «aveva desiderato, o sperato, che Elìo si facesse la sua strada in città»197; e sembrano andare ancora a lei le simpatie del narratore quando ci informa che Eliseo, dedito soltanto a poderose letture saggistiche, fa arrivare per lei dai librai milanesi – i deplorevoli milanesi! – innocui «romanzi stranieri»198: e il lettore non può dimenticare che, dietro la voce narrante, si nasconde uno scrittore che già in quegli anni si impegnava a far arrivare in Italia proprio questi romanzi, considerandoli, contro il giudizio dei suoi colleghi letterati, il modo più efficace e persuasivo di avvicinare i suoi contemporanei ai valori della modernità. Nel tradurre lo Schlemihl e il Werther – cosa che Borgese arriva a fare solo dopo aver composto i suoi romanzi, ma sui 196 Borgese,

Nota a Goethe cit., p. 274, mio corsivo. I vivi e i morti cit., p. 14. 198  Ivi, p. 219. 197 Borgese,

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quali riflette già da molti anni – lo scrittore sembra guardare a Goethe come a un “collega” più che come a un modello da imitare, quasi un compagno di strada con cui discutere, in primo luogo, di problemi estetici e di possibili soluzioni narrative. E la strategia attraverso cui Goethe prende le distanze dai suoi protagonisti risulta per Borgese uno degli aspetti più produttivi: come «Goethe è Werther», anche Borgese è Filippo Rubé ed è Eliseo Gaddi, ma allo stesso tempo li giudica dall’alto – un “alto” che è poi semplicemente un “altro”, la voce di un diverso personaggio. 7.3. Lingua «piana» e lingua a «sbalzi»: come si scrive un romanzo moderno Attraverso le traduzioni dello Schlemihl e del Werther è possibile addentrarsi anche in una questione qui non ancora presa in esame, quella cioè di quale sia, secondo Borgese, la lingua più adeguata al romanzo come genere, problema che lo scrittore si pone negli scritti di traduzione più esplicitamente che altrove. Partiamo da un semplice dato di fatto: quando Borgese mette mano alle due traduzioni, sia il romanzo di Chamisso che quello di Goethe sono già ben noti al lettore italiano. La storia di Peter Schlemihl, con la cui traduzione si era cimentato persino Pirandello199, circola nell’edizione ottocentesca della biblioteca universale Sonzogno a cura di Pietro Valabrego200 nonché in varie versioni francesi; e del Werther, da sempre amatissimo nel nostro paese, esistono già almeno cinque versioni italiane201. Perché dunque tradurli ancora una volta? 199  Come si ricorderà, Peter Schlemihl è citato espressamente nel Fu Mattia Pascal e nel saggio L’Umorismo, la cui celebre dedica «Alla buon’anima di Mattia Pascal, bibliotecario» intende evidentemente richiamare la lettera al personaggio che apre il romanzo di Chamisso. La traduzione pirandelliana del Peter Schlemihl, rimasta allo stadio di abbozzo, è conservata presso l’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo di Roma. 200  Adalberto Chamisso, La storia maravigliosa di Pietro Schlemihl, Sonzogno, Milano 1898. 201 Nella Nota al Werther (cit., p. 267) Borgese ricorda le traduzioni di Gaetano Grassi (1782), Riccardo Ceroni (1858) e Luisa Graziani (1922), oltre a quella, mai ritrovata, che Antonietta Fagnani Arese realizzò per Ugo Foscolo. A queste sono da aggiungere le versioni meno diffuse di Michiel Salom e Corrado Ludger, pubblicate entrambe nel 1788.

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In entrambi i casi, al di là dell’interesse che potevano suscitare in Borgese gli aspetti tematici e formali sopra esaminati, alla base di queste ritraduzioni si trova un problema di lingua: vuoi per qualche manchevolezza da parte dei traduttori, vuoi per l’inevitabile processo di invecchiamento a cui è sottoposto qualsiasi codice letterario, le versioni disponibili all’inizio del secolo sono da lui considerate insoddisfacenti. E riambientare i due romanzi in una lingua più attuale significa non soltanto restituire i testi a una maggiore comprensibilità, ma anche veicolarne nuove letture, poiché ogni interpretazione passa anche attraverso una determinata resa linguistica. Nel caso dello Schlemihl, Borgese ritiene ad esempio che la potenza dell’opera risieda in gran parte nella “visibilità” della scrittura di Chamisso: Ciò che ne fa un capolavoro è l’istantanea fusione con cui l’ispirazione s’è precipitata nell’immagine. Tutto è visibile e palpabile. Faust che vende l’anima resta ancora nel regno sfumato dell’idea […]. Ma Schlemihl vende l’ombra, una cosa che si vede; e nel libriccino di Chamisso si vede anche il diavolo che l’arrotola e se la mette in tasca202.

Peccato che il lettore italiano, osserva sfogliando la versione di Valabrego, veda invece ben poco e finisca anzi per sentirsi piantato in asso dal traduttore, che si perde a poetare tra anacoluti e iperbati anche laddove «bisogna riconoscere che il poeta aveva parlato in modo un po’ meno sibillino»203. La versione di Borgese cerca perciò, all’inverso, di chiarire il più possibile le immagini del testo originale, rispettandone allo stesso tempo il tono fiabesco e giocoso. Lo si può verificare nella coppia di ottave riportate al paragrafo precedente, dove lo scrittore è attento a rendere più scorrevole la sintassi senza però rinunciare a riprodurre la struttura metrica del testo tedesco: alternando endecasillabi piani e tronchi, nell’originale le rime si susseguono secondo lo schema ABABABCC, che vediamo mantenuto anche nella versione italiana. Comprensibilità e chiarezza sono esplicitamente richieste da Borgese ai traduttori della biblioteca romantica, collana in cui, come già ricordato, anche il Peter Schlemihl avrebbe dovuto 202 Borgese, 203 

L’uomo che vendette la sua ombra cit., p. 606, corsivi dell’autore. Ivi, p. 604.

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confluire. Oltre a esigere che i collaboratori lavorino direttamente sul testo originale, senza tagli ed arbitrii, le linee guida della romantica prevedono infatti che le traduzioni siano scritte «in piana lingua italiana corrente, senza sfoggi arcaici o vernacolari, tranne i casi in cui particolari accentuazioni servano a imitare certi caratteri del testo»204. Questa lingua piana e comprensibile a tutti – che i traduttori del 1930, a differenza dei loro predecessori, ritengono di aver ormai a disposizione205 – è però tutt’altro che una lingua semplice, dal momento che l’orchestrazione di voci diverse, come Borgese ben sa, è fondamentale alla costruzione del romanzo. La «“frase pura”» afferma infatti poco oltre «inafferrabile in sé, cerca di raggiungersi sperimentandosi in quante più voci, in quante più tonalità, in quanti più timbri può; donde quasi il bisogno, quanto più cresce la spiritualità del mondo, di orchestre perfin materialmente sempre più estese»206. E come l’insieme delle traduzioni di un testo è il modo migliore per avvicinarsi alla profondità del suo significato, così la forza espressiva della lingua non si manifesta se non attraverso la varietà dei suoi elementi. Per questa ragione ai traduttori è accordata di fatto una notevole libertà stilistica, come si può osservare nella Vie de Bohème di Murger tradotta da Alfredo Panzini207, nella traduzione “toscaneggiante” del Tartarin di Daudet realizzata da Palazzeschi208 e, non ultimo, nel Werther stesso. Il lavoro di traduzione del Werther è ripercorribile quasi passo dopo passo attraverso gli appunti presi da Borgese in corso d’ope204  Giuseppe Antonio Borgese, Nota a Stendhal, La Certosa di Parma, Mondadori, Milano 1930, pp. 671-692, qui p. 678. 205 Lo sottolinea tra gli altri Guido Mazzoni, che per la romantica traduce The Vicar of Wakefield (1766): i difetti della precedente traduzione italiana, realizzata da Berchet, sarebbero a suo parere da ricondurre in primo luogo al fatto che questa risale «a molti anni innanzi che il Manzoni pubblicasse il suo romanzo, e a moltissimi anni innanzi che lo sottoponesse tutto alla revisione linguistica» (G.[uido] M.[azzoni], Avvertenza, in Oliviero Goldsmith, Il vicario di Wakefield, Mondadori, Milano 1933, p. [336]). 206 Borgese, Nota a Stendhal cit., p. 681, mio corsivo. 207  Ivi, p. 678. 208  «Mi parve allora», ricorderà Palazzeschi scrivendo a Paola Ojetti nell’ottobre del 1961 «che toscaneggiando ci si avvicinasse di più a quell’atmosfera provenzale» (citato in Simone Magherini, Gloria Manghetti (a cura di), Scherzi di gioventù e d’altre età. Album Palazzeschi (1885-1974), Polistampa, Firenze 2001, p. 121).

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ra209: da essi emerge in primo luogo come, secondo la sua interpretazione, la forza della scrittura goethiana – e di conseguenza la difficoltà di tradurla – risieda proprio nella straordinaria varietà di registri dell’originale, e nella perizia della loro orchestrazione. «Difficoltà principale del W.», vi leggiamo «questo continuo sbalzo dal linguaggio epistolare e conversativo a un lirismo ancora klopstokiano [sic]»210. Questo tratto della prosa goethiana viene descritto in modo più disteso nella Nota del traduttore: la peculiarità cui va ricondotta la fortuna del Werther si manifesterebbe appunto in una mai prima raggiunta morbidezza dei passaggi da un tono sobrio, e fin arido, di conversazione e cronaca a enfasi e slanci ossianici, biblici, più che pindarici; dunque in una rivoluzione linguistica e metrica, interamente attuata, perché l’umiltà della prosa è intrinseca al realismo della materia – alcune volte, specie nel «rapporto dell’editore», degna di uno Stendhal – mentre la sua facoltà di volo sulle spirali di una ritmica libera, di una prosodia del respiro, la portano ben oltre i livelli di ogni numerata e bollata poesia settecentesca211.

Il traduttore dichiara dunque il suo progetto di rendere questa varietà cercando di mantenersi sempre fedele alla lettera, non abbellire mai dove il poeta volle scabra prosa; ma seguire anche, quanto le mie forze valevano, i ritmi alti212.

È attraverso una resa più accurata di questi “sbalzi” di registro, mai puramente esornativi bensì funzionali «al realismo della materia», che Borgese ritiene dunque di poter superare le traduzioni già esistenti, giustificando con ciò l’esistenza di un ennesimo Werther italiano. L’obiezione che muove alla traduzione immediatamente precedente la sua consiste appunto nella malriuscita resa di questi salti stilistici: la versione di Luisa Gra209  Gli appunti relativi alla traduzione del Werther – una serie di schede da lui stesso ordinate sotto la dicitura Goethe, Werther (prefazione al) – sono conservati presso la Biblioteca Umanistica dell’Università degli Studi di Firenze, Fondo Giuseppe Antonio Borgese, fasc. II/2.3 Schede di appunti, sc. 23, cc. 1-109, e confermano che lo scrittore vi lavora dal maggio del 1926 al dicembre dell’anno successivo. 210  Ivi, c. 60. 211 Borgese, Nota a Goethe cit., pp. 273-274. 212  Ivi, p. 276.

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ziani, a suo giudizio, è «buona, spesso ottima, quando il linguaggio dev’essere parlato», ma «debole quando il discorso dev’essere inevitabilmente – salvo che non si voglia falsificare G[oethe] e meisterizzare il Werther – lirico o eloquente»213, e cita a questo proposito il termine Gesang, “canto”, reso da Graziani con un più quotidiano «lettura» nella scena in cui Werther, commuovendosi fino alle lacrime, declama a Lotte passi dei Canti di Ossian da lui tradotti. Linguaggio prosaico non significa dunque semplicemente linguaggio comune, quotidiano. Gli appunti di Borgese registrano costantemente la preoccupazione di mantenere operanti le differenze di tono e di stile, ora conservando un lessico più pedestre («non abbellire; p.e. ho tradotto con impressionante il frappant di p. 64»214), ora restituendo una specifica “lingua altrui” che affiora nella voce del narratore («cercare l’espressione biblica adatta per der die Himmel zusammenrollt wie ein Tuch, p. 99»215), ma soprattutto lasciando che il tasso di lirismo salga quando è necessario, aspetto che Borgese considera evidentemente alquanto sgradevole alle orecchie dei suoi contemporanei. In una prima fase del lavoro valuta persino l’ipotesi di differenziare graficamente le diverse voci, salvo poi dover prendere atto di quanto queste si mescolino inscindibilmente nel tessuto della narrazione: «Mi piacerebbe di far comporre in carattere più piccolo (o in corsivo?) ciò che non è di Werther, p.e. la prosa del Berichterstatter, la traduzione da Ossian (anche se questa, in qualche modo, è di Werther)»216. Le pagine potenzialmente più indigeste sono proprio quelle dei Canti: Che cosa commovente è quel commuoversi a quella brutta roba di Ossian! Come ciò dà un senso dileguante del tempo! Non era nemmeno un perfetto capolavoro il romanzo che leggevano Paolo e Francesca. Qui l’errore è nella lunghezza della citazione. Ma com’è possibile, ci domandiamo noi, quella irresistibile commozione dopo la lettura di quegli orrori? Di quella specie di sommario (come gli “argomenti” dei canti in ottave)? Dopo quel rotolio esametrico che pare una valanga di ciottoli?217. 213 

Fondo Borgese, fasc. II/2.3, sc. 23, cc. 34-35. Ivi, c. 8. 215  Ivi, c. 88. 216  Ivi, c. 25. 217  Ivi, cc. 25-26. 214 

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Per rendere il tono elevato e a tratti pomposo di questo passaggio il traduttore si propone, in linea con lo stile lirico italiano più tradizionale, di sfruttare le risorse della variatio e di «alternare un po’ le parole bufera, procella, turbine, alla parola tempesta nel pezzo ossianico»218, senza tuttavia concedere troppo ai vezzi di uno stile che rischia di suonare ormai ridicolo. «In questa traduzione», dichiara infine «si è conservato quel tanto d’enfasi che è tollerabile ad orecchi moderni»219. La necessità di rendere in italiano con la dovuta coerenza brani anche intenzionalmente pesanti come questo è legata al fatto che la prosa del Werther – come si dice nella Nota – è sempre «intrinseca al realismo della materia», e che i cambi di tono, gli «sbalzi» tra i registri, hanno un ruolo narrativo imprescindibile nel caratterizzare situazioni e personaggi. Oscurare questo aspetto significherebbe non tanto impoverire la lingua dell’originale, quanto alterare la logica narrativa e il senso stesso della storia: la varietà dei modi di parlare – che abbiamo scelto di indicare con il termine debenedettiano di discorsività220 – dimostra qui una volta in più di costituire un problema narrativo prima che linguistico. Il giovane e sentimentale Werther si distingue dagli altri personaggi prima di tutto per il suo modo di esprimersi, che spesso contribuisce a metterlo in situazioni assai singolari, come al momento del suo incontro con la giovane popolana andata ad attingere l’acqua: in questa scena il problema viene quasi tematizzato in maniera metanarrativa, dal momento che è il personaggio stesso a chiedersi quale sia il modo giusto di farsi intendere dalla gente del popolo. Si tratta di una delle scene più celebri del romanzo, intessuta di forti significati simbolici: la fontana, già descritta nella lettera del 12 maggio, è per Werther un luogo abitato da spiriti benefici, dove un tempo si recavano ad attingere acqua le figlie dei re. Il carattere generoso e irruento del protagonista – che parla una lingua spontanea, diretta, ma inevitabilmente legata alla classe sociale da cui proviene – si rivela quando nell’avvicinare la giovane esordisce con un insolito 218 

Ivi, c. 90. 219  Ivi, c. 60. 220 Cfr. supra, Introduzione e cap. I, § 3.

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«Soll ich Ihr helfen, Jungfer?» che lascia interdetta la sua interlocutrice. Ecco l’intera scena nella versione di Borgese: 15 maggio Il popolino del luogo mi conosce già, e mi vuol bene, specialmente i fanciulli. Nei primi tempi, quando m’accompagnavo con questa gente, e amichevolmente li interrogavo su questo e su quello, alcuni credevano ch’io mi volessi burlar di loro, e mi piantavano in malo modo. Ma io non mi lasciavo scoraggiare; e mi rendevo conto, più chiaramente che mai, di ciò che tante altre volte avevo osservato, che le persone di una certa condizione si tengono sempre a una fredda distanza dal popolo comune come se avvicinandosi temessero di rimetterci, mentre poi ci sono i dilettanti e i malvagi burloni che si dan l’aria di piegarsi fino al popolo solo per fargli meglio sentire la loro arroganza. Io so bene che né siamo né possiamo essere uguali, ma son d’avviso che chi, per mantenere il rispetto, crede necessario di star lontano dalla cosiddetta plebe, non merita minor biasimo del vile che, per paura di prenderle, evita i contatti col nemico. Recentemente andai alla fontana e vidi una servetta che aveva appoggiato la sua brocca all’ultimo scalino e si guardava attorno, sperando che qualche compagna sopraggiungesse e l’aiutasse ad alzarsela sul capo. Io scesi, e la guardai. «Volete aiuto, ragazza?» [«Soll ich Ihr helfen, Jungfer?»] le chiesi. Essa arrossì fino alla radice dei capelli, e disse: «Oh no, signore!». «Senza complimenti» feci io. Allora si aggiustò il cercine; e io l’aiutai. Essa mi ringraziò, e salì la scala221.

Il dialogo tra i due personaggi è rapido, spontaneo, coerentemente con il desiderio di Werther di trattare anche le persone del popolo come sue pari. Ma è proprio questo a farlo apparire fuori luogo: nel rivolgersi alla donna, il giovane usa un epiteto – Jungfer – che stando al dizionario dei Grimm veniva utilizzato per le ragazze di classe borghese, e che dunque non è per nulla adatto a comparire in un dialogo tra un “giovane signore” e una serva. Per di più si tratta di un termine già in disuso all’epoca (Goethe stesso lo utilizza piuttosto in poesia), di cui forse la ragazza non coglie neanche il significato: anche per questo 221 Goethe, I dolori del giovane Werther cit., p. 10. Come indicato nella Nota d’accompagnamento, Borgese traduce dal testo della Jubiläums-Ausgabe (Id., Die Leiden des jungen Werther, vol. XVI, Stuttgart-Berlin 1906, in cui il brano si trova alle pp. 7-8).

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l’invito la lascia interdetta e, proprio come i contadini descritti poco sopra nel brano, pensa forse che Werther voglia prendersi gioco di lei222. Borgese risolve la scena con un rapido «Volete aiuto, ragazza?», in cui il colloquiale “ragazza” (certamente meno esotico del termine tedesco) è rafforzato dall’uso, all’epoca familiare, del voi, con il quale viene reso esplicito l’atteggiamento informale (e proprio per questo inadeguato) di Werther. La lingua elaborata da Borgese per rendere la prosa goethiana, di cui in questa scena vediamo un piccolo esempio, è molto apprezzata dai suoi contemporanei. Guido Piovene trova la scrittura del suo maestro in perfetta sintonia con l’opera originale per «lo stesso suo stile, che intensamente guardato par tutto sbalzi e illuminazioni, a primo sguardo par liscio e lavorato a cesello»223; e il germanista Enrico Rocca, prendendo come esempio proprio la scena sopra riportata di Werther alla fontana, arriva a definire la traduzione la prima davvero in grado di restituire la ricchezza del linguaggio goethiano224. Le «lepidità ottocentesche» che caratterizzavano le precedenti traduzioni – Rocca enumera alcuni divertenti esempi tratti dall’ancora diffusissima versione di Riccardo Ceroni – erano ormai non solo involontariamente ridicole, ma rappresentavano un vero e proprio ostacolo alla comprensione delle scene, il cui significato è ciò che in ultima analisi sta veramente a cuore a Borgese. Vale la pena soffermarsi infine, ancora una volta, su come l’opera di traduttore di Borgese interagisca con la sua produzione 222  Risuona in questa scena anche la memoria dell’episodio biblico dell’Annunciazione, che tanto filo da torcere aveva dato al traduttore Lutero proprio per la stranezza del saluto che l’angelo rivolge a Maria, stranezza che andava in qualche modo ricreata anche in tedesco. Nel significato originario di Jungfer è presente infatti anche un riferimento alla verginità (per i Grimm corrisponde al latino virgo). 223  Guido Piovene, Recensione a Volfango Goethe, I dolori del giovane Werther. Trad. di G.A. Borgese, «Leonardo», 2, 11, novembre 1931, p. 510. 224  Secondo Rocca il Werther è «per la prima volta tra noi, perché, smettendo la parlata d’oltralpe avuta in sorte col sangue dal suo genitore grandissimo, per la prima volta respira, s’esalta, geme, grida, vagheggia, parla e tace in un italiano non più, come per il passato, cartaceo e pieno d’inconscie [sic] lepidità ottocentesche o moderno epperò universitariamente meticoloso e pedestre, ma in una lingua tutta nostra e tutta d’oggi eppur densa di un profumo d’altri tempi, aderente ed eterea, concretissima e quasi irreale» (Enrico Rocca, Recensione a Volfango Goethe, I dolori del giovane Werther. Trad. di G.A. Borgese, «Pègaso», II, 11, novembre 1930, pp. 636-640, qui p. 637).

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creativa. Lo ripetiamo: non si tratta di identificare “modelli” di scrittura, ma di cogliere un processo che va in due direzioni – il suo lavoro sulla letteratura straniera risente della sua attività di scrittore, e allo stesso tempo apre la strada a nuove riflessioni e soluzioni artistiche. La scelta di usare il “voi” nel dialogo tra Werther e la servetta è con molta probabilità un portato dell’uso che Borgese aveva fatto in Rubé del voi e del lei proprio per marcare l’intimità tra i personaggi – per esempio nella scena in cui Eugenia visita Filippo allettato e viene presa alla sprovvista dal modo inaspettatamente diretto con cui lui le si rivolge, cioè dandole del voi225. Per contro, deve certamente qualcosa alla lettura del Werther (e proprio alla riflessione sul modo di interagire con i popolani sopra citata) il modo in cui, in I vivi e i morti, viene descritta la relazione tra Eliseo Gaddi e Teresa, la contadina con la quale il fratello Michele aveva iniziato una convivenza. Dopo la morte di quest’ultimo, il tentativo di Eliseo di includere Teresa nella famiglia nonostante la differenza di classe sociale è ostacolato dalla ritrosia che la donna mostra di avere anche soltanto a parlare con un uomo che considera superiore. Come Werther, anche Eliseo – uomo moderno che dalla città è tornato alla campagna – ritiene sia giusto interagire con i popolani come con i propri pari, ma nella pratica, come ammette in un dialogo con la madre, ottiene solo di creare in loro maggiore diffidenza: – Teresa mi diventa sempre più misteriosa. […] La credo, come il primo giorno che l’ho conosciuta, una creatura perfetta a modo suo, fedele, pura, operosa. Quel tanto di astuzia che ha non è sua ma della classe; ed è timore, non è bassezza […]. – È troppo diversa da noi. – Sì. Di’, che impressione fa la gente del popolo se ci si pensa un po’ su! Parlano la stessa lingua, stanno a uscio a uscio con noi. Eppure! È come se respirassero un altro elemento. Guarda una popolana come Teresa. Mi sono ricordato di quelle favole dove il pescatore tira su nella rete la donna dal mare, una specie di sirena. Somiglia molto alle donne nostre, 225  «Bussò con titubanza all’uscio due volte. […] – Voi? Signorina Berti? – Io. Disturbo? – non sapeva adottare quell’inatteso voi – Mi manda papà a chiedere sue notizie» (Borgese, Rubé cit., p. 47); e qualche pagina dopo, quando i due tornano a far finta di niente: «[…] alla villa continuarono col lei a cui erano senza esitazioni tornati dopo il breve abbandono di quel crepuscolo di pianto» (ivi, p. 53).

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ma non può vivere che nelle profondità, e ci si rituffa subito. Si discute tanto del popolo, ma chi ne sa nulla?226

Nel progetto unitario, “organico”, di Borgese tutte le attività sono connesse – scrittura e traduzione, ma soprattutto scrittura, traduzione e lavoro editoriale: arriviamo così a quello che è forse il suo più longevo capolavoro letterario, ovvero l’ideazione e la realizzazione della romantica Mondadori. 8. La biblioteca romantica come teoria del romanzo 8.1. Estetica e romanzo a Milano Possibilità di rappresentare gli “stadi intermedi” tra particolare e universale, presenza di una struttura narrativa che dialettizzi il conflitto tragico, capacità di rifrangere la voce dell’autore in quelle di più personaggi, attenzione agli aspetti più prosaici della vita, uso di una lingua piana, comprensibile e allo stesso tempo polifonica: tutti gli elementi che per Borgese caratterizzano il genere letterario del romanzo, sui quali si sofferma più o meno esplicitamente negli scritti citati fin qui, non verranno da lui mai sistematizzati in un lavoro teorico unitario. L’unica opera assimilabile a una sintesi del suo pensiero estetico – il volume Poetica dell’unità (1934), che si apre riproponendo la conferenza di Heidelberg del 1908 – è per sua stessa ammissione un progetto non pienamente sviluppato, che sarebbe stato più ragionevole intitolare Cinque saggi preliminari a una poetica dell’unità227. Negli anni milanesi la sua riflessione estetica prosegue dunque soprattutto attraverso le lezioni universitarie in cui continua a occuparsi di letteratura tedesca, di Goethe, del Faust, del romanzo moderno228, senza tuttavia arrivare a una formulazione com226 Borgese, I vivi e i morti cit., p. 97. Anche l’immagine della donna-pesce che affiora dall’acqua ma che può vivere solo nelle profondità può essere letta come un’allusione goethiana, segnatamente alla ballata Il pescatore (Der Fischer, 1789). 227  Giuseppe Antonio Borgese, Precursioni estetiche (1933), saggio introduttivo a Poetica dell’unità cit., p. XIV. 228  Come già ricordato (cfr. supra, cap. II, § 3.5, nota 58), grazie alla mediazione di Piero Martinetti nel dicembre del 1925 Borgese passa dalla cattedra di letteratura

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piuta della sua visione – non in termini filosofici almeno, e in questo molti interpreti vedranno la debolezza del suo pensiero a fronte di quello più sistematico di Croce. La “teoria del romanzo” che Borgese non ha mai scritto la vediamo però, in atto, nel progetto della biblioteca romantica. Coerentemente con un’estetica che preferisce chiamare «poetica» proprio per metterne in risalto l’aspetto di poiesis, di azione trasformativa229, Borgese concretizza il suo edificio teorico in un progetto editoriale con il quale sancisce la legittimazione del romanzo già intrapresa attraverso le opere critiche e creative. Nello stesso anno in cui assume l’incarico di professore di estetica, inizia infatti a concepire insieme ad Arnoldo Mondadori la “collezione straniera” di classici moderni che prenderà poi il nome di biblioteca romantica e che vedrà la luce a partire dal 1930. Non è la prima collana diretta da Borgese, che già all’inizio degli anni Dieci aveva avuto occasione di cimentarsi in un’impresa analoga per conto dell’editore Carabba di Lanciano, antichi e moderni: ciò che distingue la romantica dall’esperimento precedente, e da tutte le collane editoriali presenti all’epoca nel panorama nazionale, è però l’orientamento programmatico verso uno specifico genere letterario e l’esplicita intenzione di costituire, con i suoi cinquanta volumi, un canone del romanzo moderno a beneficio del pubblico italiano230. A questo allude anche il nome scelto per la collana: tedesca, che già ricopre presso la Regia Università di Milano, a quella di estetica. Un trafiletto anonimo commenta il fatto sulle pagine milanesi del «Corriere», annunciando l’inizio delle sue lezioni per il gennaio dell’anno successivo (La nuova cattedra di Estetica all’Università, «Corriere della Sera», 29 dicembre 1925, p. 6). Informazioni sul contenuto dei corsi da lui tenuti tra il 1927 e il 1931, che spaziano dalla polemica con Croce alle teorie di Lessing, Winckelmann e Goethe, si ricavano dalle dispense delle lezioni conservate all’interno del Fondo Elvira Gandini presso la Biblioteca di Filosofia dell’Università Statale di Milano: particolarmente interessanti, ai fini della nostra indagine, risultano le “Lezioni del martedì” tenute nell’anno accademico 1930-1931 (Lineamenti di storia della critica raccolte a cura della sig.na S. Spellanzon, 3L. EG. 05), nelle quali Borgese, oltre a esplicitare più apertamente le proprie posizioni, passa poco a poco dalla trattazione filosofica alla storia del romanzo, soffermandosi sulle opere di Cervantes, di d’Urfé, di Mademoiselle de Scudéry e dei romantici tedeschi. 229 Borgese, Precursioni estetiche cit., p. XVI. 230  Cfr. il volumetto di presentazione Biblioteca Romantica a cura di G.A. Borgese (cit.) e l’articolo che esce sul «Corriere» a firma Pànfilo, pseudonimo di Giulio Caprin, anch’egli collaboratore della collana in veste di traduttore dall’inglese (Pàn-

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Per opere romantiche intendiamo, storicamente, opere delle letterature cristiane e moderne […]. In queste letterature il genere più felice, il genere eccellente, è l’epica in prosa: il romanzo. Esso ebbe di buon’ora sul genere lirico il vantaggio della maggiore traducibilità, della più agevole trasferibilità di lingua in lingua; […] Sul genere drammatico il romanzo ebbe il vantaggio della maggiore durata in popolarità, della più fortunata resistenza al mutare delle mode e dei tempi231.

Per dare forma ai problemi della modernità, i lettori (e gli scrittori) italiani hanno adesso a disposizione, finalmente in versioni accurate e ben scritte, i romanzi degli autori che sono stati capaci di rappresentarli con maggiore profondità: Stendhal, Goethe, Defoe, Dostoevskij, Austen, Dickens, Tolstoj, Eliot, Gogol’, Flaubert, tradotti da quelli che Borgese ritiene i più capaci studiosi e scrittori del suo tempo, da Bontempelli a Diego Valeri, da Sibilla Aleramo al già ricordato Debenedetti232. Che il romanzo permetta di trattare problemi altrimenti inaffrontabili, e che la chiave di volta dell’impasse tragica del moderno si trovi, dal punto di vista delle forme di rappresentazione, nella potenzialità dialettica di uno specifico genere letterario, non è un’idea a cui Borgese giunga in completa solitudine, per quanto in Italia la sua opzione resti minoritaria ancora per tutti gli anni Venti: la condivide soprattutto con gli intellettuali europei (non solo tedeschi) che si sono formati come lui sulla filosofia e sulla letteratura tedesca dell’età di Goethe, e che da esse hanno ereditato l’attenzione all’evolversi delle forme letterarie entro la dialettica filo, Una Biblioteca Romantica, «Corriere della Sera», 21 agosto 1930, p. 3). Per la storia editoriale della collana cfr. Italo Calvino, La «Romantica», in Editoria e cultura a Milano fra le due guerre (1920-1940). Milano 19-20-21 febbraio 1981. Atti del convegno, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1983, pp. 172-178; Pippo Vitiello, Lettura del traduttore, lettura della traduzione. La Certosa di Parma e il progetto della «Biblioteca Romantica Mondadori», «Esperienze letterarie», XV, 3, 1990, pp. 43-78; Decleva, Arnoldo Mondadori cit., p. 89 e pp. 153-154, e Ilaria De Seta, La «Biblioteca Romantica» 1930–1938. Il contributo di Borgese alla formazione di un canone della letteratura straniera in Italia, in Carmen Van den Bergh, Bart Van den Bossche (a cura di), La tradizione “in forma”. Selezione e (de)costruzione del canone letterario, Cesati, Firenze 2018, pp. 87-96. 231 Borgese, Nota a Stendhal cit., p. 672. 232  L’elenco completo dei titoli inizialmente scelti e dei traduttori incaricati (rispetto al quale ci saranno come prevedibile alcune variazioni) compare nel volume di presentazione della collana (Biblioteca Romantica cit.).

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storica della modernità. L’idea di una raccolta organica di classici del romanzo, presentati ed eventualmente tradotti da scrittori contemporanei, ha ad esempio un precedente certamente noto a Borgese nella collana epikon. eine sammlung klassischer romane, varata nel 1925 dallo scrittore Emil Alphons Rheinhardt233 per l’editore Paul List di Lipsia. Come riportano gli articoli dell’epoca sul «Berliner Börsen-Courier»234, epikon si proponeva di offrire al suo pubblico trenta romanzi classici della letteratura universale, i cui autori sono in gran parte gli stessi selezionati da Borgese: tedeschi come Goethe (Le affinità elettive con postfazione di Thomas Mann) o Stifter (Der Nachsommer a cura di Hofmannsthal), danesi come Jacobsen (Niels Lyhne presentato da Stefan Zweig), russi come Gogol’, Dostoevskij e Turgenev (Padri e figli con una nota di Bruno Frank), inglesi (Sterne e Meredith), francesi (Stendhal e Flaubert). Rheinhardt, curatore della collana e traduttore per essa dell’Educazione sentimentale, esplicitava intanto la sua interpretazione del genere romanzo in un articolo intitolato Réflexions sur le roman, pubblicato su «900» nella traduzione francese di Andrea Caffi: unico genere letterario che implica nella sua forma stessa lo scorrere del tempo, il romanzo era per lui il mezzo letterario più adeguato a narrare l’epoca moderna, e la costruzione di una «“Bibliothèque de romans”», di conseguenza, il miglior modo per conoscere «les confessions successives de l’humanité européenne pendant l’époque historique où le roman fleurit»235. Rheinhardt ragiona sul romanzo a partire da una tripartizione dei generi letterari di ascendenza aristotelica (ma consolidatasi attraverso la risistemazione hegeliana), che distingue tra Dramatik (arte drammatica), Lyrik (lirica) ed Epik, laddove con 233  Scrittore e traduttore viennese, Emil Alphons Rheinhardt (1889-1945) visse a lungo in Italia alla metà degli anni Venti e fu autore principalmente di biografie, una delle quali dedicata a Eleonora Duse. 234  I tre testi di presentazione della collana, pubblicati tra il 1924 e il 1926, sono riuniti in Oskar Loerke (a cura di), Der Bücherkarren. Besprechungen im Berliner Börsen-Courier, 1920-1928, Schneider, Heidelberg 1965, pp. 263-265, 304-305 e 325-326. Il settimanale berlinese «Das Tage-Buch» riporta inoltre un annuncio pubblicitario con i primi titoli in programma e le reazioni della stampa (Epikon, «Das Tage-Buch», 48, VII, 27 novembre 1926, pp. 1817-1818). 235  Emil Alphons Rheinhardt, Réflexions sur le roman, «900», 3, 1927, pp. 146162, qui p. 160.

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quest’ultimo termine si intende ogni forma letteraria di tipo narrativo, finzionale, caratterizzata insomma dalla presenza di un narratore: il nome della sua collana – epikon – chiarisce appunto che il romanzo va inteso come parte di quest’ultima categoria. La distinzione decisiva è infatti quella che interviene, all’interno dell’Epik, tra epos (o epopea/épopée nei termini di Rheinhardt, alias l’epica in versi degli antichi, che va dall’Odissea ai poemi cavallereschi) e romanzo (ossia l’epica in prosa, l’epica che ha per oggetto la “prosa del mondo” della modernità). La frattura fondamentale tra l’epica antica e l’epica moderna, e dunque tra un mondo di valori che fa perno su un’identità tra individuo e mondo e un altro nato invece dalla consapevolezza dell’abisso che si è aperto tra di loro, è data da una nuova concezione del tempo, dalla presa di coscienza del divenire: «Le héros du roman est dynamique autant que celui de l’épopée était statique»236, afferma Rheinhardt, con parole che sembrano citare apertamente il Lukács della Teoria del romanzo. Da un’analoga tripartizione dei generi muove infatti anche il pensiero del giovane Lukács, per il quale le due principali forme della “grande epica” – appunto Epopöe e Roman – si distinguono per l’effetto che il tempo ha sui personaggi (i dieci anni della guerra di Troia sono solo una misura di grandezza, ma non trasformano gli eroi237), e secondo il quale il prevalere di una concezione del tempo come durata (la bergsoniana durée) nel pensiero moderno è tra le cause per cui «l’epopea ha dovuto scomparire cedendo il posto a una forma del tutto nuova, il romanzo»238. Il romanzo non si definisce dunque in opposizione all’epica (della cui natura narrativa anzi partecipa interamente), ma all’epopea o epos, rispetto al quale veicola una visione del mondo e un sistema di valori radicalmente incompatibili. Che nel formulare la sua poetica Borgese abbia in mente questa stessa organizzazione dei generi letterari si evince dal brano di presentazione della romantica sopra ci-

236 

Ivi, p. 156. Teoria del romanzo cit., pp. 113-115. 238  Ivi, p. 34. Nella Premessa del 1962 Lukács sottolinea come questa classificazione dei generi letterari, presente già in Goethe, si collochi per i suoi contemporanei nel segno della riflessione hegeliana (ivi, p. 14). 237 Lukács,

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tato. Qui definisce infatti il romanzo «epica in prosa»239, ascrivendolo con ciò alla categoria dell’Epik e contemporaneamente differenziandolo – in quanto genere moderno – dalle forme anteriori dell’epopea/epos. Per indicarne le caratteristiche, inoltre, lo pone in opposizione al «genere lirico» e al «genere drammatico», espressioni che ricalcano evidentemente quelle hegeliane di Lyrik e Dramatik utilizzate anche da Lukács e Rheinhardt. La maggiore facilità di traduzione (e dunque di circolazione) che il romanzo ha rispetto alla poesia, e la maggiore indipendenza dai contesti performativi che ha rispetto al teatro, lo rendono secondo Borgese la forma letteraria più adatta a un’epoca dispersiva come quella moderna, in cui, come sappiamo, le comunità si sfaldano, i confini si aprono e tutto “svanisce nell’aria”. Letto in questa chiave, il canone letterario proposto dalla romantica risulta decisamente coerente. Pur privilegiando opere dell’Ottocento, il secolo «gran romanziere», la collana arretra infatti fino alle origini dell’epica in prosa includendo il Don Chisciotte di Cervantes e l’Astrea di d’Urfé240; e non tradisce le proprie linee guida nel dare spazio alla novella, forma breve dell’epica (Kleinepik), di cui compaiono vari esempi seleziona-

239 Borgese, Nota a Stendhal cit., p. 672; la stessa espressione si trova anche nella Nota a Goethe cit., p. 265. Per la definizione del romanzo come “epica in prosa” si può naturalmente risalire fino alla prefazione di Fielding al Joseph Andrews (1742), ma non è direttamente per questa via che il concetto arriva ai lettori d’inizio secolo come Borgese. Ben noto agli scrittori e ai filosofi dell’Ottocento tedesco – si ricorderà il rimprovero di Friedrich Schlegel ad “Amalia”: «voi avete letto tutti i cattivi libri, da Fielding a La Fontaine» (cfr. supra, cap. I, § 5.2) – Fielding, e in generale il romanzo inglese del Sei-Settecento, non è altrettanto presente nella riflessione di questi anni: Borgese non lo include nella romantica; né Lukács lo nomina nella Teoria del romanzo (e nella Premessa del 1962 menziona anzi l’assenza di autori come Defoe e Fielding tra i limiti del suo lavoro), mentre Bachtin, che lo cita solo come esponente del “romanzo umoristico” nella triade Fielding-Smollett-Sterne, non si sofferma ad analizzarne le opere. I teorici d’inizio Novecento condividono infatti un canone del romanzo moderno che fa perno sull’area tedesca (Goethe e principalmente il Wilhelm Meister), francese (Balzac, Stendhal, Zola/Flaubert), e russa (Dostoevskij e Tolstoj), con poche e sporadiche incursioni nelle altre letterature (Cervantes). 240 Il Don Chisciotte è tradotto da Ferdinando Carlesi (dopo un fallito tentativo di ottenerne una versione italiana da Papini, cfr. Borgese, Lettere a Giovanni Papini cit., pp. 135-139); mentre l’Astrea, di cui si pubblica l’episodio intitolato La fontana dell’amor verace, da Riccardo Bacchelli.

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ti dalla tradizione di lingua tedesca (Mörike, Heine, Stifter)241 ma anche americana (Poe). «Da una raccolta di narratori moderni», puntualizza Borgese «non era possibile escludere i brevi, ma fondamentali, Racconti Straordinari del Poe»242: impossibile escluderli non solo per la loro notorietà, ma anche perché Poe è uno dei più radicali scrittori moderni nel polemizzare, nella sua Filosofia della composizione, contro la retorica della spontaneità della creazione artistica, caposaldo della concezione estetica di Borgese243. La selezione insomma non è mai basata su criteri formali puramente esteriori (coordinate cronologiche, lunghezza dei testi), bensì su una logica di genere che risponde a una determinata visione estetico-epistemologica, e che vede nel «senso prosaico» – per Borgese poco sviluppato nella cultura italiana244 – l’unico mezzo per ricostruire un’unità oltre l’abisso del moderno. Solo con gli strumenti artistici «della composizione, della costruzione e dell’organizzazione», aveva già affermato Lukács nella Teoria del romanzo «è possibile apprestare un’unità, mai però una totale interezza»245. L’unità a cui aspira Borge241  Calvino definisce addirittura la selezione tedesca «la migliore della “Romantica”, cioè la meno ovvia e nella sua essenzialità e agilità la più rigorosa» (Calvino, La «Romantica» cit., p. 177). Mentre Mörike e Heine compaiono già nel progetto iniziale della collezione, i racconti di Adalbert Stifter tradotti da Lavinia Mazzucchetti entrano a farne parte solo in un secondo momento, probabilmente in sostituzione del trittico Chamisso/Eichendorff/Goethe che Borgese non porta a termine (cfr. supra, cap. II, § 7.2). 242 Borgese, Nota a Stendhal cit., p. 673. 243  Cfr. le brevi considerazioni di Borgese su Poe in Figurazione e trasfigurazione (Poetica dell’unità cit., p. 172), nel quale vengono formulati alcuni fondamenti dell’estetica di Borgese e in particolare l’idea anticrociana di una necessaria compenetrazione tra il momento dell’ispirazione/intuizione iniziale (figurazione) e «il secondo e decisivo momento dell’opera d’arte» (trasfigurazione), ovvero l’elaborazione di questo impulso attraverso una tecnica che include operazioni eterogenee («facoltà propriamente intellettuali e razionali», «elementi di cultura, conoscenze meccaniche, espedienti di mestiere», p. 151). 244  «Questo appunto è relativamente debole nella letteratura italiana: la prosa, o, meglio ancora che la prosa intesa come genere letterario e ritmo verbale, diremo il senso prosaico: l’interesse, la curiosità osservatrice, l’amor paziente per la vita storica e contingente quale si svolge sotto i nostri occhi, per il mondo nel suo divenire, per l’attuazione drammatica e progressiva del divino» (Borgese, Il senso della letteratura italiana cit., pp. 74-75). 245 Lukács, Teoria del romanzo cit., p. 48, miei corsivi. Lukács si distaccherà ulteriormente da questa visione con l’adesione al marxismo, a cui Borgese, al contrario, non si avvicinerà mai.

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se, per il quale «l’arte è tutta tragica»246, è questa stessa unità “post-abisso”, e non la mera eliminazione del negativo attraverso una fuga nell’ideale o nel divino a cui troppo spesso il suo pensiero è stato ricondotto. 8.2. Fine di un’epoca Del canone proposto dalla romantica colpisce piuttosto la completa assenza di autori contemporanei. In questi anni, sebbene sia stato tra i principali interpreti del Pirandello romanziere e il primo ad apprezzare esordienti come Tozzi o Moravia, Borgese dichiara del resto in più occasioni, pur dietro molte ammissioni di ignoranza, di leggere poco e di non apprezzare affatto la letteratura del suo tempo. Interpellato su Proust, ad esempio, scrive all’amica Clotilde Marghieri: Proust? Io Le devo confessare che sono molto arretrato. In letteratura italiana mi spingo malcerto più in qua di Leopardi; in letteratura europea arrivo, con piena convinzione, a Dostoiewski, Cecof, Nietzsche, Maupassant, Verlaine, Kipling. Sono, su per giù, le mie colonne d’Ercole. […] Proust è un genio, ma «un génie qui radote» (così ho detto, con suo orrore, alla princ. Malim, devota frequentatrice della libreria di via del Babuino, luogo esiziale e cocainizzato). […] D’altronde sono poco competente: non sono andato – ancora – molto avanti247.

Questo scetticismo nei confronti del contemporaneo è uno degli aspetti che meglio testimoniano come la romantica, impresa rivoluzionaria che apre una fase radicalmente nuova per la letteratura italiana, segni allo stesso tempo anche la fine di un’epoca. Proprio a partire dal 1929-30 fioriscono infatti, nei cataloghi degli editori italiani, numerose collane concorrenti che come la romantica si specializzano sul romanzo, ma che a differenza di essa puntano risolutamente sugli autori del momento. Nel giro di pochi anni nomi come quelli di Schnitzler, Döblin, Fallada o Kästner diventano familiari per i lettori italiani, e la proposta letteraria di Borgese, saldamente ancorata al canone 246 Borgese,

Figurazione e trasfigurazione cit., p. 162. Lettera di Borgese a Clotilde Marghieri, 23 settembre 1925, in Borgese, Lettere a Giovanni Papini cit., pp. 160-161. 247 

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ottocentesco, finirà per farlo apparire non meno antiquato del suo futuro suocero Thomas Mann. Si vedrà dunque nel capitolo seguente come, grazie anche al progressivo convergere di interessi commerciali e politici, il romanzo arrivi nel giro di pochi anni a ottenere un posto di primo piano nella gerarchia dei generi: ed è proprio quando la sua proposta comincia ad affermarsi che Borgese si vede costretto a lasciare l’Italia, per ragioni, com’è noto, non propriamente letterarie. Le sue lezioni all’università di Milano, a cui prendono parte futuri scrittori e intellettuali antifascisti come il già ricordato Piovene, Eugenio Colorni, Guido Morpurgo-Tagliabue, nonché una buona parte della Milano colta dell’epoca248, contribuiscono a renderlo inviso ai militanti del guf che a più riprese cercano di ostacolarle e di impedire agli studenti di assistervi, fino ad arrivare al pestaggio di alcuni di loro. Borgese è accusato di essere un “rinunciatario” per essersi schierato a favore dell’indipendenza della Dalmazia e dunque contro le rivendicazioni territoriali italiane: questo il capo d’accusa ufficiale. In realtà, come lui stesso afferma in una lettera a Giovanni Gentile, i fatti del 1919 interessano ormai ben poco i militanti del guf e meno ancora gli accademici suoi colleghi che identifica come loro mandanti, i quali sono intenzionati piuttosto a fare piazza pulita dei docenti antifascisti e che vengono accontentati dal rettore dell’Ambrosiana «immolando oggi un’incaricata, domani un professore»249. Pur non avendo 248  Le testimonianze del tempo concordano nell’affermare che le istrioniche lezioni di Borgese erano veri e propri spettacoli: cfr. Zweig, Il mondo di ieri cit., e Guido Morpurgo-Tagliabue, Natura di un maestro, «Aut-Aut», 12, 1952, pp. 518-520, che scrive: «chi ha conosciuto di Lui solo gli scritti, e non le lezioni e le conversazioni, neppure sospetta l’altra sua più intima facoltà suggestiva, così difficilmente definibile, che sorpassava la magia della parola». 249  Cfr. Borgese, Lettere a Giovanni Gentile cit., p. 122. L’incaricata “immolata” a cui allude è con ogni probabilità Lavinia Mazzucchetti, che dopo il passaggio di Borgese alla cattedra di estetica aveva tenuto appunto da incaricata i corsi di letteratura tedesca. Mazzucchetti era stata allontanata dall’insegnamento universitario nel 1929 con la motivazione della mancanza di fondi, in realtà per la sua adesione al Manifesto crociano e la sua vicinanza agli ambienti antifascisti. Resoconti analoghi delle intimidazioni subite a Milano si leggono in una lettera di Borgese a Vitaliano Brancati dell’8 luglio 1933, riportata in I fascisti invecchiano (Vitaliano Brancati, Opere 1932-1946, a cura di Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano 1986, pp. 1137-1139); e in una a Papini del 14 ottobre 1934 (Borgese, Lettere a Giovanni Papini cit., pp. 146-151).

ii. tradurre per costruire

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ancora preso apertamente posizione contro il regime, infatti, da anni Borgese contribuisce a diffondere una narrazione, poco eroica e molto prosaica, non allineata ai dettami del governo fascista, il quale sta invece costruendo gran parte del suo consenso su una lettura eroicizzante della prima guerra mondiale che esalta il mito del soldato e difende le rivendicazioni dei reduci. Nel 1931 Borgese decide dunque di lasciare l’Italia, accettando l’invito dell’università di Berkeley a tenere un ciclo di lezioni come visiting professor: la sua permanenza negli Stati Uniti si protrarrà però, dopo il rifiuto di firmare il giuramento al regime250, fino al 1949. Al suo rientro in patria tornerà sulla cattedra milanese con una conferenza dal titolo Goethe e l’unità del mondo che sembra voler riprendere le fila di un discorso spezzato 251, ma adesso, all’inizio degli anni Trenta, la sua proposta di modernità è politicamente sconfitta e persino per un uomo disposto come lui a «ingranarsi negli organismi esistenti»252 non esiste più alcuno spazio di 250  Sulla controversa questione del giuramento (che Borgese insieme a Martinetti è l’unico docente di filosofia a rifiutare) e in generale sui suoi rapporti con il fascismo, cfr. Fernando Mezzetti, Borgese e il fascismo, saggio introduttivo di Guido Piovene, Sellerio, Palermo 1978; Sandro Gerbi, Giuseppe Antonio Borgese Politico, «Belfagor», 52, 1, 31 gennaio 1997, pp. 43-69 e Giovanna Grifoni, Borgese antifascista: ancora nuovi inediti, «Intersezioni», 2, agosto 1999, pp. 238-301. Sugli anni dell’esilio americano, che per Borgese rappresentano letteralmente una seconda vita, cfr. invece Silvia Bertolotti, La rosa dell’esilio. Giuseppe Antonio Borgese dal mito europeo all’utopia americana: 1931-1949, Fondazione Museo Storico del Trentino, Trento 2013; Ilaria de Seta, Borgese germanista in esilio, Mann e Zweig, in Ester Saletta (a cura di), La scrittura dell’esilio oltreoceano. Diaspora culturale italo-tedesca nell’Europa totalitaria del nazifascismo. Riflessioni interdisciplinari, Aracne, Roma 2020, pp. 179-207, e Giuseppe Antonio Borgese, Cinque diari americani (19281935), a cura di Maria Grazia Macconi, Gonnelli, Firenze 2020. Una testimonianza del rapporto di Borgese con la famiglia Mann si legge inoltre nel saggio di Kerstin Holzer dedicato a Elisabeth Mann, sua seconda moglie (Elisabeth Mann Borgese. Ein Lebensportrait, Fischer, Frankfurt a.M. 2003). 251  La conferenza viene tenuta il 13 settembre 1949. Borgese non aveva mai interrotto gli studi su Goethe, come confermano i programmi dei suoi corsi americani e il convegno che organizza per i duecento anni dalla nascita dello scrittore tedesco ad Aspen, in Colorado, al quale prendono parte figure come Ortega y Gasset, Martin Buber e Thornton Wilder (cfr. Bertolotti, La rosa dell’esilio cit., pp. 289-303). Al convegno, i cui atti usciranno poi a cura di Arnold Bergstraesser con il titolo Goethe and the Modern Age (Regnery, Chicago 1950), Borgese terrà il discorso inaugurale dal titolo The Message of Goethe. 252 Cfr. supra, cap. II, § 4.

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contrattazione con il fascismo. Adesso a rappresentare lo Streben della modernità è anzi proprio Mussolini, che il biografo tedesco Emil Ludwig ritrae alludendo alla figura di Faust: un giro in aereo sulle paludi Pontine recentemente bonificate gli ricorda infatti l’episodio conclusivo del poema goethiano, quando il protagonista esalta la potenza della propria azione capace di strappare terre alle acque insalubri e devastatrici. Sono esattamente i versi su cui sessant’anni prima era andato a impantanarsi il traduttore messo in ridicolo da Imbriani («Eröffn’ ich Räume vielen Millionen…»), e che ora, di fronte all’esperienza in atto della modernità, si rivelano invece non solo ben comprensibili ma anche perfettamente adatti alla propaganda. Scrive Ludwig: Siccome Mussolini non perde il senso dell’azione simbolica, in cui io vedo il segno dell’uomo superiore, egli era commosso di quel sorprendente parallelo con Faust e lesse lentamente ad alta voce i versi tedeschi. Quando poi in quella gita, oltrepassate le paludi, giungemmo in un punto dov’erano disposte in due file settanta trattrici, per muoversi in due direzioni dietro un segnale e per arare per la prima volta la terra millenaria, ei mi fece chiamare vicino a sé, e indicò il lavoro delle trattrici dicendo: «Ecco il Faust centenne!»253

La figura di Mussolini che si commuove di fronte alla bonifica delle paludi Pontine, sentendosi investito dello spirito di Faust, sancisce come poche altre il fallimento del progetto di Borgese e di quanti, nel corso degli anni Venti, avevano immaginato di costruire un futuro diverso per l’Italia moderna. Di tutte le opzioni alternative di modernizzazione è infatti quella fascista a prevalere, rispondendo con un ripiegamento verso politiche identitarie alla paura, creatasi tanto nei ceti popolari quanto nelle élite con l’espansione del capitalismo e l’esplodere della prima guerra mondiale, che una modernità fuori controllo possa compromettere ideali, valori e tradizioni.

