Profilo di storia della filosofia Vol. 1,2,3 COMPLETO

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PROFILO DI STORI DELLA FILOSOFI

LOESCHER TO

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LE ORIGINI DEL PENSIERO FILOSOFICO E SCIENTIFICO 1. Premessa (p. 3) - 2. Le condizioni storiche e culturali: le prime forme di riflessione etico-religiosa, le teogonie e cosmogonie (p. 5) - 3. Le origini del pensiero scientifico e filosofico. La scuola Ionica: a) Talete, b) Anassi­ mandro, c) Anassimene (p. 9) - 4. Pitagora e la più antica scuola Pitago­ rica (p. 14) - 5. Senofane di Colofone (p. 17).

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Premessa.

Le trattazioni della storia della filosofia sogliono generalmente L ’« inizio » della storia iniziare con l’esame delle dottrine del fondatore della prima scuola della filosofia filosofica, quella Ionica, e cioè di Talete di Mileto, vissuto tra gli ultimi decenni del v i i e la prima metà del vi secolo a.C. Questo non vuol dire, certamente, che nei secoli precedenti della civiltà greca e in quelli della civiltà minoico-micenea o nelle stesse civiltà non greche (dalla Cina all’India, dalla Mesopotamia all’Egitto), nqn sia esistito alcun uomo che si sia posto, in qualche modo, quei problemi che noi indichiamo come filosofici: vuol dire soltanto che la documentazione in nostro possesso, così lacunosa e frammentaria, ci suggerisce quell’inizio e che nessuna delle fonti antiche, da cui deve necessariamente dipendere la nostra ricostruzione, ci consente di risa­ lire più indietro. L ’inizio della trattazione della storia della filosofia dipende quindi, in un certo senso, da una circostanza esterna: una circostanza, tuttavia, che l’indagine storica, man mano che progre­ disce, tende a circoscrivere e ad integrare, spingendo il suo sguardo nei secoli precedenti per cercare nelle espressioni letterarie, nelle testimonianze archeologiche, nella ricostruzione dei rapporti delle civiltà greche con quelle dell’Oriente e dell’Egitto, nella evoluzione etico-politica ed economico-sociale, le tracce di una continuità che tolga ogni limite di arbitrarietà e di « miracoloso » all’origine della storia della filosofia.

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LA FILOSOFIA ANTICA

Questa prudente indagine storica ha liberato il terreno da tenaci Pregiudizi, come ad esempio quello che il primo pensiero greco sia essenzialmente un’analisi della natura (physis), senza interesse per i problemi dell’uomo; si è visto invece che un’importanza decisiva, nella elaborazione dei concetti scientifici, hanno avuto i contempo­ ranei concetti etico-politici; parallelamente, non è neppure da rite­ nersi valida la interpretazione di coloro che raffigurano i filosofi greci più antichi tutti dediti all’osservazione degli oggetti, determinati e finiti, della realtà circostante e quindi inconsapevoli dei problemi che nascono quando si volge la riflessione sul soggetto che osserva gli og­ getti. Non ha quindi senso contrapporre pensiero antico e pensiero moderno come « naturalismo » e « umanismo », come « oggettivismo » e « soggettivismo », come filosofia del « finito » e filosofia dell’« innito ». Si tratta di schemi che nascondono la pretesa di ridurre i periodi storici a categorie mentali e di cui l’indagine storica si vendica, a ragione, mostrandone l’unilateralità e l’inconsistenza. La Grecia Egualmente, nessuno oggi pensa più di sostenere che la prima e l’Oriente £]osoga e ja prjma scienza dei Greci siano totalmente dipendenti o totalmente indipendenti dalla filosofia e dalla scienza dell’Oriente e dell’Egitto, con cui i Greci ebbero frequenti rapporti. Certo, la geo­ metria egiziana e Gastrologia caldea, tanto per fare un esempio, pos­ sono apparire dominate da una spiccata finalità pratica (le necessità delle misurazioni agricole o delle previsioni astrologiche), che contra­ sta con quello spirito « disinteressato » di ricerca e di conoscenza, libera per tutti e non ristretta in chiuse caste sacerdotali, che è carat­ teristico della scienza e della filosofia greca. Si può bensì sostenere che alla scienza orientale mancò il concetto di legge, la formula che esprime l’organizzazione scientifica delle osservazioni empiriche e che invece costituisce l’originalità della scienza greca e la ragione di quello sviluppo che mancò, appunto, alla prima. Ma anche qui è questione di prudenti graduazioni e non di distinzioni categoriche, che renderebbero gratuite e incomprensibili entrambe le tradizioni cultu­ rali. E del resto i Greci trassero, dai loro rapporti con l’Oriente, una grande quantità di osservazioni scientifiche e di soluzioni tecniche, che facilitarono la loro opera. Onde, non del tutto a torto, i Greci di età più tarde fecero dei loro primi filosofi e scienziati i discepoli dei sapienti orientali, anche se con ciò volevano soltanto, forse, accre­ ditare le loro verità e le loro scoperte con un’autorità antichissima, Pregiudizi

deì^ pensiero greco

LE ORIGINI DEL PENSIERO FILOSOFICO E SCIENTIFICO

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che non li facesse apparire come giovanetti inesperti di fronte ad una veneranda saggezza. 2 - Le condizioni storiche e culturali: le prime forme di riflessione etico­ religiosa, le teogonie e le cosmogonie. Il grande sviluppo culturale delle popolazioni greche, insediatesi a varie ondate nel territorio dell’Ellade dopo aver sottomesso le popolazioni indigene, ha la sua base nell’evoluzione della vita politica, economica e sociale che caratterizza il periodo dal ix secolo a.C. all’età delle guerre persiane. Le primi­ tive monarchie di diritto divino, dopo un periodo di grande splendore, cedono il passo, gradatamente ma quasi dappertutto, ai regimi aristocratici, fondati sulle antiche famiglie nobiliari (i ghéne); a questi succedono poi, a poco a poco e quasi sempre per la spinta dei ceti meno abbienti e popolari (il dèmos), le prime « tirannidi » e le prime forme di legislazioni e di costitu­ zioni (politéiai), mentre sempre maggiore potenza e prestigio acquistano Atene e Sparta, destinate a diventare ben presto le « città guida » delle altre póleis greche, sia dal punto di vista economico sia da quello ideologico (la prima simbolo della democrazia, cui era pervenuta dopo la tirannide di Pisistrato, con la costituzione di distene, e tutta protesa ad una politica marinara e di espansione economica e commerciale; la seconda chiusa nella sua costituzione, fatta risalire a Licurgo, rigidamente aristocratica, militaresca e ancorata alla proprietà terriera). Solo la grande epopea delle guerre persiane (primo e secondo decennio del secolo v), sembrò realizzare una pausa nella loro sempre meno latente rivalità. Si veniva intanto stabilizzando l’economia agricola e la pro­ prietà immobiliare, si creavano le prime forme di attività industriale (specialmente navale) e si introduceva, negli scambi, la moneta. In questo quadro hanno un’importanza fondamentale le due grandi ondate migratorie e colonizzatrici, la prima anteriore al secolo x, e la seconda a par­ tire dal secolo vm , che portano i Greci nel vicino Oriente, in tutto il bacino dell’Egeo e poi in Italia Meridionale e in Sicilia e la cui importanza fu superiore a quella che ebbe per l’Europa, la scoperta dell’America: giacché fu un’importanza non solo economica, ma anche culturale: da quelle migrazioni colonizzatrici i Greci trassero le leggende dei poemi omerici e l’organizzazione della pòlis, le forme della loro convivenza e del loro miglioramento educa' tivo {paidéia). I poemi attribuiti ad O mero , composti in epoche diverse, su tradizioni poetiche già definite e spesso con un evidente intento arcaizzante, offrono una testimonianza significativa della vita e degli ideali etici e religiosi della primitiva società greca: certo, sono gli ideali dei re e delle aristocrazie e non del popolo, di Agamennone e non di Tersite, ma non per questo meno inte­ ressanti. Da essi cominciarono ad emergere, se non consapevoli riflessioni sistematiche, problemi su cui non cesserà di affaticarsi la posteriore indagine filosofica: i rapporti dell’uomo con la divinità e con la superiore legge del Fato e della Necessità, che a volte appare come oscura minaccia e a volte

L'evoluzione politica, sociale ed economica

Le idee etiche nella Grecia arcaica: i poemi omerici

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La poesia esiodea

La poesia lirica

Solone

I Sette Saggi

LA FILOSOFIA ANTICA

come garanzia dell’ordine universale; il contrasto tra gli ineluttabili decreti di Zeus o del Fato e l’iniziativa e responsabilità dell’uomo; tra l’esigenza di un’universale legge di giustizia e la consapevolezza della relatività delle valu­ tazioni umane; l’ideale di una « virtù » (areté), intesa soprattutto come valore guerriero capace di conferire onore e merito, ma che già si va differenziando nei diversi caratteri e comportamenti dei vari eroi greci: e dal « valore » di Achille all’« astuzia » di Odisseo è tutta una gamma di sfumature, sovrastata dall’idea della debolezza umana di fronte alla potenza divina, che travolge anche i massimi eroi quando si macchiano di empietà. Tutto ciò, oltre all’altissimo valore poetico, ci può far comprendere come i poemi omerici diventassero per i Greci, se non libri sacri (che ciò presup­ pone una dogmatica e un’organizzazione ecclesiastica che i Greci non conob­ bero), certamente i massimi testi educativi, in cui trovava piena espres­ sione quell’ideale della kalokagath'ia, in cui l’armonia del bello si identifica con l’ordine della norma etico-giuridica. Assai diversi sono gli ideali a cui si ispira E siodo (sec. v ii ), poeta di una civiltà contadina e pacifista, che contrappone le sue « verità » alle « men­ zogne simili a verità » cantate da Omero: l’ideale di una giustizia come suprema legge di Zeus, che punisca la prepotenza e la prevaricazione dei forti sui deboli; l’ideale di una misura ( m&tron) che riconduca nei suoi giusti limiti la sfrenata superbia (hybris) e distolga la vendetta e l’invidia degli dei; l’esaltazione del conforto che alla tristezza della vita umana può venire dalla pietà, dall’onestà e dal lavoro. Ma tutta la poesia lirica del vi e della prima parte del v secolo, in tutte le sue forme, da Archiloco a Pindaro è ricca di temi e di spunti, di sentimenti e di analisi, che forniranno abbondante materia di riflessione. Si tratta pur sempre di espressioni poetiche e non di riflessioni critiche, ma è da notare che sono proprio questi poeti che costituiscono la base culturale da cui pren­ dono le mosse le discussioni e le esemplificazioni dei pensatori posteriori. Il poeta in questo periodo è ad un tempo maestro ed educatore e un esempio significativo ci è offerto da Solone (640-560 circa), il grande uomo politico ateniese, poeta della saggezza ( sophrosyne) e della moderazione: la raccoman­ dazione del « buon governo » ( eunomia) contro la « superbia » esprime la sua preoccupazione per le minacce di tirannide che venivano da Pisistrato contro la sua costituzione; esser caro agli amici e amaro ai nemici e non ritenere nessuno felice prima della morte, perché la giustizia prima o poi colpisce sem­ pre il colpevole, anche nei figli innocenti, sono i cardini di questa morale, il cui ideale di moderazione, comune anche agli insegnamenti dell’oracolo di Delfo e alle convinzioni delle classi abbienti, èra l’espressione di un atteggia­ mento di difesa contro l’emergere di nuove esigenze e di nuove forze, di cui troviamo traccia nelle favole di E sopo. Solone è costantemente annoverato, insieme a Talete, Biante e Pittaco, tra i cosiddetti S ette S aggi (gli altri tre erano variamente individuati in Periandro, Cleobulo, Chitone, Anacarsi, Acusilao, Epimenide, Ferecide, ecc.), universalmente famosi per saggezza morale, prudenza politica e abilità scien-

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tifica. Le loro massime di « brevità laconica », come: « conosci te stesso » (cioè conosci chi sei, quali limiti hai), « la misura è l’ottima tra tutte le cose », « conosci il momento opportuno », « nulla di troppo », del metodo

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plici (gli assoluti); 3) sintetizzare e ricostituire il complesso dagli elementi semplici. Prima di vedere la quarta regola, è bene chia­ rire che la sintesi non è un ritorno puro e semplice al punto di partenza, perché ora l’oggetto si sa com’è fatto, è realmente com­ preso. L ’analisi infine mostra la vera via da seguire per scoprire qualcosa, indica la dipendenza degli effetti dalla causa, ma richiede attenzione, perché se si salta un passaggio sparisce la necessità delle conclusioni. La sintesi segue la via opposta ed ha maggiori pregi espositivi e persuasivi, ma non è il vero metodo euristico. L’induzione All’intuizione, analisi e sintesi si aggiunge, come quarta regola, l’enumerazione o induzione, che non è la raccolta di dati empi­ rici, ma la ricognizione di tutte le tappe e i passaggi, del cammino precedentemente percorso sia in fase analitica che sintetica, per essere sicuri di non averne saltato nessuno. L ’induzione, in senso baconiano, o esperienza, come la chiama Cartesio, trova il suo posto solo alla fine del Discorso, quando la deduzione da sola non basta più a raggiungere gli effetti particolari della natura, perché men­ tre essa indica principi sotto i quali sta una molteplicità di effetti possibili, solo l’esperienza può dire quale dì essi è poi reale e effettuale.

