Properzio e l'età augustea. Cultura, storia, arte: Proceedings of the Nineteenth Conference on Propertius, Assisi - Perug 9782503553016, 250355301X

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Properzio e l'età augustea. Cultura, storia, arte: Proceedings of the Nineteenth Conference on Propertius, Assisi - Perug
 9782503553016, 250355301X

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studi di poesia latina studies of latin poetry 19

EDITORS IN CHIEF Giorgio Bonamente Presidente Accademia Properziana del Subasio Roberto Cristofoli Università di Perugia Rosalba Di Mundo Università di Bari Paolo Fedeli Accademia dei Lincei Giovanni Polara Università di Napoli Federico II Carlo Santini Università di Perugia

EDITORIAL STAFF Flavia Baldassarri SUBMISSIONS SHOULD BE SENT TO Carlo Santini [email protected] Dipartimento di Lettere Università degli Studi di Perugia Piazza Morlacchi, 11 I-06123 Perugia, Italy

studi di poesia latina studies of latin poetry

PROPERZIO E L’ETÀ AUGUSTEA CULTURA, STORIA, ARTE PROCEEDINGS OF THE NINETEENTH INTERNATIONAL CONFERENCE ON PROPERTIUS Assisi-Perugia 25-27 May 2012 Edited by Giorgio Bonamente Roberto Cristofoli Carlo Santini

ACCADEMIA PROPERZIANA DEL SUBASIO - ASSISI

F

© 2014 Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium

All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without prior permission of the publisher.

Cover picture: Assisi, Domus del Lararium. Oecus, parete Nord, pinax con scena degli sposi.

Ha dato la sua generosa collaborazione il socio Arnaldo Manini in segno del comune affetto per Roberto

D/2014/0095/153 ISBN 978-2-503-55301-6 Printed on acid-free paper

SOMMARIO

Giorgio Bonamente Introduzione - Introduction vii

xix Riassunti degli articoli - Abstracts Werner Eck Properzio e l’aristocrazia augustea 1 Maria Laura Manca - Francesco Giorgi Domus assisiate di età augustea: la Domus del Lararium 15 Francesca Boldrighini La gens Propertia e l’edilizia di età augustea ad Assisi: il caso della Domus Musae

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Luciano Landolfi Properzio e Cornelio Gallo: il modello ‘cogente’, il modello ‘sfuggente’ 75 Giovannella Cresci Marrone Properzio e le guerre di conquista 125 Françoise-Hélène Massa-Pairault Properzio tra l’Etruria e Roma 147 Roberto Cristofoli Properzio e Mecenate 181 Paul Zanker Il tempio di Apollo Palatino in Properzio e i suoi resti 221 Raffaele Perrelli Properzio e Tibullo 245

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sommario

Arturo R. Álvarez Hernández Il Virgilio dei primi libri properziani 255 Niklas Holzberg Carmina compono, hic elegos. Properzio e Orazio 279 Rosalba Dimundo Ovidio e l’elegia di Properzio 297 Alison Keith Le puellae nelle elegie di Properzio e le loro omonime nei reperti epigrafici 327 Carlo Santini Properzio tra scrittura e visualità. Un contributo alla genesi delle immagini in un poeta augusteo 349 Paolo Fedeli Da Cinzia a Cornelia 373 Giovanni Polara Conclusioni 421 Appendice - Appendix Cronaca del Convegno

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L’Accademia Properziana del Subasio di Assisi

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GIORGIO BONAMENTE Presidente dell’Accademia Properziana del Subasio

INTRODUZIONE INTRODUCTION

Il ricorrere del bimillenario della morte di Augusto costituisce una data epocale per tutti gli studiosi del mondo classico, consapevoli del suo rilievo universale e dell’eredità che si perpetua per vie diverse fino a oggi 1. L’anniversario è naturalmente apparso agli organizzatori del Convegno del 2012 (Properzio e l’età augustea: cultura, storia, arte) un’occasione importante per ripensare gli intensi rapporti che il poeta Properzio e la città di Assisi hanno avuto con il primo imperatore e l’ambiente romano. Per quanto concerne Properzio, si è ritenuto che fosse giunto il tempo di trarre un bilancio del crescente interesse per il Poeta umbro, chiedendo ai Relatori la messa a fuoco di due punti di osservazione: il rapporto intessuto con Augusto da un canto, il confronto e l’interazione con i poeti ed i circoli letterari di Roma dall’altro. Il giudizio che Quintiliano dà su Properzio nell’ambito del canone elegiaco romano – sunt qui Propertium malint –, confrontato con i giudizi sugli altri – Gallo durior, Ovidio lascivior – segnala la presenza di ragioni inespresse, di un malinteso (letterario) che aveva reso la sua opera godibile solo da una eletta minoranza di raffinati intenditori: una via inedita per raggiungere la classicità. Le vicende biografiche devono aver lasciato le stigmate sulla sua vita poetica. Morte del padre, fine del suo popolo divenuto pulvis Etrusca, riluttanza ad integrarsi nella nuova aristocrazia emergente 1  Il solo evento comparabile è la riunione dei Regni Combattenti nell’impero cinese nel 221 a.C. ad opera di Shıˇ   Huángdì (‘augusto’), fondatore della dinastia Qin.

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102577

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dalla rivoluzione romana hanno rappresentato la base di una forma di rigetto, poi vissuta nei suoi rapporti ‘imperfetti’ con Cinzia, con Mecenate e con Augusto. La scelta dell’intermittenza in questi rapporti è divenuta la cifra letteraria di una condizione irrisolta, che trascorre attraverso la sua opera riflettendosi dalla prima fino all’ultima delle elegie tràdite. Il poeta – che inizia la sua opera con Cinzia e la conclude con Cornelia, che ricorda all’amata il giorno fatale in cui tutto della vita di lei si dissolverà (2, 11), che la tratta in due elegie contigue prima come morta esangue e poi come viva e vivace – sfida ogni facile cronachismo biografico per assurgere al solo valore consentitogli, quello della gloria poetica, che lo lega inscindibilmente alla sua terra: Umbria Romani patria Callimachi! Non meno importante affrontare di nuovo il problema dei rapporti con Tibullo, Virgilio, Orazio e Ovidio alla luce di un approccio più sofisticato – e problematico – che deve fare i conti con le incertezze sulla cronologia delle singole composizioni rispetto alla presentazione pubblica delle opere; anche in questo ambito in continuità con una metodica che ha caratterizzato molti Convegni precedenti e che è stata espressa con determinazione da von Albrecht nel 2004 2. Ma il confronto con Augusto ha sollecitato anche l’immissione nel dibattito storiografico di dati nuovi riguardanti il complesso dei monumenti della città di Assisi, dal Tempio di Minerva, di età triumvirale, al cospicuo patrimonio epigrafico sulla gens Propertia, alle risultanze archeologiche della Domus Musae e della Domus del Lararium. Tenendo conto di questa complessità di sollecitazioni, i presenti Atti vanno letti come un confronto di sintesi tra filologi, primi e legittimi depositari del secretum della poesia di Properzio 3, archeologi, epigrafisti e storici, chiamati a definire in termini dinamici – di imitazione, di assimilazione e di confronto – sia i rapporti del Poeta con Roma e con Augusto, sia quelli della sua Assisi e delle città umbre ed etrusche della Valle 2  M. von Albrecht, Properzio e Tibullo: due carriere letterarie parallele e complementari, in C. Santini - F. Santucci, Properzio nel genere elegiaco. Modelli, motivi, riflessi storici. Atti del Convegno Internazionale, Assisi, 27-29 maggio 2004, Assisi 2005, pp. 249-287. 3  P. Fedeli (edidit), Sexti Properti Elegiarum Libri IV, Stuttgart 1984.

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introduzione - Introduction

Umbra con la cultura, con l’arte e con i gruppi politici attivi nella Roma triumvirale ed augustea. Dei risultati conseguiti dà conto Giovanni Polara nelle Conclusioni; importa notare che nella quarantennale evoluzione degli studi su Properzio – favorita anche dall’Accademia Properziana del Subasio – la comprensione della sua poesia non è stata mai disgiunta da una puntuale contestualizzazione dell’autore nell’età augustea, con specifico riferimento all’Umbria e all’Etruria, profondamente sconvolte dalla Guerra di Perugia. Il rapporto fra Properzio e Augusto, indubbiamente segnato da due elementi concomitanti, quali la morte prematura del padre e la perdita dei beni, a fondamento di un rancore personale inestinto, da tempo non è più esaminato in chiave prevalentemente etico-psicologica; altrettanto va detto di una definizione ideologica del ruolo assunto dal Poeta di fronte al formarsi del ‘regime augusteo’. La crescita esponenziale delle conoscenze relative a personalità di rango senatorio ed equestre permette di caratterizzare l’ambiente romano, per i tre lustri nei quali il Poeta ha operato a Roma, in una maniera che ha superato i migliori auspici di Ronald Syme: le vicende di Properzio, oltre ad essere meglio definite nei termini di una dinamica personale, possono ora essere inquadrate nelle cospicue presenze umbro-etrusche nell’Urbe, fra cui sono particolarmente note le figure dei due senatori di Perugia della gens Volcacia. Al riguardo, un contributo di importanza fondamentale è stato dato dall’esame sistematico dei patrimoni epigrafici dell’Umbria 4: la pubblicazione del corpus delle epigrafi di Assisi, curato da Giovanni Forni – primo dei Cataloghi editi dalla Regione Umbria – è del 1987 5. Due anni prima, con la memoria lincea sulla gens Propertia 6, era stata messa

4  M. Gaggiotti - L. Sensi, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: regio VI (Umbria), in Epigrafia e ordine senatorio, Atti del Colloquio Internazionale AIEGL, (Roma 14-20 maggio 1981), II (Tituli, 5), Roma 1982, pp. 245-274; M. Torelli, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: regio VII (Etruria), ibidem, pp. 275-299. 5  G. Forni (a cura di), Epigrafi lapidarie romane di Assisi, Perugia 1987. 6  G. Forni, I Properzi nel mondo romano: indagine prosopografica, in “Rendiconti Accademia Naz. dei Lincei” 8,40,1986, pp. 205-224.

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fine a una querelle secolare sull’appartenenza o meno del Poeta al municipio di Assisi. Ma gli studi riguardanti l’Umbria, Assisi e Properzio si sono mossi anche nella prospettiva speculare della dinamica fra ‘centro del potere’ ed ambito regionale, ricostruendo i tanti orditi di una trama di influssi politici e culturali, assimilati con sorprendente rapidità: si pensi alla ‘fase ellenizzante’ della città di Assisi riscontrata nella sua diffusa ricerca di monumentalità 7; alla decisa ‘autoromanizzazione’ ancor prima di diventare municipium 8. Ma sono soprattutto due edifici di scoperta relativamente recente, come la Domus Musae, portata alla luce a partire dal 1948, o recentissima, come la Domus rinvenuta nel 2001, ad avere fornito documentazione di alto livello formale e spunto per la ricostruzione del tessuto culturale della città di Asisium e dei suoi rapporti con monumenti e gusti artistici di Roma. Si è quindi verificata una vantaggiosa concomitanza fra l’evoluzione delle prospettive storiografiche in ordine al rapporto fra ‘intellettuali e potere’ e un’intensa promozione della ricerca – in grande parte riconducibile alla collaborazione fra l’Accademia Properziana del Subasio, la Soprintendenza per i Beni archeologici e l’Università di Perugia – che ha permesso di ricostruire su nuove basi il contesto sociale e culturale di cui Properzio è stato espressione. Il confronto diretto tra Augusto e Properzio è stato l’occasione per una verifica importante; le prospettive non potevano essere che tre: filologica, storica e archeologica, come evidenziato da Giovanni Polara nelle sue Conclusioni; in qualche contributo la caratterizzazione della prospettiva di indagine è netta, in molti 7  P. Zanker (a cura di), Hellenismus in Mittelitalien. Kolloquium in Göttingen, vom 5. Bis 9. Juni 1974, I-II, Göttingen 1976; P. Gros - D. Theodorescu, Le mur du nord du ‘forum’ d’Assise. Ornamentation pariétale et spécialisation des  espaces, in MEFRA, 97, 1985, pp. 879-897; M. J. Strazzulla, Assisi Romana, Assisi 1985 [1987]. 8  F. Coarelli, Assisi repubblicana: riflessioni su un caso di autoromanizzazione, in Atti Accademia Properziana del Subasio, s. VI 19, Assisi 1991, pp. 5-22; F. Coarelli, Da Assisi a Roma. Architettura pubblica e promozione sociale in una città dell’Umbria, in G. Bonamente - F. Coarelli (a cura di), Assisi e gli Umbri nell’antichità. Atti del Convegno Internazionale, Assisi 18-21 dicembre 1991, Assisi 1996, pp. 245-263.

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introduzione - Introduction

altri affiora una felice contaminatio delle competenze e degli interessi, rendendo il presente volume, nel suo insieme, una risposta puntuale ed esaustiva al tema affrontato. Era necessario verificare se il Poeta si fosse recato a Roma con la qualificazione di esponente dell’aristocrazia municipale e con il prestigio di una cultura e di una condizione sociale più che solidi e se sia stato tutelato da legami stabili con personalità dell’aristocrazia senatoria di origine perugina; se, di conseguenza, possa essere configurato come un giovane di talento capace di interagire con la cultura raffinata e selettiva della ‘capitale’, entrato nella cerchia di Mecenate con il prestigio conseguito grazie al successo del Monobiblos. Se è lecito riassumere in poche parole: era importante dare un nuovo significato agli haud mollia iussa di Mecenate e una spiegazione più articolata e concreta dell’evoluzione della poetica properziana ‘da Cinzia a Cornelia’. Emerge altresì, come strumento ermeneutico, la realtà storica e monumentale di Assisi e delle altre città nelle quali sono attestati esponenti della gens Propertia, ma anche i Caesii, i Petronii, i  Vibii, i Volcacii, i Volumnii, saldamente presenti nella Roma di Augusto e del primo secolo d.C. Quella Valle umbra brumosa che affiora nelle immagini del Poeta si popola di monumenti ragguardevoli che attestano le affinità del gusto artistico e del lusso, i forti legami politici e di clientela con la città di Roma: la documentazione archeologica della città di Assisi è infatti presente nel volume con un riesame della c.d. Domus Musae (dopo decenni di dibattiti a partire dallo studio dei testi epigrafici ivi contenuti 9) e con una presentazione della Domus del Lararium, già impostasi all’attenzione per la grandezza e per la presenza di affreschi di età augustea connotati da alto livello stilistico. Se si tiene presente anche la datazione ‘triumvirale’ del tempio che tuttora campeggia sulla piazza del Comune, fatto innalzare

9  M. Guarducci, Epigrammi greci in una casa romana di Assisi, in Colloquium Propertianum. Atti del convegno internazionale di studi properziani, Assisi 2628 marzo 1976, Assisi 1977, pp. 123-129; Eadem, Domus Musae. Epigrafi greche e latine in un’antica casa di Assisi, in “Memorie dell’Accademia dei Lincei”, 23, Roma 1979, pp. 269-297; Eadem, La casa di Properzio: nuove riflessioni sulla Domus Musae di Assisi e sulle sue epigrafi, in “Rendiconti dell’Accademia Naz. dei Lincei”, cl. Scienze morali, stor. e filol., 40, 1985, pp. 163-181.

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da una gens, quella dei Caesii, i cui esponenti sembrano avere goduto di un particolare favore tra la fine della repubblica e la prima età imperiale, si può avere un’idea dell’importanza specifica che, nel caso di Assisi, la storia della città d’origine riveste per la comprensione del suo Poeta. Con questo volume l’Accademia Properziana del Subasio di Assisi tira le fila di un ciclo quarantennale iniziato nel 1976 di ricerche sistematiche sull’opera e la biografia di Properzio, prendendo spunto, allora, dalla prossimità del bimillenario della morte del Poeta, che venne celebrato a Roma e in Assisi nell’anno 1987; nello stesso anno venne istituito, per iniziativa di Francesco Della Corte, Paolo Fedeli e Antonino Scivoletto, il “Centro Internazionale per lo Studio della Poesia Latina in Distici Elegiaci”, con sede in Assisi. Da allora, con cadenza biennale, si sono svolti in Assisi e nelle città limitrofe legate alla memoria storica di Properzio i Convegni internazionali su vari aspetti della poesia, del contesto storico e culturale, della diffusione dell’opera e della fama del Poeta nei secoli successivi. Nell’insieme si tratta di una serie di Atti di Convegni nella quale quelli che ora si pubblicano ricoprono il XIX posto (extra ordinem va aggiunto alla serie il Convegno Internazionale Assisi e gli Umbri nell’Antichità svoltosi nel 1991). Allo stesso tempo l’Accademia apre una stagione nuova, all’insegna della collaborazione con Brepols, che ha accolto gli Atti del Convegno internazionale su Properzio e l’età augustea costituendo una Collana apposita, destinata a pubblicare anche volumi monografici sul Poeta di Assisi e, più in generale, sulla poesia latina, per una più decisa promozione a livello internazionale. Conservando il numero della serie (19), l’editore e l’Accademia vogliono dare – imitando Augusto – il segnale di un’innovazione che si radica in una tradizione. I singoli contributi editi dal 1976 al 2012 saranno consultabili anche nel sito attivato dall’Accademia (www.accademiaproperziana.eu), per utilità, certo, ma anche per rendere perspicua la continuità di un metodo e di un progetto scientifici. * * *

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introduzione - Introduction

The two thousandth anniversary of the death of Augustus is a momentous occasion for all scholars of the classical world, in view of the universal importance of the heritage that has been passed down to the present day 10. This anniversary naturally presented itself as an important opportunity for the organizers of the 2012 Conference (Properzio e l’età augustea: cultura, storia,  arte) to reconsider the close relationship the poet Propertius and the town of Assisi had with the first emperor and the Roman world. With regard to Propertius, it was felt that the time had come to take stock of the growing interest in the Umbrian poet, and the speakers were invited to focus on two perspectives: the interwoven relationship between Propertius and Augustus, on the one hand, and his problematic interaction with the poets and literary circles of Rome on the other. Quintilian’s statement concerning Propertius as part of the elegiac Roman canon – sunt qui Propertium malint –, compared with the judgments of others – Gallus durior, Ovid lascivior – indicates the presence of unexpressed motivations, a literary misunderstanding that limited the enjoyment of his work to a select minority of refined enthusiasts: a novel way to achieve classic status. Biographical events must have left their mark on his poetic life. The death of his father, the demise of his people, who became pulvis Etrusca, and a reluctance to become integrated with the new emerging aristocracy of the Roman revolution constitute the basis of a form of rejection, later experienced in his ‘imperfect’ relations with Cynthia, Maecenas and Augustus. The intermittent nature of these relationships led to the literary style of an unresolved condition, which finds expression in his poetic work, as reflected from the first to the last of the elegies handed down to us. The poet began his work with Cynthia, and ends it with Cornelia, who recalls to his beloved the fateful day when her vital spirit will fade away (2, 11). This theme is developed in two contiguous elegies, presenting Cynthia first as a bloodless ghost, then as a lively and vibrant figure, superseding the merely biographical chronology through the effort to attain the only value

10  The only comparable event was the unification of the Warring States into the Chinese empire in 221 BC by Shıˇ  Huángdì (Qin Shihuangdi, first emperor), founder of the Qin dynasty.

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Propertius is ready to recognize, that of poetic glory, which ties him inextricably to his homeland: Umbria Romani patria Callimachi! An equally important issue that demands to be readdressed regards Propertius’ difficult relations with Tibullus, Virgil, Horace (and Ovid), in the light of a more sophisticated, and problematic approach, that must come to terms with the uncertainties regarding the chronology of the individual compositions, with respect to the public presentation of the works; also in this area, the approach followed shows a continuity with a methodology that has characterized many previous conferences, as expressed with determination by von Albrecht in 2004 11. The comparison with Augustus also called for the introduction of new data in the historical debate regarding the complex of monuments in the city of Assisi, from the Temple of Minerva, which dates back to the triumviral age, to the conspicuous epigraphic heritage of the gens Propertia, and archaeological landmarks such as the Domus Musae and the Domus del Lararium. Taking into account the multifarious stimuli hinted at, these proceedings are to be read as a exchange of comparative assessments by philologists, the primary and legitimate custodians of the secretum of the poetry of Propertius 12, archaeologists, epigraphists and historians, called to define in dynamic terms – of imitation, assimilation and comparison – the relationships the poet had with Rome and Augustus, with his hometown of Assisi, and the Umbrian and Etruscan cities of the Umbrian Valley, and with the culture, art and the political groups active in triumviral and Augustan Rome. Giovanni Polara gives an account of the results achieved in the Conclusions. It is important to note that, in the forty-year evolution of studies on Propertius, as promoted by the Accademia Properziana del Subasio, an understanding of his poetry has never been separated from an accurate contextualization of the author in the Augustan age, with specific reference to Umbria and Etruria, which were deeply shaken by the Perusine War. 11  M. von Albrecht, Properzio e Tibullo: due carriere letterarie parallele e complementari, in C. Santini - F. Santucci, Properzio nel genere elegiaco. Modelli, motivi, riflessi storici. Atti del Convegno Internazionale, Assisi, 27-29 May 2004, Assisi 2005, pp. 249-287. 12  P. Fedeli (ed.), Sexti Properti Elegiarum Libri IV, Stuttgart 1984.

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introduzione - Introduction

The relationship between Propertius and Augustus was undoubtedly marked by two concomitant elements, the early death of his father and the loss of his estate, which laid the foundations for a lingering personal grudge, which has not been examined in predominantly ethical and psychological terms for some time; the same can be said of an ideological definition of the role of the poet in the formation of the ‘Augustan regime’. The remarkable increase of knowledge regarding figures of senatorial and equestrian rank permits a characterisation of Roman life, for the three decades in which the poet worked in Rome, in a manner that Ronald Syme could hardly have imagined: the events involving Propertius, as well as being better defined in terms of their personal dynamics, can now be framed as part of a substantial Umbrian-Etruscan presence in the Urbs, notably documented by two senators from Perugia who belonged to the gens Volcacia. In this regard, a contribution of fundamental importance has been made by the systematic examination of the epigraphic heritage of Umbria 13: in 1987 the corpus of the inscriptions of Assisi was published by Giovanni Forni, the first in the series published by the Regione Umbria 14. Two years earlier, with his paper on the gens Propertia 15, an end was put to the centuries-old controversy about whether or not the poet actually hailed from the town of Assisi. Studies concerning Umbria, Assisi and Propertius have also developed a specular perspective of the dynamics between the ‘centre of power’ and the local context, reconstructing the warp of a weft of political and cultural influences, that were assimilated with surprising rapidity: the ‘Hellenistic phase’ of the city of Assisi, observed in its widespread quest for monumentality 16;   M. Gaggiotti - L. Sensi, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: regio VI (Umbria), in Epigrafia e ordine senatorio, Atti del Colloquio Internazionale AIEGL, (Roma 14-20 maggio 1981), II (Tituli, 5), Roma 1982, pp. 245274; M. Torelli, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: regio VII (Etruria), ibidem, pp. 275-299. 14  G. Forni (ed.), Epigrafi lapidarie romane di Assisi, Perugia 1987. 15  G. Forni, I Properzi nel mondo romano: indagine prosopografica, in “Rendiconti Accademia Naz. dei Lincei” 8, 40, 1986, pp. 205-224. 16 P. Zanker (ed.), Hellenismus in Mittelitalien. Kolloquium in Göttingen, vom 5. bis 9. Juni 1974, I-II, Göttingen 1976; P. Gros - D. Theodorescu, Le mur du nord du ‘forum’ d’Assise. Ornamentation pariétale et spécialisation des espaces, 13

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its determined ‘self-Romanization’, even before it become a municipium 17. But above all, two relatively recently discovered buildings, the Domus Musae, which has been brought to light since 1948, and, even more recently, the Domus discovered in 2001, have provided formal high-level documentation and been a starting point for the reconstruction of the cultural fabric of the city of Asisium and its relationship with the monuments and artistic taste of Rome. A felicitous mutual support has developed between biographical research on the relationship between ‘intellectuals and power’ and an intensive promotion of research – in large part promoted by the collaboration between the Accademia Properziana del Subasio, the Soprintendenza per i Beni archeologici and the University of Perugia – that has made it possible to reconstruct, on a new basis, the social and cultural context of which Propertius was an expression. The direct comparison between Augustus and Propertius has offered an opportunity for important research; there were three possible approaches: philological, historical and archaeological, as evidenced by Giovanni Polara in his Conclusions; in some contributions the characterization of the research perspective is clear, in others there emerges a felicitous contaminatio of skills and interests, making the present volume, as a whole, a timely and comprehensive response to the issue addressed. It was necessary to verify whether the poet had arrived in Rome as a qualified exponent of municipal aristocracy, with the prestige of an established cultural and social condition, and if he was protected by stable bonds with prominent figures of the senatorial aristocracy from Perugia; and whether, as a consequence, he can be considered as having been a talented young man capable of interacting with the refined and selective culture of the ‘capital’, involving

in MEFRA, 97, 1985, pp. 879-897; M. J. Strazzulla, Assisi Romana, Assisi 1985 [1987]. 17  F. Coarelli, Assisi repubblicana: riflessioni su un caso di autoromanizzazione, in Atti Accademia Properziana del Subasio, s. VI 19, Assisi 1991, pp. 5-22; F. Coarelli, Da Assisi a Roma. Architettura pubblica e promozione sociale in una città dell’Umbria, in G. Bonamente - F. Coarelli (eds.), Assisi e gli Umbri nell’antichità. Atti del Convegno Internazionale, Assisi 18-21 December 1991, Assisi 1996, pp. 245-263.

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introduzione - Introduction

the circle of Maecenas in the prestige which the success of the Monobiblos would have attained. If it is possible to sum this up in a few words, it was important to give a new meaning to the haud mollia iussa of Maecenas, and a more detailed and concrete explanation of the evolution of Propertian poetry ‘from Cynthia to Cornelia’. There also emerges, as a hermeneutic tool, the historical and monumental reality of Assisi, and other cities, in which not only exponents of the gens Propertia are attested, but also the Caesii, the Petronii, the Vibii, the Volcacii, and the Volumnii, who were firmly established in the Rome of Augustus. The misty Umbrian valley that emerges in the imagery of the poet is filled with monuments that attest to the remarkable affinity of artistic taste and luxury, revealing strong political and clientele ties with the city of Rome: the archaeological documentation of the city of Assisi is presented in this volume by a review of what is known as the Domus Musae (following decades of debate that began with the study of epigraphic texts contained therein 18) and a presentation of the Domus del Lararium, which has already attracted attention for its size and frescoes from the Augustan age, characterized by a high level of style. If one also takes into account the ‘triumviral’ dating of the temple that still stands in the piazza del Comune, built by a gens, that of the Caesii, whose members seem to have enjoyed particular favour between the end of the republic and the early imperial age, one may get an idea of the specific importance that, in the case of Assisi, the history of the city of origin plays in understanding its poet. With this volume, the Accademia Properziana del Subasio di Assisi rounds up its forty-year span of scientific activity, which began in 1976, and has involved systematic research into the works

18  M. Guarducci, Epigrammi greci in una casa romana di Assisi, in Colloquium Propertianum. Atti del convegno internazionale di studi properziani, Assisi 2628 March 1976, Assisi 1977, pp. 123-129; Eadem, Domus Musae. Epigrafi greche e latine in un’antica casa di Assisi, in “Memorie dell’Accademia dei Lincei”, 23, Roma 1979, pp. 269-297; Eadem, La casa di Properzio: nuove riflessioni sulla Domus Musae di Assisi e sulle sue epigrafi, in “Rendiconti dell’Accademia Naz. dei Lincei”, cl. Scienze morali, stor. e filol., 40, 1985, pp. 163-181.

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and biography of Propertius, drawing inspiration at the outset from the proximity of the two thousandth anniversary of the death of the poet, which was celebrated in Rome and Assisi in 1987; the same year saw the establishment, on the initiative of Francesco Della Corte, Paolo Fedeli and Antonino Scivoletto, of the “Centro Internazionale per lo Studio della Poesia Latina in Distici Elegiaci”, which is based in Assisi. Since then, international conferences have been held in Assisi and nearby towns every other year, on the theme of the historical memory of Propertius, and various aspects of his poetry, its historical and cultural context, the dissemination of his works, and the poet’s fame in later centuries.  Overall, this is a series of conference proceedings that, with the publication of these papers, now reaches its nineteenth volume (the International Conference Assisi e gli Umbri nell’Antichità, held in 1991, can be added to the series extra ordinem). At the same time, the Accademia presents a new development, introducing its collaboration with Brepols, which has welcomed the Proceedings of the International Conference on Properzio e l’età augustea, establishing a dedicated series of publications, which will also include monographic volumes on the poet of Assisi, as well as Latin poetry in general, thus promoting a wider and international approach to the subject. In preserving the numbering of the series, the publisher and the Accademia wish to present, with a nod to Augustus, an innovation that is rooted in tradition. The individual contributions published between 1976 and 2012 will also be made available on the Accademia website ‹www.accademiaproperziana.eu›.

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riaSSUNTI DEGLI ARTICOLi ABSTRACTS

WERNER ECK

PROPERZIO E L’ARISTOCRAZIA AUGUSTEA (pp. 1-14)

Properzio conosceva di certo dei membri dell’aristocrazia senatoriale romana, ma non è chiaro se avesse relazioni strette con loro. Di un solo senatore fa il nome, un certo Tullus, della perugina familia Volcacia. Vi sono due sole altre figure note a Properzio e da lui menzionate, che sarebbero potute essere di rango senatorio: il primo è un certo Postumus, il secondo forse un Gallus. Si è finora cercato di identificare Postumus, marito di una certa Aelia Galla e al quale Properzio si rivolge nella terza elegia, con il Q. Propertius Postumus noto solo dall’iscrizione CIL VI 1501 = Dessau 914. Tuttavia tale identificazione deve essere rivista. Quando infatti Properzio si rivolge direttamente a un personaggio specifico, che poteva far parte del rango senatorio, egli si mantiene molto vago. Risulta pertanto quasi impossibile affermare con sufficiente esattezza se la sua poesia sia stata influenzata o meno da persone di rango senatorio. Propertius knew members of the Roman senatorial aristocracy, but it is unclear if he had close relations. He mentions only one of them by name, a Tullus, a member of the Perusian Volcacia family. Two more people, mentioned by Propertius, could have belonged to the senatorial order: one of them was called Postumus, the second one probably Gallus. About the first one, it is unlikely that a Postumus, whom Propertius addresses in the third elegy and who was the husband of Aelia Galla, can be identified as Q. Propertius Postumus of CIL VI 1501 = Dessau 914. When Propertius refers to individuals who may belong to the senatorial order, he remains very vague. Therefore it seems almost impossible to state with certainty whether his poetry was influenced by the ideas of the senatorial order.

Maria Laura Manca - Francesco Giorgi

Domus assisiate di età augustea: La domus del Lararium (pp. 15-49)

All’interno di Palazzo Giampè, in via S. Agnese, in pieno centro storico, a seguito dei lavori per il terremoto, scavi effettuati dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria hanno portato alla luce

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riassunti degli articoli - abstracts

resti di parte di una domus romana di prima età imperiale (età GiulioClaudia) di particolare importanza sia per la tipologia della struttura che per la decorazione pittorica degli affreschi conservati ascrivibile al terzo stile pompeiano. Gli scavi hanno portato alla luce 13 stanze, un atrium ed un peristilium ed di cui sono visibili tre colonne. Si estende per 400 mq circa ed è possibile grazie agli ultimi scavi collocati al di sotto del Palazzo del Cardinale comprenderne i quattro limiti perimetrali così da averne una visione generale della sua forma pressoché rettangolare con sviluppo est-ovest. L’aspetto che colpisce maggiormente è la presenza dell’alzato delle pareti, cosa quanto mai rara e straordinaria al di fuori di Roma e Pompei, che si presenta per oltre 4 metri di altezza in tutti gli ambienti. Sul peristilio si affacciavano una diaeta (soggiorno), un tablinum (sala da ricevimento) un oecus (sala da soggiorno usata anche per banchettare) che presenta ancora la porta ed una finestra che si affacciavano sul peristilio. Mirabile è la decorazione pittorica delle pareti in particolare della parete nord con la fascia intermedia in rosso pompeiano con al centro un pinax raffigurante una coppia con atteggiamento che fa pensare ad una sfera di conversazione intima tra i due coniugi. L’ambiente presenta una pavimentazione a mosaico, completamente integra a tessere bianche e nere a decorazione geometrica formante esagoni con fiore a sei petali al centro. Quindi nel lato a sud del peristilio due cubicula con resti di pavimento a tessere bianche e nere e decorazioni pittoriche alle pareti. Gli ambienti del versante occidentale, venuti alla luce di recente al di sotto del cinquecentesco Palazzo del Cardinale, costituiscono una straordinaria scoperta innanzi tutto perché ci indicano il limite ovest della domus, ed inoltre per la presenza dell’atrium con fistola aquaria sia per il triclinium un ambiente di 60 mq circa con un bellissimo pavimento a mosaico con tessere in calcaree bianco, rosso, nero, verde, giallo. Per quanto riguarda la datazione, si può collocare la domus tra la seconda metà del I sec. a.C. e i primi decenni del I sec. d.C., in particolare il peristilio e gli ambienti del versante occidentale fanno parte di una prima fase databile più precisamente tra il 50 e il 30 a.C. a cui è seguita una seconda fase relativa alla parte orientale di età augustea. Palazzo Giampè, in the historic centre of the city, hosts the remains of part of a Roman domus, brought to light by works after the earthquake, which dates back to the Julio-Claudian age. This find is of particular importance because of its structure, and the pictorial decoration of the preserved frescoes, which are ascribed to the third Pompeian style. The excavations have brought to light 13 rooms, an atrium and a peristyle, of which three columns

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are visible. The most striking aspect is the elevation of the walls, which are more than four metres high throughout the structure. This is extraordinary, as such height is extremely rare outside Rome and Pompeii. The peristyle opens out onto a diaeta (living room), a tablinium (reception room), and an oecus (dining room that also hosted banquets). The doorway to the oecus is preserved, as is a window that looked out onto the peristyle. The wall paintings are remarkable, in particular the central panel on the north wall. In Pompeian red, it has a central pinax depicting a couple, whose attitude would suggest an intimate conversation between two spouses. There is a perfectly preserved mosaic floor, with black and white hexagon tiles forming a geometric decoration, with sixpetal flowers in the centre. The domus dates back to between the second half of the first century BC and the first decades of the first century AD. The peristyle and the western rooms are part of a first phase that can be more precisely dated to between 50 and 30 BC. This was later followed by a second phase, in the eastern part of the structure, during the Augustan age.

FRANCESCA Boldrighini

La gens Propertia e l’edilizia di età augustea ad Assisi: il caso della Domus Musae (pp. 51-74)

Al di sotto della chiesa di Santa Maria Maggiore, antica cattedrale di Assisi, furono scoperti alla metà dell’Ottocento i resti di un edificio di epoca romana, che conservano pavimentazioni in mosaico ed opus sectile ed interessanti pitture di quarto stile. L’edificio, di cui sono state identificate due fasi costruttive, l’una collocabile negli ultimi anni della repubblica, l’altra probabilmente in epoca giulio claudia, fu messo in luce solo parzialmente. Anche per questo la sua interpretazione resta tutt’ora problematica: in base all’interpretazione di un graffito latino relativo ad una Domus Musae e di altri in greco che illustravano le pitture, Margherita Guarducci lo identificò a suo tempo con l’abitazione privata del poeta Properzio. Ma la struttura architettonica e le notevoli dimensioni del monumento, nel quale furono rinvenuti numerosi frammenti di iscrizioni pubbliche, lasciano spazio anche ad altre ipotesi. Particolarmente interessanti due testi epigrafici rinvenuti nella domus, menzionanti il teatro della città (ancora da identificare con certezza sul terreno)

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in connessione con la gens Propertia, una delle più in vista dell’aristocrazia locale. La Domus Musae potrebbe dunque ipoteticamente essere connessa con le strutture del teatro cittadino, costruito e finanziato dalla famiglia del poeta – e forse da poeta stesso – nei primi anni dell’impero. This article focuses on the Roman remains discovered in the 19th century under the medieval church of Santa Maria Maggiore in Assisi. The ancient building preserves interesting wall paintings and floor decorations connected with the two different phases in the building of the complex: the first probably dating back to the last years of the Republic, the second to the Julio-Claudian period. For this reason, it is difficult to interpret the building, which was only partially uncovered: Margherita Guarducci identified it as a private house belonging to the Asisian poet Sextus Propertius, basing her hypothesis on a Latin graffito mentioning a domus Musae. But the size and structure of the monument, as well as the recovery of a large number of public inscriptions in the long cryptoporticus, could well support the idea that it was a public building. Two texts in particular are of interest, mentioning the city theatre (yet to be identified) and connecting it with the munificentia of the gens Propertia, one of the richest and most prominent in town: the Domus Musae could perhaps be connected with the structures of the theatre, built and financed by the poet’s family (and possibly by the poet himself) between the end of the Republic and the first years of the Augustan era.

LUCIANO LANDOLFI

Properzio e Cornelio Gallo: Il modello ‘cogente’, il modello ‘sfuggente’ (pp. 75-124)

Se la scoperta del papiro di Qas .r Ibrîm ha ampliato le nostre conoscenze sulla produzione di Cornelio Gallo, la fisionomia di questi distici ha consentito di retrodatare l’apparizione del servitium amoris e delle lamentele sulla nequitia puellae restituendo a Gallo la paternità di entrambi e alla sua poesia un ruolo paradigmatico. Viceversa, per quel che concerne il fr. 4, il complesso legame che intercorre fra le Muse, Licoride e l’autore non permette di ipotizzare diretti influssi sulla creazione della figura della puella carminum iudex compiuta da Properzio soprattutto nel secondo libro delle Elegie. Un modello

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soggetto a continui riadattamenti appare viceversa il fr. 3, dedicato alla maxima pars historiae: la prospettiva di un trionfo bellico memorabile appare in ogni caso come la prima testimonianza di un interesse della poesia elegiaca (o ‘epigrammatico-elegiaca’) nei rispetti di un evento capace di trasformare il Caesar di turno nel personaggio più significativo della storia romana, il cui ritorno costituisce un’occasione di tripudio sul piano collettivo e sul piano personale. Dunque, Cornelio Gallo avrebbe allargato i confini dell’elegia augustea (o dell’epigramma augusteo) a tematiche di carattere politico, una scelta densa di conseguenze soprattutto per Properzio per il quale il peso del modello ‘cogente’ dovette risultare molto più significativo di quanto i moderni non possano verificare. If the discovery of the papyrus of Qas .r Ibrîm has expanded our knowledge of the works of Cornelius Gallus, the features of these couplets have allowed us to backdate the apparition of the “servitium amoris” and the laments on the “nequitia puellae”, acknowledging Gallus with the paternity of both and a paradigmatic role to his poetry. On the other hand, as regards fr. 4, the complex relation between the Muses, Lycoris and the author himself, does not allow us to assume direct influence on the creation of the role of the “puella carminum iudex”, employed by Propertius in particular in his second book of the “Elegiae”. A model constantly subject to readjustments is, vice  versa, fr. 3 dedicated to the “maxima pars historiae”. The prospective of a memorable bellic triumph seems in any case to be the first witness of interest for elegiac (or epigrammaticelegiac) poetry regarding an event capable of transforming an ordinary Caesar into the most significant character of Roman History, whose return is an occasion for jubilation at the personal and collective level. Hence Cornelius Gallus broadened the limits of the Augustean elegy to themes of political interest, a choice that had great consequences above all for Propertius, for whom the weight of the model may have proved far more significant than modern scholars can verify.

Giovannella Cresci Marrone

Properzio e le guerre di conquista (pp. 125-145)

Il contributo esamina l’ostilità di Properzio nei confronti della guerra, nonché la prospettiva romano-centrica (cioè dall’Urbe) da cui il poeta la descrive, non potendone vantare esperienza diretta sui cam-

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pi di battaglia. Viene quindi analizzata la trattazione nella poesia properziana delle guerre augustee: i conflitti civili, le guerre trasfigurate in ottica di conquista ecumenica (Azio), le guerre manipolate (quelle partiche), le guerre immaginarie (contro Indi, Britanni, Armeni), le guerre enfatizzate (contro Etiopi ed Arabi), le guerre dimenticate (contro Iberi, Galli, Illiri, popoli alpini) a proposito delle quali si discutono le motivazioni di tale rimozione. This paper investigates Propertius’ hostility to the idea of war, and the urban (i.e. Roman) view of the interpretation of the poet, who was entirely lacking in experience on field. Thus, Propertius’ treatment of Augustan wars is taken into account: civil conflicts, wars transfigured according to an ecumenical ideology (Actium), manipulated wars (Parthian wars), imaginative wars (against Indians, Britons, Armenians), emphasized wars (against Ethiopians and Arabs), and forgotten wars (against Iberians, Gauls, Illyrians, Alpine people), the reasons for which are discussed thoroughly.

Françoise-Hélène Massa-Pairault

Properzio tra l’Etruria e Roma (pp. 147-180)

Si propone un’analisi delle elegie properziane alla luce delle scoperte archeologiche in Umbria, in Etruria e a Roma, cercando di cogliere la personale visione della storia del poeta, tra radici culturali umbre, conoscenza dell’Etruria e affermazione del suo statuto di cittadino romano. Al di là dei “topoi” dell’ideologia augustea, Properzio saprà, infatti, trovare spazio sia per un’originale interpretazione del passato sia per un moderno sentimento del presente. Le due elegie I.20 e 21 sono prima esaminate in quanto rivelano importanti aspetti della personalità di Properzio. Egli appare come un civis romanus profondamente ferito dagli orrori della guerra civile che ha imperversato a Perugia e sui monti etruschi. Possiamo meglio capire lo stato d’animo del poeta, esaminando la documentazione prosopografica, sia di Assisi sia di Perugia, che mette in luce, sullo sfondo di un’intensa romanizzazione, un microcosmo di relazioni di parentela. Un’ulteriore indagine può essere condotta a partire dallo studio dell’urna funeraria di A. Volumnius Cafatia Violens, il cui programma iconografico riflette un momento politico prossimo a quello dell’elegia  II.1 dedicata a Maecenas: e cioè il mutamento dell’atteggiamento di Augusto nei confronti della già ribelle e pro-Antonio Perugia.

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Il IV libro delle Elegie offre poi più ampia materia per dimostrare la sottigliezza e complessità della logica properziana alle prese con le figure imposte dal discorso politico augusteo. Anche se il poeta, in più di un passo, si adegua ai temi della propaganda vigente, specialmente nella riduzione del passato romano alla sua più antica espressione romulea a scapito di altre componenti attribuibili al periodo dei re, il poeta trova un metodo per esplorare più profondamente il passato dell’Urbs. Se ne percepisce l’efficacia nell’elegia di Vertumnus, che possiamo rileggere ora alla luce delle scoperte archeologiche in Etruria (fanum Voltumnae) in Umbria (Villa Fidelia di Spello) e a Roma (Vicus tuscus). Attraverso un gioco etimologico di stampo callimacheo, il poeta riesce non solo a illuminare i molteplici aspetti della divinità, ma a raggiungere i più profondi strati religiosi che compongono la sua natura. Qui l’erudizione dimostrata da Properzio si addice a chi è nato non lontano dalle fonti del Clitunno ed è appartenuto alla cerchia di Maecenas. La  menzione della statua bronzea del dio nel Vicus tuscus è verosimilmente, infatti, da ricollegare al discendente della famiglia, adfinis Porsennae, dei Cilnii. Così come la cangiante, poetica, immagine della divinità, le cui funzioni spaziano dalla guerra all’agricoltura e al commercio, trova conferma nelle recenti scoperte del fanum Voltumnae e riscontro nella struttura delle feste dell’arcaico calendario romano. L’immagine properziana trova una precisa eco anche in un documento etrusco appartenuto alla tomba del Guerriero, nei pressi d’Orvieto: la scena ivi rappresentata, raffigura verosimilmente Vertumnus/Voltumna tra Marte e Mercurio. Ora, dalla cangiante personalità di Vertunno nasce proprio il paradossale rapporto al tempo che più interessa Properzio: mentre sotto la maschera della divinità penetra nel passato più remoto, trae argomento dal gioco intrapreso per giustificare e impersonare il suo ansioso sentimento della modernità. This paper is not only an attempt to present an analysis of the main features of the Propertian Elegy in the light of archaeological evidence from Etruria, Rome and Umbria. It aims above all to offer an exploration of Propertius’ personal view of history, conditioned by his cultural roots in Umbria, Rome and Etruria, and his pursuit of modernity. He is compelled by the imposing figures of Augustean ideology to move in the remaining free space where, nevertheless, he is able to give an original interpretation of the past. The two elegies I, 20 and 21 are examined first, because they reveal an important aspect of the poet’s personality. He appears as a civis romanus shocked by the horror of civil war on the Etruscan mountains of Perugia. It is possible to understand his mood from prosopographical evidence of the ancient towns of Perugia and Assisi,

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and the detailed analysis of the P. Volumnius Cafatia Violens’ funerary monument. The iconographical program of this particular urn of the Volumnii hypogaeum, might indeed reflect the same political moment referred to in the II, 1 elegy addressed to Maecenas: i.e. the changing Augustean attitude towards the rebellious pro-Antonius Perugia. The fourth book of Elegies offers more material that demonstrates the subtlety and complexity of Propertius’ response to the pressure of Augustean ideology. Here, in several passages, the poet follows the main topics and intentions of the regime’s politics, in particular reducing the Roman past to the exclusive Romulean parameters of tradition. However, he is able to give a more profound reinterpretation of that past. The efficacy of this research is demonstrated by the Vertumnus Elegy, which can now be read in the light of the archaeological evidence from Etruria (Fanum Voltumnae), Umbria (Villa Fidelia in Spello) and Rome (vicus Tuscus). The etymological Callimachean lusus of the poet fits not only for the multiple functional aspects of the divinity, but, in spite of its apparent lightness, it encounters deep religious stratums of which a poet born near the Clitumnus’ spring might have specific knowledge. His mention of a Vertumnus bronze statue in the vicus Tuscus might be inspired by his association with Maecenas, adfinis Porsennae, and his picture of Vertumnus, whose personality is balanced between war and commerce, is confirmed not only by the recent discoveries in the Fanum Voltumnae, but by an analysis of the structure of various festivals in the Roman calendar. This is why the author analyses an Etruscan document from the Tomba del Guerriero in Volsinii, the figures in which, in her opinion, may represent Vertumnus/Voltumna between Mars and Mercurius. Perhaps the paradox of the Vertumnus Elegy consists in the fact that, through his most profound reconstruction of the preterit past concerning the changing personality of the divinity, the poet creates an argument to justify his anxious sense of modernity.

Roberto Cristofoli

PROPERZIO E MECENATE (pp. 181-220)

L’ingresso di Properzio nel Circolo di Mecenate si spiega con la sua aspettativa di una più capillare promozione e diffusione delle sue opere di poesia, né comportò da subito un cambiamento di tematiche da parte del poeta per allinearsi all’ideologia augustea: i soggetti politici cominciano ad assumere un ruolo rilevante specialmente nel terzo libro.

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Un importante soggetto politico è l’esortazione ad una guerra volta a vendicare la disfatta di Crasso a Carre ed a provincializzare la Partia, nonostante il punto di vista opposto che Augusto aveva a riguardo; a questo proposito, la presente ricerca prende in considerazione l’influenza esercitata su Augusto da Agrippa, la cui continua ascesa nella seconda metà degli anni Venti del I sec. a.C. ebbe il suo coronamento nel matrimonio con Giulia.  Agrippa e Mecenate spesso istradavano Augusto verso direzioni divergenti, come nel caso della Partia, la cui conquista fu promossa invano dai poeti del Circolo di Mecenate; ed è comunque un fatto – ricollegabile o meno a dirette trame di Agrippa – che Augusto, tornato dall’Oriente, prese le redini del Circolo. Ciò comportò il declino di Mecenate, che tendiamo quindi a ricondurre a ragioni principalmente politiche sulla base dell’analisi delle dinamiche di potere. Propertius’s entered the Circle of Maecenas with the aim of a more intense promotion and circulation of his poetic works. This did not initially involve a thematic change from the poet in order to align with the Augustan ideology: political subjects began to assume a relevant role in Propertius’ poetry, especially in the third book. An important political topic is the exhortation to a war aiming to avenge Crassus’ defeat at Carrhae and to provincialize Parthia, although Augustus held the opposite view. In this regard, the present research takes into consideration the influence exerted on Augustus by Agrippa, whose continuous rise in the second half of the third decade of the I century BC reached its peak with his marriage to Julia. Agrippa and Maecenas often offered Augustus conflicting advice, as in the case of Parthia, whose conquest was promoted in vain by the poets of the Circle of Maecenas. Whether or not Agrippa plotted against Maecenas, Augustus, after returning from the East, took over the reins of the Circle as a result. This brought about the decline of Maecenas, which we are therefore inclined to connect with chiefly political reasons, on the basis of the analysis of power dynamics.

Paul Zanker

Il tempio di Apollo Palatino in Properzio e i suoi resti (pp. 221-244)

Il contributo si basa sulla descrizione insolitamente dettagliata di Properzio del Tempio di Apollo sul Palatino, costruito da Ottaviano/

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Augusto. I 16 versi dell’elegia II, 31 si differenziano nettamente dalle altre elegie per una sobria oggettività. A ragione si è sostenuto che siamo di fronte a una poesia su committenza, forse conservata in modo frammentario. Nondimeno, questi versi sono di grande importanza per la ricostruzione del tempio, distrutto fino all’irriconoscibilità. Si è quindi tentato di esaminare questa tradizione letteraria insieme ai risultati degli scavi di Carettoni, ormai remoti, i cui più importanti risultati sono stati di recente pubblicati in forma piuttosto succinta da Jacobi-Tendone (2005), in modo da avere almeno un’idea di massima dell’imponente complesso del tempio. A questo riguardo, sono state esaminate criticamente anche le considerazioni e le ipotesi di Carandini-Bruno (2008) e l’importante contributo di Gros (2003). This contribution takes Propertius’ extraordinarily detailed treatise of the Octavian-built Temple of Apollo on the Palatine as a starting point. The 16 sober and practical verses of Elegy II, 31 are completely out of tune with the tonality of the remainder of the elegies. It has been justifiably assumed that this might be the result of a commissioned work, which furthermore seems to be preserved only in fragments. Nevertheless, the value of these verses is indispensable for any reconstruction of the thoroughly destroyed temple. This piece will then attempt to knit this literary heritage together with the findings of Carettoni’s excavations from many years ago. The latter were published in 2005 in very succinct form by JacobiTendone, and will allow a sketching of at least a crude outline of this magnificent temple complex. My deliberations will thereby critically address the ideas and assumptions of Carandini-Bruno 2008 and the important contribution of Gros 2003.

raffaele Perrelli

Properzio e Tibullo (pp. 245-253)

I rapporti tra Tibullo e Properzio furono quasi inesistenti a giudicare dall’esiguo numero di allusioni presenti nelle loro opere. In questo contributo si cerca di affrontare la questione non passando in rassegna i possibili loci similes ma confrontando i differenti mondi poetici attraverso i libri d’esordio dei due autori. The paper aims to demonstrate that relations between Propertius and Tibullus were almost non-existent. The only way to study

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the topic is to compare the first book of Propertius with the first of Tibullus, and illustrate the numerous differences between two poetic worlds, two Gedichtbücher, and single elegies.

Arturo R. Álvarez Hernández

Il Virgilio dei primi libri properziani (pp. 255-277)

La presenza di Virgilio è intensa e permea tutta l’opera properziana. Questo contributo intende esaminare il significativo mutamento occorso in Properzio, tra il primo ed il secondo dei suoi libri, rispetto al pensiero programmatico di Virgilio. Nelle elegie 1, 8 e 1, 18, il primo libro propone un dialogo programmatico con Virgilio attraverso Gallo, il personaggio delle Bucoliche (6 e 10), in cui Properzio identifica l’archetipo del poeta-amante elegiaco. Il secondo libro offre uno scenario più complesso. Nelle principali elegie metapoetiche del corpus (1, 10, 13, 34) Properzio prende posizione riguardo al ‘programma ascensionale’ di Virgilio, abbozzato nelle  Bucoliche e sviluppato con chiarezza nelle Georgiche. L’atteggiamento di Properzio muta: mentre in 2, 1 e 2, 10 il poeta elegiaco fa capire l’attrazione che su di lui esercita il programma virgiliano (e di conseguenza la sua tentazione di abbandonare l’elegia di tema erotico), nelle elegie 13 e 34 dichiara il consolidamento del suo programma elegiaco-erotico quale alternativa poetica altrettanto legittima di quella ‘ascensionale’. Virgil’s presence is intense and pervades all of Propertian poetry. This article intends to focus on the meaningful changes that can be observed between the first and second books of Propertius towards Virgilian programmatic thinking. In elegies 1, 8 and 18, Book 1 proposes a programmatic dialogue with Virgil, through the character of Gallus of Eclogues 6 and 10, in whom Propertius recognizes the archetype of the elegiac poet-lover. Book 2 offers a more complex scenario. In the main metapoetic elegies of the corpus (1, 10, 13, 34), Propertius takes a position regarding the “ascensional program” of Virgil drawn in the Eclogues and clearly defined in the Georgics. However, while in elegies 1 and 10, he shows the attraction that such a programme exerts on him (and thus the subsequent temptation to abandon the erotic elegy), in elegies 13 and 34 Propertius presents the consolidation of the elegiac-erotic program as an option as legitimate as Virgil’s “ascensional” one.

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NIKLAS HOLZBERG

CARMINA COMPONO, HIC ELEGOS PROPERZIO E ORAZIO (pp. 279-296)

Properzio, contrariamente all’opinione più diffusa, non fu un giovane e sventurato innamorato che, sotto all’influenza di Orazio, si trasformò in un virtuoso e in un augusteo convinto. È piuttosto un esponente del discorso elegiaco che, nei suoi poemi, intrattiene un fitto dialogo con Orazio, il rappresentante del genere lirico, e che, assimilando e trasformando il suo ipotesto, arriva a creare un prodotto nuovo e originale. Possiamo individuare tre tipi di intertestualità in Properzio: 1) Una porzione di testo alquanto lunga o un intero componimento si riferiscono a un intero componimento oraziano; 2) Un componimento oraziano fornisce il ‘motto’ per un’elegia di Properzio; 3) Viene “citato” un passo oraziano significativo. Il contributo esamina i testi che possono essere ricondotti a questi tre tipi di intertestualità, offrendo innanzitutto una panoramica del problema e soffermandosi in seconda battuta su di una lettura ravvicinata dell’elegia 3.12 e di Orazio, Carm. 2.14, il cui rapporto intertestuale esemplifica il tipo 2. Propertius, contrary to the frequently voiced perception, was not a star-crossed young lover who, under the influence of Horace, matured into a moral person and committed Augustan: he was, rather, an exponent of elegiac discourse who, in his poems, established a dialogue with Horace, the representative of lyric discourse, and who, by assimilating and modifying a hypotext within his own, creates something new and original. We can differentiate between three types of intertextuality in Propertius: 1) a longish passage or an entire poem alludes to an entire poem within Horace’s oeuvre; 2) a poem by Horace provides the “motto” for an elegy of Propertius’s; 3) a significant locus in Horace is “cited”. This paper looks at the texts which can be assigned to the above three categories, offering at first a general consideration and then, by way of example, a close reading of the “Type 2” elegy 3.12 in comparison with Horace, Carm. 2.14.

Rosalba Dimundo

OVIDIO E L’ELEGIA DI PROPERZIO (pp. 297-326)

Un dato ormai acquisito dalla critica è quello dell’influenza decisiva dei primi tre libri properziani sull’opera ovidiana (la stretta dipendenza

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dal  suo predecessore, del resto, viene segnalata dallo stesso Ovidio in Trist. 4,10,45-46). Meno studiato, invece, è il debito che Ovidio contrae con il IV libro di Properzio e non solo per la tendenza a dare voce alla figura femminile, che ampio spazio avrà nelle Eroidi: nel presente contributo si tenterà di dimostrare da un lato che la lettera scritta da Aretusa al marito Licota (Prop. 4,3) è il modello a cui si ispirano le Heroides ovidiane, dall’altro che la Laodamia ovidiana (Her. 13) è chiaramente l’erede privilegiata dell’Aretusa properziana. Le affinità tra le due figure femminili derivano principalmente dalla situazione oggettiva delle protagoniste (entrambe sono state lasciate sole dai mariti, partiti in guerra) e dal modo con cui tentano di persuadere i rispettivi uomini a non mostrarsi eccessivamente valorosi sul campo di battaglia. Evidenti affinità contenutistiche e lessicali con l’epistola di Aretusa, inoltre, consentono di apprezzare in Her. 13 il continuo ricorso di Ovidio a un sistema di allusività, che viene attivato attraverso analoghi codici letterari. In Tr. 4,10,45-46, Ovid asserts “saepe suos solitus recitare Propertius ignes / iure sodalicii, quo mihi iunctus erat”, thus confirming that Propertius is his closest elegiac predecessor. It is not surprising therefore that the influence of Books 1-3 of Propertius on Ovidian work is profound, and various scholars have contributed to the recognition of imitations of Propertius in Ovid’s work. Less studied, however, is the debt that Ovid owes to the Propertius’s fourth book, and not only for the tendency to give voice to the female figures, which will have not little space in the Heroides. This paper aims to demonstrate that the letter written by Arethusa to her absent husband Lycota (Prop. 4,3) is the model that inspired Ovid’s Heroides, and that Ovid’s Laodamia (Her. 13) is definitely the privileged heir to Propertius’s Arethusa. The affinity between the two female figures and their epistles is derived primarily from the objective situation of the protagonists: both are left alone by husbands in war, and are deeply concerned for their safety. Obvious homologies of contents and vocabulary with the Epistle of Arethusa also allow for an appreciation of Ovid’s continuous recourse to a system of allusions, which is activated through similar literary codes. Alison Keith

Le Puellae nelle elegie di Properzio e le loro omonime nei reperti epigrafici (pp. 327-347)

Lo studio prende le mosse dall’evidenza epigrafica che attesta la presenza, nella Roma di prima età imperiale, di schiave e liberte con nomi

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appartenuti a celebri cortigiane del mondo greco. Il materiale emerso dall’analisi delle epigrafi è poi riletto alla luce della nomenclatura femminile nella silloge properziana: il confronto dimostra che esiste una significativa intersezione fra nomi femminili in Properzio e nomi di origine greca attestati per schiave e liberte di Roma in epigrafi coeve. Obiettivo dell’articolo è documentare come all’utilizzo di nomi greci per le dominae elegiache corrispondesse, quindi, una circolazione reale degli stessi nomi nella Roma Augustea. Mentre riproduce a Roma l’eco delle conquiste imperiali, la presenza e circolazione di tali nomi rivela anche lo stretto legame fra elegia, imperialismo e celebrazione degli aspetti sessuali della conquista militare romana. This study takes its point of departure from the inscriptional evidence for the presence in early imperial Rome of slave- and freedwomen bearing the names of the celebrated courtesans of classical Greece, and situates this material in the context of the textual evidence for their nomenclature in Propertius. I then focus on the overlap between the names of the mistresses in Propertian elegy and the inscriptional evidence we have for slave- and freedwomen bearing precisely these Greek names in the same period at Rome. My study aims to document the contemporary currency of the Greek names of the elegists’ mistresses in Augustan Rome, where their names are resonant of Roman imperial conquest, and thereby to show that Roman elegy is intimately correlated with Roman imperialism in its celebration of the sexual spoils of military conquest.

Carlo Santini

PROPERZIO TRA SCRITTURA E VISUALITà. UN CONTRIBUTO ALLA GENESI DELLE IMMAGINI IN UN POETA AUGUSTEO (pp. 349-371)

Una dei caratteri di maggiore evidenza nella poesia di Properzio è l’enfasi che pone nel piacere che nasce dallo sguardo. La sua particolare predisposizione nel mettere a fuoco ogni cosa ed ognuno rappresenta l’eco del vocabolario della antica retorica (enargeia, evidentia) che in francese è detto ‘tempérament visuel’; essa ci appare operare tanto nel passato con la memoria quando nel presente tramite la vista. Questo contributo intende illustrare questo suo modo di comporre, riservando specifica attenzione a tutti i capolavori artistici citati nei versi e discutendo la loro presenza nel contesto di equivalenza

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tra letteratura e arte. Esamineremo quindi la scelta di Properzio di dare nuova vita a pitture e statue facendo ricorso al mondo complesso della mitologia vuoi in forma di cataloghi, vuoi mediante l’ekphsasis. Tutti i miti cui lui accenna, tuttavia, sono in stretto collegamento con il suo ‘vissuto’, così come appare dalla abbondanza di allusioni (spesso implicite). One of Propertius’ most distinctive features is the emphasis on pleasure stemming from the eyes. He is particularly fond of visualising everything and everyone, what the French call ‘tempérament visuel’, or, using the vocabulary of ancient rhetoric, enargeia, evidentia, which operates in the past through the memory and in the present through sight. This paper aims, firstly, to illustrate this pattern, giving particular attention to all the artistic masterpieces quoted in Propertius’ poetry, and discussing their presence in his work. The paper will go on to examine Propertius’ choice of bestowing new life on paintings and statues by evoking the complex world of mythology, either in the form of a catalogue, or through an ekphrasis; all the myths, however, appear to be closely linked with the poet, inasmuch as they allow him to resort to a variety of allusions.

Paolo Fedeli

Da Cinzia a Cornelia (pp. 373-419)

Il presente contributo ricostruisce la “Arbeitsweise” di Properzio nel IV libro di elegie e ne mette in luce i molteplici aspetti di novità e il carattere unitario. This paper reconstructs the “Arbeitsweise” of Propertius in his fourth Book of Elegies, highlighting its many innovative aspects and its unitary character.

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articoli articles

Werner Eck

Properzio e l’aristocrazia augustea

Quando Properzio sia nato, non si può dedurre con sicurezza dalle fonti, che sono costituite esclusivamente dalle sue poesie, nelle quali la realtà storica si manifesta solo in modo parziale e per di piú spesso anche in forma allusiva, come si addice al genere elegiaco. Perciò è anche molto difficile dire quando egli sia arrivato a Roma e, soprattutto, quando sia entrato in contatto con l’élite dominante della città di Roma, anche se non esclusivamente con l’aristocrazia senatoria. Se però fosse consentito di fissare la sua data di nascita intorno all’anno 50 a.C. 1, se ne avrebbe una qualche indicazione che egli sia vissuto in ogni caso a Roma già nell’ultimissima fase dell’età triumvirale. Fra quali persone e cerchie di persone egli si è venuto allora a trovare, come si presentava questa aristocrazia in Roma, preda di un violento capovolgimento, dove e come Properzio è potuto entrare in confronto con essa e apparirne influenzato? Attraverso quali persone, alle quali era forse conosciuto già prima del suo trasferimento a Roma, poté entrare in relazione con l’alta società della città di Roma? Le domande sono numerose e facili da porre, ma il difficile è rispondere. Che inoltre ci si debba anche chiedere quali di queste persone della società romana compaiano in Properzio stesso, è naturale, tenuto conto della situazione delle fonti. Poiché egli viene appena menzionato nelle altre fonti, se si prescinde dalla sua fama posteriore come poeta e dal contesto della sua poesia. 1  Cosí PIR2 P 1006; Fr. Cairns, Sextus Propertius. The Augustan Elegist, Cambridge 2006, 25 fissa la sua nascita tra il 58 e il 55 a.C.

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102578

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Properzio proviene da Asisium, un municipio confinante con Perugia. Considerato il suo status sociale e politico, il padre deve aver appartenuto all’ordine dei decurioni della città, ma certamente non apparteneva ancora all’aristocrazia di Roma 2. Del resto da Asisium per l’età repubblicana non c’è da segnalare alcuna famiglia che abbia oltrepassato i quadri sociopolitici della propria città e sia diventata parte della aristocrazia romana 3. Al contrario non mancavano famiglie della confinante Perugia che avevano già conseguito questo avanzamento. Da quella città originariamente etrusca, singoli esponenti delle famiglie del luogo avevano conseguito l’ingresso nel gruppo dirigente del senato già in tarda età repubblicana 4. Accanto ad una famiglia, da cui provenivano due Vibii Pansae, uno dei quali il console dell’anno 43 a.C., c’era una familia Volcacia 5. Un L. Volcacius Tullus giocò un ruolo niente affatto irrilevante insieme a Cicerone negli ultimi decenni della repubblica. Certo non homo novus, anzi con ogni verisimiglianza figlio di un senatore, questo Volcacius Tullus arrivò alla pretura al piú tardi nell’anno 69 a.C. e ottenne nel 66 a.C. il consolato 6. Durante il suo anno di carica contribuí presumibilmente in modo decisivo ad impedire a Catilina di candidarsi per la carica piú elevata, il consolato 7. Ma non è possibile sapere nulla di piú preciso. Nel periodo successivo questo Volcacio sembra avere intrattenuto rapporti, nonostante la loro ostilità reciproca, sia con Pompeo che con Cesare, i due leaders eminenti della fine

2  Vd. Propertius 2, 24, 37 sg.; 34, 55 sg.; G. Bonamente, Properzio, un esponente dell’aristocrazia municipale di Asisium nella Roma di Augusto, in: Properzio tra storia - arte - mito. Atti del Convegno internazionale, Assisi 24-26 maggio 2002, a cura di C. Santini - F. Santucci, Assisi 2004, 17 sgg. 3  M. Gaggiotti - L. Sensi, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: Regio VI (Umbria), in Epigrafia e Ordine senatorio, a cura di S. Panciera, Roma 1982, II 245 sgg., in partic. 262 sgg. 4  M. Torelli, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: Regio VII (Etruria), in Epigrafia et e Ordine senatorio (nota 3), II 283. 291. 5  I dubbi di T. P. Wiseman, New Men in the Roman Senate 139 B.C. - 14 A.D., Oxford 1971, 276 sg. sull’origine perugina della famiglia sono poco fondati. Cfr. Fr. Cairns, Sextus Propertius. The Augustan Elegist, Cambridge 2006, 44. 6  Si veda anche T. R. S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, Vol. II, Cleveland 1952, 132; 151; Supplement, Vol. III, 1986, 223. 7 Sallustius, Catilina 18, 3, Asconius 59 (Clark).

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della repubblica: nell’anno 56, quando si trattò di far tornare sul trono d’Egitto il faraone Tolomeo XIIII, Volcacio Tullo sostenne la proposta di affidare questo compito a Pompeo (che però non ebbe successo); dall’altro canto egli si oppose in senato a quanti erano accesi fautori della guerra civile; in ogni caso non aderí mai a Pompeo 8. E quando fu in discussione in senato, dopo la fine della guerra civile, il rientro di M. Claudio Marcello, uno dei piú fieri avversari di Cesare, egli si dichiarò contrario al richiamo e al perdono 9. Si ricorda come tribuno della plebe del 68 a.C. un L. Volcacius, che insieme ad altri colleghi fece riparare alcune strade in Roma e nei dintorni in virtú di una lex Visellia 10. Potrebbe trattarsi della stessa persona, ma non se ne può essere certi 11. Questo Volcacio, consolare dopo l’anno 66, aveva in ogni caso integrato già pienamente la propria famiglia nell’aristocrazia senatoria e nella sua piú esclusiva élite. Invero la sua provenienza da una città a suo tempo etrusca e la sua appartenenza solo recente al gruppo dirigente di Roma trova riscontro nel fatto che i suoi discendenti si schierarono, dopo l’uccisione di Cesare, non dalla parte dei paladini della repubblica, ma da quella dei triumviri. Un L. Volcacius Tullus, senza dubbio figlio del console del 66 a.C., era stato evidentemente uno dei partigiani di Cesare, il che gli aveva assicurato la pretura urbana del 64 a.C. 12. Pertanto la sua adesione ai triumviri dopo l’uccisione di Cesare era solo un atto di coerenza. Come egli sia posizionato nelle guerre successive, poi combattute fino alla fine fra i triumviri stessi, non è stato tramandato, e lo stesso vale – il che sarebbe stato particolarmente importante – per come egli abbia partecipato all’assedio di Perugia e da quale parte si sia collocato. Una posizione neutrale o forse persino una partecipazione dalla parte di Ottaviano non è da escludere, sebbene in questo periodo i cambi di campo non fossero una rarità.  Cicero, ad Atticum 9, 11, 7.  Cicero, ad familiares 4, 3, 4. 10 CIL I 744 = ILLRP 465a. 11 R. Syme, Roman Papers II 561 sgg.; Broughton (nota 6), III 223. 12  Cicero, ad familiares 13, 14. 8 9

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Sarebbe altrettanto plausibile un’adesione a Marco e a Lucio Antonio 13. Nelle fonti appare di nuovo per l’anno 33 a.C., quando le tensioni fra Antonio e Ottaviano si acuirono gravemente, in quel tempo, in modo affatto evidente, quale partigiano di Ottaviano: poiché ottenne il consolato ordinario di quell’anno in coppia con l’Imperator Caesar divi filius. Ciò indica un rapporto di grande fiducia reciproca fra i due, nonché l’importanza che Volcacio deve avere avuto per Ottaviano. R. Syme ha supposto con buon fondamento che nell’insieme la scelta dei sette consoli di quell’anno abbia avuto a che vedere anche con la volontà di accattivarsi le simpatie delle popolazioni delle città italiche da cui i consoli provenivano 14. Che Volcacius dovesse esercitare questa funzione nei confronti di Perugia a vantaggio di Ottaviano, si può supporre, specialmente dopo il bagno di sangue, non ancora dimenticato, che le truppe cesariane avevano inflitto agli abitanti della città nel 40 a.C. Se il consolare Volcacio abbia avuto un ruolo molto importante in occasione della battaglia di Azio, resta nel buio; egli appartiene in ogni caso a quel numero di piú di 700 senatori che allora – come sostiene Augusto stesso nelle res gestae – combatterono sotto il suo comando, e a quel gruppo di 83 senatori che prima e dopo Azio ottennero il consolato 15. Pochi anni dopo, forse negli anni 29/28 oppure 28/27, ha governato come proconsole l’Asia, la piú importante provincia orientale dal punto di vista finanziario 16. Ma che egli sia stato inviato in questa provincia poiché forse va identificato con il governatore della Cilicia del 45 a.C. e pertanto in quanto avrebbe avuto speciali conoscenze ed esperienze nella regione, è piú che inverosimile 17; per 13 Cairns, Sextus Propertius (nota 5), 47 sgg. dà con relativa sicurezza per accertato il collegamento con Marco Antonio. In questo caso si deve prendere in considerazione però un tempestivo cambio di campo della famiglia nel contesto della guerra a Perugia nell’anno 41/40. 14  R. Syme, Roman Revolution, 1939, 242, nota 2. 15   Res gestae 25, 3. 16  Inschriften von Priene 105; R. K. Sherk, Roman Documents from the Greek East. Senatus consulta and epistulae to the Age of Augustus, Baltimore 1969, Nr. 65 D; AE 2006, 1452 = SEG 56, 1233. 17 Cosí Cairns, Sextus Propertius (nota 5) 46, nota 40, in accordo con un’ipotesi di G. Bowersock, Augustus and the Greek East, Oxford 1965, 21.

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la scelta di un governatore dell’Asia erano determinanti altri motivi, ma non la conoscenza diretta del territorio per di piú cosí vasto tra la costa occidentale dell’Asia Minore e la Cilicia, che confina con la Siria 18. Forse non fu però un caso che durante l’esercizio della carica di Volcacio Tullo in Asia, le comunità della provincia abbiano preso la decisione di onorare in modo particolare colui che avesse fatto una proposta circa il modo in cui Augusto potesse essere onorato e messo in risalto in modo straordinario. È conservata questa delibera, adottata in Smirne dal Koinòn della provincia di Asia sotto la presidenza di Volcacio, in un documento del 9 a.C., allorché l’allora proconsole Paullus Fabius Maximus fece la proposta di far coincidere l’inizio ufficiale dell’anno della provincia con il genetliaco di Augusto del 23 settembre 19. Questo senatore, la cui attività politica cade negli stessi anni della prima fase poetica di Properzio, viene menzionato da Properzio solo una volta e senza che il suo nome compaia; Properzio lo indica soltanto come patruus, come zio dalla parte del padre, del proprio amico Tullus. Questo senatore di rango consolare apparteneva senza dubbio al gruppo dominante nel senato di allora e con ciò, proprio nel periodo del passaggio dagli arbítrii legali del periodo triumvirale al principato, ha giocato presumibilmente un ruolo niente affatto trascurabile. Tuttavia non è in alcun modo dato di capire che cosa, quest’uomo, che ha assicurato la collocazione della propria famiglia nel nuovo ordine politico, abbia rappresentato per il poeta Properzio; Properzio non offre alcuna ulteriore indicazione su di lui, oltre quella del suo legame di parentela con il proprio amicus Tullo.

18  W. Eck, Imperial Administration and Epigraphy: in Defence of Prosopography, in Representations of Empire. Rome and the Mediterranean World, a cura di A. K. Bowman - H. M. Cotton - M. Goodman - S. Price, Oxford 2002, 131 sgg. 19  Sulla questione di come sia stato possibile che una siffatta decisione sia stata presa piú o meno tra il 29 e il 26 a.C. in Asia e che però il documento che ce ne informa sia solo intorno all’anno 9/8 a.C. e che risalga all’allora proconsole della provincia, Paullus Fabius Maximus, si vedano le considerazioni di Sherk (nota 16), 334, nota 1, il quale non se la sente di stabilire se il console del 33 a.C. vada identificato con questo proconsole. Chi mai altro potrebbe essere, dal momento che sono tutti noti i consoli degli anni tra il 33 e il 10 a.C.? Si può escludere che abbia avuto la provincia proconsolare di Asia un senatore, che non avesse ottenuto il consolato.

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A quest’ultimo il poeta rivolge la parola in vari passi delle proprie elegie, sempre soltanto con il suo cognomen 20. Ma l’attribuzione del nomen gentilicium Volcacius, in considerazione della provenienza di Tullo da Perugia e della parentela con il proconsole d’Asia, non è in dubbio. Anche questo Tullo deve essere stato senatore, anche se era in età molto giovane. Poiché secondo le indicazioni in Elegie 1, 6, 19 sg., egli avrebbe dovuto precedere suo zio nella provincia e prendersi cura lí di questioni di diritto che riguardavano i provinciali; Properzio parla di “restituzione del diritto”: et vetera oblitis iura refer sociis. Poiché Properzio in questo contesto fa riferimento ad un viaggio che lo portava, passando per Atene, fino alle città dell’Asia, tutto fa pensare che il giovane Tullo agisse come legatus di suo zio, quando questo era in carica come proconsole di Asia. Un incarico del genere per un giovane membro della famiglia non era affatto sorprendente, anzi era del tutto usuale che magistrati prendessero nelle loro province i loro giovani familiari. Un proconsole poteva decidere liberamente i propri legati, anche nella piú tarda età imperiale. Resta però un problema, se si collega questa affermazione di Properzio nel libro primo con un’ulteriore notizia, che però compare solo nel terzo libro: Frigida tam multos placuit tibi Cyzicus annos, Tulle... 21. Dal momento che un legato proconsolare non può trattenersi per molti anni in una provincia, tanto piú non c’è alcuna indicazione che lo zio di Tullo sia rimasto in carica come proconsole per piú di un anno. Francis Cairns ha perciò proposto, fin dal 1974, di considerare Tullo come a special commissioner  22, nello stesso modo in cui fu inviato in Asia nel 17 d.C. un M. Ateius, perché affrontasse le conseguenze di un violento terremoto 23. Secondo Cairns, Tullo avrebbe rimesso in vigore le antiche situazioni di diritto per molte città della provincia, che erano state gravemente violate a causa delle aggressioni delle diverse parti durante la guerra civile. Questa potrebbe essere una soluzione, ma è contraddetta dall’indica  Propertius 1, 1, 9; 1, 6, 1. 19 sg.; 1, 14, 20; 1, 22, 1; 3, 22.   Propertius 3, 22, 1 f. 22  F. Cairns, Some Problems in Propertius 1.6, AJPh 95, 1974, 150 sgg. 23 Tacitus, Annales 2, 74. 20 21

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zione di Properzio che Tullo si è trattenuto per multos annos evidentemente solo a Cizico, la qual cosa non può essere messa in rapporto con un mandato che egli avrebbe dovuto esercitare per la provincia 24. Né è in alcun modo indispensabile, dalla formulazione: et vetera oblitis iura refer sociis trarre la conclusione che con la sosta di Tullo sia stato connesso un incarico speciale. Poiché, che i diritti delle comunità provinciali nei tempi trascorsi della guerra civile siano stati spesso disattesi da tutte le parti, questo è un dato di fatto. Riportare in vigore gli antichi diritti nel rapporto normale con le comunità, significa senza dubbio restituire loro i vetera iura. Con ciò resta certamente verisimile che Tullo, come legatus abbia accompagnato lo zio in Asia; se si possa mettere in rapporto con questa funzione la notizia sui multos annos in Cizico, deve restare molto in dubbio. Quale ruolo svolse però questo Volcacius Tullus nell’alta società della città di Roma? Quali opportunità si aprirono per Properzio in virtú di questo legame? Volcacio Tullo era sicuramente senatore, ma deve essere stato ancora relativamente giovane, quando, poco dopo l’anno 30 a.C., è partito per l’Asia come legato proconsolare dello zio. Durante la repubblica, come pure durante l’impero si poteva intraprendere un incarico di questo tipo da qualsiasi grado della carriera senatoria, pertanto anche già prima della pretura. Questa magistratura ordinaria non costituiva un presupposto per adempiere al compito di un legato, anche se questo consisteva specialmente nell’amministrazione della giustizia, alla quale Properzio fa riferimento proprio nel caso di Tullo. Niente nelle poesie di Properzio indica che il suo amicus abbia avuto qualsivoglia altro incarico in Roma o nelle province. Nella società della città di Roma avevano però importanza, in grande misura, gli incarichi e il rango che un senatore aveva ottenuto nell’ambito della res publica. Di altri incarichi militari o amministrativi, che il suo Tullo possa aver intrapreso dopo la legatio in Asia, Properzio non dice nulla. Un consolato, che era l’obiettivo di tutti i senatori che contavano qualche cosa, un senatore come Tullo poteva difficilmente

24  Per di piú sarebbe stato quasi senza senso, per un giovane senatore, che avesse voluto procedere nel suo cursus honorum, rimanere cosí a lungo in un incarico speciale niente affatto sensazionale nella provincia d’Asia.

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sperarlo. Su una moneta del 28 a.C. compare la legenda: Iura et leges populo Romano restituit 25. Si esprime la preoccupazione di Augusto di ripristinare un po’ alla volta le regole giuridiche e istituzionali tradizionali della repubblica anche per le magistrature ordinarie. Di queste regole faceva parte anche quella che i consoli di un anno restassero il carica per dodici mesi; ciò significava però che erano rimasti soltanto consules ordinarii, ai quali appartennero Augusto e i suoi piú stretti collaboratori come Marco Agrippa e Statilio Tauro. Con ciò però le chances di ottenere un consolato, fatta eccezione per pochissimi senatori che appartenevano alla ristrettissima cerchia di potere intorno ad Augusto, erano pari a zero. Di suffecti ce ne furono di nuovo, salvo il caso di morte o di dimissioni prima della fine del mandato, soltanto a partire dal 5 a.C. Tullo però non appartenne certamente alla piú ristretta cerchia di potere. Al suo riguardo si ha in ogni caso l’impressione, come se egli si fosse ritirato dalla competizione ad ulteriori cariche senatorie, come fecero non pochi altri membri della nobiltà. Prevale in ogni caso l’impressione che Tullo possa avere desistito dalla corsa alle cariche pubbliche, se si prende sul serio la notizia di Properzio sui “molti anni” di Tullo a Cizico. Questi anni di assenza, soprattutto se egli vi si è fermato senza una posizione ufficiale, gli hanno fatto perdere, con ogni verisimiglianza, la sua influenza all’interno di Roma. Quanto ciò avvenisse rapidamente, lo mostra l’ “allontanamento” di Tiberio nel 6 a.C.; il suo ritiro a Rodi ebbe come conseguenza una forte diminuzione di influenza. Ma lui aveva una madre come Livia! La situazione di Tullo fu presumibilmente ben diversa. Ma che cosa deve aver significato per Properzio un Tullo nella lontana Cizico? L’influenza sui circoli romani si mantiene attraverso contatti personali o per mezzo di una posizione di potere in provincia come comandante di un esercito o come governatore di provincia: ma questo evidentemente non è il caso di Tullo. Un’amicizia personale tra lui e Properzio non avrebbe dovuto risultare compromessa da una lunga assenza,

25  W. Rich - J. H. C. Williams, Leges et iura P. R. restituit. A new aureus of Octavian and his settlement of 28-27 BC, in: Numismatic Chronicle 159, 1999, 169 sgg.

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e nemmeno la sua funzione come figura di riferimento in uno scambio poetico – se poi Tullo ebbe allora una tale funzione. Che cosa altro se no? Sembra che non ci sia una risposta al riguardo. Ora soltanto due altre persone note a Properzio, che egli stesso menziona e con le quali curò un rapporto personale, sarebbero state di rango senatorio: la prima è un Postumo, sposato con una Aelia Galla 26, il secondo è forse un Gallus, se si può vedere in lui un (Aelius) Gallus che da parte sua era poi legato ad Aelia Galla. La possibilità di assegnare queste persone alla cerchia senatoria dipende però d’altro canto dall’identificazione del Postumus menzionato da Properzio. Questi viene considerato generalmente con il senatore Q.  Propertius Postumus, noto solo da un’iscrizione sepolcrale di Roma. Questo Properzio Postumo appartiene all’età augustea, sulla base della funzione che ricoprí e del modo in cui essa viene formulata nell’iscrizione 27. In connessione con l’identificazione con il Postumo di Properzio gli viene attribuita l’origo da Assisi. Pertanto dovrebbe essere stato un parente in linea diretta del poeta e in quanto tale potrebbe avere avuto rilevanza ai fini della collocazione del poeta nella classe senatoria. Tuttavia ci sono alcuni dati che sono in contraddizione con questa identificazione. In primo luogo il senatore è iscritto nella tribú Fabia, mentre i cittadini di Assisi certamente hanno fatto parte della tribú Sergia 28. Ciò non esclude una provenienza da Asisium ma certamente non è un argomento a suo favore. Piú importante è che Properzio dica che il suo Postumo lasci sua moglie Elia Galla a Roma, mentre egli si sarebbe recato in Oriente sotto le insegne di Augusto, esponendosi ai pericoli

  Propertius 3, 12.  CIL VI 1501 = Dessau 914: Q(uintus) Propertius Q(uinti) f(ilius) Fab(ia). C(aius) Propertius Q(uinti) f(ilius) T(iti) n(epos) Fab(ia) Postumus IIIvir cap(italis) et insequenti anno pro IIIvir(o), q(uaestor), pr(aetor) desig(natus) ex s(enatus) c(onsulto) viar(um) cur(ator), pr(aetor) ex s(enatus) c(onsulto) pro aed(ilibus) cur(ulibus) ius dixit, pro co(n)s(ule). Q(uinti) Properti. 28 G. Asdrubali - M. C. Spadoni - E. Zuddas, Regio VI - versante umbro, in: Le tribú Romane. Atti della XVIe Rencontre sur l’épigraphie, a cura di M. Silvestrini, Bari 2010, 217 sgg. 26 27

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minacciati dai bellicosi Parti 29. Con ciò non è affatto congruente, d’altro canto, che nell’iscrizione funeraria che menziona il senatore Properzio Postumo non sia contenuta la pur minima indicazione di un incarico militare, che sia stato intrapreso dal defunto: al riguardo nell’iscrizione funeraria l’indicazione dei suoi incarichi risulta marcata dalla premura di raccontare su di lui il piú possibile, sia come quantità che come precisione, molto piú di quanto accade nella maggior parte delle iscrizioni dell’epoca. Questa assoluta assenza di qualsivoglia indicazione della partecipazione ad un’impresa militare, rende assai inverosimile l’identificazione del senatore ivi menzionato col il Postumo di Properzio 30. Conseguentemente però viene a mancare anche il fondamento per un’appartenenza al senato del Postumo cui viene rivolta la parola in Elegie 3, 12, e di conseguenza lo stesso riguarda anche lo status sociale di sua moglie Elia Galla. Costei, da parte sua, dovrebbe essere stata parente di Elio Gallo, il secondo prefetto dell’Egitto. Questa possibilità rimane in piedi anche se non si può piú stabilire il legame di Postumo con Properzio Postumo. Inoltre, il Postumo di Elegie 3, 12, in quanto marito di una donna appartenente al rango equestre, potrebbe avere conseguito proprio tale rango socio-politico ed avere preso parte come prefetto equestre o tribuno equestre all’impresa di Augusto in Oriente, che si concluse con il recupero delle insegne militari perdute da Licinio Crasso. Una volta che Postumo ed Elia Galla abbiano perduto l’appartenenza all’ordine senatorio finora supposto dai piú, essi appartengono quindi presumibilmente agli alti livelli della società di Roma, pertanto complessivamente essi sono ancora piú dif-

  Propertius 3, 12, 1 ff.  Ciò che Cairns, Sextus Propertius (nota 5), 16 sg. scrive sulla carriera di questo Properzio, una specie di nomina come curator viarum (Flaminiae), poiché la via Flaminia portava ad Assisi, è purtroppo una speculazione senza fondamento; di fatto egli non considera che in età augustea i curatores viarum operavano ancora in modo collegiale e pertanto non potevano essere assegnati ad una strada specifica, circostanza per cui non può avere giocato un ruolo per la nomina nemmeno la conoscenza dei luoghi. Cairns ha inoltre preso evidentemente il testo dell’iscrizione urbana dalla Banca-dati Clauss, poiché scioglie, come anche lí (controllata il 26 aprile 2012; e ivi corretta dopo questa data), viar cur. come viar(um) cur(andarum), il che non ha alcun senso; è invece corretto viar(um) cur(ator). 29 30

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ficili da localizzare e la loro rilevanza per questa società e per il poeta è piú difficile da valutare. Che anche personalità che potevano fondare il loro prestigio sul rango equestre, disponessero tuttavia di influenza e comparissero anche come patroni di intellettuali, di poeti o di scrittori, lo mostra proprio Elio Gallo, nella cui cerchia va individuato uno storico come Strabone 31. Ancora di piú questa influenza e le possibilità, proprio anche per poeti come Properzio, vanno trovate in Cornelio Gallo e Cilnio Mecenate, ambedue non senatori, eppure di eccezionale importanza pur essendo soltanto cavalieri, in parte non minima per il loro stretto legame con Ottaviano/Augusto, quale effettivo detentore del potere e per gli incarichi che furono loro affidati. Nelle sue elegie Properzio menziona Mecenate 32 e Gallo 33 in diversi passi o addirittura si rivolge direttamente a loro. Di loro non si tratta qui piú dettagliatamente, perché alcune relazioni in quedto volume li riguardano espressamente. Se si prescinde da loro e dai due Volcacii, si trovano nell’opera poetica di Properzio soltanto nell’ultima elegia del quarto libro (4, 11) persone che appartengono al piú alto livello della classe dirigente: Cornelia e suo marito, Paullo Emilio Lepido, il censore, come lo si denomina per distinguerlo da altri esponenti omonimi Aemilii di rango senatorio. Cornelia, figlia di Scribonia, che era stata per un breve periodo moglie di Ottaviano, e di P. Cornelius (Scipio), suffectus del 35 a.C., era sorellastra di Giulia, unica figlia di Augusto. Si sposò nel 30 a.C. con Paullus Aemilius Lepidus, un nipote del triumviro Lepido. Contrariamente allo zio Lepido, che Ottaviano aveva reso inoffensivo dal 36 in una villa rigidamente controllata sul Monte Circeo, egli poté raggiungere una posizione emergente al seguito di Ottaviano, dopo la sua defezione da Bruto e Cassio. Nel 34 a.C., certo solo come suffectus, fu insignito per un breve periodo dei fasces, poi fu forse proconsole in Macedonia; dal momento che questo dovrebbe essere accaduto immediatamente dopo che si erano verificati i problemi con Licinio Crasso, ne risultereb-

 PIR2 A 179.   Propertius 2, 1; 3, 9. 33  Propertius 1, 5, 31. 10, 5. 13, 2. 20, 1 sgg. 21; 2, 34, 91 sg. Si veda Cairns, Sextus Propertius (nota 5) passim, in partic. 70 sg. 31 32

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be evidente che Augusto non dovesse aspettarsi nessuna difficoltà da questo Lepido 34. Nel 22 a.C. sembrò in condizione di giocare un ruolo rilevante, essendo in carica come censor insieme a Munazio Planco; ma ambedue fallirono nell’esercizio del loro compito; questo è per lo meno il giudizio a posteriori di Velleio 35. Le nozze con Cornelia cadono nell’anno 30; Properzio parla di due figli maschi e di una femmina che sono sopravvissuti alla madre; Cornelia stessa morí il 16 a.C., mentre il fratello Cornelio Scipione era console. La sua morte è anche l’occasione per una poesia di Properzio, messa in bocca alla morente, come consolazione per il marito. Perché il poeta conclude il suo quarto libro con questa elegia? Era presumibilmente lo stretto legame con Augusto e la configurazione del suo matrimonio, che poteva essere proposto come esemplare: essi integravano il modello di matrimonio del ceto elevato di cui Augusto aveva fatto fissare le regole giuridiche nella Lex Iulia de maritandis ordinibus emanata due anni prima. Questa legge doveva prevedere certamente il matrimonio con un partner di rango adeguato e la procreazione di figli. Molti nella società dell’epoca non potevano aspettarsi vantaggi da questa legge, anche se l’opposizione nell’anno 18 a.C. non fu ancora cosí forte come nel caso della Lex Papia Poppaea. Il suo contenuto, come ora sappiamo da un nuovo documento, era già noto quattro anni prima della sua emanazione, il 28 giugno dell’anno 5 d.C., redatto manifestamente durante il consolato di Valerio Messala Voleso e Cornelio Cinna Magno. La legge però all’inizio non venne emanata a causa della reazione violenta nella società, ma solo quattro anni dopo, nel 9 d.C. 36. In ogni caso sembrò avere avuto realizzazione in questa coppia, nel 16 a.C., quando morí Cornelia, il modello augusteo di un matrimonio che stabilizzava l’ordine della res publica. Come si potrebbero capire altrimenti le parole di Cornelia secondo cui i propri figli non si sarebbero dovuti opporre ad un ulteriore matrimonio del padre. All’obbligo di risposarsi ci si poteva diffi-

  R. Syme, Augustan Aristocracy, Oxford 1986, 110; DNP I 179.   Velleius Paterculus 2, 95, 3; cfr. Syme, Augustan Aristocracy (nota 35), 429. 36 Cairns, Sextus Propertius (nota 5), 70 sg. 34 35

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cilmente sottrarre già dall’inizio della legislazione augustea sulla forma della società romana. Ma Properzio aveva un contatto personale con Cornelia ed Emilio Paullo? Non c’è niente a cui aggrapparsi al riguardo. Tutto ciò che egli racconta di lei era di dominio pubblico, tanto piú dopo una pompa funebris all’altezza del suo rango, nella quale gli antenati di Cornelia, gli Scribonii Libones ed i Cornelii Scipiones, erano stati ripresentati in pubblico a Roma. La motivazione a scrivere di questa famiglia, la si può trovare nel rapporto del poeta, diventato ora stretto, con Augusto e i suoi programmi.

Nota aggiuntiva Dei contatti che Properzio ha avuto con l’aristocrazia senatoria di Roma si lasciano individuare, se le riflessioni sopra esposte sono pertinenti, solo sparute tracce nella sua poesia, e per di piú poco concrete. Cairns ha ipotizzato che Properzio già nel periodo della sua formazione, che egli avrebbe trascorso in Roma, abbia potuto fare la conoscenza di giovani rampolli di famiglie senatorie 37. Se la premessa, che la formazione grammatica e retorica sia stata impartita a Roma, risultasse essere vera, ciò sarebbe stato molto verisimile. Ma mancano riscontri diretti 38. Naturalmente alcuni tratti del modo di vita senatorio gli erano familiari, una campagna militare in Illirico o all’Eufrate contro i Parti, la fama militare, che si ostentava in pubblico nella parata trionfale lungo la via Sacra. Egli rinvia a palazzi lussuosi con giochi d’acqua alimentati dall’acqua Marcia, nonché all’aspirazione a profitti finanziari per i quali Roma sarebbe andata in rovina. Tutto ciò è però poco specifico, né riguarda affatto persone concrete, raccoglie piuttosto tendenze del tempo, che ad esempio compaiono anche in Orazio. Si avverte non di  Cairns, Sextus Propertius (nota 5), 26 sgg.  Anche la presentazione della propria poesia in pubbliche recitazioni, all’epoca divenuta molto usuale, e la comunicazione che in tale modo diventava piú efficace con un pubblico diventato piú ampio, potrebbe essere diventata importante per Properzio, per cui potrebbero essergli state di aiuto alcune delle persone nominate nel testo. Al riguardo si veda Dario N. Sánchez Vedramini, Eliten und Kultur, Bonn 2010, 283 sgg. 37 38

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rado una nota critica fra le righe o il prendere distanza da forme di vita, alle quali egli allude. Ma Properzio le disapprova perché ci si confrontava personalmente e concretamente, oppure sta usando il modello opposto, per esaltare invece il suo stile di vita? Una risposta a ciò, lo storico è il meno atto a darla.

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Maria Laura Manca - Francesco Giorgi

Domus assisiate di età augustea: La domus del Lararium

All’interno di Palazzo Giampè in pieno centro storico della città di Assisi (Tav. I) 1 a seguito di un rinvenimento fortuito sono stati effettuati lavori di scavo, iniziati nel 2001, a cura della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria, che hanno portato alla luce, quasi completamente una domus romana composta da ben 13 stanze ed un peristilio (Tav. II) 2. Non siamo nuovi in Assisi a ritrovamenti di età romana di particolare interesse, basti pensare che alla quantità di documenti esistenti si sono andati ad aggiungere una serie di scoperte degli ultimi venti anni, che collocano Assisi tra le piú significative città dell’Umbria antica: il tempio c.d. della Minerva, mirabile esempio di architettura sacra romana ed il foro sottostante costituivano e costituiscono il fulcro architettonico e religioso della città intorno al quale si aprono su piú piani grandi terrazze con ricche testimonianze archeologiche ben conservate: mura urbiche, imponente porta urbica, tombe gentilizie, il teatro, l’anfiteatro, un’ampia scala con podio, le terme, numerose cisterne, due domus romane, vari complessi architettonici, grandi muri di terrazzamento la cui mo-

  Strazzulla 1985; Coarelli 1991 pp. 5-22.  I lavori sono stati effettuati sotto la direzione dei lavori della sottoscritta con la collaborazione del sig. Luigi Maria De Luca, assistente di cantiere, dell’arch. Spartaco Capannelli e del geometra Sergio Vergoni della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria e con la consulenza tecnica dell’ing. Giacomo Mattielli. Gli scavi sono stati eseguiti dagli archeologi Maria Cappelletti, Federica Fico, Simone Sisani, Francesco Giorgi che ringrazio sentitamente per la passione e la competenza con cui hanno seguito i lavori condotti dalla ditta Berretti Carlo Alberto. 1 2

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102579

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numentalità è resa dall’ampio uso dell’imponente opera quadrata. È uno schema ispirato ai canoni ellenistici di cui Assisi rappresenta un esempio pressoché unico a Nord di Roma ove i grandi terrazzamenti hanno la funzione di consentire prospettive scenografiche del nucleo religioso. Gli ambienti della domus ora rinvenuta si collocano all’interno dell’antico centro urbano e precisamente nel quartiere meridionale. Le strutture conservate in questo settore sono caratterizzate dalla comparsa dell’opera laterizia indicativa di una cronologia di età imperiale; la zona era adibita in prevalenza ad edilizia privata, si può parlare di una vera e propria zona residenziale. A meno di 50 m di distanza, al di sotto della chiesa di S. Maria Maggiore sono conservati i resti di una domus romana “c.d. casa di Properzio” di cui si conserva un criptoportico con pareti rivestite da una finissima decorazione pittorica di quarto stile pompeiano e tre ambienti con pavimentazione musiva e decorazioni parietali, databile in età neroniana 3. Dalla stessa zona proviene una serie di intonaci dipinti, ora conservati nell’antiquarium, relativi a “casa Rocchi” 4. La domus del lararium 5, cosí chiamata dal ritrovamento di una nicchia contenente il dio protettore della casa, si estende per ca. 400 mq ed è possibile, grazie agli ultimi scavi, collocati al di sotto del Palazzo del Cardinale, comprenderne i quattro limiti perimetrali, cosí da avere una visione generale della sua forma pressoché rettangolare con sviluppo est-ovest. La domus si doveva adattare alla morfologia dell’impianto urbano della città antica caratterizzato da una serie di terrazzamenti degradanti; gli ambienti del lato nord usano direttamente o si appoggiano su un grande muro di terrazzamento orientato est-ovest, ad est sono conservate due grandi cisterne romane che ne limitavano l’estensione in quel versante, a sud uno scavo del ’92 portò alla luce l’estremo versante meridionale della domus e ad ovest è stato rinvenuto l’angolo nord-ovest ed il lato occidentale; (manca allo scavo soltanto una limitata parte centrale dove doveva continuare la zona   Boldrighini 2008, pp. 113-132.   Brizi 1908, p. 25. 5  Manca 2012. 3 4

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del peristilio e la zona dell’attuale ingresso, ma impossibile da scavare per problemi di staticità del palazzo soprastante costituito da 4 piani, e una di collegamento tra gli ambienti collocati sotto il Palazzo del Cardinale, andata perduta durante i lavori effettuati attraverso gli anni). Il rinvenimento riveste una straordinaria importanza, sia per la tipologia della struttura che per la raffinatezza usata nella tecnica pittorica degli affreschi rinvenuti, relativi al 3° stile pompeiano avanzato (fig. 1) 6 e delle decorazioni musive 7. L’aspetto che colpisce maggiormente è la presenza dell’alzato delle pareti, dipinte, cosa quanto mai rara e straordinaria al di fuori di Roma e Pompei, che si conserva per oltre m 4 di altezza in tutti gli ambienti (fig. 2). Attualmente sono visibili un peristilium di m 7,80 di lunghezza di cui sono state rinvenute quattro colonne in laterizio rivestite da stucco, conservate per tutta la loro altezza di m 3,65 con diametro di cm 55, poggianti sul basamento originario in lastroni di calcare rosa del Subasio, e la pavimentazione a mosaico a tessere nere di piccole dimensioni con fascia laterale bianca e nera e pareti con decorazione pittorica (fig. 3). Si tratta di colonne in laterizio ricoperte per circa due metri nella parte piú alta da tre strati di intonaco, l’ultimo dei quali imita le scanalature delle colonne secondo il tipo “caelatae” frequenti nelle costruzioni della domus romana 8; numerosi frammenti dei capitelli e della cornice che correva intorno al soffitto sono stati trovati nel riempimento durante lo scavo. In particolare la parete nord del peristilio presenta nella parte alta una decorazione pittorica di colore rosso pompeiano con eleganti sovradipinture di colore celeste raffiguranti un elemento architettonico, una coppa in vetro e decorazioni a carattere floreale. La parete est reca tracce di intonaco per tutta la sua altezza anche se mal conservato a causa dell’umidità. Si presenta divisa orizzontalmente con una fascia di colore rosso nella zona piú alta, la zona mediana è di colore nero con ripartizioni verticali   Bastet-De Vos 1979, pp. 42 sgg.  I lavori di scavo, restauro e consolidamento della parte rinvenuta sotto Palazzo Giampè sono stati realizzati con i fondi dello Stato, dell’Amministrazione Comunale di Assisi, della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. 8  Vedi a Pompei la villa di Diomede, la domus di Giulia Felice, la casa della Fontana Piccola (Guzzo 1998, p. 53). 6 7

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costituite da lesene di colore giallo affiancate da racemi di colore celeste; lo zoccolo, di colore nero, presenta raffinate decorazioni floreali entro piccoli riquadri. Degli ambienti che si affacciavano sui lati lunghi del peristilio se ne sono conservati cinque (tre sul lato nord e due su quello a sud); di quelli del lato nord il primo (Tav. II, n. 1), doveva essere una diaeta (stanza di soggiorno) di m 5,20 × 2,38, fu modificato in corso d’opera, presenta infatti nelle pareti solo l’arriccio; tale cambiamento fu dovuto probabilmente a motivi legati alla presenza di acqua, furono tamponate la finestra e la porta d’accesso al peristilio, l’ambiente fu riempito di terra con relativo rialzo di livello dove fu posizionato un pavimento a mosaico a tessere nere con fasce bianche laterali; il secondo ambiente (Tav. II, n. 2), identificato probabilmente come tablinum (stanza di ricevimento) di m 4 × 5,30 × m  4,20 di altezza, presenta una decorazione parietale di terzo stile avanzato: nella parete di fondo sono visibili nella fascia superiore di colore bianco due elementi architettonici resi di prospetto con al centro un bellissimo tripode (fig. 4). La trabeazione dell’elemento architettonico presenta una decorazione molto raffinata: una fascia di colore rosso morellone con sovradipinture a girali di colore celeste, sormontata da uno stretto listello di colore rosso cinabro, due grifi alati posti in posizione araldica sono collocati nella sommità della trabeazione a mò di acroteri. A sinistra dell’elemento architettonico, è visibile un altro uccellino, un pappagallo di colore turchese posto di tre quarti ad ali spiegate che mostra l’eleganza e la sicurezza della pennellata ad avvalorare ancora una volta l’unicità di questo rinvenimento. La fascia intermedia di colore rosso presenta nella parte superiore un’elegante raffigurazione geometrica di colore rosso, giallo e verde e lunghe tenie sovradipinte di colore celeste che la attraversavano da nord a sud; parte della fascia mediana e lo zoccolo sono andati perduti. Un sottile festone di fiorellini e foglie scende morbido dalla parete di fondo dalla quale sembra uscire per continuare nella decorazione parietale del muro di destra dell’ambiente: anche in questo, sempre a fondo bianco, è rappresentato un elemento 18

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architettonico purtroppo lacunoso, sormontato da un volatile posto di profilo nella sommità della struttura. In questo lato la decorazione parietale doveva continuare per tutta la lunghezza (m 5,36) se ne vedono infatti altre tracce con decorazione architettonica. La notevole raffinatezza della resa pittorica testimonia sia l’alto livello culturale del committente sia l’alto livello di preparazione delle maestranze tale da far pensare ad una provenienza dall’Urbe e non locale. Lo scavo di questi primi ambienti (peristilio, dieta, tablino) ha restituito un interro completamente archeologico privo di fasi tardoantiche, medievali e postmedievali: il materiale rinvenuto rientra in una fascia cronologica ben circoscritta che va dalla fine del I sec. a.C. alla fine del I - inizi II d.C. con maggiori testimonianze in età Giulio-Claudia 9. Prima di proseguire lo scavo nel terzo ambiente è stato necessario risolvere il problema di come proseguire gli scavi e contemporaneamente garantire la sicurezza del palazzo soprastante. Le fondazioni dell’edificio poggiavano sullo strato di terreno di riporto che copriva i reperti romani senza utilizzare i muri romani stessi come fondazioni 10. Si è quindi intervenuti posizionando lungo le pareti dei muri portanti delle tre stanze dove sono stati fatti gli scavi una serie di micropali lunghi 20 metri collegati da una coppia di travi in cemento armato ricoperti da un getto in calcestruzzo. Il terzo ambiente, forse un oecus (sala di soggiorno usata anche per banchettare), (n. 3 in plan.) di m 3,50 × m 4,70 si

9 Tra i materiali, da ricordare: frr. di ceramica da mensa in cer.a vr.nera degli inizi del I sec. a.C., frr. di ceramica da mensa in ceramica sigillata italica di ottima qualità con esempi decorati con foglie e frutta di olivo di piena età augustea, frr. di lucerne di età augustea e flavia, cer. a pareti sottili, frr. di vasellame in vetro di età imperiale, frr. di vetri di finestra, fr.di bottiglia in vetro con decorazione a palmetta e bollo, moneta in bronzo di Nerone, frr. di intonaco dipinto di vari colori, frr. di stucchi, frr. di marmi, frr. in ceramica sigillata chiara della fine I - inizi II sec. d.C.(Cappelletti 2012, pp. 31 sg.; Fico 2012, pp. 33-35). 10  Prezioso è stato in questo caso lo studio e la costante presenza sul cantiere dell’ing. Giacomo Mattielli che ha realizzato il consolidamento dell’intera struttura archeologica permettendole di sostenere il peso soprastante, coadiuvato dalla ditta Spaccia Moreno.

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conserva per tutta la sua altezza di m 4,20; si affacciava nel peristilio tramite una porta ed una finestra con davanzale in calcare bianco ancora conservato. Il pilastro che sorreggeva l’architrave della porta, presenta un’evidente flessione (fig. 5) 11. Mirabile è la decorazione pittorica delle pareti in particolare della parete nord che presenta una ripartizione orizzontale: la fascia superiore è di colore bianco, presenta elementi architettonici e due pinakes di colore rosso molto evanidi, la fascia intermedia è di colore rosso pompeiano, molto ben conservato, presenta al centro un pinax (cm 31 × 27) con la raffigurazione di una coppia semisdraiata su di una kline, lui a torso nudo, lei indossa una tunica lilla sopra la quale una seconda tunica di colore chiaro, sulla spalla sinistra il velo, ai piedi calzari dorati (fig. 6) con atteggiamento che fa pensare ad una sfera di conversazione intima tra due coniugi; sul fondo rosso elementi egittizzanti. Nel programma decorativo romano le rappresentazioni egittizzanti pervadono la produzione artistica romana tra la fine della repubblica e l’età giulio claudia. Di particolare interesse la fascia inferiore costituita dallo zoccolo di colore nero nella cui parte centrale corre un fregio narrativo con cinque figure femminili (fig. 7) ed ai lati due uccellini per parte 12. Nella parete ad est da segnalare due figure femminili disposte araldicamente con corta tunica, clamide nel braccio sinistro ed una lancia nella mano destra (Artemide?). L’ambiente presenta una pavimentazione a mosaico con tessere bianche e nere con decorazione geometrica costituita da un esagono nero con fiore stilizzato bianco a sei petali al centro, circondato da quadrati neri. 11 Anche qui si è dovuti intervenire con il consolidamento del pilastro conservato tra la finestra e la porta senza alterare la percezione visiva rinvenuta, permettendo di capire anche dopo l’intervento quali interventi ci fossero stati in antico. 12  Le decorazioni pittoriche conservate in questo ambiente trovano un diretto confronto con quelle della Villa della Farnesina a Roma collocabili in età augustea (Mols-Moormann 2008, pp. 78-80). In particolare per la presenza degli elementi egittizzanti (cubicolo B, fig. 23), per la rappresentazione della coppia degli sposi nella scena di conversazione intima (cubicolo D, fig. 24) e per il fregio narrativo delle piccole figurine a fondo nero (triclinio C, fig. 25) in Sanzi di Mino, 1998, pp. 56-91.

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Il mosaico mostra un’esecuzione accurata ed uniforme, elegante nella composizione disegnativa di grande effetto 13. All’interno di questo ambiente tra i materiali rinvenuti da segnalare un  oscillum (oggetto portafortuna) in marmo (figg. 8-9) con l’immagine di una menade da un lato e di un satiro dall’altro 14 ed un lararium in terracotta (edicola con il dio protettore della casa) (fig. 10) 15. La presenza del larario, cosa quanto mai rara, fa pensare ad un abbandono improvviso della casa forse dovuto ad un terremoto che potrebbe aver causato la flessione del pilastro o ad un abbandono obbligato del proprietario della casa. Oltre a tali materiali di cosí importante interesse da questa stanza sono venuti alla luce una grande quantità di aghi crinali, una moneta di Diocleziano, piatti di ceramica c.d. Medio Adriatica di III-IV sec. d.C.; lucerne di tipo africano di IV-V sec. d.C. Da tener presente che alcune delle decorazioni pittoriche e musive conservate sotto la domus di Palazzo Giampè si trovavano al momento del rinvenimento in un cattivo stato di conservazione per la grande umidità presente e sono state oggetto di continui lavori di restauro conservativo 16; l’intervento nelle decorazioni parietali è consistito nella pulitura dai depositi terrosi, applicazione di acqua deionizzata ed impacchi di pasta di cellulosa. I distacchi e le lacune delle pareti sono stati fissati con iniezioni di calce idraulica prima e poi sono state effettuate stuccature con malte a base di sabbia di fiume e calce idraulica; le distonie cromatiche sono state patinate con velature di colori a base di terre naturali disciolti in acqua (figg. 11-12). L’intervento di restauro nei pavimenti a mosaico è consistito in una pulitura con carbonato di ammonio, la presenza di incrostazioni calcaree molto resistenti ha necessitato dell’uso di vibroincisore, microscalpelli e bisturi; le cavità presenti negli 13  Questo tipo di mosaico in bianco e nero con tappeto ad esagoni è relativo al repertorio del 3° stile ed è molto diffuso nella prima metà del I sec. d.C. La decorazione ad esagoni circondati da quadrati delineati compare per la prima volta nella Casa di Cecilio Giocondo a Pompei (Morricone 1970, pp. 43 sgg.). 14 Sisani 2012, p. 39, n. 4. 15 Sisani 2012, p. 38 sg., n. 3. 16 I restauri delle decorazioni pittoriche, dei pavimenti a mosaico, delle murature antiche e delle colonne del peristilio sono state effettuate dalla ditta Ikuvium R. C. con particolare cura e perizia.

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strati preparatori sono state sanate con introduzione di calce idraulica desalinizzata. Le lacune di piccola e media entità sono state trattate con tessere di recupero, quelle di grande entità con l’uso della tecnica delle malte pigmentate a base di sabbia di fiume, calce idraulica, polvere di marmo a tono bianco e a tono nero d’ebano. I due ambienti conservati che si affacciavano nel lato sud del peristilio vennero alla luce casualmente nel 1992 (Tav. II nn. 12-13), uno con pavimento a mosaico a tessere bianche e fascia laterale a tessere nere, l’altro con pavimento a mosaico a tessere bianche e nere con disegni a losanghe e decorazione pittorica nella parte dello zoccolo 17. Gli ambienti del versante occidentale,venuti alla luce di recente al di sotto del cinquecentesco Palazzo del Cardinale (Tav. I nn. 5-11) 18 costituiscono una straordinaria scoperta innanzi tutto perché ci indicano il limite ovest della domus, ed inoltre per la presenza dell’atrium, e di un grandissimo triclinium (un ambiente di 60 mq circa) con una raffinata decorazione musiva. Per quanto riguarda la datazione (Tav. II), si può collocare la domus tra la seconda metà del I sec. a.C. e i primi decenni del I sec. d.C., in particolare gli ambienti del versante occidentale fanno parte di una prima fase databile piú precisamente tra il 50 e il 30 a.C. a cui è seguita una seconda fase relativa alla parte orientale di età augustea; quindi la fase di abbandono per quanto riguarda il peristilio ed il tablinio si può collocare alla fine del I sec. d.C. e per gli altri ambienti sotto il Palazzo del Cardinale l’abbandono, iniziato probabilmente già sul finire del IV secolo, sembra compiuto nei decenni iniziali del VI secolo d.C. M. L. M.

17 Ringrazio a riguardo la collega Luana Cenciaioli che seguí i lavori e che mi ha messo a disposizione i dati di scavo (Cenciaioli 2001, pp. 277-292). 18  Lo scavo effettuato all’interno del ristorante “La Locanda del Cardinale” è uno straordinario esempio di collaborazione tra la Soprintendenza ed il privato, grazie infatti alla sensibilità dei proprietari che hanno finanziato tutti i lavori di scavo, restauro, consolidamento e la sistemazione finale degli ambienti anche nei minimi particolari, si è giunti ad una vera e propria musealizzazione.

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Il settore occidentale Nel corso di lavori di ristrutturazione di alcuni locali seminterrati del cinquecentesco Palazzo del Cardinale 19, adiacente a Palazzo Giampè, tra il 2010 e il 2011 sono stati riportati alla luce alcuni ambienti pertinenti al settore occidentale della stessa domus. Tale comparto corrisponde ad una zona della domus particolarmente significativa dal punto di vista dell’originaria distribuzione degli ambienti. Purtroppo il fronte di contatto e di transizione tra i due settori non è stato scavato, per cui permangono molte incertezze sull’identificazione e sull’articolazione planimetrica delle stanze che convergevano su questa area di raccordo. Oltretutto un’altra area rimasta inesplorata è quella centrale del palazzo, già sconvolta dalla costruzione della cantina. A queste lacune documentarie vanno poi aggiunte le difficoltà di lettura generate dai numerosi interventi edilizi ed i riadattamenti che si sono succeduti nel tempo, i quali non consentono, allo stato attuale delle conoscenze, di valutare appieno la portata delle varie fasi edilizie e l’entità delle modifiche rispetto all’impianto originario. Tuttavia, analizzando soltanto gli interventi piú radicali è possibile delineare una sequenza evolutiva caratterizzata da almeno cinque distinte fasi architettoniche, comprese tra l’inizio del I sec. a.C. ed il IV sec. d.C. I primi interventi di scavo hanno interessato l’ala orientale del palazzo (Tav. III), dove sono stati riportati alla luce tre ambienti di dimensioni ridotte (6-8) (fig. 13), ricavati dalla divisione di un ambiente piú grande in origine (ambiente A), per mezzo di stretti muretti a tramezzo (fig. 14). In particolare i due vani quadrati 6-7 (m 2,50 di lato) sono affiancati e presentano l’accesso da est, con la soglia d’ingresso inquadrata a terra da due lastre lapidee recanti gli incassi quadrangolari per i cardini. L’ambiente 8, di dimensioni piú grandi (m 3,50 × 5), non è comunicante con i precedenti ed ha accesso da sud, attraverso l’apertura originaria del vano A, che conserva a terra una soglia di pietra calcarea rosa con gli incavi per la rotazione dei cardini e la battuta della porta. Nell’ultima fase di vita della domus, in seguito ad un intervento 19 Attualmente i locali sono in uso del ristorante La locanda del Cardinale, i cui proprietari hanno finanziato lo scavo, il restauro e la sistemazione degli ambienti, consentendo una vera e propria musealizzazione.

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di restauro e ripristino strutturale che ha interessato quasi interamente le pareti sud dei vani 7-8, tale apertura è stata obliterata da una muratura di fattura piuttosto rozza che ha sancito definitivamente l’esclusione dalla circolazione del vano. Sulla base della tipologia muraria e sul materiale ceramico rinvenuto nel legante 20, tale fase è da collocare orientativamente tra la fine del III ed il IV sec. d.C. La particolarità costruttiva dei tre ambienti è data dal fatto che le pareti allineate sul fronte nord sfruttano un preesistente muro di terrazzamento a grandi blocchi di calcare rosa 21, al quale si appoggiano direttamente con l’intonaco di rivestimento, e che utilizzano come pavimentazione il cementizio a base litica (scaglie di calcare) bianco-beige con superficie lisciata, pertinente al precedente ambiente A 22. Questo genere di pavimentazione, la cui tradizione tecnologica sembra essere stata elaborata nei centri di cultura punica del periodo ellenistico (Cartagine, Kerkouane, Utica) 23, trova le sue prime attestazioni in Sicilia già nella seconda metà del II sec. a.C. 24, e diviene piuttosto comune nel corso del secolo successivo fino ad età augustea sia in area campano-laziale, che in Italia settentrionale 25. La decorazione pittorica, in origine 20  La tamponatura della porta è stata in parte rimossa per mettere in luce la soglia e consentire il collegamento con i vani attigui. La muratura è realizzata a corsi orizzontali irregolari di pietre di riutilizzo e bozze calcaree disomogenee nel modulo e nella pezzatura, con qualche raro mattone nel paramento e frammenti di tegole nel nucleo. Il legante è costituito da una malta di colore arancio, nella quale sono stati trovati frammenti di sigillata medio-adriatica e di lucerne con decorazione a perline. 21 Il muro fa parte del complesso sistema di terrazzamenti interni alla città realizzati nel corso del II secolo a.C. Sull’organicità di un progetto urbanistico che insieme alla realizzazione delle mura urbiche dovette prevedere anche quella dei terrazzamenti interni e la connessa viabilità cfr.: Strazzulla 1985, pp. 16-24; Coarelli 1996, p. 247; Manca 1996, pp. 360-368. 22  Il cementizio è ravvivato in corrispondenza della soglia dell’ambiente 7 da una fascia a puntinato di tessere nere disposte in file parallele. 23  Dunbabin 1976, pp. 172-176, tavv. 2-3). 24  Battuti cementizi a base litica ricorrono piuttosto frequentemente a Solunto in associazione con decorazioni parietali in stucco di I stile o di pareti ad incrostazione delle fasi iniziali del II stile, per i quali si veda recentemente Greco 2011, pp. 279-316. Per una recente rassegna sugli studi dedicati ai cementizi e sul dibattito relativo all’individuazione del centro di formazione di tale tipologia pavimentale, si veda da ultimo Giordano 2011, pp. 199-206. 25 Le attestazioni di tale tipologia pavimentale in area lombarda e veneta risultano particolarmente frequenti in età cesariana o protoaugustea. In parti-

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presente su tutte le pareti comprese le tramezzature, è quasi completamente perduta. Si conserva in modo piú consistente soltanto l’intonaco rosso della zona mediana della parete sud est del vano 7 e quello della parete ovest dell’ambiente 8 (fig. 15), che presenta una decorazione in III stile pompeiano, costituita da un alto zoccolo nero con fiori e palmette stilizzate entro riquadrature geometriche (quadrati, cerchi, rombi) delineate con sottili tratti di colore (rosso, bianco, verde), e da una soprastante fascia rossa quasi completamente evanida, separata da una predella 26. Il restauro di questa parete ha evidenziato che nella partitura dello zoccolo sono riconoscibili i segni di una precedente decorazione. Le alterazioni subite dall’impianto planimetrico originario sono ancor piú marcate nell’area immediatamente a sud degli ambienti precedenti, dove sono stati riportati alla luce una serie di pavimenti sovrapposti di cui non è possibile ricostruire con esattezza né la sequenza cronologica, né lo sviluppo planimetrico degli ambienti ad essi correlati. In ogni caso la presenza in situ di un rocchio di colonna in calcare rivestito d’intonaco rosso testimonia che nella prima fase di vita della domus in quest’area doveva trovarsi un colonnato, probabilmente l’atrio. Osservando la successione stratigrafica dei livelli pavimentali (fig. 16) si vede infatti che la colonna poggia su di un primo pavimento in cementizio a base fittile di colore rosa chiaro; successivamente il piano di calpestio viene rialzato con un secondo cementizio a base fittile con inserzioni di scaglie di calcare bianco (ambiente 5), ed infine, in una terza fase, il colonnato viene definitivamente chiuso da un muro e contestualmente viene realizzato l’ambiente 9, un vano completamente aperto sul lato ovest e delimitato nei lati sud ed est da sottili tramezzature. Quest’ultimo intervento sancirà definitivamente la fine dell’ambiente 5, il cui pavimento verrà interamente interrato, e questa zona sembra non essere piú utilizzata. Il pavimento del nuovo vano 9 (fig. 17), in quota con colare, per Altino: Fornasier 2006, pp. 68-69, schede nn. 1, 4-9; per Verona: Slavazzi 1997, pp. 1001-1012; Slavazzi 2000, pp. 111-120. Piú in generale per i rinvenimenti dell’area padana centrale: Slavazzi 1998, pp. 259-272. 26 Nonostante il pessimo stato di conservazione delle pitture impedisca un’analisi dettagliata, un buon confronto per la sintassi elaborata in questo settore della parete possono considerarsi gli zoccoli del portico e del triclinio C della Villa Imperiale di Pompei (cfr. Bastet 1979, tav. XI, fig. 21).

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i livelli pavimentali degli adiacenti ambienti 6-8, è costituito da un cementizio bianco con un punteggiato regolare 27 di tessere nere ed una fila di crocette sul margine ovest. Il motivo ornamentale del punteggiato di tessere rimanda a una tipologia pavimentale già presente agli inizi del III secolo a.C. in alcuni contesti dell’Italia meridionale, ma che diverrà particolarmente in voga nelle aree centro-settentrionali della penisola a partire dall’ultimo secolo della repubblica fino all’età augustea 28. In Umbria il motivo è attestato a Perugia 29, nella versione del cementizio nero con tessere bianche, in un pavimento datato nella seconda metà del II sec. a.C., mentre nella redazione dei cementizi a base fittile il punteggiato nelle varie versioni è piuttosto frequente in contesti di pieno I sec. a.C. 30. In questo settore sono stati rinvenuti anche una fistula in piombo che correva al di sotto del pavimento 5, ed un grosso catino in pietra vulcanica utilizzato come “impastatore” per la farina, ancora in situ all’angolo del vano 10, un ambiente indagato solo parzialmente che doveva svilupparsi in direzione ovest nell’area attualmente occupata dalla cantina del palazzo. Ma i rinvenimenti piú eclatanti sono avvenuti nei locali posti all’estremità ovest del palazzo, dove è tornato alla luce un ambiente (11) di notevoli dimensioni (m 10 × 6 circa) che segna il margine ovest della domus. Esso presenta un pregevole pavimento (fig. 18) realizzato in tecnica mista, con tappeto in cementizio a base litica e pannello di tipo “a pseudo-emblema” in tessellato, decentrato sul lato nord. La balza marginale è bianca, mentre una cornice formata da due fasce affiancate, una ne-

 Il punteggiato viene definito “regolare” quando le tessere sono allineate in filari, ma disposte obliquamente rispetto alle pareti del vano. Cfr. Grandi 2001, pp. 74-75. 28  Grandi 2001, pp.75-76, con vasta bibliografia di riferimento. 29 Cenciaoli 2009, p. 223, fig. 2. 30 Come esempi basti citare i pavimenti di: Gualdo Tadino (cfr. Sisani 2009, p. 51, fig. 6, vestibolo 1, amb. 3 (età cesariana); Lugnano in Teverina (TR) (cfr. Soren-Soren 1999, pp. 424-425, (terzo venticinquennio I sec. a.C.). Il motivo delle crocette è attestato, oltre che nelle località precedentemente menzionate, anche a Gubbio (cfr. Manconi-Scaleggi 1995, p. 112, figg. 3-4) (età cesariana); a Penna in Teverina (TR) (cfr. Ville e insediamenti 1983, pp. 260-263, fig. 70), (età augustea); ad Orvieto (cfr. Giontella 2009, pp. 112-114, figg. 4-6), (fine II sec. a.C. - fine I sec. a.C.). 27

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ra ed una bianca, circoscrive il campo decorato da una rete di esagoni delineati da due filari di tessere nere, che compongono un’elegante decorazione “a nido d’ape”. Lo pseudo emblema (m 1,93 × 1,63) (figg. 19-20), realizzato con piccole tessere colorate (da 0,3 a 0,7 cm di lato), presenta un’originale composizione geometrica centralizzata all’interno di un cerchio con corona a denti di lupo, inquadrata da tralci vegetali generati da palmette. Il centro della composizione è costituito da una rosetta a dodici petali iscritta su vari esagoni di grandezza crescente, contenuti all’interno di una stella a sei punte che ripropone il motivo degli esagoni, in questo caso con crocetta al centro, anche nei triangoli generati dalle punte. Il disegno geometrico è poi riquadrato nei lati nord e sud da due racemi di edera, mentre l’intero schema decorativo è incorniciato da una serie di formelle rettangolari che si ripetono identiche in disposizione simmetrica nei lati opposti del rettangolo, con all’interno pelte e varie tipologie di fiori e foglie. Il motivo della rete di esagoni disposti a nido d’ape 31, già attestato nel II sec. a.C. nella versione delle mattonelle fittili esagonali 32, risulta ampiamente diffuso nell’ambito della produzione in tessellato 33, mentre nel repertorio del cementizio   Décor, p. 321, pl. 204a.  Coarelli 1986, p. 23. 33 Il motivo, mutuato dal coevo repertorio dei cementizi, è attestato in tutto il territorio italiano con una lunga fortuna a partire dalla metà del I sec. a.C. e per tutto il corso del I secolo d.C., con qualche attardamento anche nel II e III secolo, anche se lo scorcio cronologico di maggior attestazione sembra essere circoscritto nel periodo compreso tra l’età cesariana e l’età augustea. Tra le numerosissime occorrenze si possono ricordare alcuni rivestimenti di ambienti di rappresentanza come questo assisiate. Nell’ampio campionario dell’area vesuviana: cubiculum della Casa del Sacello Iliaco (PPM I, p. 326, n. 80) in redazione policroma; triclinio della Casa del Centenario (PPM IX, p. 1026, n. 240); ambiente 26 della Casa di Meleagro (PPM IV, pp. 748-749, nn. 180, 182); ala (a) della Casa del Cinghiale (PPM VIII, p. 377, nn. 23-24). In area laziale il motivo è presente in modo piú sporadico: nella villa di Cottanello (Alvino 2000, p. 87, figg. 16-17); a Roma nell’area del Templum Pacis (Capponi, Ghilardi 2001, pp. 448, 450, fig. 8), ad Ostia nell’insula delle Muse (Becatti 1961, p. 132, tav. XXI, n. 262). La documentazione per l’area centro italica è molto piú ricca: ad Ascoli Piceno nella domus del Palazzo di Giustizia (Lucentini-Chiarini-Santi 2006, p. 683, fig. 4); a Cortona nella villa dell’Ossaia (Gualtieri 2001, pp. 297-298, figg. 2-3); a Gubbio nella domus del Banchetto (Cenciaioli 2007, pp. 23-24); a Perugia in Piazza Morlacchi (Cenciaioli 2009, p. 225, fig. 6); a Bologna in via S. Isaia (Ortalli 1996, 31 32

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lo schema, elaborato e codificato nel comprensorio vesuviano 34 intorno alla metà del I sec. a.C., nel resto dell’Italia non incontra una grande fortuna, con un’importante eccezione costituita dalla città di Padova 35, dove si registra una forte presenza di tale schema decorativo in almeno cinque cementizi datati nel corso del I sec. a.C. Da sottolineare è il fatto che tutti i cementizi che utilizzano il nido di esagoni sono realizzati nella versione a base fittile, mentre la variante bianca a base litica, sulla base dello spoglio della documentazione disponibile, sembra impiegata soltanto ad Assisi, rappresentando dunque un unicum nella produzione italiana. L’ambiente, diviso a metà da un muro orientato in senso est-ovest pertinente all’ultima fase insediativa, può agevolmente identificarsi nel triclinio, come dimostra la stessa composizione del decoro, con lo pseudoemblema decentrato sul lato nord ed una fascia intorno ad -U- dove potevano essere collocati i triclinia intorno alla zona mosaicata, riservata, come di consueto, alla mensa. Per le soluzioni decorative utilizzate nello pseudoemblema non si sono reperiti confronti puntuali, tranne rimandi generici a motivi presenti in area vesuviana e in Italia settentrionale, come è il caso del pavimento conservato nella reggia di Portici 36, o di quello della domus 3 di Concordia Sagittaria 37. In ogni caso la scelta di un repertorio decorativo riconducibile alla tradizione ellenistica, che si traduce nell’inserimento di elementi vegetali fortemente pittorici e nell’associazione stessa del p. 291 fig. 6; ad Imola in viale Rivalta (Bollini 1961, pp. 31-32, fig. 5); a Forlimpopoli nell’ex casa Vittori (Ceccaglia 2010, pp. 312-313, fig. 22.1). Abbondante anche il repertorio dell’Italia settentrionale. Per le testimonianze venete e lo studio analitico del motivo si rimanda a Rinaldi 2007, pp. 105106. Si possono inoltre ricordare i pavimenti di Aosta (Mollo 20004, pp. 1516, fig. 8), di Aquileia (Donderer 1986, p. 43, tav. 12,4), di Brescia (Bishop et alii 2005, pp. 88-90, fig. 70). 34   Le attestazioni piú antiche sono quelle presenti nei rivestimenti della Casa del Menandro (PPM II, p. 371, fig. 209) e della Casa della Fontana piccola (PPM IV, p. 624, fig. 10). Piú recenti (III stile) sono il pavimento della Casa degli Amanti (PPM II, p. 484, fig. 66) e quello ad Ercolano della Casa del Mobilio Carbonizzato (Maiuri 1958, p. 256). 35 Rinaldi 2007, p. 28, siti 26, 37-38, 43, 59. 36  Pagano 2001, p. 337, fig. 3 37 Croce Da Villa 1987, p. 410 con fig. Il confronto è istituibile soltanto per il motivo dell’esagono iscritto nella stella a sei punte.