253  Emilio Ludwig, Colloqui con Mussolini, tr. di Tomaso Gnoli, Mondadori, Milano 1932, pp. 165-166. Da notare che il capitolo si intitola Costruzione interna: l’evoluzione in senso fascista di un termine chiave della poetica di Borgese quale “costruzione” mostra quanto ambiguamente sia stata recepita, già a partire dagli anni Trenta, la sua proposta artistica. Se ne parlerà più approfonditamente nel prossimo capitolo.

iii Esperimenti di modernità

1. Ricostruire: concause A partire dal novembre del 1931 Borgese si trova dunque negli Stati Uniti, ufficialmente «a disposizione del Ministero degli Affari esteri per assumere l’insegnamento di italiano nell’Università di California»1. Almeno fino all’ottobre del 1934, quando comunica per lettera al rettore dell’università di Milano che non presterà il giuramento fascista imposto agli accademici e viene per questo dichiarato dimissionario, i suoi legami con l’Italia non subiscono una vera interruzione: oltre a rimanere formalmente un dipendente statale, Borgese continua infatti a collaborare al «Corriere della Sera» e a dirigere la biblioteca romantica Mondadori. Mantiene inoltre contatti epistolari con gli amici rimasti in Italia, sia con quelli di un tempo come Papini o Gentile, sia con scrittori e intellettuali della generazione più giovane che vedono ormai in lui un punto di riferimento morale. Uno di essi è Vitaliano Brancati, all’epoca poco più che ventenne. Fervente fascista, Brancati è un appassionato ammiratore di Borgese ma, come affermerà lui stesso, «non per le ragioni che dovrebbero indurre una persona ad amarlo e stimarlo, sibbene per altre, del tutto opposte, che io trovavo in seno alla confusione tenebrosa da cui ero occupato»2. Nei personaggi romanzeschi 1  Cfr. il bollettino ufficiale n° 27 datato Roma, 2 luglio 1931 (Università degli Studi di Milano, Apice, Archivio storico, Archivio proprio, Ufficio personale, Fascicoli del personale cessato, fasc. n. 466 Borgese Giuseppe Antonio). 2 Vitaliano Brancati, I fascisti invecchiano, in Id., Opere 1932-1946 cit., p. 1137. Brancati rievocherà il suo primo incontro con Borgese, avvenuto a Perugia nell’estate del 1930, anche nelle pagine del Diario romano (cfr. Id., Opere 19471954, a cura di Leonardo Sciascia, postfazione e apparati di Domenica Perrone, Bompiani, Milano 1992, pp. 627-632).

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di Rubé ed Eliseo Gaddi, sconfitti nel loro essere uomini di pensiero anziché d’azione, il giovane Brancati vedeva infatti l’annuncio di una nuova umanità che avrebbe trovato nel fascismo la sua realizzazione naturale, e nella più completa buona fede si meravigliava del fatto che Borgese «non fosse ancora esplicitamente fascista», esortandolo anzi a manifestare nelle azioni ciò che a lui già sembrava essere «nella sostanza»3. Nell’estate del 1933, dagli Stati Uniti, Borgese gli espone dunque le proprie ragioni in una lunga lettera che innescherà nel suo confuso ammiratore una profonda crisi morale e artistica: ma non è dell’evoluzione che porterà Brancati a diventare uno degli scrittori più tormentati e originali della sua generazione che ci occuperemo qui, bensì proprio dell’incomprensione sorta tra lui e Borgese, tanto bizzarra quanto sintomatica della trasformazione nel frattempo intervenuta nella cultura italiana. Cos’è cambiato infatti nei dieci anni che vanno da Tempo di edificare alle lettere del 1933 se Brancati, e non soltanto lui, arriva a interpretare in chiave fascista il messaggio “edificatore” di Borgese? È cambiato innanzitutto il significato attribuito a termini come «edificare» e «costruire», e con esso anche il ruolo che nella gerarchia simbolica dei generi letterari riveste il romanzo, passato nel giro di pochi anni, da genere marginale, ad essere quello più discusso. La riflessione estetica sul romanzo che per anni ha attraversato in forme carsiche la cultura italiana, scontando soprattutto l’ostilità di Croce e della sua scuola4, riceve a partire dal 1929 un nuovo e decisivo impulso dall’azione simultanea di diversi fattori concomitanti: da un lato il proliferare di nuove collane di narrativa – e in particolare di narrativa contemporanea –, che per la prima volta mettono a disposizione dei lettori italiani un numero senza precedenti di romanzi italiani e stranieri in traduzione; dall’altro il favore, almeno iniziale, delle politiche culturali governative, che vedono nel romanzo il mezzo più adeguato per diffondere i valori della modernità fascista e ne incoraggiano la scrittura con finanziamenti, premi e sostegni 3 

Ibid. supra, cap. I, § 1, e infra le osservazioni di Giovanni Titta Rosa in questo stesso paragrafo. 4 Cfr.

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di vario genere rivolti ad autori ed editori5. È soprattutto grazie a questa rete di concause, che fa convergere sullo stesso oggetto interessi letterari, economici e politici di per sé indipendenti, se nei primi anni Trenta fiorisce anche in Italia una ricca sperimentazione romanzesca, tanto in campo artistico che in campo teorico. Borgese stesso registra questo cambiamento che sembra portare a maturazione le tesi da lui espresse in Tempo di edificare e a lungo rimaste isolate: in uno scritto incluso in Giro lungo per la primavera, il volume col quale nel 1930 viene inaugurata la collana letteraria di Valentino Bompiani (una delle grandi novità editoriali di questi anni, come vedremo tra poco), osserva infatti come «la nuova letteratura, pur con spiriti diversissimi, è tutta mossa dal bisogno di ricostruire il mondo, di restituire autorità al mondo dell’esperienza e della storia, di rompere l’incantesimo delle solitudini pervertite o smarrite, di gettar ponti fra le torri d’avorio e le città terrestri»6. Stanca di «romanticherie, crepuscoli, patemi», la letteratura contemporanea sarebbe dunque adesso finalmente capace di realizzare quegli intenti di riedificazione romanzesca da lui preconizzati per tutto il decennio precedente. 1.1. Narrare, narrare Disposta o meno che sia a riconoscere un debito d’ispirazione ai saggi borgesiani, la riflessione di questi anni dedica in effetti al romanzo uno spazio inaspettato anche nelle cerchie dei letterati illustri, dove ogni «autore d’impeccabili frammenti» sembra di colpo investito da un bisogno incontenibile di «narrare». Questo è almeno il ritratto che dà dei suoi coetanei il critico e scrittore Giovanni Titta Rosa, in un pamphlet significativamente intitolato Invito al romanzo: 5  Questo almeno fino alla metà degli anni Trenta, quando gli scarsi risultati ottenuti nella promozione del «romanzo fascista» spingeranno il regime a concentrare gli sforzi della propaganda sulla nascente industria cinematografica, più facilmente controllabile (dati gli ingenti capitali di cui necessita) e assai più promettente in termini di coinvolgimento delle masse (cfr. Ben-Ghiat, La cultura fascista cit. Alle politiche di sostegno agli scrittori è dedicato in particolare il capitolo II, Narrare la nazione). 6  Giuseppe Antonio Borgese, Novecentotrenta, in Id., Giro lungo per la primavera, Bompiani, Milano 1930, pp. 213-224, qui p. 223.

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Narrare narrare – ecco il problema; finirla con le descrizioni, sia pure belle e bellissime; dimenticare i bei colori e l’incanto dei paesaggi, le mobili, intense, popolose acqueforti della città, che sono anch’esse descrizioni, dove invece del bosco, del colle e della sterminata pianura, c’è l’uomo, la folla, lo scorcio prospettico, la desolata e bigia indifferenza delle fabbriche accampate, tra polvere e fumo, ai margini tumultuosi della metropoli. Bello, tutto ciò: ma narrare è un’altra cosa. Narrare è fare come Dostojewkij, come Meredith; oh non come tanti pretesi narratori dei nostri giorni che si mescolano a ogni passo coi propri personaggi, e fanno sul più bello il «pezzo» descrittivo, distaccato, preciso, e freddo7.

Nel trattare «questa benedetta e grave faccenda del romanzo contemporaneo», il saggio di Titta Rosa riprende quasi punto per punto i temi affrontati da Borgese nei saggi degli anni Venti: oltre a porre la questione della distanza tra autore e personaggio, che compare nel passo citato sotto forma di rimprovero ai narratori «che si mescolano a ogni passo coi loro personaggi»8, il saggio esamina la pesante eredità letteraria degli scrittori italiani, educati a prediligere «forme autobiografiche e liriche», a cercare l’«arte pura», a «estrarre l’essenza, chiusa come in una fiala nei “momenti” lirici», a non guardare alle opere come «organismi compatti» e infine a considerarsi «poeti fanciullini» che disprezzano il romanzo in quanto «arte applicata»9. Significativo è anche il canone degli autori proposti come modelli di riferimento: tra gli italiani «i due più grandi narratori dell’Ottocento», Manzoni e Verga10; tra gli stranieri Dostoevskij e Meredith ma anche Stendhal, Tolstoj, Henry James, Balzac, Flaubert, Čechov11, tutti nomi che stanno intanto diventando patrimonio comune dei lettori italiani grazie alle traduzioni della romantica. Nel saggio 7  Giovanni Titta Rosa, Invito al romanzo, Crippa, Milano 1930, pp. 12-13. Il volumetto include gli articoli precedentemente usciti in rivista con il titolo Il Nilo letterario («I libri del giorno», 8, 9, 1925, pp. 457-459) e Invito al romanzo («Corriere padano», 16 febbraio 1928). 8  Sul modo in cui lo stesso tema viene affrontato da Borgese cfr. supra, cap. II, § 6.1 e § 7.2. 9  Titta Rosa, Invito al romanzo cit. (tutte le citazioni sono tratte dalle pp. 1415). Si confrontino in particolare le osservazioni sull’arte applicata con le pagine che Borgese dedica a Pascoli in Tempo di edificare (cfr. supra, cap. II, § 4). Titta Rosa conosce e frequenta Borgese a Milano, dove entrambi vivono dal primo dopoguerra. 10  Ivi, p. 84. 11  Ivi, p. 13.

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di Titta Rosa, tuttavia, il nome di Borgese non compare mai, tanto che verrebbe da rimproverare all’autore la stessa mancanza da lui imputata ai suoi predecessori, ovvero quella di recidere ancora una volta quella linea romanzesca che in Italia sembra non riuscire mai a coagularsi in tradizione. Una tradizione del romanzo, invece, esiste per Titta Rosa anche nel nostro paese, e vive nel solco del realismo inaugurato da Manzoni: «Questo filone sotterraneo, a guardare con qualche, ma non molta, attenzione, c’è continuo nella tecnica (intendendo la tecnica come un fatto di stile, il che è ormai tempo che si faccia)»12. Il passaggio alla riflessione sulla tecnica (che Titta Rosa indica con il termine borgesiano di stile) richiede però a questo punto l’esplicitazione di un nesso intermedio: se finora non è stato possibile elaborare un pensiero critico che si soffermi sui problemi compositivi specifici di un dato genere letterario (il romanzo), ciò è dovuto in primo luogo alla preponderanza dell’estetica crociana nel contesto culturale italiano: Uno degli inconvenienti della distruzione dei generi letterari, operata, come si sa, in sede d’estetica, da un illustre filosofo, con la conseguente riduzione del bello nei termini opposti di arte e non-arte, si può scorgere (e non tarda a scorgersi) nell’esercizio della critica letteraria, o critica militante. Infatti, appena s’esce o si cade dal puro cielo dei concetti estetici per affrontare una questione letteraria in concreto […] un povero critico, se non si riafferra prima che può alla tavola di salvezza dei generi, sia pure a un frantume di essa, non soltanto non riesce a nuotare nel gran pelago della letteratura ma è destinato senza scampo ad andare a picco, lui e la sua filosofia. Per un filosofo, una volta risolto il problema dell’arte, le forme particolari in cui s’è calata la fantasia d’un poeta sono forse meno che nulla; definito cioè quel ch’è arte e distintolo da ciò che arte non è, tutto è fatto; per un critico, che sia tale, la sua via crucis comincia proprio da quel punto13.

Ancora una volta viene dunque mossa alla filosofia di Croce l’accusa di non tener conto delle «forme particolari» e di non poter, di conseguenza, fornire una struttura d’interpretazione capace di concatenare il particolare al generale per gradi interme12  13 

Ivi, p. 49, corsivo dell’autore. Ivi, pp. 25-26.

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di – gradi intermedi che in questo caso sarebbero rappresentati appunto dai generi letterari, visti non come essenze astoriche ma come convenzioni culturali soggette a mutare nel tempo. Per Titta Rosa esiste dunque la possibilità di tracciare almeno una storia dei generi letterari, che permetta di analizzare nella continuità del tempo gli aspetti tecnici caratteristici di ciascuno di essi. L’argomentazione sviluppata in Invito al romanzo contribuisce a chiarire quale sia la posta in gioco racchiusa in termini come «costruzione» o «edificazione»: la sola idea che esista una tecnica di costruzione romanzesca si pone infatti come antidoto a quel nesso «intuizione-espressione» che tormenta gli scrittori italiani almeno dai tempi di Slataper. Non a caso l’«invito» di Titta Rosa a dedicarsi più assiduamente al romanzo si rivolge programmaticamente alla generazione post-crociana, che «superato il frammentismo» e «riedificato in sé l’uomo nella concreta storia del tempo vivente», può finalmente intendere il romanzo «come un intreccio di forze morali espresse nella discriminata e piena concretezza della narrazione, nel terso specchio d’una prosa moderna»14. Nel 1930 le idee elaborate in questo pamphlet trovano un terreno di ricezione assai più fertile rispetto a quello che solo pochi anni prima aveva accolto Tempo di edificare. A recensirlo, tra gli altri, interviene sull’«Italia letteraria» Giacomo Debenedetti, che intanto sta contribuendo al dibattito sul romanzo avviato sulle pagine di «Solaria» da Alberto Consiglio15. Come fa notare lo stesso Titta Rosa, del resto, si tratta di una discussione che va al di là dei confini nazionali: lo confermano i riferimenti ai saggi di Albert Thibaudet e Ramon Fernandez, e lo sottolineerà Benjamin Crémieux identificando proprio nel 1930 «l’année pivot» della ricostruzione del romanzo16. All’inizio del decennio il lessico della “riedificazione” attraversa inoltre l’area di lingua tedesca, dove peraltro esiste già una solida tradizione di studi su questo tema: ne esprime efficacemente lo spirito un saggio come 14 

Ivi, p. 89. Giacomo Debenedetti, Invito “cum grano salis”, «L’Italia letteraria», III, 13, 29 marzo 1931, p. 7; ivi, III, 14, 5 aprile 1931, p. 7; e ivi, III, 15, 12 aprile 1931, p. 7. 16  Benjamin Crémieux, Inquiétude et Reconstruction, «Nouvelle Revue Française», XIX, 212, 1° maggio 1931, pp. 671-690. 15 

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Das Weltbild des Romans [L’immagine del mondo nel romanzo], la conferenza che Hermann Broch, da poco divenuto celebre con la pubblicazione della trilogia I sonnambuli, tiene a Budapest e poi a Vienna nel marzo del 1933. Broch, che di lì a qualche anno sarà compagno di Borgese nell’esilio americano e come lui impegnato nel progetto di stesura di una costituzione mondiale17, si sofferma su come diverse “immagini del mondo” – commerciali, militari, religiose, o appunto romanzesche – derivino da diversi sistemi di valori e aspirino ciascuna secondo una propria logica a un «assoluto», che è però «sempre e soltanto costruzione [Konstruktion]» e che «si limita a indicare la direzione di un percorso infinito, ma in se stesso irraggiungibile»18. Ciò con cui l’artista ha concretamente a che fare, dunque, sono i processi specifici (ovvero tecnici) di ciascuno di essi, dal momento che ogni sistema realizza la propria esigenza etica sempre attraverso un’attività costruttiva che plasma l’immagine del mondo imprimendole una determinata forma. Che l’esigenza etica si realizzi nel sistema di valori del calzolaio, o in quello del militare, dell’artista o dello scienziato, in una dimensione palpabilmente reale o in una dimensione spirituale, la cosa è, rispetto a questo problema, del tutto indifferente: il risultato è sempre un atto di formazione e di costruzione e cioè, nel senso più ampio, un risultato estetico19.

La specificità dell’immagine del mondo veicolata dal romanzo, continua Broch, consiste insomma nell’utilizzare come «vocaboli» le immagini del mondo prodotte dagli altri sistemi di valori, ricomponendole entro una specifica «sintassi» poe17  Broch lascia l’Austria nel 1938, in seguito all’annessione del paese al Terzo Reich. Sui suoi rapporti con Borgese negli Stati Uniti cfr. Ester Saletta, The City of Man. Il contributo politico-ideologico di Giuseppe Antonio Borgese e di Gaetano Salvemini all’utopia democratica di Hermann Broch, Aracne, Roma 2012. 18  Hermann Broch, Das Weltbild des Romans (1933), in Id., Schriften zur Literatur 2. Theorie, a cura di Paul Michael Lützeler, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1975, pp. 89-118, qui p. 90. Cito dalla traduzione italiana inclusa nella raccolta Il Kitsch a cura di Roberta Malagoli e Saverio Vertone (Einaudi, Torino 1990, pp. 61-101, qui p. 63). 19  Ibid. Accanto a Konstruktion, Broch utilizza qui termini di difficile traduzione come Formung e Formgebung (il “prendere una data forma” – diverso dal semplice Form, “forma” – e “dare forma”); più avanti, in riferimento alla costruzione di un Weltbild specificamente romanzesco, parlerà inoltre di “sintassi” e di “architettura”.

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tica: ed è appunto «l’unitarietà» di questa sintassi poetica che «solleva [erhebt], almeno nel concetto, il relativo nella sfera dell’assoluto»20. Soffermarsi sul saggio di Broch non ha qui altra funzione se non quella di sottolineare la vicinanza tra la riflessione estetica di matrice kantiana che si sviluppa nell’Europa continentale e quella che, maturata sugli scritti di Borgese (che a loro volta devono molto, come sappiamo, al pensiero di Martinetti21), comincia lentamente a radicarsi anche in Italia, smarcandosi dall’idea crociana di estetica. Il concetto tecnico di costruzione è un elemento chiave nel definire la distanza tra queste due “estetiche”, a cui ci si richiama con la stessa parola ma che hanno di fatto ben poco in comune, e sembra possedere la forza di aggregazione necessaria per costituire un polo alternativo al pensiero crociano: ed è quello che in effetti accade, ma a prezzo di una sterzata semantica che trascina il concetto di costruzione, con tutto quel che ne consegue, in un’area ancora diversa. Tra il 1932 e il 1933, infatti, edificare e costruire diventano per gli italiani parole d’ordine della nuova politica culturale mussoliniana, che come già accennato incoraggia il romanzo nella convinzione di poter dirigere l’operato di editori e scrittori verso una visione fascista della modernità. Si scorgono così sotto una luce più chiara le ragioni che avevano spinto Brancati a vedere un fascista ante litteram nel “costruttore” Borgese. Già intorno al 1929, quando gli editori iniziano a inondare il mercato di romanzi contemporanei (soprattutto tradotti), esponenti di spicco della gerarchia fascista prendono posizione su come debba essere – e soprattutto come non debba essere – un romanzo autenticamente moderno e fascista22. I “giovani” a cui si rivolge l’Invito al romanzo di Titta Rosa sono gli stessi a cui guarda la propaganda mussoliniana, i nati nel primo decennio del secolo 20 

Ivi, p. 115 (tr. p. 97). supra cap. II, § 2.5. 22  Lo fa ad esempio Arnaldo Mussolini nel discorso pronunciato il 31 ottobre 1929 all’inaugurazione dei corsi annuali dell’Istituto di cultura fascista di Milano, nel quale attacca romanzieri come Moravia, Remarque e Maurice Dekobra. Su questo discorso, e sul singolare caso degli Indifferenti (pubblicati dalla casa editrice Alpes di cui Arnaldo Mussolini è presidente), cfr. Giorgio Fabre, Il censore e l’editore. Mussolini, i libri, Mondadori, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2018, in particolare pp. 91-94. 21 Cfr.

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che la guerra non l’hanno fatta e sono cresciuti nella sua mitizzazione: tra essi, accanto a Brancati, ci sono futuri scrittori come Umberto Barbaro, Enrico Emanuelli, Ugo Dèttore, Elio Vittorini, Alba de Céspedes – tutti i nomi su cui torneremo nel corso di questo capitolo. Nel paragrafo che segue osserveremo infatti più da vicino quali siano le diverse concezioni di «romanzo» che si avvicendano in questi anni; intanto è importante sottolineare l’insistenza di questo invito alla “costruzione” e il fatto che tale invito entri nel dibattito pubblico attraverso la mediazione di testate per lo più vicine alle gerarchie fasciste: quotidiani come «La Tribuna» o il «Corriere padano» (che nel 1932 lanciano due Inchieste sul romanzo), o riviste come «Critica fascista». Qui, ad esempio, un articolo firmato da Attilio Riccio e intitolato Arte e costruzione afferma che per il romanzo moderno è arrivato il momento «di soddisfare all’esigenza goethiana che l’artista sia prima di ogni altra cosa uomo, interamente uomo. Temere i contatti della realtà, ritrarsi da ogni azione e da ogni sviluppo eterogeneo dei fini: ecco il peccato che non si può più perdonare»23. Con «esigenza goethiana» si intende però ormai qualcosa di molto diverso dagli anni della «Voce», se solo pochi giorni prima Enrico Rocca aveva individuato la più alta realizzazione dell’ideale goethiano nell’operato del duce: «se Goethe vivesse oggi», aveva scritto infatti sulla stessa rivista «[…] anch’egli ammirerebbe il capolavoro d’un Capo e la premessa sicura di quella prosperità e di quel bene che per l’umanità sognava Faust al declino della sua vita prodigiosa»24. Il concetto di costruzione, adottato come via d’uscita dal cappio dell’estetica crociana, finisce insomma suo malgrado per trovarsi in perfetta sintonia con la visione fascista della modernità, dando origine a una nuova convenzione che si manifesterà persino a livello tematico: i romanzi di questi anni sono infatti popolati di costruttori, prototipi del nuovo eroe romanzesco che – come per Brancati faceva Rubé – esaltano l’azione a scapito del pensiero. 23  Attilio Riccio, Arte e costruzione, «Critica fascista», X, 8, 15 aprile 1932, p. 149. 24  Enrico Rocca, Fisionomia politica di Volfango Goethe, «Critica fascista», X, 7, 1° aprile 1932, pp. 132-134, qui p. 134. È, come si vede, la stessa immagine adottata da Emil Ludwig e descritta alla fine del capitolo precedente.

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1.2. Cosa si intende per “romanzo” Il consenso che va lentamente formandosi intorno al romanzo non deve comunque indurre a ritenere univoco il significato attribuito a questo genere letterario negli anni tra le due guerre. Le varie “inchieste sul romanzo”, i dibattiti e le prese di posizione che popolano le riviste italiane danno conto di una grande varietà di interpretazioni, dietro le quali si cela di volta in volta una diversa idea di modernità. Come è già stato osservato, infatti, la posta in gioco in queste discussioni non è mai puramente letteraria: «i dibattiti sul romanzo realista […] rivelarono un gap generazionale che scaturiva da visioni divergenti del significato di modernità italiana»25, visioni che il fascismo stesso avrebbe faticato a ricomporre in un’unità, prima stroncando ogni discussione all’interno del partito, poi imponendosi, con la forza, alla società letteraria nel suo insieme. Ma prima che la “modernità fascista” arrivi a prevalere riducendo al silenzio gli oppositori, imbavagliando la stampa e vincolando enormemente il mercato delle traduzioni, ogni esperimento romanzesco (inclusi i romanzi tradotti) è visto come una diversa proposta per l’epoca presente, e come tale viene preso in considerazione e discusso. Poiché l’aumento di romanzi in circolazione è dovuto in primo luogo alla presenza di autori stranieri, il dibattito risulta fin dall’inizio inestricabilmente connesso a quello sull’italiano delle traduzioni. Il dispregio in cui il romanzo è tenuto ancora da parte degli intellettuali più accreditati, unito alla percezione di una sudditanza dell’editoria italiana nei confronti dei paesi stranieri che esportano più autori di quanti non ne traducano, instilla in molti la convinzione che sia necessario regolamentare il mercato delle traduzioni26. Interventi contro le “cattive traduzioni” e contro

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gli editori che per tagliare i costi pubblicavano gli autori stranieri in versioni del tutto inaffidabili non erano mancati, almeno sulle riviste d’avanguardia, fin dagli anni Dieci, e lo si è visto nel primo capitolo di questo libro parlando della polemica condotta da Spaini e Mazzucchetti contro Domenico Ciàmpoli27. A partire dalla fine degli anni Venti, tuttavia, queste rimostranze si incanalano in una polemica contro le traduzioni tout court di cui si fanno portavoce soprattutto riviste come «La Tribuna» o «Il Torchio», che già nel settembre del 1928 propone ai suoi lettori un referendum sulla necessità di porre un freno all’«invasione» di romanzi tradotti ricorrendo a interventi governativi28. I promotori di queste iniziative ritengono con ciò di favorire la produzione artistica nazionale soffocata dalla competizione impari con i più economici (e dunque, per gli editori, più redditizi) scrittori stranieri: almeno in questa fase, tuttavia, il governo fascista è tutt’altro che propenso ad accogliere le loro lamentele, correndo il rischio di danneggiare un’industria in crescita come quella editoriale. Le misure che vengono prese tendono dunque piuttosto a incanalare la discussione (e, per quanto possibile, l’attività artistica) verso un tipo di romanzo che sia allo stesso tempo accessibile alle masse (dunque con buone possibilità di vendita per gli editori) e in linea con i valori del fascismo. La polemica sull’influsso deleterio che le cattive traduzioni hanno sulla prosa italiana si intreccia alla riflessione sul perché il romanzo abbia scarsa rilevanza nel nostro paese – riflessione animata, tra gli altri, dal già citato Invito al romanzo di Titta Rosa, che come abbiamo visto si sofferma sul legame tra romanzo e cultura della modernità («si suol dire che la vita moderna italiana non solo non esiste ma quel poco che c’è non offre allo scrittore materia narrabile. È vero il contrario. La vita moderna italiana esiste»29) e sulla peculiarità delle sue tecniche compo-

25 Ben-Ghiat,

La cultura fascista cit., p. 162. Rundle, Il vizio dell’esterofilia cit. (in particolare la questione della «bilancia commerciale delle traduzioni» trattata alle pp. 54-57). Per quanto esistano ormai accordi internazionali a tutela del diritto d’autore (come la Convenzione di Berlino del 1908, ratificata nel 1914), per gli editori tradurre autori stranieri continua ad essere più conveniente che pagare i diritti, più alti, richiesti dagli autori italiani. Su questo tema cfr. anche Maria Iolanda Palazzolo, La nascita del diritto d’autore in Italia. Concetti, interessi, controversie giudiziarie (1840-1941), Viella, Roma 2013, in particolare il cap. VI. 26  Cfr.

27 Cfr.

supra, cap. I, § 2.3. Christopher Rundle, Resisting Foreign Penetration. The Anti-translation Campaign in the Wake of the Ethiopian War, in Flavia Brizio-Skov (a cura di), Reconstructing Societies in the Aftermath of War. Memory, Identity and Reconciliation, Bordighera Press, Boca Raton 2004, pp. 292-307; e Id., Il vizio dell’esterofilia cit., pp. 65-71. 29  Titta Rosa, Invito al romanzo cit., p. 87. 28  Cfr.

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sitive. Sono i termini di una riflessione che, sebbene sottotraccia, aveva continuato a esistere su riviste come «Il Baretti», «Il Convegno» o «Solaria»30, ma che solo alla fine degli anni Venti ottiene centralità, mostrando che anche tra i sostenitori del romanzo esiste una gamma assai sfaccettata di posizioni. Su «Solaria», dove il romanzo è inizialmente in second’ordine rispetto alla poesia e alla prosa d’arte, la collaborazione di intellettuali provenienti dalle fila del «Baretti» e del «Convegno» come Giacomo Debenedetti e Sergio Solmi contribuisce lentamente a modificare gli equilibri: al 1929 risalgono due delle tappe fondamentali della riflessione solariana sul romanzo, ovvero il numero monografico di marzo/aprile dedicato a Italo Svevo e gli articoli teorici di Alberto Consiglio, che torna sull’idea dello «spirito romanzesco» sorto in Europa nel Settecento e ormai giunto finalmente a radicarsi in Italia31. Il canone narrativo proposto da «Solaria», che si affermerà pienamente nel dopoguerra, è però in questa fase ben poco compatibile con le posizioni ideologiche del governo fascista, che nel 1934 approfitterà anzi dell’accusa di offesa alla morale rivolta agli scritti di Terracini e Vittorini per chiudere definitivamente la rivista. A reggere le fila della riflessione sul romanzo sono piuttosto, in questi anni, riviste più gradite alle gerarchie fasciste come «Pègaso» di Ugo Ojetti, che esordisce nel gennaio del 1929. Il numero inaugurale conferma come la percezione del romanzo stia attraversando una trasformazione radicale: accanto a un articolo di Papini che insiste su quanto il genio nazionale italiano sia per natura poco incline a questo genere letterario (che sarebbe tra quelli «non fatti per noi»)32, e a uno di Cecchi che – in piena esplosione delle collane di narrativa – esorta gli 30  Cfr. Cristina Benussi, Un dibattito sul romanzo negli anni Venti: «Il Baretti», in Letteratura e società. Scritti di italianistica e di critica letteraria per il 25. anniversario dell’insegnamento universitario di Giuseppe Petronio, presentazione di Ulrich Schulz-Buschhaus, Palumbo, Palermo 1980, pp. 591-605; Enzo Ferrieri, «Il Convegno» 1920-1940. Per un’antologia, a cura di Anna Modena e Anna Antonello, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2020; e Piazza, La «sostanza di romanzo» (senza romanzo) in «Solaria» cit. 31  Cfr. Alberto Consiglio, Diatriba sul romanzo ed altre cose, «Solaria», IV, 6, giugno 1929, pp. 33-49, e Id., Problema del romanzo, ivi, IV, 11 novembre 1929, pp. 40-47. 32  Giovanni Papini, Su questa letteratura, «Pègaso», I, 1, 1929, pp. 29-43.

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editori italiani a tradurre meno e meglio33, compare un articolo su Svevo firmato dal triestino Silvio Benco, che nel ribadire il luogo comune della “brutta scrittura” sveviana (imputata stavolta alla sua formazione tedesca) non ritiene comunque di poter negare la grandezza di un romanzo come La coscienza di Zeno: Quanto allo scriver male, era uno di quei giudizi unanimi e massicci, che murano vivo un uomo. Isidoro Reggio, il mio primo direttore all’Indipendente, uomo di giudizio equanime e di gusto, amico e ammiratore di Svevo e un po’ suo parente, fu il primo a spiegarmi perché egli scrivesse tanto male. «Quel benedetto uomo di suo padre aveva il pregiudizio degli istituti d’educazione germanica. Mandò il ragazzo in Germania, e gli legò questo piombo dell’espressione lenta, impropria, contorta». Era vero; ma l’opinione, col ripetersi, divenne esagerazione e ingiustizia: piombo che si legavano addosso i suoi giudici. L’ultimo Svevo seppe correggersi di molti errori, ma certo dagli studi fatti in Germania egli portava l’architettura tedesca del periodo, la sintassi tedesca, una grande incertezza nelle costruzioni verbali: gliene veniva alcunché di faticoso, aggravato di solecismi: anche la sua lingua aveva una stranezza barbarica, per la miscela eterogenea di parole italiane e di parole tradotte, di modi del dialetto triestino, di termini scientifici, di locuzioni dell’uso mercantile, di vocaboli tecnici dell’arte. Era un buon musicista; ma nella lingua non aveva orecchio. Leggeva scrittori nostri dei lodati secoli: e gli giovò a scrivere, per confondere gli amici, una pagina in stile del Trecento; ma non a metter giù senza barbarismi una pagina di romanzo. Egli stesso, quanto a cotesta sua deficienza, aveva atteggiamenti contraddittori. Gioì quando seppe da un russo che anche Dostoiewski era uno scrittore scorretto; gli piaceva ripetere che è un curioso vizio italiano il guardarsi sempre la lingua; poi però imprecava contro quello che chiamava il dialettaccio triestino, e più avrebbe dovuto imprecare contro i residui della sua educazione teutonica. E tuttavia quel linguaggio che egli si costruiva, così aggregato, accozzato, raccogliticcio, sconcertante nella crudezza degli impasti, riusciva ad avere un’espressione personale, di necessità, di tensione molteplice, di sforzo in ogni senso per far suo tutto quello che gli si offrisse al continuo bisogno34.

Tralasciando qualsiasi riferimento alla cultura ebraica di Svevo e ridimensionando l’importanza della riflessione psicoa33  34 

Emilio Cecchi, Sul tradurre, ivi, pp. 93-95. Silvio Benco, Italo Svevo, ivi, pp. 48-57.

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nalitica della sua opera – aspetti che potevano trovare spazio su «Solaria» ma non su una rivista filofascista come «Pègaso» –, Benco recuperava La coscienza di Zeno partendo dalla dimensione linguistica, da quello “scriver male” che diventava adesso «necessità» e «tensione molteplice». La lingua sveviana da lui descritta («miscela eterogenea», «termini scientifici», «locuzioni dell’uso mercantile») sembra quella che quindici anni prima Spaini e Pisaneschi avevano faticosamente cercato per tradurre il linguaggio troppo «prosaico e moderno» del Wilhelm Meister: e Debenedetti, che come sappiamo avrebbe identificato in questa «discorsività» uno dei tratti fondamentali del romanzo novecentesco e del romanzo in generale, osservava intanto come un tale tratto avesse origine in Svevo proprio nel suo caratteristico italiano parlato («Il medesimo procedimento si perpetua anche nella sua composizione narrativa. È quel molto di parlato, che si sente nei suoi libri»35). Con buona pace di Papini e Cecchi, omaggiati nel numero d’apertura, «Pègaso» avrebbe continuato sulla linea tracciata da Benco a occuparsi sempre più spesso di romanzo, dedicando saggi e recensioni non soltanto ad autori italiani (tra gli altri Manzoni, Nievo, Moravia, Bacchelli), ma anche tedeschi, e per di più contemporanei (Remarque, Renn, Döblin, Schnitzler, Thomas Mann). Grazie dunque anche allo spazio che ottiene sulle riviste di nuova generazione, all’inizio degli anni Trenta la riflessione teorica sul romanzo non prospera più soltanto ai margini del campo letterario. Nel solo 1932, mentre su «Critica fascista» Attilio Riccio reinterpreta i concetti di “costruzione” e di “azione”36, si interrogano sul romanzo contemporaneo riviste appena fondate come «Occidente» (dove collaboratori come Spaini, Stuparich, 35  Giacomo Debenedetti, Lettera a Carocci intorno a «Svevo e Schmitz», «Solaria», IV, 3-4, marzo/aprile 1929, pp. 28-34, qui p. 30. Debenedetti si era già occupato della narrativa sveviana (cfr. Svevo e Schmitz, «Il Convegno», X, 1-2, gennaio-febbraio 1929, pp. 15-54) e vi sarebbe tornato a lungo nelle lezioni universitarie degli anni Sessanta poi confluite nel Romanzo del Novecento: secondo Massimiliano Tortora proprio i saggi su Svevo mostrano con particolare evidenza l’evoluzione del pensiero debenedettiano e il suo concetto di narrativa modernista (cfr. Massimiliano Tortora, Debenedetti, Svevo e il modernismo, in Id., «Non ho scritto che un romanzo solo». La narrativa di Italo Svevo, Cesati, Firenze 2019, pp. 89-112). 36 Riccio, Arte e costruzione cit.

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Rocca, Barbaro e Alvaro pubblicano numerosi contributi dedicati alla letteratura tedesca) e «Orpheus» di Luciano Anceschi ed Enzo Paci (dove emerge un particolare interesse per il filone della Neue Sachlichkeit)37; e due diverse Inchieste sul romanzo vengono lanciate dal «Corriere padano» e dalla «Tribuna». In entrambe interviene, tra gli altri, Corrado Alvaro, recentemente salito agli onori della cronaca grazie al successo di Gente in Aspromonte (1930): ricostruendo una genealogia artistica tutta italiana che include Panzini, Bontempelli, Ojetti, Palazzeschi, Papini, Soffici, Cicognani, Moravia, Cecchi, Baldini e Comisso – da notare, anche in questo elenco tutt’altro che sintetico, l’assenza di Borgese – Alvaro connette lo sviluppo di un’«epica italiana» al recente ingresso dell’Italia tra «le grandi nazioni», ed esalta gli «immensi risultati che si sono ottenuti nella letteratura degli ultimi quindici anni, e cioè dal tempo del risveglio di una coscienza letteraria moderna»38. Il momento culminante di questa multiforme discussione può essere considerato il 1934, quando Valentino Bompiani – in questa fase molto vicino al governo fascista – lancia il dibattito sul “romanzo collettivo” (o “romanzo summa” o “romanzo epico”, secondo altre definizioni), che si vuole radicato nel tempo presente attraverso l’uso di un linguaggio concreto e di costruzioni narrative capaci di seguire i destini di molti personaggi39. Con il progetto della letteraria, Bompiani non si limiterà a portare in Italia gli autori stranieri che a suo giudizio meglio rispondono a questi criteri, ma cercherà di spingere in questa direzione autori italiani anche lontani dalle 37  Cfr. Francesca Billiani, Return to Order as Return to Realism in two Italian Elite Literary Magazines of the 1920s and 1930s: La Ronda and Orpheus, «Modern Language Review», 108, 3, 2013, pp. 839-862. 38  Celso A. Lenzi, Opinioni sul romanzo. Ciò che pensa Corrado Alvaro, «Corriere padano», 3 settembre 1932. Si noti che anche Alvaro, come Borgese, utilizza il termine “epica” nel senso di “narrativa” («io parlerei di narrazione», ivi). Per la stessa inchiesta vengono intervistati nel corso del 1932 anche Lucio d’Ambra, Bruno Cicognani e Bonaventura Tecchi. L’intervento di Alvaro sulla «Tribuna» appare invece il 18 settembre 1932. 39  Cfr. Irene Piazzoni, Valentino Bompiani. Un editore italiano tra fascismo e dopoguerra, LED, Milano 2007 (in particolare le pp. 131-144), e Anna Baldini, Un editore alla ricerca di un’avanguardia: Valentino Bompiani e la «tenzone del romanzo collettivo», in Anna Ferrando (a cura di), Stranieri all’ombra del duce. Le traduzioni durante il fascismo, Franco Angeli, Milano 2019, pp. 198-211.

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sue posizioni, a cominciare da Bontempelli – che su «900» aveva tentato di superare l’ideale rondesco della forma attraverso un romanzo naturalmente “traducibile” ma comunque radicato nella tradizione italiana – fino a Moravia, che contro il romanzo collettivo propugnava la necessità del personaggio come centro nevralgico della narrazione ma che nel 1937 sarebbe a sua volta entrato nelle fila degli autori Bompiani con i «cinque romanzi brevi» di L’imbroglio40. Pur nella varietà delle posizioni, nel giro di pochi anni comincia dunque a delinearsi un certo consenso intorno a ciò che dovrebbe essere il “romanzo moderno”. L’abbandono di temi autobiografici e introspettivi a vantaggio di architetture complesse, l’attenzione alla realtà contemporanea – prevalentemente urbana – e la predilezione per un linguaggio meno raffinato e più «parlato» concorrono, muovendo da fronti diversi, a erodere il prestigio della prosa d’arte che per anni aveva dominato il campo letterario. Gli scrittori e gli intellettuali più giovani sono inevitabilmente i più sensibili a questo cambio di paradigma, e il fatto che molti di loro trovino spazio per esprimere le proprie idee in riviste vicine al fascismo non implica che siano necessariamente fascisti essi stessi – basti il caso, su cui tornerò, di un marxista come Umberto Barbaro, che in nome di una comune visione antiborghese viene regolarmente accolto sulle pagine di una rivista ideologicamente poco ortodossa come «Occidente». Il fascismo non avrebbe del resto motivo di considerare incompatibile con la propria ideologia un’esortazione come quella che chiude l’Invito al romanzo di Titta Rosa, rivolta alla nuova generazione che, superato il frammentismo, deve adesso perseguire un’«italianità di linguaggio e di stile»41. Il problema è che questo tipo di romanzo, che anche per Titta Rosa può crescere solo nel solco del «realismo» tracciato da Manzoni e Verga, inizia ben presto a gettare luce su una realtà molto diversa da quella che il fascismo vorrebbe far vedere. 40  Cfr. Gianni Turchetta, Alberto Moravia diventa un autore Bompiani (19341937), in Lodovica Braida (a cura di), Valentino Bompiani. Il percorso di un editore “artigiano”, Sylvestre Bonnard, Milano 2003, pp. 86-121, che mostra come le prime offerte di pubblicazione da parte di Bompiani, risalenti al 1934, fossero state in effetti respinte da Moravia (p. 93). 41  Titta Rosa, Invito al romanzo cit., p. 89.

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1.3. Ampliare il repertorio: l’impulso dell’editoria Il fatto che le riflessioni qui ripercorse non restino interne alla piccola cerchia dei letterati ma riescano a raggiungere un pubblico più vasto è dovuto all’entrata in scena di un nuovo, decisivo attore: il comparto editoriale, che per motivi essenzialmente economici (il romanzo, soprattutto quello straniero, vende bene) dà l’impulso decisivo all’affermazione di questo genere letterario legittimando le collane più innovative promosse dai letterati e insieme spingendo a riorganizzarsi quelle caratterizzate da una vocazione di massa42. L’ambiguità dei rapporti che in questa fase legano editori e scrittori al governo fascista, tuttavia, ha concorso a far sì che, a partire dall’immediato dopoguerra, le tracce dell’attività letteraria del Ventennio venissero in parte occultate. Nella coscienza culturale del Novecento gli anni tra le due guerre tendono così a sprofondare in un’indistinta zona grigia, pochissimi scrittori di questa fase sono accolti nel canone letterario e le molte novità introdotte dall’editoria vengono più o meno intenzionalmente “postdatate” al secondo dopoguerra, quando finalmente, secondo una lettura lungamente accettata, gli italiani si sarebbero riaperti alla cultura internazionale grazie in primo luogo alle traduzioni di letteratura americana. L’immagine di un’Italia autarchicamente impermeabile alle culture straniere, in cui pochi editori e traduttori si muovono come eroici contrabbandieri di libri rivoluzionari, è ancora dominante all’inizio degli anni Ottanta, quando Giovanni Raboni, in una conferenza dedicata all’editoria milanese tra gli anni Venti e Trenta, ritiene necessario puntualizzare come un’immagine del genere, accettabile forse «per altri cam­pi del sapere» sia «del tutto insostenibile per quel che riguarda la produzione narrativa, il romanzo»43. Anni di studi su questo tema hanno convalidato le sue affermazioni: in questa fase l’Italia è infatti il paese europeo che pubblica il più alto numero di traduzioni, le quali rappresen42 Cfr. Michele Sisto, La consacrazione del romanzo. Traiettorie delle collane di narrativa straniera nel campo editoriale (1929-1935), in Id., Traiettorie cit., pp. 237-276. 43  Giovanni Raboni, La narrativa straniera negli anni ’24-’40, in Editoria e cultura a Milano tra le due guerre cit., pp. 50-56, qui p. 56.

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tano la percentuale maggiore della sua produzione libraria complessiva44. Per soddisfare le esigenze di un più ampio pubblico di lettori, l’editoria italiana sta progressivamente abbandonando le pratiche ottocentesche di diffusione del libro per darsi un assetto industriale moderno: accanto ai grandi editori del secolo precedente (Treves e Sonzogno), vanno così ampliando il loro raggio d’azione case editrici più giovani (come la milanese Modernissima, che per prima si lancia nella pubblicazione sistematica di romanzi contemporanei, e soprattutto Mondadori che, fondata nel 1907, diventerà alla metà degli anni Trenta protagonista indiscussa del panorama editoriale italiano), mentre altrettante ne sorgono ex novo, molte delle quali – come Bompiani, Frassinelli o Einaudi, tutte nate fra il 1929 e il 1933 – saranno destinate a una lunga attività. Il cuore pulsante dell’editoria dell’entre-deuxguerres è l’Italia settentrionale e in primo luogo naturalmente Milano, dove accanto agli editori più importanti fioriscono miriadi di piccole imprese interessate principalmente alla narrativa e dedite a pratiche editoriali talvolta piratesche: da qui l’epiteto denigratorio di «letteratura milanese» applicato alla narrativa di questi anni, spesso pubblicata in edizioni di infima qualità45. L’attenzione degli editori si concentra sulle traduzioni di narrativa e su autori che fino a poco prima venivano per lo più ignorati. Le collane che quasi simultaneamente vengono inaugurate per rivolgersi a precisi tipi di lettori sono, com’è facile osservare, tutte dedicate al genere di largo consumo del romanzo: un ruolo pionieristico riveste in questo campo la scrittori di tutto il mondo fondata da Gian Dàuli nel 1929 per la casa editrice Modernissima, la prima programmaticamente orientata a offrire un quadro dei principali narratori stranieri contemporanei. Dàuli – 44  Cfr. Rundle, Il vizio dell’esterofilia cit., p. 48. Sullo stesso tema vedi inoltre Billiani, Culture nazionali e narrazioni straniere cit. (in particolare il cap. III); Edoardo Esposito (a cura di), Le letterature straniere nell’Italia dell’entre-deux-guerres, 2 voll., Pensa Multimedia, Lecce 2003, e Id., Con altra voce. La traduzione letteraria tra le due guerre, Donzelli, Roma 2018. 45  cfr. Giovanni Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’unità al post-moderno, Einaudi, Torino 1999; Nicola Tranfaglia e Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani. Dall’Unità alla fine degli anni Sessanta, Laterza, RomaBari 2007². Per un ritratto della Milano del tempo vedi anche Giovanni Titta Rosa, I lumi a Milano. Pagine di civiltà lombarda, Martello, Milano 1964.

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scrittore irriverente, traduttore di Jack London e già animatore di spericolate imprese editoriali46 – muove in Inghilterra i primi passi da editore e la sua cultura di autodidatta è assai lontana dalle linee dominanti del campo letterario italiano, ma grazie alla collaborazione di una giovanissima Alessandra Scalero riesce nell’impresa di creare una collana che offre al pubblico italiano «le opere straniere più significative», tradotte in tempi rapidi da «traduttori competenti» e senza basarsi, per la loro selezione, su scelte di seconda mano orientate dal mercato editoriale francese o inglese47. Il sostegno di Scalero, che viaggiando tra Vienna, l’Italia e gli Stati Uniti al seguito del padre compositore ha potuto formarsi una conoscenza diretta del mondo letterario tedesco e anglosassone, è decisivo nell’ottenere i diritti di autori destinati di lì a poco a diventare canonici, come Dos Passos, Virginia Woolf, Céline, o ancora due imminenti Nobel come Thomas Mann e Sinclair Lewis48. Lo stesso 1929 vede la nascita di una collana di narrativa contemporanea diretta da un’altra intraprendente protagonista della nuova editoria, Lavinia Mazzucchetti: ormai definitivamente esclusa dal mondo accademico a causa delle sue posizioni politiche, Mazzucchetti inaugura la sua carriera editoriale fondando la collana narratori nordici per Sperling&Kupfer, il cui primo titolo è un dittico di racconti di Thomas Mann49. La serie delle nuove collane di narrativa con46  La figura di Gian Dàuli è stato oggetto di un continuo interesse a partire dal saggio di Michel David, Gian Dàuli editore, traduttore, critico, romanziere (Banca Popolare Vicentina, Vicenza - Libri Scheiwiller, Milano 1989); per una panoramica sui contributi più recenti rimando al saggio di Elisa Marazzi (Dalle carte di un mediatore. Gian Dàuli e l’editoria milanese, in Ferrando, Stranieri all’ombra del duce cit., pp. 123-137), che prende in esame anche i documenti inediti conservati presso la Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza. 47  Queste dichiarazioni d’intenti si leggono nel testo di presentazione della collana (“Scrittori di tutti il mondo”. Programma) stampato in appendice a Jack London, Il pianto di Ah Kim, Modernissima, Milano 1929. Affermazioni analoghe, in particolare per quanto riguarda la garanzia di tradurre dalle lingue originali, accomunano del resto tutte le collane più innovative di questa fase, dalla romantica a medusa (cfr. ad esempio la Nota dell’editore nell’Almanacco della «Medusa», Mondadori, Milano 1934, pp. 9-13). 48  Sulla figura di Scalero cfr. infra, cap. III, § 2.1. 49  Su Mazzucchetti cfr. supra, cap. I, § 2.3 e, specificamente sulla collana da lei fondata, Natascia Barrale, La letteratura tedesca dei Narratori nordici (Sperling & Kupfer), in Ferrando (a cura di), Stranieri all’ombra del duce cit., pp. 167-183.

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tinua con la letteraria Bompiani, che contribuirà non soltanto a tradurre quelli che considera i migliori rappresentanti stranieri del romanzo moderno (tra gli altri Kőrmendi, Kästner, Cronin) ma anche a promuovere giovani autori italiani: pubblicano in questa serie, inaugurata nel 1930 da Borgese e Bontempelli, romanzieri come Brancati, Dèttore, Zavattini o Alvaro, che Bompiani stesso si preoccupa di instradare verso un tipo di romanzo lontano dal lirismo autobiografico d’inizio secolo e più attento alle trasformazioni sociali della contemporaneità. A Torino, intanto, l’editore Frassinelli vara nel 1932 la biblioteca europea diretta da Franco Antonicelli, progetto a cui prendono parte Cesare Pavese (che traduce Joyce e Melville), Alberto Spaini e Anita Rho (che traducono Kafka). Tutti e tre ricompariranno, pochi anni dopo, tra i collaboratori di Einaudi: Pavese in veste di direttore della collana narratori stranieri tradotti (1938), Spaini e Rho ancora una volta in veste di traduttori, il primo di Goethe e Hoffmann, la seconda, in particolare, di Musil50. Questo dinamismo del mercato editoriale emergente obbliga anche gli editori più tradizionalisti a riorganizzare i loro cataloghi in linea con i gusti del nuovo pubblico: Treves inaugura la collana scrittori stranieri moderni (1929) e Bemporad i romanzi della vita moderna (1930), ma a dettare le regole del gioco è l’entrata in scena di Mondadori, che si era finora concentrato sugli autori italiani e che fra il 1932 e il 1934 vara ben quattro nuove collane di narrativa straniera. Mondadori, che può contare su un capitale ingente e su un occhio di riguardo da parte del governo51, assolda in questi anni molti dei più qualificati conoscitori di letteratura europea e americana (Borgese, Mazzucchetti, dal 1933 anche Scalero), e quasi contemporaneamente lancia sul mercato i libri gialli (1929), i romanzi della guerra (1930), i romanzi della palma (1932) e medusa (1933), collane che, insieme a le scie (1926) e omnibus (1937), 50  Giovanissima all’epoca del suo esordio come traduttrice di Kafka, Anita Rho, nipote di Barbara Allason, sarà nel dopoguerra una delle principali mediatrici di letteratura tedesca grazie alle sue traduzioni di classici come Robert Musil, Thomas Mann, Gottfried Keller e Anna Seghers. 51  Che si manifesta ad esempio tramite le commissioni statali, come il libro di testo unico per le scuole (cfr. Decleva, Arnoldo Mondadori cit., in particolare il cap. III).

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sfornano da sole più romanzi di quanto non facciano tutte insieme quelle degli altri editori52. Le collane che nascono in questi anni rivoluzionano dunque in modo radicale il repertorio di letture degli italiani. Al lettore comune diventano rapidamente accessibili in italiano sia autori già classici che finora erano noti però solo a chi poteva procurarseli in francese53, sia autori contemporanei appena emersi all’attenzione internazionale come Dos Passos, Döblin o Fallada: è un nuovo canone del romanzo quello che si stabilisce, e su di esso – non molto dissimile da quello odierno – si formano gli scrittori del nostro Novecento. All’interno di questo nuovo repertorio di letture il numero di autori e titoli di area tedesca è decisamente elevato. Non si tratta di un dato così sorprendente: la Germania, come si è visto nei capitoli precedenti, rappresenta in questi anni un costante termine di confronto nella riflessione sulla modernità, e a ciò va aggiunto il fatto contingente che tra i protagonisti di questa fase di trasformazione molti sono gli studiosi e i traduttori formatisi a contatto con quella cultura54. La letteratura tedesca, inoltre, vive negli anni 52 

Cfr. ivi, e Albonetti, Trafile di romanzi cit. proposito della questione spesso sollevata per cui molti autori sarebbero stati già noti attraverso le traduzioni francesi, sono almeno due gli aspetti da considerare. Il primo è il fatto che il pubblico di questi anni è ormai molto più ampio rispetto all’élite di chi conosce il francese come l’italiano e può facilmente procurarsi i libri oltralpe. Non è un caso se Borgese, che nel 1912 presentava antichi e moderni dichiarando che la letteratura francese vi sarebbe stata poco rappresentata perché «più facilmente accessibile nei testi originali» (così nella nota di accompagnamento al volume inaugurale della serie, I discepoli di Sais di Novalis), nel 1930, aprendo la romantica con la Certosa di Parma, difendeva invece la scelta di tradurre anche Stendhal, Flaubert e Balzac perché «non è punto vero che tutti gli italiani sappiano il francese» (Borgese, Nota a Stendhal cit., p. 680). Un secondo aspetto riguarda le peculiarità delle versioni francesi di romanzi tedeschi, inglesi o russi che continuavano a circolare: per la cultura francese del Sette e dell’Ottocento una buona traduzione era quella che oggi chiameremmo una buona riscrittura, del tutto libera nel tagliare, modificare e persino riscrivere gli originali laddove considerati inadatti al gusto corrente. Che a inizio secolo un romanzo sia noto attraverso una traduzione indiretta dal francese può dunque implicare una notevole lontananza dal testo originale, e questo è infatti uno degli argomenti con cui gli “specialisti” di letterature straniere (germanisti e slavisti per primi) promuovono i nuovi progetti editoriali. 54 Diversi responsabili delle collane di narrativa (Borgese, Farinelli, Mazzucchetti, Scalero, nonché figure come Manacorda, che dal 1921 seleziona i classici per la biblioteca sansoniana straniera) hanno infatti una formazione da germanisti, o comunque conoscono il tedesco. In collane come la scrittori di tutto il mondo 53  A

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della Repubblica di Weimar una fase di straordinaria vivacità: i suoi scrittori, riuniti con qualche semplificazione intorno all’efficace etichetta di Neue Sachlichkeit, vanno sperimentando un tipo di romanzo metropolitano caratterizzato dall’osservazione minuziosa della realtà contemporanea e da uno stile asciutto e cronachistico; ed è questo filone – ribattezzato in Italia “neo-oggettivo” o anche “neorealista” – a suscitare la maggiore curiosità55. La dauliana scrittori di tutto il mondo è la prima a intercettarlo traducendo Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, romanzo acclamato in Germania tanto come vertice del romanzo espressionista che come capostipite dello stile “neo-oggettivo”56. Accanto a Döblin il catalogo della collana presenta romanzieri contemporanei come Alfred Neumann, Lion Feuchtwanger, Arthur Schnitzler, Jakob Wassermann, Stefan Zweig, Hermann Kesten e il già citato Mann (di cui Bice Giachetti Sorteni traduce nel 1932 La montagna incantata), autori che con la Neue Sachlichkeit hanno talvolta poco o nulla a che fare, ma che tendono ad essere presentati come un unico, compatto filone. Il diavolo di Alfred Neumann, romanzo «nettamente faustiano» che apre la collana, viene ad esempio incluso nella «nuova corrente letteraria germanica» accanto a Franz Werfel e ad Arnold Zweig57; mentre la postfazione di Sibilla Aleramo a Teresa fa anche del viennese Schnitzler un precursore gli autori di lingua tedesca rappresentano circa la metà dei titoli; in altre, pur essendo meno in termini numerici, otterranno successi di vendite tali da farli rimanere in catalogo per decenni (è il caso di Fallada, su cui cfr. infra, cap. III, § 4). 55  Cfr. Rubino, I mille demoni della modernità cit., e soprattutto Id., La Neue Sachlichkeit e il romanzo italiano degli anni trenta, in Franco Petroni, Massimiliano Tortora (a cura di), Gli intellettuali italiani e l’Europa (1903-1956), Manni, Lecce 2007, pp. 235-274, pionieristico studio su come attraverso i narratori tedeschi di questa fase si diffondano in Italia innovazioni formali – come un certo uso del montaggio e del dialogo – tradizionalmente attribuite agli scrittori americani del dopoguerra. Sulle interpretazioni italiane della Neue Sachlichkeit e sui suoi legami con il neorealismo cfr. inoltre Charles L. Leavitt IV, On the Translation of Literary Terms: Neorealismo and Neue Sachlichkeit, «Letteratura e Letterature», 14, 2020, pp. 89-102. 56  Sulle vicende editoriali di questa traduzione, voluta da Scalero e realizzata da Spaini, vedi infra, cap. III, § 6. 57  [Alessandra Scalero], Alfred Neumann, in Alfred Neumann, Il diavolo, tr. di Alberta Albertini, Modernissima, Milano 1930, pp. XI-XV, qui p. XII. La breve nota di presentazione, anonima, è redatta da Scalero che già a questa altezza temporale seleziona gli autori tedeschi della collana e ne rivede le traduzioni (cfr. la lettera inviata alla sorella Liliana il 5 gennaio 1930 citata infra, cap. III, § 2.1., nota 102).