3 - I l mondo. La composizione del trattato intitolato II Mondo rappresenta il tentativo di un’analisi matematica e quantitativa dei problemi della fisica, alla luce dei principi stabiliti in precedenza. E il principio fondamentale consiste nella percezione « chiara e distinta » degli elementi primi e semplici che formano tutti i corpi e le loro composizioni. Per questo, anche nel caso che non si possa essere sicuri che l’analisi della natura, che consegue da questo principio e dagli altri che ne derivano, risponda alla natura reale, creata da Dio, pure essa, secondo Cartesio, ha una tale evidenza razionale da far ritenere che la natura avrebbe potuto essere creata proprio così: di qui quel carattere « ipotetico » della scienza, che lo stesso Cartesio esplicitamente riconosce. Le « qualità » Noi abbiamo notizia delle cose tramite le sensazioni: queste, gli < elementi però, ci comunicano soltanto « qualità » (i colori, gli odori, i suoni, semplici »

Carattere ipotetico della fisica

DESCARTES

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ecc.) e come tali non ci fanno conoscere nulla delle cose, se è vero che nelle cose noi dobbiamo porre solo ciò che riteniamo che vi deb­ ba necessariamente essere e se è vero che le sensazioni delle qualità dipendono essenzialmente dalla conformazione del soggetto cono­ scente e sono più affezioni soggettive che dati oggettivi. Quali sono dunque gli elementi più semplici, costitutivi della natura dei corpi? Se noi, oltre al trattato su II Mondo, conside­ riamo quanto Cartesio ci dice su questo tema anche in altri scritti (e soprattutto nelle Meditazioni e nei Principia), possiamo ri­ spondere che essi sono sostanzialmente P« estensione » e il « mo­ vimento ». Queste proprietà, e non le forme sostanziali e l’animi­ smo della vecchia fisica e neppure le « qualità », che — invece di essere elementi di una spiegazione — devono essere esse stesse spiegate, sono gli elementi più semplici, e su di essi è possibile fondare una interpretazione rigorosamente quantitativa e mecca­ nicistica della natura, che ripudia la distinzione « qualitativa » tra cielo e terra su cui poggiava la cosmologia aristotelica. Con il termine « estensione » Cartesio non intende solo lo spazio occupato da una cosa, ma anche la quantità di materia che lo occupa, cosicché le proprietà dello spazio (continuità, divi­ sibilità, figura, ecc.) diventano anche le proprietà della materia: deriva da ciò, da un lato, la negazione del vuoto e la contraddit­ torietà del concetto di atomo, cioè di un’estensione indivisibile; e, dall’altro, l’ideale di una fisica costruita geometricamente: la pos­ sibilità di una trattazione geometrica della natura sta infatti nella possibilità di ridurre lo spazio e l’estensione ad un’unità di misura e di spiegare la diversità tra le figure geometriche con la diversità di movimento dei punti rispetto ad un sistema di coordinate (le « coordinate cartesiane »): per questo la geometria cartesiana non si arresta alla constatazione della diversità delle figure geometriche, ma vuole « analizzarle », secondo l’indirizzo fondamentale del suo metodo. In questo senso, Cartesio è giustamente considerato tra i fondatori della « geometria analitica », anche se contemporanea­ mente il matematico Pietro Fermat le dava più saldo fondamento scientifico. L ’evidenza delle proprietà più elementari è tale, dice Cartesio, che passando dal semplice al complesso sembra quasi di non cono­ scere nulla di nuovo. Abbiamo già visto che è assurdo parlare 9 - Giannantoni. II.

Estensione e movimento

L ’estensione e la geometrìa analitica

La negazione del vuoto e la possibilità del movimento

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Il ruolo di Dio nella fisica cartesiana

Le tre leggi del movimento

L a teoria dei vortici; gli elementi

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di un’estensione indivisibile o di un’estensione vuota (quello che noi chiamiamo vuoto è una materia non percepibile, tanto è vero che se da un recipiente venisse tolta tutta la materia le sue pareti si toccherebbero). Ma se non c’è il vuoto, come è conce­ pibile il movimento? Questa difficoltà è superata da Cartesio, nel senso che per lui il moto è sempre relativo alle parti contigue di materia e quando un corpo si muove occupa il posto di un altro corpo e lascia il suo ad un altro ancora, come è appunto osservabile il movimento dei pesci nell’acqua. Impossibile è quindi l’azione a distanza e cadono, in conseguenza, i concetti di « forza » e di « energia », ecc., su cui si fondava la concezione magica della natura. Ma come mai l’estensione si è particolarizzata nella moltepli­ cità dei corpi, e donde il movimento? Cartesio risponde ricorrendo all’azione di Dio, che crea le cose e infonde e conserva loro il movimento; tale azione è però circoscritta all’inizio di un pro­ cesso, che in tutte le sue fasi successive si spiega con le sole leggi della matematica e della meccanica. Dalla immutabilità e costanza divina discendono infatti le tre leggi fondamentali se­ guenti: 1) ogni cosa tende a permanere nel suo stato di quiete o di moto (e questa aggiunta del moto è importante, perché per la cosmologia antica l’inerzia è solo il riposo), se qualcosa non inter­ viene a turbarlo (principio di inerzia); 2) quando un corpo ne spinge un altro non può trasmettere o sottrarre ad esso alcun movi­ mento senza perderne o acquistarne una eguale quantità; 3) quando un corpo si muove, ciascuna delle parti, presa separatamente, tende sempre a continuare il proprio movimento in linea retta. Ogni concezione finalistica e, per così dire, antropologica è in tal modo rigorosamente bandita dalla cosmologia cartesiana: Dio imprime nel mondo il moto e dalla composizione dei vari movi­ menti delle parti dell’Universo (che sono contigue, per l’assenza di vuoto) risulta quella dottrina dei « vortici » (tourbillons) da cui deriva la conformazione del cosmo e il moto circolare: uno di questi vortici è il sistema solare (e con ciò Cartesio può accet­ tare la tesi copernicana del movimento attorno al sole della terra e degli altri pianeti, trasportati dal corso vorticoso del cielo, estre­ mamente fluido e che li circonda da ogni parte).

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Dai vortici e dalla diversa resistenza delle varie parti della materia derivano i tre elementi fondamentali: il fuoco, l ’aria e la terra; per la loro piccolezza e mobilità, i pulviscoli luminosi sono irradiati in tutte le direzioni in linea retta e la loro velocità è istantanea. L ’istantaneità della velocità della luce è da Cartesio ritenuta un punto fondamentale della sua dottrina, malgrado che Galilei e lo stesso Beeckman avessero fatto numerosi esperimenti per mi­ surarla: essi erano però ancora troppo approssimativi e portavano a scarti di tempo troppo ampi sulle grandi distanze, perché potes­ sero porre fine alle discussioni, che continuarono a lungo nel ’600. Ad un rigido meccanicismo è ridotta anche la fisiologia e la spiegazione degli organismi viventi, cui contribuì anche la sco­ perta della circolazione del sangue fatta da Harvey (1629): questi però la spiegava con le contrazioni e distensioni dei muscoli del cuore, mentre Cartesio, a torto, lo contesta, non sembrandogli giu­ stificata l’attribuzione al cuore di questi movimenti. Principio della vita è, per Cartesio, non una forma immateriale ma un’entità ma­ teriale, un fuoco o calore che, dilatando il sangue, produce movi­ menti del cuore e quindi la circolazione del sangue. Il sangue, tra­ mite l’aorta, porta al cervello i suoi elementi più puri e più sot­ tili, gli spiriti vitali, che dal cervello si diffondono nei canali ner­ vosi e fanno muovere i muscoli: questa diffusione è possibile in quanto l’anima, che ha sede nella « glandola pineale », presiede all’apertura dei pori dei canali nervosi; pur non avendo distinto nervi sensori e nervi motori, Cartesio tuttavia distingue sensazioni (prodotte dalle cose sui filamenti che dal cervello si diffondono per tutto il corpo) e movimenti, sensazioni esterne e sentimenti interni. Vedremo più avanti il senso compiuto di questa intrusione di un principio immateriale nel meccanicismo della vita fisiologica (a movimenti meccanici, sono infatti ridotte le funzioni biologiche della respirazione, della digestione e così via) e l’insormontabile difficoltà che ne deriva: per il momento basti dire che con essa Cartesio ha inteso spiegare la volontarietà dei movimenti. Consegue da ciò l’automatismo animale: gli animali, che non hanno anima (perché Cartesio non considera anime quelle che nella tradizione venivano indicate come anime vegetative e sensi­ tive) sono automi, senza un principio spontaneo di animazione:

Gli organismi viventi e la fisiologia

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sono macchine, perché nient’altro che meccanicismo è anche l’istinto, che è loro proprio. L ’analogia più frequente cui Cartesio ricorre per illustrare questo meccanicismo è quella con gli orologi, le fontane artificiali, i mulini ecc., cioè con quegli ordigni automatici che, pur essendo costruiti da uomini, si muovono da soli in vari modi. « Vi prego di considerare che tutte le funzioni, la digestione dei cibi, il bat­ tito del cuore, il nutrimento, la crescita delle membra, la respira­ zione, la ricezione della luce, dei suoni ecc., gli interni movimenti degli appetiti e delle passioni ecc. conseguono del tutto natural­ mente, nella macchina del corpo, dalla semplice disposizione dei suoi organi, né più né meno come i movimenti di un orologio o di un qualsiasi altro automa seguono dai suoi contrappesi e dalle sue ruote ». 4 - D al dubbio al « cogito ». Qual’è la validità del metodo elaborato e delle conoscenze scientifiche con esso acquisite? Il criterio dell’evidenza si giustifica da sé o ha bisogno di un diverso fondamento indubitabile, che impedisca la rinascita del dubbio? La risposta che Cartesio dà a queste domande nel Discorso e nelle Meditazioni è la prova della profonda differenza -che corre tra il « problema del metodo » nella sua filosofia e la metodologia scientifica a cui attesero Bacone e Galilei. Per questa risposta Cartesio può essere considerato il pa­ dre del razionalismo moderno, il teorico dell’autonomia dell’inda­ gine razionale. Gli studi Nella prima parte del Discorso Cartesio ricorda i suoi studi giovanili g }o v a n jjj e l ’in so d d isfa z io n e che gliene derivò. In generale, essi apparvero diretti piuttosto alla conoscenza degli antichi che a rendere gli uomini partecipi del propro tempo. Temperamento poco incline alla fantasia, trovò poco fruttuosa l’applicazione alla poesia e all’eloquenza, che sono più doni dell’ingegno che dello studio; la teologia, d’altra parte, è tutta fondata sui dogmi e la filosofia, cosi piena di incertezze, è al massimo capace di raggiungere una verisimiglianza, lontana dall’errore altrettanto quanto dalla verità. L ’unica scienza certa ed evidente gli apparve la matematica, ma, oltre a non essergli ancora chiaro il suo uso, suscitava in lui mera-

a validità del



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viglia la scarsezza dei risultati; quanto alla logica, infine, essa è certamente affine alla matematica, ma sembra piuttosto adatta a spiegare ciò che già si sa (o addirittura, come l’« arte » di Lullo, a parlare di ciò che non si sa) che a trovare nuove verità: la con­ clusione di Cartesio, appena uscito dalla tutela dei precettori, fu quella di abbandonare interamente lo studio e di volgersi soltanto a quella scienza che poteva trovare in se stesso o nel « gran libro del mondo ». Non si tratta però di revocare in dubbio le conoscenze già ac­ quisite, ma di investire con il dubbio la stessa possibilità di cono­ scere, le fonti da cui esso deriva e le tradizionali facoltà in cui esso si attua. È dunque un dubbio radicale e sistematico quello da cui bisogna partire, ma non un dubbio che disperi di trovare un fermo punto di approdo: dubitare di. tutto per vedere se è possi­ bile trovare qualcosa di cui sia impossibile dubitare: questo è quel « dubbio metodico » che Cartesio indica come proprio e come diverso dal dubbio scettico, fine a se stesso. D ’altra parte, questo dubbio non può coinvolgere anche il com­ portamento pratico; posso ritenere di non possedere ancora il cri­ terio di verità, ma poiché continuo a vivere e ad agire, debbo provvisoriamente attenermi a dei criteri di condotta plausibili, così come chi distrugge la propria casa per costruirsene una nuova si preoccupa di procurarsi un tetto provvisorio che lo ripari durante i lavori. Perciò Cartesio, dopo aver richiamato nella seconda parte del Discorso le quattro regole fondamentali del metodo che ab­ biamo già visto, passa ad esporre nella terza parte la sua « mo­ rale provvisoria ». Questa si concreta sostanzialmente in tre mas­ sime o norme, di netto stampo conservatore e non prive (soprat­ tutto l’ultima) di echi stoicheggianti: 1) obbedire alle leggi del proprio stato e conservare la religione degli avi; 2) essere fermo e risoluto nelle proprie azioni, anche quando si tratti di seguire opinioni dubbie, quando si sia deciso così; 3) cercare di vin­ cere se stesso piuttosto che la fortuna e modificare i propri desi­ deri piuttosto che l’ordine del mondo, poiché del tutto in nostro potere sono, a ragione, solo i nostri pensieri. Messa così al riparo da ogni incertezza la condotta, Cartesio può svolgere liberamente, nella quarta parte del Discorso, il dub­ bio metodico, la sua risoluzione in un criterio di verità assoluta­

li dubbio metodico

L a morale provvisoria e le sue tre massime

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Di tutto è possibile dubitare

Cogito ergo sum e la confutazione dello scetticismo

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mente indubitabile e la conseguente ricostruzione metafisica. Prima di affrontare questa trattazione (per la quale conviene tenere pre­ senti anche gli altri scritti, e soprattutto le Meditationes con le relative obbiezioni e risposte), sarà sufficiente avvertire che la quinta parte del Discorso è volta alla esposizione di alcune parti del meccanicismo fisico e che la sesta parte, oltre che a ribadire la critica alla filosofia speculativa delle scuole, prospetta i vantaggi anche pratici, sul piano privato e sociale, della nuova scienza. Cartesio comincia la sua analisi dalla conoscenza sensibile: i sensi talvolta ci ingannano; possiamo perciò pensare che ci ingan­ nino sempre e che nulla di ciò che essi ci rivelano corrisponda alla realtà. Analogamente per la conoscenza intellettuale: poiché talvolta gli uomini sbagliano nel ragionare, possiamo ritenere che tutti i ragionamenti, anche quelli che possono apparire più dimostrativi, siano falsi. E inoltre: come distinguere le sensazioni ed i pensieri che abbiamo da svegli da quelli che crediamo di avere in sogno? Se fosse tutto sempre illusorio come nel sogno? E an­ cora più radicalmente: cosa ci garantisce contro l’eventuale esi­ stenza di un « genio maligno » che si diverta ad illuderci e ad ingannarci, e che anzi, per meglio illuderci ed ingannarci, si serva proprio delle immagini più evidenti? Di fronte all’ipotesi di un « genio maligno » la stessa matematica e perfino le regole del metodo perdono la loro validità: la loro evidenza può diventare illusoria ed esse finiscono per essere soggette al dubbio. Siamo così al fondo del dubbio, in cui ogni certezza sembra sfu­ mare e perdersi per sempre; ma proprio dal cuore stesso del dub­ bio emerge la verità indubitabile: se dubito penso e se penso sono: cogito ergo sum. Per quanto io approfondisca ed estenda il mio dubbio, questo dubbio non fa che confermare il fatto che, se dubito, penso, e se penso, sono. La stessa ipotesi del genio ma­ ligno non fa che rafforzare questa verità e certezza assoluta, poiché intanto il genio maligno può ingannarmi in quanto sono, e se penso che il genio maligno mi inganna, penso e dunque sono: la propo­ sizione « io sono », « io esisto », è necessariamente vera, dice Car­ tesio, tutte le volte che la pronuncio o che la concepisco nel mio spirito. Questo significa che il pensiero è attributo che mi appar­ tiene e che esso solo non può essere staccato da me: io sono una cosa che pensa, uno spirito, un intelletto, una ragione.