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pannello in tessellato al cementizio 38, sembra indirizzare verso uno scorcio cronologico compreso tra l’età cesariana e l’età augustea, periodo al quale rimanda sia il motivo a nido d’ape di esagoni del tappeto, sia il repertorio geometrico utilizzato nel pannello. Per la disposizione dello pseudoemblema, decentrato e inserito all’interno del sistema dei letti, il triclinio di Assisi appartiene al tipo C della classificazione elaborata da Scagliarini Corlaita per i pavimenti della cisalpina 39. L’accesso a questo vano di rappresentanza avveniva da est tramite un ingresso monumentale, forse a timpano sostenuto da due colonne, una delle quali, in calcare, è conservata in situ per un’altezza di cm 80 circa., mentre sul lato sud un’altra apertura o piú probabilmente una grande finestra sul genere di quella presente sull’oecus triclinare (Tav. II, ambiente 3) di questa stessa domus, doveva consentire un affaccio su una sorta di giardino pensile, sostruito da poderose murature. Lo scavo all’interno del giardino ha riservato altre due interessanti sorprese: il rinvenimento di un condotto fognario utilizzato dalla domus ed una tomba di epoca longobarda che segna l’ultima frequentazione dell’abitazione, ormai in stato di abbandono. La fogna (fig. 21), interamente realizzata in pietra con una copertura a grandi lastre di calcare disposte in piano (interno: h. m 1,00, larg. m 0.50) e blocchetti squadrati di calcare messi in opera a filari approssimativamente orizzontali nelle spallette, corre ai piedi del grande muro di terrazzamento che segna il margine nord della domus e piega ad angolo retto all’incrocio tra le pareti nord ed ovest dell’ambiente 11, dove è conservata anche una caditoia, per proseguire in direzione sud lungo i muri perimetrali del lato ovest. Tra i materiali rinvenuti all’interno della fogna, i piú significativi sono certamente le monete, la cui datazione, compresa in un range cronologico che va dalla fine del I sec. a.C. alla fine del II sec. d.C. 40, ci consente di delineare 38   L’inserimento di pannelli in tessellato nei cementizi, già presente in Sicilia nel II sec. a.C., negli altri contesti italiani si attua nel corso del I sec. a.C., con qualche raro caso anche nel secolo successivo (Vassal 2006, pp. 94-95). 39  Scagliarini Corlaita 1983, pp. 324-327, fig. 48 C. 40 Le piú antiche sono un sesterzio ed un dupondio emessi dal tresviro monetale Gallius Lupercus intorno al 16 a.C. (cfr. RIC I, p. 70, nn. 377-378), poi abbiamo due denari in argento di Domiziano (95-96 d.C.) (RIC II.1, p. 323,

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il periodo di attività del condotto, che a giudicare anche dai rinvenimenti ceramici 41, venne definitivamente riempito di terra tra la fine del IV e gli inizi del V sec. d.C. L’ultimo rinvenimento è una sepoltura femminile su cassa litica (fig. 22) realizzata con materiali di riutilizzo, il cui corredo, costituito da una brocchetta monoansata in ceramica acroma, un pettine in osso ed una fibula in bronzo, trova confronti molto stretti con alcune tombe di epoca longobarda di Nocera Umbra 42. In conclusione, sulla base dei dati raccolti il primo impianto della domus non può essere datato con precisione, ma di certo la cronologia di questa prima fase è ancorata al terminus ante quem costituito da tutti i pavimenti in cementizio a base litica pertinenti alla III fase (ambienti A, 9 e 11), quella piú monumentale, inquadrabile nel terzo venticinquennio del I sec. a.C. In assenza di materiali datanti provenienti dai livelli sub-pavimentali la datazione della I fase si può genericamente collocare agli inizi del I sec. a.C., una cronologia che non pare in contraddizione né con la colonna di calcare del probabile atrio tetrastilo, né con il cementizio a base fittile sul quale è poggiata. Della II fase, testimoniata soltanto dal pavimento dell’ambiente 5, ben poco si può dire, se non che essa abbia comportato un rialzamento delle quote pavimentali, probabilmente senza decretare significativi mutamenti nella composizione planimetrica. In piena età augustea è avvenuto invece l’intervento piú radicale che ha comportato l’edificazione dell’intero settore orientale posto sotto Palazzo Giampè e l’unificazione dei due nuclei in un unico complesso architettonico. Nel corso di questa IV fase, le pavimentazioni degli ambienti del settore occidentale vengono mantenute, mentre l’organizzazione degli spazi domestici subisce alcune modifiche. L’esempio meglio documentato di questa trasformazione è costituito dall’ambiente A, che viene frazionato in tre piccoli vani (6-8) di servizio, e di conseguenza viene rinnovata anche la precedente decorazione parietale, secondo il nuovo gusto pittorico del n. 787) ed infine, la piú recente è un asse emesso da Commodo a nome della moglie Crispina nel 183 d.C. (RIC III, n. 680). 41 I materiali piú recenti sono costituiti dalle sigillate africane. Vi sono stati inoltre rinvenuti frammenti di anfore tipo Dressel 20 e Almagro 51 C. 42  Giorgi 2012, p. 55, scheda n. 6.

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III stile che caratterizza il programma decorativo degli ambienti del settore orientale. Fa seguito un lungo periodo di continuità di utilizzo, indiziato in verità soltanto da piccoli interventi di restauro nelle murature o nei pavimenti e dalle tipologie di materiali d’uso che vi circolavano, poi, tra il tardo III e il IV sec. d.C., si colloca l’ultima fase edilizia della domus, testimoniata da nuovi muri, separazioni interne e tamponature di porte che sanciscono l’esclusione dalla circolazione di alcuni ambienti. Risulta palese in questa fase insediativa un intento progettuale improntato a criteri di economicità e di pura funzionalità, che dovette sancire un deciso scadimento del tono insediativo dell’antico complesso residenziale. Il definitivo abbandono, preceduto da una lenta e graduale attività di spoliazione e di recupero di materiali riutilizzabili, iniziata probabilmente già sul finire del IV secolo, sembra compiuto nei decenni iniziali del VI secolo d.C. Di queste ultime frequentazioni è testimonianza il materiale ceramico recuperato negli strati a contatto con i livelli pavimentali, riconducibile a frammenti di sigillata africana tipo C e D (piatti, coppe, lucerne) e di ingobbiata di rosso, la classe ceramica ormai ritenuta il vero e proprio fossile guida per le datazioni delle fasi insediative tra Tardoantico e alto Medioevo. Da questo momento inizia un fenomeno di scarico di macerie e rifiuti alternato a livellamenti, evidenziato da spessi strati sovrapposti, che porta ad un innalzamento del piano di calpestio fino alle creste di rasatura delle strutture murarie, di fatto obliterandole definitivamente. Tali interventi, probabilmente funzionali ad una rioccupazione dell’area per semplici ricoveri temporanei, sono collocabili in epoca altomedievale (fine VI-VII secolo d.C.) sulla base dei rinvenimenti ceramici, pertinenti perlopiú a ceramica acroma con motivi ad onda incisi sulle pareti. L’inquadramento cronologico di quest’ultima frequentazione sembra confermato in pieno dal rinvenimento della sepoltura a cassa litica di epoca longobarda, che segna il definitivo declino della domus del Larario. F. G.

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Tav. I Assisi: carta archeologica

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Tav. II Assisi: la domus del lararium, planimetria

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Tav. III Planimetria generale del settore occidentale

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Fig. 1 Tablinum, decorazione pittorica: tripode

Fig. 2 Oecus, decorazione pittorica dell’alzato

Fig. 3 Peristilium

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Fig. 4 Tablinum, decorazione pittorica della parte superiore

Fig. 5 Oecus, veduta d’insieme da nord

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Fig. 6 Oecus, parete nord, pinax con scena degli sposi

Fig. 7 Oecus, zoccolo: fregio narrativo

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Fig. 8 Oscillum con menade

Fig. 9 Oscillum con satiro

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Fig. 10 Lararium in terracotta

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Figg. 11-12 Scena degli sposi prima e dopo il restauro

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Fig. 13 Ambienti 6-8 visti da ovest

Fig. 14 Planimetria dell’Ambiente A prima della suddivisione nei vani 6-8

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Fig. 15 Parete ovest del vano 8 con decorazione in III stile

Fig. 16 Colonna in calcare della I fase e sovrapposizione dei successivi pavimenti

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Fig. 17 Pavimento dell’ambiente 9 in cementizio bianco, decorato con punteggiato regolare di tessere nere e fila di crocette sul margine ovest

Fig. 18 Veduta generale dell’ambiente 11 con il pavimento in cementizio bianco decorato da rete di esagoni a nido d’ape e pseudoemblema in tessellato

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Fig. 19 Fotopiano dello pseudoemblema prima del restauro

Fig. 20 Particolare dello pseudoemblema dopo il restauro

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Fig. 21 Interno del condotto fognario

Fig. 22 Tomba a cassa litica

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FRANCESCA Boldrighini

La gens Propertia e l’edilizia di età augustea ad Assisi: il caso della Domus Musae 1

Fino ad anni relativamente recenti il rapporto di Properzio con la sua terra di origine ci era noto solo attraverso le significative ma scarse notizie che lo stesso poeta inserisce nella sua opera: da esse si evince non solo il forte ed orgoglioso legame con l’Umbria, ma anche la profonda lacerazione causatagli dagli eventi della Guerra di Perugia, entrambi già ampiamente sottolineati e dibattuti dagli altri relatori di questo convegno 2. La prima a stabilire una connessione per cosí dire “materiale” tra Properzio ed Assisi fu Margherita Guarducci, che, alla fine degli anni ’70 del novecento, in base all’interpretazione di un graffito, identificò le strutture antiche conservate sotto la Chiesa di Santa Maria Maggiore, nella zona meridionale della città (tav. I; fig. 1), come l’abitazione del poeta latino 3. Si tratta di un monumento di notevoli dimensioni (fig. 2), scavato in parte già negli anni ’60 dell’ottocento ad opera della Società Archeologica del Subasio 4, ed in parte negli anni ’50 1  Voglio ringraziare ancora una volta il professor Fausto Zevi per avermi dato la possibilità di occuparmi del complesso nel corso del mio dottorato di ricerca. I risultati dello studio sono stati brevemente illustrati in Boldrighini 2008. 2  Particolarmente significative a questo proposito sono, come è noto, la prima elegia del IV libro (in particolare i vv. 121 sgg.) e, nel primo libro, le composizioni XXI e XXII, che affrontano il tema del bellum Perusinum. 3  La studiosa pubblicò a piú riprese i risultati della sua ricerca sulla Domus Musae, inserendo negli anni aggiornamenti e correzioni: cfr. Guarducci 1977, Guarducci 1979; Guarducci 1985; Guarducci 1986. 4 Gli scavi ottocenteschi sono noti da alcuni brevi cenni in Brizi 1908 (nota 53), in Fortini 1931 (p. 21, nota 3) e nella documentazione di archivio: si conservano in particolare due lettere (Archivio della Direzione Generale

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102580

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del secolo successivo, sempre per iniziativa di eruditi locali 5. Non è purtroppo stato possibile mettere in luce completamente l’edificio antico, che si estendeva certamente anche oltre la facciata della chiesa medioevale, ove problemi statici e logistici hanno sinora impedito la prosecuzione delle indagini. La costruzione appare interessante non solo per la sua collocazione, al di sotto della piú antica cattedrale della città 6, quasi a ridosso delle mura urbiche, ma anche per l’apparato decorativo che conserva e per la presenza degli interessantissimi graffiti in lingua greca e latina, pubblicati appunto da Margherita Guarducci. Il nucleo principale di essa è costituito da un ampio corridoio in opera quadrata di calcare locale, largo quasi 5 metri e lungo, per sola parte sinora messa in luce, piú di 20, addossato ad uno dei preesistenti muri di terrazzamento della città antica ed aperto verso valle con una serie di strette feritoie. All’estremità occidentale del corridoio è ricavato un piccolo ambiente rettangolare, pavimentato a mosaico bianco e nero con inserimento di piccole scaglie di marmi colorati in ordito regolare (fig. 3); quest’ultimo, unitamente all’analisi di alcuni elementi architettonici rinvenuti negli scavi ed attribuibili alla stessa epoca, ha permesso di datare la prima fase del complesso tra gli ultimi anni della repubblica e l’età augustea 7.

Antichità e Belle Arti, Primo versamento, Busta 68, fascicolo 95,13.1; Archivio Storico della Soprintendenza ai B.A.A.A.S. dell’Umbria, documento AGCM, IX, 4/6) ed una pianta del Guardabassi ora alla Biblioteca Augusta di Perugia (BAP, ms. 2279, c. 167r). 5 Scarsa anche la documentazione sugli scavi degli anni ’50: cfr. Kerènyi 1952, Caldari 1955. 6  Santa Maria Maggiore fu cattedrale fino allo spostamento della sede vescovile a San Rufino, nella prima metà del XII secolo. La costruzione dell’edificio attuale è collocabile, in base a confronti architettonici ed alla presenza di alcune iscrizioni, in un periodo di tempo che si dovette prolungare tra il XII ed il XIII secolo. Le diverse date apposte sulle iscrizioni (la piú antica, in facciata, è quella del 1162; la seconda, tamponata nell’abside, riporta il 1216; in una terza iscrizione, ora perduta, era iscritta la data del 1228) sembrano appunto dimostrare il prolungamento della costruzione negli anni. Cfr. Scortecci 2001, nota 55, p. 385. A proposito della storia dell’edificio e dello spostamento della cattedrale a San Rufino si confronti anche D’Acunto 1999, pp. 74-87. 7 Nonostante questa tipologia di pavimenti sia infatti diffusa per un lungo periodo di tempo, alcuni confronti, in particolare quello molto stretto con un pavimento della Villa di Poggio Gramignano a Lugnano in Teverina, datato nel terzo venticinquennio del primo secolo a.C., hanno spinto a collocare quello

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In un’epoca successiva nella muratura meridionale del corridoio furono praticate delle aperture per permettere l’accesso a due nuovi ambienti (cfr. fig. 2, nn. 1 e 2), costruiti in blocchetti di calcare di dimensioni minori, che si addossano verso sud alle antiche mura cittadine. Uno di essi conserva ancora la pavimentazione originale in opus sectile di marmi colorati, a modulo quadrato di piccole dimensioni (fig. 4). La presenza di questa pavimentazione spinge ad ipotizzare per la ristrutturazione del complesso una data intorno alla metà del I sec. d.C. 8, probabilmente in contemporanea con la realizzazione delle pitture di quarto stile degli ambienti 3 e 4. Gli affreschi, che decorano il corridoio e l’ambiente 3, destano interesse, nonostante il precario stato di conservazione, per alcune particolarità iconografiche 9. Nell’ambiente 3 su fondo uniforme rosso scuro è una decorazione “a motivi ripetitivi”: all’interno di un reticolo di quadrati, costituiti da sottili elementi vegetali, si dispongono, alternati con regolarità, piccoli animali marini: stelle, granchi, coppie di pesciolini affrontati (fig. 5). Gli schemi di questo tipo, piuttosto rari nell’ambito della pittura romana, sono conosciuti a partire da contesti di IV stile, ma continuano ad essere utilizzati anche nel medio e basso impero 10. Se la tipologia a reticolo quadrato è tra le piú diffuse nel genere, per i motivi marini al suo interno mancano sinora paralleli. Interessante al riguardo è il confronto con un tessuto antico rinvenuto in Mongolia come ornamento del soffitto di una tomba, ma ritenuto di importazione ellenistica e datato alla fine del I sec a.C., in cui i motivi marini sono alternati con tralci floreali assai stilizzati, in uno schema molto simile a quello della pittura di Assisi (fig. 6)  11. I disegni, di colori diversi, erano ricamati su un fondo di lana rosso scuro, che doveva ricordare da vicino della domus Musae nello stesso arco di tempo. Cfr. D. Monacchi in Soren 1999, pp. 418-420. 8   Le formelle di dimensioni inferiori a 30 cm di lato, come quelle dell’ambiente B, sembrano infatti essere utilizzate soprattutto nel primo periodo di produzione dei sectilia, per cadere in disuso dopo la fine dell’età flavia, o, al piú tardi, all’inizio del secondo secolo d.C. Cfr. Guidobaldi 1985, pp. 228 sgg. 9  Per le pitture della Domus Musae cfr. Boldrighini 2007. 10  Cfr. Laken 2001, p. 295; Ling 1991, figg. 87-88; Barbet 1985, p. 215. 11 Cfr. Laken 2001, pp. 295-296; Schaefer 1943, pp. 266-267; 276-277; Trever 1932, p. 31.

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quello dell’ambiente 3. Questa somiglianza potrebbe avvalorare una delle ipotesi recentemente avanzate riguardo alle “pitture a motivi ripetitivi”, che sarebbero derivate proprio da decorazioni di tessuti 12. Particolarmente stretta appare l’analogia con i tessuti della pittura assisiate, che non solo ricopre con identico motivo tutte le pareti dell’ambiente, senza traccia di zoccolatura o zona superiore, ma (come mostrano i numerosi frammenti con la stessa decorazione rinvenuti negli scavi, tra i quali anche molti elementi angolari di diverso tipo) doveva probabilmente decorare anche il soffitto, conferendo all’ambiente un aspetto molto simile a quello di una tenda o di un baldacchino. Del tutto differenti, e maggiormente “canoniche” le pitture a fondo giallo del corridoio, in un quarto stile molto semplificato e del tutto privo di prospettiva, in cui pannelli scompartiti da palme e da candelabri sono decorati da quadretti a soggetto mitologico; interessanti particolarità iconografiche si trovano tuttavia anche in questo ambiente. La prima, piú evidente, è costituita dalla pittura a fondo bianco che decora una nicchia all’interno del corridoio (fig. 7): qui, al di sopra di una zoccolatura nera con rappresentazione di una staccionata stilizzata, si dispongono fittamente, senza un preciso ordine ma facendo attenzione a non lasciare spazi vuoti, rametti ed uccellini di diverso tipo; tra di essi anche cuoricini e piccoli fiori rossi a cinque petali. Per il soggetto, la singolare decorazione può essere accostata alle pitture di giardino che, a partire dal terzo stile 13, ornano alcune delle abitazioni piú ricche della prima età imperiale: prima fra tutte la Villa di Livia a Prima Porta 14, ma anche l’Auditorium di Mecenate 15, oltre alla casa del Frutteto 16, alla casa del Bracciale d’Oro 17, ed a numerose altre abitazioni di Pompei, diffondendosi poi ulteriormente nel quarto stile, soprattutto a decorazione delle

  Laken 2001 p. 299.   Cfr. Michel 1980, p. 374; Mielsch 2001, pp. 193-196. 14   Sulle pitture della Villa di Livia cfr. da ultimo Settis 2002. 15  Sull’Auditorium cfr. Coarelli 1984, pp. 209-210. 16  Sulla casa del Frutteto (o casa dei Cubicoli Floreali, I, 9, 5) cfr. Sichtermann 1974, pp. 41-51; P.P.M. II, 1990, pp. 1-137, in particolare le figg. nn. 2547 e nn. 140-169; Moorman 1995, pp. 214-224. 17  VI, 17, 42; P.P.M. VI, 1996, pp. 44-145, in particolare le figg. nn. 150152; n. 154; nn. 156-161; n. 168; nn. 176-178. 12 13

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pareti di viridaria 18. L’apparente realismo delle rappresentazioni citate è però nella pittura assisiate del tutto tradito, probabilmente ad opera di un pittore di origine locale, che scompose il motivo fino a renderlo simile ad una variopinta carta da parati. Assai singolare anche la raffigurazione di uno dei due quadri a soggetto mitologico conservati nel corridoio: in esso il mito di Polifemo e Galatea (fig. 8), tra i piú diffusi ed amati nella pittura romana, è reso sorprendentemente mediante la resa dei soli volti dei personaggi; il procedimento costituisce quasi un unicum nella produzione pittorica romana e sembra essere ispirato alle raffigurazioni dei pinakes marmorei diffusi in epoca giulio-claudia ed utilizzati per decorare viridaria di case private, teatri ed altri edifici 19. Essi rappresentano generalmente maschere teatrali, ma non mancano esemplari con soggetti maggiormente caratterizzati: tra questi un pinax dal teatro di Nemi, ora conservato nel Museo Nazionale Romano, nel quale le maschere sono identificabili proprio con Polifemo e Galatea 20. Il corridoio desta interesse anche per la presenza di numerosi graffiti, 10 greci in metro dattilico, che illustravano le raffigurazioni mitologiche dei quadretti, e tre in latino. Proprio in base alla interpretazione di uno dei graffiti latini, che sembra indicare il luogo come Domus Musae 21 la professoressa Guarducci identificò l’edificio come casa del poeta Properzio: la parola Musa è interpretata infatti come personificazione della poesia o della stessa persona di un poeta 22, che la studiosa 18  Alcune decorazioni con pitture di giardino provengono anche, in epoche piú tarde, da contesti provinciali: si confronti. ad esempio la decorazione di una domus ad Efeso, datata al II-III sec. d.C.; Strocka 1977, p. 101. 19  In pittura, una qualche analogia con il quadro di Assisi si può trovare nel tablinum della Casa dei Cervi di Ercolano, dove all’interno di pannelli incorniciati da ghirlande sono dipinte maschere tragiche in uno stile analogo a quello dei pinakes marmorei. Si tratta tuttavia di maschere isolate, non inserite in una scena di paesaggio e prive di una precisa identificazione mitologica. Cfr. Rosso Pompeiano 2008, pp. 80, 82. Ringrazio Irene Bragantini per avermi segnalato questa analogia iconografica. 20  Inv. SA RM n. 112157. Su di esso si veda Cain 1988, p. 135. 21 Guarducci 1979, pp. 290-291, cosí trascrive il graffito: [-- LUPICINO ET IOVINO CONSULIB(US) VIII KAL(ENDAS) MARTIAS DOMUM OSCILAVI MUSAE, traducendo: “Sotto il consolato di Lupicino e Iovino, il 22 Febbraio 367 d.C., ho baciato la casa della musa”. 22 Guarducci 1979, pp. 290-291.

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identifica con Sesto Properzio, il poeta assisiate per eccellenza, stabilendo cosí per la prima volta un ipotetico legame tra il poeta ed una testimonianza “materiale” della sua città natale. L’interpretazione della Guarducci è stata piú volte confutata, essenzialmente in base a criteri cronologici: le pitture della domus, che ella riteneva di età augustea, erano infatti piú tarde: di conseguenza – non essendosi ancora individuate le due diverse fasi edilizie del complesso – si ritenne che anche la costruzione della abitazione dovesse essere avvenuta in un’epoca successiva alla morte del poeta 23. Le critiche non portarono però alla formulazione di nuove organiche proposte interpretative del monumento, che si presenta in effetti assai complesso e difficile da inquadrare: il compito è reso arduo dalla frammentarietà delle strutture stesse, piccola parte di un insieme che doveva essere in antico ben piú ampio; dalla scarsità della documentazione relativa agli scavi otto e novecenteschi; dalla mancanza di informazioni sulle zone limitrofe della città antica, in cui mai sono state condotte indagini sistematiche; e, infine, dalla parziale “contraddittorietà” dei dati fornitici dall’edificio, non facilmente inseribili in un unico, organico quadro di riferimento. La costruzione antica presenta, come si è visto, una pianta piuttosto insolita: le strutture della prima fase, e soprattutto il lungo corridoio, ampio quasi cinque metri, addossato al muro di terrazzamento cittadino, appaiono eccezionali in ambito domestico, e sembrerebbero adattarsi meglio ad un edificio pubblico, all’interno del quale il criptoportico poteva sostenere un portico di notevoli dimensioni. Un sostegno a questa ipotesi può provenire dall’analisi dei reperti rinvenuti nel corso degli scavi 24: tra questi spicca infatti l’assenza pressoché totale di frammenti relativi

  Strazzulla 1985, p. 81.  I materiali recuperati nel corso delle campagne di scavo nella Domus Musae sono in parte conservati in situ, in parte presso il Museo Comunale di Assisi, ed in parte nei magazzini della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria (Magazzini del Museo Archeologico di Spoleto e Magazzini del Palazzone a Perugia). Essi sono ancora in massima parte inediti, con l’eccezione di quelli al Museo Civico di Assisi, pubblicati in Matteini Chiari 2005, e dei frammenti iscritti, editi da Sensi 2004. 23 24

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all’instrumentum domesticum 25, cui si contrappone una grande quantità di elementi architettonici e di frammenti iscritti. Per quanto relativi ad un interro post-antico, questi materiali, in molti casi di dimensioni e peso assai notevoli, non trovati, tra l’altro, in posizione di reimpiego, provengono certamente, se non dall’area immediatamente soprastante, almeno dalle zone limitrofe. La loro analisi è dunque, a mio parere, assai importante per l’interpretazione della Domus Musae. Tra gli elementi architettonici, quasi tutti collocabili in un arco di tempo compreso tra la metà del I sec. a.C. e la metà del secolo successivo, spiccano rocchi di colonna e capitelli tuscanici in calcare locale, dalle dimensioni notevoli, piú adatte ad un edificio pubblico che ad una abitazione privata 26. Ad edifici pubblici sono riferibili con certezza, come è stato rilevato dagli editori, anche molte delle iscrizioni, tra le quali due sono, a mio parere, particolarmente interessanti. La prima, costituita da un grande blocco in calcare locale di forma allungata in cui si legge la parola [---] theatrum [---], è probabilmente da identificare con un architrave messo in opera nello stesso edificio teatrale, in un epoca che, in base al materiale utilizzato ed alla paleografia delle lettere incise. potrebbe essere quella del regno di Augusto 27. Della seconda iscrizione restano cinque frammenti pertinenti ad una grande lastra in calcare locale 28 (fig. 9). Anche in questo 25  Anche ammettendo l’ipotesi – tutt’altro che scontata – che i reperti di questo tipo non siano stati raccolti durante le indagini ottocentesche perché ritenuti poco interessanti, resta comunque significativo il risultato degli scavi piú recenti, che, a fronte di migliaia di frammenti di intonaco anche privi di decorazione, hanno raccolto solo scarsi reperti ceramici. 26  Alcuni rocchi con scanalature doriche, ancora conservati nella domus e nella soprastante chiesa, raggiungono i 70 cm di diametro, una dimensione compatibile con quella dei capitelli tuscanici pure conservati in situ, che dovevano forse essere parte dello stesso insieme architettonico. 27  Asdrubali Pentiti 2007, p. 371. 28 I cinque frammenti, che conservano parte dell’angolo superiore sinistro e parte del margine superiore della lastra, sono solo in parte ricomponibili: i frammenti b e c si saldano fra loro, cosí come i frammenti d ed e. Si forniscono di seguito le misure: frammento a, cm 46 (larghezza) × 68 (altezza) × 12 (spessore); frammenti b + c : cm 40 (larghezza) × 41 (altezza) × 12 (spessore); frammenti c + d: cm 46 (larghezza) × 74 (altezza) × 12 (spessore). Altezza lettere: cm 8, cm 6,5 (ultima riga). Cfr. Sensi 2004, p. 327, Asdrubali Pentiti 2007, p. 369.

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caso il testo, purtroppo molto frammentario, menziona il teatro, insieme a due membri della gens Propertia, da sempre una delle piú influenti della città 29. Dell’epigrafe riportiamo di seguito la piú recente proposta di integrazione 30: C. Pr[op]ertius [- f. – n.] S[er(gia) ---] mandav[i t- c. 5- he]redi u[t ---] thea]trum a Se]x. Propert[io ---] nom[ine suo e]t ex legat[o HS ---] [--- ex test]amen[to perfic(iendum) cur(avit)] 31

Si tratta, come sottolinea Sensi, “di un documento relativo ad opere di evergetismo promosse dai Propertii nel municipio di Asisium”, verosimilmente sostenute per piú generazioni, e realizzate nel corso del primo secolo d.C.” 32. In particolare, tramite un legato testamentario, un C. Propertius avrebbe lasciato mandato ad un erede – di cui non conosciamo il nome – di completare a suo nome la costruzione del teatro, iniziata da un membro della stessa gens, Sextus Propertius. Anche per questa iscrizione risulta difficile stabilire una datazione precisa; i caratteri paleografici potrebbero collocarla genericamente nella prima metà del primo secolo d.C. A questo proposito va ricordata la forte somiglianza tra la lastra sopra menzionata ed un frammento di un’iscrizione relativa alla dedica dell’anfiteatro di Assisi, incisa nello stesso tipo di calcare 33. Molto simile, oltre alla forma delle lettere, è anche la semplice cornice

29  Membri della famiglia sono noti in città già prima della guerra sociale: tra la fine del secondo secolo a.C. e gli inizi del primo sembra infatti da collocare l’iscrizione, in lingua umbra ma con grafia latina, in cui compare, come magistrato della città, un Vois. Ner. Propartie (C.I.L. XI, 5389). Sul testo, da ultimo, Asdrubali Pentiti 2007, pp. 276-277. La gens continua ad essere attestata senza soluzione di continuità anche dopo la guerra sociale e fino ad epoca imperiale. Sulla gens Propertia ad Assisi e nel mondo romano si veda Forni 1985; Sensi 1983, pp. 165-173. 30   Asdrubali Pentiti 2007, n. 24, pp. 369-371; la proposta di integrazione accoglie nella sostanza quella di Sensi 2004, n. 2, pp. 326 sgg. primo editore del testo, ad eccezione dell’ultima riga. 31  Sensi 2004: [? test]amen[to perficere ?...]. 32  Sensi 2004, p. 332. 33  C.I.L. XI 5406, ora conservata nel Museo Civico; cfr. Gregori 1984, fig. 5.

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a modanature lisce che corre lungo il bordo. L’iscrizione dell’anfiteatro è stata datata, in base a criteri esterni, entro la prima metà del primo secolo d.C 34. Se dunque il teatro di Assisi fu completato nella prima metà del I secolo d.C., la sua costruzione deve essere stata intrapresa alcuni anni prima, probabilmente ancora in età augustea. È noto infatti come la diffusione a macchia d’olio dei teatri nelle città del centro e del nord Italia sia avvenuta proprio nel corso del regno di Augusto, ed il territorio umbro non fa eccezione: ben 10 delle 12 strutture teatrali individuate in Umbria sembrano infatti risalire a quegli anni 35, in cui il teatro assunse un ruolo preminente nella propaganda politica imperiale, sia per mezzo della decorazione architettonica 36 sia tramite gli spettacoli e le rappresentazioni che avvenivano al suo interno. Spesso nei centri minori la costruzione era intrapresa dalle famiglie nobili del luogo, desiderose di mettersi in luce e di ottenere in questo modo il favore del princeps  37. Ad Assisi, piú che nelle altre città umbre, si nota poi nella classe dirigente locale una particolare ricettività nei confronti dei modelli culturali della capitale e degli schemi architettonici ad essa legati, quasi un desiderio di emulazione che ha spinto gli studiosi a citare la città come esempio di “autoromanizzazione”  38. Non stupisce dunque che la gens Propertia abbia intrapreso la costruzione di un edificio monumentale come il teatro. Alla luce delle notizie forniteci dallo stesso Properzio sulle difficoltà politiche cui andò incontro la famiglia negli anni delle guer34 Gregori 1984, pp. 977-979, data l’epigrafe in base all’identificazione della dedicante con Petronia C.f Gaelonis, già nota da un’iscrizione funeraria, ora perduta (C.I.L. XI, 5511). 35  Cfr. Pisani Sartorio 1996, pp. 61-63. I teatri sarebbero 10 su 13 se si calcolasse anche la struttura di Assisi sinora identificata, probabilmente a torto, come teatro. Cfr. infra. 36   Cfr. Gros 1994, p.289 sg.; Zanker 1989, pp. 158 sgg. 37  Sul ruolo svolto dalle aristocrazie municipali nella diffusione dell’ideologia augustea cfr. Zanker 1989, pp. 335 sgg. 38  Sull’ “autoromanizzazione” di Assisi cfr. Coarelli 1991, pp. 15-16, e, da ultimo, anche F. Boldrighini, “Asisium: some more aspects of the “self-Romanization” of an Umbrian settlement”, in E. Farinetti (ed.), With the Adriatic in the Middle: Comparative Issues in Romanized Landscapes in Italy and the Eastern Mediterranean, Atti del Workshop, Leiden University, 1 December 2009, in corso di stampa.

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re civili – in particolare in occasione del Bellum Perusinum, in cui la gens dovette parteggiare per Lucio Antonio 39 – questa costruzione può forse arrichirsi di nuove connotazioni: è possibile cioè, a mio parere, che i Propertii abbiano messo mano all’impresa anche nel tentativo di riconquistarsi il favore del princeps dopo gli eventi della guerra, o, forse, come “ringraziamento” per una riconciliazione avvenuta 40. La scoperta dell’iscrizione all’interno della Domus Musae riapre inoltre il problema, mai definitivamente risolto, della localizzazione del teatro della città. L’identificazione tradizionale, già proposta dal Brizi 41, con i resti di alcune arcate collocate poco a monte della Cattedrale di San Rufino (fig. 10; cfr. tav. I), fu già negli anni ’80 rifiutata dalla Strazzulla 42, ed in seguito messa in dubbio anche da altri studiosi 43, soprattutto a causa della conformazione architettonica delle arcate, che non presentano alcuna traccia di curvatura. Alla luce del ritrovamento delle due iscrizioni relative al teatro nella “Casa di Properzio” – iscrizioni, come detto, di notevoli dimensioni e non rinvenute in posizione di reimpiego – ci sono a mio parere buoni motivi per ipotizzare una localizzazione del teatro nella parte meridionale della città, in un’area limitrofa alla Domus Musae. Pur con tutte le cautele del caso, visto che lo studio del monumento è ancora in corso, non mi sembra da escludere nemmeno la possibilità che lo stesso edificio conservato sotto la chiesa di S. Maria Maggiore possa essere identificato con una struttura connessa al teatro della città. È noto infatti come gli edifici teatrali fossero dotati di ambienti di servizio, destinati agli attori o utilizzati per riporre i materiali scenici, come anche di porticus pone scaenam e, in alcuni casi, di ampi ambienti

  Si vedano a questo proposito le famose elegie XXI e XXII del primo

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libro.

40   Qualcosa di simile a quanto avvenne, ad esempio, nel caso del tempio di Apollo in Circo, completato da Gaio Sosio dopo la sua riconciliazione con Ottaviano. Sul tempio si veda Viscogliosi 1996. 41   Brizi 1908, pp. 405-434; Sensi 2005, p. 65. 42  Strazzulla 1985, pp. 37-38. 43 Tra essi Sear 2006, p. 159 e Tosi 2003, p. 355. Sisani 2007, pp. 103-104 giunge ad ipotizzare una collocazione del teatro nella zona sud della città, nei pressi della Domus Musae.

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coperti ai lati dell’edificio (basilicae) e di vere e proprie piazze porticate 44. Anche la presenza di stanze e corridoi interamente o parzialmente sotterranei, utilizzati con funzioni sostruttive ma anche di passaggio, o, al pari degli ambienti del postscaenium, come magazzini, è spesso attestata nei teatri romani 45. Un collegamento con il poeta Properzio verrebbe cosí ad instaurarsi per un’altra via: non siamo forse di fronte alla abitazione privata del poeta, ma ad un monumento connesso con il teatro della città, che proprio dalla gens Propertia, e forse dal poeta stesso, era stato costruito. Se il teatro finanziato dai Properzi era collocato nella zona meridionale di Assisi, è inoltre possibile ipotizzare che in quest’area si trovasse una ampia proprietà della famiglia 46, all’interno della quale poteva essere costruita anche la domus vera e propria. La zona meridionale di Assisi, che al momento della monumentalizzazione dell’abitato sembra essere stata lasciata libera da costruzioni, fu edificata successivamente soprattutto per iniziativa di privati 47, ed ha restituito nel tempo notevoli resti di edifici abitativi. I primi ad essere rinvenuti, poco dopo la metà dell’ottocento, furono gli ambienti sotto Palazzo Rocchi Amatucci, immediatamente a sud della piazza della Minerva, decorati da mosaici policromi e da pitture di terzo stile, attribuibili ad una domus di epoca augustea o giulio-claudia 48. Ancor piú notevoli i resti dell’edificio messo in luce a piú riprese tra via di S. Agnese e via di S. Antonio, poco a monte   Cfr. Sear 2006, p. 9 e pp. 91-95.  A questo proposito cfr. Sear 2006, p. 9, e pp. 91-95. 46 Era infatti piuttosto frequente che gli evergeti locali costruissero all’interno dei propri terreni, come è attestato da numerose iscrizioni: si veda, a titolo di esempio, la dedica di età flavia dell’anfiteatro di Urbs Salvia, costruito da un privato cittadino pecunia sua, solo suo (Gregori Buonocore1989, p. 112), o quella del piú antico anfiteatro di Lucera, nella quale il finanziatore dichiara di aver agito loco privato suo ... pecunia sua (Gregori Buonocore 1989, p. 107). 47 Strazzulla 1985, pp. 75-81. 48  Cfr. da ultimo Matteini Chiari 2005, pp. 291-296. La datazione proposta da R. Wojicik a p. 295, che colloca il complesso residenziale agli inizi del secondo secolo d.C., dovrebbe essere, a mio parere, notevolmente rialzata: i frammenti pittorici rinvenuti nello scavo ed ora nel Museo Civico, tra cui spiccano una raffigurazione miniaturistica di Perseo su fondo nero ed alcuni paesaggi sacrali, mi sembrano infatti riferibili – con poche eccezioni – ad un contesto di terzo stile. 44 45

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della Domus Musae 49. L’abitazione, di cui ha parlato diffusamente nel corso di questo stesso convegno la dott.ssa Manca, ha restituito un apparato decorativo di notevole ricchezza: le pitture di terzo stile, in particolare, ricordano da vicino insiemi decorativi romani quali la Villa della Farnesina e dovettero certamente essere eseguite in epoca augustea o al massimo qualche anno piú tardi, con l’aiuto di maestranze appositamente chiamate dalla capitale. L’ala occidentale, recentemente scoperta, potrebbe, a detta degli scavatori, risalire ad un’epoca ancora precedente 50. In attesa della pubblicazione definitiva dell’interessante abitazione 51, che possa chiarirne le diverse fasi costruttive ed abitative, ed in particolare se essa nacque come un unico complesso, poi ampliatosi negli anni, o se fu costituita in un secondo tempo dall’unione di due strutture preesistenti 52, resta suggestiva l’ipotesi che proprio questa domus potesse costituire la parte privata della proprietà dei Properzi. La mancata individuazione dei limiti meridionali dell’ala occidentale dell’abitazione, unita alla lunga continuità di vita 53 che la accomuna alla Domus Musae 54, potrebbe avvalorare an49  Ad un primo rinvenimento, negli anni ’90, degli ambienti dell’area meridionale dell’abitazione fece seguito nel 2001 la scoperta di una piú cospicua serie di stanze relative alla parte nord della casa. Cfr. Cenciaioli 2001, pp. 283-286; Manca 2005, pp. 15-34; Manca 2005A, Manca 2012. Ancor piú recentemente (2010-2011) è stata messa in luce la parte occidentale dell’abitazione, in cui spicca soprattutto la ricca pavimentazione a mosaico di uno degli ambienti. Cfr. F. Giorgi in Manca 2012, pp. 51 sgg. 50 Una seconda fase di vita individuata nell’ala occidentale, databile negli ultimi decenni del I sec. a.C. sembra costituire un terminus ante quem per l’impianto di questa zona della domus. F. Giorgi in Manca 2012, p. 52. 51 Una edizione preliminare, comprensiva dei risultati dei recenti scavi, è fornita da Manca 2012. 52  All’unione di due strutture originariamente separate farebbero pensare l’orientamento leggermente diverso, che si apprezza in pianta, tra le due ali della domus, e, in parte, la presenza di resti di un colonnato al centro dell’ala occidentale, che potrebbe costituire la traccia di un originario peristilio (gli scavatori pensano però ad un atrio, a causa del rinvenimento di una fistula aquaria). Resterebbe tuttavia da chiarire, in questo caso, dove fossero gli accessi originari agli edifici. 53  Manca 2012, pp. 52-53. 54  Come mostrano, oltre al già citato graffito di avanzato IV secolo, le numerose tracce di restauri, la Domus Musae conobbe infatti una lunga e ininterrotta frequentazione, ipotizzabile con buona probabilità fino almeno ad epoca altomedioevale. Varie ipotesi sono state proposte sulla destinazione dell’edificio

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che la possibilità che tra la zona pubblica e la parte privata della proprietà potesse esistere un qualche collegamento, forse in parte costituito proprio dai piccoli ambienti collocati ad ovest del grande corridoio dell’edificio sotto Santa Maria Maggiore. L’ipotesi è certo ardita: i non numerosi esempi di abitazioni private di epoca romana connesse ad edifici pubblici 55 includono tuttavia, oltre al coevo complesso augusteo sul Palatino 56, anche la casa costruita da Sesto Pompeo presso il famoso teatro in Campo Marzio 57. Le parole di Plutarco, secondo il quale l’abitazione era connessa all’edificio teatrale ὥσπερ ἐφόλκιον 58, prova che i due edifici dovevano essere in qualche modo fisicamente collegati tra loro 59. Vanno ancora una volta sottolineate, inoltre, le peculiari caratteristiche dell’aristocrazia assisiate, che sin dai primi anni della romanizzazione mostra una particolare ricettività nei confronti della cultura della capitale ed ancor piú degli stilemi architettonici da essa provenienti: sono già state citate, a questo proposito, la costruzione del complesso circo-portico-porta urbica presso San Rufino, che ricorda da vicino l’architettura del Circo Flaminio in Campo Marzio, connesso da una via porticata alla Porta Carmentalis 60; ad essa si potrebbe aggiungere il tempio “della Minerva” forse dedicato ai Dioscuri, che mostra notevoli affinità non solo con altri templi dedicati a queste divinità nell’area

in epoca post-antica, soprattutto in connessione con la costruzione – nello stesso luogo – della cattedrale della città, di cui si hanno notizie certe a partire dal IX secolo, ma che ebbe probabilmente anche una fase precedente. Su questo argomento si veda Scortecci 2001, pp. 382-383. 55 L’associazione tra complessi monumentali pubblici, in particolare teatri, e abitazioni private è di origine ellenistica (cfr. Nielsen 1994, pp. 25-26); a Roma se ne trovano esempi soprattutto negli ultimi anni della repubblica e fino all’età augustea. Si veda anche Royo 1999, pp. 25 sgg. 56  Cfr. I. Iacopi s.v. Domus, Augustus, in L.T.U.R. II, 1995, pp. 46-48; sulla casa di Augusto si veda Iacopi 2006, pp. 351-377. 57  Sulla relazione tra Domus Pompeiorum, domus rostrata e Horti Pompeiani si veda V. Jolivet in L.T.U.R II, 1995 s.v. Domus Pompeiorum, pp. 159-160; id. in L.T.U.R. III, 1996, s.v. Horti Pompeiani, pp. 78-79. 58  Plu., Pomp., 40, 8-9. 59  Thesaurus Linguae Graecae III, 1848-1854, 2585-2586: sed et generalius quicquid ex alio velut dependet, eiusque est tamquam accessio aut appendix. Sic Plutarchus de domo Pompeii dicit “velut appendicem theatri astruxit”. 60  Cfr. Coarelli 1996, p. 253; Sisani 2007, p. 236; Coarelli 1997, p. 185 sg.

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laziale, ma soprattutto con il tempio dei Castori nel Foro Romano, come doveva apparire nel I secolo a.C., prima della ricostruzione Tiberiana 61. La costruzione da parte della gens Propertia di un teatro in connessione con la propria abitazione privata potrebbe allora costituire un ulteriore esempio della volontà di assimilazione degli schemi architettonici urbani che contraddistingue l’elite assisiate in epoca repubblicana e fino a tutto il regno di Augusto 62.

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Tav. I Pianta archeologica di Assisi. Le strutture sotto Santa Maria Maggiore sono indicate con il n. 11 (da Strazzulla 1985)

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Fig. 1 Assonometria degli ambienti antichi in rapporto alla chiesa soprastante (immagine SBAU)

Fig. 2 Pianta degli ambienti antichi in rapporto alla chiesa (immagine SBAU)

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Fig. 3 Domus Musae: Pavimento a mosaico con scaglie di marmo (foto SBAU)

Fig. 4 Domus Musae: Pavimento in opus sectile (foto SBAU)

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Fig. 5 Domus Musae: Pittura a motivi ripetitivi, particolare (foto SBAU)

Fig. 6 Frammento tessile da Noin Ula, Mongolia (da Laken 2001)

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Fig. 7 Domus Musae: Particolare delle pitture del corridoio (foto SBAU)

Fig. 8 Domus Musae: Quadro con Polifemo e Galatea (foto SBAU)

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Fig. 9 Frammenti di iscrizione menzionanti il teatro e la gens Propertia (foto SBAU)

Fig. 10 Assisi. Le strutture voltate tradizionalmente identificate con il teatro (foto autore)

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Properzio e Cornelio Gallo: Il modello ‘cogente’, il modello ‘sfuggente’ Ingenium nobis ipsa puella facit. Prop. 2, 1, 4 Ingenium Galli pulchra Lycoris erat. Mart. 8, 73, 6

Dei controversi rapporti intercorsi fra Sesto Properzio e Cornelio Gallo è difficile redigere un consuntivo tanto per l’esiguità dei riscontri intertestuali a nostra disposizione quanto per la tendenza, particolarmente diffusa, a ricostruire il Gallo perduto attraverso passi del poeta di Assisi che potrebbero richiamare in controluce altrettanti loci appartenuti agli Amores 1. Il ginepraio delle ipotesi è tale che si rischia di privare l’uno di spunti originali puntando a ricomporre una fisionomia artistica meno frammentata dell’altro con grave squilibrio nella valutazione critica di entrambi. Mio intento, pertanto, non discostarmi dai testi di cui disponiamo per battere un percorso meno acrobatico possibile, arrischiando ipotesi di ricostruzione con estrema cautela, là dove i nodi delle testimonianze antiche collimino persuasivamente con stralci di poesia di età augustea compresa fra Properzio, Virgilio e Ovidio. Propongo di iniziare l’analisi del dialogo intertestuale fra i due proprio dal ritratto che il ‘successore’ disegna del ‘predecessore’, nella convinzione che la sua interpretazione possa rivelare ancora pieghe nascoste, illuminare interstizi oscuri, indicare qualche possibilità esegetica nuova da percorrere.

1.  Cornelio Gallo, i lavacri, le ferite (Prop. 2, 34, 91-92) 2 Lo studioso di elegia latina s’imbatte presto, e pour cause, nel canone dei poeti latini d’amore dispiegato in Prop. 2, 34, 1 In tale direzione Cairns 2006, in un volume intelligente e dotto tanto quanto condizionato dalla petitio principii di cui sopra. 2  Attingo qui liberamente a Landolfi 2011, pp. 334-343.

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102581

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85-94 3, un ampio arazzo dove ognuno di essi viene presentato in rapporto alla fonte primaria della sua ispirazione, la domina che ne ha mosso gli accenti e ha conseguito (o conseguirà) fama imperitura grazie al proprio cantore: 85  Haec quoque perfecto ludebat Iasone Varro,

Varro Leucadiae maxima flamma suae; haec quoque lascivi cantarunt scripta Catulli, Lesbia quîs ipsa notior est Helena; haec etiam docti confessast pagina Calvi, 90   cum caneret miserae funera Quintiliae. Et modo formosa quam multa Lycoride Gallus mortuus inferna vulnera lavit aqua! Cynthia quin vivet versu laudata Properti, hos inter si me ponere Fama volet.

Preliminarmente s’impone l’obbligo di alcune puntualizzazioni: 1) ognuno degli esametri della rassegna termina con la menzione di uno degli ‘antesignani’ di Properzio 4; una giacitura, questa, che entro ciascun distico isola l’autore di turno in una posizione di rilievo; 2) alla fissità in questione, replica la flessibilità della posizione metrica degli idionimi femminili (Leucadia, Lesbia, Quintilia, Licoride, Cinzia, gli pseudonimi delle donne amate dai varî autori); 3) solo in due casi le coppie di amoureux vengono contraddistinte da designazione onomastica a contatto: Varro Leucadiae ad attacco del v. 86; Lycoride Gallus in chiusa del v. 91. Ebbene, se della prima sembra svanire traccia nella letteratura successiva, per quanto riguarda la seconda, la sua significativa ‘inscindibilità’ verrà riaffermata da Ov. trist. 2, 425 (non fuit opprobrio celebrasse Lycorida Gallo) 5. 3 La valutazione complessiva dell’elegia è stata fatta oggetto di molteplici interventi dei quali ricordo soltanto quelli di Boucher 1965, pp. 307-322; Stroh 1971, pp. 85-104; Carter 1976, pp. 41-44; Garbarino 1983, pp. 117-148; Stahl 1985, pp. 172-188; Alfonsi 1987, pp. 125-130; Álvarez Hernández 1997, pp. 161-195; Pinotti 2005, pp. 207-230; Cairns 2006, pp. 295-319. 4  Per Knox 2006, p. 128: «Then, in a studied composition of names, each coming at the end of the hexameter, the neoteric poets whom Propertius singles out for their influence on his love poetry (2.34b.85-94)». 5  Gli estremi biografici e la condizione di liberta di Volumnia Citeride, piú

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Consideriamo ora il distico riservato a Cornelio Gallo. Un fondale lugubre accomuna il ricordo delle esequie di Quintilia, moglie di Licinio Calvo, e il ritratto del poeta da poco 6 scomparso, colto nell’atto di detergere con acque infere le ferite provenienti dalla bella 7 Licoride. Una scomparsa recente, come addita l’avverbio modo del v. 91, ma di cui si tacciono le concrete motivazioni 8. Una distopia separa però la contiguità tematica dei due riquadri: Quintilia riceve l’omaggio letterario del consorte; Gallo si occupa delle abluzioni dei vulnera amoris 9. A riscontro gli studiosi citano Euph. 43 Powell (= 47 van Groningen) (Κώκυτός ‹τοι› 10 μοῦνος ἀφ᾿ ἕλκεα νίψεν Ἄδωνιν), esametro in cui il Cocito appare l’unico ad aver potuto lavare Adone dalle ferite 11, tuttavia l’aderenza di Properzio al presunto modello nota con lo pseudonimo di Licoride, sono stati analizzati minuziosamente da Mazzarino 1980-1981, pp. 3-26; Traina 1994, pp. 95-122. 6  Cfr. Manzoni 1995, pp. 53-55. Ad una lunga storia d’amore fra il poeta e Licoride pensa Mazzarino 1980-81, pp. 20-22; Id. 1982, p. 325, «specie se teniamo conto dei multa vulnera, che Properzio dice sofferti da Gallus, e da lui lavati inferna aqua», ma sul tema vd. infra. 7 Come prevedibile, Licoride viene connotata dall’epiteto convenzionale formosa che, a partire da Cat. 86, 5, per continuare con Prop. 1, 15, 8; 2, 18d, 29-30; 2, 24b, 18; 2, 28, 27; 2, 33b, 36; 3, 8, 35; Tib. 1, 1, 55; Ps.-Tib. 3, 4, 57; Ov. am. 1, 9, 43 designa ripetutamente la puella del poeta elegiaco. 8  Per ragioni di ordine politico propende Cairns 2006, p. 81, al cui dire: «Propertius is deliberately blurring the political nature of Gallus’suicide with the false suggestion that Gallus died in, or because of, love for Lycoris», tuttavia, dal canto suo, Heyworth 2007, pp. 279-280, ha prospettato un’esegesi diversa, molto suggestiva. Secondo quest’ultimo, il nesso ablativale formosa ... Lycoride anziché esser collegato, come di consueto, a quam multa ... vulnera, potrebbe correlarsi al participio mortuus concordato in enjambement a Gallus. Se cosí stessero le cose, si effettuerebbe «a play between erotic and historical death: Gallus has died for Lycoris (in the metaphorical sense), but having died in fact is imagined washing his erotic wounds in the waters of the underwold (cfr. Euphorion fr. 43 Powell...)». Sul tema vd. comunque infra. 9   Sull’immagine rimando alle acute note di Traina 1981, pp. 24-25. 10 Congettura dello Scaligero, sostituita con un audace quanto attraente ‹ὣς› da Barigazzi 1962, p. 298 muovendo da considerazioni di ordine contestuale e letterario, ora scartata e rimpiazzata con ‹τότε› da Magnelli 2002, p. 150 sulla base di una quasi aplografia con il terminale -τος precedente. Ricorre al frammento in oggetto per collegarlo con l’episodio ovidiano della morte di Giacinto (met. 10, 162-219) Cazzaniga 1958, pp. 149-165. 11  Dopo l’interpretazione in tal senso avanzata da Burmann nel 1780, vd., e.g., Schultze 1888, p. 153; Skutsch 1901, p. 41; Scheidweiler 1908, p. 10; Rothstein 1920, p. 455; Tränkle 1960, pp. 22-23; Barigazzi 1962, pp. 297-298;

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ellenistico non varca l’analogia di superficie, anche perché, come segnalato da Hollis 12, ci piacerebbe sapere quale poeta latino abbia trasposto il riferimento concernente Adone: forse Gallo prefigurava la propria morte dovuta ad un amore infelice, oppure Gallo, come Euforione, scriveva su Adone e Properzio, dal canto suo, ha realizzato la trasposizione. Ad ogni modo, la ferita causa della morte di Adone è una ferita di caccia, un vulnus inmedicabile cosí come lo è la piaga che provocherà la fine di Giacinto in Bion. fr. 1 Reed 13 e in Ov. met. 10, 187, non un vulnus amoris. Consistenti possibilità di cogliere nel segno avrebbe l’ipotesi per cui (si pensi a Rothstein, Butler-Barber e Richardson), Cornelio avrebbe «riutilizzato in accezione metaforica l’immagine della ferita, riferendola alle proprie sofferenze d’amore curabili solo con la morte, di qui la citazione allusiva di Properzio nel nostro passo, che assume una tragica pregnanza a causa del fatto che nel frattempo Gallo ha posto fine alla propria vita» 14. Piú di tanto non è prudente spingersi sul terreno delle ricostruzioni, dato che in ogni caso la metaforizzazione dello spunto euforioneo costituisce una possibilità, attraente per quanto si voglia, ma non un dato certo. Boucher 1966, p. 319; Stroh 1971, p. 229, n. 7; De Cuenca 1976, p. 161; Pasoli 1982, pp. 252-253; Papanghelis 1987, p. 68, n. 46; Courtney 1993, p. 261; Fedeli 2005, p. 1008; Knox 2006, p. 142, n. 49. Il debito è stato peraltro acquisito da Enk 1962, p. 465, il quale, riportando la notazione di Ptolem. Heph. ap. Phot. Bibl, p. 146, 33 Bekker, τοιοῦτόν ἐστι· Κώκυτος ὄνομα, Χείρωνος ἐπὶ τῇ ἰατρικῇ μαθητής, ἐθεράπευσε τὸν Ἄδωνιν ὑπὸ τοῦ συὸς τρωθέντα concorda con il Meineke nel ritenere inopportuno l’accostamento di questo passo euforioneo con il testo properziano sopra ricordato. Successivamente, van Groningen 1977, p. 112 ha sottoscritto l’opinione del citato Scheidweiler, il quale dichiarava a proposito (a p. 10): «interpretationem falsarii nihil moror» ritenendo la figura del medico Cocytos un’invenzione mirata dello scoliaste. Piú semplicemente, Euforione avrebbe formulato un concetto lineare: Adone era effettivamente morto, la ferita era mortale, nulla era in grado di detergerla all’infuori del Cocito, fiume infernale. 12  Hollis 2006, p. 98. 13  Si pensi in particolare al v. 4 (μοιραῖα δ᾿ ἀναλθέα τραύματα πάντα) su cui cfr. Barigazzi 1962, pp. 297-298. Nel contesto bioneo Apollo fa appello a qualunque rimedio (φάρμακα πάντα, ἀμβροσία, νέκταρ) a lui noto per guarire il giovinetto (l’anafora dell’imperfetto χρῖεν al v. 3 testimonia l’ansia del dio su formale modello omerico, cfr. Il. 16, 680), ma pur essendo patrono dell’arte medica si scontra con la fatale immedicabilità delle lesioni provocategli involontariamente dal lancio del disco (vd. sul passo le note di Reed 1997, pp. 135-137). 14  Citazione tratta da Pinotti 2005, p. 221.

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In rapporto all’ ‘ipotesto’ ellenistico 15, almeno quattro gli apporti innovativi individuabili nel passo properziano qui esaminato 16: 1) la mancata designazione del fiume infernale utile al lavacro del poeta elegiaco; 2) il numero multiplo, benché imprecisato, delle lesioni fisiche (quam multa ... vulnera); 3) la precisazione della loro origine (formosa ... Lycoride); 4) la differente dinamica del bagno avente come protagonista non già il corso d’acqua bensí il defunto stesso, intento a rivolgere alla sua persona onori funebri ‘inconsueti’... Perché ‘inconsueti’? Convenzione epica consegna, pragmaticamente, il pietoso ufficio della lavatio defuncti agli intimi 17, come si enuclea dal famosissimo lamento della madre di Eurialo in Verg. Aen. 9, 487, affranta per le mancate cure alla salma del figlio (presenza alle esequie, chiusura delle palpebre, lavacri rituali) 18 o, per tutt’altri versi, da quello di Ecuba sulle spoglie di Polissena in Ov. met. 13, 531-532 19. Tuttavia, rispetto ad un plot di matrice epica 20, consacrato dai poemi omerici, il lavacro dell’eroe morto in guerra 21, per il quale fanno testo i passi di Il. 18, 343-345 (ordi  Che Euforione costituisse per Cornelio Gallo uno degli auctores prediletti in assoluto è nozione che affonda le sue radici in tre inequivoche attestazioni di Servio (ad Verg. Ecl. 6, 72, p. 78; ad Ecl. 10, 1, p. 118; ad Ecl 10, 50, p. 125 Thilo), oltre che nelle testimonianze di Filargirio (ad Verg. Ecl. 10, 50, p. 185 Hagen) e di Probo (ad Verg. Ecl. 10, 50, p. 348 Hagen). 16 Rimane invariata, viceversa, l’identificazione del personaggio protagonista della scena in chiusa di esametro ( Ἄδωνιν / Gallo). 17  Ce lo conferma Serv. ad Aen. 4, 683, p. 581 Thilo: lavare autem cadavera satis proximis concedebatur: unde queritur mater Euryali “nec vulnera lavi veste tegens”. 18  Nec te tua funera mater / produxi pressive oculos aut vulnera lavi. Sulla tormentata interpretazione del v. 486 rinvio al bilancio di La Penna 1983, pp. 327-328. 19   Quid moror interea crudelia vulnera lymphis / abluere et sparsos inmiti sanguine vultus? 20  Cui accede anche la tragedia, come ricordato da Jocelyn 1967, p. 279 riguardo a Soph. Ant. 21-30; El. 865-870; Eur. Suppl. 51-53, cui si apparenta il lamento di Merope nel Cresphontes enniano, frr. 138-139 R3 (= 131-132 V2) ricordato da La Penna 1983, p. 328. 21 Ripresentato in chiave elegiaca nella scena dei lavacri di Achille ad opera di Briseide in Prop. 2, 9a, 9-14 – in specie al v. 11 (et dominum lavit maerens captiva cruentum) – che, in qualità di captiva e di innamorata dell’eroe, leva non soltanto il lamento rituale, procedendo anche ai funebria munera sul suo cadavere, 15

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ne di Achille ai compagni perché portino un tripode per scaldare l’acqua e ripulire Patroclo del sangue coagulato) 22; 24, 419-420 (rassicurazione di Achille a Priamo, dato che il sangue di Ettore è stato completamente deterso, ripulito della lordura, e le ferite risultano tutte chiuse) 23; ibid., 587 (abluzione del cadavere di Ettore da parte delle schiave di Achille) 24, su probabile mediazione euforionea, in Prop. 2, 34, 91-92 si configura un plot differente sul cui sfondo Gallo stesso nell’Aldilà effettua il proprio lavacro dopo la morte, a purificare i segni delle lacerazioni derivate da Licoride. Nel distico in oggetto, anziché gli isometrici ulcera, che avrebbero predicato la piaga incancrenita 25, compaiono i vulnera, ostensivi ferita ancora fresca e sanguinolenta 26: una scelta terminologica significativa, in sintonia con il protrarsi del tormento amoroso al di là dei confini dell’esistenza terrena e che, in ogni caso, consuona con la predilezione accordata in poesia erotica al secondo lemma piuttosto che al primo 27, dal momento che nel suo immaginario le ferite d’amore risultano sempre aperte e molto di rado riescono a richiudersi. Nel caso specifico, poi, la cooccorrenza dell’avverbio modo disloca la scena del lavacro di Cornelio in un passato vicino, dato cronologico in linea con la ‘freschezza’ dei vulnera stessi. Cornelio Gallo, che non subisce lesioni in battaglia, che non perde la vita durante un’aristia, non si aspetta i riti previsti per i caduti in guerra: vittima com’è dell’eros, da defunto provvede da sé a lavare le ferite (d’amore) che gli attraversano l’epidermide. Miles amoris, non miles tout court... Un tale ritratto palesa cfr. Lechi 1979, p. 91, secondo la quale: «... la coppia mitologica Achille-Briseide si presenta nella situazione codificata della puella di fronte alla morte del poetaamante». 22  Ὥς εἰπὼν ἑταίροισιν ἐκέκλετο δῖος Ἀχιλλεὺς / ἀμφὶ πυρὶ στῆσαι τρίποδα μέγαν, ὄφρα τάχιστα / Πάτροκλον λούσειαν ἄπο βρότον αἱματόεντα. A riguardo vd. Arend 1933, p. 124, n.1. 23  Περὶ δ᾿ αἶμα νένιπται / οὐδέ ποθι μιαρός· σὺν δ᾿ ἕλκεα πάντα μέμυκεν.  24  Τὸν δ᾿ ἐπεὶ οὖν δμῳαὶ λοῦσαν καὶ χρῖσαν ἐλαίῳ. 25   Cfr. Wöhrle 1991, pp. 1-16. 26 L’avverbio modo di per sé suona come un rinvio obliquo alla recenziorità delle ferite che possono esser state appena deterse appunto perché ancora fresche. 27  Vd. Traina 19912, p. 24, n. 32.

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un rovesciamento di vettori descrittivi dinanzi ai recenti esempi di Lucrezio e Virgilio. Se Catullo non adotta mai i lemmi plaga, vulnus, ulcus, concependo la passione quale rogo appiccato nelle fibre piú riposte del corpo umano 28, a parlare di vulnera amoris è Lucrezio, a partire dall’immagine proemiale di Marte vinto da eterna ferita d’amore (aeterno devictus vulnere amoris 1, 34), disteso sul grembo di Venere. Toccherà poi a Virgilio coagulare l’icona del poeta neoterico con l’icona del poeta epicureo: la ferita d’amore si annida nelle intime fibre di Didone corrodendola come un fuoco non soltanto all’inizio del IV libro dell’Eneide 29, ma anche in séguito, ai vv. 66-67 dello stesso: est mollis flamma medullas / interea et tacitum vivit sub pectore vulnus. E, in sequenza lineare, di un vulnus amoris si consumerà la Didone ovidiana in her. 7, 189-190, presentando il proprio petto quale sede già sperimentata di un tal tipo di piaga (nec mea nunc primum feriuntur pectora telo; / ille locus saevi vulnus amoris habet) 30. A sua volta, mediante la visualizzazione delle ferite provocate da Licoride, visibili sul corpo di Gallo, Properzio disegna l’immagine del poeta d’amore piagato anche nell’Oltretomba. Non si tratta piú di insistere sugli indizi della passione che il codice elegiaco ha rubricato nel pallore, nella magrezza, nell’insonnia, nell’inedia dell’innamorato non corrisposto o tormentato dalla gelosia 31, chiamandone in causa sia il corpo sia la psiche. Nel teatrale patetismo della scena riaffiora, sotto nuove forme, l’articolato tropo dell’immedicabilità dell’eros 32 nel quale rientra la variante dell’immedicabilità delle ferite amorose. 28 Si pensi al c. 61 dove Manlio Torquato appare bruciare piú intensamente pectore ... in intimo / ... sed penite magis (vv. 170-171) o al c. 64 dove Arianna genera una fiamma divoratrice contemplando l’eroe ateniese di cui si è perdutamente invaghita (non prius ex illo declinavit / lumina quam cuncto concepit corpore flammam / funditus atque imis exarsit tota medullis vv. 91-93). Ho affrontato quest’aspetto della poesia di Catullo in relazione ai ‘precedenti’ preneoterici in Landolfi 2010, pp. 420-421. 29   At regina gravi, iamdudum saucia cura, / vulnus alit venis et caeco carpitur igni (vv. 1-2). 30   Cfr. la nota al passo di Piazzi 2007, pp. 297-298. 31  Sull’argomento vd. Mazzini 1990, pp. 34-83. 32  Analizzato panoramicamente da Casali 1992, pp. 85-100. Per quanto attiene a Properzio vd., in special modo, Pinotti 2005, p. 221 e n. 53; Maltby 2006, pp. 153-156.

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Il bagagliaio iconografico tradizionale offre al poeta di Assisi tanto l’opportunità di riappropriarsi del motivo dell’amor ... non medicabilis propriamente detto (si pensi a 2, 1, 57-58: omnis humanos sanat medicina dolores:  / solus amor † morbi † non amat artificem 33, oltre al brano di 2, 4, 7-13), quanto l’opportunità di soffermarsi con mirati riadeguamenti sul tema delle ferite d’amore (si consideri già 1, 1, 27: fortiter et ferrum saevos patiemur et ignis, dove su queste ultime il poeta non si nasconde di dover intervenire chirurgicamente col ferro e di doverle cauterizzare col fuoco 34, per non parlare poi di 3, 24, 18 dove esse sembrano rimarginarsi una buona volta in prospettita della guarigione 35, o di 3, 21, 31-32 dove le distanze scavate dal tempo e dagli abissi marini leniranno le ferite nel petto silenzioso del poeta, lontano da Cinzia) 36. Tuttavia se, almeno temporaneamente, i vulnera che piagano Properzio possono conoscere guarigioni e lenimenti, quelli provenienti da Licoride 37 sono ancora ben visibili sul corpo di Cornelio Gallo nell’Aldilà, dove vengono detersi con acqua infera. Enigmatica in 2, 34, 91-92 l’assenza dell’idronimo. Neppure il reimpiego della clausola inferna ... aqua in Ovidio e in Marziale risolve l’aporia 38. E non la dirime neppure il quadro di Ippolito, che ricorda lo strazio toccato al proprio corpo e le cure cui ha atteso in prima persona, in Ov. met. 15, 532 (et lacerum fovi Phlegethontide corpus in unda): in questo caso, a esser citato

33  Interpungo aderendo alla recente edizione di Fedeli 2005, al cui commento (pp. 91-92) val la pena rifarsi per i problemi editoriali connessi al testo. 34  Debita puntualizzazione di Gazich 2010, p. 146 e n. 41, 35   Vulneraque ad sanum nunc coiere mea. Per il sapore medico dell’immagine cfr. Fedeli 1985, p. 86. Malgrado l’alterità del contesto, aggiungerei il riuso del nesso vulnera coire in Ov. trist. 4, 4, 41-42; Pont. 1, 3, 88. 36   Et spatia annorum et longa intervalla profundi / lenibunt tacito vulnera nostra sinu su cui cfr. quanto notato da Maltby 2006, p. 156. 37  In 2, 34, 91-92 i vulnera, di norma inferti da Cupido nelle sue vittime (nec quisquam ex illo vulnere sanus abit 2, 12, 12), sembrano derivare dalla donna amata da Cornelio, almeno se accediamo all’esegesi corrente che considera formosa ... Lycoride come abl. di provenienza retto da quam multa ... vulnera, secondo l’opportuno monito di Fedeli 2005, p. 1008 ad loc. 38  Il nesso inferna ... aqua, sempre divaricato, ricompare infatti in Ov. trist. 1, 5, 20: infernas ... aquas; Mart. 1, 101, 10: ad infernas ... aquas; 9, 29, 2: ad infernas ... aquas ma senza che in tali contesti possa identificarsi affatto il fiume cui le acque infernali appartengono.

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è il Flegetonte, presente assieme al Cocito già in Hom. Od. 10, 513. Neanche l’Acheronte, menzionato da Theocr. 15, 102 può risolvere il nodo del problema, dato che nell’idillio in questione rappresenta soltanto la sede (ἀπ᾽ ἀενάω Ἀχέροντος) da cui Adone ritorna periodicamente sulla terra, come confermano a distanza i vv. 136-137. Titoli poziori per l’identificazione del fiume cui allude Properzio vanterebbe il Lete, emblema dell’acqua che lavando produce oblio, il quale potrebbe materialmente detergere le ferite provenienti da Licoride nonché dissolvere la passione sinora inestinguibile 39, ma non supereremmo il limite dell’ipoteticità anche considerando che, se per il poeta di Assisi traicit et fati litora magnus amor (1, 19, 12) 40, solo il Lete sarebbe nelle condizioni di purificare in concreto e di eliminare sul piano psichico i vulnera in questione. Piú difficile, in fin dei conti, pensare al Cocito, che per la sua stessa parentela con il verbo κωκύω e con il derivato sostantivale κωκυτός indicante ‘grido acuto’, rinvia alla sfera del lamento (prettamente femminile peraltro) 41, non già a quella della ‘dissolvenza per oblio’. Dunque, se le cose stessero cosí, Properzio avrebbe lasciato intenzionalmente indefinito il cenno al fiume infero, ‘correggendo’ in modo dotto il probabile modello euforioneo dove, come si è visto, il Cocito era protagonista del riquadro. E non è improbabile che lo spunto alla διώρθωσις derivasse da Cornelio Gallo stesso... Tuttavia su questo punto è opportuno mantenere un prudenziale non liquet. In ogni caso, tanto la letteratura greca quanto quella latina avevano da tempo sclerotizzato l’immagine del poeta dolente sulle rive di un fiume, da Ermesianatte, fr. 7, 41-42 Powell (Antimaco sulle rive del Pattolo) a Virgilio, georg. 4, 507-510 (Orfeo sulle rive dello Strimone), invariabilmente intento a cantare la perdita dell’amata, non dedito comunque alle abluzioni delle proprie ferite dopo il passo estremo 42.

39   Cairns 2006, p. 213 n. 81, è dell’opinione che «only if that water is from Lethe, which Propertius does not specify, would Propertius be denying the persistence of Gallus’ love». 40  Sul passo cfr. la nota di commento di Fedeli 1980, p. 447. 41  Bastevole il rinvio a Chantraine 1990, I, p. 605 s.v. 42  Cfr. Lucifora 2011, pp. 76-77.

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Un’ultima osservazione. Properzio ritrae Gallo ancora sofferente per le pene d’amore quantunque, nel 27-26 a.C., data della sua morte, la liaison con Citeride fosse conclusa da tempo. Che si dati il discidium al 44 43, o, viceversa, al 43-42 44, o alla vigilia del 41-40 45, o al 40-39 46, o che lo posticipi ad oltranza 47, risulta difficile non pensare ad un’immaginosa ritrascrizione in chiave letteraria della rottura fra i due, cosí immaginosa da condizionare, ancora a considerevole intervallo di tempo, i lavacri inferi del caposcuola dell’elegia augustea. La suggestione proveniente dal Ὑάκινθος euforioneo potrebbe aver svolto un ruolo propulsivo alla ricontestualizzazione fattane dal poeta Assisiate soprattutto se si considera come nella poesia di epoca ellenistica tenesse campo la descrizione di Adone morto, alla quale nel II sec. a.C. Bione di Smirne aveva dedicato il celebre Adonidis Epitaphium. Ivi, nei versi finali domina la scena il corpo del giovinetto disteso su stoffe purpuree, deterso dall’acqua portata in un lebete d’oro, mentre gli Amori ad uno ad uno gli sciolgono i sandali, gli lavano le cosce (v. 84: ὃ δὲ μηρία λούει) 48, lo asciugano col battito d’ali (vv. 83-85) con manierato patetismo. Per parte propria Properzio conosceva bene il mito di Adone, sí da inserirlo in chiusa di 2, 13b, 53-56 quale termine di riscontro al dolore di Cinzia per la sua morte, provata come Venere alla perdita del giovinetto. Ad ispirare l’intero riquadro, come suggerito da Papanghelis 49 e ribadito con nuovi argomenti da Fantuzzi 50, sarebbe stato proprio il Bione dell’Epitaphium, osservazione confermata da parecchi dettagli compresenti nei due testi 51.   Di tale avviso Amato 1987, pp. 330-331.   Cosí Boucher 1966, p. 16. 45  Come ipotizza Mazzarino 1980-81, p. 22 e, con lui, Traina 1994, p. 118. 46  Proposta di Manzoni 1995, p. 32. 47  Contempla tale evenienza Mazzarino 1982, p. 325 per il quale l’amore fra i due sarebbe potuto durare addirittura sin dopo il 32 a.C. 48  Μηρία non rappresentebbe un tecnicismo medico come intende Fantuzzi 1985, p. 122 appellandosi a Sor. 1, 100, bensí, come replica Reed 1997, p. 244, un diminutivo di μηρός, «normally used of the thighbones of sacrificed animals, but that its leteral meaning was never lost to view is shown by Sor. gyn. 1.100: εἶτα στρέφειν τὸ βρέφος καὶ ... ἀποκαθαίρειν τὰ μηρία. 49   Vd. Papanghelis 1987, pp. 64-70. 50  Cfr. Fantuzzi 2003, pp. 194-198. 51  Ad. Ep. 10 e Prop. 2, 13b, 25-26; Ad. Ep. 19-20 e Prop. 2, 13b, 56; 43 44

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Nel caso particolare, se si optasse poi per la lezione tràdita dai recenziori formosum lavisse, (ritoccato da Bergk in formosus) come inclinano a fare Heyworth 52 e Murgia 53, al posto del piú comune formosus iacuisse di solito prescelto dagli editori, sulla scorta del riscontro bioneo di Ad. Ep. 7 (κεῖται καλὸς Ἄδωνις ἐν ὤρεσι μηρὸν ὀδόντι) 54, si guadagnerebbe una nuova scena di lavacri funebri, animata dalla presenza esclusiva della dea, vista tributare gli onori estremi al defunto (illis formosus lavisse paludibus, illuc / diceris effusa tu, Venus, isse coma vv. 55-56) 55, con le chiome scarmigliate alla stregua di una eroina elegiaca disperata per la morte dell’amato. Nondimeno la scena delle abluzioni sarebbe ancora ubicata sulla terra non nell’Aldilà (illis ... paludibus v. 55) 56, come invece avviene per l’Adone euforioneo prima e per il Cornelio Gallo properziano poi.

2.  Cornelio Gallo, Licoride, il destino di immortalità (un’evenienza considerevole) Respingere l’evenienza che Cornelio Gallo preconizzasse un destino di immortalità all’amata tramite i propri distici urta contro difficoltà oggettive 57, accertata la diffusione di tale prassi nella Werbung elegiaca 58. Peraltro, spostandosi all’àmbito delle arti figurative e inserendosi nella tradizione che attribuiva agli artisti piú famosi le etere piú avvenenti quali modelle 59, Properzio in 2, 3a, 41-44 invita chi ambisca a superare per fama le tabulae vetu-

Ad. Ep. 94 e Prop. 2, 13b, 57. Ulteriori punti di contatto in Fantuzzi 2003, p. 196. 52   Heyworth 1992, pp. 57 e 59. 53  Murgia 2000, p. 159, n. 23. 54  Ma anche perché iaceo è il verbo «tecnico nelle definizioni della morte e della sepoltura», come sottolinea Fedeli 2005, p. 409 ad loc. 55  Ho discusso di questo brano in Landolfi 2008, pp. 98-102. 56  Non lontani dall’Idalio, monte su cui l’efebo cacciatore era stato trafitto dal cinghiale (niveum ... Adonem / venantem Idalio vertice durus aper vv. 53-54). 57   Come fa, ad es., McKeown 1989, p. 412 pensando che sia stato un verso di Cornelio Gallo ad ispirare tanto Prop. 2, 3a, 43-44 quanto Ov. am. 1, 15, 29-30 e ars 3, 537. 58  Eloquente il caso di Ov. am. 3, 9, 31-32, e, per il versante omoerotico, quello di Tib. 1, 4, 63-70. 59  Boucher 1965, p. 45, n. 2.

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stae a scegliere come soggetto pittorico Cinzia, sicuro che questa conquisterà gli abitanti dei poli opposti dell’ecumène: Si quis vult fama tabulas anteire vetustas, hic dominam extemplo ponat in arte meam! Sive illam Hesperiis, sive illam ostendet Eois, uret et Eoos, uret et Hesperios.

In particolare, nel secondo di questi due distici l’impiego ribattuto delle indicazioni geografiche screziato dalle particelle disgiuntive (sive ... sive) e dal modulo anaforico costituito da lemma verbale + cong. copulativa (uret et ... uret et), insieme al poliptoto sostantivale ad anello (Hesperiis ... / Hesperios) chiasticamente disposto rispetto al poliptoto sostantivale endocentrico (Eois ... / Eoos), prelude a due noti passi di Ovidio vertenti sulla fama di cui Licoride (nel primo insieme all’amante poeta) ha goduto da Occidente ad Oriente. Ivi non si preannunzia un primato nella pittura a quanti si misureranno con il ritratto di Cinzia, al contrario si ricorda la notorietà in un caso toccata a Cornelio Gallo insieme all’amata, nell’altro alla sola domina, con un prevedibile mutamento di tempi verbali (imp./perf. vs. futuro): am. 1, 15, 29-30 60: Gallus et Hesperiis et Gallus notus Eois, et sua cum Gallo nota Lycoris erat. ars 3, 537: Vesper et Eoae novere Lycorida terrae.

Se, come proclama in epanadiplosi Ovidio, nomen habet Nemesis, Cynthia nomen habet (ars 3, 536) grazie alla funzione eternatrice della poesia, come non supporre che anche Gallo abbia potuto assicurare fama imperitura all’amata tramite i propri versi? Nel caso particolare, la duplice designazione dei popoli, occidentali e orientali, utilizzata in modo cangiante da Properzio e Ovidio ha indotto Brugnoli prima 61 e McKeown poi 62 a sospettare l’esistenza di un preciso modulo stilistico risalente a Gallo cui entrambi si sarebbero ispirati. In effetti tutto lasce  Da ultimo sul problema Knox 2006, p. 143.   Brugnoli 1983, pp. 233-236. 62  McKeown 1989, p. 412. Bilancio in Manzoni 1995, pp. 33-35. 60 61

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rebbe presupporre che nella produzione di quest’ultimo i ripetuti etnonimi possano esser stati costruiti con i consueti futuri da Widmunggedicht, parallelamente a Prop. 2, 34, 93-94 (Cynthia quin vivet versu 63 laudata Properti  / hos inter si me ponere fama v o l e t ) ,  o, ancor meglio, a Prop. 2, 5, 3 (ista meis  f i e t  notissima forma libellis), di caso in caso con tonalità sfragistica o programmatica. Peraltro, lo sfoggio di nozioni geografiche non doveva suonare eccezionale nella sua silloge, se l’unico pentametro in nostro possesso, anteriore alle scoperte di Qas .r Ibrîm 64, riporta un idronimo rarissimo, l’Hypanis 65, riguardo al quale Vibio Sequestre osserva: Hypanis Scythiae qui, ut ait Gallus, «uno tellures dividit amne duas» 66, ritenendolo il demarcatore di confine fra Asia ed Europa 67. Di questo fiume si ricorderà Properzio in 1, 12, 3-4, obiettando a Pontico, che lo accusa ingiustamente di indugiare a Roma, come Cinzia sia lontana dal suo letto quantum Hypanis Veneto dissidet Eridano (v. 4). In ambedue gli elegiaci spicca il gusto per il particolare erudito, per il dato geografico peregrino, lasciti della poesia ellenistica cui aveva pagato il proprio obolo uno dei modelli privilegiati di Gallo, quel Partenio di Nicea abituato a disseminare di tarsie astruse i propri componimenti al punto che «la metà dei frammenti pervenutici si è salvata per il suo contenuto geografico, e i toponimi asiatici vi abbondano particolarmente» 68. Alla luce di queste puntualizzazioni non potremo ritenere fortuita la scelta operata da Virgilio in georg. 4, 370 nell’introdurre l’Hypanis in una rubrica catalogica preziosa, profittando dell’utile base tribrachica (∪∪∪) dell’idronimo, tendente 63  Rispetto al tràdito Cynthia quin † etiam † al v. 93 Fedeli 2005, 948 e 1009 stampa: Cynthia quin vivet versu laudata Properti, accodandosi a Barber: sul problema vd. da ultimi Maltby 2006, p. 17; Syndikus 2006, p. 318, n. 221 e Heyworth 2007, p. 276. 64   Notoriamente il papiro ivi rinvenuto è stato edito da Anderson-ParsonsNisbet 1979, concordi nell’attribuire questi versi a Cornelio Gallo riscuotendo l’approvazione generale dei filologi classici con l’eccezione di Giangrande 1980, pp. 141-153; Id. 1981, pp. 41-44; Id. 1982, pp. 83-93; Id. 1992 (a), pp. 99-108 e di Naughton 1981, pp. 111-112. 65  Menzionato anche da Verg. georg. 4, 369; Prop. 1, 12, 4; Ov. met. 15, 237. Cfr. Boucher 1966, pp. 83-84 e, ora, Korenjak 2002, pp. 588-593. 66  Sulle cui risonanze presso Ovidio rilievi in Barchiesi 1981, p. 164; Knox 1985, p. 497; Cairns 2006, p. 199. 67   Cfr. Fedeli 1980, p. 291. Vd. da ultimo Cairns 2011, pp. 326-338. 68  In tali termini Barchiesi 1981, p. 165.

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a chiudersi in anapesto con parola successiva iniziante per consonante, in una sequenza battuta da allitterazioni in sibilante (saxosusque sonans Hypanis) che ne riproducano il fragoroso scorrere.

Promettere a Licoride un destino d’immortalità, esteso sino agli antipodi della terra, avrà costituito per Cornelio quasi un atto dovuto, nel gioco delle parti fra domina e amante-poeta, cui egli non si sarà sottratto... Nella fattispecie, la sua influenza su Properzio e Ovidio risulta piú verisimilmente accertata che in altri autori. Infatti, la tenaglia degli epitesti permette di congetturare con piú ampio margine di sicurezza la fisionomia dell’ipotesto di riferimento.

3.  La nequitia di Licoride e i suoi ‘riverberi’ Che nello spazio elegiaco il termine nequitia, riferito al comportamento tenuto dall’amata, designi piú che altro la manifestazione di una libidine priva di freni e non semplicemente una o piú ‘infedeltà’ 69, appare un dato incontestabile: lo confermano, se ancora occorresse discuterne, i passi di Prop. 1, 15, 38; 2, 5, 2; 3, 10, 24 70. A sua volta, il fr. 2 Blänsd. di Cornelio Gallo (Tristia  n. equit .[ia ...]a . Lycori tua) 71 ospita il lamento per il comportamento di Licoride trasformandosi, per gli elegiaci a venire, quasi in un tropo ineludibile: dapprima vi aderisce Properzio, nelle campate di due pentametri, ricalcando la Wortstellung corneliana (1, 15, 3: nec tremis  a d m i s s a e  conscia  n e q u i t i a e ? ;  3, 10, 24: et sint n e q u i t i a e  libera verba  t u a e ), a breve lasso di tempo Ovidio, facendone però un manifesto di autodenuncia (am. 2, 1, 2: ille ego n e q u i t i a e  Naso poeta  m e a e ) 72. Ma in quale contesto inquadrare il frustulo papiraceo? A quale ipotetico esametro connetterlo per meglio sceverarne il senso?   Come ritiene Nicastri 1984, p. 15 e n. 3, cui muove ragionate obiezioni Capasso 2003, pp. 51-52. 70  Materiali in Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 140. 71  Equivalente al fr. a dell’editio princeps del 1979. Bilanci recenziori dal punto di vista paleografico in Ballaira 1987, pp. 47-54; Blänsdorf 1987, pp. 43-50; Morelli 1988, pp. 103-119; Radiciotti ap. Capasso 2003, pp. 111-164. 72  Vd. in altro contesto, Hor. c. 3, 15, 2. 69

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Priva di séguito la proposta affacciata dai primi editori del papiro corneliano: [tempora sic nostrae perierunt grata iuventae] tristia nequit[ia fact]a Lycori tua

che ricucirebbe i rimproveri diretti a Licoride alla nostalgica memoria della giovinezza, cosí come quella formulata da Newman 73, in cui il poeta recriminerebbe di dover subire un destino di tristezza vedendo il proprio amore disprezzato: [nunc ego fata pati despecto cogor amore] tristia nequit[ia fact]a Lycori tua.

Due le ricostruzioni prospettate, a mo’ di esemplificazione, da Nicastri, di cui la prima, piú fondata, suonerebbe di tal tenore 74: [tot mala perpessus fateor mihi tempora vitae] tristia nequitia [facta]  75 Lycori tua

suturando suggestivamente con Ps.-Tib. 2, 7-8 (Nec mihi vera loqui pudor est vitaeque fateri / tot mala perpessae taedia nata meae) l’esile frammento di Gallo. A mio parere, dal punto di vista contestuale l’apostrofe a Licoride precorrerebbe soprattutto le apostrofi a Cinzia di Prop. 1, 15, 38 (nec tremis admissae conscia nequitiae) e di 2, 5, 2 (et non ignota vivere nequitia), guarda caso incapsulate in altrettanti pentametri – ossia nel perimetro impiegato in precedenza dal ‘modello’ – dove in posizione iconica ricorre il termine-chiave nequitia 76, che né Tibullo, né Ligdamo adotteranno mai.

  Newman 1980, p. 94.  Nicastri 1984, p. 79, con le successive obiezioni di Morelli 1984-85, p. 142. La seconda, invece, affaccia una tale sequenza: [... fateor mihi taedia vitae] / tristia nequitia [nata] Lycori tua. Consuntivo delle multiple integrazioni al verso corneliano in Capasso 2003, pp. 52-53. 75  Fata (o facta) sono le integrazioni proposte nell’editio princeps di AndersonParsons-Nisbet 1979, p. 140, tuttavia dalla visuale contestuale la seconda meglio si addice al tono accusatorio del verso: sulla questione si veda Morelli 1984-85, p. 143. 76 Sulla giacitura metrica di nequitia nelle elegie latine vd. Cairns 2006, pp. 94-96. Riguardo al suo esatto valore semantico, cfr. Morelli 1984-85, p. 142; Capasso 2003, p. 51. 73 74

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Quantunque Cornelio deprechi la dissolutezza di Licoride, non riesco tuttavia ad adire l’ipotesi per cui, anticipando le movenze di Prop. 2, 6, 41-42 o di 2, 32, 31-62, nel genere elegiaco egli avrebbe inaugurato il tema del superamento delle infedeltà dell’amata 77: al di là del significato riduttivo di ‘infedeltà’ apposto al lemma nequitia, osta a una tale eventualità soprattutto il precedente di Cat. 68, 135-137 78, dove i tradimenti di Lesbia finiscono per essere accettati, purché siano sporadici 79. All’esempio catulliano Properzio avrà potuto attingere indipendentemente, considerata la sua lunga frequentazione del liber del Veronese. Inoltre, sarei molto cauto nel connettere il frammento corneliano al tema abusato del servitium amoris 80, giacché, in assenza di un chiaro quadro di riferimento, quel che dice il verso in oggetto suona inadeguato ad una connessione cosí impegnativa. Certo, Gallo parla di tristezza dovuta ai comportamenti dell’amata, tuttavia chi vieta di pensare che a ridosso di quanto pervenuto stesse soltanto un’autorappresentazione dolente del poeta o, viceversa, una rampogna articolata sui mores Lycoridis? Il problema non può che rimanere aperto per il fr. 2, laddove il fr. 4 con l’impiego del termine-chiave domina non escluderebbe di riproporre l’eventualità dell’ingresso del tema della schiavitú d’amore nel codice elegiaco 81. In particolare, una pagina di Skutsch 82 ha segnato una linea di confine precisa negli studi orientati in tal senso: a parere del   Opinione di Nicastri 1984, pp. 81-82.   Legittime riserve in Pinotti 2002, p. 62. 79   Quae tamenetsi uno non est contenta Catullo, / rara verecundae furta feremus erae, /ne nimium simus stultorum more molesti. L’idea che l’innamorato, eccessivamente geloso, debba guardarsi dal risultare stultus e molestus ritornerà, notoriamente, in Prop. 2, 34, 20; Ov. am. 3, 4, 43-44. 80  Com’è noto, reciso negatore del ricorso al motivo del servitium amoris da parte di Gallo è Lyne 1979, pp. 121-123. Puramente ipotetico il rapporto di servitú d’amore verso Licoride a detta di Pinotti 2002, p. 64; viceversa per Gagliardi 2009-2010, p. 69 proprio a Gallo rimonterebbe l’atto di nascita del tropo predetto. 81  E.g. si vedano Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 144; Barchiesi 1980, p. 166; Morelli 1984-85, p. 180; Courtney 1993, p. 267; Knox 2006, p. 143; Gagliardi 2009-2010, p. 60 e n. 9. 82  Skutsch 1901, p. 15. Ad ogni modo la pericope ovidiana piú vicina al 77 78

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filologo tedesco, una stretta analogia intercorrerebbe fra la raffigurazione di Milanione in Prop. 1, 1, 9 sgg. (e in Ov. met. 10, 575 sgg.) e quella di Gallo in Verg. buc.  10, 5 sgg., entrambi sottoposti al servitium amoris 83. Il rimbalzo di echi iconici e ideologici fra i due passi assicurerebbe una radice comune, una piattaforma di situazioni topiche contrassegnata: 1) dal vagabondaggio sul Partenio in stato di delirio erotico 84 (amens 85 errabat Prop. 1, 1, 11 // iam mihi per rupes videor lucosque sonantis / ire... / ... tamquam haec sit nostri medicina furoris Verg. buc. 10, 58-60); 2) dalla caccia degli animali selvatici (ibat et irsutas ille videre feras Prop 1, 1, 12 // aut acris venabor apros. Non me ulla vetabunt / frigora Parthenios canibus circumdare saltus Verg. buc. 10, 56-57); 3) dai labores (nullos fugiendo labores Prop. 1, 1, 9 // labores Verg. buc. 10, 64) motivi quasi tutti riconducibili al celeberrimo monologo di Fedra innamorata nell’Ippolito euripideo (vv. 215-221) 86. A riguardo, dopo una minuziosa sinossi, Conte conclude: «Se i versi 52 sgg. (scil. della decima ecloga virgiliana) sono riscrittura di ciò che Gallo aveva già cantato nel verso Calcidico, vorrà dire che Gallo doveva aver scritto nelle sue elegie parole simili per la sua Licoride: vorrà dire, cioè, che Gallo è realmente il capostipite di quella lignée che abbiamo appena ricostruito» 87, la  lignée di poeti elegiaci, fedeli osservanti della perseveranza e dell’ossequio alla domina ad onta delle sue intemperanze caratteriali, della sua incostanza nei sentimenti. Qua de re non ambigitur...

passo programmatico di Properzio va considerata quella contenuta in ars 2, 185291, cfr. Enk 1946, p. 7. 83  Il punto sulla questione in Fedeli 1980, pp. 71-73. 84   Prop. 1, 1, 9: Partheniis in antris // Verg. buc. 10, 57: Parthenios ... saltus. Vd. Cairns 2006, p. 110. 85   E non si dimentichi in Verg. buc.  10, 22: Galle quid insanis? e al v. 44 la formula insanus amor. Dal canto suo Properzio dice di sé in 1, 1, 5: et mihi iam toto furor hic non deficit anno (vd. peraltro 1, 1, 2: non sani pectoris). Prospetto dei riscontri in Cairns 2006, p. 111. 86  Su cui, dopo Skutsch 1901, p. 15, cfr. soprattutto Conte 1980, pp. 27-29. 87  Mutuo la citazione da Conte 1980, p. 27.

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4.  Versi degni della ‘domina’ Il lettore properziano viene presto a contatto con le competenze letterarie di Cinzia, esaltate in 2, 13a, 11-14: me iuvet in gremio doctae legisse puellae, auribus et puris scripta probasse mea. Haec ubi contigerint, populi confusa valeto fabula: nam domina iudice tutus ero

un ritratto in cui il tocco di sensualità insito nella postura di Properzio viene smorzato dal ruolo specifico impersonato dall’amata, giudice esperta dei suoi versi al punto da vanificare qualunque altro verdetto. Docta puella, dotata di purae aures, Cinzia apprezza (probat v. 12) i componimenti dell’amante rivelandosi ineguagliabile estimatrice di poesia (v. 4). A suggerire all’elegiaco l’intelaiatura del fondale il celeberrimo esordio di Lucr. 1, 31-34 che vede Marte disteso sul grembo di Venere vinto da eterna ferita d’amore; in rilievo, un candidus iudex tutto al femminile, dotato di imparzialità, espressa dal nesso a ponte auribus ... puris (v. 12), dove si raggruma l’eredità di una metafora di vecchia data, promossa a Roma da Plaut. Mil. 774 e detorta definitivamente ad uso metaletterario da Hor. epist. 1, 1, 7, a sua volta ripresa da Pers. 5, 63, ma a monte della quale sta Posid. SH 705, 1-2 88. Cinzia ha indossato i panni del critico letterario ben lontano dalle précieuses ridicules di Iuv. 6, 434-456, puriste insopportabili, polemiste dall’esibita dottrina, troppo pronte alle συγκρίσεις fra poesia omerica e poesia virgiliana, funestatrici di conviti e commensali. Nella sua rarefazione, la scena properziana giustappone un poeta innamorato e un’amante-giudice di poesia: la postura dei due protagonisti non interferisce affatto sulla valutazione del manufatto letterario che, anzi, proprio per la sua integrità bandisce dall’interesse di Properzio ogni altro parere, definito con tono sprezzante populi confusa ... fabula.

88 Ritessono la storia dell’immagine Stroh 1971, p. 81, n. 85 e Fedeli 2005, p. 374.

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Diverso il presupposto su cui affonda le radici la cartografia di 2, 26b, 25-26, in cui domina la figura di Cinzia che, quando recita i versi del poeta, dichiara di detestare i ricchi: agli occhi di quest’ultimo nessuna donna coltiva la poesia con altrettanta devozione 89. Una certa contiguità accosta il sottofondo di 2, 26b, 25-26 alle dichiarazioni formulate in 1, 8b, 39-41, ossia il valore preminente dei carmina sui beni materiali, che nel secondo dei testi qui ricordati assicurano a Properzio la meglio sul danaroso rivale, laddove nel primo sigillano l’ormai sperimentata indifferenza dell’amata verso le ricchezze, tale è il suo fervore nei rispetti della poesia. A complemento della panoramica sui rapporti di Cinzia con l’attività compositiva di Properzio, non ometterei poi né il caso di 2, 24c, 21 dove alla volubilità della fedifraga viene obiettata la recente consuetudine di lodare e leggere i versi dell’amante (me  modo laudabas et carmina nostra legebas), né il caso di 2, 1, 1-16 dove si celebra la sua capacità di costituire da sola materia per innumerevoli componimenti (si veda il particolare il proclama programmatico del v. 4: ingenium nobis ipsa puella facit) 90, né il caso di 1, 7, 11 dove ragione di lode per l’autore è l’esser piaciuto soltanto alla docta puella (me laudent doctae solum placuisse puellae) 91. Ad ogni modo, dotta com’è, questa stessa gode dei versi che le dona Febo in persona e della lira Aonia porta volentieri da Calliope (1, 2, 26-28) 92. Cinzia estimatrice di poesia, Cinzia lettrice di poesia, Cinzia elogiatrice di Properzio, Cinzia ispiratrice di Properzio. E Licoride? Il peso determinante accordato dall’Assisiate alla dottrina e alle competenze della propria domina ha finito per condizionare la lettura del fr. 4 di Cornelio Gallo in cui spicca un particolare profilo di Citeride, in atto di ricevere finalmente

  Osservazione di Fedeli 2005, p. 749.   Da non sottovalutare poi il caso di 2, 30, 40: nam sine te (scil. Cynthia) nostrum non valet ingenium, né il caso di 2, 13a, 7: sed magis ut nostro stupefiat Cynthia versu. 91 Sull’epiteto docta in connessione a Cinzia cfr. la nota di commento di Fedeli 1980, p. 194. 92  Circa gli antecedenti ellenistici dell’immagine, rassegna in Fedeli 1980, pp. 105-106. 89 90

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versi degni della sua persona, facendone un’antesignana in tutto e per tutto di Cynthia carminum iudex 93. Si riconsideri il testo: . . . . . ]. . . . . tandem fecerunt c‹ar›mina Musae 94 quae possem domina deicere digna mea. . . . . . . . . . . ]. atur idem tibi, non ego 95, Visce . . ]. . . . . . .  .l. Kato, iudice te vereor.

L’estrema lacunosità del tetrastico ha dato la stura ai piú disparati tentativi di integrazione onde ricostruirne il significato in modo soddisfacente, ma è inutile negare che al di là di alcuni punti fermi, specie per il secondo dei due distici siamo ancora distanti da una restituzione tale da riscuotere unanime consenso. «The Muses of Gallus provided craftmanship as well as inspiration». Cosí commentano i primi editori del papiro di Qas .r Ibrîm 96, specificando l’articolato ruolo giocato dalle Muse nel testo corneliano, ispiratrici e autrici dei suoi versi, pressoché alla stregua delle Muse di Ligdamo in 1, 15-16 (auctores huius mihi carminis) 97. Oltre al tandem iniziale, che esprime l’esultanza per la concessione delle Pieridi, conquista la nostra attenzione la diade fecerunt / possem ... deicere che distingue fra una sorgiva ispiratrice e, al contempo, operatrice di poesia, e un cantore performativo 98, posto che qui l’arcaizzante deicere suonerebbe come ‘recitare’ 99, nell’arco di una clausola quale deicere digna che, nella sequenza allitterante a contatto, potenzia il proprio effetto fonico, triplicato dal precedente lemma nominale (domina deicere digna) rispetto alla corrispettiva clausola a ponte in enjambement di Verg. buc. 9, 35-36 (nam neque adhuc Vario videor nec dicere Cinna /  È il caso della griglia di lettura proposta da Nicastri 1984, pp. 88-96. Riserve in Pinotti 2002, p. 64. 94  Le singole integrazioni avanzate sono state passate in rassegna prima da Morelli 1984-1985, pp. 154-155, poi da Capasso 2003, pp. 59-73. 95 Circa il raffronto del modulo bimembre non ego ... iudice te con Verg. buc.  2, 26-27, vd. Morelli-Tandoi 1984, pp. 101-116 che propendono per una imitazione di Gallo da Virgilio. 96  Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 144. 97   Suggerimento centrato di Barchiesi 1981, pp. 154-155. Vd. ora sul tema Gagliardi 2010, p. 84. 98 Come ribadisce Morelli 1999, p. 72 precisando ulteriormente l’ampia analisi di Lieberg 1987, pp. 527-544. 99  Cfr. ancora Morelli 1999, p. 72; Gagliardi 2010, pp. 64 e 72. 93

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digna) 100. E l’impiego di una terminologia connessa con la pratica della ‘recita’ non può intendersi se non alla luce della particolare Werbung dispiegata all’indirizzo della donna amata: nella finzione poetica i carmi destinati a quest’ultima la celebreranno e, verisimilmente, evidenzieranno come obiettivo specifico del lavoro delle Muse sia la performance del poeta alla presenza della domina, come in passato avveniva di fronte ai dinasti ellenistici 101. Cinzia e Licoride incarnano il modello della puella particolarmente sensibile alla poesia, destinataria di versi all’altezza delle sue doti umane e culturali. I rispettivi pseudonimi 102 richiamano emblematicamente Apollo oltre alla sfera di dominio a lui subordinata, quella della poesia, ma è molto piú difficile per noi moderni soppesare le capacità docimologiche attribuibili alla seconda rispetto alle capacità docimologiche riconosciute alla prima. Infatti, il testo papiraceo chiarisce solo quanto i carmi prodotti finalmente dalle Muse siano all’altezza della specifica destinataria 103, sicché la presenza dell’epiteto digna concordato a carmina non può né deve venir sovraccaricato di inferenze aggiuntive e, in fin dei conti, depistanti, pretendendo che a comprovare la qualità, il valore dei manufatti poetici debba essere Licoride medesima. Il distico mutilo non dice che i carmina saranno effettivamente digna di colei che li riceve a patto che ella stessa li riconosca tali. Pretendere dalla posizione e dalla semantica di digna molto di piú di quanto il contesto non consenta implicherebbe, di necessità, detorcerne l’effettiva valenza. È nella poesia properziana che si instaura quasi un circolo chiuso tra l’autore e la propria domina 104 non soltanto sul versante erotico-sentimentale, bensí anche su quello critico-letterario: 100 Ripresa dello stilema in Ov. met. 5, 344-345: utinam modo dicere possim / carmina digna (scil. dea); per l’impiego della nuda clausola carmina digna vd. invece Ov. am. 1, 3, 20. 101  Rinvio alla messe di attestazioni prodotta da Lieberg 1987, pp. 537 sgg. e alla messa a punto di Morelli 1999, p. 72 il quale precisa come in una civiltà prettamente ‘libraria’ quale quella romana del I sec. a.C., le consuetudini performative della poesia ellenistica, pur se ereditate direttamente, vengano sottoposte ad una significativa ricodifica pragmatica e contestuale. 102  Vd. Nicastri 1984, pp. 90-91. Cfr. peraltro Verducci 1984, p. 135. 103 Faccio mie le osservazioni di Gagliardi 2009-2010, p. 69; Ead. 2010, pp. 62-63. 104  In merito incisiva la puntualizzazione di Van Sickle 1981, pp. 126.

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sottoponendo all’approvazione di Cinzia i propri distici, il poeta non riceve una conferma alla bontà della propria ispirazione, al contrario riceve la conferma che di fatto vanifica qualunque altro giudizio di merito, laudativo per quanto sia. Nel processo di erezione della domina a iudex dei versi che il poeta-amante le recita, sottoponendo alla sua competente attenzione la qualità delle proprie creazioni, non sappiamo quanto abbia pesato l’eventuale esempio di Cornelio Gallo che, ad ogni modo, nel passo di cui disponiamo non lascia adito a connessioni di sorta. Soprattutto al v. 9 del papiro di Qas .r Ibrîm il fatto che sia sia prospettata l’evenienza di intravvedere gruppi pla // ple immediatamente prima di kato 105 ha fatto sí che al posto di Valerio Catone, personaggio sul quale converge il consenso di gran parte degli specialisti, insieme al Visco citato nel pentametro seguente, si potesse scorgere, in nesso con iudice, un ablativo assoluto del tipo plakato iudice te, legato soltanto al secondo dei due critici letterari in oggetto. Se per lo piú si tende ad integrare il v. 8 tramite un costrutto di natura ipotetica o concessiva 106, imposto da non vereor e collegato al verso precedente da un pronome o da un nesso di natura relativa, per il v. 9 la situazione si complica a dismisura a seconda che si integri aderendo alle soluzioni plakato te iudice // Kato te iudice. Questioni non meno intricate solleva peraltro l’idionimo Kato che, legato a Visco, resterebbe da questi diviso per taluni motivi di ordine cronologico (Valerio Catone non è esattamente contemporaneo a Vibio Visco), e, ove identificato con Catone Uticense, sposterebbe la cifra dell’epigramma su un terreno etico-politico 107. Stesso dicasi se interpretato come riferito a Catone il Censore o al padre dell’Uticense 108.

 Consuntivi in Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 145 (coadiuvati da una suggestione di Hutchinson, successivamente documentata da Id. 1981, p. 41) e in Capasso 2003, pp. 45-47. 106 [quod si iam vide]atur idem oppure [si iam test]atur idem (scil. domina) sono le proposte avanzate nell’editio princeps del 1979 (la seconda con l’avallo di Stroh 1983, p. 238, n. 129 che prospetta anche [si iam non videa]tur idem oppure [quid si non vide]atur idem tibi?, oppure ancora [quae si confite]atur idem). Vd. ora la rubrica delle posizioni in Capasso 2003, pp. 64 sgg. 107  Cfr. Hollis 1980, p. 542. 108  Vd. Hollis 2007, p. 247. Addirittura al Caesar (Ottaviano) pensa Newman 1984, pp. 27-28 e n. 50. 105

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Proprio la presenza di esperti, quali Visco (ed eventualmente Catone) farebbe pensare viceversa alla richiesta di un riscontro docimologico probante da parte di Gallo per questi carmina appena venuti alla luce ad opera delle Muse, un riscontro che comprovi il suo ritenerli finalmente all’altezza di Licoride, al di là delle fantomatiche conferme letterarie richieste a questa stessa dalle costruzioni a tesi di noi lettori del terzo millennio d.C. Eppure, a ben guardare, diversamente dagli editores principes la piú recente lettura autoptica del papiro condotta da Mario Capasso distinguerebbe nel quarto rigo l’ablativo plakato concordato a iudice che, come intuito già da Hutchinson, autorizzerebbe a restituire all’incirca nel modo seguente il tormentato distico excipitario: quodsei iam vide]atur idem tibi, non ego Visce, quemqua]m plakato iudice te vereor

ossia «Se anche a te sembra la stessa cosa, allora, Visco, essendoti tu, giudice, mitigato, non temo nessuno» 109. L’economia di questa proposta si coglie sia nella riduzione degli interlocutori di Cornelio da due a uno, sia nell’impeccabile, consequenziario mantenimento del testo al singolare – cosí come ci è pervenuto – sia nell’esclusione del personaggio di Catone, che con difficoltà può coordinarsi tanto alla figura di Visco 110 quanto alla ipotizzata avversione nei rispetti dell’elegia erotica corneliana 111. Aggiungo un’osservazione. Nell’esordio della decima Ecloga di Virgilio particolare attenzione desta la dedica virgiliana a Gallo di quei pochi versi che anche la sua donna possa leggere (pauca 112   Cosí traduce Capasso 2003, p. 71.   Il quale dovrebbe confermare soltanto l’affermazione di Cornelio per cui i carmina sarebbero prodotto delle Muse (cfr. Gagliardi 2009-10, p. 72) in quanto «ad essa i lettori meno raffinati potrebbero non credere, scambiandola per vanteria dell’autore. Contro il loro giudizio è allora invocato quello di Visco, severo certamente, ma di gran lunga piú valido; soprattutto egli appare il piú qualificato ... a riconoscere la sublime fattura di questa poesia, e cioè ... la mano divina delle Muse». Sulla figura di Visco vd. ancora Gagliardi 2009-2010, pp. 77-78. 111  Seguo qui le conclusioni di Gagliardi 2009-2010, p. 71. 112  Ipotizza che parimenti pauca, seguito da deae, costituisse il perduto incipit del fr. 4 di Cornelio Gallo Noonan 1991, p. 121, supponendone la ripresa da parte di Virgilio in buc. 10, 2. 109 110

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meo Gallo, sed quae legat ipsa Lycoris, / carmina sunt dicenda ... buc. 10, 2-3): se ci manteniamo aderenti alla lettera del testo, in tema di vicende amorose, di dolori toccati al poeta elegiaco, nessuno meglio di lei potrebbe sceverarne il significato immediato e le pieghe riposte, in quanto ragione primaria dei suoi ἐρωτικὰ παθήματα. Dunque, chi oltre a Gallo, pauca carmina ... legat se non Citeride 113? In altri termini, a un destinatario primario e a una lettrice d’eccezione sarebbero riservati gli esametri virgiliani (pauca meo  G a l l o ,  sed quae legat ipsa  L y c o r i s :  i due idionimi, posti nella chiusa di ogni hemiepes al v. 2, non lasciano dubbi), ma proprio perché Licoride – definita poco oltre tua cura (buc.  10, 22) 114 – appare nel papiro egiziano degna dei versi d’amore che finalmente Cornelio può recitarle (ne ha ispirato e condizionato al contempo la stesura) 115, sarà a sua volta in grado, come nessun altro, di risalire alla genesi e comprendere la funzione di una poesia consolatoria che di Gallo e dei suoi solliciti ... amores (buc. 10, 6) si fa appassionata cantrice 116. Citeride potrà riconoscere ora nell’omaggio letterario di Virgilio all’amico dolente tutti quei Realien – adeguatamente filtrati in sede poetica – che in filigrana percorrono l’ossatura del testo bucolico riandando con la memoria, per dirla con Properzio, ai multa vulnera   Sul valore dell’intera espressione vd. Gagliardi 2003, p. 229. In modo alquanto discutibile, Pasoli 1982, p. 247 formula l’ipotesi per cui i molti carmina di Gallo potrebbero non esser stati letti da Licoride, rileggendo l’annuncio di Virgilio bucolico come quello di una destinazione di pauca carmina che la donna finalmente si degnerà di leggere. 114  Affianca lo pseudonimo di Volumnia/Citeride al gr. κούρη Cucchiarelli 2012, p. 494, che cosí si esprime: «...si noti l’insistenza fonica CURa LyCORis, forse indotta dal modello teocriteo: ἁ δέ τυ κώρα (id. 1, 82); si avrebbe, dunque, la suggestione interlinguistica cura/κούρη = κώρα/Lycoris». Sul nesso tua cura vd. poi Manzoni 1995, p. 72. 115  «Pochi devono essere i suoi versi ... ma di tale bellezza che li legga anche Licoride: la donna dunque non è destinataria, se non in modo indiretto, del carme; ne è piuttosto lettrice privilegiata, attraverso la quale bisogna passare per ottenere l’apprezzamento di Gallo» dice Gagliardi 2003, p. 228. 116 Scrive in proposito Conte 1980, p. 31: «La poetica elegiaca faceva di ogni carme una testimonianza d’amore, omaggio capace di conquistare il favore della donna, gesto di corteggiamento a lei rivolto. Per questa volta la poesia bucolica ha voluto farsi in qualche modo werbende Dichtung: quando Licoride leggerà quest’ecloga sarà certo lusingata a vedere quant’è saldo il giogo d’amore che lei ha imposto all’amico di Virgilio: tentare di scrollarlo vale solo a sentirne piú ineluttabile il peso». 113

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inferti all’amante, vulnera che lo hanno indotto ad affidare ai versi il canto delle proprie pene assurgendo a paradigma per gli elegiaci a venire.

5. Le fughe della domina: tormenti d’amore in Properzio, Virgilio e ... Gallo La convergenza di due passi di Virgilio e Properzio agevola la ricostruzione di una sceneggiatura corneliana di forte impatto emotivo, tratta dal cosiddetto propemptikòn Lycoridis 117, senza che essa ci sia arrivata per tradizione diretta: Prop. 1, 8a, 7-8: tu  p e d i b u s  t e n e r i s  positas fulcire pruinas, tu potes insolitas, Cynthia, ferre nives? Verg. buc. 10, 46-49: tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum) Alpinas, a ! dura nives et frigora Rheni me sine sola vides. A, te ne frigora laedant! A, tibi ne  t e n e r a s  glacies secet aspera  p l a n t a s !

A riaccostare i due brani la puella che, schiava della passione, accetta di seguire il nuovo partner 118 nei luoghi piú inospitali della terra, lontani siti innevati. Dal punto di vista paesaggistico costante la presenza della neve (insolitas ... nives; Alpinas ... nives), che motiva il tocco larmoyant dei pedes teneri da un lato e delle tenerae plantae dall’altro, a rischio ferita. Il contrasto fra il rigore climatico (brine e nevi // nevi, geli e ghiacci) e la fragile costituzione dell’amata – che nel testo virgiliano affronta da sola il deserto di ghiaccio che le si stende innanzi mettendo a repentaglio la propria incolumità – provoca le recriminazioni dei due poeti, studiatamente patetizzate dal nodo o anaforico o poliptotico (tu – tu // tu – te – tibi) cui essi ricorrono nella distopia sintattica fra costrutti interrogativi e costrutti esclamativi. Emerge, dietro questo pattern, la figura di Cornelio Gallo dolente per il distacco 117  In materia vd. Fedeli 1980, pp. 203-208; Nicastri 1984, p. 98 e pp. 153176; Manzoni 1995, pp. 73-74; Gagliardi 2003, pp. 237-238; Cairns 2006, pp. 114-116. 118 Resta esemplare l’analisi di Conte 1980, pp. 26 sgg.

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da Licoride posto che, come c’informa Servio ad Verg. buc. 10, 1 (p. 118 Thilo): ... hic autem Gallus amavit Cytheridem meretricem, libertam Volumnii, quae eo spreto Antonium 119 euntem ad Gallias est secuta ... contra Romanum morem Cytheris est in castra comitata. I dati topografici isolabili dal dettato virgiliano (le Alpi innevate, il corso gelato del Reno) attestano le fasi del viaggio di Licoride, traducendosi in descrizione minuta dei luoghi da lei attraversati 120: nelle maglie delle prolessi e delle analessi narrative, il poeta eclogico riattiva e amplia la dichiarazione di Apollo pronunciata ai vv. 21-23 dell’ecloga:               ... venit Apollo: ‘Galle, quid insanis?’; inquit; ‘Tua cura Lycoris 121 perque nives alium perque horrida castra secuta est’.

A distanza i segmenti testuali si integrano: nevi, accampamenti, ma, quel che piú conta, la presenza di un alius per il quale Licoride, cura del poeta-elegiaco, ormai arde. Malgrado ciò, Cornelio non si esime dal ricorso a formule deprecative pur di esorcizzare i pericoli del cammino intrapreso dall’amata (ne ... laedant // ne ... secet), volendo preservarla da ogni rischio. Un cammino che sembra dilatarsi nello spazio, segnato com’è dalla geminazione della prep. per ad inizio di esametro e dopo la cesura semiquinaria del v. 23.

119  Che non Antonio Licoride abbia seguito nelle campagne militari per precisi motivi cronologici (intorno al 40 a.C. il discidium fra i due si era già prodotto e l’ecloga si data agli anni 39-38 a.C.) è convinzione diffusa, ribadita da Gagliardi 2009, p. 49, ma vd. già Mazzarino 1980-1981, p. 21, il quale inclina per l’identificazione dell’alius virgiliano con Quinto Fufio Caleno padre o, ancor piú probabilmente, figlio; segue quest’ultima proposta Traina 1994, pp. 118. 120  La qual cosa per Michel 1990, p. 60 rientrerebbe nel quadro di una descrizione iperbolica, tesa ad enfatizzare il viaggio di Licoride verso il Nord, in paesi inospitali. Ad ogni modo il tropo, cambiato di contesto e di vettore, riapparirebbe nell’epistola di Aretusa a Licota (Prop. 4, 3, 47-48), là dove l’eroina proclama che se fossero stati aperti gli accampamenti alle fanciulle romane, ella sarebbe stata sarcina fida al marito, né i monti della Scizia avrebbero ritardato il suo procedere cum Pater altas / acriter in glaciem frigore nectit aquas. In tal senso, un avvio alla sinossi fra Gallo e Properzio offre Gagliardi 2003, p. 168. 121 Per quanto concerne il segmento finale del verso, tua cura Lycoris, da considerare le proposte di Cairns 2006, pp. 115-116. Sul rapporto tra questa pericope e il ritratto di Licoride cfr. poi le osservazioni di D’Anna 1971, passim.

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In Properzio l’appello a Cinzia insiste a sua volta sull’inverosimile capacità di resistenza della donna dinanzi alle positae ... pruinae, alle insolitae ... nives, ribadendo, per converso, le abitudini contratte nella vita cittadina, estranea ai rigori climatici e alle asperità odeporiche. Cosa dedurre da un esame comparativo? Nel complesso, la distanza prodottasi dalla rilettura del plot corneliano sembra piú marcata in Properzio, legato com’è il contesto di 1, 8a al viaggio per mare di Cinzia al séguito del nuovo amante, un viaggio, questo, di cui appuriamo progressivamente la meta (gelida ... Illyria v. 2), le coordinate meteorologiche (vento quolibet v. 4; vesani murmura ponti v. 5), il mezzo di trasporto (in dura nave v. 6), meno visibile in Virgilio dove, come in Cornelio Gallo, protagonista è ancora Licoride, lontana ormai dalla patria (procul a patria v. 46), tra le nevi Alpine e il corso raggelato del Reno (Alpinas ... nives et frigora Reni v. 47) senza la compagnia del poeta-amante 122. Un’assenza marcata sul piano retorico dall’anastrofe del compl. di esclusione, e, sul piano metrico-prosodico, rovesciata simbolicamente nel principio dell’inseparabilità della coppia dal perimetro del dattilo in cui il compl. di esclusione è racchiuso in anastrofe 123 (me¯  sı˘  ne˘  ): la catena metrica enfatizza, ricucendolo giusto il tempo della lettura del dattilo d’attacco, quel nodo inestricabile che nei fatti si è sciolto. Se a ciò si aggiunge l’autorevole parere di Servio, ad Verg. buc. 10, 46, p. 124 Thilo, per il quale: hi autem omnes versus Galli sunt, de ipsius translati carminibus, la contiguità fra il brano virgiliano e l’ipotesto per noi perduto di Cornelio Gallo si serra ulteriormente, all’interno forse di un piú esteso riecheggiamento che poteva allargarsi, come ipotizzato dallo Skutsch 124, all’intero monologo del poeta abbandonato da Licoride. Di certo, almeno nei vv. 46-49 del testo eclogico, lo zoccolo asindetico di forme esclamative, l’appello diretto all’amata, l’anastrofe della particella a, di timbro patetico, la forte torsione degli iperbati, l’iterato 122   Motivo che ritorna in Prop. 1, 8a, 4: sine me, dove però la catena metrica fa della preposizione il pirrichio parte del dattilo di prima sede e del pronome l’arsi dello spondeo di seconda. 123  Condizionata dall’allitterazione contigua sine sola, cfr. Cucchiarelli 2012, p. 512. 124  Skutsch 1901, pp. 18 sgg., sul quale cfr. Ross 1975, p. 86 e n. 2.

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avvicendarsi di pronomi di prima e seconda persona, in parallelo a una tendenza ben documentata nel papiro corneliano, manifestano un espressionismo stilistico lontano dalla sobrietà usuale di Virgilio, il che trasmette al lettore la percezione di un plesso estraneo al connettivo di appartenenza, sia che si tratti di una citazione in senso stretto, sia che si tratti di una ripresa allusiva in toto o in parte.

6.  Properzio dinanzi a Cornelio Gallo: ‘modello’ poetico e icona figurale È tempo di esaminare in breve le dichiarazioni metaletterarie di Properzio dove si avverte, in modo diretto o surrettizio, l’influsso di Cornelio Gallo. Punto di partenza, la chiusa della decima elegia del II libro, passo alquanto intricato (2, 10, 25-26): Nondum estiam Ascraeos norunt mea carmina fontis sed modo Permessi flumine lavit Amor.

L’autore proclama che i suoi versi non conoscono ancora le fonti ascree giacché Amore li ha appena bagnati nell’acqua del Permesso 125. Il recente lavacro operato dal dio ribadisce la sorgiva ispiratrice dalla quale Properzio non è ancora in grado di allontanarsi, contrariamente alle aspettative fiduciose professate all’esordio del componimento, motivo su cui tornerò a breve. Nel nesso a ponte Ascraei ... fontes è adombrata la poesia ‘epica’ di stampo esiodeo 126, nel nesso a contatto Permessi flumine si legge il rimando alla poesia elegiaca di cui Gallo è personificazione emblematica, tuttavia scelta iconografica e veste espressiva risultano dal noto incrocio di due esametri virgiliani: Georg. 2, 176 (Ascraeumque cano Romana per oppida carmen) e buc. 6, 64 (errantem Permessi ad flumina Gallum) 127. 125 Opportuno il rinvio alla periodizzazione compositiva in rapporto alle varie epoche della vita proclamata in 2, 10, 7-8 da parte di Mader 2003, p. 126. 126   Fuori strada Skutsch, 1901, p. 36; Enk 1962, p. 166 e D’Anna 1981, p. 287 nell’interpretare la clausola Ascraeos fontes quale simbolo della musa epica tout court. Reciso già il parere di Ross 1975, p. 119: «It is ... clear that the Ascrean fountains cannot stand for epic on Roman, Augustan Themes». 127  Scrive Cucchiarelli 2012, p. 359: «Il fiume Permesso nasce, sembra, dalla fonte Aganippe (10, 12) e quindi scorre ai piedi del monte Elicona: già Esiodo,

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Logica stringente e sapiente concatenazione tematica presiedono all’operazione di riscrittura: di sicuro Properzio non ha dimenticato come lo scenario stesso della consacrazione poetica di Gallo delineato in buc. 6, 64-73 prevedesse da parte delle Muse la consegna dei calami in precedenza donati all’Ascraeus senex (v. 70), alludendo al genere di poesia che Gallo avrebbe dovuto coltivare a sua volta. Nondum etiam, dice l’attacco del verso e, come definitivamente chiarito da Álvarez Hernández 128, si tratta di una formula rivelatoria de «la imminencia transitoriamente frustrada, y refleja el sentimento di un atraso artístico». La grana linguistica, picchiettata di allusioni al formulario virgiliano (sanctos ausus recludere  f o n t i s / A s c r a e u m q u e  cano Romana per oppida  c a r m e n ) ,  asseconda l’elegiaco nel dichiarare la propria attuale inanità a realizzare l’iniziale proposito di lustrare aliis Helicona choreis  / et campum Haemonio iam dare ... equo (2,  10, 1-2), annodando Virgilio georgico a Virgilio bucolico: dal primo proviene l’iconografia dell’annunzio programmatico, dal secondo l’indiretto, ma eloquente cenno ad un asse poetico che salda Esiodo prima a Cornelio Gallo, poi a Virgilio e infine a Properzio stesso, nel novero di una scelta effettuata, nel mondo ellenistico, da Call. Aet. 1, fr. 2, 1-5 ed ep. 27 Pf.  129. Al timbro recusatorio dell’esametro col distinguere tra il Permesso, dove le Muse si bagnano, e la vetta dell’Elicona, dove esse danzano e cantano (theog. 5-8), può aver suggerito una gradazione di valori (ma cfr. Nicand. ther. 12 Ἡσίοδος ... παρ᾽ ὕδασι Περμησσοῖο); figurava già nel sogno di Callimaco, aet. fr. 2a, 20 (add. p. 103) Pf. = 3, 7 Mass. Chi, come Gallo, “vaga” sulle rive del Permesso, non si può dire che stia tentando il luogo poetico piú elevato, la vetta dell’Elicona: sarà appunto una tra le Muse a condurlo in altura (65 in montis) e lí egli troverà, in piena coerenza con Esiodo, l’intero coro di Febo (66). Come allegoria della poesia erotica il Permesso sarà nominato da Properzio nella conclusione di 2, 10: nondum etiam Ascraeos norunt mea carmina fontes, / sed modo Permessi flumine lavit Amor (25-26; ma cfr. 2, 13, 4): va notato, però, che per Properzio le «sorgenti esiodee» si identificano con l’epos storico romano, secondo il modello di Ennio, che nel prologo degli Annales, abbeverandosi alla fonte Ippocrene, aveva saldato la scena di iniziazione esiodeocallimachea con la tradizione epico-guerresca (ann. 1-10 Sk.; anche var. 45 V.2), già ricusata da V. nel proemio dell’ecloga e che lo stesso Properzio ricuserà in 3, 3, spec. 1-6. Qui, dunque, il vagare di Gallo in un luogo cosí riconoscibilmente esiodeo e callimacheo potrebbe voler piú semplicemente indicare un suo già vivo interesse per la poesia eziologica: su di esso interverrebbero la Musa e Lino». 128  Cfr. Álvarez Hernández 1997, pp. 117-118. La citazione ricorre a p. 118. 129   Puelma Piwonka 1982, pp. 297-298 ipotizza che in questo spaccato virgiliano Gallo abbia simboleggiato il proprio passaggio, analogo a quello di Pro-

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tiene dietro l’annuncio della presente vena ispiratrice racchiuso nel pentametro: un’opposizione di metri rispondente ad un’opposizione di generi e tematiche 130. Infatti, gli Ascraei fontes, ossia l’Ippocrene (vd. Hes. Theog. 6) 131, ed il Permesso, fiume consacrato alle Muse, che scorre ai piedi dell’Elicona (Schol. Iuv. 7, 6), metaforizzano il contrasto fra ‘poesia elevata’ e ‘poesia bassa’ 132: le dislocazioni dei due idronimi, con gusto alessandrino, simboleggiano l’inconciliabilità di due tipi di Dichtung con implicazioni poetologiche inequivocabili. Infine, nella generale riconfigurazione di icone e tropi di marca, un significato particolare detiene il sotteso rimando all’Esiodo di Theog. 5-8 133, per il quale, dopo il bagno nel Permesso, le Muse davano inizio alle danze sull’Elicona. Non piú di un rinvio suggerito alle competenze culte del proprio lettore, smaterializzato com’è dall’atmosfera del nuovo fondale di tenore metapoetico in cui un recente intervento di Cupido (modo v. 26) conferisce una precisa identità (contenutistica ed espressiva) all’ispirazione del suo cantore, posticipando a data imprecisata traguardi letterari piú ambiziosi. Se in 3, 5, 19-20 «l’aver frequentato l’Elicona nella prima giovinezza e l’aver intrecciato le mani nelle danze delle Muse» 134 costituirà motivo di vanto retrospettivo su orma esiodea in antitesi all’attuale condizione in cui versa Properzio, in 2, 10, 25-26 l’immagine diversamente modulata crea una bipolarità contenutistico-formale fra l’attività compositiva presente e l’attesa di una sua svolta tematica e stilistica. In sostanza l’autore si rende conto che, rispetto ai toni fiduciosi esibiti all’inizio dell’elegia

perzio e per lui modelizzante, fra la poesia erotica degli Amores e la sacrale elegia eziologica, avvalendosi delle simbologie presenti nel prologo e nell’epilogo degli Aetia callimachei. 130  Sul che si veda soprattutto Lieberg 1963, pp. 263-265. 131   Di tale topica proemiale discute attentamente Fedeli 1985, pp. 116-118 nel commento a Prop. 3, 3, 1-2. 132   Cfr. Lieberg 1963, pp. 264-265; Puelma Piwonka 1982, p. 295; Wyke 1987, pp. 51-52; Álvarez Hernández 1997, p. 151; Lyne 1998, pp. 26-28; Tatum 2000, pp. 399-400; Fedeli 2005, p. 331. 133  Come richiamato da Lyne 1998, p. 26 e, sulle sue tracce, da Tatum 2000, pp. 407-408. 134 Trad. di Fedeli 1985, p. 186 cui si rinvia peraltro alle relative note di commento (pp. 186-187).