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dello stile neusachlich per la mancanza di retorica e l’asciuttezza della narrazione («i fatti s’inseguono nudi, logici, allucinanti»58), a conferma di come la ricerca di forme espressive concrete e immediate sia ormai vista come la cifra distintiva del romanzo più attuale. La letteraria Bompiani, soprattutto nei primi anni di vita, dà a sua volta molto spazio ai contemporanei di lingua tedesca proponendo Joseph Roth, Gina Kaus e due grandi narratori della Berlino post-crisi del ’29 come Rudolf Brunngraber (Karl e il XX secolo) ed Erich Kästner (Fabian); mentre nel 1933 Frassinelli lancia Kafka, presentandolo, grazie alla traduzione spainiana del Processo, come uno dei più innovativi romanzieri del tempo59. I romanzi tedeschi proposti da Mondadori sono invece differenziati in base al pubblico delle diverse collane: E adesso, pover’uomo? di Hans Fallada è il primo a comparire in quella letterariamente più ricercata, medusa, che dopo l’ingresso di Scalero tra i collaboratori contenderà molti titoli alla scrittori di tutto il mondo. Nei romanzi della guerra i lettori che avevano amato la “letteratura d’armistizio” possono leggere Arnold Zweig (La questione del sergente Grischa) o il discusso Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, mentre alle giovani lettrici che comprano per poche lire i romanzi della palma l’editore riserva scrittrici come Vicki Baum, Irmgard Keun e Joe Lederer nelle traduzioni di Barbara Allason, Dora Dolci Rotondi, Lina Ricotti e Lavinia Mazzucchetti (che in questi casi si nasconde però dietro lo pseudonimo di “Franco Franchi”). Il fatto che in questa fase il romanzo continui a mantenere uno statuto artistico piuttosto ambiguo, che ne fa un genere d’avanguardia ma senza sottrarlo del tutto al marchio della letteratura d’intrattenimento, comporta inoltre che molti autori anche di primo piano arrivino alla pubblicazione lungo canali decisamente accidentati o del tutto marginali. Il caso di Heinrich e Thomas 58  Sibilla Aleramo, Prefazione, in Arthur Schnitzler, Teresa, tr. di Bice Giachetti Sorteni, Modernissima, Milano 1929, pp. 9-15, qui p. 12. 59  Il germanista fiorentino Rodolfo Paoli, che nello stesso anno traduce La metamorfosi, sottolinea infatti come lo scrittore praghese stia offrendo materia nuova a un genere letterario come il romanzo che «soffre evidentemente di vecchiaia» (Rodolfo Paoli, Introduzione a Franz Kafka, La metamorfosi, Vallecchi, Firenze 1934, pp. 7-36, qui p. 22). Sulla traduzione del Processo cfr. infra, cap. III, § 6.2.

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Mann, oggi universalmente considerati due dei più grandi scrittori dell’epoca, è forse il più eloquente. Di Heinrich Mann, già nel 1919, Sonzogno pubblica Il suddito e I poveri per volontà dello scrittore anarchico Mario Mariani, che ne apprezza le posizioni politiche e che lo esalta come «romanziere della rivoluzione» accanto a Barbusse e a se stesso60. Le pessime traduzioni dei due romanzi (che non sfuggono all’implacabile Mazzucchetti e che costeranno a Sonzogno un processo per mancato pagamento dei diritti d’autore61) condizionano fortemente la circolazione italiana dello scrittore, a lungo legato all’area del romanzo commerciale e riaccolto in una collana letterariamente prestigiosa – la medusa Mondadori – solo quattordici anni più tardi. Note sono anche le traversie cui vanno incontro i primi estimatori del fratello Thomas (in particolare Spaini e Pisaneschi) nel tentativo, puntualmente frustrato, di farlo tradurre. Nonostante il successo da lui ottenuto in Germania fin dalla pubblicazione dei Buddenbrook, Mann è considerato a lungo dai letterati italiani uno scrittore “attardato”, e fino ai primi anni Trenta traduzioni delle sue opere trovano spazio solo in riviste di second’ordine o presso editori di scarso prestigio come Morreale e Barion62. Per gli editori e gli scrittori più commerciali, del resto, pubblicare romanzi non è il segnale di un cambiamento ma la prosecuzione di una pratica assodata e redditizia, per la quale è del tutto normale diffondere opere straniere in assenza di competenze specifiche: è così che alla metà degli anni Trenta ritroviamo in veste di traduttore dal tedesco persino una vecchia conoscenza come Guido da Verona, che dà alle stampe La capitana coraggio di

Grimmelshausen in una collana da lui diretta per s.e.l. e tutta rivolta al pubblico delle sue sempreverdi lettrici63. La grande vitalità editoriale di questo periodo si traduce insomma in un’enorme disponibilità di nuovi romanzi, gran parte dei quali provengono dalla modernissima e “americanizzata” Germania. E che le traduzioni passino per canali prestigiosi o marginali, che vengano fatte per ragioni politiche, per convinzione estetica o solo perché ci si aspetta che vendano migliaia di copie, arriva comunque il momento in cui giungono nelle mani dei lettori italiani, con tutto il carico di “idee moderne” che portano con sé. È dunque necessario a questo punto fare i conti con i testi veri e propri, e con le letture che ne vengono date: tagli e manipolazioni non riescono infatti fino in fondo a condizionarne le interpretazioni, e così accade che i disoccupati inizino a leggere gli anni della grande crisi attraverso gli occhi di un Biberkopf o di un Fabian, che le giovani lettrici imparino a riconoscere il maschilismo dei loro datori di lavoro appassionandosi alle avventure della dattilografa Gilgi, che gli antifascisti perseguitati si vedano rappresentati nelle vicende giudiziarie di cui sono vittime Joseph K. o Etzel Andergast. Il timore che la circolazione di romanzi stranieri si risolva in un’esplosione di idee non del tutto controllabile si intuisce già nell’ingiunzione di chiusura che nel 1932 colpisce la mondadoriana romanzi della guerra, nata con l’intento di cavalcare la redditizia ondata della letteratura d’armistizio ma presto divenuta pericoloso veicolo di infiltrazione di idee “disfattiste”; un atto a cui faranno seguito interventi progressivamente più limitanti nei confronti degli editori64. Col procedere del decennio, insomma,

60 Mario Mariani, Prefazione a Enrico Mann, Il suddito, Sonzogno, Milano 1919, pp. 5-13. 61  Lavinia Mazzucchetti, Il romanziere della rivoluzione tedesca e suo fratello, «Il Secolo», 1° febbraio 1920 (poi in Ead., Novecento in Germania, Mondadori, Milano 1959, pp. 64-69), dove l’autrice lascia intuire che Mariani è autore non solo della prefazione ma anche della traduzione del Suddito, a suo parere pessima quanto quella dei Poveri. Lo stesso Heinrich Mann ne sarebbe stato scontento al punto di intentare un processo contro Sonzogno (cfr. Lea Ritter Santini, L’Italiano Heinrich Mann, Il Mulino, Bologna 1965, p. 199, n. 36). 62  Sui falliti tentativi di Spaini e Pisaneschi di pubblicare traduzioni di Thomas Mann e articoli su di lui cfr. supra, cap. I, § 2.2. Anche in questo caso risulterà decisivo il lavoro di mediazione di Mazzucchetti, che riuscirà infine a portare lo scrittore sotto le insegne di Mondadori.

63  Cfr. Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen, La capitana coraggio, tr. di Guido da Verona, s.e.l., Milano 1934. La versione italiana, preceduta da una lunga introduzione del traduttore che ripercorre le sorti del genere romanzo da Cervantes a Conan Doyle, è realizzata con ogni probabilità su un’intermedia traduzione francese, a riprova di come sia sufficiente allontanarsi dal circuito dell’editoria più avanzata per veder sopravvivere pratiche altrove stigmatizzate come obsolete. 64  Sebbene il governo fascista adotti inizialmente un atteggiamento liberale per non danneggiare i profitti degli editori, nel corso del decennio si assiste a un graduale ma inesorabile inasprimento delle misure di controllo: gli storici concordano nel collocarne gli inizi intorno alla metà degli anni Trenta, con il passaggio delle pratiche di censura dalle mani dei prefetti a quelle del Sottosegretariato per la stampa e per la propaganda (1934), e da lì in quelle della Divisione Libri della Direzione generale della Stampa Italiana (“Divisione III”) guidata da Gherardo Casini (1935). Gli anni

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agli occhi del governo fascista gli scrittori di guerra cominciano a rivelarsi un po’ troppo pacifisti, le donne un po’ troppo ribelli, i tedeschi un po’ troppo ebrei; e gli organismi deputati al controllo della stampa e dell’editoria, che avevano a lungo concentrato i loro sforzi sulle pubblicazioni periodiche, sovrintendono alle scelte editoriali con sempre maggiore invadenza, arrivando nel giro di pochi anni a far sparire dalle collane letterarie molti autori considerati sgraditi per ragioni politiche o razziali. Le loro opere, tuttavia, hanno già lasciato un segno profondo nei lettori e negli scrittori più giovani: le domande che il romanzo pone da un secolo e mezzo a questa parte vi si trovano rifuse in nuove forme e riportate alla contemporaneità, tra fabbriche di calze, linee del tram e casermoni di periferia. Se alla fine del Settecento Wilhelm Meister aveva diritto al proprio romanzo di formazione, del resto, perché negare adesso lo stesso diritto agli uomini del tempo presente, all’operaio Biberkopf o alla dattilografa Gilgi? 1.4. Ancora troppo prosaici? Accanto all’interesse per la costruzione, che i romanzi di questi anni esprimono soprattutto nella predilezione per storie non centrate su un unico personaggio, si afferma come abbiamo già osservato anche il mito della “scrittura concreta”, che si manifesta nella scelta di soggetti legati alla realtà contemporanea e di generi letterari vicini al reportage. Nei paesi di lingua tedesca il termine ricorrente è Bericht – «resoconto», «cronaca», «relazione» o anche «storia vera» –, con il quale si allude a una forma di scrittura programmaticamente oggettiva e impersonale, fatta di dati, di elementi materiali, di osservazione. Il sociologo Siegfried 1937-1938 vedono una stretta ulteriore con la fondazione del Minculpop, la promulgazione delle leggi razziali e l’istituzione della Commissione per la bonifica libraria, che contribuiscono a far sparire dai cataloghi editoriali gli autori ebrei, antinazisti o comunque a vario titolo «non graditi in Italia»: tra essi figurano Borgese, da Verona, Baum, Döblin, Kafka, Wassermann, Heinrich e Thomas Mann (l’elenco completo si legge in Philip Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 427-434). Su questo tema, oltre ai già citati studi di Rundle, cfr. Giorgio Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria ed autori ebrei, Zamorani, Torino 1998; Id., Il censore e l’editore cit.; e Guido Bonsaver, Censorship and Literature in Fascist Italy, University of Toronto Press, Toronto 2007.

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Kracauer, che all’inizio degli anni Trenta dedica un acutissimo studio alla figura a suo parere più rappresentativa della modernità urbana, quella dell’impiegato, attribuisce la «fame di immediatezza» tipica della scrittura a lui contemporanea al «digiuno provocato dall’idealismo», mettendo tuttavia immediatamente in guardia dal rischio ingenuo di credere che la semplice restituzione del fatto permetta di per sé di accedere alla realtà: Cento rapporti [Berichte] da una fabbrica non si lasciano sommare così da dare come risultato la realtà della fabbrica, ma restano eternamente cento vedute della fabbrica. La realtà è una costruzione [Konstruktion]. La vita deve essere certamente osservata, per nascere. Però non è contenuta nella successione più o meno accidentale del reportage, ma è insita solo ed esclusivamente nel mosaico che viene formato con le singole osservazioni sulla base della conoscenza del loro contenuto65.

La formula borgesiana dello «stile novecentotrenta» che va affermandosi nel romanzo europeo è, potremmo dire, tutta racchiusa in queste righe: osservazione minuta e oggettiva della realtà contemporanea (Bericht), e insieme sua articolazione in un sistema simbolico più complesso (Konstruktion), al quale soltanto si riconosce in ultima istanza la capacità di elaborare rappresentazioni veramente “realistiche”. I lettori italiani del tempo non conoscono il saggio di Kracauer, ma hanno ben presente la discussione a cui il sociologo fa riferimento e grazie alle traduzioni stanno iniziando a familiarizzare con gli autori stranieri che esplorano letterariamente il genere del Bericht – dallo Joseph Roth di Fuga senza fine (il cui sottotitolo è appunto ein Bericht), al Kafka di Relazione per un’accademia (Ein Bericht für eine Akademie) fino ad Alfred Döblin, che in Berlin Alexanderplatz sottolinea fin dalla prima riga il fatto che il romanzo «riferisce» [berichtet] la storia di Franz Biberkopf66. Basato sulla conoscenza diretta degli strati popolari 65  Siegfried Kracauer, Die Angestellten. Aus dem neuesten Deutschland, Frankfurter Societäts-Druckerei, Frankfurt a.M. 1930. Cito dall’edizione italiana a cura di Luciano Gallino (Gli impiegati, Einaudi, Torino 1980, pp. 12-13). 66  Non è facile seguire la diffusione di un concetto come quello di Bericht nel contesto della letteratura tradotta, proprio per la varietà di termini con cui viene reso di volta in volta. La traduzione di berichtet con «racconta» nell’incipit di Berlin Alexanderplatz mette peraltro in evidenza quanto il termine fosse all’epoca percepito anche nella sua dimensione narrativa.

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della Berlino fra le due guerre – che Döblin, da medico, possedeva come pochi altri suoi contemporanei – e insieme retto dalla voce di un narratore estremamente costruito e quasi invadente, Berlin Alexanderplatz è senza dubbio il romanzo che in questi anni meglio realizza la sintesi tra elemento cronachistico e costruttivo, e notevole sarà il suo effetto anche sugli autori italiani che lo leggono nella traduzione tempestivamente e rocambolescamente realizzata da Spaini per la collana di Gian Dàuli. Questo nuovo sguardo sulla realtà contemporanea, inizialmente incoraggiato dall’ideologia fascista, è però proprio l’aspetto che inizia a creare agli editori di narrativa straniera tutti i problemi cui si è accennato alla fine del paragrafo precedente. Se la rappresentazione di contesti metropolitani più moderni incontra il gusto dei nuovi lettori (e più ancora, come sempre, delle lettrici), non per questo è conforme alle disposizioni statali in fatto di politica, costume e morale, che diventano nel corso degli anni Trenta progressivamente più restrittive. I pareri di lettura che circolano all’interno delle case editrici, con i quali si raccomanda o si sconsiglia la pubblicazione di un’opera straniera, testimoniano come già all’inizio del decennio – ben prima, cioè, che si possa parlare di una vera e propria censura – sia chiara a redattori e consulenti la rete di regole non scritte in cui un libro può rimanere impigliato, col rischio di essere ritirato dal mercato e danneggiare economicamente l’editore. Attraverso i pareri editoriali è possibile farsi un’idea piuttosto precisa di quali siano i vincoli da valutare caso per caso prima di dare alle stampe un romanzo67. Ci sono linee guida a cui è preferibile attenersi – le figure femminili, ad esempio, non devono evocare il modello della donna «sterile» tipica della decadente società occidentale68 – ma anche argomenti «da evitare assolutamente»: tra questi «offese alla morale comune, alla chiesa, alla romanità, scene di sesso, adulterio, suicidi, aborti, “pariginismo”, riferimenti positivi a paesi [ne]mici, ad eventi storici “scomodi”, accenni inappropriati alla situazione politica 67  Per una riflessione sull’operato dei lettori editoriali, che avvenendo a monte della storia letteraria registra le evoluzioni del campo letterario nel momento stesso in cui queste hanno luogo, cfr. Sara Sullam, Reading for Translation: Readers Report between Italy and the United Kingdom (1945-1968), «The Italianist», 41, 3, 2021. 68  Cfr. Cannistraro, La fabbrica del consenso cit., p. 89.

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italiana, al colonialismo inglese, alla rappresentazione intima del corpo femminile, quali ad esempio alle doglie»69. Ma i pareri di lettura permettono non soltanto di mettere a fuoco come si lavori in un contesto di censura più o meno esplicita. Poiché nella valutazione positiva di una determinata opera è in genere la qualità letteraria a fare da contrappeso al rischio di un sequestro, i pareri si trovano a dover puntualmente argomentare anche quali siano le caratteristiche di un «romanzo riuscito», e perciò comunque da pubblicare: da essi emerge dunque, più esplicitamente ancora che dai dibattiti ospitati sulle riviste, quali siano gli elementi irrinunciabili che fanno adesso la modernità e l’interesse di un romanzo. Le regole del gioco stanno infatti decisamente cambiando se molti aspetti che solo dieci anni prima avrebbero sancito il valore di un’opera vengono adesso presentati come difetti: «è una specie di poema in prosa», scrive scettica Alessandra Scalero a proposito di Kit Brandon di Sherwood Anderson, romanzo caratterizzato da una «impostazione lirica» ma «mancato, in quanto romanzo. Sono quadri, episodi, frammenti di vita; tutto meno che un romanzo vero e proprio»70. In termini simili si esprime Lavinia Mazzucchetti a proposito di Ernst Wiechert, il cui Das einfache Leben è «senza azione, anzi non è un romanzo, ma solo la autobiografia (simbolica, irreale, sognata, non effettiva!) dell’autore»71; e di Einsamer Himmel di Katrin Holland, un libro «lento, basato tutto sulla psicologia del protagonista», insomma «una vita seguita, non un nodo romanzesco»72. A fare del romanzo un 69  Così sintetizza Billiani in Culture nazionali e narrazioni straniere cit., p. 204. Sul problema della censura preventivamente esercitata dagli stessi lettori editoriali cfr. anche Ead., Aesthetic Censorship? Readers’ Reports from Fascist Italy, «Frame», 21, 2, 2008, pp. 61-76. 70  Parere di lettura di Scalero su Kit Brandon di Sherwood Anderson, in Albonetti, Non c’è tutto nei romanzi cit., pp. 406-408, qui p. 408. Anche gli esempi che seguono provengono dai pareri stilati per Mondadori, e rappresentano dunque un campione ristretto: si è già ricordato però che Mondadori è in questi anni la casa editrice che traduce più letteratura straniera, e che due delle sue collaboratrici principali (Scalero e Mazzucchetti, che redigono oltre la metà dei pareri) hanno rivestito ruoli analoghi per altre collane e case editrici. 71  Parere di lettura di Mazzucchetti su Das einfache Leben di Ernst Wiechert, ivi, pp. 480-483, qui p. 481. 72  Parere di lettura di Mazzucchetti su Katrin Holland, ivi, pp. 277-279, qui p. 279.

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romanzo non è più – come si sarebbe detto negli anni Dieci – la capacità di seguire lo “sviluppo di un’anima”, quanto piuttosto quell’insieme di attenzione realistica al contemporaneo e di capacità di costruzione che abbiamo visto essere l’argomento più dibattuto da critici e scrittori nel corso degli anni Trenta. Dei romanzi che si sceglie di tradurre viene dunque lodata l’architettura narrativa («alquanto ben costrutto, bene proporzionato nei suoi sviluppi», «tutto è ingranato e addentellato»), la trama («l’intreccio è sempre molto teso, molto avvincente») e la capacità di riprodurre realisticamente il discorso parlato, arte in cui è considerato maestro uno scrittore come Fallada («dialogo vivacissimo e immediato», «capacità di far vedere i personaggi “dal di dentro” e di crearli attraverso i loro discorsi»73). Nondimeno, questo tratto realistico che il fascismo stesso ha contribuito a esaltare – ripensiamo alle osservazioni di Attilio Riccio su «Critica fascista»74 – comincia a diventare problematico, innescando meccanismi di censura e autocensura. La realtà propagandata dall’ideologia è infatti sempre più scollata da quella che i romanzi rappresentano: per il fascismo, nel nostro paese, non si verificano fatti di cronaca nera, i criminali non sono mai italiani, l’omosessualità non esiste e le donne non chiedono di poter abortire. E se un romanzo insiste a mettere in scena fatti del genere, tanto peggio per i fatti. Il problema è che ad avvincere di più il pubblico dei lettori è proprio il romanzo contemporaneo “americanizzato”, poco importa se effettivamente di matrice statunitense o nato nelle più avanzate metropoli europee che ne imitano i costumi, Berlino su tutte. Le grandi città in cui si dipanano le vicende dei nuovi personaggi romanzeschi – personaggi più che mai comuni: impiegati, dattilografe, operai, disoccupati – sono infatti lo scenario in cui si torna a esaminare, con esiti ora più pessimistici, la promessa di emancipazione della modernità. Se all’inizio 73  Pareri di lettura di Bruno Revel su Wer einmal aus dem Blechnapf frisst (ivi, pp. 251-253, qui p. 253) e su Wolf unter Wölfen (ivi, pp. 258-259, qui p. 258) di Hans Fallada. I giudizi immediatamente precedenti sono tratti invece da pareri anonimi relativi a romanzi di Jakob Wassermann ed Erich Maria Remarque (ivi, rispettivamente alle pp. 236 e 412). 74 Cfr. supra, cap. III, § 1.1 e § 1.2.

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del nostro percorso, attraverso la figura di Wilhelm Meister, la riflessione romanzesca aveva recepito soprattutto il potenziale liberatorio e trasformativo della cultura moderna, e se negli anni intorno alla prima guerra mondiale aveva messo in primo piano il dilemma tragico dell’uomo che sa di dover “diventare adulto” in un contesto di lacerazioni e abbandoni, adesso sembra rassegnarsi a lasciare che i destini umani si disperdano nei meandri delle metropoli, dove a sempre più persone è data la possibilità di cercare la propria strada e a sempre meno è concesso di trovarla. La modernità inizia cioè ad essere rappresentata come una forza ostile, spersonalizzante, alienante, che nella migliore delle ipotesi permette ai personaggi di vivere in un mondo sradicato e atomizzato, nella peggiore li annienta. Sono del resto gli anni che seguono la grande crisi del 1929, in cui le speranze sollevate nel dopoguerra vanno infrangendosi di fronte all’inflazione e alla disoccupazione dilagante, mentre molti governi, a cominciare da quello italiano, scelgono soluzioni autoritarie per stroncare i fermenti di protesta sociale che fino a poco prima avevano cavalcato. I nuovi eroi del romanzo contemporaneo sono così quasi sempre vittime della modernità, la cui rappresentazione principe è appunto la metropoli: lungi dall’essere soltanto uno sfondo, la grande città diventa una sorta di avversario del protagonista romanzesco, l’unico luogo in cui è possibile diventare se stessi e insieme quello che rende più difficile questo percorso. Il realismo dei romanzi di questi anni si rivela così il tratto più amato dai lettori e quello più temuto dai censori. In molti casi il fascismo si accontenterà di indebolirne l’impatto con pretestuose dichiarazioni di “estraneità”: è quello che accade ad esempio con la traduzione di Fabian di Erich Kästner, che esce accompagnata da una prefazione di Massimo Bontempelli in cui il corrotto ambiente berlinese è messo in risalto proprio allo scopo di evidenziare il contrasto con la sana cultura italiana75; o con L’uomo forte di Corrado Alvaro, al quale l’autore è costretto ad anteporre una pagina introduttiva dove si afferma che il romanzo si svolge in Russia e non contiene dunque alcu75 

Sulla prefazione di Bontempelli cfr. infra, cap. III, § 6.1.

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na allusione all’Italia fascista76. Questi romanzi non parlano di noi – è la linea che il fascismo impone di seguire e a cui editori e curatori fanno vista di attenersi: di quanto queste interpretazioni guidate riescano poi davvero a condizionare i lettori, parleremo nei paragrafi che seguono. 2. «Europeo» e «vernacolo senza rimedio»: il nuovo realismo metropolitano 2.1. La scoperta di Berlin Alexanderplatz Non ci si può fare un’idea di cosa significhi il romanzo tedesco per l’Italia degli anni Trenta senza prendere in esame quello che immediatamente viene considerato il precursore di una nuova stagione letteraria: Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, romanzo “intraducibile” eppure subito tradotto in tutta Europa, a cominciare proprio dall’Italia. Per novità, per ampiezza, per la complessità dei temi che tratta e per la creatività linguistica che dispiega, Berlin Alexanderplatz è una sorta di concentrato di tutti i problemi che un’opera da tradurre può rappresentare, e proprio per questo permette meglio di altre di illuminare alcuni aspetti relativi alla circolazione internazionale dei romanzi: il lavoro pionieristico svolto spesso da case editrici piccole o per varie ragioni marginali rispetto al campo letterario, l’importanza dei mediatori professionisti, la traduzione come attività creativa, la manipolazione delle opere indotta dal campo d’arrivo e gli effetti che questa ha poi su di esso. La storia che Döblin sceglie di narrare, inoltre, ci riporta alla domanda “goethiana” che già abbiamo visto formulare in Wilhelm Meister, rimodulata adesso in forme più attuali e soprattutto rivolta a una nuova fascia di potenziali attori della modernità: che fare, nel momento in cui il mondo in cui si è cresciuti vacilla e diventa necessario costruirsi un proprio sistema di valori? L’estendersi dell’esperienza della modernità ha fatto sì che nel corso di qualche secolo (in Italia addirittura nel corso di qualche decennio) porsi questa domanda 76 

Sul romanzo di Alvaro cfr. infra, cap. III, § 7.

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non fosse più un privilegio della sola nobiltà o dell’alta borghesia (come accade nei primi romanzi di formazione), né dei colti benestanti (la categoria di un Filippo Rubé), ma una possibilità anche per le fasce sociali che ne erano state finora escluse, ad esempio i proletari come Franz Biberkopf. Il protagonista di Berlin Alexanderplatz, che all’inizio del romanzo esce dalla prigione di Tegel e deve decidere cosa fare di sé, apre la strada a tutta una schiera di nuovi protagonisti che non si accontentano più di fare da scudieri agli eroi, ma che legittimamente reclamano il diritto di costruirsi un percorso autonomo. Quanto la modernità rappresentata dalla metropoli sia poi davvero un aiuto e non piuttosto un ostacolo al compimento di quest’aspirazione, è valutato in modo diverso in ciascuno dei romanzi su cui ci soffermeremo: merita tuttavia anticipare fin d’ora che molti di essi, anche quando si concludono con la sconfitta dell’eroe, stanno di fatto aprendo a una nuova e più adeguata possibilità di soluzione, che può cominciare solo dopo che il protagonista ha visto crollare le sue preconcette, e inadeguate, visioni del mondo. In Berlin Alexanderplatz la scena si apre sulla vicenda di un operaio berlinese che cerca di tornare a una vita normale dopo aver scontato alcuni anni di galera, inflittigli per aver ucciso la compagna Ida nella furia di un litigio. Nonostante i suoi propositi di condurre una vita onesta, qualcosa «che viene dal di fuori, che è imponderabile e che ha tutta l’aria di un destino»77 lo colpisce duramente per tre volte, prima con il tradimento di un amico, poi menomandolo fisicamente (perde un braccio nella fuga dopo una rapina), infine sottraendogli la donna di cui si è innamorato, uccisa dal truffatore Reinhold. Moderno Giobbe, proprio in quanto moderno Biberkopf non ha però il diritto di lamentarsi come il suo predecessore biblico: la sua è la storia di una presa di coscienza, di una progressiva assunzione di responsabilità, sancita al termine del libro dall’incontro con la Morte – una Morte morale, che rimproverandolo in dialetto berlinese lo 77 Alfred Döblin, Berlin-Alexanderplatz. Storia di Franz Biberkopf, tr. di Alberto Spaini, Modernissima, Milano 1931 (Prologo). Per i raffronti testuali si fa riferimento alla prima edizione tedesca del romanzo (Id., Berlin Alexanderplatz. Die Geschichte vom Franz Biberkopf, Fischer, Berlin 1929), indicando di entrambe il numero del libro in numeri arabi e quello del capitolo in numeri romani.

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spinge a reagire al suo destino di vittima («In mano mia non ho che una scure», gli dice, «Tutto il resto ce l’hai tu»78). Con ciò si rivela dunque anche l’ambiguità dei progetti di Biberkopf, uomo buono che non aspira al bene ma solo a essere perbene (anständig sein), che campa vendendo giornali nazisti («non ha niente contro gli ebrei, ma è per l’ordine»79) e che non prende lezioni da nessuno perché è stato in trincea (e dunque sa già «come stanno le cose»80). Quando al termine delle sue peripezie si ritrova ancora una volta, spaesato, fuori da un istituto di detenzione (stavolta un manicomio), la scena è dunque solo in apparenza un ritorno all’inizio: dopo il dialogo con la Morte il protagonista può considerarsi uscito dallo stato di minorità, è un uomo adulto, che prova a dirigere e non solo a subire il proprio destino – e qui il romanzo si chiude, senza che al lettore sia data alcuna certezza sulle sue scelte future. In linea con l’ispirazione epica che lo anima, il romanzo è guidato dalla voce di un narratore onnipresente che, lungi dal limitarsi a “riferire”, interviene di frequente nella storia con commenti partecipi o ironici, dispiegando un armamentario di citazioni che vanno dalla tragedia classica alla fisica contemporanea e imprimono all’intero romanzo l’andamento di una lunga parabola morale. Spazio privilegiato dei suoi interventi sono i lunghi titoli che aprono ciascun capitolo, i quali – come i cartelli nel teatro epico brechtiano – annunciano al lettore quanto sta per avvenire: si tratta di una tecnica che ritroveremo in molti altri romanzi coevi, a cominciare dal Kleiner Mann di Hans Fallada e fino a romanzi italiani come Tre operai di Carlo Bernari81. Quando nell’ottobre del 1929, dopo una breve anticipazione pubblicata dalla «Frankfurter Zeitung», Berlin Alexanderplatz arriva nelle librerie tedesche, la polemica è immediata: tra i suoi estimatori ci sono Erich Kästner e Thomas Mann, fra i detrattori diversi scrittori vicini al partito comunista tedesco e al BPRS (l’associazione degli scrittori proletari-rivoluzionari), che accusano Döblin di aver scritto un romanzo controrivoluzionario nel 78 

Ivi, cap. IX, § 4. 79  Ivi, cap. II, § 4. 80  Ivi, cap. II, § 5. 81  A proposito dei quali cfr. infra, cap. III, § 3.1 e § 4.

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quale gli operai parlano come dei biblisti, e i comunisti, all’epoca ben rappresentati soprattutto nel quartiere intorno ad Alexanderplatz, sono praticamente assenti82. Il romanzo è comunque un successo, e quando nel maggio del 1933 viene bruciato dai nazisti è già considerato un classico. La discussione sollevatasi in Germania non tarda a raggiungere il nostro paese. Nei primi mesi del 1930 Lavinia Mazzucchetti ed Enrico Rocca ne scrivono rispettivamente su «Leonardo» e su «Pègaso»: per entrambi si tratta di un romanzo «intraducibile», la cui universalità è irreparabilmente minata dalla scelta di un linguaggio inimmaginabile al di fuori del contesto berlinese. Mazzucchetti, che come abbiamo visto ha da poco fondato la collana narratori nordici e si avvia a diventare una delle principali mediatrici della letteratura tedesca del Novecento, guarda all’opera con l’occhio della studiosa in grado di coglierne la raffinatezza e insieme con quello della redattrice editoriale, che ragiona anche sulle concrete potenzialità di circolazione di un testo del genere: mi è apparso strabiliante e persino assurdo il disegno, che qualcuno mi ha annunciato, di una versione italiana di quest’ultimo romanzo ultraberlinese di Döblin [...] Non vi è canzonetta popolare, ritornello da cabaret, motto plebeo, non vi è “parola alata”, decaduta dalla sua classica magnificenza sino all’umiltà della circonlocuzione proverbiale, non vi è apostrofe grottesca e indiscreta della pubblicità che da mille parti ci assale e ci sorprende, non vi è voce, canto, bestemmia, rumore e colore della strada che non si introduca tra riga e riga, tra parola e parola, permeando tutto e tutti di una indefinibile atmosfera di realismo e di irrealtà ad un tempo. Che il ricalco di un simile libro appaia una inutile ed impossibile temerità, benché ogni lingua e ogni paese abbia i suoi canti ed i suoi dialetti, i suoi gerghi e le sue bestemmie, le sue sconcezze e le sue stoltezze, sembrerà forse ora più giustificata affermazione. Vi è soprattutto da temere che, spostandone, deformandone o attenuandone la forma, turbando la stranissima poesia che viene da codesta mistura di trascendente sublimità e di brutale crudezza, si finisca per trovarsi fra 82 J-S, Ist das unser Alex?, «Die Rote Fahne», 12, 258, 17 dicembre 1929. La recensione è inclusa nella raccolta di documenti sul romanzo curata da Matthias Prangel (Materialien zu Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978), alle pp. 70-71. Sulla ricezione tedesca dell’autore cfr. inoltre Gabriele Sander, Alfred Döblin. Erläuterungen und Dokumente, Reclam, Stuttgart 1998.

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mano un repugnante e oscuro romanzaccio, contro il quale legittimamente potrà scagliarsi la xenofobia letteraria83.

Un analogo scetticismo nei confronti di un’eventuale traduzione italiana fa seguito alle parole di apprezzamento di Rocca: Certo un’opera originalissima, che non ha niente a che vedere con le ricette espressionistiche cui anche Döblin ha chiesto ausilio in altri tempi, né con la nuova obiettività che l’acclama per equivoco. Non si parli però dell’inizio d’un genere. Chi imitasse Döblin senza averne le forza (sic), rischierebbe di fare del pessimo fotomontage letterario. E chi già annuncia una traduzione italiana va incontro a un cattivo affare. Qui la più intraducibile Berlino, parlata cantata allusiva, spasso per chi la intende, diventa nebbia fitta per chi non è mai stato sulle rive della Sprea. Europeo per novità e maturità questo romanzo è, nei suoi modi, vernacolo e locale senza rimedio84.

La scelta della metropoli come osservatorio privilegiato della modernità non è certo un’innovazione di questi anni: i lettori italiani sono da tempo abituati a trovare nei romanzi di Pirandello, D’Annunzio o da Verona città fatte di alberghi, stazioni, casinò e altri non-luoghi intercambiabili nei quali i protagonisti, in genere esponenti di quegli strati sociali che meno hanno da guadagnare dall’avvento di una nuova era, guardano con disgusto all’affermarsi della società di massa, mentre fra sedute spiritiche e problemi economici provvidenzialmente risolti da una vincita al lotto aspettano impassibili la fine del mondo85. Quello che inizia 83  Lavinia Mazzucchetti, Berlin Alexanderplatz. Die Geschichte vom Franz Biberkopf, «Leonardo», I, 2, febbraio 1930; poi in Ead., Novecento in Germania cit., pp. 185-187. 84 Enrico Rocca, Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, die Geschichte vom Franz Biberkopf, Fischer, Berlin, 1929, «Pègaso», II, 5, maggio 1930, pp. 637-640, qui p. 640. Sulla figura di Rocca, scrittore e traduttore di origini ebraiche che abbiamo già incontrato in veste di recensore di letteratura tedesca, cfr. Angela Maria Bosco, Sergio Raffaelli, Enrico Rocca, un germanista italiano fra le due guerre, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2009. 85  Albonetti (Trafile di romanzi cit., p. 76) considera particolarmente rappresentativi di questa modernità borghese e sradicata i romanzi dell’ungherese Ferenc Kőrmendi, popolarissimi negli anni tra le due guerre, le cui «trame leggere sembrano appartenere a una sfera di narrativa apolide acclimatata a tutte le latitudini». La componente di classe implicita nelle letture della modernità date da romanzi del genere non sfugge comunque ai protagonisti di questa stagione letteraria, come mostrano ad esempio i giudizi che Umberto Barbaro dà di Joseph Roth o Hermann Kesten (cfr. infra, cap. III, § 3.2).

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a cambiare adesso, in linea anche con una diversa ideologia della modernità, è il tentativo di dare alle città e a quanti le abitano una sorta di “voce propria”, che è sì internazionale («europea», come dice Rocca), ma insieme profondamente radicata in un contesto talmente unico da essere irriproducibile. In questa chiave possiamo senz’altro collocare il romanzo di Döblin accanto all’Ulisse di Joyce – che Carlo Linati aveva a sua volta definito «etnico e spaesato ad un tempo», ma che solo molti anni dopo verrà tradotto integralmente in italiano86 – o a Viaggio al termine della notte di Céline – che viene invece tradotto subito, e nella stessa collana di Berlin Alexanderplatz: per i personaggi döbliniani, come per i dublinesi di Joyce e per i parigini di Céline, l’irriducibilità al mondo globale si manifesta in primo luogo attraverso voci in cui si intrecciano gerghi, dialetti, idiomi locali, allusioni a oggetti e a situazioni incomprensibili al di fuori di una data cerchia87. Per due “germanisti laureati” come Mazzucchetti e Rocca, che proprio grazie alla loro cultura sanno cogliere questa complessità, un linguaggio del genere è però un ostacolo invalicabile alla traduzione. Se gli italiani del 1930 e dei decenni successivi potranno leggere Berlin Alexanderplatz (e non solo), lo si deve alla spericolatezza di due mediatori forse non altrettanto scrupolosi che già abbiamo menzionato tra i protagonisti di questa nuova stagione letteraria: Gian Dàuli e la sua consulente editoriale Alessandra Scalero. Quando Mazzucchetti e Rocca pubblicano le loro recensioni, infatti, l’impresa di tradurre il romanzo è già in cantiere: fin dal novembre del 1929 i diritti di traduzione sono stati acquistati da Modernissima per la scrittori di tutto il mondo grazie 86 Carlo Linati, Introduzione a James Joyce, Esuli (Prima parte), «Il Convegno», I, 3, aprile 1920, pp. 27-52, qui p. 27. Sulla ricezione italiana di Joyce cfr. Serenella Zanotti, Italian Joyce. A Journey through Language and Translation, BUP, Bologna 2013 e, specificamente sull’attività di mediatore di Linati, Antonio Bibbò, Irish Literature in Italy in the Era of the World Wars, Palgrave, Cham 2021, in particolare alle pp. 83-177. 87  È, se vogliamo, una forma portata all’estremo di quella «discorsività» identificata da Debenedetti come tratto distintivo del genere romanzo (cfr. Introduzione, p. 21). Per la ricerca letteraria di questi anni ha inoltre un enorme significato l’avvento del cinema sonoro, che contribuisce a modificare anche nel romanzo gli equilibri tra lingua scritta e orale (cfr. Jérôme Meizoz, L’age du roman parlant (1919-1939). Écrivains, critiques, linguistes et pedagogues en débat, préface de Pierre Bourdieu, Droz, Genève 2001).

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alla mediazione di Scalero, che affianca Dàuli nel ruolo di consulente, traduttrice, agente e che è di fatto la vera “mente” della collana. Il lavoro intellettuale di Scalero, che possiede una vasta cultura internazionale e nessun titolo di studio, rispecchia l’originalità della sua formazione e si rivela da subito poco affine alle linee dominanti nel campo letterario dell’epoca: grazie a lei Modernissima riuscirà ad acquistare, pochi mesi prima che vincano il Nobel, i diritti di traduzione di Thomas Mann (Der Zauberberg) e Sinclair Lewis (per Babbitt, che Scalero affida alla sorella Liliana), due autori che fino a quel momento avevano ricevuto scarsa attenzione nel nostro paese. Nel caso Döblin entra in gioco anche una certa dose di casualità: proprio nell’ottobre del 1929, quando il dibattito suscitato dal suo romanzo è in pieno svolgimento, Scalero si trova per un breve periodo a Berlino con l’incarico di esplorare il mercato editoriale tedesco. È un mese e mezzo di lavoro febbrile di cui riferisce minutamente nelle lettere alla madre e alla sorella88, nelle quali prende forma un quadro variegato della moderna editoria tedesca («immensi edifici, veri ministeri con migliaia di impiegati»89) e dei suoi protagonisti («da Fischer ho conosciuto anche Klaus Mann, il figlio del grande Thomas: è un simpatico monello, che ora, mi dicono, è diventato assai “borghese” e si è messo a scrivere dei romanzi come tutti gli altri»90). Per conto di Modernissima Scalero passa in rassegna le novità editoriali, incontra gli autori del momento (oltre ai Mann anche Ricarda 88  L’attività editoriale di Alessandra Scalero è ricostruibile soprattutto attraverso queste lettere, attualmente conservate presso il Fondo Scalero della Biblioteca Civica “Francesco Mondino” di Mazzé (Torino), inedite nella loro interezza e in corso di catalogazione: qui si farà riferimento in particolare a quelle inviate alla madre e alla sorella tra il 1929 e il 1934. Per una descrizione del fondo cfr. Anna Ferrando, Fonti inedite: l’archivio delle due traduttrici Liliana e Alessandra Scalero, «La Fabbrica del Libro», XIX, 1, 2013, pp. 43-47. All’attività di mediatrice di Scalero dall’inglese e dal tedesco sono dedicati inoltre, rispettivamente, i saggi di Elisa Bolchi (Un pilastro della «Medusa». Alessandra Scalero nel carteggio con la sorella Liliana, «tradurre. pratiche teorie strumenti», 14, 2018, consultato il 15.03.2021) e di Natascia Barrale, Alessandra Scalero. Come nasce un’agente letteraria, online su LTit (www.ltit.it; consultato il 15.03.2021). 89  Lettera ms. di Liliana Scalero alla madre, da Berlino, [ottobre 1929] (Fondo Scalero, Corrispondenza). 90  Ibid.

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Huch, Else Lasker-Schüler, Arnold Zweig, Lion Feuchtwanger ), insegue gli editori per l’acquisto dei diritti («stamane ho avuto la risposta di Mann per Altezza reale, Fiorenza e Monte incantato: tre cose bellissime che spero avranno successo in Italia»91), contratta sui prezzi («ho dovuto far da sola i contratti, discutere percentuali, garanzie, edizioni»92); per conto proprio o dei suoi amici cerca inoltre collaborazioni («spero di essere riuscita a trovare due corrispondenze regolari per il povero Tilgher, una presso di Ullstein, un’altra al Berlin[er] Tageblatt»93) e prova a piazzare sul mercato tedesco autori italiani, in particolare Borgese («non so perché ma nessuno ne vuole sentir parlare, lo credono antitedesco per via del libro su Mayerling!»94) e Moravia («attendiamo il responso di vari editori su […] Gli indifferenti»95). La scoperta di Berlin Alexanderplatz avviene quasi per caso nell’anticamera dell’editore Fischer, come Scalero stessa racconterà a Döblin: Noch erinnere ich mich, wie ich im Oktober des Vorjahres wartend im Vorraum der Fischer Verlag [sic] saß, das Buch – es war, glaube ich vor wenigen Tagen erschienen – vor mir auf dem Tisch; ich nahm es und blätterte es ein wenig durch; als ich dann zu Dr. Behrmann hinaufgebeten wurde, wusste ich schon, dass ich dieses Buch wollte, und ich gelobte mir im stillen, dass ich es durchbringen würde96.

Entusiasta del romanzo, ne scrive immediatamente a Dàuli, ottenendo da lui l’autorizzazione ad acquistare i diritti di traduzione. In una lettera alla madre del 13 novembre racconta:

91  Lettera ms. di Alessandra Scalero alla sorella Liliana, da Berlino, 21 novembre 1929 (ivi). 92  Ibid. 93  Lettera ms. di Alessandra Scalero alla madre, da Berlino, [ottobre 1929] (ivi). 94  Ibid. 95  Ibid. 96  Velina datt. di Alessandra Scalero ad Alfred Döblin, s.l., 17 ottobre 1931 (ivi) [«Ricordo ancora di quando, a ottobre dello scorso anno, aspettavo nella sala d’attesa della casa editrice Fischer, il libro – credo fosse uscito pochi giorni prima – sul tavolo davanti a me; lo presi e lo sfogliai un po’; quando poi fui ricevuta dal dottor Behrmann sapevo già che lo volevo, e promisi in silenzio a me stessa che l’avrei spuntata»].

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Tra poco devo ora andare da Alfred Döblin, ad annunciargli che ho l’autorizzazione di comprar subito il suo libro per l’Italia. È veramente una cosa magnifica e originale quanto mai, e mi piace ancora di più di Thomas Mann […]. Bisognerà che lo traduca io perché è tutto in dialetto berlinese e certe cose… non le capisco nemmeno io!97

E alla sorella, annunciando che il libro si farà e che ha avuto l’occasione di incontrare l’autore: Spero vorrete un po’ di bene anche al mio povero Franz Biberkopf (Berlin Alexanderplatz), che ho scoperto da sola e che tradurrò io. È un meraviglioso, umanissimo libro, il degno pendant – ma quanto più “semplice” e lirico – di Manhattan Transfer. Alfred Döblin è considerato in questo momento lo scrittore di maggior ingegno che abbia la Germania. È un dottore, il quale tuttora esercita come Kassenarzt cioè medico municipale in uno dei quartieri poveri di Berlino. È un brav’uomo, una specie di Gradenigo, cui la fama improvvisa a cinquant’anni – ha scritto molto ma questo è il suo primo vero successo – non ha dato alla testa. Mi diceva che non saprebbe allontanarsi da quei luoghi dove tutti lo conoscono, dove vuole passare ogni giorno nel suo modesto studio che sembra quello dello zio Severino, santa miseria. E il suo libro è senza dubbio scritto col cuore, e quell’operaio che esce di prigione e vuol redimersi – non ha che un sogno, anständig sein – e ricade da capo nella colpa e finisce sempre più giù finché lo accoglie il manicomio, ma nemmeno lì ha pace, ché dopo un po’, eccolo di nuovo lì, all’Alexanderplatz, più miserabile e disilluso di prima; quel Franz Biberkopf è una figura tragica e grottesca insieme, che fa pensare a un Dostoevskij moderno98.

La decisione di tradurre Berlin Alexanderplatz viene dunque presa in pochissimo tempo. Scalero è consapevole quanto Mazzucchetti e Rocca delle difficoltà poste dal romanzo, ma ai suoi occhi il rischio di produrre un «oscuro romanzaccio» non è così temibile come appare ai due germanisti, o comunque meno grave rispetto alla possibilità che il libro non esca affatto. Dàuli, dal canto suo, mostra una certa lungimiranza nel lasciare mano libera a una collaboratrice che intuisce essere più competente di lui (e Scalero non smette di meravigliarsi per l’incarico rice97  Lettera ms. di Alessandra Scalero alla madre, da Berlino, 13 novembre 1929; si tratta della prosecuzione di una lettera iniziata il 4 novembre (ivi). 98  Lettera ms. di Alessandra Scalero alla sorella Liliana, da Berlino, 21 novembre 1929 (ivi).

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vuto: «Dauli ha dato prova di grande coraggio affidandolo a una donna»99); nonché un certo opportunismo nel capitalizzarne poi il lavoro a proprio vantaggio, quando insieme a Spartaco Saita, finanziatore della casa editrice, si reca da Borgese per omaggiarlo del romanzo appena uscito100. A cancellare le tracce dell’attività di Scalero contribuirà in parte anche la sua rinuncia a tradurre il romanzo, dovuta ai crescenti impegni organizzativi in casa editrice101: dopo un primo tentativo andato a vuoto con un altro traduttore di cui non fa il nome, il lavoro viene infine affidato ad Alberto Spaini, che nel frattempo si è affermato come uno dei più audaci traduttori italiani grazie alle sue versioni di Wedekind, Mann, Büchner e Brecht102. Insieme a lui Scalero si occuperà della revisione del testo, e probabilmente anche dei tagli, finalizzati a risparmiare almeno in parte al romanzo le prevedibili critiche politiche e ideologiche.

99 

Ibid.

100  Scalero

esprime la sua delusione in una successiva lettera a Liliana inviata da Milano il 22 febbraio 1931, a proposito della quale cfr. anche Bolchi, Un pilastro della «Medusa» cit. Borgese, che non aveva mai nascosto il suo scarso favore per la letteratura contemporanea, non sembra comunque mostrare particolare interesse per il romanzo, e promette ai due emissari una recensione che non farà mai. 101  Di questo Scalero parla ancora nella citata lettera a Döblin (cfr. supra, nota 96), col quale si scusa di non aver tradotto personalmente il romanzo. Per la medusa Mondadori, presso la quale sarà impiegata come consulente esclusiva a partire dal 1933, tradurrà però un altro suo romanzo, Pardon wird nicht gegeben (1935) con il titolo Senza quartiere (1937). È interessante osservare come il conflitto Mazzucchetti-Scalero si riproduca anche di fronte a questa seconda traduzione: mentre Mazzucchetti dà parere negativo alla pubblicazione (soprattutto perché «il comunismo vi ha troppa parte»), Scalero la caldeggia con convinzione, ottenendo infine il via libera di Luigi Rusca (cfr. i due pareri di lettura riportati in Albonetti, Non c’è tutto nei romanzi cit., pp. 363-367). 102  Sulla traiettoria di Spaini cfr. supra, cap. I, § 2.2. La stima di Scalero nei suoi confronti emerge da una lettera a Liliana del 5 gennaio 1930 (Fondo Scalero, Corrispondenza): «Ora abbiamo fatto una gran cernita di traduttori, non ne vogliamo più che di perfetti […] Tomaso Gnoli, Spaini […]. Ti assicuro che non ne potevo più di sgrammaticature e versioni fantasiose e genialoidi di studenti liceali, vedove bizzose, giornalisti a spasso e maestre. La settimana scorsa ho penato non si sa quanto sui Diavoli di Neumann, che essendo un libro molto importante ho dovuto rivedere da cima a fondo, ma poi basta».

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2.2. Come parlano i proletari Giudicata con gli occhi di oggi, dopo quasi un secolo di studi che hanno indagato ogni meandro linguistico di Berlin Alexanderplatz, la traduzione di Spaini (e Scalero) potrebbe essere accusata di avere tutti i difetti paventati da Mazzucchetti e Rocca. Non sono rari i fraintendimenti, specialmente in presenza di termini berlinesi o espressioni idiomatiche; e vi si notano vari tagli, motivati dalla difficoltà di rendere in italiano determinate allusioni o, più spesso, da ragioni di autocensura: nel terzo capitolo del secondo libro, ad esempio, un passaggio in cui Gabriele D’Annunzio viene definito «das Oberschwein, n Spanier oder Italiener oder aus Amerika» («sto porcone, dev’essere uno spagnolo o un italiano o uno d’America»), viene stralciato e sostituito da un’innocua citazione del Piacere103. Spaini è ben consapevole dell’insidiosità del testo, e forse, nonostante l’interesse da lui sempre dimostrato per la letteratura contemporanea, persino un po’ scettico sulla possibilità che un lavoro del genere possa dargli qualche soddisfazione: «Franz Biberkopf sarà la mia rovina», scrive a Scalero nell’aprile del 1930, quando è più o meno a metà dell’opera, «ne avevo già tradotto più di mezzo, ho ricominciato a correggerlo, e una buona parte ho dovuto rifarlo. Mi pare che ora sia su per giù presentabile – certo, la prossima volta mi metterò piuttosto al Faust – mi darebbe certo più gloria»104. La presenza del dialetto berlinese è solo uno degli elementi problematici del testo, nel cui tessuto linguistico citazioni bibli103  Il passaggio è in realtà presente nella primissima edizione, ma a partire dalla ristampa Corbaccio scompare fino al 1963, quando viene ripristinato nell’edizione Rizzoli. In quest’ultima versione, a tutt’oggi l’unica accessibile in italiano, i rimaneggiamenti (non segnalati) sono peraltro numerosi e non sempre giustificati (come il Transvestiten che diventa «Fratelli» nel cap. II, § 3), mentre errori meno appariscenti restano intatti (come il termine Ei tradotto alla lettera con «uovo» anziché con «testicolo»: Ein Ei ist weg, soll tuberkulös gewesen sein / «Mi hanno portato via un uovo, dicevano che era tubercoloso», cap. V, § 1). 104  Lettera ms. di Spaini a Scalero, da Roma, 9 aprile [1930] (Fondo Scalero, Corrispondenza). La stesura che Spaini sta correggendo è molto probabilmente quella che aveva affidato, come spesso accadeva, alla moglie Rosina Pisaneschi. Come mostrano scambi successivi, nei mesi che seguono Scalero si trova spesso a Roma e la revisione del testo viene fatta probabilmente di persona, in dicembre Spaini riceve le bozze di stampa del primo terzo del volume e a gennaio del 1931 il libro è finalmente pronto.