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Che il dubbio implicasse la consapevolezza di dubitare e che in questa consapevolezza fosse possibile identificare quella certezza e verità capaci di sconfiggere definitivamente lo scetticismo, è mo­ tivo che abbiamo incontrato già in Agostino (cfr. voi. I, p. 252-3) e in Campanella (cfr. p. 93); ma solo Cartesio lo prende come fondamento di una ricostruzione razionale della filosofia, come centro speculativo da cui tutto il resto, fino a quel momento problematico, riceve piena luce. L ’evidenza del cogito, infatti, si impone immediatamente ed ha questo di caratteristico, che in essa c’è identità di conoscente e conosciuto, poiché la « verità » della mia conoscenza implica immediatamente la « realtà » della cosa conosciuta (cioè di me stesso) e segna pertanto la definitiva con­ futazione del dubbio scettico, che consiste nel negare non la presenza in noi di idee, ma la possibilità di inferire da esse la realtà delle cose e quindi la corrispondenza tra le idee e le cose. Tuttavia, le stesse determinazioni con cui egli arricchisce quella prima conoscenza non tardano a mostrare che, dietro quella evidenza e quella trasparenza, si nascondono problemi che già al­ cuni dei suoi obbiettori seppero vedere con acume. Arnauld e Gassendi, per esempio, cercano di mostrare il le­ game del pensiero con l’organismo corporeo; mentre Hobbes con­ testa la possibilità di fondare sul cogito l’equivalenza di sum cogitans e di sum res cogitans (cioè la traduzione dell’atto del pensiero in una statica sostanza pensante): è come se si dicesse je suis promenant, donc je suis promenade. « Io penso, dunque sono », e sono una « cosa pensante ». Questo passaggio da un pensiero, colto nella sua immediata attua­ lità, ad una « sostanza pensante » {res cogitans), se da un lato mostra quanto sia profondamente radicata anche in Cartesio la mentalità tradizionale, con tutte le sue categorie logico-metafisiche, dall’altro non arricchisce di molto (come notarono alcuni e tra gli altri Gassendi) la conoscenza del nostro io. Ma Cartesio non du­ bita che, esaminando se stessi, sia possibile svolgere dal cogito tutta la ricchezza che vi è implicita. Si è visto che il cogito ergo sum è indubitabilmente vero: esso ci si presenta con una tale evidenza, si impone come una certezza talmente chiara e distinta della nostra coscienza, che noi possiamo essere sicuri che tutto ciò che ci si presenterà con eguale evidenza,

Le obbiezioni al cogito

Il cogito e il criterio della verità : l'evidenza

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cioè con eguale chiarezza e distinzione, sarà egualmente vero; in questo senso Cartesio può respingere l’obbiezione di Huet, per cui se il cogito è vero perché evidente, il criterio dell’evidenza precederebbe il cogito e sarebbe contraddittorio volerlo giustifi­ care con il cogito. Evidenza, chiarezza e distinzione sono pertanto le determinazioni sicure di quel criterio di verità, grazie al quale possiamo volgerci con fiducia al compito di una ricostruzione filosofica.

5 - D al « cogito » alla metafisica. Esaminando noi stessi, troviamo innanzi tutto, in noi, delle idee (e per « idea » Cartesio intende « la forma di un pensiero, per l’immediata percezione della quale sono consapevole di questo pensiero »). Alcune di queste idee ci appaiono come « innate », cioè come un patrimonio che da sempre è intrinseco al nostro pen­ siero; altre sono invece « avventizie », cioè provenienti dal mondo esterno o comunque da fuori di noi; altre, infine, sono « fattizie », cioè fatte e inventate da noi. Tutte queste idee per un verso sono modi o modificazioni del pensiero, e questa è la loro « realtà for­ male o attuale »; per un altro verso però esse sono rappresentative di oggetti reali, e questa è la loro « realtà oggettiva »: quelle di sostanza più di quelle di attributi, quelle evidenti più di quelle oscure e confuse. Di qui il tentativo di Cartesio di dare una rassegna delle idee primarie e più fondamentali, che proprio per ciò sono quelle « innate », cioè quelle sempre presenti dove è presente il pensiero (quindi l’innatismo va preso in senso meta­ fisico e non psicologico, come fecero alcuni obbiettori, cui Carte­ sio rispose che, psicologicamente, l’innatismo è virtuale e non im­ plica che attribuisca al fanciullo l’idea di Dio, del numero ecc., mentre è ancora nel grembo della madre). L ’idea di Dio Tra le idee innate ve ne è una che si impone con particolare e la realtà di evidenza: quella di Dio. Abbiamo visto infatti che la certezza del Dio cogito nasce dal dubbio, ma un pensiero che dubita è meno per­ fetto di un pensiero che è conoscenza della verità. E allora si pone il problema: come si trova in me l’idea di un pensiero più per­ fetto del mio? Essa non può venire da me stesso perché non ho Le idee; l’innatismo

D ESC A R TES

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nessuna delle perfezioni che quell’idea mi presenta, né da un essere più imperfetto di me, né dal nulla: deve venire da un essere che sia realmente perfetto tanto quanto lo rappresenta l’idea che ho di lui: questo essere è Dio, la cui realtà non può essere inferiore alla realtà oggettiva dell’idea che ho di lui. A questa prima prova dell’esistenza di Dio seguono altre due prove: la seconda è tratta dall’imperfezione e dalla dipendenza del mio essere, che presup­ pone un essere perfetto e indipendente da cui sia non solo creato, ma anche « conservato » (giacché se si fossi fatto da me mi sarei fatto secondo quella perfezione di cui, pure, ho l’idea): l’unità e la semplicità intrinseche all’idea di Dio escludono l’ipotesi di una molteplicità di cause. La terza prova è una ripresa dell’argo­ mento ontologico: Dio come essenza perfettissima non può man­ care di una determinazione così essenziale come quella dell’esi­ stenza. La maggiore forza di questa prova sta nell’analogia con il cogito: anche qui infatti dalla mia essenza, che è il cogitare, è immediatamente inferita la mia esistenza. Esiste dunque Dio come sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente e onnipotente ecc. C’è però un attributo di Dio che ha nella gnoseologia cartesiana un’importanza partico­ lare (analoga a quella dell’immutabilità della fisica, come abbiamo visto), ed è quello della « veridicità »: ciò significa che Dio non ci inganna, e soprattutto che non permette che altri (per es. il « genio maligno ») ci ingannino. La veridicità di Dio diventa così la garanzia del criterio di verità, la garanzia che è vero, e non sogno o illusione, tutto ciò che ci appare come chiaro e distinto. Il Dio di Cartesio è, pertanto, l’autore delle verità geometriche e dell’ordine del mondo e, come tale, ha poco in comune, come osserverà Pascal, col Dio di Abramo e di Isacco, col Dio cristiano. Si manifesta qui, nell’argomentazione di Cartesio, quel circolo che tutti i critici (da Gassendi in poi) hanno sottolineato: da un lato, l’esistenza di Dio è assunta mediante il criterio della chiarezza e distinzione della sua idea; dall’altro, la veridicità divina è garan­ zia di verità delle idee chiare e distinte. Ad alcuni questo circolo è apparso come « vizioso », nel senso che presuppone il conse­ guente; altri hanno cercato di superarlo dando all’evidenza un va­ lore soprattutto gnoseologico e alla veridicità divina un valore so­ prattutto ontologico; altri infine hanno valutato positivamente

La veridicità divina

Il « circolo » cartesiano

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Realtà del aondo esterno

Il carattere pratico dell’errore

LA

F IL O SO F IA

NEL

SEC .

X V I I - R A Z IO N A L IS M O

ED

E M P IR IS M O

questa circolarità, che è propria di ogni pensare che si serve della verità delle conseguenze come di conferme degli stessi punti di partenza. Comunque sia di ciò, il criterio della veridicità divina è ado­ perato da Cartesio per sottolineare la verità delle idee chiare e distinte che concernono il mondo esterno: l’estensione, il movi­ mento, i numeri, le figure; non solo, ma può finalmente dimostrare la realtà del mondo esterno, che finora l’ipotesi del genio maligno costringeva a considerare come problematica: la chiarezza e distin­ zione dell’idea di un dualismo radicale tra il mondo del pensiero e il mondo dell’estensione, e la veridicità divina (che garantisce la verità della nostra convinzione che le idee delle qualità sensibili derivino da corpi esterni) provano indubitabilmente questa realtà del mondo esterno. Noi siamo quindi in possesso di un sicuro criterio di verità, quello della chiarezza e distinzione, certificato dal cogito e garan­ tito dalla veridicità divina: come può accadere allora che noi com­ mettiamo errori? L ’errore, dice Cartesio, non è dovuto al nostro pensiero (che non potrebbe errare mai se si attenesse al metodo e al criterio della verità), ma all’intrusione della volontà nel pen­ siero, cioè quando la volontà ci spinge (per fretta, per pigrizia, per comodo ecc.) a dare il nostro assenso ad un’idea confusa.- Ciò non significa che l’errore sia un fatto volontario (nessuno vuole in­ gannarsi), ma solo che la volontà spinge a dare l’assenso, prima che si sia conosciuto in modo chiaro e distinto. Questa dot­ trina della natura pratica dell’errore incontrò l’ostilità di tutti co­ loro che, come Gassendi, erano fermi all’idea tradizionale della pari « estensione » dei domini del pensiero e del volere.6

6 - Il dualismo cartesiano. tes cogitans e res extensa

Mondo del « pensiero » e mondo dell’« estensione » costitui­ scono dunque per Cartesio due realtà nettamente distinte e senza zone di convergenza: sono due sostanze, la res cogitans e la res extensa, qualitativamente diverse. A rigore, la definizione di so­ stanza è solo ciò che è causa sui. Tuttavia, poiché res cogitans e res extensa non hanno bisogno di altro per esistere se non del-

D E SC A R T E S

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l’intervento di Dio, ad esse può essere esteso il concetto di so­ stanza per via analogica. Questo rigido dualismo tra res cogitans e res extensa è però gravido di problemi, che determineranno tutta la storia posteriore del cartesianesimo. E innanzi tutto essa sembra contrastare con la nostra più evidente esperienza psicologica: l’uomo è composto di anima (pensiero) e di corpo (estensione) e c’è tutta una serie di suoi atti che sembra certificare un rapporto e un mutuo influsso tra le due sostanze: o dell’anima sul corpo (le volizioni) o del corpo sull’anima (le sensazioni). La provvisorietà e inadeguatezza delle soluzioni di Cartesio (e noi abbiamo già vista quella che colloca nella glandola pineale, che corrisponde a quella che oggi si chiama ipofisi, la localizzazione del rapporto anima-corpo) è stata ben vista già dalla sua seguace Elisabetta del Palatinato. Della complessità del probema non potette non rendersi conto, del re­ sto, lo stesso Cartesio nel comporre il suo scritto sulle « passioni » dell’anima, che tuttavia dà per risolta la difficoltà, e si prefigge solo di mostrare il loro « ordine » e la loro concatenazione. Delle passioni che il corpo suscita nell’anima, alcune, come le sensazioni, ci vengono dai corpi esterni, altre sono localizzate nel nostro stesso corpo (la fame, la sete, il dolore ecc.). Altre, infine, non sembrano avere un’immediata causa prossima, pur avendo bi­ sogno di una mediazione del corpo: e su queste Cartesio si sof­ ferma particolarmente. Anche qui Cartesio cerca di individuare quali sono le più semplici ed elementari, da cui tutte le altre risultano: esse sono l’amore, il desiderio, la gioia e la tristezza, di cui egli descrive non solo le connotazioni psicologiche, ma anche i riflessi fisiologici (pulsazioni del cuore, colorito ecc.). Quanto alle conseguenze etiche vere e proprie, Cartesio non dice molto di più (malgrado le molteplici insistenze di cui fu fatto oggetto perché completasse il sistema con una trattazione completa dei problemi morali): egli ribadisce le regole della morale provvi­ soria; raccomanda la moderazione delle passioni e delle inclinazioni verso ciò che non è in nostro potere; esalta la magnanimità come co­ scienza della libertà del nostro volere e, insieme, dell’immutabilità della provvidenza divina: il che, tuttavia, non fu sufficiente ad evi­ targli l’accusa di pelagianesimo, così come la priorità del cogito gli attirò quella di ateismo.

Il problema dei rapporti tra le due r

L e «passioni dell’anima

L a morale

VI

TOM M ASO H O BB ES 1. Vita e scritti (p. 140) - 2. Il concetto di filosofia e la logica (p. 142) - 3. Il meccanicismo nella natura e nell’uomo; la conoscenza, le passioni e la mo­ rale (p. 144) - 4. La filosofia civile; politica e religione (p. 147) - 5. Gli sviluppi del pensiero politico e il giusnaturalismo (p. 149) - 6. I « Platonici » di Cam­ bridge (p. 152).