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(Sed tempus lustrare aliis Helicona choreis / et campus Haemonio iam dare tempus equo vv. 1-2), non è ancora maturato il momento (nondum etiam v. 25) di tentare nuove vie. Per batterle occorrerà un arco di tempo indefinibile. Pertanto, ancora in 2, 13a, 1-8, il dio Amore imporrà al poeta un rigido codice cui attenersi: Non tot Achaemeniis armatur † etrusca † sagittis, spicula quot nostro pectore fixit Amor. Hic me tam gracilis vetuit contemnere Musas, iussit et  A s c r a e u m  sic habitare  n e m u s , non ut Pieriae quercus mea verba sequantur, aut possim Ismaria ducere valle feras, sed magis ut nostro stupefiat Cynthia versu: tunc ego sim Inachio notior arte Lino.

Cupido arciere 135 procede per interdetti e per ordini: detta un campionario di norme precise a cui Properzio, suddito fedele, non può che attenersi. Gli proibisce tam gracilis ... contemnere Musas (v. 3); gli ordina  A s c r a e u m  sic habitare  n e m u s  (v. 4), non perché le querce pierie seguano il suo canto (di Properzio) o egli possa guidare gli animali selvatici nella valle Ismaria, bensí perché Cinzia resti stupita (stupefiat v. 7) dinanzi ai suoi versi. In tal modo il poeta elegiaco sarebbe piú noto dell’inachio Lino per la propria arte. Di tale manifesto letterario mi sono occupato altrove 136, sicché in questa sede vorrei indugiare piú che altro sulle suggestioni corneliano-virgiliane presenti sull’abbrivo del testo. Comincerò con Virgilio, senza però insistere piú di tanto sulla cornice di buc. 6, 64-73, la celebre consacrazione 137 poetica di Cornelio Gallo, guidato da una delle Pieridi sui monti Aonii dove al suo apparire si leva in piedi il coro di Febo, mentre Lino, divino carmine pastor (v. 67), gli offre come dono da parte delle Muse le canne un tempo offerte a Esiodo, con le quali questi era capace, cantando, di trarre i rigidi frassini dai monti. Non molti 135  Sull’iconografia di Cupido arciere mi sono pronunciato in Landolfi 2008, pp. 124-125. Riguardo alla sezione iniziale dell’elegia vd. soprattutto Álvarez Hernández 1997, pp. 148-153. 136  Cfr. Landolfi 2008, pp. 126-127. 137 Piú che di ‘consacrazione poetica’ di Cornelio Gallo sarebbe meglio, forse, parlare con D’Anna 1983, p. 4 di «auspicio ad una ... trasformazione».

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i punti di contatto riscontrabili fra i due scenari: prima il ricorso all’epiteto geografico Ascraeus, in un caso concordato al bosco (Prop. 1, 13a, 4), nell’altro al vecchio beota per antonomasia, Esiodo (Verg. buc. 6, 70), poi il cenno alle doti sacro-magiche della poesia cui l’Assisiate rinuncia, bramoso com’è di sbalordire solo Cinzia con i suoi versi (Prop. 1, 13a, 5-7), mentre queste hanno permesso al Lehrdichter ascreo cantando rigidas deducere montibus ornos (Verg. buc. 6, 71) alla stregua di Orfeo 138. E ancora, la menzione di Lino – superato nella capacità incantatoria da Properzio se egli riuscirà a stupire Cinzia (Prop. 1, 13a, 8) – presentato quale investitore poetico di Cornelio Gallo nella sesta Ecloga virgiliana (Verg. buc. 6, 67-70). In 2, 13a, rivelando dettami e interdetti del dio Amore, Properzio prefigura per sé una carriera letteraria diversamente orientata rispetto alla ‘metemorfosi’ biotica affrontata da Gallo: la svolta didascalico-eziologica ingiunta alla musa corneliana dalla richiesta di cantare la Grynei nemoris ... origo (Verg. buc.  6, 72) si rovescia nella coerente prosecuzione, da parte del poeta umbro, del percorso elegiaco da tempo intrapreso nel segno di Callimaco (graciles Musae 139 Prop 2, 13a, 3 // Μοῦσαν ... λεπταλέην Call. Aet. fr. 1, 24 Pf.). Una sorta di riaffermazione di identità e personale e letteraria sotto l’egida del dio che ispira, protegge e sorveglia i passi del poeta erotico, basti osservare la struttura sintattica di 2, 13a, 5-7, organizzata nelle forme di una Priamel (non ut ... aut ... sed ... ut) articolata per negazioni e correzioni, a mo’ di itinerario didattico e letterario al contempo. Amore non smette di segnare il cammino che Properzio deve seguire, almeno dai tempi in cui, programmaticamente, gli ha insegnato a castas odisse puellas (1, 1, 5): la sua precettistica procede per gesti eloquenti, come il far abbassare lo sguardo superbo al poeta, insegnandogli ad avere in uggia le fanciulle caste e a vivere dissennatamente (1, 1, 3-6), ma via via si sposta dal terreno della didassi comportamentale a quello della didassi letteraria, sí da in-

138  Né si trascurino i vv. 27-30 della VI Ecloga, dedicati alla forza incantatoria di Orfeo. 139  Sulla sostanziale convergenza semantica, nello spazio metaletterario, fra tenuis e  gracilis, il punto in Fedeli 2005, p. 368. Da riconsiderare comunque le notazioni di Stroh 1971, pp. 80-82.

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dirizzare le scelte artistiche e segnare i margini dell’attività compositiva del ‘discepolo’ in un rapporto speculare fra vita e poesia. Per altro verso si noterà come in 2, 13a, 4 il bosco ascreo 140 presidiato dall’Assisiate anticipi in buona parte il nemus di Callimaco e Filita evocato in 3, 1, 1-2, del quale costituisce icona complementare, e, come non ha mancato di ribadire Fedeli, «Legato ad habitare, sic («in tal modo») sta ad indicare – fuor di metafora – che la sfera d’azione del poeta è limitata ai carmi d’amore» 141. In effetti, per il momento questo bosco rappresenta uno spazio al di là del quale a Properzio è vietato andare dal dio Amore, quel dio che non solo ha appena bagnato i suoi versi nell’acqua del Permesso (2, 10, 26) e legiferato riguardo al perimetro compositivo entro cui scriverli (2, 13a, 3-4): Amore è colui che dalla tenuis Musa properziana ricava gloria magna (2, 12, 22), un proclama orgoglioso, questo, della grandezza poetica dell’elegiaco ad onta dell’apparente tenuitas dei suoi distici. Tuttavia il gioco dei travestimenti poetici, delle sceneggiature in cui divinità (e cortei) intervengono a sancire persistenze o ‘trapassi’ da un genere letterario ad un altro serve precipuamente a segnare la diversificazione fra predecessore e seguace: alla ‘svolta’ contenutistico-formale abbracciata da Cornelio Gallo sullo sfondo della consacrazione poetica in senso esiodeo-callimacheo promossa dalle Muse, complici il coro di Febo e Lino, non fa riscontro, malgrado le ambizioni nutrite, la fedeltà ‘obbligata’ di Properzio alle graciles Musae. L’interdetto di Cupido sigilla la perseveranza nella linea poetica sin qui seguita: una risposta eloquente all’interrogativa di apertura del secondo libro delle elegie (2, 1, 1-2): Quaeritis unde mihi totiens scribantur amores, unde meus veniat mollis in ora liber

dove, in posizione iconica, spiccano il sostantivo amores, allusivo forse sia al contenuto sia alla titolatura della silloge del ‘modello cogente, modello sfuggente’, e la manifesta predilezione per la poesia mollis. E qui, per dirla con Fedeli, «originariamente 140  Circa l’esatta accezione della clausola Ascraeum nemus di 2, 13a, 4 rispetto ad Ascraei fontes di 2, 10, 25 vd., quantomeno, Lieberg 1963, p. 265; D’Anna 1986, p. 63; Fedeli 2005, p. 369. 141  Cfr. Fedeli 2005, p. 369.

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usato quale termine di poetica per designare in genere la poesia tenue e la musicalità del verso che la caratterizza ... nei poeti d’amore mollis diviene per influsso ellenistico (l’uso analogo di μαλακός per il pentametro) un epiteto tecnico che definisce la musicalità del pentametro in contrasto con il versus durus dell’epica e il contenuto tenue della poesia amorosa» 142. Nella pluralità delle dichiarazioni programmatiche che trapuntano il secondo libro properziano, coesa rimane l’idea di fondo: fedeltà alla poesia erotica, fedeltà alla tenuità del verso, rispondente alla tenuità dei temi affrontati.

7.  Cornelio Gallo, Properzio e il peso della ‘historia’ Commentando la scoperta dei frammenti corneliani nel 1978, Francis Cairns ha affermato: «The most helpful phrase in the Qas .r Ibrîm payrus is Romanae ... historiae: it provides the point of departure for this study because it provides unshakeable proof of the meaningfulness of the Gallan historia complex» 143. Rileggiamo il testo corneliano (fr. 3 Blänsd.) da cui muovono le stimolanti pagine dello studioso: Fata mihi, Caesar, tum erunt mea dulcia, quom tu maxima Romanae pars eri‹s› historiae postque tuum reditum multorum templa deorum fixa legam spolieis deivitiora tueis.

Una querelle ininterrotta ha accompagnato l’interpretazione di questi distici in rapporto all’identità del Caesar loro destinatario: Cesare o Ottaviano? Esorbita dai confini della mia analisi un ragionato consuntivo delle singole prese di posizioni, in merito alle quali ci si può avvalere delle rassegne di Barchiesi 144, di Morelli 145 e della Gagliardi 146: in sostanza, superiori consensi riscuote a tutt’oggi l’ipotesi di Nisbet, primo editore, in base a cui Cornelio Gallo si rivolgerebbe a Giulio Cesare alla   Citazione estrapolata da Fedeli 2005, p. 45.   Cosí in Cairns 2006, p. 83. 144  Barchiesi 1981, pp. 153-166. 145  Morelli 1984-1985, pp. 140-181; Id. 1988, pp. 104-119. 146  Gagliardi 2009, p. 46, n. 11; Ead. 2010, p. 55, n. 2. 142 143

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vigilia della progettata spedizione contro i Parti (45-44 a.C.) 147. Ci troveremmo dunque al cospetto di un elogio dalle venature iperboliche che proiettano il dittatore in un alone di grandezza incommensurabile: con la vittoria sui Parti Roma avrebbe finalmente risolto un problema pluriennale, eliminato una fonte di continue tensioni, riscattato l’ignominia di Carre del 53 a.C. Si pensi alle testimonianze di Dione Cassio 43, 51 o di Appiano bell. civ. 2, 110  sgg. per avere un’idea plausibile del clima di attese e dell’entità dei preparativi cesariani in vista di una campagna ‘risolutiva’, almeno nelle aspettative di chi la preparava. In uno scenario politico di tale entità, l’insistenza della pubblicistica filocesariana sulla dovizia di spolia derivanti dal saccheggio delle popolazioni partiche risulterebbe legittima, anche alla luce del battage che, in occasione di altre operazioni belliche (si pensi a quelle contro la Britannia di pochi anni prima e alle testimonianze di Cat. 11, 11; 29, 4 e 20; Cic. ad Quint. fratr. 2, 13, 2 con l’aggiunta di Suet. Caes. 47), si era diffuso sulla consistenza delle ricchezze da strappare ai nemici, sull’entità dei profitti da ricavare dalle nuove conquiste. A questo stesso tema sembra far riferimento, pur se in modo indistinto, il testo di Cornelio Gallo, prospettando i multorum templa deorum / f i x a  ... s p o l i e i s d e i v i t i o r a ,  dove la genericità dell’attributo multus riferito ai celesti dilata l’effettivo quoziente dei beni che Cesare offrirà loro dopo aver sconfitto i Parti. L’omaggio al Caesar verte sulla studiata connessione fra i fata poetae e il destino bellico del suo dedicatario: il cum correlativo al tum iniziale marca la piena compartecipazione emotiva del poeta ai trionfi del condottiero, da cui in sostanza dipende la felicità stessa della sua sorte. Il poliptoto verbale (erunt / eris) allaccia in un nodo stretto i due destini, mentre il gioco ribattuto del pronome personale e dell’aggettivo possessivo (mihi ... mea) traduce la forte sympatheia di chi scrive alle sorti belliche del destinata-

147  In Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 152. Da valutare, ad integrazione, i rilievi di Putnam 1980, p. 49; Graf 1982, p. 26; Sbordone 1982, p. 61; Tandoi 1982-1983 (= 1992, p. 169); Petersmann 1983, p. 1655; Nicastri 1984, pp. 139 sgg.; Fairweather 1984, pp. 173-174; Whitaker 1984, p. 55; Morelli 1985, pp. 162-168; Amato 1987, pp. 322-226; Courtney 1993, p. 265; Pinotti 2002, p. 63; Capasso 2003, pp. 98-99; Cairns 2006, p. 408; Gagliardi 2009, pp. 47-63.

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rio dell’epigramma, il cui verso iniziale risulta non solo scandito dalle particelle correlative appena ricordate (tum ... quom), bensí martellato da effetti fonici vistosi (dentale sorda seguita da vocale variabile fata ... tum erunt mea dulcia, quom tu, che, nel caso dell’elisione, produce un effetto di ‘recinzione’ fonetica – terunt –) in una sequenza del tipo DSSD + DS. Comunque, in àmbito poetico non è questa la prima volta che ricorra il sostantivo historia, registrabile in Lucilio fr. 612 Marx = 26, 23 Charpin (veterem historiam, inductus studio, scribis ad amores tuos), né, in effetti, in poesia il reimpiego del suddetto termine è tributario sempre e comunque nei rispetti di Gallo. Nella raccolta properziana in almeno cinque casi l’impiego del lemma historia, vuoi per ragioni metriche, vuoi per particolare rilievo semantico, vuoi per concordanza aggettivale, sembra direttamente influenzato dal testo corneliano in oggetto 148: tu quoque uti fieres   n o b i l i s   h i s t o r i a m a x i m a  de nihilo nascitur   h i s t o r i a ite et   R o m a n a e  consulite   h i s t o r i a e et caput argutae praebeat   h i s t o r i a e Famam, Roma,   t u a e  non pudet   h i s t o r i a e

(1, 15, 24) (2, 1, 16) (3, 4, 10) (3, 20, 28) (3, 22, 20).

Dei passi qui riportati, il terzo ripete alla lettera, con identica divaricazione a ponte e identica posizione metrica rispetto al testo corneliano, la clausola Romanae ... historiae inserendola in un diverso riquadro in cui saranno gli omina fausta a dover provvedere alla storia di Roma, adoperandosi per essa 149. Il quinto, viceversa, fa riferimento alla Fama che non si vergogna certamente della storia di Roma, tale è il valore militare e morale dell’Urbe 150. Ben altra la cornice di 2, 1, 16, dichiaratamente erotica, in cui qualunque cosa faccia Cinzia diviene per il poeta soggetto di una maxima ... historia, per non parlare poi di 1, 15, 24, dove il termine historia va collegato alla funzione paradigmatica di Cinzia assurta al rango di eroina ‘modellizzante’ (dopo Issipile, Evadne, Alfesibea), nell’accezione compresa fra ‘storia’

148  Notazione di Cairns 2006, p. 84. Sull’argomento era già intervenuto Putnam 1980, pp. 54-55. 149  Si legga la nota ad loc. di Fedeli 1985, p. 165. 150  Vd. sul passo il commento di Fedeli 1985, p. 643.

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e ‘leggenda mitologica’ 151. Da ultimo, il caso di 3, 20, 28, dove l’inusuale giuntura argutae ... historiae allude alle dicerie che infameranno chi per primo, fra i contendenti, avrà infranto il patto d’amore giurato alla presenza di Cupido, suo garante. Ma dove il legame fra Cornelio Gallo e Properzio si fa piú intenso? Per tentare una risposta plausibile al quesito, piú che alla specifica reminiscenza letterale bisognerà guardare ad un’eventuale convergenza contestuale. Per essere piú chiari, occorrerà risalire a quei passi in cui il poeta di Assisi preconizzi trionfi militari per Augusto. Al di là dei differenti imperatores di turno, molto, molto probabilmente Giulio Cesare per Gallo, di certo Ottaviano per Properzio, la condizione di θεατής consente al poeta elegiaco di assumere il ruolo del dedicatario di un encomio al vincitore, adeguandone di volta in volta l’intonazione. L’ordito del testo corneliano sembra aver lasciato risonanze soprattutto in 3, 4, 9-16, passo in cui si elogia la meditata spedizione di Augusto contro i popoli orientali, Parti inclusi (Arma deus Caesar dites meditatur ad Indos v. 1), che, negli auspici di Properzio, dovrebbe espiare l’onta della sconfitta di Crasso (v. 9). Ripetutamente l’autore indugia sui ricchi introiti prefigurati dalla campagna (dites ... ad Indos v. 1; gemmiferi ... maris v. 2; magna ... merces v. 3; spoliis oneratos Caesaris axis v. 13; praeda sit haec illis v. 21) 152, quasi smorzando la carica ideale che ne regge la progettazione. Un procedimento, questo, che nel 1981 ha indotto Alessandro Barchiesi a sostenere: «La situazione dell’epigramma b (= 4 Blänsd.) si trova riflessa, come entro uno specchio deformante, in Properzio 3, 4» 153. Ivi, la visione delle spoglie di guerra quali emblemi di gloria e quale omaggio destinato ai celesti preannunciata da Cornelio Gallo, viene sostituita da un catalogo, variamente articolato, dei beni razziati ai nemici. Tale rubrica, dopo un esordio che sta in parechesi con quello corneliano (Fata mihi Caesar // Arma deus Caesar), procede con un andamento del tutto peculiare, dopo il quale il legame di Properzio con le gesta di Augusto sarà configurato esteriormente sulla traccia di quello imbastito a suo tempo   Come definitivamente chiarito da Fedeli 1980, p. 351.   Cfr. Wilkinson 1960, p. 1101. 153  Barchiesi 1981, p. 160. 151 152

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da Gallo con le imprese del proprio Caesar (Fata mihi, Caesar, tum erunt dulcia, quom tu // ante meos obitus sit precor illa dies / qua videam...), ma, nella sezione dedicata alla scena del trionfo, Properzio si ritaglierà un angolo visuale intimistico, raffigurandosi appoggiato al grembo della sua donna (vv. 11-18). Ammesso dunque che il retroterra storico presunto dai testi di ambedue gli elegiaci coincida con due spedizioni contro i Parti, l’una prefigurata da Cesare, l’altra dal nipote (Partha tropaea v. 6), significativa appare proprio la ‘postazione’ da cui ora Properzio annuncia di voler assistere 154 alle celebrazioni augustee della sconfitta comminata ai nemici (3, 4, 9-16): omina fausta cano. Crassos clademque piate! 10    ite et  R o m a n a e  consulite  h i s t o r ia e ! Mars pater et sacrae fatalia lumina Vestae, ante meos obitus sit precor illa dies, qua videam,  s p o l i i s  oneratos Caesaris axes, ad vulgi plausus saepe resistere equos, 15  inque sinu carae nixus spectare puellae incipiam et titulis oppida capta  l e g a m !

inque sinu carae ... puellae (v. 15), senza agognare al ruolo di cantore ufficiale della spedizione, diversamente dall’annuncio di 2, 10, 19-20, dove ben altre ambizioni lo avevano spinto a presentarsi come magnus /... vates, cantore dei castra principis (vv. 1920), destinato per questo alla grandezza stessa (magnus ero v. 20). In piú, in 3, 4 la prospettiva di un Lebenswahl lontano da quello dei combattenti a caccia di ricchezze (vv. 3-18), cui viene rivolto un distaccato auspicio di buon esito (praeda sit haec  i l l i s , q u o r u m  m e r u e r e  l a b o r e s : / m e  sat erit Sacra plaudere posse Via vv. 21-22). D’altronde, nell’elegia immediatamente successiva, la 3, 5 la campagna partica non starà a cuore al poeta impegnato nei proelia Veneris (stant mihi cum domina proelia dura mea v. 2): riportare in patria le insegne di Crasso sarà compito esclusivo di quanti preferiscono le armi alle gioie d’amore (... vos, quibus arma / grata magis, Crassi signa referte domum vv. 47-48). 154 Riguardo la terna verbale impiegata da Properzio per qualificare il proprio ruolo di spettatore precisazioni in Álvarez Hernández 1997, p. 238. Sul divario di posizioni tenute rispettivamente da Gallo e da Properzio nei confronti del ritorno vittorioso del Caesar di turno cfr. Putnam 1980, p. 54.

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Torniamo a Prop. 3, 4. Precisati i punti di vista da cui Cornelio Gallo fr. 4 Blänsd. e Properzio 3, 4, 15-16 guardano al progetto di operazioni vittoriose in Partia (e zone limitrofe), particolare significato assumerà la contiguità iconica di superficie. Nel transito dal primo al secondo dei due testi, la lettura ‘epigrafica’ 155 degli spolia affissi ai templi degli dèi si trasforma nella lettura degli oppida capta ad opera di Augusto 156. Come ha sottolineato la Danesi Marioni, «Poiché le spoglie donate alle divinità tutelari di Roma recavano i tituli con l’indicazione del nome del dedicante, alla lettura di essi molto probabilmente allude Gallo, mentre Properzio, che usa la stessa forma verbale legam, la riferisce ai tituli triumphales, cioè ai “cartelli trionfali” che sfilavano nel corteo trionfale, segnalando i nomi delle città o roccaforti conquistate, delle regioni attraversate dall’esercito vittorioso» 157. La scelta del medesimo segno linguistico, la coincidenza della voce verbale, l’immagine di poco anteriore degli spolia non fanno dubitare degli echi corneliani profusi in questo brano. Tuttavia, in merito alla ritornante pubblicistica sulla spedizione partica ideata da Cesare prima e da Augusto poi, mi chiedo se l’epigramma di Gallo non abbia potuto rappresentare una sorta di pattern vero e proprio, di ‘archetipo’ in qualche misura passibile non solo di imitazione diretta, bensí anche di riscrittura giocosa e parodica a distanza. E con il termine ‘distanza’ intendo riferirmi non solo a un lasso di tempo significativo, bensí anche ad una divaricazione intenzionale dagli accenti encomiastici impiegati da Cornelio stesso, il cui testo, si badi bene, per noi resterebbe il primo a misurarsi con il tema delle imprese in Oriente nella storia dell’elegia latina (o dell’epigramma latino). Di certo, nell’epoca compresa fra la tarda Repubblica e il Principato, una vittoria definitiva sui Parti avrebbe risolto uno 155  Sull’evenienza, molto concreta, che qui il verbo legere sia correlato alla prassi di scorrere i tituli recati in trionfo, fa testo il contributo, per altri versi non persuasivo, di Mazzarino 1980. Su questa stessa linea, in sostanza, Newman 1980, p. 86; Whitaker 1981, pp. 89-90; Schoonhoven 1983, pp. 73-78; Gómez Pallarès 2005, pp. 104-109. 156  Notoriamente, durante i trionfi, a Roma si usava riportare su pannelli i nomi delle città conquistate e le imprese compiute dal triumphator (vd. Plin. nat. 5, 37; Suet. Iul. 37, 2): sul tema ragguagli in Fedeli 1985, pp. 168-169. 157  Cfr. Danesi Marioni 1984, p. 94. Per una panoramica sull’argomento cfr. Galinsky 1969, pp. 89-90 e passim.

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dei quesiti piú spinosi che la politica estera dell’Urbe annoverasse. Emblematiche, in tal senso, le lodi che volta per volta si potevano levare all’indirizzo di famosi condottieri (si pensi all’elogio di Cassio in Cic. Phil. 11, 35, 6-7: Magnas ille res gessit ante Bibuli, summi viri, adventum, cum Parthorum nobilissimos duces maximas copias fudit Syriamque immani Parthorum impetu liberavit), senza considerare poi l’ansia che affiora già dall’epistolario di Cicerone a proposito del Parthicus metus (cfr., e.g., ad Fam. 2, 10, 4; 17, 1, 3 e 6; 3, 8, 10; 8, 5, 1; 7, 1; 10, 1, 2-3; 12, 19, 2; 15, 1, 1, etc. per tacere dell’epistolario ad Attico). Eppure, anche una sospirata vittoria sui Parti può risultare meno allettante di una notte d’amore strappata a Cinzia grazie ad un’ostentata indifferenza: cosí afferma, con tono perentorio, Prop. 2, 14, 21-28 158, dedicando a Venere protettrice magna dona: pulsabant alii frustra dominamque vocabant: mecum habuit positum lenta puella caput. haec mihi devictis potior victoria Parthis, haec s p o l i a , haec reges, haec mihi currus erunt. 25  m a g n a  ego  d o n a  tua  f i g a m ,  Cytherea, columna, taleque sub nostro nomine 159 carmen erit: has pono ante tuam tibi, diva, propertius aedem exuvias, tota nocte receptus amans.

Spolia, reges, currus, l’inventario materiale e umano di un’eclatante successo militare in Partia, tale da far inorgoglire qualunque comandante reduce dai campi di battaglia, per il poeta (mihi v. 24) coincide semplicemente con l’aver indotto Cinzia a una notte d’amore a danno di altri spasimanti: questa vittoria gli appare preferibile ad una sui nemici d’Oriente, questa vittoria rappresenterà da sola bottino, re e carri. L’immagine stessa dei donativi affissi ad una colonna del tempio di Venere può evocare i multorum templa deorum / f i x a  ...  s p o l i e i s  deivitiora di Cornelio Gallo,

158 Che un «esempio, irrispettoso della politica estera del Principe appare lo strale lanciato dall’amante, lieto della notte trascorsa con l’amata, se gli ἀφροδίσια ottenuti gli sembran preferibili alla vittoria sui Parti» è opinione di Lucifora 1999, p. 22. 159  Alla correzione in munere pensa, sulla scorta di un’intuizione dello Scaligero, Heyworth 2007, p. 172, riportando la connessione fra titulus e  munera di Ov. am. 2, 13, 24-26.

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ma si consideri lo spessore del gesto dell’affissione 160 degli spolia, tutto ritessuto in chiave erotica, oltre alla diversa destinataria delle offerte votive, la dea dell’amore 161, ricompensata per quanto concesso al receptus amans. Nuova anche l’identità di chi dedica le exuviae corredate di iscrizione 162, il poeta stesso, qui nelle vesti di generale trionfatore intento a consacrare le spoglie a Citerea, osservando le convenzioni previste dal cerimoniale dei trionfi. Di sicuro il tema portante di due epigrammi meleagrei (A.P. 5, 191 e 12, 23), gli σκῦλα Ἀφροδίτης 163, ha pesato sulla riscrittura di una sceneggiatura ‘votiva’, quale quella codificata da Corn. Gall. fr. 4: ne ha alterato l’impianto, ne ha mutato i personaggi interni, inducendo a rielaborare in chiave erotica il rituale dell’affissione del bottino. Ma la Partia con la sua condotta ribelle e indomita non si limiterà a ossessionare Cesare prima e Augusto poi: con condizionamenti psichici di tutt’altra entità, potrà influenzare le aspirazioni alla gloria di un personaggio senz’altro meno celebre, pronto però ad abbandonare gli affetti piú cari in cerca di affermazione personale. È il caso di Postumo 164 in Prop. 3, 12, 1-4, cui il poeta obietta: Postume, plorantem potuisti linquere Gallam, miles et Augusti fortia signa sequi? tantine ulla fuit   s p o l i a t i   gloria   P a r t h i , ne faceres Galla multa rogante tua?

In un clima politico in cui la dedica di spoglie partiche riverbera l’ansia di rivalsa nei confronti del popolo che ha oltraggiato l’esercito romano in modo memorabile, tra Verg. Aen. 1, 289; 7, 605-606; Prop. 3, 4, 6 e 9-14; 5, 47-48; 12, 3; 4, 6, 80;

160 Circa l’uso di figo quale verbo tecnico delle offerte votive ai templi, materiali in Fedeli 2005, p. 431. 161   Del riecheggiamento di questo passo in Ov. am. 2, 12, 5-6 discussione in Fedeli 2005, p. 430. Vd. comunque Holzberg 2005, pp. 437-441. 162 Osseva Syndikus 2006, p. 275: «... like the generals who immortalize their victories in epigraphs he will put up a dedicatory epigraph, to the goddess of love in her temple to thank her». 163  In materia vd. Schulz-Vanheyden 1969, pp. 93 sgg. 164  Sulla cui identificazione con C. Propertius Postumus, destinatario anche di Hor. c. 2, 14, cfr. la messa a punto di Fedeli 1985, p. 397 e, soprattutto Eck 2014, pp. 9-10.

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Hor. ep. 1, 18, 56; c. 4, 15, 6-8 165, ricorrono e si integrano le immagini dei futuri trionfi sull’Oriente 166 e di bottini e di insegne di guerra strappati agli avversari, mentre una vera e propria deificazione attende il princeps, stando all’annuncio di Hor. c. 3, 5, 2-4 (praesens divus habebitur / Augustus adiectis Britannis / imperio g r a v i b u s q u e   P e r s i s ) 167. Proviamo a delineare delle conclusioni. Per quel che riguarda i rapporti intercorsi fra Properzio e Cornelio Gallo, dopo la scoperta del papiro di Qas .r Ibrîm il tenore delle nostre conoscenze risulta alquanto arricchito. Il controverso profilo di questi distici, forse facenti parte di un’unica elegia, forse brani separati di un’antologia poetica, forse ensemble di epigrammi estranei agli Amores, forse esordio o σφραγίς di questi ultimi, forse scelta di brani emblematici tratti da elegie diverse 168, ha autorizzato intanto a retrodatare l’apparizione del motivo del servitium amoris e delle querimonie sulla nequitia puellae restituendo a Gallo la paternità di entrambi e alla sua poesia l’archetipia dell’impiego all’interno dell’elegia latina. Viceversa, per quel che concerne il fr. 4 il complesso legame che intercorre fra le Muse, Licoride e l’autore non consente di congetturare diretti influssi sull’erezione del personaggio della puella carminum iudex compiuto da Properzio soprattutto lungo il secondo libro della sua silloge. Un modello passibile di continue riscritture e riadattamenti risulta viceversa il fr. 3, dedicato alla maxima pars historiae, quali che siano in fin dei conti sia il dedicatario, sia la datazione del componimento: la prospettiva di un trionfo bellico memorabile appare in ogni caso come la prima testimonianza, in ordine di tempo, di un interesse della poesia elegiaca   In successione di tempo si veda Ov. fast. 5, 591-593 e, per il ricordo della morte di Crasso, 6, 465-466 cui segue il profetico distico: ‘Parthe, quid exsultas?’ dixit dea ‘signa remittes, / quique necem Crassi vindicet, ultor erit’. Al gesto della consegna dell’arco e delle insegne romane da parte dei Parti fa riferimento Ovidio stesso in trist. 2, 227-228. 166  Molteplici i brani lirici oraziani in cui si auspica o si prevede la sconfitta dei Parti (o piú in generale, dei popoli orientali, per mano di Ottaviano), cfr. c. 1, 2, 51-52; 12, 53-55; 35, 31-32; 3, 3, 42-44, oltre a 3, 5, 2-4. 167  Vd. Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 152. 168  Panoramica delle posizioni in Capasso 2003, pp. 75-84; Gagliardi 2010, pp. 56-57, nn. 3 e 4. 165

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(o ‘epigrammatico-elegiaca’) nei rispetti di un evento capace di tramutare il Caesar di turno nel personaggio piú significativo della storia romana, il cui ritorno costituisce un’occasione di tripudio sul piano collettivo e sul piano personale. Dunque, sin dall’atto di ‘fondazione’ Cornelio Gallo avrebbe allargato i confini dell’elegia augustea (o dell’epigramma augusteo) a tematiche di carattere politico, una scelta densa di conseguenze per i successori, in specie per Properzio per il quale, presumibilmente, il peso del modello ‘cogente’ dovette nel complesso risultare molto piú significativo di quanto i moderni non possano certificare, moderni costretti in piú d’un caso a rassegnarsi all’etichettatura di Cornelio quale modello ‘sfuggente’ del canzoniere properziano, causa le innumerevoli dispersioni di senso provocate dall’assenza dei suoi testi.

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Giovannella Cresci Marrone

Properzio e le guerre di conquista

La produzione poetica di Properzio si inscrive in un arco cronologico in cui il nascente principato augusteo non solo sperimenta, all’ombra della restitutio rei publicae, nuovi assetti ed equilibri istituzionali, ma anche matura orientamenti di politica estera di grande incidenza 1. Il monobiblos viene pubblicato solo un anno dopo la celebrazione da parte di Augusto dei tre trionfi (13-14-15 agosto 29 a.C.). La prospettiva espansionistica piú attesa per l’erede di Cesare consisteva in quei frangenti nella ripresa dell’offensiva partica, ma il principe si impegna tra il 27 e il 25 a.C. nella pacificazione della Gallia e della Spagna, mentre solo le incursioni di Elio Gallo in Arabia (25-24 a.C.) e di Petronio Gallo in Etiopia (23-22 a.C.) potevano essere interpretate quali iniziative preparatorie di un’offensiva orientale 2. Ma al ritorno di Augusto in Italia nel 23 a.C. si avviavano trattative di pace con la dinastia arsacide che approdavano nel 20 a.C. ad accordi diplomatici i quali, comportando la restituzione delle insegne sottratte a Carre, di fatto, sancivano l’abbandono dell’opzione militare 3. Lo sforzo bellico sarà diretto verso altri vettori; soprattutto quello settentrionale dove l’esordio delle guerre alpine prelude alla provincializzazione del Norico (16 a.C.), nonché, ma dopo la morte del 1  In generale si veda Meyer 1961; ma, piú convincentemente, per le politiche augustee in Oriente dopo Azio cfr. Brunt 1990, pp. 96-109. 2  Sull’attesa dell’ultio di Carre dopo Azio cfr. Zecchini 1980. 3 Sull’opzione diplomatica variamente declinata e le sue conseguenze tra gli ambienti degli intellettuali latini e greci si vedano Braccesi 1976, pp. 179199; Braccesi 1986, pp. 44-55; Cresci Marrone 1993, pp. 32-33.

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G. cresci Marrone

poeta, della Rezia e Vindelicia (15 a.C.), della Mesia (14 a.C.), della Pannonia (9-10 a.C.) e della Germania 4.

Il racconto della guerra Nonostante un quadro tanto dinamico di espansione, risulta impegno assai arduo far emergere dall’opera properziana il tema delle conquiste militari romane poiché il poeta frappone fra sé e l’argomento-guerra il sipario, che non risulta agevole penetrare, di un duplice rifiuto: rifiuto di fare la guerra e rifiuto di trattare la guerra come oggetto di poesia. Tale negazione è espressa in maniera inequivocabile e irreversibile per quanto attiene alle proprie scelte di vita: “non sono adatto alla gloria, né per natura idoneo alle armi” sostiene il poeta nel monobiblos 5, e tale posizione viene iterata nel corso di tutta la produzione, esibita con insistenza, proiettata nel futuro; cosí nel secondo libro, quando Properzio si domanda:“Perché offrire figli ai patrii trionfi?” questa è la risposta che fornisce al suo interrogativo “Dal mio sangue non nascerà mai alcun soldato” 6. E ancora nel terzo libro viene ribadita l’inutilità e vanità della gloria bellica in quanto si asserisce che “il vincitore sarà mescolato alle ombre dei vinti” 7. Tale posizione anti-bellica si coniuga ad una analoga repulsione per il “delirante foro”, come il poeta definisce nel quarto libro l’impegno oratorio e politico 8 e si differenzia radicalmente, dunque, dalle esperienze di vita di altri poeti neoterici, come Cornelio Gallo, Licinio Calvo ed Elvio Cinna, i quali avevano saputo coltivare le proprie inclinazioni intellettuali coniugandole con l’impegno civico e la carriera politico/militare. Non basta; 4  Il vettore settentrionale di conquista e il processo di provincializzazione sono ora aggiornati, soprattutto per quanto attiene alla Germania, da Eck 2004, pp. 11-22. 5  Prop. 1, 6, 29: Non ego sum laudi, non natus idoneus armis. 6 Prop. 2, 7, 13-14: Unde mihi patriis natos praebere triumphis? / Nullus de nostro sanguine miles erit. 7  Prop. 3, 5, 15: Victor cum victis pariter miscebitur umbris. 8   Prop. 4, 1, 131-134: Mox ubi bulla rudi dimissa est aurea collo / matris et ante deos libera sumpta toga, / tum tibi pauca suo de carmine dictat Apollo / et vetat insano verba tonare Foro.

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è in Properzio manifesta la volontà di presentare le proprie scelte come un exemplum alternativo rispetto alle tradizioni del mos maiorum e in questa funzione, volutamente antagonista, si deve leggere l’ostentata utilizzazione antifrastica di lessico, espressioni e metafore tratte dalla gamma semantica della guerra per descrivere, diffondere e difendere il proprio anti-modello. Il servizio d’amore è presentato, infatti, come militia Veneris blandis sub armis 9; la missione di poeta elegiaco è definita tua castra 10; la resa di fronte alla fanciulla amata è quella del supplex che viene ad iura 11; la puella esercita sull’amante il suo imperium 12; l’atto amoroso è traslato come il gesto di impugnare le armi (sumere arma manu 13) e qualificato dulcia arma che, come la conquista militare, propizia foedera, iura, lex 14; gli amici che trascurano il malato d’amore sono equiparati ai commilitoni che non risollevano il caduto 15; dure battaglie sono quelle che il poeta deve combattere con la sua domina 16; è gloria morire d’amore 17. Ma valga, per fugare ogni dubbio circa la volontà del poeta di presentare un ‘manifesto’ contro corrente, la maledizione scagliata contro chiunque ha preferito le armi ad un letto fedele 18 e l’asserzione che la gioia d’amore “vale piú di una vittoria sui Parti” e che “questi (cioè i successi d’amore) saranno i miei re,   Cosí in Prop. 4, 1, 137. Cfr anche Prop. 1, 6, 30: hanc me militiam fata subire volunt. 10 Prop. 4, 1, 135-136: At tu finge elegos, fallax opus (haec tua castra!). / scribat ut exemplo cetera turba tuo. 11   Prop. 1, 9, 3-4: Ecce iaces supplexque venis ad iura puellae/ et tibi nunc quaevis imperat empta modo. 12  Prop. 1, 9, 4. 13 Prop. 1, 3, 13-18: Et quamvis duplici correptum ardore iuberent / hac Amor hac Liber, durus uterque deus, / subiecto leviter positam temptare lacerto / osculaque admota sumere et arma manu, / non tamen ausus eram dominae turbare quietem, / expertae metuens iurgia saevitiae. 14  Prop. 3, 20, 20-22: dulcia quam nobis concitet arma Venus! / Foedera sunt ponenda prius signandaque iura / et scribenda mihi lex in amore novo. 15   Prop. 1, 1, 25-26: Aut vos qui sero lapsum revocatis, amici, / quaerite non sani pectoris auxilia. 16  Prop. 3, 5, 1-2: Pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes: / stant mihi cum domina proelia dura mea. 17  Prop. 2, 1, 47: Laus in amore mori; laus altera si datur uno / posse frui: fruar o solus amore meo! 18 Prop. 3, 12, 5-6: Si fas est, omnes pariter pereatis avari / et quisquis fido praetulit arma toro! 9

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i carri, le prede” 19 e, infine, l’epigrafe votiva con la quale il poeta offre a Venere le spoglie d’amore, le exuviae, che risulta esemplata su imitazione delle dediche manubiali 20. Tale prospettiva, già peraltro indagata dalla critica 21, si rivela tuttavia ineludibile, perché l’approccio programmaticamente ostile alla guerra non si rivela privo di incidenza allorché Properzio, dopo tante recusationes, nel suo faticoso e sussultorio cammino di “integrazione difficile” (per dirla con la felice definizione di Antonio La Penna) si avventura nella descrizione di eventi bellici 22. La sua prospettiva è infatti fortemente condizionata da un’ipoteca romano-centrica, nel senso che il poeta, il quale non sembra aver mai sperimentato alcun diretto contatto con l’esercito, conosce della guerra solo quello che si vede, si ascolta, si legge, si narra nell’Urbe. Quando gli amici o i rivali d’amore sono impegnati nelle spedizioni militari, delle loro vicende egli narra solo la profectio e l’occhio non si spinge oltre il viaggio per mare per raggiungere il teatro di guerra, per poi trapassare senza soluzione di continuità al reditus, talora tristemente immaginato all’interno dell’urna cineraria 23. Tra partenze e arrivi sembra che ben poco sia regi-

19  Prop. 2, 14, 23-24: Haec mihi devictis potior victoria Parthis, / haec spolia, haec reges, haec mihi currus erunt. 20  Prop. 2, 14, 27-28: Has pono ante tuas tibi, diva, Propertius aedis / exuvias, tota nocte receptus amans. 21  Sul tema Stahl 1985. Per l’anti-militarismo properziano cfr. Cloud 1993, pp. 123-124. 22 Sulle recusationes, anche in Properzio, si veda D’Anna 1980, pp. 52-61. Sull’ “integrazione difficile” cfr. La Penna 1977. Le valutazioni espresse dalla critica sul tema del rapporto Properzio-principato augusteo risultano assai differenziate; a titolo esemplificativo ed in estrema sintesi, si vedano Paratore 1936, part. p. 91 (atteggiamento nettamente antiaugusteo); Alfonsi 1945, p. 37 (adesione con riserve); Tränkle 1983, pp. 149-162, part. 157 e 162 (nessuna simpatia ma non opposizione); Albrecht (von) 1983, part. p. 69 (adesione da pacifista elegiaco); Paratore 1986, pp. 75-94 (irriducibile dissenso); Stahl 1985, p. 250 (rinuncia alla resistenza ma condivisione di tono non partecipato); Della Corte 1986, pp. 21-51 (adeguamento di comodo); Lucifora 1999, p. 8 (atteggiamento equivoco e reticente). Per un approfondimento allargato all’intera cerchia dei poeti elegiaci cfr. Martin 2005, part. pp. 180-186 che risolve per una sostanziale incompatibilità tra elegia e ideologia. 23  Prop. 3, 12, 13-14: ... neve aliquid de te flendum referatur in urna: / sic redeunt illis qui cecidere locis. Per la descrizione di profectiones, si vedano Prop. 1, 6 e 3, 12.

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strato dalla poesia properziana. Solo rare pennellate dipingono la sofferenza dei combattenti nel clima torrido dell’estate orientale: l’acqua dell’Arasse raccolta con l’elmo per estinguere la sete, la corazza che ustiona le braccia, la pesante asta che consuma le mani 24. Le rare volte che ci si spinge ad immaginare una pratica di guerra si procede attraverso fotogrammi desunti dal bagaglio di conoscenze apprese in occasione delle pratiche performative cerimoniali, in particolar modo trionfi e funerali, nella cui ritualità collettiva si dispiega tutto il potenziale pedagogico e divulgativo che loro attribuiva Polibio 25. Già è stato notato, ad esempio, come nell’elegia eziologica dedicata alle spoglie opime il tema del duello fra Claudio Marcello e il dux Virdomaro sia probabilmente suggerito dalla laudatio funebris pronunciata dai rostri nel 23 a.C. in occasione delle esequie del nipote da parte del principe, che non avrà certo mancato di evocarne l’illustre antenato, implicato in un tema tanto ‘caldo’ per la politica augustea 26; l’episodio viene però rivisitato dalla fantasia properziana attingendo per la descrizione del duce al prototipo di ‘barbaro del nord’ come viene immortalato e diffuso dalla politica delle immagini augustea 27: alto (vastus), con le brache listate (virgatis bracis), il monile ricurvo al collo (torquis unca), su un veloce carro gallico (mobilis e rectis gaesa rotis), nell’atto di scagliare giavellotti (iaculans ab agmine) 28. Tale procedimento viene replicato per l’evocazione del nemico antipodico, il Parto, immortalato secondo la convezione iconografica delle Medae sagittae, dei dardi scagliati dal cavallo in fuga (Parthorum astutae tela remissa fugae; subdulus et versis increpat arcus equis), dell’arciere che indossa le brache (tela fugacis equi et 24  Prop. 3, 12, 7-8: Tu tamen iniecta tectus, vesane, lacerna / potabis galea fessus Araxis aquam. Prop. 4, 3, 23-25: dic mihi, num teneros urit lorica lacertos ? / Num gravis imbellis atterit hasta manus? 25   Polyb. 6, 15 e 53-54. Sul tema Sumi 2005; Holkeskamp 2006, 319-363; Arena 2010. Per Properzio “tempérament visuel” si veda Boucher 1965, p. 41. 26   Si veda Braccesi 1981, pp. 17-18 e Scardigli 2008, pp. 159-160. 27  Sul tema, in generale Zanker 1987, pp. 197-205; piú in particolare, Ferris 2003, pp. 35-62 e De Souza 2011, pp. 39-44. 28  Prop. 4, 10, 39- 44: Claudius at Rheno traiectos arcuit hostis, / Belgica cui vasti parma relata ducis: / Virdomari; genus hic Rheno ictabat ab ipso, / mobilis e rectis fundere gaesa rotis. / Illi virgatis iaculanti ante agmina bracis / torquis ab incisa decidit unca gula.

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bracati militis arcus), dei capi catturati seduti sotto la custodia delle armi (et subter captos arma sedere duces) 29. È questo il mondo degli avversari vinti, cosí spiccatamente regionalizzato perché desunto da una convenzione iconografica 30. Esso si coniuga ai tanti nomi di fiumi liminari 31, di popoli esotici 32, di città espugnate 33 con i quali Properzio evoca gli orizzonti della conquista ecumenica 34; sono gli odonimi, gli etnonimi, i polionimi che il poeta ha avuto agio di leggere sulle tavolette didascaliche che sfilavano nel corso della pompa triumphalis, quando essa indugiava, rallentata dagli applausi della folla 35. Sono gli stessi nomi geografici che si affolleranno nelle Res  Gestae e che andranno a popolare l’orbis pictus di Agrippa nella porticus Vipsaniae 36. A tal proposito, pare assai singolare il quadro descrittivo che immortala Aretusa intenta ad immaginare la vita di guerra del marito-combattente Licota 37: la moglie è costretta ad apprendere dove scorra il fiume Arasse destinato alla conquista (disco qua parte fluat vincendus Araxes), a consultare una tavola dove sono dipinti 29 Rispettivamente Prop. 3, 12, 11; 3, 9, 54; 4, 3, 66; 3, 4, 17; 3, 4, 18. Sul tema dell’immagine del Parto nel mondo romano cfr. Lerouge 2007, pp. 99127, 295-305; specificamente per il periodo augusteo si veda Rose 2005. 30  Ad esempio, per i Britanni dal volto dipinto cfr. Prop. 2, 18B,1. 31   Si vedano il Tevere in contrapposizione al Nilo in Prop. 2, 33A, 20 e 3, 11, 42; il Nilo in Prop. 2, 1, 31; 2, 28A, 18; 2, 33, 3; 3, 11, 42 e 51; 4, 6, 63; 4, 8, 39; il Reno in Prop. 3, 3, 45; 4, 10, 39; l’Eufrate in Prop. 2,10, 13; 2, 23, 21; 3, 4, 4 (unitamente al Tigri); 3, 11, 25; l’ Arasse in Prop. 3, 12, 8 e 4, 3, 35. 32  Si vedano i Britanni in Prop. 2, 27, 5; i Suevi in Prop. 3, 3, 45; gli Indi in Prop. 2, 9, 29; 2, 18A, 11; 3, 4, 1; 4, 3, 10; i Medi in Prop. 3, 9, 25 e 3, 12, 11; i Parti in Prop. 2, 10, 14; 2, 27, 5; 2, 14, 23; 3, 4, 6; 3, 9, 54; 3, 12, 3; 4, 3, 36 e 67; 4, 5, 26; 4, 6, 79. 33  Si vedano Battra finem imperii in Prop. 3, 1, 16 (ma anche in 3, 11, 26; 4, 3, 7 e 63); Pelusio in Prop. 3, 9, 55; Alessandria detta noxia in Prop. 3, 11, 33; Menfi detta cruenta in Prop. 3, 11, 34; Canopo detto incestus in Prop. 3, 11, 39. 34  Cresci Marrone 2008, pp. 180-181. 35   Prop. 3, 4, 11-16: Mars pater et sacrae fatalia lumina Vestae, / ante meos obitus sit precor illa dies, / qua videam, spoliis oneratos Caesaris axes, / ad vulgi plausus saepe resistere equos, / inque sinu carae nixus spectare puellae / incipiam et titulis oppida capta legam. 36  Sul tema Nicolet 1989, pp. 95-114; Trousset 1993; Arnaud 2007-2008. 37  Prop. 4, 3, 35-40: Et disco, qua parte fluat vincendus Araxes / quot sine aqua Parthus milia currat equus; / cogor et e tabula pictos ediscere mundos, / qualis et haec docti sit positura dei, / quae tellus sit lenta gelu, quae putris ab aestu, / ventus in Italiam qui bene vela ferat.

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i mondi (e tabula pictos ediscere mundus), a discernere la dislocazione delle diverse regioni (qualis et haec docti sit positura dei), ad individuare l’ubicazione delle aree polari (quae tellus sit lenta gelu) e della fascia equatoriale (quae putris ab aestu), a misurare le distanze percorse dai cavalli dei Parti (quot sine acqua Parthus milia currat equus), a imparare le rotte disegnate dai venti che sospingono le navi verso l’Italia (ventus in Italiam qui bene vela ferat). Evidentemente, prima ancora che le volontà testamentarie di Agrippa nel 12 a.C. dotassero Roma di una carta ecumenica, comprensiva anche dell’universo partico nonché dotata di lemmi didascalici e di rilevazioni numeriche, erano disponibili in Roma tabulae imperii che rispondevano agli stessi requisiti e non sembra che sul tema si sia riflettuto abbastanza 38.

Le guerre civili Questo, dunque, è il modo di Properzio di raccontare la guerra; ma, in ordine di tempo, le prime campagne di cui egli si occupa sono i conflitti per la conquista del potere, le famigerate guerre civili. Nell’elegia di apertura del secondo libro dedicata a Mecenate il poeta ipotizza di cantare bellaque resque ... tui Caesaris 39 e, nel delineare le guerre e le imprese del principe, richiama quelli che Svetonio denomina bella civilia quinque 40; tuttavia, mentre il biografo si limiterà ad elencarli in ordine cronologico (Mutinense, Philippense, Perusinum, Siculum, Actiacum), Properzio, che pure non menziona alcun contendente nominatim e si uniforma alla convenzione di individuare i conflitti attraverso l’identificazione toponimica della battaglia decisiva, si premura tuttavia di connotarli 41. L’aggettivazione sembra meritevole di attenzione:  Deludente in proposito Camps 1965, p. 82 e Hutchinsons 2006, pp. 108-109. 39  Prop. 2, 1, 25. Un’analisi delle guerre augustee nella poesia properziana si deve ora a Berrino 2012, pp. 87-106. 40 Suet. Aug. 9: Bella civilia quinque gessit: Mutinense, Philippense, Perusinum, Siculum, Actiacum; e quibus primum ac novissimum adversus M. Antonium, secundum adversus Brutum et Cassium, tertium adversum L. Antonium triumviri fratrem, quartum adversus Sextum Pompeium Cn. f. 41 Prop. 2, 1, 27-34: Nam quotiens Mutinam aut, civilia busta, Philippos / aut canerem Siculae classica bella fugae / eversosque focos antiquae gentis Etruscae / et Ptolemaeei litora capta Phari / aut canerem Aegyptum et Nilum, cum attractus in 38

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Modena è la sola ad essere ricordata senza attributi, forse perché sede dell’unico scontro in cui il tuus Caesar era schierato in appoggio a istanze repubblicane; a Filippi è invece associato l’appositivo, civilia busta, che, richiamando i Perusina sepulcra 42, esprime lo stesso, evidente, rammarico per la scia di lutti che costituisce la conseguenza di ogni conflitto interno, tanto piú straziante se vissuto dalla parte dei vinti; la contesa contro Sesto Pompeo è definita classica bella, espressione che connota il conflitto a causa del suo svolgimento per mare, cumulando le vittorie ma anche le sconfitte della pars ottavianea, mentre il ricordo della Sicula fuga di Nauloco allude al figlio del Magno vinto ma non ancora domo. Fuori sequenza cronologica 43 è l’evocazione dell’assedio di Perugia, eversosque focos antiquae gentis Etruscae, che si carica di tutta l’empatia autobiografica già espressa in conclusione del monobiblos e concentra l’attenzione del lettore sugli esiti distruttivi del conflitto civile che la Caesaris ensis 44 aveva trasferito dal campo di battaglia ai focolari domestici. Chiude l’excursus il conflitto aziaco che, dopo un rapido accenno alla conquista di Faro, vede dislocare la scena a Roma lungo la via sacra in occasione della celebrazione trionfale dove le divinità fluviali (il Nilo dalle sette foci), le personificazioni territoriali, i prigionieri in catene, i rostri delle navi catturate prendono il posto dei sepolcri, delle fughe, delle distruzioni delle precedenti battaglie e trasferiscono l’evento dal “tempo del lutto” al “tempo della festa”, per utilizzare definizioni di Augusto Fraschetti 45. È questa la strategia adottata dal principe, poiché i calendari di età augustea ci documentano come le battaglie delle guerre civili abbiano (quasi) tutte ricevuto una celebrazione pubblica e si siano tradotte in festività riconosciute: cosí Modena (A. Hirtius, C.  Caes[are conlega imperi, ad Mutina vicit]...) e Filippi ([Caesa]r Augustus vicit Philippis posteriore proelio Bruto occiso) nei Fasti Praenestini, cosí Nauloco nei fasti Amiternini (...quod eo die Caes(ar) Divi f. vicit in Sicilia...), cosí Azio (quod eo die Imp. Cae[sar Augustus rem urbem / septem captivis debilis ibat aquis, / aut regum auratis circumdata colla catenis, / Actiaque in Sacra currere rostra Via. 42   Prop. 1, 22, 3. 43  Sull’inversione cronologica Zecchini 2005, p. 108. 44  Prop. 1, 21, 7. 45  Fraschetti 1990, pp. 9-120.

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publicam tristissimo periculo liberavit]) ancora nei fasti Praenestini 46. E, certo non casualmente, le stesse battaglie saranno menzionate, sebbene allusivamente, nelle Res gestae: cosí Modena (rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi), cosí Filippi (et postea bellum inferentis rei publicae vici bis acie), cosí Nauloco (mare pacavi a praedonibus) cosí Azio (...et me belli quo vici ad Actium ducem depoposcit) 47. Si registra però un’eccezione: Perugia. Il bellum Perusinum non solo non figura in nessun frammento calendariale ma non riceve menzione nemmeno nelle Res Gestae che pure non si erano sottratte al ricordo dei conflitti civili, posti sullo stesso piano endiadico delle guerre d’espansione: bella terra et mari civilia externaque toto in orbe terrarum saepe gessi 48. L’omissione del bellum Perusinum in entrambe le sedi è chiaramente motivata dall’intento di sottacere le accese polemiche e di sopire le accuse di crudelitas rivolte al triumviro Ottaviano imputato di aver sacrificato sull’altare elevato in nome del Divo Cesare trecento senatori locali e cavalieri, di aver consegnato al massacro i cittadini, di essere responsabile dell’incendio della città 49. Se ne deduce come la posizione del poeta che non dimentica i lutti della sua infanzia e sceglie di ricordare con enfasi il caso perugino sia ancora segnata da una forte alterità nei confronti del princeps, non a caso indicato nel carme con l’attributo tuus.

La guerra trasfigurata: Azio, da scontro civile a conquista del mondo Ma proprio il conflitto di Azio si qualifica come una cartina di tornasole per testare l’evoluzione non certo rettilinea della poesia properziana in tema di guerre di conquista 50. Nell’elegia 2, 15 l’opzione di una vita dedita al piacere e al vino è preferita al  Riferimenti e riflessione critica in Barcaro 2009, pp. 71-94.  Rispettivamente Res Gestae 1, 1; 2; 25, 1; 25, 2. 48  Res Gestae 3,1. 49 Sen. clem. 1, 11, 1; Suet. Aug. 15; App. civ. 5, 48-49; Cass. Dio 48, 14, 4. Sul tema Spadoni 2010, part. pp. 89-97. 50 Sull’evoluzione del trattamento della battaglia di Azio in Properzio cfr. Cairns 1984, 129-168, ma soprattutto Zecchini 2005, pp. 108-109 e Cristofoli 2005, pp. 187-205. 46 47

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crudele ferro e alla navi da guerra e il mare di Azio ingombro di cadaveri definiti “nostri” è assunto ad esemplificazione di una Roma, espugnata tante volte dai propri trionfi, celebrati evidentemente a seguito di conflitti civili, e per questo stanca di sciogliere i capelli al lutto 51. La carica polemica si dimostra qui ancora molto forte sia perché il ricordo del vino non può che evocare la pars soccombente, quella di Antonio che della ebrietas aveva fatto una bandiera ideologica 52, sia perché l’immagine dell’Urbe ritratta come una matrona in lacrime nei giorni della celebrazione delle vittorie in conflitti civili, sovrapponendo funus a triumphus, “tempo del lutto” a “tempo della festa”, smaschera l’equivoco augusteo che aveva presentato il conflitto aziaco come un bellum externum e capovolge l’assunto della precedente elegia. Anche in 2, 16 Azio ha ancora i connotati di una guerra civile in cui il duce soccombente è vittima di un infamis amor, i suoi soldati sono detti damnati e il fremitus dello scontro inanis, ma per la prima volta compare Caesar di cui si riconosce come titolo di merito e di gloria l’aver deposto le armi imbracciate dalla mano vittoriosa 53. Ancora in 2, 34, nel corso dell’ennesima recusatio, è a Virgilio che Properzio affida il compito di “cantare i lidi di Azio di cui è custode Apollo” forse perché l’attenzione eulogistica del mantovano è volta alle armi non del vinto, bensí del vincitore, cioè alle “possenti navi di Cesare” 54. Infatti, quando in 3, 9 il Nostro si propone, sotto la guida di Mecenate, di volgere il suo ingegno ai temi impegnati, l’obbiettivo del suo canto saranno “la roccaforte di Pelusio abbattuta dal ferro roma-

  Prop. 2, 15, 41-46: Qualem si cuncti cuperent decurrere vitam / et pressi multo membra iacere mero, / non ferrum crudele neque esset bellica navis, / nec nostra Actiacum verteret ossa mare, / nec totiens propriis circum oppugnata triumphis / lassa foret crinis solvere Roma suos. 52 Plin. nat. 14, 148. 53  Prop. 2, 16, 37-42: Cerne ducem, modo qui fremitu complevit inani / Actia damnatis aequora militibus: / hunc infamis amor versis dare terga carinis / iussit et extremo quaerere in orbe fugam. / Caesaris haec virtus et gloria Caesaris haec est: / illa, qua vicit, condidit arma manu. Su Antonio e Cleopatra in Properzio si vedano Cremona 1987, pp. 123-131 e Cristofoli 2008a, pp. 193-212. 54  Prop. 2, 34, 61-64: Actia Vergilium custodis litora Phoebi, / Caesaris et fortis dicere posse ratis, / qui nunc Aeneae Troiani suscitat arma / iactaque Lavinis moenia litoribus. 51

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no e le crudeli mani di Antonio intente alla propria morte” 55. La narrazione si dibatte ancora fra la prospettiva del vincitore (quello che l’autore del Carmen de bello Actiaco chiamerà Italus hostis) 56 e la prospettiva del vinto nei confronti del quale non ci si risolve ancora a scagliare anatemi. È solo in 3, 11 (scritta nel 22 a.C. dopo la probabile pubblicazione dell’Autobiografia di Augusto che aveva rivisitato i temi delle vicende triumvirali) che il poeta accede finalmente ad aderire all’ottica augustea, a dipingere la guerra di Azio come attacco della regina Cleopatra alle rocche romane, a presentarlo come scontro Oriente/Occidente, a invocare il salvatore Augusto, a inserirlo nella galleria di summi viri, a rievocare le fasi del trionfo 57. E in 4, 6 l’adeguamento è completato: come è stato notato 58, nella rievocazione dello scontro non v’è traccia dell’incendio appiccato alla navi di Antonio che aveva comportato strage di cittadini romani e scia di polemiche, riecheggiate nei Commentarii di Messalla. Il conflitto è proiettato in una dilatata dimensione ecumenica poiché si dichiara che “vennero alle prese le schiere di tutto il mondo”, poiché Apollo invoca Augusto quale salvatore del mondo, esortandolo a vincere sul mare poiché la terra già gli appartiene 59. Si completa cosí la parabola della battaglia di Azio che, inizialmente cantata come doloroso epilogo delle guerre civili, è in seguito prospettata come guerra difensiva contro un nemico

55  Prop. 3, 9, 53-56: Prosequar et currus utroque ab litore ovantis, / Parthorum astutae tela remissa fugae, / claustraque Pelusi Romano subruta ferro, / Antonique gravis in sua fata manus. 56   Carm. de bell. Act. col. I, 8. 57  Prop. 3,11, 29-32: Quid, modo quae nostris opprobria nexerit armis, / et (famulos inter femina trita suos !) / coniugis obsceni pretium Romana poposcit / moenia et addictos in sua regna Patres. 49-58: ...cape, Roma, triumphum / et longum Augusto salva precare diem! / Fugisti tamen in timidi vaga flumina Nili: / accepere tuae Romula incla manus. / Bracchia spectavi sacris admorsa colubris / et trahere occultum membra soporis iter. / “Non hoc, Roma, fuit tanto tibi cive verenda !” / dixerat assiduo lingua sepulta mero. / Septem urbs alta iugis, toto quae praesidet orbi, / femineo timuit territa Marte minas. 58 Zecchini 1987, p. 54. 59  Prop. 4, 6, 19-20: Huc mundi coiere manus; stetit aequore moles / pinea, nec remis aequa favebat avis. 37-40: Mox ait: “O Longa mundi servator ab Alba, / Auguste, Hectoreis cognite maior avis, / vince mari: iam terra tua est: tibi militat arcus / et favet ex umeris hoc onus omne meis”.

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esterno e infine celebrata come sanzione definitiva della conquista del mondo.

Le guerre manipolate Tale approdo è strettamente collegato con, e motivato da, una guerra d’espansione mai combattuta ma tante volte annunciata, cioè quella partica dei cui sviluppi evolutivi Properzio si fa testimone fededegno 60. Fra il 26 e il 25 a.C. in 2, 10 il poeta prospetta infatti un piano offensivo sul fronte orientale articolato addirittura su tre direttrici: Partia, India, Arabia 61. La giustificazione del conflitto risiede nella ultio di Carre e Crasso con il figlio divengono personaggi plurievocati nella trama tematica properziana, cosí come gli onnipresenti Parti. Tra i poeti augustei il Nostro non è certo una voce isolata, ma dalla scoperta del papiro di Qas .r Ibrîm in poi sappiamo che l’elegia 3, 4 e il suo “Ite et Romanae consulite historiae” rappresenta lo sviluppo e la ripresa evocativa di un componimento di Cornelio Gallo, da poco morto suicida 62. La sinossi fra i due testi fa emergere corrispondenze che è vano ritenere casuali. Un’impresa bellica è in entrambi i casi presentata come ineludibile suggello della Romana historia, in entrambi i casi a Cesare è assegnato il compito della sua realizzazione, in entrambi i casi le sequenze del trionfo sono vissute dal poeta come auspicato epilogo dell’impresa. Cornelio ha certo la paternità del motivo propagandistico della Maxima Romanae pars (eris) historiae e Properzio già nel 29 a.C. aveva iniziato a dialogare con lui in 1, 6, 34 quando aveva affidato a Tullo il compito di partecipare all’incremento dell’imperium: Ibis et accepti eris imperii. È lecito in proposito domandarsi se l’elegia 3, 4 non rappresenti un allusivo

60   Su Properzio e i Parti, soprattutto in riferimento al frammento di Gallo conservato dal papiro di Qas .r Ibrîm, si vedano Zecchini 1980, pp. 138-148; Zecchini 1987, p. 21; Luther 2002, pp. 29-41; Rohr Vio 2009, pp. 65-78; ora Gagliardi 2011, part. p. 372. 61  Prop. 2, 10, 13-16: Iam negat Euphrates equitem post terga tueri / Parthorum et Crassos se tenuisse dolet: / India quin, Auguste, tuo dat colla triumpho / et domus intactae te tremit Arabiae. 62  Cfr. Newman 1997, pp. 41-53; Knox 2006, pp. 141-144; Cairns 2006, part. pp. 84 sgg.

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tributo all’amico nel cui nome Properzio aveva chiuso il secondo libro 63; se e quanto la prospettiva di spettatore che assiste al trionfo abbracciato alla puella (un anticipo dell’error ovidiano?) figurasse come una presa di posizione politicamente scorretta verso quel Cesare che non solo non aveva ancora inverato le aspettative di espansione del prefetto d’Egitto, ma non era stato capace di difenderne l’operato di fronte ai rancori e delle vendette dei senatori a cui era stato colpevolmente sacrificato. Le insegne dei Crassi, le aste dei Medi, le spoglie dei Parti 64 popolano la scena properziana nel terzo libro prima della pattuizione del 20 a.C. Ma i Parthica signa recepta, nell’ottica propagandistica augustea, rendono i Parti “supplici ai quali si può perdonare senza pericolo”, secondo la definizione delle Res Gestae 65; tale assunto comporta, di conseguenza, che si renda necessario rivisitare anche la memoria dello scontro aziaco per trasfigurarlo nell’ottica di una sottomissione militare della parte orientale del mondo. Il Properzio dell’elegia 4, 6 si fa interprete sorprendentemente docile e remissivo di tale ottica manipolatrice: dopo la vittoria aziaca, la resa dei Parti, seppur tardiva, assegna ai neonati nipoti di Cesare la possibilità, non la necessità, di esercitare l’opzione armata.

Le guerre immaginarie Analoga falsificazione è applicata ad un altro obbiettivo di conquista che potremmo definire immaginato e immaginario: quello indiano. Esso è presente ben quattro volte nella produzione properziana. Per motivare tanto interesse non è sufficiente evocare la prima ambasceria ricevuta da Augusto nel 26/25 a.C. in Roma che innescò senza dubbio curiosità ed attenzione per l’orizzonte esotico evocato 66. Il poeta menziona infatti gli Indi sí con il corredo della consueta aggettivazione caratterizzante come “lon63  Prop. 2, 34, 91: Et modo formosa quam multa Lycoride Gallus / mortuus inferna vulnera lavit aqua! 64  Prop. 3, 5; 3, 9; 3, 12. Sul tema, convincentemente, Cristofoli 2008b, pp. 171-196. 65  Res Gestae 3, 2: Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui. 66  Fonti per le legazioni: Cass. Dio 54, 19; Oros. 6, 21, 19; cfr. anche Verg. georg. 2, 172 e Aen. 6, 794, nonché Hor. carm. 1, 12, 58 e carm saec, 58.

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tani”, “doviziosi”, “dalla pelle scura” 67, ma sempre in contesto bellico, come dichiarato obbiettivo di conquista; a tali occorrenze è poi necessario aggiungere le quattro menzioni della città di Bactra 68 che, nell’immaginario geoetnografico dell’epoca, deve considerarsi polionimo dai forti contorni liminari, sinonimo di estremità orientale. Si coniugano, allora, nel testo properziano, due opzioni; quella di una realtà geografica che il commercio di prodotti di lusso stava rendendo sempre piú familiare al pubblico romano grazie all’attivazione di nuove rotte marittime extramediterranee 69 e quella di una conquista dagli indefiniti contorni ecumenici che l’imitatio Alexandri di Augusto nel dopo Azio aveva autorizzato a coltivare, almeno a livello progettuale 70. Nelle Res Gestae, come è noto, gli Indi saranno associati a quel complesso satellitare di popoli ultimi le cui ambascerie vengono accolte da Augusto come atto di resa spontanea 71 e il poeta in 2, 10, 15 li dipinge come pronti alla resa, a “porgere il collo al tuo trionfo” 72. Tuttavia la sovrapposizione fra vero e immaginato si fa stridente quando al combattente Licota nell’elegia 4, 3 si ricordano le recenti esperienze belliche, in reiterate incursioni, a Bactra, contro i Neuri e i Geti, in Britannia, in India, in cui almeno due su cinque teatri di guerra risultano totalmente destituiti di fondamento, immaginari appunto 73; ma Virgilio aveva aperto la via su questa strada tanto che si può parlare di convenzione immaginativa 74.

 Rispettivamente Prop. 2, 9, 29; 2, 10, 15; 2, 18A, 11; 3, 4, 1; 4, 3, 10.  Rispettivamente Prop. 3, 1, 16; 3, 1, 26; 4, 3, 7; 4, 3, 64. 69  Sui reali rapporti commerciali con l’India cfr. De Romanis 1996, pp. 167201; ora anche De Romanis 2010-2011, pp. 75-101. 70  Cresci Marrone 1993, pp. 25-31. 71  Res Gestae 31, 1-2: Ad me ex India regum legationes saepe missae sunt non visae ante id tempus apud quemquam Romanorum ducem. Nostram amicitiam appetiverunt per legatos Bastarnae Scythaeque et Sarmatarum, qui sunt citra flumen Tanaim et ultra, reges, Albanorumque rex et Hiberorum et Medorum. 72   Prop. 2, 10, 15: India quin, Auguste, tuo dat colla triumpho... 73  Prop. 4, 3, 7-10: Te modo viderunt iteratos Bactra per ortus, / te modo munito Neuricus hostis equo, / hibernique Getae pictoque Britannia curru / ustus et Eoa decolor Indus aqua. 74 Verg. Aen. 8, 675-713; sul rapporto fra Virgilio e Properzio, anche sul tema aziaco, cfr. D’Anna 1983, pp. 45-57 e Cristofoli 2005, part. pp. 190-191. 67 68

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Le guerre enfatizzate Piú concreti profili di storicità, anche se oggetto di esaltazione enfatica, hanno invece i riferimenti alle spedizioni ricognitive di Petronio Gallo che raggiunse “Meroe e i negri regni” 75 e di Elio Gallo che fece “tremare le dimore dell’indomita Arabia dinanzi ad Augusto” 76. Non è forse il caso di scomodare in proposito i supposti rapporti parentali del poeta con la gens Aelia 77; basti ricordare come l’attenzione riservata dal principe nelle Res Gestae a Napata e Meriba, sia elemento sufficiente per ipotizzare una forte pressione propagandistica prodottasi al tempo su tali temi che non stupisce rinvenire trasformati anche nelle elegie properziane da esplorazioni in terrae incognitae a incusioni belliche, dai profili fortemente enfatizzati 78.

Le guerre dimenticate E proprio le Res gestae sono testo guida per poter rilevare in Properzio, dopo le guerre civili, la guerra trasfigurata (Azio), le guerre manipolate (partiche), le guerre immaginarie (India, Britannia, Armenia), le guerre enfatizzate (Etiopia, Arabia), anche quelle dimenticate. Se si sottraggono infatti dai capitoli 25-33 del libellus testamentario le imprese cronologicamente successive alla vita del poeta, si noterà come egli si dimostri totalmente indifferente a quanto da Augusto o da suoi collaboratori e legati fu realizzato sul fronte settentrionale: nulla sulle guerre dalmatiche per le quali il principe aveva ottenuto e celebrato il trionfo, nulla su quelle iberiche che avevano occasionato un reditus ex Britannia, nulla sulla Gallia ove aveva operato anche Agrippa, conlega imperii sistematicamente ignorato, nulla sulle Alpi la cui sottomissione aveva conosciuto già un significativo esordio nel

75   Prop. 4, 6, 77-78: Ille paludosos memoret servire Sycambros, / Cepheam hic Meroen fuscaque regna canat. 76  Prop. 2, 10, 16. Sul tema delle conquiste in Etiopia e in Arabia cfr. Marek 1993, pp. 121-156 e Ball 2001, passim. 77  Cosí Zecchini 2005, pp. 112-113. 78  Res Gestae 26, 5: In Aethiopiam usque ad oppidum Nabata perventum est, cui proxima est Meroe: in Arabiam usque in fines Sabaeorum processit exercitus ad appidum Mariba.

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settore occidentale a partire dal 25 a.C. e proseguiva verso est con pianificata determinazione; solo vaghi accenni ai Sigambri, Geti, Neuri e Sciti 79. Come interpretare tale silenzio e, in definitiva, tale strabismo che porta la politica estera del principe a ‘guardare’ dopo Azio a nord-ovest e il poeta Properzio, dopo tanta ritrosia celebrativa, ‘a guardare’ a sud-est? Molte possono essere le risposte, tutte fatalmente indiziarie. Forse il poeta riflette la sensibilità comune che percepiva come scarsamente attrattivo il vettore di conquista settentrionale per le sue limitate aspettative di un ritorno in termini di profitti manubiali, incomparabilmente inferiori rispetto alle risorse del dovizioso Oriente. Forse il poeta si dimostrava sensibile a un tema d’attualità, cioè alla polemica intellettuale innescata nell’Urbe dai “levissimi ex Graecis qui Parthorum quoque contra nomen Romanum gloriae favent” che vantavano la superiorità del regno partico e in tale dibattito voleva iscriversi 80. Forse il poeta, per quanto vicino ai circoli del potere, non aveva ancora colto, per precocità di realizzazioni, l’aspetto compensativo che il disegno di pacificazione da Cadice alla Germania doveva assumere nella periegesi augustea delle conquiste 81. Vale comunque la pena di sottolineare come anche Properzio abbia operato una convergenza, per quanto attraverso percorsi tortuosi e trasversali, verso quella filosofia di politica estera esplicitata dal principe nelle Res Gestae 82 e mirabilmente sintetizzata nel virgiliano parcere subiectis et debellare superbos 83. La sintonia si rinviene sia per quanto attiene il fronte interno, allorché il poeta celebra la gloria di Cesare che con la sua stessa mano vincitrice depone le armi 84, sia per quanto concerne la politica estera allorché la laus Italiae esalta la gloria di Roma che non si vergogna della sua storia di clementia: “Infatti siamo potenti nelle

79 Rispettivamente Prop. 4, 6, 77; 4, 3, 9; 3, 16, 13. Sul tema dello squilibrio di riferimenti properziani a favore del fronte orientale si veda già Zecchini 2005, pp. 109-111. 80  Liv. 9, 18, 6. Cfr. ora Muccioli 2007. 81   Res Gestae 26, 2: “Gallias et Hispanias provincias, item Germaniam qua claudit Oceanus a Gadibus ad ostium Albis fluminis pacavi.” 82  Cfr. n. 65. 83 Verg. Aen. 6, 853. 84  Cfr. n. 53.

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armi ma anche nella pietà: l’ira tiene a freno le sue stesse mani vittoriose” 85, ma anche quando il poeta sostiene che “se qualche regione delle terre estreme ti sfugge fra breve soggiogata senta anch’essa la tua mano.” 86. È utile, a tal proposito, ricordare che già nel 24 a.C., dunque vivo e operante in Roma Properzio, il poeta poteva aver assistito agli spettacoli in cui, secondo un frammento liviano, Cesare Augusto aveva annunciato al popolo romano che tutto il mondo era ormai sottomesso a Roma “tam bello quam amicitiis” 87.

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85   Prop. 3, 22, 20-23: Famam, Roma, tuae non pudet historiae. / Nam quantum ferro tantum pietate potentes / stamus: victrices temperat ira manus. 86  Prop. 2, 10, 17-18: Et si qua extremis tellus se subtrahit oris, / sentiat illa tuas postmodo capta manu! 87 Liv. Fr. 55 Weissenborn: Caesar Augustus in spectaculis Romano populo nuntiat regressus a Britannia insula totum orbem terrarum tam bello quam amicitiis Romano imperio subditum.

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Françoise-Hélène Massa-Pairault

Properzio tra l’Etruria e Roma

Properzio offre un campo immenso a chi da storico tenta di decifrare la sua arte confrontandola alla sensibilità di un’epoca sospesa tra la vita e la morte, tra la pace e la guerra, tra una società che si disgrega e un regime che si compone 1. In questo scenario, il poeta ha scelto di essere sempre, nella vita e nell’arte, un uomo di pace, come egli dichiara nell’Elegia prima del libro III, recusando lo stile epico dei seguaci del vecchio Ennio: Multi, Roma, tuas laudes annalibus addent, Qui finem imperii Bactra futura canent. Sed, quod pace legas, opus hoc de monte Sororum Detulit intacta pagina nostra via.

L’iniziato delle Muse, il seguace di Callimaco e di Filita, non si sente tagliato per la grandeur di Roma e la sua opera sembra nascere proprio con una fuga dalla storia, con un suo rifugiarsi e perdersi nell’amore di Cinzia, anche se tende a una riconciliazione finale con i tempi e i luoghi, con il secolo stesso. Come ha ben visto Pierre Grimal, e forse meglio di alcuni suoi critici 2, v’è un’aspirazione a una pacificazione ultima nel libro IV delle Elegie, aspirazione che potrebbe suggellare una difficile in1  Ringrazio gli organizzatori del Convegno per avermi affidato una relazione su Properzio tra l’Etruria e Roma che mi si consenta di dedicare alla memoria di due maestri, Pierre Grimal e Pierre Boyancé, il cui insegnamento mi ha condotta attraverso lo studio dei testi all’archeologia e alla storia dell’arte. Mi preme ricordare, per lo studio della composizione del libro IV, Grimal 1953; e, per una traduzione delle Elegie in francese Boyancé 1968; cfr. inoltre lo studio di J.-P. Boucher, allievo di P. Boyancé: Boucher 1980. 2  Schilling 2002, pp. 241-247.

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tegrazione politica, per seguire Antonio La Penna 3, oppure, se concordiamo con lo stesso Grimal, affidare la risoluzione delle contraddizioni al valore unificante della virtú romana per eccellenza della Fides. Noi parleremo piú semplicemente di un libro che tira le somme tra vita personale e vita che il proprio tempo richiama in un rinnovarsi della primordiale inquietudine nella quale si origina l’elegia properziana. Trattando di Properzio tra Roma ed Etruria mi propongo perciò di mostrare come la poetica, per quanto voglia ricusarla, non è avulsa dalla storia e dalle tradizioni che la illuminano. E, in particolare, la storia letteraria, che non può fare a meno della storia tout court, trova nuovi stimoli nei progressi della ricerca su Perugia etrusca e romana e su Assisi, sull’Etruria e l’Umbria, sul fanum Voltumnae ritrovato a Volsinii (Orvieto) e il suo pendant di Villa Fidelia a Spello, sui luoghi stessi di Properzio, in Umbria, a Roma, in Campania o nel Latium vetus 4. Dopo tanti illustri predecessori, cominciamo dalle due elegie che chiudono il primo libro 5, dove Roma rappresenta solo l’irruzione dolorosa della storia, con i suoi attori, i milites di Cesare Augusto, con il suo paesaggio, trincee e campi militari, aggeres, i suoi lutti, le tombe, la città di Perugia in un velo di dolore, la morte imperante sui monti che si stagliano all’orizzonte dell’Umbria del poeta la cui fertilità introduce una desolata stonatura con le ceneri della terra Etrusca. Solo per l’ultima elegia si è ricordato l’uso ellenistico della sphragis. Ora, come notato da Cairns 6, c’è un doppio sigillo dell’identità. Per un meditato gioco di corrispondenze, infatti, tra le due ultime elegie, abbiamo come due sphragides incastonate l’una nell’altra, quella del soldato morte parente del poeta che recita il proprio epitaffio: et quicumque super dispersa invenerit ossa montibus Etruscis, haec sciat esse mea   La Penna 1977.  Impossibile citare tutti i contributi che hanno segnato la recente ricerca. Ci limiteremo in nota di volta i volta ai lavori piú pertinenti all’argomento trattato. 5  Prop. I, 20 et 21; vedi in particolare Fedeli 1980, pp. 485-495, 406-504; Bonamente 2004, pp. 51-55. 6  Cairns 2006, pp. 48-50. 3 4

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e quella del poeta vivo che contempla il vicino paesaggio della morte: proxima supposito contingens Umbria campo me genuit terris fertilis uberibus.

Inoltre, l’efficace sobrietà dei termini dipinge non solo le situazioni personali ma anche le vicissitudini storiche. L’Etruria non appare mai come sostantivo, mai come una realtà personificata e autonoma, contrariamente all’Umbria; appare solo sotto forma di epiteta, come annientata e senza precisi confini 7. Ora è la storia stessa che sembra annientata, annientati secoli d’integrazione tra Umbri ed Etruschi di cui l’onomastica e gli ipogei di Perugia ellenistica offrono numerosi esempi: i Tite Petruni 8, il cui nome ci riconduce forse ai Petronii di Assisi 9, i Pumpu Plaute 10, forse ramo perugino della gens Plautia, forse anche gli stessi Achši, Ahši e Aši 11, il cui nome è vicino al poleonimo di Assisi 12. Altri esempi si possono dare, già menzionati da Luigi Sensi 13. Properzio, tuttavia, si attiene alla storia piú recente evocando l’Etruria e Perugia solo attraverso Roma e la sua politica. La sua percezione dei fatti dimostra che la romanizzazione è compiuta: e in questo quadro egli rimprovera a Roma di non aver trattato la sua gente come dei cives romani. I termini sembrano generarsi l’uno l’altro in un crescendo di cause ed effetti: Perusina tibi patriae sepulcra, Italiae funera, romana discordia. La prima espressione soprattutto è forte poiché l’ordine delle parole in latino consente di giocare su tibi incastrato tra Perusina e patriae, ma che può dipendere sia da patriae sia da nota. Cosí che indirizzandosi a Tullus, dei Volcacii Tulli originari da Perugia, egli ricorda la sua patria all’amico, 7  Che, come sappiamo, erano ben precisi, se l’Etruria aveva intra fines la vallata del Tevere: Sisani 2008 in Coarelli & Patterson 2008, pp. 45-85. 8  CIE 3854-3854; Rix 1991, II, p. 265. Cenciaoli 2011 in Ipogeo Volumnii 2011, pp. 26-27; il nome romanizzato dei Tite Petruni è Petronius, come attestato dal cinerario CIE 3864, trovato nella tomba della famiglia. Per i Petronii ad Assisi: Coarelli 1996, pp. 252-258. 9  Bonamente 1986; Coarelli 1997; Bonamente 2004. 10  CIE 3617-3631. 11   CIE 3809-3835 et cfr. CIE 4207. Ahši appare nella tomba dei Tite Petruni, in particolare come matronimico (vedi Rix 1991, II, Pe 1. 262). 12  Poccetti 1986. 13  Sensi 1983 (1981): vd. anche n. sg.

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ma una patria che, come s’intuisce, va al di là dell’origo, una patria che non è solo Perugia ma la comune terra di tutti i cives romani. I sepulcra di Perugia sono anche quindi i sepulcra di cives romani. Ecco perché l’Italia compare, termine oramai spoglio dell’aura di discordia che ne aveva fatta la bandiera degli insorgenti della guerra sociale 14, ma che, nel pensiero di Properzio, tende a unificare i cives di là delle discordie civili. I penates umbri di Properzio non possono essere onorati che nella concordia. La doppia sphragis del primo libro delle Elegie si capisce quindi sullo sfondo della romanizzazione e cioè dell’ascesa municipale e, in alcuni casi, della carriera a Roma, come equites o senatori, delle élites locali in corso già da almeno due generazioni: molti studi ci illuminano sulla questione 15, ragione per la quale il nostro apporto in questo campo sarà ridotto a qualche nota in margine. L’amico di Properzio, Tullus, è il nipote di Volcacius Tullus, senatore oriundo da Perugia, console con Ottavio nel 34 a.C., che poi diventerà proconsole d’Asia 16. Tullus seguirà lo zio nella sua provincia fissandosi poi a Cizico da dove Properzio tenterà in vano di richiamarlo alla vita romana 17. Che lo zio abbia potuto, insieme con altri 18, intercedere a favore degli antoniani presso Ottavio, sia durante l’assedio a Perugia, sia dopo, favorendo amnistie di proscritti è probabile 19, e spiega anche alcuni aspetti diplomatici della sphragis. Piú difficilmente spiegabile, invece, e narrata dagli storici romani con diverse versioni 20, è la sorte impietosa, paragonata a quella dei principali belligeranti antoniani 21, riservata all’aristocrazia di origine etrusca di Perugia,

 Alla quale, però, l’Etruria si sottrasse: Torelli 1981, pp. 266-273.   Sulla romanizzazione dell’Etruria e dell’Umbria, vd. Harris 1972, Torelli 1981 e sull’Umbria in particolare Sisani 2007, Sisani, 2009; sull’ascesa all’ordine senatorio nell’Umbria e l’Etruria: Sensi 1981 (1982); Torelli 1969, Torelli 1981 (1982). 16 Torelli (cit. a n. 15 supra). 17  Prop., III 22. 18  Vd. anche Mecenate: Cairns 2006, pp. 257-263. 19  In questo senso Cairns 2006, pp. 48-49, 60-61 (con riferimenti a probabili mutazioni nelle scelte di campo dello stesso Volcacius, che ne sarebbe stato, dopo, “ricompensato” con l’ascesa al consolato). 20  Gabba 1969; Gabba 1971; Sordi 1972; inoltre su Augusto e Perusia, Sensi 1990; Eck 1995; Sisani 2011. 21  Bonamente 2004, pp. 37-38. 14 15

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all’ordo decurionum della città interamente decimato o addirittura sacrificato, come narra Suetonio, ai Manes di Giulio Cesare dallo stesso Ottaviano 22. Quest’ultima versione ha destato dubbi, anche se il modo sacrificale dell’esecuzione ha precedenti proprio nelle guerre romano-tarquiniesi del IV secolo a.C. 23. Potrebbe trattarsi, certo, di un topos collegato con la rappresentazione dei costumi etruschi, ma vorrei comunque ricordare un fatto recentemente rivalorizzato da Simone Sisani, e cioè l’esistenza nella Perusia restituta di Augusto di un lucus a lui dedicato da vivo e delimitati da cippi, proprio sotto le mura nei pressi di Porta S. Angelo 24. Sisani ha ipotizzato che il luogo di culto sia stato creato per ricordare lo scampato pericolo di Octavio durante l’assedio di Perugia, sorpreso da un manipolo di assediati mentre egli stava facendo un sacrificio. Non sarei lontana dal pensare che il sacrificio di Augusto avesse potuto anche configurarsi come parentatio a Cesare 25. O che comunque il lucus Augusto sacer abbia a che fare con la pietas di Augusto per Caesar parens durante l’assedio di Perugia. Che nasca dall’amplificazione di un simile fatto anche la tradizione seguita da Suetonio sul sacrificio dell’aristocrazia etrusca ai Mani di Cesare, non lo escluderei 26. Quanto alla sorte e all’identità del parente di Properzio, Gallus, l’elegia 21 non permette di accedere a definitive conclusioni. Strappato alle spade di Cesare può significare scampato all’offensiva dei partigiani di Ottavio, ma rimane l’ambiguità su ensis, strumento militare, ma anche di vendetta nelle proscrizioni. Non credo che l’espressione sia un caso, anche se la metonimia enses per reparti militari sia tradizionale 27. Che poi Gallus

22 Suet., Aug., 14-16; su questo: Weinstock 1971, p. 398 sgg. ; Massa-Pairault 1990a, pp. 5-32. 23  Ma vedi Torelli 1981b. 24   CIL XI 1922, 1923; Sensi 1990; Eck 1995, pp. 83-90; Bonamente 2004, p. 43; Sisani 2011, p. 222. 25   Sull’importanza propagandistica del tema del Divus Julius nell’assedio di Perugia: Massa-Pairault 1990a; sulle glandes Perusinae con scritte “Divus Julius”, vd. da ultimo Benedetti 2012. 26 L’episodio potrebbe forse anche essere messo a confronto con Suet., Div. Aug. 96 dove si evoca un tentativo degli assediati di rubare le viscere della vittima di un sacrificio fatto dal partito di Ottaviano. Che il sacrificio fosse in realtà quello di Ottaviano ai Manes del Divus Julius? 27  Fedeli 1980.

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sia una prima volta potuto sfuggire al suo destino, ma in seguito raggiunto da una mano sconosciuta, si spiega, non per l’intervento di generici briganti, come ha visto Giorgio Bonamente, ma nei disordini che seguono le battaglie 28, per l’esistenza di sbandati che cercano di fare bottino e tanto piú se l’impunità è ulteriormente garantita dal fatto che ogni fuggitivo sia assimilabile a un proscritto. Ed ecco allora che il corpo dell’infortunato fu scaraventato in qualche dirupo: proiecta membra 29. La protesta di Properzio, quindi, è molto piú profonda e articolata e piena di sottintesi di quanto lascia intendere a prima vista la limpidità plastica dello stile. Quando si tratta, poi, di scoprire l’identità di Gallus, costatiamo quanto è detto e non detto. Il muto gioco di sguardi e di messaggi silenziosi scambiati tra Gallus morto e il soldato vivo che si salverà, tra il parente defunto di Properzio e chi stenta a riconoscerlo, s’impernia sul termine soror. Soror del soldato salvato che sarebbe dunque la sposa o la fidanzata di Gallo, come intende Cairns 30, oppure soror di Gallus, per cui le lacrime del soldato fuggiasco, forse solo un amico e non obbligatoriamente un parente 31, annuncerebbero alla sorella la sorte del fratello? La difficoltà di identificare Gallus tiene alla relativa banalità del cognomen e alla sua diffusione sulla lunga durata nell’area tra Perugia e Assisi. Mi chiedo tuttavia se la gens di Gallus non sarebbe da ricercare o tra gli Aelii o tra i Vibii 32, i primi per la presenza di Aelia Galla, sposa di Postumus Propertius, in altre elegie del poeta 33, i secondi perché sono alleati, attraverso i Caetronii, alla classe municipale di Assisi 34 e compaiono a livello consolare nel 43 a.C. con un personaggio di primo piano della guerra di   Bonamente 2004, p. 52.  Il termine è cosí preciso da indurre a chiedersi se Properzio non immagina la sorte del parente sulla fede del racconto di un testimone che dichiarava aver visto molti corpi senza sepoltura in fondo ad una scarpata. 30  Cairns 2006, p. 49. 31  Soluzione che sembra ragionevole a Fedeli: Fedeli 1980, p. 491. 32   Sulla famiglia, Torelli 1969, p. 303 sgg. 33  Su Aelia Galla e C. Postumus Propertius vedi Prop. III, 12; Cairns 2006, pp. 20-21; per una revisione critica dell’iscrizione CIL IV 1501, W. Eck in questo volume. 34  Per Caetronius ad Assisi e la pavimentazione del Foro, Bonamente 2004, p. 25 (con bibliografia anteriore). 28 29

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Modena, C. Vibius Pansa Caetronianus 35. Una terza possibilità non sarebbe neppure da scartare e cioè che il cognomen Gallus ci riporti alla gens Firmia, che ha avuto una grande importanza nella politica edilizia municipale di Perugia restituta 36. Nessuna certezza prosopografica, dunque, anche se la soluzione del problema si nasconde nella logica degli scambi matrimoniali a livello locale come in quella della rete d’influenze costruita dalle élites etrusche e umbre almeno sin dalla guerra sociale del 90 (quando non molto prima), di cui Mecenate è un esempio, ma non il solo. V’è un altro passo di Properzio che allude al Bellum Perusinum ed è rivolto, infatti, a Mecenate 37. Recusando di nuovo una pretesa vocazione per lo stile epico, Properzio dichiara che se avesse questa vocazione e questo talento, egli pure di ubbidire a Mecenate, comporrebbe adesso un poema epico sulle guerre civili, su Modena, su Filippi, sulla disfatta di Sesto Pompeo, sul rovesciamento degli antichi focolari della nazione etrusca, sulla disfatta dell’Egitto e di Cleopatra. Il passo ha suscitato qualche perplessità poiché sembrerebbe che Properzio si contradica, cantando (o immaginandosi mentre canta), e non piú deplorando, la rovina dell’Etruria. In piú l’ordine cronologico degli avvenimenti della guerra civile non sembra rispettato. Ora sia con Fedeli 38 sia con Cairns 39 possiamo escludere una contraddizione in Properzio perché è evidente che quando evoca eversos focos antiquae gentis Etruriae,

il poeta non fa altro che citare o, meglio, fingere di imitare i grandiloquenti versi dei compositori di epica che cantano il rovesciamento dei focolari della nazione etrusca e la sua rovina, attribuendoli al partito avverso ad Augusto. Ora la citazione, o la finzione, introduce in realtà una distanza critica e apre 35  Bonamente 2004, pp. 24-25. Il cognomen Gallus nella gens compare in CIL 1926, dedica di Vibius Veldumnianus a suo bisnonno, patrono di Perugia e con l’imperatore Treboniano Gallo, che estende la sua protezione su Arna: Heurgon 1955-1956. 36   Vd. C. Firmius Gallus, che a Perugia rifà la pavimentazione della via Thorrena dall’ara Silvani all’area Tlennasis: AE 1993, 650 = AE 1994, 614 bis. 37  Prop. II, 1, 27-34. 38  Fedeli 2005, pp. 67-69. 39  Cairns 2006, pp. 262-263.

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un campo di significati per chi, come Mecenate, può intendere il gioco come una protesta dissimulata di Properzio: perché sí, è una realtà, l’Etruria è rovinata e colpita al cuore 40. Lo stesso posto riservato all’Etruria nella cronologia degli eventi, potrebbe costituire un’altra prova della complicità e dell’attenzione che si richiedono al dedicatario dell’elegia. L’anomalia cronologica non si spiegherebbe quindi, per “realismo storico”, perché la pacificazione della zona di Perugia avrebbe richiesto un tempo che va ben oltre la conclusione dell’assedio della città, come vuole Cairns 41. In nessun caso, infatti, operazioni di pulizia, come si suole qualificarle, avrebbero giustificato l’impiego di un vocabolario cosí forte e solenne come “eversos focos antiquae gentis Etruscae” che, per di piú, può alludere alla cremazione dell’abitato e dei monumenti di Perugia. L’espressione forte, la cronologia travolta, l’impiego dello stile indiretto libero concorrono a fare del verso una denuncia nascosta non prevista dai suoi diretti autori, ma in un clima politico oramai cambiato. Tra le elegie I 21-22 e la II 1 a Mecenate, infatti, la pacificazione, seppure dolorosa, è intervenuta a Perugia, il cui segno potrebbe forse cogliersi attraverso la rioccupazione della tomba dei Volumnii con la vistosa deposizione dell’urna di P. Volumnius Violens Cafatia natus 42, ultima a figurare, sembra, nel sepolcro di famiglia, ed i cui caratteri stilistici non contradicono una data intorno al 30 a.C. 43. Ora potremmo attribuire la deposizione

  Vd. l’espressione focos che indirizza verso il focolaio, il punto in cui si origina la nazione etrusca. Il termine ricompare nell’elegia “di Vertunno”, per designare Volsinii come centro originario della divinità. 41  Cairns 2006 pp. 262-263. 42  CIL XI 1963: en dernier Sisani 2011 in Ipogeo dei Volumnii 2011; sul cognomen violens, Heurgon 1958; Massa-Pairault 2001, pp. 112-115; sulla tombe dei Volumnii: Von Gerkan, Messerschmidt 1942; Massa-Pairault 1990b; MassaPairault 1992, pp. 196-201; Ipogeo dei Volumni 2011; Sisani 2011 in Ipogeo dei Volumnii 2011. 43  L’urna di P. Volumnius Violens Cafatia natus è stata datata agli anni finali del I secolo a.C. per riferimento all’Ara Pacis: Ambrogi 1990; Benelli 1994, n. 7, pp. 18-20; Cenciaoli 2011; Sisani 2011. Presenta, infatti, motivi che la avvicinano a questo monumento (ghirlanda e bucrani dei lati lunghi), scenette con animali (uccelli, rettili, batrachi, insetti etc.) a prossimità dei motivi vegetali. In realtà non può essere considerata come una versione “provinciale” dell’Ara Pacis, ma presenta, in confronto, motivi ornamentali originali: con la presenza di racemi “poco acantizzati” [vedi Sauron 2000, pp. 35-64] uscenti dal gorgoneion 40

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del monumento nel sepolcro alla pietas del figlio, L. Volumnius, Iv vir poi II vir della Perusia restituta di Augusto 44, e chiederci quindi se la presenza dell’urna non si inserisca nella stessa politica di pacificazione di cui L. Volumnius, insieme a L. Proculeius, costituisce allora il personale 45, scelto con l’avallo di Augusto. L’urna di P. Volumnius Violens Cafatia natus offre, infatti, una serie di caratteristiche notevoli (figg. 1-4). Prima presenta un’iscrizione bilingue ma l’epigrafe in lingua etrusca è disposta sulle finte tegole del tetto del monumento, mentre l’iscrizione latina è chiaramente in vista: l’origo etrusca sembra dunque passare in secondo piano mentre la cittadinanza romana è connotata come gerarchicamente superiore e rivendicata: contrariamente alla maggioranza delle iscrizioni bilingui etrusco-latine che, al momento del passaggio degli atti ufficiali alla lingua latina, nel 90 a.C., non suggeriscono simili distingui 46, nell’intento di mostrare solo una continuità giuridica. Altri dettagli, inoltre, sono indicativi: come le “geminae portae” rinchiuse dell’urna-heroon che, fine della vita, sono forse anche fine della guerra, una sorta di Giano 47; come la rappresentazione, infine, sul muro postico del monumento e in opposizione alle “geminae portae”, dell’erma del defunto eroizzato 48 in un paesaggio idilliaco con richiami all’Egitto e alla Pergamo del mosaicista Sosos con il motivo delle del frontone, con l’associazione alla ghirlanda con bucrani di motivi animaleschi naturalistici e, fatto unico, con vasi. Sarebbe tentante di identificare questo Volumnius con il partigiano (senza cognomen conosciuto) di Antonio e suo Praefectus fabrum in 43-42 a.C.: RE IX A. 1 (1961), coll. 873-884 [W. H. Gross], ivi no 7, forse identificabile a sua volta (ibid. col. 879) con Volumnius Eutrapelus, ivi no 11. Eutrapelus non sarebbe incompatibile a priori con un piú “ufficiale” violens, poiché eutrapelus sembra cognomen da simposio, valido inter amicos e forse non altro che un “signum” che connotava l’interessato all’interno di una piccola “coterie”. Cfr. Massa-Pairault 2002, pp. 159-161. 44  Sul chiarimento in termini istituzionali della successione IV vir - II vir e sulla carriera del personaggio, Sisani 2011. 45   CIL XI 1943; CIL XI 1944 (statua dedicata a L. Volumnius Violens); Bonamente 2004, p. 43; Sisani 2011. 46   Per altri casi vd. Benelli 1994. 47  Questo dettaglio non ha ricevuto spiegazione. 48 Per Anna Rena Ambrogi (cit. supra a n. 42) l’erma rappresenterebbe un Satiro: ma non riusciamo a vedere orecchie appuntite che giustificherebbero un simile giudizio. D’altronde, la palma dietro l’erma allude a una vittoria e quindi all’eroizzazione del personaggio, difficile da concepire per un essere satiresco.

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colombe sulla vasca 49. Tale idilliaco paesaggio, inoltre, potrebbe evocare qualche lucus sacer: ne fanno fede gli alberi di fico 50 e la colonna sulla quale figura un’anfora a volute rovesciata, non senza richiami alla ceramica etrusca ad appliques o rilievi di IV o III secolo a.C. 51. Testimonierà questo programma di un’aspirazione alla pace, nei termini stessi previsti dalla restitutio augustea di Perugia? Testimonierà il richiamo a Sosos pergameno qualche nesso con il Volcacius perugino diventato proconsul in Asia? Testimonierà l’abbondanza di elementi idilliaci alessandrini e di motivi egiziani 52, anche qualche segreto legame con Mecenate, che in Egitto aveva ingenti possedimenti 53? L’urna di P. Volumnius potrebbe costituire per questi motivi uno dei piú stretti armonici delle elegie di Properzio sulla guerra di Perugia nel momento i cui il poeta rivolgendosi a Mecenate deride segretamente i poemi epici che celebrano questa guerra: sono, in realtà, stonati, rispetto alle piú profonde intenzioni della politica del momento. Tralasciando molti passi, ci concentriamo ora sul libro IV delle Elegie che presenta una singolare architettura di cui il centro, come ha sostenuto P. Grimal 54, potrebbe essere l’elegia-Inno all’Apollo palatino, ma che presenta tanti elementi centrifughi e contrastati, tra elogio della morale romana e ricordi di Cinzia, tra fugaci, talvolta drammatici, paesaggi dell’inquietudine,   Su cui Massa-Pairault 2010, pp. 77-78.   Sembrano privi di frutta; ora l’albero di fichi potrebbe essere collegato con un aspetto del culto di Giunone noto a Praeneste (Juno palostcaria: CIL I 2 2439 = ILLRP 167; Torelli 1989, pp. 24-25) e importante anche nei rituali romani di Juno Caprotina (Coarelli 1997, 17-60). È un aspetto in stretto rapporto con la fecondità delle donne e le facoltà riproduttive della città. Quest’aspetto esisteva anche nella Juno Martialis (vedi monetazione di Treboniano Gallo: Heurgon 1954) di Perugia? È probabile, date le omologie che presentano tra di loro i culti di Juno (il cui nome in etrusco, uni, è del resto un prestito dall’area culturale italica). Ci chiediamo allora se l’albero senza frutto non possa alludere alla privazione di discendenza della città che perse nella guerra del 41-40 e nel massacro del 40 a.C. molti membri della sua gioventú in età di procreare. Piú che la mors acerba di P. Volumnius, come abbiamo pensato (cit. n. 48 supra), l’albero senza frutto alluderebbe alla morte prematura di un’intera classe della città distrutta. 51  Vd. Conestabile 1855-1870 (Atlante), tav. V-XXI, 2. 52  Visibile anche negli acroteri a forma di sfingi del tetto. 53  Cairns 2006, p. 254. 54   Grimal 1953, pp. 50-53. 49 50

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e ingenue colline della storia, tra tempo passato e presente, che finisce per mettere in questione la stessa unità della quale si vuole avvalere. In questo libro, l’Etruria di Properzio si presenta a prima vista come profondamente funzionale alla “mitistoria” romana e alle esigenze ideologico-culturali del regime augusteo. Emergono, infatti, una Roma romulea e una storia dalla quale sono cancellati o travestiti tutti i riferimenti ai re etruschi di Roma e a Servio Tullio. Properzio sembra appartenere perciò a quel filone dell’antiquaria romana che procede, secondo un’espressione di Filippo Coarelli, a una “romulizzazione” delle tradizioni 55. E, in parte in accordo con questa scelta, è esaltata la componente sabina di quella tradizione, evidente in particolare con Tarpeia e Titus Tatius, mentre piú complessa è l’attenzione rivolta ai due culti, antagonisti per le loro esclusioni rituali, dell’Ercole dell’Ara Maxima e di Bona Dea Subsaxana. Non viene enfatizzato nel culto dell’Ara Maxima il collegamento di Ercole con la gens Fabia che appare solo, invece, nella IV 1, in una allusione ai Lupercalia 56, mentre Bona Dea che potrebbe aver suscitato l’interesse antiquario di Properzio per il suo collegamento con la Cubra Mater umbra e umbro-etrusca appare solo nel suo contesto romano 57. In questo quadro generale Romulus “ricopre” la componente etrusca della storia di Roma. Lo costatiamo in IV 1 nell’evocazione della primitiva Roma delle tre tribú dei Ramnes, Titienses e  Luceres 58. I Luceres, definiti Soloni nella migliore lectio manoscritta 59, sono gli uomini di Lygmon, pura invenzione verbale di Properzio e forma volutamente grecizzata di Lucumo 60.   Coarelli 1997, p. 146.  IV 1, 25-26 e cfr, IV 1, 9 (“domus Remi”). 57   Cfr. Colonna 1987, p. 19-22; Colonna 1992; Calderini 2001. 58   Cfr. Poccetti 2011. 59 Manoscritto Neapolitanus. La lezione “coloni” degli altri manoscritti sembra contemperare un rapporto tra la colonia di Luceria in Puglia (Daunia) e i Luceres, forse attraverso Lucerus re di Ardea (Paul Festus, p. 156 L) e la componente “dauna” di Ardea (Lyc., Alex. 1253; Verg., Aen., X, 615-616, 687-688, XII, 22, 87. 932). 60  Ci si è chiesto se Lygmon non fosse un’allusione a Mecenate, discendente di lucumones etruschi, ma forse anche convinto assertore di tesi che attribuivano agli Etruschi origini greche ovvero greco-pelasgiche. La questione rimane aperta (Cairns 2006, p. 275 sgg.). La tesi potrebbe essere confortata se Mecenate avesse posseduto qualche proprietà o villa nei pressi dell’ager Solonius, come molti ric55 56

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Lygmon serve, infatti, a camuffare Lucumo che, da Junius Gracchanus a Varrone, appare nella tradizione piú consolidata sui Luceres 61. Su questo punto Properzio non segue certamente Varrone e neppure Volnius, citato dallo stesso Varrone, che rivendicava l’etruscità non solo dei Luceres ma di tutte le denominazioni delle tribú 62. La menzione di Solonii e il riferimento all’ager Solonius dimostrano inoltre che per Properzio Lygmon non è neppure quel Lucerus re di Ardea che invece compare nell’abbreviatore di Festus 63. Per Properzio Lygmon è il re di Solonium, e cioè, di un posto storicamente legato, secondo Coarelli, all’ager Tarquiniorum 64. E Lygmon continua a sostituire Tarquinio, o Servio Tullio, anche quando, nella stessa elegia gli si attribuisce l’origine dei primi praetoria, dei castra e dell’organizzazione militare nei suoi rapporti con l’arte augurale 65. Il copricapo di cuoio e di peli che egli porta (galeritus) 66, in perfetto accordo con quanto l’archeologia oggi ci fa ritrovare (per esempio nelle tombe 85 e 89 di Verucchio 67), non riesce a farci dimenticare, per quanto concreto sia il dettaglio, il carattere archetipale di Lygmon, i cui praetoria sembrano ricoprire la storia delle turmae inauguratae poi sdoppiate da Tarquinio Prisco 68, o la sostanza della costituzione serviana. Per gli stessi motivi, ci troviamo davanti ad una rimozione/sostituzione di alcune tradizioni che riguardano il trionfo

chi romani, presenti anche nel vicino ager Laurens: Purcell 1998. Ma vi sarebbe inoltre un altro motivo di vedere in Lygmon inventore dei castra un “crittoMecenate”, e cioè, attraverso Lygmon un’allusione al fatto che Mecenate aveva reclutato legioni per Ottavio. 61  Varr., LL, V, 55. 62   Doveva mettere in scena Tarquinio Prisco o Servio Tullio in una delle sue tuscae tragoediae il cui argomento comportava certamente l’illustrazione dell’azione politica di questi re e, in particolare, il loro ruolo costituzionale, nell’ordinamento della classis e la creazione delle tribú (infra n. 67). 63  Paul. Festus, p. 106 L. 64 Coarelli 1997, pp. 136-148; LTUR 2008, s. v. “Ager solonius” p. 96 [F. Coarelli]. 65 IV, 1, 29. 66   Ibid. 67  Gentili 2003, fig. 57, p. 294. 68  Principali fonti: Liv. I, 36, 2.2; Cic. , Rep, II, 20, 36; Val. Max., I, 4, 1.1., Flor. I, 5, 2; Aur. Vict., de vir. Ill., 6, 7; Paul. Fest e Festus, p. 448 L, 475 L, 484 L. La bibliografia sulle tribú è troppo ampia per essere citata nel quadro di questo lavoro.

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e le sue insegne, con una semi-cancellazione del rapporto dialettico Roma - Veio in questo campo 69. Nella prima Elegia, infatti, sono citati i quattro cavalli bianchi di Romolo, ma lontano è Ratumenna 70 e la via triumphalis, lontana la questione della disputa per l’egemonia tra Roma e Veio di cui è simbolo la quadriga del tempio di Giove capitolino 71. Properzio preferisce un’allusione alla quadriga di bronzo di Romolo come primo Re divinizzato di Roma, quadriga che, secondo Dionigi di Alicarnasso, si trovava nel Volcanal 72 ed era sicuramente ancora mostrata ai tempi del poeta. L’eroizzazione sulla quadriga e “all’etrusca” di Romolo ritiene meno l’attenzione di Properzio che l’etiologia di un altro tipo di trionfo, connesso con il rito primitivo delle spoglie opime nemiche consacrate a Juppiter Feretrius 73. Romolo ne è l’iniziatore ma perché vittorioso di Caenina e perché fondatore dell’azione augustea 74. Veio appare certo, ma in connessione con la gloria repubblicana dei Cornelii Cossi 75 conquistata sul re Tolumnius; e questa   Ci limitiamo a rinviare a Coarelli 1988, pp. 363-437.   LTVR, III (1996), s.v. “Murus Seruii Tullii : Porta Ratumena”, p. 331 [F. Coarelli]. 71  Per Ratumenna e il trionfo arcaico, Coarelli 1988, pp. 411-414; Per la Via triumphalis Coarelli ibid.; Coarelli 1997, pp. 118-135. 72  D. H. II, 54; Plut., Rom., 24, 5; Coarelli 1983, pp. 167, 174, 177. 73   Prop. IV, 10. 74  LTUR I (1993), s.v. “Capitolium - fino alla prima età repubblicana”, pp. 226-231 [G. Tagliamonte]. Augusto aveva restaurato il santuario di Juppiter Feretrius sul consiglio di Atticus: Corn. Nep., Att., XX, 3; Res Gestae, IV, 5. Cfr. la testimonianza di Livio: Liv. IV, 20, 6 e 31, 1. Cossus, il piú antico cognomen dei Cornelii, potrebbe non aver nessuna consistenza, derivando da una svista di lettura dell’antica dedica apposta sulla corazza di lino di Tolumnius: Cornelius Cossus per Cornelios cosol (ossia consul) oppure “Cosolari potestate”: il vincitore del re di Veio era, infatti, secondo le fonti, trib. militaris consulari potestate. Cfr. RE IV 1 (1900) s.v. “Cornelius” 112) coll. 1289-1292 [Münzer]. 75  Cornelius Cossus è qui citato come unico antenate della gens Cornelia che comporta una molteplicità di rami. Properzio evoca qui solo in maniera “obliqua” i piú illustri Cornelii Scipiones, certamente rappresentati nei summi  viri del’età repubblicana presenti negli emicicli del tempio di Mars Ultor (Zanker 1968, p. 26 sgg.) per concentrarsi sugli Cornelii Lentuli Marcellini che da una parte si riallacciano alla gloria dei Claudii Marcelli, come dimostra il denario di P. Cornelius Lentulus Marcellinus che rappresenta, appunto, il santuario di Giove Feretrio (su questo denario, datato ultimamente del 50 a.C.: Babelon 1885-1886, I, n. 14, p. 427; Crawford 1974, I, n. 439, p. 46), dall’altra, sono collegati a Scribonia, prima moglie di Augusto e sposa di tre viri consulares, tra i quali Paulus Aemilius Lepidus et Scipio Aemilianus, oltre ché madre della 69 70

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gloria repubblicana introduce a sua volta quella dei Claudii Marcelli, conquistata su Viridomarus a Clastidium e annunciatrice della fortuna di Marcellus, primo erede di Augusto. Quando Veio appare 76, la visione desolata della città deserta, meta dei soli pastori che vi conducono le greggi richiamandoli al suono malinconico della buccina, non è “innocente”, per quanto splendidamente lirica, come neppure innocente è l’evocazione della sella curulis dei re che una volta tronava sul foro: piú che ricordare l’origine etrusca delle insegne magistratuali, la  sella curulis richiama l’urgenza di restituire a Veio dei magistrati. L’immagine precorre o accompagna la restitutio augustea del municipium veiens 77. V’è dunque in questo rapporto Roma-Etruria un preciso gioco del detto e del non detto volto a incontrare la politica di restitutio augustea. L’elegia di Vertunno, tuttavia, fuoriesce da questo quadro: altre sono qui le strategie, le informazioni di Properzio e la sua cultura. Altre le finalità che egli si prefigge fra evocazione della tradizione e richiamo alla modernità. Riesaminando l’elegia IV 2 non si può fare a meno dell’analisi filologica di Mauro Cristofani che dimostra come Voltumna sia un’epiteta di Tinia/Giove, non si può non considerare la sola, finora, attestazione epigrafica, del suo nome 78, in associazione con il dio Aita-Hades, identificata da Giovanni Colonna su un candelabro forse proveniente dal sacco del fanum Voltumnae 79. Ma l’erudizione di Properzio merita ancora altre considerazioni perché la sua profondità travalica la forma callimachea dell’aition, va al di là dei canali dell’antiquaria attraverso i quali essa pure si manifesta 80. È un’erudizione che nasce alle fonti del Clitunno, presso questo Juppiter Clitumnus che a tutti gli effetti

Cornelia cantata da Properzio: RE IV 1 (1900) s.v. “Cornelius” 227) col. 1388 [Groag]; Cairns 2006, p. 291. Con l’Elegia a Cornelia, quella a Giove Feretrio è dunque tra le piú “dinastiche” del Libro IV. 76  Prop. IV, 10-27-30. 77   Liverani 1987. 78  Cristofani 1985. 79  Colonna 1999; inoltre Poccetti 2011 per altri arricchimenti al dibattito linguistico-filologico. 80  Balder 1999.

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sembra un pendant, come ricordato da Filippo Coarelli, di Tinia Voltumna 81. Ora i signa patria 82, direi quasi la tessera hospitalis a Roma 83 della statua parlante di Vertumnus, porta iscritto il nome e il nome solo dell’Etruria. L’anafora Tuscus ego e tuscus orior 84, esprime con forza lo stesso concetto varroniano di Vertumnus, deus Etruriae princeps 85. Princeps in quest’accezione non si oppone fondamentalmente a summus come vuole Capdeville 86, ma ha lo stesso valore semantico che presiede all’espressione sacra principia oppure principiorum populi Romani Quiritium, le cerimonie religiose nelle quali si origina il popolo romano dei Quiriti. Princeps è dunque il dio nel quale si origina il nomen etruscum: da qui tuscus orior, che unisce l’eleganza poetica alla proprietà storico-religiosa del termine. Sotto il segno della leggerezza, e quasi dell’indifferenza e dell’assenza di rimorsi e nostalgia, segue la menzione della sede volsiniese del santuario e delle circostanze che nel 264 a.C. accompagnarono la presa di Volsinii (inter proelia): come se Vertunno avesse fuggito con propria iniziativa il teatro della guerra e cosí designasse la sua probabile evocatio da Volsinii, la successiva costruzione del suo tempio sull’Aventino, la rappresentazione in questo tempio di M. Fulvius Flaccus in veste trionfale e la contemporanea dedica, ricostruita da Mario Torelli 87, del donario

  Coarelli 2001.  Si potrebbe pensare a una traduzione greca con il termine sphragis. In genere, segni di riconoscimento: sigilli, anelli, o altro: cfr. ad esempio, Pl., Rud. 1110 “cistellam ubi sunt signa qui parentes noscere haec possit suos” e Pl. Poen. 1073: “signum esse oportet in manu laeva tibi”. 83  Sull’importanza delle tesserae hospitales proprio in connessione con il Foro Boario, prima zona commerciale di Roma ai tempi dei re Etruschi, ricordiamo la tessera di araz silqetenas Spurianas paragonabile a quella, trovata a Cartagine, di Venel Puinel Karthazie: Etruschi 2000, p. 550 [M. Menichetti]. Queste tessere indicano sempre la città di provenienza del personaggio. La filiazione non sembra la menzione che importa su queste tessere arcaiche (che possono essere portate da persone non cittadine, schiavi o metechi). In questo senso il Tuscus del verso 3, mentre i “signa paterna” del verso 1 sono evidentemente segni che indicano l’ascendenza come nel primo esempio di Plauto citato supra. 84  V. 3. 85  Varr., LL, 5, 46. 86  Capdeville 1999, pp. 124-127. 87 Torelli 1968. 81 82

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dello stesso Flaccus, all’inizio della via dei trionfi romani, davanti ai templi serviani di Fortuna e Mater Matuta nel Foro Boario. Properzio minimizza il rapporto di Vertumnus-Voltumna con i trionfi e la guerra, rapporti che, invece, sono ben attestati sia al fanum Voltumnae, come ora lo dimostrano gli scavi di Simonetta Stopponi 88, sia nel pendant umbro del santuario, restituito da Augusto in un luogo extra-urbano di antica memoria rispetto alla nuova fondata Hispellum. Il sito di Villa Fidelia, infatti, conclude un iter triumphale che partiva da Mevania verso il Subasio: le ricerche di Simone Sisani e di Filippo Coarelli ce lo insegnano 89. Perché un Vertumnus cosí poco guerriero, quasi dilettante, e per il quale il “servizio militare” è solo un glorioso ricordo di gioventú come recita ancora il verso 27 90? Forse le scelte “pacifiste” di Properzio contano, ma ancora di piú incide l’ideologia ispirata alla pax augustea e alla costruzione di Roma unita con l’Italia. La matrice di tali scelte ideologiche si scopre solo alla fine dell’elegia quando compare il racconto etiologico che spiega il nome del Vicus tuscus. La statua di Vertumnus commemorerebbe l’eterna riconoscenza dei Romani nei confronti di Lycomedius, accorso in aiuto di Romolo contro Titus Tatius: in chiaro contro chi, come Antonio, pretendeva regnare sui Romani 91. Intuiamo forse allora perché Lycomedius, pure riferendosi alla stessa persona, è diverso di Lygmon nell’Elegia IV 1. In Lycomedius confluiscono il ricordo del re Lycomedes di Skyros che nascose Achille e forse un’allusione, contenuta in -medius, a qualità di moderazione (in  medio stat virtus) e intermediazione diplomatica 92. Ci chiediamo, dunque, se il gioco

88 Vedi Stopponi 2002-2003; Stopponi 2011 in Archaelogy of Sanctuaries 2011; Stopponi 2012 in Fanum Voltumnae 2011; Bizzarri 2012, ibid.; Giontella 2012, ibid.; Frascarelli 2012, ibid.; Cruciani 2011, ibid. (in stampa) da apparire in Ann. Faina. 89   Coarelli 2001; Sisani 2002; Sisani 2012. 90  Con questa dichiarazione Vertumnus minimizza anche la sua posizione sulla via dei trionfi romani: il vicus Tuscus è la via tensarum atque pompae (Cic., In Verr. 2 I 59, 154, cit. in Coarelli 1988, p. 425). 91 Titus Tatius rappresenta la parte “maledetta” e rappresentata come tirannica della diarchia romano-sabina alle origini di Roma, un po’ come Antonio nei confronti di Octavio-Augusto. 92  Da ricordare che Properzio lauda in Mecenate, nei confronti di Augusto, l’amicizia e il sodalizio di un Patroclo nei confronti di Achille (II, 1, 37).

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della variante 93 non sia piú specialmente rivolto a Mecenate, non designi Mecenate in linguaggio cifrato: anche altri aspetti della fine dell’elegia a Vertunno riconducono, infatti, a Mecenate 94. Per quanto l’origine del vicus Tuscus sia riportata all’età romulea, e la figura di Vertumnus appaia assai poco militare, in sintonia con la pax augustea, la descrizione, tuttavia, della fuga dell’armata di Titus Tatius potrebbe non essere estranea, anche se taciuto da Properzio, alle competenze militari di Vertumnus: il vertere in fugam ha corrispondenze religiose, infatti, negli attributi del Mars italico, anzi ne è uno degli aspetti, talvolta codificato, come nelle Tavole Iguvine 95, o ancora a Roma nell’istituzione dei Salii di Pavor e Pallor da parte di Tullus Hostilius 96. Ben piú complessa è la tradizione riguardante la prima statua di bronzo di Vertumnus a Roma, che avrebbe sostituito un vecchio xoanon di legno e la cui realizzazione è attribuita alla mano di Mamurius Veturius. Properzio è il solo a presentarci questa tradizione che sembra di nuovo intrisa d’ideologia perché la statua di Vertumnus diventa un mero pretesto per evocare l’artefice degli ancilia 97, il venerando collegio salio e il religioso Numa, il lato sabino, e forse claudiano, del regime. L’origine dell’erudizione di Properzio, tuttavia, potrebbe rivelare altri scenari. Lo xoanon di legno sembra paragonabile alla stessa statua di legno di Servio Tullio 98 nel tempio del Foro Boario e potrebbe serbare l’autentico ricordo della prima statua di Vertunno, forse contemporanea non già di Titus Tatius 99

Sarebbe anche lui il buon re Lycomedes che nascose Achille su ordine della madre Thetis? 93  Lycomedius appare anche in P. Festus, p. 107 L.: non è chiaro se l’informazione del grammatico viene solo da Properzio o da altre notizie presenti nell’antiquaria romana (Verrius Flaccus?). 94 Anche se Vertunno non può essere interamente assimilabile a Mecenate come sostenuto in Lucot 1953 et 1957. 95  Prosdocimi 1989, pp. 494-496. 96  Wissowa 1902, p. 149. 97   Colonna 1991; Borgna 1993. 98  D.H., IV, 40, 7; Ovid., Fast., VI, 569-572, 579-580, 613-626: Coarelli 1988, pp. 265-277. 99 Tra i dei di Titus Tatius figura, però, Vortumnus: Varr., LL, V, 74 (la fonte è annalistica).

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e Romolo ma, appunto, di Servio Tullio, al tempo di Caelius Vibenna, all’origine della fondazione del vicus Tuscus avvenuta, secondo la tradizione seguita da Tacito 100, sotto il primo Tarquinio. Quanto alla statua bronzea di Vertunno che sostituí lo xoanon, essa pone un problema complesso, sia che Properzio abbia in mente un’altra statua di Vertunno a lui nota, come quella, forse proveniente del sacco di Volsinii nel 264 a.C., che era consacrata nel tempio dell’Aventino, ma non si confondeva con quella del vicus Tuscus, sia che utilizzi una tradizione particolare. Le prime statue di bronzo consacrate in Roma ci riportano, infatti, all’inizio della repubblica o alla fine dell’età regia 101. È il caso in particolare della statua di Orazio Coclite consacrata nel Volcanal, forse solo statua di Volcano, come suggerisce Coarelli 102, ma la cui interpretazione come Orazio Coclite serba comunque memoria (forse non a caso) del tempo di Porsenna. E proprio il bronzeo Vertunno potrebbe risalire all’età di Porsenna, poiché secondo un’altra tradizione sull’origine del vicus Tuscus, il luogo trarrebbe il suo nome dall’ospitalità data dai Romani agli Etruschi di Porsenna dopo la battaglia di Ariccia nel 508 a.C. 103. Ora dalle scholia dello Pseudo-Acrone a Orazio sappiamo che Mecenate, discendente di re etruschi, si considerava adfinis di Porsenna 104, imparentato al re chiusino-volsiniese. Che una notizia particolare riguardante la sostituzione dello xoanon di Vertumnus con una statua bronzea possa pertanto essere stata nota a Properzio attraverso Mecenate, non lo escluderei: tanto piú che “l’osca manus” dell’artifex (nonostante tutti i possibili raffronti tra Mamurius latino e Mamercus osco-latino 105, tutti i possibili giochi 100  Ann. IV, 65. Tacito concorda con l’Imperatore Claudio nel suo discorso di Lione e rappresenta il filone della tradizione non allineato sulla “romulizzazione” dell’età di Caelius Vibenna: già Coarelli 1983b. 101 Un’eccezione potrebbe essere la statua di Attus Navius, che risalerebbe all’età dei Tarquinii: LTUR IV (1999), s.v. “Statua Atti Navi”, pp. 365-366 [F. Coarelli]. 102  Coarelli 1983a, p. 174-176; LTUR IV (1999), s.v. “Statua M. Horatii Coclitis”, p. 361 [F. Coarelli]. 103   Coarelli 1988 ; LTUR V (1999) s.v. “vicus Tuscus”, pp. 195-197 [E. Papi]. 104  Ps. Acr., Schol in Hor. vetustiora, I, éd. O. Keller, 1902, p. 87; Colonna 2000, p. 284. 105  Ma vd. anche il cognomen Mamercus di un ramo degli Aemilii (in rapporto anche con il pitagorismo della gens).