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che si intrecciano a riferimenti classici, e il lessico della burocrazia a quello del proletariato urbano, della scienza e della medicina. E se è vero che ogni nazione ha i suoi linguaggi tecnici, i suoi gerghi e i suoi dialetti – Bibbia e Omero, burocrati, proletari e dottori esistono anche in Italia – più difficile è trovare un altrove geografico per elementi che sono invece estremamente specifici di un dato ambiente: nel romanzo di Döblin sono in primo luogo gli slogan pubblicitari e le canzoni della Berlino contemporanea, che affiorano come citazioni involontarie nel discorso quotidiano evocando mondi sociali immediatamente riconoscibili al lettore tedesco. È soprattutto qui che si manifesta quel tratto «vernacolo e locale senza rimedio» che Rocca vedeva come un limite per la circolazione del romanzo. Scorrendo anche superficialmente la traduzione italiana, si nota come Spaini e Scalero dedichino gran parte dei loro sforzi creativi a questo aspetto, reinventando in rima canzoni e filastrocche oppure cercando equivalenti italiani per i realia tedeschi: così quando la prostituta berlinese offre a Biberkopf «ein Mampe», un liquore tipico della zona, la sentiamo dire «Sta’ allegro, ti dò una Strega», e subito dopo rimpiazzare il popolare «Sinds die Augen, geh zu Mampe, gieß dir ein auf die Lampe» con uno slogan altrettanto familiare ai lettori italiani: «Volete la salute? Bevete il Ferro-China Bisleri»105. Per analizzare sistematicamente le soluzioni adottate da Spaini in questi passaggi servirebbe un libro intero106: qui, per capire in che modo la traduzione del romanzo di Döblin interagisca ed eventualmente contribuisca a modificare quella che era all’epoca la concezione del romanzo in Italia, ci si limiterà a esaminare aspetti più legati alla costruzione narrativa e tra loro interconnessi: in particolare il problema del dialetto (inteso non come elemento mimetico ma come manifestazione della pluridiscorsività 105 Döblin, Berlin-Alexanderplatz cit., cap. I, § 5. Le soluzioni di questo tipo, per quanto originali, sono quelle che tendono a invecchiare più rapidamente: poche di esse sopravvivono alla revisione del 1963, che opta per un linguaggio più normalizzato, a partire da Mampe che diventa «grappino». 106  Analogo a quello di Anke Detken, Döblins “Berlin Alexanderplatz” übersetzt. Ein multilingualer kontrastiver Vergleich, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1997, che mette a confronto la traduzione inglese di Eugene Jolas, quella francese di Zoya Motchane e quella spagnola di Manuel Gutiérrez Marín (pubblicate tra il 1931 e il 1933), nonché la ritraduzione spagnola del 1982 a cura di Miguel Sáenz.

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sociale) e della sua eliminazione, che si ripercuote sia sulla resa dell’indiretto libero sia sulla tecnica del montaggio. La domanda che guida l’analisi mira a chiarire cosa di tali elementi, che caratterizzano questo come altri romanzi modernisti assai più profondamente che non singole parole “intraducibili” o riferimenti alla contemporaneità, rimanga nella traduzione italiana e filtri dunque nella cultura del suo pubblico durante gli ottant’anni in cui il libro continua a essere stampato e letto. La strategia di traduzione adottata da Spaini è una conseguenza della sua interpretazione del romanzo, esplicitata nell’introduzione al volume del 1931. Qui Spaini affronta in primo luogo aspetti culturali e di contenuto, e propone dell’opera una lettura che presenta Biberkopf come un uomo in balia di forze oscure («questo che doveva essere il romanzo neo-naturalista, è in realtà un racconto alla Hoffmann, in cui il potere di mille forze occulte e imprecisabili predomina»107): e indizi di questa interpretazione affiorano già nella traduzione del prologo, dove l’imprecisato «dies» [“questo”, “ciò”] che perseguita Biberkopf viene reso con «questo mistero». Ma Spaini non tralascia di entrare anche in questioni più strettamente tecniche per giustificare le sue scelte, e in particolare quella che risulta essere la più invasiva: l’eliminazione radicale del dialetto berlinese. Si tratta di un aspetto difficile da eludere – Döblin stesso, in uno scritto del 1955, avrebbe affermato di aver scritto il romanzo affidandosi alla lingua parlata e creando a partire da essa108 – e che tuttavia, come Spaini si preoccupa di mostrare, non è l’unico a determinare il particolare tono dell’opera: Più importante è il dialogo dei personaggi di Doeblin: qui ogni personaggio si sdoppia e tiene due ordini di discorsi assolutamente diversi fra loro: quello che pronuncia ad alta voce, e quello che pensa di sé e dell’interlocutore mentre parla. Qui l’associazione di idee deve già funzionare più rapida, e spesso qualche battuta rimane a mezz’aria, incompresa ed incom107  Alberto Spaini, Introduzione a Döblin, Berlin-Alexanderplatz cit., pp. 7-27, qui p. 20. Alcune osservazioni da lui formulate in questa occasione erano state già espresse nell’articolo Romanzo espressionista tedesco («L’Ambrosiano», 9 aprile 1930, p. 3), che annunciava anche l’imminente uscita del romanzo per Modernissima. 108  Cfr. Alfred Döblin, Nachwort zu einem Neudruck. Si tratta della Nota a una ristampa acclusa all’edizione tedesca del 1955, e da allora ristampata in coda a quasi tutte le edizioni.

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prensibile. […] Io credo che questi aspetti insiti nell’arte di Doeblin, assai più che il linguaggio furbesco e dialettale che parlano i personaggi, hanno fatto scrivere a qualcuno che tradurre un romanzo simile era un’impresa disperata. Certo che una traduzione letterale (una vera sovrapposizione del romanzo di Doeblin), era impossibile. Nel tradurre si è dovuto costantemente procedere per analogie ed equivalenze, se non si voleva offrire ai lettori italiani qualcosa di assolutamente incomprensibile. E si è dovuto per prima cosa rinunciare al dialetto ed attenuare molte espressioni. […] Doeblin può scrivere liberamente “Dreck” e “Hure” […] in Germania una corrente letteraria che dura da quarant’anni si è conquistata il diritto di parlare e scrivere in dialetto e in gergo. [...] Cosa abbiamo noi da opporre a queste che sono vere e grandi tendenze letterarie? Forse l’amabile folklorismo linguistico di Verga e Deledda? […] ci siamo accorti, rileggendo la traduzione, che l’aver rinunciato al dialetto (alle forme dialettali, vogliamo dire, non ai modi di dire, che quelli bene o male li abbiamo riprodotti tutti) non guasta affatto. Questa che alla lettura del testo tedesco è la caratteristica più saliente, è in realtà tutta apparenza ed esteriorità. Se Franz Biberkopf, invece di dire “Weesste wat” dicesse “Weisst du was” ed “ich” invece di “ick” resterebbe esattamente quello che è. Non è la questione stilistica che ha importanza nel romanzo di Doeblin. […]. È il processo mentale della narrazione, non il suono della singola parola, che conta109.

Il traduttore si concentra dunque sul «processo mentale della narrazione» più che sui singoli termini: è la logica del modo di parlare dei personaggi quello che Spaini mira in primo luogo a riprodurre, adottando una sintassi spezzata e forme dell’italiano colloquiale. È questo un altro caso in cui è facile osservare come sia il contesto d’arrivo a orientare molte scelte di traduzione: la ragione di questo rifiuto del dialetto, interpretato come un elemento secondario, ha infatti a che fare con le convenzioni letterarie al tempo dominanti in Italia più che con effettive difficoltà di comprensione poste dal tedesco. Berlin Alexanderplatz viene percepito come un romanzo moderno nel senso più avanguardistico della parola, e tradurlo adottando un linguaggio dialettale significherebbe inscriverlo in un filone letterario che, per il lettore italiano, evocherebbe paesaggi di provincia (Deledda e Verga) anziché spazi urbani. Gli autori in questi anni considerati più innovativi battono 109 Spaini, Introduzione cit., pp. 23-27. Da notare che l’italianizzazione del dialetto riguarda sia i termini in berlinese che quelli in yiddish (come Meschugge, tradotto con «matto» e con «rimbambito» nel cap. I, § 3).

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infatti la strada dell’italiano moderno, privo di connotazioni regionalistiche – basti pensare a un testo all’epoca molto acclamato come Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, dove i pastori calabresi protagonisti dei vari racconti non si esprimono mai in dialetto. Nella scelta di Spaini, infine, gioca probabilmente un ruolo la coeva discussione sull’italiano delle traduzioni: per quanto non vi siano ancora da parte del governo fascista esplicite indicazioni in senso anti-dialettale, i giornali più vicini al regime (come «Il Torchio» o «La Tribuna», alla quale Spaini stesso ha collaborato) hanno già avuto occasione di polemizzare contro l’italiano dei romanzi in traduzione, considerato ora troppo sciatto, ora troppo internazionale, comunque incapace di rispecchiare la sobrietà e la pulizia della moderna cultura fascista. Ciò non significa, naturalmente, che questa scelta sia l’unica praticabile: a una soluzione opposta, che sfrutta le risorse dei dialetti settentrionali per rendere l’argot parigino, si affida negli stessi anni Alex Alexis, alias Luigi Alessio, per la prima traduzione di Viaggio al termine della notte di Céline, anch’esso pubblicato nella collana di Gian Dàuli110. Se la scelta di Spaini può risultare condivisibile per la resa dei dialoghi, che a prescindere dal dialetto mantengono in effetti l’innovatività e la forza dell’originale, più problematici sono i momenti in cui nell’originale il dialetto è impiegato per distinguere l’emergere della voce di un determinato personaggio all’interno del discorso del narratore, ovvero i passaggi all’indiretto libero e da lì al monologo interiore111. Un piccolo esempio, tratto da uno dei capitoli iniziali che vedono Franz riambientarsi a Berlino: dopo una serata trascorsa al cinema, a vedere un film di cui non capisce nulla se non che un uomo e una donna si baciano, Franz avverte di nuovo con forza il desiderio sessuale, cerca in strada una prostituta, la trova, la segue a casa sua: 110  Cfr.

Michel David, Sulla prima traduzione italiana del «Voyage au bout de la nuit», «Opera Aperta», 8-9, 1967, pp. 67-79. La vicenda della traduzione del Voyage presenta molte analogie con quella di Berlin Alexanderplatz: realizzata nel 1933 da quello che David definisce «un personaggio céliniano» (p. 72), viene anch’essa rimaneggiata (senza alcuna indicazione da parte dell’editore) negli anni Sessanta e spogliata dagli elementi linguistici volutamente bassi e sgrammaticati che Alexis vi aveva inserito. 111  La grande innovazione di questi anni, che marca un netto distacco dal romanzo naturalista, consiste infatti nell’«oraliser la voix narrative» più che quelle dei personaggi (cfr. Meizoz, L’age du roman parlant cit., p. 16).

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Franz era di nuovo in istrada sotto la pioggia. Che fare? Sono libero. Qui ci vuole una donna. Voglio una donna. Che divertimento; e come è bella la vita fuori. Basta star saldo in gambe e poter correre. Ma le gambe gli tremavano, e non sentiva il terreno sotto di sé. Ed ecco all’angolo della Kaiser Wilhelmstrasse una donna, e le si mette subito accanto, senza neanche guardarla. [*] E via avanti con lei, mordendosi il labbro e pieno di paura. Se abiti lontano non ce la faccio. Ma no, bastava attraversare la Bülowplatz, costeggiare la cancellata, traversare un portone, poi un cortile, poi scendere sei scalini112.

In questo breve brano, che possiamo considerare paradigmatico della tecnica narrativa di Döblin, non ci sono indicazioni grafiche che distinguano la voce nel narratore da quella dei personaggi. Nel pieno della tradizione polifonica del romanzo, la voce del narratore ha la libertà di avvicinarsi o allontanarsi a piacimento da quelle dei personaggi, accorciando o amplificando con ciò la distanza dal loro punto di vista. È un meccanismo sapientemente dosato, graduale, che non ha nulla a che fare con l’idea di un flusso disordinato e ininterrotto di impressioni: e a segnalare chi sta parlando di volta in volta è soprattutto l’affiorare del dialetto. Alla prima frase del narratore, in terza persona, ne segue già una seconda che, essendo in berlinese, risulta chiaramente espressa da Franz (Wat machen wir?). Non altrettanto riconducibile al personaggio è invece il «Che fare?» della versione italiana, ma si tratta qui di una perdita solo momentanea, poiché “l’io” che introduce la frase successiva permette di recuperare l’informazione: la voce è quella di Franz. Dopo poche frasi spezzate la parola torna poi al narratore (Es federte in seinen Beinen/«Ma le gambe gli tremavano…»), subito interrotto dal pensiero del personaggio (Egal was für eine, “una non importa 112 Döblin, Berlin-Alexanderplatz cit., cap. I, § 5 [«Franz war schon draußen auf der Straße im Regen. Wat machen wir? Ick bin frei. Ick muß ein Weib haben. Ein Weib muß ick haben. Schöne Lust, fein is das Leben draußen. Nur mal fest stehn und laufen können. Es federte in seinen Beinen, er hatte keinen Boden unter sich. Dann war an der Ecke Kaiser-Wilhelm-Straße hinter den Marktwagen schon eine, neben die er sich gleich stellte, egal was für eine. Donnerkiel, wo kriegen wir mit einmal die Eisbeene her. Er zog mit ihr los, zerbiß sich die Unterlippe, so schauerte ihn, wenn du weit wohnst, komm ich nicht mit. Es war nur quer über den Bülowplatz, an den Zäunen vorbei, durch einen Hausflur, auf den Hof, sechs Stufen herunter». Il corsivo indica la frase omessa e segnalata con [*] nel passaggio tradotto].

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come”, alla lettera) che fa da ponte verso una nuova frase in dialetto (Donnerkiel, wo kriegen wir mit einmal die Eisbeene her, qualcosa come “Cribbio, qui è un attimo e ti si congelano i piedi”), che possiamo immaginare come una battuta di approccio detta da Franz alla ragazza o viceversa. In traduzione quest’ultima frase manca, forse per una difficoltà di interpretazione113. Riprende dunque a parlare il narratore in terza persona (Er zog mit ihr los…/«E via avanti con lei…»), a metà la frase vira senza soluzione di continuità in prima persona (wenn du weit wohnst, komme ich nicht mit), ma Spaini la spezza con un punto («Se abiti lontano, non ce la faccio»). L’effetto complessivo di questo insieme di alterazioni di per sé piccole – eliminazione del lessico dialettale, occasionali tagli, modifica della punteggiatura – è che in traduzione il testo risulta più difficile da seguire dell’originale. In tedesco, infatti, l’uso del dialetto facilita la comprensione, rendendo più semplice per il lettore districare l’intreccio delle voci; in italiano, senza dialetto, il testo perde invece tridimensionalità e le diverse voci tendono o a confondersi ancora di più, fino a sfaldarsi in una scrittura più vicina al libero flusso di coscienza, oppure, se il traduttore opta per una scelta di semplificazione, a retrocedere verso una separazione nitida ottenuta inserendo punti, virgolette, discorsi diretti114. Almeno in questo caso, possiamo supporre, Spaini è consapevole del problema: così si spiegherebbe l’inserimento di quel «Ma no», che mira evidentemente 113  La frase non è facile da tradurre perché gioca con il termine Eisbeen, alias Eisbein, che è lo stinco di maiale tipico della cucina berlinese, e insieme con l’espressione Eisbeine kriegen che, prendendo alla lettera Eis (ghiaccio) e Bein (gamba), significa invece “avere i piedi congelati”. 114  Berlin Alexanderplatz non è un caso isolato dovuto alla sua difficoltà intrinseca: nel tradurre il Processo di Kafka (Frassinelli 1933), Spaini trasforma l’intero capitolo settimo (che riporta il discorso di un personaggio servendosi del Konjunktiv I) in un discorso diretto, mettendolo tra virgolette ed eliminando con ciò ogni tipo di interazione tra la voce del narratore e quella del personaggio, dispositivo che in Kafka crea effetti di comicità non trascurabili; mentre nel Fabian di Kästner tradotto da Carlo Coardi (Bompiani 1932), la sparizione del “discorso riportato” fa apparire il modo di parlare di alcuni personaggi più sconnesso e impulsivo di quanto non sia in realtà. Tornerò nei paragrafi che seguono sul caso di Kafka (cfr. infra, cap. III, § 6.2), mentre non mi soffermerò sulla traduzione di Fabian, che ho analizzato in uno studio pubblicato altrove (Modernità per moralisti. Fabian di Erich Kästner nell’Italia degli anni trenta, in Ferrando, Stranieri all’ombra del duce cit., pp. 245-259).

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a restituire l’impressione del discorso parlato, della voce diretta di un personaggio. Ma il traduttore non sembra interessato alla possibilità di sperimentare in italiano un modo di rendere questo sottile fluttuare del punto di vista tra narratore e personaggi. Del resto, a chi guardare? Certo non a un maestro dell’indiretto libero come Verga, se Spaini, come la maggior parte dei suoi contemporanei, vede in lui solo «amabile folklorismo linguistico»: come aveva spiegato Borgese qualche anno prima in Tempo di edificare, infatti, l’opinione su Verga era ancora controversa e molti letterati del tempo lo consideravano sostanzialmente un grande autore che «scrive male». Si vede qui come non sono affatto i modelli della tradizione a mancare, quanto piuttosto una riflessione teorica sulle loro tecniche compositive. L’effetto di sconnessione che caratterizza molte traduzioni di questi anni è reso ancora più evidente nei casi in cui i tagli (anche minimi, dovuti magari a ragioni di autocensura) eliminano quegli elementi strutturali (ripetizioni, richiami) che orchestrano il testo nel suo insieme. Ancora un esempio: nel capitolo intitolato Lina mette a posto i finocchioni (Lina besorgt es den schwulen Buben, cap. II, § 3) ritroviamo Franz ad Alexanderplatz, impegnato a vendere giornali nei quali si parla della cosiddetta «questione sessuale» in Germania. Come la fidanzata Lina, Franz ha tutti i pregiudizi del suo tempo contro gli omosessuali, eppure è turbato dalla consapevolezza delle ingiustizie che molti di loro subiscono quotidianamente. Tutto il capitolo ruota dunque intorno a questo tema, ma in traduzione molti termini o espressioni che alludono all’omosessualità vengono eliminati. Quando Franz si reca a una conferenza e poi lascia la sala perché gli viene da ridere, ad esempio, nell’originale si dice chiaramente che il motivo sono «tutti quei froci insieme e lui lì in mezzo» [so viel Schwule auf einem Haufen und er mitten drin: omesso]; la pubblicità che vede per strada di un nuovo metodo di depilazione si rivolge esplicitamente ai «travestiti» [Transvestiten: omesso]; nel momento in cui torna a casa e, rimasto solo coi suoi giornali, si mette a riflettere, il tema della sua riflessione sono ancora «gli omosessuali» [über die Schwulen: omesso]. Non è il fin troppo prevedibile meccanismo di autocensura che ci interessa qui, bensì le sue conseguenze. Que-

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sto insieme di piccoli tagli, l’ultimo in particolare, contribuisce infatti a sfilacciare l’intelaiatura di significati a cui il testo si appoggia, e così, quando infine il narratore passa a raccontare la storia di un uomo che viene processato per aver sedotto un ragazzo, il lettore pensa di trovarsi di fronte a un salto narrativo e non, come in effetti è, all’esplicitazione del problema che per tutto il tempo ha oscuramente occupato i pensieri di Biberkopf. Per quanto Döblin giustapponga materiali difformi e per quanto il romanzo segua in molti casi un principio associativo, la logica narrativa che lo sostiene non viene mai meno: omettendo elementi come questi la traduzione tende invece ad amplificare l’effetto di montaggio, e con esso quei “salti” di punto di vista o di contesto considerati così tipici del romanzo modernista115. Si deve anche ammettere, per contro, che nessuna delle manipolazioni sopra descritte mette realmente in pericolo la circolazione di opere del genere. L’eliminazione di singole parole o il fraintendimento di qualche espressione non è certo sufficiente a distruggere la vitalità di un organismo complesso e stratificato come Berlin Alexanderplatz: ciò che accade, più semplicemente, è che alcuni tratti compositivi dell’opera vengono recepiti nel contesto d’arrivo (la tecnica del montaggio, l’interesse per l’uso del linguaggio pubblicitario), mentre altri, obliterati in traduzione (il dialetto, l’intreccio polifonico delle voci del narratore e dei personaggi) rimangono in second’ordine. Ma nell’insieme il libro è accolto con entusiasmo – un entusiasmo di cui la prima a stupirsi è proprio Alessandra Scalero116 – tanto che all’indomani della sua uscita persino Enrico Rocca, che come abbiamo visto era stato scettico di fronte all’ipotesi di tradurlo, torna sui suoi passi. In una lunga recensione che pone il romanzo tra i libri imprescindibili dell’epoca («uno di quei libri-tappa o faro o svolta 115  Uno dei pochi studiosi ad affrontare questo problema, che spesso determina l’effetto di “incomprensibilità” del testo tradotto molto più che non la resa errata di singoli termini o singole espressioni, è Antoine Berman in La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza (Quodlibet, Macerata 2003), laddove parla di «distruzione dei reticoli significanti soggiacenti» (pp. 51-52). 116  Scrive infatti alla sorella Liliana: «Intanto i nostri libri […] “prendono”, e la cosa strana è che quelli che vanno di più sono gli ultimi, da Döblin in su» (da Torino, 27 dicembre 1931); e «il Berlin-Alexanderplatz, che pure non è un romanzo facile, la gente lo legge» (da Milano, 22 marzo 1932).

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che chiunque s’occupi di letteratura europea dovrebbe leggere»), Rocca riprende parola per parola le considerazioni già espresse nell’articolo del 1929 («Certo un’opera originalissima, che non ha niente a che vedere con le ricette espressionistiche…»), ma ne cambia, significativamente, quel finale che preconizzava un «cattivo affare» a chi si fosse avventurato nella traduzione: a prima vista quella che si presenta qui è la più intraducibile Berlino, parlata, cantata, sottintesa, spasso per chi capisce gli ammiccamenti dell’autore, nebbia fitta per tutti gli altri. Europeo per novità e maturità, questo romanzo poteva apparire a chiunque incomunicabile all’Europa. Spaini, sacrificando di necessità l’intrasportabile, ha salvato l’essenziale. La massima lode che gli può venir fatta è ch’era difficile dar di più117.

Il romanzo di Döblin è ancora «europeo per novità e maturità», ma non più «vernacolo e locale senza rimedio». La traduzione ha mostrato la possibilità di un’alternativa al “tutto o niente” implicitamente imposto dai suoi primi recensori: sacrificare qualcosa per salvare l’essenziale – un essenziale che, va da sé, è frutto ogni volta di una diversa lettura. 3. Dai margini: metropoli all’italiana 3.1. Una nuova generazione di scrittori La versione spainiana di Berlin Alexanderplatz ha sul contesto italiano un impatto immediato, destinato a perdurare per decenni: trattandosi a tutt’oggi dell’unica traduzione esistente è infatti inevitabilmente quella che tutti gli scrittori italiani si trovano a leggere, da Enrico Emanuelli e Ugo Dèttore, che vi si appassionano già dai primi anni Trenta, fino a Pavese e a Primo Levi, il quale si dirà a lungo impressionato dall’immagine dell’umanità che, alla fine del romanzo, se ne va all’inferno con trombe e tamburi118. Questa traduzione contribuisce dunque fin 117  Enrico Rocca, Berlin Alexanderplatz, «Il lavoro fascista», 18 marzo 1931, p. 3, mio corsivo. 118  Si tratta di un’espressione figurata («mit Pauken und Trompeten», equivalente all’italiano “clamorosamente”, “in pompa magna”) che Spaini traduce però

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dall’inizio a incoraggiare la sperimentazione letteraria, proponendo una forma di romanzo in cui si compenetrano l’eredità delle avanguardie primonovecentesche e il bisogno di costruzione, di strutture di ampio respiro. Per gli scrittori italiani si tratta semmai di “tradurre” questo nuovo realismo dello sguardo in un contesto nazionale che non ha ancora i tratti della modernità nordeuropea: ma non è un compito impossibile se, come sosteneva Titta Rosa, «la vita moderna italiana esiste; ed è ricca di passioni, di contenuti sensibili, di materia»119. Com’è facile immaginare sono gli scrittori della nuova generazione, i nati nel primo decennio del secolo che esordiscono all’inizio degli anni Trenta, i più disponibili ad ampliare il repertorio delle proprie letture e a prendere in esame nuovi soggetti. Uno di questi soggetti è appunto il mondo delle periferie urbane, che un autore come Carlo Bernari, classe 1909, rivendica di essere stato fra i primi a trattare nel romanzo Tre operai, sconcertando con ciò i critici che nel sentir parlare di ciminiere e pioggia battente a Napoli si chiedevano «da quali ripostigli letterari del Nord Europa avesse tratto quei fondali brumosi di officine»120. In verità, afferma Bernari, mentre la Napoli storica e quella più folklorica erano già state fotografate in innumerevoli pagine di romanzi ben scarse erano le testimonianze letterarie sulla terza Napoli, quella industriale, che si estendeva dal Vasto al Pascone, da San Giovanni a Teduccio a Torre Annunziata, per polverizzarsi poi nelle decine di cantieri che si modellavano lungo il profilo della costa, sino agli altiforni di Bagnoli che offuscano coi bagliori delle loro colate uno dei più struggenti paesaggi del mondo121.

Riflettendo a distanza di anni sulla composizione di quest’opera giovanile, Bernari tende a ridimensionare l’influsso che alla lettera, dando vita a un’immagine che non manca di imprimersi nella memoria di un aspirante scrittore come Levi. Sul ruolo di Döblin e in generale degli scrittori tedeschi di questi anni nell’opera di Levi cfr. Martina Mengoni, I sommersi e i salvati di Primo Levi. Storia di un libro (Francoforte 1959 -Torino 1986), Quodlibet, Macerata 2021, in particolare alle pp. 235-242. 119  Titta Rosa, Invito al romanzo cit., p. 87. 120  Carlo Bernari, Nota 1965, in Id., Tre operai, Marsilio, Venezia 2011, pp. 191-207, qui p. 204. 121  Ivi, p. 205.

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avrebbero avuto su di lui gli autori stranieri122, ma la lettura di un romanzo come Berlin Alexanderplatz, intervenuta verosimilmente nel periodo intercorso tra la prima stesura dell’opera (1930) e la versione pubblicata (1934), contribuirebbe a spiegare molte delle modifiche più macroscopiche effettuate dall’autore, a cominciare dalla trasformazione del protagonista da piccolo borghese in operaio e dall’adozione di un dialogo più crudo e diretto, fino all’inserimento dei lunghi titoli riepilogativi dei capitoli e di una scena come quella conclusiva, in cui l’operaio Teodoro, appena uscito dal carcere, si lascia adescare e condurre a casa da una prostituta che non ha i soldi per pagare123. Indubbiamente segnato dalla lettura di Döblin è invece il novarese Enrico Emanuelli, che nel 1928, a soli diciannove anni, aveva già fatto il suo ingresso nel mondo delle lettere fondando la rivista «Libra» e la casa editrice omonima, sotto le cui insegne aveva dato alle stampe il romanzo breve Memolo. In linea con il programma di «Libra», che si proponeva di esplorare la modernità attraverso il recupero della tradizione letteraria italiana, Memolo riprendeva schemi narrativi ispirati al Didimo chierico foscoliano e alla prosa di Leopardi, e aveva immediatamente attirato l’attenzione di critici come Borgese, Falqui e Vittorini124. Ma la lettura di Berlin Alexanderplatz – veniamo a sapere da una testimonianza indiretta di Alessandra Scalero – lo spinge tre anni dopo a battere una strada diversa, al punto di riscrivere da capo il secondo romanzo a cui sta lavorando: 122  «Potrei dire che ignoravo buona parte della letteratura citata [Céline, Döblin, Dos Passos, Werfel], ma a questo fine uno scandaglio non concluderebbe nulla: le idee viaggiano nell’aria come il polline e una coscienza avvertita sa sempre da dove spira il vento giusto» (ivi, p. 203). 123  Cfr. la scena dell’incontro tra Biberkopf e la prostituta analizzata nel paragrafo precedente. Da notare che in Bernari l’inserimento dei titoli non si ripercuote poi sulla voce narrante, che si mantiene asciutta e impersonale, assai lontana dal tono “epico” del narratore döbliniano. Sulle varie stesure del romanzo cfr. Eugenio Ragni, Introduzione a Carlo Bernari, Gli stracci, a cura di Enrico Bernard, Menichelli Editore, Roma 1994, pp. 5-24. 124  Cfr. Giuseppe Antonio Borgese, I Novaresi, «Corriere della Sera», 20 giugno 1929, p. 3; Falqui e Vittorini avevano inserito alcune pagine del romanzo di Emanuelli nell’antologia Scrittori nuovi (Carabba, Lanciano 1930) da loro curata.

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Oggi ho fatto la conoscenza di Emanuelli. […] Ha scritto ora un romanzo che mi porterà a leggere, si chiama Cronaca ed è anche questo un tentativo di stile sachlich, e ne è tra spaventato e deliziato. Mi dice che la lettura di Döblin e le poche lettere che gli scrissi io […] hanno mutato tutta la sua visione, che ha rifatto quasi tutto il libro e stamattina si è precipitato a Milano per dirmelo125.

Radiografia di una notte126, questo il titolo con cui Emanuelli darà alle stampe il libro “riscritto”, è un romanzo d’impianto moraviano, che analizza le dinamiche di una famiglia borghese composta da un padre vivace e donnaiolo, una madre che sa di essere tradita da lui e che lo tradisce a sua volta, una figlia adolescente, Fausta, e due fratelli di nome Giacomo e Stefano: quest’ultimo, dal carattere introverso e riflessivo, è un alter ego fin troppo palese dell’autore e il suo punto di vista domina interamente la voce narrante in terza persona. La lettura di Döblin è riconoscibile in elementi piuttosto superficiali, come le citazioni giornalistiche e gli slogan pubblicitari inseriti a punteggiare una narrazione che resta volutamente asettica127 – tecnica che Emanuelli riprenderà, con esiti più interessanti, nei racconti della raccolta Storie crudeli (Carabba, 1933). Come notava Bernari, e come in effetti conferma lo scambio tra le sorelle Scalero, la circolazione delle novità letterarie viaggia spesso «nell’aria», passa cioè per le conoscenze personali prima che per gli scaffali delle librerie. E se a Milano sono i lavoratori dell’editoria i primi a parlare dei libri appena tradotti, a Roma uno dei centri d’irradiazione delle nuove correnti letterarie è l’ambiente delle avanguardie teatrali, dove ritroviamo Alberto Spaini e Corrado Alvaro e per il quale passano molti degli artisti più giovani, da Moravia a Barba125  Lettera ms. di Alessandra Scalero alla sorella Liliana, da Milano, 17 aprile 1931 (Fondo Scalero, Corrispondenza). 126  Enrico Emanuelli, Radiografia di una notte, Ceschina, Milano 1932. 127  Il critico Mario Apollonio, recensendo il libro sul «Leonardo», spiegava il riferimento del titolo alla “radiografia” con il fatto che nel romanzo «si cerca e si ottiene di dare il senso di desolazione e di squallore che da questo esame deriva, allo stesso modo che desolati e squallidi appaiono gli scheletri e gli organi interni quando un profano osserva la radiografia» (M.A., Enrico Emanuelli, Radiografia di una notte, «Leonardo», III, 11, novembre 1932, pp. 507-508, qui p. 507).

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ro a Dino Terra128. Spaini e Alvaro collaborano regolarmente in veste di autori e di traduttori al Teatro degli Indipendenti fondato da Anton Giulio Bragaglia, che grazie anche al loro contributo mette in scena opere di scrittori stranieri ancora quasi sconosciuti in Italia: un esempio è la Dreigroschenoper di Brecht, di cui Spaini traduce i dialoghi e Alvaro i songs, e che viene rappresentata per la prima volta nel 1930 con il titolo La veglia dei lestofanti129. È singolare che entrambi, pur avendo un ruolo di primo piano come mediatori di letteratura contemporanea, restino in fondo piuttosto scettici nei confronti delle sue innovazioni più ardite: anche Spaini esordisce come scrittore all’inizio degli anni Trenta pubblicando due raccolte di racconti e un romanzo, La moglie del vescovo130, ma i suoi scritti appaiono caratterizzati dallo stile frammentario e dalla cura della “bella pagina” dominanti negli anni della sua formazione molto più che dallo sperimentalismo degli autori stranieri che va intanto traducendo. Osservazioni analoghe possono essere fatte per Corrado Alvaro, a sua volta reduce, negli stessi anni, da un soggiorno berlinese che lo ha messo al corrente delle più recenti tendenze letterarie131: se è vero che un romanzo come Vent’anni (Treves, 1930) risente della lettura di Remarque, in generale l’interesse dell’autore calabrese per il filone neusachlich risulta piuttosto blando, come lascia 128  Sul circuito delle avanguardie romane cfr. Achille Castaldo, Esperienze d’avanguardia nell’Italia tra le due guerre. L’espressionismo di Marcello Gallian. L’immaginismo di Umberto Barbaro e Dino Terra, Tesi di dottorato, relatrice S. Cirillo, Sapienza Università di Roma, 2011. 129  Sul teatro di Bragaglia cfr. Alberto Cesare Alberti, Sandra Bevere, Paola Di Giulio (a cura di), Il teatro sperimentale degli indipendenti (1923-1936), Bulzoni, Roma 1984, e, specificamente sul contributo di Spaini, Sisto, Traiettorie cit., pp. 199208. Alvaro aveva avuto occasione di assistere a una rappresentazione della Dreigroschenoper durante il suo soggiorno berlinese, come ricorda in un articolo degli anni Cinquanta intitolato L’opera da tre soldi (ora in Corrado Alvaro, Cronache e scritti teatrali, a cura di Alfredo Barbina, Abete, Roma 1976, pp. 315-317). Sulla rappresentazione del 1930 vedi inoltre Raffaella Di Tizio, L’opera dello straccione di Vito Pandolfi e il mito di Brecht nell’Italia fascista, Aracne, Roma 2018, pp. 250-271. 130  Alberto Spaini, I viaggi di Bertoldo, Vecchioni, L’Aquila 1930; Id., Malintesi, Carabba, Lanciano 1931 e Id., La moglie del vescovo, Carabba, Lanciano 1931 (quest’ultimo apparso nella collana i romanzi del nostro tempo, nella quale pubblicano anche Terra, Barbaro e Gallian). 131  Sulla traiettoria di Alvaro vedi infra, cap. III, § 7.1.

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presumere anche la raccolta di saggi che pubblica nel 1934 e che fin dal titolo – Cronaca (o fantasia?) – sembra ironizzare sul genere tanto in voga del Bericht. L’attività di mediazione e divulgazione svolta da Spaini e Alvaro influisce insomma, più che sui loro lavori creativi, su quelli degli scrittori appartenenti alla generazione successiva che frequentano con loro i teatri d’avanguardia e le redazioni di quotidiani come «Occidente» o «l’Italia letteraria». 3.2. Barbaro dialettico: Luce fredda È infatti in contesti del genere che prende forma gran parte dei nuovi romanzi metropolitani d’ispirazione neusachlich, che al loro interno trovano di solito anche la strada della pubblicazione: è il caso di un romanzo come Luce fredda di Umberto Barbaro, pubblicato da Carabba nel 1931 nella collana i romanzi del nostro tempo. Insieme a Quartiere Vittoria di Ugo Dèttore, Luce fredda rappresenta l’esito più interessante della prima stagione del romanzo neorealista – o neusachlich “all’italiana” – entro la quale viene di regola catalogato. I due romanzi, ambientati il primo in un quartiere in espansione della Firenze del dopoguerra, il secondo nella Roma del 1928, condividono la lettura döbliniana della metropoli moderna come principale antagonista della formazione morale dell’individuo, ma mentre il romanzo di Dèttore ostenta anche sul piano dello stile e della costruzione – lo vedremo nel prossimo paragrafo – la continuità con il romanzo modernista europeo, in Barbaro è ancora forte il legame con la tradizione ottocentesca e primonovecentesca italiana, ed è anzi proprio questo suo collocarsi in una posizione quasi di cerniera fra le due linee a determinarne l’originalità. Come abbiamo visto, del resto, per i lettori italiani di questi anni il repertorio del grande romanzo ottocentesco (mediato da collane come la romantica) e le novità di quello contemporaneo (presentato dalle nuove collane di Modernissima, Bompiani e Mondadori) arrivano di fatto in simultanea. Nato ad Acireale nel 1901, in seguito alla morte di entrambi i genitori nel terremoto di Messina Barbaro si trasferisce a Roma, dove compie gli studi liceali e si avvicina all’ambiente delle avan-

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guardie: attraverso la fondazione del movimento Immaginista e della rivista «La ruota dentata», suo organo di diffusione, entra in contatto con gli ambienti della sinistra anarchica e marxista; mentre la frequentazione del teatro di Bragaglia, che mette in scena alcune sue commedie tra il 1927 e il 1930, lo introduce nel mondo dei letterati e dei traduttori132. Se nel corso della sua attività di letterato e poi di critico cinematografico la sua cultura di riferimento sarà principalmente quella russa, negli anni della formazione i suoi interessi si dirigono per lo più verso il mondo tedesco: uno dei suoi primi scritti è dedicato a Frank Wedekind133, autore che Spaini aveva appena iniziato a tradurre e a far rappresentare in Italia, e ad esso faranno seguito interventi su Hermann Kesten, su Joseph Roth, su Goethe e su Thomas Mann. La conoscenza di autori come Wedekind e Döblin – nonché la lezione degli Indifferenti di Moravia, che precede di poco l’esordio di Barbaro come narratore – si avverte con forza nel linguaggio delle sue prime opere, i racconti L’essenza del can barbone (Edizioni d’Italia, 1931) e soprattutto il romanzo Luce fredda, che fin nel titolo mostra di volersi servire degli asettici strumenti d’analisi caratteristici della Neue Sachlichkeit: vi predomina infatti una scrittura secca, rapida, intervallata da dialoghi che restano spesso – come voleva Spaini – «a mezz’aria» e da squarci urbani che contribuiscono a cancellare le ultime tracce 132  Sulla vita di Barbaro cfr. l’Introduzione di Gian Piero Brunetta a Umberto Barbaro, Neorealismo e realismo, vol. I (Letteratura e arti figurative), Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 9-39. Non è chiaro se Barbaro completi o meno gli studi liceali: certo è che in quel contesto conosce Luigi Chiarini, il quale nel 1935 lo chiamerà come docente al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e che l’educazione ricevuta, unita alle difficoltà economiche (probabilmente interrompe gli studi per lavorare), ha un ruolo chiave nella sua disposizione a rimanere un “marginale” rispetto al campo letterario. Su quest’ultimo aspetto cfr. Fabio Andreazza, Prima della specializzazione. La traiettoria di Umberto Barbaro dalla letteratura al cinema, in Raffaele Berti, Massimo Locatelli (a cura di), Figure della modernità nel cinema italiano, ETS, Pisa 2008, pp. 315-331; mentre sul rapporto di Barbaro con la cultura tedesca (in particolare dell’espressionismo) cfr. Simone Costagli, Umberto Barbaro. L’espressionismo in Italia tra romanzo e cinema, online su LTit (www.ltit.it, consultato il 15.03.2021). 133 Umberto Barbaro, Frank Wedekind, «Lo spettacolo d’Italia», II, 16 e 17, 1928, rispettivamente alle pp. 8 e 6, e Frank Wedekind, Il marchese di Keith, Formica, Torino 1930.

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delle descrizioni paesaggistiche dannunziane e dei loro cascami rondisti. Come per molti altri scrittori della stessa generazione, anche per Barbaro la necessità formale primaria è infatti quella di smarcarsi dalle costrizioni della prosa d’arte, e l’adesione ai moduli stilistici proposti dal romanzo contemporaneo tedesco è una delle possibili vie d’uscita. Non la sola, almeno per lui. L’altra strada è quella che passa per il recupero della tradizione romanzesca italiana, tradizione che Barbaro ha ben presente e che avvicina la sua riflessione a quella che abbiamo visto elaborare negli anni immediatamente precedenti da Borgese e Titta Rosa. I nuclei cardine della riflessione di Barbaro, già in nuce nel manifesto del movimento Immaginista, coincidono infatti in larga misura con quelli formulati da Borgese in Tempo di edificare e poi ripresi da Titta Rosa nell’Invito al romanzo, ricalcandone talora anche le argomentazioni. Ancora una volta il punto di partenza è la negazione del nesso crociano intuizione-espressione (la cui applicazione in arte, afferma Barbaro, ha portato a «spezzettare alcuni dei più alti prodotti dello spirito umano – Faust, Divina Commedia»134), la quale, unita al rifiuto della retorica del poeta nascitur, apre la strada alla possibilità di una riflessione sulle tecniche dell’arte e del romanzo in particolare, perché «se poeta non si nasce (né bene inteso novelliere o romanziere) […] è chiaro che poeta si diventa»135. L’artista dev’essere dunque anzitutto «un uomo come tutti gli altri, un uomo a cui nulla sia alieno», capace di ricostringersi «nelle angustie della quotidianità»136 e di parlare delle dita sporche delle dattilografe senza necessariamente trasfigurarle in imperatrici dalle dita affusolate; un uomo che rifiuti l’«arte per l’arte» a vantaggio di un’arte rivolta alla vita, e che accetti il gioco, l’evasione, solo come primo momento di una rottura dell’ordine finalizzata alla 134  Umberto Barbaro, Un’estetica nuova per un’arte nuova, «La ruota dentata», I, 1, febbraio 1927 (ora in Id., Neorealismo e realismo cit., vol. I, pp. 75-84, qui p. 78). Cfr. la polemica di Borgese contro la lettura crociana del Faust analizzata supra, cap. II, § 3.5, e le osservazioni di Titta Rosa riportate al cap. III, § 1.1. 135 Id., Come si diventa scrittore. Manuale teorico-pratico, «Quadrivio», II, 44, 26 agosto 1934 (in Id., Neorealismo e realismo cit., vol. I, pp. 164-169, qui p. 165). 136 Id., Considerazioni sul romanzo, «Occidente», I, 1, ottobre-dicembre 1932, pp. 18-22, qui p. 21.

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ricostruzione di un’armonia più complessa137. Le «fughe dalla realtà», prima e necessaria fase della creazione artistica, sono legittime infatti «soltanto quando riportano ad una realtà più piena e più comprensiva»138: questo processo dialettico sembra essere il nucleo generativo di tutta la riflessione estetica di Barbaro, che in più occasioni ribadisce la necessità di «spezzare gli equilibri e le inerzie sempre ricostituentesi»139, di «distruggere un equilibrio per la certezza di conquistarne un altro più ricco di valore»140, di pensare insomma l’arte e la vita secondo un movimento triadico, nel ciclo «del fingere, del perdersi e infine del divenire»141. Nume tutelare di questa concezione dell’arte è Goethe, che Barbaro, citando alla lettera Borgese (ma senza nominarlo), definisce «per antonomasia contemporaneo dei posteri»142 e autore più che mai necessario agli scrittori del suo tempo, troppi dei quali «si perdono fatuamente dietro il mito assurdo e inintelligente della cosiddetta poesia pura»143. Una ulteriore conferma della continuità tra le posizioni di Borgese e quello di Barbaro è inoltre il canone romanzesco che scaturisce da queste premesse teoriche, costituito in gran parte da autori già presenti in Tempo di edificare che all’epoca non erano però, come si è già avuto modo di osservare, oggetto di un riconoscimento unanimemente condiviso nel campo letterario144. Il primo di essi è ancora una volta il Manzoni dei Promessi sposi, a cui molti scrittori italiani sembrano tornare in questi anni col capo coperto di cenere («Dobbiamo volenti o nolenti andare 137 Id.,

Come si diventa scrittore cit. La mia fede, intervista sul «Giornale d’Italia», 3 febbraio 1933 (in Id., Neorealismo e realismo cit., vol. I, pp. 139-141, qui p. 141). 139  Ivi, p. 140. 140 Id., Giocare, «Occidente», II, 5, ottobre-dicembre 1933 (in Id., Neorealismo e realismo cit., vol. I, pp. 151-156, qui p. 154). 141  Ibid., corsivo dell’autore. 142 Id., Goethe in Italia, «Quadrivio», V, 2, 8 novembre 1936 (in Id., Neorealismo e realismo cit., vol. I, pp. 196-199). La definizione è tratta dal saggio di Borgese La personalità di Goethe, su cui cfr. supra, cap. II, § 2. Sempre alla lettura di Goethe data da Borgese Barbaro allude poco dopo parlando della Campagna di Francia e della cannonata di Valmy, «una novella istoria e non già la novella istoria, come è già stato osservato» (ivi, p. 198). 143  Ivi, p. 197. 144 Cfr. supra, cap. II, § 5. 138 Id.,

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d’accordo coi professori delle scuole medie, vincere le nostre insofferenze e metterci in santa pace a riscoprire la grandissima grandezza di Manzoni: non c’è altra possibile strada e solo da qualche anno siamo finalmente tra mille difficoltà e pene riusciti a imboccarla»145), e insieme a lui Verga e De Roberto, la cui stagione è stata tuttavia definitivamente chiusa, secondo Barbaro, dalle opere di Pirandello. Altrettanto chiusa è a suo parere la fase dell’imitazione del romanzo francese e quella del «romanzo lirico» d’inizio Novecento (Boine, Palazzeschi, Jahier), una narrativa sulla quale i romanzi di Borgese erano per l’appunto piombati «come una bomba»146. Se il linguaggio dei dialoghi e delle descrizioni porta giustamente a collocare le opere di Barbaro nell’alveo del romanzo moraviano e neusachlich, si dovrà dunque riconoscere che, per quanto riguarda l’impianto narrativo, siamo invece molto più vicini a Rubé, e da lì al romanzo ottocentesco e a un’opera come le Affinità elettive, che non a caso viene più volte citata in Luce fredda. Prima ancora che dalla «costruzione» del romanzo, lo si intuisce dall’uso disinvolto dell’indiretto libero (più schematico negli Indifferenti147) attraverso cui i vari personaggi vengono reciprocamente illuminati: tutti, a cominciare dal protagonista Sergio, sono caratterizzati da una certa tendenza all’autoanalisi, ma è soprattutto dalle opinioni indirettamente espresse dagli altri personaggi che veniamo a sapere qualcosa di loro. A informarci dell’incapacità all’azione di Sergio è il lungo ragionamento fatto su di lui dall’amico Lorenzo; l’infelice situazione familiare di Tilde, inizialmente descritta attraverso le pagine del suo diario, viene approfondita dallo sguardo del marito Leone; e la madre anaffettiva di cui si lamenta Maria Moroni emerge tutta attraver145  Umberto Barbaro, Albori di una narrativa attuale, «Quadrivio», III, 47, 16 dicembre 1935 (in Id., Neorealismo e realismo cit., vol. I, pp. 188-191, qui p. 189). 146  Ivi, p. 190. 147  Cfr. Elena Cane, Il discorso indiretto libero nella narrativa italiana del Novecento, Silva, Roma 1969 (in particolare alle pp. 49-67), che osserva come negli Indifferenti l’indiretto libero mantenga nel testo «due parti distinte, chiaramente separate: da una parte sta il racconto, la parola dell’autore; dall’altra i pensieri, le riflessioni, ed eventualmente, ma assai raramente, le parole e i discorsi, sempre di un solo personaggio» (p. 52).

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so le parole della figlia. La struttura polifonica che viene a crearsi da questo tridimensionale incontro di voci permette di portare ciascun personaggio di fronte al tribunale della propria coscienza (e di quella altrui) senza demandare il giudizio ad un’unica istanza unificante, sia questa la voce super partes di un narratore onnisciente, sia quella del personaggio protagonista a cui, facilmente, la prospettiva autoriale finisce per sovrapporsi148. È dunque prima di tutto attraverso questa struttura dialogica che Barbaro affronta ancora una volta, adattandola al contesto dell’Italia di fine anni Venti, la domanda che la modernità pone ai romanzieri da almeno un secolo e mezzo, e che viene esplicitamente riformulata dal personaggio di Sergio verso la metà del romanzo: «Il problema è questo, Maria: è possibile crearsi una morale propria, indipendente, e migliore di quelle riconosciute e consacrate? … Forse è impossibile, ma certo chi non lo tenta è un essere spregevole»149. Luce fredda eredita da Goethe («contemporaneo dei posteri») il dilemma dell’emancipazione individuale che si tende come un arco unico dalla fine del Settecento al presente; prende da Borgese gli strumenti teorici e tecnici che permettono di ordire la tessitura di voci autonome e ugualmente legittime; e trova in Döblin e negli autori della Neue Sachlichkeit la conferma che il teatro di questo conflitto non può che essere ormai la metropoli contemporanea, con il suo individualismo pieno di promesse e di minacce. Il risultato è un romanzo in cui personaggi diversi per genere, per classe sociale, per livello di istruzione e per inclinazioni caratteriali si trovano messi tutti ugualmente di fronte alla necessità di cercare la propria strada e, spesso, al fallimento delle loro speranze. Lorenzo, che come il protagonista appartiene alla piccola borghesia colta, cerca la propria realizzazione nel successo lavorativo, ma quando arriva la sospirata promozione che gli permetterebbe di trasferirsi a Berlino si ritrova scavalcato da un collega. Maria Moroni, figlia di un industriale e vivace lettrice di Oblomov e delle Affinità

148 Come si ricorderà questo schiacciamento del personaggio protagonista sull’autore era infatti l’aspetto che Borgese aveva criticato negli Indifferenti (cfr. supra, cap. II, § 6.1). 149  Umberto Barbaro, Luce fredda, Carabba, Lanciano 1931, p. 179.

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elettive150, abbandona gli agi della casa paterna per guadagnarsi da vivere come insegnante di violino, ma finirà sedotta dal padre di un suo allievo, Giovanni, uomo di poche parole e socialmente molto inferiore a lei. L’intellettuale Vincenzo finisce nelle mani di una famiglia di usurai; e Tilde, che ha dedicato tutta se stessa al marito e al figlio, vede infrangersi il suo ideale di vita in quella che proprio Goethe ha identificato come una delle più tipiche esperienze di crisi della modernità: durante una notte d’amore con il marito Leone, si rende conto infatti di essere oggetto di una «sostituzione mentale», di essere cioè paradossalmente l’«intrusa» in un rapporto d’amore autentico come quello che lega Leone alla sua amante, Fernanda151. Ogni personaggio si trova insomma di fronte al trauma di perdere ciò su cui ha investito l’intera vita, e il romanzo non fa altro che mettere dialogicamente in scena le risposte che ciascuno dà a questa crisi. Alcuni, quelli che nella modernità non hanno neanche tentato di costruirsi una morale e che proprio per questo erano apparsi per un attimo gli individui più adatti alla sopravvivenza, ne vengono interamente distrutti (la famiglia dell’usuraio: Clelia accoltella il padre e finisce in manicomio, il fratello Ruggero si uccide a causa dei debiti), altri – quelli che ci avevano almeno provato – di fronte alla delusione tornano a 150 «Leggo Le affinità elettive (e, tra parentesi, tutti “mi scherzano” per questo libro da villeggiatura – vada là, che mi dà dei gran bei consigli lei!)» (ivi, p. 21); «Le Affinità elettive ancora non ho finito di leggerle; ma sono in fin dei conti un libro bello e noioso come lei» (ivi, p. 91). Entrambi i passi sono tratti dalle lettere che Maria invia a Sergio, del quale è fin dall’inizio innamorata. L’inserto di testi estranei al flusso della narrazione, come le lettere di Maria e le pagine del diario di Tilde, contribuiscono a far emergere i punti di vista dei personaggi femminili: un elemento molto sfruttato dai contemporanei di Barbaro, e del resto già presente nella tradizione romanzesca più classica (si pensi solo al lungo inserto delle Confessioni di un’anima bella nel Wilhelm Meister). Come si vedrà tra poco, peraltro, in Luce fredda il riferimento goethiano non ha soltanto la funzione di caratterizzare il personaggio di Maria. 151 Ivi, pp. 78-79 («Dormiva placidamente e sorrideva a qualche sogno; non sognava certo sua moglie… Chi c’era fra noi due? Tra noi due… la vera estranea ero io, fuori di posto… a letto con un uomo… che è mio marito»). L’esperienza del tradimento paradossalmente consumato all’interno della coppia di sposi, mentre entrambi pensano ad altri, è una delle scene chiave delle Affinità elettive (cfr. supra, cap. II, § 6.2): il richiamo al romanzo di Goethe risulta essere dunque anche un elemento fondamentale di costruzione dell’intreccio.