1 - Vita e scritti. In Hobbes, come in Cartesio, la filosofia è essenzialmente at­ tività della ragione secondo il modello della scienza matematico­ geometrica, sforzo coerente di interpretare ogni campo del sapere secondo il suo schema, escludendo tutto ciò che non vi si lascia ridurre. Essa ha tuttavia, in Hobbes, un esito divergente da quello di Cartesio, e approda ad un rigoroso materialismo, antimetafisico e fondato sulla netta distinzione di ragione e fede, e ad un mecca­ nicismo oggettivo, che si estende non solo alle operazioni della ra­ gione, ma anche alle passioni dell’anima. E, infine, una differenza certamente non secondaria sta in ciò: che mentre Cartesio era sostanzialmente indifferente ai problemi politici, contentandosi di regolare la sua vita pratica sul « provvisorio » buon senso di al­ cune norme tradizionali, Hobbes invece è fortemente impegnato in una rigorosa soluzione dei problemi della convivenza umana. La vita di In effetti, la vita di Thomas H o b b e s cade in un periodo estreHobbes mamente drammatico per ITnghilterra, quello del conflitto tra la monarchia e Cromwell, della dittatura di questi e della restaura­ zione monarchica successiva: un periodo di grande importanza per l’evoluzione non solo delle idee, ma anche delle istituzioni po­ litiche. Nato nel 1588 a Westport, dopo aver studiato ad Oxford fu precettore dei conti di Cavendish. Sia per questa mansione, sia per gli avvenimenti politici, Hobbes trascorse lunghi periodi di

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tempo fuori dell’Inghilterra, soprattutto in Francia, in Germania e in Italia. Alla conoscenza degli scritti di Bacone e di Herbert di Cherbury egli aggiungeva la conoscenza degli Elementi di Euclide (durante il secondo viaggio fuori dell’Inghilterra, nel 1629-1631), il cui metodo lo impressionò talmente da cominciare ad elaborare l’idea di applicarlo anche a quel mondo politico, per cui già da tempo aveva spiccato interesse (il suo primo scritto fu una tradu­ zione di Tucidide), ma che allora soprattutto lo preoccupava per la violenza dei contrasti, che, a suo avviso, solo l’opera della ragione e della scienza avrebbero potuto sanare. Il terzo viaggio sul continente, nel 1634-1637, e il successivo soggiorno a Parigi fino al 1651 sono della massima importanza per la vita culturale di Hobbes: a Firenze conosce Galilei, per il quale nutrirà sempre un’altissima stima, e a Parigi entra in contatto con il circolo di padre Mersenne, tramite il quale fece pervenire a Car­ tesio le sue obbiezioni alle Meditazioni (1641). Frattanto il primitivo disegno di filosofia politica si era ve- Gli scritti nuto gradatamente ampliando in un sistema generale, la cui trat­ tazione doveva svolgersi in tre sezioni; nel 1642 vide la luce, per prima, la terza sezione, dal titolo De cive, i cui problemi tro­ varono un’ulteriore elaborazione nel capolavoro di Hobbes, il Le­ viathan (dal nome del mostro biblico, preso come simbolo dell’as­ solutismo), pubblicato nel 1651 a Londra e poi, in una versione latina fatta dallo stesso Hobbes e destinata a farlo conoscere lar­ gamente in tutta Europa, nel 1668 ad Amsterdam. Qualche anno più tardi Hobbes portava a termine tutta la trattazione del suo sistema, pubblicando nel 1655 la prima sezione dal titolo De corpor e e nel 1658 la seconda dal titolo De homine. La pubblicazione L ’ultimo del Leviathan fece perdere a Hobbes i favori del partito realista jeUa'v'ita (che, legato al clero, non poteva accettarne la subordinazione al po­ tere civile, sostenuta nel libro) e gli aprì la strada del ritorno in patria. Hobbes più tardi fu di nuovo accolto anche nella corte di Carlo IL L ’ultimo periodo della sua vita fu assorbito dagli studi storico-religiosi, dai mai sopiti interessi letterari (le ultime opere a cui si dedicò furono una storia in versi della Chiesa e una traduzione dei poemi omerici) e dalle polemiche, come quella con il vescovo Bramhall sulla libertà del volere, mentre sempre più insistente si faceva quell’accusa di ateismo che, sebbene formai-

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LA F IL O S O F IA N E L S E C . X V II - RA ZIO N A LISM O E D E M P IR IS M O

mente falsa, traeva alimento dal materialismo della sua filosofia, dalla convinzione che la religione fosse un instrumentum regni e oggetto di legislazione statale. Hobbes morì nel 1679.

2 - Il concetto di filosofia e la logica. I « corpi » unico oggetto della filosofia

Ad eccezione della geometria, in cui gli antichi raggiunsero vette altissime, la scienza ha solo in età moderna i suoi fondatori: Copernico per l’astronomia, Galilei per la dinamica, Harvey per la fisiologia e la scienza del corpo umano; Hobbes ambisce ad un posto analogo per la filosofia civile, intesa come la scienza di quei « corpi artificiali » che sono gli stati, e perciò analoga alle scienze che studiano i corpi naturali. Unico oggetto della ragione sono in­ fatti, per Hobbes, i corpi, e unico scopo della ricerca razionale è conoscere quali sono le proprietà dei corpi di cui si conosce la generazione o quale è la generazione dei corpi di cui si conoscono le proprietà: dove non ci sono né generazione né proprietà 11 non c’è filosofia da studiare. Il che significa che la filosofia si risolve interamente nella scienza e non conosce né divina ispirazione, né rivelazioni: la ragione non può indagare né Dio né altre nature spirituali, ma solo ciò che è corpo, generazione e proprietà dei corpi. Ne consegue non solo la netta distinzione tra scienza e reli­ gione (ricondotta a regole per rendere il dovuto culto a Dio e confinata nella Scrittura), ma anche il rifiuto di ogni metafisica e di ogni animismo e vitalismo naturalistico: la filosofia scolastica, l’alchimia e la magia non hanno posto nella scienza. Allo svolgimento delle tre sezioni della trattazione sistematica (la filosofia naturale, come studio dei corpi naturali; la scienza del­ l’uomo, che è per un verso un corpo naturale e per un verso artefice dei corpi artificiali; e la filosofia civile, come studio dei corpi artificiali, cioè dello stato ecc.), Hobbes fa precedere una sezione che concerne la logica e la dottrina del metodo, in cui confluiscono soprattutto la tradizione aristotelica e quella nomina­ listica. Il linguaggio Il punto di partenza sono le idee, che derivano dai corpi esterni, ed i nomi con cui le designiamo. E il nome è innanzi tutto una nota con la quale si può risvegliare nell’animo un pensiero

TO M M A SO H O BBES

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simile ad uno già passato, e poi è anche signum, quando, nel di­ scorso, serve a comunicare ad altri i rapporti di antecedente e conseguente che sussistono nel pensiero di chi li esprime: per esempio le nuvole sono un « segno » naturale della pioggia, perché la pioggia suole essere conseguente alle nuvole; ma un segno natu­ rale non è ancora linguaggio (esso è infatti un segno anche per gli animali), e solo quando l’uomo ha fissato, arbitrariamente e con­ venzionalmente, i nomi di « pioggia » e di « nuvole », come note per la sua memoria, può esprimere e dimostrare agli altri nel suo discorso quel rapporto di conseguenza, quel « segno » che egli istituisce tra antecedente e conseguente. Questa negazione di ogni legame oggettivo e necessario tra le i l idee e i nomi e l’affermazione della natura arbitraria e convenzio- nonunalÌ8mo naie dei nomi stessi sono la premessa da cui consegue la negazione della realtà degli universali (sia in re sia in conceptu) e l’afferma­ zione che solo i nomi sono universali, in quanto denominazioni comuni di molte cose particolari. I nomi che noi usiamo possono essere nomi di corpi, o nomi di proprietà dei corpi, o nomi di im­ magini che sono solo in noi o, infine, nomi di nomi (per es. uni­ versale è un nome con cui designiamo i nomi comuni, non le L a logica realtà). Orbene, la proposizione è il legame tra due nomi e il sillogismo è il legame tra due proposizioni mediante un nome co­ mune (il termine medio); una proposizione è quindi vera quando collega nomi che possono essere collegati tra loro, come ad esem­ pio nomi di corpi con nomi di corpi, nomi di qualità con nomi di qualità, mentre una proposizione come « il colore è oggetto della vista » è errata perché congiunge un nome di immagine (il colore) con un nome di corpo (oggetto della vista): la verità, per Hobbes consiste in dicto, non in re. In funzione di questo rigoroso nominalismo, il metodo compo- Il sitivo e il metodo risolutivo, il procedimento sintetico e quello c o f^ c a lc o lo analitico prendono una forma ancora più rigorosamente matema­ tica che non in Cartesio: il ragionamento non è altro che « cal­ colo », e cioè somma e sottrazione di nomi (e a sottrazione e addi­ zione Hobbes riduce anche la divisione e la moltiplicazione): così « uomo » è uguale a « corpo » -f- « razionale » e « animale » è uguale a « uomo » — « razionale ». Il sistema della scienza è quindi costituito dall’insieme delle operazioni sui nomi e i suoi

LA H LU bO H A NKL

,a scienza non è conoscenza di fatti, ma sistema di rapporti

SEC.

XVII - RAZIONALISMO ED EM PIRISM O

principi non sono altro che « definizioni », cioè determinazioni del significato dei nomi più comuni e più universali. Con ciò Hobbes ha creduto di salvare sia l’esigenza empiristica, perché ogni nome corrisponde, sia pure convenzionalmente, ad un’idea, cioè ad un’im­ magine derivata — vedremo poi come — in noi dai corpi esterni; sia l’esigenza razionalistica, perché il procedimento razionale, o calcolo, è rigidamente deduttivo; la distinzione tra scienza e opinione sta in ciò, che la prima muove da definizioni e attra­ verso proposizioni e sillogismi termina in conclusioni certe, la seconda invece è il risultato di un ragionamento che non prende le mosse da definizioni. La scienza pertanto non è conoscenza di fatti, ma sistema di rapporti di antecedenza e conseguenza dei nomi, che non cesserebbero di essere veri, anche se non esistessero le cose corrispondenti.

3 - Il meccanicismo nella natura e nell’uomo; la conoscenza, le passioni e la morale. Materialismo : i corpi, lo spazio, il tempo e il movimento

La filosofia naturale di Hobbes è di netto stampo materiali­ stico; unica realtà esistente è ciò che è corporeo, e per corpo si deve intendere tutto ciò che, non dipendendo dal nostro pensiero, coincide o si coestende con qualche parte dello spazio. Pur es­ sendo perciò una proprietà essenziale del corpo, l’estensione non è tuttavia senz’altro identificata, come in Cartesio, con la corpo­ reità: questa infatti è caratterizzata anche dalla resistenza e dalla forza; anche Hobbes, però, come Cartesio, nega risolutamente la realtà del vuoto. Oltre a quello di corpo, i concetti più semplici ed astratti di questa prima parte della filosofia naturale o « filo­ sofia prima » sono quelli di spazio e di tempo: data la negazione del vuoto, lo spazio, come pura estensione priva di materia, non è qualcosa di reale, ma un’idea o immagine (phantasma) di un corpo, considerato solo dal punto di vista per cui esiste fuori di noi; il tempo, analogamente, è il phantasma, nella nostra mente, del movimento secondo il prima e il dopo. Seguono poi i concetti di luogo e di movimento, come causa generalissima di tutte le cose, e di conatus, cioè del movimento della più piccola unità possibile spazio-temporale (punto-istante). Vedremo più avanti il

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ruolo del movimento nella spiegazione della vita psichica dell’uomo, ma intanto possiamo considerare quali siano le sue leggi e come da esso si generino tutte le figure. Si entra con ciò nel secondo capitolo della filosofia naturale, L a geometrìa che Hobbes chiama « geometria »: la linea risulta dal movimento del punto, la superficie dal movimento della linea e il movimento da un altro movimento. Tutto accade quindi secondo una necessa­ ria serie causale: il possibile non esiste, perché ciò che si realizza era necessario che si realizzasse e ciò che non si realizza era impossibile. Cosicché alla geometria spetterà di studiare quali sono i tipi di movimento che generano, ad esempio, la linea retta o quella circolare. Del tutto fuori della scienza restano i vari problemi delTori- L a fisica gine, della durata e della grandezza dell’universo, e a maggior ra­ gione il problema di Dio, risolubile solo per via di rivelazione e di fede (ma ciò non impedì a Hobbes di arrivare a sostenere nella polemica con il vescovo Bramhall che il dire che Dio è incorporeo o esprime un ingenuo modo di onorarlo distinguendolo dalle altre cose o significa che Dio non esiste). Cosicché l’ultimo capitolo della filosofia naturale, cioè la fisica, ha il compito di studiare gli effetti di movimento di un corpo su un altro corpo, nel caso che sia un corpo nel suo insieme a muoversi, oppure ciò che deriva dal movimento delle parti di un corpo, che sia tuttavia nel suo insieme immobile. Si completa così il tentativo di un’integrale spiegazione meccanicistica di tutta la realtà, ivi compreso anche l’uomo, in quanto anch’esso è corpo. Tutto infatti si riconduce al movimento, anche la vita (il mo- I problemi vimento vitale, appunto, coincidente nell’uomo con la circolazione deUuomo sanguigna, che Hobbes accoglie da Harvey), e al movimento Hob­ bes riconduce anche, nello studio dell’uomo, l’analisi del processo della conoscenza e dell’origine delle passioni. La sensazione è un L a conoscenza movimento nell’organismo prodotto da un movimento dell’oggetto esterno e si trasmette, attraverso gli organi di senso, fino al cer­ vello da cui si dirama al cuore. Si produce così per reazione al pro­ cesso ora visto, che è un movimento dall’esterno all’interno, un altro movimento che va dall’interno verso l’esterno e che consiste per un verso nel riferimento della sensazione ad un oggetto ester­ no e che dall’altro, in quanto questa sensazione può agevolare 10 -

Giannantoni,

II.