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storico-etimologici tra opus, o(p)scus e opifex 106) non si spiega con tanta facilità. Siamo sicuri che il Mamurius degli ancillae non obliteri qui un altro Mamurius, e cioè un altro artifex di origine osca, contemporaneo dell’espansione di Porsenna in direzione della Campania e vero autore del bronzeo Vertunno? L’etimologia è rivelatrice della storia oppure la nasconde? Il ludus supremo di Properzio in questa elegia è, infatti, il ludus etimologico, attraverso il quale, il virtuosismo trasformistico di Vertumnus si esprime. Attraverso questo gioco, Properzio vorrà forse alludere all’abilità metamorfica di Mecenate 107, vorrà in qualche modo fare, come puntualizzato da Paola Pinotti, professione di anticonformismo 108 oppure, se seguiremo Maurizio Bettini 109, dare una rappresentazione dell’instabilità sociale e dell’incertezza morale dell’epoca. Vertumnus, infatti, possiede una polimorfa personalità, simile, mutatis mutandis, al neveu de Rameau immortalato da Diderot, capace di impersonare tutti gli umori e tutti i personaggi della Parigi pre-rivoluzionaria 110. L’etimologia consente tuttavia a Properzio una visione larga e non riduttiva dell’essenza della divinità: ben diversa da quella che appare in Ovidio nel racconto della metamorfosi di Vertunno e dei suoi amori con Pomona 111. Properzio non cita per niente Pomona 112, dicendo molto di piú. La prima etimologia, in relazione ad amnis vertens, amnis versus 113, è data prima in funzione di Roma: la creazione del vicus 106   Per gli Osci, Colonna 1991 in Storia della Campania 1991, p. 32; su Mamurius Veturius, fonti principali: Var., LL, 6, 6; P. Fest., p. 117, 13 L M; Ovid., Fast., III, 383; Plut., Numa, 13; Wissowa 1906, pp. 147-148; RE XIV (1928), s.v. Mamurius Veturius, col. 966, [G. Lippold]; Wagenvoort 1956, pp. 207-212; Illuminati 1961; Loicq 1964. 107  Supra n. 91. 108  Pinotti 1983; Pinotti 2004, pp. 45-66. 109  Bettini 2012; cfr. Scheid & Svembro 2004. 110 Diderot ha scritto il suo “Neveu de Rameau” sotto il segno di Vertumnus ma sono i versi di Orazio (Sat. II, 7: Vertumnis, quotquot sunt, natus iniquis) ad essere citati nell’esergo. 111  Ovid., Met., 14, 623-764. Vd. da ultimo Frass 2005. 112 Non la cita nemmeno a proposito dell’ager Solonius nel quale la divinità aveva un antichissimo culto (Festus, p. 296 L): ma forse, appunto perché il Pomonal potrebbe appartenere piú alla fase dei Tarquinii (sempre obliterata) che alla fase latino-sabina dei luoghi. 113  Cfr. Serv. Aen. 8, 90: hac enim habebatur Tiberis, antequam Vertumno factis sacrificiis averteretur.

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Tuscus e l’erezione della statua di Vertumnus non sarebbero state possibili, come analizzato da Coarelli 114, senza la sanatio della palude del Velabro e la derivazione delle acque del Tevere. L’etimologia, per quanto filologicamente inesatta, non contraddice l’esperienza romana; può servire inoltre a illustrare una parentela tra il fiume e Vertumnus, parentela sia topografica sia religiosa 115, non solo a Roma ma in altre situazioni: come a Orvieto - Volsinii il gomito del Tevere nella confluenza del Paglia, come nelle campagne tra Mevania e il Subasio, il fiume Tinia (il Topino dei pressi di Mevania) e Iuppiter Clitumnus 116. Per di piú i Volturnalia romani, ossia le feste in onore del Tevere, si svolgevano nello stesso mese del dies natalis di Vertumnus, in Agosto. La seconda etimologia, annus vertens è forse la piú interessante dal punto di vista antiquario. Perché Vertumnus assume, attraverso questa identità, il carattere della mutazione del cielo (un’entità, il cielo, che non a caso compare nelle recenti iscrizioni del fanum Voltumnae) 117, il volto della mutazione delle stagioni che ritmano l’agricoltura e la guerra 118. L’offerta delle primizie del grano ancora lattescente (praemetium) e del vino, l’offerta della frutta, sono tutte manifestazioni cultuali che concordano perfettamente con quanto sta emergendo dagli scavi di Simonetta Stopponi a Orvieto: ossia la polarità vinum/far, l’opposizione Bacco/Cerere che sembrano improntare le varie installazioni del santuario e ispirare la natura e la forma di alcuni ex-voto e reperti 119. Anche qui il calendario romano serba memoria di antiche connessioni tra Vertumnus, i Vinalia, gli Consualia e gli Opiconsivia, tutte feste di Agosto con i Volturnalia e i Portunalia 120.   Coarelli 1988, pp. 365-366, pp. 424-425.   Sul nome etrusco del Tevere (Velthurna-Volturnus), De Simone 1975. 116  Coarelli 2001; Sisani 2002. 117 Iscrizione sull’ex voto di Kanuta: Stopponi 2010, pp. 37-42. Vd. nell’iscrizione il termine “faliathere” che S. Stopponi ha avvicinato alla glossa falado (P. Festus, p. 78 L) per cielo nella lingua etrusca. Questo termine dipende da “marvethul” che determina a sua volta il teonimo “tluschval” al genitivo. Vd. infra. 118  Anche per questo motivo si può notare che l’attribuzione della statua di Vertunno a Mamurius Veturius può alludere appunto anche all’annus vertens rappresentato dai mamuralia e dalla cacciata del Vecchio Marte, Mamurius Veturius (supra n. 98). 119  Vedi Stopponi 2012 in Fanum Voltumnae 2011. 120  Coarelli 2001. 114 115

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La terza paretimologia, il vertere in omnes che caratterizza Vertumnus, fa trasparire lo stesso legame con Roma, nell’evocazione delle multiformi attività del vicus Tuscus, dei commerci e del meretricio, della vendita dei profumi (vicus Turarius-Tuscus) e delle stoffe, dello scambio e della mercatura. Properzio non “descrive” queste varie attività della “togata turba”, ma le suggerisce attraverso le multiple metamorfosi della divinità 121. E questo colorato legame con Roma non può essere disgiunto da quanto sappiamo delle multiformi attività, anche fieristiche, esistenti intorno ai santuari di Voltumna. L’attività commerciale, regolata sul ritmo delle stagioni è, infatti, anche iscritta nella storia di Mevania, di Ispello, di Orvieto - Volsinii 122. A tale proposito, un documento orvietano appartenente alla Tomba del Guerriero, databile nel terzo quarto del IV secolo a.C., ci sembra illumini aspetti fondamentali del nostro problema. La tomba del guerriero, eccezionale per molti versi, presenta, infatti, un ricco corredo di bronzi e una completa armatura, tratto arcaico che, nel IV secolo, troverà una spiegazione plausibile se l’intento di una simile deposizione sia stato di eroizzare o distinguere in modo particolare il defunto 123. Ora tra gli oggetti del corredo spicca una patera di forma unica sul cui fondo sono incise tre figure 124: quella centrale in piedi, è vestita di una lunga tunica con motivi floreali o di fogliame e si appoggia a uno scettro (non un tridente) 125 (fig. 5). Seduta a destra è la figura di un guerriero armato in atteggiamento di attesa, e seduta a sinistra la figura del dio Hermes, Turms etrusco. Anche in assenza d’iscrizioni, la patera riconduce a un atto religioso di libagione in un santuario, forse a un rito trionfale, e ci sembra (richia  V. 5-6, 56-57.   Per le fiere del fanum Voltumnae, vd. anche il sito di Campo della Fiera che dimostra la continuità tra le fiere medievali e l’antico sito del santuario. Esattamente come a Spello (Coarelli 2001) e Mevania (Sisani 2002) le fiere sono sul percorso della via triumphalis. 123   Forse appunto come “trionfatore”. Sulla tomba del guerriero, Adembri 1982 in Pittura etrusca 1982, pp. 76-85. 124 Adembri (cit.), n° 8, pp. 83-84. 125  Simile ad alcuni scettri di divinità su vasi italioti: Adembri (cit.), p. 84. Benedetta Adembri non si pronuncia sulla natura della divinità, anche se il personaggio gli sembra piú vicino a Tinia che a Nettuno (da escludere comunque per l’assenza di barba). 121 122

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mandoci inoltre ad analogie con una nota serie di specchi di origine volsiniese) 126 che l’immagine rappresenti, tra il guerriero Laran-Marte e il dio Turms-Mercurio, lo stesso Tinia-Voltumna in foggia giovanile e in veste fiorita, primaverile 127, ossia TiniaVoltumna in toga picta di trionfatore tra le due funzioni dell’anno che presiede e governa, la guerra e la mercatura, Il vertere dello scambio, e il vertere in fugam che inquadrano l’annus vertens. È quest’ultimo il Vertunno praeses vertundarum rerum, hoc est emendarum vendendarum 128, il Vertunno mercibus vernis dives, ricco di beni primaverili 129. Ci chiediamo allora se da questo tratto fondamentale, che apre sul rapporto di Vertunno, non solo con il vertere dell’estate, i Vinalia rustica e i primi frutti, ma anche con il vertere della primavera 130, e le prime feste di Giove e Venere (Vinalia priora), non possa spiegare i versi 33-34 dell’elegia, nei quali a secondo delle lezioni tramandate dai manoscritti o degli emendamenti diversi proposti, Vertunno uccellatore si definisce “Favor” o Faunus 131. In realtà, sia l’una sia l’altra scelta di edi126 Da ultima Massa-Pairault 1998, in Aigner Foresti 1998, pp. 426-429 e fig. 3a 6a, in particolare fig. 3 per la presenza di Turms; cfr. Massa-Pairault 1999. 127 Il motivo è assai vicino a foglie di vigna o di edera (connessione con Bacco e i trionfi). 128  Porph., ad Hor. Ep. I, 20: praeses vertundarum rerum, hoc est emendarum vendendarum; Ps. Ascon., p. 255 St.: Vertumnus autem deus invertarum rerum, id est mercaturae. 129  Colum., 10, 308: mercibus et vernis dives Vertumnus abundet/et titubante gradu multo madefactus Iaccho/ aere sinus gerulus plenos gravis urbe reportet. Cfr. forse un legame con Veris fructus in Mart. Cap. I, 52. 130  Cfr. Colum., 10, 255: iam ver purpureum, iam versicoloribus anni/fetibus alma parens pingi sua tempora gaudet. (In questi versi vengono esaltati i colori vari della primavera e della terra che li produce, in concomitanza con il fiorire dei giardini sotto l’autorità di Vertunno (legame anche con Flora). 131  Sull’importanza di questo verso di Properzio, Poccetti 2012, p. 184. Favor, accolto da Cairns (Cairns 2006, pp. 282-283) presenta tuttavia alcune difficoltà metriche; perciò una scelta “Faunus” non ci sembrerebbe del tutto fuori luogo, né per l’immagine (aspetto satiresco di Vertumnus: vedi ora antefisse da Campo della Fiera: Stopponi 2012, in stampa), né per la proprietà del concetto religioso. Sia Favores sia Faunus ci riporta, infatti, ai soffi del Favonius che riprendono a metà Febbraio, festa di Fauno (Torelli 1984, pp. 180-184) e sono anche in collegamento con Venere (Torelli, ibid., p. 88). Con argomenti sia iconografici sia filologici e partendo da Colonna (Colonna 1972), N. De Grummond (Grummond 2005) pensa che favor si identifichi con la divinità Thufltha. Ma è difficile concordare con l’analisi iconografica sia

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zione riportano allo stesso concetto religioso, ossia ai soffi della primavera (Favor = Zephyros) e, di nuovo, a precise strutture festive del calendario che, note a Roma, non sono neppure estranee all’Etruria: complessivamente si tratta del rapporto Venus-Favor-Juppiter e Vinalia, che, come analizzato da Mario Torelli, culminano nei Vinalia primaverili del 23 Aprile 132. Questa struttura ci pare informi la dedica di Kanuta nel fanum Voltumnae, perché i tluschva “nel cielo(?)” che ringrazia come affrancata elevata a dignità di sposa di uomo libero ci sembrano vicini ai favores opertanei che risiedono presso Juppiter in Martianus Capella 133, favores forse interpretabili in greco come le Charites (figlie di Zeus) 134 che propiziano il suo matrimonio con Pinie ma che, come Vertunno, prendono la forma che richiede la sfera nella quale, di volta in volta agiscono: amministrazione collegiale celeste della volontà buona (Faventia 135) di Giove 136, competenza ctonia in rapporto con il processo produttivo e il matrimonio, l’assaggio del primo vino dell’anno per la statuetta del Vaticano proveniente da Vulci con dedica a Suri Thufltha che non fa il gesto dell’uccellatore e probabilmente tiene in mano un rhyton (Sannibale 1997-2008, n. 5, pp. 27-32) sia per altri ex-voto a Thufltha (fanciulli e giovinette che recano in mano un uccello), non solo perché l’attributo non caratterizza specificamente ex-voto a Thufltha (cfr. Tec šanš per il fanciullo del Trasimeno), ma perché la presenza di tale motivo si spiega in rapporto a modelli ellenistici e non a intenti religiosi. Per quanto riguarda il dossier filologico, è vero che Thuf appartiene sul Fegato di Piacenza alla casa esterna di Giove e alla pars favorevole vicino a Fuflus, ma non è ancora possibile, allo stato attuale delle conoscenze (Colonna tende ora a sfumare la sua prima interpretazione di Thufltha con Favor), dare un’interpretazione univoca della divinità, né per Tin Thuf (seguendo Martianus Capella, Thuf potrebbe corrispondere anche a Di Penates e Lares) né per Fuflus vicino a Thuflthas sotto il processus pyramidalis. Rimandiamo ad altra sede per una discussione piú dettagliata del problema. 132 Torelli 1984, pp. 87-95. 133   Mart. Cap., I, 45, 49-50; cfr. Thulin 1906, p. 39 sgg. 134  Vedi già in proposito Roscherslexicon, II 1 (1884-90), s.v. “Favor”, coll. 1469-1470 [Steuding]; in questo senso Stopponi 2010; per il concetto di Tluschva come Charites in quanto divinità ctonie Maggiani 2011: importante, per l’interpretazione del nume “collegiale” etrusco il frammento di ceramica attica con rappresentazione della Charis Aglaia e dediche alle Tluschva su piedi di vasi attici dello stesso contesto. 135  Faventia = Bona ominatio: Paul. Fest., p. 78 L. 136  E perciò invisibili (“opertanei”) anche nelle caselle celesti esterne di Giove sul fegato: ci riferiamo all’espressione “marvethul faliatheres?” nella quale marvethul è stato confrontato con la voce maru (magistrato): Stopponi 2010.

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e la propiziazione della raccolta futura (vinalia priora), oppure associate a un Marte insieme agreste e guerriero 137. I versi 34-37 fornirebbero dunque un’ultima ragione per prendere sul serio il gioco etimologico nel quale Properzio con maestria ci ha trascinato. Il prodigioso trasformismo di Vertunno non è dunque solo un’immagine convenzionale e ideologicamente orientata della divinità. Risponde inoltre a una verità nutrita di cultura e che attraversa la profondità della storia. E proprio dalla profondità della storia sembra nasca Vertunno come metafora della modernità, come immagine della fuga perpetua di chi non ha tempo e si precipita verso il vadimonium, come incarnazione dell’incertezza stessa dell’identità e della vita. Vertunno è perciò in perfetta sintonia con Cinzia infinitamente varia e sfuggente e contradittoria e tiranna. Vertunno è la vita stessa di Properzio che in lontananza intravede gli aurea templa di Roma e distrugge l’incanto virgiliano. Le porte della storia come quelle della vita e della modernità si aprono e si chiudono, simili alle improbabili porte del sogno 138 che lasciano intravedere tutte le forme e tutte le identità.

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Fig. 1 Urna di P. Volumnius A. F. Violens Cafatia natus (fronte) (da Conestabile 1870, tav. XI. 1)

Fig. 2 Urna di P. Volumnius A. F. Violens Cafatia natus (parte postica) (da Conestabile 1870, tav. XII. 1)

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Fig. 3 Urna di P. Volumnius A. F. Violens Cafatia natus (lato lungo A) (da Conestabile 1870, tav. XI. 2)

Fig. 4 Urna di P. Volumnius A. F. Violens Cafatia natus (lato lungo B) (da Conestabile 1870, tav. XII. 2 )

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Fig. 5 Patera bronzea della Tomba del Guerriero (interno), Orvieto (da Pittura etrusca a Orvieto 1982, fig. p. 84)

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Roberto Cristofoli

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Mecenate nacque in terra d’Etruria il 13 aprile di un anno compreso tra il 74 ed il 60 1, anche se propenderei per una datazione molto alta; il suo nome completo è conservato dall’iscrizione CIL VI,21771: C. Maecenas L. f. Pom[ptina tribu], con Maecenas in funzione di gentilizio, mentre il noto Cilnius non sarebbe che il gentilizio materno, ad attestare la parentela con gli storici Cilnii di Arezzo 2, menzionati da Livio 10,3,1 come genus praepotens inviso per la sua ricchezza. All’entrata sulla scena politica di Ottaviano come primattore nella primavera del 44, corrisponde per noi l’entrata nella storia anche di Mecenate: anche se fu probabilmente il padre di Mecenate ad essere individuato da Nicola di Damasco 3 al seguito del figlio adottivo di Cesare quando cercava consenso e adesioni fra i legionari insediati in Campania, si può comunque presupporre che sia stata tutta la sua famiglia ad aver svolto al servizio del

1 Il giorno è sicuro: vd. Hor., Carm. 4,11,13 sgg.; per l’anno di nascita è stato contemplato dagli studiosi un arco di tempo abbastanza esteso, che va appunto dalla metà degli anni Settanta fino alla fine dei Sessanta del I sec. a.C.: in Demougin 1992, p. 87 è lasciato aperto l’intero decennio 70-60, mentre altri – probabilmente con maggior ragione – non si spingono piú in basso del 70 (cosí Avallone 1962, p. 11). 2  Cfr. PIR2, p. 131; Nicolet 1974, p. 932; impreciso Tac., Ann.  6,11,1: Cilnius Maecenas. I poeti augustei enfatizzeranno tale discendenza di Mecenate. 3  Vd. Nic. Dam., FGH II,90, fr. 130,131-133; si tratterebbe invece proprio di Mecenate figlio, nonostante l’errore nel prenome, secondo Avallone 1962, p. 13, n. 17, sulla scia di vari altri che pensarono di emendare il tràdito Λεύκιος in Γάιος: ma cfr. contra, fra gli altri, Stein 1928, col. 209; Syme 1962, p. 134, n. 1; La Penna 1987, p. 411.

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102584

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futuro imperatore un ruolo di sostegno e propaganda ma anche di finanziamento, specie nei primi momenti, quando il console Marco Antonio tentava con ogni mezzo di procrastinare il trasferimento dei lasciti finanziari di Cesare al giovane erede. Mecenate figlio si schierò al fianco di Ottaviano in prima persona, se non già in occasione del bellum Mutinense 4, senz’altro a Filippi nell’ottobre del 42 5; a partire dal 40, fu attivo in un ruolo diplomatico molto apprezzato: ebbe una parte di primo piano tra coloro che favorirono l’incontro e l’accordo di Ottaviano ed Antonio a Brindisi 6, con inoltre il matrimonio fra il primo ed una parente di Sesto Pompeo, Scribonia 7. L’attività diplomatica di Mecenate proseguí nel 38, quando lo troviamo ad Atene, inviatovi da Ottaviano per incontrare Antonio e chiedergli rinforzi per la guerra contro Sesto Pompeo 8, e nel 38-37, quando fu membro di una delle delegazioni che prepararono la scena dei colloqui tarantini ancora fra i due potenti triumviri 9. Il giovane aretino, contraddistinto da una eccezionale fides 10 nei suoi confronti, entrò nella piú completa confidenza e fiducia dell’erede di Cesare; Cassio Dione attesta (55,7,1) che Mecenate τῆς τε γὰρ ὀργῆς αὐτὸν ἀεὶ παρέλυε καὶ ἐς τὸ ἠπιώτερον μεθίστη, e che a lui e ad Agrippa (peraltro dedicatari del De vita sua) Augusto ἐξουσίαν ἔδωκεν ad un livello tale da metterli a parte della propria corrispondenza con facoltà di intervenirvi e da provvederli di un anello apposito per sigillare le sue lettere (51,3,5-6).

4  Non ha alcun valore probante in questo senso Prop. 2,1,27; contra, cfr. Avallone 1962, p. 13 sg. 5 Vd. Eleg. in Maec. 1,43-44; Plin., Nat. Hist. 7,45,148; cfr. Stein 1928, col. 209; Avallone 1962, p. 14. 6 App., Civ. 5,64,272; cfr. Stein 1928, col. 209 sg.; Avallone 1962, p. 14. 7 App., Civ.  5,53,222; cfr. Stein 1928, col. 209; Boyancé 1959, p. 335; Avallone 1962, p. 14. 8  App., Civ. 5,92,385; cfr. Avallone 1962, p. 15 e n. 25 (con discussione delle fonti); Pelling 19962, p. 25. 9 Plut., Ant. 35,3; cfr. anche, notoriamente, Hor., Serm. 1,5,27 sgg. (et al.), dove Mecenate è descritto assieme a L. Cocceio Nerva come missi magnis de rebus uterque / legati, aversos soliti conponere amicos. Cfr. Stein 1928, col. 210; Boyancé 1959, p. 336; Avallone 1962, p. 14 sg. e ntt. 24 e 26; Mangiameli 2012, p. 216. 10 Hor., Epod. 1,1-4; Prop. 3,9,33-34; Eleg. in Maec. 1,12; 1,27; e 1,40, dove la pietas si ricollega al significato etimologico di qualità di chi si comporta come si conviene all’interno di un dato rapporto.

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Negli anni successivi Mecenate, pur essendo un cavaliere, si trovò preposto dallo stesso Ottaviano alla tutela dell’Urbe in sua assenza 11: cosí nel 36, e di nuovo nel 31, circostanze, entrambe, in cui non è ben chiaro se il nostro ebbe modo di trovarsi rispettivamente a Nauloco 12 e ad Azio 13 per poi tornare subito a Roma, o se invece da Roma non si mosse affatto. Nel 30, sempre all’interno dell’attività di controllo su Roma che gli era stata delegata da Ottaviano impegnato in Egitto a portare a termine la guerra contro Antonio e Cleopatra, si guadagnò il merito di aver sventato un tentativo di colpo di Stato ordito dal figlio del deposto triumviro Marco Emilio Lepido 14; né pare divenisse per questo inviso al popolo, che al contrario salutò con un fragoroso applauso la sua guarigione da una malattia quando si ripresentò in pubblico nel teatro di Pompeo 15. Del resto ancora Cassio Dione nota (55,7,4) come un evento raro il fatto

11 ...tu Caesaris almi / dextera, Romanae tu vigil Urbis eras (Eleg. in Maec. 1,13 14); Num minus Urbis erat custos et Caesaris obses, / num tibi non tutas fecit in Urbe vias? (ibid., 27-28). Le espressioni di Cassio Dione in riferimento alle mansioni di Mecenate (49,16,2 e 51,3,5) sono molto generiche, e non permettono di dirimere la questione della tipologia di carica da lui rivestita: cfr. ad es. Avallone 1962, p. 20. 12  A deporre a favore della presenza di Mecenate alla battaglia di Nauloco non sono tanto Hor., Epod. 9,7 sgg. e Prop. 2,1,28, quanto piuttosto Eleg. in Maec. 1,41-42; del resto le testimonianze di App., Civ. 5,99,414 e 5,112,470, e di Cass. Dio 49,16,2 non escludono affatto la presenza di Mecenate all’evento della battaglia nel momento in cui menzionano una sua attività di controllo sull’Urbe e sull’Italia all’epoca della guerra: cfr. Stein 1928, col. 210; Avallone 1962, p. 15 sg. e n. 27. 13  Sembra indicare la presenza di Mecenate alla battaglia di Azio Prop. 2,1,34, ma di nuovo la testimonianza non ha la stessa forza di quella di Eleg. in Maec. 1,4548, nonché dell’Epodo I oraziano nella sua totalità e nella sua posizione incipitaria; Cass. Dio 51,3,5 attesta che Mecenate esercitava in quei frangenti il governo su Roma e sul resto dell’Italia (...ᾧ [a Mecenate] καὶ τότε ἥ τε Ῥώμη καὶ ἡ λοιπὴ Ἰταλία προσετέτακτο), anche in questo caso delineando un incarico ed una situazione – confermati inoltre da Vell. Pat. 2,88,2 e da Tac., Ann. 6,11,3 – che non escludono necessariamente un rapido spostamento di Mecenate verso il teatro della battaglia al momento di essa, anche se in effetti non incoraggiano a presupporlo: cfr. Stein 1928, col. 210 sg.; Avallone 1962, p. 16 sg. 14  Vell. Pat. 2,88,3; Suet., Aug. 19,1; App., Civ. 4,50,216 (sulla cui versione della vicenda nella sua globalità, che rifletterebbe una tendenza antiottavianea, rimandiamo a Rohr Vio 2000, p. 110 sg.; cfr. in generale anche le pp. 296 sgg.); Cass. Dio 54,15,4 sgg. Cfr. Stein 1928, col. 211; Avallone 1962, p. 17; Syme 1993, p. 59 sg.; Crook 19962, p. 74. 15 Hor., Carm. 1,20,3 sgg.; 2,17,25-26; cfr. Avallone 1962, p. 18.

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che Mecenate godesse dell’affetto di Augusto e nondimeno τοῖς ἄλλοις πᾶσιν ἠρέσκετο; a facilitarlo in ciò poté essere stato senz’altro il suo contegno quale ce lo descrive Orazio all’inizio della sesta satira del I libro (vv. 3 sgg.): pur discendendo da una famiglia illustrissima, nec ... naso suspendis adunco ignotos, e cum referre negas quali sit quisque parente natus, e perfino Seneca, che non lo amava molto, deve riconoscergli doti di clemenza 16. Nel mezzo di queste vicende, in un anno imprecisato compreso fra il 38 ed il 28 17, Mecenate si sposò con Terenzia. Amava tuttavia anche il pantomimo Batillo, e deliziavano la sua esistenza la casa sontuosa sull’Esquilino che con le sue torri si avvicinava alle alte nuvole – come la tratteggia Orazio in Carm. 3,29,10 – ed un ingente lusso; soleva vestirsi ed addobbarsi in maniera discinta 18, tratti spesso curiosamente ricondotti dagli studiosi alle sue origini etrusche 19, e che creano in Velleio Patercolo un quadro di stridente paradossalità giustapposti alla sua rinuncia al sonno, alla preveggenza ed alla sicurezza nell’azione ubi res vigiliam exigeret 20. Si professava epicureo 21 (aveva avuto

16  Epist. ad Luc. 114,7; per i giudizi e le testimonianze di Seneca su Mecenate cfr. tra gli altri Avallone 1962, pp. 60 sgg. 17  Avallone 1962, p. 24. 18  Sen., Epist. ad Luc. 114,6: etiam cum absentis Caesaris partibus fungeretur, signum a discincto petebatur; cfr. anche Eleg. in Maec. 1,21; 25 (tunicae solutae); Suet., Aug. 86,3. 19  Cosí ad es. Boyancé 1967, p. 333 sg.; contra cfr. André 1967, p. 60 sg., che si richiama piuttosto alle tendenze di tutta un’epoca. 20  2,88,2: ...C. Maecenas equestri, sed splendido genere natus, vir, ubi res vigiliam exigeret, sane exomnis, providens atque agendi sciens, simul vero aliquid ex negotio remitti posset, otio ac mollitiis paene ultra feminam fluens. La Penna 1978, pp. 200 sgg., alla luce della testimonianza velleiana oltre che della descrizione di Tacito, Ann. 3,30, ha analizzato anche il caso di Mecenate nella galleria di esempi di quello che ha definito il genere del ritratto paradossale nella letteratura latina. 21   Gli studiosi, anche sulla base del fatto che Seneca, in contesti generalmente ostili a Mecenate, non lo biasima in quanto epicureo, ritengono che l’adesione di Mecenate all’epicureismo fu imperfetta (André 1967, p. 60 sg.), e che di tale filosofia avrebbe ripreso “piú che altro, ideali e norme di vita” (Avallone 1962, p. 91), soprattutto il senso dell’amicizia e il rifiuto delle ambizioni eccessive. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima lettura, nel discorso che gli attribuisce Cassio Dione Mecenate non esprime affatto (52,36,4) disprezzo per i filosofi, ma mette in guardia Ottaviano da coloro, οὐκ ὀλίγοι, che per filosofi si spacciavano (τῶν φιλοσοφεῖν προσποιουμένων); secondo André 1967, p. 8, il bersaglio di una eventuale opposizione sul piano filosofico da parte di Mecenate sarebbe stato lo stoico Atenodoro, eccessivamente rigorista.

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come maestri Sirone e Filodemo di Gadara) pur senza osservare di questa filosofia alcun precetto troppo rigidamente, ed essendo peraltro animato da quel forte attaccamento alla vita che palesa anche nei suoi versi, ma che avrebbe lasciato interdetto uno stoico come Seneca 22. Nel 29 avvenne il suo dibattuto ritiro dalla partecipazione attiva agli incarichi politico-amministrativi. Molto si è discusso sui motivi che potrebbero aver indotto Mecenate a tale decisione: sono state chiamate in causa le piú disparate ragioni, dalla cagionevolezza della salute (che, insieme al desiderio di godersi le ricchezze accumulate, lo avrebbero spinto a preferire l’otium 23), alla scelta dell’esercizio di una forma di auctoritas disgiunta dal contestuale insediamento in una carica 24, senza che sia peraltro mancato il riferimento alla sua professione filosofica 25, giacché l’epicureismo, pur nella versione romana non incompatibile con la politica attiva, preferiva “consigliare un principe” da una posizione scevra di ambizioni di scalata alle cariche. Certo è, infatti, che l’interrogativo sulle ragioni del ritiro di Mecenate fa da pendant a quello inerente alla sua permanenza nell’ordo equester senza il passaggio fra i senatori 26.   Epist. ad Luc. 101, 10 sgg.   Reckford 1959, p. 198. Proprio all’ideale di una vita appartata e quasi idillica attribuiscono la scelta di Mecenate anche Eleg. in Maec. 1,33 sgg. (forse parodiato da Sen., De provid. 1,3,10), e pur in maniera meno esplicita anche Prop. 3,9,23 sgg.; Seneca, all’interno di un atteggiamento sostanzialmente ostile alla figura di Mecenate, punta l’indice contro questa scelta, che avrebbe avuto conseguenze negative sul piano della moralità, con equazione finale fra lo svigorimento dell’animo e quello conseguente dell’oratoria: ingeniosus ille vir fuit, magnum exemplum Romanae eloquentiae daturus nisi illum enervasset felicitas, immo castrasset (Epist. ad Luc. 19,9); cfr. anche Epist. ad Luc. 92,35; 114, 4 sgg. (non oratio eius aeque soluta est quam ipse discinctus?), 8, 21 sg.; 120,19. 24  André 1967, p. 67. 25  André 1967, pp. 65 sgg. 26 Porfirione, ad Hor. Serm. 1,6,68 scrive: abhorrens senatoriam dignitatem in equestris ordinis gradu se constituit; dal canto suo lo Pseudo-Acrone conferma la notizia tanto in ad Hor. Serm. 1,20,6 (constat Maecenatem in equestri dignitate mansisse sua voluntate, dum ei laticlavi facultas pateret) quanto in ad Hor. Carm. 3,16,20 (Maecenas enim eques Romanus fuit nec voluit transire in ordinem senatorium). Tra i moderni le spiegazioni prevalenti vertono sul disinteresse verso l’esteriorità del potere (cfr. fra i vari altri Boyancé 1959, p. 333), ovvero sull’attaccamento all’ideale equestre (cfr. fra i vari altri Syme 1962, pp. 356 sgg. e Sordi 1995, p. 152; André 1967, pp. 63 sgg. e 74 vi collega il desiderio di una pax necessaria per stipulare gli affari, da cui anche la sua intensa attività diplomatica, nonché il disprezzo 22 23

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Reckford divise in due periodi, pertanto, l’esistenza di Mecenate: quello in cui svolse la sua attività politica, dal 44 al 29, e quello dal 29 all’8 a.C., l’anno della morte, in cui Mecenate visse in un parziale ritiro dalla politica; ma il secondo non si presenta come un periodo definibile con nettezza per quanto concerne il rapporto tra Mecenate e la collaborazione con il potere 27. Al perdurare, da parte di Mecenate, almeno dell’attività di consulenza politica diretta indurrebbe a pensare anche Orazio, in Carm. 3,29,25 sgg. (come rimarcato da P. White 28) e già in Carm. 3,8,17: per la verità, io penserei a qualcosa di piú preciso a tal proposito, e tornerò piú avanti su quest’aspetto. Mecenate poté quindi dedicarsi – ma, appunto, non esclusivamente – a quella che dall’inizio degli anni Trenta del I sec. a.C. divenne la sua occupazione principale, degna di un uomo di vasta cultura, che dominava sia il greco che il latino 29: accanto ad una personale attività letteraria – però sorprendentemente scevra, a quanto si può desumere dal pochissimo che ci resta, di impegno politico 30 –, soprattutto il reclutamento e la promozione dei talenti poetici, ed è proprio alla luce di questo ruolo, consacrato

per i nuovi arrivati ed il conseguente rifiuto di competere con loro), rimarcato peraltro anche dai poeti del suo Circolo. 27  Celebre la tesi di Marta Sordi (1995, p. 152 sg.; cfr. già Sordi et al. 1970, p. 151), che riconduce al nostro l’istituzione delle coorti pretorie con il loro reclutamento in origine riservato al fior fiore della gioventú umbra ed etrusca; Tacito (Ann. 4,5,5) attesta un reclutamento attuato, oltre che in Etruria ed in Umbria, anche nel Lazio Vetus e nelle colonie antiquitus romane: ma è anche vero che si sta riferendo non esclusivamente al reclutamento delle nove coorti pretorie, ma anche delle tre urbane. 28   1991, p. 137. 29 Hor., Carm. 3,8,5: docte sermones utriusque linguae. 30  Mecenate fu autore in prosa ed in versi (per i frammenti e la loro analisi rimandiamo fra gli altri a Kappelmacher 1928, coll. 220 sgg.; 226 sgg.; Avallone 1962, pp. 121 sgg.; 223 sgg.; André 1983, pp. 1765 sgg.; Lieberg 1996, pp. 9 sgg.); i contemporanei, compreso il princeps, dovevano nutrire seri dubbi soprattutto sulle sue qualità poetiche (Suet., Aug. 86,2, sul quale però vd. infra, p. 23, nt. 73; Macr., Saturn. 2,4,12): infatti, non solo i poeti del Circolo non alludono mai alla sua produzione poetica, ma lo stesso Orazio, nell’esortare Mecenate a celebrare le guerre vittoriose di Ottaviano-Augusto (Carm. 2,12,9-10), si raccomanda che lo faccia in prosa (pedestribus ... historiis). Sul fatto rimarchevole che non pare di poter rinvenire, nei frammenti di Mecenate, alcunché che sia in linea con i programmi di governo come pure ci si sarebbe attesi, cfr. Dalzell 1956, p. 158 sg. e Santini 2005, pp. 135 sgg.

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dalla Laus Pisonis 31, che l’immagine di Mecenate viene prevalentemente evocata (con accentuazione eccessiva dell’aspetto di patrocinio economico) dopo la sua morte, con netta prevalenza rispetto alla memoria della sua veste politico-diplomatica e di quella di autore in prima persona. La prima delle due Elegiae in Maecenatem 32, descrivendo il ritiro del cavaliere aretino, presenta due versi (35-36) molto suggestivi, che hanno invero animato il dibattito critico: Pieridas Phoebumque colens in mollibus hortis / sederat argutas garrulus inter aves. La questione è se, alla luce di alcuni passi oraziani, properziani (1,18,30: cogor ad argutas dicere solus aves) e del virgiliano ...sed argutos inter strepere anser olores (Buc.  9,36), tali argutae aves vadano o meno identificate con i poeti, ed in tal caso con quelli del cosiddetto Circolo di Mecenate. Come che sia, l’attività di Mecenate volta ad attrarre presso di sé, ed i vantaggi che era in grado di assicurare, i migliori poeti del tempo aveva comunque preso le mosse molto prima del suo ritiro dalla partecipazione ufficiale all’attività politico-amministrativa, ed anzi parallelamente alla fase in cui piú vivo era stato l’impegno in tal senso del plenipotenziario di Ottaviano: all’incirca, poco dopo l’incontro di Brindisi fra Ottaviano ed Antonio, che sanciva il rinnovato accordo fra i due ed assegnava al giovane erede di Cesare il controllo dell’Italia e della parte occidentale del dominio. I primi poeti ad entrare nella cerchia di Mecenate furono Virgilio ed il suo celebre amico Vario Rufo, tragediografo e poeta epico; nel 38 venne introdotto nel Circolo anche Orazio come terzo. Sulla base di Buc.  8,6 sgg. si suppone che il precedente patrono di Virgilio fosse stato Asinio Pollione: se, sulla base 31  Vd. soprattutto i vv. 230 sgg.; pur lodandolo come il miglior incontro che ad un poeta potesse capitare (Mart. 12,3,2), Marziale (ad es. 8,55,5-6: sint Maecenates, non derunt, Flacce, Marones / Vergiliumque tibi vel tua rura dabunt) ed oltre a lui Giovenale (ad es. 7,94-95: quis tibi Maecenas, quis nunc erit aut Proculeius / aut Fabius, quis Cotta iterum, quis Lentulus alter?) eserciteranno subito dopo un ruolo altrettanto rilevante per la riduzione del ruolo di Mecenate a quello di chi fa fronte alle necessità materiali dei letterati, senza suggerire alcuna maggiore organicità nel rapporto fra il cavaliere aretino ed Augusto (cfr. Bellandi 1995, p. 94). 32  Le cui problematiche di attribuzione e datazione esulano ovviamente da questa ricerca; ci limitiamo a far rilevare che ormai la maggior parte degli studiosi data le due elegie in un arco di tempo compreso fra l’8 a.C. ed il 2 d.C. (cfr. fra gli altri Nigro 1998, pp. 138 e 148); contra, preferisce una datazione piú bassa (“the third quarter of the first century a.d.”) Schoonhoven 1983, p. 1808.

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di Carm. 2,1, postulassimo il medesimo Pollione come patrono anche di Orazio, ci daremmo allora conto in maniera esaustiva dell’interessamento di Virgilio per il Venosino. Proprio grazie a una testimonianza di quest’ultimo (Serm. 1,10,81 sgg.) possediamo un elenco di quelli che presumiamo essere stati i principali membri del Circolo di Mecenate in quei primi anni: Plozio Tucca, Vario Rufo, Virgilio, Valgio Rufo, Ottavio Musa, Aristio Fusco e i due figli di Vibio Visco, oltre allo stesso Orazio. Tra l’altro quella di Circolo è una definizione di noi moderni: Mecenate ricorreva a perifrasi come esse in amicorum numero 33, ed i poeti si consideravano inclusi in numero suorum 34. Da sempre si cerca di cogliere quale possa essere stata la misura della libertà creativa di questi poeti una volta entrati nel Circolo: la critica ha oscillato fra posizioni anche antipodiche, ma in prevalenza è stato salvaguardato il presupposto di una sincera amicizia fra Mecenate ed i suoi poeti, accompagnata però – tranne che secondo interpretazioni critiche isolate – dal tentativo, ritenuto in genere non goffo né perpetrato con una pressione eccessiva, del cavaliere aretino di orientare i loro componimenti verso l’epica celebrativa delle imprese di Ottaviano-Augusto e comunque verso una poesia impegnata ed allineata ai programmi di governo sul versante di quei valori civili che il Circolo avrebbe dovuto contribuire a veicolare nella forma piú attraente e, nel contempo, piú autorevole 35. Non sono mancati, peraltro, quanti hanno postulato un atteggiamento di Mecenate sotto questo aspetto diverso da poeta a poeta, con Orazio che avrebbe

 Hor., Serm. 1,6,62.  Hor., Serm. 2,6,41-42. 35  Cosí, con sfumature ovviamente diverse, fra i molti altri Kappelmacher 1928, col. 218; Syme 1962, pp. 468 sgg.; La Penna 1987, p. 412 sg.; una posizione opposta, che presuppone generosità disinteressata in Mecenate, ha sostenuto Dalzell 1956 (che considera le stesse diffuse recusationes come un topos ellenistico: p. 157), dal quale non si distanzia molto Avallone 1962, pp. 211 sgg., per il quale Mecenate avrebbe comunque incitato i suoi poeti “a esprimere quello che essi già sentivano e sentiva con loro tutto il popolo”, e quelli avrebbero seguito spontaneamente l’esortazione (p. 217). Tra queste due posizioni, André 1967, p. 126 pensa che, nel Circolo, ad un inizio assolutamente svincolato da attese precise circa i prodotti della poesia, abbia fatto seguito una progressiva attività di pressione da parte di Mecenate, che appunto cercava di spingere i suoi poeti verso l’epica (cfr. anche p. 115 e vd. infra nel nostro scritto, p. 21). 33 34

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subíto gravi pressioni, ed al polo opposto Virgilio 36, con il quale il cavaliere aretino avrebbe osservato un maggiore rispetto delle inclinazioni poetiche; per Properzio si è parlato di un protettorato vero e proprio da parte di Mecenate 37, mentre un altro fronte di studiosi è giunto alla conclusione opposta, ed affermato l’indipendenza del poeta umbro 38. Altri studiosi ancora hanno invece affibbiato a tutti i poeti del Circolo l’etichetta di strumenti di propaganda politica 39. Allo stesso modo, la definizione di Mecenate ha oscillato tra quella che lo vuole come una sorta di ministro della cultura responsabile di una vera e propria “offizielle Presse” 40, un “capo di gabinetto” che ammaestrava i poeti piú promettenti come giovani fiere 41 o che comunque si adoperava per allinearli al potere quantunque essi si fossero in precedenza mostrati in dissintonia nei confronti di esso, e animato nei loro confronti da una disponibilità direttamente proporzionale alla misura in cui essi erano disposti a cambiare 42; e quella che limita invece il suo ruolo all’istituzione di un Circolo non ufficiale, in cui l’amico dei poeti suggeriva liberamente dei nuclei di ispirazione, salva restando la libertà di quelli di ignorarli o rifiutarli esplicitamente (come del resto testimonierebbe, fin tanto che il Circolo fu diretto da Mecenate, il diffuso numero di recusationes da parte dei poeti stessi). Una parte della critica si è dedicata a misurare anche l’effettivo grado di amicizia fra Mecenate ed i poeti del Circolo: l’amicizia con Properzio sembra essere rimasta al di sotto di quella che il cavaliere aretino nutriva per Virgilio e soprattutto per Orazio 43. Pare molto difficile scindere il ruolo di Mecenate dalle intenzioni di Ottaviano-Augusto circa l’elaborazione e la diffusione di contenuti poetici inerenti ai temi patriottici, ai valori etici ed alla rilettura della storia recente e di quella piú lontana attraverso poemi epico-storici, e dunque svincolare la protezione accordata   André 1967, p. 126.   André 1967, p. 157. 38  Dalzell 1956; Boyancé 1959, p. 343 sg. 39  Per citare un antesignano di questa posizione, cfr. Beulé 1875, p. 290. 40  Kappelmacher 1928, col. 218. 41   Syme 1962, p. 463. 42  Günther 2012, p. 32. 43  Avallone 1962, p. 110; Cairns 2006, p. 258. 36 37

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ai poeti dalle attese, almeno, di una loro produzione orientata nel senso auspicato; altra questione è invece quella dello status dei poeti che entrarono nel Circolo, preliminare per stabilire che tipo di aiuto, e quali tangibili vantaggi, essi si aspettassero dal patrocinio di Mecenate. Una parte degli studiosi 44 si è giustamente volta a sgombrare il campo da un pregiudizio: quello del poeta augusteo che, nel momento in cui arriva a Roma da fuori, si configura come bisognoso di trovare di che vivere in quanto colpito dagli eventi sul piano delle fortune familiari. In realtà, in questo cliché c’è di vero soltanto la non-romanità: per il resto non soltanto, alla luce dell’educazione letteraria che avevano comunque ricevuto, per questi poeti non può presupporsi uno stato di indigenza nemmeno relativa, ma ci sono anzi basi fondate per credere che la maggior parte di essi addirittura appartenesse all’ordine equestre (o che comunque, almeno, vi appartenessero tutti gli elegiaci 45), e non regge nemmeno la diffusa ipotesi di una caduta in povertà delle loro famiglie a seguito delle confische di quei terreni che costituivano il premio dei veterani dei vincitori, dal momento che nei Circoli letterari – e tanto piú in quello di Mecenate – in genere si veniva accolti dopo aver raggiunto il successo e non prima, vale a dire dopo essersi già da tempo potuti dedicare esclusivamente all’attività letteraria. Se i poeti augustei potevano quindi prescindere dalla necessità di trovare una fonte di reddito per l’esistenza quotidiana, l’oggetto delle loro aspettative nel momento in cui sceglievano di entrare in un Circolo e di munirsi di una figura di riferimento va ridefinito, allo stesso modo in cui a tale figura di riferimento occorre attribuire i tratti non tanto (o comunque non solo) di un finanziatore, quanto di un promotore: era infatti la promozione al piú ampio raggio come letterati e poeti che i membri di un Circolo si attendevano di trovare in virtú dell’ingresso nel Circolo stesso, e tali loro attese trovavano un fondamento direttamente proporzionale all’altezza dello status di chi al Circolo 44  Ricordiamo a questo proposito White 1978, pp. 88 sgg., e, da ultimo, Cairns 2006, p. 31 sg.; 34. 45 Cfr. Ross Taylor 1968, pp. 477 sgg. (p. 479: “all four of the Roman elegiac poets were knights”; il rango di Properzio sarebbe rivelato dalla bulla cui viene fatto riferimento in 4,1,131).

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era preposto, ed alla qualità dei suoi rapporti con i maggiorenti della società 46. Entrare in un Circolo garantiva opportunità di pubbliche letture di parti delle proprie opere, interesse per i temi proposti, un nutrito pubblico di ascoltatori prima e di lettori poi raggiungibile con un apparato organizzativo e divulgativo di prim’ordine; certamente, in ultima analisi, anche tutti gli annessi e i connessi del successo, che permettevano ai poeti di consolidare la propria posizione sociale e le proprie finanze. I poeti ripagarono Mecenate eternandone la memoria, laddove l’attività letteraria autonoma del promotore del Circolo non sarebbe stata in grado di ottemperare allo scopo; cosí, Virgilio riconduce la composizione delle Georgiche agli haud mollia iussa di Mecenate (3,40), ed Orazio è il poeta che piú si distingue per il numero di componimenti dedicati all’amico e patrono: tra questi, significativamente, quelli che aprono ognuna delle sue opere. Se Virgilio ed Orazio furono le prime scommesse vinte dal fiuto per il talento letterario del cavaliere aretino, l’incontro tra Mecenate e Properzio avvenne invece quando, nei rispettivi ambiti, entrambi avevano incontrato la notorietà ed il successo. Il Monobiblos properziano venne pubblicato nel 28, ed i ventidue componimenti di cui consta erano dedicati a coloro che per primi avevano creduto nelle capacità del poeta umbro e ne avevano promosso l’attività quando, a circa vent’anni, era venuto nell’Urbe: si tratta di Gaio Volcacio Tullo 47, nipote del console del 33 a.C. ed appartenente ad una famiglia dell’aristocrazia perugina, e di Gallo. Nonostante il centro di ispirazione di questa primissima parte della poetica properziana fosse appunto l’amore e dunque la sfera privata (il libro si apriva, eloquentemente, con il nome di Cinzia), Mecenate poté intravvedere dietro quelle elegie un talento che sarebbe stato utile attrarre nel proprio Circolo e gradualmente volgere ad altre – o almeno anche ad altre – tematiche.

46 “Friendship with prominent citizens did help to satisfy one important professional need: it gave access to a ready-made audience, and guaranteed a certain amount of publicity for the poet’s work” (White 1978, p. 92). 47 Sulla gens Volcacia e l’amicizia fra Properzio e Volcacio Tullo rimandiamo fra gli altri a Boucher 1977, pp. 56 sgg. ed a Bonamente 2004, pp. 44 sgg.

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Properzio, dal canto suo, dovette ritenere l’interesse e l’invito di Mecenate ad entrare nel Circolo come segni tangibili del successo raggiunto, e come una buona occasione per conseguire non tanto – alla luce delle considerazioni svolte – la tranquillità economica (ovviando sia ad un’improbabile sopraggiunta povertà familiare, che ad una presunta quanto indimostrabile caduta in disgrazia dei Volcacii 48), quanto proprio la consacrazione definitiva della sua figura di poeta e della sua fama mediante la promozione dell’ambiente culturale piú vicino ad Augusto. Peraltro, a proposito dell’avvicinamento fra Mecenate e Properzio, è stato opportunamente notato che poteva sussistere anche una lontana parentela fra la moglie di Mecenate, Terenzia, e la gens Propertia: la donna era parente di Seiano, adottato dagli Aelii Galli, una cui componente, Elia Galla, era andata in sposa a C. Properzio Postumo 49. L’entrata ufficiale di Properzio nel Circolo di Mecenate si verificò in un momento che non è possibile stabilire con precisione, ma che vede nell’anno 27, appunto all’indomani della pubblicazione del Monobiblos, una data molto probabile; questo è un evento significativo per la storia e per la storia dell’evoluzione del Circolo, poiché la pubblicazione da parte di Properzio di tutti i libri successivi al primo venne ad essere la prima produzione elegiaca svoltasi sotto l’egida di Mecenate prima, e di Augusto poi 50. La poetica properziana, dopo l’ingresso nel Circolo di Mecenate, si volse progressivamente ad un ampliamento del proprio orizzonte tematico; i libri che possono documentarci i contenuti delle poesie composte da Properzio quando il suo punto di riferimento era Mecenate, e contestualmente il ruolo e l’influenza di quest’ultimo nella loro elaborazione, sono il secondo ed il terzo, mentre il quarto, come vedremo, dovette fare i conti con una di  Presupposta invece, da ultimo, anche da Cairns 2006, p. 251 sg.  Identificato dalla maggior parte degli studiosi con il personaggio dell’elegia 3,12, che parte per la spedizione orientale lasciando afflitta la moglie Elia Galla: cfr. tra gli altri Syme 1962, p. 470; Fedeli 1985, p. 397; Bonamente 2004, p. 33 sg.; Cairns 2006, p. 252; un’ulteriore identificazione potrebbe riguardare il dedicatario dell’ode oraziana 2,14 ed il personaggio di CIL VI,1501. 50 “Maecenas’ recruitment of Propertius therefore plugged a gap, and so must have made Propertius’ adherence to Maecenas as welcome to his patron as it was to Propertius himself” (Cairns 2006, p. 41). 48 49

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rezione del Circolo avocata da Augusto direttamente a sé dopo le vicende di quella spedizione orientale che tanta parte ebbe, nella ricostruzione che ci proponiamo di suggerire con questa nostra ricerca, non soltanto ai fini della storia delle relazioni dell’impero romano con l’Oriente, ma allo stesso modo ai fini della storia politica interna del principato di Augusto, avendo comportato, con i suoi esiti e sulla base della sintonia con essi, anche la necessità di ricontrattare lo spazio, l’influenza ed i ruoli di personaggi di primo piano sulla scena, tra i quali il nostro Mecenate. I temi di fondo sviluppati dal secondo libro di Properzio, finito di comporre non oltre il 25 e che presenta continui riferimenti al mito soprattutto in funzione di conferma per analogia di quanto espresso, sono, molto sommariamente (un loro esame dettagliato esula dalle nostre finalità), i seguenti: la predilezione per l’elegia rispetto all’epica, e conseguentemente per l’alessandrinismo; l’amore per Cinzia ma altresí l’infedeltà della donna, spesso provocata dal denaro, atta a suscitare nel poeta ovvia gelosia e accesa rivalità anche con quanti riteneva amici; il dolore che scaturisce dall’amore e dal relativo servitium, e che talora sfocia nell’auspicio di morte; la brevità della vita, che deve indurre a godere di ogni momento; il proposito di volgersi all’amore meretricio; la contrapposizione città-campagna, a tutto vantaggio di quest’ultima. Il contesto politico e sociale trova un peso ed uno spazio ancora ridotti, ma comincia nondimeno ad assumere di quando in quando una fisionomia. Esso è richiamato soprattutto dall’elegia 2,7, che esprime lo scampato pericolo del poeta di fronte alla prospettiva di un obbligo matrimoniale per i celibi previsto da un primo disegno di legge augusteo in materia; dall’elegia 2,10, che accenna alle imprese militari che venivano condotte o progettate e vede affacciarsi alla mente del poeta il proposito – subito rinviato al futuro – di innalzarsi al ruolo di poeta-vate; dall’elegia 2,16, dove viene ricordata la vittoria su Antonio e Cleopatra; dall’elegia 2,31, in cui si allude all’inaugurazione del tempio di Apollo sul Palatino. Il terzo libro venne finito di comporre intorno a una data che si tende ultimamente ad abbassare sempre piú, e che può collocarsi fra il 23 ed il 20; sempre trapunto di exempla mitologici, questo libro segna il superamento della specificità dell’amore per Cinzia come oggetto privilegiato della poetica properziana, 193

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ed il passaggio ad un alessandrinismo molto piú dotto, con viva consapevolezza da parte del poeta della funzione eternatrice della poesia e della propria investitura. I temi che emergono con maggior evidenza sono: la permanente predilezione per il ruolo di poeta d’amore piuttosto che di poeta epico-celebrativo di matrice enniana, e la preferenza per una vita dedita al servitium amoris piuttosto che ad azioni di maggior impegno patriottico e civile; la conquista e la guerra come manifestazioni della brama di gloria e di ricchezze, talora foriere di lutti, e comunque antitetiche all’amore ed alla devozione per l’amata; l’invocazione agli dei di aiutare il poeta a liberarsi dalle pene d’amore; il confronto fra donne romane e donne straniere, con queste ultime descritte come migliori dal punto di vista etico, e fra la lussuria femminile e quella, giudicata minore, che caratterizzerebbe invece gli uomini; infine, last but not least, il discidium, la rottura – dopo una riconciliazione ed un viaggio – con Cinzia, che il poeta riesce a guardare con occhi non piú velati dall’amore, ed a scoprire meno bella di quanto non la avesse vista fino a poco prima. Il background storico in questo libro è molto piú presente e rilevante, ed occupa parti notevoli all’interno dell’elegia 3,4, dove Properzio assurge al ruolo di poeta-vate di una spedizione militare in Oriente rivolta in primo luogo contro i Parti (ai quali aveva alluso già nell’elegia che apre il libro, al v. 16); dell’elegia 3,11, in cui campeggiano Cleopatra, la sua azione distruttiva su Marco Antonio, ed i suoi progetti di assoggettamento dell’Urbe – ma in una cornice che vede prevalere ancora la svalutazione di Antonio e Cleopatra sulla celebrazione di Ottaviano –; dell’elegia 3,18, un compianto per la morte di Marcello, avvenuta nell’autunno del 23 (cfr. Verg., Aen. 6, 861 sgg.); dell’elegia 3,22, dove all’esortazione a Tullo a tornare a Roma dall’Oriente si accompagna il confronto tra l’ameno ambiente italico e una civiltà orientale tratteggiata invece come stravolta e mostruosa, e il poeta espone quasi un manifesto della propaganda augustea con i versi Famam, Roma, tuae non pudet historiae.  / Nam quantum ferro tantum pietate potentes / stamus: victrices temperat ira manus (vv. 20-22), che ricordano molto da vicino le parole dell’Anchise virgiliano: Tu regere imperio populos, Romane, memento.  / Hae tibi erunt artes, pacisque inponere morem,  / parcere subiectis et debellare superbos (Aen. 6, 851-853). 194

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Ma ciò su cui in questa sede intendiamo richiamare precipuamente l’attenzione è costituito dal ruolo e dalla presenza di Mecenate nelle poesie properziane composte allorché la direzione del Circolo era tenuta dal cavaliere aretino. C’è un paradosso: spunti di quello che dovette essere un filone che stava cuore a Mecenate, e cioè il rilievo della cultura etrusca e la sua proficuità per il nuovo universo di valori che il Principato voleva promuovere, si ravvisano in varie elegie properziane 51 (fra le quali spicca quella dedicata a Vertumno), ma, per la maggior parte, esse appartengono appunto al IV libro, quando la direzione del Circolo era stata assunta ormai direttamente da Augusto: ciò dimostra non solo che le pressioni di Mecenate in senso autoreferenziale erano evidentemente ancora meno cogenti di quelle rivolte all’impegno in favore dell’ideologia del principato, ma anche che il filoetruschismo era un portato gradito ad Augusto stesso, come tra le varie comprove rivela la vicenda del Mezenzio virgiliano, che il Mantovano stacca dagli Etruschi (Cere lo esilia) proprio per fare di quelli, nella seconda esade dell’Eneide, degli alleati dei Romani contro i Latini ed i Rutuli 52. Opportunamente è stato però notato da parte di alcuni studiosi 53 il fatto che, non solo nella caratterizzazione di Mecenate a livello di richiamo della sua discendenza, ma anche nei riferimenti al mondo etrusco, due fra le virtú piú tipicamente vetero-romane, fides e pietas, vengano fatte assurgere da Properzio a virtú nazionali etrusche. Venendo alla presenza diretta di Mecenate nella poesia di Properzio, nel libro II l’elegia che assume a questo proposito un rilievo immediato è quella incipitaria, mentre nel libro III è la nona. Proprio nell’elegia di apertura del II libro di Elegie, al v. 17 Properzio si rivolge infatti a Mecenate a mo’ di dedicatario: ma ciò gli offre lo spunto per precisare le proprie predilezioni poetiche in quella che assume la forma di una recusatio. Infatti, il poeta umbro asserisce di non essere stato dotato di forze sufficienti per attendere alla poesia epica, e che pertanto celebrerà,   Santini 2005, pp. 143 sgg.   Cristofoli 2000-2004, pp. 185 sgg. 53  Sordi 1970, p. 192; Cairns 2006, pp. 293 sgg. 51 52

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invece, le battaglie che hanno per teatro un angustus lectus (v. 45). Di seguito il poeta afferma che, se avesse avuto talento epicocelebrativo, non si sarebbe comunque volto a cantare le glorie del passato di Roma o di altri Stati, bensí bella resque tui Caesaris (quindi il riferimento è ad imprese compiute tra il 43 ed il 30) e, Caesare sub magno, lo stesso Mecenate 54. Va effettivamente notato che si può cogliere fin da subito l’operatività di un presupposto sul quale il Cairns ha giustamente richiamato l’attenzione: Properzio, a prescindere dalle tematiche trattate e dal loro incontrare o meno, ed eventualmente in misura minore o maggiore, le attese del princeps e della propaganda di corte, fin dal suo ingresso nel Circolo è un poeta augusteo 55, e Mecenate diviene pertanto un personaggio da celebrare solo in quanto legato ad Augusto e comunque dopo di quello (non molto diversamente avviene in Virgilio ed Orazio 56). La caratteristica di Mecenate, posta in rilievo anche dalle fonti storiche, è proprio quella di essere sempre stato al servizio dell’erede di Cesare come suo fervente fautore, e ad attenta lettura anche l’ingresso del cavaliere aretino nella poesia properziana si svolge sotto questa luce; non per nulla ai vv. 35-36, dopo aver elencato le glorie di Ottaviano, Properzio precisa che se per ipotesi le avesse dovute cantare te mea Musa illis semper contexeret armis / et sumpta et posita pace fidele caput (vv. 3536): cioè Mecenate sarebbe stato “associato” alle armi del princeps in quanto suo fedele punto di riferimento. Tutto ciò, se naturalmente non suscitava in Mecenate alcuna delusione – anche perché competeva per quel ruolo con Agrippa –, poteva essere inoltre un punto di compromesso fra il primo elegiaco reclutato nel Circolo e la politica culturale del principato: Properzio, fino ad allora dedito ad una poesia di carattere privato, disimpegnato e antisistemico, nel momento in cui intendeva lodare colui che gli aveva accordato la propria protezione e promozione letteraria lo faceva motivando tale lode con l’essersi Mecenate costantemente dimostrato un fedele amico e collaboratore del princeps. Tuttavia, nell’elegia settima, al v. 5 Properzio ribadisce 54  Talora è piaciuto considerare i vv. 39 sgg. della prima Elegia in Maecenatem come l’adempimento ad opera di altri di ciò che Properzio aveva prospettato a Mecenate in sua gloria (cfr. Nigro 1998, p. 146). 55  Cairns 2006, p. 320 sg. 56  Cfr. Williams 1990, p. 265 sg.

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la dicotomia tra sfera pubblica e sfera privata: «At magnus Caesar». sed magnus Caesar in armis, proclama il poeta tracciando un netto confine tra ambiti di pertinenza della vita pubblica e di quella privata, quindi riconoscendo il potere di Augusto, ma non riconoscendo al potere di Augusto il diritto di obbligarlo ad essere marito e padre 57. All’interno della stessa elegia incipitaria del II libro, nella parte finale, Properzio esorta Mecenate, nel caso in cui, sopravvissutogli, avesse dovuto incontrare il suo sepolcro, a versare per lui una lacrima e a pronunciare una specie di epigramma con cui deplorare la crudeltà di Cinzia, causa della sua morte; in questo contesto, al v. 73 Mecenate viene definito dal poeta nostrae spes invidiosa iuventae, e di seguito, al v. 74, et vitae et morti gloria iusta meae. Ciò rende bene l’idea, oltre che del prestigio di Mecenate stesso – che non a caso riceve da Properzio omaggio ben maggiore di quello che era stato riservato nel I libro a Tullo e a Gallo –, anche del titolo di vanto che per un poeta rappresentava l’entrata nel suo Circolo, che è quanto aveva rimarcato anche Orazio nella sesta satira del I libro, dove il Venosino si dice oggetto di invidia per il suo status (vv. 49 sgg.) – commentando con un eloquente iure il sentimento che suscitava –, nonché nella nona satira dello stesso libro, in cui ricorda come il seccatore insistesse particolarmente nella richiesta di essere presentato a Mecenate (vv. 43 sgg.). Lo stesso contenuto del secondo libro dimostra con evidenza come l’ingresso di Properzio nel Circolo di Mecenate non avesse comportato da subito un cambio di tematiche né tantomeno di genere da parte del poeta umbro, che si limitò ad avvertire ed assecondare l’opportunità di dischiudere alla sua poesia elegiaca un incipiente orizzonte storico, ancora allo stadio prevalente di riferimenti ben piú che di nucleo tematico; la recusatio implicita contenuta nella prima elegia, e che sarà peraltro reiterata, in una sorta di Ringkomposition, anche nell’elegia che chiude il II libro (34, vv. 59 sgg.), è nondimeno prova, d’altro canto, che Properzio doveva aver ricevuto delle velate 57  Sulla posizione di Properzio di fronte al potere politico al momento della composizione di questa elegia, vd. Tränkle 1983, pp. 152 sgg., che parla di contrasto tra l’elegia romana e lo Stato, pur considerando la 2,7 in sé, piú che una presa di posizione politica, un’espressione di fedeltà a Cinzia.

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pressioni in questo senso da parte di Mecenate 58, o se non altro che l’ambiente stesso in cui aveva scelto di trovarsi da allora in avanti ad operare richiedeva da parte sua una giustificazione o comunque un pronunciamento circa ciò che era nelle attese, e che per il momento la sua poetica disattendeva. La nona elegia del III libro è prodigiosa nella sua struttura, poiché, per eludere le pressioni di Mecenate, che spingeva il poeta umbro verso il “mare” della poesia epico-celebrativa, Properzio si richiama al modello costituito dal direttore stesso del Circolo e dalle sue scelte di vita: si giustifica cioè con Mecenate grazie a Mecenate. La metafora di ascendenza callimachea della navicella = talento poetico inadeguata ad affrontare il vasto mare sconfinato = epica, e la similitudine del capo = talento poetico e del peso addossato sopra di esso = compiti celebrativi sono proposte a mo’ di recusatio a Mecenate, colto al v. 1 nei suoi natali di nobiltà etrusca (etrusco de sanguine regum 59) ma altresí nel suo status di eques 60, commentato dal pentametro del verso successivo: intra fortunam qui cupis esse tuam. I vv. 7-8 (omnia non pariter rerum sunt omnibus apta, / palma nec ex aequo ducitur una iugo) si propongono poi come una dichiarazione di relativismo degli ambiti e delle metodiche per pervenire al successo: una dichiarazione nelle cui pieghe è ancora evidente l’analogia tra la poetica d’amore prediletta da Properzio, che poteva ben garantirgli la gloria senza dover snaturare le sue attitudini, e la mancanza di ambizione per le cariche che pure non aveva penalizzato Mecenate ai fini del raggiungimento del successo. Dopo una serie di exempla mitologici, Properzio si rivolge a Mecenate (vv. 21-22) affermando che non solo aveva recepito i suoi praecepta vitae (parte della critica ha intravisto qui un’allusione al λάθε βιώσας epicureo 61), ma che il suo stesso esempio 58   Singolare l’esegesi di Dalzell 1956, p. 157: lungi dall’aver esercitato alcuna pressione su Properzio perché scrivesse un poema epico, “he was paying the poet a compliment”. 59  “Maecenas [...] also indubitably wanted to project not just his equestrian status but also his Etruscan origins as essential elements of his self-image” (Cairns 2006, p. 272). 60  Cfr. le osservazioni a riguardo di Fedeli 1985, p. 305. 61  Cosí ad esempio Boucher 1977, p. 68.

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lo costringeva ad andare oltre. Tra le rinunce a ciò che il princeps offriva a Mecenate, figuravano il consolato, la partecipazione ad imprese gloriose, i trofei: parcis, et in tenuis humilem te colligis umbras (v. 29), con poi la metafora delle vele gonfiate dal vento che il cavaliere aretino contiene; ma – prosegue l’elegia – avrebbe raggiunto lo stesso la fama, e nel momento in cui lo afferma, il poeta umbro ribadisce il concetto introdotto già nella prima elegia del II libro, ossia che la gloria avrebbe seguito Mecenate in quanto legato dalla massima fedeltà ad Ottaviano-Augusto: Caesaris et famae vestigia iuncta tenebis: / Maecenatis erunt vera tropaea fides (vv. 33-34). Da qui si snoda nella maniera piú marcata una recusatio per analogia da parte di Properzio: la sua barca a vela = vena poetica non si sarebbe diretta verso il tumidum mare = epica storico-celebrativa, ma avrebbe sostato in sicurezza presso un exiguum flumen = poesia d’amore (vv. 35-36), paga di inter Callimachi placuisse libellos e di cecinisse con i ritmi di Fileta di Cos (vv. 43-44); da tutto questo, Properzio si attendeva un premio ambizioso come praeceptor amoris: urere i ragazzi e le ragazze, e assurgere al rango di loro divinità. A questo punto dell’elegia, fin qui giustamente definita da André come prova di “une explosion d’indépendance” 62 – e talora perfino osservata come prova dell’opposizione di Properzio a Mecenate –, c’è un brusco cambio di indirizzo che ha spiazzato la critica, ed ha esposto Properzio a giudizi duri (come quello ormai storico del Beulé 63): dopo aver appunto espresso tali considerazioni e propositi in sintonia con le scelte che in altro ambito caratterizzavano l’esistenza di Mecenate e glielo additavano come un modello, Properzio si dichiara sorprendentemente disposto (vv. 47 sgg.) a provare a volgersi perfino 64 alla poesia epico-celebrativa, a condizione (o, come preferiscono alcuni, nell’ipotesi) che Mecenate, il quale – come in Virgilio, Georg. 3,42, o come il Messalla di Tibullo 2,1,33 sgg. – assurge a un ruolo simile a quello delle Muse 65, gli avesse fatto da guida   1967, p. 133.   Beulé 1875, p. 290, secondo il quale, con l’ingresso nel Circolo di Mecenate, Properzio avrebbe degradato la sua arte e la sua reputazione. 64  Al v. 47 il significato di vel è senza dubbio questo; cfr. Fedeli 1985, p. 328. 65  Lieberg 1980, pp. 53 sgg. (lo studioso fa rimarcare anche la composizione pressoché coeva del III libro di Properzio, che colloca fra il 23 ed il 20, e del 62 63

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(te duce). Questo è un primo punto di contraddizione di Properzio rispetto a quanto appena detto, e, come ha sottolineato Fedeli nel suo autorevole commento 66, rende tutto il componimento una recusatio solo parziale, poiché il rifiuto della poesia epica non è definitivo: del resto abbiamo già prima richiamato all’attenzione l’elegia decima del II libro – e lo faremo anche piú avanti –, in cui Properzio aveva stabilito la poesia d’amore come la piú conveniente per la giovane età, e quella epica come idonea invece all’età piú avanzata 67. Ma c’è un secondo punto di contraddizione, in riferimento alla prima elegia del II libro: perché, tra i soggetti che il poeta si dichiara disposto a cantare sotto la guida di Mecenate, figurano sí tematiche appartenenti al lontano passato, vale a dire la gigantomachia, la vicenda di Romolo e Remo, la fondazione dell’Urbe con il fratricidio; tuttavia, la poesia epico-celebrativa del passato piú vicino nel tempo e relativa alle glorie dell’erede di Cesare è presentata come un argomento piú impegnativo: il poeta umbro asserisce infatti che, sub tua iussa (Mecenate a questo punto non sta piú guidando, ma ordinando, anche se gli studiosi hanno giustamente dimostrato che il termine ha qui un significato meno forte di “imposizioni”), crescet et ingenium meum (v. 52), e oggetto del suo canto sarebbero allora state le guerre contro i Parti, la battaglia di Azio, e la conquista dell’Egitto, che comportò il suicidio di Marco Antonio. L’elegia si conclude (vv. 57-58) con l’invito a Mecenate, definito qui come fautor, a tenere le briglie della giovinezza del poeta, e ad istradarla verso una direzione: perché hoc mihi, Maecenas, laudis concedis, et a te est / quod ferar in partis ipse fuisse tuas (vv. 59-60): una dichiarazione di apparente consenso a procedere lungo il sentiero poetico verso il quale Mecenate lo avesse spinto, in modo che Properzio potesse continuare ad essere ritenuto un poeta in sintonia con gli indirizzi di Mecenate stesso. È probabile che, pur essendo ancora possibile ad un poeta come Properzio mantenersi sulla falsariga della propria ispirazione, tuttavia occorresse manifestare almeno in parte il proprio alli-

II libro di Tibullo, che colloca fra il 24-23 ed il 19: vd. la n. 114); cfr. Fedeli 1985, p. 328. 66  1985, p. 303 sg. 67  V. 7: aetas prima canat Veneres, extrema tumultus.

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neamento, la propria disponibilità a mano a mano che gli anni passavano ed il programma augusteo cominciava a connotarsi di istanze precise; il contemperamento dei piani dovette segnare sul piano della produzione poetica la caratteristica del Properzio del Circolo diretto da Mecenate rispetto ai due estremi del Properzio del Monobiblos e di quello del Circolo con Augusto subentrato al cavaliere aretino nel ruolo di direttore. André a questo proposito ha postulato che il Circolo, anche durante la direzione di Mecenate, dopo un inizio che rifletteva “il liberismo un po’ anarchico delle epoche di rinnovamento” 68, avrebbe poi progressivamente orientato la vena poetica dei suoi membri verso un lirismo piú grave, e che Properzio – come si è già accennato – dovesse aver risentito nella maniera piú diretta di questa evoluzione 69, mentre altra parte della critica ha postulato uno spontaneo affiorare di nuovi interessi nel poeta umbro, che avrebbe ampliato il suo orizzonte al di là della figura di Cinzia 70. Riteniamo che uno dei nuclei tematici della poesia di Properzio che rivelano nella misura maggiore l’allineamento a Mecenate sia quello inerente alla prospettiva di una politica estera espansionista e di aperta conquista sul fronte orientale, in particolar modo nei confronti della Partia, che aveva inflitto nel passato non lontano gravi scacchi alle armate romane. Una retrospettiva si impone: abbiamo detto che dopo il 29 Mecenate si ritirò dalla partecipazione diretta all’amministrazione dello Stato, ma che improbabilmente ciò dovette coincidere con un’inattività politica tout court da parte del cavaliere aretino, descritto da Orazio anche successivamente al 29 come tu civitatem quis deceat status / curas, et urbi sollicitus times, / quid Seres et regnata Cyro / Bactra parent Tanaisque discors (Carm. 3,29,25-28), ed esortato a distogliersi dalle preoccupazioni circa i nemici (mitte civilis super urbe curas) ed a trascorrere un po’ di tempo da privatus (Carm. 3,8,17; 26). Quello che a Mecenate attribuisce Cassio Dione nel libro 52, in cui il nostro si propone di istradare il vincitore di Azio verso   1967, p. 115.   1967, pp. 123 sgg.; 140; 157. 70  Hanslik 1972. 68 69

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la monarchia e deve fronteggiare l’oratoria dell’altro punto di riferimento politico di Ottaviano, Agrippa, il quale parla invece a sostegno della democrazia, certamente è un discorso che traspone la situazione politica e sociale coeva ai Severi, ma è significativo che coinvolga, come portavoci di due indirizzi diversi ed antitetici, Agrippa e Mecenate. Nei decenni passati, sulla scia del Syme, alcuni studiosi aderenti all’indirizzo prosopografico dei nostri studi hanno postulato la formazione, durante i primi anni del Principato, di due partes, ambedue filoaugustee, ma che non di rado istradavano Augusto verso indirizzi divergenti tanto in politica interna quanto in politica estera; esse sarebbero state avviate proprio dai due uomini che Cassio Dione, forse non a caso, aveva contrapposto sul tema del miglior corso politico per il dopo-Azio. Tali partes sarebbero poi sopravvissute ai loro fondatori, e dal loro accordo avrebbe preso forma l’intesa che nel 14 d.C. portò all’impero Tiberio, sostenuto dall’originaria pars Agrippae, in cambio della promozione di Seiano padre e di Seiano figlio, appoggiati dalla pars Maecenatis anche a motivo della parentela ricordata supra con la moglie di Mecenate. Tra i piú autorevoli sostenitori di questa linea di ricostruzione del panorama politico interno della Roma di Augusto va annoverato il Sealey, che muove dal dato di fatto, testimoniato con evidenza dalle fonti, per cui dopo Azio Agrippa e Mecenate erano i principali collaboratori del vincitore, dei veri e propri “numeri-due” 71; le relazioni fra loro non dovevano però essere cordiali, nonostante certo ottimismo espresso a riguardo da alcuni studiosi moderni 72. 71  Varie comprove di ciò ci sono offerte dalle fonti anche storico-biografiche: ad esempio, già nel 37, quando Ottavia a Taranto cerca di riconciliare il fratello ed il marito, per Plutarco riesce a piegare Ottaviano solo παραλαβοῦσα τῶν ἐκείνου φίλων Ἀγρίππαν καὶ Μαικήναν (Ant. 35,3); ad Agrippa e a Mecenate Augusto dedicò la sua Autobiografia (Comp. Dem.-Cic.  3,1); gli interlocutori con cui il vincitore di Azio si confronta sugli indirizzi di governo per il dopoAzio sono in Cassio Dione 52 ancora Agrippa e Mecenate, e proprio all’inizio del libro (52,1,2) leggiamo significativamente: ἐποιήσατο δὲ τὴν διάγνωσιν μετά τε τοῦ Ἀγρίππου καὶ μετὰ τοῦ Μαικήνου (τούτοις γὰρ πάντα τὰ ἀπόρρητα ἀνεκοίνου). Acquista piena verisimiglianza, quindi, l’esclamazione che Seneca attribuisce ad Augusto e che si contestualizza nel periodo in cui il princeps, sopravvissuto sia ad Agrippa che a Mecenate, doveva fronteggiare gli scandali di corte: “Horum mihi nihil accidisset, si aut Agrippa, aut Maecenas vixisset!” (Benef. 6,32). 72  Cfr. ad es. Roddaz 1984, pp. 216 sgg.

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Agrippa cercava di mettere in cattiva luce la cacozelia di Mecenate 73, un’attitudine cui il cavaliere aretino avrebbe indotto anche Virgilio, e che un tempo veniva intesa dagli studiosi come “leziosità”, “cattivo gusto”, mentre oggi si tende invece ad interpretare – anche alla luce della scarsa autorevolezza che avrebbe avuto un giudizio di Agrippa in materia stilistica – nel senso ben piú pericoloso di “maniera di scrivere con linguaggio celato e significati diversi da quelli apparenti”: ma quand’anche si preferisca intendere cacozelia nella maniera piú tradizionale, come si comprende si tratta comunque di un atteggiamento che rivela ostilità nei confronti di Mecenate. La posizione di Agrippa andava consolidandosi, e l’artefice delle vittorie navali di Ottaviano inanellava consolati come collega del princeps (nel 28 e nel 27), ne sposava la nipote Claudia Marcella Maggiore, e si rendeva autore di programmi edilizi. Non è casuale, a questo punto, lo scarso spazio che Agrippa, per converso, trovò nella produzione poetica del Circolo di Mecenate: Virgilio, nella profezia di Anchise, non lo menziona nel novero degli uomini che avrebbero fatto grande la storia di Roma; Orazio, poi, compose perfino una recusatio apposita (Carm. 1,6) per affermare che non avrebbe cantato le sue imprese, e che meglio avrebbe provveduto a ciò Vario Rufo: una  recusatio rivolta al genere epico, certo, ma con Agrippa in primo piano. La rivalità tra Agrippa e Mecenate andò intensificandosi 74. Agrippa in politica estera era un fautore dell’opportunità di intese diplomatiche con la Partia e con le altre sovranità orientali, mentre caldeggiava una politica ostile sui fronti settentrionale ed occidentale; all’indomani di Azio, però, uno dei temi portanti della propaganda del vincitore era stato proprio quello dell’imitatio Alexandri, sostanziato ed amplificato, fra le altre cose, dalla

73 Don., Vita Verg. 44,185-188: M. Vipsanius a Maecenate eum (Vergilium) suppositum appellabat novae cacozeliae repertorem, non tumidae nec exilis, sed ex communibus verbis atque ideo latentis; il significato di “leziosità” è raccomandato, ad onor del vero, dal succitato Suet., Aug. 86,2-3 – che attribuisce allo stesso Augusto questa critica a Mecenate – oltre che da Quint., Inst. Or. 8,3,56, ma non si può escludere che il termine stesso di cacozelia si prestasse già allora ad essere inteso in maniera duplice. 74  Cfr. Syme 1962, pp. 343 sgg.

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fondazione di Nicopoli, dalle agevolazioni fiscali concesse ad Ilio e dalla tipologia amministrativa adottata per l’Egitto 75, per proseguire con l’annessione della Galazia e la protezione accordata a Tiridate dopo che uscí sconfitto dalla contesa interna con Fraate IV per il trono partico 76. Uno dei principali fautori di una politica di espansione cruenta contro la Partia dovette essere, con alta probabilità ed in contrapposizione ad Agrippa, lo stesso Mecenate, come prova la presenza, nella produzione dei poeti del suo Circolo, di chiare esortazioni alla conquista: ad esempio quella, tra le varie oraziane che si incontrano nei primi tre libri delle Odi, neu sinas Medos equitare inultos / te duce Caesar 77, ma che stupiscono tanto piú quando le ritroviamo in Properzio, all’interno di un genere poco congeniale ad esse 78. I Parti, specie dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, sono sottoposti ad un procedimento di “punicizzazione” dagli autori del Circolo di Mecenate, ossia vengono descritti come analoghi, per crudeltà e modo infido di combattere, a quei Cartaginesi che la memoria storica del III e del II sec. a.C. aveva a sua volta presentato come infidi, fedifraghi e spietati, nonché caratterizzati da un modo di combattere che, in quanto non basato sul corpo a corpo ma sul lancio di armi a distanza e sull’agguato, appariva sleale e codardo 79: lo stesso Properzio, in 3,9,54, scrive dei Parti: Parthorum astutae tela remissa fugae.   Cfr. Cresci Marrone 1993, pp. 25 sgg.  Hor., Carm. 1,26,5; Aug., R.G. 51,18,3; Cass. Dio 51,18,3; cfr. Sealey 1961, p. 106; Cristofoli 2008, p. 174 sg. 77  Hor., Carm. 1,2,51-52 (ed inoltre, ad es., Carm. 1,12,53-54 e già Serm. 2,5,62); vd. anche Verg., Georg. 2,560-562. Cfr. Seager 1980 (con sorprendente obliterazione di Mecenate e della sua influenza); Cristofoli 2008, p. 176. 78  Per la verità, se il papiro con l’epigramma di due distici elegiaci ritrovato a Qas .r Ibrîm e pubblicato alla fine degli anni Settanta si rivolge ad Ottaviano, ci sono allora buone ragioni per pensare che il fondatore stesso dell’elegia, Cornelio Gallo, si fosse distinto in prima linea, da prefetto dell’Egitto, nell’esortazione alla conquista orientale, e che anche lui avesse finito, nel 27 o nel 26, per rimanere scottato dall’attivismo in tal senso quando poi il tema dell’imitatio Alexandri cominciò a venire ridimensionato. Per la vicenda della caduta in disgrazia di Cornelio Gallo, vd. principalmente Ovid., Am. 3,9,63-64; Suet., Aug. 66,1-2; Cass. Dio 53,5-54,1; Amm. Marc. 17,4,5; Serv., ad Buc. 10,1; P. Oxy. XXXVII, 2820 (Ed. Lobel); cfr. Anderson-Parsons-Nisbet 1979, pp. 125 sgg.; Zecchini 1980, pp. 141 sgg.; Cristofoli 2008, p. 177 sg. 79 Verg., Georg. 3,31; 4,313-314; Aen. 12,857-858; Hor., Carm. 1,2,22; 3,2,3; 3,5,4; 3,8,19. 75 76

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La propaganda ideologica faceva ovviamente leva sulla necessità di vendicare Crasso e suo figlio, e di costringere i Parti a restituire le aquile sottratte alle legioni romane 80: quello della guerra di ultio, che se vinta avrebbe portato al cielo (con riferimento proprio alla divinizzazione) la gloria di Augusto, è il motivo corale del Circolo nell’additare questa prospettiva 81. Saremmo invece piú restii a ricondurre ad una pars espansionista filocesariana, presupposta da molti, l’incitamento ad una conquista cruenta della Partia: se proveniente da una tale fazione, i poeti augustei difficilmente avrebbero assecondato questa istanza, non solo perché implicitamente subordinava all’eventuale vittoria di Augusto nel conflitto la sua possibilità di essere eguagliato al padre adottivo, ma anche perché la maggior parte di essi non provava alcuna simpatia per Cesare, in primis Orazio che aveva combattuto coi cesaricidi a Filippi. Properzio, in 3,4, e dunque in un arco di tempo compreso all’incirca fra il 23 ed il 20, è disposto a farsi poeta-augure e nel contempo poeta-vate di una guerra per vendicare la morte dei due Crassi e la sottrazione delle loro insegne – e solo di quelle, tacendo delle aquile sottratte in seguito anche agli antoniani Decidio Saxa ed Oppio Staziano, al fine di salvaguardare il valore della vittoria di Ottaviano ad Azio contro Antonio e gli antoniani –: omina fausta cano: Crassos clademque piate! (v. 9), preconizzando l’ineluttabilità per i trofei dei Parti di abituarsi a Giove (v. 6: assuescent Latio Partha tropaea Iovi) 82. Poco importa che Properzio affermi che si sarebbe comunque mantenuto soltanto spettatore di tutto questo, intento alle gioie dell’amore e di una vita a lui piú confacente: con questo carme additava una prospettiva, quella d’eccellenza per chi avesse scelto la strada della gloria che viene dai trionfi di guerra, e sanciva, come poi anche in 3,5,47-48, la necessità dell’espansione ad Oriente e della vendetta dei Crassi come condizioni per una compiuta gloria di Augusto.

  Cristofoli 2008, p. 172.   Cfr. ad es. anche Hor., Carm. 1,2,51-52; 3,5,2. 82  Cfr. Hanslik 1967, p. 183; Fedeli 1985, p. 158; Cristofoli 2008, pp. 178 sgg.; 183 sg. 80 81

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Del resto, già nell’elegia incipitaria del III libro, ai vv. 1516 Properzio aveva scritto: multi, Roma, tuas laudes annalibus addent,  / qui finem imperii Bactra futura canent, con ciò indicando ad Augusto un confine ad Oriente che includesse il regno dei Parti, e non si può non notare come il poeta umbro fin dai suoi esordi nel Circolo – come si evince dall’elegia 2,10 –, pur riservandosi per una fase piú avanzata della carriera poetica il genere epico-celebrativo, tuttavia scorgesse la propria futura grandezza nel ruolo di poeta-vate (vv. 19-20: vates tua castra canendo / magnus ero) di imprese che avrebbero riguardato perfino l’India, ma che non avrebbero potuto non contemplare la Partia; eloquente la personificazione del fiume Eufrate che, in preda all’angoscia, si pente per quanto occorso ai due Crassi: iam negat Euphrates equitem post terga tueri / Parthorum et Crassos se tenuisse dolet. Ma, a cominciare dal 26-25, il punto di vista di Augusto verso l’ingerenza e l’espansione sul fronte orientale andò mutando radicalmente, per posizionarsi infine all’opposto proprio intorno al 22-21, con sorprendente parallelismo con gli esiti della missione di Agrippa, durata dal giugno del 23 per un biennio ed in qualità di διάδοχος (“successore”?) di Augusto, nelle province al di là dell’Hadrianum mare 83, con probabile conferimento contestuale anche di un imperium, quinquennale e in linea teorica non maius, ma aequum rispetto a quello dei governatori delle provinciae transmarinae in cui sarebbe venuto a trovarsi 84 –: Agrippa con83 Jos., Ant. Iud. 15,10,2 (per l’estensione di Ἰόνιος κόλπος nell’accezione degli antichi cfr. Hurlet 1997, p. 268 sg.); cfr. Sealey 1961, p. 106; Syme 1962, p. 391; Jameson 1969, pp. 219; 228; e soprattutto Hurlet 1997, pp. 38 sgg.; 371 sg. Le ragioni della partenza di Agrippa sono state già dalle fonti collegate alla sua rivalità con Marcello: cfr. Vell. Pat. 2,93,1-2; Plin., Nat. Hist. 7,46,149; Suet., Aug. 66,3; Tib. 10,2 sgg.; Cass. Dio 53,32,1, ma in realtà la missione del 23 è una promozione e non un allontanamento di Agrippa. 84 Tale imperium sembrava da considerarsi maius già in riferimento al 23 sulla base della laudatio funebris di Agrippa (P. Köln inv. nr. 4701, edito per la prima volta da Koenen 1970), ma per la verità tale conclusione dipendeva da come era stata proposta la lettura di una parte della linea 12: ἡμετέραι [ἀρχῆι συνάρχων] (imperii nostri collega); dopo il ritrovamento di un secondo frammento (P. Köln inv. nr. 4722, edito per la prima volta da Gronewald 1983), tale lettura è stata scartata da molti, e la linea viene letta nella sua interezza come segue: ὕψους καὶ ἡμετέραι [σ]πουδῆι καὶ ἀρε/ταῖς. L’imperium di Agrippa, quindi, sulla scia già di Gray 1970 viene generalmente ritenuto per quell’epoca ancora solo eguale a quello degli altri governatori provinciali, alla luce di quanto si legge nelle linee 7-11 della laudatio funebris: Καὶ εἰς {ς} ἃς δήπο/τέ σε ὑπαρχείας τὰ κοινὰ τῶν Ῥω/μαίων

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seguí vari successi diplomatici 85, che senza alcun dubbio prepararono il terreno alla restituzione delle insegne da parte del re dei Parti Fraate nel 19 ed alla rinuncia di Augusto ad una guerra contro di loro, con la trasformazione della sua spedizione orientale in una campagna diplomatica con ostentazione di apparato deterrente. Augusto era divenuto sordo alla eco dell’esortazione che si levava dal Circolo di Mecenate, ed anzi avrebbe fatto del recupero delle insegne dei due Crassi (e degli altri) l’argomento per giustificare l’inutilità ormai di una guerra contro i Parti, anziché per motivarne l’avvio. La vicenda della spedizione orientale, in estrema sintesi, si svolse come segue 86. Mentre Augusto si stava dirigendo in Oriente, durante una tappa in Grecia nell’anno 21 venne raggiunto da alcuni notabili armeni, i quali chiesero l’appoggio di Roma per togliere il trono del loro Paese ad Artaxes, il figlio di quell’Artavasde che nel 34 Antonio aveva tratto in catene ad Alessandria, e che, dopo aver in un primo tempo trovato rifugio presso i Parti, al ritorno in patria ed al potere aveva impresso un netto indirizzo antiromano alla politica dell’Armenia. A Roma Augusto aveva in consegna Tigrane II, che di Artaxes era il fratello: proprio lui l’aristocrazia armena filoromana avrebbe voluto che fosse messo sul trono. Ecco che, al consenso di Augusto a ciò, fece seguito la partenza da Roma di Tiberio con Tigrane II e quell’armata epocale che toglieva il sonno al re dei Parti Fraate a mano a mano che le legioni avanzavano attraverso l’Oriente; fu cosí che Fraate, nel maggio del 20, nel timore di un attacco, restituí le insegne ed i prigionieri che ancora tratteneva, ed in cambio venne nominato socius et amicus del popolo

ἐφέλκοιτο, μηθενὸς ἐν ἐ/κείναις ἐξουσίαν μείζω τῆς σῆς ἐν / νόμωι ἐκυρώθη; cfr. anche Hurlet 1997, pp. 45 sgg.; 290 sgg.; 308 sgg. Quanto alla formula provinciae transmarinae, cfr. Hurlet 1997, pp. 266 sgg. 85  Cfr. Romeo 1998, p. 30 sg.; sulla scia di altri, già Roddaz aveva individuato nelle ragioni inerenti alla necessità di un’intesa diplomatica con i Parti la principale motivazione dell’invio in Oriente di Agrippa: “il est temps de normaliser les relations avec les Parthes, avec peut-être l’espoir de remporter un succès diplomatique que l’on porrait présenter comme l’équivalent d’un succès militaire” (1984, p. 328). 86  Rimandiamo per fonti e bibliografia a Cristofoli 2008, pp. 186 sgg.

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romano 87. Come scrive Cassio Dione, per Augusto ciò equivaleva ad una vittoria sul campo 88, ne andava orgoglioso, ed in seguito indisse a Roma festeggiamenti all’altezza. Forte di tale successo, celebrato anche nelle Res Gestae 89, Augusto lasciò a Tiberio la soluzione della crisi in Armenia, ma l’uccisione di Artaxes da parte dell’opposizione interna rese superfluo lo spiegamento di forze condotto dal figlio di Livia. Augusto fu ben contento di aver ottenuto con quella spedizione, senza colpo ferire, anche l’insediamento di un sovrano filoromano sul trono di Armenia, oltre alle restituzione delle insegne: aveva rinunciato, quindi, alla prospettiva di provincializzare la Partia, ed appunto anche la stessa Armenia, proprio per non costringere i Parti ad uno scontro per il quale si era evidentemente preparato in maniera adeguata, ma che non si augurava. Dopo il brillante e ponderoso saggio di Sherwin-White 90, è opportuna maggior prudenza nel ricondurre la scelta della mancata conquista al di là dell’Eufrate al desiderio di evitare problemi di integrazione culturale o inerenti all’amministrazione dell’impero, tanto piú trattandosi di un princeps che si proponeva l’annessione dei Germani, dei Celti, degli Illiri, dei Traci e dei Daci; con questo non si vuol certo sostenere che si trattò allora di paura del nemico, ma il fatto è che un’eventuale sconfitta sul campo, che in linea di principio non poteva essere esclusa, subita in quel momento avrebbe fatto crollare l’impalcatura del nuovo ordine augusteo, spezzato il prestigio del princeps e ridato forza all’opposizione. Pertanto Augusto preferí portarsi contro popolazioni che si presentavano da sempre militarmente piú congeniali ai Romani per uno scontro anziché giocarsi tutto contro quei

87  Aug., R.G. 29,2; Vell. Pat. 2,91; Suet., Aug. 21,3; Tib. 9,1; Cass. Dio 54,8,1-3; cfr. anche Liv., Per. 141; Strab. 16,1,28; Flor. 2,34,63. La scena del recupero delle insegne è effigiata sulla corazza della statua dell’Augusto di Prima Porta; per la monetazione ispirata ad essa, vd. RIC I, ad es. nn. 41; 58; 80 sgg.; 522 sgg. et al. Cfr. tra gli altri Wirth 1980-81, p. 309; Barzanò 1985, pp. 212 sgg. 88  54,8,2: ...ὡς καὶ πολέμῳ τινὶ τὸν Πάρθον νενικηκὼς. 89 29,2: Parthos trium exercitum Roman[o]rum spolia et signa re[ddere] mihi supplicesque amicitiam populi Romani petere coegi. 90  1984, pp. 328 sgg.; cfr. anche Gruen 1990, pp. 396 sgg. (p. 397: “in the East generally Augustus affected war but practiced diplomacy”) e Rich 1998, p. 72.

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Parti che, dopo aver annientato i due Crassi, ancora pochi anni prima avevano inficiato gravemente la reputazione militare perfino di Marco Antonio, il quale pure aveva avviato la sua spedizione in condizioni di analoga superiorità numerica. Nel frattempo altri avvenimenti avevano proiettato ad un’altezza per Mecenate non piú raggiungibile il rango di Agrippa: il suo matrimonio con Giulia, figlia di Augusto, nell’anno 21 91; l’avvio dell’espansione sul settore germanico, illirico e pannonico, e preliminarmente un consolidamento delle conquiste mediante la ripresa, ad opera dello stesso Agrippa, di un conflitto bellico (in tutto decennale) su uno scenario totalmente diverso rispetto a quello orientale: infatti nel 20 Agrippa – sull’esempio di Pompeo nel 66 – ebbe aggiunta una nuova provincia all’imperium quinquennale ricevuto nel 23 92, cosicché ταῖς Γαλατίαις προσετάχθη, e da lí si spostò poi nel 19 nella penisola iberica per far guerra ai Cantabri 93. Nel 18 sarebbe poi avvenuta la sua definitiva consacrazione, non tanto a motivo del rinnovo dell’imperium quinquennale (probabilmente della stessa tipologia di quello del 23, finalizzato alla nuova missione in Oriente), quanto dell’attribuzione di una parimenti quinquennale tribunicia potestas 94: come dimostrato da Hurlet 95, era proprio il conseguimento di essa che sanciva la promozione da titolari di una missione straordinaria a veri e propri colleghi del princeps. Non si può certo escludere che proprio Agrippa, i cui figli Gaio e Lucio Cesari vennero inoltre adottati da Augusto, forte della propria ulteriore promozione ed ascesa possa aver indotto il suocero a ridimensionare il ruolo di Mecenate. A prescindere da una minoranza che non ritiene di ravvisare segni di perdita di favore di Mecenate presso Augusto o che interpreta come volontario il ritiro del cavaliere aretino anche

91 In quell’occasione Mecenate avrebbe sprezzantemente detto ad Augusto: τηλικοῦτον αὐτὸν πεποίηκας ὥστ᾿ ἢ γαμβρόν σου γενέσθαι ἢ φονευθῆναι. 92   Cfr. Hurlet 1997, p. 59 sg. 93 Cass. Dio 54,11,1 sgg.; cfr. Gruen 1990, pp. 399 sgg.; Hurlet 1997, pp. 58 sgg. 94  Cass. Dio 54,12,4; Hurlet 1997, pp. 63 sgg. 95 1997, pp. 65; 314; 338; 349 sgg.; Cassio Dione 54,12,4 scrive infatti: ἔπειτα δὲ καὶ τῷ Ἀγρίππᾳ ἄλλα τε ἐξ ἴσου πῃ ἑαυτῷ.

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dal ruolo di direttore del Circolo 96, da sempre la maggior parte degli studiosi si interroga sulle motivazioni che possono aver indotto Augusto a prendere il posto di Mecenate, intendendo ciò come una punizione o un segno di sfiducia (o almeno di insoddisfazione) verso il suo amico fedele di un tempo: a meno di non accontentarsi delle considerazioni amare di Tacito sulla volubilità dei potenti 97, come principali spiegazioni di tale eclissi – una cui prima eco si è voluto vedere nell’epistola oraziana 1,7 (del 23 a.C.) 98 – sono stati chiamati in causa il malcontento di Augusto per la condotta avventata di Mecenate durante la congiura di Murena e Cepione, o il malcontento di Mecenate per una presunta liaison fra lo stesso princeps e sua moglie Terenzia 99. L’anno 23 fu per Augusto quello del definitivo compimento della sua creazione istituzionale, con dal 1º luglio la deposizione del consolato che deteneva ininterrottamente dal 31 e l’assunzione dell’imperium proconsulare (maius o, come preferiscono

96 Ad es. Williams 1990, p. 267, che ritiene l’avvicendamento al vertice del Circolo come previsto (“then literary patronage exercised by Maecenas was unique in that it was exercised for the political benefit of Augustus, and, from the very beginning, it envisaged that when the right time came, Augustus would take it over, and Maecenas would fade into the background”), con Mecenate che si sarebbe fatto garante della prosecuzione del supporto dei poeti al princeps; Guarino 1992, p. 139 pensa addirittura che Mecenate avesse deciso di trarre profitto dal fascino che sua moglie esercitava su Augusto. Tac., Ann. 14,55,2 (come peraltro già Ann.  14,53,3) non permette un riferimento cronologico preciso per questo nuovo passo indietro di Mecenate, e potrebbe anche riferirsi alla sua rinuncia ad ogni carica nel 29. 97  In Ann.  3,30,4 c’è un’assimilazione tra la vicenda di Sallustio Crispo, nipote di una sorella del celebre storico, e quella di Mecenate; in conclusione, Tacito commenta: idque et Maecenati acciderat, fato potentiae raro sempiternae, an satias capit aut illos, cum omnia tribuerunt, aut hos, cum iam nihil reliquum est quod cupiant. Peraltro in altri passi degli Annali la lettura della vicenda di Mecenate presenta aspetti diversi, sia per un probabile cambio di fonti, sia per esigenze interne alla dimostrazione delle tesi dell’opera. 98 Ma cfr., contra, Pizzolato 1989, pp. 159; 167; 178, che attribuisce le ragioni del momentaneo distacco di Orazio da Mecenate alle scelte poetiche; dall’altra epistola oraziana 1,18 si potrebbe invece inferire la ritrovata cordialità fra Mecenate ed Augusto. 99  Le fonti hanno chiamato in causa entrambe queste ragioni, quali l’una e quali l’altra: per la prima motivazione, vd. Suet., Aug. 66,6; per la seconda, vd. Cass. Dio 54,19,3; 6. Fra i moderni, tra le moltissime ricostruzioni cfr. Stein 1928, coll. 213 sgg.; Avallone 1962, p. 98; Syme 1962, p. 343 sg.; Verdière 1971 (con la celebre proposta di identificare con Terenzia la Corinna ovidiana); Rohr Vio 2000, pp. 292 sgg.

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altri, maius quam in relazione ai governatori delle province che avrebbe attraversato nella spedizione orientale) 100 e della tribunicia potestas; ma fu anche un anno difficile, in cui rischiò di perdere tutto: dovette far fronte ad un processo per alto tradimento contro il governatore di Macedonia, Marco Primo, che lo tirava in ballo per una guerra contro la Tracia intrapresa senza autorizzazione, alla malattia sua e poi a quella, infine mortale, del nipote Marcello, nonché appunto, probabilmente, alla congiura di Murena e Cepione. La trattazione del Syme inerente agli eventi del 23 101 evoca le trame di un Palazzo dominato dalle figure di Livia, Agrippa e Mecenate, con la preoccupazione prima della pars Agrippae di evitare l’introduzione del principio di successione dinastica con l’eventuale designazione di Marcello da parte di Augusto gravemente malato, e poi, dopo la guarigione di Augusto e la morte, altresí, di Marcello, della pars Maecenatis per il profilarsi a quel punto di una designazione a successore di Augusto – od almeno a titolare di un interim – in favore dello stesso Agrippa; il pregio di questa ricostruzione è di proiettare il focus sul Palazzo, che sarebbe divenuto il principale baricentro della politica per il tempo a venire. Uno degli eventi cruciali di quell’anno, come detto, fu la congiura di Aulo Terenzio Varrone Murena – che solo una parte degli studiosi ha ritenuto di identificare con il collega di consolato di Augusto – e di Fannio Cepione: essa prese forma o nel 23 (come indurrebbe a pensare Velleio Patercolo) o al piú tardi nel 22 a.C. (datazione stabilita invece sulla base di Cassio Dione) 102. 100   La testimonianza di Cassio Dione 53,32,5 è stata intesa da Ferrary 2001, pp. 130 sgg. come inesatta, e lo studioso ha cercato di armonizzarla con l’imperium conferito ad Agrippa nel 23, stabilito come aequum dalla laudatio funebris in suo onore: subito dopo il conferimento ad Agrippa di tale imperium, quello di Augusto sarebbe divenuto maius rispetto, appunto, a quello dei proconsoli delle sole province pubbliche (Sicilia, Acaia, Asia, Ponto-Bitinia) che prevedeva di attraversare nel corso della spedizione orientale. 101  1962, pp. 335 sgg. 102 Vell. Pat. 2,91,2; Cass. Dio 54,3,4 sgg.; inoltre, vd. Suet., Aug. 19,1; 56,7; Tib. 8,1; Macr., Saturn. 1,11,21. Cfr. Syme 1993, pp. 572 sgg.; Rohr Vio 2000, pp. 292 sgg., che fra le altre cose – come la datazione della congiura al 23 (per la quale cfr. anche Jameson 1969, pp. 204 sgg., in ispecie p. 227 sg.; uno dei principali ostacoli per la datazione al 23 è l’ode oraziana 2,10,1, se il destinatario è il Licinio Murena fratello di Terenzia) – si sofferma sull’onomastica di

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Mecenate è esplicitamente descritto da Cassio Dione (54,3,5) come estraneo alla trama ed all’attuazione di essa, nonostante Murena fosse suo cognato; ma pare che Mecenate avesse rivelato alla moglie Terenzia che la congiura era stata scoperta (grazie a Castricio, un liberto di Augusto), e che la donna avesse prontamente informato di ciò il fratello Murena, permettendogli una fuga effimera. Ancora il Syme offre a tal proposito una ricostruzione pregevole, che pur inserendo la congiura nel quadro della competizione tra fazioni, tuttavia non enfatizza il ruolo che poté giocarvi Mecenate, il quale dovette limitarsi al tentativo di contrastare un’ascesa troppo netta di Agrippa, ma senza assecondare Murena e Cepione nel loro disegno di implicazioni estreme; certamente, però, dagli eventi del 23 “il potere e l’autorità di Marco Agrippa uscirono piú saldi” 103, ciò che in ogni caso avrebbe determinato una deminutio di Mecenate. Sulla portata del raffreddamento tra Augusto e Mecenate, c’è da dire che il passo di Svetonio, Aug. 66,6 potrebbe essere piú rilevante di quanto generalmente non si sia pensato: il biografo afferma che Augusto si sarebbe aspettato da Agrippa maggior patientia e da Mecenate maggior taciturnitas; nel caso del nostro, il riferimento è appunto al fatto che Mecenate avrebbe rivelato alla moglie Terenzia la notizia della scoperta, che invece sarebbe dovuta rimanere segreta, della congiura contro Augusto. Queste aspettative del princeps andarono appunto talora deluse, il che provocò, dice il biografo, tra lui ed i suoi due fiduciari qualche screzio: ma viene precisato che, ciononostante, Agrippa e Mecenate potentia atque opibus ad finem vitae sui quisque ordinis principes floruerunt. L’aspetto significativo è che, come anche Tacito in Ann. 14,53 sgg., la figura di Mecenate è appaiata a quella di Murena, una questione molto dibattuta in sede critica (cfr. fra gli altri Arkenberg 1993, pp. 471 sgg., che giunge alla conclusione per cui “the consul designatus and the conspirator are not the same person” [p. 491], con dossografia ragionata sul problema dell’identificazione fra il console del 23 ed il cospiratore): le fonti lo individuano, se le si combina, come Lucio Licinio Varrone Murena, ma in CIL I2 è attestato Aulo Terenzio Varrone Murena, con la compresenza di due gentilizi che può spiegarsi come esito dell’adozione di Aulo Terenzio Varrone Murena da parte del console del 62 a.C. Lucio Licinio Murena (cfr. Sumner 1978, pp. 187 sgg.). 103  1993, p. 574.

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Agrippa come esempio di una posizione di forza e di influenza che, nonostante qualche momento di frizione con il princeps e di ritiro dalla politica attiva, perdura fino al termine dell’esistenza; ora, proprio la nostra consapevolezza che per Agrippa andò certamente cosí, rafforza la presunzione che anche nel caso di Mecenate si debba postulare non una rottura violenta ed irreparabile nelle relazioni con Augusto 104, bensí una divergenza di opinioni su aspetti specifici, sia pure inerenti ad ambiti fondamentali dell’esercizio del potere, quali la politica estera e, probabilmente, il modo in cui rapportarsi a quei poeti dalle cui opere il principato si attendeva esiti molto superiori in termini di allineamento ideologico e quindi di organizzazione del consenso. Una ragione di disaffezione di Augusto da Mecenate che una ridotta ma autorevole parte della critica ha chiamato in causa è infatti individuabile anche e proprio nel desiderio del princeps di una produzione poetica piú in sintonia con quella che dopo il celebre saggio del La Penna si suole chiamare “ideologia del principato”: e lo stesso La Penna ha richiamato l’attenzione sui risultati inferiori a quanto sperato che Mecenate aveva fino ad allora raccolto 105. Questa motivazione per il raffreddamento di Augusto verso Mecenate non è affatto alternativa, ed anzi è del tutto complementare, a quella che chiamiamo in causa noi ponendo in primo piano la contrapposizione fra Agrippa e Mecenate: Agrippa può aver rimarcato ciò che Augusto aveva individuato da sé come un motivo di insoddisfazione, e cioè che la direzione culturale esercitata da Mecenate sul Circolo di poeti si era mostrata troppo poco funzionale alla propaganda dei valori e degli obiettivi che intendeva imporre all’attenzione; quando poi, con scarsa frequenza e vena, i poeti si calavano su quel terreno, venivano a farlo in controtendenza non solo rispetto alle attese, ma anche all’evolversi delle dinamiche politiche. Fu questo il caso dell’esortazione alla vendetta militare dei due Crassi: un tema in relazione al quale i poeti, se non si schierarono con Mecenate pur consci del venir meno in Augusto, col procedere del decennio 104  Contraddetta dalle testimonianze sul dolore di Augusto per la morte di Mecenate: vd. Cass. Dio 55,7,1. 105  1963, pp. 106 sgg.; 115 e sgg.

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successivo ad Azio, di ogni entusiasmo per l’imitatio Alexandri, finirono comunque per sottovalutare l’impatto sul piano della politica interna che avrebbe comportato il propagandare le istanze della pars Maecenatis quando queste non erano piú condivise dal princeps, e contraddicevano quelle della pars di cui l’intricata serie di eventi del 23 sancí il prevalere, quella di Agrippa. Certamente dopo il 20 a.C. le dediche dei poeti del Circolo a Mecenate e perfino i riferimenti a lui si riducono notevolmente (nella produzione oraziana successiva al 23 il cavaliere aretino compare solo in Carm. 4,11,19); perdura invero la presenza di certe tematiche che potrebbero indurre a contemplare l’ipotesi della prosecuzione da parte di Mecenate di un ruolo attivo, ma che in realtà erano semplicemente funzionali alla propaganda di Augusto; soprattutto, con l’intensificarsi di una produzione piú impegnata anche nella veste contenutistica e nelle occasioni di diffusione, cambia nei poeti augustei il trattamento di temi che in precedenza avevano affrontato da una prospettiva diversa. Properzio è forse l’autore sul quale il cambio di direzione del Circolo ha lasciato l’impronta piú evidente; il IV libro delle sue elegie, in cui Mecenate non trova alcuno spazio in prima persona, invera molte di quelle che nel II e nel III libro si presentavano come prospettive di allineamento o adesione alle attese del potere. E cosí, per non citare che alcuni casi fra i piú evidenti, nell’elegia 4,2 Vertumno non lascia trapelare nostalgia per la precedente identità etrusca, ed è felice del trasferimento a Roma e della sua collocazione nel Foro: un esempio di integrazione che può sottendere quella di Properzio, ormai non piú “difficile”. Nella 4,3 la disperazione di Aretusa per il marito Licota portato lontano dalle guerre diviene una celebrazione delle virtú della donna romana, come senz’altro già nella 3,12 lo era il modello di Elia Galla moglie di Postumo, ma Aretusa è molto piú augustea per come esalta il vincolo coniugale (v. 49: omnis amor magnus, sed aperto in coniuge maior), e perché non stabilisce realmente un’antitesi tra la dimensione militare e quella dell’amore: affranca la milizia dalla cupidigia, si documenta sui luoghi in cui si trova il marito (vv. 35 sgg.), dà voce all’auspicio Romanis utinam patuissent castra puellis! (v. 45) – che sembra profetizzare le ge214

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sta di Agrippina Maggiore in Germania 106 –, prefigura il trionfo (vv. 67-68). Nella 4,6 del 16 a.C., rispetto alla 3,11 ma anche al virgiliano scudo di Enea 107, nel riferire della battaglia di Azio Properzio oblitera Antonio, la guerra è pertanto presentata come rivolta contro una regina ed uno Stato stranieri in omaggio all’ideologia augustea, e lo scontro non è piú deciso in favore di Ottaviano dalla fuga di Cleopatra (la cui caratterizzazione come lussuriosa e codarda sminuiva in 3,11 la gloria conseguita dai vincitori), ma dall’intervento di Apollo, che predestinava il futuro princeps al trionfo in quello che si configurava come un vero e proprio conflitto di civiltà, al cui esito Properzio lega anche la prova dell’effettiva divinità di Cesare (v. 60: Tu deus; est nostri sanguinis ista fides); sulla base di tali premesse, non solo Orazio (Epist. 1,12,27-28; 1,18,56; Carm. 4,5,25; 4,15,6-8) e forse anche Virgilio (se, all’interno della profezia di Giove, i versi di Aen.  1,289-290 sono stati inseriti realmente all’indomani della restituzione delle insegne), ma anche Properzio con questa stessa elegia 4,6 sembrano provvedere inoltre ad una rivalutazione dei risultati conseguiti da Augusto nella spedizione orientale di qualche anno prima: lungi dal configurarsi come un successo mancato od un’occasione perduta, quella spedizione portò ad una vendetta pienamente compiuta (vv. 83-84, con l’esortazione a Crasso a rallegrarsi), che aveva tuttavia mostrato la generosità del princeps nel momento in cui preferí lasciare ai suoi discendenti la prospettiva di un’impresa brillante: hic referat sero confessum foedere Parthum: / “Reddat signa Remi, mox dabit ipse sua:  / sive aliquid pharetris Augustus parcet Eois, / differat in pueros ista tropaea suos...” (vv. 79-82). Quanti preferiscono postulare una perdurante influenza di Mecenate potranno scorgere in questi versi l’esortazione ai successori di Augusto a riconsiderare un giorno l’opportunità della conquista orientale; ma in realtà tali versi sembrano piuttosto aprire la strada al riconoscimento della prospettiva ormai dinastica del principato 108, ed ove li si contestualizzi nel tono generale del quarto libro, tradiscono altresí l’eclissi del cavaliere aretino  Tac., Ann. 1,69,1 et al.   Cfr. Cristofoli 2005, pp. 202 sgg.; 2008, p. 209. 108  Cresci Marrone 2008, p. 184. 106 107

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e la necessità di un allineamento che nel caso di Properzio passava, oltre che attraverso temi e figure di una poetica nuova, anche e ancor piú significativamente attraverso la rilettura di quella storia che al princeps interessava di piú, quella dei suoi giorni e delle sue vittorie.

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Paul Zanker

Il tempio di Apollo Palatino in Properzio e i suoi resti

Nelle sue elegie, Properzio parla della Roma augustea solo di rado, e in modo poco concreto. I sedici versi sul tempio di Apollo Palatino, sui quali mi soffermerò qui in particolare, costituiscono con la loro asciutta soggettività un’evidente eccezione (II, 31) 1. Una seconda elegia (IV, 6), che finge di lodare il tempio di Apollo, è in realtà del tutto vaga. Sebbene il poeta sostenga al verso 11 “Musa, Palatini referemus Apollinis aedem”, a ciò non fa seguito alcuna lode del tempio né della persona di Augusto, ma di Apollo, che ad Azio, stante accanto alla nave di Augusto, ha volto tutto in suo favore: perciò alla fine Properzio può festeggiare con Bacco, mentre altri poeti devono limitarsi ad elogiare le sue molte gesta. Lo scarso interesse di Properzio per la Roma augustea sorprende, se si pensa che egli, nato subito dopo il 50 a.C., vi visse dalla fine degli anni Trenta fino alla sua morte, presumibilmente precoce (forse già intorno o prima del 10 a.C.). Erano esattamente i decenni delle prime grandi imprese edilizie di Augusto, dal Mausoleo, al restauro dei vecchi templi e santuari, al teatro di Marcello in Campo Marzio, alle nuove costruzioni nel Foro Romano, al completamento del Foro di Cesare, all’inizio dei cantieri per la costruzione del Foro di Augusto. È indubbiamente vero che al tempo di Properzio il centro della città dovette essere stato per decenni pieno di impalcature; gli edifici marmorei, tuttavia, nuovi e di grandi dimensioni, dovvettero esercitare *  L’autore ringrazia Annalisa Lo Monaco per la traduzione dal tedesco. 1 Da ultimo, cfr. Iacobi, Tendone 2005/6; A. Carandini, D. Bruno 2008, p. 85 fig. 42; in precedenza, Zanker 1983, p. 27 sgg. 10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102585

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nella città ancora all’antica un’enorme impressione. Di tutto ciò, non si sente in Properzio alcuna eco. Se egli menziona un nuovo edificio, una strada o un quartiere, come ad esempio la porticus Pompei (II 32, 11-16), ciò ha di solito a che fare con la sua Cinzia o le sue altre amiche che abitavano nei paraggi, o che lí poteva incontrare. Piuttosto che parlare della nuova Roma marmorea, egli riconduce il lettore agli albori della città, e si dilunga in descrizioni bucoliche della vita semplice e buona degli antichi Romani ai tempi di Romolo e Remo o degli eroi ad essi posteriori (IV, 1). Non meno strana e sconcertante è la sua relazione con Augusto (spesso chiamato solo Cesare), di cui parla sempre tessendone le lodi, ma in modo piuttosto sintetico e, non di rado, mantenendo una certa distanza. Properzio motiva il suo rifiuto di dar voce ad inni in lode di Cesare con la sua apparente modestia ed incapacità. Cosí ad esempio depone ai piedi della colossale statua stante di Augusto solo una modesta corona “sic nos nunc, inopes laudis conscendere culmen // Pauperibus sacris vilia tura damus” (II 10, 23-24). Allo stesso modo, suona ironica la sua poesia dedicatoria a Mecenate (II, 1), in cui afferma: se egli avesse avuto il destino di “heroas ducere in armas”, allora non avrebbe cantato i Titani e i grandi del passato, no, avrebbe naturalmente “bellaque resque tui memorarem Caesaris” (cioè del tuo Cesare), e aggiunge “et tu // Caesare sub magno cura secunda fores” (vv. 25 sgg.). Ed ancora, riguardo alle problematiche battaglie di Ottaviano nella guerra civile, inizia con Modena e i civilia busta a Filippi, nomina poi persino con rimpianto gli “eversosque focos antiquae gentis Etruscae” (v. 29), per giungere infine a parlare della vittoria di Azio. La sua vittoria in amore in ogni caso conta di piú per lui che “se avessi vinto i Parti”: “Haec mihi devictis potior victoria Parthis/ Haec spolia, haec reges, haec mihi currus erunt” (II 14, 23-24) o “se tutti si fossero amati, e avessero festeggiato e bevuto, non ci sarebbe stata alcuna battaglia navale” e “nec nostra Actiacum verteret ossa mare” (II 43 sgg.). Naturalmente, egli canta anche il trionfo di Augusto in Oriente e Occidente, i Parti e la Vittoria su Antonio “se solo Mecenate lo guida, se egli lo vorrà” (III 9, 47 sgg.). Questa riluttanza di Properzio per la nuova Roma augustea e Augusto è curiosa in un uomo che fece parte del circolo di Mecenate, ove era solito riunirsi con gli altri poeti che declamavano lodi del nuovo princeps e pater patriae. Il motivo può essere 222

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forse ricercato nelle vicende della sua giovinezza e nella confisca delle proprietà della sua famiglia, all’indomani della battaglia di Perugia del 40 a.C. Egli doveva appartenere ad una delle vecchie famiglie abbienti di Assisi e probabilmente per questo non fu mai uno dei piú accaniti sostenitori di colui che piú tardi sarebbe stato Augusto 2.

Struttura e parafrasi dei 16 versi In questo contesto bisogna a mio parere anche leggere i versi asciutti sul tempio di Apollo Palatino (II, 31). Non è una bella poesia, e si ha quasi l’impressione che il poeta fosse in qualche modo costretto a scriverla. Il secondo libro delle elegie, al quale essa appartiene, deve essere stato pubblicato dopo il 26 a.C. e prima del 23 a.C., a non molta distanza dunque dalla fine dei lavori al tempio di Apollo Palatino e dall’apertura dell’aurea Phoebi porticus, che nei primi versi viene indicata come magno Caesare aperta. Con i suoi sedici versi, questa “elegia” è piú breve delle altre. Si potrebbe trattare – come è già stato proposto – solo di un frammento, dal momento che la fine, nella sua rassegna lapidaria delle tre statue nella cella del tempio, è persino piú asciutta degli altri versi, e si interrompe del tutto bruscamente. Quaeris cur veniam tibi tardior? Aurea Phoebi Porticus a magno Caesare aperta fuit. Tanta erat in speciem, Poenis digesta columnis, inter quas Danai femina turba senis. Hic equidem Phoebo visus mihi pulchrior ipso Marmoreus tacita carmen hiare lyra; atque aram circum steterant armenta Myronis, Quattuor artifices, vivida signa, boves. Tum medium claro surgebat marmore templum, et patria Phoebo carius Orthygia, in quo Solis erat supra fastigia currus et valvae, Libyci nobile dentis opus: altera deiectos Parnasi vertice Gallos, altera maerebat funera Tantalidos. Deinde inter matrem deus ipse interque sororem Pythius in longa carmina veste sonat. 2  Sui Properzii ad Assisi, cfr. F. Boldrighini, La Domus Musae e il teatro dei Propertii, in Archeologia Classica 59 (NS. 9), 2008, pp. 113-132.

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Mi chiedi perché mai giunga tardi. Il portico di Apollo è stato inaugurato dal grande Cesare. Lo spazio era affollato da colonne di marmo africano, fra le quali si trovava la folla delle figlie del vecchio Danao. Qui l’Apollo marmoreo sembra cantare, mentre la lira resta in silenzio, e realmente questa statua mi appare piú bella del dio stesso; intorno all’altare inoltre si ergeva il gregge di Mirone: Quattro buoi dell’artista, statue che sembrano vive. Quindi sorgeva al centro il tempio marmoreo, piú caro al dio anche della stessa patria Ortigia: sul frontone era il carro del Sole, le porte erano mirabili opere di avorio; nell’una era rappresentata la cacciata dei Galli dalla cima del Parnaso, l’altra era rattristata dalla morte della prole di Tantalo. Di qui, fra la madre e la sorella, lo stesso dio Pizio suona i carmi, vestito di una lunga veste (C. Cecamore, in Röm. Mitt. 111, 2004, 126).

vv. 1-2 Nell’introduzione, Properzio si scusa con la sua amica per aver preso parte all’inaugurazione dell’aurea Phoebi porticus. vv. 3-4: La porticus è di enormi dimensioni (tanta), e ha colonne in marmo punico, tra le quali si vede la folla (femina turba) delle figlie del vecchio Danao. Gli altri 4 versi (vv. 5-8) sono rivolti ad un’immagine stante, che si doveva trovare all’interno della porticus. Per prima cosa egli vede il Febo marmoreo, che gli appare piú bello del dio in carne ed ossa. E costui sembra cantare, senza suonare la lira. Dinanzi a lui si trova un altare, e intorno ad esso quattro buoi dalla mandria di Mirone, opere che sembrano quasi viventi (vv. 7-8). I restanti versi (vv. 9-14) sono dedicati alla facciata del tempio: al centro si innalza il tempio in marmo splendente, amato dal dio certamente ancora di piú di quello della natia Ortygia (a Delos) (vv. 9-10). Sul frontone è il carro del Sole. Sugli stipiti della porta del tempio erano rilievi in costoso avorio (Libyci nobile dentis opus): in uno di essi si vedevano i Galati scagliati giú dalle elevate cime del Parnaso, su un altro Niobe si lamentava della morte dei Tantalidi. Nei due versi finali (vv. 15-16), senza soluzione di continuità né indicazione della collocazione, è nominato lo stesso deus Pythius tra la madre e la sorella, intento a suonare, abbigliato in una lunga veste. Deve trattarsi, come vedremo, della cella del tempio. È poco plausibile che la poesia finisse in origine cosí.

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Fonti archeologiche e letterarie Passo adesso ad una rassegna sulle fonti letterarie ed archeologiche relative all’allestimento del tempio. Nei primi quattro versi si parla dell’aurea porticus Phoebi, con le sue Poenis columnis, colonne in calcare giallo oro (giallo antico), di cui si sono rinvenuti pochi resti e, tra le colonne, le statue delle figlie dell’anziano Danao. Fino a poco tempo fa, alle statue delle Danaidi erano riferite le statue bronzee della Villa dei Papiri (fig. 2). Nel frattempo sono state pubblicate da Maria Antonietta Tomei alcune erme del Palatino dello stesso tipo, inferiori al vero e in costoso marmo egizio, rosso e verde-nerastro, a ragione messe in relazione all’arredo del santuario di Apollo 3 (fig. 1). Se esse fossero state esposte tra le colonne, le loro piccole dimensioni avrebbero di certo causato un effetto ottico molto strano e sgradevole. Mi sembra plausibile ipotizzare che nella stessa porticus vi fossero statue bronzee a grandezza naturale, come i famosi peplophoroi da Ercolano, e che le erme panneggiate, inferiori al vero, si trovassero forse al piano superiore. In ogni modo, secondo Properzio dovrebbero essere state esposte pur sempre 50 Danaidi. Non è possibile naturalmente formulare al riguardo piú di qualche supposizione. Mi sembra poco probabile che le 50 statue equestri a dimensione naturale dei figli di Egitto fossero affrontate nella piazza alle Danaidi. Tale indicazione è trasmessa solo da uno scolio tardo (Schol. Pers. II, 56). Il senso delle Cariatidi, che saltavano agli occhi, deve avere a che fare con il senso di colpa della guerra civile. Il mito deve essere inteso come metafora per la crudeltà e la colpa della guerra. Che le fanciulle per la morte dei loro cugini fossero state guidate dal padre, spinto dall’odio per il fratello, era chiarito da una statua di Danao esposta accanto a loro, che incitava all’azione le figlie brandendo una spada sguainata. Si può vedere in ciò un riferimento a Marco Antonio, su cui in questo modo era addossata la colpa 4.

3 Tomei 2005/6, pp. 378-384; Tomei 1990, pp. 35-48; Tomei 1997, p. 56 sgg. 4  Sul significato delle Danaidi, cfr. Zanker 1983, p. 27 sgg.

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Di fronte al tempio, stando ai versi 5-8 di Properzio, si trovava una statua di Apollo particolarmente bella dinanzi ad un altare, e intorno ad essa i quattro buoi di Mirone. Con “di fronte al tempio” si deve intendere “nella piazza circondata da colonne dinanzi al tempio”. Con una certa fiducia si deve perciò a mio avviso considerare l’ipotesi di riferire la moneta di C. Antistius Vettus, coniata immediatamente dopo i ludi saeculares del 16 a.C., ai monumenti descritti in precedenza da Properzio 5 (fig. 3). Nel conio, poco dettagliato, Apollo indossa una veste altocinta, tiene nella sinistra una cetra ed offre su un altare dinanzi a lui un sacrificio con la destra protesa. La moneta reca la scritta Apollini Actio, sulla sua base sono raffigurate le prue delle navi conquistate da Augusto e due ancore, in riferimento alla vittoria navale indotta da Apollo. La venerazione di Apollo come uno degli aiuti decisivi per Azio fu una delle componenti piú importanti dell’intera concezione del tempio. I quattro buoi di Mirone potrebbero essere stati originali greci (ma non lo devono essere per forza!), poiché la famosa mucca dello stesso Mirone si trovava piú tardi nel Foro della Pace 6. Poi Properzio passa ad occuparsi proprio del tempio (vv. 9-14). Sul frontone si trovava il carro con il dio Sole, altra epifania di Apollo. Sul frontone erano pure le sculture, ricordate da Plinio (nat. 36,5,23) degli scultori arcaici Bupalos e Athenis, della seconda metà del VI secolo a.C. (Plin. nat. 36,5,12). I due artisti, evidentemente, erano molto apprezzati da Augusto, che, come in altri templi, ne fece esporre le opere 7. Il costoso arredo delle porte del tempio con i rilievi in avorio è un nuovo riferimento alla vittoria di Azio, con un confronto mitico ed uno mitistorico. Anche per la vittoria di Augusto il merito era di Apollo, come 5  Da ultimo, Cecamore 2004, p. 130 sgg. fig. 15 (da BMC, RE I, 18 n. 95 tav. 3,5) ancora con il riferimento, a mio avviso errato, ad un monumento ad Azio: in un mio articolo precedente, ho chiarito in dettaglio tutti i problemi (Zanker 1983, p. 31 sgg.). La mia tesi che le monete di Antistius siano in serie con monumenti esclusivamente urbani mi sembra ancora accattivante, anche dopo le considerazioni della Cecamore. 6  Mucca di Mirone: Overbeck 1868, p. 103 sgg. n. 550 sgg.; Procop. De bello Gothico IV, 21. 7 Sulla scuola artistica di Chio, da cui provenivano Bupalos e Athenis: Overbeck 1868, p. 54 n. 314 sgg.; Stewart 1990, p. 243 sgg.; Fuchs, Floren 1987, p. 335 sgg.; Zanker 1987, p. 256 sgg.