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rifugiarsi nei valori consolidati: Lorenzo ha una conversione religiosa, Maria cerca il matrimonio riparatore, Tilde e Leone decidono di tenere insieme la famiglia per quanto ormai si detestino. E Sergio, il «riformatore»152, assiste impotente a questo ripiegamento generale verso l’ordine costituito, almeno finché un salvataggio in extremis – o almeno la possibilità di un salvataggio, inteso come passaggio a una nuova fase della vita adulta – non si presenta per il tramite di quello che meno di tutti aveva l’aria di poter diventare un deus ex machina: Giovanni, l’operaio che ha sedotto Maria, estraneo alle convenienze dell’ambiente borghese e dotato – come Sergio è costretto ad ammettere – di «una superiorità di classe»153. Giovanni, che considera Maria una sua pari e non ritiene affatto di averla «rovinata» portandosela a letto, dà all’intellettuale Sergio una «solennissima lezione» di modernità, affermando che una persona è libera non solo quando agisce come vuole ma soprattutto quando sa assumersi le conseguenze delle sue azioni: «a difenderti te lo insegnano il dolore e le umiliazioni. […] sarebbe stupida Maria a ritirarsi proprio ora dal cammino iniziato»154. Se nel piccolo mondo rurale le Gretchen “rovinate” dai loro amanti non avevano altro destino che il suicidio o la forca (da riscattare, nella migliore delle ipotesi, previa successiva assoluzione in Cielo), nella grande città contemporanea la scelta di continuare o meno a vivere è ora tutta nelle loro mani. È quello che la Morte ha insegnato a Franz Biberkopf, e che adesso Giovanni, operaio, insegna a Maria, più ricca e più colta di lui. Per Maria dunque (e indirettamente per Sergio), il trauma subìto smette di essere la fine del mondo e diventa la via d’accesso a uno stadio successivo, che possiamo immaginare raggiunto anche se Luce fredda – proprio come Berlin Alexanderplatz – si chiude nel momento in cui i due personaggi sono ancora sul crinale tra la vecchia e la nuova condizione, e hanno appena «riacquistato il senso del concreto e della realtà»155. 152 

Ivi, p. 166. Ivi, p. 230. 154  Ibid. Del resto anche Sergio, parlando in astratto di una ragazza abbandonata dal fidanzato nel capitolo V, aveva definito stupido il fatto che costei non volesse rifarsi una vita. 155  Ivi, p. 243. 153 

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Attraverso la struttura romanzesca Barbaro riesce a rendere accessibile a un più vasto pubblico la sua visione dell’arte come «moralità efficiente», ovvero come strumento umano che intende rivolgersi non all’arte stessa ma alla vita156. Luce fredda mette in scena narrativamente lo stesso movimento triadico («fingere», «perdersi», «divenire») che lo scrittore formalizza nei suoi scritti teorici, laddove la “moralità” dell’operazione sta per lui tutta nella terza fase, nel passaggio critico che porta gli individui verso la ricomposizione di un’armonia nuova, più complessa di quella che loro stessi hanno voluto, o dovuto, distruggere. L’arte che si ferma a metà di questo percorso dialettico, al puro gioco dell’evasione o alla mera denuncia del dato di fatto – operazioni a suo parere necessarie solo come gradi intermedi della creazione artistica – è per Barbaro sostanzialmente immorale, e per questo anche leggere il suo romanzo come una semplice riedizione neusachlich degli Indifferenti non permette di comprenderne a pieno la portata. Che Barbaro non abbia alcun interesse a offrire al lettore un’ulteriore disamina della «decadenza della borghesia romana» si intuisce già dal fatto che il mondo descritto in Luce fredda copre uno spettro sociale molto più ampio, che va dall’alta borghesia industriale rappresentata dalla famiglia Moroni fino alla classe operaia a cui appartiene la figura (marginale nella fabula ma decisiva nell’intreccio) del capocantiere Giovanni, passando per la borghesia “di rapina” della famiglia Roggi e per il ceto medio proletarizzato di personaggi come Sergio, Lorenzo e Vincenzo. Nelle grandi città dell’Occidente, infatti, l’esperienza della modernità riguarda ormai tutti gli individui, e quanti vedono in essa soltanto “crisi” e “fine del mondo” sono per il marxista Barbaro nient’altro che i rappresentanti di «una classe [che] ha esaurito la sua funzione storica», i quali, «mal rassegnandosi a morire, vogliono almeno far coincidere la loro colla fine del mondo»157. È questo lo sguardo con cui lo scrittore giudica anche i suoi contemporanei: Hermann Kesten e Joseph Roth, autori che rap156 Barbaro,

Considerazioni sul romanzo cit., p. 18. Svolte pericolose di Kesten e Roth, «Occidente», IV, 10/11, gennaioaprile 1935, pp. 54-58, qui p. 54. 157 Id.,

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presentano per lui due vertici della letteratura tedesca del tempo, condividono a suo parere il limite di un individualismo esasperato che impedisce loro di uscire dalla propria prospettiva di classe e di vedere alcunché al di là della morte del mondo che rappresentano158. Sono osservazioni molto simili a quelle che Lukács avrebbe formulato nel dopoguerra in Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, libro che Barbaro saluta infatti come «illuminante» al momento della sua uscita in Italia159. Si tratta di romanzieri che non per questo sono meno necessari, e di Kesten – apprezzato soprattutto per l’abilità nei dialoghi e per l’arte della «costruzione preordinata, […] importante e poderosa»160 – Barbaro si farà anzi diretto interprete, traducendo in italiano i romanzi Gente felice e Il ciarlatano161. 3.3. I costruttori di Quartiere Vittoria A differenza di Luce Fredda, che conserva molti aspetti del romanzo ottocentesco, Quartiere Vittoria di Ugo Dèttore (1936) riprende esplicitamente anche nell’impianto formale le suggestioni giunte in Italia attraverso la letteratura in traduzione. Passano cinque anni tra la pubblicazione del romanzo di Barbaro e quello di Dèttore: sono gli anni durante i quali gli editori italiani inondano il mercato librario di scrittori stranieri contemporanei, e i traduttori devono inventarsi per essi nuove soluzioni nel lessico e nella sintassi, nello stile dei dialoghi e delle descrizioni, aprendo strade inesplorate anche a chi intanto compone opere originali. Lo scenario di Quartiere Vittoria è ancora una volta quello di una periferia urbana, stavolta a Firenze, la stessa dove Ugo Dèttore, nato a Bologna nel 1905, trascorre parte della sua giovinezza. «Mio padre ebbe l’idea di acquistare un appartamento 158 

Ivi, p. 55. Il vero Thomas Mann, «L’Unità», 25 luglio 1956 (in Id., Neorealismo e realismo cit., vol. I, pp. 268-272). 160 Id., Svolte pericolose cit., p. 57 161  Hermann Kesten, Gente felice, Carabba, Lanciano 1933 (in seguito confluito nella letteraria Bompiani) e Id., Il ciarlatano, Corbaccio, Milano 1934 (ancora all’interno della dauliana scrittori di tutto il mondo). L’attività di Barbaro come traduttore è molto vasta: dal tedesco tradurrà ancora i saggi di Freud, e numerose altre opere dal francese e dal russo. 159 Id.,

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laggiù», ricorda lo scrittore «e io mi trovai nel nuovo quartiere, in un edificio che veniva su dai campi, tra alcuni edifici che venivano su dai campi anche loro»162. Già deciso a dedicarsi alla letteratura, il ventenne Dèttore è impressionato dall’umanità che popola il nuovo quartiere, strappata a un mondo in via d’estinzione e catapultata in un altro che però non ha ancora una consistenza reale, e che giorno dopo giorno sembra combattere con se stesso per darsi una forma dal fango. Gli artefici di questo nuovo mondo sono muratori che hanno nelle mani l’arte antica del costruire, ma anche imprenditori e ingegneri che considerano gli esseri umani solo come mezzi della loro espansione, alla stessa stregua del cemento o delle pietre che impiegano. «Il quartiere mi appariva come un problema umano da risolvere» scrive Dèttore «una partita aperta fra me e quella gente, muratori, appaltatori, ingegneri, nuovi arrivati, che formavano il mondo provvisorio in cui mi era capitato di vivere»163. L’originalità di Quartiere Vittoria deve molto alle esperienze personali del suo autore, ma deve almeno altrettanto al contesto editoriale in cui prende forma. Fin dal suo esordio, avvenuto nel 1931 con il romanzo L’aureola grigia, Dèttore gravita infatti nell’area della neonata casa editrice Bompiani, che come sappiamo va proponendo un programma d’avanguardia nel campo della narrativa italiana e straniera. Valentino Bompiani, editore ma anche scrittore di teatro, interloquisce coi suoi autori con la sensibilità di chi ben conosce i nodi problematici dell’attività creativa: con un lento lavoro maieutico tenta metodicamente di trarli fuori dalle sabbie mobili della prosa d’arte, proponendo loro modelli letterari alternativi (in primo luogo gli stranieri che fa intanto tradurre) e persino intervenendo – diremmo oggi – da “editor” con consigli di aggiustamenti puntuali sulle opere che gli vengono sottoposte. Le lettere che Bompiani e Dèttore si scambiano durante la composizione di Quartiere Vittoria sono rivelatrici di questo spirito collaborativo, e del tentativo che l’editore compie di indirizzare il romanzo in gestazione verso una 162  Ugo Dèttore, Storia di un romanzo, in Id., Quartiere Vittoria, Marsilio, Venezia 1982, pp. 305-311, qui p. 307. 163  Ivi, p. 309.

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precisa tipologia, più vicina a quel «romanzo collettivo» di cui si discuteva intanto sulle riviste italiane164. In una lettera del 3 febbraio 1933, ad esempio, Bompiani esorta Dèttore a dedicarsi a nuove letture per consolidare la sua tecnica narrativa: io credo che la letteratura narrativa dovrà arrivare, e già ciecamente si avvia, a tale contatto, per trasformare in intuizioni d’arte e in costruzioni etiche, a beneficio della società futura, le osservazioni e le deduzioni degli scienziati d’oggi nei nuovi campi. […] Ha proprio bisogno di polmoni più ampi e di respiri più profondi questa nostra istruitissima e raffinatissima letteratura […] Mi pare che abbia scelto bene nelle Sue recenti letture 165.

Il lessico utilizzato da Bompiani lascia intuire una chiara consapevolezza delle discussioni in corso nel campo letterario, e in particolare del tentativo che su più fronti si sta conducendo per allentare i vincoli dell’estetica crociana – «intuizione» sì, dice anche Bompiani, ma meglio se accompagnata alla «costruzione» di strutture narrative più solide. Quartiere Vittoria prende forma anche sotto l’impulso di questi scambi, e lo si osserva soprattutto nella tecnica compositiva. In modo ancor più radicale di Luce fredda, dove il personaggio di Sandro – pur non essendo centrale – mantiene una funzione di perno anche analitico della narrazione, il romanzo di Dèttore rinuncia a seguire le sorti di un solo protagonista e adotta una costruzione per blocchi giustapposti, secondo una tecnica di montaggio molto apprezzata dai fautori del romanzo collettivo. I personaggi, inoltre, sono tutti dei “costruttori”, interessati per avidità o per mero bisogno di sopravvivenza a sfruttare le possibilità della ricostruzione che segue la prima guerra mondiale: Quindici anni fa una piana sterile copriva la zona di quartiere Vittoria fino a rodere il lembo dei sobborghi intorno alla città vecchia; un giorno ci 164 Cfr.

supra, cap. III, § 2.1. D’Ina, Giuseppe Zaccaria (a cura di), Caro Bompiani. Lettere con l’editore, Bompiani, Milano 1988, p. X e p. 561n (miei corsivi). Le «recenti letture» a cui Bompiani allude sono quelle di cui Dèttore parla in una lettera precedente: Thomas Mann, Feuchtwanger, Wassermann e soprattutto Döblin, l’autore che dice di sentire come il «più vicino» a lui (cfr. Rubino, La Neue Sachlichkeit e il romanzo italiano cit., p. 260). Bompiani gli suggerirà di aggiungere alle sue letture anche Woolf, Dos Passos e Huxley, ma non prima di aver terminato la stesura di Quartiere Vittoria. 165  Gabriella

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si è rovesciato sopra del denaro. Denaro ne era stato messo da parte parecchio, durante gli anni di guerra; adesso usciva dalla città vecchia e germogliava da sé in blocchi di cemento, prendeva la terra indurita e disavvezza da tempo alla vegetazione e ci piantava il seme della gente nuova166.

«Un giorno ci si è rovesciato sopra del denaro»: nella modernità è il denaro che fertilizza le terre sterili, ed ecco che su di esse, come per generazione spontanea, iniziano a germogliare uomini e palazzi. È una descrizione quasi espressionista dello spazio, su cui però si innesta subito una struttura narrativa molto articolata che vede i personaggi contrapporsi o allearsi in base ai loro diversi interessi, cambiando fazione a seconda dell’opportunità. Tre sono i nuclei principali: Oscar e Alberto Dèidia, padre e figlio, costruttori di alta estrazione sociale che devono buona parte delle loro commissioni edili a politici conniventi e corrotti; Antonio Firpo, costruttore anch’egli ma di origini popolari, arricchitosi durante la guerra lavorando prima come manovale e poi come capomastro; e infine Reda, reduce di guerra ed ex-insegnante di matematica, che in mancanza di alternative si butta a sua volta nell’edilizia per mantenere la moglie Annetta e il figlio Saverio. Intorno a loro ruota una moltitudine di personaggi minori variamente dediti all’arte dell’arrangiarsi (i costruttori Busolli e Magnocchi che provengono dalla piccola criminalità della zona, prostitute e tenutarie di bordelli, un anonimo piazzista che finirà per prendere il posto del padrone che lo sfrutta), e il romanzo non fa che mostrare come la situazione di caos imperante favorisca la speculazione e la prepotenza di chi ha meno scrupoli: alleandosi, infatti, Alberto Dèida, Firpo e Reda riescono a ottenere prima l’appalto per uno stadio e poi anche quello per la riqualificazione di un vecchio borgo, destinato a trasformarsi nell’ennesimo dormitorio urbano. La lettura di Döblin, uno degli autori a cui Dèttore si richiama esplicitamente nel carteggio con Bompiani, sembra lasciare una traccia profonda soprattutto nell’elaborazione del personaggio di Reda: come Biberkopf è anch’egli un reduce che non riesce a reinserirsi nella realtà del dopoguerra, che si ritrova costretto a sbarcare il lunario in un modo che non è quello che avrebbe 166 

Ugo Dèttore, Quartiere Vittoria, Bompiani, Milano 1936, p. 10.

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desiderato e che soprattutto non è in grado di contenere i propri impulsi violenti, per colpa dei quali finirà col causare la morte della moglie e indirettamente del figlio. La scena dell’incontro tra Biberkopf e la prostituta in Berlin Alexanderplatz, che come abbiamo visto riecheggiava anche nelle pagine finali di Tre operai, torna ancora nel romanzo di Dèttore per caratterizzare la personalità impulsiva e autodistruttiva di Reda: La prima donna che gli capita davanti ha paura di farle male; vanno insieme per i corsi della città vecchia, lui ha smesso l’uniforme da poco e adesso sta preparando la laurea; c’è una quantità di gente per le strade, tanta quanta lui non ricorda più, che lo sbatte e gli picchia nei fianchi. Lui ha l’anima piena di delicatezza; si è trovato una ragazza fra le mani, le guarda il collo e pensa che non bisogna farle male, non bisogna far male a nessuno. Quando arriva l’obice si sente prima il fischio che si caccia nella testa e quando scoppia si sente che anche la testa va via in mille pezzi, tutto all’aria; invece si è ancora lì, è come morire e rinascere subito dopo senza nessuna ragione. Un mucchio di gente che lo piglia e lei saltella e guarda nelle vetrine; non riesce a capire che cosa ci possa vedere. Una delicatezza che anche il respiro è di troppo; buona gente, brava gente, soprattutto non far male a nessuno. Così entrano in qualche porta e lei si toglie subito il vestito leggero; ha dei riccioletti biondi sulla nuca. […] Ed ecco si mette a sedere accanto a lei e d’un tratto gli tremano le dita, non riesce più a fermarle; per la strada c’era una maledizione di gente e di automobili, ieri i tranvai erano fermi perché i socialisti avevano imposto lo sciopero. […] Si tira su di scatto e l’afferra; le dita non gli tremano più, due lampi gelidi negli occhi. E non capisce quello che succede: le mani stringono anche se non vuole, come per predare; una furia fredda. Scuote la ragazza fino a farla strillare, le colpisce la nuca senza pensare più a nulla. Poi la strada si spalanca ancora; la gente cammina. […] fuori, nelle vie del centro, è come se tutti gli deridessero il suo segreto; buona gente, brava gente; gli passano accanto senza badargli, hanno la furia addosso, costoro. A volte un freddo nella nuca e la follìa di scagliarsi contro quella gente che non vuole essere come lui l’ha lasciata. E magari schizzargli del piombo nelle costole come si faceva lassù167.

Nella testa del reduce i piani temporali si mescolano, l’insicurezza sessuale riaccende i terrori dell’esperienza bellica («Quando arriva l’obice si sente prima il fischio…»), l’odio per il nemico 167 

Ivi, pp. 25-27.

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si confonde col rancore verso chi è riuscito a superare indenne il conflitto (le folle che si accalcano nei negozi), finché tutto sprofonda in un desiderio indistinto di violenza («magari schizzargli del piombo nelle costole, come si faceva lassù»). Il brano mostra come nel caso di Quartiere Vittoria l’effetto del romanzo “neo-realista” tedesco vada ormai molto al di là dell’adozione di scenari e temi nuovi: grazie anche ai suggerimenti di Bompiani, Dèttore concentra l’attenzione soprattutto sulle innovazioni compositive, sovrappone i piani narrativi, scompone i caratteri dei personaggi nei loro elementi più primitivi, grezzi come i blocchi di cemento che non hanno ancora preso forma nella periferia da edificare. Anche la resa dei dialoghi testimonia la riflessione su un nuovo modo di concepire il legame tra pensiero e discorso: le osservazioni di Spaini sui dialoghi di Berlin Alexanderplatz, lasciati «a mezz’aria» o messi apertamente in contrasto con le intenzioni dei personaggi, potrebbero attagliarsi a molte scene di Quartiere Vittoria, a cominciare dalla scena di sesso che nel capitolo II si svolge tra Alberto Dèida e sua moglie Paola, i quali, quasi stessero praticando un salutare esercizio ginnico, fanno l’amore continuando a parlare imperturbabili di permessi edili e concessioni. Le traduzioni che portano in Italia i romanzi stranieri di questi anni, in particolare romanzi complessi come Berlin Alexanderplatz, sono insomma un passaggio indispensabile per capire non soltanto cosa leggano gli scrittori italiani, ma soprattutto come. Il romanzo di Dèttore è tuttavia destinato a rimanere un unicum nel panorama letterario italiano, anche perché il suo autore, a partire dal dopoguerra, batterà strade diverse dalla letteratura168. Il suo contributo alla storia del romanzo sarà comunque più vasto di quanto si potrebbe presumere, grazie anche al suo lavoro di traduttore: dopo un lungo periodo di collaborazione con Bompiani, Dèttore fonda a Milano una propria casa editrice, la Bianchi-Giovini, che dirige insieme alla moglie Bianca Ugo, a sua volta scrittrice e traduttrice dal tedesco. Per la Bianchi-Giovini 168  Dèttore pubblica ancora una raccolta di racconti per Bompiani (Nel nostro cuore, 1940) e un romanzo per l’editore Ceschina (La grande diga, 1959), ma il suo nome resterà legato soprattutto alle ricerche da lui svolte nel campo della parapsicologia, di cui sarà nel dopoguerra uno dei primi e più noti studiosi italiani.

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i due tradurranno, spesso in coppia, alcuni dei più importanti romanzi del canone europeo, dal Satyricon di Petronio a I viaggi di Gulliver di Swift, nonché, dal tedesco, la prima edizione integrale del Simplicissimus di Grimmelshausen169, classico della letteratura seicentesca che assisterà nel corso del Novecento a una grandiosa riscoperta. 4. La folla dei piccoli uomini: impiegati, disoccupati e dattilografe 4.1. Vita ordinaria dei coniugi Pinneberg L’accoglienza ricevuta da Berlin Alexanderplatz, che in breve diventa oggetto di dibattito non solo tra i lettori ma anche tra gli scrittori italiani, incoraggia le case editrici a tradurre sempre più letteratura tedesca di ambientazione metropolitana, tanto che all’inizio degli anni Trenta ogni collana sembra essere a caccia del proprio «romanzo americano berlinese»170 da inserire in catalogo. Neanche la crociata nazista contro la cosiddetta arte degenerata impedisce, nel 1933, la pubblicazione di due importanti romanzi contemporanei che venivano intanto dati alle fiamme in Germania: Fabian di Erich Kästner (1931), pubblicato in Italia dalla letteraria Bompiani nella traduzione di Carlo Coardi; e Kleiner Mann, was nun? di Hans Fallada (1932) che esce invece nella medusa Mondadori, tradotto da Bruno Revel con il titolo E adesso, pover’uomo? Senza raggiungere la complessità formale (né la mole) di Berlin Alexanderplatz, entrambi ne riprendono 169  Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen, L’avventuroso Simplicissimus, Bianchi-Giovini, Milano 1945. La traduzione è preceduta da un lungo saggio di Dèttore che colloca l’opera nel quadro del romanzo europeo interpretandola come un anello di passaggio tra le peregrinazioni dei picari spagnoli e il romanzo dell’individualismo moderno inaugurato da Defoe. Con la traduzione di una parte dell’opera, quella dedicata alla figura della Capitana Coraggio, si era cimentato anche Guido da Verona nel 1934 (cfr. supra, cap. III, § 5): la riscoperta di Grimmelshausen riceverà poi un decisivo impulso dalla riscrittura brechtiana del 1939, Mutter Courage und ihre Kinder. 170  L’espressione è di Lavinia Mazzucchetti e compare in un parere di lettura sul romanzo Noi donne di cucina… (poi pubblicato col titolo Cameriera per scommessa) di Sigrid Boo, definito «tipo di romanzo americano berlinese che è ora di moda» (Albonetti, Non c’è tutto nei romanzi cit., p. 190).

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molte delle marche stilistiche più significative, dalla rappresentazione dello spazio urbano costruita attraverso la giustapposizione dei linguaggi contemporanei (quello della pubblicità in primo luogo) fino alla presenza di un narratore epico, onnisciente, il quale ha come in Döblin un vasto campo d’azione nei titoli dei capitoli, spesso ironici, che alla maniera di cartelloni teatrali preannunciano le avventure dei personaggi. L’elemento più evidente di continuità è poi, appunto, l’ambientazione: ancora una volta ci troviamo nella Berlino post crisi del ’29 e i personaggi di cui seguiamo le sorti sono uomini comuni impegnati nella lotta quotidiana per rimanere a galla, in una società sempre più conflittuale e sempre meno incline a mantenere le sue promesse di miglioramento e benessere collettivo. Diversamente da Döblin, però, Fallada e Kästner ci conducono a esplorare un altro strato sociale, che nell’universo proletario di Berlin Alexanderplatz era rimasto sullo sfondo. I protagonisti di questi due romanzi, Johannes (“Gianni”) Pinneberg e Jakob Fabian, sono infatti esponenti di quella piccola borghesia che all’inizio degli anni Trenta vede il proprio mondo frantumarsi più di ogni altra categoria sociale. Se prima del ’29 il modesto ruolo impiegatizio di Pinneberg e la laurea in lettere di Fabian potevano assicurare a entrambi un’esistenza dignitosa, con l’estendersi della crisi economica i posti di lavoro diventano precari, gli affitti rincarano, i commercianti non fanno più credito e i “piccoli uomini” si trovano sospinti sempre più ai margini della società, rimbalzati da un ufficio di collocamento all’altro171. La frustrazione che provano – e che proprio per la loro estrazione piccoloborghese non sono capaci di trasformare in solidarietà, in organizzazione – sembra sempre sul punto di risolversi in violenza, ma molto più spesso finisce per spegnersi in rassegnazione, impotenza, senso di nullità. E la metropoli, cuore della più avanzata cultura moderna, assume così anche per loro l’aspetto

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di una forza ostile, tradimento di tutte le speranze di emancipazione e di Anständigkeit. L’edizione italiana di Fabian ottiene un discreto successo di pubblico, ma è soprattutto il romanzo di Fallada a costituire un caso editoriale: in quattro anni la traduzione vende quasi ventimila copie172, e neanche la seconda guerra mondiale ne interromperà le continue ristampe, che si susseguono a ritmo di una all’anno almeno fino al 1944. Attraverso questa traduzione, cui sono dedicate le pagine che seguono, possiamo dunque gettare uno sguardo su quella che si avvia a diventare la collana editoriale più importante e longeva di questi anni, la medusa Mondadori. La meschinità della condizione impiegatizia, dove ogni possibilità di avanzamento individuale è sinonimo di prevaricazione sugli altri, emerge con durezza fin dal Prologo del romanzo173. Incontriamo i protagonisti nello studio di un ginecologo: Pinneberg vi ha condotto la fidanzata, Emma Mörschel detta Lämmchen («Ciuffetto», nella versione italiana), perché teme sia incinta e spera che, se così è, il medico possa almeno aiutarli a interrompere la gravidanza. Difficile immaginare una situazione più intima e personale, eppure fin dal momento in cui i due fidanzati mettono piede nella sala d’aspetto si disegna intorno a loro un quadro precisissimo della società in cui vivono: «Avete i buoni della Mutua-malati?», li aggredisce un’infermiera. Pinneberg replica di essere lì «in visita privata», e tanto basta perché l’infermiera si rabbonisca e permetta ai due di passare avanti a tutti gli altri pazienti, che borbottando li seguono con occhiate di disapprovazione. «I clienti che ci manda la Mutua sono tutti così volgari!», aggiunge l’infermiera «Che cosa pretendono, per quei quattro soldi che versano alla cassa?»174. Dopo la conferma della gravidanza in corso e il rifiuto del medico di interromperla, i due si vedono costretti a sposarsi, e informano dei loro propo172 

171  Alla

crisi economica che investe la Germania, lasciando senza un impiego circa sei milioni di lavoratori, assiste anche Alvaro, che nei diari del periodo berlinese osserva come la capitale sia diventata il rifugio dei disoccupati di tutto il paese «perché il soldo della disoccupazione a Berlino supera il salario d’un operaio in provincia» (cfr. Corrado Alvaro, Quasi una vita [1950], Bompiani, Milano 1994, p. 35).

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Cfr. Decleva, Arnoldo Mondadori cit., pp. 189-190. Hans Fallada, E adesso, pover’uomo?, tr. di Bruno Revel, Mondadori, Milano, 1933. L’edizione originale, da cui sono tratte le citazioni che seguono, è Id., Kleiner Mann, was nun?, Rowohlt, Berlin 1932. Come nel caso di Berlin Alexanderplatz, per facilitare i raffronti testuali si dà come riferimento la sezione del libro in numeri romani e il capitolo in numeri arabi. 174  Ivi, Prologo, cap. 1. 173 

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siti la famiglia di Ciuffetto. Qui il conflitto di classe si fa ancora più esplicito: la madre li prende a male parole («Non creda di ricevere dote. Non si usa da noi. Noi siamo proletari»), mentre il padre, un operaio comunista, dice senza mezzi termini a Pinneberg che avrebbe preferito un genero operaio a uno impiegato («Perché voi impiegati non siete organizzati», gli spiega «Vi manca il senso della solidarietà, dell’organizzazione. Così fan di voi quello che vogliono»175). Le parole del signor Mörschel, pronunciate in apertura del romanzo, sembrano lanciare una sorta di maledizione sul destino di Pinneberg. Della mancanza di solidarietà tra colleghi il protagonista farà presto esperienza nell’azienda di Kleinholz a Ducherow, dove lavora come contabile. Di fronte alle continue minacce di licenziamento da parte del proprietario, su consiglio di Ciuffetto Pinneberg stringe coi suoi due colleghi un patto in base al quale tutti e tre si dicono pronti a dare le dimissioni in caso di licenziamento di uno di loro. Ma è lui il primo a pentirsi di averlo fatto quando sembra che il verdetto cada su uno degli altri due – e di conseguenza è incapace di pretendere che vi tengano fede loro, nel momento in cui scopre invece che il licenziato sarà lui. Le sue avventure lavorative proseguono così nella grande città, Berlino, dove l’amante di sua madre, un avventuriero sempre pieno di soldi di nome Jachmann, gli procura un incarico come commesso di confezioni per uomo ai grandi magazzini Mandel. Se in un primo momento la condizione di Pinneberg sembra migliorare, ben presto si capisce come nel mondo del capitalismo avanzato sia ancora più facile, per i proprietari, fare «quello che vogliono» dei loro dipendenti. L’arbitrio dei datori di lavoro è assoluto (il licenziamento in tronco, spesso in seguito a delazioni di colleghi, è una pratica consueta), gli impiegati guadagnano ancor meno che presso le aziende di provincia (il salario di Pinneberg è inferiore di venti marchi a quello che riceveva da Kleinholz) e tutti sono inoltre esposti alle assurde pratiche di ristrutturazione aziendale stabilite dall’«organizzatore» Spannfuss. Fallada è uno dei primi scrittori europei a descrivere minuziosamente le dinamiche e gli effetti di queste «razionalizzazioni» capitalistiche, in base alle 175 

Ivi, Prologo, cap. 2.

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quali ogni singolo commesso deve raggiungere una data quota di vendite (fissata «moltiplicando per venti il suo stipendio») e che, dietro la facciata della meritocrazia («l’innovazione veniva introdotta nell’interesse degli impiegati, dacché ciascuno di loro avrebbe avuto, d’ora in avanti, la certezza matematica di essere valutato secondo la sua capacità»), mirano esclusivamente al profitto. Pinneberg, come sempre di corte vedute, si ritiene un venditore nato e si crede al sicuro, ma il clima di paura e la «psicosi collettiva» non tardano a prendere il sopravvento anche su di lui che, non più «padrone dei suoi mezzi», diventa sempre più nervoso e improduttivo176. La conseguenza è il prevedibile licenziamento, e con esso la decisione di lasciare anche il piccolo appartamento abusivo che occupava a Berlino con la moglie e il figlio piccolo. Nel romanzo si parla dunque continuamente di lavoro e di denaro, come se le legittime aspirazioni dei personaggi non riuscissero mai a liberarsi dai vincoli materiali che impediscono loro di realizzare qualcosa di più elevato. La frustrante vita dell’impiegato non manca di qualche tratto comico – la descrizione della scrivania ciclopica del direttore Lehmann, ad esempio, ha tratti decisamente kafkiani, per non dire fantozziani177 – ma il denaro rappresenta comunque un’ossessione, tanto che nell’introduzione al volume il traduttore italiano si sente in obbligo di fornire ai lettori qualche chiarimento circa il valore del marco tedesco. «Può sembrare inopportuno o stonato di trovare in una nota introduttiva a un romanzo cifre statistiche, indici di prezzi e precisazioni di cambi», osserva Revel «Ma è colpa dell’autore se oggi, per potere vedere nell’intimo dell’uomo della strada, si sia fatto indispensabile di stabilire un previo bilancio delle sue entrate e uscite?»178. Nell’approfondire la riflessione sulla mo176  Ivi, parte I, cap. 13 (la razionalizzazione di Spannfuss è descritta a p. 207 dell’edizione italiana). 177  «[Pinneberg] si ritrova in una stanza enorme; una parete è tutta grandi finestre. Da quella parte c’è una scrivania ciclopica su cui non posa che il telefono. E un lapis ciclopico. Neanche un foglio di carta. Nulla. A fianco della scrivania una sedia vuota. […] Giacché il signor Lehmann siede soltanto pro forma su quella sedia: in realtà dovrebbe stare sull’ultimo gradino di una altissima scala» (ivi, parte I, cap. 3). Nel finale del libro si scopre peraltro che anche il temibile Lehmann è stato licenziato. 178  Bruno Revel, Avvertimento del traduttore, in Fallada, E adesso, pover’uomo? cit., pp. 7-10, qui p. 10. Nato a Bergamo nel 1895 in una famiglia valdese, Revel

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dernità, i romanzi di questi anni rileggono dunque anche il tema goethiano della “partita doppia”, mostrando quanto enorme sia ormai la distanza dalla morale borghese del secolo precedente – o forse, più crudamente, rivelando quanto questa morale sia sempre stata patrimonio di chi si trovava dalla parte dei Werner e dei Lehmann, non dei piccoli uomini come Pinneberg. 4.2. Arredamento e doxa impiegatizia Il successo internazionale del Kleiner Mann è attribuibile tuttavia solo in parte al quadro storico che Fallada riesce a disegnare. Sono i personaggi, gli ambienti, i dialoghi che sa trasportare sulla pagina scritta a farlo apparire ai contemporanei come un autore in grado di rappresentare in modo nuovo il presente, con i suoi stati d’animo e i suoi conflitti. Revel gli riconosce la capacità di costruire un «dialogo vivacissimo e immediato», una trama che «sembra che corra da sola», e soprattutto quella che a suo parere è «la vera dote di Fallada, e cioè la sua capacità di far vedere i personaggi “dal di dentro” e di crearli attraverso i loro discorsi»179. La novità dello stile sachlich si manifesta poi soprattutto nelle descrizioni – rarissime, e fatte come didascalie teatrali: «Atrio della stazione. Scalone. Distributore automatico dei biglietti d’ingresso», oppure: «Secondo cortile a destra. Al pianterreno: Direzione. Una targa dice: “Non si assume personale”. Un’altra: “Entrare senza sonare”. E Pinneberg entra senza sonare. Una tramezza. Dietro la tramezza cinque macchine da scrivere…». Più spesso gli ambienti sono creati, come i personaggi, dai loro stessi discorsi, sono visti attraverso i loro occhi: ne è un esempio l’appartamento di Ducherow dove la coppia va a vivere all’inizio della storia, descritto non dal narratore al momento del loro arrivo ma prima, durante il viaggio in treno, attraverso le parole di Pinneberg che ne parla alla moglie impacompie studi di filosofia laureandosi con una tesi sull’idealismo tedesco. Quando inizia la sua collaborazione con la medusa Mondadori è stato appena incaricato dell’insegnamento del tedesco presso l’Università Bocconi di Milano, dove è già docente incaricato per il francese. 179  Si vedano i già ricordati pareri di Revel sui romanzi falladiani in Albonetti, Non c’è tutto nei romanzi cit., in particolare alle pp. 253 e 258.

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ziente. Nei ritratti degli interni domestici Fallada dispiega tutta la sua immaginazione sociologica: nessun elemento è fine a se stesso, bastano un odore, un colore, il ricciolo di un mobile a far comprendere al lettore se ci troviamo in una casa proletaria, borghese, o di aristocratici decaduti. La scena in cui Ciuffetto si lamenta con il marito per i mobili troppo decorati della nuova casa è la condanna di un intero mondo: un mondo in cui il mobilio era spolverato dalla servitù, mentre adesso, per una giovane sposa moderna che non ha tempo di fare le pulizie ma è giustamente preoccupata dell’igiene, la massima aspirazione sono mobili semplici, lineari, senza inutili fronzoli180. Elementi di questo tipo – che ritroveremo anche in molta letteratura italiana degli anni successivi – rappresentano un vero e proprio codice, che per i contemporanei di Fallada era facile decifrare. Una delle scene chiave del romanzo, nella quale come in un concertato operistico vengono fuori le voci (ovvero i caratteri) di tutti i personaggi, ruota non a caso intorno all’acquisto di un pezzo d’arredamento181. Nel corso delle loro passeggiate per la città Pinneberg e Ciuffetto hanno spesso avuto occasione di fermarsi di fronte alle vetrine, e a una in particolare che fa mostra di una bella pettiniera da signora. Pinneberg vorrebbe acquistarla per la moglie con il primo stipendio di Mandel, ma non avendo contrattato la cifra col suo principale si accorge troppo tardi che questa ammonta ad appena centosessanta marchi, praticamente l’intero costo del mobile. Non importa: lo acquisterà lo stesso. Per quasi tre pagine il narratore ci fa entrare nello stato d’animo di dubbio e bisogno di rivalsa che soverchia Pinneberg, e che è, «a guardar bene, un clima di disperazione: quel clima nel quale si ruba, si uccide, si partecipa ad una sommossa. In questa atmosfera speciosa Pinneberg, invece, non compra che una pettiniera; ma, in fondo, è la stessa cosa!». Deciso, Pinneberg entra nel negozio, quasi aggredisce il commesso che non vuole vendergli la singola pettiniera, pretende la consegna immediata della merce fuori dall’orario di lavoro: vuole che il mobile arrivi a casa la sera stessa, vuole che la sua Ciuffetto vi si spec180 Fallada, 181 

E adesso, pover’uomo? cit., parte I, cap. 3. Ivi, parte II, capp. 6-8 (capp. 7-9 dell’originale).

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chi, e più ancora che lo faccia davanti al suo collega Heilbutt, che proprio quel giorno è atteso per cena. L’impiegato vessato crede insomma di rifarsi dell’umiliazione umiliando a sua volta, e sfoga il desiderio di “essere padrone” nell’acquisto di oggetti che mascherano appena il desiderio di possedere gli esseri umani (la moglie che si specchia). Segue la scena in cui Pinneberg si accorda con un facchino perché lo aiuti a trasportare a casa la pettiniera. La tensione cresce: mentre l’inquadratura si sposta su Ciuffetto e Heilbutt che lo attendono a casa, il lettore si convince che il suo ritardo sia dovuto a qualche guaio, qualcosa sarà andato storto nel trasporto, la pettiniera si sarà sfracellata sotto un tram. Invece Pinneberg arriva, conducendo trionfalmente con sé il mobile. Manca ancora lo specchio (andrà in frantumi quello?), ma miracolosamente anch’esso entra infine intatto dentro casa. Tutto insomma va come il protagonista ha sperato, la pettiniera arriva sana e salva, Ciuffetto vi si specchia, il collega Heilbutt assiste allo spettacolo. Eppure la sera, a letto con la moglie, Pinneberg non ha il coraggio di toccarla, e solo quando lei gli si avvicina dolcemente trova la forza di dirle: «sono stato un terribile idiota». Per tutto il romanzo Fallada aumenta la tensione mettendo di continuo il personaggio in situazioni potenzialmente catastrofiche, facendo temere il peggio per Ciuffo quando va a partorire, facendo temere il peggio per il bambino quando si ammala nella notte. Ma nulla interviene dall’esterno a condannare o a salvare i protagonisti: non ci sono fatti eclatanti, tragedie, morti. Persino la grande storia resta sullo sfondo e sembra non toccare il loro destino («La polizia si è di nuovo attaccata coi comunisti. O cogli hitleriani. Hanno rotto delle vetrine nel centro. Non ha visto niente?» «Niente, proprio niente»). C’è solo la prosaica vita quotidiana con le sue piccole scelte che, sommate, decidono di un’esistenza, e se Pinneberg è vittima della difficile situazione economica del suo paese molto di più lo è della propria ottusità, dell’attaccamento a una morale piccoloborghese che, come il colletto bianco che rifiuta di togliersi anche dopo aver perso il lavoro, lo sta ormai strangolando. La scena dell’acquisto della pettiniera è paradigmatica del suo modo di agire, di un desiderio di conformismo che non riesce peraltro a suscitare il rispetto

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di nessuno. Né quello di Ciuffo, saggiamente più preoccupata del bilancio familiare che della propria acconciatura, né quello del collega Heilbutt, che assiste educato allo sfoggio della moglie ma palesemente senza alcun interesse (si scoprirà poi essere omosessuale), né infine quello dell’ambiente berlinese più alla moda impersonato qui dalla madre di Pinneberg, che vedendo il nuovo acquisto se ne esce con un commento assai eloquente: «Chi adopera ancora una pettiniera, oggi che si usano i capelli corti?». Come vuole la regola base di ogni distinzione, infatti, se i parvenu possono comprarsi una pettiniera vuol dire che per i veri ricchi è ormai ora di passare a un altro taglio di capelli. A decretare il fallimento di Pinneberg è dunque soprattutto, come era stato per Biberkopf, l’acritica adesione a una visione del mondo angusta, che in questo caso coincide interamente con la doxa dell’impiegato piccoloborghese. Il punto più basso nella parabola del personaggio è il momento in cui, gettato via il colletto bianco che lo identifica socialmente, l’ex-impiegato si ferma a guardare la vetrina di una sfarzosa pasticceria nella centralissima Friedrichstraße, un poliziotto interviene per allontanarlo e, di fronte alle sue rimostranze, non esita a tirar fuori il manganello per risospingerlo a forza la tra folla. La scena dell’uomo comune spintonato tra la folla è un’altra delle “scene madri” ricorrenti nel romanzo moderno182, e infatti è proprio a questo punto che anche al protagonista si aprono gli occhi: «Solo allora Pinneberg capisce la situazione; se si confronta a questo agente dell’ordine o a questa gente bennata, a questa vetrina sgargiante […] La povertà non è soltanto miseria, la povertà è punibile, la povertà è macchia, stonatura, la povertà è sinonimo di sospetto». Siamo insomma al punto di non ritorno della storia, e il narratore ce lo segnala dando agli ultimi capitoli titoli che fanno ironicamente il verso ai lamenti del personaggio (Dove tutto è finito, oppure Dove nessuna notte è abbastanza oscura), salvo poi riaprire la narrazione (Dove tutto continua) passando il testimone nelle mani di Ciuffo. Meno abituata al benessere e meno istruita di 182  Cfr. Berman, Tutto ciò che è solido cit., in particolare il capitolo IV (Pietroburgo: il modernismo del sottosviluppo) che analizza l’evolversi di questa immagine tipicamente urbana in Puškin, Gogol’ e Dostoevskij.

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Pinneberg, Ciuffo è anche meno esposta alla retorica dominante e, grazie anche a un certo “istinto sociologico” (è convinta che l’ossessione del marito per la rispettabilità borghese sia in fondo solo l’esito dell’educazione ricevuta dal padre), mantiene un tratto di umanità con cui continua a guardare gli esseri umani per quello che sono. Alla fine del romanzo dunque, mentre Pinneberg si arrende, Ciuffo trova il modo di procurarsi una macchina da cucire, nella speranza – ancora una volta solo annunciata – di poter ricominciare a vivere grazie alla dignità del proprio lavoro. 4.3. La partita doppia di Ciuffo e Gilgi Pur essendo uno dei romanzi più acuti e originali del suo tempo nell’analizzare le dinamiche del capitalismo contemporaneo, il Kleiner Mann di Fallada non rinuncia ad alcuni dispositivi classici della narrazione romanzesca, primo fra tutti quello di far accompagnare le gesta dell’eroe dal controcanto di un “sanchopanza” che, grazie al proprio senso pratico, riesce infine a salvare dal baratro protagonista e aiutante. Il personaggio di Ciuffo è in questa chiave l’erede di una lunga tradizione, che si incarna sempre più spesso in figure femminili: anche questo è del resto un tratto di realismo del romanzo contemporaneo, che fotografa una società in trasformazione in cui le donne vanno assumendo centralità soprattutto attraverso il loro lavoro. Il pubblico femminile, da sempre quello più fedele al genere del romanzo, è seguito con attenzione dall’editore Mondadori, che in pochi anni riesce a scalare il mercato librario anche grazie a questa capacità di differenziare l’offerta editoriale andando incontro ai nuovi tipi di lettori. L’assunzione di due collaboratrici qualificate come Lavinia Mazzucchetti e Alessandra Scalero, entrambe esperte di letteratura tedesca, fa sì che in questa fase così decisiva la letteratura germanofona sia molto ben rappresentata nei cataloghi mondadoriani, tanto nelle collane più prestigiose come medusa (dove appaiono appunto i romanzi di Fallada), quanto in quelle più commerciali come i romanzi della palma (dove escono autrici tedesche e austriache di grande successo come Vicki Baum, Joe Lederer o Irmgard Keun). Resta il fatto che proprio gli elementi di realismo più apprezzati dalle giovani

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lettrici sono quelli visti con maggior sospetto dai responsabili della propaganda, dal momento che l’immagine della donna proposta nei romanzi contemporanei stranieri è quanto di più lontano si possa immaginare dal modello di femminilità operosa e obbediente propugnato dal fascismo. Le protagoniste dei romanzi che si affermano in questi anni sono giovani donne indipendenti che vivono del loro lavoro, scelgono dove e con chi vivere, se avere o non avere figli, donne che fumano, viaggiano, amministrano il proprio denaro, che sanno a chi rivolgersi per interrompere una gravidanza indesiderata e che magari hanno persino idee politiche proprie. Le forme di autocensura con cui gli editori – o a volte gli stessi traduttori – intervengono per limitarne il potenziale provocatorio, scongiurando così il rischio di un sequestro, variano per tipo di strategia e livello di invadenza, ma non di rado risultano realizzate con un’incoerenza tale da indurre più di un dubbio su quali fossero le loro effettive motivazioni e soprattutto la loro reale efficacia. La figura di Ciuffo in E adesso, pover’uomo? ci permette di formulare qualche osservazione più precisa. Qui il vero romanzo di formazione, a ben guardare, è il suo: mentre Pinneberg rimane sostanzialmente uguale a se stesso, Ciuffo passa dall’essere una ragazzina sveglia ma un po’ imbranata (all’inizio della sua convivenza col marito combina un disastro dietro l’altro) a prendere risolutamente in mano le redini della famiglia. Una delle scene che la vedono protagonista è quella in cui, per affrontare le continue ristrettezze economiche, stila un bilancio familiare che «non deve in nessun caso essere oltrepassato»183: su due pagine del romanzo troviamo così stampato un minuzioso elenco delle entrate e delle uscite mensili, comprensive di cibo, affitto, vestiario, sigarette e «imprevisti». Siamo di fronte a quella che possiamo ormai definire una scena classica del romanzo moderno, che dal dialogo sulla “partita doppia” nel Wilhelm Meister di Goethe184 arriva fino alla contemporaneità: anche qui si parla di come far quadrare il bilancio, con la differenza che il problema non compete più soltanto ai 183 Fallada, E adesso pover’uomo? cit., parte II, cap. 12 (cap. 13 dell’originale), pp. 196-197. 184 Cfr. supra, cap. I, § 3.3 e 3.4.

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commercianti dell’alta borghesia ma anche alle coppie squattrinate come i Pinneberg, e per l’esattezza alle donne. Certo i conti di Ciuffo non sono impeccabili come quelli di Werner (le uscite mensili, di 196 marchi, devono rientrare su uno stipendio di 200 marchi lordi!), ma alla fine è comunque lei a imporsi sulla gestione del bilancio, mentre il marito, a malincuore, non ha altra scelta che accettare. A sbiadire la personalità di Ciuffo, nella versione italiana, è semmai il tentativo di oscurare le sue opinioni politiche: fra i tagli che il romanzo subisce in traduzione, il più massiccio è quello del IV capitolo della seconda parte185, in cui Pinneberg attraversa il parco del Tiergarten e osserva con inquietudine crescente la moltitudine di disoccupati e senzatetto creati dalla crisi economica, ben consapevole del fatto che, per quanto lui un lavoro ce l’abbia ancora, la sua situazione non è molto più rosea. L’insicurezza si fa strada nella testa del piccolo borghese, acuita dai rimproveri interiori di una moglie che, veniamo a sapere qui, ha la tessera della SPD e simpatizza apertamente per i comunisti. È assai probabile che la soppressione del capitolo abbia una motivazione politica186, e in effetti, con l’omissione di questo passaggio, la figura di Ciuffo risulta in traduzione decisamente più ingenua di quanto non sia nell’originale. E tuttavia anche al lettore italiano del 1933 non poteva sfuggire quali fossero le sue posizioni: tessera o no, Ciuffo non nasconde le sue idee quando cerca di convincere il marito ad allearsi coi colleghi contro il loro datore di lavoro, o quando, esasperata dalle vessazioni che il marito deve subire, sbotta che farebbero meglio a votare per i comunisti187. Se dav-

vero il taglio ha una ragione di opportunità politica, insomma, la sua efficacia appare piuttosto dubbia. Vero è che si tratta di un intervento del tutto in linea con quelli che troviamo in altri romanzi tradotti dello stesso periodo, dove gli elementi problematici vengono soppressi solo se formulati in modo esplicito o se collocati in punti troppo visibili (ad esempio i titoli dei capitoli), ma restano sostanzialmente intatti laddove risultano intessuti nella trama della narrazione188. Come ammettono gli stessi redattori-censori, del resto, non è facile sradicare un elemento singolo da un romanzo ben costruito, in cui «tutto è ingranato e addentellato»189. Gli interventi di controllo si fanno più invasivi quando a subirli sono libri considerati di qualità inferiore e per giunta destinati a finire nelle mani delle giovani lettrici, ritenute più facilmente suggestionabili190. I romanzi di Vicki Baum, Irmgard Keun, Joe Lederer o Gina Kaus, esponenti del cosiddetto “rosa weimariano” che Mondadori pubblica nella palma, subiscono ad esempio rimaneggiamenti vistosi, omissioni di passaggi decisivi o aggiunte di happy ending che non di rado snaturano completamente le trame. La Neue Frau, la donna moderna metropolitana, risulta così molto meno esplosiva nelle traduzioni italiane191, spesso realizzate, peraltro, da autrici che avevano a loro volta cercato nuove strade per la scrittura femminile: fra quelle reclutate nella palma ritroviamo ad esempio Barbara Allason, che oltre dieci anni prima aveva esordito con un romanzo dedicato ai tentativi di emancipazione di una giovane donna tra l’Italia e la Germania192. I tre romanzi tradotti da Allason per la palma (Elena Willfüer, stu-

185  Si tratta del capitolo intitolato Pinneberg geht durch den kleinen Tiergarten, hat Angst und kann sich nicht freuen [Pinneberg attraversa il Kleiner Tiergarten, ha paura e non è contento]. Per un elenco preciso dei tagli presenti nella prima traduzione cfr. Natascia Barrale, Le traduzioni di narrativa tedesca durante il fascismo, Carocci, Roma 2012, in particolare alle pp. 227-275. 186  Così ipotizza Mario Rubino nella Nota di accompagnamento alla sua ritraduzione del romanzo, che include anche i passi soppressi nella prima edizione italiana (cfr. Hans Fallada, E adesso, pover’uomo?, Sellerio, Palermo 2008, pp. 565-577). 187 Fallada, E adesso, pover’uomo?, Mondadori, Milano 1933, rispettivamente parte I, cap. 8 («“Io” fa Ciuffetto pensosamente “parlerei coi miei colleghi. Forse li avrà minacciati anche loro. Se state assieme e tenete duro, tutti e tre, non può mica cacciarvi in blocco”») e parte II, cap. 12 («“[…] Lo so io per chi voteremo!” “E per chi, di grazia? Forse per comunisti?” “Si capisce!”». Nell’originale il passaggio si trova al cap. 13, per via del taglio di cui sopra).

188  Qualcosa di analogo accade ad esempio nella traduzione di Fabian, dove le allusioni all’omosessualità di alcuni personaggi vengono eliminate dai titoli dei capitoli ma conservate nel testo (cfr. Biagi, Modernità per moralisti cit.). 189 Albonetti, Non c’è tutto nei romanzi cit., p. 413. 190  Secondo un’opinione all’epoca diffusa, infatti, non sono le trasformazioni sociali bensì i «romanzi esotici» che hanno fatto conoscere alle donne, «anche alle giovani fanciulle, l’apologia della sterilità nell’amore, hanno messo le complesse, sottili, squisite finezze afrodisiache delle artificiose complicazioni sensuali e sentimentali alla portata di tutte le intelligenze. Il senso tradizionale della casa e della famiglia, radicato e saldo nel cuore della donna italiana, sembra qua e là destinato a sparire […]» (Paolo Ardali, La politica demografica di Mussolini, Mussolinia, Mantova 1929, p. 33). 191  Cfr. Barrale, Le traduzioni di narrativa tedesca cit., pp. 75-87. 192  Il romanzo Quando non si sogna più, su cui cfr. supra, cap. I, § 5.3.

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dentessa in chimica di Vicki Baum, La signorina Giorgio e Storia di una notte di Joe Lederer) vengono ritoccati per scongiurare il rischio di un sequestro, eliminando di qua un aborto – divenuto reato per il governo fascista dal 1930, e punibile con la reclusione fino a quattro anni –, di là un suicidio. È difficile valutare col senno di poi in che misura romanzi del genere potessero mantenere il loro potenziale di rottura dopo tali trattamenti, eppure anche in questi casi è necessario considerare che la loro forza non risiedeva interamente in questo o in quell’episodio, quanto in una rappresentazione complessiva della modernità comunque dirompente per le lettrici degli anni Trenta. Una modernità che certo non era solo decadenza, se per la prima volta permetteva anche a una donna di vivere del proprio lavoro, di liberarsi di un padre oppressivo o di un marito violento. In Gilgi, una di noi di Irmgard Keun, uscito nel 1934 nella traduzione di Lina Ricotti, spariscono ad esempio il tentato aborto della protagonista e la scena in cui un giovane padre stermina col gas la propria famiglia che non sa più come mantenere: il taglio contribuisce indubbiamente a indebolire il romanzo, ma non compromette il percorso di liberazione della dattilografa Gilgi, una ventunenne che si mantiene da sola, che sa come tenere a bada le avances di un principale troppo invadente e che coi soldi che guadagna tiene in affitto “una stanza tutta per sé” all’insaputa dei genitori («La paga lei, è sua»193). Per difendere un’indipendenza faticosamente conquistata, Gilgi sarà pronta persino a rinunciare al suo amato Martin (perché dal suo amore «non deve venir fuori una tragedia alla Strindberg»194) e a saltare su un treno per seguire l’amica Olga a Berlino, dove, incinta e senza un soldo, conta in un modo o in un altro di ricostruirsi una vita. Anche in questa storia troviamo elementi della più classica tradizione romanzesca – la protagonista orfana che affronta 193  Irmgard Keun, Una di noi, tr. di Lina Ricotti, Mondadori, Milano 1934, p. 10 (ed. orig. Gilgi, eine von uns, Deutsche Verlags-Aktiengesellschaft Universitas, Berlin 1931). 194  Nella traduzione dell’epoca il riferimento allo scrittore svedese è però eliminato («diventerei sempre più nervosa, più debole, e gli sarei a carico… oh, Pit, il mio bell’amore non deve trasformarsi in un dramma…», ivi, p. 88). Anche di questo romanzo è stata recentemente pubblicata una nuova traduzione integrale, a cura di Annalisa Pelizzola (Gilgi, una di noi, L’Orma, Roma 2016).

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con le sue sole forze ogni avversità, l’amore romantico che travolge la figura apparentemente più refrattaria ai sentimenti –, innestati però su un nuovo contesto sociale che parla la lingua sconnessa della città, fatta di dialetto (stavolta è quello di Colonia), canzoncine di moda, annunci, slogan pubblicitari. Keun era un’ammiratrice di Döblin ed era stato lui a incoraggiarla verso la scrittura, ma come accade anche in Berlin Alexanderplatz la versione italiana conserva assai poco della stratificazione linguistica dell’originale. Dal romanzo tradotto spariscono insomma gli elementi più innovativi, sia sul piano della narrazione sia su quello dello stile: in cosa consiste dunque la sua tanto celebrata modernità, ammesso che ne resti qualcosa? Per esempio nella vicenda dell’emancipazione di Gilgi, che non passa soltanto per il suo diritto a esercitare un’autonomia sul proprio corpo (argomento su cui i censori erano evidentemente ipersensibili), ma anche per il diritto a guadagnare e gestire il denaro: Gilgi scrive; nota in un taccuino: “Entrate-uscite”. Bisogna essere ordinati, specialmente quando si tratta di denaro. «Animuccia da bottegante…» dice Olga quando Gilgi, qualche volta, si rompe la testa, come fa ora, per ricordarsi come ha speso cinquanta pfennig. Olga non ha mai la più pallida idea di come ha speso i suoi soldi. Manca di sistema e di capacità distributiva. Quando Gilgi pensa alle finanze di Olga le gira la testa. Quando la sente parlar di denaro le viene il mal di mare. “Entrate-uscite”195.