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LA F IL O S O F IA N E L S E C . X V II - RA ZIO N A LISM O ED E M P IR IS M O

o contrastare il movimento vitale, suscita le sensazioni di piacere e di dolore. Di qui prenderà le mosse l’analisi di Hobbes delle pas­ sioni; intanto vediamo ancora le conseguenze che scaturiscono da questa dottrina della conoscenza sensibile. I nnanzi tutto l’afferma­ zione della natura soggettiva delle qualità dei corpi, dal momento che solo il movimento è reale; in secondo luogo, l’immaginazione e la memoria derivano dal senso, e così anche l’intelletto. Ne conse­ gue infine che lo spirito e il pensiero non sono qualcosa di di­ verso, una sostanza eterogenea a ciò che è corporeo, come era per Cartesio: derivano anzi da questa convinzione le obbiezioni di Hobbes, al cogito cartesiano, che abbiamo già visto (cfr. supra, p. 135). L e passioni e Abbiamo già detto che piacere e dolore sono le due sensazioni la morale fondamentali prodotte dal movimento che ha sede nel cuore, e da esse Hobbes prende le mosse per tracciare una spiegazione ri­ gidamente meccanicistica della vita passionale: noi siamo natural­ mente portati ad appetire ciò che produce piacere e a fuggire ciò che produce dolore, in ciò consistono l’amore e l’odio, da cui nascono, via via, la speranza e il timore, la fiducia e la rassegna­ zione ecc.; su ciò si fonda il criterio di distinzione tra il bene e il male: i quali sono desiderati e respinti non perché sono il bene e il male, ma al contrario sono il bene e il male perché li desi­ deriamo o li respingiamo; bene e male cioè sono le designazioni con cui indichiamo ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo. E sq il primo dei beni è la propria conservazione, il massimo bene consiste in un progresso non impedito verso confini sempre più lontani; e quando questo progresso non si attua verso le cose, in moto retto, si attua ritornando su se stesso, in moto circolare. Ciò esclude che si possa parlare di un bene assoluto e di un fine ultimo, che significherebbe solo la fine del movimento e quindi della vita. Di qui, infine, il fondo di incontentabilità che è tipico dell’uomo. Quando l’uomo si trova immerso nel conflitto tra appetiti e La leliberazione e desideri contrastanti si ha quel che si suole chiamare « delibera­ la libertà zione »: la libertà non è altro che l’ultimo appetito o l’ultima av­ versione, da cui consegue immediatamente l’azione o l’omissione dell’azione. E poiché ogni appetito o avversione ha una causa, e tra queste Hobbes include anche la minaccia di castighi e le prò-

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messe di premi, ne deriva che non esiste una libertà del volere; la sola libertà propria dell’uomo è la « libertà d’azione », l’uomo è libero quando non è impedito a fare quello che vuole e che ha deliberato. Questa tesi portò Hobbes ad una lunga polemica con il vescovo Bramhall, senza però che le posizioni potessero riavvi­ cinarsi. La morale, in definitiva, è egoismo ben calcolato, previsione ra­ gionata dei vantaggi e degli svantaggi e associazione del vantaggio proprio con quello altrui; ma tutto questo l’uomo non può rag­ giungerlo da solo, senza cioè il concorso degli altri uomini: nasce di qui l’esigenza e la necessità dello stato. 4 - La filosofia civile; politica e religione. Per capire bene che cosa sia lo stato e come nasca, per ela­ borare un’adeguata trattazione di filosofia civile, non si de­ vono dimenticare le verità fin’ora acquisite: la natura dell’uomo è innanzi tutto desiderio di conservazione, bramosia di godere lui solo di tutti i beni e di affermare la propria potenza, cioè il pro­ prio movimento vitale su tutto. L ’uomo pertanto non è, come vo­ leva Aristotele, animale politico (socievole) e lo stato è fondato non sulla natura, ma, al contrario, sulla convenzionalità ed è perciò un « corpo artificiale ». Ogni associazione tra gli uomini ha come fondamento o il bisogno reciproco o l’ambizione, e non il vantaggio altrui, e sussiste finché ciascuno vi trova il proprio tor­ naconto. Lo « stato di natura » è invece caratterizzato dal più sfrenato egoismo, da quella « guerra di tutti contro tutti » in cui ogni uomo è, non per malvagità, ma per intrinseca necessità, « lupo » per l’uomo; ma proprio per questo è una condizione estremamente precaria e di continuo pericolo per tutti; il diritto naturale che tutti hanno e che tutti tendono ad esercitare su tutto provoca in­ fatti una guerra generale che costituisce un incombente pericolo del peggiore dei mali, e cioè la morte violenta. Ora è proprio la paura di questo estremo male e un prudente calcolo a lungo termine dei propri vantaggi che induce gli uomini a smettere la guerra generale, a uscire dallo stato di natura e a consociarsi se­ condo un potere superiore ai singoli consociati (anche se un fondo

Lo stato di natura

L a guerra di tu tti contro tutti

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Il contratto e le sue condizioni

L'assolutismo

LA FILOSOFIA NEL SEC . XVII - RAZIONALISMO ED EM PIRISM O

di paura permane e gli uomini usano serrature per chiudersi in casa e portano armi ecc.). Nasce così, sulla base di una conven­ zione tra i singoli (e non tra i singoli e il sovrano), lo stato, sug­ gerito da quei dettami della retta ragione circa il da farsi che pos­ sono garantire la massima conservazione possibile della vita degli individui. La convenzione però vincola tutti, anche se solo una mag­ gioranza l’ha sottoscritta e anche se la sottoscrizione è coatta: Hobbes vuole sottolineare in tal modo che è irrevocabile. Questi dettami, che Hobbes chiama anche « leggi di natura », dando così però a questa espressione un senso ben diverso da quello del giusnaturalismo (cfr. infra, p. 149-52), sono numerosi, ma i tre più importanti possono essere formulati così: biso­ gna cercare la pace (pax est quaerendà)-, ^2) bisogna rinunciare al diritto su tutto (ius in omnia non retinendum); 3 ) bisogna rispettare i patti sottoscritti (pacta sunt servanda). Dal rispetto di queste leggi nasce il concetto di giustizia e di legge positiva, e quindi l’ordinamento statale, caratterizzato dal trasferimento che tutti fanno di una parte dei loro diritti naturali o ad un sovrano o ad un’istituzione, che assicuri la pace e la vita della comunità. L ’idea giuridica della indivisibilità della sovranità (come in Bodin) concorre, con quella che soltanto un’autorità assoluta e ferrea può assolvere il suo compito (e l’esperienza della rivoluzione inglese sem­ brava confermarlo), a dare alla teoria politica di Hobbes l’aspetto della teorizzazione dell’assolutismo monarchico; a rigore, la distin­ zione tradizionale delle forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia) concerne solo le forme di esercizio del potere, e non la sovranità che è unica e indivisibile in tutte, ma Hobbes non dissimula la sua preferenza per la monarchia: il sovrano è tale proprio perché è al di fuori del contratto, sia perché non è stato lui a sottoscriverlo, sia perché nulla gli è stato con esso conferito che già non possedesse, come tutti gli altri uomini, per diritto na­ turale. Al potere assoluto deve essere sottomesso anche il Parlamento; con la sola eccezione della difesa del diritto alla vita e all’inte­ grità fisica, non è ammissibile alcuna libertà dal potere, perché si ricadrebbe nella guerra generale: la sola libertà è quella di agire secondo le leggi, le quali in tanto sono valide in quanto è valido il potere, e la forza delle quali non deriva dalle consuetudini o

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dalle tradizioni ma dalla forza stessa del potere. Anche la censura più ferrea è così giustificata. Quanto alla religione, infine, essa non ha un potere autonomo La religione ed è sottomessa al potere dello stato, che solo può garantire la pace religiosa ed assolvere ai compiti del culto, sia esercitandoli direttamente, sia delegandoli al papa o ad altri. La vita religiosa si esaurisce nell’aspirazione ad una vita futura, e tutto il resto sono aggiunte che la Scrittura non convalida e che sono servite solo agli interessi di gruppi di individui e sono state causa di di­ scordie e di guerre civili. La logica coerenza dottrinale non nasconde, anche in questo caso, la preoccupazione per le vicende politico-religiose del tempo. 5 - G li sviluppi del pensiero politico e il giusnaturalismo. La teorizzazione dell’assolutismo non è certamente l’unica espressione di dottrine politiche nella prima metà del Seicento, che anzi presenta un quadro molto complesso. Per convincersene, si consideri il pensiero politico del tedesco Giovanni A l t u s i o (1557-1638), autore di una Politica methodice digesta-, a suo fonda­ mento troviamo, ancora una volta, il concetto di sovranità; solo che, diversamente dal Bodin, la sovranità è fatta risiedere, in modo inalienabile, nello stato nel suo complesso, e cioè nel po­ polo. Altusio si presenta così come l’esponente delle tendenze democratiche delle comunità calvinistiche. Il principe non è un sovrano, ma è un magistrato, sia pure il più alto, le cui funzioni e poteri derivano da un contratto sociale, ciò che istituisce una comunità umana, uno stato, regolato da leggi. E le leggi possono essere naturali (quando derivano da quella nozione, impressa da Dio in tutti gli uomini, che si chiama coscienza) o positive (quando sono sancite dal popolo): nell’ambito della sfera lasciata libera dalle leggi si esplica l’attività del principe, per la quale Altusio riprende motivi che già abbiamo visti in Machiavelli: prudenza, modestia, dissimulazione sono le doti che devono accompagnare la sua discrezionalità. Conforme al suo rigido calvinismo, Altusio nega nello stato da lui descritto qualsiasi libertà religiosa: atei ed empi, se incor­ reggibili, devono essere espulsi. Unica eccezione è fatta per i giu-

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dei, purché si astengano dal professare pubblicamente il loro culto. Ma è interessante che Altusio dica che, dove non vige il vero culto di Dio (cioè quello calvinista), lì deve esserci libertà religiosa: un principio destinato ad importanti sviluppi quando si vedrà che non può essere lo stato a decidere quale è il vero culto di Dio. II Il concetto di « diritto naturale », che abbiamo visto emergere giusnaturalismo in più d’uno dei pensatori politici da noi incontrati, pur appar­ tenendo anche alla tradizione medievale, ha la sua origine in quella filosofìa stoica che proprio nei decenni immediatamente pre­ cedenti l’umanista belga Giusto L i p s i o (1547-1606) aveva ri­ messo in onore. Ora esso acquista, però, un senso del tutto speci­ fico in quella corrente di pensiero giuridico-politico che prende appunto il nome di «• giusnaturalismo » e che ha in Alberico Gentile e soprattutto in Ugo Grozio i suoi massimi esponenti. Gentile La situazione di guerra è quella che sembra meglio mettere in luce la problematica connessa al concetto di « diritto naturale », perché in essa vengono meno i limiti e i freni posti dalle conven­ zioni e dalle leggi positive: secondo Alberico G e n t i l e (1552-1611), autore di un De iure belli, la guerra non è conforme a natura, ma ha le sue cause in fattori sociali e storici: giusta è solo la guerra di difesa. Ciò significa che in imo stato di guerra non viene meno il diritto, ma solo il suo riconoscimento, e che la guerra ingiusta (e in questo concetto Gentile include anche la guerra di religione, perché il rapporto tra l’uomo e Dio rientra nel diritto divino e non in quello umano e perciò deve essere libero) ha, come ogni azione malvagia, la sua pena in se stessa. Tuttavia, poiché non è per natura, la guerra non può far venir meno il riconoscimento del diritto naturale, cioè dei diritti fondati su quella natura umana che è comune a tutti i belligeranti e che pone un limite invali­ cabile all’uso della forza e della violenza: di qui il divieto di avvelenare le acque, di uccidere i prigionieri, le donne e i fanciulli e così via. L ’emergere di questi diritti naturali è filosoficamente e storica­ mente importante: esso segna il maturare di un limite all’assoluti­ smo del potere statale e di una prima sanzione delle libertà dell’in­ dividuo dallo stato (libertà personale, proprietà privata, famiglia, religione ecc.), che sono il germe del moderno liberalismo. I di­ ritti naturali preesistono alla formazione convenzionalistica e con-

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trattualistica dello stato, che pertanto non può in alcun modo calpestarli. Ma il giusnaturalismo è filosoficamente importante an­ che perché, approfondendo il concetto stoico, ribadisce la razio­ nalità di questo diritto naturale: non solo ciò che è naturale è razionale, ma anche ciò che è razionale è naturale. Un ampio svolgimento di questi concetti si trova nell’opera Grozio: diritto fondamentale De iure belli ac pacis dell’olandese Ugo G r o z io naturale, diritto umano (1583-1645), al cui centro sta la definizione del diritto naturale, e diritto proprio soltanto dell’uomo in quanto essere razionale: esso consi­ divino ste in un « comando della retta ragione » che indica la bruttezza o la bellezza di un’azione, cui sono connesse un’approvazione o una riprovazione etiche, in virtù della sua convenienza o meno con la stessa natura razionale. Con ciò il diritto naturale si distingue non solo dal diritto civile o delle genti (fondato sul consenso) ma anche dal diritto divino (originato dalla volontà di Dio): il diritto divino è giusto perché Dio lo vuole, ma il diritto naturale è voluto da Dio perché è giusto e pertanto esso sarebbe valido anche se — per assurdo — Dio non ci fosse. Come i matematici considerano le figure astratte dei corpi, L a deduzione delle norme così Grozio dice di voler considerare il diritto, e cioè come una giuridiche scienza razionale deduttiva: e la natura umana è il fondamento universale del diritto. Di qui deriva, nel diritto privato, la giusti­ ficazione della proprietà privata, nel diritto penale, la determina­ zione equa della pena in vista non solo della colpa ma anche del­ l’utilità individuale e sociale; di qui deriva, infine, nel diritto in­ ternazionale, tutto quel complesso sistema di norme che sono atte a mitigare la brutalità della guerra. Quest’ultimo punto è particolarmente sviluppato da Grozio (che vi dedica tutto il 3° libro della sua, opera) e per l’attualità, che ancora conserva, co­ stituisce uno dei suoi meriti storici fondamentali. Al concetto di un diritto naturale corrisponde quello di una La religione religione naturale, anteriore a tutte le religioni positive, che in naturale essa hanno il loro fondamento. Nello scritto De ventate religionis christianae viene sostenuto che i suoi punti essenziali sono quat­ tro: esistenza ed unicità di Dio; diversità e superiorità di Dio ri­ spetto al mondo sensibile; provvidenza e giustizia di Dio; Dio creatore di tutte le cose. Chi non condivide questi punti può es­ sere punito, ma non chi ha opinioni diverse in questioni meno