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nel caso dell’orgoglio di Niobe contro la madre di Apollo e della disfatta dei Galli a Delfi. Si tratta di nuovo di dediche nello stile greco delle parabole. Nella cella del tempio erano naturalmente esposti anche costosi donari, tra cui un candelabro pensile in forma di albero di mele, un tempo prelevato da Alessandro a Tebe e da lui consacrato all’Apollo di Kyme (Plin. nat. 34,8,14), e la costosa dattilioteca di Marcello, prematuramente scomparso (Plin. nat. 37,1,11). I due ultimi versi sono dedicati a statue di culto. Come ho già avuto modo di argomentare, esse sono raffigurate insieme ad altre su uno dei fianchi della famosa base nel Museo Archeologico di Sorrento, purtroppo conservata solo parzialmente 8 (fig. 4). Secondo questa interpretazione, i templi di Vesta e della Magna Mater sui lati principali della base si sarebbero trovati, come il tempio di Apollo, nelle vicinanze della casa di Augusto. Su uno dei fianchi sarebbe raffigurato l’ingresso alla casa di Augusto, in forma di tempio, con Marte Ultore e il Genio di Augusto. Al centro del gruppo cultuale si trova Apollo in lunga veste da citaredo, intento a suonare la sua cetra. La statua, come come ci informa Plinio (nat. 36,25), era opera di Skopas. Alle sue spalle si elevava un altissimo tripode, realizzato con le offerte in oro (circa 80 monumenti onorari) che tempo addietro erano state dedicate ad Augusto, ma che adesso egli aveva lasciato fondere (statue, statue equestri, quadrighe ed altri argenti) (Res Gestae V 24). Alla sinistra di Apollo, era la statua di sua madre Latona, una figura matronale velata e in peplo, con uno scettro. Come ci informa Plinio, si trattava di un’opera di Cefisodoto, figlio di Prassitele (Plin. nat. 36,24). Sull’altro lato infine era una figura snella, con una gamba flessa disinvoltamente rilassata: Diana, la sorella di Apollo, con una lunga torcia e nella tipica veste altocinta con doppia fibbia; sulla schiena indossava la faretra. Anche nel suo caso Plinio ricorda l’artista classico, Timoteo, e riferisce inoltre che la testa dovette essere rifatta dall’artista contemporaneo Avianus Evander (Plin. nat. 36,32). È questa una ulteriore prova di quanto fosse importante per il proprietario il reimpiego di capolavori di età classica.

 Da ultimo, con egregie illustrazioni, Cecamore 2004.

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Resta da ricordare la figura femminile, accovacciata al suolo. È la Sibilla, delle cui profezie, precedentemente custodite nel tempio di Giove Capitolino ed ai suoi tempi rimanenti sub Palatini Apollinis basi in duobus forulis auratis (Suet. Aug. 31,1), Augusto aveva permesso il ricovero nel tempio di Apollo. Il nuovo tempio acquista cosí una patina di maggiore nobiltà ed è presentato come venerando proprio grazie al riutilizzo di famosi capolavori greci in qualità di statue di culto. I superstiti ed ultimi rotoli delle venerande profezie garantivano la durata eterna della città e dell’Impero. Senza dubbio, esse vanno esaminate anche in relazione agli altri santuari precedentemente nominati ed alla stessa casa di Augusto, che, in seguito alla sua assunzione dell’incarico di pontifex maximus nel 12 a.C., era divenuta almeno in parte un edificio sacro pubblico. Che l’abitazione di Augusto venisse percepita come sacra, lo attesta, tra gli altri, Ovidio (fasti IV 951-952): “Phoebus habet partem, Vestae pars altera cessit / Quod superest illis, tertius ipse tenet”. Purtroppo, nulla o quasi si è conservato di queste belle sculture, ad eccezione di un bel frammento di una testa di Athena tardo-arcaica, da alcuni studiosi messa in relazione al Palladio nel tempio palatino di Vesta 9 (fig. 5). Due frammenti molto superiori al vero potrebbero essere pertinenti alla statua cultuale di Apollo 10 (fig. 6). Agli stipiti delle porte del tempio è pertinente il rilievo di un alto tripode, sorvegliato da grifoni e circondato da racemi: Apollo era intervenuto ad Azio in qualità di vendicatore, ma allo stesso tempo aveva introdotto “l’età dell’oro” 11.

Proposta ricostruttiva del santuario Negli ultimi anni un grande dibattito ha riguardato l’interpretazione dei resti conservati (fig. 7). Non abbiamo a disposizione nuovi dati di scavo, ma sono stati intrapresi alcuni tentativi di migliorare la comprensione dei dati già noti. Un utile contributo è la ricostruzione di Stephan Zink del tempio di Apollo sulla base di accurate misurazioni e impiego  Da ultimo Tomei 1997, p. 54 sgg.; Paribeni 1964, pp. 193-198.  Tomei 1997, p. 47 Nr. 26, 27. 11  Carettoni 1983, p. 17 fig. 1; Gros 2003, 1, p. 64 sgg. fig. 3. 9

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degli scarsissimi resti a noi pervenuti 12. Grazie all’analisi dei pigmenti, egli propone una ricostruzione policroma della versione originaria del tempio. Quanto poco sia in effetti sopravvissuto è mostrato dalle parti in marrone scuro e dai frammenti indicati in figura. Le ricerche di Zink sulla terrazza non sono ancora pubblicate. Per quanto riguarda la terrazza superiore, l’interpretazione dei vecchi risultati di scavo è progredita grazie ad una publicazione di Irene Iacopi. Indipendentemente dalla questione se “l’ipotesi ricostruttiva dell’intero complesso augusteo nella sua impostazione definitiva” sia esatta in tutti i dettagli, essa dà comunque un’idea a mio avviso affidabile, sebbene per grandi linee, della terrazza dinanzi al tempio 13 (fig. 8). Vediamo che i gradini dinanzi al pronao conducono alla piazza tagliando il portico. Poiché nella ricostruzione tutte le colonne sono ricostruite, il lato meridionale a mio avviso potrebbe essere stato aperto verso il Circo Massimo, tutto o almeno in parte. Al centro, tra la piazza ed il tempio, Irene Iacopi ricostruisce un settore rettangolare con gradini. Si tratta verosimilmente del monumento di grandi dimensioni descritto da Properzio (II, 31, 5-8), che parla di Apollo stante intento ad offrire un sacrificio su un altare con i quattro buoi di Mirone. Nella porticus medesima è allora possibile che vi fossero anche le Danaidi, insieme al padre che le istigava all’omicidio. La porticus dinanzi al tempio di Apollo tuttavia sembrerebbe non essere stata l’unica del santuario di Apollo. Tre anni fa, Andrea Carandini e Daniela Bruno hanno pubblicato un libro molto particolare, sulla Casa di Augusto dai “Lupercalia” al Natale, con ricostruzioni in buona parte piuttosto fantasiose. Carandini firma la prima parte come “racconto”, probabilmente per definire in un modo nuovo e originale una strana miscela di argomentazioni archeologiche e idee fantasiose, non basate su alcuna effettiva testimonianza archeologica superstite. Sebbene io sia abituato in qualità di studioso tradizionale ad attenermi a dati verificabili, posso tuttavia ammirare la fantasia degli autori. Nella seconda parte del libro (tra “Microstorie e annotazioni”, a firma di Daniela Bruno), si trovano anche dati utilizzabili da “un archeologo   Zink 2008, pp. 47-63; Zink, Piening 22, pp. 109-122.   Iacopi, Tendone 2005/6, pp. 351-378.

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tradizionale” e soprattutto un’ipotesi importante: l’autrice colloca a mio avviso giustamente i quattro frammenti della Forma Urbis Romae 20efgh, riuniti grazie all’iscrizione AREA APOLLINIS e sinora non ancora localizzati, nell’area al di sotto della porticus del tempio di Apollo 14 (fig. 9), ottenendo con ciò una seconda porticus, piú larga e profonda. Nel libro purtroppo ciò non è discusso, né motivato in dettaglio. Come l’autrice dichiara, osservazioni sul terreno confermano questa attribuzione. Già Rodriguez Almeida aveva avanzato qualche ipotesi in questa direzione 15. Anche Zink, in una conferenza su tutto il complesso, ha sostenuto di avere trovato indizi certi di questa seconda terrazza dinanzi al tempio con osservazioni e sondaggi. Diversamente da Carandini e Bruno, egli si limita strettamente ai dati documentabili, da cui riesce a desumere unicamente l’esistenza e l’entità approssimativa della terrazza. Alcuni anni fa, anche P. Gros si è occupato della silva quae est in area Apollinis, trasmessa da Solin (Mirabilia I 17-18) 16. Essa appare in connessione con la Roma Quadrata di Romolo, e viene descritta nella sua posizione: ea incipit a silva quae est in Area Apollinis et ad supercilium scalarum Caci habet terminus, ubi tugurium fuit Faustuli. Questa silva in area Apollinis non sembra però costituita, come ha già visto P. Gros, soltanto da pochi alberelli simbolici, ma deve essere stata un mollis lucus (Properzio IV 6, 71). Gros sottolinea il collegamento con i santuari greci di Apollo. Non meno importante mi sembra la vicinanza dei grandi santuari tardo-repubblicani/ellenistici del Lazio, dove simili boschetti sono piú volte attestati nell’area del santuario, come a Gabii. In ogni caso, dal momento che un’area Apollinis è attestata nella FUR, è ovvio che la silva ricordata da Solino sia da localizzare nell’Area Apollinis sul Palatino. Il monumento nella FUR al centro dell’area libera è interpretato da Andrea Carandini e Daniela Bruno come ara della Roma Quadrata. Che la Roma Quadrata fosse qui, è attestato piú volte, anche da Solino. È perciò possibile che l’altare o il monumento si trovassero al centro in questo punto. Al contrario, non credo   Carandini, Bruno 2008, p. 181 fig. 79; p. 222 fig. 94.   LTUR I (1993) s.v. Area Apollinis 113 (E. Rodriguez Almeida) 16  Gros 2003, pp. 51-66. 14 15

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sia verosimile la dettagliata ricostruzione su due piani dei portici colonnati sul lato meridionale, che in tale posizione avrebbero del tutto ostacolato la vista dal basso verso il santuario di Apollo e dal santuario al circo Massimo e all’Aventino. I grandi santuari del Lazio tentano, ove possibile, di mettere in scena sia la vista dal santuario verso il paesaggio, sia la vista dal basso verso il tempio. Dal momento che di esso non si è conservato nulla, la mia discussione al riguardo appare del tutto priva di senso. Non entrerò in questa sede sulle altre ipotesi e ricostruzioni ardite di Carandini e Bruno.

L’allestimento classicistico del santuario di Apollo con originali e copie della scultura greca A partire dal III secolo a.C. i generali vincitori esposero capolavori greci, nei nuovi santuari da loro finanziati, sia come elementi pregiati del bottino, sia come doni alle divinità che li avevano condotti alla vittoria. Il progredire della loro conoscenza e dell’ammirazione per l’arte greca li portò ad utilizzare originali greci per l’arredo dei templi di nuova costruzione. Un esempio particolarmente ben conservato è dato dalle sculture di un tempio greco del V secolo a.C. reimpiegate nel frontone del tempio di Apollo, accanto al teatro di Marcello 17. Nel caso di reimpieghi di elementi inseriti come parti costitutive in santuari di nuova costruzione si tratta senza dubbio di qualcosa di diverso dalla semplice esposizione di bottino di guerra. I nuovi impieghi di originali greci erano, a quanto pare, ancora amati al tempo della costruzione del tempio di Apollo sul Palatino. A partire dalla metà del I secolo a.C. fiorí infatti a Roma una corrente estetica che mescolava con particolare passione imitazioni, copie e varianti di opere d’arte greca 18. Accanto all’arte primo- e alto-classica fu particolarmente ammirata l’arte arcaica e tardo-classica, probabilmente a seconda del soggetto e della funzione delle differenti correnti stilistiche.

  La Rocca 2008, pp. 223-242.   Strazzulla 1990 vede soprattutto le tre figure a colori prima della pagina 17; Carettoni 1973, pp. 75-86. 17 18

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Nel nuovo tempio di Apollo tale corrente estetica domina l’intera concezione dell’arredo. Non conosciamo nessun altro caso in cui l’arredo sia stato pianificato cosí unitariamente in senso “classicistico”: le tre statue di culto sono opere di famosi artisti del IV secolo a.C., il frontone era decorato con statue arcaiche degli artisti Bupalos e Athenis; le 50 Danaidi erano, sia statue che erme panneggiate, opere del cosiddetto Stile Severo; accanto alla statua di Apollo dinanzi al tempio erano esposti i quattro buoi di Mirone, e la stessa statua di Apollo è, come si vede nelle monete, redatta secondo un tipo classico (fig. 3). In altre parole, tutto indica che siamo di fronte alla scelta di un consapevole programma stilistico. A prescindere dalle prue e dalle ancore sulla base della statua di Apollo, non conosciamo alcun altro monumento sul quale fossero rappresentati il vincitore di Azio o i suoi avversari. Ufficialmente questi ultimi erano gli egiziani e la loro regina, ma tutti erano a conoscenza della sanguinosa guerra civile. Proprio questo suggeriva che il tema fosse offerto in forma di allegorie mitologiche, che permettevano di seguire ancora una moda allora cosí popolare. Anche altre opere mitologiche, il cui soggetto era riferito piú o meno direttamente al tempio di Apollo o almeno alla sua tematica, sono concepite allo stesso modo in stile decisamente arcaistico o classicistico. Dall’area del tempio di Apollo provengono alcune delle piú belle lastre in terracotta, le cosiddette lastre Campana. Quattro di esse, particolarmente ben conservate, mostrano temi di importanza centrale: la lotta di Apollo e Eracle per il tripode (fig. 10) si riferisce senza dubbio alla contrapposizione di Ottaviano e Marco Antonio, che sulle monete aveva utilizzato in chiave programmatica la propria discendenza da Eracle. Nella guerra di propaganda gli Ottaviani lo avevano deriso come Ercole in gonna presso Omphale-Cleopatra 19. Su una seconda lastra, due donne ornano un alto betilo con bende. Che si tratti anche in questo caso di una venerazione di Apollo è testimoniato dalla presenza di faretra e lira legate al betilo. Su una terza lastra due canefore si trovano ai lati di un thymiaterion, decorato con le sfingi di Apollo. La connessione di entrambe queste immagini con il tempio di Apollo era resa esplicita dalla probabile   Zanker 1983, p. 35.

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collocazione di questi oggetti presso il tempio. Su due lastre di differenti proporzioni dallo stesso contesto, si vedono Perseo ed Atena con il gorgoneion, e due donne in abiti arcaici ai lati di un candelabro 20. Se queste lastre fittili fossero state collocate direttamente nel santuario come elementi architettonici decorativi, si potrebbero leggere come un tentativo di mettere in relazione il nuovo tempio marmoreo ai venerandi templi arcaici: anche questo un gesto che andava bene con il nuovo stile del purificato Ottaviano. Consideriamo ancora altri due tipi di rilievi, che godettero di grande popolarità piú o meno contemporaneamente come pregiati rilievi votivi, anch’essi in qualche modo in relazione al tempio di Apollo. In un caso si tratta di un tipo di rilievo trasmesso in tre esemplari, sul quale la triade apollinea si incammina verso un altare, dinanzi al quale è una Nike/Vittoria stante, mentre Apollo è intento ad offrire in sacrificio una libagione (fig. 11). Le quattro divinità indossano vesti arcaistiche e si muovono in modo arcaizzante e di maniera. A destra delle divinità, Apollo è nella posa di una statua nuda su un pilastro. Nella destra protesa regge una coppa da libagioni. A sinistra si vede su un altissimo piedistallo il tripode apollineo. Le divinità si trovano dunque nel santuario di Apollo, al di là del cui temenos si intravede la parte superiore di un tempio che si doveva trovare presumibilmente nelle vicinanze, che deve essere il tempio della Vittoria, a sinistra del tempio di Apollo sul Palatino. Lo stile arcaistico delle figure si sposa bene con le statue nel santuario di Apollo. È interessante che il tempio al di là del muro abbia nel frontone uno scudo con il gorgoneion, sostenuto da creature marine. Le medesime figure frontonali si ritrovano anche nell’edificio sullo sfondo del rilievo con la scena della visita di Dioniso nella casa di un suo seguace (fig. 12). Eugenio Polito ha probabilmente ragione nel vedere una relazione tra i rilievi con la triade apollinea e quelli con il thiasos dionisiaco. Ma come si deve leggere la relazione con Dioniso nel contesto augusteo, visto che Marco Antonio aveva caratterizzato sé stesso come amico di Dioniso e suo favorito? Forse Dioniso viene qui festeggiato come dio che lascia di nuovo godere la vita ai cittadini grazie   Strazzulla 1990, p. 50 sgg. figg. 15, 16.

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all’aurea  aetas. Egli è qui il dio delle riunioni conviviali nella casa, cioè è festeggiato anche come divinità privata 21. Naturalmente noi conosciamo solo in parte le opere esposte nel santuario di Apollo. Ma da ciò che conosciamo si evince che Augusto stesso torna completamente indietro, e lo sottolinea grazie al reimpiego di statue precedenti probabilmente trionfali, come è mostrato almeno in parte sulle monete. L’estetica classicistica deve essere stata senza dubbio anche intesa come una nuova forma di auto-rappresentazione (un anno dopo l’inaugurazione del tempio vi fu il ripristino formale della Repubblica). Il discorso indiretto per allegorie classiche si adatta in ogni caso molto bene a questo contesto politico.

Bibliografia Carandini-Bruno 2008 = A. Carandini, D. Bruno, La casa di Augusto dai “Lupercalia” al Natale, Roma 2008. Carettoni 1983 = G. Carettoni, Das Haus des Augustus auf dem Palatin, Mainz 1983. Cecamore 2004 = C. Cecamore, Röm. Mitt. 111, 2004, 104-141. Fuchs, Floren 1987 = W. Fuchs, J. Floren, Die griechische Plastik I, München 1987. Gros 2003 = P. Gros, Le Bois sacré du Palatin, in Revue Archéologique 2003, 1, pp. 51-66. Iacobi-Tendone 2005/6 = I. Iacopi, G. Tendone, Bibliotheca e Porticus ad Apollinis, in Röm.Mitt . 112, 2005/6, pp. 351-378. La Rocca 2008 = E. La Rocca, Gli affreschi della Casa di Augusto e della Villa della Farnesina, revisione chronologica, in Bull. Com. Suppl. 18, 2008, pp. 223-242. LTUR = Lexicon Topographiae Urbis Romae I-VI (1993-2000). Overbeck 1868 = J. Overbeck, Die antiken Schriftquellen, Leipzig 1868. Paribeni 1964 = E. Paribeni, Boll. d’Arte 49, 1964, pp. 193-198. Polito 1994 = E. Polito, Luoghi del mito a Roma, in RIA 17, 1994, pp. 65-100. Stewart 1990 = A. Stewart, Greek Sculpture I, New Haven, London 1990.   Polito 1994, pp. 65-100.

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Strazzulla 1990 = M. J. Strazzulla, Il principato di Augusto. Mito e propaganda nelle lastre “Campana”, in Boll. d’Arte V 58, 1973, pp. 75-86. Tomei 1990 = M. A. Tomei, Bollettino di Archeologia 5/6, 1990, pp. 35-48. Tomei 1997 = M. A. Tomei, Museo Palatino, Roma 1997, pp. 56 sgg. Tomei 2005/6 = M. A. Tomei, Röm. Mitt. 112, 2005/6, pp. 378384. Zanker 1983 = P. Zanker, Der Apollontempel auf dem Palatin, in Città e Architettura nella Roma Imperiale, Acta Romana Instituti Danici Suppl. X (1983) pp. 27 sgg. Zanker 1987 = P. Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, München 1987. Zink 2008 = S. Zink, Reconstructing the Palatine temple of Apollo: a case study in early Augustan temple Design, in Journal Roman Archeology 21, 2008, pp. 47-63. Zink-Piening 2009 = S. Zink, H. Piening, Haec aurea templa: the Palatine temple of Apollo and its polychromy, in Journal Roman Archeology 22, 2009, pp. 109-122.

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Fig. 1 Erme delle Danaidi dal Palatino, Roma Museo del Palatino

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Fig. 2 Due delle Statue Peplophoroi da Ercolano, Napoli Museo Nazionale Archeologico

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Fig. 3 Moneta di C. Antistius Vettus

Fig. 4 Gruppo cultuale del Tempio di Apollo sulla base del Museo Archeologico di Sorrento

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Fig. 5 Testa di Athena tardo-arcaica

Fig. 6 Frammenti forse della statua cultuale di Apollo

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Fig. 7 Resti del Tempio di Apollo Palatino

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Fig. 8 Ricostruzione del Tempio di Apollo e della terrazza dinanzi al tempio secondo Irene Iacopi

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Fig. 9 Collocazione die frammenti della Forma Urbis secondo l` ipotesi di Daniela Bruno

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Fig. 10 Lastra Campana trovata vicino al Tempio di Apollo

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Fig. 11 Rilievo colla triade apollinea, Roma, Villa Albani (1014)

Fig. 12 Rilievo colla “visita di Dioniso”, Parigi, Louvre MA 1606

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Properzio e Tibullo

Non è la prima volta che nell’ambito del convegno properziano assisiate si affronta il tema dei rapporti tra Properzio e Tibullo. Le ragioni che inducono a tornare sull’argomento trovano un’efficace formulazione nelle parole di Antonio La Penna 1: “Le relazioni fra Properzio e Tibullo sono una delle croci della filologia latina“. Appena piú tenue la valutazione di Von Albrecht, esposta proprio in occasione della relazione dello studioso sui rapporti tra i due autori per il convegno del 2004: “Il nostro tema non è facile e non pochi lo evitano” 2. Ma, vent’anni prima di Von Albrecht, l’argomento era stato affrontato anche da Francis Cairns nel convegno tibulliano del 1984 3. È interessante osservare come i due studiosi, Cairns e Von Albrecht, si muovano dentro orizzonti metodologici molto differenti. L’impianto della relazione di Von Albrecht ha un respiro storico-filologico, procede affiancando la lettura parallela di passi dei due autori dedicati ai medesimi temi e sottolineando punti di contatto e divergenze in un dialogo ideale e artificiale, in gran parte ricostruito dagli interpreti, poiché i punti di sicura ripresa testuale tra Tibullo

1  Properzio e i poeti latini dell’età aurea, Maia 3, 1950, pp. 209-236; la citazione è tratta da p. 223. 2   M. Von Albrecht, Properzio e Tibullo: due carriere letterarie parallele e complementari, C. Santini - F. Santucci (edd.), Properzio nel genere elegiaco. Modelli, motivi riflessi storici, Atti convegno internazionale Assisi, 27-29 maggio 2004, Assisi 2005, pp. 249-287 (la citazione è da p. 249). 3  Stile e contenuti di Tibullo e di Properzio, Atti del convegno internazionale di studi su Albio Tibullo (Roma - Palestrina, 10-13 maggio 1984), Roma 1986, pp. 47-59.

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102586

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r. Perrelli

e Properzio sono davvero pochissimi (si potrebbe applicare ai due elegiaci un topos della critica manzoniana dei Promessi sposi: come Don Abbondio e Fra Cristoforo, Tibullo e Properzio sembrano non incontrarsi mai e dialogare a distanza); lo studioso tedesco attribuisce un peso determinante alla biografia dei due autori, muovendosi interamente nella dimensione biografico-storicistica del discorso filologico. La relazione di Cairns si occupa invece dei differenti contesti di committenza. Lo studioso, abbandonando la strada, un vero sigillo d’autore per le sue interpretazioni della letteratura antica, dello studio eidetico, riconosce che i rapporti, le vicinanze ma anche le profonde differenze, tra Tibullo e Properzio sono ascrivibili alla distanza tra i due circoli, tra i due ‘partiti’ letterari cui gli autori appartennero, allo scarto profondo tra Mecenate e Messalla Corvino, alle particolari idee linguistiche di quest’ultimo, che danno un’impronta a tutta la sua attività intellettuale, contrapposte ad una dimensione culturale in cui gli aspetti grammaticali e lessicali giocavano un ruolo minore. Anche Cairns, in sostanza, si confronta con il paradigma storico-biografico, orientandolo però verso il contesto, e ponendosi fuori dalla dimensione romantico-idealista della pratica poetica come atto solitario radicato nel tempo ma riconducibile a una idea di indipendenza, talvolta di autoreferenzialità, del poeta-autore. Nessuno dei due, e questo dato lascia perplessi, batte la strada dell’intertestualità e affronta il problema dei pochi passi in cui i due autori sembrano riprendere l’uno le parole dell’altro. Perché? Troppo pochi i luoghi in cui è ravvisabile un dialogo certo tra i due? Volontà di far discendere i loro rapporti da ragioni generali, da questioni di poetica? La strada che Cairns e Von Albrecht non percorrono ha visto, però, molti viandanti, da D’Elia 4 a La Penna 5, da Solmsen 6 a Lyne 7. Proverò in questa relazione ad esaminare i tre metodi (la maniera di Cairns, quella di Von Albrecht e il riscontro intertestuale) e a valutarne l’applicabilità.

  Properzio e Tibullo, Napoli 1954.  Cfr. supra. 6  Propertius in His Literary Relations with Tibullus and Virgil, “Philologus” 105, 1961, pp. 273-289. 7 Cfr. infra. 4 5

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properzio e tibullo

Sono alcuni i dati, che spero siano di fatto, da cui dobbiamo partire. Il primo, e fondamentale, è quello cronologico. Mi pare difficile, nella ricostruzione della successione dei primi libri dei due poeti, non tenere conto della natura composita e ‘agglutinata’ del secondo di Properzio 8. I libri coinvolti in questo tentativo di ricostruzione sono dunque quattro: i primi di Tibullo e Properzio e i libri IIA e IIB del poeta di Assisi. Gli argomenti a partire dai quali si può provare a stabilire una datazione e, soprattutto, ai nostri fini, una datazione relativa dei libri succitati sono di varia natura: storica e letteraria, oltre che interna ed esterna ai testi stessi che si cerca di datare. Per quanto riguarda la possibilità di ricavare espliciti riferimenti ad avvenimenti databili con ragionevole certezza, si tratta sempre di termini post quos. Per il primo libro properziano il dato di fatto di maggior rilievo sotto il profilo storico è il proconsolato di Tullo, cui si fa riferimento in 1, 6. Il Tullo cui Properzio si rivolge è, con ogni probabilità, il nipote di Volcacio Tullo, console nel 33 a.C. e successivamente proconsole in Asia 9. La datazione del proconsolato al 30/29 a.C. appare, nel procedere degli studi, sempre piú frutto di una ipotesi, per quanto ragionevole e ben argomentata 10, che una vera e propria certezza. Piú sicuri i riferimenti cronologici presenti nel primo libro delle elegie tibulliane. Il ricordo del trionfo aquitanico di Messalla conduce, grazie ai Fasti triumphales Capitolini (Degrassi), al

8   Sulla questione, di paternità lachmanniana, del secondo libro come risultato della confluenza in uno di due differenti libri di elegie, cfr. la ricostruzione di Paolo Fedeli, pp. 22 sgg., nel suo commento al II libro delle elegie properziane, Cambridge 2005. Se il consenso su questo aspetto appare oggi consolidato, risulta piú complesso il problema del confine tra i due libri confluiti nel secondo. Lachmann, nella sua edizione del 1816, considera 2, 10 la prima elegia di IIB. Ma sono in molti a non riconoscere in quella elegia uno statuto incipitario: cfr. ad esempio Fedeli, ibidem, pp. 27 sgg., che individua il primo poema di IIB nell’elegia 2, 12. 9 Per la ricostruzione dell’identità del destinatario dell’elegia, in un libro peraltro privo di un dedicatario ‘generale’, il punto di partenza è il commento di Fedeli al monobiblos, Firenze 1980, p. 168. 10  Lyne (Propertius and Tibullus: early exchanges, “Classical Quarterly” 48, 1998, pp. 519-544) data, come da tradizione, al 30/29 il proconsolato di Volcacio Tullo e ragionevolmente immagina che l’elegia non avrebbe avuto ragion d’essere se non composta a ridosso dell’avvenimento.

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25 settembre del 27. In questo caso, tuttavia, il riferimento al trionfo è solo parte del componimento scritto per il compleanno di Messalla, dunque il trionfo potrebbe essere avvenuto anche molto prima della stesura dell’elegia 11. L’ipotesi tradizionale che il  monobiblos sia uscito poco prima del libro primo delle elegie tibulliane sembra riposare solo su queste congetture. I termini post quos, anche quando non risultano sicuri, forniscono in questa circostanza la cronologia relativa delle opere. Tuttavia, la sequenza Properzio I - Tibullo I collide con la ricostruzione della lignée della poesia elegiaca latina tracciata da Ovidio per ben due volte nei Tristia: 2, 447 sgg., e, soprattutto, 4, 10, 51 sgg. 12; per Ovidio, Tibullo viene prima di Properzio. Ovidio è chiaro nella sua ricostruzione cronologica: Gallo, Tibullo (cui viene dedicato lo spazio maggiore), Properzio. Al v. 467 del secondo libro Ovidio pone sé stesso come quarto: His (sc. Gallo, Tibullo, Propertio) ego successi. Ancora piú esplicita la testimonianza di Tristia 4, 10, 51 sgg.: Vergilium vidi tantum: nec avara Tibullo tempus amicitiae fata dedere meae. Successor fuit hic tibi, Galle, Propertius illi; quartus ab his serie temporis ipse fui.

La testimonianza ovidiana risulta compatibile con le ipotesi di datazione dei due libri poco sopra esposte solo a condizione che Ovidio abbia presenti le date di nascita come elemento cronologico o che le elegie fossero conosciute prima della loro pubblicazione in forma di Gedichtbuch. Ma oltre alla testimonianza ovidiana, risultano incisivi i riferimenti a Tibullo nelle odi oraziane e la parallela assenza di qualsiasi riferimento esplicito a Properzio 13. Insomma, credo che il bilancio piú condivisibile dei rapporti cronologici tra i due autori sia ancora oggi quello di Cairns:   Cfr. Lyne, ibidem, p. 522.  I cataloghi di poeti nell’opera ovidiana sono molto piú frequenti, ma si tratta di elenchi in cui i nomi ricorrono alla rinfusa, senza un principio ordinatore cronologico. È cosí, ad esempio, per Amores 1, 15, 27 sgg., Ars 3, 333 sgg., Rem. 763 sgg. 13  Cfr. B. Otis, Horace and the Elegists, “Transactions of the American Philological Association” 76, 1945, pp. 177 sgg. 11 12

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«Tibullus and Propertius doubtless began writing in that order; but for some purposes they can better be understood if they are thought of as making independent contributions to the form as Gallus left it». È, dunque, opportuno considerare i due libri pressoché coevi, ma differente la statura dei due autori agli occhi dei contemporanei, per lo meno sotto il profilo cronologico: risulterebbe, cioè, ancora oggi improbabile che il ‘maggiore’ Tibullo riprendesse dialogicamente testi del piú giovane Properzio. Se una corrente intertestuale dovrà immaginarsi tra i due testi, la direzione sarà quella di Properzio che riprende passaggi tibulliani. La cronologia cosí ravvicinata dei due autori spiega anche perché ci sia una sorta di resistenza, inauguratasi negli studi degli ultimi decenni, a rintracciare e a interpretare circuiti intertestuali che risulterebbero poi di difficile orientamento cronologico. La maggior parte degli studiosi, infatti, predilige il ricorso ai loci similes a questo scopo, non a quello di costruire la grammatica di un genere letterario. L’interesse registrato nella bibliografia secondaria nei confronti di luoghi paralleli tra i due autori è cosí progressivamente scemato. Piú ragionevole, allora, appare – ciò che fa, pur senza completezza, Lyne – soffermarsi sulle differenti morfologie dei libri di poesia dei due autori di elegie e raccontarne le diverse scelte letterarie. Ma cosí come manca ancora un regesto generale dei possibili loci similes individuati, anche il confronto per temi non è stato esaustivo: alcuni e non tutti, e spesso senza una spiegazione che introduca alla campionatura utilizzata. Infine, le opere dei due autori sono molto distanti sotto il profilo quantitativo e sotto quello cronologico: l’arco temporale è assai diverso e la carriera poetica tibulliana appare molto piú compatta di quella properziana. Alla luce di tutto questo, credo che un primo utile confronto, interessato anche ad aspetti compositivi del libro poetico, debba essere fatto sui due libri d’esordio dei due poeti e che non ci si debba piú far condizionare dalla necessità di rintracciare precedenze cronologiche. In questa prospettiva diventa marginale la lettura comparatistica di Cairns, fondata soprattutto sui due contesti intellettuali, culturali e di committenza. Se Tibullo, infatti, è fin dai suoi esordi vicino al circolo di Messalla, il primo Properzio non è ancora entrato nel circolo di Mecenate, di 249

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cui prenderà a far parte proprio dopo il successo del monobiblos. Il confronto sarà allora tra un poeta che ha già salde radici negli ambienti letterari romani e un poeta che sembra muoversi ancora in solitudine nella selva della tradizione lirica romana. Procederò per veloci esempi. Salta agli occhi, innanzitutto, la differenza tra la prima elegia tibulliana e la prima elegia del monobiblos. Il componimento tibulliano è una vera e propria rassegna dei principali temi che verranno affrontati nel libro, quella di Properzio è piuttosto la mera dichiarazione del motivo dominante del monobiblos, la relazione dell’io elegiaco con Cinzia. Nella prima elegia Tibullo anticipa la ricchezza tematica del suo Gedichtbuch, Properzio espone invece quello che risulterà il motivo dominante. Fin dalla prima elegia risalta cioè l’opposizione tra la natura composita e variata del libro tibulliano e quella piú unitaria del libro properziano. Ai fini della definizione dei caratteri del genere letterario, è evidente che Tibullo si muove in un orizzonte poetico in cui l’immaginario amoroso non è l’unico repertorio di temi attivo. Sotto questo profilo è utile ricordare che i libri di poesia latina giunti fino a noi hanno tutti questa caratteristica. La rigidità monotematica del libro di poesia properziano pare costituire una novità rispetto ai precedenti di “genere letterario”: Catullo e Orazio, ad esempio. Non entreremo qui nella questione della struttura della prima elegia tibulliana, che proprio per la sua natura composita, dettata anche dalla posizione proemiale, è stata oggetto di infinite pratiche settrici da parte degli studiosi 14. È indubbio, però, che in quella elegia il tema erotico è declinato in maniera conforme all’universo elegiaco soltanto a partire dai vv. 55 sg.: Me retinent vinctum formosae vincla puellae, et sedeo duras ianitor ante fores.

Il nome di Delia compare addirittura, in sorprendente successione, dopo quello del dedicatario Messalla, a v. 57. Prima di quel momento il tema amoroso è presente nell’elegia ma soltanto nella

14  Esemplare, al riguardo, resta l’analis di F. Jacoby, Tibulls erste Elegie. Ein Beitrag zum Verständnis der tibullischen Kunst, “Rheinisches Museum” 64, 1909, pp. 601-632 e 65, 1910, pp. 22-87. Ma cfr. anche il contributo di W. Wimmel, Tibull und Delia. Erster Teil: Tibulls Elegie 1,1, Wiesbaden 1976.

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sua dimensione naturale e biologica: a questa dimensione vanno ricondotti i vv. 45 sg., in cui è ravvisabile la sola dimensione edonistica e in parte qui ‘eutimistica’ della presenza femminile: Quam iuvat inmites ventos audire cubantem et dominam tenero continuisse sinu.

L’elegia proemiale properziana, si apre, come è noto, con il nome di Cinzia, e il riferimento a Tullo giunge alcuni versi dopo. Basterebbero già queste prime differenze a segnare un solco profondo tra i due autori. Tibullo esclude dalla prima elegia ogni riferimento mitologico che non sia compatibile con la pietà agreste e non abbia una esplicita dimensione religioso-cultuale. Properzio, dal canto suo, trasferisce sin dal primo istante la relazione tra l’io elegiaco e Cinzia sul piano mitologico. I suoi dèi non sono Cerere e Priapo, cui Tibullo è devoto in qualità di rusticus, e l’episodio di Milanione e Atalanta è ridotto innanzitutto al ruolo di specchio trasfigurante della vicenda amorosa. Mentre Tibullo scende sul terreno della vita agreste ‘umiliando’ la relazione amorosa, Properzio entra nel gioco di specchi del mito per innalzare la vicenda umana che sta raccontando su di un piano che ne scalfisce il livello di privatezza e individualità�. Il mito proietta su di uno spazio collettivo e condiviso la vicenda della sofferenza amorosa. Anche prima delle sue esplicite dichiarazioni di adesione al modello catulliano di 2, 34, 87-88, Properzio ha ben chiara la lezione dei carmina docta e la tecnica ellenistica che piega il mito ad essere espressione ‘decorosa’ di una dimensione individuale e privata. Le differenze tra le due elegie proemiali ‘contengono’ anche quelle dei due libri che stiamo confrontando. Il monobiblos consta di 22 componimenti tutti dedicati al tema erotico (anche se in qualche elegia il nome di Cinzia non è esplicitamente pronunciato) fatti salvi gli ultimi due. All’interno del I libro delle Elegie tibulliane sono riconoscibili, invece, diversi cicli e, anche se il tema erotico è maggioritario, piú difficile è riconoscere la stessa preminenza alla figura di Delia. A Delia sono certamente legate le elegie 2, 5 e 6. All’esperienza omoerotica di cui è protagonista Marato sono dedicate le elegie 4, 8, 9. A Messalla è dedicata un’elegia intera, la settima, mentre la prima e la decima collocano l’io elegiaco sulla scena dello spettacolo del mondo, 251

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della storia collettiva dell’umanità e della società contemporanea: l’elegia 1, 3, pur con un respiro di maggiore ampiezza e comprensività rispetto alla sola tematica amorosa, sembra ancora risentire molto di Delia. Anche se l’individuazione dei cicli di componimenti all’interno del primo libro tibulliano non è univoca e risente della stessa libido settrice largamente applicata all’analisi dell’elegia proemiale, appare evidente, insomma, come il tema della vicenda amorosa con Delia non sia l’unico del libro 15. Esso ha forse una maggiore ricorrenza, ma si tratta di un lieve predominio, sancito dalla fortuna dell’autore molto piú che dal numero dei versi. Altro dato rilevante è il numero di componimenti che costituiscono il primo libro delle elegie tibulliane: dieci, come le Bucoliche e le Satire del primo libro oraziano, tutte raccolte pubblicate prima di quella tibulliana. È stata Eleanor Winsor Leach, in un articolo di alcuni anni fa 16, a sottolineare la coincidenza tra le tre raccolte poetiche e a collocarle tutte e tre nel clima culturale ‘postneoterico’, in una dimensione letteraria, cioè, che considera come principio compositivo la disposizione dei componimenti nella raccolta. Pur allontanandoci ora dalla questione della semantica che scaturisce dalla disposizione delle elegie, possiamo riconoscere due elementi indiscutibilmente comuni alle tre raccolte: il numero di componimenti e la varietà tematica. Gli stessi fattori che consentono di confrontare il primo libro tibulliano con quello properziano per constatarne il differente orientamento. Altri, ulteriori aspetti di natura generale, attengono alla politica dei personaggi. L’io elegiaco tibulliano scivola nel vortice amoroso con misura e prudenza mentre il protagonista dei componimenti properziani è segnato da una dismisura che conduce l’autore a fare delle sue elegie un apparente diario della passione dell’io lirico, delle sue improvvise deviazioni verso la felicità o la disperazione. Il paradigma, formalizzato da Antonio La Penna 17, della “sapienza tibulliana” segna un solco profondo 15   Sulla materia la bibliografia è vastissima. Particolarmente attivo nello studio della struttura del primo libro si è mostrato W. Wimmel, Der frühe Tibull, München 1968, che attribuisce l’elegia 1, 3 al gruppo di 1, 1, e 1, 10. 16  Vergil, Horace, Tibullus: three Collections of Ten, “Ramus” 7, 197, pp. 79-105. 17  L’elegia di Tibullo come meditazione lirica, in Atti del convegno internazionale... cit., pp. 89-140.

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all’interno del genere elegiaco, ma, in un uso piú largo della categoria critica, isola Properzio nel panorama complessivo della poesia augustea. Gli argomenti fin qui portati, invece, fanno di Tibullo, il messalliano Tibullo, un poeta organico alla produzione letteraria augustea, soprattutto a quella di due autori importanti nello sviluppo dell’ideologia letteraria del tempo, come Virgilio e Orazio, e di Properzio un poeta, al momento dell’esordio, significativamente estraneo alle pratiche compositive diffuse nella Roma di Mecenate e Augusto. Il paradigma del differente contesto di committenza come guida alla lettura della distanza tra i due poeti viene cosí ad essere problematizzato e messo in questione. È difficile vedere in Tibullo un poeta dell’opposizione antiaugustea e in Properzio un nuovo esponente del partito letterario di Mecenate. Il parziale silenzio dei due autori ciascuno sull’attività dell’altro e l’assenza di Properzio da ogni forma di fortuna nella poesia oraziana rimandano una nuova e parzialmente inattesa geo-politica dei due autori ma anche, nel contempo, la dimensione di una sostanziale estraneità del Properzio degli esordi alla società letteraria romana.

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Il Virgilio dei primi libri properziani

La presenza di Virgilio in tutta l’opera di Properzio è di una tale entità che sarebbe ridicola la pretesa di trattarla in una sola relazione. D’altra parte l’argomento dei loci Vergiliani nell’opera del nostro elegiaco è stato già affrontato da diversi studiosi sia in apposite rassegne sia soprattutto nei commenti ai singoli libri delle elegie properziane, e non credo di poter aggiungere qualcosa di importante a quanto detto da loro 1. Nei limiti delle mie possibilità, mi è sembrato invece opportuno tornare a riflettere sul tipo di rapporto che si delinea nell’opera properziana nei confronti del massimo rappresentante della poesia augustea. In particolare vorrei riflettere sui mutamenti che si verificano nella ricezione properziana di Virgilio fra la prima e la seconda delle sillogi del poeta elegiaco. Nel primo

1  Alcuni titoli significativi: E. Paratore, L’elegia 3, 11 e gli atteggiamenti politici di Properzio, Palermo 1936, 159-169; E. Paratore, Virgilio georgico e Properzio, “A&R” 20, 1942, 49-58; L. Alfonsi, Di Properzio II, 34 e della protasi dell’Eneide, “RFIC” 72, 1944, 127-129; A. La Penna, Properzio e i poeti latini dell’età aurea (I parte), “Maia” 3, 1950, 209-236; Id. (II parte), “Maia” 4, 1951, 43-69; L. Alfonsi, Il giudizio di Properzio sulla poesia virgiliana, “Aevum” 28, 1954, 205-221; F. Solmsen, Propertius in his Literary Relations with Tibullus and Vergil, “Philologus” 105, 1961, 273-289; G. Williams, Tradition and Originality in Roman Poetry, Oxford 1968 (= 1985), 417-426; J.-P. Boucher, Virgile et Properce, in: Mélanges “Pierre Wuilleumier”, Paris 1980, 39-44; C. Formicola, Properzio e Melibeo: arte allusive ed interpretazione letteraria, “Vichiana” n.s. 14, 1985, 241-257; P. Fedeli, Properzio, «EV» 1988, 319-321; V. Gigante Lanzara, Virgilio e Properzio, in: Virgilio e gli augustei, a cura di M. Gigante, Napoli 1990, 111-176; R. Dimundo, Properzio e gli augustei, in: Properzio alle soglie del 2000. Un bilancio di fine secolo, Atti del Convegno Internazionale, Assisi 25-28 maggio 2000, a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi, Accademia Properziana del Subasio, 2002, 295-318.

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102587

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periodo della produzione properziana, infatti, il rapporto letterario con il grande poeta augusteo è fondamentale, ma, allo stesso tempo, appare molto complesso. Sarà utile ricordare che riguardo all’atteggiamento complessivo di Properzio nei confronti di Virgilio due sono i punti di vista della critica. Il piú antico, che vede in Properzio un ammiratore dell’opera virgiliana, è formulato già nella Vita Vergili di Donato, che cita i vv. 65-66 dell’elegia 2, 34 quale prova della fama raggiunta dall’Eneide sin dagli inizi della sua composizione (30-31 Hardie): Aeneidos vixdum coeptae tanta extitit fama ut Sextus Propertius non dubitaverit sic praedicare: “cedite Romani scriptores, cedite Grai: / nescio quid maius nascitur Iliade”. Questa indubbia dichiarazione di ammirazione non ci autorizza, tuttavia, a fare di Properzio un seguace degli orientamenti della poesia virgiliana; come ha bene osservato Paolo Fedeli, nell’elegia 2, 34 Properzio “inserisce l’elogio della produzione virgiliana fra la ribadita fedeltà ai principi della poetica alessandrina e l’orgogliosa esaltazione della propria musa erotica” 2. Anche chi crede nella sincera ammirazione di Properzio verso Virgilio dovrà ammettere che il suo rapporto con l’opera del mantovano è ben piú complesso della semplice ammirazione. L’altro punto di vista – quasi opposto al precedente e molto piú recente – è quello che intravede nelle allusioni properziane a Virgilio un atteggiamento polemico, una sottile critica agli orientamenti della poesia virgiliana. Un tale punto di vista è stato sostenuto, in questa stessa sede, da Giovanni D’Anna, vent’anni fa, nel Colloquium Propertianum  III, in una relazione dal titolo eloquente (Il rapporto di Properzio con Virgilio: una sottile polemica col classicismo augusteo) 3. Secondo la sua tesi, già sviluppata in piú d’un lavoro e ripresa in quella relazione, Properzio polemizzerebbe con Virgilio, prendendo lo spunto dalla polemica di Virgilio stesso con Cornelio Gallo nelle Bucoliche 6 (vv. 64-73) e 10 (vv. 44-69), in cui all’amico poeta d’amore, il poeta bucolico per ben due volte aveva suggerito di abbandonare l’elegia erotica.   Op. cit. 319.   Atti del Colloquium Propertianum (tertium), Assisi, Accademia Properziana del Subasio, 1983, 45-57. 2 3

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Tale punto di vista è ritornato di attualità grazie al recente articolo di Peter Heslin 4, in cui l’idea della polemica letteraria fra Properzio e Virgilio imbocca una via inattesa. Convinto che l’edizione del Monobiblos (datata da Heslin nel 33 a.C.) precede di molto quella delle Georgiche (del 29 a.C.), egli cerca di dimostrare che Virgilio, nella sua seconda opera, allude polemicamente alla opera prima del nostro elegiaco. Riguardo alla cronologia proposta da Heslin vorrei soltanto fare una osservazione: ammesso che l’edizione del Monobiblos sia del 33 a.C., come si spiega l’affermazione di 3, 24, 23, nel contesto della renuntiatio amoris con cui si chiude il terzo libro properziano, quinque tibi potui servire fideliter annos Ho avuto il coraggio di servirti fedelmente per cinque anni 5?

A me pare impossibile che Properzio abbia voluto esprimersi vagamente oppure simbolicamente nel calcolo degli anni di servitium sotto Cinzia. Certo, possiamo discutere sulle date da lui prese in considerazione per arrivare a quella cifra (a mio avviso si tratta degli anni trascorsi dalla diffusione del primo libro, nel 28 a.C., fino alla conclusione del terzo, nel 23 a.C.); tuttavia non mi sembra ammissibile che, proprio nel carme del III libro in cui proclama di mettere fine al legame con Cinzia, il poeta possa dimezzare il numero degli anni di umiliante servitium nei confronti della sua donna, riducendoli da 10 a 5: 10, infatti, e non 5 sarebbero gli anni trascorsi dalla diffusione del primo libro se si accettasse la cronologia di Heslin.  A questa difficoltà cronologica si aggiunge che i pretesi intertesti properziani delle Georgiche individuati da Heslin non convincono affatto. Ammessa, e non concessa, l’anteriorità di Properzio nei confronti del Virgilio delle Georgiche, come si può pensare che un lettore del tempo, imbattendosi in Georg. 1, 145-6 labor omnia vicit  / improbus abbia potuto scorgere nella colloca4  P. Heslin, Virgil’s Georgics and the Dating of Propertius’ First Book, “JRS” 100, 2010, 54-68. 5  Cito il testo da P. Fedeli, Sexti Properti Elegiarum Libri IV, edidit, Stuttgart 1984. Le traduzioni del testo properziano appartengono tutte a P. Fedeli, Properzio. Elegie, a cura di P. F., Firenze 1988.

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zione di improbus, in enjambement rispetto a labor, un’allusione polemica a Prop. 1, 1, 3-6 tum mihi constantis deiecit lumina fastus et caput impositis pressit Amor pedibus, donec me docuit castas odisse puellas improbus et nullo vivere consilio,

dove lo stesso epiteto rispetta la collocazione virgiliana in enjambement, ma è riferito ad Amor e, per di piú, è collocato due versi dopo la menzione del soggetto? L’inizio di esametro felix qui potuit..., di georg. 2, 490 6 e senz’altro identico a quello di Prop. 1, 12, 15 7: c’è da chiedersi, però, se una tale coincidenza nell’introdurre un makarismos sia sufficiente a suggerire una polemica fra il virgiliano rerum cognoscere causas e il properziano praesenti flere puellae, che completano i rispettivi versi. Felix qui potuit costituisce in un makarismos una espressione formulare, il cui eventuale valore allusivo va considerato sulla base del contesto. Ancora una volta mi chiedo, dunque, quale lettore del tempo abbia potuto cogliere nell’uso di questa espressione da parte di Virgilio, in un contesto di elogio ad un ideale di vita, una risposta polemica ad una espressione con cui Properzio, lungi dal proporre un ideale di vita, si limita a manifestare, per contrasto con gli altri ‘felici in amore’, la sua infelicità, la sua incapacità di trovare soddisfazione nell’esperienza amorosa. In nessuno dei due casi mi sembra che il lettore virgiliano sia indotto a pensare ai contesti properziani. Terzo e ultimo intertesto della serie costruita da Heslin. Nel proemio programmatico interno delle Georgiche (georg. 3, 1-48) – un testo che, come vedremo, è tra i piú presenti nel discorso metapoetico properziano – Virgilio annunzia la composizione di un epos eroico sui facta e sul nomen dell’erede di Cesare. La prima motivazione, prettamente letteraria e personale, del suo progetto consiste nel fatto che tutti gli altri temi capaci di attirare l’attenzione dei lettori sono già molto noti: si vedano i vv. 3-4 cetera,

6  Felix qui potuit rerum cognoscere causas. Cito il testo virgiliano da R. A. B. Mynors, P. Vergili Maronis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit, Oxford 1969. 7  Felix, qui potuit praesenti flere puellae.

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quae vacuas tenuissent carmine mentes, / omnia iam vulgata. Nei versi successivi (4-8), per approfondire questo argomento, egli elenca a guisa di esempio una serie di argomenti mitologici ormai abbondantemente trattati dai poeti: quis aut Eurysthea durum aut inlaudati nescit Busiridis aras? cui non dictus Hylas puer et Latonia Delos Hippodameque umeroque Pelops insignis eburno, acer equis? Chi ignora il crudele Euristeo o le are dell’odioso Busiride? Da chi non fu cantato il fanciullo Ila e Delo latonia, e Ippodamia, e insigne per l’omero eburneo Pelope, prode con i cavalli? 8

Da tempo la critica ha individuato le opere a cui Virgilio poteva alludere: Callimaco si era occupato di Busiride alla fine del II libro degli Aitia (fr. 44 Pf.); al tema di Ila Apollonio Rodio aveva dedicato l’ultima parte del I libro degli Argonautica e Teocrito l’Idillio 13; Latona e il suo soggiorno a Delo, dove partorí Apollo, avevano costituito l’argomento dell’Inno 4 di Callimaco. È evidente che Virgilio pensava a temi, non solo sviluppati dai poeti alessandrini, ma anche abbondantemente ripresi da quelli romani, a cominciare dai neoterici. Diventa, allora, assai forzata l’interpretazione di Heslin, secondo cui la seconda domanda del passo sopra citato (vv. 6-8) alluderebbe alla XX elegia del Monobiblos, in cui Properzio aveva cantato il mito di Ila. Per sostenere il suo argomento Heslin postula, innanzitutto, che il cui del v. 6 non sia – come sosteneva già Servio nel suo commento – un dativo di agente (= a quo; ‘da chi non è stato cantato il giovane Ila?’) bensí un normale dativo (‘a chi non è stato cantato il giovane Ila [sc. di Properzio]’?); il testo virgiliano si farebbe, dunque, testimone del successo clamoroso del primo libro del nostro elegiaco. Orbene, è vero che, come sottolinea Heslin, la storia di Ila, narrata in 1,20, ha un particolare rilievo nel primo libro properziano (essa, infatti, è l’unica elegia di carattere mitologico) ed è anche

8  La traduzione appartiene a Virgilio, Georgiche, Introduzione di A. La Penna, traduzione di L. Canali, note al testo di R. Scarcia, Milano 1983.

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vero che la vicenda di Ippodamia e Pelope viene ricordata in due diverse elegie dello stesso libro (1, 2, 19-20; 8, 35-36); ma dell’episodio di Latona a Delo non c’è alcuna traccia nel Monobiblos. Di fronte a questa non lieve difficoltà Heslin ricorre ad una evidente forzatura, quando ritiene che il virgiliano Latonia Delos costituisca un’allusione al nome della puella properziana, Cynthia, che, come sappiamo, fa riferimento al monte Cynthus dell’isola di Delo, ed è epiteto che si applica sia ad Apollo sia a Diana sia all’isola stessa. Ma è evidente che il catalogo virgiliano enumera personaggi mitici che, a loro volta, rinviano ad episodi mitici: Ila, Latona, Ippodamia, Pelope; in una tale serie il riferimento alla puella properziana sarebbe certamente fuori luogo. La tesi di Heslin mi sembra, dunque, insostenibile, ma ha comunque il merito di affrontare un problema che, come abbiamo detto, rimane ancora aperto: il rapporto letterario di Properzio con Virgilio. All’esame di questo rapporto nei primi libri properziani dedicherò il resto del mio intervento.

Il primo canzoniere Tre sono le elegie del Monobiblos che offrono chiari e ampi intertesti virgiliani: 1, 1; 1, 8 e 1, 18. Nell’elegia 1, 1 l’exemplum di Milanione (vv. 9-16) contiene allusioni evidenti al Gallo dell’ecloga 10. Sin dall’inizio l’agire del personaggio mitico appare contraddistinto dall’espressione nullos fugiendo l a b o r e s (vv. 9-10 Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores  / saevitiam durae contudit Iasidos) che rovescia la rassegnata conclusione del monologo del Gallo virgiliano (ecl. 10, 44-69): si veda in quel passo il v. 64 non illum [sc. Amorem] n o s t r i possunt mutare l a b o r e s . Sia il Milanione properziano sia il Gallo virgiliano sono in preda all’insania erotica: si veda al v. 11 dell’elegia amens errabat in antris; al v. 44 della bucolica nunc insanus Amor... (già prima al v. 22 si diceva Galle, quid insanis?). Ma è soprattutto la localizzazione arcadica di Milanione a garantire il rapporto allusivo: si veda al v. 11 dell’elegia P a r t h e n i i s ... in antris; al v. 57 della bucolica non me ulla vetabunt / frigora P a r t h e n i o s canibus circumdare saltus (al v. 14 si diceva A r c a d i i s rupibus; ma l’Arcadia e gli Arcades sono insistentemente nominati nell’ecloga virgiliana). Sia nella nostra elegia che nell’ecloga virgiliana l’Arcadia è abitata dalle ferae: v. 12 dell’elegia ibat et hirsutas 260

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ille videre   f e r a s ;  ai vv. 52-53 della bucolica certum est in silvis inter spelaea   f e r a r u m / malle pati; si noti anche nel passo properziano l’anastrofe della particella coordinativa al v. 12 ibat et..., che rinvia forse ad identico inizio di verso nell’ecloga: v. 50 ibo et Chalcidico... ecc. ). Non è da escludere, poi, che il verbo erro con cui si descrive l’agire di Milanione in Arcadia (v. 11 nam modo Partheniis amens   e r r a b a t  in antris) possa comportare una allusione al Gallo, sempre virgiliano, dell’Ecloga 6 che, nella sua condizione di poeta erotico, era descritto appunto come un ‘errante’ (vv. 64-65 tum canit   e r r a n t e m  Permesi ad flumina Gallum...). Anche l’elegia 1, 8 contiene chiari riferimenti al Virgilio bucolico. Questa elegia integra, insieme alle altre due che la affiancano (1, 7 e 1, 9, indirizzate a Pontico), il ciclo metapoetico piú importante del Monobiblos. In essa si sviluppa una situazione che, ancora una volta, rinvia al Gallo virgiliano dell’ecloga 10: il poeta amante tradito dalla sua amata, che lo abbandona partendo con un altro in terre lontane e inospitali. Infatti se la Licoride di Gallo nell’ecloga 10 si trova in una gelida regione transalpina al seguito di un militare di alto rango (si veda ai vv. 22-23 ‘...tua cura Lycoris  / perque  n i v e s  alium perque horrida castra secuta est’; e ai vv. 47-49 dell’elegia ...Alpinas a, dura,   n i v e s et  frigora Rheni  / me sine sola vides. a, te ne frigora laedant!  /  a, tibi ne   t e n e r a s  glacies secet aspera   p l a n t a s ! ), la Cinzia di Properzio, in 1, 8, ha deciso di partire con un pretore nella gelida Illiria, pronta ad affrontare tutte le scomodità e i rischi del lungo viaggio per mare. Ad indicare che si tratta di una riscrittura della situazione in cui Virgilio rappresentava Gallo nell’Ecloga 10 concorrono alcuni particolari – come il freddo e la neve – dell’ambiente che ospiterà l’amata traditrice: v. 2 an tibi sum gelida vilior Illyria?; vv. 6-7 tu   p e d i b u s  t e n e r i s  positas fulcire pruinas, / tu potes insolitas, Cynthia, ferre   n i v e s ? L’Arcadia virgiliana si presenta come scenario dell’amore elegiaco nell’elegia 18 del Monobiblos. La scelta dell’amante di ritirarsi nella solitudine delle selve per sfogare il suo dolore costituiva un’altra situazione topica delle Ecloghe virgiliane, rappresentata dal pastore Coridone dell’ecloga 2 (cfr. in particolare i vv. 3-5) e prospettata come vana illusione dal Gallo dell’ecloga 10 (cfr. in particolare i vv. 52-54). L’elegia 1, 18 presenta segnali intertestuali che rinviano senza dubbio a quei contesti virgiliani, in particolare nei vv. 19-22: 261

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vos eritis testes, si quos habet arbor amores, fagus et Arcadio pinus amica deo. a quotiens teneras resonant mea verba sub umbras, scribitur et vestris Cynthia corticibus! Voi sarete testimone, se mai un albero poté provare sentimenti d’amores, faggio e pino caro al dio d’Arcadia. Ah, quante volte risuonano le mie parole d’amore sotto le tenere ombre e sulla vostra corteccia viene inciso il nome di Cinzia!

Gli alberi come destinatari privilegiati dei lamenti dell’amante; l’identificazione puntuale di due specie arboree (il faggio e il pino) e le parole d’amore incise nella corteccia costituiscono segnali che riconducono il lettore alle Ecloghe 2 e 10. In effetti, il Coridone dell’Ecloga 2 pronunciava il suo lamento inter densas, u m b r o s a  cacumina,  f a g o s  (v. 3) e il Gallo dell’Ecloga 10 prospettava la possibilità di (vv. 53-54)   t e n e r i s ... meos incidere  a m o r e s  / a r b o r i b u s :  crescent illae, crescetis  a m o r e s . Il riferimento al dio Pan come Arcadius deus, è quasi una citazione di ecl. 10, 26 Pan deus Arcadiae... Ma in questo caso Properzio sembra di voler allargare il campo allusivo. Tramite il verbo resono (si veda al v. 21 a quotiens teneras resonant mea verba sub umbras...) il gioco allusivo coinvolge l’immagine di apertura dell’Ecloga 1, quella emblematica del pastore Titiro che, sdraiato all’ombra del faggio, fa ripetere (resonare) alle selve la sua canzone di amore (v. 1 patulae recubans sub tegmine   f a g i ;  v. 4 lentus in   u m b r a ; v. 5 formosam  r e s o n a r e  doces Amaryllida  s i l v a s ). Che si tratti di allusione precisa all’incipit del libro bucolico ce lo fanno capire, nel finale dell’elegia, i vv. 31-32, dove ricompare il verbo resono, ma questa volta in virgiliana ‘iunctura’ con silvae: sed qualiscumque es,   r e s o n e n t  mihi ‘Cynthia’   s i l v a e, / nec deserta tuo nomine saxa vacent. Quali conclusioni potremmo trarre dall’analisi degli intertesti virgiliani presenti in queste tre elegie? Se noi adottassimo la premessa che le Ecloghe 6 e 10 esprimevano la scarsa simpatia di Virgilio verso l’elegia erotica del suo amico Gallo e contenevano tra le righe un invito ad abbandonarla per coltivare altri tipi di poesia (etiologica o bucolica), dovremmo concludere con G. D’Anna 9, che in queste tre elegie, nel rispondere polemicamente a quel messaggio, Properzio ribadisce la capacità dell’elegia erotica o di   Op. cit. a nota 3.

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conquistare l’amata (cfr. 1, 1, 15 tantum in amore preces et benefacta valent; 8, 39-40 hanc ego non auro, non Indis flectere conchis, / sed potui blandi carminis obsequio) oppure di lenire le pene d’amore (1, 18, 3 hic licet occultos proferre impune dolores). Ma la nostra premessa è che le due Ecloghe ‘galliane’ del libro bucolico esprimono la grande stima di Virgilio nei confronti del suo amico e poeta elegiaco, che diventa perciò un interlocutore privilegiato, nel momento di riflettere sulla poesia e sulle scelte letterarie assunte da ognuno di loro. Eloquente in questo senso è il modo in cui Gallo, nell’Ecloga 6, viene accolto dalle Muse in cima all’Elicona: si veda al v. 66 utque viro Phoebi chorus adsurrexerit omnis. L’Ecloga 10 – che, come abbiamo visto, è la piú presente nel Monobiblos – è ricca di espressioni di rispetto e di affetto per il poeta e per l’amico (v. 2 meo Gallo; v. 17 divine poeta; vv. 73-74 Gallo, cuius amor tantum mihi crescit in horas / quantum vere novo viridis se subicit alnus). D’altra parte con quel poema Virgilio rispondeva ad una precisa richiesta di Gallo, quella rivolta agli Arcades nei vv. 33-34 o mihi tum quam molliter ossa quiescant, / vestra meos olim si fistula dicat amores! Allora l’Arcade Virgilio, non potendo negarsi alla richiesta dell’amico (v. 3 neget quis carmina Gallo?) gli dedica pauca ... sed quae legat ipsa Lycoris / carmina (vv. 2-3), riuscendo ad ‘inserire’ nella sua Arcadia gli amores (elegiaci) di Gallo (v. 6 sollicitos Galli dicamus amores). L’operazione virgiliana di ‘inserire’ Gallo nell’Arcadia non è soltanto un modo di soddisfare l’amico ma anche una forma di riflettere sui ‘confini’ (per dirla con G. B. Conte 10) tra bucolica ed elegia 11, perché nonostante lo scenario bucolico in cui Gallo viene inserito e nonostante l’illusione del personaggio di diventare anche lui un Arcade (si veda ai vv. 5051 ibo et Chalcidico quae sunt mihi condita versu  / carmina pastoris Siculi modulabor avena), l’identità elegiaca di Gallo rimane intatta (vv. 62-63 iam neque Hamadryades rursus neque carmina nobis / ipsa placent; ipsae rursus concedite silvae), e questo fa capire che l’inten-

10   Alludo ovviamente al noto lavoro Il genere e i suoi confini: interpretazione della decima egloga, in: Il genere e i suoi confini (cinque studi sulla poesia di Virgilio), Torino 1980, 7-43. 11  Ho trattato diversi aspetti di questa operazione in due articoli: Los Amores de Galo en la Arcadia de Virgilio, “Anales de Filología Clásica” 12, 1992, 5-22; Virgilio e Gallo nell’ultima Egloga del Libro Bucolico, “AFLB” 35-36, 1992-1993, 169-199.

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to di Virgilio non era certamente quello di ‘convertire’ il poeta elegiaco al genere bucolico, ma forse quello di fargli capire che le scelte poetiche non sono arbitrarie né si possono mutuare. Sulla base di queste premesse mi pare che le allusioni al ‘Gallo virgiliano’ presenti nel Monobiblos di Properzio comportino, innanzitutto, un riconoscimento di quella figura virgiliana quale archetipo del poeta-amante elegiaco (questo soprattutto nell’elegia 1, 8). Ma, allo stesso tempo, attraverso queste allusioni – particolarmente nelle elegie 1, 1 e 1, 18 – Properzio emula l’operazione virgiliana di ‘inserimento’ del discorso elegiaco nell’Arcadia, attraverso l’operazione inversa, cioè l’inserimento dell’Arcadia nel discorso elegiaco; a dimostrazione, forse, che i ‘confini’ tra i due generi non sono cosí insormontabili; in questo senso l’elegia 1, 18 si propone come la ‘realizzazione elegiaca’ dell’ ‘illusione arcadica’ del Gallo virgiliano.

Il secondo canzoniere Molto diverso si presenta il panorama degli intertesti virgiliani nel secondo canzoniere properziano. Dico secondo canzoniere, ma sappiamo che ai giorni nostri è tornato di attualità il dibattito sulla costituzione del corpus giunto a noi come ‘secondo libro’, e molti critici recuperano l’idea – già del Lachmann – che si tratta in realtà della fusione di due sillogi originarie, tema sul quale non è ora il caso di soffermarsi. Per capire l’atteggiamento di Properzio nei confronti di Virgilio nel secondo canzoniere è opportuno avere presente quel passo delle Georgiche (3, 1-15), in cui Virgilio dichiarava praticamente la fine dell’epillio di tema mitologico, tanto caro agli alessandrini ed ai neoterici, e la sua decisione di intraprendere una nuova strada che lo avrebbe sollevato dal suolo e fatto volare vittorioso sulle labbra degli uomini: vv. 8-9 temptanda via est, qua me quoque possim / tollere humo victorque virum volitare per ora. Questa dichiarazione programmatica virgiliana non poteva essere indifferente al nostro elegiaco, tanto piú se, come era evidente sin dal primo libro e come si farà esplicito alla fine del secondo, egli si riconosceva apertamente nella tradizione poetica neoterica e alessandrina. L’avvicinamento, poi, al circolo di Mecenate collocava senz’altro Properzio nella situazione di dover 264

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prendere posizione riguardo ad un orientamento, quello di Virgilio, che per molti aspetti appariva contrario alle proprie scelte. È proprio questa problematica a dominare il panorama degli intertesti virgiliani del secondo canzoniere properziano. Alle dichiarazioni programmatiche virgiliane, non solo quelle delle Georgiche, ma anche quelle delle Bucoliche, Properzio cerca di rispondere con due diverse soluzioni, che compaiono successivamente nel corpus a noi giunto come secondo libro. La prima potremmo definirla ‘adesione teorica al programma ascensionale 12 virgiliano’, la seconda ‘superamento teorico del programma ascensionale virgiliano’. Per capire, allora, i principali intertesti virgiliani del secondo canzoniere dobbiamo capire cosa significhi e in quali termini si sviluppi il ‘programma ascensionale’ che Virgilio espone apertamente nelle Georgiche, ma che, come ora comprende Properzio, aveva già abbozzato nelle Bucoliche. Il ‘programma ascensionale’ di Virgilio trova nel proemio interno delle Georgiche il suo manifesto piú completo. Virgilio lí annunzia il suo progetto eneadico, la cui prima motivazione (prettamente letteraria) è l’esaurimento della esperienza alessandrina e neoterica dell’epillio mitologico. Nel descrivere la nuova strada che intende percorrere (vv. 8-9 temptanda via est, qua me quoque possim / tollere humo victorque virum volitare per ora) l’evidente allusione al celebre epitaffio di Ennio (Epigr. 10 Vahlen²: volito vivus per ora virum) implica da parte di Virgilio la ripresa del grande epos di argomento romano. Ma a me interessa ora l’immagine presente nei versi immediatamente successivi (vv. 10-11): primus ego in patriam mecum, modo vita supersit Aonio rediens deducam vertice Musas; Primo io in patria con me, se mi basta la vita, guiderò tornando dalla vetta aonia le Muse in corteo 13.

Indubbiamente il vertice dell’Elicona rappresenta per Virgilio il culmine della scrittura poetica e questo, a sua volta, s’identifica con la composizione di un epos eroico romano, che celebrerà 12  L’aggettivo ‘ascensionale’ che adopero fa riferimento al fatto che il programma virgiliano si propone una ‘ascesa’ (= elevazione) sia tematica che stilistica della propria poesia. 13 La traduzione appartiene a Virgilio, Georgiche, Introduzione a cura di G. B. Conte, testo, traduzione e note a cura di A. Barchiesi, Milano 1980.

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la lode dei facta e del nomen del futuro imperatore. L’utilizzazione simbolica di uno spazio geografico quale il monte Elicona, legato ad Esiodo, non era nuova in poesia; era stato Callimaco, nel proemio originario agli Aitia (fr. 2 Pf.), il primo a parlare di un Elicona simbolico, e sulla sua scorta, nella letteratura latina, poeti come Ennio, Lucilio, Lucrezio, avevano alluso all’Elicona e alle fonti dell’Elicona come simboli di alta ispirazione poetica 14. Sappiamo, però, che Esiodo, per gli alessandrini, era diventato archetipo di poesia docta; di conseguenza, l’utilizzo della simbologia eliconia comportava, sia per gli alessandrini che per i romani, attribuirsi non tanto alta ispirazione quanto doctrina, capacità cioè di fare poesia docta. Virgilio, allora, nel prospettarsi rediens Aonio vertice faceva capire che il suo epos eroico romano sarebbe stato anche un carmen doctum. Come si vede dal passo appena citato, in Virgilio la simbologia eliconia è chiaramente connotata dall’idea di ‘movimento di ascesa’. Questa idea ricompare, a mio avviso, in un altro passo metapoetico delle Georgiche (2, 173-176), dove il poeta, rivolgendosi alla Saturnia tellus, descrive la sua scrittura georgica come l’incedere (ingredior) fra antichi fasti di gloria e d’arte (res antiquae laudis et artem) osando dischiudere le sacre fonti (sanctos  ausus recludere fontis), per portare il carme di Ascra alle città romane (Ascraeum cano Romana per oppida carmen). Non si fa il nome dell’Elicona, ma se il canto delle Georgiche viene definito Ascraeum carmen, vorrà dire che le ‘fonti sacre’ a cui allude il poeta sono quelle del monte esiodeo, ancora una volta presenti come simbolo di poesia ispirata e dotta. Le Georgiche, dunque, rientrano anche nella logica di ascesa virgiliana all’Elicona. Piú tardi, nell’Eneide, in due passi di evidente ispirazione omerica – visto che si tratta di cataloghi, di guerrieri in un caso (7, 641 sgg.), e di navi nell’altro (10, 163 sgg.) – il poeta si rivolgerà alle Muse nei termini seguenti: pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete, Schiudetemi, o dee, ora l’Elicona, ispirate il mio canto 15. 14   Cfr. Enn. Ann. fr. 208 Skutsch (anche se potrebbe trattarsi del Parnaso); Lucil. 1008 Marx; Lucr. 1, 117-126; 926-930; 4, 1-5. 15  La traduzione appartiene a Virgilio, Eneide, Introduzione a cura di G. B. Conte, traduzione a cura di M. Ramous, commento di G. Baldo, Venezia 1998.

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Ancora una volta l’Elicona assurge a simbolo della ascesa del poeta ai livelli piú alti del canto. Ma l’impiego di questa simbologia e l’idea ‘ascensionale’ della scrittura erano già presenti nel libro bucolico, proprio nella scena ‘galliana’ dell’ecloga 6 (vv. 64-73) che Properzio ben conosceva. In quella scena Virgilio divide l’itinerario poetico di C. Gallo in due tappe: la prima accanto al Permesso, ai piedi dell’Elicona, che è la tappa della poesia elegiaco-erotica (v. 64 tum canit [sc. Silenus] errantem Permessi ad flumina Gallum); la seconda in cima all’Elicona (v. 65 Aonas in montis ut duxerit una sororum), dove Lino, come portavoce delle Muse, gli consegna i flauti del vecchio di Ascra con cui dovrà celebrare le origini del bosco Grineo, che è la tappa della poesia elegiaco-etiologica. Non sappiamo se la poesia di C. Gallo abbia percorso questi due itinerari, ma non c’è dubbio che per Virgilio tra il primo e il secondo tipo di elegia c’è un preciso ordine gerarchico, simboleggiato dal fiume Permesso ai piedi dell’Elicona e dal coro delle Muse in cima. Sulla base di questi antecedenti diventa molto significativo l’utilizzo della simbologia eliconia da parte di Properzio in diversi passi metapoetici del suo secondo canzoniere. Il poeta elegiaco intende prendere posizione nei confronti del programma ascensionale virgiliano che sicuramente domina la scena letteraria romana. Il primo episodio di questo dialogo programmatico si verifica nell’elegia 2, 10, che inizia con una sorprendente dichiarazione: per il poeta è giunto il momento di ‘percorrere l’Elicona con danze di altro tipo’ (v. 1 Sed tempus lustrare aliis Helicona choreis). Il ritmo delle ‘nuove danze’ che il poeta intende seguire è immediatamente identificato con il trattamento della materia eroica: v. 2 et campum Haemonio iam dare tempus equo (‘è tempo di lanciare a briglia sciolta il cavallo emonio’). Non c’è dubbio, allora, che lo spazio simbolico eliconio ricostruito ora da Properzio abbia una chiara connotazione ascensionale, e ciò dimostra la sua origine virgiliana. Per il poeta elegiaco occupare lo spazio eliconio significa automaticamente innalzare il livello tematico e stilistico della sua scrittura: vv. 11-12 surge, anime, ex humili! iam, carmina, sumite vires! / Pierides, magni nunc erit oris opus. In questo caso l’innalzamento comporta la celebrazione delle gesta di Augusto (si vedano i vv. 3-4 e soprattutto 13-20), che dà inizio ad una elegia di tipo encomiastico. Nel dichiarare, al v. 7, aetas prima canat Veneres, extrema tumultus, (‘ l’età giovane canti gli amori, la matura 267

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le guerre’), Properzio sembra anche aderire all’idea, molto virgiliana, di stabilire un rapporto tra le tappe della vita e i gradi ascendenti della scrittura poetica. Tale idea si evince dal passo delle Georgiche or ora citato (si veda al v. 10 primus ego in patriam mecum, m o d o   v i t a   s u p e r s i t ,  ecc.) e ancora di piú da un altro passo, la sphragís delle Georgiche: 4, 563-566  i l l o  Vergilium me  t e m p o r e dulcis alebat / Parthenope studiis  f l o r e n t e m  ignobilis oti, / carmina qui lusi pastorum  a u d a x que  i u v e n t a , / Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi). Ma l’idea era già presente in taluni passi delle Ecloghe: ad esempio ecl. 4, 53-54 o mihi tum longae maneat  p a r s u l t i m a   v i t a e , / spiritus et quantum sat erit tua dicere facta; oppure 8, 7-8 en erit umquam / i l l e   d i e s ,  mihi cum liceat tua dicere facta?). Ma, come ben sappiamo, l’innalzamento di materia e di stile che Properzio si propone all’inizio dell’elegia 2, 10 presto si rivela una mera illusione, perché il poeta non può non considerare le sue reali capacità: vv. 23-24 sic nos nunc, inopes laudis conscendere culmen, / pauperibus sacris vilia tura damus. Di grande importanza per il dialogo con Virgilio è però il corollario con cui si conclude questo tentativo frustrato (vv. 25-26): nondum etiam Ascraeos norunt mea carmina fontis, ed modo Permessi flumine lavit Amor. La mia poesia non conosce ancora le fonti di Ascra, ma Amore l’ha irrorata solo con l’acqua del Permesso.

In chiusura del componimento ricompare la simbologia eliconia e questo ci conferma che Properzio aderisce all’idea virgiliana dei gradi ascendenti: l’elegia erotica, che è il grado inferiore della poesia properziana, raggiunge soltanto le acque del Permesso, ai piedi dell’Elicona, ma il poeta si augura, implicitamente, che la sua scrittura raggiunga un livello superiore, da identificare con l’elegia encomiastica, che gli consentirà l’accesso alle ‘fonti ascree’, in cima all’Elicona. Allora, non rifiuto dell’epica eroica (come si ritiene di solito 16), ma rifiuto di trattare materia eroica in elegie encomiastiche. La simbologia eliconia ricompare nell’elegia 2, 13, ma questa volta con una novità molto significativa: Properzio propone uno spazio eliconio diverso da quello virgiliano: il ‘bosco ascrèo’ 16 La recusatio augustea viene solitamente concepita dalla critica come il rifiuto di comporre un epos eroico in onore di Augusto.

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(vv. 3-4 hic [sc. Amor] me tam gracilis vetuit contemnere Musas,  / iussit et Ascraeum sic habitare nemus; ‘Egli mi ha fatto divieto di spregiare la mia Musa sí tenue e mi ha imposto di abitare il bosco di Ascra: ...’). Ovviamente si tratta di un bosco da situare sull’Elicona (direi in cima all’Elicona), per cui, da una parte, il poeta elegiaco ribadisce la posizione eliconia della sua poesia, ma dall’altra (e questa è la novità importante), rifiuta la connotazione ‘ascensionale’ dello spazio eliconio virgiliano, segnata dal rapporto gerarchico tra Permesso e fonti ascree. Il nuovo simbolo proposto da Properzio comporta l’idea di uno spazio di coesistenza paritaria dei diversi tipi di scrittura poetica. L’appartenenza a questo spazio presuppone, come in Virgilio, l’esercizio di una poesia docta (v. 11 me iuvet in gremio doctae legisse puellae), sebbene nei contesti properziani non vi sia quell’esigenza virgiliana di salita verso i gradi superiori. Il bosco ascreo può essere abitato anche da chi non aspira a commovere la natura col suo canto (vv. 5-6 non ut Pieriae quercus mea verba sequantur,  / aut possim Ismaria ducere valle feras), ma soltanto a suscitare meraviglia nell’amata (vv. 7-8 sed magis ut nostro stupefiat Cynthia versu: / tunc ego sim Inachio notior arte Lino). L’allusione all’Ecloga 6 (vv. 64-73) è sin troppo evidente e contiene una chiara risposta all’immagine ‘ascensionale’ della poesia galliana ivi proposta da Virgilio: è opportuno ricordare che in quella scena in cima all’Elicona era Lino a consegnare a Gallo i flauti di Esiodo, con cui il vecchio di Ascra ‘traeva giú dai monti col canto i rigidi orni’ (vv. 70-71 quibus ille solebat / cantando rigidas deducere montibus ornos). La salita di Gallo al vertice dell’Elicona significava per Virgilio l’adesione al canto taumaturgico, impersonato, in questa Ecloga, sia da Esiodo sia dal vecchio Sileno. Attraverso il simbolo del ‘bosco ascreo’ Properzio rivendica, invece, il diritto di ogni poesia dotta, anche dell’elegia erotica da lui coltivata, ad abitare l’Elicona. Nel suo recente e pregevole studio sulla recezione della poesia ellenistica presso i poeti romani, R. Hunter 17 dedica un intero capitolo (pp. 7-41) a questo simbolo del ‘bosco eliconio’ (“Heliconian grove”), prendendo lo spunto da Prop. 3, 1, 1-4. Attraverso una disamina delle diverse fonti greche a cui attingono

17 R. Hunter, The Shadow of Callimachus. Studies in the Reception of Hellenistic Poetry at Rome, Cambridge, C.U.P., 2006.

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i poeti latini (Virgilio e Properzio fra i primi) nell’adoperare questo simbolo, lo studioso arriva alla seguente definizione (p. 20): “The Heliconian grove is therefore a place where poetry which sings of agricolture and peaceful pursuits (cfr. Prop. 3, 1, 17) is celebrated and from which Homer is excluded, but without damage to his reputation and primacy”. Sull’esclusione di Omero avrei qualche perplessità 18, ma quello che ora mi preme osservare è che lo studioso non coglie la diversa concezione che, della ‘geografia simbolica eliconia’, ci propongono Virgilio e Properzio, l’una contraddistinta dall’idea di ‘salita verso l’alto’ (Verg. ecl. 6, 64-65 tum canit [sc. Silenus] errantem Permessi ad flumina Gallum / Aonas in montis ut duxerit una sororum; georg. 3, 10-11 primus ego in patriam mecum, modo vita supersit / Aonio rediens deducam vertice Musas), l’altra invece, contraddistinta dall’idea di ‘appartenenza paritaria’ dei diversi generi poetici ad un unico spazio (Prop. 2, 13, 3-4 hic [sc. Amor] me tam gracilis vetuit contemnere Musas, / iussit et Ascraeum sic habitare nemus). Allora credo che si possa concludere che tra l’elegia 2, 10 e l’elegia 2, 13 di Properzio si verifichi una svolta programmatica molto significativa: da una parte abbiamo un poeta elegiaco che aderisce allo spazio eliconio ascensionale proposto da Virgilio e compie un tentativo, seppur vano, di innalzare il livello tematico e stilistico della sua poesia; dall’altra parte abbiamo un poeta elegiaco che propone uno spazio eliconio non ascensionale, il bosco ascrèo, di cui la sua poesia erotica fa parte a pieno diritto, senza complessi di inferiorità o grandi aspettative 19. E veniamo, allora, al locus vergilianus piú evidente e piú celebre di tutta l’opera properziana: l’annunzio dell’Eneide nascente e la rassegna dell’opera virgiliana di 2, 34, 61-80. Diciamo, innanzitutto, che l’elegia 2, 34 è composta da tre sezioni: nella prima sezione (vv. 1-26) Properzio rimprovera al suo amico Linceo (un personaggio fittizio) di aver tentato di sedurre Cinzia; nella

18 Visto che in Prop. 3, 3, 6 la fonte Ippocrene, che fa parte indubbiamente del ‘bosco eliconio’ properziano, viene definita come quella in cui bevve Ennio per comporre gli Annales, opera dichiarata ‘omerica’ dallo stesso autore. 19 In un articolo relativamente recente, El Helicón en el L. 2 de Propercio (con una coda sobre la división del libro), “RFIC” 138, 2010, 112-127, ho suggerito che questa diversità di programma all’interno del libro si può annoverare tra gli elementi che depongono a favore della divisione.

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seconda sezione (vv. 27-58) scopriamo che Linceo è un poeta che coltiva generi elevati, ma, considerati i suoi ardori amorosi, Properzio lo esorta ad abbandonare quel tipo di poesia, che non gli reca alcuna utilità; nella terza sezione (vv. 59-94) Properzio confronta la propria scelta per l’elegia erotica con quella di Virgilio per l’epos eroico. Il fatto che Properzio, in un poema evidentemente concepito per chiudere il canzoniere con un manifesto metapoetico, dedichi uno spazio cosí ampio ad annunziare l’Eneide e a dare la sua visione delle opere virgiliane, ci consente di confermare che, durante la composizione di questo corpus (dal 28 al 26-25 a.C.), per il nostro elegiaco gli orientamenti della poesia virgiliana costituiscono il problema programmatico centrale. Ma sul giudizio sulla poesia virgiliana espresso in questa sezione dell’elegia i pareri della critica sono discordi: si va dall’idea dell’elogio complessivo a quella dell’elogio parziale e interessato, fino all’aperta polemica anticlassicistica o antiaugustea. Mi limiterò a segnalare gli aspetti che, a mio avviso, sono i piú rilevanti per una corretta interpretazione del passo 20. Prima osservazione: se da una parte, considerando l’uso delle persone verbali, può sembrare che il Virgilio ‘eneadico’ (riferito in terza persona: vv. 59-62 me iuvet ... languere ... Vergiliu‹m› ... dicere posse) venga fortemente differenziato dal Virgilio ‘bucolico’ e ‘georgico’ (riferito in seconda persona: v. 67 tu canis...; v. 77 tu canis...), d’altra parte, considerando il tipo di descrizione che di ogni opera virgiliana offre il nostro poeta, è evidente che per ‘ogni Virgilio’ troviamo una situazione diversa: il Virgilio ‘eneadico’ è descritto con ammirazione ed entusiasmo; il Virgilio ‘bucolico’ è descritto in modo notevolmente soggettivo e, direi, ludico; il Virgilio ‘georgico’ è descritto con secca oggettività. A mio avviso, dunque, in questa rassegna dell’opera virgiliana non c’è alcuna evidente opposizione (come qualcuno ha pensato 21) tra due settori dell’opera virgiliana, quello bucolico-georgico e quello eneadico. 20 Una lucida disamina delle diverse interpretazioni si trova in P. Fedeli, Properzio, Elegie Libro II, Introduzione, testo e commento a cura di, Cambridge 2005, 987-1009. 21  Penso, ad esempio, a G. D’Anna (op. cit.); A. Ronconi, Spunti di poetica e critica letteraria in Properzio, in Interpretazioni letterarie nei classici, Firenze

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Da diversi elementi presenti nel passo, poi, si può persino dedurre che Properzio abbia una visione piuttosto unitaria dell’opera virgiliana. Uno di questi segnali è il senso di ricapitolazione complessiva che ha il distico di vv. 79-80: tale facis carmen, docta testudine quale / Cynthius impositis temperat articulis. Sono d’accordo con quanti ritengono 22 che questi versi facciano riferimento non a un’opera virgiliana in particolare, ma al poetare dell’autore, che comprende, ovviamente, le opere già scritte (Bucoliche e Georgiche), ma che non esclude affatto il progetto epico eroico dell’Eneide. Se ci fosse questa esclusione (da molti sostenuta) si dovrebbe trovare nella presentazione dell’Eneide nascente qualche elemento che indichi la sua condizione di carmen grave, o durum, o tumidum, insomma, non doctum, condizione che invece viene chiaramente indicata per tutta la poesia di Linceo nella seconda sezione del poema (basti ricordare che Linceo viene chiamato al v. 44 dure poeta). Ma non c’è alcuna indicazione in questo senso al progetto eneadico, e nell’esclamazione del v. 66 nescio quid maius nascitur Iliade, il maius, che qualcuno ha voluto interpretare come riferimento all’estensione del poema 23, ha senz’altro un significato qualitativo (‘qualcosa migliore dell’Iliade sta nascendo’), lo stesso significato che ha l’aggettivo magnus nei vv. 30; 34; 40 e 46 di questa stessa elegia. È ovvio, dunque, che Properzio altro non si aspetti dal nuovo epos virgiliano che la continuità di quell’arte che egli sintetizza nel simbolo della docta testudo di Apollo, un Apollo che viene chiamato qui, per unica volta in tutta l’opera properziana, Cynthius. Questo è un elemento di grande importanza talvolta poco considerato dalla critica. Apollo è detto Cynthius – con un epiteto di chiara connotazione callimachea – nella celebre scena programmatica dell’Ecloga 6 (vv. 3-4 Cynthius aurem  / vellit et

1972, 116-141; A. La Penna, L’integrazione difficile. Un profilo di Properzio, Torino 1977, 222-224. Si veda anche l’analisi dettagliata di tutto il carme da me condotta in La poética de Propercio (autobiografía artística del ‘Calímaco romano’), Assisi, Accademia Properziana del Subasio, 1997, 161-195. 22  Ad esempio, M. Rothstein, Die Elegien des Sextus Propertius, erklärt von M. R., Erster Teil: 1. und 2. Buch, Zweite Auflage, Berlin 1920, 452-453; Boucher, J.-P., op. cit., 42-44. 23  A. Ronconi, op. cit., 135.

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admonuit...), in cui Virgilio/Titiro dichiara la sua adesione alla poesia tenuis, al carmen deductum; è facile, dunque, arguire che Properzio avesse ben presente quella scena virgiliana, perché probabilmente ad essa alludeva attraverso lo pseudonimo Cynthia della sua puella. Ora, il simbolo della docta testudo del Cynthius, concepito da Properzio per caratterizzare tutta la poesia di Virgilio, è molto significativo, perché da una parte evoca il concetto alessandrino e neoterico della doctrina come requisito irrinunciabile della vera poesia, dall’altra indica uno strumento musicale tipico dei grandi cantori mitici (Apollo, Orfeo, Anfione), che ebbero la capacità di superare le leggi della natura con il loro canto (cfr. OLD s.v. testudo, 2, dove sono citati Verg. georg. 4, 464; Hor. carm. 3, 11, 3; 4, 3, 17; ars 395). Dunque questo simbolo rappresenterebbe sia l’idea virgiliana delle gerarchie del canto (implicita nel suo programma ‘ascensionale’, che culmina nell’epos eroico), sia la fedeltà di Virgilio alla doctrina (tale facis carmen, docta testudine quale / Cynthius impositis temperat articulis), anche quando questi si avvia alla contesa con Omero (nescio quid maius nascitur Iliade). La visione unitaria che qui cerco di dimostrare si evince anche dalla presentazione ‘sincronica’ della scrittura virgiliana che Properzio fa in questo brano (v. 63 qui nunc ... suscitat...; v. 67 tu  canis...; v. 77 tu  canis...; v. 79 tale facis carmen...). Occorre ricordare che Virgilio presenta sempre il suo itinerario poetico come ‘ascendente’ da un punto di vista diacronico, cioè composto da gradi successivi e correlati con le successive tappe della vita: si veda georg. 4, 563-566 dove audax iuventa fa riferimento alla composizione delle Bucoliche; e me ... florentem studiis ignobilis oti fa riferimento alla composizione delle Georgiche; poi georg. 3, 10 dove primus ego ecc.  ... m o d o   v i t a   s u p e r s i t fa riferimento alla composizione dell’Eneide. Ogni grado, in questa visione, indica il superamento di quello precedente: gioventú, ‘fioritura’, maturità. A questa visione diacronica e ascendente Properzio oppone una sua visione sincronica non ascendente dell’opera virgiliana. Questa è la ragione di fondo per cui le opere che precedono il progetto dell’Eneide sono introdotte come processo in atto, come un’azione che appartiene al presente, non al passato (v. 67 tu  canis...; v. 77 tu  canis...), come 273

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se il messaggio a Virgilio fosse: ‘tu adesso stai componendo un epos eroico, ma tu stesso continui a cantare poesia bucolica e tu stesso continui a cantare poesia georgica’. Per Properzio, cioè, le opere di Virgilio non sono gradi successivi, ma diverse espressioni di un’unica arte, quella della docta testudo del Cynthius. Penso che in questa prospettiva vada interpretata la particolare presentazione che Properzio fa del libro bucolico virgiliano, che molti critici hanno interpretato come un modo di manifestare la decisa (ed esclusiva) affinità del poeta elegiaco erotico con la poesia bucolica di Virgilio. Intanto, va detto che l’arbitraria introduzione del fiume Galeso in quella prima immagine che rappresenta, in modo molto virgiliano, il poetare bucolico (v. 67 tu canis umbrosi subter pineta Galaesi) serve forse a rafforzare il senso di simultaneità (e anche di unità) dei diversi ‘canti’ di Virgilio. Infatti il Mantovano non nomina mai il Galeso nelle Ecloghe, ma lo fa nelle Georgiche in un passo di chiaro stampo autobiografico (4, 125-127): namque sub Oebaliae memini me turribus arcis, qua niger umectat flaventia culta Galaesus, Corycium vidisse senem, ... Infatti ricordo sotto le torri della rocca ebalia, per dove il bruno Galeso bagna bionde coltivazioni, di aver veduto un vecchio di Corico 24, ...

Dunque è possibile che attraverso l’inserimento del Galeso in una tipica rappresentazione del canto bucolico Properzio operi una fusione di due momenti della vita e dell’opera di Virgilio, e con questa sorta di annullamento del tempo rafforzi la sua visione sincronica delle diverse modalità del poetare virgiliano, che comprende, implicitamente, anche il momento eneadico. Rispetto al brano bucolico nel suo insieme sarei molto cauto nel sostenere che l’immagine prettamente erotica che Properzio offre del libro bucolico serva a manifestare la sua piena adesione a quell’opera virgiliana. Sembra, invece, che ci sia da parte

24 La traduzione appartiene ancora a Virgilio, Georgiche, Introduzione di A. La Penna, traduzione di L. Canali, note al testo di R. Scarcia, Milano 1983.

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di Properzio la volontà di sottolineare la differenza tra quegli amori facili, ingenui, di scarsa profondità, che canta Virgilio nelle sue Bucoliche (vilis ... amores del v. 71 è eloquente definizione), ed il vero grande amore della tradizione a cui appartiene la sua opera elegiaca, quella tradizione di Varrone Atacino, Catullo, Calvo e Gallo (vv. 85-94), che viene caratterizzata da immagini di sofferenza (maxima flamma; confessa est; miserae funera Quintiliae; quam multa vulnera), oppure di sensualità (lascivi scripta Catulli). Se il nostro elegiaco avesse voluto mettere in evidenza l’affinità tra eros bucolico ed eros elegiaco avrebbe scelto altro materiale presente nelle Ecloghe, dove non mancano amori sofferti (basta ricordare Ecloghe come la 2 e la 8, per non parlare della 10). Properzio propone, invece, un’originale descrizione degli amori bucolici, volta a dimostrare la sua estraneità alla tradizione erotica neoterica in cui egli si riconosce. Ma dimostrare questa estraneità è anche un modo per sottolineare l’appartenenza delle Ecloghe al grande opus virgiliano, che agli occhi di Properzio risulta caratterizzato da diverse (ed equivalenti) modalità che esprimono un’unica poesia. Siamo molto lontani dalla visione delle Bucoliche presente nel Monobiblos, incentrata sulla figura e sui discorsi del Gallo virgiliano. Se nel primo libro Properzio, come abbiamo visto, cerca di mettere in risalto soprattutto la vicinanza dei due mondi poetici, il bucolico e l’elegiaco, nel secondo, invece, egli si è reso conto che gli orientamenti della poesia virgiliana, sin dalla prima opera, differivano dai suoi e, allora, ha cercato di evidenziare la diversità tra amore bucolico e amore elegiaco. Dopo i vv. 79-80, nei quali Properzio caratterizza l’intera opera di Virgilio come un carmen ‘modulato’ (v. 80 temperat) con una docta testudo, il poeta inizia a parlare della poesia propria (vv. 81-82): non  t a m e n  haec ulli venient ingrata legenti sive in amore rudis sive peritus erit.

L’idea espressa nel distico, a mio avviso, è la seguente: questi carmi miei [non raggiungono la perfezione di quelli di Virgilio] tuttavia (tamen) non riusciranno sgraditi ai loro lettori, siano essi novizi oppure esperti in amore. L’atteggiamento im275

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prontato a modestia che sembrerebbe caratterizzare i vv. 81-82 è presto smentito: nella sezione finale dell’elegia, infatti, il poeta rivendica la piena validità dell’elegia erotica in quanto erede di un’illustre tradizione romana. Senza addentrarci nella vexata quaestio dei vv. 83-84, non mi sembra azzardato affermare che in questi versi Properzio sviluppi l’argomento ideologico della pari dignità tra l’elegia erotica e l’opera virgiliana. In questo senso la parola chiave è minor (presente due volte nell’esametro), che sta ad indicare il tema delle differenze gerarchiche, tipico del pensiero programmatico virgiliano. Ed è proprio l’allusione ad Ecl. 9, 32-36, in cui Virgilio/Licida stabilisce una diversa gerarchia tra la sua poesia e quella dei ‘vati’ Vario e Cinna (vv. 35-36 nam neque adhuc Vario videor nec dicere Cinna / digna, sed argutos inter strepere anser olores), a far capire che lo scopo di Properzio è quello di negare, proprio sulla scorta del passo virgiliano, la validità di tali gerarchie. L’immagine properziana del canorus olor (Vario?) che si ritira vinto (cessit; ricordiamoci che al v. 65 Properzio ordinava: cedite Romani scriptores, cedite Grai!) davanti allo starnazzare dell’oca (anseris ... carmine) rovescia quella metafora virgiliana, a dimostrazione che per il nostro elegiaco ‘cigni’ e ‘oche’ non sono immagini accettabili per definire le diverse modalità della poesia. L’elegia 2, 34, dunque, sviluppa una dichiarazione programmatica che potremmo definire ‘bifronte’: da una parte essa ripropone, attraverso la figura di Linceo, la polemica, già presente nel Monobiblos, contro il carmen grave, verso il quale Properzio assume un atteggiamento di decisa condanna, non solo per la sua inutilità in amore ma anche per la sua mancanza di raffinatezza formale: si veda ai vv. 41-42 desine et Aeschyleo componere verba coturno, / desine, et ad mollis membra resolve choros!); non a caso l’elegiaco fa del fittizio Linceo un innamorato tardivo (la stessa ‘strategia’ utilizzata contro Pontico in 1, 7 e 1, 9) e questo gli consente di rivolgersi a lui con un atteggiamento di superiorità per indicargli l’inutilità della ‘grande’ poesia da lui coltivata (si veda ai vv. 27-28 Quid tua Socraticis tibi nunc sapientia libris / proderit aut rerum   d i c e r e   p o s s e  vias?); dall’altra parte, invece, troviamo un poeta reale, Virgilio, in procinto di dedicarsi ad un progetto epico eroico: si tratta di una scelta 276

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che Properzio dichiara legittima tanto quanto la sua volontà di dedicarsi all’elegia erotica (vv. 59-62): Me iuvet hesternis positum languere corollis, quem tetigit iactu certus ad ossa deus; Actia Vergiliu‹m› custodis litora Phoebi, Caesaris et fortis  d i c e r e   p o s s e  ratis, La mia gioia risieda nel giacere spossato sulle ghirlande del giorno prima, trafitto sino alle ossa dal dardo del dio infallibile. Piaccia, invece, a Virgilio celebrare i lidi di Azio, posti sotto la protezione di Febo, e le possenti navi di Cesare;

Cosí come il poeta elegiaco, ferito dalle frecce di Cupido, rivendica il suo ‘diritto’ a cantare l’amore, allo stesso modo egli rivendica per Virgilio il ‘diritto’ a cantare le gesta del Cesare. Ma perché Properzio è disposto a concedere a Virgilio il ‘diritto’ ad una scelta che per certi versi è contraria alla sua? Ecco il senso della ricapitolazione di tutta l’opera virgiliana che segue immediatamente a questi versi e che culmina nel riconoscimento dell’arte della docta testudo. L’idea dominante è che tutto l’opus di Virgilio dimostra la sua capacità di passare da una materia all’altra senza tradire i principi della poesia docta. Se, però, Properzio è disposto a concedere a Virgilio il diritto di dedicarsi all’epos eroico, non è ugualmente disposto ad accettare l’idea virgiliana della differenza gerarchica tra le successive fasi della sua opera. Ecco perché queste fasi si trasformano, nella visione properziana, in modalità simultanee che hanno lo stesso valore in quanto tutte dimostrano ugualmente l’arte della docta testudo. La sintonia di questo pensiero con quello espresso nell’elegia 2, 13 è assoluta. Qui non si parla del ‘bosco ascrèo’ ma l’idea di base è quella della parità delle diverse modalità della poesia, a condizione che si tratti di poesia dotta. Erede di una tradizione letteraria di poesia erotica dotta (si vedano i vv. 85-94), Properzio sente di meritare un posto sull’Elicona ed è proprio questa convinzione che gli consente di guardare alla poesia di Virgilio senza complessi d’inferiorità, oggettivamente, e con sincera ammirazione. Le basi del suo dialogo futuro con Virgilio sono gettate; non a caso, il discorso programmatico delle elegie 3, 1 e 3, 3 si svolgerà sull’Elicona, piú precisamente nel ‘bosco eliconio’. Ma questa è materia per un altro discorso. 277

NIKLAS HOLZBERG

CARMINA COMPONO, HIC ELEGOS PROPERZIO E ORAZIO

Giovanni Antonio Volpi, che diede alle stampe Properzio nel 1755 a Padova, avanzò la stravagante idea che Orazio con il ‘seccatore’ della Satira 1,9 volesse riferirsi al poeta elegiaco 1. La cosa sembra piú che improbabile, dato che Properzio potrebbe non aver avuto ancora vent’anni quando Orazio pubblicò nel 35 a.C. il suo primo libro di Satire 2, mentre la Monobiblos, il primo dei lavori del poeta elegiaco – quello che lo rese conosciuto a un vasto pubblico – apparve con sicurezza solo nel 28 a.C. 3. Un aspetto è certamente da considerare: Orazio in Sat. 1,9 esplicita in modo inequivocabile quali tipi di persone e soprattutto di poeti risultino indesiderate nel circolo di Mecenate; inoltre i criteri per decidere chi fosse ben accetto saranno stati nel 24 a.C., quando Properzio pubblicò il suo secondo libro di elegie 4 con il primo componimento per la prima volta rivolto a Mecenate, gli stessi che nel 35 a.C. Corrispose dunque Properzio al modello di poeta che soddisfaceva le aspettative del ricco cavaliere? Possiamo considerare 2,1 e 3,9 (anche questo indirizzato a Mecenate) come testimonianze dell’appartenenza di Properzio al circolo mecenatiano, in cui è sicuramente da contare Orazio? La communis opinio lo ha dato per scontato, finché Stephen Heyworth ha recentemente negato che fosse esistita un’amicitia o anche solo un rap-

  La Penna 1950-1951, 218; Terzaghi 1959, 1185 n. 32; Fedeli 1998, 57.   Rudd 1961, 79 sg. 3  Cfr. Lyne 1998, rispettivamente 523 e 256. 4 Cfr. infra, p. 283, n. 20. 1 2

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102588

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n. holzberg

porto di patronato tra il cavaliere e il poeta elegiaco 5. E davvero Prop. 2,1 e 3,9 non dicono nulla su di un eventuale apprezzamento del poeta da parte di Mecenate 6 e di conseguenza deve rimanere una questione aperta se Orazio e Properzio fossero stati in diretto contatto tra loro. E non si può affermare in modo inequivocabile quale fosse l’opinione del poeta piú anziano sulla poesia del collega piú giovane. C’è precisamente nel corpus oraziano un passo che può essere riferito con certezza a Properzio 7, Epist. 2,2,91-101, ma nel farsi sottilmente beffa del poeta elegiaco Orazio diventa presumibilmente egli stesso bersaglio della derisione: secondo Properzio Orazio è emerso da una competizione poetica come un Alceo, invece il poeta elegiaco, secondo l’opinione di Orazio, come un Callimaco e, se Properzio sembra avere pretese ancora maggiori, diventa un Mimnermo crescendo secondo il nome scelto. Chiaramente Orazio, che dovrebbe aver pubblicato il suo secondo libro di epistole solo nel 11-10 a.C., dunque dopo la pubblicazione del libro 4 di Properzio 8 (circa 17-16 a.C. 9), allude a Prop. 4,1,64, in cui il poeta elegiaco si presenta come il Callimachus Romanus. Ammesso anche che Orazio voglia fare lo spiritoso, fa però trapelare al tempo stesso che il collega lo ha definito Alcaeus Romanus: e, visto che Orazio diede presumibilmente adito a ciò – lo suggerisce l’affermazione d’orgoglio da parte sua in quanto primo autore di lirica eolica in Italia in Carm. 3,30,13 sg. ed Epist. 1,19,32 sg. –, appare in una luce non meno comica 10. A torto si è voluto dunque leggere in Epist. 2,91-101 un intento polemico verso Properzio 11. Anche la breve postilla di Orazio sull’elegia in AP 75-78   Heyworth 2007b, 101 sgg.  3,9,57 mollia tu coeptae fautor cape lora iuventae è semplicemente un appello e rimanda chiaramente a 2,1,73 nostrae spes invidiosa iuventae. 7  Traina 1996, 121 n. 3: “Quale lettore dei vv. 99-101 non avrebbe pensato a Properzio?”. 8  Nisbet 2007, 20. 9   Hutchinson 2006, 2 sg. 10  Cfr. tra gli altri La Penna 1950-1951, 218; Giardina 1965; Flach 1967, 92-97; Fedeli 1998, 58; Syndikus 1998, 377-380. Traina percepisce ugualmente autoironia da parte di Orazio, legge tuttavia in vv. 100 sg. si plus adposcere visus, fit Mimnermus et optivo nomine crescit (cfr. inoltre Butrica 1996, 133 con n. 101) un intento polemico nei confronti di Properzio. 11  Cfr. tra gli altri Otis 1945, 188 sg.; Sullivan 1979, 84. 5 6

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carmina compono, hic elegos properzio e orAZIO

potrebbe esser stata interpretata senza motivo come un implicito giudizio negativo sulla variante erotica del genere: infatti questo modo di poetare, verosimilmente inventato da Cornelio Gallo, non viene qui, come si è supposto, intenzionalmente ignorato e di conseguenza svalutato, ma è incluso nella definizione stessa di querimonia 12. Qualunque fosse il giudizio di Orazio sul piú giovane collega, qui di seguito non intendo trattare di questo problema, ma del rapporto del poeta elegiaco con quello piú anziano 13, in particolare nel suo terzo libro 14. Fino agli anni ’80 il tema era affrontato principalmente da una prospettiva biografica. Si riteneva che il poeta piú giovane, a partire dal momento in cui aveva consapevolmente preso a modello quello piú anziano, fosse passato da giovinetto folle d’amore a uomo dotato di una morale, poeta dotato di autoconsapevolezza e seriamente impegnato secondo una prospettiva tutta augustea. Questo ritratto dell’ ‘evoluzione artistica’ del poeta, che inter alios Dieter Flach ha tracciato nella sua monografia del 1967 Das literarische Verhältnis von Horaz und Properz 15, era chiaramente in linea con la tradizione tedesca dei ‘Bildungsromane’ (romanzi di formazione) tra cui il Wilhelm Meisters Lehr- und Wanderjahre di Goethe. Strettamente collegato a ciò vi era poi la Quellenforschung, i cui esponenti erano pronti a riconoscere nei cosiddetti luoghi paralleli soltanto la dipendenza di colui che attingeva dall’autore-fonte: quando poi, come nel caso dei nostri due poeti, presupponevano senza troppi problemi la superiorità spirituale e morale dell’uno sull’altro, non rinunciavano a definire ‘plagiatore’ chi aveva attinto a dei modelli 16. Solo nel 1983 con l’articolo di John Miller Propertius 3.2 and Horace è apparso il risultato di una ricerca che, alla luce della moderna teoria intertestuale partiva dal presupposto che Properzio, in quanto esponente del discorso elegiaco, intrattenesse un dialogo   Freis 1993.   Dimundo 2002, 295-303 offre un’utile panoramica sullo stato degli studi. 14  Sull’intertestualità di Prop.2,23,17-24 con Hor. Sat. 1,2,119-122 e 127 cfr. Gibson 2007, 24-34. 15 Ciò si ritrova anche nell’edizione bilingue con commento apparsa nel 2011, in cui nuovamente lo studioso fa riferimento all’autore reale, quando parla della ‘follia d’amore’ di Properzio. 16  Cfr. e.g. Butler-Barber 1933, xxiv. 12 13

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con Orazio in quanto esponente del discorso lirico e che, nel riadattare un ipotesto, producesse qualcosa di nuovo nel proprio testo. Sotto l’influsso degli approcci interpretativi biografici e di Quellenforschung si era creduto di poter riscontrare quanto segue: che Properzio, nella cui opera il rapporto intertestuale con Orazio è da osservare, come appare chiaro, soprattutto nel terzo libro delle elegie, guardando alla raccolta dei primi tre libri delle odi, avesse strettamente modellato il suo terzo libro su quello del poeta piú anziano 17 e che cosí facendo avesse espresso l’intenzione di contrapporre a Carm. 3,1-6, le cosiddette Odi romane, i suoi componimenti marcatamente poetologici 3,1-5 in quanto ‘elegie romane’; allo stesso tempo Properzio avrebbe fatto corrispondere a posteriori i suoi libri 1-3 alla trilogia oraziana 18. La solidità di questo fondamento interpretativo è stata tuttavia messa in dubbio in tempi piú recenti in vari studi. Nel 1996 James Butrica avanzò argomenti di un certo peso nel sostenere che Properzio non concepí la Monobiblos assieme ai libri 2 e 3, quasi a voler produrre una Tribiblos, bensí i libri 2-4: tale blocco è aperto da 2,1 con il primo riferimento a Callimaco e colloca programmaticamente questo poeta all’inizio del libro 3 (cioè la seconda parte), destinando il libro 4 (cioè la terza parte) al racconto in successione di Aitia. Inoltre Butrica sostiene che Prop. 3,1-3 e 3,4-5 costituiscano ciascuno un unica elegia 19. Se ciò è vero – la cosa non è assolutamente da escludere –, allora in Properzio non è un ciclo di componimenti a contrapporsi a quello all’inizio del terzo libro delle Odi oraziane, ma un dittico e difficilmente si può ancora parlare di analogia. Come si vede, ben poco possiamo fare anche nel caso di Orazio, Odi 1-3 e Properzio, Elegie 1-3: che non ci sia molto piú da dire lo ha dimostrato Gregory Hutchinson che nel 2002 ha ipotizzato in modo convincente che i tre libri delle Odi furono pubblicati la prima volta non, come fino a quel momento si era fermamente creduto, in forma di raccolta, ma in successione: Libro 1 circa 26-25 a.C., Libro 2 circa 25-24 a.C. e Libro 3 circa 24-23 a.C.   Cfr. soprattutto Flach 1967, 113; Syndikus 1998, 383 sg.   Cfr. soprattutto Nethercut 1970; Cremona 1987b. 19  Butrica 1996, 135 e 138 n. 109. 17 18

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A partire dalle risultati di Hutchinson, è possibile aggiungere qualcosa di nuovo a una domanda che è stata cosí spesso posta in passato: quale cioè sia piú antico tra i due componimenti recusatio, vistosamente simili, vale a dire Hor. Carm. 2,12 e Prop. 2,1. Prima della pubblicazione dell’articolo di Hutchinson le Odi 2 di Orazio venivano datate successivamente al Libro 2 di Properzio, pubblicato sicuramente dopo il 27-26 a.C. 20 e questo perché il Libro 2 di Orazio era considerato parte della trilogia dell’anno 23. Perciò tra l’altro veniva avanzata dalla maggioranza la ragione che in questo caso era stato Orazio per una volta ad attingere dall’altro poeta 21. Quanti si opponevano a questa ipotesi 22, non molti a dire il vero, possono sentirsi ora rassicurati dal fatto che Hutchinson data convincentemente Odi 2 al 25-24 a.C. circa e Oliver Lyne, altrettanto convincentemente, data il Libro 2 di Properzio al 24 a.C. 23. Se le odi potrebbero anche non essere necessariamente anteriori – Orazio infatti sarebbe potuto venire a conoscenza di Prop. 2,1 prima della stesura del suo componimento grazie, ad esempio, a una recitazione – la nuova ipotesi di datazione offre l’occasione per una riflessione che fa apparire di per sé plausibile la dipendenza di Properzio da Orazio: quest’ultimo, già da tempo legato a Mecenate come si ricava da satire ed epodi, parla in Carm. 2,12, addirittura in toni intimi, di una donna di nome Licimnia amata dal ricco cavaliere (che gli interpreti nel passato identificavano persino con sua moglie Terenzia 24). Properzio, al contrario, trasferisce il ruolo, che Orazio assegnava a questa donna, alla sua puella Cinzia e, del resto, si confronta con Mecenate in modo cosí discreto che, come è stato detto, non è chiaro se si trattasse già di un’amicitia o di protezione patronale. È ben ipotizzabile che il poeta elegiaco, ispirandosi qui accortamente all’Ode oraziana 2,12, che era già divenuto amico di

20  Terminus post quem è la morte di Cornelio Gallo nel 27-26 a.C., a cui Prop. 2,34,91f. allude (Lyne 1998, 523 = 256). 21   Nisbet-Hubbard 1978, 183 con ulteriore bibliografia piú datata. 22  Cfr. soprattutto Kühn 1960, 104 sg. 23  Lyne 1998, 523, che intende qui certamente 2,11-34 come il ‘terzo’ libro, che a suo avviso nei manoscritti si è fuso con il ‘libro 2’ = 2,1-10. Butrica 1996 convincentemente confuta questa tesi abbracciata da non pochi studiosi. 24  Nisbet-Hubbard 1978, 180 sgg.

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Mecenate, volesse in qualche modo ‘corteggiare’ la benevolenza del cavaliere 25. Devo constatare con un po’ di spavento che mi sono rischiosamente avvicinato all’interpretazione biografica con le affermazioni appena fatte. Mi premeva però innanzitutto sottolineare che conoscenze piú moderne hanno sottratto a questo metodo interpretativo alcuni principi fondamentali. Ci sono conoscenze piú moderne che non consentono piú di affermare che un poeta come Properzio in uno dei suoi libri, in questo caso il terzo, abbia preso a modello primario un altro poeta. Infatti studi recenti condotti sul papiro di Posidippo hanno nuovamente dimostrato che dobbiamo sempre metterci bene in testa una cosa: non conosciamo cosí tanti testi classici da essere veramente in grado di dire quanto esteso fosse il margine di operazione intertestuale di un autore antico. Cosí fino a poco tempo fa non potevamo sapere che Prop. 3,7 (e Hor. Carm. 1,28!) condividono intertestualmente il tema del ‘naufragio della nave’ con sei epigrammi di Posidippo e che, visto che Properzio allude verosimilmente nella sua elegia alla struttura ciclica degli epigrammi, si dovrebbe fare perciò attenzione alle trasposizioni dei versi 26. Tale constatazione induce a non considerare Orazio come modello preminente, neppure all’interno del terzo libro properziano. E certamente la mappa intertestuale di questo libro ne uscirebbe notevolmente mutata se disponessimo di piú testi callimachei o addirittura – e sarebbe qualcosa di sensazionale! – se improvvisamente venisse alla luce un papiro di Filita. Senz’altro – la cosa è appariscente – passi oraziani, anzi interi componimenti di questo poeta, sono evocati piú volte nella raccolta elegiaca di Properzio a partire da 3,1. Ma difficilmente si tratta del risultato di un processo di maturazione. E quello di uno ‘sviluppo artistico’ va unicamente riferito al fatto che il poeta elegiaco, nell’ideazione della sua Tribiblos (Libri 2-4) procedette 25  Allusioni di Orazio a Properzio, che si possono definire in qualche modo tali, si trovano solo nel quarto libro delle Odi; cfr. Flach 1967, 105-107; Sullivan 1979, 41f.; soprattutto su Carm. 4,2,17 sg. ~ Prop. 3,9,17 sg. cfr. Heyworth 2007a, 323; su Carm. 4,2,33-52 ~ Prop. 3,4,11 sgg. cfr. Tarrant 2007, 75 sg.; su Carm. 4,9 e Prop. 3,1 cfr. Solmsen 1948, 107 sgg. = 280 sgg. 26  Thomas 2004; contra Heyworth-Morwood 2011, 159. Cfr. anche Williams 2006.

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chiaramente sulla falsariga di Virgilio che compose la sua opera per gradi, tre nelle fattispecie, mantenendo l’esametro, e rendendola tematicamente sempre piú impegnata (pascua rura duces 27): anche Properzio creò progressivamente un Lebenswerk di genere elegiaco che in modo analogo crebbe per gradi continui. La Monobiblos potrebbe essere stata concepita come tale, tanto piú che racconta, in sé conchiusa, episodi di una storia d’amore nell’arco temporale di quattro stagioni 28 dall’inizio del servitium amoris (1,1) fino alla disperazione elegiaca e alla visione della morte (1,19) e integra in maniera coerente enunciazioni metapoetiche nel discorso erotico. Ma i libri 2-4, come già detto, si svilupparono come una trilogia e su questo potrebbe aver avuto il suo influsso la sequenza virgiliana ‘poesia erotica combinata con elementi di poetologia’ – ‘poesia didattica’ – ‘eziologia di Roma’. Il libro 2, che costituisce la parte prima di tale trilogia, è nuovamente un libro su Cinzia, tuttavia contiene elementi di poetica molto piú espliciti della Monobiblos; il libro 3 aggiunge ai due temi principali del secondo quello della filosofia di vita (in alcuni passi mediato in modo assolutamente didattico); e il libro 4 è il coronamento della trilogia nel suo combinare elegia erotica ed eziologia romana con gli aspetti chiave della cultura augustea 29. Risulta per cosí dire da sé che nel libro 3 si allude piú volte alle Odi di Orazio in un contesto incentrato su metapoetica e morale, allo stesso modo per cui anche l’Eneide di Virgilio ha offerto diversi intertesti al libro 4. Properzio dunque ha evocato le Odi di Orazio nel suo libro 3 non alla luce di una presunta esperienza di formazione alla Wilhelm Meister ante litteram, ma per il fatto che il contatto intertestuale con il ‘classico’ contemporaneo della poesia lirica e autoriflessiva era inevitabile per la tematica di alcune elegie. Servendosi della sua forma di arte allusiva Properzio si sforzò

Suerbaum 1999, 95-97. Su Orazio cfr. Holzberg 2009, 20 sg.  Holzberg 52011, 40. 29  Si ritiene anche che Properzio in 2,34, che in un certo modo costituisce la cerniera tra il libro 2 e 3, si soffermi a lungo sull’opera virgiliana (nella sequenza Aeneis – Bucolica – Georgica): cfr. 59 sgg. Inoltre in 3,22, una delle cinque elegie, che fungono da ponte tra il libro 3 e 4 (Holzberg 52011, 65-67), le laudes Italiae delle Georgiche (2,136-176) fungono da ipotesto ai versi 17 sgg. (Fedeli 1985, 627; Heyworth-Morwood 2011, 315 sg.). 27  28

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chiaramente di adattare al suo testo il testo altro; nel suo terzo libro si possono distinguere tre tipi di intertestualità oraziana: 1) Una porzione di testo alquanto lunga o un intero componimento si riferiscono a un intero componimento oraziano. 2) Un componimento oraziano fornisce il ‘motto’ per un’elegia di Properzio. 3) Viene “citato” un passo oraziano significativo. Prenderò in considerazione i tre tipi seconda questa successione, ma esaminare tutti i testi pertinenti chiaramente richiederebbe un’intera monografia: per questo mi accontenterò di una panoramica d’insieme – in diversi casi rimanderò a interpretazioni di singoli poemi che ne hanno già elaborato gli aspetti fondamentali – e di interpretare, a mo’ di esempio, un elegia in rapporto al suo ipotesto oraziano: per la qual cosa ho scelto un componimento del tipo 2, Prop. 3,12 che si rifà a Carm. 2,14. Nella prima delle tre categorie menzionate sopra includo, per il loro dialogo intertestuale con Orazio, le tre elegie 3,2, 3,11 e 3,17. John Miller ha interpretato il primo e il terzo componimento sulla base di due ipotesti facilmente riconoscibili – Hor. Carm. 2,18,1-18 e Carm. 3,30 per Prop. 3,2,11-15 e 1822; Hor. 3,25 e Tib. 1,2 per l’inno a Bacco in Prop. 3,17 30 – e ha delineato talmente a fondo il costruttivo dialogo di Properzio con essi che non c’è nulla da aggiungere su questi due testi in relazione al tema che ho scelto 31. Quanto ai versi di Prop. 3,11 su Cleopatra (27-72), versi che vogliono assolutamente essere letti sullo sfondo della famosa ode oraziana 1,37 (e anche dell’Epod. 9), sono stati pubblicati ben tre studi basati sulle piú moderne acquisizioni intertestuali: un articolo rispettivamente di Virginio Cremona del 1987 e di Gottfried Mader del 1989 che mostrano entrambi come il poeta elegiaco muti negativamente la rappresentazione almeno in parte positiva che Orazio offre di Cleopatra, quasi dunque a voler ‘correggere’ il modello, e una sezione del libro di Roy Gibson su Properzio, Orazio e l’Ars Amatoria di Ovidio (pp. 59-63) del 2004. Anche questo studioso appura che il poeta elegiaco adotta una visione assolutamente moraleggiante e aggiunge che Properzio si pone   Miller 1991; cfr. anche Syndikus 1998, 391.   Cfr. anche Syndikus 1998, 385 sg.

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– almeno a prima vista – marcamente in linea con la propaganda augustea, cosa che non si può certamente dire per Hor. 1,37. Gibson rimanda però a ragione al fatto che il paragone stabilito fin dall’inizio tra Cleopatra e Cinzia in 3,11 relativizza la posizione ‘censoria’ e augustea di Properzio, in quanto il poeta, come ammette nei vv. 1 e seguenti, si è sempre servilmente arreso alla puella, impersonando dunque il ruolo completamente ‘non-augusteo’ di Marco Antonio 32. Fungono da ‘motto’ alcuni versi oraziani che sono adattati a quelli elegiaci di Properzio all’inizio di 3,1, 3,9 e 3,12. I primi due distici del componimento incipitario del libro 3, Callimachi Manes et Coi sacra Philitae, in vestrum, quaeso, me sinite ire  n e m u s ! p r i m u s  ego ingredior puro de fonte   s a c e r d o s I t a l a  per Graios orgia ferre choros,

a una prima lettura suonano particolarmente oraziani, in quanto, come è stato notato già da tempo 33, evocano motivi ben noti derivanti appunto da tre Odi: ‘il boschetto poetico’ in 1,1,30, ‘il primo ad aver trapiantato un certo genere della poesia greca in Italia’ in 3,30,13 sg. e ‘il sacerdote delle Muse’ in 3,1,3. Tale concentrazione di elementi suggerisce che la dipendenza dalla poesia oraziana sarà dominante anche nella parte rimanente del componimento, ma in realtà 3,1, se lo si legge per intero, svela che Properzio vorrebbe espressamente staccare il proprio programma poetico da quello di Orazio. Si può già qui esemplarmente vedere come il poeta piú giovane non faccia riferimento a quello piú anziano per porsi come suo successore o addirittura per plagiarlo, ma perché lo sceglie semplicemente come ‘sfondo’ nella costruzione del suo personale profilo poetico 34. Vale lo stesso per Prop. 3,9,1: M a e c e n a s ,  eques Etrusco de sanguine   r e g u m

con il suo particolarmente chiaro rimando a Hor. Carm. 1,1,1: M a e c e n a s ,  atavis edite   r e g i b u s

  Cfr. anche Cremona 1987a; Syndikus 1998, 389.   Cfr. soprattutto Fedeli 1985, 41-52. 34  Cfr. Syndikus 1998, 384 sg. 32 33

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Nell’Ode Orazio richiama la scena che era all’inizio della Satira 1,1 (già dedicata a Mecenate) con gli insoddisfatti rappresentanti di quattro diversi mestieri e sviluppa ora, a partire da una Priamel di mestieri, l’autoconsapevolezza del proprio ‘mestiere’, di cui è evidentemente soddisfatto. Properzio, al contrario, si presenta a Mecenate con una recusatio, fermo restando che anch’egli si allaccia all’componimento incipitaria di un libro precedente, 2,1, che è ugualmente una recusatio. Il poeta elegiaco si dice dunque scontento del ‘mestiere’ che Mecenate, come egli afferma, vorrebbe assegnargli, quello di comporre epica, ma si tratta anche in questo caso, come in tutte le recusationes della poesia augustea, di un pretesto per la descrizione del ‘mestiere’ prescelto, quello cioè di un poetare alla maniera callimachea. Ancora una volta l’ipotesto lirico funge da fondo di contrasto nel definire secondo una nuova forma la propria posizione. Questo principio è dimostrabile, come credo, soprattutto se si confronta Prop. 3,12 e Hor. Carm. 2,14, il cui verso iniziale fornisce qui il ‘motto’. Ma prima di passare a questa analisi, vorrei brevemente considerare i due versi con cui Properzio rispettivamente ‘cita’ nel mezzo di un componimento un verso oraziano particolarmente conosciuto 35. Il primo, 3,13,60, frangitur  i p s a  s u i s  R o m a  superba bonis,

rimanda a Hor. Epod. 16,2: s u i s  et  i p s a  R o m a  viribus ruit.

Nel suo pentametro Properzio si esprime, come annuncia nell’esametro precedente, nel ruolo di un patriae ... verus haruspex e ci fa sapere dunque, in tono estremamente solenne, di considerare la decadenza morale di Roma dalla prospettiva di un indovino. Se prescindiamo dalla possibilità che ciò va inteso ironicamente, allora con l’aiuto dell’ipotesto riconosciamo quanto segue: l’autorappresentazione di Properzio come haruspex allude alla critica implicita rivolta da Orazio negli Epodi a un profeta che,

35  Poco nota e del resto non eccezionale è l’intertestualità di Prop. 3,10,1 e Hor, Epist. 1,19,5; cfr. Namia 1987. Ciò vale anche per Prop. 3,5,7-12 ~ Hor. Carm. 1,16,13-16; cfr. Heyworth 2007a, 299 sg.

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a suo avviso, non era verus. Infatti l’esametro che nell’Epodo 16 precede il trimetro giambico ‘citato’ da Properzio, Altera  i a m  teritur bellis civilibus  a e t a s ,

evoca a sua volta un noto verso virgiliano, Verg. Ecl. 4,4 – ultima Cumaei venit  i a m  carminis  a e t a s –

e vuole apertamente far intendere che la profezia annunciata dall’ecloga per l’anno 40 a.C. sull’avvento di un’aetas aurea, non si era ancora realizzata al tempo della pubblicazione del libro oraziano degli Epodi 36 (30 a.C. 37). Properzio, al contrario, guardando attraverso Orazio a Virgilio, rivendica provocatoriamente il diritto a essere, nelle vesti di profeta, vere verus, e con persino un responso pessimistico. In Prop. 3,13,60 si può senz’altro parlare di una ‘window reference’, anche se non è immediatamente riconoscibile. Meno complicato è il dialogo testuale di Prop. 3,23,23 sg. (il distico si trova alla fine del componimento, in cui il poeta lamenta la perdita delle sue tavolette per scrivere) – i ,  p u e r ,  et  c i t u s  haec aliqua propone columna, et dominum Esquiliis  s c r i b e  habitare tuum! –

con Hor. Sat. 1,10,92: i ,  p u e r ,  atque meo  c i t u s  haec subs c r i b e  libello.