Ancora una variazione sul tema della partita doppia: il lessico ha un’impennata di prosaicità («capacità distributiva», Einteilungsvermögen) e, come nel romanzo di Fallada, di nuovo sono le donne a preoccuparsi del bilancio. Anzi qui sono addirittura loro che insegnano agli uomini come farlo: «Devi imparare a tenere i conti, Martino. Devi abituarti. Notare le entrate e le uscite», comanda Gilgi; e va a prendere un quadernino che appende con un piccolo nastro accanto allo scrittorio. Martino non può vederlo senza rabbrividire. Si rifiuta196. 195 Keun, 196 

Una di noi cit., p. 22. Ivi, p. 47.

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Tutto il romanzo è narrato con questo tono di ironica condiscendenza, riservato soprattutto agli uomini (e agli uomini molto sicuri di sé197), fino al raggiungimento di quella che nel mondo moderno è forse l’unica reale possibilità di formazione: la presa di coscienza, a cui anche l’individualista Gilgi arriva quasi suo malgrado, di essere comunque parte di una «grande compagine», rispetto alla quale non esiste nessun «fuori»198. Per quanto nei romanzi tradotti venga impedito alle donne di abortire e agli uomini di suicidarsi, insomma, quella che emerge in essi è finalmente la rappresentazione di una modernità concreta che per il contesto italiano degli anni Trenta costituisce comunque una conquista enorme. La rappresentazione della donna economica resta intatta nelle traduzioni anche per il suo ambiguo legame con la cultura fascista dell’epoca: che le giovani imparassero l’economia domestica era un argomento predicato anche dall’educazione di regime199, e benissimo se grazie a queste doti, come Ciuffo, salvavano in extremis la famiglia – ma come evitare che questa autonomia le portasse invece a concludere, come Gilgi, che tutto sommato potevano cavarsela bene anche senza un uomo? L’insicurezza suscitata dalla circolazione di idee del genere emerge immediatamente se si osserva come queste stesse donne vengono dipinte, con autentico smarrimento, dai giornalisti e dagli scrittori italiani che in questi anni continuano a inviare le loro corrispondenze da Berlino200. Non sembra che siano stati fatti molti passi avanti dai tempi in cui Borgese ritraeva stupefatto la “vergine Annetta” che si pagava la birra da sola: vent’anni dopo il suo allievo milanese Guido Piovene, inviato in Germania 197  Si veda per esempio la comica scena in cui Gilgi manipola il suo principale facendo convergere su Olga le sue fastidiose attenzioni e lasciandogli credere di essere lui a volere così (ivi, pp. 12-13) o la sua invettiva contro «i vecchi che vogliono foggiarsi secondo i tempi nuovi» (p. 38). 198  Ivi, p. 89. 199  «La disciplina civile comincia dalla disciplina familiare», recita il Decalogo delle Piccole Italiane, e l’economia domestica è uno degli insegnamenti caratteristici degli Istituti Femminili creati dal fascismo (cfr. Piero Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica della donna e della famiglia durante il fascismo, Guaraldi, Firenze 1975, pp. 48-52). 200  Tra gli altri Paolo Monelli, Corrado Alvaro, Pier Maria Rosso di San Secondo e Guido Piovene, autori di reportage che influenzano profondamente l’immagine della Germania in questi anni (cfr. Rubino, I mille demoni della modernità cit., pp. 9-40).

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come corrispondente per l’«Ambrosiano», continua a raccontare con sgomento delle donne tedesche che adesso hanno ottenuto persino il diritto di voto. I nazisti si avviano a prendere il potere e già organizzano manifestazioni antisemite di massa, ma agli occhi di Piovene, e di molti altri inviati come lui, il più grave pericolo della modernità tedesca continuano ad essere loro: le ragazze che sanno montare una tenda meglio di chi ha fatto il soldato201. 5. Scene di vita moderna 5.1. L’architettura di Nessuno torna indietro Cercarsi un lavoro, parlare di soldi, cambiare città, far quadrare il bilancio familiare, essere solidali o in competizione coi colleghi, comprare mobili più moderni; e poi raccontare tutto questo con un linguaggio concreto, con dialoghi rapidi e spezzati, descrivendo gli ambienti tramite gli occhi dei personaggi, senza fermarsi su un solo carattere, mescolando dialetti, gerghi, pubblicità, i luoghi comuni che tutti ripetono e le parole nuove della tecnologia: sono gli ingredienti indispensabili dei romanzi di successo degli anni Trenta, che grazie alla potenza di fuoco di Mondadori riescono ormai a raggiungere un numero vastissimo di lettori e lettrici. Collane come medusa e la palma fanno arrivare le novità editoriali ben al di là del circuito ristretto dei letterati di professione, rendendo sempre meno rilevante la provenienza culturale degli autori: si legge un libro perché è “nuovo”, “moderno” – le fascette pubblicitarie vi insistono –, non perché americano o svedese o tedesco. Nel momento in cui la letteratura weimariana arriva tradotta in Italia, non è insomma più necessario conoscere il tedesco o aver vissuto in Germania per restarne affascinati, e i suoi effetti si cominciano a intravedere anche in scrittori più giovani che non hanno mai avuto direttamente a che fare con quel mondo. 201  Cfr. gli articoli di Piovene pubblicati sull’«Ambrosiano» del settembre 1930: Vita nella foresta (17 settembre 1930, p. 1); Berlino, nuova e antica (21 settembre 1930, p. 1) e Berlino nascosta (24 settembre 1930, p. 1).

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Nel diffondere il nuovo tipo di romanzo, Mondadori ha cura di non dedicarsi soltanto agli stranieri, ma di attrarre anche, attraverso i suoi consulenti, gli autori italiani che appaiono più promettenti sia in termini di qualità letteraria che di vendite. Tra questi, alla metà degli anni Trenta, conquista alla propria casa editrice una giovane narratrice che sembra avere tutte le carte in regola per replicare, in chiave italiana, i successi di Fallada e Baum: Alba de Céspedes, già autrice di due raccolte di novelle (L’anima degli altri e Concerto) e del «romanzo sportivo» Io, suo padre202. De Céspedes, cresciuta bilingue in una famiglia italo-cubana di alta estrazione sociale e politicamente progressista, ha una formazione decisamente singolare rispetto ai percorsi degli scrittori suoi coetanei che abbiamo incontrato fin qui. Sposatasi a soli quindici anni per ottenere la cittadinanza italiana, divenuta madre a diciassette, separatasi a diciotto, non segue alcun corso di studi regolare ma possiede una cultura vastissima, soprattutto letteraria, e il contesto in cui vive a Roma le permette di entrare in contatto con un ambiente internazionale vivace e impegnato. La sua biblioteca e i suoi taccuini testimoniano una grande ricchezza di letture, fatte spesso in lingua originale, che ai classici italiani ormai acquisiti al canone (Manzoni, Verga, Serao, Deledda, Svevo) affiancano i nomi di romanzieri come Huxley, Proust, Mansfield, Austen, le sorelle Brontë e quello dello scrittore da lei in assoluto più amato, Dostoevskij203. La sua formazione letteraria è dunque quella di un’autodidatta che si orienta sul gusto del tempo più che sull’ortodossia scolastica, e la libertà di queste letture giovanili è l’humus in cui prende

forma una scrittura originalissima, che molti anni dopo farà dire a Montale «la signora De Céspedes, che scrive bene, ha tutto il fascino degli scrittori che scrivono male»204. Nessuno torna indietro, il romanzo destinato a Mondadori, viene pubblicato nel 1938 e sembra realizzare alla perfezione quella sintesi di leggibilità e qualità letteraria che doveva essere la cifra caratteristica della casa editrice. Oltre al grande successo di vendite, dovuto anche a un’energica campagna pubblicitaria205, il romanzo ottiene infatti riconoscimenti positivi da parte dei critici, i quali – non senza qualche nota di virile condiscendenza verso la “giovane scrittrice” – ne riconoscono le doti narrative e ne auspicano ulteriori prove. È la costruzione del romanzo ad attirare la maggior parte delle lodi e delle perplessità: riprendendo lo schema dei destini femminili a confronto, frequente in autrici come l’amata Jane Austen e già reinterpretato in Italia da Barbara Allason con Quando non si sogna più206, de Céspedes moltiplica la serie dei personaggi arrivando a definire i caratteri di ben otto figure, tutte giovani studentesse del collegio romano Grimaldi. Si tratta di un elemento che viene messo fortemente in risalto già nel confezionare il libro: la bandella pubblicitaria della prima edizione sottolinea la vastità dell’intreccio e la molteplicità dei personaggi come tratti che dovrebbero di per sé differenziarlo dall’autobiografismo tipico dei romanzi femminili, e la sovraccoperta, scelta dall’autrice dopo aver rifiutato l’immagine di una donna per strada da sola, rappresenta intorno a un tavolo tutte e otto le protagoniste207. Silvio Benco, che già abbiamo incontrato nelle vesti di entusiasta recensore di Svevo

202  Per la biografia dell’autrice rimando ad Alba de Céspedes, Romanzi, a cura e con un saggio introduttivo di Marina Zancan, Mondadori, Milano 2011 (cfr. in particolare la Cronologia alle pp. LXIII-CXLV). Il primo esperimento di de Céspedes con la narrazione lunga (Io, suo padre, Carabba, Lanciano 1935) è un romanzo ambientato nel mondo della boxe, con il quale l’autrice partecipa al concorso letterario indetto dal CONI in occasione delle Olimpiadi di Berlino, promosse dalla Germania nazista (su questo testo, non incluso nel Meridiano, cfr. Ulla Åkerström, La prospettiva politica in Io, suo padre di Alba de Céspedes, «Italianistica scandinava». Atti del VI Congresso degli Italianisti scandinavi, Lund, 16-18 agosto 2001, Lund 2003, pp. 227-236). 203  Elisa Merlo, La biblioteca di Alba de Céspedes, «La fabbrica del libro», X, 2, 2004, pp. 41-47. A proposito di Dostoevskij l’autrice del saggio riporta alcune testimonianze di de Céspedes, riferite in particolare a L’idiota e a Delitto e Castigo.

204  E.[ugenio] M.[ontale], Letture. De Céspedes, «Corriere della Sera», 12 febbraio 1953 (poi in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1996, pp. 1502-1504). 205  «Non si conosce, nella recente editoria italiana, un successo che sia soltanto paragonabile a quello ottenuto dal romanzo Nessuno torna indietro di Alba de Céspedes» scrive Mario Missiroli su «Il giornale d’Oriente» del 30 dicembre 1939. Grazie anche alle positive recensioni ricevute – ne scrivono con favore, tra gli altri, Silvio Benco, Giulio Caprin, Lorenzo Gigli, Goffredo Bellonci e Maria Borgese – il romanzo esaurisce la prima edizione in una settimana, arrivando a vendere quasi ventimila copie nel giro di un anno (cfr. Decleva, Arnoldo Mondadori cit., p. 231). 206 Cfr. supra, cap. I, § 5.3. 207  Marina Zancan, Notizie sui testi: “Nessuno torna indietro”, in De Céspedes, Romanzi cit., pp. 1611-1629 (p. 1611).

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nonché traduttore di Goethe per la biblioteca romantica di Borgese, recensisce il romanzo soffermandosi con particolare interesse proprio sulla sua costruzione, e osserva che de Céspedes porta nel romanzo anche il coraggio di un assunto difficilissimo: giacché determinare artisticamente otto donne, saperle aggruppare, e poi anche isolare ciascuna, e vivere in ognuna di esse con una diversa proiezione di piano intellettuale, è un’audace acrobazia che perfino a un consumato romanziere farebbe spavento. La de Céspedes è bravissima […]208.

Osservazioni analoghe si leggono in una recensione che esce sul «Leonardo» nel maggio del 1940, quando il romanzo è già arrivato alla tredicesima edizione: La De Céspedes – ed è questo il motivo più interessante del romanzo – ha saputo abilmente dar vita ad otto creature che vivono ciascuna intensamente, e tutto questo senza ricorrere ad artificiosità d’architettura, a smodate indagini psicologiche, a giuochi d’immaginazione ed a particolari coloriture di pagina209.

Sono le stesse personalità delle ragazze, tratteggiate «con maestria che ricorda talune belle pagine di Italo Svevo»210, a costituire l’intelaiatura del romanzo, che vive nello sviluppo e nell’intreccio dei loro destini. Per i lettori contemporanei, insomma, Nessuno torna indietro punta nella direzione di quel romanzo multifocale che nei dibattiti degli anni precedenti era stato chiamato “romanzo collettivo”, un esperimento per molti aspetti analogo a quello tentato da Déttore con Quartiere Vittoria sotto i buoni auspici di Valentino Bompiani. Ma l’investimento di Mondadori su de Céspedes si rivelerà molto più lungimirante e più capace di intercettare l’interesse del nuovo pubblico, anche in forza di una scrittura che riesce a mantenersi nitida pur non rinunciando a sfruttare le risorse formali del romanzo contemporaneo più ardito. 208 Silvio Benco, “Nessuno torna indietro”, «Corriere padano», 1° febbraio 1939, p. 3. 209 Giovanni Pischedda, Alba de Céspedes. Nessuno torna indietro, «Leonardo», XI, 5-6, maggio-giugno 1940, pp. 170-172. 210  Ibid.

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5.2. Amori squattrinati e cucine all’avanguardia Non una, dunque, non quattro, ma otto giovani donne di fronte all’esperienza della modernità. Nel delinearne i caratteri, l’autrice sceglie di farle provenire da contesti sociali e geografici diversi, quasi a voler tracciare attraverso di esse un campionario completo delle possibilità dell’epoca. Emanuela è una ricca ragazza borghese, mandata in collegio dai genitori dopo aver avuto una figlia da un pilota fiumano morto in un incidente (lei la notizia del decesso l’ha appresa da un trafiletto di giornale: «Accanto c’erano i nuovi prezzi del grano, sotto la notizia dell’arrivo in Italia di Jeanette Mac Donald»211). Silvia, la più versata negli studi, proviene invece da una famiglia calabrese di bassa estrazione sociale, e sconta il successo intellettuale col continuo rimprovero di non essere abbastanza femminile («non sembra nemmeno una donna»212). Xenia non è né ricca né brillante, ma non per questo ha meno desiderio delle sue coetanee di conquistarsi un’indipendenza, e da sola fronteggia le difficoltà della vita metropolitana. Anna, figlia di possidenti pugliesi, desidera invece soltanto sposarsi, tornare al suo paese d’origine e occuparsi della tenuta di famiglia. A queste quattro figure principali se ne affiancano altre quattro, a cui nel romanzo viene dedicato meno spazio ma che narrativamente risultano altrettanto importanti: Augusta, studentessa sarda di qualche anno maggiore delle altre, teorica di un mondo senza uomini e 211 Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano 1938, p. 113. Salvo diversa indicazione si cita sempre dall’edizione originale, che differisce in molti passi da quelle pubblicate in seguito. A partire dall’immediato dopoguerra, e segnatamente per l’edizione del 1966 destinata agli oscar Mondadori, de Céspedes rielabora infatti il romanzo in maniera radicale, con l’intenzione di alleggerirne la struttura e di modernizzarne il linguaggio (cfr. Zancan, Notizie sui testi cit., in particolare da p. 1619). Ciò comporta l’eliminazione di quasi tutti i riferimenti al fascismo e in generale al contesto degli anni Trenta (sparisce ad esempio il saluto romano nella scena in cui Silvia si immagina la sua seduta di laurea; la Casa del Fascio diventa un Municipio; Silvia ottiene la sua prima cattedra a Pisa anziché a Littoria…), ma determina anche, come vedremo attraverso qualche esempio testuale, la semplificazione stilistica di molti passi. Nel dopoguerra Nessuno torna indietro verrà ripubblicato da Mondadori nella collana i libri del pavone, che ristampa anche i romanzi di Fallada, Baum, Dos Passos e Hemingway. 212  Ivi, p. 139.

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caparbiamente dedita alla scrittura di romanzi e racconti “vecchio stile” che non trovano mai la strada della pubblicazione; Valentina, compaesana di Anna gravata però da una situazione familiare di povertà e violenze; la spagnola Vinca, innamorata di un giovane che la lascia per andare a combattere nella guerra civile e che sposerà poi un’altra donna; e infine Milly, gracile pianista milanese che coltiva una relazione platonica con un organista cieco e che, in una sorta di riscrittura della vicenda goethiana di Mignon e dell’arpista, morirà giovanissima di malattia. Alle figure delle otto ragazze andrebbe poi aggiunto un nono personaggio femminile, anch’esso paradigmatico di un nuovo modo di vivere nella modernità: quello di Suor Lorenza, confidente delle ragazze e poi rettrice del collegio, ossessionata da un bisogno di controllo che finisce per ritorcersi contro di lei e che sembra preconizzare il destino di autodistruzione a cui va incontro il regime fascista213. L’incontro con la modernità, intesa come accesso alla vita adulta e possibilità di autodeterminarsi, avviene per ciascuna di queste figure in una fase e in una forma diverse, spesso attraverso una di quelle scene topiche che abbiamo imparato a conoscere dai romanzi stranieri dell’epoca. Una di esse, che de Céspedes declina in modo del tutto nuovo e originale, è ancora una volta quella che abbiamo definito della “partita doppia”214, nella quale i personaggi si confrontano col problema molto prosaico di sbarcare il lunario. Nei romanzi di Fallada e Keun, come abbiamo visto, a tenere i cordoni della borsa sono sempre più spesso i personaggi femminili, a conferma di come il rapporto con il denaro sia ormai gestito in condizione di sostanziale parità. In Nessuno torna indietro a fare il calcolo delle entrate e delle uscite è 213 Recensendo il volume per la sua rassegna di letteratura femminile, Maria Borgese osserva come il tema comparisse anche in diversi film dell’epoca dedicati all’educazione delle giovani donne (Maria Borgese, Alba de Céspedes, “Nessuno torna indietro”, «Nuova Antologia», LXXIV, 1616, 16 luglio 1939, pp. 232-235). Tra gli studi che hanno analizzato il microcosmo coercitivo del pensionato, inteso come rappresentazione in scala dello stato fascista, vedi De Grazia, Le donne nel regime fascista cit., pp. 308-309, ed Ellen Nerenberg, Prison Terms. Representing Confinement During and After Italian Fascism, University of Toronto Press, Toronto 2001. Sul tema del controllo nella letteratura di questi anni cfr. anche infra, cap. III, § 7 e § 8. 214 Cfr. supra, cap. I, § 3.3, e cap. III, § 4.3.

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invece di nuovo un uomo, ma posto stavolta in una condizione nettamente subalterna: Rideva e poi proseguiva serio: – Rifacciamo i conti, Emanuela? […] Cinquecento la casa… – e seguitava addizionando, ma sempre concludeva: – Anche rinunciando tu al salotto e io alle partite di calcio e alle sigarette, non possiamo fare a meno di duemila lire. E non possiamo privarci di queste cose, dopo poco la vita in comune ci diverrebbe insopportabile. E allora duemila cinquecento. […] E se poi mi fa male un dente e devo farmelo tirare? E se tu vai a farti la permanente? Ti prego, Emanuela, non mi ripetere che tu hai il tuo denaro, appunto per questo io devo avere il mio215.

A pronunciare queste battute è Andrea, lo studente di lettere con cui Emanuela inizia una nuova storia d’amore a Roma senza però rivelargli di avere già una figlia. Emanuela è ricca e autonoma, ma Andrea, pur non disponendo di grandi risorse, pretende di essere lui a mantenere la famiglia una volta che si saranno sposati. Questo scambio di battute, inserito in una scena romantica in cui i due fidanzati fanno programmi per la loro vita insieme, insinua un’ombra nell’idillio: il giovane non sembra accettare di buon grado l’indipendenza economica della sua futura compagna, ed Emanuela ha il presagio che in fondo anche lui desideri solo una moglie da tenere in casa, «elegante sì, bella sì, ma chiusa là dentro con sua madre, ad aspettarlo, ricamando»216. L’ombra si fa ancora più cupa alla fine del romanzo, quando Emanuela, di fronte alle nozze imminenti, non può più nascondere la sua maternità: «Mi fai schifo», è la reazione di Andrea, deluso dalle menzogne della ragazza ma soprattutto incapace di accettare l’idea di legarsi a «una donna con un passato»217. Il personaggio di Andrea diventa così un altro dei molti ostacoli sulla strada dell’emancipazione, il prototipo dell’uomo che si sente migliore dei padri perché è più moderno e più colto, ma che di fatto obbedisce ancora alla più retriva logica patriarcale. Un ulteriore esempio di come le scene chiave del romanzo contemporaneo vengano rideclinate in Nessuno torna indietro si trova all’inizio del terzo capitolo, dove viene descritta la nuo215 

De Céspedes, Nessuno torna indietro cit., p. 166. Ivi, p. 318. 217  Ivi, p. 366 e p. 420. 216 

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va cucina moderna acquistata dai genitori di Anna. Anche in questo caso de Céspedes sembra voler ribaltare ironicamente le parti: anziché entusiasmarsi per il mobilio più igienico e funzionale, come avrebbe fatto una qualsiasi ragazza degli anni Trenta, Anna si sente a disagio in quello spazio che sembra sfregiare l’atmosfera familiare della vecchia casa di campagna, custode di valori a cui lei è ben più attaccata dei genitori: C’era, nel tinello, una mobilia novecento, le pareti erano verniciate di verde pallido, non si capiva da dove venisse la diffusa illuminazione. – Bello, eh? – fece il padre orgogliosamente. – Non m’avevate scritto niente… – No. Abbiamo voluto farti la sorpresa. Tutto viene da Bari, il diffusore l’ho portato io da Milano. – […] Deve essere costato molto. – Molto. Ma si vede, no? che è una cosa di lusso? Non è denaro buttato218.

La cucina moderna, pratica e senza fronzoli, è già uno status symbol. Utile non per la sua effettiva comodità, ma perché «si vede» che è costata un sacco di soldi, è un acquisto tanto più ridicolo nel contesto di una casa padronale pugliese, dove l’effetto stridente denuncia il desiderio dei proprietari di ostentare il loro essere al passo con i tempi. Lo sguardo analitico di de Céspedes ricorda qui certe scene di Fallada in cui non esiste spazio domestico che non venga istantaneamente soppesato dai personaggi rivelando la classe, la cultura e le aspirazioni dei suoi proprietari. E ancora una volta non si tratta di meri dettagli coloristici, ma dell’anticipazione di elementi che si chiariranno più avanti: il padre di Anna, ansioso di chiudere con il suo passato di latifondista per entrare nel mondo dell’imprenditoria, sta infatti prendendo contatto con l’ambiente finanziario milanese, nel quale aspira a inserirsi senza alcuna consapevolezza dei rischi a cui va incontro. Il personaggio – di nuovo una figura maschile – rappresenta 218  Ivi, pp. 213-214. Nelle successive riscritture del romanzo le caratteristiche della «mobilia novecento» vengono precisate meglio: si tratta di «mobili nuovi, di stile moderno, angolosi», e la luce diffusa è andata a sostituire un «vecchio lampadario» (Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano 1966, p. 131).

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dunque un altro modo ancora di non capire un mondo che sta cambiando, e dal quale, si intuisce, verrà presto stritolato. 5.3. Xenia, una donna neusachlich Ma le false promesse della modernità fascista vengono alla luce soprattutto attraverso le figure femminili, che per quanto sembrino moralmente più adeguate alla nuova epoca non incontrano poi difficoltà minori degli uomini. Il personaggio più provocatorio è in questa chiave quello di Xenia, giovane individualista che sembra saltata fuori da un romanzo weimariano e che già nel nome – uguale a quello dell’«eroina di un romanzo» che sua madre leggeva mentre era incinta219 – porta il segno del suo essere “straniera”, diversa. È una figura che ricopre una posizione particolare nell’equilibrio dell’opera (è sua, ad esempio, l’immagine che appare sulla quarta di copertina della prima edizione), nonché quella che più presterà il fianco agli attacchi dei detrattori fascisti del romanzo. All’inizio della vicenda Xenia viene bocciata all’esame di laurea e di fronte all’umiliazione di tornare a Veroli, il paese d’origine dove i genitori hanno ipotecato la vigna pur di farla studiare, decide di rubare un anello a Emanuela, di impegnarlo e di scappare con i soldi a Milano. La ricerca di un lavoro nella grande città, tuttavia, si rivela molto più complicata del previsto: – Università? Bene. Ha la laurea? – No… dicevo… – Ah! …appena iscritta, allora. Ha il liceo? – Oh, no, non appena iscritta, è proprio alla laurea che sono stata bocciata, capisce? alla laurea. – Quale facoltà? – Lettere. – Lettere… sempre lettere. Come si fa a scegliere lettere nell’epoca nella quale viviamo!... Cose più importanti ci sono… Il suo nome? – Costantini Xenia. – Costantini… Milanese?» – No. – Dica dica. Paternità maternità, dica dica. – Scriveva agitando ampollosamente il pugno che reggeva la penna. – È iscritta al Partito? 219 

De Céspedes, Nessuno torna indietro cit., p. 379.

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– Al Guf. – Ha la tessera dell’ufficio di collocamento? Ecco, anche qui la stessa cosa. Anche oggi niente. – No. – Non si può allora, noi parastatali non possiamo. Lei deve andare… E le sue referenze? – Non ho referenze. Non sono mai stata in un ufficio. Le ho detto, ho dato la laurea dieci giorni fa. – Famiglia, amici, parenti ai quali…? Xenia rispose, alzandosi: – Nessuno. Prima che l’altro la congedasse, chinò la testa, salutando; egli la guardava senza posare la penna, s’era tolto gli occhiali per guardarla220.

Grazie alla sua conoscenza del francese, e soprattutto ai suggerimenti pratici dell’amica Vandina, Xenia riesce infine a farsi assumere come commessa in un negozio di guanti. Ma la vita metropolitana potrebbe offrirle molto di più se fosse capace di coglierne le opportunità, si trova a pensare durante una cena natalizia con Vandina e due benestanti amici di lei: Si cominciò a parlare del negozio di guanti. Xenia parlava vivacemente come se fosse una cosa già sorpassata; no, no, davvero non poteva rimanere lì in mezzo alla volgarità di quella gente, e mentre parlava beveva, il vino non le piaceva, ma le piaceva il gesto del bere, il dondolìo del liquido nel bicchiere fine. Certe volte, mentre gli altri parlavano, si distraeva da loro e osservava intorno. Sì, questa è veramente festa, veramente Natale. Non le dispiaceva neppure di dover tornare al negozio del guantaio, neppure di essere lì col vestito di Vandina. L’essenziale era di esserci. Arrivare, arrivare. Bastava volere; non era già qui a bere autentico sciampagna? E gli altri a quest’ora? A Veroli, le strade sono buie, scoscese, le famiglie si riuniscono attorno al panettone che ha già il coltello infilato nella pancia, le solite facce, quell’ambiente meschino, se l’avessero vista lì sarebbero morti di rabbia. E al “Grimaldi”? Tolta Emanuela che era una vera signora e bisognava assolutamente restituirle quel denaro, le altre, tutte pezzenti che sudano sui libri221.

Questi due brevi passaggi di cui Xenia è protagonista mostrano come anche dal punto di vista stilistico il personaggio sia costruito ricorrendo allo strumentario romanzesco più attuale. 220  221 

Ivi, pp. 70-71. Ivi, p. 89.

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Il rapido colloquio di lavoro evoca nella forma e nel contesto i dialoghi brillanti dei romanzi di Fallada (apprezzatissimi nei pareri di lettura mondadoriani, come sappiamo), riuscendo in poche battute a far capire molto più di quello che dice: lavorare è tutt’altro che facile per le donne dell’Italia fascista, alle quali non basta neanche dimostrare di essere iscritte al partito. Altrettanto espressivo è il secondo passaggio, che alterna agilmente voce del narratore in terza persona e indiretto libero («no, no, davvero non poteva rimanere lì», «non era già qui a bere autentico sciampagna?»), fino a rivelare i pensieri più riposti e sgradevoli del personaggio con un rapido scarto verso il monologo interiore («le altre, tutte pezzenti che sudano sui libri»). La rete delle associazioni mentali fa riaffiorare in Xenia i ricordi dei Natali trascorsi in famiglia, dove il panettone «che ha già il coltello infilato nella pancia» lascia sinistramente intuire al lettore scenari non proprio di felicità domestica. È attraverso scene come queste che impariamo a conoscere le protagoniste del romanzo, mai descritte in modo diretto ma sempre rappresentate attraverso le loro azioni e il loro modo di interagire con gli altri222. Alba de Céspedes sa che non è più l’epoca dei «personaggi fotografati, descritti dal colore dei capelli a quello delle scarpe»: quello è il modo di scrivere di Augusta, naturalista attardata che cesella i suoi racconti come fossero «merletti a filé» e che infatti nessuna rivista vuole pubblicare, preferendole quello che l’aspirante scrittrice chiama con scherno «lo stile nuovo, certa roba strampalata di gente senza preparazione»223. 222  Stilisticamente il passo appare molto semplificato nella versione rielaborata del romanzo, in cui l’indiretto libero retrocede a discorso diretto («No, dicevano tutti, non poteva rimanere lì in mezzo alla volgarità di quella gente…») o viene isolato da trattini («– e bisognava assolutamente restituirle quel denaro –»). Sparisce inoltre l’immagine della famiglia riunita attorno al panettone “accoltellato”. 223  Ivi, pp. 160-163. Nella versione del 1938 la scena contiene numerose allusioni metaletterarie, poi eliminate dall’autrice stessa: ammiratrice di Grazia Deledda e paladina di uno stile letterario descritto come antiquato, Augusta si vede costantemente respingere da editori che preferiscono «ignobili cose futuriste» e persino la «storia piatta di una donna e tre operai» (forse un’allusione al romanzo di Bernari?). Il livore che l’aspirante scrittrice prova per il mondo circostante le permette però anche di riconoscerne i vincoli con estrema lucidità, e infatti è lei a pronunciare il famoso discorso sull’impossibilità di “tornare indietro” spesso citato come una sorta di manifesto ideologico del romanzo: «Quelle che sono rimaste, che sono passate

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Grazie anche all’uso di dispositivi stilistici come questo, la figura di Xenia viene dunque rappresentata in costante oscillazione tra la paura di un futuro incerto e il desiderio di benessere indotto in lei dalla vita metropolitana. Questa doppia pressione la spinge a diventare prima l’amante di Dino, un piccolo imprenditore dedito alle truffe, e poi del suo rivale in affari, Raimondo Horsch, che la introduce nella Milano altolocata dei “pescicani” dove, a una cena fra industriali e aspiranti tali, ricompare anche il padre di Anna. Quando poi, durante una vacanza a Nizza, conosce un giovane tennista di cui si innamora sinceramente, Xenia si accorgerà che preferisce abbandonarlo senza una spiegazione piuttosto che rinunciare al tenore di vita a cui si è ormai abituata. L’esito della sua vicenda resta incerto – il lettore la perde di vista mentre lascia in macchina la città, spingendo sull’acceleratore –, ma è interessante come questa figura, inaccettabile tanto per la morale fascista che per l’ideologia di emancipazione della cultura più progressista, venga tratteggiata senza alcun moralismo. L’autrice mette in primo piano le difficoltà oggettive che una donna semplicemente “normale” incontra nel tentativo di raggiungere una vera indipendenza intellettuale ed economica, e la falsità delle mille strade aperte che si rivelano, alla prova dei fatti, altrettante forme di sfruttamento. Xenia comprende prima delle sue compagne il ruolo decisivo giocato dal denaro («al mondo non ci sono onesti e disonesti. Ci sono poveri e ricchi»224), che finisce in effetti per avere l’ultima parola anche sul destino delle altre ragazze: per tutte l’esperienza del collegio è solo un momentaneo azzeramento delle condizioni di partenza, condizioni che tornano a imporsi prepotentemente nel momento in cui gli studi si concludono. Tra le ragazze di estrazione sociale più bassa – Silvia, Xenia, Augusta, Valentina – solo Silvia riesce a modificare il proprio destino sociale diventando insegnante225, dalle mani della madre alle mani del marito, non ci perdonano di aver visto cose nuove, nuove facce, di aver avuto la chiave della nostra stanza, uscire entrare all’ora che si vuole. E gli uomini non ci perdonano di saperne quanto loro». Almeno nella prima stesura dell’opera la sua figura risulta insomma estremamente ambigua, non solo quella di un’intellettuale velleitaria. 224  Ivi, p. 332. 225  Anche il finale della vicenda di Silvia viene in seguito rimaneggiato, con l’evidente intenzione di eliminare le allusioni troppo esplicite al periodo fascista. Nella

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mentre le altre si ritrovano a dover rinunciare all’amore (Xenia), alla realizzazione professionale (Augusta) o a tutt’e due le cose (Valentina). Emanuela decide invece di sfruttare il privilegio della sua condizione partendo in crociera con la figlia, e Anna riesce a sposarsi e a gestire a suo modo le proprietà ereditate. La costruzione del romanzo spinge inevitabilmente a guardare con maggiore simpatia le figure che tentano la carta della liberazione, che scelgono un percorso e si fanno carico delle conseguenze. «Chi può dimenticare di essere stata padrona di sé stessa?»226. E ovviamente, in questa chiave, il fallimento di Xenia è molto più avvincente del destino felice ma predeterminato di Anna. Che fosse la rappresentazione stessa di questo desiderio di autodeterminazione il principale motivo di ostilità del governo fascista nei confronti dell’opera è dimostrato dalle vicende che accompagnano, a partire dal 1941, la riduzione cinematografica affidata ad Alessandro Blasetti. Il successo del romanzo, che prometteva di aumentare ancora in seguito al film, porta infatti a una campagna intimidatoria contro de Céspedes, che è costretta a scendere a patti con il Minculpop per impedire che vengano bloccati non soltanto il film ma anche le ristampe del romanzo227. Sarà lei stessa a riscriverne il finale per lo versione originale, infatti, Silvia ottiene una cattedra in una scuola di Littoria (ivi, p. 406), elemento che fornisce l’occasione di descrivere, attraverso una sua lettera, le caratteristiche della nuova città dove «tutto è limpido, trasparente» e «nessuno ha una propria vita intima» (ivi, p. 430). 226  Ivi, p. 162. 227  De Céspedes è tenuta sotto controllo dal governo fin dal 1935, a seguito di alcune intercettazioni telefoniche in cui aveva espresso perplessità sull’imminente guerra in Etiopia, ma l’intento della polizia è inizialmente solo quello di intimidirla per spingerla a prendere la tessera del PNF, cosa che accade nello stesso anno (Ulla Åkerström, Revisione critica dell’opera di Alba de Céspedes nel centenario della nascita, in Eva Ahlstedt et al. (a cura di), Actes du XVIIIe congrès des romanistes scandinaves, «Romanica Gothoburgensia», 69, Acta Universitatis Gothoburgensis, Göteborg 2012, pp. 801-812). Nessuno torna indietro passa di fatto indenne tra i gangli della censura, che solo nel gennaio del 1940 impone la sostituzione del “lei” con il “voi”: i problemi si aggravano piuttosto in concomitanza con il progetto di realizzarne un film per il grande schermo (cfr. Decleva, Arnoldo Mondadori cit., p. 252; Guido Bonsaver, Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 153; e Jacqueline Reich, Fear of Filming. Alba de Céspedes and the 1943 Film Adaptation of Nessuno torna indietro, in Carole C. Gallucci, Ellen Nerenberg (a cura di), Writing beyond Fascism. Cultural Resistance in the Life and Work of Alba de Céspedes, Fairleigh-Dickinson University Press, Cranbury 2000, pp. 132-154).

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schermo, proponendo diverse modifiche: nelle lettere che scrive ai suoi censori si dice infatti pronta a ricondurre le sue eroine entro binari moralmente più ortodossi, a mettere in primo piano il personaggio di Anna e anche, se necessario, a eliminare del tutto quello di Xenia228. 6. Sotto controllo: il lato oscuro della modernità 6.1. Confezionare libri, condizionare lettori Il problema del controllo, che in Nessuno torna indietro compare indirettamente attraverso la rappresentazione del collegio Grimaldi e delle sue regole, è in primo piano in altri romanzi di questi anni, che sempre più spesso mettono i lettori di fronte a processi, casi giudiziari, leggi ingiuste e fanatici rappresentanti di esse. Si tratta di un tema delicato in una fase che vede le forme di censura sull’editoria irrigidirsi sempre di più, e in un contesto di grande ambiguità: come è stato più volte ricordato, almeno fino alla metà degli anni Trenta il governo non impone vincoli espliciti ma si limita a dare “indicazioni”, contravvenendo alle quali si rischia però di incorrere in sequestri e in danni di vario genere229. Le contromisure adottate dagli editori sono sostanzialmente di due tipi: nei casi di opere letterarie considerate di scarso valore e rivolte ad un pubblico generalista – i romanzi di Baum o Keun, per esempio – non ci si fa scrupolo a tagliare e persino a riscrivere le scene considerate rischiose; nei casi di romanzi pensati per un pubblico più colto, invece, la tendenza prevalente è quella di “indirizzarne” la lettura con introduzioni prestigiose o dichiarazioni autoriali, confezionando il libro in modo da evitare ogni possibile sovrapposizione tra il mondo raccontato 228 Bonsaver, Mussolini censore cit., p. 156. Il film di Blasetti si conclude in effetti con il matrimonio di Anna, ma il personaggio di Xenia non viene tagliato. 229  Rundle (Il vizio dell’esterofilia cit.) sottolinea la difficoltà di distinguere «fra ciò che veniva stabilito pubblicamente e la prassi effettiva» (p. 28), tanto più che le direttive cui gli editori dovevano scrupolosamente attenersi comparivano in documenti riservati come le “circolari”, che spesso non arrivavano mai ad essere formalizzate in leggi.

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e quello reale. Situazioni del genere riguardano sia i romanzi tradotti – per esempio il già citato Fabian di Erich Kästner, che esce preceduto da una prefazione di Massimo Bontempelli su cui ci soffermeremo tra poco –, sia i romanzi italiani – come L’uomo è forte di Corrado Alvaro, racconto distopico di un mondo dittatoriale che, come l’autore viene costretto a precisare in una nota introduttiva aggiunta in fretta e furia, andava letto come un’allusione alla Russia sovietica e non all’Italia fascista del suo tempo230. Prefazioni e note di questo genere sono spesso poco più di una foglia di fico aggiunta a testi che restano perfettamente chiari nei loro contenuti e nei loro sottintesi, ed è difficile capire se fossero gli editori a contare sulla superficialità dei censori, augurandosi che non sarebbero andati oltre i paratesti, o se non fossero piuttosto i censori a contare sulla superficialità dei lettori, augurandosi che i paratesti bastassero a condizionarli. In ogni caso, se non fosse per la loro presenza, non si spiegherebbe la grande quantità di libri apertamente in conflitto con le direttive fasciste che in questi anni vengono comunque stampati, a volte con tagli e interventi molto più blandi di quanto lascerebbe presumere una ricostruzione che non entrasse nel merito dei testi. Un esempio di questa strategia di condizionamento è già emerso a proposito della traduzione di E adesso, pover’uomo? di Hans Fallada: per scongiurare il rischio che il lettore italiano si riconoscesse troppo nelle sfortunate vicende di Pinneberg e facesse propria la denuncia sociale del romanzo, la prefazione del traduttore ricostruiva il contesto di precarietà e disoccupazione della Berlino contemporanea affrettandosi a precisare che sia «la documentazione» sia «l’ambiente» erano «tipici di quella nazione», e che dunque anche il messaggio del libro aveva «un colore locale, una fisionomia che non è nostra, […] riflessi che non ci appartengono»231. Gli argomenti sgraditi al regime si possono dunque trattare, purché sia ben chiaro che gli esempi negativi sono sempre gli altri. Un caso più esplicito di questa stessa strategia è rappresentato dalla prefazione che Valentino Bompiani fa anteporre al Fabian di Kästner, pubblicato tra i primi titoli 230 

Sul caso Alvaro vedi infra, cap. III, § 7. Avvertimento del traduttore cit., p. 8.

231 Revel,

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stranieri della sua collana letteraria. Il linguaggio utilizzato e le scene descritte, che già avevano provocato in Germania l’intervento della censura e avrebbero di lì a poco giustificato il rogo del libro nel mucchio della “letteratura degenerata”, impongono anche alla traduzione una certa prudenza: Bompiani decide perciò di affidarsi a Massimo Bontempelli, incaricandolo di presentare il romanzo come «un documento dello sfacelo della Germania di ieri, ossia prima della rinascita materiale e morale che se ne può presagire»232. Bontempelli, decisamente non un estimatore della letteratura neusachlich di cui il romanzo di Kästner è un esempio, manifesta tutte le sue contrarietà in una fulminante prefazione intitolata Romanzo apocalittico, nella quale Fabian, insieme a Berlin Alexanderplatz e a Viaggio al termine della notte, viene ricondotto a un filone di «letteratura nera» che ha il demerito di accettare senza opporsi la devastazione del mondo moderno: da tali degenerazioni, per Bontempelli, la letteratura italiana è invece «salva» grazie all’azione del fascismo, almeno laddove accetti di tener fede al suo vero compito, quello di «riinventare gli eroi»233. La prefazione, composta anche graficamente in modo da renderne evidente il senso persino al lettore (o al censore) più distratto, è uno scudo assai efficace contro i rischi di sequestro che un romanzo come Fabian poteva comportare, e verosimilmente si deve ad essa se il libro subisce ben pochi tagli nonostante la problematicità dei suoi contenuti. Nell’edizione italiana non vengono infatti toccati né la storia del tradimento 232  Lettera di Bompiani a Bontempelli del 25 marzo 1933, citata in Piazzoni, Valentino Bompiani cit., p. 134. La “rinascita” a cui Bompiani fa riferimento è quella che dovrebbe seguire l’ascesa al potere di Hitler. 233 Massimo Bontempelli, Romanzo apocalittico, in Kästner, Fabian cit., pp. IX-XIV. Opinioni analoghe vengono espresse negli articoli con cui Bontempelli prende parte alla discussione sul “romanzo collettivo”, in particolare in Verismo è disfattismo («Gazzetta del Popolo», 28 marzo 1934): «Un certo numero di odierni romanzanti e soprattutto criticanti italiani, da alcuni anni si sforzano di insegnarci, illustrarci, imporci un gusto, che è nato fuori, che sarà rappresentativo per la Germania o l’Austria o la Francia o per dovechessia e non me ne importa perché non ci riguarda […] Noi sentiamo il romanzo come poema, il personaggio come eroe: eroe del bene o del male». Sia la prefazione al Fabian che gli articoli sul romanzo collettivo saranno poi inclusi in L’avventura novecentista. Selva polemica 1926-1938. Dal “realismo magico” allo “stile naturale”, soglia della terza epoca, Vallecchi, Firenze 1938, pp. 261-264 e pp. 264-267.

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di Leda, né il racconto del suo aborto, né il suicidio di Stephan Labude; e Bompiani ottiene così un doppio risultato: presentare al pubblico italiano un romanzo «aderente alla vita»234 praticamente intatto, e insieme garantirsi protezione e pubblicità attraverso un nome prestigioso come quello di Bontempelli. Il rispetto di cui Bontempelli gode in questi anni è dovuto solo in parte alla sua attività letteraria: molto più importante, in questa fase, è la nomina dell’ottobre 1930 ad «Accademico d’Italia», titolo che campeggia infatti sotto il suo nome anche nella prefazione a Fabian e che gli assicura una relativa benevolenza da parte del fascismo235. Sono cose che gli addetti ai lavori sanno bene: «Pare che la protezione di Bontempelli, in questo momento, conti moltissimo, dovunque», scrive Alessandra Scalero in una lettera alla sorella, raccontandole di come il loro comune amico Enrico Emanuelli è stato «severamente redarguito» per aver «“detto male” della Masino»236, all’epoca compagna dello scrittore. Allo stesso modo conta la protezione degli altri accademici d’Italia, tra i quali è da annoverare fin dal settembre del 1929 il germanista Arturo Farinelli, in questi anni impegnato a sua volta in un’impresa editoriale dedicata alla letteratura straniera, la collana i grandi scrittori stranieri di utet. Come la romantica di Borgese, la collezione di Farinelli si dedica agli autori stranieri ma privilegiando i classici, e nel suo catalogo – certo anche grazie alla funzione di garanzia esercitata dal direttore – appaiono titoli che non ci si aspetterebbe di veder stampati, magari per la prima volta, proprio negli anni della dittatura. 234 Carlo Marchetti, Kästner, Fabian, die Geschichte eines Moralisten, «Orpheus» II, 1, gennaio 1933, pp. 26-27, qui p. 27. L’ammirazione per la scrittura di Kästner è unanime tra i recensori italiani, anche tra quanti non apprezzano il romanzo (cfr. Enrico Rocca, Erich Kästner, Herz auf Taille; Lärm im Spiegel; Ein Mann gibt Auskunft; Emilio e i «detectives», traduzione italiana di Lavinia Mazzucchetti; Fabian, die Geschichte eines Moralisten, «Pègaso», IV, 8, agosto 1932, pp. 253-256). 235  Almeno fino al 1938, quando ne viene espulso per la sua opposizione alle leggi razziali. Fondata nel 1926 ma divenuta operante dal 1929, l’Accademia d’Italia era stata istituita con l’intenzione di promuovere l’identificazione tra élite culturali e fascismo, nel quadro delle iniziative messe in atto dal governo per rafforzare il prestigio dell’Italia nel mondo. Tra i più illustri accademici nominati nella “Classe delle Lettere” figurano Pirandello, Marinetti, Ojetti, Papini, D’Annunzio e Ungaretti. 236  Lettera ms. di Alessandra Scalero alla sorella Liliana, da Milano, 10 novembre 1931 (Fondo Scalero, Corrispondenza).

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Un caso particolarmente interessante è rappresentato dal racconto Knarrpanti, consigliere aulico di E.T.A. Hoffmann, pubblicato nel 1938 all’interno della raccolta Il Maggiorasco e altre novelle tradotta da Barbara Allason. Siamo ormai nella fase più rigida della dittatura mussoliniana e gli uffici di censura impiegano centinaia di collaboratori, eppure nessuno si prende la briga di scoraggiare Allason, già sospettata di attività antifascista per la sua vicinanza agli intellettuali di Giustizia e Libertà237, dal pubblicare un testo che è una palese messa in ridicolo dei metodi usati dalla polizia politica. Già al tempo di Hoffmann, del resto, il racconto era stato per l’autore motivo di guai con la giustizia: attraverso il personaggio del viscido consigliere Knarrpanti, Hoffmann si era infatti preso gioco dell’allora capo della polizia berlinese Karl Albert von Kamptz, responsabile della Commissione direttissima d’inchiesta per l’indagine su associazioni eversive e altre attività demagogiche e fanatico paladino della repressione «non solo contro le azioni ma anche contro le intenzioni»238. Il racconto, che costituiva originariamente un capitolo del romanzo breve Meister Floh, era stato perciò tagliato dall’edizione a stampa con l’accusa di infrangere il segreto d’ufficio, e sarebbe rimasto sconosciuto anche ai lettori tedeschi fino alla sua riscoperta nel 1906239. Ma i censori italiani di fine anni Trenta, in genere pronti a intervenire per molto meno, considerano ormai innocuo un autore ottocentesco come Hoffmann, nonostante Allason lo presenti come un realista lontano dalle fumisterie romantiche e per questo attualissimo: nella prefazione al volume la traduttrice ne fa anzi quasi un precursore dei contemporanei berlinesi, os237  Sulla traiettoria di Allason e sul suo avvicinamento all’antifascismo cfr. supra, cap. I, § 5. 238 E.T.A. Hoffmann, Knarrpanti, consigliere aulico, in Id., Il Maggiorasco e altre novelle, tr. di Barbara Allason, UTET, Torino 1938, pp. 215-227. 239  I documenti relativi alla vicenda editoriale del racconto sono riuniti nella sezione Die Affäre des “Meisters Floh”, in Hans von Müller, Friedrich Schnapp (a cura di), E.T.A. Hoffmanns Briefwechsel, Winckler, München 1969, vol. III, pp. 215-272. Cfr. inoltre Matteo Galli, Il muscolo della fiaba, in E.T.A. Hoffmann, Fiabe, L’Orma, Roma 2014, pp. XXI-XXXVI. Il Meister Floh – pubblicato nel 1822, lo stesso anno della morte di Hoffmann – sarebbe apparso in italiano con il titolo Maestro Pulce solo nel 1944, in due traduzioni quasi simultanee curate rispettivamente da Giorgio Imperatori per Bompiani e da Giorgio Vigolo per l’editore napoletano Perrella.

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servando come la sua scrittura sia caratterizzata da «un realismo crudo, una momentaneità di impressioni che lo rendono vicino a molti dei moderni narratori»240. Allason ricorda inoltre l’esperienza privata che aveva dato origine al racconto: chiamato a far parte della commissione d’inchiesta, Hoffmann si era opposto in prima persona alle carcerazioni sommarie della polizia prussiana, contestando il fatto «che gli imputati sin dall’inizio venissero riguardati come colpevoli convinti»241. È un tema di cui Allason conosce perfettamente le implicazioni, avendo lei stessa subito più volte interrogatori e pressioni da parte della polizia fascista ed essendo da anni costretta a tradurre anche perché impossibilitata a insegnare a causa delle sue idee politiche242. Proprio all’accademico d’Italia Farinelli, direttore della collana in cui esce il suo Hoffmann, Allason deve la possibilità di lavorare e di scrivere, e infatti non negherà mai la sua gratitudine al maestro di un tempo, di cui disapprova le posizioni politiche ma che considererà sempre un uomo leale243. Casi come quello di Fabian o di questo racconto hoffmanniano fanno intuire quanto poco scontate possano essere le di240  [Barbara Allason], Introduzione a Hoffmann, Il maggiorasco cit., pp. 5-26, qui p. 22. Hoffmann è tra gli scrittori ottocenteschi che conoscono una rinnovata fortuna in questi anni: trascurato per decenni dall’accademia positivista, torna ad essere un autore di culto per la generazione di Allason, Spaini, Pisaneschi, Vigolo e Tecchi, che se ne occupano in veste di studiosi e di traduttori. «Hoffmann è destinato ad avere ora fra noi assai maggiore diffusione che non si sia immaginato: soprattutto molti giovani autori troveranno in lui la soluzione di problemi che tormentano a fondo la nostra letteratura nazionale» (Rosina Spaini Pisaneschi, Traduzioni da Hoffmann, «La Fiera Letteraria», 16 maggio 1926, p. 4). 241  Ivi, p. 22. 242  Allason subisce un primo interrogatorio da parte della polizia fascista nel 1931, per aver scritto lettere di presentazione in favore di alcuni operai licenziati in quanto comunisti. Nel marzo del 1934 viene arrestata insieme alla nipote Anita Rho e ad altri membri di Giustizia e Libertà, e rimarrà in carcere per circa un mese. Fra le traduzioni a cui lavora in questa fase sono da menzionare anche quelle di Schnitzler e Hesse realizzate per la casa editrice Slavia e per la Sperling & Kupfer, nonché la traduzione del Faust di Goethe – una delle poche realizzate in prosa – ultimata nel 1950. 243  Farinelli, ricorda Allason nelle Memorie di un’antifascista (cit., p. 156), «fu di quegli uomini che aderirono al fascismo non perché egli avesse fede in esso […] ma perché era convinto che il fascismo fosse un fatto cosmico e quasi universale […]. I suoi amici restarono i suoi amici e se compromessi e perseguitati egli ebbe sempre il coraggio di difenderli».

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namiche che portano a realizzare certe traduzioni, e quanto sia difficile capire, se non si arriva a guardare direttamente i testi, cosa ci sia dentro quell’insieme di scatole cinesi che chiamiamo sbrigativamente libri. Non è detto che l’interpretazione veicolata da una data collocazione in collana o da una prefazione apertamente ideologica sia coerente con il contenuto di un’opera, soprattutto in epoche in cui tutti i sistemi sono validi per aggirare la censura: nei casi in questione, la presenza di autorevoli fiancheggiatori del fascismo come Bontempelli e Farinelli è anzi un sicuro espediente per evitare interventi indebiti su volumi che, se sottoposti a un controllo più accurato, rischiavano di apparire decisamente poco allineati. 6.2. «Dappertutto v’è un tribunale»: immedesimarsi (o no) in Joseph K. Il timore che l’esito ultimo della modernità sia una sorta di tribunale universale, al cui controllo nessun uomo può sfuggire, è un tema con cui si confronta molta della letteratura di questi anni. Per comprenderne la portata basta evocare il nome di Kafka che, sebbene sia noto agli addetti ai lavori già da qualche tempo, è a sua volta uno degli scrittori che gli italiani iniziano davvero a conoscere solo grazie alle traduzioni degli anni Trenta. Il Kafka romanziere, in particolare, arriva in Italia solo nel 1933 con la pubblicazione del Processo, voluta da Franco Antonicelli per l’innovativa biblioteca europea che già include le traduzioni pavesiane di Moby Dick e del Dedalus di Joyce. Ad essa faranno seguito la prima traduzione della Metamorfosi, uscita per Vallecchi nel 1934, e l’anno successivo il volume di racconti intitolato Il messaggio dell’imperatore, curato da Anita Rho ancora per la collana di Antonicelli244. Laureato in lettere e poi 244  A proposito della prima traduzione della Metamorfosi, curata dal germanista Rodolfo Paoli, cfr. Simone Costagli, Moderno e metafisico. Quando la “Metamorfosi” arrivò in Italia, in Lucia Mor, Francesco Rognoni (a cura di), Metamorfosi di Kafka. Teatro, cinema e letterature, Sedizioni, Milano 2014, pp. 85-107. Anita Rho, vicina come la zia Barbara Allason all’ambiente di Giustizia e Libertà, ha ventotto anni quando si mette alla traduzione dei racconti kafkiani, di cui cura anche la prefazione: «Vorrei che la prefazione avesse molta misura», le scrive in proposito Antonicelli, che dal carcere coordina il lavoro al volume, «c’è un motivo serio –

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passato agli studi di giurisprudenza, come Allason anche Antonicelli si ritrova a lavorare nel mondo dell’editoria quasi per caso, non potendo più accedere a incarichi pubblici dopo che nel 1929 viene condannato a un mese di carcere per aver sostenuto Croce contro Mussolini nella questione dei Patti Lateranensi. A Torino, dove frequenta l’ambiente del «Baretti» e di Giustizia e Libertà, è amico di intellettuali antifascisti come Pavese, Massimo Mila e Leone Ginzburg, insieme ai quali pianifica iniziative politiche e imprese editoriali. È in questo contesto che matura l’idea di tradurre Il processo, il romanzo del giusto perseguitato dalla legge che il direttore di collana decide di affidare all’ormai accreditatissimo Alberto Spaini. Quella di Spaini è in assoluto la prima traduzione del Processo ad essere pubblicata, con alcune settimane d’anticipo anche rispetto all’edizione francese245. All’inizio degli anni Trenta, infatti, Kafka non è ancora l’autore imprescindibile che il Novecento collocherà tra i suoi numi tutelari: sulle riviste italiane ne hanno scritto i pochi critici che possono leggerlo in lingua originale, come Mazzucchetti e Rocca, e in traduzione sono usciti appena quattro suoi racconti – tra cui il celebre Vor dem Gesetz, Davanti alla legge –, curati dal triestino Giuseppe Menassé e accompagnati da una sintetica presentazione di Silvio Benco246. Ma i pochi che lo hanno letto ne sono entusiasti: Benco afferma questo deve risultare – e intenzionale di introdurre Kafka in Italia, estraneo a ogni snobismo» (Antonicelli a Rho, da Roma, 10 giugno 1935, in Giancarlo Pajetta (a cura di) Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Editori Riuniti, Roma 1975², vol. II, pp. 29-31, qui p. 31). 245  Per le vicende che portano alla traduzione del romanzo cfr. Michele Sisto, «Cose dell’altro mondo». Leggere e tradurre Kafka nell’Italia del 1933, in Franz Kafka, Il processo, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 319-351. Il saggio accompagna la ristampa della storica traduzione di Spaini, rimasta per quarant’anni l’unica disponibile in italiano, con l’aggiunta dei “capitoli inediti” non inclusi da Max Brod nella prima edizione. 246  Cfr. Lavinia Mazzucchetti, Franz Kafka e il novecentismo, «I Libri del Giorno», X, 1, gennaio 1927, pp. 9-10, ed Enrico Rocca, Uno che risuscita: Franz Kakfa, «Pègaso», V, 1, gennaio 1933, pp. 108-112. I quattro racconti tradotti da Menassé sono Un fratricidio, Un vecchio foglietto, Davanti alla legge e Il nuovo avvocato, e appaiono su «Il Convegno», IX, 8, 25 agosto 1928, pp. 383-390. Una seconda versione del racconto Ein Brudermord, tradotta da Francesco Monotti con il titolo Omicidio, sarebbe apparsa qualche anno dopo (1932) anche sul Supplemento letterario del settimanale «Il mare», fondato a Rapallo da Ezra Pound.