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evidenti o più incerte e neppure si può imputare ad alcuno di non aver ricevuto la grazia e di non credere nel cristianesimo, che è religione soprannaturale, perché direttamente rivelata da Dio: la prodigiosa diffusione del Vangelo mostra chiaramente l’attuarsi di un disegno della Provvidenza divina. Il concetto di Quanto alla filosofia politica vera e propria, Grozio è convinto sovranità che la sovranità è indivisibile e appartiene al popolo, ma, al con­ trario di Altusio, ritiene che il contratto che istituisce lo stato possa sancire il trasferimento di tutta o di una parte dei poteri del popolo al principe (preannuncio della teoria della divisione dei poteri): finché tale contratto è rispettato, quindi, non c’è diritto di deporre il principe. Diverso è naturalmente il caso del tiranno. 6 - I « Platonici » di Cambridge. Rinascita del platonismo e conflitti religiosi in Inghilterra

Con questo nome si suole indicare un certo numero di pen­ satori e di religiosi inglesi che ripropongono contro l’ateismo, il razionalismo e il materialismo (soprattutto di Hobbes) una serie di motivi platonici, particolarmente nella forma che essi avevano assunta nel pensiero rinascimentale, e i soli capaci, a loro avviso, di salvaguardare i valori permanenti della religione e della fede, della filosofia e della teologia. La tradizione platonico-rinascimentale era viva in Inghilterra fin dai tempi di Tommaso Moro (cfr. supra, p. 53), ma ora essa prende una più precisa fisionomia, in conseguenza degli aspri con­ trasti che caratterizzano la vita religiosa inglese nel ’600. Nella contesa tra i « latitudinari », tolleranti e disposti a larghi compro­ messi in materia di dogmi in vista dello scopo politico della pace religiosa, e i « puritani », eredi del rigorismo calvinista, sosteni­ tori della predestinazione e detrattori della ragione corrotta dal peccato, i pensatori platonici assumono una posizione che potè sembrare intermedia ma che in realtà era in contrasto con en­ trambi: la loro tolleranza, infatti, deriva non da calcolo politico o da indifferentismo, ma da un diverso concetto di religiosità, fon­ dato sull’idea che non esiste un’unica via per giungere a Dio, ma che ogni sforzo dell’anima umana in questa direzione è fruttuoso e degno di rispetto. Se quindi per impegno e intensità di senti­ mento religioso si distaccano dai latitudinari e dai posteriori

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« deisti » (cfr. infra, p. 241 sgg.), per l’avversione al rigido dogmatismo calvinista e alla conseguente svalutazione della ragione (che essi invece esaltano come « la candela del Signore », secondo l’espres­ sione di uno di essi, il Whichcote) essi sono spinti ad opporsi anche ai puritani. D ’altra parte, vedono nel meccanicismo e nell’as­ solutismo di Hobbes la versione atea della dottrina della predesti­ nazione e dell’arbitrio divini. Il tramite tra il platonismo rinascimentale e il platonismo della scuola di Cambridge può essere individuato nella filosofia di Ed­ ward H erbert di Cherbury (1583-1648), autore, tra l’altro, di uno scritto intitolato De ventate. Questo pensatore scorge in tutta la realtà, dalle forme più semplici del mondo inorganico al pensiero e alla moralità, il segno o sigillo della sapienza divina; da questa presenza traggono fondamento quelle verità innate o « nozioni co­ muni » che non derivano dalla conoscenza degli oggetti particolari, ma che anzi li rendono conoscibili, perché costituiscono i principi generali di tutto il sapere. E sono queste « nozioni comuni » che ci permettono di individuare il nucleo di quella religione razionale e universale che è presente e dispersa in tutte le religioni positive e che sola può rendere possibile l’unità dei fedeli e la loro definitiva pacificazione. Questo motivo della religione razionale è fondamentale nella scuola di Cambridge, e noi lo troviamo negli scritti di tutti i suoi esponenti, dal già menzionato Benjamin Whichcote (1609-1683), sostenitore dell’intimo accordo di verità naturale e rivelazione, a John S mith (1618-1652) a Nathaniel Culverw el (più o meno contemporaneo del precedente) teorico dell’identità di legge di­ vina e legge naturale. La polemica contro l’ateismo (cioè contro tutte le filosofie, ad eccezione di quella platonica), occupa gran parte dell’opera Il vero sistema intellettuale dell’universo di uno dei maggiori esponenti di questo indirizzo, Ralph C udworth (1617-1688): dalla duplice negazione del meccanicismo hobbesiano (che rende Dio uno spettatore estraneo a quanto accade nel mondo) e del conti­ nuo e miracoloso intervento divino nel mondo, egli è indotto ad ammettere, neoplatonicamente, qualcosa di intermedio tra la spiri­ tualità di Dio (la cui esistenza è dimostrabile con vari argomenti, di cui quello cosmologico è il più stringente, anche rispetto a

Herbert di Cherbury

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quello ontologico) e la materialità delle cose: la natura, principio organico e vivente, che, come strumento divino, ordina e regola le cose infallibilmente, ma senza intelligenza (onde l’errore dei panteisti). Da questa concezione della realtà discende l’impossibi­ lità, contro il materialismo e il sensismo, di considerare l’intelletto come un senso illanguidito; esso, al contrario, è una facoltà auto­ noma, è la sede di « essenze eterne » o « idee innate », che l’uomo ricorda ed usa anche per anticipare (si rammenti il concetto stoico di « prolessi ») i dati sensibili; la conoscenza infatti non comincia dalle cose particolari, ma termina in esse, e in questa inversione sta la vera distinzione tra teismo e ateismo. Egualmente innate, e non « figlie della paura », sono le idee morali, delle quali alcune sono comandate dalla naturale giustizia ed equità in modo assoluto e per se stesse, e altre in modo ipotetico e per il fine che si vuole conseguire. E spesso, ciò che conta, almeno nel vasto campo delle cose non strettamente dove­ rose, non è tanto l’azione nella sua materialità, cioè ciò che effet­ tivamente vien fatto, ma la forma con cui vien fatto, per esem­ pio per tener fede ad un impegno. La libertà umana coincide così con il suo essere ragionevole e implica il rifiuto sia di ogni determinismo (come quello hobbesiano o quello calvinista), sia di ogni forma di astratta libertà di scelta, di arbitrium indifferentiae, tra ciò che è razionale e ciò che non lo è: essere liberi significa essere conformi alla ragione. Questo tentativo di fondare la moralità in modo autonomo sulla ragione avrà importantissimi sviluppi, ma per il momento rimase ignoto, perché il saggio in cui era esposto fu pubblicato postumo solo nel 1731. More Tra gli altri pensatori di questo indirizzo basterà fare solo un cenno di Henry M ore (1614-1687), la cui concezione dello spazio immobile, eterno, infinito, come spiritus amplitudo, cioè come ombra evanescente e sensibile della presenza divina, ebbe grande risonanza per il favore con cui fu accolta da Newton. Cumberland Richard Cumberland (1631-1718), infine, cartesiano in filo­ sofia della natura, contrappose alle dottrine hobbesiane il suo con­ cetto di benevolentia universalis, su cui si commisura l’utilità o lo svantaggio delle azioni sia morali sia politiche. Siamo alle soglie dell’utilitarismo illuministico.

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GLI SVILUPPI DEL CARTESIANESIMO. GIANSENISMO E PASCAL. L'OCCASIONALISMO

1. Le polemiche suscitate dalla filosofia cartesiana. Gassendi (p. 155) - 2. Il movimento giansenista (p. 158) - 3. Blaise Pascal (p. 160) - 4. L ’occasionalismo. Geulinx e Malebranche (p. 164).

1 - Le polemiche suscitate dalla filosofia cartesiana. Gassendi. La filosofia cartesiana suscitò, fin dal suo primo apparire, soprattutto in Francia e nei Paesi Bassi, vaste polemiche tra i suoi seguaci e i suoi opposi­ tori, particolarmente numerosi nell’ambiente accademico, tradizionalista e an­ cora profondamente legato all’aristotelismo, e in quello ecclesiastico, sia cat­ tolico sia protestante. Certo, i temi specifici della filosofia cartesiana, come il dualismo delle sostanze, le prove dell’esistenza divina, il meccanicismo, l’au­ tomatismo animale e la libertà dell’uomo, sono quelli che più direttamente suscitano le discussioni, ma gradatamente quella filosofia diventa il simbolo di un razionalismo che tutto vuol ridurre a chiarezza e distinzione e che al primo posto pone l’uso autonomo della ragione, in polemica con le imposi­ zioni autoritarie, con l’oscurità dei sentimenti e della fantasia, con la tradi­ zione storica ed erudita. La fortuna del cartesianesimo nei Paesi Bassi è tutto un seguito di con- Le condanne danne ufficiali: Cartesio stesso si trovò personalmente coinvolto nella polemica, del assai aspra, tra il rettore dell’Università di Utrecht, il peripatetico Gisberto carte“ aneBuno de Voet (Vo étiu s ) e il cartesiano Enrico de R oy (R eg iu s ): sia le accuse particolari, come quella concernente la negazione dell’unità sostanziale del­ l’uomo, sia le accuse più generali, come quella di ateismo, erano motivate dalle critiche derisorie che Regius muoveva a tutta la tradizione culturale ac­ cademica. Il cartesianesimo fu bandito dall’università di Utrecht nel 1642, poi dall’università di Leida nel 1648 e infine da tutti gli stati di Olanda con un editto del sinodo di Dortrecht nel 1656. A questa condanna della Chiesa protestante seguiva quella della Chiesa romana, che nel 1663 poneva all’indice i libri di Cartesio donec corrigantur. Questa condanna, per la particolare condizione di relativa autonomia della Chiesa francese, non ebbe immediata risonanza in Francia, dove il cartesia­ nesimo si era diffuso anche tra gli ordini religiosi, come la Congregazione dell’Ordine, cui appartenne il Malebranche (cfr. più avanti, p. 166), o come

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l’ordine benedettino, cui appartenne il Mabillon (1632-1707), tra i gianse­ nisti di Portoreale (cfr. più avanti, p. 138 sgg.), e perfino tra i Gesuiti. Ma un’ordinanza di Luigi XIV nel 1671 ribadiva la condanna, proibendo la dif­ fusione della filosofia cartesiana nelle università e poi nei conventi. L e polemiche L ’intrecciarsi delle condanne dei cattolici, che accusavano i cartesiani di dei c.alvinistj calvinismo (per gli addentellati che la loro dottrina presentava con le tesi e dei cattolici e della « pre­ forma, della potenza e dell’atto, anche gli studi compiuti da Leibniz formazione i nel campo della fisiologia: anche qui gli scienziati erano divisi tra due dottrine, quella dell’« epigenesi », sostenuta da Harvey, che rite­ neva la generazione di una forma vivente come opera di qualcosa che ha bensì la potenza di produrla ma che non possiede, in atto, la forma di ciò che da essa è prodotta; e quella della « preforma­ zione », sostenuta da Swammerdan, Malpighi, Leewenhoek e alla quale Leibniz aderisce, che sosteneva l’esistenza delle forme degli esseri viventi già nei germi, prima dell’incubazione, e che quindi la generazione è in realtà solo l’inizio di un processo espansivo di sviluppo. Da tutte queste considerazioni, di ordine filosofico, fisico e fisiologico, emerge dunque il concetto di « sostanza individuale » o « monade », la sostanziale negazione di ogni differenza qualitativa o specifica fra sostanze organiche e inorganiche, e quindi la possi­ bilità di attribuire una validità generale anche ai risultati dell’ana­ lisi psicologica: in noi stessi possiamo infatti conoscere direttamente ciò che nelle altre realtà possiamo inferire solo indirettamente. /a t t iv iti della Ora è proprio la riflessione su noi stessi che ci suggerisce una aonade: « rap­ distinzione fondamentale: quella tra « rappresentazione » e « ap­ presentazione » e percezione »: la prima è un’immagine interna della cosiddetta realtà appercezione » esterna; la seconda è quello stato d’animo per cui non ci fermiamo mai ad un complesso di rappresentazioni date, ma sentiamo la ten­ denza a mutarle e ad avere rappresentazioni d’altro: contro uno dei capisaldi della filosofia cartesiana, che identificava attività percettiva e attività appercettiva (o coscienza) per attribuirle solo all’uomo ed escluderle per le creature inferiori, Leibniz distingue « percezione », che è di tutte le realtà, e « coscienza », che è propria solo dell’uomo, portando a conferma il fatto che anche nell’uomo troviamo perce-

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zioni sorde ed oscure, cioè non appercepite. E poiché per Leibniz la rappresentazione non deriva da una realtà esterna all’anima (che è una monade), ma da una attività dell’anima stessa, ogni anima è « uno specchio vivente dell’universo »; anzi, tale definizione, dato che non esistono sostanze organiche ed inorganiche, coscienti ed incoscienti, può esser estesa ad ogni moriade: d’altra parte L’imma­ gine dello specchio è solo parzialmente adeguata, perché mentre la capacità riflettente dello specchio è statica, l’attività rappresenta­ tiva della monade è dinamica ed espansiva. In secondo luogo appar­ tiene alla natura della sostanza creata di cambiare continuamente se­ condo un certo ordine, e questo costituisce la sua individualità: si può ben dire quindi che ogni monade riflette in sé tutto l’uni­ verso, ma ognuna da una sua particolare prospettiva e angolatura, come una molteplicità di individui che da punti di vista diversi os­ servassero la medesima città. In questo senso ogni monade è un cen­ tro particolare di universalizzazione e come tale non può avere interferenze né influssi reciproci con le altre: le monadi non hanno « né porte né finestre ». Ma se ogni monade contiene in sé le rappresentazioni di tutto l’u­ niverso dalla sua particolare prospettiva, ciò non significa forse, in termini logici, che tutti i predicati (le rappresentazioni) ineriscono e sono identici al soggetto (la monade)? Ciò significherebbe che le ve­ rità delle monadi sono verità di ragione e non di fatto, che la contingenza non ha più luogo e che tutto avviene per necessità. Leibniz cerca di eliminare ogni contraddizione tra la metafisica della necessità e la metafisica della contingenza identificandole nella conoscenza di Dio e separandole nella conoscenza umana, che progre­ disce nello sforzo di adeguarsi indefinitamente a quella divina senza mai raggiungere la meta: in ogni monade sono inclusi i segni di ciò che è accaduto, di ciò che accadrà e di ciò che sta accadendo in tutto l’universo, ma poiché l’uomo non può conoscerne la serie infinita delle ragioni, deve desumerne la conferma dall’esperienza e fermarsi alla contingenza. La quale, comunque, resta confermata metafisicamente dal fatto che le monadi particolari sono create da Dio, con un « salto » dalla sfera del possibile a quella del reale.