Nel caso del verso oraziano si tratta delle parole explicitarie di un libro poetico: è evidentemente possibile considerare explicitario di un libro poetico anche il distico di Properzio. Questa impressione è rafforzata dal fatto che il riferimento all’Esquilino, in quanto luogo in cui il poeta risiede, può essere letto anche come sphragis. Ma si tratta di un falso finale (‘Trugschluss’), poiché dopo Prop. 3,23 si trova ancora l’elegia composta dalle due sezioni che nei manoscritti sono numerate come 24 e 25 38. E in   Stroh 1993, 304.   Holzberg 2009, 21 sg. 38  Argomenti sull’unità soprattutto in Fedeli 1985, 672 sgg. Falsa, la prima parola dell’elegia, potrebbe contenere implicitamente un’allusione metapoetica al falso finale (suggerimento di Regina Höschele). 36 37

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un certo modo anche questo componimento presenta un falso finale. Qui infatti Properzio si dice libero da Cinzia che però ritornerà nuovamente in scena come la donna amata nel libro 4, che costituisce la terza parte nella trilogia formata dai libri 2-4. Il lettore in ogni caso non si attende ora dalla lettura di 3,24-25 alcuna prosecuzione della ‘storia d’amore’. Oltre a ciò 3,24-25, sia per il fatto di avere con i suoi 38 versi la stessa lunghezza di 1,1 e sia per il fatto di esibire dei contatti verbali con tale elegia 39, rimanda all’inizio della ‘storia d’amore’ e finge cosí, attraverso l’espediente della Ringkomposition, che questa sia finita. Dal finale del libro oraziano viene dunque ricavato, in Properzio, un explicit di libro con doppio falso finale. Ma passiamo ora al terzo componimento di Properzio che comincia con un ‘motto’. L’ode 2,14 di Orazio e l’elegia properziana 3,12 sono entrambe indirizzate a un Postumo che è probabilmente la stessa persona, vale a dire il senatore romano C. Propertius Postumus, presumibilmente un non troppo lontano parente del poeta elegiaco. Sua moglie, menzionata tanto in Orazio quanto in Properzio (rispettivamente v. 22 e passim), si chiama in quest’ultimo Aelia Galla e viene verosimilmente a ragione identificata in genere con la figlia del secondo prefetto d’Egitto, L. Aelius Gallus 40. Postumo è dunque un aristocratico e di conseguenza un uomo facoltoso: in questo ben si adatta al ruolo di destinatario di una delle odi oraziane, in cui il poeta fa notare con tono ammonitore che la morte, agendo da livellatrice, costringe ogni uomo a lasciare tutto ciò che ha sulla terra; vale anche per Postumo (21 sg.): l i n q u e n d a  tellus et domus et placens uxor...

Mentre il Postumo oraziano è costretto dalla morte a lasciare la moglie, il Postumo properziano fa lo stesso di sua iniziativa ancora in vita, prendendo parte a una spedizione militare,   Cfr. Fedeli 1985, 675; Heyworth-Morwood 2011, 332.   Nisbet-Hubbard 1978, 223 sg.; Cairns 2006, 16-20. Werner Eck, al cui contributo “Properzio e l’aristocrazia augustea” ho assistito al Colloquium Propertianum 2012 di Assisi il 25.5.12, ritiene improbabile l’identificazione con il senator, dato che nel suo epitaffio (CIL VI 1501), che descrive molto in dettaglio le sue funzioni, non viene fatto alcun accenno ad attività militari. 39 40

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e proprio questo gli rimprovera indirettamente il poeta all’inizio dell’elegia (1 sg.): Postume, plorantem potuisti   l i n q u e r e  Gallam, miles et Augusti fortia signa sequi?

Questo incipit allude in modo evidente a quello di Orazio e funziona dunque da ‘motto’: Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni...

Properzio si rivolge al destinatario chiamandolo per nome solo una volta a inizio di verso, ma fa ‘risuonare’ grazie all’allitterazione della ‘p’ nelle prime tre parole (con leggero effetto comico) la geminatio del vocativo oraziano in fine di verso. Il contatto appunto voluto tra Prop. 3,12,1 e Hor. Carm. 2,14,1 induce il lettore, fino alla fine del verso 1 dell’elegia, a supporre che questa costituisca una continuazione dell’ode: Postumo, nel frattempo deceduto, ha lasciato la moglie, come Orazio gli aveva predetto, e viene ora apostrofato nella tomba dal poeta. Tanto piú sorpreso è il lettore quando già a partire dal verso 2 dell’elegia intuisce e subito dopo realizza chiaramente che il contenuto del componimento properziano è completamente differente da quello dell’ode oraziana. Cosa intende dunque esprimere il poeta elegiaco nel suo richiamare cosí marcatamente il poeta lirico nonostante lo scarto tematico rispetto a Carm. 2,14? Consideriamo i due testi in parallelo per cercare di dare una risposta a questo interrogativo 41. In Orazio l’intero componimento è dominato dal tema della morte. Il tempo della vita scorre via, dice nella strofa 1-3, neppure la pietas arresta le rughe, la vecchiaia e la morte, nemmeno con tre ecatombi al giorno Postumo potrebbe placare Plutone che trattiene persino Gerione e Tizio con i flutti infernali, su cui tutti, re o poveri contadini, dovranno navigare. Anche l’evitare guerre, viaggi per mare o febbri – cosí continua Orazio nelle strofe 4-6 – non esonererà noi dal vedere il Cocito, le Danaidi e Sisifo e Postumo dall’abbondare la terra, la casa e la moglie senza essere accompagnato da nessuno degli alberi da lui piantati ad eccezione del cipresso. Poi ancora nella strofa conclusiva Orazio, 41  Qualche breve considerazione sul confronto tra i due componimenti in Cairns 2006, 19; cfr. anche Syndikus 198, 390.

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quasi con una punta di sarcasmo, descrive al destinatario come il suo erede spargerà sul pavimento pregiato vino cecubo. Si accenna tra le righe al fatto che Orazio rimprovera leggermente a Postumo l’amore per la sua ricchezza? Ciò emerge forse anche dalla sequenza tellus - domus - placens uxor? Il lettore può in effetti inferire dalle due ultime strofe che per il senatore non solo la terra e la casa, ma anche la coltivazione degli alberi – forse una sua particolare passione – e il suo costoso vino sono piú importanti della moglie, per quanto placens. E ciò offre un ponte con Properzio. Il poeta elegiaco biasima Postumo, addirittura impreca esplicitamente contro di lui, perché antepone alla sposa fama, bottino e guerra e affronta per questo anche grosse fatiche (cfr. 1-8, versi che costituiscono la prima di tre sezioni nell’elegia: 1-8; 9-22; 23-38), mentre esclama con tono patetico (5 sg.): si fas est, omnes pariter pereatis avari et quisquis fido praetulit arma toro!

In Orazio si deve morire, persino quando si possiedono le piú grandi ricchezze, in Properzio è tenuto a morire chi è avido di ricchezze. Al memento mori che Orazio rivolge al ricco, Properzio fa corrispondere per contrarium l’invettiva contro un avido che viola il motto ‘make love, not war’. È una delle regole essenziali del codice elegiaco e ha per Properzio verosimilmente la sua importanza: nel suo dialogo con Orazio, Properzio oppone al discorso lirico, in cui la filosofia morale gioca un ruolo fondamentale, il suo discorso elegiaco, combinando alla critica della morale una difesa dei ‘valori’ elegiaci. Già nei primi otto versi dell’elegia si può osservare che Properzio adatta singole parole o motivi oraziani a un nuovo contesto: come abbiamo visto, introduce rispettivamente perire, che nell’Ode è illustrato dalle visioni dell’Ade, e linquere in un nuovo contesto semantico. Anche i versi 9-22 dell’elegia, la seconda sezione del componimento, scaturiscono da due parole chiave dell’ode: placens uxor. Essi contengono infatti una dettagliata lode di Galla, il cui nome vi ricorre tre volte (15; 19; 22) – chiaramente come ‘correzione’ del testo oraziano che nomina la donna soltanto dopo tellus e domus, mentre Properzio esclama in toni entusiastici a metà della seconda sezione nel verso 15: ter quater in casta felix, o Postume, Galla!

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Galla viene indirettamente rappresentata come Penelope rediviva nei versi 9-22: teme la morte del marito lontano in guerra, è talmente fedele da non farsi vincere dai doni e, se Postumo un giorno tornerà da lei, gli penderà dal collo. Postumo dunque, come viene detto all’inizio della terza sezione dell’elegia (23-38), sarà un secondo Odisseo (23) e a questo corrisponde quanto leggiamo nell’ultimo verso: vincit Penelopes Aelia Galla fidem.

Ora però ciò che sta tra questi due versi pare essere cosí distante da Carm. 2,14 che il nuovo senso, di cui si caricano nelle prime due sezioni dell’elegia alcune ‘parole chiavi’ dell’ode oraziana, finisce per essere dimenticato. Nell’elegia ci è infatti presentata una parafrasi dell’avventura di Odisseo: viene brevemente riassunto (24-37), a partire dalla guerra di Troia fino all’uccisione dei pretendenti, tutto ciò che era particolarmente degno di essere raccontato tra le avventure dell’eroe. Tuttavia, in uno di questi 14 versi Properzio offre, a sua volta, quasi una parola chiave e rimanda, cosí facendo, a due passi alquanti lunghi dell’ode. Nell’elegia si accenna brevemente al fatto che Odisseo era entrato nelle nere case delle anime silenti (33), mentre in Orazio il racconto sull’Ade è dettagliato: per prima cosa introduce il signore dell’Oltretomba, poi i giganti Gerione e Tizio che sono trattenuti laggiú, l’Acheronte, che i morti attraversano sulla barca di Caronte (612), infine il Cocito e i peccatori, tra cui sono nominati le Danaidi e Sisifo (17-20). Il Postumo oraziano ha in comune con Odisseo la discesa nell’Ade, ma vi rimarrà a differenza dell’eroe; al Postumo properziano invece viene assegnato il ruolo dell’eroe che ritorna in patria. Al memento mori del poeta lirico segue l’ammonimento del poeta elegiaco che contiene almeno implicitamente un’esortazione a vivere. Nella letteratura antica i due ammonimenti possono anche comparire uniti come per esempio in Petr. 34 o alla fine dello pseudovirgiliano Copa. Properzio concepisce dunque la sua elegia in modo tale da costruire un dittico con l’ode oraziana. Cosí facendo ci dimostra in modo particolarmente chiaro di dialogare con il poeta lirico da pari a pari, ma senza porsi in alcun modo come suo successore o tanto meno plagiatore 42. 42  Ringrazio Regina Höschele e Stephanie Seibold per osservazioni sull’articolo e Chiara Battistella per la traduzione italiana.

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Rosalba Dimundo

OVIDIO E L’ELEGIA DI PROPERZIO

1.  Parlare del rapporto tra Properzio e Ovidio espone al rischio di ripercorrere sentieri già noti; d’altro canto la ricchissima bibliografia rende arduo anche il tentativo di mettere in luce aspetti insondati – quasi degli integra prata – su tale argomento; conforta, tuttavia, la consapevolezza che ogni lettura del classico, che pure non può prescindere dalle interpretazioni che l’hanno preceduta, è contrassegnata da germi di diversità, perché differenti sono i criteri di interpretazione. Per quanto riguarda il rapporto tra Properzio e Ovidio, la critica, che si è concentrata soprattutto sul meccanismo di allusività con variazione, ha privilegiato gli aspetti di diversità tra le due poetiche, che hanno profonde ragioni di carattere storico-culturale. Ovidio, che opera in un periodo di prosperità economica garantita dalla pax Augusta, vive in un’epoca che favorisce gli incontri sociali e mondani, il cui sfondo è costituito dallo spazio sempre piú monumentale dell’Urbe. Con le sue opere giovanili, egli intende farsi interprete dello spirito che alimenta la nuova era, sia attraverso la riproposizione di forme già note come l’elegia d’amore (i suoi modelli sono gli elegiaci che l’hanno preceduto), sia attraverso la singolare sperimentazione di tipologie poetiche diverse, caratterizzate essenzialmente dall’incrocio di generi letterari, secondo una dinamica compositiva di ascendenza alessandrina. 2.  Fermo restando il senso di disorientamento che l’opera ovidiana genera nel lettore ‘educato’ dall’elegia della prima generazione (Gallo, Tibullo, Properzio), va detto che è Ovidio stesso a certificare il senso di continuità con gli altri poeti elegiaci; lo fa nel tirare il bilancio della sua vita, che trent’anni piú tardi, 10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102589

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lo mette al riparo dal sospetto di un’entusiastica e giovanile adesione agli ideali poetici dell’elegia: Vergilium vidi tantum: nec avara Tibullo tempus amicitiae fata dedere meae. Successor fuit hic tibi, Galle, Propertius illi; quartus ab his serie temporis ipse fui (Trist. 4,10,51-54).

I termini della diversità dell’elegia ovidiana, infatti, emergono con chiarezza soprattutto al lettore, perché dal canto suo Ovidio di quel genere si sente degno rappresentante e continuatore dopo Properzio; da lui Ovidio «apprese la concezione tematica di ogni elegia», l’impostazione «sia epigrammatica sia retorica dell’espressione e l’interazione di elementi realistici e di immagini mitiche» 1. Per Ovidio, Properzio costituisce un termine di confronto anche in rapporto alle fasi di organizzazione della sua opera; cosí i primi tre libri delle elegie properziane, oltre ai numerosissimi punti di contatto nei topoi, nei personaggi e nelle funzioni, presentano un analogo tipo di allestimento della materia, dalla fase dell’innamoramento (Prop. 1,1 ~ Ov. Am. 1,1) a quello dell’addio all’amore e del congedo – ma solo in termini programmatici – dalla poesia d’amore (Prop. 3,24 ~ Ov. Am. 3,15). Nell’ultima elegia degli Amores, infatti, Ovidio, che si propone di abbandonare il genere elegiaco e di militare non piú sotto le insegne di Venere e di Amore, ma sotto quelle di Bacco, che lo incita a dedicarsi a generi piú seri, si esprime con accenti che «ricordano Prop. 4,1 nell’associazione della patria peligna alla fama del suo figlio» 2. Dalla produzione ovidiana successiva, però, si capisce che non si tratterà di un abbandono definitivo della poesia di argomento erotico, ma solo della necessità di confrontarsi con altre forme di poesia 3. L’accenno alla 4,1 offre lo spunto per approfondire un aspetto del rapporto tra i due poeti che è rimasto un po’ in ombra;   Le osservazioni sono di von Albrecht 2005, p. 250.   La citazione è tratta da Pinotti 2002, p. 200. 3   Come sottolinea Fedeli 2007, p. xx quello di Ovidio «non sarà un abbandono reale della poesia di argomento erotico: si tratterà solo di una rinuncia alla descrizione di personali vicende d’amore in metro elegiaco. In tal modo egli mostrerà di considerare la poesia d’amore solo come una tappa del suo processo di maturazione artistica». 1 2

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ovidio e l’elegia di properzio

a fronte di un’evidente fedeltà al tema amoroso, che costituisce il sottofondo di tutta la produzione ovidiana 4, mi sembra che l’attenzione di Ovidio si sia concentrata soprattutto sul IV libro properziano, e non solo per la tendenza a dar voce alle figure femminili, che largo spazio avrà nelle Eroidi 5. Del resto sia il IV libro di Properzio, con le sue concessioni alla moda celebrativa, sia il IV libro delle Odi di Orazio, in cui l’ideologia augustea occupa un posto preminente, oltre ad incidere profondamente nel panorama culturale, costituirono modelli letterari nuovi e imprescindibili. È vero, poi, che la stagione erotodidattica ovidiana, oltre che dalla consolidata tradizione esametrica di ascendenza alessandrina e latina, prende spunto dalla tendenza a sentenziare, che soprattutto nei primi due libri delle elegie di Properzio si era trasformata in un atteggiamento didascalico 6; ma l’assenza di pathos sofferto e, di contro, la presenza costante di un atteggiamento disincantato e talora dissacratorio della precettistica ovidiana, a partire già dalla breve ars amandi di Am. 1,8, prende le mosse dal ‘vademecum’ dispensato da Acantide all’aspirante meretrix della quinta elegia del IV libro properziano. In relazione al tema della metamorfosi la 4,2 di Properzio offriva a Ovidio materiale interessante per una rielaborazione ben piú ampia e sistematizzata di quella da lui stesso prodotta con la storia d’amore di Vertumno e Pomona (Met. 14,640-692), che, pur avendo in filigrana l’eziologia tracciata dal Vertumnus properziano 7, dà piú risalto alla componente erotica che a quella eziologi-

4   Spunti molto interessanti sulla presenza delle tematiche e delle caratteristiche elegiache nelle Metamorfosi in Baldo 2005, pp. 325-358. 5  Cfr., in merito, la lucida analisi di Rosati 1991, p. 103, n. 1 «Basta [...] a provare la seriorità dell’opera ovidiana la frequenza di rimandi che essa contiene all’intero quarto libro di Properzio. Né vale appellarsi, come di solito si fa, alla nota consuetudine di letture «in anteprima» da parte dei poeti augustei agli amici letterati: è a tutti i lettori che le Heroides richiedono una competenza largamente diffusa dei modelli letterari presupposti (come ad esempio la virgiliana Didone), competenza necessariamente maturata dopo un ragionevole lasso di tempo dalla pubblicazione delle opere relative». 6  Cfr. Fedeli 2007, p. xxxiii, che rinvia a 1,7,25-26; 1,9,34-35; 1,10,20-30; 1,19,25-26; 2,3,23-24; 2,25,47-48; 2,33,43-44 e a La Penna 1951, p. 9. 7  Cfr. Baldo 2005, p. 353: «il rapporto che Ovidio istituisce con questo componimento è emblematico: il suo testo si raccorda al testo properziano solo per la rappresentazione di Vertumno, quasi come a una ‘base’ che, sul piano retorico e tematico, orienta e autentica tendenziosamente il nuovo testo. Le facoltà

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co-celebrativa. La vicenda di Scilla, all’inizio dell’VIII libro delle Metamorfosi, oltre che con lo pseudovirgiliano epillio Ciris, costituisce un terreno di confronto soprattutto con l’elegia di Tarpea (4,4), che rappresenta l’archetipo romano del motivo della traditrice della patria per amore. Per l’impianto celebrativo dei Fasti, infine, le elegie eziologiche del IV libro properziano offrivano spunti tali da far concludere che sono proprio i Fasti a costituire l’omaggio piú significativo di Ovidio al suo predecessore; oltre a 4,10, basti considerare in particolare l’elegia 4,9, in cui Properzio, all’insegna della variatio che sovrintende a tutto il libro, mette in chiara luce i due distinti aspetti di Ercole, quello dell’eroe invitto – il quale dopo l’uccisione di Caco avvenuta in uno scontro feroce, consacra il luogo che successivamente sarà il Foro Boario – e quello meno nobile di chi, in preda a un’incontenibile ira, arriva al punto di commettere azioni deplorevoli. Attraverso un’inesorabile anticlimax, che contrassegna la sua degradazione, infatti, dapprima l’eroe, colto da una sete implacabile, implorerà l’acqua dalle donne riunite per celebrare i riti della Bona Dea, poi, in seguito al loro rifiuto, perderà la pazienza e fracasserà la porta del luogo sacro. Nell’elegia properziana i due diversi caratteri di Ercole occupano sezioni ben distinte, che tuttavia si intersecano attraverso solidi punti di contatto 8. Dal canto suo, nei Fasti Ovidio da un lato riprende dall’elegia properziana la duplice natura dell’eroe, dall’altro interviene con originalità nella presentazione del personaggio, perché i due diversi aspetti di Ercole non solo non si sovrappongono, ma occupano sezioni autonome in due libri differenti. In Fast. 1,543-580, infatti, Ercole è impegnato nella lotta con Caco e mantiene intatta la sua fisionomia di ἥρως; l’epilogo della prima sezione dedicata ai Carmentalia, inoltre, è enfaticamente segnato prima dalla fondazione dell’ara Massima – futura sede del proprio culto – da parte dell’eroe semidivino, poi dal metamorfiche del dio costituiscono una splendida occasione per concludere con una storia d’amore e metamorfosi coerente con lo statuto del poema, e insieme per dimostrare la sua capacità di orientare in direzione erotica una elegia etiologica». 8  Lo dimostra la serie di particolari comuni alle due sezioni: la stanchezza di Ercole viene ricordata nei vv. 4, 34 e 66; il motivo dell’ospitalità, violata da Caco (v. 8) e non concessa dalle donne (v. 34 e v. 53); la furia di Ercole distruttore delle porte, sia che si tratti della dimora di Caco (v. 14), sia che egli si trovi di fronte alla ianua del luogo sacro (vv. 61-62); l’analoga presentazione dell’abitazione di Caco come un antrum metuendum (v. 9) e dell’antrum sacro (v. 33 e v. 55) che è protetto da una lex metuenda.

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vaticinio finale di Carmenta, che annuncia la dipartita dell’eroe e soprattutto la conseguente assunzione tra le divinità (vv. 581584 constituitque sibi quae Maxima dicitur aram, / hic ubi pars Vrbis de bove nomen habet.  / Nec tacet Evandri mater prope tempus adesse / Hercule quo tellus sit satis usa suo). Nel II libro dei Fasti, dove il resoconto della storia d’amore tra Ercole e Onfale è introdotto da una didascalia che la dice lunga sul carattere ‘farsesco’ della narrazione (2,304 traditur  a n t i q u i  fabula plena  i o c i ), Ercole è connotato, invece, dall’atteggiamento tipico dell’innamorato elegiaco, legato alla donna amata dal servitium amoris 9. Insomma, come ha sottolineato von Albrecht, Ovidio «non scrisse un epicedio per Properzio, ma fece molto di piú: [...] compose i Fasti, continuazione questa dell’opera cominciata dall’ultimo Properzio e grandioso monumento all’amico, al Callimaco romano» 10. 3. Non meno determinante è l’influsso esercitato dall’elegia properziana sull’epistolografia ovidiana, inclusa quella dell’esilio 11. Com’è noto, il complesso intreccio cronologico tra la composizione del IV libro properziano e quella delle Heroides ovidiane ha indotto taluni studiosi a propendere per una linea genealogica, che al suo vertice vede la raccolta epistolare ovidiana; a rendere piú intricato il problema contribuisce la consuetudine delle recitationes nei cenacoli letterari, a cui chiaramente allude Ov. Trist. 4,10,45-46 saepe suos solitus recitare Propertius ignes  / iure sodalici quo mihi iunctus erat; Ovidio stesso (Ars 3,345-346 vel tibi composita cantetur Epistula voce / ignotum hoc aliis ille novavit opus), fa un orgoglioso accenno alla propria originalità poetica, che, tuttavia, non va intesa come rivendicazione del ruolo di inventor di epistole occasionali, ma di un’intera collezione di lettere d’amore e dunque di un genere nuovo 12. È soprattutto a partire dal secolo scorso che la vexata quaestio ha appassionato gli studiosi, ma oggi sembra regnare un consenso generale in favore della paternità properziana: la 4,3, infatti, costituisce il prototipo dell’epistola poetica elegiaca, che nelle Heroides assume i tratti definitivi di un prodot  Cfr. su ciò Robinson 2011, pp. 225-229; pp. 237-239.    Si rinvia a von Albrecht 2005, p. 250. 11   Valide e acute riflessioni sull’apporto dell’elegia, con i suoi motivi, sulle epistole ovidiane in Rosati 1992, pp. 71-94. 12  Lo sottolinea Rosati 1989, p. 6. 9

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to letterario articolato e complesso 13. Lo spunto per le Heroides, in cui la persona loquens non è piú il poeta-amante, ma la donna contrassegnata sin dall’inizio da una storia ben conosciuta, è stato fornito a Ovidio, come tutto lascia credere, dall’elegia di Aretusa: ma quand’anche si volesse propendere per un’improbabile anteriorità ovidiana, bisognerebbe considerare che la stessa elegia di Aretusa era stata anticipata per piú di un aspetto dalla dodicesima del terzo libro, in cui il poeta esortava Postumo – che per motivi bellici era andato in terre lontane – a non abbandonare l’amata Elia Galla, per inseguire la gloria militare 14; rispetto alla 3,12, il carattere fittizio dei personaggi della 4,3 15 determina una ricaduta paradigmatica piú incisiva 16. 13  Di diverso parere era Mersmann 1931, pp. 27-73, i cui argomenti sono stati efficacemente confutati da Reitzenstein 1936, pp. 17-34, seguito da La Penna 1951a, pp. 45-49 e Becker 1971, pp. 469-71; a favore dell’anteriorità properziana si sono espressi piú recentemente Rosati 1989, p. 44 n. 54; Barchiesi 1992, p. 54; Knox 1995, pp. 17-18; Kenney 1996, p. 1 n. 3; Zimmermann 2000, pp. 130-135; Coutelle 2005, pp. 540-541 e p. 560 e Fedeli 2007, p. xxi. 14  Postumo è verosimilmente un parente di Properzio, C. Postumus Propertius, senatore e proconsole (cfr. CIL VI 1501 [= ILS 914]; Mommsen 1870, p. 370 e Fedeli 1985, p. 397); Elia Galla è identificata con la sorella di Aelius Gallus, il secondo prefetto d’Egitto, destinatario di alcune elegie properziane del I libro. 15  Il nome proprio Arethusa, in uso fino al IV-VI d.C. (Solin 1982, pp. 402– 403), compare in attestazioni epigrafiche di epoca augustea (CIL VI 21286; XI 3247). Si tratta di un calco del greco Ἀρέθουσα, frequentemente attestato nella letteratura greca e latina come appellativo di una fonte. In particolare Arethusa è la ben nota fonte siracusana, ricordata per le sue acque dolci (Cic. Verr. 2,4,118), profonde e limpide (Sen. Dial. 6,17,3), oltreché pescose (Serv. ad Verg. Georg. 4,351) e celebrata nel mito, che si fonda sullo schema abituale dell’inseguimento amoroso e della metamorfosi. A giudizio di Hutchinson 2006, p. 102, Properzio avrebbe scelto il nome di Aretusa per sottolineare l’esito diverso della vicenda dei protagonisti della sua epistola: nella versione piú diffusa del mito, infatti, il fiume arcadico Alfeo percorre una considerevole distanza sotto il mare per unirsi alla fonte siracusana (cfr. e.g. Mosch. fr. 3 Gow; Verg. Georg. 3,694-696; Ov. Am. 3,6,29-30 e Stat. Silv. 1,2,203-208), a differenza di Licota, che spesso e per lungo tempo si allontana da Aretusa: una simile ipotesi, però, sarebbe ben piú convincente se il marito di Aretusa si chiamasse Alfeo; su tale interpretazione cfr. anche il cauto scetticismo di Pinotti 2007, p. 372. Il nome Lycotas, che Rothstein 1924, p. 229 eccessivamente confortato dall’analogo etimo, ritiene traduzione del corrispondente nome latino di quel Luperco, la cui morte è ricordata a 4,1,93-94, ricorre frequentemente in epigrafi epirote, illiriche, corciresi e laconiche (cfr. LGPN III A, 281); la prima attestazione latina è proprio quella properziana, a cui fa seguito Ov. Met. 12,350-351 dove, però, Licota è un centauro abbattuto dalla clava di Teseo durante la rissa tra Centauri e Lapiti. 16  Le analogie tra i due componimenti sono state sottolineate da Becker 1971, p. 470.

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Con Elia Galla e con tutte le fidae uxores Aretusa condivide lo stesso archetipo letterario, quello della Penelope omerica 17 e, nonostante la diversa psicologia delle due personalità mitiche, costituisce l’ipotesto delle figure ovidiane di Penelope 18 e di Laodamia 19. Il personaggio di Aretusa, che nella dimensione totalmente autoreferenziale dell’elegia non concede a Licota se non una sbiadita presenza tra le sue righe, concentra ed esalta le caratteristiche migliori dei due celebri modelli coniugali del mito; essa, inoltre, da un lato, come già era avvenuto per Penelope in 2,9,3-8 20, rappresenta l’esempio e contrario di Cinzia, dall’altro incarna l’ideale di donna, che ogni poeta elegiaco desidererebbe avere accanto 21. Sebbene non sia possibile «parlare di un preciso disegno architettonico che coinvolge il libro nel suo complesso» 22, è significativo che, nell’ordine in cui ci sono pervenute le elegie, sia proprio l’epistola di Aretusa ad inaugurare la serie delle elegie che, nel IV libro hanno come protagonista una donna; per di piú la 4,3 – che concilia le nuove istanze dell’ispirazione properziana con le tematiche consuete dell’elegia – fa capire che l’unione coniugale, a differenza dei libri precedenti, costituisce l’espressione piú importante del sentimento d’amore nel quarto libro 23. Nella 4,3 di Properzio il presupposto di fondo dell’espressione elegiaca (la sofferenza che si traduce in poesia) e quello dell’epistolografia poetica al femminile (la querela per l’assenza dell’essere amato 24) convergono e si esaltano reciprocamente. Attraverso 17   Sul motivo ricorrente della fedeltà di Penelope cfr. Otto 1890, p. 272 s.v. Penelope [1] e E. Wüst, Penelope (Literatur) «RE» XIX 1, 1937, 483-484. 18 Cfr. Rosati 1989, p. 64; Barchiesi 1992, pp. 53-54 e Gärtner 2006, pp. 211-236. 19 Cfr. Merklin 1968, pp. 461-494; Sabot 1981, p. 2579 e Jolivet 2001, pp. 53-55 e p. 233. 20  Lo sottolinea ampiamente Fedeli 2005, p. 278. 21  Cfr. Günther 2006, p. 369. 22   Sono parole di Fedeli 2009, p. 307. 23  Cfr. Günther 2006, p. 367. 24 Il carattere struggente e patetico del ‘lamento della relicta’, che non fu estraneo alla lirica preneoterica (lo lasciano presupporre alcuni frammenti della Protesilaodamia di Levio), connota, poi, sia la rappresentazione dell’Arianna abbandonata del c. 64 di Catullo (oltre a Norden 1957, p. 257 – che per primo dimostrò la matrice ellenistica del motivo della donna abbandonata –, cfr. in particolare lo studio sistematico della Mädchenklage di Hross 1958 e Rein-

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la sua missiva, infatti, Aretusa cerca di infrangere la barriera, che le impedisce di entrare nella sfera d’azione di Licota, che è andato in Oriente per combattere i Parti ed esprime, in modo intimo e toccante, la sofferenza della solitudine; come nella successiva produzione ovidiana, dunque, già nella 4,3 il modo per colmare la distanza tra i due protagonisti è la comunicazione epistolare, la cui scelta «implica inevitabilmente [...] un rapporto dialogico di intimità fra mittente e destinatario, accentua la privatezza della relazione, e comporta quindi anche un linguaggio non-eroico, quotidiano, che privilegia il registro affettivo» 25. Tra i personaggi delle Heroides ovidiane, Laodamia è sicuramente «l’erede privilegiata dell’Aretusa di Properzio» 26; l’affinità tra le due figure femminili e le loro epistole deriva in primo luogo dalla situazione oggettiva delle protagoniste, entrambe lasciate sole da un marito in guerra e profondamente preoccupate per la sua incolumità; evidenti omologie contenutistiche e lessicali con l’epistola di Aretusa, inoltre, consentono di apprezzare il ricorso costante da parte di Ovidio a un sistema di allusività, che viene attivato grazie a movenze letterarie analoghe; al testo ovidiano, infine, la voce di Aretusa fornisce «elementi organizzati in un sistema formale e ideologico, appunto l’elegia latina, che funge da codice la cui competenza [...] è indispensabile per cogliere il senso della nuova opera ovidiana, il quadro di riferimento in cui essa si colloca» 27. 4.  Dopo aver messo a nudo i suoi sentimenti sin dalle battute iniziali dell’epistola (vv. 1-6), con un repentino trapasso narrativo nei vv. 7-10 Aretusa si proietta nella dimensione spaziotemporale di Licota, cosí che i circoscritti confini della casa coniugale si dilatano fino a coincidere con quelli, quasi incomhardt 2006, p. 206), sia la figura dal forte impatto emotivo della Didone virgiliana (Bernardini Marzolla 1955, pp. 177-179 e Heyworth 1999, p. 72) e trova, infine, ampio spazio nella tradizione letteraria successiva: basti citare Luciano (Dial  Mer. 2,10,12); Alcifrone (4,10) e Aristeneto (2,13 con l’analitico commento di Drago 2007, pp. 523-533); echi dell’elegia properziana in una eroide medievali sono stati rintracciati da Paolucci 2008, pp. 293-312. 25  Sono parole di Rosati 1989, pp. 34-36. 26  L’espressione è di Roggia 2011, p 33. 27  Le osservazioni sono di Rosati 1992, pp. 73-74, che rinvia in nota a Barchiesi 1987, pp. 67-70 e passim.

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mensurabili ai suoi occhi, delle terre lontane in cui si trova il marito. L’enumerazione dei popoli e dei luoghi, che hanno il privilegio di vedere il suo Licota, e l’implicita allusione ai rischi delle guerre sono seguite da una provocatoria domanda di Aretusa al marito lontano: dal suo punto di vista le ripetute e prolungate assenze di Licota offendono i doveri imposti dalla fides coniugale (vv. 11-16). haecne marita fides et † parce avia † noctes, cum rudis urgenti bracchia victa dedi? quae mihi deductae fax omen praetulit, illa traxit ab everso lumina nigra rogo; et Stygio sum sparsa lacu, nec recta capillis vitta datast: nupsi non comitante deo.

Dalle sue parole si capisce che Aretusa non dimentica di essere una matrona, sebbene incarni un tipo singolare di moglie, perché non di rado esprime un incontenibile sentimento di gelosia nei confronti del marito 28. Il motivo dell’amore che ha ricevuto una sanzione ufficiale – che, nonostante le gravi incertezze testuali 29, ricorre anche nei vv. 49-50 omnis amor   Cfr. Hutchinson 2006, p. 100.  Il ‘consensus codicum’ tramanda aperto in coniuge: tra i difensori del testo tràdito alcuni ritengono che apertus sia sinonimo di manifestus e antonimo di furtivus (amor ... aperto in coniuge maior = «è piú grande l’amore verso il legittimo sposo»); altri attribuiscono all’aggettivo il significato di praesens, conspicuus («è piú grande l’amore quando il marito è presente, vicino») o vedono nell’uso di coniunx un caso di concretum pro abstracto – su cui cfr. Hofmann – Szantyr 1965, p. 751 – e intendono l’espressione nel senso di in coniugio spectato, analogamente a 2,6,23, dove Admeti coniunx equivale a Admeti coniugium e 3,11,3132, dove coniugis obsceni sta per coniugii obsceni (cfr. Fedeli ad loc.). Apertus, tuttavia, non è mai attestato nel senso di legitimus, né, col senso di praesens, ricorre in relazione a coniunx o a sinonimi quali maritus o uxor; Heyworth 1999, p. 76 – che licenzia laconicamente come ‘a bizarre alternative’ il significato di praesens dato ad apertus – ritiene superfluo l’impiego di apertus i.q. legitimus, perché in coniunx sarebbe già implicita l’idea di un legame ufficialmente riconosciuto; inconsueto, poi, è l’uso di in al posto di erga (Burman: «amor in coniuge pro erga maritum non recte dicitur»). Nonostante gli sforzi degli esegeti, l’espressione aperto in coniuge continua, quindi, a destare forti perplessità: pur senza ricorrere a soluzioni drastiche, come quella di Helmbold 1949, pp. 398399 e di Hutchinson 2006, p. 111 che espungono l’intero distico, il ricorso alla correzione diventa inevitabile. Se, comunque, si resta dell’idea di voler attribuire a coniunx un epiteto che esprima chiaramente l’idea di legittimità, un’alternativa potrebbe essere rappresentata da in apto coniuge (in  apta coniuge Schrader) dei codd. del Passerat. Perché mai, però, Aretusa dovrebbe avvertire 28 29

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magnus, sed † aperto † in coniuge maior: / hanc Venus ut vivat ventilat ipsa facem – ricomparirà con frequenza nelle Heroides 30; da parte sua, Laodamia rivendica il proprio stato di uxor nel v. 30 pectora legitimus casta momordit amor, in cui spetta a un termine giuridicamente connotato come legitimus il compito di rendere esplicita la validità ufficiale del rapporto con Protesilao. Strettamente connessa con tale motivo di fondo è l’accusa, piú o meno esplicita, della mancata osservanza dei doveri morali e sociali di vir, inclusi quelli di padre, che compare non di rado nella raccolta epistolare ovidiana 31.

l’esigenza di metter in luce la supremazia dell’amore verso il consorte legittimo su altri tipi di amore? Non è affatto conveniente che una matrona prenda in considerazione in una ideale scala di valori anche quello tra gli adulteri, mentre sarebbe piú logico ritenere che Aretusa mettesse in risalto, con un ennesimo riferimento al motivo dell’assenza di Licota, che la passione è piú forte quando il marito è lontano. Del resto, già in 2,33,43-44 semper in absentis felicior aestus amantis: / elevat assiduos copia longa viros Properzio aveva sostenuto che l’assenza e il distacco alimentano la passione amorosa. In tale prospettiva rientrano le correzioni deserta in (Burman), rapto (Hoeufft; rapto in Schippers) e adempto (di un anonimo citato da Hoeufft); in favore di rapto, accolto da Heyworth nella sua edizione oxoniense, sono le attestazioni di rapere per esprimere l’idea di un’improvvisa assenza o privazione dell’essere amato: cfr. e.g. 1,4,25-26 non ullo gravius temptatur Cynthia damno / quam sibi cum rapto cessat amore deus (analogo è l’uso di abreptus in 1,13,1-2 tu quod saepe soles, nostro laetabere casu, / Galle, quod abrepto solus amore vacem); Ov. Trist. 3,3,52 non tibi nunc primum, lux mea, raptus ero. Spesso, poi, rapere, abripere o eripere, sin da Catull. 68, 106-107 ereptum ... coniugium, sono utilizzati in contesti poetici con coniunx e coniugium: cfr. i loci similes raccolti da Navarro Antolín 1996, nel commento a Lygd. 2,4 erepta coniuge e la bibliografia citata da Fedeli ad 2,8,29 abrepta ... coniuge (sull’uso elegiaco di coniunx, impiegato prevalentemente in contesti epici, cfr. le dettagliate statistiche di Navarro Antolín 1996, pp. 141-142 a Lygd. 1,2627). Non si tratta, però, di una congettura palmare, perché paleograficamente piú plausibile è adempto, accolto da Goold, che è difeso da Ov. Her. 8,19 nuptae ...ademptae; 101-102 coniunx ... ademptus erit e 13,95 virum ... ademptum. Tuttavia, la certezza dell’esistenza di una corruttela, che non può essere sanata in modo sicuro, suggerisce di ricorrere alle cruces. 30  Si rinvia e.g. a 1,83-84 increpet usque licet-tua sum, tua dicar oportet; / Penelope coniunx semper Ulixis ero; 5,157-158 sed tua sum tecumque fui puerilibus annis / et tua, quod superest temporis, esse precor!; 6,43-44 non ego sum furto tibi cognita; pronuba Iuno / adfuit et sertis tempora vinctus Hymen; 8,7-8 ‘quid facis, Aeacide? Non sum sine vindice,’ dixi: / ‘haec tibi sub domino est, Pyrrhe, puella suo!’. 31 Cfr. e.g. 1,108 nunc erat auxiliis illa tuenda patris; 2,31-34 iura fidesque ubi nunc, commissaque dextera dextrae,/ quique erat in falso plurimus ore deus? / promissus socios ubi nunc Hymenaeus in annos, / qui mihi coniugii sponsor et obses erat?; 6,111112 vir meus hinc ieras: cur non meus inde redisti? / sim reducis coniunx, sicut euntis eram! e Rosati 1992, pp. 83-84.

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La coscienza della legittimità del rapporto con Licota ha un risvolto amaro, perché costringe Aretusa a ricordare il matrimonio, che, reso imperfetto dall’omissione dei sacrifici previsti dal cerimoniale, è coinciso con l’inizio della sua infelicità per la forzata separazione dal marito. La simultaneità dei due momenti (matrimonio e lacerante distacco dal marito) si configura come una raffinata allusione al mito di Protesilao a Laodamia: abbandonata dal marito in guerra appena dopo le nozze, Aretusa si rappresenta allo stesso modo di Laodamia, vittima, subito dopo le nozze, di un analogo destino, a causa della partenza di Protesilao per Troia; se già nella ripresa catulliana del celebre mito 32 compariva il motivo del matrimonio reso imperfetto dall’omissione dei sacrifici previsti dal cerimoniale, la versione properziana accentua l’aspetto negativo del carattere ‘irrituale’ delle nozze di Aretusa, grazie alla rappresentazione ‘sub specie mortis’ delle fasi della cerimonia nuziale 33. Caratterizzato dallo spostamento dal paradigma delle nozze a quello dei funerali (fiaccole nuziali / fiaccole del rogo funebre; grido nuziale / lamento; divinità o ruoli cerimoniali del matrimonio / divinità ctonie), il motivo del matrimonio funesto, ampiamente attestato in poesia sin da Eschilo (Ag. 748 34), Sofocle (Ant. 810-816) ed Euripide (Tro. 308-340), diverrà topico nelle Eroidi ovidiane: in 6,43-46 è la tristis e sanguinolenta Erinys a portare le infaustae faces di Ipsipile; in 11,103-106 Canace, da un lato con toni accorati esorta Imeneo a mettere da parte le faces maritae, dall’altro ingiunge alle atrae Erynes di portare le fiaccole per dar fuoco al suo rogo funebre; in 12,139-140 alle orecchie di Medea le melodie nuziali che allietano le nozze di Giasone e Creusa, evocano suoni piú lamentosi di quelli prodotti da una funerea tuba 35: è la condizione stessa delle protagoniste ovidiane, del resto, a determinare il frequente ricorso al motivo del ‘matrimonio funesto’, perché la maggior parte delle scriventi già conosce l’esito infelice del proprio amore. 32  Cfr. c. 68, 75-76 nondum cum sanguine sacro / hostia caelestes pacificasset eros e Kroll 1923, pp. 229-230. 33  Sul tema del ‘matrimonio funesto’ si sofferma Barchiesi 1992, pp. 162-163. 34  Cfr. il commento di Fraenkel 1950, pp. 345-346. Sulla commistione matrimonio / morte si rinvia al saggio di Rehm 1994 e, per ulteriori approfondimenti, a Seaford 1987, pp. 106-130 e a Fulkerson 2005, p. 82. 35 Le attestazioni sono tratte dall’ampia casistica citata da Piazzi 2007, pp. 216-217.

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L’acquisita consapevolezza da parte di Aretusa che il suo è stato un rito nuziale imperfetto è suggellata dall’abl. assoluto non comitante deo 36, che denuncia lapidariamente l’assenza del dio Imene alle nozze; anche in Her. 14,27 vulgus ‘Hymen, Hymenaee!’ vocant. fugit ille vocantis Imeneo fugge dal matrimonio delle Danaidi per evitare di assistere all’eccidio che le spose stanno per compiere, mentre in Met. 6,428-429 non pronuba Iuno, /   n o n   H y m e n a e u s   a d e s t ,   non illi gratia lecto l’infausta assenza del dio alle nozze di Tereo e Procne sarà causa delle tremende sciagure familiari. Nella riscrittura ovidiana del mito di Laodamia gli auspici sinistri rattristano il momento della partenza di Protesilao (Her. 13,87-88 cum foribus velles ad Troiam exire paternis, / pes tuus offenso limine signa dedit); non sorprende, allora, come su tali omina si concentri l’azione di Laodamia, che tenta ripetutamente di stornarli con atti espiatori (vv. 89-90 ut vidi, ingemui, tacitoque in pectore dixi: / ‘signa reversuri sint, precor, ista viri!’; 112-114 nulla caret fumo Thessalis ara meo;  / tura damus lacrimamque super, qua sparsa relucet, / ut solet adfuso surgere flamma mero). Anche Aretusa compie i sacrifici di rito per propiziare il ritorno del marito (vv. 57-62), ma le sue parole danno risalto solo alla devota ritualità, con cui cerca di garantirsi il favore degli dèi e all’attenzione nell’interpretare taluni segni premonitori; sulla scena properziana, dunque, non grava l’atmosfera segnatamente ominosa, che fa da sfondo, invece, alla gestualità apotropaica di Laodamia, destinata – lo sa bene lettore – a rimanere inefficace. Il timore e l’odio per la guerra inducono Aretusa a maledire l’inventor belli: occidat, immerita qui carpsit ab arbore vallum et struxit querulas rauca per ossa tubas, dignior obliquo funem qui torqueat Ocno, aeternusque tuam pascat, aselle, famem! (vv. 19-22). 36 È questa la prima attestazione di comitari nel senso di adesse, favere per indicare il favore divino, come conferma il ThlL III 1813, 15-16. La divinità preposta ai riti nuziali, come è attestato sin da Plaut. Cas. 800, veniva invocata durante la deductio: illuminante, in tal senso è l’ἐγκώμιον di Imene in Catull. 61,1-45 – con l’esaustivo commento di Fedeli 1972, pp. 43-53 – e 62,4-5.

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Le accese imprecazioni 37 colpiscono anche l’arbor 38, che fornisce il materiale da costruzione del vallum: essa, infatti, è connotata da un epiteto (immerita) solitamente riferito all’uomo. La caratteristica ‘contra naturam’ della sciagurata invenzione della guerra scaturisce anche dall’accostamento di carpere – che, nel senso di decerpere è usato solitamente con fruges, fructus – a vallum: dal punto di vista di Aretusa, la singolarità linguistica denuncia l’assurdo comportamento di chi ha preteso di ricavare dall’albero non frutti, ma legname per costruzioni belliche 39. A suggello della maledizione rivolta all’inventor belli, Aretusa ricorre all’exemplum leggendario di Ocno, che visse solo per accumulare ricchezze, poi sperperate dalla moglie, e fu severamente punito negli Inferi per non aver saputo vigilare sulla consorte dissipatrice: la fune che egli intrecciava, infatti, veniva continuamente divorata da un asino 40. Come la punizione di Ocno, an37 Il motivo della maledizione contro un inventor è un topos ben noto: attestato già nella tragedia e nella commedia greca (cfr. e.g. Eur. Hipp. 407–409, Aristoph. Lys. 946; Eubul. Fr. 115,1 sgg. K.-A. e Menand. Fr. 119 K.-A.), in ambito latino, dopo gli esempi comici di Plaut. Maen. 451-452; Naev. Com. 10 R.3 e Aquil. Com. 1-2 R.3, ha la prima occorrenza poetica in Catull. 66,4850, per probabile influsso callimacheo – come aveva notato già Leo 1912, p. 153 – seguito poi dagli elegiaci: per un’esaustiva trattazione del motivo, oltre a Kleingünther 1933, pp. 1-153, cfr. Thraede 1962, pp. 158-186. Nell’esecrazione di Aretusa, l’ottativo occidat – attestato nella poesia augustea solo qui e in Ov.  Met. 7,43, e successivamente in Sen. Thy. 189 e Val. Fl. 7,282 – varia il consueto pereat: cfr. Bömer 1976, p. 209. 38 Alla personificazione dell’arbor concorre anche l’uso del part. pass. con valore attivo (immerita) che non è raro in Properzio; col significato di innoxius (ThlL VII 1,456,41 sgg.), immeritus compare anche in 2,4,3; 2,25,18; 4,4,23; 4,5,16: cfr. Nisbet-Hubbard 1970, pp. 226-222 e Fedeli 2005, p. 161. 39 Il vallum era una palizzata in legno, che, circondata da un fossato, aveva prevalentemente scopo difensivo: cfr. R. Cagnat, Vallum, «Dict. Ant. Grec. et Rom.» V 1919, p. 626 e OLD s.v. vallum [1a]. 40  Tra le opere del pittore Socrate, Plinio (Nat. 35,137) cita un dipinto che raffigura la scena e Plutarco (Mor. 473c) ne attesta la presenza nella celeberrima rappresentazione – opera di Polignoto – dell’oltretomba nella Lesche di Delfi; il dipinto è menzionato anche da Pausania (10,29,1-2), che parla non di un asino, ma di un’asina (Θήλεια ὄνος, forse trasposizione allegorica della moglie di Ocno, secondo Giardini 2003, p. 127 n. 60). La scena compare anche in pitture vascolari, oltre che in affreschi e rilievi, dove l’asino è rappresentato a volte di fronte a Ocno, altre volte alle sue spalle: cfr. W. Felten, Oknos, «Lex. Icon. Myth. Class.» VII 1, 1994, pp. 33-35. Ocno è definito obliquus (l’allitterazione e l’iperbato in obliquo ... Ocno concentrano l’attenzione sullo sfortunato personaggio) o perché nel dipinto di Polignoto era seduto lateralmente alla fune che intreccia (cosí interpretano Butler-Barber, Camps e Richardson) e, conseguen-

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che quella dell’inventor belli non deve avere limiti di tempo: lo fa capire aeternus, che esprime per intero la ferma condanna della guerra inutile e dannosa. L’avversione per la guerra, che rappresenta uno dei temi caratterizzati da «una funzione ideologica centrale nell’opera ovidiana» 41, è presente anche nell’epistola di Laodamia, ma in forma piú sfumata rispetto a quella connotata dall’incisiva fermezza di Aretusa; l’ampliamento argomentativo che al tema riserva Ovidio, infatti, ‘diluisce’ il pathos e la drastica riduzione della prospettiva (la condanna di Laodamia colpisce non la guerra in generale, ma quella di Troia) determina una minore incidenza paradigmatica: Dyspari Priamide, damno formose tuorum, tam sis hostis iners, quam malus hospes eras! aut te Taenariae faciem culpasse maritae, aut illi vellem displicuisse tuam! tu, qui pro rapta nimium, Menelae, laboras, ei mihi, quam multis flebilis ultor eris! (vv. 43-48).

La teatralità del tono di condanna della guerra per antonomasia dà alla scena un’allure melodrammatica, mentre le parole di Laodamia riconducono allo σχετλιασμός contro Paride – l’adulter per eccellenza e il responsabile del casus belli – che apriva la raccolta ovidiana (1,5-6 o utinam tum, cum Lacedaemona classe petebat,  / obrutus insanis esset adulter aquis! ); ma Laodamia non risparmia le sue accuse neanche a Menelao, colpevole di aver coinvolto l’intero esercito greco in un avvenimento che era soltanto privato e familiare 42. La sciagurata confusione tra le tragiche conseguenze nella sfera privata degli affetti familiari e le motivazioni pubbliche della guerra di Troia è espressa dalla ‘iunctura’ flebilis ultor (v. 48): al significato di ‘compassionevole’, temente, anche rispetto all’asino che la rosicchia (Hertzberg e Fedeli), oppure perché inclinato sulla fune che attorciglia (cfr. ThlL IX 2,78 obliquo ... Ocno ‘i. proclinato’), come ritiene Rothstein, con il rinvio a Iuven. 9,145 curvus caelator e a Lucian. Somn. 13 κάτω νενευκὼς ἐς τὸ ἔργον. 41 Sono parole di Rosati 1991, p. 103, che non manca di sottolineare come tale tema abbia un ruolo decisivo nell’ ‘elegiaco’ carme 68 di Catullo (vv. 89 sg.), in cui, non a caso, proprio il mito di Laodamia riveste un’importanza determinante. 42  Lo sottolinea Brescia 1996, p. 41.

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‘triste’, infatti, flebilis assomma quello ‘attivo-causativo’ (= ‘che provoca pianto’ 43). Anche quando Aretusa manifesta il timore che l’armatura possa danneggiare le delicate membra del marito, il motivo reale che la induce a formulare le domande incalzanti, è il sospetto di un tradimento; se poi, come le è stato riferito, Licota è pallido ed emaciato, spera proprio che ciò dipenda dalla nostalgia per lei, piuttosto che – si capisce bene anche se non è detto esplicitamente – da una assidua attività sessuale: dic mihi, num teneros urit lorica lacertos? num gravis imbellis atterit hasta manus? haec noceant potius, quam dentibus ulla puella det mihi plorandas per tua colla notas! diceris et macie vultum tenuasse: sed opto e desiderio sit color iste meo (vv. 23-28).

Si tratta, dunque, di una vera e propria scenata di gelosia, che colloca Aretusa allo stesso livello dell’innamorato elegiaco, perpetuamente assillato dal sospetto di tradimento 44. In precedenza nei versi properziani la gelosia che fa soffrire la donna caratterizza solo Cinzia e soltanto nei pochissimi casi in cui il poeta le concede di parlare (esemplare è quello di 1,3,43-44): di contro è ovvio che il personaggio delle Eroidi ovidiane soffra spesso di gelosia, perché per statuto letterario colei che scrive si considera abbandonata o tradita 45. Il timore del tradimento aumenta a dismisura se, come nel caso di Licota, la persona amata è lontana: allora al paventato rischio si aggiunge l’impossibilità di vigilare personalmente sull’al  Cfr. Roggia 2011, p. 125.  Numerosissimi sono gli esempi che attestano la topica gelosia del poeta elegiaco verso la donna amata: in Properzio cfr. e.g. 1,11,7-8. 13-16; 2,6,7-14; 2,19,16. 27-28. 32; 2,29,23-24; 2,32,17; in Tibullo, 1,6,5-8; tra le Eroidi ovidiane si rinvia in particolare a 16,215-228, dove Paride, che interpreta alla perfezione il ruolo dell’amante elegiaco, descrive minuziosamente la sua profonda gelosia nei confronti di Menelao, il quale, sebbene rusticus e beffato, può legittimamente godere delle grazie di Elena; in Her. 20,135-148 anche Aconzio esprime con accenti fortemente patetici la sua gelosia, che – con un’oratio ficta caratterizzata dalle incalzanti interrogative – lo induce a rivolgersi imperiosamente agli altri uomini per dissuaderli dal corteggiamento della sua Cidippe. 45 Cfr. Her. 1,75-76; 2,103-104; 3,114; 5,3 (con Barchiesi ad loc.); 59-60; 6,79-82; 7,17-18; 9,47-48; 17,95-96; 19,101-104. 115-118 (con Rosati ad loc.). 43 44

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trui fedeltà. Posto in incipit del v. 25, il deittico riassume i pericoli che, nel distico precedente Aretusa temeva per il marito; ora, invece, ai suoi occhi quegli stessi pericoli appaiono come il male minore rispetto a un insopportabile tradimento, che potrebbero denunciare i segni lasciati dalla puella sul collo di Licota 46: indizi evidenti dell’oltraggiata fides coniugale, essi sarebbero per lei fonte di lacrime 47, anzi, come fa capire plorare, di quel pianto disperato e privo di ritegno 48, che è tipico soprattutto delle donne: non a caso altrove Properzio si serve di plorare per definire il pianto implorante degli amanti 49. Sebbene il motivo della gelosia fosse presente nella versione preneoterica del mito 50, il processo ovidiano di riformulazione ‘ironicamente tragica’ del modello impedisce che Laodamia sia assillata dai dubbi di infedeltà da parte di Protesilao, la cui precipitosa partenza non è stata frutto di una scelta personale, ma dell’imposizione da parte di altri (cfr. v. 9 raptus es hinc praeceps). Nell’epistola di Aretusa non manca il riferimento alle notti insonni: at mihi cum noctes induxit vesper amaras, si qua relicta iacent, osculor arma tua (vv. 29-30). 46 L’espressione per tua colla del v. 26 fa pensare a lividi lasciati su tutto il collo. 47 Nell’espressione mihi plorandas ... notas, come giustamente intendono nelle note di commento Rothstein 1924 e Camps 1965, mihi va collegato a plorandas, non a det. 48   Cfr. OLD s.v. ploro [1a] e [2a] ed Ernout-Meillet 1959, p. 516, s.v. ploro. 49 Cfr. e.g. 2,14,14 e 3,12,1. 50  Poiché, come si è visto, Aretusa sembra assimilare la propria situazione a quella di Laodamia, è interessante il parallelo che Alfonsi 1958, p. 357 istituisce tra i vv. 23-28 con alcuni frammenti della Protesilaudamia di Levio; in particolare in 18,23-28 M. aut / nunc   q u a e p i a m   a l i a   te   p u e l l a / Asiatico ornatu affluens / aut Sardiano aut Lydio / fulgens decore et gratia / pellicuit, compare il tema della gelosia, come in Prop. 4,3,25-26 e l’indeterminatezza dell’espressione quaepiam alia puella nel frammento leviano sarebbe riflessa nella ‘iunctura’ ulla puella di 4,3,25. I motivi della macies e del color, oltre all’uso del costrutto di e + ablativo, in Laev. 17 M.   g r a c i l e n t i c o l o r e m / dum ex hoc   g r a c i l a n s   fit, inoltre, troverebbero riscontro in Prop. 4,3,27-28. Tuttavia, se da un lato tali consonanze tematiche permetterebbero di scorgere nell’opera di Levio un antecedente prezioso di 4,3 e delle Heroides ovidiane, dall’altro l’ampia diffusione dei motivi del pallore, della magrezza e della gelosia dell’innamorato elegiaco e lo stato frammentario dell’opera di Levio rendono difficilmente dimostrabile un rapporto diretto di Properzio con il poeta preneoterico.

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L’insonnia causata dai momenti di profonda tristezza, di dubbio angoscioso o dalla certezza del tradimento, è un motivo ricorrente nelle rappresentazioni dell’amore sin da Platone 51, che tra le tematiche properziane ha una stabile sede, come si intuisce dalla sua presenza già nel carme programmatico che apre la Monobiblos 52: amarae sono le notti di Aretusa senza Licota, come quelle trascorse in assenza della persona amata da Properzio (1,1,33; 2,17,3-4), da Tibullo (2,4,11) e dalla Medea ovidiana (Ov. Her. 12,169). Nel v. 29 il vesper prelude alla nox e l’insistenza sulla coordinata temporale fa capire che per Aretusa l’amarezza della solitudine si ripropone ogni notte con dolorosa monotonia. Se, poi, spera ardentemente che Licota senta nostalgia di lei (vv. 27-28 (sed   o p t o  / e desiderio sit color iste meo), il suo desiderio del marito lontano è reale e si manifesta nei baci alle armi da lui lasciate, quasi fossero un suo simulacro (v. 30). Dell’immagine struggente di baciare oggetti appartenenti alla persona amata si ricorderà Ovidio in Her. 19,31-32 quid referam quotiens dem vestibus oscula, quas tu / Hellespontiaca ponis iturus aqua?, dove Ero bacia le vesti di Leandro e in Met. 4,117 dedit oscula vesti, in cui Piramo bacia il velo di Tisbe creduta morta. In Her. 10,53-54 Arianna si limita a sfiorare le impronte del corpo di Teseo impresse sul letto ancora tiepido. Piú complesso è il caso di Laodamia che venera l’effigie in cera di Protesilao quando ancora il marito è in vita: dum tamen arma geres diverso miles in orbe, quae referat vultus est mihi cera tuos; illi blanditias, illi tibi debita verba dicimus, amplexus accipit illa meos. crede mihi, plus est, quam quod videatur, imago; adde sonum cerae, Protesilaus erit. hanc specto teneoque sinu pro coniuge vero, et, tamquam possit verba referre, queror (vv. 151-158).

51 Attestato in Phaedr. 251e, il motivo compare poi in Theocr. 10,10; 30,5 sgg. e AP 5,166: cfr. il commento di Pease a Verg. Aen. 4,5 e 9 e i numerosi ‘loci similes’ registrati da McKeown in quello ad Ov. Am. 1,2,1-4. 52  Cfr. 1,1,33 in me nostra Venus noctes exercet amaras, in cui l’insonnia è chiaro sintomo di un amore infelice perché non corrisposto.

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Si capisce, infatti, che «le esigenze poste dal genere letterario modificano [...] le linee tradizionali del mito, e impongono alla sposa fedele di venerare il ritratto del marito ancor prima della sua morte» 53. La Laodamia ovidiana insiste sull’aspetto patetico che connota il motivo dell’assenza e del ricorso all’imago, fino a pervenire a un esito che sfiora il manierismo: se, infatti, Aretusa cerca di colmare l’assenza del marito dapprima baciando le sue armi, poi consentendo alla sola cagnetta Craugide di occupare la parte del letto lasciata vuota da Licota (vv. 55-56 Craugidos et catulae vox est mihi grata querentis; / illa tui partem vindicat una toro), Ovidio si spinge a tal punto nell’ ‘umanizzazione’ dell’imago cerae, che essa potrebbe essere un perfetto Protesilao, se fosse provvista di voce (vv. 155-156) 54. Nonostante la gelosia che rende insonni le lunghe notti d’attesa, a differenza dell’innamorato elegiaco, Aretusa proprio non riesce a restare afflitta e inoperosa nel letto e da brava matrona, confeziona vestiti militari per il marito. È proprio il ruolo di moglie, allora, a permettere ad Aretusa di riformulare il motivo elegiaco dell’insonnia, perché le notti insonni e fredde non trascorrono invano, ma sono impiegate per confezionare indumenti utili per chi combatte in terre lontane: noctibus hibernis castrensia pensa laboro et Tyria in chlamydas vellera secta suo (vv. 33-34).

La filatura e la tessitura, compiti solitamente riservati alle ancelle 55, rappresentano le attività domestiche per antonomasia; il paradigma letterario è naturalmente quello della Penelope omerica, che fa da sfondo anche al modello sociale della matrona romana domiseda e lanifica 56, secondo il ben noto archetipo antropologico romano 57. A tale modello si ispirano sia Properzio (3,6,15-18),   Le osservazioni sono di Bettini 1992, p. 13.   Diverso è l’atteggiamento di Didone, che in Aen. 4,494-498, ingiunge ad Anna di distruggere sul rogo ogni segno dell’impius Enea, tra cui anche gli arma ... thalamo quae fixa reliquit. 55  Cfr. e.g. 4,7,41 et graviora rependit iniquis pensa quasillis. 56 Un caso emblematico è rappresentato dalla figura di Claudia in CIL I2 1211,8 domum servavit, lanam fecit e dal personaggio di Lucrezia in Liv. 1,57,9: cfr. Olgivie ad loc. 57  Cfr. Petrocelli 1989, pp. 99-102. 53 54

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quando immagina Cinzia intenta a filare nell’atrio, sede del focolare domestico, sia Tibullo, che in 1,3,83-90, dopo aver raccomandato a Delia di serbarsi casta, la esorta a dedicarsi instancabilmente all’attività della filatura. Il diverso atteggiamento di Laodamia, che consuma inoperosa il giorno e la notte nel ricordo del marito (vv. 101-106), deriva sia da motivazioni intrinseche alle vicende personali (Aretusa è abituata alle assenze di Licota: cfr. v. 2 cum totiens absis; Laodamia è alla sua prima – e fatale – separazione 58), sia dalla dimensione ‘letteraria’ delle due figure femminili: la solerte laboriosità di Aretusa le consente di rendersi utile e di instaurare un rapporto anche a distanza con il marito lontano; per parte sua, Laodamia, che non va oltre le raccomandazioni, rimane confinata in una dimensione di pura letterarietà. Tuttavia, neanche le attività tipicamente femminili, a cui si dedica durante le notti insonni, riescono a lenire il dolore di Aretusa, perché il desiderio di condividere, sia pure idealmente, lo spazio di Licota, la spinge a conoscere meglio i luoghi che costituiscono gli scenari di guerra in cui egli si trova, anche attraverso la loro localizzazione su carte geografiche e cosmografiche: et disco, qua parte fluat vincendus Araxes, quot sine aqua Parthus milia currat equus; cogor et e tabula pictos ediscere mundos, qualis et haec docti sit positura dei, quae tellus sit lenta gelu, quae putris ab aestu, ventus in Italiam qui bene vela ferat (vv. 35-40).

Il polisindeto (v. 34 et ... suo; v. 35 et disco; v. 37 cogor et ... ediscere e v. 38 qualis et ... sit) scandisce le fasi delle diverse occupazioni che testimoniano l’obsequium di Aretusa nei confronti del marito; al tempo stesso la lettura delle carte geografiche – impegno inconsueto per una donna romana – è il modo con cui la moglie cerca di inserirsi nello stesso spazio del marito, nonostante la considerevole distanza che da lui la separa; in tale prospettiva, cogor (v. 37), fa capire come Aretusa sia costretta a leggere le carte geografiche dal desiderio di ‘seguire’ il marito in terre lontane 59.   Cfr. Landolfi 2000, p. 172.   Fin dal lamento dell’Arianna catulliana (64,195-197 meas audire querellas, / quas ego vae misera extremis proferre medullis / cogor inops, ardens, amenti caeca furore: cfr. Fordyce 1961, p. 302 e Tränkle 1960, p. 27) cogor è detto dell’innamorato 58 59

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Nel menzionare i luoghi in cui egli si trova, Aretusa appare costantemente assillata dal timore della guerra: lo si capisce dal modo in cui, nel v. 35, si sofferma a parlare dell’Arasse, che sembra connotato da una duplice natura, perché fluat definisce il naturale movimento del corso d’acqua, vincendus lo presenta come un nemico da sbaragliare 60. Allo stesso modo, l’interesse di Aretusa per il Parthus ... equus 61 tradisce la sua preoccupazione dei nemici di Licota e dei Romani. Quando, poi, Aretusa vuole con maggiore esattezza le regioni oppresse da climi impossibili, il suo atteggiamento denuncia l’apprensione per Licota, costretto a sopportare i gravi disagi di quelle temperature; non a caso, subito dopo, l’interesse di Aretusa si concentra sul vento favorevole per ricondurre a Roma la flotta augustea 62. L’opposizione vento favorevole / vento contrario è un tema ricorrente nell’intera epistola ovidiana 63, sin dalle prime battute di Laodamia. Le sue parole, infatti, segnalano subito la difformità tra le ‘ragioni del vento’ favorevole ai naviganti, e quelle degli innamorati, il cui odioso distacco è agevolato proprio dal vento: cfr. vv. 9-10 raptus es hinc praeceps et qui tua vela vocaret, / quem cuperent nautae, non ego, ventus erat, in cui alla successione ego, ventus, collocata all’inizio del secondo emistichio del pentametro, spetta il compito di segnalare il conflitto tra le due sfere d’azione. Il vento che, spirando contrario, al momento della redazione dell’epistola blocca la flotta dei Greci in Aulide, si è reso colpevole anche di aver troncato bruscamente le raccomandazioni di Laodamia 64. Il motivo dell’addio costretto a subire la dura imposizione del destino. Properzio lo usa piú frequentemente nel I libro, meno in quelli successivi: cfr. Fedeli 1980, p. 71; Fedeli 1985, p. 608 e Newman 1997, p. 409. 60  L’Arasse è ricordato anche in 3,12,8 potabis galea fessus Araxis aquam, nel monito rivolto da Properzio a Postumo, che ha deciso di partire in Oriente nella spedizione di Augusto, abbandonando a Roma l’amata Galla, e sarà costretto a bere dal proprio elmo l’acqua dell’Arasse. 61 Nel v. 36 la correzione eques dello Scaligero mal si concilia con currat e  sine aqua. Sulla cavalleria partica, oltre a Herod. 7,40 e Strab. 11,13,7, cfr. Goldsworthy 1996, pp. 60-68. 62   Cfr. Dee 1974, p. 89. 63 Accurate osservazioni su tale motivo sono in Roggia 2011, p. 82 e p. 92. 64 Sul motivo dell’ereptum coniugium, che ritorna anche nell’epistolografia dell’esilio, in particolare in Trist. 1,3, si rinvia alla ben documentata analisi di Rosati 1999, pp. 791-792.

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precipitoso, che non compare nell’epistola di Aretusa, oltre a connotare ancor piú pateticamente la psicologia di Laodamia già incline al sentimentalismo, raffigura la motivazione di fondo della Schreibsituation, perché la necessità di perfezionare con ulteriori mandata quei verba imperfecta è l’argomento a fortiori dell’epistola ovidiana. Se poi, dall’appello con cui Laodamia chiede a Protesilao di far svanire nei venti il timore sulla sua incolumità (vv. 91-92 haec tibi nunc refero, ne sis animosus in armis;  / fac meus in ventos hic timor omnis eat), si percepisce che nonostante tutto l’eroina spera ancora in un’alleanza dei venti, la sua preoccupazione di un loro nuovo e devastante intervento riaffiora da un’ampia sezione dell’epistola, in cui l’espressività che deve evocare l’intensa trepidazione viene nobilitata dalla trama allusiva di chiara ascendenza oraziana (Epod. 7,1 quo quo scelesti ruitis?): Sed cum Troia subit, subeunt ventique fretumque; spes bona sollicito victa timore cadit. hoc quoque, quod venti prohibent exire carinas, me movet-invitis ire paratis aquis. quis velit in patriam vento prohibente reverti? a patria pelago vela vetante datis! ipse suam non praebet iter Neptunus ad urbem. quo ruitis? vestras quisque redite domos! quo ruitis, Danai? ventos audite vetantis! non subiti casus, numinis ista mora est (vv. 123-132).

Non sempre, però, il ruolo di moglie preserva Aretusa dalle angustie, perché in alcune circostanze sono proprio i doveri di matrona romana a costituire un ostacolo insormontabile al suo desiderio di trovarsi con il marito sul campo di battaglia e la distanza da Licota rimane incolmabile, per chi, come lei, è estranea al mondo della guerra: da tale consapevolezza scaturisce il makarismós della regina delle Amazzoni, che, invece, poté indossare le armi e combattere: felix Hippolyte! nuda tulit arma papilla et texit galea barbara molle caput. Romanis utinam patuissent castra puellis! essem militiae sarcina fida tuae, nec me tardarent Scythiae iuga, cum Pater altas astrictam in glaciem frigore vertit aquas (vv. 43-48).

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Lo sfogo di Aretusa mira a esaltare la contrapposizione tra le donne romane e quelle dei luoghi in cui si trova Licota; almeno fino al termine dell’età repubblicana, infatti, era ritenuto disdicevole a Roma che le mogli degli ufficiali seguissero in guerra i propri mariti e ne condividessero la vita nei castra 65. Se le fosse concesso di penetrare nell’accampamento di Licota, sia pure con le degradate sembianze di una sarcina fida, Aretusa sarebbe disposta a sfidare le proibitive condizioni meteorologiche di quei luoghi lontani. Il topos delle avversità atmosferiche che l’amante elegiaca non teme di affrontare, pur di rimanere accanto all’amato, compariva già in 1,8,7-8 tu pedibus teneris positas fulcire pruinas, / tu potes insolitas, Cynthia, ferre nives, a proposito di Cinzia, caparbiamente decisa a seguire in terre lontane l’amante di turno. Là il modello era costituito dal celebre contesto virgiliano di Buc. 10,22-23 “Galle, quid insanis?” inquit, “tua cura Lycoris / perque nives alium perque horrida castra secutast e 46-49 tu procul a patria, nec sit mihi credere tantum! /Alpinas, a! dura nives et frigora Rheni / me sine sola vides. A! te ne frigora laedant! / a! tibi ne teneras glacies secet aspera plantas 66; nell’epistola di Aretusa il motivo è ulteriormente rivisitato grazie alla prospettiva tutta femminile della situazione comunicativa: qui la donna innamorata non è piú l’amante elegiaca, ma la moglie legittima, che mette in evidenza quali disagi sia disposta a sopportare, pur di raggiungere il suo uomo in quelle terre inospitali. Analogo è il caso della Fedra senechiana, che, nell’omonima tragedia (vv. 233-235 hunc in nivosi collis haerentem iugis, / et aspera agili saxa calcantem pede / sequi per alta nemora, per montes placet), vorrebbe seguire Ippolito scalando montagne nevose. Properzio, dunque, riformula un topos di genere, quello del contrasto tra due scelte di vita – l’amore e la guerra – che nell’ambito della poesia elegiaca viene solitamente rappresentato con il ricorso «all’immagine (resa celebre dalla Fedra euripidea, e destinata a grande fortuna nella poesia d’amore) della donna che affronta le fatiche fisiche e le asprezze della natura per seguire l’amato nella caccia». Lo schema properziano viene ripreso   Cfr. Phang 2001, pp. 24-29.   Lo ha sottolineato con accurate osservazioni Fedeli nel suo commento ad loc. 65 66

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e sfumato da Ovidio nei vv. 137-144, ma la maggiore pacatezza emotiva non rende meno accorati gli accenti; «l’opposizione radicale che ‘il motivo di Fedra’ porta in se stesso [...] si stempera qui in una pacifica conciliazione delle due sfere [...] e l’incontro fra gli amanti diventa possibile non per ‘avanzamento’di lei – la soluzione ‘eroica’ di Fedra – ma per ‘arretramento’ di lui» 67. La totale abnegazione di Laodamia, che deriva essenzialmente dal suo suolo di comes fedele, riaffiora nella conclusione dell’epistula (v. 161 me tibi venturam   c o m i t e m ,   quocumque vocaris), in cui le parole cruciali della donna sono connotate da un forte presagio di morte. Sarà lo stesso ruolo di donna fedele e devota, anche al di là della morte che, presente già in Prop. 1,19,7-10, caratterizza costantemente il personaggio di Laodamia in Ovidio, dalla prima produzione erotica (Am. 2,18,38 e Ars 3,17-18) sino alla poesia dell’esilio (Trist. 1,6,20 e Pont. 3,1,109-110). Aretusa a Laodamia sono accomunate anche dal disinteresse per la propria persona, che induce la prima ad esclamare, con amara ironia: nam mihi quo Poenis nunc purpura fulgeat ostris crystallusque meas ornet aquosa manus? (vv. 51-52).

Dal distico dipende Ov. Her. 13,31-32 nec mihi pectendos cura est praebere capillos, / nec libet aurata corpore veste tegi e 37-40 scilicet ipsa geram saturatas murice vestes, / bella sub Iliacis moenibus ille gerat? / Ipsa comas pectar, galea caput ille prematur / Ipsa novas vestes, dura vir arma ferat? ; le osservazioni accorate di Laodamia enfatizzano il motivo del disprezzo del cultus personale e ancora una volta esasperano il modello, perché «al secco rifiuto dell’una si contrappone la prolissità diaristica dell’altra»; Ovidio, infatti, «per enfatizzare lo stato di trascuratezza in cui versa la protagonista della tredicesima Eroide [...] trasforma l’inciso di Aretusa in una sorta di sceneggiatura tragica in bilico fra registro diegetico e registro mimetico» 68. Laodamia si mostra continuamente in bilico fra gli opposti sentimenti di spes e timor, che «scandiscono un’attesa disperata» 69   Le citazioni sono tratte da Rosati 1991, p. 112.   Sono parole di Landolfi 2000, p. 173. 69  Cfr. Roggia 2011, p. 28. 67 68

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e la spingono a dettare a Protesilao una strategia di sopravvivenza, dal carattere marcatamente autoreferenziale (la salvezza del marito è la condizione necessaria della sua stessa esistenza). La dettagliata precettistica (vv. 63-84; 97-102) trae spunto dal precedente properziano nelle battute conclusive dell’epistola, in cui Aretusa torna a rivolgersi direttamente a Licota e, con accenti accorati, lo supplica di non cedere al fascino accattivante della gloria militare: ne, precor, ascensis tanti sit gloria Bactris, raptave odorato carbasa lina duci, plumbea cum tortae sparguntur pondera fundae, subdolus et versis increpat arcus equis! sed (tua sic domitis Parthae telluris alumnis pura triumphantis hasta sequatur equos) incorrupta mei conserva foedera lecti! (vv. 63-69).

L’atteggiamento patetico di Aretusa ha il suo archetipo letterario nelle parole dell’Andromaca omerica (Il. 6,407 δαιμόνε, φθίσει σε τὸ σὸν μένος); Properzio, tuttavia, aveva già utilizzato il motivo nell’analogo rimprovero mosso a Postumo (3,12,9-10 illa quidem interea fama tabescet inani / haec tua ne virtus fiat amara tibi; 13 neve aliquid de te flendum referatur in urna); allo stesso ambito appartiene la piú attenuata richiesta di Ero a Leandro in Ov. Her. 19,87-88 sic tu temerarius esto,  / ne miserae virtus sit tua flenda mihi. Il tono patetico dell’apostrofe di Aretusa è accresciuto dalla presenza di precor, che colloca in stretta relazione comunicativa la donna e il suo destinatario, secondo un espediente retorico che diverrà frequente nelle Heroides ovidiane 70. Nella conclusione dell’elegia l’espressione foedera lecti (v. 69) permette di conciliare le caratteristiche differenti della relicta properziana, che si colloca a metà strada tra la figura della puella elegiaca e quella della legittima consorte. A prima vista, infatti, può sembrare sorprendente che una moglie legittima impieghi un termine come foedus, che riconduce al motivo del patto d’amore tra gli innamorati; se, tuttavia, si considera che foedus ha una valenza specifica tanto nel lessico erotico, quanto in quello relativo all’unione coniugale, si

70 Cfr. e.g. 3,125; 7,63. 163; 8,29; 11,122; 17,111; 19,188; 21,58 e il commento di Michalopoulos 2006 ad Her. 16,11-12.

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capisce che l’anfibologia semantica esprime al meglio la complessa natura di chi, come Aretusa, pur trovandosi in una condizione legalmente formalizzata, piú volte nel corso della sua epistola, come si è visto, ha mostrato atteggiamenti tipici dell’innamorato elegiaco. Nell’apostrofe di Laodamia a Protesilao il modello dell’Andromaca omerica è trasfigurato dalla riformulazione elegiaca, che filtra, accantonandoli, i caratteri epici 71. Con i suoi mandata Aretusa si limitava a esortare Licota a non assecondare troppo il proprio desiderio di gloria; il protrettico di Laodamia, che non prevede alcuna concessione al valore militare, traccia un divario incolmabile tra le ragioni della guerra e quelle dell’amore. Protesilao dispone di una minuziosa precettistica che lo mette al riparo dai pericoli dell’aristeia e sponsorizza la viltà, perché è l’unica garanzia per poter tornare incolume all’amore della sua domina (cfr. vv. 75-76 tu tantum vivere pugna / inque pios dominae posse redire sinus!), che ‘elegiacamente’ lo attende. 5.  Nonostante i debiti evidenti che l’elegia di Aretusa contrae con la poesia elegiaca, il ruolo centrale riservato a una donna sposata, la dimensione autoreferenziale dell’elegia 4,3 e la funzione ‘autorale’ affidata a una donna, alla quale per la prima volta spetta il compito di sondare la psicologia femminile, fanno di Aretusa un personaggio esemplare del cambiamento di rotta inaugurato da Properzio nel IV libro. L’epistola ovidiana di Laodamia, nel disattivare la carica epica, riconduce paradossalmente la situazione della scrivente a un’atmosfera piú ‘properziana’ e trasferisce una vicenda epicamente connotata nell’alveo dell’elegia 72, con uno sconfinamento che non è privo di contraddizioni: la precettistica antieroica di Laodamia, infatti, restituisce un’immagine 71 A tal proposito si rinvia a Rosati 1991, pp. 113-114: «Come quella di Briseide e di altre sue eroine, l’epistola di Laodamia costituisce un esperimento di Ovidio sull’elegia, sull’interferenza che si genera fra il codice di pertinenza specifica del personaggio (l’epica, la tragedia, la bucolica, e cosí via) e il codice elegiaco che ne reinterpreta la vicenda all’interno della Heroides. Una volta che Laodamia ha abbandonato il mondo omerico per passare in quello della poesia d’amore e in particolare dell’elegia (con Catullo, con Properzio), il suo destino è segnato, e il cammino non è piú percorribile a ritroso: il ‘ritorno’ all’epos conservando la nuova identità elegiaca è un sogno davvero impossibile». 72  Si riprendono qui le osservazioni di Roggia 2011, p. 167.

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di Protesilao che, privato della sua ἀρετή, coincide con quella dell’amante elegiaco: come lui, infatti, l’eroe greco raffigurato nei desiderata della moglie è ostile al mondo della guerra e ai valori bellici e desidera solo rimanere accanto alla donna amata. Anche per questa forma di travestimento elegiaco del mito di Protesilao, Ovidio poteva attingere a Properzio, per il quale è proprio la patetica storia dei mitici sposi a rappresentare il modello codice per esprimere il concetto dell’amore che supera qualsiasi ostacolo, anche la morte. Sin dal primo libro, infatti, la patetica storia di Protesilao e Laodamia costituiva lo sfondo paradigmatico di 1,19,7-10: solo che non a Laodamia, ma all’umbra di Protesilao – che antiquam venerat ... domum per riabbracciare la sposa – Properzio aveva affidato il compito di dimostrare che la potenza di un grande amore traicit et fati litora (1,19,12).

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Alison Keith

Le Puellae nelle elegie di Properzio e le loro omonime nei reperti epigrafici

Sharon James ha dimostrato che la puella dell’elegia latina è una versione della molto apprezzata cortigiana greca che conosciamo attraverso la commedia nuova e l’epigramma ellenistico 1. Sono testi di cui possono disporre sia letteralmente che letterariamente le classi privilegiate dell’antica Roma, in seguito all’espansione dell’impero militare in Grecia. La stessa amante presente nell’elegia deve quindi essere ritenuta un altro bene di lusso importato dall’area orientale del Mediterraneo, come le sete, le gemme e i profumi che vengono da lei solitamente utilizzati 2. È indubbio che a Roma i nomi greci di queste amanti rivelano loro origine straniera e nel primo libro dell’Arte, Ovidio comunica apertamente ai suoi lettori che Roma offre una vasta scelta di donne straniere fra le quali poter scegliere un’amante (Ars 1.171-176): quid, modo cum belli naualis imagine Caesar Persidas induxit Cecropiasque rates? nempe ab utroque mari iuuenes, ab utroque puellae uenere, atque ingens orbis in Vrbe fuit. 175  quis non inuenit turba, quod amaret, in illa? eheu, quam multos aduena torsit amor! 3

1  James 2003. Vorrei ringraziare Professore G. Bonamente e il comitato scientifico per l’invito al convego internazionale. Molte grazie anche a Christer Bruun, Jonathan Edmondson, Allison Glazebrook, Judith Hallett, Sharon James, e Melanie Racette-Campbell. 2  Bowditch 2006, Keith 2008. 3 Ho citato l’Arte e i Remedia di Kenney 1994; gli Amores di McKeown 1987; Properzio di Fedeli 1984; e Tibullo (e Sulpicia) di Lee rev. Maltby 1990.

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102590

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Questa affermazione trova riscontro nelle iscrizioni relative a schiave e a libertae vissute a Roma nella tardo periodo repubblicano e agli inizi di quello imperiale, sulle quali appaiono nomi greci attribuiti dai poeti elegiaci alle loro amanti. Nella Roma classica i nomi erano indubbiamente gli indicatori piú significativi del ceto sociale e la documentazione epigrafica romana dimostra chiaramente l’importanza sia dei nomi greci che di quelli latini per la formazione dell’identità femminile (e maschile) nella prima fase del principato. In uno studio autorevole del 1971 Heikki Solin ha dichiarato che un nome greco indicava un’origine servile di colei che lo portava o della sua antenata piú prossima, anche se non rivela necessariamente la sua nazionalità 4. In questo studio intendo fornire le prove concrete della presenza a Roma all’inizio dell’impero di schiave e liberte che erano chiamate come le celebrate etere della Grecia classica; a questo scopo mi avvalgo di riferimenti testuali ai nomi presenti nelle elegie che abbiamo a disposizione 5. Passo poi ad esaminare la corrispondenza tra i nomi delle puellae dell’elegia latina e quelli che, in base alle testimonianze epigrafiche a nostra disposizione, sono appartenuti a donne schiave e liberate nello stesso periodo a Roma. La mia indagine è tesa a documentare la contemporanea diffusione dei nomi greci delle puellae presenti nelle elegie a Roma nel periodo augusteo, ritenendola il riflesso della conquista romana; infatti, ritengo che l’elegia latina sia strettamente connessa con l’imperialismo romano nella sua celebrazione del bottino sessuale della conquista militare. Solin, nei suoi preziosi tre volumi di nomi (pubblicati rispettivamente nel 2003 e nel 1996), appartenuti a persone greche e a schiave vissute a Roma, raccoglie reperti epigrafici che attestano la presenza di donne aventi i nomi di celebri etere di Roma: Thaide, Cytheride, Laide, Lycoride, e Frine 6. Possiamo intuire il significato attribuito alla specifica origine greca dei nomi di   Solin 1971, pp. 146-158.  Per la cortigiana, v. Henry 1985 e 1995; Davidson 1997; Kurke 2002; McClure 2003; Faraone e McClure 2006; Glazebrook e Henry 2011; anche Griffin 1986, pp. 37-38. 6  Solin 2003, pp. 272-276, § I.8: Thais (2003.272-273), Lais (2003.274), Lycoris (2003.275), e Phryne (2003.276). Solin 1996, pp. 263-264, includa anche Cytheris. 4 5

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le puellae nelle elegie di Properzio

queste famose prostitute dal momento che, come lascia intendere Giovenale, le prostitute provenivano spesso dall’oriente (Juv. 3.62-66): iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes, et linguam, et mores, et cum tibicine chordas obliquas, nec non gentilia tympana secum uexit, et ad Circum iussas prostare puellas.

Thomas McGinn ha raccolto numerose prove dell’importazione a Roma di schiave provenienti dall’area orientale dell’impero destinate alla prostituzione, fenomeno che rivela l’associazione del sesso con i beni di lusso di origine greca 7. Laide è il nome di schiava o liberta che ricorre piú frequentemente per tutta la durata dell’impero romano. Il nome è appartenuto (perlomeno) a due hetaerae greche: alla prima (nata 422 a.C.) fu assegnato il soprannome di ‘La Corinzia’ dopo che il generale ateniese Nicia la portò in questa città greca (Athen. 13.570b.588c; Plut. Nic. 15; Paus. 2.2.5), mentre invece la sua omonima visse in Sicilia a metà del quarto secolo prima di Cristo. Le due cortigiane greche sono entrate presto negli annali della letteratura greca, essendo state ricordate in una serie di epigrammi funerari scritti fra il tardo periodo classico (AP 6.1, da ‘Plato’), all’epoca ellenistica (AP 7.218-219, rispettivamente da Antipatro di Sidone e da Pompeio, entrambi tratti da un ciclo sulla morte di famose cortigiane a AP 7.217-223), fino ad arrivare alla tarda antichità (AP 6.18-20, da Giuliano). A Roma il nome è molto ben conservato nelle epigrafi, che riportano cinquantadue casi di donne schiave e liberate databili ad un periodo compreso fra la tarda repubblica (2) e l’alto impero (6, 150-300 d.C.) 8, per un totale di novantasette attestazioni, di cui il resto comprende donne di imprecisata condizione sociale 9. Inoltre, il numero piú alto di riferimenti a donne schiave e liberate che portavano questo nome si concentra agli inizi dell’epoca imperiale, fra cui cinque risalgono al regno di Augusto 10, quattordici a quelli degli altri imperatori   McGinn 2004, pp. 55-71; cfr. Dalby 2000, pp. 125-33; e Hallett 2011.   Solin 1996, pp. 263-264. 9  Solin 2003, pp. 274-275. 10 Aemiliae l. meae Laini (CIL 6.11038) Aquillia Lais l. (CIL 6.5891); Lais lib. (CIL 6.6038); Lais L.l. (CIL 6.23822); Pollia M.l. Lais (CIL 6.926). 7 8

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della famiglia Giulio-Claudia 11, e altri ventisei piú in generale al primo secolo d.C. 12. Sebbene nessuno dei poeti elegiaci latini attribuisca il nome ad una delle sue puellae, ornatrices, ancillae, o lenae, è certamente significativo il fatto che sia Properzio che Ovidio paragonino le loro amanti a questa nota cortigiana greca. Infatti, nella sua elegia 2.6, Properzio paragona Cinzia a tre delle piú celebri cortigiane greche (2.6.1-6): Non ita complebant Ephyraeae Laidos aedis, ad cuius iacuit Graecia tota fores; turba Menandreae fuerat nec Thaidos olim tanta, in qua populus lusit Ericthonius; nec quae dele[c]tas potuit componere Thebas, Phryne tam multis facta beata uiris.

Ovidio ricorda Properzio quando, parlando di Corinna negli Amores, la paragona a Lais (Am. 1.5.9-12): ecce, Corinna uenit tunica uelata recincta, candida diuidua colla tegente coma, qualiter in thalamos formosa Semiramis 13 isse dicitur et multis Lais amata uiris. 11   Augusto – Nerone: Gallonia L.l. Laais (CIL 6.18874); Lais L. Coponi sarcinatrix (CIL 6.9881); Aemilia P.l. Lais (CIL 6.11105); Sempronia P.l. Lais (CIL 6.11383); Iulia C.l. Lais (CIL 6.33132); Octavia M.l. Lais (CIL 6.35975); Cornelia L.l. Lais (CIL 6.38247); Marcia (mulier).l. Lais (BullCom. 51 [1923(1924)] 120 Nr. 2); Mussia P. et C.l. Lais (Forma Italiae, reg. I, vol. X, Collatia [1974] 345; cfr. Arctos 9 [1975] 101); Pinaria (mulier).l. Lais (NSA 1914, 391 Nr. 59). 1st half 1st c. d.C.: Laidi (CIL 6.14661); [- - - Se]x. (mulier).l. Lainis (CIL 6.21073). Tiberio – Nerone: Iunia (mulier).l. Lais (CIL 6.4504); Antistia (mulier).l. Lais (CIL  6.6672). 12  Secolo 1 d.C.: Herennia (mulier).l. Laeis (CIL 6.28019); Sentiae C.l. Laidi (CIL 6.13572); Iuliae C.l. Laidi (Ineditum aus dem Thermenmuseum); Laini (CIL 6.9807); [- - -] C.l. Laini (NSA 1914, 379 Nr. 8); [Iul]iae D.l. Laini (NSA 1923, 369); Fadena C.l. Lais (CIL 6.17647); Lais (CIL 6.21067); Lais (CIL 6.21068); [- - -]atumennia Gallae l. Lais (CIL 6.21070); [- - -] (mulier).l. Lais (CIL 6.21072); Lais Pothi (CIL 6.21074); Lucretia C.l. Lais nutrix (CIL 6.21661); Manlia L.l. Lais (CIL 6.21978); Orcia A.l. Lais (CIL 6.23575); Pupia (mulier).l. Lais (CIL 6.25238); Servilia M.l. Lais (CIL 6.26444); Sextilia L.l. Lais (CIL 6.26499); Turpilia P.l. Lais (CIL 6.27779); [Fulvia A.]l. Lais (CIL 6.33919); Elctoria Q.l. Lais (CIL 6.37656); Pacilia (mulier).l. Lais (CIL 6.37822 a); Cornelia (mulier).l. Lais (CIL 6.38254); [- - -]a L.l. Lais (AJA 96 [1992] 95 Nr. 12); Lais (NSA 1914, 389 Nr. 41). 13  Per il nome Semiramis, si veda Solin 2003, p. 605: Julio-Claudian: Corneliae Samiramidi (CIL 6.3352); secolo 1 d.C.: Simirami (CIL 6.35751); 50-150 d.C.: Claudiae Samiramidi (CIL 6.15581); secolo 2 d.C.: Ragonia Sameramis (ZPE 125

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Con il raffronto tra le loro amanti e le piú celebri cortigiane della Grecia classica, entrambi i poeti elegiaci latini sembrano farci riflettere condizioni sociali delle loro amanti. Comunque, sorprende il fatto che gli studiosi dell’elegia latina, all’interno delle loro disquisizioni sulla figura della puella nell’elegia, solo raramente abbiano preso in considerazione le testimonianze epigrafiche romane 14. Il secondo nome di cortigiana piú diffuso a Roma fra le schiave e le donne liberate nel primo periodo imperiale era Thaide, appartenuto all’amante di Alessandro il Grande e di Tolomeo Primo 15. È lo stesso del banale personaggio comico della blanda meretrix (cortigiana seduttiva) di Menandro, il quale le ha persino intitolato una commedia (cfr. Prop. 4.5.43); pertanto il suo nome si sente spesso nominare nella nuova commedia grecolatina (cfr., ad esempio, la cortigiana ‘Thais’ nell’Eunuchus di Terenzio) 16. Solin segnala che le iscrizioni epigrafiche romane riportano ventitré esempi di questo nome (su un totale di cinquantasette attestazioni del nome Thaide) 17 e si tratta di donne schiave e liberate 18, vissute in un periodo che va dai regni di Augusto (4) 19 e degli imperatori Giulio-Claudi (11) 20, al resto del primo secolo d.C. (6) 21 fino ad arrivare all’alto impero (2) 22. [1999] 249 Nr. 1); [S]amerami (BullCom. 43 [1915(1916)] 311 = NSA 1916, 99 Nr. 38; cfr. Arctos 11 [1977] 123 = Anal. Epigr. 88). 14 Contra, si veda Boucher 1966; Coarelli 2004; Keith 2008, pp. 86-114; e cfr. McGinn 2004, index s.v. Ovid, Propertius, and Tibullus; e Keith 2011. 15   Per l’attestazione del nome ad Athene, si veda Traill 2001, pp. 289-290. 16  Per il nome nella literatura latina, si veda Traill 2001. 17  Solin 2003, pp. 272-274. 18  Solin 1996, p. 263. 19  Augusto: Grania Q.l. Thaeis (CIL 6.34659); Sutoria M.l. Thais (CIL 6.1892); Servilia Thais l. (CIL 6.26375); Thais Philarguri (CIL 6.32307). 20  Augusto - Nerone: Furia A.(mulier).l. Thais (CIL 6.18822); Iust‹u›leia (mulier).l. Thais (CIL 6.20922); Vipsania M.l. Thais (CIL 6.33281); Thais (CIL 6.22324); Gelliae (mulier).l. Taini (CIL 6.35370); Alliae Thaidi vernae (CIL 6.11495); Antistiae L.l. Thaidi (CIL 6.11938); Thaidi (CIL 6.27317); Herennuleiae Thaidi libertae (CIL 6.35444); Seia Thais (CIL 6.26111). Tiberio - Nerone: Volusia Thais (CIL 6.7323). 21  Secolo 1 d.C.: Larniae C. et Musa[e] l. Thaidi (CIL 6.26008); Avienia Sex. L. Thais (CIL 6.12898); Numiotira (mulier).l. Thais (CIL 6.22292); Sertoria M.l. Thais (CIL 6.26361); Orchivia L.l. Thais (CIL 6.38702); [- - -]a L.l. Thais (AJA 96 [1992] 95 Nr. 12. 22  50-150 d.C.: Taidi (CIL 6.38464); Thaidi lib. (Epigraphica 51 [1989] 237 Nr. 5).

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Il nome Thais compare di nuovo in una concentrazione rilevante all’inizio del periodo imperiale (21 su 23). Come si è visto, Properzio fa riferimento esplicito a Thaide, insieme a Laide e Frine, nell’apertura dell’elegia 2.6; il poeta allude anche alla nuova meretrice comica cosí chiamata nell’elegia 4.5.41-44: nec te Medeae delectent probra sequacis (nempe tulit fastus ausa rogare prior), sed potius mundi Thais pretiosa Menandri, cum ferit astutos comica moecha Getas.

Anche Ovidio cita il nuovo personaggio della cortigiana comica, non negli Amores ma nell’Arte (3.604, ut sis liberior Thaide, finge metus) e nei Remedia amoris (383-386): quis ferat Andromaches peragentem Thaida partes? peccat, in Andromache Thaida si quis agat. Thais in arte mea: lasciuia libera nostra est. nil mihi cum uitta: Thais in arte mea est.

Questi ultimi tre riferimenti (Prop. 4.5.43; Ov. Ars 3.604, Rem. 383-6) collocano la figura della dispendiosa cortigiana greca sullo sfondo della nuova commedia e fanno riferimento al contesto socio-culturale ellenizzante che emerge dalla tipologia dei nomi assegnati agli schiavi a Roma a quel tempo. Il nome di cortigiana greca meno noto a Roma nel periodo da noi considerato è quello di Frine, originaria della Beozia e vissuta ad Atene alla metà del quarto secolo prima di Cristo. Di lei si parla in un epigramma riportato da Ateneo (che forse ha persino composto lei stessa) (Deipn. 13.591d) 23. Figurava, come Thaide, nella nuova commedia greca e, come Laide, nell’epigramma e nella biografia (nelle opere Sulle Cortigiane scritte sia da Apollodoro che da Callistrato). Frine compare anche nell’oratoria forense sia ateniese che romana, essendo colei che Aristogitone attacca nel suo discorso Contro Frine e che invece Iperide difende (Quint. Inst. Or. 2.15.19), in un discorso tradotto in latino da Messalla (Quint. Inst. Or. 10.5.2), del quale ci sono pervenuti pochi frammenti (ORF 1967 [3] 1 p. 533). Solin riporta solo due 23  ἐπλούτει δὲ σφόδρα ἡ Φρύνη καὶ ὑπισχνεῖτο τειχιεῖν τὰς Θήβας, ἐὰν ἐπιγράψωσιν Θηβαῖοι ὅτι «Ἀλέξανδρος μὲν κατέσκαψεν, ἀνέστησεν δὲ Φρύνη ἡ ἑταίρα».

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esempi certi del nome, quelli di donne schiave e liberate a Roma, anch’esse vissute entrambe all’inizio dell’epoca imperiale 24. Ma è anche l’unico nome del genere che ha avuto origine da un personaggio dell’elegia erotica romana di quel periodo dal momento che Tibullo lo assegna alla lena della Nemesi, nel poema finale della sua seconda raccolta (2.6.44-50): lena nocet nobis; ipsa puella bona est. lena uetat miserum Phryne, furtimque tabellas occulto portans itque reditque sinu. saepe ego cum dominae dulces a limine duro agnosco uoces, haec negat esse domi. saepe ubi nox mihi promissa est, languere puellam nuntiat aut aliquas extimuisse minas.

Inoltre, è anche il nome della donna liberata amante di Orazio negli Epodi (14.15-16: me libertina nec uno | contenta Phryne macerat). Il piú recente commentatore di Orazio nota che il suo nome ‘non sembra che fosse diffuso realmente a Roma (RE XX 893-894)’ 25, ma il materiale raccolto da Solin ora dimostra che nel periodo augusteo il nome era assegnato esattamente a donne di questa estrazione sociale. Ho tenuto comunque alla fine le prove piú considerevoli fornite da Solin, la sua documentazione relativa all’attestazione epigrafica dei nomi Lycoride 26 e Cytheride 27, appartenuti a donne 24 Augusto: Caesilia P.l. Prhyne [sic] (CIL. 6.7195); secolo 1 d.C.: Phryne Tertullae quasillaria Africana (AJP 48 [1927] 21 Nr. 7). Solin 2003, p. 276, recorda anche del primo secolo d.C.: Vibia Phryne (CIL 6.28877) e Atilia Pryne (CIL6.12637). 25  Mankin 1995, p. 233. 26  Giulio-Claudiano: [- - - H]agnes lib. Lucoridi (CIL 6.8764); Fabiae Lycoridi (CIL 6.17548). Tiberio - Nerone: Statilia Lychoris (CIL 6.6571); Claudia Lycoris (CIL 6.8554). Secolo 1 d.C.: Lycoris Augustae li[b.] (CIL 6.8888); Saenia C.  l. Lycoris (CIL 6.25748); Vigelliae Lycoridi (CIL 6.7851); Seviae Lycoridi (CIL 6.20849); Arria Lycoris (CIL 6.28349). Secolo 2/3 d.C.: Titiniae Lycoridi (CIL 6.32510); Volusiae Lycoridi (CIL 6.29559); Lycoris (CIL 6.11296). 27  Sulla - Giulio Cesare: Volumnia Cytheris (RE IX A, 883 Nr. 17). Augusto: Rusticelia M.l. Cytheris (CIL 6.25617). Augusto - Nerone: Memmiae (mulier).l. Chiterini (CIL 6.7802); Sallustia Citheris (CIL 6.8187); Sulpicia P. l. Cytheris (AE 1980, 84); Iulia Citheris (CIL 6.24024); Cytetris delicium (RAL 1984, 294 Nr. 165); Durdenae P. l. Cytheridi (CIL 6.1818). Tiberio - Nerone: Attiae Cytheridi (CIL 6.9817). 1st c. d.C.: Manlia Cytheris (CIL 6.21973), Cominia Cytheris (CIL 6.2399;) Macriana (mulier). L. Chiteris (CIL 6.33602); Citharis libert.

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schiave e liberate nel tardo periodo repubblicano e nei primi anni di quello imperiale a Roma. Testimonianze scritte indipendenti attribuiscono il nome Lycoride alla puella celebrata nella poesia d’amore di Gallo e quello di Cytheride alla meretrix che, da quel che si dice, lo avrebbe ispirato (Serv. ad Buc. 10.1, 6) 28. Gallus, ante omnes primus Aegypti praefectus, fuit poeta eximius; nam et Euphorionem, ut supra ‹VI  72› diximus, transtulit in latinum sermonem, et amorum suorum de Cytheride scripsit libros quattuor. ...hic autem Gallus amavit Cytheridem meretricem, libertam Volumnii ... sollicitos sollicitatos, plenos sollicitudinis post Cytheridis abscessum, quam Lycorin vocat.

Tuttavia, è piuttosto strano che Solin includa il suo elenco di donne che portano il nome di Lycoride sotto la voce ‘Hetären’, in entrambi i Namenbücher, in sezioni che raccolgono i nomi di personaggi storici (2003, 272-276 § I.8; 1996 II.1.7, 263-264), visto che Ateneo, che pare menzionare ogni singola cortigiana greca, non conosce nessuna chiamato Lycoride (o Cytheride). Pertanto è probabile che sia stata la sua comparsa nella poesia elegiaca di Gallo a indurre Solin a includere Lycoride, insieme alla sua presunta ispiratrice, Cytheride, tra le famose etere greche. Qualunque sia la ragione della scelta di inserire il nome in questa sezione dei suoi Namenbücher, Solin (2003, 275-276; cfr. 1996, 264) identifica quattordici Lycoridi nei reperti epigrafici romani, un numero nettamente inferiore rispetto a quello delle donne che portano il nome di Thaide (57) e Laide (97), ma leggermente superiore a quello delle donne chiamate Frine (4). Nel suo studio del 2003 Solin segnala otto Lycoridi di imprecisata condizione sociale, una probabilmente liberata, e cinque tra schiave e liberate (Solin 1996, 264). Tutti questi casi risalgono al periodo del principato (inizi primo secolo - terzo secolo d.C.), con la maggioranza (nove su quattordici) che appartiene al primo

(BullCom. 43 [1915(1916)] 307); [- - -]a Citheris [- - -]aes. lib. (CIL 6.16712); Marcia (mulier). l. Cytheris (CIL 6.22130). 28 Cfr. Gallus fr. 145 Hollis, Verg. Buc. 10, Prop. 2.34.91, Ov. Am. 1.15.30, Ars 3.537; Mart. Epigr. 8.73.6; Vir. Ill. 82.2. Su Cytheride/Lycoride, si veda RE IX A 883 Nr. 17; Mazzarino (1980-1981); Traina 2001[1994]; Keith 2011.

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secolo d.C. 29. Nel resoconto dei loro nomi, le convenzioni epigrafiche suggeriscono che le nove Lycoridi ascrivibili al primo secolo d.C. in origine erano schiave che avevano ottenuto la libertà. Particolarmente interessanti sono Lycoris Augustae li[b.] (CIL 6.8888) e Saenia C. l. Lycoris (6.25748), entrambe del primo secolo d.C., il cui stato di donne liberate è chiaramente espresso dalla formula onomastica ‘li[b]./l.’ (= liberta) che appare nelle loro iscrizioni. Anche il protettore romano della prima, Augusta (Livia o una tarda principessa Giulio-Claudia), è esplicito nella sua associazione della donna liberata con la domus preminente all’inizio del principato. Altrettanto nobili sono i nomi gentilizi del primo periodo imperiale che appartengono (probabilmente) alle donne liberate Statilia Lychoris (6.6571) e Claudia Lycoris (6.8554), entrambe vissute all’epoca dei regni dei successori di Augusto appartenenti alla famiglia Giulio-Claudia (da Tiberio a Nero) e alla famiglia associata con la domus imperiale. Le attestazioni del nome Lycoride a Roma sono concentrate nel primo secolo d.C., una distribuzione temporale che può anche essere rilevante, in quanto specchio della continua popolarità degli amores di Gallo nel secolo successivo alla sua morte. Al contrario, il nome di cortigiana piú citato, Laide, ricorre nella documentazione epigrafica romana già a partire dal tardo periodo republicano 30. Comunque sia, e bisogna riconoscere che le prove a nostra disposizione non ci consentono di trarre conclusioni certe, è sicuramente importante il poter datare con precisione tutti i riferimenti agli amores di Gallo ancora presenti nella letteratura latina a poco piú di cento anni dalla sua morte. Come abbiamo visto, grazie al grammatico tardo antico Servio sappiamo che Gallo ‘scrisse quattro libri di poesie d’amore che parlano di Cytheride (amorum suorum e Cytheride scripsit libros quattuor, Serv. ad Buc. 10.1), ‘che egli chiamava Lycoride’ (quam Lycorin uocat, Serv. ad Buc. 10.6) 31. Nella corrispondenza fra Ci  Solin 2003, p. 276.   Solin 2003, p. 274, ha trovato due liberte del nome Laide dal tardo periodo republicano (Sulla - Giulio Cesare): Auruncleia D. l. Lais (CIL 12.3002) e  Fabia C. l. Lais (6.21230 = 12.1326); e anche 5 liberte dello stesso nome dal periodo Augustano: Aemilia l. meae Laini (6.11038), Aquillia Lais l. (6.5891), Lais lib. (6.6038), Lais L. l. (6.23822), e Pollia M. l. Lais (6.926). 31  Per l’identificazione, si veda Hollis 2007, pp. 242-243. 29 30

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cerone e Attico si parla dell’attrice-mima Volumnia Cytheride (Cic.  Att. 15.22), la donna liberata di P. Volumnius Eutrapelus (RE IX A, 883 #17), e troviamo numerose attestazioni del nome Cytheride tra le donne schiave e liberate vissute all’inizio del principato; particolarmente degne di nota sono Memmiae (mulier).l. Chiterini (CIL 6.7802), Sulpicia P.l. Citeride (AE 1980, 84), e Rusticelia M.l. Cytheris (CIL 6.25617), tutte ascrivibili all’epoca Giulio-Claudia. Il mio confronto di Lycoride Galli con Volumnia Cytheride e Rusticelia Cytheride forse ricorda il modo in cui gli antichi critici cercavano di stabilire l’identità storica delle puellae dei poeti elegiaci (Apul. Apol. 10; cfr. ps. Acro ad Hor. Sat. 1.2.64) 32 ed è, infatti, istruttivo, all’interno di questa indagine, prendere in considerazione la testimonianza contenuta nell’Apologia 10 di Apuleio a fronte del fatto che donne schiave e liberate portassero i nomi delle amanti presenti nell’elegia latina (Apul. Apol. 10): eadem igitur opera accusent C. Catullum, quod Lesbiam pro Claudia nominarit, et Ticidam similiter, quod quae Metella erat Perillam scripserit, et Propertium, qui Cunthiam dicat, Hostiam dissimulet, et Tibullum, quod ei sit Plania in animo, Delia in uersu.

Il filosofo e retorico del secondo secolo d.C. dimostra la sua conoscenza dell’identità di alcune (sebbene non di tutte) delle amanti dei poeti elegiaci latini, giustapponendo una serie di pseudonimi greci ai nomi latini di donne probabilmente esistite. La pratica di Apuleio è in linea con i reperti epigrafici risalenti all’inizio dell’epoca imperiale, nei quali donne liberate vengono commemorate sia con il loro nome greco originario che con quello gentilizio latino che era il loro segno di libertà. Un accostamento analogo di nomi particolarmente ironico è contenuto nell’elenco stilato da Solin nel 1996 che riporta diciannove esempi di donne schiave e liberate di nome Lesbia 33, una delle

 Contra, par esempio, Randall 1978; Wyke 2002.   Augusto: Trebia M.l. Lesbia (Tituli 2 [1980] 135 Nr. 47); Lezbiae (CIL 6.4135). Augusto - Nerone: Spur(iae) Sex. L. Lesbiae (CIL 6.6809); Avennia (mulier).l. Lezbia (CIL 6.14453); Manlia (mulier).l. Lezbia (CIL 6.21979). Prima di 50 d.C.: Lesbia (CIL 6.21200); Clodiae (mulier).l. Lezbiae (NSA 1922, 414 Nr.  31). Tiberio - Nerone: [Stat]ilia Sisennae [aug]uris l. Lesb[ia] (CIL 6.6570). 32 33

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quali porta il nome di Clodia Lesbia (NSA 1922, 414 Nr. 31): Clodiae (mulier).l. Lezbiae 34. Piú pertinente a questo studio è, comunque, l’effettiva presenza, nel periodo da noi trattato, dei nomi appartenuti alle amanti commemorate da Properzio, Tibullo e Ovidio. Perciò, ad esempio, il nome Delia, dietro il quale Apuleio ritiene che nelle elegie di Tibullo si celi una certa Plania, è attestato a Roma come quello di una donna liberata: L(ucius) [A]elius Flaesc() / Delia T(iti) et |(mulieris) l(iberta) Me[ (AII Roma-08, 00051). È interessante notare che il nome di Cinzia è il meno ricorrente nella documentazione epigrafica, sebbene esista un riferimento frammentario a [ - - - ]uttidia Cynthia (CIL 6.33672). Al contrario, Corinna, la puella celebrata negli Amores di Ovidio, compare nell’archivio epigrafico di Roma ed è presente nel periodo da noi esaminato. È appartenuto ad una libraria, una copista donna o una impiegata di magazzino (Olla[m] ---Corinnae --cell(ariae) libr(ariae) (CIL 6.3979) 35, di epoca augustea, oltre che ad una schiava di epoca Giulio-Claudia (Corinnae CIL 6.7332), ad una donna liberata vissuta nello stesso periodo (Fabiae Corinnae l. (CIL 6.17588), e ad un’orafa (o agente finanziario) del primo secolo d.C. (Corinnae Argentariae (AE 1988, 157). Lo stesso Ovidio nega che questo fosse il vero nome della sua amante (Tr. 4.59-60: nouerat ingenium totam cantata per urbem | nomine non uero dicta Corinna mihi) e si può dubitare che ella sia mai esistita. Già negli Amores egli scherza quando dice di conoscere qualcuna che sostiene di essere Corinna (2.17.28-30): et multae per me nomen habere uolunt. noui aliquam, quae se circumferat esse Corinnam. ut fiat, quid non illa dedisse uelit? Secolo  1  d.C.: Postumia (mulier).l. Lesbia (CIL 6.24882); Sentia L.l. Lesbia (CIL 6.26216); Lesbia l. (CIL 6.28023); [- - -]a (mulier).l. Lesbia (CIL 6.38462; [- - -] (mulier).l. Lesbia (Bull.Com. 51 [1923(1924)] 106 Nr. 150); Livia L. (mulier).l. Lezbia (CIL 6.25772); Lezbia lanipend. Aucti lib. (RendIstitLomb. 103 [1969] 94 Nr. 10); Curtiae C.l. Lezbiae (CIL 6.16662). 50-150 d.C.: Lesbiae Caes. (CIL 6.35672). 50-100  d.C.: Salvidena (mulier).l. Lesbia (Epigraphica 28 [1966(1967)] 23 Nr. 6). 34  Su Clodia Metelli, si veda Hejduk 2008 e Skinner 2011. 35  Si veda, e.g. OLD, s.v. 1, ‘(prob.) A female secretary or copyist’, contra Treggiari 1976, p. 78, ‘a store-room clerk, perhaps working under a storekeeper, cellarius’.

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Inoltre nell’Arte, il poeta riferisce le congetture che si facevano a quel tempo sull’identità della donna (3.536-538): nomen habet Nemesis: Cynthia nomen habet. Vesper et Eoae nouere Lycorida terrae. et multi, quae sit nostra Corinna, rogant.

È senza dubbio significativo il fatto che Apuleio in Apologia 10 non la nomini quando parla delle amiche celebrate nella poesia amorosa latina. Ma è estremamente interessante che in quel periodo a Roma il nome fosse diffuso tra le donne schiave e liberate. Comunque, forse non stupisce che il piú ricorrente sia Nemesi (‘punizione’), con tredici attestazioni a Roma, appartenuto, anche in questo caso, soprattutto a donne schiave e liberate. Particolarmente degne di nota sono la ballerina giulio-claudia Iulia Nemesis saltatrix (CIL 6.10143) e la ragazza ex-schiava liberata Nemesis Nicenis Tauri l. ancilla (CIL 6.6490) 36. Anche in questo caso, la maggior parte delle testimonianze risalgono all’inizio del principato 37 (9 su 13, con altre tre nel secondo secolo d.C. e l’ultima nel secondo o nel terzo secolo d.C.) 38. Inoltre, molte delle puellae di secondaria importanza menzionate nei poemi elegiaci di Properzio portano nomi che, rispetto a Cinzia, ricorrono molto piú frequentemente nell’archivio epigrafico romano. Perciò Solin (1996, 309) elenca dodici donne schiave e/o liberate di nome Arethusa, fra le quali una è di epoca augustea, Aretusa Scariphi Neronis di due anni (bima, CIL 6.6031) e cinque vissute nel primo secolo d.C.: Afrania Areth[ousa] (CIL 6.11207), Julia Ti. Liberta Arethusa (CIL 6.20378), Arethusa [I]asonis (RPAA 63 [1990-1991(1993)] 265 Nr 107 fig. 1 c), Fufiae C.l. Arethusae (CIL 6.18591), e Arethusae (CIL 6.22341). Persino il nome che Properzio attribuisce alla lena dell’elegia 4.5,

  Si veda Treggiari 1976, pp. 76-80 sulle ancillae, pp. 90-92 sulle ‘entertainers’.   Prima di 50 d.C.: [I]ulia Nemesis saltatrix (CIL 6.10143); Nemesidi (CIL 6.38463a); Domatia Nemesis (CIL 6.16910); Sextia Nemesis (CIL 6.26532). Tiberio - Nerone: Claudia Nemesis (CIL 6.8961); Nemesis Nicenis Tauri l. ancilla (CIL 6.6490). 1st c. d.C.: Nemesis (CIL 6.22900); Ussienia Nemesis (CIL 6.29606); Nemesidi (CIL 6.7912); cfr. vern. Nemesine (CIL 6.15561). 38  Secolo 2 d.C.: Cannutiae Nemesi (CIL 6.23787); Aeiatia Nemesis (CIL 6.10608); Nemesis (CIL 6.16275). Secolo 2/3 d.C.: [N]emesis (BullCom. 88 [1982-1983] 137 Nr 62). 36 37

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Acanthis, è riportato in un’iscrizione di epoca augustea come appartenuto ad una donna liberata (Appuleia L.L. l. Acantis, CIL 6.34494) 39. Anche le donne che nell’elegia 4.8 di Properzio partecipano ad un convivio insieme a lui, in assenza della sua amante, portano nomi riportati nella documentazione testuale romana. Phyllide (4.5.29, 57) risulta particolarmente diffuso fra donne schiave e liberate vissute a Roma nei primi anni del principato 40. Di epoca augustea sono Phylis (CIL 6.4304) e Iulia Phyllis (6.26608), che, con ogni probabilità, erano rispettivamente una schiava e una donna liberata; al periodo Giulio-Claudio sono ascrivibili Aurelia M. l. Phyllis (6.38076) e Claudia Phyllis liberta (6.15178), senza dubbio donne liberate; Antoniae Phyllidi (6.12064), Domitia Phyllis (6.35359), Viselliae Phyllidi (6.29033), e Phyllis  l. (6.16308), a quanto pare anche esse donne liberate; e altre due Phyllides (6.6501, 8834; cfr. Solin 2003, 3463), probabilmente entrambe schiave. Phyllis Statiliae sarcinatr(ix) (6.5023), vissuta in un’epoca compresa fra quella di Tiberio e quella di Nerone, era una ‘rammendatrice di abiti’, forse una schiava legata alla famiglia degli Statilii 41. Il nome Teia (4.8.31, 58) non è presente sulle epigrafi romane, e, come ha notato Gregory Hutchinson, è altrettanto raro su quelle greche (SEG 48.508, Messene 2nd c. a.C.; IG II2 7787, appartenente ad una famiglia di Ancyra, di epoca imperiale) 42. Ma il nome ricorda anche il poeta lirico greco Anacreonte di Teos, la cui ‘Musa Teiana’ è citata da Ovidio nella poesia dell’esilio (Ov. Tr. 2.364). Nelle opere di Properzio sono contenuti altri nomi servili pertinenti a questo studio. Nell’elegia 4.7 compaiono quelli di Petale (4.7.43) e Lalage (4.7.45), schiave di Cinzia, e di Chloride (4.7.72), sostituta e rivale di Cinzia stessa. In questo contesto è particolarmente interessante il nome Petale, essendo spesso riportato nella documentazione epigrafica di Roma come ap-

39  Per la durabilità del nome, cfr. CIL 6.10471, Acanthidi (Secoli 2 e 3 d.C.). 40  Solin 2003, p. 606 e cfr. Hutchinson 2006, p. 195 ad Prop. 4.8.29; FabreSerris 2008, p. 65 n. 34. 41  Si veda Treggiari 1976, 1979a, e 1979b. 42 Hutchinson 2006, p. 196, ad Prop. 4.8.31.

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partenuto a donne schiave e liberate 43. Di particolare interesse è la placca funeraria di una donna liberata che aveva questo nome, appartenente ad una certa Sulpicia (e a quanto pare da lei commemorata), verosimilmente identificata con la coeva poetessa elegiaca 44. Sulpiciae cineres lectricis cerne viator Quoi servile datum nomen erat Petale. Ter denos numero quattuor plus vixerat annos Natumque in terris Aglaon ediderat. 5  Omnia naturae bona viderat, arte vigebat Splendebat forma, creverat ingenio. Invida fors vita longinquom degere tempus Noluit hanc: fatis defuit ipse colus.

Mentre Petale, la serva piú anziana di Cinzia, porta devotamente ghirlande sulla tomba della sua padrona (nostraque quod Petale tulit ad monumenta coronas, | codicis immundi uincula sentit anus, Prop. 4.7.43-44), Sulpicia Petale ha ricevuto da quest’ultima il tributo di un epitaffio funerario composto in versi elegiaci (BullCom. 53 [1925] 229 = AE 1928.73), che la ricorda nel rigoglio della bellezza e del talento. In entrambe le elegie emerge la preoccupazione della padrona per la donna schiava/liberata con cui è intima. Come la Petale di Properzio, Lalage, la schiava di Cinzia, è fedele alla sua padrona defunta e punita per questa ragione (caeditur et Lalage, tortis suspense capillis, | per nomen quoniam est ausa rogare meum, 4.45-46). Il nome Lalage compare con una certa frequenza nell’epigramma ellenistico (Meleager, AP 5.148.1, 5.149.1, 5.171.2, etc.) come anche nella lirica latina coeva (Hor. C. 2.5.16). Inoltre, esso ricorre frequentemente nelle epigrafi di Roma, come nel caso di una donna liberata di epoca augustea (Liviae Lalage l., CIL 6.3940) 45. In questi reperti 43  Giulio-Claudiano: Caeciliae Petale (CIL 6.13840); Iulia Petale (CIL 6.20610); Furiae Petale (CIL 6.5238). 1st c. d.C.: Papiria Petale (CIL 6.23792); Furiae A.l. Petale (NSA 1920, 283); Petalenis (CIL 6.5457); Sulpicia C.l. Petale (LIKM 81) = (BullCom. 53 [1925] 229 = AE 1928.73), del principato Augustano: Secolo 2/3 d.C.: [- - -]tiae Peta[le?] (CIL 6.23970); Pontiae Petale (CIL 6.24750). Secolo 4/5 d.C.: Πετάλη (ICUR 4039 = IG XIV 2103). 44 Hallett n.d. 45  Solin 1996, p. 563; cfr. Solin 2003, p. 615. Augusto: Liviae Lalage l. (CIL 6.3940a). Giulio-Claudiano: Claudiae Lalage (Epigraphica 5-6 [1943-1944(1945)]

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troviamo menzionato anche quello di Chloride, la rivale di Cinzia (e la sua probabile sostituta) in questo poema 46. I documenti epigrafici qui raccolti mostrano chiaramente che i nomi greci delle puellae delle elegie erano diffusi nel primo periodo imperiale a Roma, dove i loro nomi richiamano l’egemonia romana sul ricco versante greco orientale del Mediterraneo ed il conseguente flusso di schiavi nella città, la capitale dell’impero. Il contrasto tra i nomi italiani dei poeti elegiaci romani (inclusa Sulpicia) 47 e quelli esotici greci delle persone amate (compresi i pueri delicati, Maratho [Tib. 1.4, 8-9] e Cerintho [(Tib.) 3.9-11, 13-18]) codificati nei loro versi, documenta i diritti di ceto e di etnia dell’elite romana sugli immigrati, sulle persone liberate e sugli schiavi, che è sostenuta dalla gerarchia di sesso presente nelle elegie dei poeti maschi (sebbene indubbiamente turbata dal suo scioglimento nell’eligidia di Sulpicia) 48. L’invocazione programmatica dei destinatari appartenenti all’elite maschile, che hanno nomi latini e italiani nella poesia elegiaca (Messalla in Tibullo e Sulpicia; Messallino in Cornute in Tibullo; Macer in Tibullo e Ovidio; Tullo, Basso e Mecenate in Properzio), rivela ancor piú nettamente la corrispondente mancanza di nomi femminili latini o italiani nei loro versi, a eccezione della stessa Sulpicia ([Tib.] 3.8.1, 16.4), della Cornelia (Prop. 4.11) e della leggendaria criminale Tarpeia (Prop. 4.4; cfr. Prop. 1.16.2).

19 Nr. 103); Iun[ia] Lalage pediseq[ua] (CIL 6.9778); Iulia Lalage (CIL 6.20547). Secolo 1 d.C.: Terent[- - -] Lalage[- - -] (CIL 6.27242); Statiae Lalageni (CIL 6.13726); Lalage (Mart. 2.66.3, 5; cfr. PIR2 L 75. Secolo 2 d.C.: Claudia Lalage (CIL 6.4865). 46  Secolo 1 d.C.: Chloridi (CIL 6.27687). 47 Per il nome di Properzio, si veda 2.8.17, 2.14.27, 2.24.35, 2.34.93, 3.3.17, 3.10.15, 4.1.71, 4.7.49; Tibullo, 1.3.55, 1.9.83; Sulpicia (Serui filia Sulpicia), [Tib.] 3.16; Ovidio Naso, si veda Am. Epigr. 1, 1.11.27, 2.1.2, 2.13.25, Ars 2.744, 3.812, Rem. 71, 72, 558; cfr. Catullus, e.g., 8.1, 12, 19; 68.27, 135; 72.1; 76.5; 79.2, 3; 82.1. 48  Sui differenti ruoli che le donne possono svolgere nel periodo imperiale (ad es. come madre, moglie o figlia del guerriero imperiale; le sue conquiste sessuali; il suo atteggiamento discriminatorio nei confronti della serva o della schiava), consultare l’ampia letteratura femminista internazionale riguardante i diversi modi con cui le donne si sono confrontate con l’imperialismo europeo ottocentesco come traspare nell’arte, nella pubblicità, nella letteratura e nella politica: ad es. McClintock 1995; Cooper e Stoller 1997; McClintock, Mufti e Shohat 1997; e Stoller 2002.

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Inoltre, persino quando i poeti elegiaci romani si rivolgono a uomini che hanno cognomi stranieri – come Gallo (Prop. 1.5, 10, 13, 20), Pontico (Prop. 1.7, 1.9), Lynceo (Prop. 2.34), Attico (Ov. Am. 1.9), e Graecino (Ov. Am. 2.10) – ci sono prove che fanno pensare che i loro destinatari appartenessero all’elite equestre italiana, come gli stessi poeti 49. Perciò questo studio onomastico ed epigrafico mette in evidenza l’adesione di quest’ultimi al progetto imperiale romano piú esteso, che per il resto è chiuso in un’apparente presentazione a- o anti-politica di temi elegiaci e i benefici che i poeti ne traggono 50. Al di là del fatto che questi poeti elegiaci abbiano collaborato o meno con i generali romani o con i governatori provinciali (come hanno fatto indubbiamente Catullo, Gallo, e Tibullo e Properzio fu invitato a farlo), i loro poemi mostrano il loro apprezzamento del bottino sessuale (e di altra natura) della coeva egemonia romana sul bacino del Mediterraneo.

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49  Sull’origine aristocratica di Properzio, si veda Keith 2008, primo capitolo, che fornisce una bibliografia supplementare insieme a prove comparative relative all’estrazione sociale di Virgilio, Orazio, Tibullo e Ovidio, suoi contemporanei. Per Gallo, fare riferimento a Boucher 1966 e a Cairns 2006, pp. 70-249. Di Linceo come pseudonimo di L. Vario Rufo parla Boucher 1958; Cairns 2006, pp. 295-319; Hollis 2006, p. 102. I personaggi storici chiamati in causa da Ovidio vengono trattati da Syme 1978. Non è comunque possibile fornire informazioni simili in merito a Demofono (il destinatario di Prop. 2.22) od Oro (il destinatario di Prop. 4.1), considerata la documentazione attualmente disponibile: si veda Fedeli 2005, ad 2.22init; Hutchinson 2006, ad 4.1 init. 50  Contra Sullivan 1973.

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Carlo Santini

PROPERZIO TRA SCRITTURA E VISUALITà. UN CONTRIBUTO ALLA GENESI DELLE IMMAGINI IN UN POETA AUGUSTEO Si nescis, oculi sunt in amore duces (Prop. 2,15,12)

Se la tradizione della cecità di Omero, a prescindere dalla verità fattuale o simbolica del dato, ha costituito un ulteriore elemento del mito all’interno dell’epos, accreditando l’immagine romantica del cantore che si aggira brancolando tra le mura diroccate e le tombe di Troia, quasi a voler scavare nel passato l’origine dei suoi canti, Properzio ha invece percorso una strada del tutto opposta nelle sue elegie. Il suo è infatti un «tempérament visuel» 1 immerso ostensibilmente in un’esperienza erotica, in cui sin dal primo verso il gioco degli sguardi tra lui e la domina fornisce un coefficiente distintivo ed ineludibile alla scrittura, sicché ogni richiamo alla tradizione della cecità poetica appare non funzionale e inapplicabile. In una prospettiva teorica Properzio sembra partecipare piuttosto alla concezione generale del pensiero antico che focalizza sull’occhio, e non sulla luce, la nostra potenzialità del vedere, e quindi immagina nello sguardo un’azione subalterna in cui si esercita il potere di «intromission into the eye» 2� da parte di Cinzia eletta a sostituire le res degli Epicurei: dein qua primum oculos cepisti veste Properti (3,10,15). È concezione antica, magica, quella che attribuisce alla vista una sensibilità particolare verso il bello, così come racconta Platone nel Fedro 251b tanto da farne nel processo di innamoramento il ponte attraverso il quale discende a noi τοῦ κάλλους τὴν ἀπορροήν ed è appunto a questa funzione di transito da occhio 1  Boucher 19802, p. 41. Si veda anche il capitolo ‘La componente visiva: θαυμάζειν e θεωρεῖν᾽ di Gazich 1995. 2  Lehoux 2012, pp. 112-113.