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che le opere di Kafka «rivelarono alla Germania il suo più grande scrittore del secolo ventesimo», uno scrittore per il quale l’uomo è costretto a vivere sotto la minaccia di un eterno processo alle intenzioni: «Sempre e dappertutto v’è un tribunale che giudica. Dovunque vada, egli si trova dinanzi a quel tribunale»247. I primi testi di Kafka che vengono tradotti sono dunque quelli più legati al problema della legge, quelli in cui dominano tribunali, giudici, avvocati e presunti colpevoli, quelli che potremmo in una parola definire più “dostoevskijani”: autore amatissimo tanto da Kafka che dai suoi primi interpreti italiani, Dostoevskij è infatti un riferimento fondamentale per Il Processo, che secondo alcune interpretazioni ricalcherebbe fin nella successione dei capitoli la struttura di Delitto e castigo248. Nell’accingersi a tradurre, Spaini sembra a sua volta condividere questa lettura, almeno a giudicare dalle righe che invia all’editore Frassinelli per presentare il romanzo. Nel mondo di Kafka, afferma, in mezzo al banale svolgersi della vita quotidiana i fatti più comuni assumono d’un tratto aspetto di incubo. E quest’incubo perdura anche al di là del romanzo; nel lettore grava il senso di essere sotto la minaccia della medesima accusa che ha portato il signor K. alla pena capitale. Un’ottima fascetta potrebbe dire all’incirca così: «Lettore, anche contro di te può essere pronunciata una condanna a morte, e tu non lo sai»249.

La “fascetta” suggerita da Spaini assume un tono decisamente sinistro se si pensa che ad essere condannato a tre anni di confino sarebbe stato di lì a poco lo stesso Antonicelli che gli aveva commissionato la traduzione, e che molte condanne analoghe sarebbero state pronunciate negli anni a venire. Quello che vogliamo osservare qui, tuttavia, è un elemento che manifesterà le sue 247  Silvio

Benco, Franz Kafka, «Il Convegno», IX, 8, 25 agosto 1928, pp. 381-

382. 248  Anche Antonicelli insiste su una lettura “dostoevskijana” di Kafka, consigliando ai suoi collaboratori di tralasciare le interpretazioni metafisiche alla Grotheuysen («insignificanti e non valide») e di evitare «raffronti con Poe e Hoffmann, troppo facili e inutili», per richiamare invece «un ricordo del Dostoievski più sobrio» (Pajetta, Lettere di antifascisti cit., p. 29). 249  Lettera ms. di Spaini a Carlo Frassinelli, da Roma, 23 marzo 1933 (Biblioteca Labronica di Livorno, Fondo Franco Antonicelli, Carteggio Alberto Spaini).

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conseguenze anche al di là del contesto storico specifico, almeno per tutti i quarant’anni in cui la traduzione di Spaini resterà l’unica accessibile ai lettori italiani: la lettura da lui proposta – come quasi tutte quelle dei primi interpreti di Kafka – suggerisce infatti una sovrapposizione tra personaggio e lettore («nel lettore grava il senso di essere sotto la minaccia della medesima accusa…»), che spinge a identificarsi con il destino della vittima, a condividerne l’angoscia, a interiorizzarne il senso di colpa. E i lettori italiani (come forse tutti i lettori occidentali), abituati a intendere Kafka in questo modo, si sentiranno sempre lievemente a disagio di fronte alle parole di Max Brod, secondo cui lo scrittore, e i suoi amici con lui, nel leggere le pagine del Processo rideva talmente tanto che a volte non era capace di continuare250. Per analizzare questo punto è indispensabile addentrarsi più a fondo nel testo. Uno dei principali problemi che le opere di Kafka pongono ai traduttori risiede senza dubbio nella difficoltà di rendere quelle piccole discrasie tutte interne alla lingua kafkiana che aprono abissi di imbarazzante comicità anche nei passaggi più drammatici, e che riescono a trasportare il lettore, senza dargli modo di capire come, oltre l’atmosfera di oppressione e di angoscia che innegabilmente si respira soprattutto nelle sue opere più estese. Spaini lo sa, come mostra la lettera che, quasi stizzito, scrive ad Antonicelli per scusarsi del ritardo sulla consegna: «lo stile estremamente semplice e piano di K. ha presentato alla traduzione più difficoltà di quante credessi»251. Spaini ha tradotto a vent’anni un colosso narrativo come il Wilhelm Meister di Goethe e ha da poco ultimato la versione italiana di Berlin Alexandeplatz, eppure resta disarmato di fronte all’apparente semplicità di Kafka: qualcosa gli sfugge, forse proprio quella leggerezza o ironia di cui parla Brod, e infatti il suo Processo è, in traduzione, molto più cupo di quanto non sia l’originale. Non è facile rilevare a livello testuale quali siano gli elementi che provocano questa alterazione, ma è possibile fare qualche ipotesi. Spaini privilegia, in generale, uno stile ellittico che lo porta 250  Cfr. Max Brod, Franz Kafka. Una biografia, tr. di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1956, p. 200. 251  Lettera ms. di Spaini a Franco Antonicelli, s.l., 26 aprile 1933 (Fondo Antonicelli).

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spesso a semplificare le frasi, a sciogliere la sintassi tedesca in modo da creare in italiano strutture fluide, che non oppongano ostacoli al lettore. È una caratteristica che avrebbe notato anche Primo Levi, il quale, ritraducendo Il processo a cinquant’anni di distanza, ravvisava nella traduzione del 1933 «la ragionevole tendenza a rendere liscio quanto era ruvido, comprensibile l’incomprensibile»252. La sintassi che Spaini scioglie in italiano, tuttavia, finisce talvolta per allentare nessi che non sono meramente sintattico-grammaticali, ma narrativi: è quanto accade con l’eliminazione dell’indiretto libero che – come abbiamo già visto nella traduzione di Berlin Alexanderplatz – porta spesso all’appiattimento della voce narrante e a una sua rigida separazione da quella dei personaggi, mentre la fluttuazione che esiste nell’originale veicola effetti di avvicinamento e allontanamento ai loro punti di vista che permettono quasi impercettibilmente di passare dalla partecipazione all’ironia. Questi interstizi tra la voce del narratore e quella dei personaggi, narrativamente molto produttivi, vengono spesso “richiusi” dai traduttori – Spaini naturalmente non è l’unico – in nome di una maggiore fluidità o comprensibilità del discorso. Ma un esempio risulterà forse più chiaro di molte descrizioni. Nel settimo capitolo del romanzo, intitolato L’avvocato, l’industriale, il pittore253, troviamo il protagonista, Joseph K., nell’ufficio della banca dove lavora. È mattina presto, ma lui è già terribilmente stanco. «Per salvaguardarsi almeno dagli impie252  P.[rimo] L.[evi], [Nota del traduttore], in Franz Kafka, Il processo, Einaudi, Torino 1983, pp. 253-255, qui p. 254. 253  Advokat – Fabrikant Mahler è il settimo capitolo del Processo secondo l’ordine stabilito da Max Brod nella prima edizione del romanzo (Franz Kafka, Der Prozess, Die Schmiede, Berlin 1925) e seguito anche da Spaini, che poteva ovviamente basarsi su quest’unica versione. Com’è noto Kafka non aveva portato a termine il romanzo e, salvo l’incipit e il capitolo conclusivo (Ende), non si conosce con certezza l’ordine in cui avrebbero dovuto susseguirsi i vari capitoli, rimasti in parte allo stadio di abbozzo e affidati a quaderni indipendenti. Le traduzioni italiane di Giorgio Zampa (1973), Primo Levi (1983) ed Ervino Pocar (1988) seguono a loro volta la versione di Brod; nel caso di Zampa aggiungendo anche i cosiddetti “capitoli incompiuti” che il curatore aveva escluso dall’edizione del 1925 e fatto pubblicare in seguito. All’inizio degli anni Novanta l’edizione critica curata da Malcom Pasley ha proposto per il romanzo una diversa struttura, e su questa ricostruzione si basano alcune traduzioni successive, come quelle di Anita Raja (1995) e Paola Capriolo (2015).

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gati più bassi», ci dice il narratore «aveva dato ordine all’usciere di non far entrare nessuno, perché era occupato in un grande lavoro» («da er mit einer größeren Arbeit beschäftigt sei»)254. Nell’originale si comincia già qui a intuire che Joseph K. non ha in realtà un bel niente da fare: il verbo espresso non all’indicativo ma al congiuntivo (il Konjunktiv I sei) ci segnala infatti che la frase sul grande lavoro da fare è un discorso riportato del personaggio, e non un’osservazione neutra del narratore come potrebbe apparire in italiano. Seduto alla scrivania Joseph K. comincia infatti a gingillarsi, a pensare al processo e a chiedersi se non sarebbe il caso di scrivere un memoriale difensivo da sottoporre al suo avvocato. Mentre valuta questa possibilità gli viene però in mente che l’avvocato, a ogni visita, non fa che stordirlo con lunghi e scombinati discorsi sul funzionamento del tribunale, sull’irritabilità degli impiegati, sul fatto che nelle cause giudiziarie contano solo le conoscenze e che anche un memoriale difensivo, per quanto ben fatto, non servirebbe a nulla perché alla fine andrebbe perso fra altre mille scartoffie. Il modo in cui vengono descritte le inefficienze del tribunale è grottesco e persino inquietante, ma per Joseph K., che chiaramente non ha nessuna voglia di mettersi a scrivere il memoriale, è soprattutto un’autoassoluzione a non intraprendere alcuna iniziativa: tutto il discorso si svolge infatti soltanto nella sua testa, come se K. rivivesse le sue precedenti conversazioni con l’avvocato255. A segnalare che si tratta di un discorso altrui, un discorso che K. ha sentito mille volte e che adesso ripete mentalmente a se stesso, è in tedesco appunto l’uso del Konjunktiv I, grazie al quale la paternale dell’avvocato può proseguire per circa dieci pagine in terza persona come se a pronunciarla fosse il personaggio. Di fronte al testo originale il lettore è dunque istintivamente portato a prendere le distanze da ciò che viene detto, che per 254  Franz

Kafka, Il processo, tr. di Alberto Spaini, Frassinelli, Torino 1933, p.

172. 255 Siamo insomma di fronte a un esempio tipico di quello che appena qualche anno prima Étienne Lorck aveva definito Erlebte Rede, il discorso “rivissuto” o “rappresentato” che costituisce una sorta di reminiscenza interiore di parole ascoltate in precedenza (Étienne Lorck, Die «Erlebte Rede». Eine sprachliche Untersuchung, Carl Winter, Heidelberg 1921).

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quanto inquietante non può non risultare inverosimile, esagerato. Nella traduzione italiana, che non può risolvere il problema con un mero equivalente grammaticale, l’uso della terza persona dà invece la sensazione che a parlare sia la voce neutrale, e dunque più attendibile, del narratore: E allora raccontava di aver già vinto, interamente o in parte, molti processi simili. Processi, che in realtà non erano forse tanto difficili come questo, ma si presentavano in modo ancora più disperato. Qui nel cassetto – e batteva su uno degli sportelli del tavolo – aveva tutto un elenco di questi processi, ma gli atti purtroppo non poteva mostrarli poiché si trattava di segreti di ufficio. La grande esperienza che si era acquistata attraverso questi processi, tornava ora a vantaggio di K. Naturalmente si era messo subito al lavoro e il primo memoriale era quasi steso per intero. Il primo memoriale è molto importante poiché la prima impressione che fa la difesa è quella che spesso determina l’andamento di tutto il processo. Purtroppo, e su questo doveva richiamare l’attenzione di K., qualche volta succedeva che i primi memoriali non fossero nemmeno letti dal tribunale. Venivano messi insieme con gli altri atti, ma si aggiungeva che per il momento l’esame e l’osservazione dell’accusato eran più importanti di qualsiasi foglio scritto. E se l’istante faceva pressione, gli si comunicava che prima della conclusione anche questo primo memoriale sarebbe stato esaminato, in rapporto naturalmente a tutti gli atti. Purtroppo però il più delle volte anche questo non era vero, poiché generalmente questo primo memoriale andava a finire chi sa dove, forse si perdeva del tutto; e se anche veniva conservato sino alla fine, veniva sì e no letto, come l’avvocato aveva sentito dire. Tutto questo era molto riprovevole, ma non senza giustificazione256. 256  Ivi, pp. 174-175 [«Er habe schon, erzählte er dann, viele ähnliche Prozesse ganz oder teilweise gewonnen. Prozesse, die, wenn auch in Wirklichkeit vielleicht nicht so schwierig wie dieser, äußerlich noch hoffnungsloser waren. Ein Verzeichnis dieser Prozesse habe er hier in der Schublade – hierbei klopfte er an irgendeine Lade des Tisches –, die Schriften könne er leider nicht zeigen, da es sich um Amtsgeheimnisse handle. Trotzdem komme jetzt natürlich die große Erfahrung, die er durch alle diese Prozesse erworben habe, K. zugute. Er habe natürlich sofort zu arbeiten begonnen, und die erste Eingabe sei schon fast fertiggestellt. Sie sei sehr wichtig, weil der erste Eindruck, den die Verteidigung mache, oft die ganze Richtung des Verfahrens bestimme. Leider, darauf müsse er K. allerdings aufmerksam machen, geschehe es manchmal, daß die ersten Eingaben bei Gericht gar nicht gelesen würden. Man lege sie einfach zu den Akten und weise darauf hin, daß vorläufig die Einvernahme und Beobachtung des Angeklagten wichtiger sei als alles Geschriebene. Man fügt, wenn der Petent dringlich wird, hinzu, daß man vor der Entscheidung, sobald alles Material gesammelt ist, im Zusammenhang natürlich, alle Akten, also auch diese erste Eingabe,

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Spaini non ha una cognizione teorica del problema257, ma la pratica della traduzione lo obbliga comunque a confrontarsi con esso, e probabilmente è proprio questo uno dei motivi per cui la semplicità di Kafka lo esaspera tanto. Anche traducendo fedelmente il passo, che sul piano del lessico non pone particolari ostacoli, continua infatti a mancare qualcosa: in italiano una frase come quella conclusiva non si distingue in nulla da una normale frase del narratore, e se a distanza di sole dieci righe dal «raccontava» iniziale il lettore può intuire che si tratta ancora del discorso dell’avvocato, è difficile che se lo ricordi anche a distanza di dieci pagine. Una delle peculiarità del modo verbale usato da Kafka è infatti quella di poter essere prolungato in maniera indefinita, come se si trattasse di una semplice chiave musicale che traspone una melodia in una diversa tonalità258. Man mano che il testo si allunga, la soluzione di Spaini è dunque quella di marcare il discorso dell’avvocato con le virgolette, separandolo però nettamente dalla voce narrante: «Tutto questo», continuava l’avvocato, «agisce in modo molto umiliante, e se un giorno lei andrà negli uffici del tribunale, vedrà com’è la camera degli avvocati […]»259. überprüfen wird. Leider sei aber auch dies meistens nicht richtig, die erste Eingabe werde gewöhnlich verlegt oder gehe gänzlich verloren, und selbst wenn sie bis zum Ende erhalten bleibt, werde sie, wie der Advokat allerdings nur gerüchtweise erfahren hat, kaum gelesen. Das alles sei bedauerlich, aber nicht ganz ohne Berechtigung»]. 257  Non è molto, del resto, che la questione dell’indiretto libero ha cominciato a essere discussa da linguisti e teorici della letteratura. Com’è noto è lo svizzero Charles Bally a dare nel 1912 una prima definizione dello style indirect libre, replicando a un’affermazione del romanista tedesco Fritz Strohmeyer secondo cui il francese (e in generale le lingue romanze) non potevano rendere il Konjunktiv I senza ricorrere a congiunzioni. Nella sua replica Bally osservava, fra l’altro, che «le style indirect libre dérive d’un tendance toujours plus accentuée de la langue littéraire à se rapprocher des procédés de la langue parlée» (Charles Bally, Le style indirect libre en français moderne I e II, «Germanisch-Romanische Monatsschrift», IV, 10, 1912, pp. 549-556 e ivi, IV, 11, pp. 597-606, qui p. 604). 258  «l’emploi de ce mode est comparable à celui d’une clé de transposition permettant de faire passer automatiquement une mélodie dans une autre tonalité» (ivi, p. 550). 259 Kafka, Il processo cit., p. 176, i corsivi nel passaggio tradotto segnalano le integrazioni di Spaini [«Das wirkt natürlich auf den ganzen Stand sehr entwürdigend ein, und wenn K. nächstens einmal in die Gerichtskanzleien gehen werde, könne er sich ja, um auch das einmal gesehen zu haben, das Advokatenzimmer ansehen»].

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L’inserimento delle virgolette comporta la manipolazione di ulteriori elementi (l’aggiunta del «continuava l’avvocato», la necessità per il personaggio di rivolgersi a K. come a un «lei» effettivamente presente), e così il discorso prosegue per altre nove pagine come un discorso diretto, reale. Ma non è un discorso reale, o almeno non ne siamo certi, perché quel che abbiamo di fronte non è la voce dell’avvocato ma il pensiero contorto di Joseph K.: quello dell’avvocato è insomma un discorso rappresentato, inattendibile, ricostruito mentalmente dal protagonista con tutte le assurdità e le contraddizioni che questo comporta, e che termina infatti di colpo quando K. si rende conto che sono le undici, sono passate due ore da quanto è entrato in ufficio, è più stanco di prima e non ha ancora combinato nulla. È adesso, se vogliamo, che inizia il vero processo: K. doveva infatti ricevere due importanti clienti della banca che ha fatto aspettare a lungo in anticamera, «e perché, pareva domandassero i signori dietro la porta chiusa, il diligente signor K. dedicava il tempo destinato agli affari, ai suoi interessi privati?»260. Mentre K. si perde dietro ai timori immaginari di un processo che forse non è mai stato istruito contro di lui, la realtà, quella davvero vessatoria del lavoro quotidiano, lo riagguanta insinuando in lui il senso di colpa, e riconducendolo di fronte a quelle che sono le uniche attività a cui un funzionario come lui può dedicarsi: farsi tormentare dai propri superiori, o diventare il tormentatore di quelli che contano meno di lui. Se il lettore del Processo si identifica interamente con la sorte di Joseph K., come molte interpretazioni dell’opera tendono più o meno esplicitamene a suggerire, il romanzo è allora davvero un tormento senza via d’uscita. È la voce narrante a ricordarci di non prendere sul serio tutto quello che accade nella testa del protagonista: ma se in traduzione questa voce tende ad appiattirsi (perdendo i marcatori del discorso del personaggio e apparendo dunque più neutra) o a farsi rimpiazzare del tutto, trasformata in discorso diretto, da quelle dei personaggi (perdendo la possibilità di “guardarli da fuori”), diventa allora molto più difficile allontanare il senso di oppressione che il romanzo trasmette, e 260 

Ivi, p. 195.

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intuire almeno qualcosa del riso liberatorio che prendeva Max Brod e i suoi amici. 6.3. I perseguitati di Jakob Wassermann Il tribunale interiore a cui Kafka dà corpo con la sua scrittura diventerà familiare ai lettori italiani soprattutto nel secondo dopoguerra, con il moltiplicarsi delle traduzioni e degli studi a lui dedicati. Negli anni in cui inizia ad essere tradotto, di fatto, il suo nome è forse persino meno noto di quello di un altro maestro della letteratura giudiziaria, ebreo anch’egli, destinato invece a una fortuna postuma molto minore: Jakob Wassermann. Anche in Wassermann il tema della giustizia e dell’oppressione esercitata dalla legge si intreccia a quello del conflitto con l’autorità paterna, soprattutto nella trilogia che ruota intorno al personaggio del giovane Etzel Andergast e che inizia, nel 1928, con la pubblicazione in Germania del romanzo Der Fall Maurizius. Costruito come una doppia indagine giudiziaria, il romanzo oppone il sedicenne Etzel a suo padre, l’affermato giudice francofortese Wolf Freiherr von Andergast, che diciannove anni prima ha fatto condannare all’ergastolo un certo Otto Leonhart Maurizius con l’accusa di aver assassinato la moglie e che su questa inchiesta brillantemente condotta ha costruito una solida carriera giudiziaria. Quando Etzel scopre per caso che l’anziano padre di Otto cerca da anni di ottenere dal giudice la riapertura del caso, perché suo figlio non ha mai smesso di proclamarsi innocente, decide di indagare per conto proprio mettendo insieme le carte del tribunale, gli articoli dei giornali dell’epoca e i ricordi dei testimoni sopravvissuti. L’indagine di Etzel è mossa contemporaneamente dal desiderio di arrivare alla verità e da quello di sfidare il padre, fanatico della legge che lo ha rinchiuso in una prigione dorata imponendogli un’educazione severissima: Sotto gli influssi di tale ordinamento senza mende era cresciuto Etzel, e i suoi nervi si erano assuefatti al suo ritmo, benché talora si ribellassero. Viveva fra pareti di cristallo. Gli errori ch’egli commetteva non venivano discussi, né lo si redarguiva; non si faceva che prender nota. Il sistema era silenzioso. Nei momenti critici, pareva che tutti gli abitanti della casa prestassero servizio gratuito di spionaggio. Persino fornitori e fattorini e

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portalettere e uscieri erano sudditi di quella volontà onnipresente e superioe, che regnava senza svelare il suo potere o farlo troppo pesare al singolo. Erano abituati all’obbedienza e costretti alla delazione solo perché la sentivano là, possente ed imponente come una montagna. […] Sebbene non vi fossero regole esplicite, né se ne forzasse l’osservanza con regole esteriori, solo venivano trasmesse con tanta gelida naturalezza, da non lasciar nemmeno pensare a una contraddizione261.

Come in Kafka la quotidianità familiare è rappresentata con le caratteristiche di un sistema totalitario mostruosamente efficiente, guidato da una «volontà» che non si mostra mai ma pervade e controlla ogni azione. Etzel, convinto dell’innocenza di Otto, si sente vittima come lui di una legge persecutoria: uscire dal carcere significa dunque come prima cosa demolire il solido edificio dell’autorevolezza paterna, fondato su quello che col procedere del romanzo si rivela inequivocabilmente un errore giudiziario. Così, mentre Etzel scappa di casa in cerca di prove, anche il giudice von Andergast decide di riprendere in mano il fascicolo dell’indagine e, dopo aver riesaminato i fatti e aver incontrato in cella il presunto colpevole, arriva alla stessa conclusione del figlio: Maurizius è innocente. Ed è qui, quando le vie dei due protagonisti potrebbero finalmente ricongiungersi in nome della verità, che si consuma la frattura definitiva: il vecchio giudice preferisce infatti far uscire di prigione Maurizius concedendogli la grazia, ed Etzel, secondo cui l’uomo meritava invece di essere dichiarato innocente e riabilitato, rompe definitivamente ogni rapporto con suo padre. In Italia le prime traduzioni di Wassermann passano per le mani di due gate-keeper che abbiamo ormai imparato a conoscere, Lavinia Mazzucchetti e Alessandra Scalero. Mazzucchetti pubblica nella sua narratori nordici Le orecchie del signor marchese nella versione di Enrico Rocca (1931), mentre Scalero traduce i primi due romanzi della trilogia (il citato Caso Mauritius ed Etzel Andergast, 1931-1932), di cui lei stessa, intuendone la novità, ha acquistato i diritti per la scrittori di tutto il mondo di Dàuli. Se la vicenda giudiziaria del Caso Mauritius 261  Jakob

Wassermann, Il caso Mauritius, tr. di A. Scalero, Modernissima, Milano 1932, p. 11.

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trova in effetti un grande favore di pubblico, Etzel Andergast, letto come una continuazione del volume precedente nonostante l’autore non lo intendesse come tale, incontra giudizi più discordi soprattutto a causa della sua struttura nettamente bipartita, ambientata in due momenti storici diversi (il 1913 e il 1928) e tenuta insieme soltanto dalla figura di Andergast. Qui, infatti, alle vicende del protagonista si intrecciano quelle di un secondo personaggio, il medico Giuseppe Kerkhoven – la traduzione italiana dissolve il nesso, ma il nome tedesco del personaggio è Joseph: un altro “Joseph K.”, dunque – medico “dell’anima” passato attraverso anni di conflitti e incomprensioni con i suoi colleghi. Etzel conosce Kerkhoven da adulto, stringe con lui una profonda amicizia, ma si innamora di sua moglie e decide infine di separarsi da entrambi, lasciandosi alle spalle un matrimonio ormai distrutto262. Ancora una volta il cuore del romanzo è dunque il conflitto con una figura paterna, un conflitto psicologico ma soprattutto generazionale, irreparabilmente segnato dall’esperienza della guerra: sono gli anni che nel romanzo non vengono raccontati, e che separano come un buco nero la prima dalla seconda parte. Scalero non apprezza in modo particolare l’articolazione compositiva del romanzo, ma lo ritiene ugualmente un libro importante per la sua «ideologia», come spiega in una lettera che invia alla sorella mentre sta lavorando alla traduzione: Sono altresì alle prese con Etzel Andergast, che rileggo ora da capo dopo averlo letto una prima volta. […] Come romanzo è discutibile – non è nemmeno il Mauritius, manca il plot, è una serie di episodi e conversazioni e riflessioni dell’autore cucite di fila, ma come ideologia è molto interessante e mi pare il primo autore che affronti de visu la questione della malattia del secolo, dello stato d’animo della gioventù, del dopoguerra, della tragedia dei “giovani”. È troppo lungo a raccontarsi e non mi ci provo nemmeno, ma farai bene a leggerlo. Le figure sono tutte scialbe e non sono, veramente, figure “da romanzo”. Etzel poi è un vero ammasso, una cosa barocca, un mucchio di idee che camminano. Fatto curioso: oggi leggevo nell’Italia Letteraria le “conclusioni” 262 L’ulteriore seguito della storia, La terza esistenza di Giuseppe Kerkhoven (Joseph Kerkhovens dritte Existenz, 1934) uscirà ancora per la scrittori di tutto il mondo nel 1937, nella traduzione di C.S. Inisca.

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sul Rubé263, e mi è parso di intravedere un barlume, una reminiscenza, delle analogie… insomma, un gigantesco Rubé deformato e gonfiato, più grandioso, meno armonico, persino cocasse in certe cose, ma insomma – il nucleo c’era, e basta a far considerare ancora una volta che con Rubé abbiamo avuto l’unico fenomeno d’uno scrittore italiano “moderno”: il quale, vedi un po’, ha anche previsto e precorso altri stranieri…264

Anche Lavinia Mazzucchetti, che pure trova il romanzo «vivo e vitale e attuale» nonostante l’architettura «un poco sconcertante»265, è colpita non tanto dalla vicenda e dai personaggi, quanto dallo scenario di desolazione che da esso emerge, e che sembra accomunare il presente dell’Europa intera: «essenziale», scrive «è che, attraverso gli occhi dolorosi e non disperati del suo maggior protagonista, egli [Wassermann] ci abbia mostrato il paesaggio grandioso e squallido dell’anima europea dopo il grave sommovimento degli ultimi vent’anni»266. La verità che i personaggi di Wassermann perseguono con dedizione assoluta comincia insomma ad apparire sempre più chiaramente come una sfida all’ordine costituito dei padri, come una necessaria opposizione a un sistema che si regge sulla menzogna e sulla coercizione. Libri come questi arrivano in Italia in anni in cui, come abbiamo visto, per molti giovani cresciuti nel mito della prima guerra mondiale e irregimentati dal sistema educativo fascista qualcosa sta iniziando a vacillare: è il caso di Brancati, di Vittorini, di de Céspedes, ma anche di uomini e donne estranei al mondo delle lettere che tuttavia iniziano anche grazie ai romanzi a elaborare la possibilità di un mondo diverso. «Sto leggendo ora il seguito del “Caso Maurizius” Etzel Andergast di J. Wassermann, uno dei più forti saggi d’introspezione e di analisi dell’anima che mai mi sia capitato sottomano, qualcosa che 263  Scalero si riferisce al già menzionato articolo di Alfredo Gargiulo Conclusioni su Rubé (cfr. supra, cap. II, § 5, nota 117), che era, come si ricorderà, una feroce stroncatura del romanzo. Ma è ormai evidente quanto le idee di Scalero in materia di romanzi siano lontane da quelle del critico napoletano. 264  Lettera ms. di Alessandra Scalero alla sorella Liliana, da Milano, 22 marzo 1932 (Fondo Scalero, Corrispondenza). 265  Lavinia Mazzucchetti, Letteratura contemporanea: Wassermann, Etzel Andergast, «Leonardo», II, 6, giugno 1931, pp. 271-273, qui p. 272. 266  Ibid.

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si avvicina per il valore che accorda allo spirito, alla “Montagna Incantata” di T. Mann», scrive a un amico nell’agosto del 1939 il medico antifascista Mario Pasi, allora ventiseienne: È certo però che è un libro da leggersi. In queste ore tragiche e grandi, ho sempre più la sensazione che coloro di noi che sanno guardarsi dentro appartengono alla schiera degli eletti. Sarà l’influenza del libro di cui ti ho detto, saranno le irradiazioni del movimento, mai come ora ho compreso l’importanza che ha lo spirito e il saper divenir padroni, sempre mantenendo la duttilità di ragionamento necessaria per differenziarsi dal fanatismo267.

Il fatto che autori come Wassermann o Thomas Mann arrivino a diventare argomento di conversazione comune per uomini del tutto estranei al mondo dell’editoria e provenienti dai ceti sociali più diversi (Pasi era figlio di un elettricista), dice molto sulla diffusione che i romanzi contemporanei hanno ormai raggiunto alla fine degli anni Trenta, e soprattutto sull’importanza che avranno come alternative ideologiche al pensiero unico costruito durante il Ventennio. 7. Nella pancia della dittatura 7.1. Berlino a forma di stomaco Gli scrittori contemporanei – compresi quelli tedeschi, e forse soprattutto loro – sono dunque una leva di cui la generazione più giovane si serve per mettere in discussione, e infine rovesciare, l’ordine stabilito dai padri. Cresciuti nel mito della guerra e dell’eroismo bellico, questi lettori si trovano adesso ad amare “disfattisti” come Remarque o Arnold Zweig, e critici del potere come Wassermann o Kafka. «L’inizio dell’epoca nuova della letteratura tedesca è segnata dalle opere che si preoccupano di 267  Vincenzo Calì (a cura di), 10 marzo 1945. Dedicato a Mario Pasi, Museo del Risorgimento e della Lotta per la Libertà, Trento 1987, pp. 44-45. La lettera fa parte di una piccola raccolta di scritti di Pasi curata dall’amico Marco Pagnani e originariamente apparsa sul settimanale ravennate «Democrazia» (28, 25 agosto 1945). Catturato in seguito a una delazione, Pasi sarebbe stato torturato e ucciso dai fascisti nel marzo del 1945.

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definire chi siano e come agiscano i giovani della nuova generazione, come vengano su gli adolescenti», osserva in un appunto Corrado Alvaro: «La nuova generazione non si sente oppressa più dalle responsabilità e dalle delusioni dei padri, da lei comincia il nuovo secolo […]»268. Alvaro, che già si è avuto modo di menzionare più volte nel corso di questo capitolo, è uno dei protagonisti della scena letteraria degli anni Trenta, non soltanto per le sue opere letterarie ma anche per le sue traduzioni e i suoi interventi critici sul romanzo. La sua è tuttavia una figura difficile da collocare, letterariamente non meno che politicamente. Figlio di un maestro elementare, nato e cresciuto nella Calabria rurale d’inizio secolo e presto trasferitosi in Toscana per ultimare gli studi, lavora a lungo come giornalista prima di affermarsi nel mondo delle lettere. Quando il fascismo inizia la sua ascesa non è tra coloro che vi si oppongono: pur non avendo ricevuto alcun formale divieto a scrivere sui giornali, viene però attaccato per gli articoli che pubblica sulla «Stampa» e soprattutto sul «Mondo» di Giovanni Amendola, dove interviene nella polemica scatenata dall’adesione di Pirandello al fascismo269 e sottoscrive il manifesto promosso da Croce in risposta a quello degli intellettuali fascisti270. È anche per sottrarsi a un clima politico per lui sempre più oppressivo, dunque, che tra il novembre del 1928 e il maggio 1929 si sposta a Berlino. Il contatto con la grande città gli fa per un attimo pensare di abbandonare la letteratura per mettersi a lavorare come importatore di prodotti tipici calabresi o come concessionario delle illuminazioni al neon che hanno appena fatto la loro com-

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parsa sulle strade della capitale271, ma non si sente un perseguitato né si dipinge come tale, neanche negli appunti di diario che tiene per sé come potenziali nuclei narrativi da sviluppare in romanzi e racconti: «Ho una breve storia, e neppure rilevante, ma poiché quasi tutti i miei amici sono scomparsi, chi ucciso e chi emigrato all’estero, io sono rimasto come un bersaglio di cartone e ho finito con l’assumere un’importanza che non mi spetta e che sinceramente non merito»272. È una tendenza all’understatement tipica della scrittura di Alvaro, autore antiretorico per istinto prima che per ideologia, che guarda con la stessa pacata ironia tanto se stesso che i suoi maestri: da Pirandello che, chiuso nel silenzio in un cabaret berlinese, gli sembra immerso nell’osservazione dei più minuti aspetti della vita («sono i particolari e le creature che lo interessano; non accade quasi mai di sentirgli enunciare un sistema»273) e che un attimo dopo inizia invece a discettare sui diversi modi in cui tedeschi e italiani intendono la vita e la morte; fino all’ammiratissimo Karl Kraus, che odia i giornali e i giornalisti e che passa la vita a combatterli, «naturalmente con un giornale periodico»274. Il clima persecutorio lasciato in Italia non è comunque molto diverso nella Berlino di fine anni Venti, dove già si intravedono le dinamiche che porteranno all’avvento del nazismo: città spiraliforme come una chiocciola o uno stomaco – «è lo stomaco della Germania», gli spiega una donna275 – Berlino è una metropoli vorace, che brucia i cadaveri in grandi forni crematori urbani realizzati per assicurare alla popolazione migliori condizioni igieniche276. È una città profondamente diversa da quella descritta vent’anni prima da Borgese, ma il suo tratto più impressionante, almeno per gli scrittori italiani, continua a essere l’indecifrabile

268 Alvaro,

Quasi una vita cit., p. 39. Avvenuta com’è noto all’indomani del delitto Matteotti e dunque in un momento particolarmente critico per il governo, l’adesione di Pirandello al fascismo aveva provocato prese di posizione opposte tra gli intellettuali del tempo: Alvaro era intervenuto manifestando la sua contrarietà rispetto al gesto dello scrittore, ma allo stesso tempo difendendolo dall’accusa, sorta da più parti, di aver barattato l’iscrizione al PNF con un seggio in Senato (cfr. Corrado Alvaro, Carnevaletto Pirandello. Pettegolezzi, «Il Mondo», 2 ottobre 1924; Id., Echi dell’“affaire” Pirandello, ivi, 3 ottobre 1924 e Id., Postilla all’“affaire” Pirandello. Personale, ivi, 5 ottobre 1924). 270  La protesta contro il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, «Il Mondo», 1° maggio 1925. 269 

271 Alvaro,

Quasi una vita cit., p. 25 e p. 48. p. 24. Tra gli amici uccisi c’è naturalmente anche Amendola, morto in Francia nell’aprile del 1926 in seguito alle ferite riportate in una delle numerose aggressioni fasciste di cui era stato vittima. Di lì a poco, inoltre, avrebbe preso la strada dell’esilio volontario Borgese, che aveva incoraggiato Alvaro all’inizio della sua attività giornalistica raccomandandolo al «Corriere della Sera». 273  Ibid. 274  Ivi, p. 46. 275  Ivi, p. 28. 276  Ibid. 272  Ivi,

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connubio che la caratterizza fra estrema modernità e negazione della morte277. Sono i tratti salienti anche della letteratura che vi viene prodotta, che Alvaro ritiene non abbia un grande impatto su quella italiana278 ma che pure mostra di conoscere molto bene – ed è stato del resto già osservato come le sue prime opere richiamino atmosfere espressioniste, o quanto la presenza di un autore come Remarque sia osservabile nel romanzo di guerra Vent’anni, composto in parte durante il periodo berlinese279. Più screziata è l’opinione dello scrittore intorno alla letteratura metropolitana d’impianto realistico che comincia ad affermarsi sotto l’etichetta di Neue Sachlichkeit, e che come sappiamo arriverà in tempi brevissimi a imporsi anche in Italia: da un lato Alvaro ne vede la potenzialità, coglie in essa un nuovo modo di intercettare la sensibilità dei più giovani (lo confermano le osservazioni citate poco sopra, riferite ad autori come Wassermann e Mann), dall’altro resta comunque scettico nei confronti di uno stile che gli appare inutilmente spersonalizzato e freddo. Il suo Cronaca (o fantasia?), che esce in Italia nel pieno dell’ondata neusachlich, sembra volersi prendere gioco già nel titolo della mania che gli scrittori italiani stanno sviluppando per il romanzo-reportage legato a fatti di attualità280, eppure Alvaro è a sua volta tra quanti muovono in direzione di questo nuovo stile quando, alla metà degli anni Trenta, lascia l’editore Mondadori per avvicinarsi a Valentino Bompiani, uno dei principali promotori del nuovo romanzo di marca “neo-realista”. Il ritorno dalla Germania segna per Alvaro l’inizio della vera e propria consacrazione letteraria, ma anche del progressivo allineamento alle posizioni della cultura dominante. Nel 1930 escono le due opere che ne sanciscono la definitiva affermazione: il romanzo 277  Cfr. la riflessione di Borgese sul rapporto tra morte e modernità (che ancora in Alvaro ha i tratti della modernità “americana”) di cui si è parlato a proposito dell’articolo Il feretro automobile (cap. II, § 3.3). 278  Lo afferma in una lunga intervista rilasciata nel 1929 al periodico «Die literarische Welt», a proposito della quale cfr. Monica Lumachi, Corrado Alvaro e la cultura tedesca, in Francesco Tuscano (a cura di), Corrado Alvaro e la narrativa europea del novecento, Cittadella Editrice, Assisi 2004, pp. 101-144. 279  Cfr. Gaspare Giudice, La renitenza di Alvaro. Un anno a Berlino, «Belfagor», 45, 3, 31 maggio 1990, pp. 249-266. 280 Cfr. supra, cap. III, § 1.4.

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autobiografico Vent’anni, che pur narrando la disillusione di un giovane sottotenente di fronte all’esperienza bellica ottiene il plauso di figure di punta dell’intellighenzia fascista come Bottai; e la raccolta di racconti Gente in Aspromonte, crudo ritratto della vita contadina nel Meridione a cui Alvaro deve tutt’oggi la sua notorietà. Negli anni successivi il suo nome è tra quelli che compaiono più spesso nelle discussioni sul romanzo che infiammano i letterati della nuova generazione, e che sono in gran parte ospitate da riviste politicamente schierate come «Critica fascista» o «La Tribuna»281. Quello tra Alvaro e le gerarchie fasciste inizia così ad assumere l’aspetto di un tacito patto di non belligeranza: mentre lo scrittore evita di manifestare pubblicamente il proprio dissenso, allontanandosi anche per lunghi periodi dall’Italia in virtù del suo lavoro di corrispondente («Non ho la stoffa del martire, a meno che non vi sia costretto», ammetterà senza falsi eroismi nel dopoguerra282); le seconde, pronte a colpire col carcere e con l’esilio gli scrittori che svolgevano attività politica, si dimostrano a loro volta disposte a premiare e ad accogliere nelle loro fila gli oppositori silenziosi, in particolare quelli che cominciano ad avere anche all’estero una qualche notorietà. Le contraddizioni e le paure che Alvaro vive in questa fase, elaborate anche alla luce dei narratori stranieri contemporanei, precipiteranno però di lì a poco nel romanzo L’uomo è forte, che inaugura la sua lunga collaborazione con Bompiani: pubblicato nel 1938, dopo lunghe trattative con i censori del Minculpop, il romanzo ricostruisce dietro il velo di una presunta ambientazione sovietica le dinamiche di una società totalitaria ossessionata dal lavoro e dal controllo, ultima disperata denuncia del vicolo cieco in cui sembrano destinati a spegnersi tutti i progetti di modernità a cui l’Italia d’inizio secolo aveva provato a dare forma. 7.2. La distopia di L’uomo è forte L’idea angosciosa che la modernità culmini nell’oppressione del panopticon è l’ultimo dei fili rossi attraverso cui si proverà a seguire i legami tra romanzi tradotti e romanzi italiani di 281 Cfr. 282 

supra, cap. III, § 1.2. Così lo scrittore nell’Avvertenza [1950] che apre Quasi una vita (cit., p. 6).

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questi anni. Per gli scrittori del Ventennio quello del controllo è un tema radicato anzitutto nel vissuto comune: si è già osservato come, pur non essendo l’oggetto della narrazione, questo elemento abbia un ruolo centrale in Nessuno torna indietro di Alba de Cèspedes, pubblicato nello stesso anno di L’uomo è forte283; e leggendo le pagine diaristiche di Alvaro si trovano i segni di un’inquietudine analoga già nelle note dei primi anni Trenta, dove lo scrittore racconta come molti, nel timore di essere spiati, considerassero buona norma tenersi a debita distanza dai telefoni durante le conversazioni private («Si dice che il telefono possa trasmettere come un amplificatore tutto quello che si dice in casa»284). È un mondo ossessionato dal controllo anche quello entro cui si dipana la trama di L’uomo è forte: perno dell’azione è un ingegnere, Roberto Dale, che dopo alcuni anni di lavoro all’estero decide di rientrare nel proprio paese, finalmente tornato a una condizione di pace e stabilità dopo la fine della guerra civile tra “partigiani” e “bande”. Ma il prezzo di questa ritrovata stabilità è l’esposizione a una sorveglianza totale da parte dello stato, la cui ingerenza arriva a regolamentare persino la vita intima dei suoi cittadini: Dale capisce di essere considerato sospetto a causa della sua lunga permanenza all’estero – un “estero” non meglio identificato che è tutto depravazione e decadenza, lontano dall’ordine che regna nel suo paese dopo la salita al potere dei partigiani – e nel momento in cui allaccia una relazione sentimentale con Barbara, un’amica di vecchia data figlia di oppositori uccisi nella guerra civile, inizia a essere assillato dal timore che le loro vite siano in pericolo. La paura spinge così i due protagonisti a compiere ciò di cui non si credevano capaci: Barbara denuncia Dale al misterioso Inquisitore che la sorveglia, mentre Dale uccide il direttore della sua azienda proprio per il terrore di essere denunciato da lui. E il romanzo si chiude mentre il protagonista, miracolosamente sfuggito alla cattura e a un tentativo di fucilazione, è ancora in fuga. 283 Cfr.

supra, cap. III, § 5.1. Quasi una vita cit., p. 53. Massimo Onofri (Corrado Alvaro distopico: “L’uomo è forte”, in Id., Fughe e rincorse. Ancora sul Novecento, Inschibboleth, Roma 2018, pp. 25-34) ricorda a questo proposito la pubblicità “orwelliana” voluta da Bompiani per il romanzo: «C’è qualcuno che ascolta» (p. 25). 284 Alvaro,

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La riflessione sul problema della libertà individuale, negata dal potere in nome di una promessa di felicità collettiva, ha certo una radice nel vissuto di molti scrittori del Ventennio, e nel caso di Alvaro è ulteriormente alimentata dalla familiarità con due autori amatissimi come Dostoevskij e Tommaso Campanella. Dal punto di vista compositivo, tuttavia, L’uomo è forte mostra di voler dialogare soprattutto con i romanzi contemporanei: si avverte la presenza di Kafka e di Wassermann nella rappresentazione degli ambienti e nelle scene di giustizia persecutoria; e molti tratti del mondo totalitario di Barbara e Dale rimandano a romanzi come Il tallone di ferro di Jack London o Il mondo nuovo di Aldous Huxley, ormai ben noti ai lettori italiani proprio grazie alle traduzioni di questi anni285. Anche l’Inquisitore che spiega perché la libertà renda gli uomini infelici, personaggio di chiara matrice dostoevskjiana, passa attraverso le reinterpretazioni novecentesche di questa figura: l’inquisitore che compare nel finale di Rubé, per esempio, e più ancora il personaggio del Benefattore che regge le sorti dello Stato Unico in Noi di Evgenij Zamjatin, il romanzo che narra l’impossibile ribellione dell’ingegnere D-503 e che è oggi considerato l’iniziatore del genere distopico286. L’uomo è forte esplora insomma una strada inedita per la letteratura italiana, e forse è anche questa una delle moti285  Il tallone di ferro, tradotto da Gian Dàuli, era uscito nel 1925 per Modernissima e per quanto profondamente manipolato aveva ottenuto un grande successo di pubblico; Il mondo nuovo era apparso invece nel 1933 nella medusa Mondadori tradotto da Lorenzo Gigli, già autore nel 1914 di un saggio sul romanzo italiano da Manzoni a D’Annunzio. 286  Nel romanzo di Zamjatin compaiono numerosi elementi poi divenuti tipici della narrativa distopica, che si ritrovano tanto nei romanzi di Huxley e Orwell che nell’Uomo è forte: già in Noi abbiamo infatti a che fare con una società costituitasi sulle rovine di una lunga guerra, con il rifiuto del passato e degli oggetti che lo ricordano, e con un controllo capillare esercitato tramite edifici di vetro, spie, repressione sessuale e programmazione genetica. È del tutto probabile che quando inizia a scrivere L’uomo è forte Alvaro abbia presente questo romanzo, data la sua attività di traduttore dall’inglese: proprio in questa lingua appare infatti la prima edizione di Noi, proibito in Unione Sovietica e pubblicato negli Stati Uniti nel 1924. Sebbene la traduzione italiana appaia solo nel 1955, Zamjatin è inoltre un autore noto nel nostro paese: nel 1929 il «Convegno» pubblica un suo racconto, accompagnato da una nota che si sofferma anche su Noi (cfr. Eugenio Zamiatin, Una tragedia in dieci minuti, tr. di Susanna Campaux e Giovanni Comisso, «Il Convegno», X, 3, 25 marzo 1929, pp. 132-136).

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vazioni che spingono Alvaro a recidere il contratto con Mondadori per proporre il romanzo a Valentino Bompiani, l’editore che in questi anni si mostra più di ogni altro aperto alle novità e alle sperimentazioni della narrativa contemporanea. Bompiani è ben contento di accogliere nella letteraria uno scrittore come Alvaro, ma il fatto che si tratti di un nome affermato non gli impedisce di intraprendere anche con lui quel lavoro di svecchiamento del linguaggio che già ha affrontato con altri autori formatisi nell’alveo della prosa d’arte. Lo stile narrativo prediletto da Bompiani, lo sappiamo, è quello concreto e “aderente alla vita” di autori come Kästner o Brunngraber che lui stesso fa tradurre e circolare in Italia, e i suggerimenti che dà agli italiani che pubblicano nelle sue collane vanno regolarmente in direzione di un maggior realismo e dell’abbandono dei toni lirici: «vorrei sapere che lavoro fa il protagonista», scrive ad Alvaro dopo aver letto la prima stesura del romanzo «che cos’è la fabbrica dove andrà, perché lo accetteranno […] da dove vengono i soldi che spende, che cosa fa Barbara, come vive»287. Indicazioni come queste potrebbero essere quasi considerate l’approdo finale del nostro lungo percorso alla conquista della prosa: gli stessi «atti corpulenti» che vent’anni prima erano additati come marchi di cattiva scrittura288 sono adesso espressamente richiesti dagli editori. Alvaro recepisce almeno in parte le indicazioni di Bompiani – nella versione definitiva troviamo infatti che Barbara, autentica donna del suo tempo, è impiegata in «una fabbrica di apparecchi radio in qualità di tecnico»289 –, pur continuando a privilegiare una forma di scrittura costantemente in bilico fra modernità e tradizione, fra desiderio 287  Lettera di Bompiani ad Alvaro del 18 febbraio 1938, riportata in Giuseppe Zaccaria, Corrado Alvaro-Valentino Bompiani. Cronaca di una collaborazione, in Corrado Alvaro, L’uomo è forte, Bompiani, Milano 1984, pp. VII-XVI, qui p. IX. Sullo stesso argomento vedi anche Id., Bompiani e Alvaro: un “rapporto esemplare”, in Braida, Valentino Bompiani cit., pp. 122-143. 288  Cfr. Debenedetti, Il romanzo del Novecento cit., p. 24; e supra, cap. III, § 4. 289  Corrado Alvaro, L’uomo è forte, Bompiani, Milano 1938, p. 11 (se non diversamente indicato, si cita di seguito sempre dalla prima edizione). La scelta di fare di Dale un ingegnere potrebbe invece derivare, oltre che dal già citato Zamjatin, dalla retorica dell’intellettuale come “ingegnere delle anime” presente nella propaganda staliniana: lo suggerisce Domenico Scarpa in Pensare al tiranno. Un incontro del dopoguerra, in Aldo Maria Morace, Angelo R. Pupino (a cura di), Paura sul mondo. Per «L’uomo è forte» di Corrado Alvaro, ETS, Pisa 2013, pp. 105-122, qui pp. 116-117.

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di progresso e astrazioni arcaiche, e che deve a questo conflitto irrisolto tanto i suoi difetti che i suoi momenti di maggiore originalità. E così, se nella caratterizzazione dei due protagonisti cerca di soddisfare le pretese realistiche di Bompiani, nel tratteggiare quelli secondari sembra andare piuttosto verso una rappresentazione di tipo simbolico: «l’Inquisitore», «il Direttore», «la Segretaria» sono ruoli più che personaggi, figure sfuggenti come quelle che minacciano Joseph K. e che risultano inquietanti proprio perché prive dei più elementari tratti di umanità290. Kafka, che Alvaro ha conosciuto attraverso la mediazione di Spaini291, è forse l’autore più presente in L’uomo è forte: «Fu svegliato da un picchio alla porta, mentre qualcuno tentava di girare la maniglia. “Eccoli”, si disse»292 – basta ad accorgersene una frase come questa, che sembra rimodulata sul celebre incipit del Processo. A evocare la presenza di Kafka è però soprattutto il fatto che, per descrivere la dinamica coercitiva del totalitarismo, Alvaro decida di affidarsi non tanto all’invenzione di futuribili tecnologie di sorveglianza, quanto all’analisi delle subdole strategie psicologiche messe in atto dai dominatori per ridurre ogni individuo a un immobile groppo di sensi di colpa. Dal momento del suo rientro in patria Dale non ha commesso nulla di illegale, ma tutti i personaggi con cui entra in contatto non fanno che ricordargli che è del tutto inutile avere le prove effettive della colpevolezza di qualcuno, se si è già deciso di condannarlo: «Tutti pensiamo cose delittuose»293, gli spiega la Segretaria per dimostrargli che non è logicamente possibile arrestare un innocente, e il Direttore ne dà una giustificazione ancora più perspicua affermando che «spesso anche l’apparenza della colpevolezza è una colpa»294. 290 Nell’Avvertenza del 1938 Alvaro aggiunge che la scelta di contrassegnare i personaggi con le loro professioni è una «cautela elementare» perché a nessuno venga in mente di credere che sono «persone realmente esistenti, specialmente a chi esaminerà queste pagine laggiù, nel tribunale di tanti drammi» (ivi, p. [7]). 291  Secondo Lumachi (Corrado Alvaro e la cultura tedesca cit.) Kafka non è tra gli autori che Alvaro legge durante il periodo berlinese. È dunque molto probabile che a farglielo scoprire sia la traduzione del Processo realizzata da Spaini, che come lui collabora al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia. 292 Alvaro, L’uomo è forte cit., p. 63. 293  Ivi, p. 38. 294  Ivi, p. 92.