L a monade « specchio vivente dell’universo *

L e monadi sono senza « porte » e senza « finestre »

Necessità e contingenza

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4 - La conoscenza. Anima e corpo e l’armonia prestabilita. L e critiche di Leibniz a Locke : l’« innatismo virtuale »

L e « piccole percezioni »

I rapporti tra mina e corpo: l’« armonia preBtabilita »

Si è già detto che le rappresentazioni, cioè le conoscenze, non vengono alla monade dall’esterno (la monade non ha porte né fine­ stre). Si giustificano così le critiche mosse da Leibniz a Locke nei Nuovi Saggi e la sua confutazione della dottrina della tabula rasa, cui viene contrapposto il principio per cui « nulla è nell’intelletto che pri­ ma non sia stato nel senso, ad eccezione dell’intelletto stesso ». È que­ sto il principio del cosiddetto « innatismo virtuale » leibniziano, che si distingue tuttavia dall’innatismo cartesiano perché non presuppone nella mente l’esistenza di idee già belle e formate, chiare e distinte, ma solo di virtualità e di disposizioni latenti che si realizzano solo in occasione dell’esperienza: e questo spiega da un lato perché non tutto il contenuto della conoscenza sia sempre attualmente presente alla coscienza, e dall’altro perché le verità di ragione siano quelle in cui con più chiarezza (rispetto alle verità di fatto) si manifesta la validità della dottrina innatistica. Abbiamo già detto che Leibniz, al contrario di Cartesio e anche di Locke, distingue (ed è distinzione di grande importanza) perce­ zione e coscienza; proprio per questo egli può supporre una infinità di « piccole percezioni » inconscie, da cui emergono sul piano della coscienza le conoscenze innate, e può stabilire una specie di gerar­ chia delle conoscenze, sulla base della loro chiarezza e distinzione, che va dalle percezioni più confuse degli oggetti più « lontani » dalla sostanza immateriale dell’anima alle percezioni più chiare che Tanima ha di se stessa (come il cogito cartesiano): ciascuna monade pertanto è attiva in quanto ha percezioni chiare e distinte, e passiva in quanto ha percezioni confuse. La dottrina della conoscenza, ora considerata, non può tuttavia ritenersi compiuta, senza considerare le implicazioni che ne discen­ dono circa il dibattutissimo problema dei rapporti tra anima e corpo, su cui abbiamo visto particolarmente impegnata la tradi­ zione cartesiana. Ed infatti, in un primo momento, Leibniz imposta il problema in termini sostanzialmente cartesiani, ponendo un rigido dualismo tra la monade-anima e la materia, dotata di resistenza e di inerzia, del corpo: se non c’è rapporto diretto tra anima e corpo, come si spiega che ai mutamenti dell’una corrispondano mu­ tamenti dell’altro e viceversa? Leibniz, oltre quella di Cartesio, scarta

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anche la soluzione occasionalistica (cfr. supra, p. 165), perché se­ condo essa Dio sarebbe come un cattivo orologiaio, che non riesce a sincronizzare una volta per tutte due orologi, ma è costretto ad aggiustare continuamente la posizione delle lancette dell’uno e del­ l’altro (e critica analoga Leibniz muove, in sede di filosofia della natura, a Newton). Ma Dio è un perfetto orologiaio (e la sco­ perta recente dell’orologio a pendolo rende particolarmente for­ tunata questa analogia), cosicché la sincronia delle due sostanze è perfetta fin dall’inizio, e tale si mantiene: a questa dottrina Leibniz ha dato il nome di « ipotesi di concomitanza » prima e poi, defini­ tivamente, di teoria della « armonia prestabilita ». Gli sviluppi di questa dottrina, che è stata tra quelle di Leibniz una delle più note e più discusse fra i contemporanei, sono tuttavia strettamente connessi agli sviluppi delle dottrine della materia e della monade. Se tutta la realtà è composta di monadi e se le monadi sono centri di attività rappresentativa, come è da intendere la materia e il corpo? La primitiva definizione della materia, come forza e potenza passiva, non appare più adeguata a Leibniz, che nella Monadologia tende a presentarla piuttosto come il limite inferiore dell’attività rappresentativa della monade e quindi come « per­ cezione confusa »; conseguentemente il corpo viene interpretato non come ima sostanza opposta a quella dell’anima, ma come un « ag­ gregato » di monadi, di cui la monade anima è l’elemento dominante o « egemonico ». Tuttavia Leibniz si rende ben presto conto che parlare di aggregato a proposito di monadi, che — non si dimentichi — sono immateriali, non può essere esatto: di qui la riduzione finale del corpo a rappresentazione non arbitraria ma fondata (anche se questa fondazione non è spiegata) sulla realtà: un phaemonenon bene fundatum, come dice Leibniz stesso. Le conseguenze che derivano da questa nuova posizione dottri­ nale sono essenzialmente due: da un lato la dottrina dell’« armo­ nia prestabilita » da Dio diventa il principio di spiegazione univer­ sale della coesistenza di tutte le monadi e di come, essendo ogni mo­ nade un mondo in sé chiuso, alle modificazioni di una corrispondano modificazioni delle altre; dall’altro, se la monade è immateriale e la materia e il corpo sono rappresentazioni, cade la possibilità di

Il concetto d m ateria e di corpo

L ’« armonia prestabilita » come principi universale

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ammettere uno spazio assoluto; con ciò Leibniz veniva a negare uno deUa°sBcduto° ^ei PrÌncipi fondamentali della fisica newtoniana (sostenendo perciò l’idealità dello una lunga disputa con il filosofo e teologo newtoniano Clarke: spazio^dd cfr. infra, p. 243-4): se Newton avesse ragione, tutti i punti dello spazio e tutti i momenti del tempo sarebbero omogenei, e sarebbe del tutto gratuito il fatto che una cosa occupi un posto piuttosto che un altro, accada in un momento piuttosto che in un altro. Poi­ ché sole realtà sono le monadi e poiché le monadi sono immate­ riali, non si può concepire alcuna realtà oggettiva dello spazio, come intervallo tra le monadi; ma esso non è neppure una rappresen­ tazione particolare, bensì l’ordine ideale delle rappresentazioni e dei fenomeni; questa « idealità » e questa « soggettività », che emergono dall’analisi del concetto di spazio, sono proprie anche del tempo (come ordine della successione delle rappresentazioni e dei fenomeni) e, in generale, del « continuo » (estensione, movimento ecc.): il continuo è solo apparenza, rappresentazione creata dalla mente, e reali sono soltanto le monadi, unità discrete e molteplici. E tut­ tavia, idealità e soggettività non significano irrealtà e arbitrio ca­ priccioso, perché l’ordine ideale dei fenomeni rappresenta l’ordine reale dell’universo garantito dall’armonia prestabilita. L a negazione

5 - L'esistenza di Dio e la « teodicea ». La dottrina dell’armonia prestabilita implica l’esistenza di Dio, Dl° la quale, secondo Leibniz, può essere dimostrata in base ad ima serie di prove, di cui anche quelle tradizionali trovano una nuova prove formulazione ed esposizione. La prima prova è quella cosmologica, che partendo dalla contingenza del mondo, si basa sul principio di ragion sufficiente: la ragion sufficiente del fatto che il mondo sia così com’è piuttosto che in un altro modo non può essere nel mondo stesso, ma in qualcosa fuori di lui e che sia necessario, cioè Dio. La seconda prova è quella ontologica, accolta da Cartesio (cfr. supra, p. 137), che tuttavia è dimostrativa solo se prima si dimostra che l’es­ sere perfetto è possibile, perché solo se si dimostra che è possibile si potrà poi dimostrare che è reale, mostrando che è contraddittoria la proposizione che lo nega: e possibile esso è, perché se fosse im­ possibile sarebbero impossibili anche tutti gli esseri contingenti e

L’esistenza di

Le tre

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nulla esisterebbe. La terza ed ultima prova è impostata sul con­ cetto di Dio come « luogo » di quelle essenze che sono espresse dalle verità di ragione. Dio diventa, in tal modo, la monade suprema, fornita di pen­ siero e di volontà, rispetto al quale tutte le altre monadi si dispon­ gono secondo una gerarchia (che richiama una persistente tradizione platonizzante) fondata sulla maggiore o minore chiarezza e distin­ zione con cui si rappresentano il mondo e a seconda che appeti­ scano inconsciamente o con razionale consapevolezza. E su questa base ha senso, in certa misura, la distinzione tra sostanze spirituali, in più diretto contatto con Dio, e le sostanze materiali, da lui più lontane. Ma un altro problema si pose a Leibniz: se Dio è il « luogo L a «sc e lta » e il delle essenze eterne » e se in queste essenze sono preformate tutte divina mondo reale le esistenze possibili, con quale criterio Dio sceglie tra tutte le pos­ sibilità e solo alcune traduce in realtà? Innanzi tutto, osserva Leib­ niz, Dio non sceglie oggetti o avvenimenti singolarmente presi, ma tutta una serie di oggetti e di avvenimenti tra loro concatenati: in altri termini, Dio non decide se Adamo dovrà peccare, ma se sia da realizzare quella serie di avvenimenti cui appartiene Adamò (al cui concetto è implicito il peccato), o se sia da realizzare un’altra serie di avvenimenti. In questo modo di porre il problema è evidente l’influsso di « Il migliore dei mondi Spinoza e della sua dottrina della concatenazione necessaria degli av­ possibili • venimenti (il « meccanismo metafisico »), che è spesso latente, come abbiamo potuto constatare, nella filosofia di Leibniz. Tuttavia più importante per le conseguenze che Leibniz ne ricava è la risposta al problema del criterio con cui Dio sceglie tra le diverse serie possibili quella che decide di realizzare: questo criterio fondato sul principio di ragion sufficiente e sull’ordine teleologico, è quello del « meglio ». Il mondo creato da Dio non è l’unico possibile, ma è il « migliore dei mondi possibili »; ma non perché voluto da Dio è il migliore, bensì è voluto da Dio perché è il migliore. È quindi una necessità morale e non logica quella che presiede alla sua creazione. Con questa dottrina, che insieme a quella dell’armonia pre­ L a libertà del stabilita fu la più discussa dai contemporanei di Leibniz, che ne volere confutarono l’ottimismo metafisico obbiettando i mali e le disarmonie (e perfino il tremendo terremoto di Lisbona del 1755) che erano

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problema del male

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sotto gli occhi di tutti, è strettamente connessa anche la dottrina della libertà del volere, che costituisce il fulcro della Teodicea: nell’uomo la libertà coincide con la spontaneità; ma che un’azione sia spontanea vuol dire soltanto che non ha una causa diversa da colui che la compie, non che non è determinata; anzi, poiché la passione coincide con l’avere percezioni confuse e l’attività con l’avere percezioni chiare e distinte, libera è l’azione determinata razional­ mente. E anche se Leibniz insiste sul fatto che questo determinismo non è fondato su una necessità metafisica ma sulla contingenza del principio di ragion sufficiente, e che la volontà può sospendere la sua decisione e richiedere una più approfondita serie di ragioni, tuttavia il motivo fondamentale di questa dottrina è il determinismo, che ha il suo corrispettivo nella prescienza e nella predestinazione divina, La relazione vista tra l’azione divina, la sua predestinazione e la libertà umana pone a Leibniz il problema del male e della sua origine. La soluzione è sostanzialmente quella agostiniana: il male meta­ fisico è non-essere, non è cioè una realtà positiva ma il limite intrinseco ad ogni realtà particolare; il male morale è una « defi­ cienza », un venir meno al proprio dovere; il male fisico è dolore ed è permesso da Dio o come espiazione di una colpa o come pre­ messa di beni maggiori. Ed è evidente — in conseguenza — che Dio, se non poteva creare un mondo del tutto esente dal male (cioè dall’imperfezione e dalla limitazione intrinseche alle cose parti­ colari in quanto tali) ha senza dubbio creato il migliore dei mondi possibili. In tal modo Leibniz ritiene di poter conciliare considerazione scien­ tifica e considerazione religiosa del mondo e di integrare il mondo naturale con il mondo della grazia. Il razionalismo scientifico di Newton non meno che il meccanicismo atomistico di Gassendi, la metafisica della necessità di Spinoza non meno che l’agnosticismo scetticheggiante di .Bayle (cfr. infra, p. 265-6) sono tutte filosofie incapaci di confutare e di sventare il pericolo dell’ateismo e del ma­ terialismo: di qui il suo sforzo costante di conciliare razionalità e contingenza.

XI

LA FILOSOFIA ITALIANA E G. B. VICO 1. La filosofia italiana da Galilei a Vico (p. 219) - 2. Vico. La vita e gli scritti (p. 222) - 3. Vico. Dalle Orazioni al De antiquissima (p. 222) - 4. Vico. Là « scienza nuova » (p. 225).

1 -

La filosofia italiana da Galilei a Vico.

L ’età che va da Campanella a Galilei a Vico, cioè dalla metà del Seicento ai primi decenni del Settecento, è generalmente conside­ rata un’età di decadenza della grande tradizione filosofica italiana del Rinascimento: e tale fu in effetti come conseguenza sia del gene­ rale deperimento della vita politica ed economica, sia dell’azione della Controriforma, che per un verso spense i germi originali ed auto­ nomi di riflessione e per altro verso rese difficile lo scambio di idee della cultura italiana con il resto della cultura europea, favorendone un progressivo isolamento. Di qui anche un sempre maggiore dua­ lismo tra cultura letteraria e cultura scientifica, e quindi il carattere retorico di quella cultura che pure viene esaltata dal Tassoni, da Da­ niello Bartoli, da Sforza Pallavicino. Tuttavia, anche prescindendo dalla tradizione della scuola galileiana (su cui cfr. supra, p. I l i ) una certa forma di tradizione filosofica continua, e si manifesta non tanto nella persistente tradi­ zione platonica o nel ritorno alla scolastica e al « vero » Aristotele, quanto piuttosto nelle discussioni dei moralisti, dei teorici della po­ litica e dell’estetica. Il trattato Della dissimulazione onesta di Tor­ quato Accetto (1641) esprime bene, anche nel suo titolo, una tra­ dizione che è confermata anche negli scritti di un Malvezzi e di un Mascardi; le dispute tra machiavellici e antimachiavellici, le discus­ sioni sul concetto di ragion di stato, i dibattiti sull’arte e sulla « poe­ tica » aristotelica, completano il quadro di una cultura che appare chiaramente distaccata dai nuovi indirizzi filosofici che si andavano sviluppando in Francia e in Inghilterra.