10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102591

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ad occhio che Properzio fa riferimento nel verso iniziale del monobiblos, dove dichiara che Cinzia lo ha catturato con i suoi occhi, ponendo subito al centro del discorso lo straordinario potere conferito alla vista intesa come capacità di dominare le sensazioni percepite dallo sguardo altrui, tanto da aggiungere in un’altra elegia, la 2,22, il desiderio masochista di essere ferito: interea nostri quaerunt sibi vulnus ocelli (v. 7). Questo concetto risulta estendersi dalla beltà femminile ai poteri della pittura e della scultura, i cui artisti hanno prodotto monumenti in grado di suscitare un giudizio estetico che, per una sorta di insito legame, ha lo stesso valore equivalente della sfera della letteratura. Conseguenza vuole che Properzio non solo si dichiari conoscitore delle scuole artistiche che hanno creato i massimi capolavori dell’arte greca, ma su questi termini formuli una valutazione che è in grado di essere ben compresa e condivisa dal pubblico di letterati, come risulta dai vv. 9-16 della elegia 3,9, spingendosi fino al punto di convalidare la sua scelta della recusatio di argomenti epici che, ancora una volta, seppur sempre più debolmente, esprime dinnanzi alle richieste di Mecenate con questi versi: Gloria Lysippo est animosa effingere signa; exactis Calamis se mihi iactat equis; in Veneris tabulam summam sibi poscit Apelles; Parrhasius parva vindicat arte locum; argumenta magis sunt Mentoris addita formae; at Myos exiguum flectit acanthus iter; Phiadiacus signo se Iuppiter ornat eburno; Praxitelen propria vendit ab urbe lapis.

Se l’elencazione corrisponde alla logica del κατάλογος di ascendenza alessandrina, dove ogni verso è dedicato ad un singolo artista al fine di evidenziarne quale è stato il soggetto in cui è riuscito a primeggiare, appare in Properzio come elemento di novità la strutturazione contrastiva dei quattro distici, in cui alla messa a fuoco dello stile epico, e quindi di tono grande dell’esametro, corrisponde il pentametro orientato sulla marcatura del tenue e del λεπτόν, per la quale va osservata l’adesione personale che traspare attraverso segni come mihi (ed in seguito at), quando non appaia implicita nella tensione dei versi. Se Lisippo è celebre per le sue fusioni da cui emerge l’animus del personaggio, sì da essere definite ‘statue piene di vita’ (animosa signa), Calamide in350

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vece con l’esigente cura nella rappresentazione dei cavalli risulta inimitabile in tale genere, come certificherà Plinio a 34,71 equis semper sine aemulo expressis. Gli altri tre confronti muovono da un analogo concetto generale, ma Properzio si avvale altresì di termini accessori che alludono in modo diverso all’antitesi: i nomi di due pittori implicano la contrapposizione tra il quadro di grandi dimensioni (tabula summa), quale è considerata la Venere di Apelle, e i piccoli dipinti che garantiscono tuttavia con la loro tecnica miniaturistica (parva arte) a Parrasio il posto di eccellenza. Nella toreutica il confronto si sposta tra le scene di gruppo (argumenta) che sono presenti negli stampi di Mentore e le decorazioni di Mys, come la foglia di acanto, dove la maestria nel lavorio di cesello gli consente di comporre un prodotto estremamente raffinato che si dispiega in uno spazio sottile (exiguum iter). In fine all’ultimo distico la ragione del contrasto si evince dai materiali con i quali i due scultori hanno operato e dal costo degli stessi, visto che all’avorio di importazione della statua crisoelefantina di Fidia viene posto sullo stesso livello artistico il marmo pentelico dell’Attica che è la patria di Prassitele. Il fatto che tutti gli otto artisti portino nomi greci attesta che Properzio considera l’arte di questa civiltà come sommo prodotto di eccellenza, che a Roma sembra impossibile raggiungere. A tale giudizio Properzio si atterrà stabilmente fino alla composizione del IV libro, quando si ha l’impressione che qualcosa cominci a cambiare, come a 4,2,61 dove compare per la prima volta il nome di un artista non greco, Mamurio Veturio, formae caelator aenae, autore della statua in bronzo del dio Vertumno, collocata come oggetto di venerazione nel punto dove il Vicus Tuscus confluisce nel Foro. In sintesi, dunque, diremo che il discorso di Properzio mira a sottolineare l’equivalenza dei risultati in contrapposizione con il variare (ποικιλία) delle personalità degli artisti e dei loro manufatti, il che dipende a sua volta dalla variabilità dei materiali, degli stili, delle tecniche e dei gusti del pubblico. La funzione di questo excursus ha il suo presupposto nella liceità di stili di vita differenti, che il modulo della Priamel sancisce ed a cui si attiene il poeta al pari dell’interpellato Mecenate. Il riconoscimento di un comune valore di eccellenza estetica tanto per la poesia quanto per le arti figurative riverbera quindi sul modo di vita di Properzio che coincide con l’opera d’arte. 351

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Ut pictura poësis dichiarerà qualche anno dopo Orazio nell’Ars poetica rifacendosi alla prospettiva aristotelica della mimesis che per lui è così influente da assegnare nell’Ad Pisones un posto incipitario all’interdizione per il pittore di iungere humano capiti cervicem equinam; in effetti, pur risalendo l’idea del confronto tra pittura e poesia già a Simonide che, a detta di Plutarco, aveva sostenuto l’equivalenza tra la poesia silenziosa del quadro e la pittura parlante del verso, quella di Orazio è una dichiarazione di stretta aderenza al classicismo augusteo che tiene conto della distanza (si propius stes ... si longius abstes), della luminosità (haec amat obscurus, volet haec sub luce videri) e del numero di volte con il quale il quadro è osservato (haec placuit semel, haec deciens repetita videbit). Anche se le idee erano in aria in quella stagione, non da Orazio tuttavia Properzio ha desunto la concezione dell’arte cui si riferisce nella 3,9. Il tratto risente piuttosto dell’Isocrate di Dionigi di Alicarnasso, dove il letterato, procedendo al confronto tra il protagonista del discorso e Lisia, propone i nomi di Policleto e Fidia per il primo, in virtù delle loro doti di sublime grandiosità (κατὰ  τὸ σεμνὸν καὶ μεγαλότεχνον καὶ ἀξιωματικόν), e quelli di Calamide e Callimaco per il secondo, che sono sinonimo di finezza e di grazia (τῆς λεπτότητος ἕνεκα καὶ τῆς χάριτος). È quindi probabile che l’argomentazione di Dionigi, che nel 31, all’indomani di Azio, era venuto a stabilirsi a Roma, dove compone le sue Antichità Romane, sia giunta per qualche via all’attenzione di Properzio, come pure il contrasto tra i due oratori sui rispettivi modi di scrivere, uno con l’inclinazione a trattare delle attività minori ed umane (ἐν τοῖς ἐλάττοσι καὶ ἀνθρωπικοῖς ἔργοις), l’altro delle maggiori e quasi divine (ἐν τοῖς μείζοσι καὶ θειοτέροις), che egli trasferisce all’alternativa tra poesia elegiaca e poesia epica. Pure, nell’opera di Properzio, la dichiarazione dell’equivalenza tra giudizio artistico e letterario non è incondizionata, come appare nell’elegia 3,2 ai vv. 19-26, dove, dopo aver ricordato alla sua puella che i suoi carmina saranno tot monumenta formae suae, menziona in una sequenza di tre versi altrettanti monumenti canonici – le Piramidi egiziane, il tempio di Zeus ad Olimpia e il sepolcro di Mausolo ad Alicarnasso – per osservare come essi tuttavia non siano in grado di vacare ab extrema condicione mortis, cosa che invece non riguarda il nomen quaesitum ingenio, la fama ottenuta con l’ingegno, che non è deperibile, né per circostanze occasionali come un incendio e le infiltrazioni della pioggia, 352

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né per il peso del tempo; esso quindi risulta essere sine morte. Qui Properzio pare condividere con questa minor valutazione delle arti figurative, la «Geringachtung der bildenden Kunst» 3, il pensiero formulato in quegli stessi anni da Orazio a Carm. 3,30 (ripreso anche da Ovidio nella sphragis finale delle Metamorfosi) sul condizionamento implicito del materiale al quale esse soggiacciono, mentre la poesia, vuoi per il retaggio del permanere nell’atto stesso della composizione di carmina dell’aura fàtica della dizione orale, vuoi perché, una volta affidata alla riproducibilità dei segni dell’alfabeto, che, come aveva insegnato Lucrezio, sono da soli in grado di dar vita ad un universo di significati e di immagini, appare indenne da questo limite. Una conferma di tale mentalità parrebbe evincersi da un’altra elegia del terzo libro, la 21, dove Properzio struttura in forma di antiklimax 4 i suoi progetti di sottrarsi alla schiavitù della donna amata per compiere un viaggio ad Atene, dove potrà sgombrare l’animo dagli errori con la pratica dei precetti di Platone o di Epicuro, dedicarsi allo studio della eloquenza di Demostene, o a quello della commedia di Menandro, aut certe – una locuzione che dà allo stile un tono leggermente attenuato 5 riguardo a quanto verrà detto – lasciarsi conquistare la vista dai quadri ivi conservati, come dalle incisioni in avorio, o dalle fusioni in bronzo (vv. 29-30 aut certe tabulae capient mea lumina pictae, / sive ebore exactae, seu magis aere, manus). Dopo l’accenno alla filosofia e alla letteratura, questo riferimento ai capolavori dell’arte ha il significato di un’evasione verso scelte meno impegnative, con il pensiero rivolto all’incipitario capio di 1,1, quasi che il piacere della vista di artistici manufatti possa costituire una sorta di antidoto alla sudditanza per Cinzia 6. La ricezione della pittura entra tanto nel vivo dell’individualità di Properzio da apparire in altra occasione come corruttrice della virtù delle giovani donne. L’accusa compare a 2,6,27-34, ma già il poeta aveva espresso al v. 9 la sua gelosia per le pictae facies di giovanotti che circolano per la casa di Cinzia. La con  Keysser 1938, p. 169.   Fedeli 1985, p. 621. 5 Rothstein 19242, p. 165. 6  Lee 1960, p. 518 vede nel testo un’altra allusione nell’impiego di manus che non solo intendono un’anfibologia tra le mani dello scultore e quelle delle statue, ma richiamano anche le longae manus di Cinzia. 3 4

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danna alla cecità, ipotizzabile nell’espressione a gemat in tenebris con la quale Properzio risuscita il topos del pereat per colui che per primo depinxit obscenas tabellas, si riferisce quindi in una sorta di contrappasso a chi ha dipinto sulle pareti delle case ista arte le scene di sesso, quasi a voler concretizzare le illustrazioni dei libri pornografici di Elefantide e le pitture murali erotiche rinvenute a Pompei 7. C’è da aggiungere che la soluzione di modulare in quattro passaggi l’opposizione tra παχύ e λεπτόν a 3,9 rivela altresì tutta l’ampia envergure del discorso di Properzio nell’ambito delle arti figurative, e la predisposizione a cogliere i dettagli visuali relativi alle sequenze di racconti mitici. Le suggestioni che gli provenivano dal mondo delle immagini si erano fissate nella sua mente tramite il ricordo dei vari manufatti artistici con i quali era venuto in contatto sin dalla più giovane età prima in Etruria (ad Assisi e a Perugia) e poi a Roma; questi consistevano in pitture parietarie, quadri e statue, ma anche in oggetti di uso domestico che erano stati prodotti in loco o provenivano dalla Grecia. Tutto questo patrimonio recava con sé le stimmate della mitologia greca e la frequenza delle allusioni e dei confronti nel testo di Properzio sta ad attestare che per la sua conoscenza era in debito non solo verso la lettura dei poeti classici, ma anche di quella di manuali mitografici 8 e della memoria visiva di tali fonti iconografiche 9 come le pitture e le statue, con le quali Roma si era notevolmente arricchita nel suo ruolo di capitale dell’impero; al computo si dovranno aggiungere le riproduzioni delle scene del mito che circolavano sotto varie altre forme, quali i fogli di pergamena utilizzati negli atelier degli artigiani 10 e i modelli didattici usati nelle scuole come le Tabulae Iliacae 11. Un discorso a parte meritano infine le immagini riprodotte sui volumina che in età di Properzio avevano finalità soprattutto pratiche 12. Esse pongono il tema del rapporto tra arte e lette  Fedeli 2005, pp. 211-212.   Keysser 1938, pp. 182-183. 9   Lyne 1980, 82, a cui si riferisce Cameron 2004, pp. 253-254. 10  Froning 1980, p. 327. 11  Sadurska 1964. 12 Illustrazioni sui rotoli di papiro compaiono in Egitto sin dal quindicesimo secolo a.C. con il Libro dei morti, ma il rinvenimento nel corredo funebre perché 7 8

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ratura che è quello di virtualità «interacting yet indipendent» 13 perché fondate su una base mitica comune, ma nella quale è ammessa la proliferazione di elementi anche consistenti di essa. Sul versante artistico è vero che la finalità dell’artista antico non consisteva di norma nell’illustrare un testo letterario, e, del pari, un poeta come Properzio non avrebbe a cuor leggero ammesso di aver tratto l’ispirazione di un gesto o una situazione da un’opera di pittura o di scultura, ma era la situazione stessa a consentire e facilitare il fluire delle immagini dall’uno all’altro campo e viceversa, con i risultati notevoli che vedremo. Un criterio di indagine e di ricerca su questo materiale, tanto vasto quanto composito, sul quale Umberto Eco ha posto l’accento in un recente saggio approntato per la mostra Vertiges de la liste del museo del Louvre, è quello di evidenziare due prospettive, richiamate entrambe già dall’epica omerica. Da un lato stanno le icone di usi e pratiche di una società arcaica, quali sono illustrate dal procedimento ecfrastico dello scudo di Achille, al XVIII canto dell’Iliade, dall’altro l’attrazione dell’indeterminato, dell’indefinito, che viene espressa nel catalogo delle navi, al II canto, dove si ammette a priori il principio della inarrestabilità della numerazione (ed enumerazione) dei lemmi che lo compongono 14. Nella sua opera Properzio attesta di seguire in pari tempo tutte e due le vocazioni, quella ecfrastica e quella catalogica: la prima, in assenza di specifiche testimonianze di viaggi in Grecia o nelle città greche dell’Asia minore, pare senz’altro derivare dal contatto con l’abbondante patrimonio artistico di importazione e di copie prodotte in loco del quale la sua generazione disponeva servisse da guida al viaggio nell’aldilà parla a favore di finalità essenzialmente pratiche, così come i primi testi greci interessati, in epoca ellenistica, che riguardano l’astronomia, la geometria, la cartografia (Giuliani 1996, p. 40). Per attendere la presenza di figure su testi letterari, come quelli di Omero e Virgilio dovremo aspettare i grandi e lussuosi codici in età tardo-antica e bizantina, come l’Iliade Ambrosiana, il Virgilio Vaticano, il Virgilio Romano, tuttavia Weitzmann 19702, p. 55, e sulla sua scia Bianchi Bandinelli 1955, p. 27, sono propensi ad accreditare cicli desunti dall’Iliade (più di 700 illustrazioni), dall’Odissea e da altri poemi del Ciclo fin dal primo secolo della nostra era. 13  Boardman 2001, p. 172. 14  Eco 2009, p. 15.

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a Roma. Spicca tra tutti il caso dell’elegia 2,31 che trae origine dalla descrizione della porticus annessa al tempio di Apollo sul Palatino; questa si basa infatti sulla cerimonia di inaugurazione (a magno Caesare aperta fuit) la cui data, se non si intenda accedere ad ipotesi diverse quali quelle proposte dal Rothstein 15 e dalla Klodt 16, dovette risultare posteriore rispetto al 9 ottobre 28, quando avvenne l’auguratio del tempio stesso. Il componimento parrebbe accostarsi alla tipologia delle ἐκφράσεις di cui abbiamo abbondante copia di epigrammi come i trenta sulla vacca (τὸ βοίδιον) di Mirone (713-743) del libro IX della Antologia Palatina, tutti incentrati sul tema della confusione e dello scambio tra realtà naturale ed arte, con effetti parodici e grotteschi sui quali gli autori, per lo più anonimi, si sono cimentati. L’elegia di Properzio rappresenta tuttavia uno stadio poetico più avanzato e originale. Su di essa ha parlato da ultimo Michael von Albrecht qui ad Assisi nel convegno del 2010 con un intervento che ci ha permesso di cogliere l’importanza di un componimento la cui linea guida consiste nella proclamazione della «Verlagerung des Zentrums der Welt» dalla Grecia a Roma 17, anticipando il percorso dei miti al quale assisteremo nelle Metamorfosi di Ovidio con la loro progressiva traslazione nella capitale dell’impero. La scelta di iniziare con la ‘quaeris-Formel’, di cui Properzio si serve in varie elegie, funge da schema retorico che, mediante la chiamata in causa di un interlocutore fittizio (anteoccupatio) intende conferire un tono di confidenziale colloquialità ai suoi lettori 18; il fatto poi che si rivolga a Cinzia, presso la quale intende giustificarsi del ritardo, sta a sottolineare che la sua poesia si interessa prevalentemente dei lati privati dell’esistenza 19, che includono il piacere estetico della visita, e contestualmente dà vita 15 Rothstein 19202, p. 410, n. 8: “sie war eröffnet, nämlich als ich vorüberkam”. 16   Klodt 1998, p. 7: “sie war eröffnet gewesen”, che implica la constatazione di uno stato nel passato, da cui il poeta sviluppa la descrizione del tempio. 17  v. Albrecht 2012, p. 218. 18  Fedeli 2005, p. 43. 19 Il pensiero di Syndikus 2010, p. 198 sembra sviluppi la sintesi finale della Klodt 1998, p. 11: “Cynthia ist wichtig, nicht Augustus”, con la conseguenza relativizzazione della pretesa del princeps di rappresentare sempre ed ovunque il punto di orientamento per i cives.

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ad un componimento ecfrastico in cui la donna amata viene ridotta al rango di ‘cornice’. Properzio nota subito sia l’imponenza delle dimensioni dell’edificio alla vista dell’osservatore (tanta erat in speciem), sia il colore dorato che proviene dalle colonne (aurea è la prima parola dopo l’interrogazione) che con il loro ‘giallo antico’ 20 esercitano un effetto di contrasto con il bianco bagliore del tempio in claro marmore di Carrara, sul quale, posto quindi al centro della scena (medium), progressivamente a partire dal v. 9 (tum), si sposta la visuale. Muovendo dalla dialettica tra la porticus e il tempio, la tecnica di Properzio seleziona le informazioni per poi associarle in una descrizione che mira a conservare l’equilibrio classico: come al bagliore aureo delle colonne fa da pendant il candor del tempio, così ai quattro buoi di Mirone che sembrano vivi corrisponde la quadriga con i cavalli del Sole; alla origine africana delle colonne corrisponde l’avorio delle valvae del tempio, al gruppo delle Danaidi che hanno violato la legge, si contrappone il potere della divinità, rappresentato dalla punizione dei gruppi delle Niobidi e dei Galli cacciati dal tempio di Delfi ed, infine, la statua di Apollo, che sembra intonare un canto, nonostante la fissità del marmo (cfr. marmoreus, ad incipit di verso), trova la sua equivalenza con l’altra del dio all’interno del tempio, che sappiamo essere il capolavoro di Scopa, mentre accorda la lira tra quella della madre, della bottega di Cefisodoto, e quella della sorella, della bottega di Timoteo 21. La ridondanza espressiva 22 inter matrem ... interque sororem segue una sua logica, che consiste nell’enfasi di deus posto in perfetta equidistanza tra le due altre statue, come se «il dio in carne ed ossa» apparisse allo sguardo dello spettatore 23. Merita di essere notato mihi al v. 5, che sta ad indicare la straordinarietà dell’effetto sinestetico che questo canto marmoreo produce, tanto da suscitare nell’animo di Properzio 24 un’impressione di bellezza superiore a quella del dio stesso. Realtà e arte si confondono in un processo di sublimazione del proprio io dinnanzi alla bellezza dell’opera che è lo stesso del mihi di 3,9,10.  Stat. Silv. 1,5,36-37; 2,2,92.  Plin. NH 36,24 (Latona); 36,25 (Apollo); 36,32 (Artemide). 22  Camps 1967, la ritiene “irrational”. 23  Fedeli 2005, p. 883. 24  Klodt 1998, p. 10. 20 21

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Colpisce anche la sobrietà espressiva (il solo deinde introduce il momento conclusivo dell’epifania del dio) che mira a ricondurre il molteplice all’unità dell’insieme, e proprio in questa sintesi consiste la classicità elegante e non prolissa di Properzio 25, che mi fa convinto del fatto che questa elegia sia completa così come attualmente la leggiamo ad esclusione del distico finale 26. Al riguardo infatti ogni altro dato che non concerne l’estetica del monumento appare secondario e viene omesso, siano questo le scale di accesso e la biblioteca di cui parla Ovidio 27, i tripodi aurei ai quali si richiama Augusto 28 o le teche auree in cui sono conservati i libri sibillini 29, perché nel testo possano regnare incondizionati il piacere puro dell’arte che affianca la realtà e la sorpresa che si rinnova dall’autopsia. Un altro esempio di trasfigurazione dello sguardo è quello della elegia 2,12 dove l’esordio, con la menzione della pittura di Amor in aspetto di fanciullo (ille ... puerum qui pinxit Amorem), si riferisce alla autenticità fattuale dei predicati del dio, intuiti sorprendentemente (miras ... manus) dall’artista e dipinti perché rievochino il loro valore sapienziale. L’immagine che appare dinnanzi agli occhi di Properzio è dunque la miglior prova 25  Lefèvre 1989, p. 25 sottolinea il progetto finale che sta dietro la complessa architettura delle varie immagini del monumento, che consiste nel dare vita con il recupero della classicità greca ad una nuova classicità. 26  L’ipotesi che l’elegia sia giunta a noi mutila della parte finale è antica e risale a Francesco Pucci (1502), poi è stata ripresa da Fedeli 2005, p. 874, che nota l’assenza almeno del motivo personale ‘ad anello’. È possibile che il distico finale (dove forse si tornava a Cinzia) sia caduto, anche se l’elegia sembra unica per tipologia di ekphrasis in Properzio. 27   Trist. 3,1,59-60 inde tenore pari gradibus sublimia celsis / ducor ad intonsi candida templa dei; Ovidio riferisce anche con precisione delle cinquanta statue delle Danaidi, cfr. v. 61 signa ... ubi sunt alterna, e del padre Danao che brandisce la spada incitandole a compiere il delitto (v. 62 stricto barbarus ense pater). Più incerta appare invece la presenza dei figli di Egitto su cui siamo informati solo da uno scolio a Pers. 2,56. Il tono dell’elegia di Properzio pare qui escludere ogni richiamo alla violazione della legge coniugale ed all’atto di violenza sul cui valore simbolico nel quadro della battaglia di Azio hanno a lungo discettato filologi, storici ed archeologi, a partire dal rinvenimento di alcuni torsi in ‘nero antico’ negli scavi del Palatino (Tomei 1990; Balensiefen 1995; Leach 2008, p. 26, ma si vedano anche Kellum 1985, pp. 169-176; Lefèvre 1989, pp. 11-16; Putnam 1994, p. 183). 28  Zanker 1987, (2006), p. 93, che ha ripreso la notizia da Svetonio Aug. 52, 1. 29 Suet. Aug. 31,1 condiditque [scil. Sibyllinos] duobus forulis auratis sub Palatini Apollinis basi.

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della sua dichiarazione, che trae forza dall’interrogativa retorica, mentre l’incipitario quicumque la convalida in una autorevolezza senza limiti che ne lascia volutamente trasparire l’antichità tramite il motivo del primus inventor attestato, secondo quanto riferisce Ateneo 30, già nella commedia attica. L’iconografia di Eros tuttavia risulta, in antitesi con il suo potere, poco evidenziata, lacunosa e tarda; il dio è all’inizio poco più di un’estensione dei poteri di cui è detentrice Afrodite, unitamente al fratello Himeros, e solo nel passaggio dal VI al V secolo riesce a sviluppare un profilo figurale autonomo tanto nel campo letterario, dove Saffo, Ibico, Anacreonte lo riconoscono come dotato di ali, quanto in quello artistico, come la figura su una coppa laconica del 570/560, che ne attesta un culto ancestrale a Sparta 31. A partire da allora la raffigurazione del dio procede fino alla metà del IV secolo, pochi decenni prima dell’età ellenistica, quando si diffonde la tendenza a rappresentarlo in forma di ‘putto’ e a moltiplicarne la figura in tante immagini di eroti, che troviamo all’opera in un’altra elegia, la 2,29, dove hanno assunto il compito di fugitivarii di Properzio che vaga per la città di notte ubriaco e senza nessuno schiavo che lo accompagni. Nonostante lo stato di confusione in cui si ritrova il poeta, egli sa per esperienza visiva con chi ha a che fare: ne definisce subito e con precisione le dimensioni (pueri ... turba minuta), gli oggetti che costituiscono il loro corredo (faculas ... sagittas ... vincla, che risulterà essere un cappio, nodus, da mettere al collo), ma soprattutto la nudità (sed nudi fuerant) che costituisce un elemento distintivo dell’iconografia del dio tanto che non ammette nessuna forma di artificio, così come aveva proclamato a 1,2,8 nudus Amor formae non amat artificem. La rappresentazione di Amor con ali che si muovono con velocità pari al vento (v. 5 ventosas addidit alas), che prende di mira il cuore degli uomini (v. 6 humano corde volare) con in mano frecce uncinate (hamatis ... sagittis) e faretra in spalla, percorre tanto la letteratura quanto le arti figurative per divenire oggetto di un simbolismo interpretativo di cui servirsi nelle più varie situazioni di studio che potevano andare dai progymnasmata 32 fino  Il passo sta in Deipn. 13, 562 a-d, che viene citato da Fedeli 2005, p. 341.   Speier 1960 EAA s.v. ‘Eros’ 427. 32 Quint. Inst. Or. 2,4,26. 30 31

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alla esegesi mitologica 33. Che Properzio, che aveva fatto i suoi studi, dia prova di aver seguito tali percorsi, non escluderà che al momento di comporre gli balenasse anche una, o più vedute dell’arte figurativa, così come una scena di mare tempestoso 34 che viene a dar conto della situazione particolare al v. 7 scilicet alterna quoniam iactamur in unda, oppure di un attacco del dio che viene dall’alto, senza che nessuno lo aspetti, così come appare dalla iconografia dove Eros / Amor è raffigurato con dimensioni minori dei protagonisti della scena. L’indagine sui cataloghi può dare bene conto della propensione per essi da parte di Properzio, che si avvale di questa tecnica con una sorta di trend progressivo fino al III libro, dove raggiunge il culmine, coi grandi cataloghi di alcune elegie come 3,11,926 (sequenza di eroidi finalizzata a mettere in luce il potere delle donne e conclusa da Semiramide, che prefigura il tentativo di Cleopatra di dominare su Roma); 3,12,23-36 (episodi e personaggi tratti dall’Odissea con lo scopo di raffigurare Postumo come alter Ulixes agli occhi di sua moglie); 3,17,20-40 (una serie di imprese di Bacco al fine di celebrare la ἀρετή del dio); 3,19,1126 (nuovo catalogo di eroidi atto ad attestare la licenziosità femminile). Bisognerà al riguardo ammettere che da questi elenchi di exempla, che dovevano rappresentare una prassi abituale per le scuole di retorica 35, Properzio ricavi con l’utilizzo di stilemi quali il tipo qualis, testis est e la trasposizione metaforica 36 un valore di dimostrazione che appare superiore alle singole azioni mitiche rappresentate nella lista. Tutto questo – ribadisco – sta ad indicare la molteplicità delle immagini che circolano nel mondo in cui Properzio è immerso ed opera; agli stimoli che provengono da testi scritti, siano essi poetici o di repertori mitografici, si affiancano quelli delle pareti di abitazioni private, o degli edifici pubblici, dei quadri, delle statue, dei vasi; tutto ciò viene vissuto dal nostro autore senza che 33  Fedeli 2005, p. 341 ritiene la trattazione properziana vicina a quello che sarà il Theologiae Graecae Compendium di Cornuto, che risale fino al Περὶ θεῶν di Apollodoro, ma realizzata in modo tale da trascendere la pratica dei progymnasmata per raggiungere una concezione ‘culturale’ (Boucher 1980, p. 47) più ampia del mito. 34 Richmond 1918, p. 70. 35  Fedeli 1985, p. 571. 36  Si veda in proposito quanto scrive Gazich 1995, p. 239 sgg.

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sia possibile separare con una linea netta i primi dai secondi, ma con l’implicazione ulteriore del maggiore o minore coefficiente della suggestione, sì da variare il potere memoriale che si esercita in lui in modo non uniforme, ma per concitati passaggi di accentuazioni e rarefazioni, come si può dedurre analizzando i tempi e le scansioni delle riprese 37. La scelta di mettere a fuoco qualche particolare delle sequenze catalogiche per poi confrontarlo con le iconografie tràdite appare destinata pertanto a non procedere oltre un certo limite, perché si mantiene «una persistenza nella memoria ‘visiva’ dell’autore [scil. Properzio] e del suo tempo di ricordi legati alla percezione di schemi figurativi diffusi e pertanto facilmente adattabili a situazioni narrate» 38, che risultano riconducibili alla più svariata contestualizzazione. L’esempio forse più caratterizzante di questo composito fluire e refluire di gesti significanti alla ricerca di un attore che li impersoni, e quindi di un significato 39, è forse quello offerto dalla figura di Calipso alla quale Properzio dedica i vv. 9-14 dell’elegia 1,15, dove tratteggia le condizioni di ἀμηχανία (‘il non saper cosa fare’) e di μετάνοια (‘ripensamento’) in cui è piombata la dea dopo la partenza di Odisseo. Sembra che il primo a fornire un ritratto di tali «momenti sospesi, che trovano un’altissima carica drammatica proprio nella rappresentazione di un fuggevole istante» 40, sia stato però il personaggio di Penelope collo schema iconografico introdotto già intorno al 460 a.C. nella statua di un artista sconosciuto, per poi evolvere e ramificarsi in più di una decina di contesti mitici 41, tra i quali va accreditato anche quello di Calipso iniusto multa locuta salo (v. 12). Urne etrusche da Perugia hanno posto infatti il problema se la figura femminile dinnanzi ad Odisseo sia Penelope o Calipso 42. Non è quindi possibile spingersi oltre alla presenza di alcuni

37  Boucher 1980, p. 46 n. 3 parla dell’idea del «reccourci évocateur»; Santini 2010, p. 230 di «ritmo intermittente» del ricordo. 38  Di Stefano 1992/1993, p. 233. 39   Settis 1975, p. 11. 40  Settis 1975, p. 13. 41  Settis 1975, pp. 10-15. 42  Caprino EAA s.v. ‘Calipso’, 1959, p. 276.

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tratti comuni 43, anche tenendo conto di ciò che è andato irrimediabilmente perduto, come una Calipso sedens, ricordata da Plinio il Vecchio come opera del pittore Nikias, poi ripresa in due pitture pompeiane 44. In altri casi siamo invece più fortunati, tanto da riuscire a stabilire quale sia la lezione del testo properziano al quale dare la preferenza. È questo il caso di 1,15,21 dove l’immagine di Euadne miseros  e l a t a  per ignis rispetto a  d e l a t a  di ς trova conferma sia nel testo delle Supplici di Euripide che dalle citazioni del ThLL prodotte in apparato da Fedeli 45. La volontà di morire di Evadne è accertata anche sulla base del testo della Tebaide di Stazio (12,800-802 turbine quo sese caris impleverit audax / ignibus Evadne fulmenque in pectore magno / quaesierit, dove la lectio difficilior corrisponde forse meglio di instraverit alla voluttà totalizzante della moglie di Capaneo) e, sul versante iconografico, corrisponde ad quadro di una pinacoteca di Napoli (forse immaginaria) cui si riferisce nelle sue Imagines Flavio Filostrato il Vecchio a 2,30. Qui si è notato il capovolgimento della fisiognomica «che consisteva nel definire il carattere sulla base degli elementi fisici» 46; tutta la scena infatti mira a mettere in luce l’inflessibile determinazione della moglie fedele (fida la chiamerà Properzio a 3,13,24) che ha deciso di gettarsi con un balzo nel fuoco del rogo del marito (l’espressione ricorre ben tre volte nel testo: πήδημα ἐς τὸ πῦρ αἴρουσα ... ἐς αὐτὸ τὸ πῦρ ἵεται ... πηδᾷ ἐς τὸ πῦρ) nella convinzione che non avrebbe mai posseduto il marito, se lui non avesse posseduto lei (οὔπω τὸν ἄνδρα ἔχειν ἡγουμένη εἰ μὴ καὶ αὐτὴν ἔχοι). Se risulta evidente come un’opera di questo genere stia a testimoniare la fertile e fruttuosa integrazione tra letteratura e pittura che ebbe luogo nell’età della seconda sofistica, proprio di tale compartecipazione Properzio si rivela un anticipatore, stimolando il lettore a rievocare nella sua mente il contesto della scena, mentre Filostrato vi aggiunge un coefficiente di enigmaticità rivolgendosi allo spettatore che

  Di Stefano 1992-1993, pp. 230-233.   Caprino in EAA s.v. ‘Calipso’, 1959, p. 276. 45  Cfr. l’apparato critico dell’edizione di Properzio curata da Fedeli 19942, p. 31. 46  Cannatà Fera 2010, p. 377. 43 44

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viene invitato a scoprire quale sia la trama mitica che si cela dietro l’immagine 47. Ci sono dei casi in cui è proprio la particolare formulazione con la quale Properzio si è riferito ad un mito che suggerisce una raffigurazione alle spalle giunta fino a noi, come a 2,3,37-38 nunc, Pari, tu sapiens et tu, Menelae, fuisti, / tu quia poscebas, tu quia lentus eras, dove la struttura parallela del distico esaltata dal doppio chiasmo pare richiamare la situazione ambivalente che compare su uno skyphos a figure rosse a firma di Makron, dove lo spazio è spartito tra la scena di Paride che conduce via Elena e, sul lato opposto, quella di Menelao che pare minacciarla con la spada, dopo averla ritrovata, mentre l’eroina è sotto la protezione di Afrodite. Altro esempio di stile toccante ed allusivo troviamo a 2,13, dove la dichiarazione della longevità di un padre emerge all’improvviso coinvolgendo Properzio nella prematura scomparsa del suo. La vecchiaia di Nestore, che sfida tre generazioni, è confermata, scorrendo lungo il ‘fil rouge’ della visualità sulla quale Properzio pare insistere (visus est ... vidisset) 48, da una celebre pittura di Polignoto, il «pittore di sentimenti» 49, nella Lesche dei Cnidii a Delfi, dove questo raffigura nell’Ade il figlio Antiloco insieme ad Achille e Patroclo (e Agamennone), mentre il padre si affretta a salpare per far ritorno nel Peloponneso, così come ricordato da Pausania a 10, 25-31. Non si può dire se Properzio avesse mai visitato la pittura delfica, ma l’iconografia dell’episodio, in aggiunta alle testimonianze letterarie come la perduta Etiopide di Arctino e la sesta Pitica di Pindaro (v. 29 ὃς ὑπερέφθιτο πατρός), parrebbe essere evocata da qualche scena paradigmatica presente in dimore romane. Converrà infatti tener presente come l’invocazione di rimpianto di Nestore al funerale di Antiloco per non essere morto lui al posto del figlio (v. 50 O mors, cur mihi sera venis?) ha un suo rilievo nell’iconografia, come è attestato non solo da un’anfora attica degli inizi del V secolo a.C. 50, che possiamo considerare di poco successiva all’età di Pindaro, ma da una più recente urna etrusca  Abbondanza 2008, p. 79 sgg.   Fedeli 2005, p. 403. 49  Säflund 1970, p. 130. 50 LIMC s.v. ‘Antilochus’ 1, p. 836. 47 48

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di alabastro di Volterra 51: in entrambe Nestore compare nell’atto di sollevare il corpo del figlio ucciso da Memnone mentre cercava di difendere il padre, che lo aveva chiamato in soccorso (Pind. ibid. v. 36 δονηθεῖσα φρὴν βόασε παῖδα ὅν). Se nei cataloghi non si procede oltre un breve enunciato che consta di un onomastico, di un gesto o di evento, di oggetti significativi, concepiti con la sola funzione di ricordare un esempio della serie in funzione asseverativa, sono invece le ‘elegie narrative’ di Properzio con i loro estesi spazi mitici dedicati ad una storia, quelle che offrono l’occasione di analizzare l’apporto della iconografia, come è stato messo in luce per il racconto di Ila a 1,20 dalla analisi pionieristica della Di Stefano 52. Un esempio del valore non solo memoriale, ma anche simbolico e sapienziale attribuito al mito di questo genere di elegia a me sembra che possa essere colto nella 3, 15, dove Properzio riserva trenta versi (vv. 11-42) al racconto del destino di Antiope, dei suoi gemelli Anfione e Zeto, e della punizione a cui assoggettarono Dirce. Interessante appare le scelta del poeta di partecipare direttamente agli eventi del mito mediante le apostrofi a Giove e agli altri personaggi della vicenda 53; ciò pare prefigurare un più maturo ed originale approccio 54 rispetto al primo componimento, ancora ingessato nelle sperimentazione del ‘narrativo’ ellenistico 55. Va inoltre detto che il racconto di Properzio, che pare attenersi alla versione euripidea, poi fatta celebre a Roma dalla resa latina di Pacuvio 56, risente implicitamente di un evento di sicuro impatto di quegli anni a Roma, vale a dire la collocazione nella prima biblioteca pubblica, istituita da Asinio Pollione, della copia in marmo nota come il Toro Farnese del gruppo bronzeo dei due fratelli artisti Apollonio e Taurisco. Per parte sua Properzio ha seguito un percorso tutt’altro che lineare nel racconto che si apre con il nome di Dirce, chiamata a testimone quale exemplum di padrona crudele verso la schiava Antiope, e si conclude dopo

 LIMC s.v. ‘Antilochus’ 2, p. 666.   Di Stefano 1992-1993, p. 130 n. 41. 53   Heinze 1919, p. 85. 54  Butrica 1994. 55  Pinotti 1978, p. 14; Fedeli 1985, pp. 469-470. 56 Alfonsi 1961, pp. 5-10. 51 52

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circa venti versi con la mortale punizione della stessa, mentre il distico successivo offre alla vista del lettore un dettaglio coloristico – prata cruentantur – che, per la motivazione della scia di sangue (in  multis ... locis) lasciata sui prati dal corpo della regina, deriva con grande probabilità dalla scena di un quadro. Zeto è definito durus perché esponente del βίος πρακτικός rispetto al βίος θεωρητικός rappresentato dal gemello Anfione lacrimis ... mollem. Al primo spetta il ruolo di protagonista per aver lasciato libero sfogo alla corsa del toro, che ha condotto alla morte Dirce 57, mentre ad Anfione, in conformità delle sue attitudini artistiche, spetta il compito di celebrare la vittoria finale di Dike, che riconosce παῖδ᾽ εἶναι Χρόνου (fg. 222 Kn.), cosa che parrebbe prefigurare sul piano figurativo la presenza di Anfione su una rupe, da dove domina la scena e lascia che il suo canto discenda sul pubblico. Certamente il Toro Farnese ha esercitato uno stimolo memoriale sulla scrittura di Properzio, così come appare dai vv. 37-38 puerique trahendam  / vinxerunt Dircen sub trucis ora bovis, suscettibile di evocare il vinculum ex eodem lapide ricordato da Plinio (36, 34), con il quale i due gemelli si apprestano a legare il corpo della regina alla cervice spasmodicamente furente del toro. L’effetto di tale operazione per altro era già presente nel testo greco di Euripide, tenuto conto del frg. 221 Kn. in cui la raffigurazione della folle corsa appare magistralmente espressa 58 dalla onnipresente casualità del moto vorticoso del muso dell’animale (εἰ δέ που τύχοι πέριξ ἑλίξας εἷλκε), che coinvolge senza sosta (μεταλλάσσων  ἀεί) quella che è divenuta una massa di materia indistinta, come illustra l’asindeto di sostantivi in trikolon discendente (γυναῖκα πέτραν δρῦν). La figura più enigmatica della scena è Antiope, che pure occupa non poco spazio con le sofferenze, alle quali viene assoggetta da Dirce: alle sevizie della padrona essa oppone un tentativo di riscatto che la fa fuggire da sola sulle montagne coperte di ghiaccio, e raggiungere la grotta, dove stanno i due gemelli che lei ha concepito dallo stuprum di Giove, senza tuttavia essere  Rothstein 19202, II, p. 130.  Si veda in proposito cosa scrive l’anonimo De subl. 40 che invita ad appezzare la scrittura ἐπὶ τῆς συρομένης ὑπὸ τοῦ ταύρου Διρκης. 57 58

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riconosciuta da essi che anzi la allontanano. La donna allora viene meno, crolla, ma in suo aiuto subentra la difesa del vecchio pastore, dal quale procede la anagno¯  risis e la conseguente vendetta dei figli su Dirce. La natura di Antiope appare tanto più complessa, se la si sovrappone a quella che doveva risultare la ragione del confronto con Cinzia, vale a dire la schiava Licinna che ha sovrinteso alla iniziazione erotica di Properzio. Tra i reperti iconografici di Antiope c’è una pittura parietale da Pompei che ci riporta al secondo decennio del primo secolo a.C., e quindi all’età esatta di Properzio 59; l’episodio descritto pare però riferirsi al prosieguo della vicenda mitica, quando Bacco per punirla della morte di Dirce, sua seguace, la rende una baccante furiosa. Ancora più interessante è la testimonianza di un paio di specchi etruschi dell’inizio del III secolo, il primo già della collezione Durand 60 e l’altro conservato presso il Cabinet des Médailles di Parigi nr. 1327 61. La posizione tra le figure varia leggermente nei due reperti: nel primo Antiope sta al centro della scena affiancata da Zeto in piedi e Anfione appoggiato ad un elemento architettonico dall’altro lato, mentre nel secondo Antiope, seduta, è spostata sulla sinistra con Anfione e Zeto che stanno alle loro rispettive destre. In entrambi i medaglioni dei due specchi l’atteggiamento risulta consono ai loro rispettivi ruoli di rappresentanti di due stili di vita: Anfione regge la lira con una mano, con l’altra tiene un plettro, mentre il gemello Zeto è raffigurato con una spada di cui si vede il fodero (e regge un’asta invisibile nel secondo specchio). Anfione porta in entrambe le figure i calzari, mentre Zeto nella prima è a piedi nudi, nella seconda con stivali da caccia. Lo sguardo di Antiope appare rivolto verso Zeto, intorno alla cui spalla avvolge un braccio, mentre con l’altro si appoggia a Anfione, in modo che parrebbe esprimere l’incertezza tra i due stili di vita, mentre sullo sfondo si intravedono delle colonne che formano uno 59  LIMC s.v. ‘Antiope’ p. 856 dalla Casa del Citarista ora al Museo Nazionale di Napoli nr. 112283. 60 LIMC s.v. ‘Amphion’ I, p. 720; Gerhard 1845, I, pp. 210-211 tav. 219; Caprino EAA s.v. ‘Anfione’ 1958, p. 373. 61 LIMC ibid. p. 720; Rebuffat-Emmanuel 1973, pp. 230-234 e tav. 45.

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scenario unitario al gruppo. Roulez ha interpretato la scena come il momento della vicenda quando Antiope si volge verso l’inflessibile Zeto, cercando di commuoverlo e di convincerlo della sua identità 62. Antiope vive il suo destino tra un susseguirsi di esperienze psicologiche 63 che risultano contrastare intimamente tra loro, quasi si trattasse di una trama di peripezie da romanzo. La δέσις è lunga e accidentata; essa comprende la crudeltà di Dirce, l’invocazione a Giove che rimane inascoltata, la effrazione delle catene e la fuga sui gelidi monti della Beozia; le parole con le quali i due figli la scacciano dalla loro grotta fanno precipitare l’eroina nel gorgo della disperazione (v. 34 sic cadit inflexo lapsa puella genu), ma al compimento della λύσις è sufficiente l’intervento di un anziano pastore (v. 36 digne Iovis natos qui tueare senex!) perché tutto cambi e la situazione venga punto per punto capovolta, con la sera ... pietas dei gemelli che riconoscono l’errore compiuto, la garanzia del dio supremo (Antiope, cognosce Iovem) 64 e la punizione della colpevole. È probabile che l’intertesto letterario di questa elegia fosse (in aggiunta al dramma di Euripide) un componimento ellenistico ignoto, anche se è possibile che Properzio abbia modellato da solo il racconto 65. Il lettore moderno ha in ogni modo l’impressione che Properzio abbia messo a fuoco solo alcuni punti del palinsesto mitico che gli interessavano, in particolare la gelosia di Dirce nei confronti della schiava Antiope, parrebbe essere avvalorata dalle due versioni differenti della storia, raccontate entrambe da Igino (la VII e la VIII), in cui compaiono particolari significativi della vicenda. Properzio ha trattato questo mito con grande abilità, riuscendo così a garantire una modulazione intermittente, mossa, di una  Roulez 1842, p. 7: «c’est par le même motif que dans le group du taureau Farnèse, l’infortunée Dircé, n’espérant rien de l’inflexibilité de ce dernier, implore sa grâce d’Amphion et cherche à embrasser ses genoux». 63  La Penna 1977, p. 80. 64 Non pare convincente la proposta di Lennartz 1997, p. 125; il tamen di v. 23 riguarda anche il silenzio di Giove, che verrà a dissolversi al v. 36 con il riconoscimento del senex, altrimenti chi legge perde l’effetto della lunga tensione e il corrispondente aprosdoketon. 65  Butrica 1994, p. 146. 62

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storia nota, che doveva valere come exemplum, avvertimento o monito per l’amata, ma che gli ricordava in pari tempo le stesse vicende della sua vita. Se la figura di Antiope muove a compassione per le sue tristi vicende, nondimeno essa ci appare come una figura paralizzata dal destino imperscrutabile, tanto che Properzio la richiamerà alla speranza con l’invito a riconoscere il potere di Giove. Ai suoi fianchi stanno i gemelli con le loro polarità antitetiche e reciprocamente complementari. La gemellarità aveva rappresentato un valore mitico di gran rilievo presso le culture degli Umbri e degli Etruschi che dobbiamo credere ebbero un ruolo determinante nella formazione di Properzio: Assisi avrebbe loro dedicato un luogo di onore nel tetrastylum del forum 66 nel ricordo di un antico culto e Perugia celebrava i gemelli Ocno e Auleste come rispettivi fondatori di Felsina (oppure Mantova) e di Perugia 67. Da questo nucleo di pensiero, qui implicito, dunque, nella vicenda degli specchi etruschi, che implicitamente suggerisce la reversibilità dell’immagine mitica sull’individualità del possessore 68, potrebbe trarre la sua linfa il discorso allusivo di Properzio. L’ondeggiare tumultuoso di Antiope tra due istanze antitetiche risulta infatti rispondere a un messaggio sapienziale che suggerisce di guardare con equilibrio al rapporto tra impegno e disimpegno, tra epos e elegia a cui Properzio risponde, restando ancora in questi versi a metà del guado. Virgilio, Orazio e Properzio avevano direttamente sperimentato tutti e tre cosa significasse stare dalla parte ‘sbagliata’, cioè di perdente nella guerra civile, ma poi i primi due avrebbero finito per celebrare l’impresa di Augusto. A questo stesso punto si colloca l’esperienza di Properzio, che forse non si sentiva ancora pronto, e si ritraeva dentro sé stesso. La pax di Augusto era stata un prodotto dell’impegno innovativo del princeps, il poeta umbro invece si attarda e pare non voler esplicitamente scegliere tra le contraddittorie circostanze della esistenza, ricorrendo allo stesso patrimonio di locale σωφροσύνη di cui Vertumno si farà portatore nel libro quarto.

  Coarelli 1991, p. 252; Matteini Chiari 2005, p. 198.   Meurant 1999, pp. 270-272 e note relative; Benedetti 2012, pp. 29-32. 68 Izzet 2007, p. 49. 66 67

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Per esprimere la condizione scissa ed irresoluta che pare essere peculiarmente sua, Properzio ricorre ad un nucleo comune, dove alle fonti letterarie si uniscono i suggerimenti pervicaci dell’arte figurativa.

Bibliografia Abbondanza L. 2008: Introduzione a Filostrato Maggiore Immagini, Milano. Alfonsi L. 1961: L’Antiopia di Pacuvio e Properzio III 5, “Dioniso” 35, 5-10. Balensiefen L. 1995: Überlegungen zu Aufbau und Lage der Danaidenhalle auf dem Palatin, “MDAIR”, pp. 189-209. Benedetti L. 2012: Ocno e Auleste ritrovati? Considerazioni preliminari sul programma figurativo della Porta Marzia, in Augusta Perusia. Studi storici e archeologici sull’epoca del ‘bellum Perusinum’ (a cura di G. Bonamente), Perugia, pp. 25-37. Bianchi Bandinelli R. 1955: Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad, Olten. Boardman J. 2001: The History of Greek Vases, London. Boucher J.-P. 19802: Études sur Properce. Problèmes d’inspiration e d’art, Paris. Butrica J. L. 1994: Myth and Meaning in Propertius 3,15, “Phoenix” 48, pp. 135-151. Cameron A. 2004: Greek Mythography in the Roman World, Oxford. Camps W. A. 1967: Propertius, Elegies, Book II, Cambridge. Cannatà Fera M. 2010: Tra letteratura e arti figurative: le Imagines dei due Filostrati, in Le Immagini del Testo, il Testo nelle Immagini. Rapporti fra parola e visualità nella tradizione greco-latina (a cura di L. Belloni A. Bonandini - G. Ieranò - G. Moretti), Trento, pp. 373-394. Caprino C. 1958: EAA s. v. ‘Anfione’, pp. 373. Caprino C. 1959: EAA s. v. ‘Calipso’, pp. 276-277. Coarelli F. 1991: Da Assisi a Roma. Architettura pubblica e promozione sociale in una città dell’Umbria, in Assisi e gli Umbri nella antichità (G. Bonamente - F. Coarelli edd.), Assisi, pp. 245-258. Di Stefano D. 1992/1993: Miti properziani e arte figurativa, AFLF - Bari 35-36, pp. 221-254. Eco U. 2009: Vertigine della lista, Milano. Fedeli P. 1985: Properzio Il Libro Terzo delle Elegie, Bari.

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c. santini

Specchio Etrusco della Collezione Durand

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Paolo Fedeli

Da Cinzia a Cornelia

1. Il titolo del mio intervento rischia di essere fuorviante e di suscitare attese che verranno deluse: sarà opportuno, quindi, che mi affretti a chiarirlo subito. Non intendo sviluppare una complessa analisi dei due ruoli femminili antitetici, quello della meretrix e quello della matrona, che nella poesia di Properzio trovano entrambi accoglienza, addirittura nella caratterizzazione stessa della donna che è al centro della sua poesia d’amore; lungi da me l’aspirazione a confrontarmi su questo terreno con i prodotti della critica antropologica o con quelli, negli ultimi tempi sin troppo fecondi, d’ispirazione lacaniana: il mio obiettivo è diverso. Poiché è nel IV libro che i due tipi antitetici di donna s’incontrano e si confrontano, non direttamente ma alla luce dei modi di comportamento di altri personaggi femminili che nella poesia di Properzio fanno prepotentemente il loro ingresso e reclamano il diritto di far sentire la loro voce, Cinzia da un lato e Cornelia dall’altro divengono il simbolo di un modo nuovo e piú complesso di concepire l’impegno poetico: finora il poeta elegiaco ha posto programmaticamente il proprio impegno al servizio del canto d’amore; adesso si rende conto di non poter piú percorrere le vie consuete. Il mio, dunque, sarà un tentativo di dare un senso alla articolazione apparentemente sibillina del IV libro e di metterne in luce gli elementi di novità. Che da Properzio ci si dovesse attendere un impegno poetico diverso da quello dei libri già noti, era chiaro sin dalla fine del III libro, che si era chiuso con un addio: a Cinzia, alla sua bellezza elogiata piú di quanto meritasse, addirittura a tutti i versi a lei dedicati da chi, ora, confessava di vergognarsi della fama 10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102592

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P. Fedeli

garantita dalle sue elegie a una donna che non valeva la pena di cantare (3,24,1-8). Recuperata la ragione senza l’ausilio delle fattucchiere, dei medici, degli amici, Properzio capiva di essersi reso ridicolo col suo lungo e assiduo servitium amoris e assicurava i lettori che avrebbe resistito di fronte alle lacrime e alle preghiere di Cinzia: su di lei scagliava addirittura le sue dirae, con la previsione dell’inesorabile arrivo della vecchiaia, dei capelli bianchi che invano Cinzia si sarebbe sforzata di strappare e delle rughe che ben presto le avrebbero devastato il volto: sembra già di sentire gli stessi accenti dell’ultima produzione lirica di Orazio, quelli, in particolare, di Carm. 4,11 e 4,14. Chiudere il discorso con Cinzia significava mettere fine all’esperienza della poesia d’amore, e il lettore ne trovava un’immediata conferma sin dai versi iniziali dell’elegia destinata a introdurre il nuovo libro e a chiarirne i toni e i contenuti. La situazione della prima elegia del IV libro è sin troppo nota, perché io debba indugiare nel ricordarla: mi soffermerò solo su quei punti che sono di un qualche rilievo ai fini della mia indagine complessiva. L’hospes a cui si rivolge Properzio costituisce solo un pretesto perché egli possa celebrare gli splendori della Roma augustea e ribadire la sua convinta adesione alla politica restauratrice ma al tempo stesso innovatrice del principe: la visione degli splendidi e maestosi edifici della Roma di Augusto trova un efficace punto di confronto nella rustica semplicità della città delle origini; a prevalere, tuttavia, non è l’idea del contrasto, ma quella della continuità della storia di Roma. Di lí si sviluppa una digressione di carattere eziologico, che prendendo le mosse dai condottieri dei popoli confinanti finisce per chiarire l’origine delle tre tribú e il trionfo di Romolo (4,1,29-32); in tal modo il lettore è messo in grado di prevedere quel fermo proposito di cambiamento di genere, che verrà ufficializzato solo nei vv. 6170, con la solenne proclamazione di un serio programma di poesia eziologica: il poeta che all’ispida corona di Ennio preferisce l’edera di Bacco, il poeta che aspira ad essere il vanto dell’Umbria natia e a venire celebrato come il Callimaco romano, d’ora in poi intende cantare l’origine dei culti, delle feste, dei luoghi. Ai lettori piú dotti e accorti non sarà sfuggito che Properzio sin dai versi iniziali dell’elegia si era preoccupato di esaltare il senso e la coerenza della sua scelta: solo col desiderio di esibire

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sin dall’inizio del carme la scelta eziologica e di far capire che egli sarebbe risalito ben piú indietro nel tempo dell’epos virgiliano si spiega, infatti, l’adozione nel v. 2 per Enea di un epiteto (Phryx) tutt’altro che elogiativo per i Romani del tempo di Properzio: s’incarica di confermarlo, nel distico successivo, il ricordo di Evandro e dei suoi buoi sul Palatino, che non vuol essere soltanto un’allusione a Virgilio, ma si propone di suggerire al lettore il rapporto etimologico di Palatinus con Pallanteum. Dopo la chiara esposizione del nuovo programma di poesia ci si attenderebbe una prova immediata della validità di una scelta in netto contrasto con quella sinora praticata: proprio il fatto che i vv. 1-70 di 4,1 non siano seguiti dall’elegia eziologica su Vertumno, ma dal lungo monologo dell’astrologo che demolisce i buoni propositi di Properzio, e che a sua volta la predizione di un rinnovato canto d’amore per Cinzia non sia seguita da una delle due elegie (la VII e l’VIII) che nel IV libro la vedono in azione, rappresenta per me la prova migliore del carattere unitario di un carme, che autorevoli critici contemporanei continuano a negare 1. In merito ad Horos, da tempo ho mutato il giudizio che con molti altri condividevo al tempo del mio commento giovanile e, dove credevo di scorgere sicure manifestazioni di cialtroneria, vedo ora un atteggiamento di tutt’altra natura: mi riferisco all’inserimento dell’astrologo in una ‘lignée’ che include esponenti di primo piano della scienza astrologica, alla esaltazione del ruolo preminente che nei suoi libri spetta alla fides, all’esito delle predizioni ad Arria e a Cinara, alla critica – sorretta dall’esempio di Calcante – ad oracoli, aruspici, áuguri indegni di fiducia perché incapaci di cercare il vero negli astri, alla ricostruzione del passato del poeta che per un astrologo è premessa indispensabile per predire il futuro. In quanto, poi, all’enfatizzazione del ruolo di Cinzia e del servitium amoris non solo per quanto riguarda il passato, ma anche in riferimento all’esperienza del IV libro, se da un lato essa non intende annullare il progetto properziano di 1 I sostenitori della divisione dell’elegia si fondano sostanzialmente sulle obiezioni che, nei confronti del suo carattere unitario, sono state formulate da Sandbach 1962, pp. 264-271 (cfr. anche Goold 1967, p. 92, Kidd 1979, pp. 169171, Murgia 1989, pp. 265-266, Heyworth 2007, pp. 424-425); ma la prima manifestazione decisa di una volontà separatista risale a Reisch 1887, pp. 127-129.

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P. Fedeli

poesia eziologica, dall’altro trova riscontro nelle due elegie (la VII e l’VIII), che vedono agire Cinzia come protagonista. La divisione del carme incipitario del IV libro in due diverse elegie mi sembra improbabile non solo per i motivi sopra invocati, ma soprattutto perché in piú d’una circostanza il discorso di Horos implica una conoscenza diretta di quello precedente di Properzio 2: i riferimenti in tal senso non si limitano alla rievocazione della terra natia, né alla presenza di Cassandra in entrambi i discorsi 3, ma consentono di considerare come una risposta ai vv. 39-56, in cui il poeta aveva esaltato le doti profetiche della Sibilla e di Cassandra, i vv. 109-118, nei quali Horos tratta da cialtroni tutti i falsi profeti che non ricorrono all’astrologia. Mentre, poi, nel discorso di Properzio il compito di esaltare i valori della Troia resurgens spettava alle tragiche vicende di Troia, in quello di Horos una tale funzione è annullata dall’infausto esempio di Calcante. E, infine, il quo ruis con cui nel v. 71 Horos dà inizio al proprio discorso si giustifica solo se viene messo in rapporto diretto col fiume di parole di Properzio in difesa della propria scelta di praticare un tipo nuovo di poesia. Non è la prima volta, d’altronde, che Properzio utilizza la tecnica – ben nota ai poeti alessandrini – che consiste nel presentare una vicenda nelle varie fasi del suo sviluppo, talora contrassegnate da un netto iato temporale: basta considerare lo svolgimento di 1,8, con la paventata partenza di Cinzia nella prima parte e con la sua decisione di restare a Roma nella seconda, o quello di 2,28, che segue il decorso della malattia di Cinzia dalla fase piú critica a un’ormai insperata guarigione 4. A parer mio, solo rivendicandone il carattere unitario l’elegia proemiale si riappropria della sua vera funzione: quella, cioè, di preannunciare, grazie alla diversa prospettiva dei due monologhi, la duplice natura del libro, che vuole aprire nuove vie alla poesia elegiaca, senza tuttavia rinunciare a quelle percorse in precedenza. Al lettore che, dopo il lungo monologo di Properzio, era convinto di trovare una raccolta di carmi eziologici, l’intervento

  Cfr. Macleod 1976, pp. 148-150.   Significativa è la ripresa del v. 53 nei vv. 113-114. 4  Sulla tecnica del ‘running commentary’ in Properzio rinvio al mio commento introduttivo a 2,28 (Fedeli 2005, pp. 780-781). 2 3

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di Horos fa subito capire quale importanza avrà nel libro l’elemento sorpresa; ma, soprattutto, il fatto che a quello del poeta faccia seguito un monologo ancor piú ampio del suo e pronunciato da una voce diversa dalla sua, anticipa al lettore quello che nel libro costituirà il maggiore elemento di novità: mentre nei precedenti era stata la voce del poeta a dominare incontrastata, ora egli ammette accanto alla sua una pluralità di voci (di Horos, di Vertumno, di Aretusa, di Tarpea, di Acanthis, di Cinzia, di Ercole e della sacerdotessa della Bona Dea, di Cornelia), che alla sua si sovrappongono sino a sostituirla. Se, dunque, undici – e non dodici – sono le elegie del IV libro, una conseguenza importante è quella del ruolo centrale occupato dall’elegia (la VI), che celebra il XV anniversario della vittoria aziaca: la centralità della VI elegia corrisponde alla centralità del programma augusteo nella poesia del IV libro, che ad Augusto attribuisce non solo le doti di condottiero invitto per terra e per mare (nella VI, appunto), ma anche l’alacre attività edilizia e di restauro dei templi e dei luoghi sacri (4,1), la raggiunta integrazione dei culti italici nel tessuto religioso romano (4,2 e 4,9), l’efficace campagna di moralizzazione dei costumi (4,11). Nello spirito dei tempi nuovi inaugurato dai ludi saeculares del 17 a.C., il progetto stesso di cantare sacra diesque ben s’inserisce nell’interesse del principe nei confronti della religione arcaica, dei culti e delle abitudini dei tempi antichi, nella sua viva inclinazione a far rivivere il passato nel tempo suo. Di conseguenza la scelta della poesia eziologica si carica di un forte significato ideologico, perché dimostra che, allo stesso modo dell’antiquaria di Varrone, dell’epos di Virgilio, della lirica civile di Orazio e della storiografia di Livio, essa può contribuire a mettere in risalto alcuni aspetti particolarmente cari ad Augusto. Al tempo stesso la poesia eziologica consente a Properzio di collegare le origini lontane col mondo augusteo e di far capire che il contrasto fra arcaica semplicità e moderno splendore è solo apparente e serve, anzi, a segnare una linea di continuità fra passato e presente. La sfida del poeta elegiaco consiste nel dimostrare che si può celebrare la Roma augustea non solo con l’esametro dell’epos, ma anche col distico dell’elegia, rievocando – allo stesso modo di Virgilio nell’VIII libro dell’Eneide – il passato lontano di Roma e ricercando in esso le radici del glorioso presente. Nell’Eneide virgilia377

P. Fedeli

na era stato Evandro ad assumersi un tale compito, allorché aveva illustrato ad Enea i luoghi della Roma del futuro: si capisce, quindi, perché mai nell’esordio dell’elegia proemiale del IV libro Properzio assuma l’identica funzione di guida nei confronti di un hospes che a Roma giunge per la prima volta. Nello scegliere, poi, la poesia delle origini quale nuovo sviluppo del suo mestiere di poeta, Properzio può legittimamente definirsi un Callimaco, sí, ma un Callimaco romano, perché la ricerca degli aitia è destinata a concretizzarsi in una poesia patriottica, alla quale è affidato il compito di celebrare Roma e quel suo remoto passato, che solo nel presente vede la piú completa realizzazione. Però in una elegia, quella proemiale, che intende preannunciare una poesia di tipo nuovo senza rinnegare la validità della poesia d’amore del passato, anche la figura dell’astrologo, come quella dell’hospes, rappresenta un espediente letterario: da un lato un astrologo è in grado di ricostruire il passato di Properzio, dall’altro è capace di prevedere il suo futuro, che in questo caso s’identifica con i contenuti stessi del libro di poesia. Non a caso Horos non si pronuncia mai contro la poesia eziologica, perché, se lo facesse, ciò avrebbe il senso di una recusatio da parte di Properzio stesso del nuovo modo di concepire l’impegno poetico: all’astrologo è sufficiente ricordare al poeta l’antico monito di Apollo e la via che il dio gli ha indicato sin dalla prima giovinezza. A me sembra, dunque, che la duplice natura della prima elegia rifletta il carattere del libro nel suo complesso e il tentativo di conciliare l’antica poesia per Cinzia non solo con una poesia eziologica dai chiari intenti celebrativi, ma anche con una nuova concezione dell’amore: quella di cui si faranno protagoniste Aretusa, Tarpea, Cornelia. 2. In un libro retto dal principio del mutamento, non può essere casuale che l’elegia incipitaria – che il ruolo di un tale principio anticipa ai lettori – sia seguita da quella del dio Vertumno, che il vertere esibisce addirittura nel nome: di conseguenza l’invito iniziale del dio al lettore, perché non si stupisca della sua straordinaria capacità di mutare aspetto, è al tempo stesso un modo per ribadire che personaggi e situazioni del libro stesso dovranno sottostare a un identico principio di cambiamento 378

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e di trasformazione, delle cui conseguenze il lettore non dovrà meravigliarsi. Per di piú il lungo e ininterrotto monologo di Vertumno ribadisce a sua volta il mutato ruolo della persona loquens: se Properzio lo aveva monopolizzato nella prima parte dell’elegia proemiale, i successivi monologhi di Horos e di Vertumno mettono in chiaro che anche per questo aspetto tutto è cambiato nella tecnica del poeta; nel caso di Vertumno, poi, a rivolgersi al lettore è addirittura una statua. 3. Nell’elegia successiva Aretusa, affidando in prima persona le sue angosce e le sue premure di moglie al mezzo epistolare, non si limiterà a confermare il nuovo ruolo della persona loquens, ma a tale novità aggiungerà quella di un personaggio femminile che reclama e ottiene quel diritto di far sentire la propria voce, che in precedenza neppure a Cinzia era stato concesso. Con lei ha inizio la sfilata di personaggi femminili che solo dal carme commemorativo della vittoria di Azio verrà interrotta, per riprendere poi nella seconda parte del libro. Infido è il terreno su cui Aretusa si muove nella sua lettera al marito Licota, perché il suo sfogo tocca argomenti di rilevante portata, come la politica espansionistica di Augusto e la pretesa che il civis Romanus sia in primo luogo un soldato pronto a battersi per la patria, in merito ai quali una donna non poteva permettersi di esprimere la propria opinione e tanto meno un suo dissenso. Il principe, certo, non viene mai sfiorato dalle critiche di Aretusa, che si limita a una generica maledizione contro l’ignoto inventor degli strumenti di guerra (vv. 19-22): tuttavia la sua politica di conquista è indubbiamente chiamata in causa dalla ferma e vivace protesta nei confronti del prolungato impegno militare a cui sono sottoposti i soldati romani in terre lontane (vv. 7-10). Vero è che un parziale recupero di tali valori verrà tentato da Aretusa quando, quale estremo tentativo per rimanere insieme al marito, auspicherà che alle donne romane venga consentito libero accesso agli accampamenti militari (vv. 45-48). A una donna, dunque, Properzio affida il compito di riflettere su un aspetto significativo della condizione femminile, e lo fa conferendole ora i tratti della matrona, ora quelli dell’amante passionale: si tratta, in definitiva, degli stessi estremi fra i quali si muoveva, nei primi tre libri, la caratterizzazione di Cinzia; solo 379

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che ora si assiste a un significativo spostamento del punto di vista, perché se Cinzia era sempre considerata attraverso l’occhio del poeta, Aretusa fa suo un tale privilegio e muove dal proprio punto di vista di donna che, lasciata sola dal marito in guerra, si ritiene tradita oltre che abbandonata. Ma c’è di piú: sempre e solo dal proprio punto di vista il poeta aveva considerato la situazione analoga di Elia Galla e Postumo (3,12): lí, d’altronde, come chiariva l’apostrofe iniziale, suo interlocutore era Postumo, che per andare in guerra aveva lasciato sola la moglie, e il poeta – dopo averlo bonariamente rimproverato per la decisione di anteporre a lei la gloria militare – si era premurato di tranquillizzarlo sulla fedeltà a tutta prova della moglie, giudicandola addirittura superiore a quella della casta Penelope. La fedeltà coniugale, quindi, era considerata come un dovere solo per la donna, e la facilità nel violarla come una colpa tipicamente femminile 5. Di contro la possibilità di tradimenti da parte del marito lontano non veniva neppure presa in considerazione e il parallelo instaurato fra Postumo e l’Odisseo omerico serviva solo a caratterizzare il lungo vagare per terre e per mare, lontano dalla patria e dalla moglie in attesa. Nell’epistola di Aretusa, di contro, il marito perde il ruolo protagonistico e, anche se resta sempre sullo sfondo, ora è la moglie a interrogarsi e a tormentarsi sulla sua fedeltà. Non è detto, però, che grazie al mutato punto di vista Properzio si sia limitato a ristabilire il rapporto reale fra uomo e donna nella società romana, che la poesia d’amore elegiaca aveva sovvertito in modo paradossale. Il personaggio di Aretusa è ben piú complesso e non è solo portatore dei valori etici tradizionali, ma risente ancora degli atteggiamenti tipici della donna elegiaca. Aretusa, insomma, non anticipa soltanto il modo d’agire di Cornelia, ma anche quello di Cinzia: non si tratterà piú, beninteso, della Cinzia dei libri di poesia d’amore, bensí di quell’umbra evanescente che, riemergendo dalle tenebre dell’aldilà, nella VII elegia farà suoi quegli stessi atteggiamenti – improntati al rispetto della fides, all’obsequium, addirittura al servitium – che finora nel discorso amoroso del poeta elegiaco erano stati di totale pertinenza dell’uomo, sempre tradito dalla donna nonostante il suo

  Cfr. 3,12,17-18.

5

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rispetto della fides e l’accettazione compiaciuta di un umiliante servitium. Benché Aretusa non si vanti di discendere da illustri antenati, si capisce bene che la sua condizione è quella della matrona di aristocratica famiglia sia dalla presentazione del marito nelle vesti di valente condottiero 6, sia dalla conclamata rinuncia ai gioielli e alle vesti di lusso finché Licota resterà lontano. Della matrona, Aretusa non si limita ad esibire l’indispensabile pudicizia, allorché garantisce al marito di restargli fedele nonostante le frequenti e prolungate assenze, ma ad essa aggiunge una devozione totale, che si concretizza in una serie di premurose attenzioni nei suoi confronti. Quale prova della sua pudicizia di moglie le basta citare il fatto che ad occupare il posto nel letto lasciato vuoto dal marito sia la lamentosa cagnetta, e soltanto lei (v. 56 una); la sua premurosa devozione di moglie non si manifesta solo nella matronale tessitura, nel corso delle interminabili notti d’inverno, dei mantelli che renderanno meno duro il soggiorno di Licota negli accampamenti (v. 18) o della confezione dei cinturoni che reggeranno le sue spade (v. 19), ma anche nel suo chiedersi, preoccupata, se le spalle del marito possano essere logorate dal peso della corazza e le mani dal contatto con la lancia (vv. 23-24). E, poi, Aretusa è sempre attenta a seguire sulle mappe geografiche i suoi spostamenti nelle parti della terra piú lontane e per lei sconosciute (vv. 35-40) e, prestando una cura particolare ai presagi, non si dimentica delle offerte rituali agli dèi perché favoriscano il suo ritorno (vv. 59-62). Sono atteggiamenti, questi, che nella caratterizzazione properziana del personaggio femminile fanno qui per la prima volta la loro comparsa. Dell’ombra di Cinzia, che nella VII elegia si presenta a Properzio, Aretusa anticipa l’atteggiamento tipico dell’amante che si sente tradita e abbandonata, allo stesso modo della virgiliana Didone, di cui ripropone i nostalgici rimpianti alla vista delle armi che il marito ha lasciato in casa (vv. 29-30) e le amarezze delle notti insonni (vv. 30-31); a completare il quadro si ag6 Oltre al ruolo protagonistico a lui assegnato nella conquista di Battra (vv. 63-64), si considerino la menzione della pura hasta e l’allusione al trionfo, nei vv. 67-68.

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giunge la premurosa presenza della sorella che, coadiuvata dalla nutrice, si adopera per lenire le sue pene (vv. 41-42), proprio come aveva fatto Anna con Didone. Se consideriamo le sue parole alla luce del rapporto fra marito e moglie a Roma, allora Aretusa, nel dolersi perché è costretta a trascorrere notti piene di amarezza (v. 29) in una casa che le sembra priva di vita (vv. 51-56), riconduce il lettore a quella che era la condizione reale della donna romana, e a lui offre materia di riflessione. Se, però, valutiamo la sua epistola alla luce del rapporto fra l’innamorato e la sua donna nella poesia d’amore elegiaca, allora la novità del personaggio di Aretusa risiede nel fatto che una donna – qui addirittura una matrona – fa sua proprio quella condizione di vita che nella poesia d’amore elegiaca aveva sempre contraddistinto l’innamorato e i suoi lamenti per la fides tradita. L’adesione al nuovo modo di concepire il personaggio di Cinzia si avverte sia nella serie di mandata al marito (vv. 6370) – che Cinzia inasprirà nel formularli al poeta, reo di averla subito dimenticata – sia nell’insistenza sul sospetto che solo la gelosia può dettare. Già nell’esordio dell’epistola il malcelato rimprovero per le troppo frequenti assenze da casa (v. 2 cum totiens absis) è accompagnato dal sospetto che esse abbiano cancellato in Licota l’affetto per la moglie (si potes esse meus). Quando, poi, Aretusa si preoccupa, da brava moglie, delle spalle e delle mani del marito logorate dalle armi, costituisce una chiara manifestazione di gelosia femminile l’auspicio che ciò non derivi piuttosto dai morsi passionali di un’amante (vv. 25-26), e la sua allusione, per quanto discreta, alla macies di Licota (vv. 27-28), propone un termine che nel linguaggio erotico serve ad esprimere la consunzione amorosa. Nel prosieguo dell’elegia Aretusa converte i tratti dell’amante in quelli della moglie che pretende dal marito il rispetto del vincolo coniugale: nonostante lo stato disperato del v. 11, non c’è dubbio che la parte sana dell’esametro prima della cesura contenga un’accusa a Licota di violazione della marita fides, aggravata dal richiamo alla propria innocenza virginale, perduta col matrimonio. Infine, al termine dei suoi mandata, Aretusa mette in chiaro che a lei interessa, ben piú che il ritorno da trionfatore del marito, il suo rispetto dei foedera lecti (v. 69), perché essi rappresentano l’unica condizione per una conclu382

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sione felice della sua lontananza (v. 70 hac ego te sola lege redisse velim) 7. La collocazione stessa dell’elegia, che inaugura la serie di personaggi femminili ed è speculare a quella di Cornelia, che tale ‘sfilata’ conclude, consente di capire che la tematica dell’amore coniugale, che si sviluppa alla luce di un modo nuovo di concepire la passione amorosa e la maniera di viverla, è destinata ad occupare un posto importante nel libro di poesia elegiaca. Quale differenza dall’atteggiamento del poeta che, solo alcuni anni prima, di fronte ai progetti di legislazione matrimoniale dapprima annunciati e poi ritirati da Augusto, aveva reagito con accenti di sollievo per lo scampato pericolo di una forzata separazione dalla sua amante (2,7,1-3)! 4.  Tarpea, protagonista della IV elegia, nella tradizione seguita da Properzio è una Vestale e, quindi, è tenuta non solo a un vigile controllo del fuoco sacro a Vesta, per evitare che esso possa spegnersi, ma soprattutto alla salvaguardia della propria verginità. Invece la properziana Tarpea non solo s’innamora di Tazio, il re dei Sabini che stanno assediando Roma, ma oltre a Vesta finisce per tradire la sua stessa patria 8, indicando al capo dei nemici il momento opportuno e il luogo adatto per penetrare all’interno della città. La vicenda di Tarpea, quindi, vuole mostrare sino a qual punto l’amore possa sconvolgere una donna e quali nefaste conseguenze possa produrre. È proprio in tale interpretazione che consiste la principale novità della versione properziana del mito: legando il tradimento alla passione d’amore essa riscatta, almeno in parte, Tarpea dalla ben piú infamante accusa di aver tradito Roma in cambio dei bracciali che i soldati Sabini portavano al braccio destro 9. Nel corso dell’elegia, quindi, il poeta terrà un atteggiamento costantemente in bilico fra l’ovvia condanna del tradimento e l’esigenza di comprenderne la ragione; ciò non implica da parte

  Per il significato di lex cfr. OLD s.v. [12c]: ‘on these terms’.  4,4,87 prodiderat portaeque fidem patriamque iacentem. 9 Era questa la versione di Fabio Pittore e di Cincio Alimento, secondo Dionigi di Alicarnasso (Antiq. 2,38,3) che la condivide, mentre in Livio (1,11,5-9) è Tazio a corrompere con l’oro Tarpea. 7 8

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sua l’intenzione di giustificare il comportamento di Tarpea, che, anzi, sin dal verso iniziale assume le caratteristiche di uno scelus infamante 10: in seguito sostantivi come probrum (v. 36), crimen (v. 43), furiae (v. 68), culpa (v. 70) ed epiteti come mala (v. 17) ed improba (v. 44) in riferimento a Tarpea si incaricheranno di ribadire la decisa condanna del poeta. Nel lettore, tuttavia, resta l’impressione che Properzio non nasconda la propria sympátheia di fronte al dramma di una vergine che non riesce a resistere alla violenza della passione, anche perché cosí vogliono i grandi esempi mitici di tradimento per amore, che rimangono sempre sullo sfondo. Sin dall’inizio, infatti, Tarpea si comporta allo stesso modo delle eroine del mito, vittime della folgorazione amorosa, e il suo ammirato stupore regis facie et regalibus armis (v. 21) è lo stesso di Elena alla vista di Paride in un carme coevo di Orazio 11. A poco a poco acquista coscienza della gravità della colpa di cui sta per macchiarsi e dell’oltraggio che sta per recare non solo a Vesta, ma a tutte le donne romane (v. 36): ora, però, è in grado di capire il comportamento di Scilla e di Arianna e quando nei vv. 39-42 evoca i loro tradimenti, rispettivamente del padre e del fratello, introducendoli con l’anaforico quid mirum, il suo punto di vista s’identifica con quello del poeta, che come Tarpea invita a mettere da parte ogni sentimento di stupore per una colpa che ha una motivazione forte e in essa trova, in qualche modo, una sua giustificazione. L’aver tradito per amore, e non per avidità di denaro, non è l’unica giustificazione che Properzio fornisce a Tarpea: la protagonista dell’elegia, infatti, non vuole divenire l’amante, ma la legittima sposa del re dei Sabini 12, e la richiesta di nozze che rivolge a Tazio non è dettata dall’ambizione di divenire regina, bensí da un ben piú nobile scopo: quello, cioè, di compiere un’opera di mediazione fra Romani e Sabini, che consenta di evitare una guerra sanguinosa 13. Non è possibile, però, che una donna romana pretenda di assumere un ruolo 10  4,4,1-2 Tarpeium scelus et Tarpeiae turpe sepulcrum / fabor: nel v. 1 accetto la correzione di Kraffert del tràdito Tarpeium nemus in Tarpeium scelus. 11 Hor. Carm. 4,9,13-16 non sola comptos arsit adulteri / crinis et aurum vestibus illitum / mirata regalisque cultus / et comites Helene Lacaena. 12  Cfr. i vv. 55-56 e 88. 13  Cfr. i vv. 59-62.

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decisivo addirittura in un campo, quello militare, che è di assoluta pertinenza dell’uomo: il progetto di Tarpea, quindi, già in partenza è votato al fallimento, anche perché le nozze stesse costituiscono un’infrazione di inaudita gravità nei confronti del ruolo di una Vestale, che idealmente è considerata quale sposa dello stato romano 14. In tal modo Tarpea finirà per attirare su di sé non solo l’ira di Vesta, che per vendicarsi muterà in follia la sua passione d’amore (vv. 69-72), ma anche quella di Giove, che non può tollerare il suo abbandono della custodia del Campidoglio (vv. 85-86). Paradossalmente il compito di vendicare l’onore offeso dei Romani toccherà proprio a Tazio, consapevole che un vero capo non può premiare chi, pur appartenendo al campo nemico, col suo tradimento si è macchiato di uno scelus (v. 89): non a caso la morte che egli decreta per Tarpea col suo ordine ai soldati di seppellirla sotto il peso dei loro scudi, rinvia alla pena riservata alle Vestali, che venivano sepolte vive se non rispettavano il voto di verginità. Tarpea, quindi, sarà l’unica perdente in una vicenda in cui l’amore e la guerra s’intrecciano: la sua sorte è ancor piú tragica, perché sarà seguita dalla fine delle inimicizie fra Romani e Sabini e dalla fondazione di una nuova Roma, grazie anche all’apporto dei nemici di un tempo; era proprio questo lo scopo che Tarpea si proponeva di ottenere, ma per raggiungerlo aveva scelto la strada sbagliata. Si giustifica, alla luce di tutto ciò, quella viva partecipazione del poeta al suo dramma, che in modo manifesto è dichiarata nel verso conclusivo dell’elegia, grazie all’epiteto (iniusta) che definisce la sors di Tarpea e, al tempo stesso, indica in Tazio il vero colpevole: il pactum da lui stipulato con Tarpea – e solennemente formulato nel v. 82 grazie al poliptoto (pacta ligat, pactis ipsa futura comes) – esigeva il dovuto rispetto e non la brutale violazione col ricorso a un ignobile sotterfugio; ché se, poi, si considera il contenuto del pactum dal punto di vista di una donna innamorata, allora esso equivale in tutto e per tutto a un foedus amoris, rispettato dalla donna e violato all’uomo, con la conseguenza che il termine comes guarda in due direzioni, a seconda del punto di vista: considerato da quello di Tazio allude alla funzione di guida da parte di Tarpea, mentre da quello   Su ciò cfr. DeBrohun 2003, pp. 193-194.

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della Vestale che tradisce la patria per amore fa riferimento al suo ruolo di sposa e di compagna di Tazio nel cammino della vita. Eppure i toni con cui l’elegia si era aperta sembravano preludere a tutt’altro: il verso d’esordio, infatti, dava l’impressione d’introdurre un’elegia d’impronta eziologica, in cui – come prometteva il solenne fabor – si sarebbe sentita solo la voce del poeta. Invece il lettore deve giungere sino all’ultimo distico dell’elegia per capire che Properzio, col suo racconto del tradimento di Tarpea, ha voluto fornire l’aition del mons Tarpeius 15: ma il lettore ha ben capito che non era quello il vero intento del poeta sin da quando, nella parte centrale dell’elegia, lo ha visto cedere il ruolo di persona loquens a Tarpea, il cui monologo dai toni patetici, che per ampiezza supera la metà del carme (vv. 15-66), lo ha obbligato a riflettere sui dubbi, sulle angosce, sulle speranze di una donna che, trasgredendo il suo status di Vestale, non è capace di resistere alla forza dell’amore e finisce per tradire non solo la divinità a cui si è votata, ma addirittura la patria. È questo un segno della duplice natura dell’elegia, che si rivela come un tentativo di conciliare la novità del programma eziologico con la tradizione della poesia erotica: basta cambiare, infatti, il personaggio femminile, da Cinzia a Tarpea, per ottenere quello che, agli occhi di Richard Heinze, costituisce a Roma il primo tentativo di «elegische Erotisierung der Erzählung» 16. In tal senso l’ampio spazio accordato allo sfogo di Tarpea e i suoi toni d’intensa pateticità rinviano agli epilli di ellenistica fattura. 5. Il lettore, che vede aprirsi la V elegia con le maledizioni del poeta a una ruffiana (vv. 1-4) dotata di poteri che la assimilano alle fattucchiere e alle streghe (vv. 5-18), è indotto a credere di essere ripiombato in piena materia erotica tradizionale: alle streghe e alle fattucchiere, infatti, Properzio si era già rivolto nella prima delle sue elegie, quella dell’innamoramento, dove si era augurato di avere ragione, col loro aiuto, della resistenza di Cinzia al suo corteggiamento (1,1,19-24). In quanto alla ruffiana, figura cara alla commedia e al mimo, essa sembrava destinata a divenire 15 4,4,93 a duce Tarpeium mons est cognomen adeptus: accetto la correzione, proposta da Palmer, del tràdito Tarpeio in Tarpeium. 16 In particolare, per l’elegia di Tarpea, cfr. Heinze 1919, pp. 78-81 e 115.

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un personaggio letterario 17 e a trovare facile accoglienza nella poesia d’amore, che con la commedia mantiene solidi legami. A ostacolare una sua ‘carriera letteraria’, tuttavia, ha contribuito lo status incerto e mai ben definito della donna cantata dai poeti elegiaci, in particolare da Properzio: la sua Cinzia, infatti, pur assomigliando molto da vicino a una meretrix, assume talora gli atteggiamenti della matrona. Si capisce, allora, la marginalità di personaggi, come il lenone e la ruffiana, che essendo per forza di cose associati a una meretrix, avrebbero apertamente denunciato lo status della donna amata e cantata dal poeta. Il ruolo della ruffiana, che nella poesia di Properzio rappresenta una novità, aveva un antecedente elegiaco in quella di Tibullo, che se la prende con una lena, rea di incitare la sua Delia a concedersi a un ricco spasimante piuttosto che al poeta pauper 18; dalla caratterizzazione properziana di Acanthis dipende, invece, la Dipsas degli Amores ovidiani 19. La lena properziana, una volta ottenuto il diritto d’accesso nella poesia di Properzio, non si accontenta del ruolo di comparsa; come tutte le donne del IV libro, aspira a un ruolo protagonistico e lo ottiene col suo ingresso clamoroso: la sua voce, infatti, conquista uno spazio maggiore di quella del poeta, che, pure, è la sua vittima principale. La tecnica adottata per la persona loquens è identica a quella già esperimentata nell’elegia precedente: come lí il monologo di Tarpea era ‘incorniciato’ dalle riflessioni e dai giudizi di Properzio, cosí qui i precetti della ruffiana sono preceduti dalle maledizioni del poeta al suo sepolcro e seguiti dalla descrizione della sua fine; come nell’elegia di Tarpea, dunque, è la morte della protagonista – turpe in entrambi i casi, sia pure per motivi diversi – a far da cornice al suo monologo, mentre il poeta si riserva di esprimere il proprio punto di vista prima e dopo il monologo del personaggio femminile. Tuttavia la vera novità del carme non risiede tanto nel cambiamento della persona loquens – a cui il lettore del IV libro ha ormai fatto l’abitudine – e neppure nella inattesa e fragorosa irru-

17   Molto utile è l’introduzione di Hutchinson al suo commento dell’elegia di Acanthis (p. 137); cfr. anche Fedeli 1995, pp. 307-317. 18  Tib. 1,5,47-60. 19  Am. 1,8, su cui cfr. Dimundo 2000, pp. 151-185.

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zione di una figura in precedenza esclusa dalla poesia di Properzio: la vera novità è piuttosto nelle conseguenze che la presenza di Acanthis produce. La ruffiana, infatti, non solo si appropria di un ruolo – quello del precettore d’amore – che sinora era stato di assoluta e gelosa pertinenza del poeta, ma addirittura finisce per esercitare una funzione antagonistica nei suoi confronti, perché i suoi precetti invitano la meretrix a preferirgli gli amanti danarosi. 20 È evidente che nel passaggio dalla voce del poeta elegiaco a quella della ruffiana i precetti d’amore subiscono una singolare metamorfosi: sembra quasi che ora il mondo dell’elegia si rifletta su uno specchio deformante, tale e tanta è la distanza che nella precettistica d’amore divide il punto di vista del poeta da quello della lena, a causa delle opposte esigenze e finalità dell’uno e dell’altra. Quali precetti possa rivolgere alla sua donna un poeta desideroso di tenerla lontana da potenziali spasimanti, Properzio lo aveva messo in chiaro sin dal I libro, allorché a conquista avvenuta si era preoccupato di impartirle una serie di saggi consigli sul modo migliore di gestirsi. In tal senso l’elegia 1,2 era un tentativo di conciliare l’elogio della bellezza naturale – e della sua superiorità nei confronti di quella che la donna ricerca con i trucchi e i belletti, con i profumi esotici e con le vesti costose – con l’esaltazione della pudicizia, considerata dal poeta come una dote di per sé sufficiente a render bella una donna. Il tono del poeta, in quell’elegia, era blando e suadente, e i suoi precetti erano sorretti da un’opportuna documentazione mitica. In seguito quel ruolo di praeceptor amoris il poeta non lo aveva mai abbandonato: ed ecco che ora il tono stesso, perentorio e concretamente espressivo, adottato da Acanthis, nel collocarsi agli antipodi di quello del poeta nell’elegia 1,2, si rivela il piú adatto a sottolineare lo stravolgimento del ruolo del praeceptor amoris che ora si verifica nell’elegia, impietosamente scandito dalle parole della ruffiana. Si ha la netta impressione, infatti, che Acanthis intenda polemizzare proprio con i consigli a Cinzia di 1,2, allorché prende a esaltare i gioielli, le vesti lussuose, i costosi regali (vv. 21-26) e ad esortare la giovane meretrix perché non neghi i suoi amplessi neppure a quanti – come i soldati, i marinai, addirittura gli schia  Cfr. Myers 1996, p. 1.

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vi – appartengono agli infimi strati sociali: dal suo punto di vista ciò che conta è il denaro e non chi lo porta (vv. 49-53) 21; invece un poeta – incalza la ruffiana – che cosa può portare in dono all’infuori delle sue poesie (v. 54) 22? Il poeta d’amore, si sa, è facile preda di una gelosia morbosa e, in assenza di rivali, è lui stesso a inventarseli e a scorgerli ovunque 23: Acanthis, di contro, incita la meretrix a suscitare la gelosia del suo spasimante addirittura esibendo sul collo i segni vistosi dei morsi passionali dei propri amanti (vv. 37-40). Se c’è, poi, un personaggio detestato dal poeta d’amore, si tratta del custos che gli impedisce di accostarsi alla donna amata se alla sua porta si presenta a mani vuote: di contro il custos è un alleato indispensabile per la ruffiana, proprio per questa sua attività, e il poeta, che spesso indossa i panni dell’exclusus amator costretto a implorare invano di essere ammesso in casa dell’amata 24, ora deve ascoltare il perentorio invito a lui rivolto dalla ruffiana, perché stia ben attento a non far entrare chi bussa senza portar denaro. Il foedus amoris che il poeta stipula con la sua donna obbliga entrambi al rispetto della fides 25: già Catullo aveva messo in chiaro il carattere sacro di un vincolo idealmente contratto avendo gli dèi quali testimoni; sulla sua scia Properzio si preoccupa di ricordare continuamente a Cinzia il senso e il valore della fides 26. Di contro Acanthis, nello splendido trikolon del v. 27 (sperne fidem, provolve deos, mendacia vincant), tesse l’elogio del mendacio, del disprezzo della parola data e degli dèi che del foedus sono i garanti, col chiaro scopo di convincere la sua allieva a non tenere in alcun conto quelle che nella morale comune sono le leggi della pudicizia femminile (v. 29 frange et damnosae iura pudicitiae), perché nel caso suo il loro rispetto produrrebbe un catastrofico danno economico.

  Cfr. invece, per il punto di vista del poeta d’amore, 2,16,7-8; 3,13,1.   Cfr. invece 1,8,33-42; 2,26,23-26. 23   Sulla figura del rivale cfr. Fedeli 1990, pp. 121-155. 24  Oltre a 1,16, cfr. 1,5,20; 2,23,9. 11-14 e l’esito paradossale di 2,29. 25  Cfr. ora J. A. Estévez Sola, Pacto de amor, in R. Moreno Soldevila (Ed.), Diccionario de motivos amatorios en la literatura latina (siglos III a.C. - II d.C., Huelva 2011, pp. 305-310. 26  Cfr. e.g. 1,4,16; 1,12,8; 2,17,18; 2,20,15-18; 2,26b,27; 3,15,9-10; 3,20,910. 21-24. 21 22

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A coronamento dei suoi precetti, Acanthis invita la meretrix a trarre il massimo profitto dalla sua attività finché è giovane, prima del rapido sopraggiungere della vecchiaia (vv. 59-62); in tal modo la ruffiana stravolge l’esortazione a suo tempo rivolta da Properzio a Cinzia (2,15,49 tu modo, dum lucet, fructum ne desere  vitae!) 27: lí, infatti, le parole del poeta dovevano convincere la donna amata a ripetere quella nox candida descritta ed esaltata dal poeta sin dall’inizio dell’elegia; ora, invece, gli amplessi disinteressati col poeta innamorato vengono sostituiti da quelli, ben pagati, con gli amanti occasionali. Però, nonostante l’impegno profuso nell’impartire la sua precettistica d’amore, non sembra proprio che Acanthis ne abbia tratto i frutti sperati: è singolare, infatti, il contrasto fra i poteri che il poeta le assegna all’inizio dell’elegia, assimilandola alle streghe e alle fattucchiere, e la squallida povertà che emerge dalla descrizione della sua fine nella chiusa dell’elegia. In tal modo il poeta può ottenere la sua rivincita; ma essa giunge solo dopo che, nel corso del carme, la sua voce è stata sopraffatta e annullata da quella della ruffiana. In quanto alla meretrix a cui Acanthis si rivolge, il lettore sprovveduto può essere indotto a pensare che si tratti proprio di Cinzia, sia dall’atteggiamento vendicativo del poeta sia dal ritorno del distico iniziale di 1,2 nei vv. 55-56: un ritorno, a dire il vero, molto sospetto, perché nel monologo della lena quei versi sono superflui e probabilmente costituiscono un’aggiunta di un copista, che ritenne di aver trovato conferma alla sua identificazione della meretrix proprio nella menzione della Coa vestis e, di conseguenza, deliberatamente aggiunse quel distico che parlava della veste di Cos in riferimento a Cinzia. C’è da esser certi, tuttavia, che l’identificazione della meretrix non interessava né ad Acanthis né al poeta, il cui scopo non era quello di raffigurare la sua Cinzia in balia di una ruffiana, ma piuttosto quello di presentare un personaggio femminile finora escluso dalla poesia d’amore elegiaca. 6.  Si è già detto della centralità della VI elegia, che celebra il XV anniversario della vittoria aziaca: essa si riflette anche nella struttura, perché attorno a un nucleo centrale (i vv. 15-68) ruo  Cfr. anche i vv. 51-54 della stessa elegia.

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tano il proemio (i vv. 1-14) e l’epilogo di carattere simposiaco (i vv. 69-86). Al poeta, che nel carme di apertura ha esaltato la nuova Roma augustea, la fausta ricorrenza offre la possibilità di tessere accanto all’elogio del principe anche quello della gens Iulia. Augusto non viene esaltato solo per aver guidato la flotta vittoriosa, ma anche per le mire espansionistiche che a lui vengono attribuite; la lode che egli riceve, però, non resta confinata nel settore bellico, ma coinvolge la sacralità della sua figura, grazie allo stretto legame istituito fra lui e Apollo, suo nume tutelare, e alla certezza della sua divinizzazione. Il ruolo centrale di Apollo assume un significato particolare, se si considera che il dio è presentato dapprima come implacabile arciere, poi come pacifico citaredo: nella sua veste ‘bellica’ Apollo si rivolge al futuro vincitore di Azio con un ampio discorso (vv. 37-54), in cui le perentorie esortazioni si alternano con le assicurazioni di una immancabile vittoria: il tono è quello di un generale che arringa il suo esercito prima della battaglia, e a tale ruolo lo collega anche il gesto conclusivo (vv. 53-54), tipico di un trionfatore che sul suo cocchio reca l’alloro da depositare nel tempio di Giove. Se ne deduce che l’elegia non va considerata alla stessa stregua di un inno in onore di Apollo: l’intento manifesto di Properzio è quello di celebrare Augusto servendosi sia dell’intervento di Apollo sia dell’aition del tempio di Apollo Palatino 28; che sia questo il compito dell’elegia, è proclamato a chiare note nel v. 13 Caesaris in nomen ducuntur carmina e ribadito, a scanso di equivoci, dal poliptoto a cornice (Caesaris ... Caesar). Con ciò non si vuole negare l’affinità dell’elegia con l’inno callimacheo ad Apollo 29, che si fonda su un’esplicita dichiarazione di fedeltà a Callimaco e a Fileta, e al loro modo di far poesia, nella sezione proemiale: in tal senso, d’altronde, vanno sia la menzione dell’acqua di Cirene e delle ghirlande filitee, della pura laurea e del novum iter, degli epiteti mollis e  blandus, sia la metafora dell’acqua. Tuttavia non si avverte l’esigenza di un proemio cosí concepito, se si ritiene che esso abbia lo scopo   Cfr. Pillinger 1969, p. 192, Cairns 1983, p. 99, Gurval 1995, p. 257.  Nessuno l’ha posta in dubbio, dopo le ricerche di Rostagni 1916, pp. 375382; cfr. anche Boucher 1980, pp. 198-201, Heyworth 1994, p. 59. 28 29

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di ribadire la fedeltà di Properzio ai principi della poetica alessandrina: Properzio l’aveva già proclamato nelle elegie programmatiche del III libro – in particolare nella I e nella III – e non c’era alcun bisogno che lo riaffermasse qui, dopo aver reso nota la sua aspirazione a divenire il Romanus Callimachus (4,1,66); era, invece, importante far capire al lettore, dopo il solenne auspicio dell’elegia incipitaria, quale distanza separasse una professione di callimachismo ancora legata al canto d’amore – come nel III libro – da un’adesione agli stessi principi di poetica, sorretta dall’intento di praticare una via nuova. Proprio per questo motivo Properzio poteva legittimamente definirsi il  Romanus Callimachus, ora che si accingeva a mostrare come la poesia patriottico-celebrativa potesse inserirsi in un programma callimacheo 30. A Orazio, di contro, lo avvicina la chiusa di carattere simposiaco. Esaurito il canto di guerra – come conferma la trasformazione di Apollo in citaredo – il poeta si dà alle gioie del convito, in cui viene accordato un ampio spazio al canto poetico (vv. 69-76): fino al sorgere del sole i convitati gareggeranno nel celebrare le imprese compiute da Augusto e nel prevedere quelle future (vv. 77-86). Il simposio segna il passaggio dalla sfera pubblica a quella privata: allo stesso modo si comporta l’Orazio del IV libro delle odi, sia nel V carme (Divis orte bonis), con un’identica progressione dalla sfera pubblica alla dimensione privata del simposio familiare (vv. 29-40), sia nel XV, dove alla celebrazione iniziale dell’aetas di Augusto (vv. 1-27) fa seguito nella chiusa il domestico elogio quotidiano dei Romani (vv. 25-32). Costante è la preoccupazione del poeta di conciliare la sacralità con la proclamazione di un canto poetico di tipo nuovo: eziologico vuol essere l’argomento (v. 11: l’aition del tempio di Apollo Palatino), ma un tale fine passa in secondo piano di fronte all’esigenza di rendere manifesti al lettore gli orizzonti nuovi che al distico elegiaco ora si dischiudono. Ecco, allora, che la ricercata centralità dell’elegia trova una nuova conferma nella sua funzione di ‘proemio al mezzo’: la stessa, cioè, che Ennio aveva assegnato al proemio del VII libro degli  Ottime osservazioni si possono leggere in Günther 2006, pp. 375-377.

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Annales 31, Virgilio ai versi iniziali della VI bucolica 32 e al proemio del III libro delle Georgiche 33, Orazio all’VIII dei 15 carmi del IV libro 34. È tipico dei poeti augustei il ritenere legati a una tradizione antica i proemi di carattere contenutistico e, di contro, il considerare piú moderni quelli programmatici, in quanto fedeli ai canoni dell’alessandrinismo 35. Non a caso Properzio riserva il suo ‘proemio al mezzo’ alla presentazione di un nuovo tipo di poesia, che non coincide in tutto e per tutto con quella di stampo callimacheo preannunciata nella prima parte dell’elegia incipitaria del IV libro. All’inizio il suo intento sembra limitarsi alla ricostruzione di un aition: si capisce presto, tuttavia, che egli persegue lo scopo, ben piú complesso e ambizioso, di mettere in luce le potenzialità non ancora sfruttate del distico elegiaco, che non serve solo a cantare gli amori, ma anche gli arma e, dunque, allo stesso modo dell’esametro dell’epos può essere impiegato per celebrare eventi di grande rilievo, come appunto lo scontro navale di Azio. Ciò non implica necessariamente che il risultato di tanto impegno sia esaltante: ma a Properzio va dato atto di aver tentato di percorrere realmente quel novum iter, che nel v. 10 egli lascia intravedere al lettore. L’originalità dell’elegia, però, non risiede solo nel suo carattere di audace esperimento, ma anche nella coesistenza di motivi e di tecniche della poesia alessandrina con la celebrazione in tono solenne di un avvenimento storico di grande rilievo e nella moderna rilettura dell’inno callimacheo ad Apollo. 7.  La centralità di un’elegia che, dopo essersi fissata un obiettivo eziologico (4,6,11 Musa, Palatini referemus Apollinis aedem), aveva finito per cantare la gloria di Augusto e della sua gens, poteva suscitare legittime attese di una serie di carmi, in cui il disegno eziologico-celebrativo della prima parte di 4,1 trovasse piena realizzazione. Ecco che, invece, nell’elegia successiva il poeta

 Enn. Ann. 206-212 Sk.  Verg. Buc. 6,1-12. 33 Verg. Georg. 3,1-48. 34 In proposito cfr. Fedeli-Ciccarelli 2008, p. 26. 35  Per i ‘proemi al mezzo’ è d’obbligo rinviare a Conte 1984, pp. 121-133. 31 32

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ritorna bruscamente alla materia erotica, e lo fa introducendo addirittura Cinzia quale protagonista: sembra proprio che, con una mossa a sorpresa, invece di praticare il nuovo modo di far poesia orgogliosamente annunciato nell’elegia programmatica, egli abbia voluto affiancare al centro ‘patriottico’ del libro un centro ‘erotico-elegiaco’ 36 e dunque, in definitiva, a una strombazzante poetica dell’epos in distici il ritorno del distico elegiaco sul suo terreno abituale. Le parole di Horos erano chiare e preludevano all’ingresso sulla scena elegiaca del IV libro della Cinzia di sempre, monopolizzatrice del discorso poetico di Properzio (4,1,139-140), energica domina di un uomo di nascita libera ridotto a suo schiavo (4,1,143-144) e, per di piú, ingannatrice e infedele (4,1,145146): è questa, d’altronde, la Cinzia attesa dal lettore, che ormai si sta interrogando sulle ragioni di una promessa non mantenuta. Cinzia, finalmente, compare, ma quanto diversa da quella di un tempo! Ci si attendeva una Cinzia carica di energica vitalità e invece ci si imbatte in un’umbra che giunge dall’oltretomba e si ritiene addirittura vittima di un complotto; tuttavia, superato il primo momento di stupore, il lettore è indotto a ritornare sui propri passi e, nel ripercorrere mentalmente l’iter del IV libro, si rende conto che la nuova formulazione del ruolo del personaggio femminile nella poesia elegiaca conduce coerentemente e inevitabilmente a una nuova concezione della poesia d’amore e del ruolo che spetta alla sua protagonista. Cinzia, che muore per ritornare in vita nell’elegia successiva diviene il simbolo di una poesia che non rinnega il passato, ma capisce di doverlo adattare a istanze innovatrici. Anche in questa elegia il punto di vista è quello del personaggio femminile: il fatto, però, che ora si tratti di Cinzia fa sí che il suo lungo monologo di 82 versi produca conseguenze devastanti nel modo convenzionale di concepire il rapporto uomo-donna nella poesia d’amore elegiaca; è inevitabile, d’altronde, che una volta conquistato il diritto di parola la donna elegiaca lo sfrutti sino in fondo e finisca per sconfessare in toto la concezione dell’amore, che finora era stata presentata solo dal punto di vista del poeta. In luogo del suo mondo alla rovescia,  In proposito cfr. Janan 2001, p. 102.

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caratterizzato dall’inversione dei valori tradizionali e del rapporto fra i sessi, ora viene ristabilita la realtà, che s’identifica con la totale dipendenza della donna dall’uomo e col devoto rispetto, da parte della donna, di quella fides che, invece, è sempre l’uomo a violare. In luogo del servitium amoris dell’innamorato elegiaco, ora viene ripristinata la condizione effettiva della donna romana, schiava del suo uomo e vittima della sua indifferenza e dei suoi tradimenti 37. Ben si giustifica, quindi, la perentoria richiesta al poeta, da parte di Cinzia che nell’aldilà è stata premiata per la sua fides in amore, perché bruci tutti i versi in cui è stata cantata (4,7,77-78) come una domina possessiva e infedele. È evidente che bruciare i versi d’amore equivale a distruggere quel mondo alla rovescia di cui essi erano espressione: al posto loro basta a Cinzia un solo distico, da incidere sul suo monumento funebre, ed è lei stessa a dettare a Properzio il proprio epitaffio (4,7,8586); è questo il ricordo di sé che la donna cantata in tanti versi d’amore preferisce lasciare ai posteri, con un solo epiteto (aurea) che racchiude tutte le sue virtú. Eppure all’inizio il monologo di Cinzia, dopo l’accusa di perfidia rivolta al poeta, aveva concesso spazio alla rievocazione del tempo dell’amore felice: dal prosieguo dell’elegia si capisce, però, che l’intenzione di Cinzia non era quella di proporre come paradigmatiche e degne di nostalgico rimpianto le situazioni dell’amore elegiaco, e non solo perché nel contesto in cui vengono rievocate (4,7,15-22) esse sono funzionali a un efficace contrasto con la violazione della fides da parte del poeta; in realtà il ricordo del passato offre a Cinzia l’occasione di inserire l’amore per Properzio in uno scenario nuovo, che ha come spazio non piú Roma bensí i campi dei beati e come tempo non piú quello breve della vita, ma quello infinito al di là della morte. Sorretta da questa certezza, Cinzia può accettare con superiore distacco il momentaneo tradimento della fides da parte di Properzio, che non ha perso tempo per rimpiazzarla (4,7,39-50; 93-94), e nella conclusione del suo monologo può riappropriarsi di quel tono possessivo (4,7,93 mox sola tenebo), che nella poesia di Properzio aveva caratterizzato il suo ruolo di donna dominatrice.   Cfr. le giuste osservazioni di Wyke 2002, p. 185.

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Si può convenire con Günther 38 che il motivo dell’eternità dell’amore al di là della morte sia l’espressione piú alta del sentimentalismo della poesia elegiaca; si può aggiungere, tuttavia, che nella chiusa del monologo di Cinzia il motivo della morte che non mette fine alla passione d’amore diviene al tempo stesso la migliore garanzia di sopravvivenza per i temi della poesia erotica properziana, nel IV libro rivisitati e rinnovati, ma non eliminati. Inquadrati in tale prospettiva acquistano un senso diverso i  mandata che Cinzia, come già Aretusa e come poi Cornelia, rivolge al suo uomo: i mandata dei vv. 71-78, infatti, piú che a segnare il ritorno della donna dominatrice servono a garantire la necessaria protezione alle ancelle devote e fedeli. Anche nel carme che segna il ritorno di Cinzia non manca una concessione al programma eziologico: non si tratterà, ovviamente, dell’origine di luoghi o di culti, ma di quel gusto etimologico che fa sí che i personaggi minori rievocati nel corso dell’elegia siano tutti portatori di nomi parlanti: da Latris, cui nomen ab usu est (v. 75), a Chloris, da Nomas a Petale e a Parthenie 39: una caratteristica, questa, che accomuna l’elegia dell’umbra di Cinzia alle altre che nel libro vedono personaggi femminili quali protagonisti. 8.  L’esordio dell’VIII elegia sembra concepito per un carme eziologico in piena regola, perché il poeta proclama di voler svelare le cause della fuga in massa degli abitanti dell’Esquilino nella notte appena trascorsa (vv. 1-2); si tratta, a dire il vero, di una stravagante espansione dell’interesse eziologico, che invece nell’elegia proemiale coinvolgeva i sacra, i dies e i cognomina prisca locorum: ma il lettore intuisce, dalla menzione della rissa nella taverna e dall’accenno alla reputazione infangata (nei vv. 19-20, che vanno trasposti dopo il distico iniziale), che in realtà si tratta di un evento che non riguarda la comunità dell’Esquilino, ma solo il poeta, e intuisce che d’ora in poi la solennità stilistica avrà chiari intenti parodici. L’impegno eziologico riaffiora, poi, nell’ampia e dettagliata digressione sul culto dell’annosus draco di Lanuvio (vv. 3-14); apparentemente c’è affinità con la ricerca   Günther 2006, p. 380.   Cfr. Janan 2001, p. 106.

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delle cause promessa nell’esordio, perché la digressione si muove su un terreno antiquario: in realtà non vengono illustrate le origini del culto, e al poeta interessa piuttosto tratteggiare, con ironia callimachea, la paura delle vergini, la gioia dei loro genitori per lo scampato pericolo, la bonaria esultanza dei contadini. Almeno l’impegno a sacra canere, però, sembra rispettato fino al v. 14: è solo nel distico di transizione fra la sezione antiquaria e quella narrativa (vv. 15-16) che il poeta mette in chiaro la sua strategia e fa capire che la dotta digressione è funzionale alla presentazione della scappatella erotica di Cinzia. Ci si potrà meravigliare della decisione di presentare sulla scena della poesia elegiaca prima una tenue umbra di Cinzia, che giungendo dall’oltretomba si fa portavoce di una matronale concezione della fedeltà al proprio uomo, e poi, nell’elegia successiva, la donna dominatrice e traditrice di un tempo, alla quale si era riferito Horos. Tuttavia il ricorso a un apparente hysteron proteron ha piú d’una motivazione: dopo gli insulti e le maledizioni del poeta nella chiusa del III libro, Cinzia poteva solo comparire come un’umbra, che dalle superiori altezze dei campi Elisi può perdonare e ammonire; se, invece, il poeta avesse invertito la successione delle due elegie, avrebbe clamorosamente sconfessato se stesso e assecondato troppo apertamente le previsioni di Horos. Dell’inversione della successione cronologica si può fornire anche una spiegazione letteraria, perché in entrambe le elegie sia Cinzia sia Properzio agiscono alla luce di grandi modelli omerici: in quanto umbra, nella VII elegia fa suo il ruolo di Patroclo, che ucciso da Ettore si presenta in sogno ad Achille nel XXIII canto dell’Iliade, e implicitamente attribuisce a Properzio il ruolo di un Achille insonne; nell’VIII elegia, invece, si approprio del furore vendicativo di Odisseo al suo ritorno ad Itaca nel XXIII canto dell’Odissea, e assegna in tal modo a Properzio il ruolo di una degradata Penelope, che vorrebbe consolarsi ma non ci riesce: è logico, quindi, che un’elegiaca Iliade, quella della VII elegia, debba precedere un’altrettanto elegiaca Odissea, quella cioè dell’VIII. L’inversione della successione cronologica turba soprattutto quanti considerano le elegie di Properzio come una cronaca fedele della vita vissuta e, di conseguenza, assegnano alla donna da lui cantata realistici contorni, irrimediabilmente compromessi, 397

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tuttavia, da uno status altalenante fra quello della meretrix della Suburra e quello della matrona. Basterà citare un esempio, proprio dalla VII elegia: le acrobatiche fughe di Cinzia dalla sua casa nella Suburra non hanno nulla di matronale, mentre il luogo e la tattica di elusione del custos ben si adattano alla condizione di meretrix; si tratta, però, di una meretrix che al suo servizio ha una schiera di schiavi e di ancelle, come solo un’aristocratica matrona poteva permettersi. Ma sul carattere prevalentemente letterario della figura di Cinzia, che si fonda su nobili modelli della tradizione ellenistica e latina, molto è stato scritto in epoca recente, dopo che la Wyke, nel suo volume del 2002, ha indirizzato verso la strada giusta. Come si è detto sopra, intesa in chiave simbolica la morte di Cinzia da un lato sta a sanzionare la fine di una poesia d’amore che si fondava sull’inversione delle regole di comportamento della vita reale e i suoi rimproveri a Properzio hanno il senso di una sconfessione del mondo fittizio costruito dal poeta d’amore: dall’altro, però, il contenuto stesso delle rivendicazioni di Cinzia, che a quel mondo finiscono per ricondurre il lettore, fa capire che Properzio non vuole rinnegare la poesia del passato, della quale, anzi, l’elegia successiva s’incarica di riaffermare la vitalità grazie alla presentazione di Cinzia con gli stessi tratti dei primi tre libri. Tutto, d’altronde, soggiace alla legge del mutamento continuo: omnia vertuntur, certe vertuntur amores, aveva proclamato Properzio nel II libro 40; non c’è da stupirsi, quindi, se egli ha rapidamente sostituito Cinzia nel mondo degli affetti, e neppure se Cinzia morta ricompare subito dopo come viva, per riaffermare la vitalità di una poesia che Properzio non intende rinnegare, come invece vorrebbe l’umbra di Cinzia. I tempi, però, sono cambiati e il nuovo Properzio augusteo capisce bene che non si può continuare a cantare un mondo dai valori invertiti: è proprio per questo, credo, che della Cinzia dell’VIII elegia egli accentua con effetti parodici – ancor piú vistosi per i nobili modelli che sono alle sue spalle – i tratti della donna gelosa, infedele e dominatrice. Nel IV libro, lo si è visto, il discorso amoroso non coinvolge solo il poeta e Cinzia, ma alle loro voci altre si uniscono: si ha l’impressione, però, che nelle due elegie che vedono Cinzia qua 2,8,7.

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le protagonista il poeta abbia voluto condensare gli aspetti principali del suo rapporto con la donna amata, grazie al suo sfogo sulla fides tradita nella VII elegia e alle vicende di tradimento e di riappacificazione nell’VIII. Nell’VIII, in particolare, Properzio ha inserito motivi e situazioni che rinviano alla poesia epica in un quadro che ripropone motivi e situazioni della poesia elegiaca d’amore, dal sospetto al tradimento, dal desiderio di rivalsa alla vendetta dell’amante tradita, dal rinnovato foedus amoris alla riconciliazione finale. In tal modo da un lato egli ha reso omaggio alla poesia erotica dei libri I-III, dall’altro ha mostrato le potenzialità di una poesia che è in grado di aprirsi a generi diversi o addirittura antitetici. Nei vv. 77-78 della VII elegia Cinzia, forte dell’auctoritas che le derivava dalla sua condizione particolare, aveva ordinato in modo perentorio a Properzio di bruciare tutti i versi d’amore scritti per lei: l’VIII elegia costituisce la risposta del poeta, che non solo disobbedisce al suo mandatum, ma concepisce un carme la cui conclusione, con la riconciliazione degli amanti sancita dalla rinnovata unione sessuale, costituisce la realizzazione terrena del mox sola tenebo previsto da Cinzia per la comune vita ultraterrena nella chiusa della VII e rappresenta uno splendido omaggio alla donna amata e alla poesia d’amore che l’aveva cantata. Non c’è nulla di strano, dunque, nel fatto che un personaggio letterario muoia per poi rinascere: anzi, proprio questo può essere il modo scelto da Properzio per rispettare il programma fissato nell’elegia programmatica. È probabile, però, che nel riaffermare la validità della poesia dei libri I-III egli abbia considerato realmente chiusa, con l’VIII elegia del IV libro, la sua esperienza di poeta d’amore: è significativo, infatti, che nella conclusione dell’elegia la fine delle ostilità in amore, solennemente scandita dall’ambivalente solvimus arma, coincida con la fine del canto d’amore e col distacco definitivo da Cinzia. D’altronde, una volta cessati i motivi di contrasto, gli unici capaci di mettere in moto la dinamica narrativa, non c’era piú motivo di cantare un rapporto d’amore che di essi si era nutrito, e che ora aveva esaurito la sua vivace specificità. Sulla vicenda d’amore cantata nel passato, ora il poeta può ritornare con uno sguardo ironico, enfatizzando il servitium dell’uomo nei confronti della donna e, dunque, proprio ciò che 399

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maggiormente era in conflitto con le regole di comportamento della vita reale: non a caso nella IX elegia Ercole stesso sarà in balía del volere delle donne e anche di lui verrà fornita una ironica e degradata presentazione come exclusus amator ; di conseguenza anche quello della IX elegia sarà un modo nuovo di riproporre motivi convenzionali della poesia d’amore in una situazione che non ha nulla di erotico. 9.  Come eziologica viene di solito etichettata la IX elegia, e chi lo fa rinvia sia all’aition dell’esclusione delle donne dal culto dell’Ara Massima sia a una serie di espedienti di varia natura che al gusto eziologico possono essere ricondotti, anche se nella maggior parte dei casi si tratta della ricerca di sottili rapporti etimologici. Allo stesso modo, allora, si dovrebbe definire eziologica anche l’elegia di Tarpea, che però – come si è visto – pur muovendo dal proposito d’illustrare un aition persegue intenti ben diversi; di contro il gusto eziologico a proposito dei nomi propri affiora anche nelle due elegie che vedono agire Cinzia e che nessuno penserebbe mai di definire come eziologiche. Nel caso della IX elegia, d’altronde, la componente eziologica costituisce solo un aspetto di un carme ben piú complesso ed è confinata in uno spazio secondario dal gusto del narrare. Del protagonista non viene presentato solo l’aspetto eroico, ma anche quello degradato, e la sua doppia personalità si riflette nei due momenti dell’elegia, che sviluppa in modo diseguale due diverse vicende (la lotta di Ercole e Caco; l’acqua negata ad Ercole assetato dalle donne che celebrano i riti della Bona Dea) e accorda uno spazio maggiore proprio all’episodio in cui la violenza di Ercole si manifesta in modo tutt’altro che eroico. Oltre che per ampiezza, le due sezioni si differenziano per contenuto e per tono: l’Ercole bucolico dell’esordio sarà costretto a dare prova della sua eroica possanza nello scontro con Caco; la sete che lo assale dopo l’esito felice della lotta cruenta segna il passaggio alla presentazione del suo aspetto degradato: in un’inesorabile anticlimax, Ercole si ridurrà a implorare le donne, prima di perdere la pazienza e di fracassare la porta del luogo sacro alla Bona Dea. Nella presentazione dell’Ercole eroico, Properzio segue la via indicata da Virgilio, in quella ‘passeggiata archeologica’ 400

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di Evandro e di Enea nei luoghi della futura Roma, da cui il poeta elegiaco aveva tratto l’ispirazione per la sua passeggiata archeologica con l’hospes nell’esordio del IV libro: il percorso virgiliano era contrassegnato da una serie di richiami eziologici, che culminavano in quello del culto di Ercole nell’Ara Massima, con un’ampia narrazione dello scontro con Caco. Properzio aderisce alla versione virgiliana del mito, ma da essa prende le distanze collegando l’aition alla furibonda reazione di Ercole assetato. Dell’episodio che segna la degradazione di Ercole esiste solo una notizia, di probabile origine varroniana, da parte di Macrobio (Sat. 1,12,27), ma essa basta a farci capire che sul motivo dell’acqua rifiutata ad Ercole il poeta ha costruito una sua storia, trasformando in sacerdotessa la generica mulier della tradizione varroniana e imprimendo alla vicenda una svolta inattesa: dapprima con le umilianti suppliche di Ercole alle donne, poi con la sua demolizione della porta del luogo sacro. Invano Ercole, per vincere la resistenza delle donne, ricorda l’umiliante periodo della sua schiavitú alla corte della regina di Lidia, quando fu costretto non solo a svolgere degradanti mansioni ancillari, ma addirittura ad indossare le vesti della stessa Onfale. Mentre l’Ercole virgiliano è un eroe taciturno che non profferisce verbo, quello properziano da possente lottatore sa mutarsi anche in instancabile oratore, capace di sfoggiare un eloquio essenziale quando si tratta di rivolgersi ai buoi perché consacrino coi loro muggiti il Foro Boario o di proclamare il divieto di partecipazione delle donne al culto dell’Ara Massima, ma pronto a dare libero sfogo alla sua parlantina quando è costretto a supplicarle ante fores. È vero che in tale circostanza i suoi, secondo Properzio, sono verba minora deo (4,9,32): tuttavia il commento del poeta prende di mira non tanto le scelte lessicali quanto piuttosto il tono del discorso di Ercole e registra anche sul versante stilistico il suo passaggio dalla dimensione eroica a quella degradata, che tanto lo avvicina a un exclusus amator. È evidente, infatti, che l’Ercole properziano, costretto a supplicare perché gli siano aperte le fores, viene a trovarsi nell’identica situazione dell’innamorato escluso, che di fronte alla porta sbarrata si rivolge all’amata implorandola di farlo entrare, e la sua violenza contro la porta è la stessa dell’innamorato stanco di attendere. 401

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Lo status di Ercole nella IX elegia, dunque, oscilla fra i poli estremi della natura divina e umana, fra le esibizioni di una spiccata virilità e il degradante cedimento al volere di una donna, fra la superiore dignità nel fissare le disposizioni relative al suo culto e l’irrazionale scoppio di collera che lo spinge a demolire la porta di un luogo sacro. In particolare, nella seconda parte dell’elegia è la logica della contraddizione a ispirare il suo modo d’agire, perché Ercole resta un personaggio profondamente misogino nonostante i trascorsi ‘femminili’ di cui si vanta per necessità. La conclusione del suo incontro-scontro con le donne riafferma in tutta la sua brutalità la loro inferiorità nei confronti dell’uomo. Che ciò abbia lo scopo di bilanciare o di mettere in discussione l’atteggiamento convenzionale di sottomissione e di servitium dell’innamorato elegiaco, riproposto dalle due elegie di Cinzia (è questa l’opinione di Hutchinson nel suo commento), non mi convince affatto: non solo perché, dopo il duplice programma fissato da Properzio e da Horos nella prima elegia, tutte le altre – a cominciare da quella di Vertumno – hanno funzione e collocazione specifiche, ma soprattutto perché l’ipotesi di Hutchinson non tiene in alcun conto la duplicità del personaggio di Ercole, che non è solo un brutale sopraffattore di donne, ma anche un eroe invitto: credo che proprio in questa sua duplice natura risieda la spiegazione della sua presenza nel IV libro di Properzio. La diffusione del culto di Ercole in ambiente augusteo doveva superare un ostacolo non lieve, perché Antonio aveva fatto di lui il nume tutelare della sua gens e non solo cercava di esibire una virilità simile a quella che i prodotti dell’arte figurativa attribuivano ad Ercole, ma si sforzava di assomigliargli anche nel modo di vestire 41. Mentre Antonio si prodigava per costruire un’immagine eroica di sé sfruttando le doti di Ercole, i suoi avversari politici lo combattevano sul suo stesso terreno, proponendone l’identificazione con l’Ercole degradato, in particolare con l’Ercole schiavo di Onfale 42.   Cfr. Plut. Ant. 4,1-3.   Particolarmente significativo, perché si ricollega alle affermazioni dell’Ercole supplice in Properzio, è il parallelo che Plutarco istituisce, nella comparatio di Demetrio e Antonio, fra l’Ercole schiavo di Onfale e Antonio schiavo d’amore di Cleopatra, con un rinvio all’arte figurativa da cui si può dedurre che un tale confronto era abituale (Comp. Dem. et Ant. 3,4). 41 42

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Come si è visto a proposito della VI elegia, Apollo era la divinità protettrice del principe; tuttavia Augusto non poteva restare insensibile al fascino di un dio sempre vittorioso, come Ercole, se non altro perché anche per lui era stata programmata e prevista dai poeti della sua cerchia una divinizzazione post mortem in seguito alle imprese compiute in vita. Ciò sembra confermato dalla coincidenza tutt’altro che casuale della data del suo triplice trionfo (dal 13 al 15 agosto del 29 a.C.) con quella dell’annuale anniversario della fondazione dell’Ara Massima (il 12 agosto): proprio il 12 agosto egli si era presentato di fronte alle mura di Roma, in attesa della celebrazione del trionfo 43. Come lasciava prevedere un simile esordio, il culto di Ercole finí per occupare un ruolo di primaria importanza nella Roma augustea: nonostante la predilezione del principe per Apollo, da un lato i templi in onore di Ercole si moltiplicarono a Roma 44, dall’altro soprattutto Virgilio e Orazio si adoperarono per mettere in risalto le analogie fra Ercole e Augusto 45. Non c’è da stupirsi, quindi, se nello stesso senso vanno le intenzioni di Properzio. In quanto, poi, allo spazio insolitamente ampio e al ruolo importante da lui accordati al culto della Bona  Dea, piú volte si è cercato di metterli in rapporto col motivo del travestimento da donna nella supplica di Ercole 46 e si è attribuita al poeta elegiaco l’intenzione di ricordare ai lettori l’audace espediente escogitato da Clodio per introdursi, travestito da donna, in casa di Cesare proprio quando vi si celebrava una cerimonia in onore della dea e per approfittare indisturbato dei favori della moglie dell’illustre personaggio. Si era, allora, nel 55 a.C., e sembra poco probabile che, quasi quarant’anni dopo, al sentir parlare di Ercole in abbigliamento femminile il pensiero dei lettori sia andato a quell’avvenimento; ben piú realistica appare l’ipotesi che vede nella coppia Antonio – Cleopatra la proiezione della coppia mitica ricordata da Properzio. L’insistenza stessa sul culto vietato agli uomini e sulle terribili pene per i trasgressori acquista ben altro   Cfr. Huttner 1997, p. 369 n. 3 e la bibliografia lí citata.   La lista completa è in Spencer 2001, p. 265. 45  Sulla figura di Ercole nella poesia oraziana si rinvia a C. Santini, Ercole, «EO» II 1997, pp. 366-367, nella poesia virgiliana a K. Galinsky, Ercole, «EV» II 1985, pp. 361-363. 46  Cfr. e.g. Galinsky 1972, p. 55 e, trent’anni dopo, Spencer 2001, p. 275. 43 44

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senso se la si considera sotto una luce diversa: sin dalla prima elegia del IV libro, infatti, Properzio mostra la sua piena adesione al programma augusteo di restauro dei templi e dei luoghi di culto ormai in rovina per il peso degli anni; mentre il programma edilizio del principe è in pieno sviluppo, Livia, la sua augusta consorte, decide di affiancarlo in tale attività promuovendo proprio il restauro del tempio della Bona Dea Subsaxana, sulle pendici del fianco orientale dell’Aventino 47. Una tale circostanza da un lato ci fa capire che l’episodio della sete di Ercole non va considerato esclusivamente come un brillante ‘divertissement’ letterario, dall’altro ci consente d’intendere in modo giusto la grande dignità e la nobile fierezza della sacerdotessa, che nelle intenzioni di Properzio doveva richiamare alla mente dei lettori la stessa Livia. Negli anni in cui Properzio compone il IV libro delle elegie, il ricordo di Azio è ancora vivo nella mente dei suoi lettori: lo attesta, se non altro, la VI elegia che ne celebra il XV anniversario. Non sorprende, quindi, che il poeta abbia scelto di sfruttare la duplice natura di Ercole, il cui spessore eroico e la cui divinizzazione gli consentivano una facile identificazione con Augusto, mentre la sua rappresentazione degradata gli offriva la possibilità di accostarlo per piú d’un motivo ad Antonio. La compresenza dei due aspetti antitetici di Ercole nella stessa elegia, di conseguenza, deriva dalla necessità di un pieno recupero, nel pantheon romano, di una divinità che rischiava di rimanere legata al ricordo di Antonio. A suggerire una tale chiave di lettura è la conclusione stessa dell’elegia, in cui l’Ercole dei Romani è associato al Sancus dei Sabini: è questo un modo di esaltare la piena disponibilità dei Romani ad accogliere culti e divinità di origine italica. Di ciò l’etrusco Vertumno, ormai romanizzato e ben felice di esserlo, si compiace nella seconda elegia del libro: forse non è un caso che anche Vertumno abbia una mutevole natura, come e ben piú di Ercole, e che – fra le numerose possibilità di metamorfosi che gli offre il legame etimologico col verbo vertere – egli includa anche la capacità di trasformarsi, indossata una leggiadra veste di Cos, in una non dura puella (4,2,24); sembra proprio che

47 Ce lo attesta Ovidio (Fast. 5,149-158), che non si limita a parlare del tempio e delle sue origini, ma ricorda l’efficace e decisiva opera di restauro promossa da Livia.