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Nella scena culminante del romanzo, quando compie il delitto al quale una forza oscura sembra averlo predestinato, Dale appare quasi sollevato dall’accorgersi che l’inesorabile meccanismo da cui si sentiva minacciato si è finalmente messo in moto contro di lui: «L’apparecchio schiacciante di quella giustizia gli parve come un’organizzazione per uno spettacolo, e gli tornavano a mente le frasi dell’Inquisitore: “Il colpevole c’interessa enormemente; che cosa faremmo senza di lui?”»295. Come nei romanzi di Kafka, inoltre, anche in L’uomo è forte le atmosfere più surreali e oniriche sono popolate da miriadi di dettagli realistici che accrescono l’effetto di straniamento. Alvaro descrive con esattezza gli oggetti d’uso quotidiano e i luoghi in cui si svolge l’azione: la stanza d’albergo che ospita Dale col suo mobilio elaborato che ne denuncia la vecchiaia296, l’ufficio privato del Direttore collocato in cima a una scala tortuosa che ricorda le anguste aule giudiziarie in cui si perde Josef K., persino le stoviglie d’altri tempi in cui il Direttore ama cenare: «Questi piatti, per esempio, sono belli, non è vero? Sono riuscito a metterli insieme pazientemente cercando e cercando. Empire. Fa impressione servirsi di questi piatti, non è vero? Si faccia quel che si vuole, l’uomo si sente legato a qualcosa che è stato prima di lui». Tutto nella stanza dava l’impressione di essere stato messo insieme nello stesso modo. Era un mondo di oggetti e di mobili finito, che aveva udito chissà quante volte discorsi simili a quelli, di uomini che cercavano di spiegarsi il mistero che li circondava, e le ragioni che li spingevano alla vita. Nessuno pensava che si potessero ridurre in frantumi con un solo gesto. Gli uomini erano scomparsi, travolti dagli avvenimenti, dall’incalzare delle generazioni, e le cose rimanevano miracolosamente illese. Decorazioni, linee, dorature, stemmi, vignette, parlavano d’un tempo in cui si fantasticava su un colore, su un frutto, su una foglia; letteratura e arte avevano fatto lo stesso; era incredibile di quante piccole cose si occupassero gli uomini297.

Incastonata dentro a un dialogo su piatti e porcellane, compare in questa scena una delle poche dichiarazioni metanarrative del romanzo, che punta tutta nella direzione suggerita da Bom295 

Ivi, p. 268. Ivi, pp. 26-27. 297  Ivi, pp. 94-95. 296 

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piani: la letteratura che si perde a fantasticare «su un colore, su un frutto, su una foglia» è ormai antiquata come le suppellettili del passato, e come i piatti Empire è destinata a farsi rimpiazzare da un’arte concreta, lineare, semplice. Ma proprio questo dettaglio materiale che dovrebbe conferire concretezza alla storia – ne abbiamo visto ormai numerosi esempi nella narrativa di successo di questi anni298 – non fa che accrescerne il potenziale inquietante: se anche i valori estetici di questo mondo oppressivo sono così simili ai nostri, non sarà il nostro presente una manifestazione della stessa distopia? 7.3. Tre traduttori ribelli Prima che qualche lettore possa farsi prendere da un dubbio del genere, l’apparato della censura si mette effettivamente in moto contro Alvaro. Le lettere tra lui e Bompiani conservano traccia non soltanto dello scambio letterario che porta alla versione definitiva del romanzo, ma anche della lunga serie di compromessi a cui autore ed editore devono piegarsi per essere sicuri che il libro venga messo in commercio: siamo ormai nel 1938 e la censura libraria non funziona più tramite avvertimenti informali, ma come un autentico, efficace sistema di controllo299. Il Minculpop chiede inizialmente lo stralcio di venti pagine del romanzo: per evitarlo Alvaro e Bompiani sono costretti a ricorrere ai loro rapporti personali con intellettuali vicini al governo, ottenendo infine che le modifiche siano ridotte al taglio di poche righe, all’eliminazione del titolo originale (Paura sul mondo) e all’inserimento di una nota introduttiva in cui l’autore dichiara esplicitamente che la vicenda è ambientata nella Russia Sovietica300. Come era accaduto cinque anni prima con il Fabian di Kästner, che Bompiani era riuscito a pubblicare grazie alla prefa298  Cfr. le immagini di arredamento “moderno” analizzate a proposito dei romanzi di Fallada, Keun e de Céspedes (supra, cap. III, § 5.3). 299  Sul progressivo irrigidimento delle pratiche di censura nel corso degli anni Trenta vedi supra, cap. III, § 1.3, nota 64. 300  Le vicende relative alla censura della versione originale del romanzo sono sinteticamente raccontate dallo stesso Alvaro nella prefazione all’edizione 1984 del romanzo. Ma cfr. in proposito anche Zaccaria, Corrado Alvaro-Valentino Bompiani cit.

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zione critica di Bontempelli301, anche stavolta i censori fascisti si accontentano di una dichiarazione d’intenti più che di modifiche sostanziali, in quello che sembra nient’altro che un gioco delle parti: gli autori evitano di opporsi pubblicamente al regime, i censori mostrano di credere che ribadire l’ambientazione tedesca di Fabian o quella russa di L’uomo è forte siano sufficienti a impedirne ogni più ampia interpretazione da parte dei lettori. Il problema del ruolo che l’attività letteraria ricopre in un regime dittatoriale è peraltro apertamente tematizzato nel romanzo di Alvaro. La tensione che si respira nei primi capitoli raggiunge il suo culmine quando, durante la cena a casa del Direttore, Dale viene a sapere qual è la ragione dei disordini di piazza a cui ha assistito per caso poco prima: – Un gruppo di intellettuali che si tenevano in rapporto con l’estero sono stati arrestati ieri sera. Non è ancora chiaro quale fosse la loro attività – disse il Direttore mettendosi a tavola. – In che modo si tenevano in rapporto con l’estero? – chiese Dale sedendosi più presto che poté sulla sua sedia. – Il pretesto era quello di dedicarsi a traduzioni di opere letterarie straniere. Ma si può immaginare che si trattasse di ben altro. A ogni modo, attività controrivoluzionaria302.

Dale capisce che si tratta di tre ragazzi con cui, la sera prima, si è intrattenuto in un locale a parlare di letteratura, e ai quali ha raccontato in perfetta buona fede degli autori e dei romanzi che ha avuto modo di conoscere durante gli anni trascorsi all’estero. La responsabilità morale della loro condanna è dunque sua, e i discorsi ambigui del Direttore sembrano addirittura confermare che questa colpa è già nota agli inquisitori. È forte la tentazione di leggere questo passo come un’esaltazione dell’audacia dei traduttori, come una dichiarazione di fede nella capacità naturalmente rivoluzionaria della letteratura: ma un’interpretazione del genere non sarebbe forse coerente con lo spirito antiretorico di Alvaro, che qui sembra anzi voler lanciare uno strale ironico proprio a quanti sarebbero felici di credere 301 Cfr.

supra, cap. III, § 6.1. L’uomo è forte cit., p. 91.

302 Alvaro,

iii. esperimenti di modernità

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che basti qualche libro a far tremare una dittatura. «La polizia moderna non teme le parole, teme i fatti», ha annotato nel suo diario qualche tempo prima303, e lui il coraggio di passare ai fatti non lo concede neanche ai personaggi di finzione: Dale non reagisce a quella che pure considera una palese ingiustizia, né viene mai chiarito se i tre ragazzi fossero “innocenti” letterati o se stessero davvero svolgendo attività sovversive. Alvaro, amico di traduttori che in questi anni lavorano anche come censori per il regime e protagonista lui stesso dell’ambigua vita letteraria del tempo, conosce le regole del gioco e come Dale non ha la forza di contrastarle apertamente. Con L’uomo è forte sembra voler prendere le distanze da Vent’anni, il romanzo che all’inizio del decennio aveva ricevuto il plauso degli intellettuali fascisti per la sua capacità di porre l’accento «sul noi e non sull’io»304: ad esempio facendo pronunciare a Barbara questa stessa frase invertita di segno, nel momento in cui la donna capisce che per l’Inquisitore la sua colpa è semplicemente quella di voler essere io e non noi305. Ma non poteva bastare un passaggio del genere a impensierire i lettori più vicini al fascismo, che anzi, nel 1940, assegneranno al romanzo il Premio Mussolini dell’Accademia d’Italia, dimostrando ancora una volta una notevole lungimiranza nel disinnescare un potenziale oppositore306. Alvaro sa insomma che dietro la pubblicazione di ogni libro ci sono compromessi tutt’altro che eroici, e che nulla verrebbe dato alle stampe se non fosse considerato più che innocuo. Gli unici a non sapere tutto questo sono proprio i lettori della generazione più giovane, quelli che, formatisi su romanzi che forse anche per ingenuità hanno preso sul serio, decideranno qual303 Id.,

Quasi una vita cit., p. 53. Cfr. Baldini, Un editore alla ricerca di un’avanguardia cit., p. 210. 305  «Essere uno. Ecco la colpa. Bisognava essere tutti» (Alvaro, L’uomo è forte cit., p. 109). 306  Già nel 1931, con Gente in Aspromonte, Alvaro era stato proposto per il premio della «Stampa» ma la decisione aveva provocato l’opposizione di Pancrazi, contrario a premiare un autore che era stato tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti. Margherita Sarfatti, all’epoca amica di Alvaro, era allora intervenuta in sua difesa con la motivazione che un premio lo avrebbe certamente dissuaso dallo scrivere ancora contro di loro (cfr. Rachele Ferrario, Margherita Sarfatti. La regina dell’arte nell’Italia fascista, Mondadori, Milano 2015, p. 273). 304 

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che anno dopo di passare dalle parole ai fatti. Personaggi come il già citato Mario Pasi, che trova nei romanzi di Wassermann una motivazione ulteriore per entrare nella lotta partigiana, ma anche come il giovane Primo Levi che negli anni precedenti alla guerra legge la Montagna incantata di Thomas Mann quasi fosse un «viatico»307, o come Calvino, Fenoglio, Pavese, che maturano come scrittori sui volumi della romantica di Borgese e su quelli della biblioteca europea di Frassinelli. La scena narrata in L’uomo è forte sembra allora davvero una premonizione di quello che accadrà di lì a poco: mentre Dale, l’uomo consapevole che ha fatto esperienza del mondo, parla di libri con leggerezza e anche con una certa indifferenza, i tre giovani, per i quali quelle parole sono invece l’apertura a una realtà radicalmente nuova, se ne entusiasmano tanto da mettere a repentaglio le loro stesse vite pur di vederla realizzata. Alvaro affronta con anticipo quello che diventerà un problema morale per gli uomini della sua generazione, la cui irrisolutezza di fronte al fascismo obbligherà all’azione quanti sono cresciuti dopo di loro, e si sono formati sui loro libri e sulle loro parole – per Alvaro sarà anche il figlio Massimo, classe 1918, che prenderà parte alla guerra partigiana nelle colline del bolognese mentre suo padre è nascosto a Chieti sotto falso nome. I giovani di cui si parla qui sono insomma quelli che per ora sono soltanto lettori, ma che nel dopoguerra si faranno carico della ricostruzione anche raccogliendo il testimone di questa stagione letteraria e che, dopo aver imparato a “scrivere male” dai romanzi in traduzione, daranno forma alle opere più importanti del nostro Novecento.

307  Primo Levi, Il sistema periodico [1975], in Id., Opere, Einaudi, Torino 1987, vol. I, p. 460. Nel brano Levi descrive brevemente l’edizione, che si intuisce essere quella tradotta da Bice Giachetti Sorteni per la scrittori di tutto il mondo di Gian Dàuli.

Epilogo. Traduzione e rimotivazione

Neppure negli anni più bui della dittatura e della guerra mondiale l’attività di editori, scrittori e traduttori si interrompe del tutto, né di conseguenza finiscono i tentativi di dare forma attraverso la scrittura a una modernità che, tanto nelle sue manifestazioni più liberatorie che in quelle più coercitive e apocalittiche, è ormai percepita come una condizione oggettiva. Nei proletari di Döblin e di Dèttore, negli uomini comuni di Fallada e di Barbaro, nelle donne che sanno maneggiare i soldi descritte da Keun e de Céspedes, nel Kafka che dev’essere tradotto per «un motivo serio» e nei labirinti giuridici di Wassermann o Alvaro si continua ad avvertire il bisogno di dare senso a una realtà percepita come nuova e incomprensibile, bisogno che si fa anzi tanto più urgente man mano che questa modernità immaginata in mille forme sembra assumere il volto di un unico, oppressivo sistema di controllo. Eroicizzare quanti in questa fase si adoperano per aprire strade alternative, a cominciare dai traduttori, è una tentazione forse ingenua – si è visto quante opere letterarie poi acclamate come rivoluzionare siano nate da penosi compromessi al ribasso o per pura e semplice eterogenesi dei fini –, ma anche considerare la realtà dei fatti come del tutto impermeabile al loro lavoro sarebbe inutilmente cinico: i nessi intermedi con cui Borgese si ostinava a connettere particolare e universale sono facilmente visibili se si cercano nelle pratiche quotidiane di chi, per idealismo o per necessità, scrive, traduce, stampa, diffonde e vende la «scabra prosa». La multiforme riflessione di questa fase storica, tuttavia, viene in gran parte accantonata a partire dal secondo dopoguerra, quando l’urgenza di tagliare i ponti con quello che è accaduto nel ventennio precedente spinge gli attori della

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nuova fase ad autorappresentarsi come il più possibile estranei al passato. Cosa rimane dunque di quel «senso prosaico» su cui ci si è per decenni interrogati, che sorgeva dai problemi di traduzioni posti dal Wilhelm Meister e che poi, passando per le “brutte scritture” di un Borgese o di uno Svevo, ricompariva tra i consigli ai giovani scrittori impartiti da un editore originale come Bompiani? La battaglia a favore di una letteratura più prosaica e moderna è certo riuscita a riscrivere almeno in parte le regole del gioco: grazie anche alla circolazione sempre più intensa di romanzi stranieri, soprattutto contemporanei, e alla riflessione su concetti come quello borgesiano di «costruzione», gli scrittori italiani hanno progressivamente allentato i lacci dell’estetica primonovecentesca e iniziato a concentrarsi sui problemi architettonici e stilistici posti dalle forme narrative lunghe, mettendo in discussione il mito peraltro mai realmente formalizzato della “bella scrittura”. È però proprio il successo che tale riflessione raggiunge in questa fase politicamente così ambigua a ribaltarsi, nel dopoguerra, in una nuova ragione di discredito. Lo si osserva non tanto nelle pratiche, che inevitabilmente possono solo raccogliere il testimone di quanto fatto in precedenza, quanto nelle teorie e nelle “autorappresentazioni” del secondo Novecento, sia di quanti riprendono a sostenere, con Papini, che il romanzo è tra i generi «non fatti per noi», sia di quanti si metteranno ancora una volta a riedificare il romanzo come partendo da zero (la lunga rimozione di Borgese è in questa chiave uno degli elementi più significativi). Anche le poche novità che sopravviveranno, come i primi esperimenti di romanzo “neo-realista” o lo stile stringato dei dialoghi introdotto dalle traduzioni di romanzi stranieri, finiranno così, nell’immaginario collettivo, per essere postdatate al secondo dopoguerra. Il tempo del romanzo, per la cultura italiana, è del resto innegabilmente il secondo Novecento, grazie anche al radicarsi di una riflessione teorica che come abbiamo visto nasce nei primi decenni del secolo ma che solo molto tempo dopo – con le traduzioni degli studi di Lukács e di Bachtin, o la pubblicazione di volumi capitali come Il romanzo del Novecento di Debenedetti – raggiunge finalmente tutti i suoi potenziali lettori.

epilogo. traduzione e rimotivazione

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Se quasi tutti i protagonisti della nostra storia scompaiono dal canone letterario del Novecento, tuttavia, lo stesso non accade per il repertorio di romanzi stranieri che in questi stessi anni diventano patrimonio condiviso dei nuovi lettori. Le citate testimonianze di autori come Levi o Calvino dimostrano quanto i volumi della romantica o della scrittori di tutto il mondo, al di là dei limiti che le traduzioni dell’epoca potevano avere, siano stati determinanti nel formare una nuova generazione di lettori e di scrittori. Rimanendo sulla letteratura di lingua tedesca, che ci ha fornito fin qui una casistica relativamente limitata su cui è stato possibile concentrarci, è facile osservare come il repertorio di autori e di romanzi consacrato dalle collane degli anni Venti e Trenta rispecchi con poche variazioni quello vigente ancora oggi, formato dai romanzi di Goethe, di Thomas Mann, di Kafka e di Döblin. I nomi che si aggiungeranno a questo nucleo di letture “tedesche” col procedere del Novecento saranno meno numerosi ma altrettanto importanti: dal Musil dell’Uomo senza qualità, tradotto alla fine degli anni Cinquanta da quella stessa Anita Rho che abbiamo incontrato alle prese con i primi racconti di Kafka, passando per autori come Günter Grass, Heinrich Böll o Ingeborg Bachmann che saranno punti di riferimento per la generazione degli anni Sessanta e Settanta, fino a un narratore inclassificabile e imitatissimo come Thomas Bernhard. Anche per gli autori che già da tempo circolano in traduzione, peraltro, è il secondo Novecento il momento della consacrazione decisiva, con le traduzioni integrali di Kafka e di Mann e la rilettura, in un contesto che sembra voler ricominciare da capo la riflessione sulla prosa romanzesca, di opere come Berlin Alexanderplatz. Quest’ultimo è forse il caso che meglio si presta a mostrare come le scoperte degli anni Venti e Trenta rimangano vitali nel corso dell’intero secolo. Nel 1963 Döblin viene infatti rilanciato da Rizzoli come «il poeta epico dell’industrialismo» e posto a capostipite di una letteratura che indaga il problema dell’uomo-macchina nella moderna civiltà di massa: «Non si discute di qualcosa di simile oggi in Italia?», si chiede nella nuova prefazione al volume il germanista milanese Giorgio Dolfini, che ricolloca così il romanzo nel cuore del dibattito del suo tempo sottolineando come il momento di leggerlo sia «oggi, quando le

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strutture del romanzo sono ancora poste in discussione; oggi in Italia, quando i nostri lettori (tardivi ma con slancio) scoprono l’Ulisse […]». La storia di questa riedizione è ancora tutta da approfondire, ma già si intuisce come anche in questo caso a decidere la nuova lettura sia il contesto d’arrivo, quello dell’Italia anni Sessanta in cui si sta facendo strada l’interesse per il romanzo industriale e per un tipo di scrittura più aperto alle sperimentazioni linguistiche e dialettali, che riscopre non soltanto Döblin, ma anche Joyce – tradotto da Linati fin dagli anni Venti ma divenuto un classico imprescindibile per il lettori italiani solo grazie alla prima traduzione integrale dell’Ulisse – o il Céline di Viaggio al termine della notte – altro autore già portato in Italia dalla collana di Gian Dàuli nel 1933 ma tornato all’onore delle cronache trent’anni dopo con la traduzione caproniana di Morte a credito. Siamo insomma in un contesto letterario radicalmente mutato ed effettivamente molto più fertile per una letteratura di questo tipo: nondimeno, almeno per Berlin Alexanderplatz, la traduzione resta sempre quella di Spaini, presentata come «prima edizione integrale» ma in realtà appena ritoccata e ripulita dalle soluzioni linguistiche più datate. Questo caso spinge anche a qualche ulteriore considerazione sul fatto che analizzare una singola letteratura nazionale in traduzione – quello che cioè si è provato a fare qui con la letteratura tedesca – sia davvero possibile. Nel momento in cui si sceglie come centro di gravità il campo d’arrivo, nel quale mediatori, collane e poetiche di interpretazione sono in gran parte gli stessi per tutte le letterature, le partizioni nazionali appaiono infatti molto più labili: anche nel corso di questo lavoro, per quanto si sia cercato di rimanere entro i binari della letteratura di lingua tedesca, non si è potuto del resto evitare di fare occasionalmente riferimento al ruolo della Francia, che rimane ancora per buona parte del Novecento il perno di ogni consacrazione letteraria, o a uno scrittore come Dostoevskij, che da solo sembra pesare sulla tradizione italiana quanto tutti i romanzieri tedeschi messi insieme. Le relazioni insomma non sono mai binarie, ma sempre intrecciate in nodi problematici che ha senso provare a separare solo ai fini di una ricerca specifica, senza però dimenticare che, nella realtà, non si tratta di fenomeni davvero districabili. Nel-

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la realtà dei lettori, infatti, la “letteratura” è qualcosa di molto più compatto e autoevidente, qualcosa di più simile ai grandi scaffali di una biblioteca in cui le opere non sono separate per appartenenza linguistica e a volte neanche distinte tra italiane e tradotte. E tra esse rimangono magari per decenni romanzi tagliati e manipolati, letti da generazioni intere in versioni che oggi considereremmo inaccettabili e che pure hanno avuto la loro diffusione, ispirando anche attraverso interpretazioni discutibili altri scrittori. L’aspetto che questo libro voleva infine far emergere riguarda appunto il modo in cui si forma il nostro repertorio concreto di letteratura, fatto non di grandi personalità di cui si indaga la volontà ultima, ma di persone comuni che hanno precisi interessi e di opere che vengono fraintese, reinterpretate, manipolate, in una parola trasformate in qualcosa d’altro, forse meno corretto ma certamente più vivo. Il romanzo è il genere letterario che teme meno di tutti questa “vita di incomprensioni”: mai affidato a un singolo elemento – la sola trama, o la sola lingua, o il destino di uno solo dei suoi personaggi – affronta con la complessità delle proprie strutture il trauma di una modernità che tutto disgrega, e nella quale si può continuare a esistere solo accettando di modificarsi a propria volta. «Ciò che più amiamo è ciò che più profondamente trasformiamo», scrive Borgese in uno dei suoi primi studi a proposito della figura di Prometeo, mostrando come il mito antico resti inerte per lunghi secoli fino a che i romantici, invertendone (fraintendendone?) radicalmente il significato, non lo rendono di nuovo un oggetto vitale per la cultura del loro tempo. Ogni epoca ha lo stesso bisogno di riadattare, di riscrivere, di rimotivare forme che le sono estranee per ragioni geografiche o temporali, e che in ragione di questa distanza appaiono talvolta relitti privi di senso: la ricostruzione di questo tessuto di significati, in letteratura, è demandata in gran parte ai traduttori, quelli che meno di tutti possono sottrarsi al lavoro di compromesso e che ci fanno vedere anche le opere che più amiamo nelle loro contraddizioni e storture, in tutti quegli «atti corpulenti», umani, che ce le rendono infine necessarie.

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Archivio apice Archivio Croce Archivio Prezzolini Archivio Sapienza Archivio Spaini Fondo Allason Fondo Antonicelli Fondo Borgese Fondo Gandini Fondo Scalero

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Indice dei nomi

Abruzzese, Alberto  65n Adamo, Sergia  124n Agazzi, Elena  52n Ahlstedt, Eva  281n Åkerström, Ulla  270, 281n Albertazzi, Adolfo  39n, 78 Alberti, Alberto Cesare  237n Albertini, Alberta  204n Albonetti, Pietro  29n, 122n Aleichem, Sholem  99n Aleramo, Sibilla  172, 204, 205n Alessio, Luigi (Alex Alexis)  228 e n Alfano, Giancarlo  28n Alighieri, Dante  100 Allason, Barbara  17, 21n, 44 e n, 70-84, 202n, 205, 265, 271, 286-289 Allason, Ugo  74 Alvaro, Corrado  27, 99, 197 e n, 202, 213, 214n, 228, 236-238, 254n, 268n, 283 e n, 302-314 Alvaro, Massimo  314 Amendola, Giovanni  302, 303n Anceschi, Luciano  197 Anderson, Sherwood  211 e n Andreazza, Fabio  329n Antonello, Anna  34, 50n, 194n Antonelli, Luigi  116n Antonicelli, Franco  202, 288-291 Apollonio, Mario  236n Auerbach, Erich  14 e n Ara, Angelo  46n

Ardali, Paolo  265n Austen, Jane  81 e n, 172, 270-271 Bacchelli, Riccardo  41n, 125n, 126 e n, 127n, 128, 134n, 145n, 146n, 175n, 196 Bachmann, Ingeborg  317 Bachtin, Michail 14, 21 e n, 23, 28n, 30n, 55 e n, 56n, 62, 124, 175n, 316 Baioni, Giuliano  142n Baioni, Paola  97n Baldini, Anna  32n, 34, 197n, 313n Baldini, Antonio  125n, 197 Bally, Charles  295n Balzac, Honoré de  24n, 175n, 186, 203n Barbaro, Umberto 27, 122n, 191, 197, 198, 218n, 237n, 238-247, 315 Barbina, Alfredo  237n Barrale, Natascia  201n, 220n, 264n, 265n Baum, Vicky  26, 205, 208n, 262, 265, 266, 270, 273n, 282 Bellonci, Goffredo  271n Benco, Silvio 57n, 195 e n, 196, 271 e n, 272n, 289, 290n Ben-Ghiat, Ruth  89n, 185n, 192n Benjamin, Walter  147 Benussi, Cristina  194n Berchet, Giovanni  41n, 49-50, 163n

352

Bergstraesser, Arnold  179n Berman, Antoine  30n, 31n, 232n Berman, Marshall 16, 18n, 87n, 261n Bernard, Enrico  235n Bernari (Bernard), Carlo  216, 234 e n, 235n, 236, 279n Bernhard, Thomas  317 Berti, Raffaele  239n Bertoldi, Alfonso  97 Bertolotti, Silvia  179n Bevere, Sandra  237n Bevilacqua, Giuseppe  96n Bibbò, Antonio  30n, 34, 219n Biagi, Daria 17n, 32, 40n, 53n, 138n, 265n Billiani, Francesca  39n, 197n, 200n, 211n Blasetti, Alessandro  281, 282n Boine, Giovanni  41 e n, 44n, 242 Boito, Arrigo  92 e n Bolchi, Elisa  220n, 223n Böll, Heinrich  317 Bolza, Giovanni Battista  132n Bompiani, Valentino  185, 197-198, 200, 202, 248-250, 252, 272, 283-285, 304-305, 306n, 308309, 311 e n, 316 Bonsaver, Guido  208n, 281n, 282n Bontempelli, Massimo 172, 197, 198, 202, 213 e n, 283-285, 288, 312 Bontempelli, Pier Carlo  44n Boo, Sigrid  253n Borgese, Giovanna  34 Borgese, Giuseppe  95n, 97n, 108 Borgese, Giuseppe Antonio  9, 14, 21n, 22-25, 27, 33, 40 e n, 46, 48 e n, 50n, 52-53, 55, 57n, 60-61, 69, 81n, 84, 88-180, 183-187, 189-190, 197 e n, 202, 203n, 208n, 221, 223 e n, 231, 235 e n, 240-243, 268,

prosaici e moderni

272, 285, 303 e n, 304n, 314316, 319 Borgese, Leonardo  104, 156 Borgese, Maria v. Freschi, Maria  Boschetti, Anna  77n Bosco, Angela Maria  281n Bottacchiari, Rodolfo  106n Bottai, Giuseppe  305 Bourdieu, Pierre  31n, 77n, 219n Boyd, Ernest  131n Bragaglia, Anton Giulio  49n, 237 e n, 239, 309n Braida, Lodovica  198n, 308n Brancati, Vitaliano  178n, 183-184, 190-191, 202, 300 Brandist, Craig  21n Brecht, Bertolt  216, 223, 237 e n, 253n Brentano, Bettina  79n Brizio-Skov, Flavia  193n Broch, Hermann  189-190 Brod, Max 289n, 291 e n, 292n, 297 Brontë, Charlotte  270 Brontë, Emily  24n, 270 Brunetta, Gian Piero  239n Brunngraber, Rudolf  205, 308 Buber, Martin  179n Büchner, Georg  48-49, 223 Buff, Charlotte  158 Bülow, Bernhard von  99 Bürger, Gottfried August  50 Caffi, Andrea  115, 173 Cajumi, Arrigo  127 e n Calì, Vincenzo  301n Calvino, Italo  25, 172n, 176n, 314, 317 Calzini, Raffaele  116n Campanella, Tommaso  307 Campaux, Susanna  307n Cane, Elena  242 Canello, Ugo Angelo  113n

indice dei nomi

Cangiano, Mimmo  34, 68n Cannistraro, Philip  208n, 210n Capoferro, Riccardo  28n, 34 Capriolo, Paola  292n Caprin, Giulio  81n, 171n, 271n Caprin Oxilia, Doletta  88n Carabba, Gino  51 e n Carabba, Rocco  51n Carducci, Giosue  91, 111, 150 e n Caristia, Stefania  49n Carlesi, Ferdinando  175n Carniel, Luisa (Gigetta) 63 e n, 64n, 65n Casalegno, Andrea  94n Casini, Gherardo  207n Cassirer, Ernst  21n, 44n, 111n Castaldo, Achille  237n Cecchi, Emilio 125n, 126, 127n, 128, 131 e n, 133n, 134n, 194, 195n, 196-197 Čechov, Anton  186 Celiberti, Nicola  50n Céline, Louis-Ferdinand  201, 219, 228, 235n, 318 Ceresa, Angelo  133n Ceroni, Riccardo  161n, 168 Cervantes, Miguel de 30, 171n, 175 e n, 207 Chamisso, Adelbert von  106, 155, 156-158, 161-162, 176n Chatterton, Thomas  73 Chiarini, Luigi  239n Ciàmpoli, Domenico 41n, 49-51, 69, 193 Cicognani, Bruno  197 e n Cirillo, Silvana  237n Citati, Pietro  127n Coardi, Carlo  230n, 253 Coda, Elena  63n Cohen, Hermann  111n Colorni, Eugenio  178 Comisso, Giovanni  197, 307n Conrad, Joseph  40n

353

Consiglio, Alberto  188, 194 e n Cornelio Nepote  129 Corradini, Enrico  97 Costagli, Simone  239n, 288n Crain Merz, Noemi  75n, 79n, 80n Creizenach, Wilhelm  47n Crémieux, Benjamin  188 e n Croce, Benedetto  23, 32n, 33, 38n, 39 e n, 60 e n, 75, 78 e n, 80, 91 e n, 95n, 97, 103 e n, 105n, 107-114, 118-120, 127n, 128n, 171 e n, 184, 187, 289, 302 Cronin, Archibald Joseph  202 Culeddu, Sara  34 Curto, Girolamo  113n Cusatelli, Giorgio  52n d’Ambra, Lucio  197n D’Angelo, Paolo  111n D’Annunzio, Gabriele  40n, 97, 125n, 126, 127n, 128n, 218, 224, 140, 185n, 307n Daudet, Alphonse  24n, 163 Dàuli, Gian  25, 33, 117, 200, 201n, 204, 210, 219-223, 229, 247n, 298, 307n, 314n, 318 da Verona, Guido 16n, 24n, 72, 116, 118, 121, 125-127, 131, 206, 207n, 208n, 218, 253n David, Michel  201n, 228n Debenedetti, Giacomo 12 e n, 21 e n, 24n, 39 e n, 62, 120 e n, 124n, 128n, 155n, 166, 172, 188 e n, 194,196 e n, 219n, 308n, 316 de Céspedes, Alba 27, 83, 191, 270-281, 300, 306, 311n, 315 Decleva, Enrico  122n, 172n, 202n, 255n, 271n, 281n De Cristofaro, Francesco  28n Defoe, Daniel  172, 175n, 253n de Grazia, Victoria  71n, 274n Dekobra, Maurice  190n

354

Deledda, Grazia  227, 270, 279n De Leva, Giovanni  140n De Lucia, Stefania  32n, 34 Del Zoppo, Paola  90n De Maria, Luciano  134n, 140n de Martino, Ernesto  103 De Michelis, Ida  90n De Robertis, Giuseppe  20, 46n De Roberto, Federico  242 De Sanctis, Francesco  113n De Seta, Ilaria  172n, 179n Desideri, Fabrizio  14n Detken, Anke  225n Dèttore, Ugo 27, 191, 202, 233, 238, 247-252, 253n, 272, 315 Di Battista, Flavia  34 Dickens, Charles  77, 172 Di Giulio, Paola  237n Dilthey, Wilhelm  14, 21 e n, 44 e n, 56 e n  D’Ina, Gabriella  249n d’Intino, Franco  34 Di Tizio, Raffaella  237n Döblin, Alfred  17 e n, 26, 31, 33, 48, 49, 177, 196, 203, 204, 208n, 209, 210, 214-223, 225226, 229 e n, 232 e n, 233, 234n, 235 e n, 236, 238, 239, 243, 249n, 250, 254, 267, 315, 317, 318  Dolci Rotondi, Dora  205 Dolfini, Giorgio  317 Dos Passos, John 33, 201, 203, 235n, 249n, 273n Dostoevskij, Fëdor 12, 121, 123, 124 e n, 131, 135, 172, 173, 175n, 186, 222, 261n, 270 e n, 290 e n, 307, 318 Doyle, Conan  207n d’Urfé, Honoré  171n, 175 D’Urso, Marco  140n Duse, Eleonora  173

prosaici e moderni

Ebner-Eschenbach, Marie von   7678 Eichendorff, Joseph Freiherr von  157, 176n Eliot, George  24n, 155n, 172 Emanuelli, Enrico 191, 233, 235236, 285 Esposito, Edoardo  124n, 200n Even-Zohar, Itamar  32n Fabre, Giorgio  190n, 208n Fagnani Arese, Antonietta  161n Fallada, Hans  26, 177, 203, 204n, 205, 212 e n, 216, 253-260, 262, 263n, 264n, 267, 270, 273n, 274, 276, 279, 283, 311n, 315 Falqui, Enrico  235 e n Fantappiè, Irene  32n, 34 Farinelli, Arturo 43n, 72 e n, 74, 75, 80, 104, 113n, 203n, 285, 287 e n, 288 Fasola, Carlo  43n, 49n Faulkner, William  40n Fenoglio, Beppe  314 Fernandez, Ramon  188 Ferrando, Anna  197n, 201n, 220n, 230n Ferrario, Rachele  313n Ferrieri, Enzo  194n Ferrua, Lidia  34 Feuchtwanger, Lion  204, 221, 249n Fichte, Johann Gottlieb  52, 61, 75 Fielding, Henry  78, 175n Fioretti, Giulio  98n Flaubert, Gustave 24n, 172, 173, 175n, 186, 203n Fleres, Ugo  78n Foà, Augusto  113n Fólica, Laura  49n Foscolo, Ugo  39n, 50n, 106 France, Anatole  24n

indice dei nomi

Franchi, Franco  205 Frank, Bruno  173 Frassinelli, Carlo 200, 202, 205, 290 e n Freschi, Maria  271, 274n Freud, Sigmund  129, 247n Gabetti, Giuseppe  113n Galinetto, Carla  15n, 47n Galli, Matteo  286n Gallian, Marcello  237n Gallino, Luciano  209n Gallucci, Carole C.  281n Gandini, Elvira  171n Gargiulo, Alfredo 127 e n, 128n, 134n, 300n Gazzino, Giuseppe  90 Geiger, Benno 89 e n, 95n, 98n, 100 e n, 104-105, 106n, 159n Geiger, Pauline  89 Geiger Ariè, Elsa  100n, 104n, 105n Gentile, Emilio  34 Gentile, Giovanni  44n, 95n, 112n, 178, 183 George, Stefan  48n Gerbi, Sandro  179n Giachetti Sorteni, Bice  204, 205n, 314n Giancristofaro, Emiliano  50n Gigli, Lorenzo  40n, 271n, 307n Gillet, Louis  131n Ginzburg, Leone  289 Giolitti, Giovanni  88 Giometti, Gino  30n Giudice, Gaspare  304n Giudicetti, Gian Paolo  134n, 140n Gnoli, Tomaso  155n, 180n, 223n Gobetti, Piero  75, 78, 79 e n, 80n, 83 e n Goethe, Johann Wolfgang  14, 15, 17-19, 21n, 22, 23 e n, 26, 32 e n, 38 e n, 41n, 42-47, 49-61, 63-66, 70, 75, 79n, 83, 87n,

355

90n, 91 e n, 94n, 102-107, 110n, 113 e n, 122n, 131, 132 e n, 133n, 135, 137, 139, 141n, 142-144, 146-153, 155, 156, 158-161, 164n, 167 e n, 168n, 170, 171n, 172, 173, 174n, 175n, 176n, 179 e n, 191 e n, 202, 239, 241 e n, 243, 244 e n, 263, 272, 287n, 291, 317 Gogol’, Nikolaj  97, 172, 173, 261n Goldsmith, Oliver  163n Goll, Francesca  73n Goncourt, Edmond de  24n Gotta, Salvator  116n, 126n Grana, Gianni  109n Grass, Günter  317 Grassi, Gaetano  161n Graziani, Luisa  161n, 165 Grifoni, Giovanna  179n Grimm, Jakob  167, 168n Grimm, Wilhelm  167, 168n Grimmelshausen, Hans Jakob Christoffel von  207 e n, 253 e n Grotheuysen, Bernard  290n Guerrieri, Anselmo  90 Gutiérrez Marín, Manuel  225n Haas, Claude  44n Harden, Maximilian  99 Hardy, Thomas  81n Harrison, Thomas  46n Hauptmann, Gerhart  99 Hebbel, Friedrich  42n, 106, 155 e n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich  21n, 56 e n, 119, 129, 173, 174n, 175 Heine, Heinrich  106, 176 e n Hemingway, Ernest  273n Hermans, Theo  31n Hesse, Hermann  287n Hoffmann, E.T.A.  202, 226, 286287, 290n Hofmannsthal, Hugo von  48n, 100, 106, 173

356

prosaici e moderni

Hölderlin, Friedrich  44 e n, 48 Holland, Katrin  211 e n Holzer, Kerstin  179n Huch, Ricarda  221 Hugo, Victor  24n Huss, Bernhard  34 Huxley, Aldous 40n, 249, 270, 307 e n

Keun, Irmgard  205, 262, 265-267, 274, 282, 311n, 315 Kipling, Rudyard  177 Kleist, Heinrich von  106 Kőrmendi, Ferenc  202, 218n Kracauer, Siegfried  209 e n Kraus, Karl  303 Künzler, Pauline  76

Imbriani, Vittorio  91 e n, 93n, 112n, 113n, 180 Imperatori, Giorgio  286n Inisca, C.S.  299n Invernizio, Carolina  125

La Fontaine, Jean de  78, 175n Langella, Giuseppe  122n Lasker-Schüler, Else  48, 221 Laterza, Giovanni  38n, 60n Leavitt IV, Charles L.  204n Lederer, Joe  205, 262, 265, 266 Lenzi, Celso A.  197n Leopardi, Giacomo  177, 235 Lessing, Gotthold Ephraim  44 e n, 171n Lesti, Marino  149n Levi, Edvige  149n Levi, Eugenio  127 e n Levi, Primo 233, 234n, 292 e n, 314 e n, 317 Lewis, Sinclair  201, 220 Linati, Carlo  219 e n, 318 Lio, Eugenio  52n List, Paul  173 Locatelli, Massimo  239n Loerke, Oskar  173n London, Jack  201 e n, 307 Lorck, Étienne  293n Löwy, Marcello  66, 155 Ludger, Corrado  161n Ludwig, Emil  180 e n, 191n Lukács, György 14, 21 e n, 23 e n, 28n, 44n, 55 e n, 56n, 94n, 124, 174-176, 247, 316 Lunzer, Renate  46n Lumachi, Monica  304n, 309n Luperini, Romano  65n Lutero, Martin  168n Lützeler, Paul Michael  189n

Jacobsen, Jens Peter  173 Jahier, Piero  47, 242 James, Henry  186 Jaricot, Paolina Maria  79n Jerusalem, Karl Wilhelm  158 Joachim, Joseph  99 Jolas, Eugene  225n Joyce, James  70, 124n, 202, 219 e n, 288, 318 Jung, Carl Gustav  129 Kafka, Franz  49 e n, 70, 202 e n, 205 e n, 208n, 209, 230n, 288298, 301, 307, 309 e n, 310, 315, 317 Kaiser, Gerhard  87n, 147n Kamptz, Karl Albert von  286 Kant, Immanuel 21 e n, 22, 56n, 110, 127n, 152, 157, 190 Kästner, Erich  177, 202, 205, 213, 216, 230n, 253, 254, 283, 284 e n, 285n, 308, 311 Kaus, Gina  205, 265 Keller, Gottfried  202n Kennard, Joseph Spencer  39n, 78 Kerbaker, Michele  113n Kesten, Hermann  204, 218n, 239, 246 e n, 247 e n

indice dei nomi

Macconi, Maria Grazia  179n Maffei, Andrea  90  Magherini, Simone  163n Magris, Claudio  46n Mähl, Hans-Joachim  55n Malagoli, Roberta  189n Manacorda, Guido  38n, 60n, 203n Mandalari, Maria Teresa  149n Manghetti, Gloria  163n Mann, Heinrich  205-206 Mann, Elisabeth  179n Mann, Klaus  220 Mann, Thomas  13, 14, 17 e n, 48 e n, 49n, 78, 173, 178, 179n, 196, 201, 202n, 204-206, 208n, 216, 220-223, 239, 247 e n, 249n, 301, 304, 314, 317 Mann Borgese, Nica  34 Mansfield, Katherine  270 Manzoni, Alessandro 11 e n, 20, 39n, 40n, 106, 121, 122 e n, 163n, 186, 187, 196, 198, 241, 242, 270, 307n Marazzi, Elisa  201n Marchesi, Giambattista  39n Marchetti, Carlo  285n Marchione, Margherita  41n Marghieri, Clotilde  95n, 96n, 177 en Margueritte, Victor  24n, 72 Mariani, Mario  24n, 72, 116n, 123, 206 e n Marin, Biagio  47 Marinetti, Filippo Tommaso  285n Marx, Karl  20 e n, 129 Martinetti, Piero 22, 110 e n, 111n, 170n, 179n Masino, Paola  285 Matteotti, Giacomo  75n, 302n Maupassant, Guy de  177 Mazza, Donatella  52n Mazzarella, Arturo  44n Mazzetti, Elisabetta  49n

357

Mazzini, Giuseppe  113n Mazzoni, Guido (1859-1943) 97, 163n  Mazzoni, Guido (1967)  28n Mazzucchetti, Lavinia  17, 50 e n, 51, 69, 76, 78, 105n, 141n, 149n, 159n, 176n, 178n, 193, 201 e n, 202, 203n, 205, 206 e n, 211 e n, 217, 218n, 219, 222, 223n, 224, 253n, 262, 285n, 289 e n, 298, 300 e n McKeon, Michael  28n Meizoz, Jérôme  121n, 122n, 219n, 228n Meldini, Piero  268n Melville, Herman  202 Menassé, Giuseppe  289 e n Mengoni, Martina  234n Meredith, George  173, 186 Merlo, Elisa  270 Michelstaedter, Carlo  47 Micocci, Claudia  65n Miglio, Camilla  34 Mila, Massimo  76, 289 Mirabelli, Lorenzo  49n Missiroli, Mario  271n Mistral, Frédéric  97 Mitzky, Dora  159n Modena, Anna  194n Modiano, Guido  156 Mondadori, Arnoldo  117, 154, 171 Monelli, Paolo  99, 268n Monotti, Francesco  289n Montale, Eugenio  12n, 271 Mor, Lucia  288n Morace, Aldo Maria  308n Moravia, Alberto 23n, 135, 138, 139, 177, 190n, 196-198, 221, 236, 239, 242 Moretti, Erica  80n Moretti, Franco  38n Morgana, Silvia  125n Mörike, Eduard  176 e n

358

Morpurgo-Tagliabue, Guido  178 e n Motchane, Zoya  225n Mugnoz, Arturo  47 Müller, Hans von  286n Murà (Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri) 72 Murger, Henri  163 Musil, Robert  68n, 100, 202 e n, 317 Mussolini, Arnaldo  190n Mussolini, Benito  95, 180 e n, 190n, 265n, 281n, 282n, 288, 313 Nencioni, Enrico  113n Nerenberg, Ellen  274n, 281n Neumann, Alfred  204 e n, 223n Niccodemi, Dario  116, 121 Nietzsche, Friederich  72n, 73 e n, 177 Nievo, Ippolito  196 Nigro, Salvatore Silvano  11 Novalis  9, 12, 14-15, 17, 44 e n, 48n, 54-56, 58, 60-63, 72n, 75, 106 e n, 131, 203n Oblath, Elody  63 e n, 66 Ojetti, Paola  163n Ojetti, Ugo  194, 197, 285n Olivieri, Mariarosaria  96n, 100n Omero 225 Onofri, Massimo  111n, 128n, 306n Oriani, Alfredo  53 Ortega y Gasset, José  179n Orwell, George  306n, 307 Paci, Enzo  197 Pagnani, Marco  301n Pajetta, Giancarlo  289n, 290n Palazzeschi, Aldo  163 e n, 197, 242 Palazzolo, Maria Iolanda  192n Palumbo Mosca, Raffaello  122n Pancrazi, Pietro  127 e n, 130 e n, 313n

prosaici e moderni

Panzacchi, Enrico  113n Panzini, Alfredo  163, 197 Paoli, Rodolfo  205n, 288n Papini, Giovani 41 e n, 55n, 69, 72 e n, 91-94, 95n, 96 e n, 97, 100 e n, 117n, 122n, 175n, 177n, 178n, 183, 194 e n, 196, 197, 285n, 316 Parisi, Luciano  110n, 122n Pascoli, Giovanni  97, 100, 117-119, 186n Pasi, Mario  301 e n, 314 Pasley, Malcom  292n Patey, Caroline  124n Pavel, Thomas  28n Pavese, Cesare  202, 233, 289, 314 Pellico, Silvio  79n Perrone, Domenica  183n Petrillo, Gianfranco  76n Petroni, Franco  204n Petronio 253 Perozzo, Valentina  12n Persico, Federigo  90 Pertici, Roberto  46n Piazza, Isotta  124n, 194n Piazzoni, Irene  197n, 284n Piola Caselli, Chiara  96n Piovene, Guido  139 e n, 168 e n, 178, 179n, 268-269 Pirandello, Luigi 39, 78, 166n, 121, 123, 161, 177, 218, 242, 285n, 302 e n, 303 Pirro, Maurizio  40n Pisaneschi, Rosina 41, 43, 44n, 46-49, 53 e n, 60-63, 69-71, 74, 78, 105, 106n, 196, 206 e n, 224n, 287n Pischedda, Bruno  25n Pischedda, Giovanni  272n Plutarco 129 Pocar, Ervino  291n, 292n Poe, Edgar Allan  157, 176 e n, 290n Pompilio, Antonella  38n, 60n

indice dei nomi

Pound, Ezra  289n Prangel, Matthias  217n Prezzolini, Giuseppe  14-15, 17, 29 e n, 33-34, 37-38, 40n, 41, 4448, 49n, 53-55, 58, 60n, 61n, 68-70, 72n, 74, 95n, 111, 112 e n, 115 e n, 117n Proietti, Domenico  127n Proust, Marcel  124n, 131n, 177, 270 Pulitzer, Anna  63 Pupino, Angelo R.  308n Raboni, Giovanni  199 e n  Raciti, Giuseppe  21n Raffaelli, Sergio  218n Ragni, Eugenio  235n Ragone, Giovanni  220n Raja, Anita  292n Rajna, Pio  97  Ramuz, Charles-Ferdinand  122n Rathenau, Walther  100 Reggio, Isidoro  195 Reich, Jacqueline  281n Remarque, Erich Maria  190n, 196, 205, 212n, 237, 301, 304 Renn, Ludwig  196 Revel, Bruno  212n, 253, 255n, 257258, 283n Rheinhardt, Emil Alphons  173-175 Rho, Anita  202 e n, 287n, 288 e n, 289n, 317 Riccio, Attilio  191 e n, 196 e n, 212 Richter, Mario  41n Ricotti, Lina  205, 266 e n Rilke, Rainer Maria  48n Rispoli, Marco  34, 133n Ritter Santini, Lea  206n Rizzante, Massimo  116n, 123n Robertazzi, Mario  138n Rocca, Enrico 168 e n, 191 e n, 197, 217-219, 222, 224-225, 232-233, 285n, 289 e n, 298 Rocca, Gino  116

359

Rognoni, Francesco  288n Roig-Sanz, Diana  49n Rosa, Giovanna  12n, 28n Rosso di San Secondo, Pier Maria 99, 268n Roth, Joseph  205, 209, 218n, 239, 246 e n Rubino, Mario L. 96n, 98n, 99n, 204n, 249n, 264n, 268n Rüesch, Diana  34 Rundle, Christopher  26n, 30n, 192n, 193n, 200n, 208n, 282n Russo, Luigi  128n Sacerdote, Gustavo  13-14 Sáenz, Miguel  225n Saffi, Aurelio Emilio  123n Saita, Spartaco  223 Saito, Nello  96n Saletta, Ester  179n, 189n Salom, Michiel  161n Salvemini, Gaetano  189n Sampaolo, Giovanni 132n, 135n, 139n, 142n, 143n, 146n, 147n Samuel, Richard  55n Sander, Gabriele  217n Sansone, Mario  109n Santangelo, Giorgio  96n, 109n Santoli, Vittorio  78n Sarfatti, Margherita  313n Scalero, Alessandra  17 e n, 33, 201202, 203n, 204n, 205, 211 e n, 219-225, 232, 235-236, 262, 285 e n, 298-300 Scalero, Liliana  95n, 128, 138, 220223, 236, 285, 300 Scalia, Samuel Eugene  41n Scalvini, Giovita  90 Scarpa, Domenico  308n Schelling, Friedrich  79n Schiller, Friedrich  50 e n, 75, 106 Schlegel, August Wilhelm  52n, 72n, 75, 79, 80n

360

Schlegel, Caroline  75 e n, 78, 79n, 80 e n Schlegel, Friedrich  52 e n, 72n, 75, 78 e n, 175n Schnapp, Friedrich  286n Schnitzler, Arthur 177, 196, 204, 205n, 287n Schopenhauer, Arthur  106 Schulz, Gerhard  55n Schulz-Buschhaus, Ulrich  194n Sciascia, Leonardo  97n, 108n, 178n, 183n Scrivano, Riccardo  109n Scudéry, Madeleine de  171n Seghers, Anna  202n Serao, Matilde  76, 103 e n, 279 Sergio, Giuseppe  125n Serra, Renato  46n, 128n Sévelinges, Charles-Louis de  49 e n Shakespeare, William  79 Simmel, Georg  21n, 44n, 56n Sisto, Michele  32n, 34, 49n, 50n, 90n, 105n, 199n, 237, 289n Slataper, Scipio 14-15, 21n, 38, 41-47, 63-70, 72 e n, 74, 139n, 155, 188 Smollett, Tobias  175n Soffici, Ardengo  41n, 124 e n, 197 Solmi, Sergio  194 Spaini, Alberto 14-15, 17n, 1819, 21n, 28, 37-38, 40n, 41, 43-63, 65-66, 68-70, 74, 105, 106n, 107n, 139n, 193, 196, 202, 204n, 205-206, 210, 215n, 223-228, 230-231, 233 e n, 236-239, 252, 287n, 289292, 293n, 295 e n, 309 e n, 318 Spitteler, Carl  48n Spriano, Paolo  80n Staniscia, Angelo  50n Steiner, George  31n Steizinger, Johannes  44n

prosaici e moderni

Stendhal 12, 24n, 121, 124, 131 e n, 133, 163n, 164, 172-173, 175n, 176n, 186, 203n Stentella Petrarchini, Giuliana 112n Stifter, Adalbert  173, 176 e n Staël, Madame de  98, 132 Sterne, Laurence  50n, 173, 175n Storti, Anna  44n Strada Janovič, Clara  55n Strappini, Lucia  65n Strauss, Richard  99 Strindberg, August  24n, 266 Strohmeyer, Fritz  295n Stuparich, Carlo  47 Stuparich, Giani  47, 63n, 65n, 66, 67n, 68, 69 e n, 196 Sudermann, Hermann  106 Sullam, Sara  34, 210n Svevo, Italo  39, 121, 124 e n, 135, 194-196, 270-272, 316 Swift, Jonathan  253 Taube, Otto von  95, 100 e n Tavolato, Italo  46 Tecchi, Bonaventura  197n, 287n Terra, Dino  237 e n Terracini, Enrico  194 Thackeray, William Makepeace  77 Thibaudet, Albert  188 Tihanov, Galin  21n, 23n, 56n Tilgher, Adriano 127 e n, 134n, 221 Titta Rosa, Giovanni 184n, 185188, 190, 193 e n, 198 e n, 200n, 234 e n, 240 e n Tolstoj, Lev  24n, 124n, 172, 175n, 186 Tommasini, Lorenzo  42n Tortora, Massimiliano  196n, 204n Tozzi, Federico  117, 118, 121, 123 e n, 124n, 177 Tranfaglia, Nicola  200n Trezza, Gaetano  113n

indice dei nomi

Turchetta, Gianni  198n Turgenev, Ivan  173 Tuscano, Francesco  304n Ugo, Bianca  252 Ungaretti, Giuseppe  285n Vago, Amalia  155n Valabrego, Pietro  161-162 Valeri, Diego  172 Van den Bergh, Carmen  172n Van den Bossche, Bart  172n Venturelli, Aldo  87n Verlaine, Paul  177 Verga, Giovanni  12, 39, 118, 121122, 186, 198, 227, 231, 242, 270 Vertone, Saverio  189n Vico, Giambattista  109 en, 111, 119 e n, 129 Vigolo, Giorgio  286n, 287n Villari, Pasquale  11, 97 Vitiello, Pippo  172n Vittoria, Albertina  34, 47n, 200n Vittorini, Elio  33, 124n, 191, 194, 235 e n, 300 Vivanti, Annie  80-81 Wagner, Richard  99 Wassermann, Jakob  204, 208n, 212n, 249n, 297-298, 300-301, 304, 307, 314, 315 Watt, Ian  28n, 87n Weber, Max  56n Wedekind, Frank 48, 49 e n, 99, 100, 223, 239 e n Weidner, Daniel  44n Wells, H.G.  157 Werfel, Franz  48n, 204, 235n Wick, Carlo Federico  74n Wick, Gian Carlo  74n Wiechert, Ernst  211 e n Wilder, Thornton  179n

361

Wilfert, Blaise  51n Winckelmann, Johann Joachim 171n Wood, Sharon  80n Woolf, Virginia  33, 124n, 201, 249n Zaccaria, Giuseppe  249n, 308n, 311n Zambon, Francesco 100n, 104n, 105n  Zamjatin, Evgenij  307 e n, 308n Zampa, Giorgio  271n, 292n Zancan, Marina  270n, 271n, 273n Zavattini, Cesare  202 Zola, Émile  24n, 175n Zuccante, Giuseppe  111n Zuccoli, Luciano  123 Zumbini, Bonaventura  113n Zweig, Arnold  205, 221, 301 Zweig, Stefan  100, 105 e n, 159n, 173, 178n, 179n, 204

Quodlibet Studio



letteratura tradotta in italia

Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia Alessandro Niero, Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi Martina Mengoni, I sommersi e i salvati di Primo Levi. Storia di un libro (Francoforte 1959-Torino 1986) Irene Fantappiè, Franco Fortini e la poesia europea. Riscritture di autorialità Daria Biagi, Prosaici e moderni. Teoria, traduzione e pratica del romanzo nell’Italia del primo Novecento