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Vertumno faccia l’occhiolino all’Ercole divenuto un’apta puella nonostante le sue durae manus (4,9,50). 10. Insieme all’elegia di Vertumno, la X – che forse non a caso è ad essa speculare – è l’unica elegia realmente rispettosa del programma eziologico della prima parte di 4,1: il programma fissato nel distico iniziale, che prevede l’aition del tempio di Giove Feretrio e delle spoglie dei tre condottieri nemici lí custodite, viene pienamente attuato nel corso della narrazione. Il preambolo eziologico sarà poi ripreso nella chiusa (vv. 45-48), in cui il poeta fornirà due possibili spiegazioni etimologiche di Feretrius (da ferio o da fero). L’esordio sembra destinato a introdurre un carme di insolita difficoltà, la cui esecuzione richiede un impegno severo: in tal senso indirizza l’immagine del magnum iter che il poeta si accinge a percorrere, sorretto dalla speranza di quella gloria che si può conseguire solo dopo una dura ascesa (vv. 3-4). Già nel primo distico gli arma all’inizio del pentametro costituiscono il preannuncio di un carme di guerra, che il prosieguo del verso si preoccupa di definire nella sua triplice scansione narrativa (v. 2 armaque de ducibus trina recepta tribus). I vv. 3-4 hanno tutto l’aspetto di una dichiarazione di poetica, come confermano i topoi della via larga (che rinvia all’enfasi stilistica e all’ampiezza contenutistica dell’epos) e della salita difficile e faticosa, che allude alla complessità dell’aspetto formale. Sia pure ridotto a una piú limitata estensione, un tale proemio ricorda quello della VI elegia a fa capire al lettore che svelare le origini del tempio di Giove Feretrio comporta per l’eziologia la necessità di piegarsi a fini celebrativi; analogamente nella VI elegia cantare l’aition del tempio di Apollo sul Palatino significava tessere l’elogio del vincitore di Azio. A prima vista la X elegia è una celebrazione delle vittorie di Romolo, di A. Cornelio Cosso, di M. Claudio Marcello: tuttavia, a guardar bene, sullo sfondo compare anche in questo caso la figura di Augusto, che fra il 32 e il 30 a.C. aveva provveduto al restauro di quel tempio ormai cadente 48. A giustificare, tuttavia, le impegnative affermazioni proemiali, oltre all’implicito elogio alla fervida attività edilizia di Augusto si aggiunge il fatto che   Cfr. Nep. Att. 20,3; Liv. 4,20,7; Aug. Res gest. 19 e Coarelli 1996, p. 137.

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l’eccezionalità del tempio di cui Properzio si accingeva a svelare le causae consisteva nell’essere a Roma il piú antico dedicato, ad opera di Romolo sul Campidoglio, dopo la vittoria su Acrone 49. A dispetto, però, della solennità dell’esordio, l’elegia è caratterizzata da un’insolita brevità, che contrasta con l’ampio sviluppo di tutte le altre del IV libro e che si riflette nel minimo spazio accordato ai discorsi dei tre vincitori romani: un solo esametro è assegnato al voto di Romolo a Giove (v. 15) e ancor meno alle parole di Cornelio Cosso a Tolumnio (v. 35), mentre Claudio Marcello agisce in silenzio. Il singolare rispetto della brevitas può essere il modo individuato da Properzio per adeguarsi alle minime dimensioni del tempio di Giove Feretrio, di cui resta testimonianza in una notizia di Dionigi d’Alicarnasso 50, che dovevano dare origine a un deciso contrasto con l’imponenza del vicino tempio di Giove Capitolino. Come alternativa si può pensare che scopo di Properzio sia stato quello di mostrare non solo la propria capacità di adattare il canto di guerra al distico elegiaco (un esperimento, questo, già compiuto nella VI elegia), ma anche l’abilità nel farlo rispettando la brevitas callimachea e alessandrina. L’impressione di audace esperimento che il proemio suscita nel lettore è confermata da una serie di novità nei confronti di alcune costanti del IV libro: la totale assenza di personaggi femminili 51, la mancanza di un vero protagonista in una narrazione che vorrebbe esaltare tre momenti importanti della storia di Roma, il ruolo insignificante accordato al dio a cui è dedicato il tempio, soprattutto il gusto del macabro e del truculento; Properzio, che nell’elegia precedente si era limitato a riassumere in un solo verso (4,9,15) la lotta selvaggia di Ercole e Caco, evitando cosí i cruenti dettagli virgiliani, ora si sofferma compiaciuto sullo spettacolo di morte offerto dai vinti e non risparmia al lettore né le spoglie grondanti sangue (v. 12), né la testa mozzata (vv. 37-38), né il collo reciso dal tronco (v. 44).

  Cfr. Liv. 1,10,5-7; Dion.Hal. Ant. 2,34,4; Plut. Rom. 16,5-8.   Cfr. Dion.Hal. Ant. 2,34,4 e Coarelli 1996, p. 137. 51 Anche Vertumno, come si è visto, si era vantato di potersi mutare in una puella, e nella VI elegia non erano mancati i riferimenti a Cleopatra (v. 22 e v. 57). 49 50

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Anomala è anche la scelta di avvenimenti della storia di Roma molto lontani nel tempo, fra l’VIII e il III sec. a.C., che solo sporadicamente sono funzionali al topico confronto tra passato e presente: un accenno in tal senso è nella raffigurazione di Romolo, capace di trasformarsi da guerriero in agricoltore e di adattarsi a un elmo di pelle di lupo, a uno scudo rudimentale e a cinturoni di pelle di bue (vv. 17-22). Altrimenti il contrasto fra passato e presente si avverte nella poesia delle rovine di Veio, un tempo sede di un regno, che ora versa in un desolato abbandono (vv. 27-30): la misera fine di Veio rappresenta una chiara testimonianza del destino a cui vanno incontro le città che pretendono di opporsi a Roma. 11. Nell’ultima elegia del libro Cornelia, una nobile matrona morta in ancor giovane età, difende la propria condotta di vita di fronte al tribunale infernale. Nella galleria di personaggi femminili del IV libro viene cosí introdotto un elemento di novità, non solo perché protagonista del carme è una donna dell’aristocrazia, ma anche perché, mentre le altre figure femminili hanno vaghi contorni e servono a rappresentare diversi tipi di donna (la moglie che attende il marito in guerra; la traditrice della patria per amore; la ruffiana che istruisce una giovane meretrix; l’amante fedele al di là della morte e la domina che all’uomo impone la sua legge), Cornelia unisce alle qualità di matrona dalla vita esemplare il possesso di contorni storicamente ben definiti. Cornelia era moglie di L. Emilio Paolo Lepido, nipote del triumviro, che dopo uno sfortunato esordio nel campo dei cesaricidi era ben presto passato in quello di Ottaviano e a lui era rimasto sempre devotamente fedele. Il principe doveva tenerlo in grande considerazione, visto che aveva ricompensato la sua fedeltà concedendogli nel 22 a.C. la censura insieme a L. Munazio Planco: si era trattato di un riconoscimento importante, perché proprio in quell’anno la censura, abolita al tempo delle guerre civili, era stata ripristinata da Augusto 52. La madre di Cornelia, Scribonia, apparteneva a un’antica e ricca famiglia di origine plebea, ma di nobiltà recente, dopo il consolato nel 34 a.C. 52  Sugli stretti rapporti di Augusto con gli Aemilii Lepidi cfr. Weigel 1985, pp. 180-191.

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di L. Scribonio Libone, fratello di Scribonia e suocero di Sesto Pompeo. Nel 40 a.C. Scribonia aveva sposato Ottaviano, che da lei aveva divorziato pochi mesi dopo; frutto del matrimonio fu la nascita di Giulia, di cui, dunque, Cornelia era sorellastra: al tempo della morte di Cornelia, Giulia era sposa di Agrippa e due dei loro figli (Gaio e Lucio) erano stati adottati da Augusto, nel 17 a.C., in vista di una futura successione. A prima vista l’XI elegia può apparire come un’amplificazione della nutrita serie di epigrammi ellenistici in cui il defunto si rivolge dalla tomba ai passanti e in pochi versi parla di sé, della sua vita, dei suoi familiari 53. Non c’è alcun dubbio che agli epigrammi funebri si debba risalire per la tecnica di far parlare il morto; tuttavia una distanza notevole divide il lungo e complesso monologo di Cornelia dall’essenzialità delle voci dalla tomba della tradizione epigrammatica. All’inizio, infatti, Cornelia dà l’impressione di rivolgersi solo al marito; ma poi la serie di apostrofi accresce a dismisura il numero dei suoi interlocutori ideali, finché nella conclusione del carme si ritorna al marito e ai figli, veri testimoni (v. 99) della sincerità delle sue parole: una tale complessità strutturale è ignota agli epigrammi sepolcrali, sia che essi abbiano un carattere letterario sia che si tratti di iscrizioni sulla tomba. Dagli epigrammi funebri, invece, dipende l’impianto consolatorio dell’esordio (vv. 1-14), che non a caso abbonda di topoi del genere; subito dopo, però, il discorso di Cornelia prende strade diverse, che dagli epigrammi funebri lo allontanano definitivamente per condurlo al genus iudiciale e alle partizioni tipiche dell’oratoria forense: con la particolarità, però, che qui Cornelia, una donna, è il patronus di se stessa. Poiché, però, Cornelia non ha particolari episodi di una sbiadita esistenza da ricordare in sua difesa, al di là della generica assicurazione di un comportamento onesto e pudico il suo discorso sfrutterà quali argomenti difensivi soprattutto la gloria degli antenati e la generazione di una prole. La perizia giuridica di Cornelia è evidente, oltre che nell’adozione di un lessico adeguato al contesto legale, nel pieno rispetto della scansione abituale di un discorso di difesa: i vv. 1-36 hanno la funzione del prooemium, in cui l’avvocato difensore si sfor53  Esempi dell’AP sono raccolti da Schulz-Vanheyden 1969, p. 71 e da Syndikus 2010, p. 361 e n. 305.

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za di conquistare in via preliminare la benevolenza dei giudici, elencando tutto ciò che depone a favore dell’imputato; segue la  narratio (vv. 37-54), in cui il patronus espone la sua versione dei fatti in modo da scagionare dalle accuse il suo assistito: Cornelia, che non deve difendersi da colpe specifiche, si serve della narratio per esaltare le sue virtú di matrona esecmplare. Col v. 55 e sino al v. 72 si passa alla probatio, in cui vengono messi in risalto i meriti dell’accusato: nella prima parte (vv. 55-60) Cornelia esibisce a esaltazione delle sue virtú le lacrime e la laudatio funebris della madre Scribonia, il cordoglio della città intera, addirittura il pianto del divino Augusto; nella seconda (vv. 61-72) elenca i motivi di consolatio di fronte alla mors immatura (il consolato del fratello, una prole degna dei genitori). Col v. 73 ha inizio la peroratio al marito (vv. 73-84) e ai figli (vv. 85-96). Dopo una compiaciuta riflessione di Cornelia sulla presenza dei figli al suo funerale (segno, questo, che in vita non ha dovuto piangere la morte di uno di loro), i versi conclusivi segnano la fine del discorso di difesa (v. 99): Cornelia invita i congiunti, ideali testimoni della sua vita integra, ad alzarsi per ascoltare la sentenza (v. 100) ed esprime la fiduciosa speranza che essa le consenta di raggiungere gli antenati nella loro sede celeste (vv. 101-102). Se l’elegia di Cornelia ha tutte le caratteristiche delle arringhe difensive, ad evitare che essa sia solo l’automatica riproduzione di uno schema fisso interviene il continuo rapporto allusivo che Properzio instaura con un nobile modello tragico: l’Alcesti di Euripide, infatti, rimane costantemente sullo sfondo della vicenda di Cornelia e del suo rapporto col marito e con i figli. Eppure la situazione dell’elegia properziana è diversa, perché Cornelia non muore nobilmente, come Alcesti, per salvare la vita del marito: malgrado questa sensibile differenza la 4,11 trabocca di patetica allusività nei confronti della tragedia euripidea 54. Le allusioni, che si concentrano nella parte della peroratio in cui si sviluppa l’allocuzione al marito (vv. 73-84), non impedi54  Lo ha mostrato Paduano 1968, pp. 21-28, in un contributo valido ancor oggi, benché al merito di aver chiarito le analogie già note e di averne individuate altre in precedenza trascurate faccia riscontro una troppo limitativa valutazione del rapporto allusivo di Properzio nei confronti del modello, che non tiene conto della diversità dei personaggi, del loro ruolo, dei tempi di cui sono espressione.

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scono di notare le sensibili differenze: di stile, perché la Cornelia properziana adotta formule del linguaggio ufficiale e toni encomiastici nei confronti degli esponenti della sua gens, che sono del tutto estranei ad Alcesti; di situazioni, perché se l’Admeto euripideo s’illude di continuare a vivere in sogno il rapporto d’amore con la moglie (vv. 354-355), per Paolo il sogno ha solo un’effimera funzione di consolatio, i cui effetti svaniscono a contatto con la realtà (vv. 81-82). Ma, soprattutto, nell’elegia properziana manca l’intensa passionalità che nella tragedia di Euripide traspare almeno in un episodio famoso: prima di evocare il motivo del sogno, Admeto promette ad Alcesti che sta morendo di far costruire dai piú esperti artefici una statua, cosí perfetta da riprodurre con esattezza le sue sembianze, e s’immagina disteso sul talamo e avvinto a quel simulacrum in un abbraccio sensuale (vv. 348-354). Properzio riprende l’immagine del simulacrum che rievoca la persona amata, ma deve adattarlo a un pubblico e a un ambiente sociale profondamente diversi: è ovvio che la presenza d’immagini improntate a una realistica sensualità gli sia apparsa del tutto estranea all’aristocratica dignità di Cornelia; Paolo, quindi, non potrà mai cedere all’identico impulso passionale di Admeto e si dovrà accontentare di stabilire un dialogo senza risposte col ritratto della sua Cornelia. Una nobile competizione fra il tragediografo greco e l’elegiaco latino, quindi, non ha senso e si tratta solo di capire le cause delle scelte diverse effettuate da Properzio: solo entrando nella mentalità aristocratica romana e considerando l’importanza che in essa aveva la propagazione del nome grazie a un’adeguata discendenza si può capire perché mai, mentre Alcesti (vv. 305-310) esige dal marito che non sposi un’altra donna (una matrigna mossa dall’invidia, infatti, sarebbe nemica dei figli di primo letto), Cornelia, invece, si comporti in modo ben diverso. Cornelia non potrebbe mai mettere da parte l’ideologia del ceto di cui è espressione; di conseguenza, consapevole di non poter chiedere a Paolo il sacrificio della continuità della sua gens, nei vv. 85-90 sarà lei stessa a prospettare l’eventualità di un suo nuovo matrimonio e ad invitare i figli a sforzarsi di conquistare l’animo della matrigna. Malgrado tali sensibili differenze, non c’è dubbio che la lettura dell’elegia properziana alla luce del modello tragico consenta di arricchire di senso il personaggio di Cornelia: la vicenda 410

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dell’Alcesti euripidea, infatti, non si limita ad accordare alla protagonista elegiaca una dimensione tragica, ma consente d’intendere la sua mors immatura come un vero e proprio sacrificio della vita a vantaggio dei figli, che avranno il diritto di sommare agli anni della loro esistenza quelli che la morte prematura ha sottratto a Cornelia (vv. 95-96). Diversamente dal sacrificio di Alcesti, dunque, il distacco di Cornelia dalla vita non servirà a salvare quella del marito, ma acquisterà il valore piú intimo di un dono che Cornelia fa ai propri figli, e insieme a loro alla gens a cui essi appartengono 55. Il nobile lignaggio di Cornelia e i suoi legami di parentela con Giulia e col principe stesso, grazie al matrimonio della madre con Ottaviano, inducono a supporre che il carme sia stato composto su commissione 56; è probabile, d’altronde, che analoga sia stata l’origine dell’epicedio di Marcello (3,18), in cui Properzio aveva fornito la prova di saper adattare, con grande perizia e con consumata raffinatezza stilistica, i toni dell’elegia a quelli dell’epicedio. L’analogia con 3,18, però, è solamente esteriore e riguarda la comune presenza di topoi del genere: a segnare una sostanziale differenza è la persona loquens, che in 3,18 è il poeta stesso, mentre in 4,11 egli affida la propria voce alla defunta Cornelia. Nell’epicedio di Marcello, poi, Properzio aveva privilegiato la tradizionale rassegna di luoghi comuni, soffermandosi in particolare su quello della morte livellatrice che annulla gloria e virtú, e li aveva illustrati con un’esemplificazione mitica; qui, invece, Cornelia relega in secondo piano i topoi e, nel tessere l’elogio della propria vita celebra al tempo stesso la gens a cui appartiene e i valori dell’etica aristocratica. Cornelia è il ritratto della matrona ideale, fiera della sua appartenenza a una nobile gens e interamente votata alla cura del marito e dei figli. Grazie a lei – lo ha messo bene in luce Bettini 1992, pp. 137-138 – Properzio ci offre la straordinaria 55 Toccherà all’anonima Alcestis di Barcellona – edita da P.  J. Parsons, R. G. M. Nisbet, G. O. Hutchinson in «ZPE» 52, 1983, pp. 31-36 e commentata nel 1988 da M. Marcovich – il compito di fare ampie concessioni alla lettura moralistica del mito da parte di Properzio, senza eliminare, però, la patina erotica della tragedia euripidea. 56 Lo hanno recentemente sostenuto, con buoni argomenti, sia la Wyke 2002, p. 109 sia Cairns 2006, p. 347.

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possibilità di «ascoltare il dialogo intimo di una matrona romana con il proprio marito: di una di queste donne che, almeno nelle imposizioni del codice culturale, non solo non dovevano parlare con estranei, ma non dovevano neppure ricambiare il saluto di chi, inopportuno, cercava di incontrare i loro occhi per strada» 57. A prima vista Cornelia può sembrare caratterizzata da una personale, spiccata fisionomia: sa essere virilmente forte nel confortare il marito, ma al tempo stesso si dimostra fragile nel rimpianto per una vita troppo breve. Cornelia, però, vive all’interno delle convenzioni che regolano i rapporti uomo-donna nel ceto aristocratico e ad esse non intende rinunciare; da lei, quindi, il lettore si attende, e puntualmente riceve, l’esaltazione delle doti di una matrona, prima fra tutte della pudicizia, da lei considerata come il massimo trionfo, che colloca una imbelle matrona allo stesso livello di un generale vittorioso (vv. 71-72). Ad essa si associano la cura dei figli, che sono garanzia dell’onestà della madre perché assomigliando al padre ne attestano l’onesta condotta di vita (vv. 11-14), l’elogio dell’univirato e il rifiuto del divorzio (vv. 36 e 68), la piena consapevolezza che l’adulterio è un’offesa per il buon nome della gens (vv. 55-56), la pacata accettazione di un nuovo matrimonio del marito (vv. 85-90), la preoccupazione costante del rapporto con la domus nel suo complesso, associata all’elogio del ruolo che in essa compete a una madre (v. 78). Costante è l’enfasi posta sul concetto di domus (cfr. soprattutto i vv. 44; 62; 78), in cui l’elogio della virtú guerriera delle gentes si associa a quello dei valori fondamentali dell’etica aristocratica: primo fra tutti è il principio della trasmissione del nome attraverso la discendenza, che trova piena manifestazione sia nell’orgoglio di Cornelia per la propria fecondità di madre sia nella giustificazione da lei accordata a eventuali nuove nozze di Paolo. Il motivo stesso della continuità fra passato (la gloria degli antenati, la censura del marito), presente (il consolato del fratello) e futuro (i figli e i loro prevedibili successi), che include anche la continuità degli exempla del passato (le due Vestali) con quelli del presente (la vita esemplare di Cornelia), rappresenta il fondamento della concezione aristocratica del mos   Sono parole di Bettini 1992, pp. 137-138.

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maiorum. Si tratta, d’altronde, della stessa continuità che si crea tra la fama degli antenati e il decoro che essa garantisce ai loro discendenti (v. 29): non a caso nei vv. 47-48 le argomentazioni di Cornelia si sviluppano alla luce di una legge etica che proclama il ruolo fondamentale del mos maiorum e degli exempla ereditati dagli antenati ai fini della formazione del civis Romanus. È in un tale contesto che la riflessione sui valori della morale aristocratica culmina nella definizione del cittadino ideale, in cui un ruolo importante è tenuto dalla natura, cioè dall’inclinazione naturale: se, però, la natura agisce secondo le proprie leggi, esse traggono il loro vigore dal sangue ereditato dalla gens. A guardar bene, Cornelia non prende solo le distanze da Cinzia, ma anche dal Properzio dei libri precedenti e il suo discorso segna un singolare allontanamento del poeta dalle posizioni assunte al tempo della produzione elegiaca d’amore: in tal senso è ben formulata la distinzione della Wyke fra Properzio e Cornelia quali ‘narratori’ 58. Cornelia, infatti, esalta i trionfi degli antenati perché accrescono la dignità sua e della sua gens, mentre Properzio poeta d’amore ha messo in chiaro di preferire ai trionfi degli antenati i conviti allietati dalla presenza femminile (2,34,55-58); l’elogio, poi, che Cornelia fa della sua fecondità e l’implicito invito al marito a sposarsi di nuovo per garantire alla gens una solida discendenza si collocano agli antipodi del baldanzoso rifiuto del matrimonio da parte del poeta d’amore, che non ha alcuna intenzione di generare figli per destinarli alle glorie della patria (2,7,13-14); inoltre il topos della fedeltà dell’amante elegiaco alla propria donna nonostante i tradimenti si muta qui nell’esaltazione dell’univirato, mentre i motivi dell’amore al di là della vita e del ricongiungimento degli amanti nell’oltretomba non trovano alcuna rispondenza nella concezione del rapporto coniugale di un’aristocratica matrona, che non indulge a facili sentimentalismi o a nostalgici rimpianti dell’unione affettiva col marito. Grazie a Cornelia, quindi, nella conclusione del libro si assiste a una piena restaurazione della concezione aristocratica dei rapporti familiari e all’abbandono dell’antica posizione elegiaca di netto rifiuto del matrimonio e della vita coniugale.   Wyke 2002, p. 111.

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La celebrazione che Cornelia fa non solo della propria esistenza, ma anche della gloria degli antenati e dei sani principi morali ereditati dalla tradizione aristocratica ci consente di capire che nell’XI elegia parla una matrona che vuole rappresentare un modello di condotta femminile e che esalta se stessa alla luce dei principi etici del suo ceto sociale. È chiaro, d’altra parte, che il poeta non si limita a tessere l’elogio di alcune nobilissime gentes (la gens Cornelia e la gens Aemilia, senza dimenticare però gli Scribonii Libones, di recente nobiltà, nel v. 31, e la gens Claudia nel ricordo della Vestale Quinta Claudia nei vv. 51-52), ma compie un atto d’omaggio nei confronti dell’aristocrazia augustea e della famiglia imperiale. Gli Scipioni, in particolare, vengono esaltati per le loro glorie guerriere, simboleggiate dal currus avorum del v. 11, per i loro trofei (v. 29), per le statue che li celebrano (v. 30), per le spoglie dei nemici vinti (v. 43): un elogio particolare va all’Africano Minore, vincitore di Numanzia e distruttore di Cartagine (v. 30), che nella lode è accomunato all’Africano Maggiore (vv. 37-38). Non può essere privo di significato il fatto che la seconda parte del libro sia ‘incorniciata’ dagli ampi monologhi di due umbrae, quella di Cinzia e quella di Cornelia, che rappresentano un modo antitetico di concepire la vita e il rapporto con la persona amata. Cinzia rimane la tipica donna elegiaca, quella cantata dal I al III libro fino al discidium di 3,24(-25), quella da cui Horos prevede, nella seconda parte di 4,1, che Properzio non riuscirà mai a distaccarsi. Il ruolo di Cinzia resta quello dell’amante passionale e non ha senso fantasticare sulla sua appartenenza al ceto aristocratico, tanto distante è il modo di concepire la vita a lei assegnato da Properzio da quello di una reale matrona romana, qual è Cornelia, pienamente integrata in un ceto di cui condivide prospettive e valori. In quanto al personaggio di Cornelia, esso deve essere valutato alla luce di una voluta contrapposizione nei confronti di quello di Cinzia: ciò è chiaro sin dal verso iniziale di 4,11, in cui i rimproveri di Cornelia al marito che non cessa di piangere sulla sua tomba si collocano agli antipodi della rampogna di Cinzia all’amante, colpevole di non aver versato lacrime nel corso delle sue esequie (4,7,27-28). Mentre, poi, Paolo non riesce a prender sonno nelle sue notti tormentate, Properzio 414

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deve subire l’aspro rimprovero perché su di lui iam vires somnus habere potest (4,7,14). Fra la Cinzia di 4,7 e la Cornelia di 4,11 esistono marcate analogie, ma anche sensibili differenze: per cominciare dalle analogie, in entrambi i carmi un’umbra si rivolge all’uomo della sua vita, e poco importa che Properzio sia l’amante, Paolo il marito; in entrambi la defunta proclama di essere stata fedele al suo uomo e difende la propria condotta di vita col ricorso ad argomenti di spiccata natura giuridica; sia Cinzia sia Cornelia si attribuiscono dopo la morte un ruolo di grande rilievo, l’una fra le eroine del mito, l’altra fra i suoi antenati; entrambe sono latrici di mandata alla persona amata, a cui affidano la custodia delle persone piú care (le schiave fedeli nel caso di Cinzia, i figli in quello di Cornelia). Però, piuttosto che le analogie 59, nel caso di Cinzia e di Cornelia contano le differenze fra le situazioni descritte oltre che fra i due tipi di donna: Cinzia accusa Properzio di averla prontamente sostituita e invece Paolo è presentato come un modello di devozione al ricordo della moglie; Properzio viene accusato di oblio e di sciagurate trascuratezze durante le esequie di Cinzia, mentre Paolo non solo non cessa di dare sfogo al suo inconsolabile dolore sulla tomba della moglie, ma viene da lei descritto mentre intrattiene un ideale colloquio col suo ritratto (anche in questo caso si ha un rovesciamento della situazione di 4,7, dove Properzio si era disinteressato a tal punto del ritratto di Cinzia, da permettere che ne venisse fuso l’oro). E ancora: al misero apparato del funerale di Cinzia si contrappone il fasto delle esequie di Cornelia, a cui ha preso parte anche Augusto; Cinzia detta un distico da incidere sul suo sepolcro, Cornelia vuole che sulla sua pietra tombale sia ricordato solo che è stata univira; Cinzia è certa di una futura unione sessuale nell’oltretomba dei suoi ossa con quelli di Properzio, Cornelia prevede e accetta un nuovo matrimonio di Paolo e in luogo di un passionale incontro nell’oltretomba si augura di poter raggiungere quel cielo degli antenati, che è ben diverso dall’Elisio di Cinzia e delle eroine infelici in amore; tanto la gelosia di Cinzia nei confronti di Properzio e della sua nuova domina, quanto il de  Le ha sopravvalutate Rambaux 2001, pp. 309-312.

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siderio di vendetta nei confronti di chi l’ha tradita sono sentimenti ignoti a Cornelia. Ma, soprattutto, Cinzia parla come una donna innamorata che dà libero sfogo alla delusione perché dal suo uomo è stata tradita e dimenticata, mentre Cornelia adotta un paludato linguaggio ufficiale, che in piú d’una occasione le conferisce una mascolina energia e non le consente di concedere spazio a effusioni sentimentali o ad amorose nostalgie. Ha ben visto Günther, quando ha sostenuto che Cornelia «integrates the quest for virtue and its celebration into his poetry of love by transforming his concept of love» e ha messo in chiaro che nella 4,11 «the unfulfilled aspiration of ‘idealistic’ love of elegiac poetry, the concept of love as a value that transcends death, has become reality in the claim for immortality of a woman worthy of its Roman ancestors» 60. L’elegia di Cornelia è anche un’esaltazione della famiglia romana, intesa come nucleo in cui, nel sacro rispetto dei valori della tradizione, maturano nobili virtú civili: era questa la concezione della famiglia nel programma augusteo di restaurazione dei sani costumi del passato e alla sua presenza nel carme conclusivo non sarà stato estraneo il progressivo avvicinamento del poeta agli ideali augustei, che nella sua ultima elegia assume i tratti della sincera e convinta adesione. Sullo sfondo si stagliano nitidamente le leges Iuliae de maritandis ordinibus e de adulteriis coercendis 61 e l’intero programma augusteo di moralizzazione dei costumi. A tali leggi allude certamente Cornelia quando nei vv. 47-48 mette in chiaro che la pudicizia è sua legge di natura e non dipende iudicis  metu; ma una piena condivisione del programma augusteo traspare anche dall’orgoglio di aver generato tre figli, dall’esaltazione della pudicizia e dell’univirato, dal ricordo della censura del marito, dall’allusione alle disposizioni in materia di celibato che si scorge nel v. 94. Alla piena adesione che Properzio, grazie alle parole di Cornelia, manifesta nei confronti della politica del principe avrà contribuito il fatto che Scribonia sia stata, anche se per un periodo breve, moglie di Augusto; per di piú dalla loro unione era nata 60  Günther 2006, p. 395. Sulle analogie e sulle differenze fra le due figure di donna cfr. anche Lange 1979, pp. 337-340 e Dufallo 2003, pp. 171-177. 61  Su entrambe cfr. ora Spagnuolo Vigorita 2010, pp. 29-38.

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Giulia, sorellastra di Cornelia, e di conseguenza il coinvolgimento di Augusto nel cordoglio per la morte della protagonista dell’elegia diveniva inevitabile. I suoi gemiti e le sue lacrime, però, non intendono assimilare il suo atteggiamento a quello di Scribonia, ma collocati come sono al culmine di una climax (madre, città, principe) rappresentano una inattesa e straordinaria reazione, perché per il poeta Augusto è un dio – come egli trova modo di ribadire dopo averlo già proclamato sia in 3,4,1 sia, per bocca di Cesare, in 4,6,60 – e gli dèi non conoscono il pianto: per questo motivo le lacrime del divino Augusto rappresentano il migliore argomento che Cornelia può esibire in sua difesa di fronte al tribunale infernale. Grazie ad esse il principe molto guadagna in humanitas, perché è l’unico fra gli dèi capace di commuoversi e di versare lacrime. Va detto, però, che l’esaltazione dell’aristocrazia e dei suoi valori, del principe e delle sue riforme non assume mai toni trionfalistici o di smaccata adulazione: anzi, l’elegia di Cornelia dà l’impressione di voler chiudere il libro con una nota di rassegnato pessimismo. Un libro che si era aperto con la radiosa immagine della maxima Roma nel suo splendore augusteo si conclude con quella di un sepolcro bagnato dalle lacrime e delle tenebre infernali. Ancora una volta, come nell’elegia proemiale, Properzio indica al lettore la via che conduce a Virgilio, il cui poema epico si era aperto con la visione dell’Italia e dei Lavina litora finalmente raggiunti da Enea e si era chiuso con l’immagine della vita che abbandona il corpo di Turno e fugge nel tenebroso mondo delle ombre, gemendo di sdegno per la mors immatura (quella stessa morte prima del tempo che era toccata non solo a Camilla, ma anche a Cornelia). La chiusa del IV libro, però, non è del tutto priva di speranza, sia perché il motivo del continuo fluire del tempo – quello della storia di Roma nella 4,1, ma anche quello delle gentes nella 4,11 – dà il senso di una vicenda che non potrà mai interrompersi e che è feconda di esaltanti prospettive proprio perché si fonda sul passato, sia perché nell’ultimo distico l’oscurità opprimente delle tenebre infernali è squarciata dall’improvvisa visione di quel cielo che ora si dischiude di fronte a Cornelia, ma che continuerà ad accogliere tutte le anime nobili e virtuose.

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Conclusioni

Anche quest’anno, come per le precedenti edizioni del Properziano, ci siamo trovati nella bella sala del Consiglio comunale di Assisi per il nostro appuntamento culturale, e anche stavolta il Convegno coincide con la pubblicazione degli Atti del precedente incontro, quello del 2010. Siamo ormai al tredicesimo Convegno di questa serie che ha preso il via nel 1988, con i Tredici secoli di elegia latina, e se contiamo anche quelli precedenti siamo a diciannove dal Colloquium Propertianum del 1976; anche piú numerosi sono i volumi della Collana, che comprende tre monografie filologiche o letterarie e le traduzioni delle elegie in lingue che ancora non disponevano di un loro Properzio, o comunque ne meritavano uno piú recente: è, nel maggio 2012, in corso di stampa quello di Horatio Vella nella lingua di Malta, dopo il cinese, il portoghese e il russo, che costituiscono già una piccola biblioteca e basterebbero da soli ad illustrare un’impresa che ha piú di un merito per gli studi di latino e per la conoscenza del poeta e della sua città in ogni parte del mondo. Un successo cosí concreto dimostra l’efficacia della positiva collaborazione fra l’Accademia Properziana del Subasio e il Centro Studi sulla Poesia Latina in Distici Elegiaci, e ci consente di sperare in una positiva prosecuzione dell’impresa, anche in tempi di grandi ristrettezze e grandi rinunce come quelle che impongono le attuali difficoltà economiche. All’apertura il Presidente dell’Accademia, Giorgio Bonamente, ha ricordato che il tema scelto per quest’anno è Properzio e l’età augustea, in modo che Augusto sia presente già nel titolo del volume degli Atti che vedrà la luce nel 2014, l’anno 10.1484/M.SPLSLP-EB.5.102593

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del bimillenario, e ha sottolineato come fossero presenti, per discutere del tema, studiosi di varie discipline – storici, archeologi, filologi – impegnati in un confronto di metodologie e punti di vista senz’altro utile a tutti; un merito particolare nell’organizzazione del Convegno è stato riconosciuto a Carlo Santini, dell’Università di Perugia, all’Accademico Arnaldo Manini, che da anni generosamente assicura la possibilità di pubblicare gli Atti, all’Amministratore dell’Accademia, il ragionier Chiappini, e all’efficientissima segreteria organizzativa, delle cui capacità tutti i convegnisti possono essere testimoni. Dopo di lui Mario Pagano, Sovrintendente archeologico per l’Umbria, ha accennato ai nuovi scavi in Assisi, rinviando per maggiori dettagli alla successiva relazione delle dottoresse Manca e Boldrighini, e ha illustrato la complessiva riorganizzazione delle sale del museo archeologico di Perugia, in particolare quelle con le gemme e le tombe e quelle dedicate alle mostre temporanee. Appassionato studioso di storia delle collezioni museali e di tradizioni tardoantiche e altomedievali – mi permetto di ricordare alcuni suoi interessanti lavori sugli edifici umbri confrontati con altri edifici campani verisimilmente coevi, presentati all’Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti in Napoli, della quale è Socio nazionale ordinario – Pagano ci ha saputo presentare in maniera vivace le interessanti prospettive delle nuove indagini umbre. La dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale, Maria Letizia Melina, ha delegato a rappresentarla la dottoressa Pacelli, che si è soffermata sulla coincidenza temporale fra il Convegno e le prime Olimpiadi del classico, con prove di traduzione dalla poesia e dalla prosa greca e da quella latina e di composizione su argomenti relativi al mondo antico. Le Olimpiadi del classico nel 2012 hanno luogo a Venezia, e sono nate per merito di dirigenti ministeriali attenti agli studi sull’antichità come la dirigente dottoressa Palumbo e gli ispettori Favini e Quaglia, coadiuvati da un comitato di garanti che rappresentano vari settori scientifici dell’Università e da un gruppo di lavoro tecnico composto di bravi presidi e professori delle scuole secondarie di secondo grado; ad esse hanno partecipato ben otto ragazzi umbri, a conferma dell’impegno con cui latino e greco sono insegnati nei licei della regione.

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conclusioni

I lavori hanno visto tre relazioni di base, una per ciascuno dei tre settori individuati da Giorgio Bonamente: quella di Andrea Giardina per la storia, quella di Paolo Fedeli per la letteratura e quella di Paul Zanker per l’archeologia, collocate in posizioni strategiche (l’apertura, la visita al museo di Perugia, la chiusura) e in corrispondenza con i tre percorsi principali: il primo su Properzio nella storia dell’età augustea, di cui oltre Giardina si sono interessati Eck, Cresci Marrone, Massa Pairault; il secondo per Properzio nella poesia dell’età augustea, con Perrelli, Álvarez Hernández, Holzberg, Dimundo, oltre Fedeli; a metà fra questi due primi percorsi si sono collocate le relazioni che hanno riguardato i rapporti fra Properzio e personaggi che furono al tempo stesso poeti e protagonisti degli avvenimenti del loro tempo, quella di Landolfi per Gallo e quella di Cristofoli per Mecenate: secondo la loro formazione, peraltro, il primo si è occupato prevalentemente degli aspetti letterari e il secondo di quelli storici. Il terzo percorso, quello archeologico, su Properzio e i luoghi e gli oggetti della Roma augustea, ha visto accanto a quella di Zanker la relazione a due voci di Manca e Boldrighini, quella di Keith sulle epigrafi e quella di Santini sulle immagini mitologiche; anche la lezione della Massa, peraltro, un po’ come quelle di Cristofoli e Landolfi, partecipa di due tematiche, perché l’analisi storica del mondo etrusco è stata sempre condotta con estrema attenzione alla documentazione archeologica. Doveva esserci un quarto percorso, sulla fortuna di Properzio, ma un tristissimo evento ce ne ha privati, per la scomparsa di Ferruccio Bertini. Da sempre Ferruccio, come Paolo Fedeli, come Carlo Santini, come tutti i nostri migliori studiosi di lingue e letterature antiche, ci ha insegnato che il mondo antico, da Plauto a Ovidio a Nonio Marcello, e quello medievale, che non gli era meno caro di quello latino, vanno letti nel continuo confronto con quello moderno, usando nuove metodologie di studio da applicare ai testi del passato, ma anche ripercorrendo le vicende della sopravvivenza dell’antico, della sua ricezione e della sua capacità di far nascere altra letteratura nelle nuove realtà culturali. Come per la storia si suole dire che fare storia antica significa porsi sul passato le domande del presente, cosí le letterature antiche vanno lette con le curiosità del presente, 423

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quelle che nascono dalla lettura degli scrittori moderni e dalla partecipazione ad un dibattito critico che si alimenta continuamente di nuovi temi e di nuove opere. La sua straordinaria scrupolosità ha sempre dato a Ferruccio i necessari strumenti filologici per evitare rischi di anacronismo e di sovrapposizione fra aspetti che possono essere anche sostanzialmente diversi; cosí i suoi tanti lavori sono sempre sorvegliati, ricchi di informazioni, intelligenti, e le sue grandi imprese editoriali – una fra tutte: i testi teatrali del medioevo – saranno per molti e molti decenni indispensabile punto di riferimento per tutti gli studiosi. A Ferruccio il Convegno ha voluto rivolgere un pensiero affettuoso per l’amicizia che da lui hanno avuto molti dei presenti e grato per le cose che ci ha insegnato; a Margherita Rubino la solidarietà per una perdita cosí grave, nella consapevolezza di quanto ha saputo fare per lui, per la sua serenità e per la sua salute. Ferruccio Bertini si aggiunge cosí ai benemeriti dei nostri convegni; fra i tanti, ne ricordo qui solo tre fra i fondatori: Giuseppe Catanzaro, che continua ad essere presente fra noi per l’assiduità con cui la Signora partecipa ai Convegni, Francesco Della Corte, che di Ferruccio fu amatissimo maestro e costante punto di riferimento, Nino Scivoletto, fondatore di una scuola perugina di studi sul mondo latino i cui meriti sono ben noti a tutti. * * * La relazione di apertura, di Andrea Giardina, Properzio e Augusto, è partita dal confronto fra i due bimillenari augustei, quello della nascita nel 1937 e il prossimo, della morte, nel 2014, che – come è avvenuto per quelli virgiliani – consentono di rileggere la storia del Novecento e di questi primi decenni del Duemila alla luce dei diversi modi con cui le ricorrenze sono state affrontate. Rapidamente ma esaustivamente ha quindi passato in rassegna le varie posizioni degli studiosi sui rapporti fra l’imperatore e il poeta, da chi è convinto di un’assoluta adesione di questo al programma augusteo a chi sostiene un’opposizione decisa anche se limitata al piano di una fronda intellettuale, passando attraverso varie tipologie di integrazione piú o meno facile; fra tanti lavori, uno dei piú recenti e piú preziosi 424

conclusioni

è il saggio di Bonamente nel Properziano del 2004, cosí documentato che sembra sia rimasto ormai poco o nulla da fare. La stessa relazione di Giardina ci ha però dimostrato come per uno come lui ci sia sempre la possibilità di trovare e di dire, nel migliore dei modi, qualcosa di nuovo e di importante: i filologi, del resto, hanno dalla loro la lezione di Boeckh, che con orgoglio definiva il suo e nostro mestiere come ‘la conoscenza del conosciuto’, la capacità di dare un diverso e piú soddisfacente senso a ciò che è già noto semplicemente modificandone l’ordine e la disposizione. Prendendo spunto da 4, 6 – ma l’argomento è presente, per varie sue parti, anche in altri luoghi – è partito da quella che ha definito la ‘deontologia delle guerre civili’, e di lí è passato alla rappresentazione di Antonio nelle elegie. Properzio non nasconde le possibili affinità fra sé e lo sconfitto: entrambi, ad esempio, hanno accettato di vivere un ‘amore turpe’, nel caso di Antonio per quella Cleopatra che Properzio condanna come l’Orazio dell’ode 1, 37, ma mentre questi trova parole che non sono prive di sbigottita ammirazione per la regina deliberata morte ferocior, con tratti che la avvicinano all’altra grande regina suicida, Didone, manca in Properzio qualunque sia pur marginale riconoscimento per la regina. Eppure, nonostante in lui a Cleopatra non sembri toccare neppure un attimo di riscatto, non si può dire che la sua posizione sia di piena adesione alla linea augustea: è questo un punto su cui hanno convenuto molti dei relatori successivi, e che Giardina ha ampiamente illustrato ricordando la preferenza per Mario – popolarissimo in Umbria – piuttosto che per Cesare e soprattutto sottolineando un aspetto delicatissimo, cioè che per Properzio, unico fra gli augustei, Azio è l’esito di una guerra civile, non di una guerra combattuta contro un nemico esterno. Il silenzio su Antonio, il cui nome ricorre una sola volta nei quattro libri, e la cui presenza anche senza che compaia il nome è comunque ridottissima nelle elegie, non è conseguenza di un disprezzo nei suoi riguardi, ma piuttosto di un riguardo, di un rispetto dovuto secondo il galateo che trasforma in prassi la deontologia delle guerre civili. Questo è delineato da Valerio Massimo e conta due illustri precedenti alla fine della repubblica, quello di Pompeo in Spagna contro Sertorio e quello di 425

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Cesare nel Bellum Africum: le guerre civili non possono dare trionfi né titolo di imperator, non comportano atti religiosi né trofei. Ma il suicidio di Antonio drammaticamente presentato a 3,9 – il luogo in cui il rivale di Ottaviano è onorato con la presenza del suo nome –, dà allo sconfitto una morte comunque gloriosa, che ricorda quella di Catone ad Utica, e per un soldato è la migliore possibile dopo la piú bella di tutte, in battaglia contro un nemico esterno; soprattutto, uccidendosi Antonio si è riscattato comportandosi nella maniera giusta, perché cosí ha liberato Ottaviano e Roma dalla imbarazzante necessità di eliminarlo. L’altra grande differenza fra le posizioni di Properzio e Ottaviano/Augusto è su quella che il poeta avverte come la sua ‘patria drammatica’, l’Umbria – non la sola Assisi, non la troppo grande Roma. Giardina ha infine ricordato l’aforisma di Renan, secondo cui per far nascere una nazione è necessario l’oblio, per rimuovere le morti che il processo unitario ha prodotto; il punto è che Properzio non riesce a dimenticare, e nella sua posizione poteva permetterselo, mentre Augusto doveva far nascere un impero. Di argomento prevalentemente storico sono state anche le relazioni di Eck, Cresci, Massa Pairault. Werner Eck, per parlarci di Properzio e l’aristocrazia augustea, ha dovuto fare i conti con alcune questioni preliminari che riguardano l’inquadramento del problema, in primo luogo le incertezze cronologiche relative alla data di nascita del poeta e a quella del suo arrivo a Roma, ma anche la sua notorietà come poeta, se già prima di venire nella città, pur essendo assai giovane, avesse dato prove di sé come poeta e di che fama potesse godere nella capitale. Suo padre era decurione ad Assisi, ma non apparteneva all’aristocrazia romana, e del resto non risultano altri loro concittadini che in quegli anni fossero presenti a Roma in posizioni di potere; c’erano invece, fra gli esponenti dell’Etruria in Senato, dei Perugini che scalarono i vertici del cursus honorum, in primo luogo Vibio Pansa, e insieme con lui i Volcaci. Dei due senatori con questo nome, il primo ricoprí la pretura e il consolato, ebbe un ruolo fra coloro che contrastarono le ambizioni di Catilina, fu in rapporti sia con Cesare che con Pompeo, al quale 426

conclusioni

nel 56 propose, peraltro senza successo, che fosse affidata la restaurazione in Egitto; 10 anni dopo, come ci fa sapere Cicerone, fu tra quanti cercarono di opporsi al rientro di Marcello; i suoi discendenti furono apertamente schierati con i triumviri contro i cesaricidi, poi con Ottaviano contro Antonio, e Syme ritiene che il loro successo politico vada attribuito anche alla necessità che Ottaviano avvertiva di recuperare il favore dei Perugini dopo le stragi. Il secondo Volcacio giunge all’importantissima carica di proconsole d’Asia, e qui viene ricordato – ma siamo ormai al 9 a.C. – per proposte di onori da conferire all’imperatore; questo Volcacio è ricordato da Properzio come zio del suo amico Tullo, ma rimane per noi il dubbio sui limiti dei rapporti di conoscenza fra il giovane poeta e l’illustre uomo politico, e non possiamo ricostruire se e quanto l’amicizia con Tullo comportasse anche rapporti con i suoi parenti di maggiore rilevanza. Tullo stesso è un giovane senatore di belle speranze, collabora con lo zio, probabilmente come legato del proconsole, e trascorre molti anni a Cizico; la lunga assenza dalla capitale lo tiene però lontano dai centri del potere in un momento delicato della sua carriera, che in effetti non procederà poi in maniera soddisfacente, visto che non gli toccarono né la pretura né tantomeno il consolato. Altre due figure di significativo rilievo politico, ma di rango equestre, sono Postumo, il marito di Elia Galla, e un Gallo. Per il primo si pone il problema della possibilità di identificarlo col Quintus Propertius Postumus di un’iscrizione romana, e rimane in dubbio se fosse di Assisi e parente di Properzio: crea qualche problema l’appartenenza alla tribú Fabia, perché da Assisi si sarebbe dovuti entrare nella tribú Servia; va in Oriente con Augusto, ma l’iscrizione, nonostante la sua ampiezza, non ricorda cariche militari. La moglie era parente del prefetto d’Egitto, ma le carriere equestri sono meno regolari di quelle senatorie, e peraltro non riusciamo neppure a definire in maniera soddisfacente i limiti della familiarità fra i due cavalieri e il poeta. C’è infine l’ambiente di Cornelia e del marito, Publio Emilio Lepido, censore. Qui ci troviamo dinanzi alle piú famose famiglie senatorie, perché Cornelia era figlia di uno Scipione e di Scribonia, già moglie di Ottaviano, e quindi sorellastra di Giulia, mentre Lepido, oltre ad appartenere alla prestigiosa gens 427

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Aemilia, da secoli in stretti rapporti con gli Scipioni, vantava una brillante carriera personale, perché fu console, anche se suffectus, nel 34, proconsole di Macedonia nel 27 e censore nel 22 con Munazio Planco: una censura, peraltro, che andò incontro a critiche di cui è testimone Velleio Patercolo. Il matrimonio fra i due risale al 30, ed Eck ci ha ottimamente illustrato come rispondesse al programma di restaurazione sociale che si stava elaborando. Oltre queste notizie, preziose e approfonditamente dettagliate, pur in presenza di una documentazione assai minore di quella che desidereremmo, Eck ci ha fornito preziose ipotesi di ulteriore lavoro: riusciremo mai a sapere se Properzio a Roma frequentò qualche scuola, fu auditor di qualche illustre maestro, retore o filosofo che fosse? E in questo caso, chi potevano essere i suoi compagni di studi? Giovannella Cresci Marrone ha fatto il punto su Properzio e le guerre di conquista, che videro l’impero impegnato nel 2725 in Gallia e in Spagna, nel 24-23 sul fronte orientale, ma piú sul piano diplomatico che su quello militare, per arrivare a quegli accordi con gli Arsacidi che nel 20 portarono alla restituzione delle insegne tolte alle truppe di Crasso, mentre nel 16 l’attenzione si spostò sul Norico e poi – ma Properzio era ormai morto – in Germania. Il poeta, come è noto, non volle mai partecipare ad operazioni militari e, programmaticamente, si rifiutò sempre di cantarle in forma epica; usò sí il linguaggio bellico, ma in rapporto agli argomenti del tutto diversi che caratterizzano la poesia erotica; parla delle guerre esterne cosí come se ne poteva parlare a Roma, descrivendo le partenze di chi andava a combattere, i viaggi per raggiungere i lontani luoghi in cui combattevano gli eserciti di Roma e i ritorni dei vincitori, mentre mancano le descrizioni delle battaglie e le scene narrate dipendono verisimilmente dalle rappresentazioni che accompagnavano le cerimonie di festeggiamento: le descrizioni dei barbari, del Nord come dell’Est, risentono delle fonti iconografiche piú che di quelle letterarie. Per le guerre intestine sono ricordati Modena, Filippi, la Sicilia, Perugia e l’Egitto; rispetto al canone registrato nei calendari e nelle res gestae di Augusto c’è in piú il bellum Perusinum, 428

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che ovviamente non poteva mancare nell’opera di un poeta di Assisi. Interessante l’evoluzione dell’atteggiamento su Azio: dichiaratamente non guerra esterna ma civile all’inizio della produzione, con la dichiarazione che è meglio ubriacarsi che uccidere (e come dimenticare l’immagine di Antonio ubriaco), diviene poi nel III e nel IV libro guerra esterna e difensiva, perché ad assalire Roma è Cleopatra nella sua follia aggressiva. Col IV libro c’è anche un’ulteriore evoluzione, per cui quella battaglia segna la definitiva conquista del mondo da parte di Roma, e perciò l’inizio della pace. Per il periodo fra il 26 e il 25 Properzio doveva fare i conti con una vistosa volontà di scontro con i Parti, con invocazioni ai mani dei Crassi, padre e figlio, che indicano una forte propaganda in preparazione della guerra che invece non ci fu, per la restituzione delle insegne che rese definitivamente vincente la posizione che dichiarava ormai regolati i conti, ad Oriente, già con il 31. Un’analoga manipolazione dell’opinione pubblica si ebbe negli stessi anni, per l’India e la Battriana, che da regioni favolose passano a terre con cui si commercia con comune vantaggio; il massimo della falsificazione è documentato da 3, 4, con le spedizioni inventate verso l’India e verso la Britannia e quelle smisuratamente amplificate verso l’Etiopia e l’Arabia, secondo un progetto propagandistico attestato anche dalle Res gestae. Mancano invece, in Properzio, alcune spedizioni effettivamente avvenute e non prive di rilievo, come quella in Dalmazia e quella in Spagna, che furono solennizzate anche con trionfi, quella in Gallia di Agrippa, ampiamente affrontata da Cristofoli, e quella sulle Alpi; poco c’è anche sui Sigambri, sui Neuri e sui Geti. Si ha insomma l’impressione che mentre Augusto guarda a Nord-Ovest Properzio è interessato al Sud-Est; rimangono da interpretare le motivazioni di questa differenza: i Romani erano attratti dalla convinzione che le terre orientali fossero piú ricche e quindi che nuove conquiste in quelle zone potessero portare maggiori vantaggi? O all’origine della posizione properziana c’era una polemica letteraria con il mondo greco, che aveva espresso preferenze per l’impero dei Parti rispetto a quello di Roma? Oppure l’incomprensione delle novità intervenute nella politica augustea? Anche per questi aspetti la lezione della Cre429

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sci e quella di Cristofoli si sono brillantemente integrate, con una convergenza che ha reso pienamente convincenti le argomentazioni dei due relatori. Rispetto a Giardina, la Cresci ha privilegiato l’immagine di un Properzio in continua evoluzione, che in fasi diverse della sua vita propugna posizioni anche profondamente diverse fra loro ma ognuna in sé coerente, rispetto a quella di un Properzio continuamente combattuto nella conflittualità dei suoi problemi irrisolti e compresenti: due affascinanti prospettive fra le quali ognuno di noi potrà scegliere o meglio costruirsi il suo personale Properzio, grazie al prezioso aiuto che i due relatori ci hanno fornito. Di Etruria e Roma ci ha parlato Françoise Hélène Massa Pairault, che ha messo la sua lezione sotto l’egida di due grandi maestri, Pierre Boyancé e Pierre Grimal. Properzio era stretto fra due prepotenti urgenze, la missione di Roma e la storia di Assisi, che sempre meglio stiamo conoscendo grazie alle continue scoperte archeologiche; per di piú nella prima parte della sua opera la forza dell’amore mette in secondo piano l’attenzione per le vicende generali, e solo col IV libro il poeta ‘fa pace’ con i suoi tempi. Le elegie finali del I libro sono segnate dalla devastazione delle terre etrusche in conseguenza dei casi interni dello stato di Roma, ma la Massa precisa con convincente puntualità che per il poeta l’Umbria è ormai pienamente e definitivamente romanizzata, non espressione di una nazione diversa e in qualche modo incorporata a forza nella res publica. Di questa convinta adesione allo stato di Roma l’Umbria è stata però mal ricompensata, come dimostrano da un lato le devastazioni del bellum Perusinum dall’altro il ridotto numero di esponenti delle élites umbre che entrarono a fare parte dell’aristocrazia senatoria, sottolineato anche da Eck; per questi è complessa anche l’analisi dei rapporti di parentela, ad esempio per quanto riguarda Galla. L’elenco che Properzio dà delle guerre civili non rispetta l’ordine cronologico e conteneva, in potenza, una pericolosa contraddizione fra il dolore per la distruzione dell’Etruria e la necessità di celebrare la vittoria di Ottaviano, ma il rischio è abilmente superato addossando ai nemici di quest’ultimo la colpa di tutto quanto era avvenuto. Anche l’archeologia 430

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offre, con la tomba di Volumnio, una ricostruzione ideologica che affianca l’esaltazione della pace al tema della Perusia restituta caro alla propaganda ottavianea. Quanto al IV libro, la sua organizzazione come individuata da Grimal vede al centro il tempio palatino di Apollo, e poi tutt’intorno vari temi della storia romana da Romolo, di cui è enfatizzata la connessione con gli Etruschi, a Veio e al ripristino del municipium Veiens voluto da Augusto, a miti storie e riti caratteristici del mondo etrusco, mentre l’elegia 4, 2 supera la misura dell’erudizione eziologica per proporre una vera e propria storia dell’Etruria nel nome del suo dio principale, Vertumno. Il lucumone etrusco che aiuta Romolo contro il sabino Tito Tazio; il racconto sulla prima statua di Vertumno opera di Mamurio (Mamurio Veturio, quello degli ancili, dei tempi di Numa, o Mamurio osco, ai tempi dell’espansione romana in Campania?); le etimologie proposte dagli antichi per il nome del dio e le varie connessioni mitiche e rituali del suo culto hanno arricchito la lezione, che si è conclusa con l’illustrazione della Tomba del Guerriero a Orvieto, con la patera di bronzo e tre divinità: Vertumno nella collocazione principale, al centro, Mercurio a sinistra e Marte a destra, in modo che il dio che rappresenta lo scorrere annuale del tempo sia circondato dalle due principali attività stagionali, la guerra e il commercio. Properzio fra Cinzia e Cornelia è il titolo che Paolo Fedeli ha scelto per la sua ampia lezione, che ha concluso il convegno in posizione speculare a quella di Giardina, e ha idealmente riassunto il secondo filone di indagine, quello letterario. La lezione ha riguardato soprattutto il quarto libro, di cui è stata data una magistrale sintesi, e le due figure femminili che possono essere prese a simbolo, ai due estremi, dell’intero universo femminile dell’età augustea. Se Cinzia, da sola, riusciva a contenere in sé la meretrix e la matrona, qui i due tipi letterari si scindono; con l’amore per Cinzia il poeta aveva fatto i conti alla fine del terzo, ora è la ‘restaurazione innovativa’ del programma augusteo che lo affascina, fin dall’elegia di apertura, in una mescolanza di continuità e contrasto con il passato che parte dalla storia antica di Roma, attraversa il manifesto della poesia ezio431

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logica, ma poi l’elegia eziologica vera e propria non c’è, e al suo posto arriva la profezia di Horos. Fedeli ha sostenuto con forza l’unità dell’elegia proemiale, che riassume egregiamente un libro di per sé duplice, perché contiene novità – e quante, e quali – ma non vuole che si perda il vecchio e quanto di buono già era stato prodotto. La successione delle elegie sembra costruita in modo da stupire il lettore, affiancando alla voce del poeta anche quelle di altri interlocutori, e intorno a 4, 6, per il quindicesimo anniversario di Azio, che anche per Fedeli è il centro poetico del libro, oltre che quello geometrico/aritmetico, si dispongono riti e culti corrispondenti al progetto augusteo; per primo quello di Vertumno, dio non a caso dell’alternanza e della sorpresa, col monologo in cui il dio si sostituisce al poeta; poi Aretusa, altro personaggio parlante, e di politica, per esprimere il dissenso di una donna, una matrona innamorata; quindi Tarpea, che viene meno ai doveri di Vestale e di Romana per colpa dell’amore che distrugge l’ordine: per amore, e non per i bracciali dei Sabini, perché vuole sposare Tazio a fin di pace, e il suo monologo occupa piú di metà dell’elegia; in fondo alla climax discendente la ruffiana Acantide, che sembra riportare al vecchio Properzio, ma rappresenta anche lei qualcosa di nuovo, perché le spetta un ampio spazio di personaggio parlante in cui, contrapponendosi proprio al messaggio del Properzio erotico, si propone di insegnare alle donne la convenienza di preferire il danaro all’amore. Al centro, come si diceva, l’Apollo del Palatino, con la sua duplicità di dio arciere e dio citaredo, che dà istruzioni belliche prima di Azio, e con la conferma delle potenzialità del distico elegiaco nell’esposizione dei temi di guerra. Un altro ritorno al passato sembra essere 4, 7, ma anche qui si tratta di una Cinzia diversa, di una Cinzia defunta, e del tutto nuovo è il ruolo che Properzio le riserva, assegnandole addirittura 82 versi di monologo, che rovesciano completamente i ruoli previsti dalle regole elegiache per il diritto di parola. Quella successiva, del serpente di Lanuvio, sembra una tipica elegia eziologica ma in realtà è solo un pretesto per parlare della gita di Cinzia; l’eziologia non rimuove dunque la poesia erotica? Eppure è proprio con 4, 8 che Cinzia esce definitivamente dalla poesia 432

conclusioni

di Properzio! Anche piú problematica è 4, 9, anch’essa in parte eziologica, per la spiegazione dei motivi che prescrivono l’assenza di donne dai rituali dell’Ara Massima, ma si tratta di una parte marginale, rispetto al ruolo di Ercole come protagonista e personaggio parlante, anzi dei due Ercoli, prima quello eroico, virgiliano, dello scontro con Caco, poi quello degradato, quasi folle dopo il rifiuto dell’acqua, che recupera una tradizione molto piú rara ed erudita, attestata da Macrobio e risalente forse a Varrone, che ne fa quasi un exclusus amator e un corrispettivo di Antonio, cosí come la Bona Dea e il suo culto richiamano Antonio e Cleopatra piú che Clodio vestito da donna nella casa di Cesare. L’unica vera elegia eziologica è quella di Giove Feretrio che ricorda le vittorie di Roma antica, ma è anche attuale perché Augusto aveva voluto che il suo tempio fosse restaurato; l’elegia non è particolarmente lunga, come piccolo è il tempio, ed è del tutto priva di personaggi femminili, dominata da un’atmosfera macabra e truculenta per le uccisioni degli avversari di Romolo e degli altri Romani che imitarono la sua impresa, arricchendo il tempio delle spoglie opime di Acrone – la cui discendenza da Ercole stabilisce una connessione con l’elegia precedente –, di Tolumnio e di Viridomaro. Infine Cornelia e il suo ampio monologo, che ne fa da un lato un’avvocata di se stessa, dall’altro una discendente dell’Alcesti euripidea per le modalità con cui è impostata la sua allocuzione al marito: con lei è compiuto il quadro del libro, e ripristinato l’equilibrio con la tirata di Cinzia a 4, 8: due discorsi di defunte che si corrispondono e costituiscono la chiave di lettura poetica del libro. Nata dal secondo matrimonio di Scribonia, con il console Publio Cornelio Scipione – dal terzo, con Ottaviano, nacque Giulia – Cornelia rappresenta un modello femminile pienamente corrispondente ai valori propugnati dall’aristocrazia, e viene completamente rimossa la notizia che abbiamo da Svetonio sugli aspetti caratteriali di Scribonia che Ottaviano aveva addotto a motivo del suo secondo divorzio (Aug. 62): Mox Scriboniam in matrimonium accepit, nuptam ante duobus consularibus, ex altero etiam matrem (appunto di Cornelia). Cum hac quoque divortium fecit, pertaesus, ut scribit, morum perversitatem eius. Fra i meriti dell’elegia Fedeli 433

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ha giustamente rivendicato la mancanza di qualunque tono di smaccata adulazione, che pure l’argomento e il contesto avrebbero potuto consentire. Le relazioni ‘filologico-letterarie’ hanno riguardato i rapporti fra Properzio e gli altri principali poeti augustei, Tibullo (Perrelli), Virgilio (Álvarez Hernández), Orazio (Holzberg), Ovidio (Dimundo). Sul primo elegiaco d’età augustea Perrelli ha potuto ricordare, come Giardina per il Properzio e Augusto di Bonamente, un importante precedente negli Atti dei Convegni properziani, quando von Albrecht nel 2004 affrontò il tema sottolineando le significative differenze fra le due personalità poetiche; del resto la synkrisis è un classico, da Quintiliano in poi, e solo per rimanere ai tempi piú recenti – ha ricordato il relatore – è del 1984 il lavoro in cui Cairns, contro la sua piú consueta scelta a favore dell’analisi dei ‘generi’, prende in esame destinatari e committenti delle elegie. Ormai non si va piú in cerca di loci similes, e i problemi di cronologia relativa sono visti in termini assai piú complessi, per la consapevolezza che le singole elegie potevano a volte circolare anche prima di essere raccolte in libri, almeno negli ambienti ristretti dei poeti romani che praticavano il medesimo genere. Con queste premesse, Perrelli ha approfondito alcune piú vistose affinità testuali, per illustrarne i limiti e le possibili motivazioni, e quindi il significato. È certamente solido il rapporto fra Tib. 1, 10, 51-52, Rusticus e luco revehit, male sobrius ipse, / uxorem plaustro progeniemque domum e Prop. 2, 5, 25-26, Rusticus haec aliquis tam turpia proelia quaerat, / cuius non hederae circumiere caput, sul rusticus violento che non può essere poeta, ma Tibullo dà del rusticus anche a se stesso, nella prima elegia: 1, 10, 7-8, Ipse seram teneras maturo tempore vites  / rusticus et facili grandia poma manu; se ne può ricavare che Properzio desse a Tibullo del rusticus nel senso deteriore, e lo escludesse dal numero dei poeti? Ma per Tibullo è già stata rilevata la tendenza a usare sinonimi in contesti e significati pressoché opposti, come la congeries dell’oro caro agli avari e l’acervus del grano necessario alla sopravvivenza, negativo e positivo uniti per di piú dal comune colore giallo, e perfino la stessa parola ricorre ribaltata in contesti diversi, come iners che indica chi saggia434

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mente rifiuta la lotta per arricchirsi, ma è riferito anche alla vecchiaia, spaziando cosí fra l’auspicabile merito e la detestabile fiacchezza, come teneo e i suoi composti, che vanno bene per l’avarizia con cui si custodisce il danaro, ma anche per il tenere in mano gli attrezzi con cui si affronta l’onesto lavoro quotidiano, e perfino per l’affettuoso abbraccio fra le persone. Questa molteplicità semantica consente di escludere che in Properzio ci potessero essere intenzioni polemiche, ma fanno piuttosto pensare a un ammiccamento, a un saluto del poeta piú giovane per un illustre predecessore. Meno fertile è l’indagine sui temi, ad esempio le ‘scelte di vita’: nell’elegia augustea sono sempre gli stessi, ripetutamente ricorrenti, finiscono con l’ingabbiare nel luogo comune le esposizioni e col rendere insignificanti i percorsi; Perrelli suggerisce piuttosto una ricerca che promette ancora interessanti risultati, il confronto tra le articolazioni interne dei libri (sul modello di quella che il giorno dopo ci avrebbe proposto Fedeli per il quarto di Properzio) o fra le strutture delle singole elegie. Per il primo di Tibullo e quello di Properzio, ha sottolineato come quello si collochi esplicitamente sulla linea delle Bucoliche e del primo libro delle Satire di Orazio, con dieci componimenti lunghi, dagli argomenti differenti l’uno dall’altro, con una collocazione non casuale delle elegie all’interno del libro, e ha presentato come dato meritevole di essere preso in considerazione il fatto che anche i primi dieci epodi di Orazio, che hanno tutti il medesimo metro, rispettano questa caratteristica; Properzio invece colloca nel suo primo libro 22 elegie di dimensioni molto minori, piú omogenee come tematica e disposte in maniera meno evidentemente curata. Nel primo di Tibullo si contano 3 elegie per Delia, 3 per Marato, 3 sapienziali e 1 per Messalla; il primo di Properzio vede una massiccia presenza di Cinzia. Tibullo nell’elegia proemiale si preoccupa a lungo di spiegare perché parlerà di una molteplicità di argomenti, e il nome di Delia compare per la prima volta solo al verso 57; la proemiale di Properzio si apre addirittura col nome di Cinzia, ad inizio del primo verso. Altri confronti sono stati istituiti sul modo di trattare il paraclausithyron in Tib. 1, 2 e Prop. 1, 16; sul viaggio con il committente in Tib. 1, 3 e il mancato viaggio con Tullo a Prop. 1, 6; 435

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sul fatto che Tibullo inserisca gli spunti epigrammatici all’interno del contesto elegiaco, tendendo a mescolarli e quasi a occultarli, mentre Properzio li enfatizza e punta a metterli in risalto anche con artifici sintattici. Properzio, insomma, è piú neoterico, piú ‘catulliano’, mentre Tibullo è decisamente piú vicino alle tipologie augustee di Virgilio e Orazio, perciò – almeno per i tempi – piú ‘moderno’. A conclusione della sua bella relazione Perrelli si è chiesto se quest’isolamento poetico di cui Properzio dà prova possa spiegare anche il suo limitato rapporto con Orazio, che invece interloquisce spesso, ed esplicitamente, con Tibullo, anche se non apparteneva al suo medesimo circolo. Arturo Álvarez Hernández, nel non facile, ma ottimo confronto istituito con Virgilio, ha preso a riferimento i primi libri delle elegie, ed è partito da uno status quaestionis, che per mettere in evidenza le estremità dell’arco di posizioni risale molto indietro nel tempo. I due punti di vista opposti sono da un lato quello di Donato, che fa di Properzio un ammiratore di Virgilio assolutamente esente dal benché minimo dubbio, dall’altro quello di Giovanni D’Anna e alcuni altri, per i quali Properzio polemizza spesso con Virgilio e con il classicismo augusteo, in una sorta di risposta alle obiezioni che Virgilio stesso aveva formulato nei riguardi di Gallo. C’è anche chi ha visto nel primo delle Georgiche qualche spunto di critica nei riguardi di alcuni luoghi del (della?) monobiblos, ma – a parte i problemi di cronologia, peraltro resi piú complessi dalle giuste considerazioni di Perrelli sulla differenza fra le date dei libri e quelle delle singole elegie – le presunte riprese virgiliane da Properzio non sono affatto certe, e poco convincono, quindi, le considerazioni che su di esse vengono costruite. Si lavora, dunque, su derivazioni di Properzio da Virgilio: l’Arcadia, quella di Gallo nella decima bucolica, ma anche quella della sesta, a volte unita al tema del dolore nelle selve, come a 1, 18; il proemio del terzo delle Georgiche, la sua possibile lettura anticallimachea e le eventuali risposte di colui che dirà di essere il Callimaco romano; soprattutto la valutazione che Properzio poté dare del percorso di Virgilio dall’alessandrinismo all’epos romano passando attraverso Esiodo. Questo poeta greco, in effetti, si presta a una duplice lettura che lo rende accetto 436

conclusioni

agli alessandrini, perché doctus, ma ne consente anche l’inserimento nell’Eneide, attraverso il suo Elicona ascreo, perfino in contesti squisitamente omerici come i cataloghi. Properzio a 2, 10, tra l’Elicona e le fonti ascree, prevede la possibilità di componimenti poetici diversi a seconda dell’età, seguendo la linea evolutiva individuata nel finale delle Georgiche e accettando senza riserve questa posizione; a 2, 13, invece, nel bosco eliconio fa convivere tutti i generi poetici in maniera paritaria, senza che si possano ipotizzare una scala o dei gradus ad Parnassum. Questa assoluta mancanza di gerarchie dimostra che in Properzio c’è stata una svolta teorica di grande rilievo, fra un’originaria adesione alla tesi virgiliana del passaggio da un genere all’altro come segno di maturazione e una nuova opinione che rifiuta le gerarchie ed assegna a ogni genere uguale dignità letteraria, per cui l’elegia può valere a tutti gli effetti quanto l’epica. Naturalmente Álvarez Hernández non poteva omettere l’annuncio dell’Eneide a 2, 34; i tre prodotti poetici di Virgilio sono evocati e discussi, valutandoli in maniera diversa, ma di Virgilio ce n’è uno solo: le sue opere sono in lui compresenti, contemporanee, come dimostra la sincronia del verbi, senza progressi o ascese. Properzio rivendica con forza il diritto del poeta elegiaco a fare le sue scelte e a difenderne la qualità, ma proprio per coerenza con questa posizione deve consentire a Virgilio di seguire la propria strada senza subire critiche: anche se farà epica rimane e rimarrà sempre un poeta doctus, un interlocutore prezioso e ammirato. Sui rapporti fra Orazio e Properzio ci ha intrattenuti Niklas Holzberg, che ha dato per titolo al suo intervento la prima parte del verso 91 di epist. 2, 2, Carmina compono, hic elegos, che introduce una scenetta di cui potrebbero essere attori i due poeti, e ha ricordato che, come nel 1700 qualcuno era certo che il seccatore della nona satira fosse proprio il nostro poeta, cosí ora c’è chi addirittura esclude che egli potesse far parte del cosiddetto circolo di Mecenate. Nell’epistola, parlando dell’abitudine che hanno i poeti di esaltare i propri meriti al di là del ragionevole, Orazio si descrive in compagnia di un collega al quale, per fargli un complimento, dà del Callimaco: effettivamente è difficile sfuggire alla tentazione di pensare a Properzio, 437

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ma – rileva Holzberg – forse l’intenzione è meno sarcastica di come si potrebbe pensare, perché subito prima Orazio si fa definire ‘Alceo’ dal suo interlocutore, e quindi piú che di polemica si tratta di un gioco, di una sorta di canzonatura fra i due, che un po’ ci credono (e – dopo tutto – non ne avrebbero avuto il diritto?) e un po’ si rendono conto che stanno scherzando. Per valutare serenamente i rapporti fra i due è necessario tener presente che le riprese dell’uno dall’altro non significano dichiarazione di dipendenza o inferiorità, perché al contrario può prevalere il gusto per la gara e la convinzione di saper fare meglio dell’altro. Anche in questo caso il problema dell’anteriorità fra i componimenti si pone nei termini di cui molti ci hanno parlato, con incertezze che non si limitano alla cronologia dei singoli libri, ma riguardano le date in cui circolarono i singoli testi; comunque i confronti di maggior interesse che Holzberg sceglie di segnalare riguardano le odi del secondo libro, in particolare 2, 12 messa a confronto con l’elegia proemiale del secondo libro, e il terzo di Properzio, confrontato col terzo delle odi, ma anche con componimenti di altri libri o degli Epodi, anche se spesso diversa è la posizione assunta da Butrica nel suo lungo articolo sulla struttura dei libri successivi al monobiblos. Per 2, 12 e 2, 1 ci è stato ricordato che i rapporti cronologici sono cosí complessi che, mentre fino a non molto tempo fa prevaleva la convinzione dell’anteriorità di Properzio, nell’ultimo decennio non è mancato chi rovescia il rapporto (Hutchinson). A queste considerazioni di metodo ne sono state aggiunte altre non meno interessanti, ad esempio sul fatto che la perdita di un gran numero di scritti dei tanti autori che fiorirono in quegli anni non ci consente di essere neppure certi che i testi siano davvero in relazione fra loro, e che non interloquiscano invece con altri che in maniera analoga parlassero di argomenti simili. Per il terzo libro delle elegie si è ripreso il caso di Cleopatra, già affrontato da Giardina col quale Holzberg concorda pienamente nel rilevare come Orazio riservi alla regina spazi di dignità esclusi da Properzio; a questa tipologia di confronti relativi ai casi in cui a un intero componimento di Orazio ne corrisponde uno di Properzio, o una parte abbastanza cospicua di esso, si aggiungono quelli in cui un testo oraziano sembra 438

conclusioni

ispirare l’attacco di un’elegia e infine quelli in cui le precise ricorrenze verbali paiono garantire una sicura dipendenza. I primi versi di 3, 1 contengono varie parole chiave oraziane, da nemus a  primus, da sacerdos a Itala, ma poi il componimento procede in maniera del tutto autonoma, senza piú risentire di influenze vistose; a 3, 9 l’iniziale Maecenas, eques Etrusco de sanguine regum non può non ricordare l’incipit delle odi, ma poi Properzio rifiuta un impegno che non gli riuscirebbe bene, perché non gli è gradito, mentre Orazio si dichiara soddisfatto del suo lavoro; a 3, 13 il gioco si fa piú complesso, perché frangitur ipsa suis Roma superba bonis dialoga col suis et ipsa Roma viribus ruit del sedicesimo epodo, che a sua volta gioca con le Bucoliche per l’avvio Altera iam teritur bellis civilibus aetas che riprende ecl. 4, 4 nel iam e nell’aetas; a 3, 23, 23-24 sono recuperate ben quattro parole dell’explicit di sat. 1, 10, ma mentre quei versi concludono il libro oraziano quello di Properzio procede ancora con altre due elegie che di fatto smentiscono la chiusa e riaprono, a sorpresa, il discorso e quindi il significato del libro. Lunga e approfondita è stata la lettura incrociata di 3, 12 e Hor. carm. 2, 14. Holzberg, che identifica i due Postumi e vede in Galla la figlia di Cornelio, ha dimostrato come i percorsi siano nettamente diversi: al tema della morte e al Cocíto che si trovano in Orazio fa riscontro in Properzio il servizio militare; all’attaccamento che Postumo dimostra, in Orazio e nell’ordine, per la terra, per la casa e per la moglie corrisponde la decisione di lasciare, senza rimpianti, la moglie e tutto il resto; al silenzio oraziano sul nome della donna si contrappone la quadruplice citazione properziana e la dichiarazione che se Postumo è novello Ulisse, Galla sarà un’altra Penelope. Properzio, insomma, riesce a dialogare da pari a pari con Orazio, non è né un imitatore né un secondo arrivato. Ovidio è toccato a Rosalba Dimundo, che ha preso il via da considerazioni metodologiche sull’applicazione del tradizionale metodo di commento che consiste nel cercare allusioni con variazione, e sull’opportunità, nel caso specifico, di aggiungere una valutazione preliminare delle diverse poetiche e soprattutto della differenza dei tempi a cui i due poeti fanno riferimento, col ricordo delle guerre ancora pesante in Properzio e con Ovi439

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dio circondato dal benessere che tenne dietro alla pax Augusta. Ovidio, nei Tristia, non manca di dichiarare la propria derivazione e continuità col predecessore; anche l’organizzazione della materia, soprattutto negli Amores, risente molto delle tecniche properziane, e i Fasti prendono molto dal Properzio eziologico del quarto libro, sia per i contenuti (l’Ara Maxima di fast. 1, 581 sgg. e di Prop. 4, 9) sia per aspetti stilistici e atteggiamenti letterari, che la Dimundo ha ben sottolineato. Il suo interesse si è rivolto, però, soprattutto, al genere dell’epistola elegiaca, che Ovidio nell’Ars presenta come sua invenzione, ma ha un chiaro precedente nella lettera di Aretusa a Licota a 4, 3. Ovidio comunque è certamente il primo a fare un libro intero di elegie, sicché il precedente properziano è un po’ come il carme 68 di Catullo rispetto alle grandi raccolte degli augustei. Dopo aver spiegato i motivi per cui fra le Eroidi la piú vicina a 4, 3 è la 13, di Laodamia a Protesilao, la Dimundo ha affrontato la complessa questione dello statuto letterario che spetta allo scambio epistolare, sia esso reale o fittizio, concludendo a favore del riconoscimento, in ogni caso, di livelli affettivi di assoluta e piena intimità. La lettura parallela, in controluce, dei due testi le ha consentito di cogliere temi e aspetti al tempo stesso delicati e fondamentali, come quello dei sacrifici propiziatori operati dalle due donne; quello delle maledizioni alle guerre, che in Ovidio sono piú prolungate, con l’effetto di una diluizione del pathos; quello della gelosia, per cui a diceris et macie vultum tenuasse in Properzio non fa seguito uno “spero che non sia vero”, ma “spero che questo avvenga per la mia mancanza”, a conferma di quello che già avevano detto i comici: “se fai tardi la sera, augurati che sia per quello che pensa tua moglie e non per quello che pensa tua madre”. In Ovidio Laodamia vuole accanto a sé l’immagine di cera di Protesilao, quando egli è ancora vivo, e siamo sulla strada di Pigmalione, che però arriverà solo con gli esametri e – si potrebbe dire – con il fonte ascreo; in entrambi i poeti compaiono invece la descrizione dei lavori e dell’ozio delle donne sole e la suddivisione dei venti in cattivi, che portano via gli uomini verso la guerra, e buoni, che li riportano a casa. Per Aretusa c’è un’aspirazione a partecipare in qualche modo al servizio militare, che ricorda la Licoride di Gallo e anticipa il caso di 440

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Germanico, e Laodamia invidia le Troiane che almeno stanno vicine al campo di battaglia; entrambe condividono il disinteresse per il cultus, le pettinature, i vestiti eleganti e rifiutano l’aspirazione alla gloria militare; entrambe dicono, piú o meno esplicitamente, con maggiore o minore ampiezza, al loro uomo di non fare l’eroe e di pensare soprattutto a tornare sano e salvo a casa: per loro un eroe elegiaco vale di piú di un eroe epico. I due cavalieri che furono sia poeti sia uomini politici in vario modo impegnati nella gestione dello stato, Cornelio Gallo e Mecenate, sono stati affidati rispettivamente alle cure di Luciano Landolfi e di Roberto Cristofoli. Il primo ha dato al suo Properzio e Cornelio Gallo il sottotitolo Il modello ‘cogente’ e il modello ‘sfuggente’, che chiaramente indirizza all’ambito dell’attività letteraria piú che a quello delle magistrature, e bene orienta in direzione del percorso che il relatore si è proposto e degli esiti dell’indagine: la ricerca di tracce del perduto primo elegiaco nel poeta di Assisi e l’estrema difficoltà nel trovarne in buon numero, se non di sicure, almeno di abbastanza credibili. La profondità e l’acutezza con cui la ricerca è stata compiuta ci garantisce dei suoi risultati, comunque preziosi per capire meglio la genesi e i primi sviluppi dell’elegia di età augustea. Lo studio si è articolato lungo sette linee: la morte di Gallo, come è descritta in Prop. 2, 34; l’immortalità che il poeta ha assicurato a sé e alla sua donna (Prop. 2, 3a); la nequitia in Gallo e in Properzio; l’impegno a scrivere versi che siano degni della domina; gli abbandoni e i tormenti d’amore; Properzio e la sua dipendenza da Gallo; il peso della storia. Un ventaglio cosí ampio e articolato che qui se ne potrà riferire solo per sommi capi, e facendo cadere tante osservazioni meritevoli di attenzione, che sarà comunque possibile trovare al meglio nelle pagine precedenti rileggendo la relazione di Landolfi. Per la morte, sono stati approfonditi il tema della ferita come metafora dell’amore, che dura anche dopo la fine della vita e neppure i fiumi infernali riescono a far dimenticare, e quello del rito consistente nel lavaggio del defunto da parte dei suoi cari, e – al margine – è stata affrontata la questione della datazione del discidium fra Gallo e Licoride, se sia stato definitivo o no già nel 43; per l’immortalità si è rilevato come le riprese 441

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ovidiane negli Amores e nell’Ars facciano pensare che Properzio potesse usare termini e immagini di Gallo, riferendoli a sé; per la nequitia il frammento di Gallo e le sue molteplici ricostruzioni sono stati messi a confronto con luoghi properziani e ovidiani, allargando anche il campo di ricerca alla tematica del delirio amoroso in Virgilio e Properzio; sulla necessità che i versi siano all’altezza della loro protagonista è stata richiamata l’esperienza di critica letteraria attribuita a Cinzia, ma si è anche dimostrato, con un’attenta esegesi del frammento di Gallo, che qui non si parla di una Licoride giudice d’arte, ma delle sue qualità nel loro insieme; per le fughe, la coincidenza tra Prop. 1, 8a, 7-8 e Verg. ecl. 10, 21-23 e 46-49 integrati con il commento di Servio porta ad un modello di Gallo che sarebbe stato ripreso dai due poeti; per la tematica storica, infine, Landolfi ha affrontato il famoso problema del Caesar a cui Gallo fa riferimento, ricordando come fra gli storici siano in maggioranza, a quanto sembra, quelli che pensano ad Ottaviano e fra i letterati quelli che puntano su Giulio Cesare, e ha illustrato i motivi per cui preferisce ascriversi a questo secondo gruppo, riferendo la spedizione militare di cui parla il frammento ad una possibile campagna contro i Parti, allo studio nel 45-44: Properzio avrebbe recuperato i versi di Gallo per Cesare allo scopo di esortare Ottaviano ad una campagna sul fronte orientale. Dall’ampia indagine sono emersi vari luoghi in cui il ruolo di auctor viene confermato per Gallo, altri in cui è possibile nutrire notevoli dubbi e giustamente Landolfi si è assunto il compito di riaprire la discussione, anche se non mancano studiosi fermamente convinti di una derivazione; certamente però fu Gallo colui che aprí all’elegia lo spazio della politica, e da lui Properzio prese esempio per una poesia civile che lo distingue da altri suoi contemporanei. Cristofoli ci ha avvertito che per la quantità delle cose che ci sono da dire su Mecenate e i suoi rapporti con Properzio, nella relazione a voce si sarebbe limitato agli anni dopo Azio, rinviando per il resto al testo scritto, e lo stesso si dovrà quindi fare in questa rassegna. Le piú evidenti e ben note caratteristiche del personaggio riguardano la sua salute cagionevole e le sue scelte di vita e di filosofia, con il rifiuto di un impegno formale nella 442

conclusioni

politica attiva, e quindi anche del passaggio dal rango equestre a quello senatorio, fosse per effettivo disinteresse nei riguardi della ‘promozione’ o per attaccamento agli ideali del ceto a cui apparteneva; si dedicò per questo all’attività letteraria e al coordinamento degli intellettuali, come esplicitamente gli riconoscono la Laus Pisonis e le Elegiae in Maecenatem, nonché i notissimi luoghi dei massimi poeti che ebbero a che fare con lui. Tra i primi che entrarono nel suo ‘circolo’ spiccano per noi Virgilio e Vario Rufo, subito dopo venne Orazio. Non era una sorta di collegium o comunque un’associazione che avesse un minimo di ufficialità o di formalizzazione: l’adesione era libera, dipendeva solo dal reciproco gradimento fra il poeta e il protettore, e non comportava precisi obblighi sul modello di quelli che vincolavano i clienti al patrono, come attestano le frequenti recusationes. Le motivazioni che potevano spingere i letterati ad aderire non erano né di immediata sopravvivenza né di aspirazioni a grandi ricchezze, perché si trattava sempre di persone non bisognose: qualcuno era addirittura cavaliere, e ognuno aveva comunque di che vivere con i suoi mezzi; si trattava però di persone non originarie di Roma, e perciò con poche conoscenze nella capitale, e Mecenate poteva garantire la notorietà che era nelle loro massime aspirazioni, far circolare il nome, organizzare pubbliche letture, insomma quel successo che era nei loro non inconfessati obiettivi. Mecenate e Properzio si incontrano tardi, dopo la pubblicazione del monobiblos, e quindi la sua protezione serví piú a garantire una definitiva consacrazione nel mondo poetico che a favorire un’iniziale scalata. Gli altri tre libri sono prodotti del ‘circolo’, con il secondo che comincia a mostrare un orientamento politico, evidente attraverso i riferimenti storici; il terzo con il crescere di numero e ampiezza degli excursus sulle vicende del passato e con l’inizio di una produzione sulle tematiche etrusche, che dovevano essere care tanto a Properzio quanto a Mecenate; il quarto, quando Augusto ha ormai preso in mano in prima persona il ‘circolo’, con la permanenza dei temi etruschi dimostra come questi non fossero stati introdotti per piaggeria nei riguardi del patrono, ma per diretto interesse dello scrittore. Non va dimenticato che le principali e piú note virtú 443

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romane, come la stessa fides, vengono presentate da Properzio come qualità degli Etruschi. Cairns tende a sminuire il significato dell’amicizia fra i due, e sostiene che Properzio fin dall’inizio sia amico piuttosto di Ottaviano, e che il suo rapporto con Mecenate dipenda solo dal fatto che questi è emanazione dell’imperatore; per verificare l’attendibilità di questa tesi, Cristofoli segue libro per libro le tracce che ci parlino dell’atteggiamento del poeta nei riguardi del cavaliere, dando il massimo rilievo a 3, 9, dove il rifiuto dell’epica è giustificato proprio in nome delle scelte di vita di Mecenate e dei valori equestri a cui egli era tanto attaccato: dichiarando la propria disponibilità a scrivere epica soltanto se sarà lui a guidarlo, Properzio, piú o meno strumentalmente, mostra di identificarsi a tal punto con lui da dovergli, paradossalmente, dire di no. Il cambiamento intervenuto quando l’imperatore decise di sostituirsi a Mecenate non fu senza conseguenze; ricordata l’esistenza, intorno ad Augusto, di due fazioni, una ispirata da Agrippa e dalle sue scelte in favore di un regime repubblicano, l’altra da Mecenate e dal suo progetto monarchico, il relatore ricorda come il ruolo di Agrippa sia progressivamente cresciuto, dopo Azio, fino al matrimonio che ne fece il genero dell’imperatore mentre Augusto condivideva le critiche a Mecenate per una cacozelia che poteva contenere allusioni non solo all’oscurità, ma anche ad una piú pericolosa ambiguità. I poeti del ‘circolo’ non danno spazio ad Agrippa e ai suoi progetti di espansione e consolidamento a Nordovest, e al contrario enfatizzano l’ipotesi mecenaziana di campagne a Sudest, contro quei Parti che Properzio ‘punicizza’ attribuendo loro difetti che la tradizionale propaganda aveva sempre individuato nei Cartaginesi. Pur confermando sempre la sua opposizione ad una partecipazione personale alla guerra, Properzio si propone come augure e vate per la spedizione, ma fra il 26-25 e il 22-21 la posizione di Augusto si avvicina sempre piú a quella di Agrippa (del 21 è il matrimonio di questo con Giulia), fino alla restituzione delle insegne di Crasso nel 20, che segna il definitivo fallimento dei progetti militaristici. La stella di Agrippa continua a risplendere con le sue fortunate guerre contro Galli e Cantabri, con la tribunicia potestas 444

conclusioni

quinquennale, con l’adozione di Gaio e Lucio Cesare da parte del nonno; per converso declina quella di Mecenate, accusato anche di troppa loquacità per aver parlato con la moglie di affari di stato (Suet., Aug. 66), anche se è da escludere una vera e propria rottura fra lui e Augusto, soprattutto sul piano personale. Finiscono le dediche al cavaliere etrusco da parte dei poeti, e solo Orazio continua – e, si può dire, continuerà fino alla morte – a ricordarsi di lui; anche Properzio opera degli aggiustamenti di linea che corrispondono al nuovo clima, e cosí Vertumno (4, 2) è tenuto a dichiarare la sua soddisfazione per trovarsi a Roma e aver lasciato l’Etruria, Aretusa (4, 3) ha le virtú delle donne ideali augustee, e 4, 16, del 16, dimostra la totale adesione alla visione augustea su Azio. Si potrebbe concludere che Agrippa, quattro anni prima della sua morte, sembrava aver vinto pienamente su Mecenate, che gli sarebbe sopravvissuto per altri quattro, ma in realtà aveva perso la sua battaglia principale, se mai l’avesse davvero consapevolmente perseguita, perché il filomonarchico Mecenate aveva visto meglio di lui nel futuro, e il sistema dinastico si sarebbe affermato, e per di piú a trarne beneficio non sarebbe stato né l’ammiraglio di Azio né qualcuno dei suoi discendenti. La sezione archeologica, che, come si è detto, ha condiviso con quella storica la relazione della Massa Pairault, ha visto ospitata nella bella Sala dell’Oratorio del Complesso di san Domenico, in cui è collocato il Museo Archeologico di Perugia, la preziosissima relazione di Paul Zanker su Properzio e la Roma di Augusto. Con la sua straordinaria competenza di archeologo, storico dell’arte antica e piú in generale di antichista, Zanker ha messo al centro della sua lezione il tempio di Apollo, un monumento a cui Properzio ha dedicato uno spazio per lui inusuale, anche perché, nonostante abbia trascorso a Roma circa 35 anni e sia stato diretto testimone dei grandi interventi urbanistici di Augusto, non sembra molto interessato alla ‘Roma marmorea’, e preferisce i ‘luoghi di Cinzia’ a quelli di Augusto e del potere politico. Zanker prende atto della cosa, rinunciando esplicitamente a porsi il problema – indifferente ai fini dell’indagine – se questa scelta sia una banale casualità o rispecchi una precisa intenzione del poeta; mette invece al centro della sua esposizione 445

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l’elegia 2, 31, quella con le maggiori indicazioni sull’edificio sacro del Palatino, a cui sono aggiunte poche ulteriori informazioni desunte da 4, 6, meno utile sul piano architettonico e archeologico. Composta fra il 26 e il 23, forse su commissione, 2, 31 è un’elegia molto breve, e si conclude in maniera cosí brusca che non è mancato chi l’abbia ritenuta incompleta: su questo tema è ritornato, nel Convegno, Carlo Santini, e una piú che esaustiva trattazione del problema e dei diversi punti di vista è reperibile nel grande commento di Fedeli al secondo libro (2005). L’evidenza archeologica consta di resti poco perspicui: ci sono tracce delle scale d’accesso, del portico con l’altare al centro, del tempio. Fra le colonne dovevano esser le statue delle Danaidi, di cui possiamo farci un’idea dalle splendide Danaidi del Museo Nazionale Archeologico di Napoli, restituite dall’ercolanese Villa dei Papiri, che sono grosso modo coeve di quelle che dovevano adornare il portico del Palatino. Ma le Danaidi napoletane sono alte solo un metro, o al massimo un metro e venti, una misura non adatta al maestoso portico, che richiedeva statue piú alte – intorno al metro e sessanta? – perché non rimanessero schiacciate dall’altezza degli archi. L’ampiezza del portico fa pensare che oltre le cinquanta figlie di Danao potessero esserci i cinquanta cugini e sposi, figli di Egitto, a esse uniti dal sanguinoso mito. La curatissima e mai casuale simbologia delle immagini rinvia, con le cugine che uccidono i cugini, a scene di guerra civile e all’attribuzione delle colpe: Danao che incita le figlie all’assassinio rappresenta Antonio, fratello di Egitto e quindi zio delle vittime, cosí come Antonio, se non fratello, era comunque imparentato con Ottaviano. Al centro del portico Apollo imbraccia la cetra e sacrifica sull’altare, e intorno sono collocati i quattro buoi opera di Mirone: una moneta del 16 a.C. rappresenta un Apollo altocinto con cetra che sacrifica con la mano destra, accompagnato dalla scritta Apollini Actio. Ricchissime sono le sculture sulle porte del tempio, con allusioni miticostoriche alla vittoria di Azio, mentre all’interno si ergono le tre statue di culto, delle quali possiamo farci un’idea da un bassorilievo che rappresenta il grande tripode, di cui sono sopravvissuti pochi frammenti, e poi Diana che ha in mano una torcia, 446

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Apollo e Latona con la Sibilla ai suoi piedi: un accenno alla traslazione dal tempio capitolino di Giove a quello Palatino di Apollo di quei Libri Sibillini ai quali toccherà di profetizzare e prescrivere i ludi secolari. I resti scultorei sono davvero pochi: un solo frammento di una testa e un altro paio meno rilevanti. Negli ultimi tempi ci sono state vivaci discussioni sulla possibilità di ricostruzione del tempio, con la sua accesa policromia; recenti pubblicazioni hanno unito utili rappresentazioni e buone ricerche scientifiche a narrazioni a volte fantasiose: fra le ipotesi piú credibili, e autorevolmente confermata da un frammento della severiana Forma Urbis, è quella dell’esistenza accanto al portico, sul lato opposto rispetto al tempio e in direzione dunque del Circo Massimo, di un’Area Apollinis abbellita anch’essa da un portico; fra l’Area e la Scala di Caco erano situati una silva e il tugurio di Faustulo. Tra le principali caratteristiche del complesso, che Zanker al termine della sua dottissima descrizione ha voluto sottolineare, vanno ricordati l’atteggiamento classicistico, col recupero di statue antiche e la produzione di copie da originali greci, che documenta un gusto per l’antiquariato vistosamente esibito e potente incentivo per un florido mercato di falsi (che ci è peraltro anche documentato da Fedro, nelle sue proteste contro chi preferisce brutti falsi o brutte imitazioni a belle opere dichiaratamente moderne) e la complessità di un consapevole programma stilistico metaforico, molto mediato, che per una sicura decifrazione richiede notevole cultura; non c’è nulla che si riferisca direttamente ad Azio, ma tutto riporta lí, come le quattro lastre relative a miti apollinei, fra cui il piú immediatamente decodificabile è quello di Apollo e Ercole che lottano per il tripode: Antonio si era orgogliosamente attribuito una discendenza appunto da questo dio. Già prima della fondamentale relazione di Zanker, le dottoresse Maria Laura Manca – confermando un’apprezzata tradizione di interventi al Convegno – e Francesca Boldrighini ci avevano parlato delle Domus assisiati di età augustea. La Manca ci ha presentato una nuova casa, quella ‘del Larario’, alla quale aveva già fatto un cursorio riferimento il Soprintendente Pagano. 447

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Gli scavi sono stati iniziati nel 2001, e ci hanno restituito affreschi di terzo stile, un peristilio, una cisterna, mosaici a tessere nere e colonne alte piú di tre metri; le attività di recupero sono ancora in corso, ma già è possibile parlare di elementi egittizzanti, e incuriosisce l’abbandono improvviso della casa, nella quale sono stati trovati i Lari che chi lasciava l’edificio non ha avuto tempo o modo di portare via con sé: al momento non c’è possibilità di decidere se il motivo della fuga siano state delle scosse di terremoto o altri eventi catastrofici. La scoperta di maggiore rilevanza riguarda un ambiente collocato ad Ovest, di circa sessanta metri quadrati, con pavimento in tecnica mista e un pannello centrale intassellato policromo, databile alla seconda metà del I secolo a.C. o al massimo ai primi decenni del I d.C., mentre piú antico sembra essere il peristilio e piú in generale la parte orientale dell’edificio. La Boldrighini ci ha dato le ultime novità sulla cosiddetta Casa di Properzio, sempre affascinante e oggetto di nuove ipotesi architettoniche e storiche. Si è soffermata sulle sovrastanti strutture medievali, ha approfondito l’analisi delle tecniche edilizie e delle decorazioni, con interessanti raffronti con reperti provenienti da altre parti del mondo, ad esempio con alcuni tessuti ellenistici ritrovati addirittura in Mongolia, a conferma di una circolazione dei prodotti ben piú ampia di quanto sia possibile a prima vista immaginare. La datazione dell’edificio è da collocare fra il 30-15 a.C. e il 50 d.C., e molto lunga è stata la sua vita, visto che risulta certamente utilizzato almeno fino alla seconda metà del IV secolo, come attestano i vari restauri e i graffiti in lingua greca e latina. Tra i quesiti che l’edificio ci consegna, e che ancora non hanno trovato risposta, c’è appunto quello su chi potesse frequentare, nei tempi piú tardi, la casa, e se ad essa fosse stata assegnata qualche forma di utilizzazione in rapporto al vicino teatro. Alison Keith per la sua relazione su Le puellae nelle elegie di Properzio e le loro omonime nei reperti epigrafici ha studiato le iscrizioni tardorepubblicane e imperiali per verificare in esse la presenza di persone in carne e ossa che fossero chiamate con i nomi femminili che ricorrono in Properzio e piú in generale nella produzione elegiaca. Esclusi, ovviamente, famosi nomi latini 448

conclusioni

come quelli di Tarpea e Cornelia, si tratta di nomi, pseudonimi o nomignoli greci di vario tipo, per lo piú resi famosi dalla commedia nuova e dall’epigramma greco e assegnati a quella specie di bene di lusso di origine orientale che erano le fanciulle, per lo piú – ci ricorda Solin – di condizione servile, le quali venivano portate nella capitale, come ci dice Ovidio in un passo dell’Ars, ma anche a schiavette nate in casa, con quel gusto per l’esotico che Giovenale lamenta essersi già da tempo impossessato perfino della lingua di Roma. La Keith ci ha illustrato cosí, nel testo che ci ha letto e con gli utili fogli che ci ha fornito, nei quali sono registrate le liste delle ricorrenze epigrafiche, un campionario per molti aspetti prezioso che è senz’altro da utilizzare, sia pure con la prudenza necessaria in questi casi perché rimane comunque una forte componente di casualità nella conservazione o meno di un’iscrizione funeraria. La maggiore o minore fortuna di un nome può essere legata a fattori diversi, ma tutti meritevoli di approfondimento: in qualche caso si tratterà della fama che continua ad accompagnare il personaggio piú illustre fra quelli che portarono quel nome, ma in altri la frequenza con cui ritorna nelle iscrizioni non potrà non essere anche una spia della fortuna letteraria dei testi poetici e della loro sopravvivenza piú o meno lunga dopo la scomparsa dell’autore. Il nome piú attestato è quello di Laide, che rinvia a due o tre famose etere del mondo greco, anche se non è affatto detto che chi imponeva il nome conoscesse le loro storie, per quanto rese famose da scritti eruditi e dalle amicizie con noti filosofi. In Properzio 2, 6 il nome non corrisponde a una donna del presente, ma le iscrizioni fra l’età di Silla e il II secolo ci tramandano decine di Laidi, per lo piú liberte di buone famiglie, oppure schiave di donne della famiglia imperiale, a volte con l’indicazione della loro attività lavorativa di nutrice o di sarta. Alla stessa elegia, e con le stesse modalità, appartiene il nome di Taide, secondo per numero di testimonianze, la cui notorietà è connessa con la storia di Alessandro e che è ben documentato, sempre fra schiave e liberte, dai tempi di Augusto e per tutto il I secolo d.C.; anche lei, comunque, nell’elegia non compare mai come donna del presente, ma soltanto come personaggio storico o letterario, dalla commedia greca. Raro è invece 449

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il terzo nome, sempre da 2, 6, che rinvia alle etere piú famose, quello di Frine, diffuso anch’esso dalla tradizione comica e dal noto aneddoto appartenente al mondo dell’oratoria; ritorna in Tibullo ed Orazio, ma nelle iscrizioni selezionate dalla Keith compare solo quattro volte, una delle quali per una filatrice africana. Fra i nomi di donne amate dai poeti che risultano piú apprezzati ci sono la Licoride (Citeride) di Gallo, nome piuttosto diffuso fra serve e liberte delle famiglie di piú alto rango sociale; alcune Lesbie, fra cui un’interessante Clodia Lesbia in un’iscrizione della prima metà del I secolo; una sola Delia e una sola Cinzia; migliore sorte ebbero il nome di Nemesi – sono in tanti a pensare che ci sia qualcosa da vendicare, al mondo – e quello della forse immaginaria Corinna, fra cui un’interessante cellaria libraria (se è attendibile l’integrazione proposta per CIL 6, 3979 e registrata nei fogli distribuiti dalla Keith), che sarebbe divertente immaginare come la capostipite delle nostre eccellenti bibliotecarie. Per altri nomi è anche piú difficile dire se la loro presenza sia in qualche modo legata alle opere degli elegiaci e in particolare a Properzio: cosí è per Aretusa, Acantide, Cloride e per le meglio attestate Fillide (quante Filli nell’Arcadia!) e Lalage, una delle quali era pedisequa, dama di compagnia. Infine Petale, di cui abbiamo sette o otto ricorrenze, ma una particolarmente apprezzabile per la sua letterarietà (AE 1928, 73): in quattro distici si esaltano qualità e virtú di una Sulpicia Petale di età augustea, lectrix, che arte vigebat e morí a trentaquattro anni. Il caso o la volontà di un Cerinto vollero che unisse in sé il nome della vecchia schiava che osava affrontare dure punizioni pur di portare fiori sulla tomba di Cinzia e quello della poetessa del corpus Tibullianum. Il percorso si chiude in bellezza con i Prolegomeni al patrimonio iconografico della mitologia di Properzio, di Carlo Santini. L’interesse di Properzio per le arti figurative è evidente già nell’acutezza critica che attribuisce all’occhio di Cinzia, competente nel campo della pittura e della scultura, capace di valutare gli artisti e le loro qualità. Passano al suo esame e sono portati all’attenzione del lettore quadri grandi e piccoli, tipologie di cesellature, 450

conclusioni

materiali diversi e spesso assai preziosi, come i migliori marmi o l’avorio; i maestri hanno per lo piú nomi greci, perché sono loro che per comune consenso hanno raggiuto i piú alti vertici per la bellezza delle loro opere, ma non manca anche qualche nome italico, come quello di Mamurio (Santini, fra le due identificazioni individuate come possibili dalla Massa Pairault opta per quella con il piú famoso Veturio) illustre certamente per la storia e per la religione, quand’anche non per i risultati estetici. In questo Properzio si pone sulla linea dell’Orazio di ut pictura poesis, ma è anche piú aperto di lui, sia perché insieme con la pittura è ammessa fra le arti paragonabili alla poesia anche la scultura – e magari l’architettura – sia perché dimostra una maggiore competenza e una maggiore passione. Sarebbe interessante sapere, cosí Santini conclude questa sezione introduttiva, se Properzio abbia avuto modo di conoscere il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, che trascorse a Roma piú di venti anni dopo esservi giunto nel 30 a.C. La relazione ha poi passato in rassegna alcuni luoghi in cui piú evidente è l’attenzione agli aspetti teorici della critica d’arte: 3, 2, anche questa vicina alle posizioni di Orazio, con la dichiarazione che i carmi sono come i piú bei capolavori dell’architettura, comprese le piramidi, ma a differenza di questi non deperiscono; 3, 21, col viaggio ad Atene, il luogo piú adatto per chi voglia studiare, vedere il piú importante teatro del mondo e soprattutto farsi una cultura nel campo dei quadri e delle statue; 2, 6, con le considerazioni sulle potenzialità corruttrici della pittura, se impiegata per produrre rappresentazioni oscene come quelle che piacevano tanto a Tiberio e che, del resto, adornavano anche le case, come ci hanno dimostrato i ritrovamenti di Pompei. La preparazione che le elegie dimostrano anche su reconditi dettagli delle tecniche ci pone il problema di come Properzio abbia fatto a procurarsela: evidentemente sapeva guardare con attenzione il materiale che poteva trovare a Roma, copie o statue e tavole originali portate lí dalla Grecia, disegni e pitture su papiro, a volte con raffigurazioni di usi e strumenti agricoli. Di qui l’ampia presenza anche di luoghi in cui la critica d’arte non si mantiene sul piano teorico, ma viene applicata a specifici oggetti. Due sono le zone privilegiate in cui il poeta mette in 451

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pratica questa sua passione: le ecfrasi e i cataloghi; per le prime, la piú importante è certamente 2, 31, oggetto dell’attentissima analisi di Zanker, per la quale Santini rileva come Properzio proceda elencando le meraviglie che colpiscono la vista in una serie di sensazioni relative a dimensioni, colori, materiali, e solo dopo la serie delle istantanee viene la loro associazione in un quadro organico. Questa scelta descrittiva, ha proseguito Santini, comportava una straordinaria sobrietà espressiva perché l’unità dell’insieme fosse alla fine recuperata sfuggendo al rischio di una diluizione e dispersione delle percezioni e delle emozioni, di qui l’inusuale brevità e l’impressione di incompletezza di un testo che si conclude nell’ekphrasis, divenuta cosí importante e coinvolgente da non tollerare di essere inglobata in un contesto, che difficilmente sarebbe potuto rimanere alla sua altezza. L’altra descrizione esaminata dal relatore è stata quella della ‘pittura’ di Amore a 2, 12, un’altra elegia breve, anche se non come quella per il tempio di Apollo. L’immagine di Eros e i simboli del suo potere sono stati ricostruiti nel loro accrescersi e definirsi in una prima fase tra VI e V secolo e poi con le ulteriori integrazioni e determinazioni fino ai tempi di Properzio, utilizzando ogni possibile fonte, da quelle letterarie, compresi – per le ali – i carmi figurati, a quelle nella scultura e nella pittura, fino alle tante raffigurazioni negli oggetti di uso quotidiano come le coppe; oltre le ali, un’indagine di grande impegno è stata dedicata anche alle frecce e alla faretra, che tanta importanza hanno nell’esercizio delle competenze e delle prerogative del dio. Oltre che su queste due principali digressioni, che di fatto travalicano il loro ruolo divenendo il centro dell’elegia e quasi la sua interezza, non sono state trascurate le scene di battaglia e le descrizioni di panorami, anch’essi oggetto di frequenti rappresentazioni in figure. Per i cataloghi, dopo aver percorso la storia di questo espediente descrittivo divenuto in letteratura sempre piú raffinato, con serie di oggetti, personaggi, imprese accostati con funzione dimostrativa, perché piú esempi coincidenti confermano a vicenda la loro testimonianza e accrescono la loro autorevolezza, o per completare attraverso l’iterazione un’informazione che si vuole per quanto possibile esaustiva, 452

conclusioni

come nelle Eee. Da testi poetici, repertori, immagini su pareti, riproduzioni in suppellettili e cosí via Properzio recupera suggestioni memoriali che procedono con toni alternatamente piú alti o piú bassi, con enfasi su alcuni specifici particolari, con confronti a campione con gli oggetti reali che per nostra fortuna sono giunti fino a noi. Calipso che, dopo la partenza di Ulisse, non sa che fare e medita (1, 15) presenta molti tratti in comune con la Penelope di un ignoto artista della metà del V secolo e le numerose riprese del tema in età piú tarda, che Santini ha raccolto e ha sottoposto alla nostra attenzione; Paride fra Elena e Menelao; il Nestore anziano da Delfi, incrociato con il testo della sesta Pitica di Pindaro; Antiope e il toro, per noi necessariamente connessa al possente gruppo del Toro Farnese, ma per Properzio presente nella biblioteca di Asinio Pollione e confrontabile con le raffigurazioni degli specchi etruschi e con la descrizione dell’Antiope di Euripide: sono tutti esempi di come Properzio avesse in mente, accanto ai testi dei suoi predecessori, gli oggetti d’arte che poteva vedere nelle ricche case di Roma, perfezionando la sua competenza sulle molteplici varianti del mito e sulla pluralità delle sue rappresentazioni. * * * L’introduzione di Giorgio Bonamente e molte delle relazioni ci hanno ricordato che ci stiamo avvicinando al bimillenario della morte di Ottaviano Augusto, il 19 agosto del 14. Fu l’ultimo essere umano a cui fu riservato l’onore di dare il nome a un mese, e quando morí, a settantasette anni, era stato ai vertici dello stato di Roma per cinquantasette. Erede di Cesare dalle idi di marzo del 44, era stato eletto console il 19 agosto (le coincidenze che piacevano tanto ai biografi e agli storici antichi, e non solo) del 43, a vent’anni non ancora compiuti, visto che era nato il 23 settembre del 63; aveva solo pochi anni di milizia e di esperienza militare, ma sapeva muoversi abilmente fra Antonio e i cesariani populares da una parte e i cesaricidi, gli aristocratici, il Senato, gli eredi di Pompeo dall’altro. Attraversò indenne Filippi e il Bellum Perusinum, le proscrizioni e i dissensi nel triumvirato fino ad Azio, quel 2 settembre 453

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del 31 in cui quasi trentaduenne diventò padrone indiscusso di Roma per i successivi quarantacinque anni. A dispetto dei suoi problemi di salute e di famiglia e di qualche insuccesso politico (le leggi sui matrimoni) conservò una lunga, sicura gestione dello stato che gli consentí di mettere in piedi un sistema che ha fatto da modello per tutti i successivi imperi dell’Occidente, con una funzione paradigmatica delle forme del potere e del suo esercizio assicuratagli in massima parte dalla letteratura, che riesce a trasmettere una visione propagandistica adeguata ad una durevole persistenza, e cosí trasforma l’uomo in mito e quindi in dio. Su di lui si è accumulata e continuerà ad accumularsi una bibliografia sterminata che seguiterà ad accrescersi fino a quando sarà un problema trasformare delle nazioni in un impero: per questo tipo di impresa dimostrò attitudini, capacità e fortuna stupefacenti, che gli consentirono di affrontare problemi di plurilinguismo e differenze religiose, di economia, di costumi, di storia in confronto ai quali quelli dell’Europa di oggi sono solo uno scherzo: si pensi soltanto alla diversa situazione delle comunicazioni e dei trasporti, e ai tempi necessari perché una decisione assunta a Roma arrivasse alle foci del Reno, nella Betica, a Siene, a Palmira, in Galazia, a Tomi. Fra le qualità che gli garantirono tanto successo ci fu quella di confrontarsi con i letterati e gli artisti, servendosi di intermediari del livello di Mecenate, sempre evocato e rimpianto nei secoli seguenti, fino a divenire, per antonomasia, il protettore generoso e discreto di cui si rimpiange l’assenza; poi, quando lo riterrà necessario, saprà sostituirsi in prima persona a lui, per intrattenere rapporti in cui rispetto, tolleranza ed equilibrio erano significativamente reciproci. Virgilio aveva sette anni piú di lui, perché era nato il 15 ottobre del 70, mentre di Mecenate, nato il 13 aprile dello stesso anno, era pressoché coetaneo; a trent’anni scrive per il non ancora venticinquenne Ottaviano namque erit ille mihi semper deus, e lo chiama, giustamente, iuvenis, quando ricorda i compensi ricevuti per le confische, ma anche dieci anni dopo può permettersi di istituire un confronto fra sé e il vincitore di Azio nel finale delle Georgiche, uno dei testi in cui piú alto è il livello di consapevolezza del prestigio della poesia, della sua autonomia da ogni tipo di potere, del suo ruolo che la libera dagli obblighi di ubbidienza. 454

conclusioni

L’altro caso in cui un’opera letteraria colloca il suo autore in una posizione di prestigio paragonabile a quella dei vertici dello stato è ancora nell’età di Augusto, nell’ufficialissimo commentarium ludorum saecularium di CIL 6, 32323, sacrificium fecerunt Imp. Caesar Augustus, M. Agrippa ... carmen composuit Q.  Horatius Flaccus. Il nome del poeta è accomunato a quelli del princeps e del suo erede nel testo della narrazione, al di fuori degli elenchi di sacerdoti e magistrati: non so se nelle epoche seguenti si sia mai ripetuto un omaggio cosí significativo alla letteratura. Anche Orazio era piú anziano dell’imperatore: aveva un paio di anni piú di lui, perché era nato l’8 dicembre 65, e loro coetaneo era anche Agrippa, nato fra il 64 e il 63; tra Virgilio e Orazio si collocava Gallo, del 70/69. Questi dati che sembrano puramente anagrafici hanno un peso per quanto riguarda i rapporti fra loro, e contribuiscono a dare una luce particolare alle modalità di mettersi in rapporto l’uno con l’altro. La seconda generazione dei poeti augustei è tutta di poeti decisamente piú giovani dell’imperatore; tranne forse Tibullo, per il quale le date di nascita ipotizzate oscillano per lo piú fra il 55 e il 50, non hanno avuto modo di conoscere Ottaviano, ma solo Augusto: con Properzio ci moviamo fra il 50 e il 46, Ovidio è del 43, come Ligdamo. Ormai Augusto è piú un’istituzione che un uomo, sia pure un uomo destinato a diventare dio, ma fra un po’ di tempo. Per sintetizzare in poche parole uno degli aspetti che sono emersi con maggiore rilevanza dal Convegno, potremmo pensare a ‘essere e divenire’. Di fronte a situazioni che occupano piú decenni è difficile che gli uomini e il loro modo di agire e di pensare rimangano inalterati, e bisogna scegliere fra ricostruzioni che enfatizzino le evoluzioni, rischiando di perdere di vista l’insieme, e quindi l’identità della persona, costringendo paradossalmente a parlare di ‘Properzi e Augusti’, oppure operare una reductio ad unum che rischia di appiattire su un carattere omogeneo molteplici opinioni, mentalità, ideologie. La stagione di Ottaviano Augusto è al tempo stesso troppo lunga perché si possa immaginare che uomini e donne l’abbiano attraversata rimanendo sempre uguali a se stessi, nelle idee come nelle poetiche, ma al tempo stesso è troppo compatta e troppo marcata dalla personalità di chi le ha dato il nome perché non 455

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le si debba riconoscere un sua identità. Alius et idem Ottaviano Augusto è un po’ come le prime, seconde, terze repubbliche a Costituzione invariata, e tempi e modi degli assestamenti interagiscono variamente con le particolarità individuali: chi sembra piú ‘augusteo’ (per quello che l’aggettivo può significare) nella società e in politica può esserlo di meno nella prassi poetica e viceversa. Il Convegno è riuscito a trovare al suo interno l’equilibrio necessario per superare questo insolubile problema, alternando gli affreschi, che per ottenere il fondamentale risultato di fornire un completo quadro d’insieme debbono sorvolare su dettagli preziosi, callimachei, ad altre rappresentazioni – miniature o cammei – che proprio a questi particolari preferiscono essere attente. Del resto non c’è dubbio che l’età di Augusto fu una grande epoca, ed è quindi normale che sia una grande impresa misurarsi con essa, per ripercorrerla sia pure lungo un ben delimitato binario, come quello del rapporto con Properzio; ci vogliono un grande coraggio e una grande ambizione per misurarsi con temi come questi, ma siamo in un’epoca in cui di coraggio e ambizione c’è bisogno, come c’è bisogno di scelte difficili e di penose rinunce, se vogliamo evitare un rischio che incombe sulle prossime generazioni e può darsi già su questa: la totale cancellazione di tradizioni cosí importanti che abbiamo il diritto di affermare che la loro perdita sarebbe un grave danno per tutta l’umanità.

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APPENDICE APPENDIX

CRONACA DEL CONVEGNO

Comitato organizzatore e scientifico Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Paolo Fedeli, Giovanni Polara, Carlo Santini

Segreteria del Convegno Maura Antognelli Ferrini, Gianfranco Chiappini, Giulia Marconi, Silvia Margutti, Chiara Moretti

Giovani borsisti ospiti dell’Accademia Arcangela Cafagna – Università di Bari Annalisa Castagna – Università di Roma III Alessia Cosenza – Università di Messina Simona D’Intino – Università di Chieti-Pescara Maria Dos Santos Lóio – Università di Lisbona Beatrice Larosa – Università della Calabria Brigida Ranieri – Università di Lecce Beatrice Strona – Università del Piemonte Orientale Alessandra Valentini – Università di Venezia Antonio Ziosi – Università di Bologna

Venerdì 25 maggio 2012 Mattina Assisi – Sala della Conciliazione – Palazzo dei Priori

Saluti delle Autorità Andrea Giardina (Istituto Italiano di Scienze Umane - Firenze), Properzio e Augusto

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appendice

Werner Eck (Universität Köln), Properzio e l’aristocrazia augustea Maria Laura Manca (Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria), Una Domus assisiate di età augustea: la Domus del Lararium Francesca Boldrighini (Università di Roma), La gens Propertia e l’edilizia di età augustea ad Assisi: il caso della Domus Musae Pomeriggio S. Maria degli Angeli – Sala del Cenacolo Francescano

Luciano Landolfi (Università di Palermo), Properzio e Cornelio Gallo: il modello ‘cogente’, il modello ‘sfuggente’ Giovannella Cresci Marrone (Università di Venezia), Properzio e le guerre di conquista Françoise Hélène Massa-Pairault (CNRS - Paris), Properzio tra l’Etruria e Roma Roberto Cristofoli (Università di Perugia), Properzio e Mecenate

Sabato 26 maggio Mattina Perugia – Museo Archeologico, piazza Giordano Bruno – Sala dell’Oratorio

Paul Zanker (Universität München; Scuola Normale Superiore di Pisa), Il tempio di Apollo Palatino e i suoi resti in Properzio Visita del Museo Archelogico Pomeriggio Assisi – S. Maria degli Angeli – Sala del Cenacolo Francescano

Raffaele Perrelli (Università della Calabria), Properzio e Tibullo Arturo R. Álvarez Hernández (Universidad Nacional de Mar del Plata), Il Virgilio dei primi libri properziani Niklas Holzberg (Universität München), Carmina compono, hic elegos. Properzio e Orazio Rosalba Dimundo (Università di Bari), Ovidio e l’elegia di Properzio

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cronaca del convegno

Domenica 27 maggio 2012 Mattina S. Maria degli Angeli – Sala del Cenacolo Francescano

Alison Keith (University of Toronto), Le puellae nelle elegie di Properzio e le loro omonime nei reperti epigrafici Carlo Santini (Università di Perugia), Properzio tra scrittura e visualità. Un contributo alla genesi delle immagini un poeta augusteo Paolo Fedeli (Università di Bari), Da Cinzia a Cornelia Giovanni Polara (Università di Napoli “Federico II”), Conclusioni del Convegno

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l’accademia properziana del subasio di assisi

L’Accademia Properziana del Subasio di Assisi è un’istituzione che opera ininterrottamente dalla sua fondazione nel 1516 (Riconoscimento come Ente culturale nel 1998). Fra le sue molteplici attività culturali ed editoriali ha assunto il compito di promuovere ricerche e convegni sul poeta Properzio. Dal 1989 è stato costituito, per iniziativa di Francesco Della Corte, Antonino Scivoletto e Paolo Fedeli, il “Centro internazionale di Studi sulla poesia latina in distici elegiaci”, che è organo dell’Accademia. Da allora esso cura l’organizzazione dei Convegni internazionali su Properzio con cadenza biennale, pubblicandone regolarmente gli atti. I volumi editi fino all’anno 2012 possono essere richiesti all’Accademia Properziana del Subasio. Gli indici sono consultabili nel sito www.accademiaproperziana.eu.

Convegni internazionali su Properzio tenuti in Assisi a cura dell’Accademia 1976 Colloquium Propertianum 1979 Colloquium Propertianum secundum 1981 Colloquium Propertianum tertium 1985 Bimillenario della morte di Properzio 1985 Properzio nella letteratura italiana 1986 Assisi per il Bimillenario della morte di Properzio 1988 Tredici secoli di elegia latina 1990 La favolistica latina in distici elegiaci 1992 La poesia cristiana latina in distici elegiaci 1994 Commentatori e traduttori di Properzio dall’Umanesimo al Lachmann 1996 A confronto con Properzio (da Petrarca a Pound) 1998 La poesia umanistica latina in distici elegiaci 2000 Properzio alle soglie del 2000. Un bilancio di fine secolo

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appendice

2002 2004 2006 2008 2010 2012

Properzio tra storia arte mito Properzio nel genere elegiaco. Modelli, motivi, riflessi storici I personaggi dell’elegia di Properzio Tempo e spazio nella poesia di Properzio Properzio fra tradizione e innovazione Properzio e l’età augustea: cultura, storia, arte

Atti dei Convegni internazionali su Properzio 1. Colloquium Propertianum (Atti del I Convegno su Properzio, Assisi, 26-28 marzo 1976), a cura di M. Bigaroni e F. Santucci, Assisi 1977, pp. 132. 2. Colloquium Propertianum secundum (Atti del II Convegno su Properzio, Assisi, 9-11 novembre 1979), a cura di F. Santucci e S. Vivona, Assisi 1981, pp. 216. 3. Colloquium Propertianum tertium (Atti del III Convegno su Properzio, Assisi, 29-31 maggio 1981), a cura di S. Vivona, Assisi 1983, pp. 170. 4. Bimillenario della morte di Properzio (Atti del Convegno internazionale di Studi properziani, Roma - Assisi, 21-26 maggio 1985), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1986, pp. 364. 5. Assisi per il Bimillenario della morte di Properzio, «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 12, Assisi 1986, pp. 224. 6. Properzio nella letteratura italiana (Atti del Convegno Nazionale, Assisi, 15-17 novembre 1985), a cura di S. Pasquazi, Roma, Bulzoni Ed., 1987, pp. 236.

Convegni del Centro internazionale di Studi sulla poesia latina in distici elegiaci 7. Tredici secoli di elegia latina (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 21-24 aprile 1988), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1989, pp. 368. 8. La favolistica latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 26-28 ottobre 1990), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1991, pp. 248. 9. La poesia cristiana latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 20-22 marzo 1992), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1993, pp. 336.

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l’accademia properziana del subasio di assisi

10. Commentatori e traduttori di Properzio dall’Umanesimo al Lachmann (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 28-30 ottobre 1994), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1996, pp. 406. 11. A confronto con Properzio (da Petrarca a Pound) (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 17-19 maggio 1996), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1998, pp. 188. 12. La poesia umanistica latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 15-17 maggio 1998), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1999, pp. 400. 13. Properzio alle soglie del 2000. Un bilancio di fine secolo (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 25-28 maggio 2000), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 2001. 14. Properzio tra storia arte mito (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 24-26 maggio 2002), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2002, pp. 282. 15. Properzio nel genere elegiaco: modelli, motivi, riflessi storici (Atti del Convegno internazionale, Assisi-Perugia, 27-29 maggio 2004), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2005, pp. 506. 16. I personaggi dell’Elegia di Properzio (Atti del Convegno internazionale, Assisi 26-28 maggio 2006), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2007. 17. Tempo e spazio nella poesia di Properzio (Atti del Convegno internazionale, Assisi 23-25 maggio 2008), a cura di R. Cristofoli C. Santini - F. Santucci, Assisi 2010, pp. 286. 18. Properzio fra tradizione e innovazione (Atti del Convegno internazionale, Assisi - Spello 21-23 maggio 2010), a cura di R. Cristofoli - C. Santini - F. Santucci, Assisi 2012, pp. 286. 19. Properzio e l’Età augustea. Cultura, storia, arte (Atti del Convegno internazionale, Assisi - Perugia 25-27 maggio 2012), a cura di G. Bonamente - R. Cristofoli - C. Santini, Turnhout 2014.

Volumi monografici P. Fedeli - G. Catanzaro - F. Santucci, Propertius. Codex Guelferbytanus Gudianus 224 olim Neapolitanus, Assisi 1985, pp. xiv, 150. P. Fedeli - P. Pinotti, Bibliografia properziana (1946-1983), «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 9, Assisi 1985, pp. 114, € 12,91.

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appendice

M. Buonocore, Properzio nei codici della Biblioteca Apostolica Vaticana, prefazione P. Fedeli, ed. a cura di G. Catanzaro, Assisi 1995, pp. 144. A. Álvarez Hernández, La poética latina de Propercio (Autobiografía artística del “Calímaco romano”), prefazione P. Fedeli, Assisi 1997, pp. 340.

Fuori collana Assisi e gli Umbri nell’antichità (Atti del Convegno Internazionale, Assisi 18-21 dicembre 1991), a cura di G. Bonamente F. Coarelli, Minerva ed., Assisi 1996, pp. 658 Tav. 8.

Traduzioni di Properzio Properzio, Libro I e antologia di Elegie, ed. bilingue latino-cinese, traduzione di Wang Huansheng, introd. C. Santini, Pechino 2000, pp. 208. Propercio, Elegias, ed. bilingue latino-portoghese, a cura A. A. Nascimento, Assisi - Lisbona 2002, pp. 476. Properzio, Elegie, traduzione in russo di A. Liubzhin, Mosca 2004, pp. 272. Horatio Caesar Roger Vella, Properzju Eleġiji, Assisi 2012, pp. 107.

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