L a cultura italiana e la cultura europ
delle religioni

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dal concetto stesso di Dio. Ma egualmente non validi sono gli ar­ gomenti, condivisi anche dai deisti, che si fondano in vario modo sulla relazione di causalità, sia perché la relazione di causalità, come sappiamo, non è oggettiva e non è dimostrabile; sia perché non ha senso porre alcuna analogia tra due ordini così diversi ed etero­ genei come il mondo e Dio (il fatto che, vedendo una casa, noi siamo abituati a ritenere che debba esserci un architetto, non ci autorizza a dire che anche il mondo deve avere un autore, perché nel primo caso si tratta di un’abitudine tratta dall’esperienza, che nel secondo caso manca del tutto); sia, infine, perché il mondo che è imperfetto e finito richiederebbe, semmai, una causa anch’essa imperfetta e finita e non perfetta e infinita come si suppone che sia Dio. In ogni caso Dio, come causa del mondo, dovrebbe essere « di­ verso » dal mondo, ma non tanto da impedire che la sua causalità possa essere riconosciuta per analogia con quella che opera nel mondo: da questo punto di vista la disputa tra credenti, che sottolineano la prima condizione, e deisti, che sottolineano la seconda, non ha senso. La conclusione scettica di Filone è dunque che la teologia è al di sopra delle possibilità del nostro intelletto e non ha fonda­ mento sperimentale. Questa conclusione scettica è comune anche all’altra opera che Hume ha dedicato alla religione, cioè la Storia naturale della reli­ gione-, la prospettiva è però diversa, poiché egli dalla critica ai dogmi della teologia e dall’idea stessa dell’esistenza di Dio non ha derivato, come facevano i deisti, conclusioni negative anche nei confronti delle religioni positive, che hanno invece un fondamento « naturale » nel sentimento: in questo senso è possibile fare una « storia naturale » della religione, vedere come essa sia nata dai timori e dalle speranze che l’uomo prova nelle incerte e variabili circostanze della sua vita e come si sia sviluppata dalle forme pri­ mitive. E poiché varie e diverse sono queste circostanze, varie e di­ verse sono anche le cause supposte: quindi la prima forma di reli­ gione è il politeismo, da cui poi la religione si è elevata alla fede di un Dio unico, infinito e ordinatore del mondo; questa elevazione però non esclude la ricaduta nel politeismo, nella fede in divinità intermedie. Ma se il teismo è più elevato del politeismo, esso ha pure in sé il pericolo dell’intolleranza religiosa. Di qui la rinnovata conclusione scettica, l’esigenza di abbandonare le superstizioni alle

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loro querele e di rifugiarsi delle « calme, sebbene oscure », regioni della filosofia. Eguale esaltazione del ruolo del sentimento noi ritroviamo nelle analisi estetiche di Hume: diversamente dai ragionamenti, ogni sen­ timento è giusto perché non si riferisce ad altro, ma solo a se stesso, e il gusto estetico, pur essendo soggettivo, non è arbitrario e individuale, ma poggia su un senso comune: è quindi dall’espe­ rienza dei sentimenti dell’uomo, e non da astratti ragionamenti a priori, che si può ricavare un criterio del gusto e dell’apprezza­ mento della bellezza, che secondo Hume consiste essenzialmente nella delicatezza dell’immagine.

L e dottrine estetiche

6 - La filosofia inglese nella seconda metà del Settecento. Smith e la scuola scozzese ». «

La maggiore personalità filosofica della seconda metà del XVIII secolo in Inghilterra è quella di Adam S m i t h (1723-1790), amico di Hume e successore di Hutcheson nella cattedra di filosofia mo­ rale di Glasgow. Nella sua Teoria dei sentimenti morali, egli pro­ segue la discussione di quei problemi etici che abbiamo visto vivace nella prima metà del secolo e in Hume. Smith identifica il criterio della vita morale in un sentimento che Dio ha posto nell’uomo per guidarlo al bene e alla felicità: si tratta della « simpatia », con la quale non solo giudichiamo le azioni altrui, ma anche le nostre. Noi possiamo infatti farci spettatori delle nostre stesse azioni, sdop­ piarci, per così dire, in un « io » che giudica e in un « io » che è giudicato. La simpatia, in tal modo, ci consente di giudicare noi stessi come gli altri ci giudicano, di approvare le nostre azioni quando sono buone e di disapprovarle quando sono malvage. Tutto ciò implica un valore sociale dei criteri morali, un accordo ordinato dei sentimenti e delle valutazioni nostre e altrui. Questo principio di ordine e armonia ispira, d ’altra parte, anche le dottrine econo­ miche, di cui Smith ha dato una delle prime sistemazioni scien­ tifiche con la sua Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, in cui risente evidentemente delle dottrine dei « fi­ siocrati » (cfr. infra, p. 278), alcuni dei quali, come Quesnay e Turgot, Smith conobbe in un soggiorno in Francia intorno al

Adamo Smith e la morale della sim patia

L e dottrine economiche

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Malthus

Le dottrine estetiche nella cultura filosofica inglese

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1765: è l’« ordine naturale », infatti che garantisce l’armonioso accordarsi di interesse individuale e benessere comune, anche se non tanto la natura (come volevano i fisiocrati) quanto il lavoro è causa di ricchezza. Ma ciò che soprattutto caratterizza la dottrina di Smith è la nuova impostazione dei problemi: egli non si chiede tanto, come gli economisti precedenti, quali rami di attività sono economicamente più produttivi, quanto quali istituti favoriscono maggiormente la prosperità economica; e poiché la ricchezza della nazione è assicurata solo dalla ricchezza dei singoli, è di quest’ultima che egli soprattutto si occupa. Il singolo deve essere lasciato dallo stato completamente libero di perseguire il proprio interesse sulle sue intraprese economiche, giacché la ricerca del migliora­ mento delle proprie condizioni attraverso lo spontaneo equilibrio tra domanda ed offerta di beni economici e la divisione del lavoro, è l’unica molla valida del progresso economico. In esso quindi lo stato non deve in alcun modo interferire o pretendere di inter­ venire con proprie regolamentazioni. Altro punto interessante delle dottrine di Smith è quello della riduzione del valore della merce al valore del lavoro che la produce e della distinzione tra il « valore d’uso » e il « valore di scambio »: l’acqua, per esempio, ha un grande valore d’uso, ma con essa non è possibile scambiare altri beni; tutto l’opposto invece è il caso del diamante. L ’ottimismo di Smith non doveva però rimanere a lungo senza contestazioni: il secolo si chiude infatti con la pubblicazione dei Saggi sui prin­ cipi della popolazione di Thomas Robert M a l t h u s (1766-1834), in cui si delinea un progressivo impoverimento della ricchezza dei popoli, perché, senza interventi estrinseci, mentre la ricchezza tende ad aumentare in proporzione aritmetica, la popolazione si accresce in proporzione geometrica, risultando così sempre maggiore lo squilibrio tra i beni prodotti e i consumatori: onde la necessità di sempre maggiori interventi correttivi sia pubblici sia privati. La dottrina del sentimento e del senso morale, che abbiamo visto maturare nel campo delle analisi morali, ebbe risonanze fe­ conde anche in altri campi e soprattutto, come si è detto, nell’este­ tica, perché ben presto si cominciò a parlare anche di un senso del bello, e ne derivarono tutte le discussioni intorno al « genio », come caratteristica di chi crea cose belle, e al « gusto », come capa­ cità di giudicare il bello e, nello stesso tempo, di guidare il genio.

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L ’elemento più importante di queste discussioni è tuttavia la cri­ tica all’estetica classica e alla sua presunzione di poter determinare un concetto oggettivo del bello, considerato come criterio assoluto e modello in sé di tutte le cose belle, e quindi anche determinato da proprietà oggettive (la proporzione, la perfezione ecc.); oltre che nello Shaftesbury e in Hume, questi motivi si ritrovano, sia pure con diverse sfumature, un po’ in tutti gli autori che si sono occupati del problema, da Alexander G e r a r d (1728-1795), autore di un Saggio sul gusto, ad Edmund B urke (1729-1797), già ricordato (cfr. supra, p. 243) e autore di una Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee del sublime e della bellezza, in cui distinse il « bello », che ha come causa il piacere, e il « sublime », che ha come causa il terrore, un terrore, però, che non appare come immedia­ tamente incombente e distruttivo e perciò pauroso. Ma è nella cosiddetta « Scuola Scozzese » e nella sua dottrina Thomas Reid del « senso comune » che tutte le discussioni sul sentimento trovano |cozz*ese*°la la loro più caratteristica espressione. Esponente principale fu Thomas R e i d (1710-1796), autore fra l’altro di una Ricerca sullo spirito umano secondo i principi del senso comune e successore di Smith nella cattedra di filosofia morale a Glasgow. Il ricorso al « senso comune », cioè alle attestazioni più immediate del senti­ mento e delle credenze tradizionali, ha un senso polemico contro lo scetticismo di Hume e contro l’« ideismo » di Cartesio, di Locke e di Berkeley che ne costituisce, secondo Reid, la naturale pre­ messa: dire che le idee sono l’unico oggetto della nostra conoscenza significa precludersi la conoscenza delle cose e quindi cadere nello scetticismo. L ’unica alternativa, per riaffermare l’esistenza della real­ tà esterna, sta nel negare le idee e nel tenere per fermo che oggetto della percezione sono le cose stesse. Solo le attestazioni immediate della percezione e del senso comune possono confutare l’immate­ rialismo e lo scetticismo e restaurare la verità della religione. La dottrina di Reid, riecheggiata con poche variazioni dai suoi seguaci (e abbiamo già ricordato il Gerard per le sue riflessioni estetiche), trovò un fortunatissimo divulgatore in Dugald S t e w a r t (1753-1828), che insistette sul carattere immediato delle due ve­ rità che sono le condizioni necessarie di ogni altra conoscenza, e cioè « io esisto » e « il mondo materiale esiste indipendentemente da me ».

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L ’IL L U M IN ISM O FR A N C ESE E RO U SSEA U 1. L ’Illuminismo filosofico. Montesquieu (p. 264) - 2. Voltaire (p. 268) 3. D’Alembert, Diderot e l’Enciclopedia (p. 271) - 4. Sensismo e materialismo. Condillac (p. 274) - 5. Le dottrine economiche e l’idea del progresso (p. 278) 6. Rousseau. La diseguaglianza fra gli uomini e il ritorno alla natura (p. 279) • 7. Rousseau. La politica e la pedagogia (p. 282).

1 - L ’Illuminismo filosofico. Montesquieu. Illuminismo e filosofia inglese

L ’illuminismo e l’ideale della ragione

L ’illuminismo, la tradizione e la religione

L ’Illuminismo, sia come movimento filosofico sia come movi­ mento culturale e politico, è un fenomeno essenzialmente francese, nel senso che è nella cultura e nella società francese che esso rice­ vette la sua espressione più caratteristica, trovando poi la sua tra­ duzione politica negli ideali dell’89 e nella rivoluzione. Ma, è nella filosofia inglese (soprattutto di Locke e di Newton) e nelle discus­ sioni intorno alle tesi del « deismo », che viene individuata, dagli stessi pensatori illuministi, la matrice delle nuove idee. Di qui l’an­ glomania della cultura francese dell’epoca, ma di qui anche la con­ sapevolezza della necessità di andare contro i limiti prudenti e i com­ promessi che erano stati tipici dei filosofi inglesi, per realizzare un’opera di radicale rinnovamento. « Illuminismo » significa innanzi tutto fiducia nei « lumi » della ragione, nella capacità della ragione di rischiarare le tenebre della tradizione, del pregiudizio, del dogma e del privilegio e quindi di indirizzare l’uomo, liberato dal pesante fardello del passato che lo opprime, verso una sicura via di progresso e di felicità. La ragione è essenzialmente eguale in tutti gli uomini e quindi l’illuminismo è essenzialmente egualitarismo, cosmopolitismo e pa­ cifismo: le differenze e i privilegi che in campo politico, giuridico, sociale ed economico la storia ha creato diventano il principale ber­ saglio polemico di una cultura, che, proprio per ciò, non poteva non scontrarsi con la religione. C’è, in questa polemica, un aspetto

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teorico (e noi vedremo quanto il deismo inglese abbia influito sugli illuministi francesi, trovando negli ambienti libertini un ter­ reno fecondo, e come non mancassero anche dottrine di dichiarato ed estremo ateismo) ed un aspetto pratico-politico: la chiesa e la sua dottrina appaiono, infatti, come l’incarnazione per eccellenza dell’autorità, del privilegio, dell’oscurantismo, sia sul piano politico­ sociale sia sul piano filosofico, e quindi tali da giustificare il motto volterriano (ésacrez l’infame) che dette espressione all’anticlerica­ lismo illuminista. Da questo spirito di rinnovamento, da questa esigenza di ab­ battere tutto quanto del passato appare in contrasto con la « dea ragione », da questa fiducia nel progresso rapido di tutti gli uomini sulla scia dei lumi della ragione, deriva anche un modo nuovo di concepire la filosofia e la sua funzione sociale: la filosofia abbandona i ristretti ambienti dei competenti e ogni dottrinarismo ed erudi­ zione per entrare nei salotti e in tutti gli ambienti sociali; volgariz­ zandosi e divulgandosi essa non resta immune da superficialità, ma intanto si fa agile e svelta nell’espressione letteraria e di immediata comprensione per tutti; si volge a tutti gli argomenti e di tutta la tradizione culturale fa un esame spregiudicato e sferzante, ponendo la esigenza di una nuova cultura e, in generale, di un nuovo modo di concepire la vita ed il mondo. Da questo punto di vista dobbiamo fare cenno, innanzi tutto, per l’influenza che ebbe sulla cultura illuministica, alla critica e alla polemica antitradizionaliste di Pierre B a y l e (1647-1706), il quale già nei Pensieri diversi sulla cometa polemizza non solo con la credenza popolare che le comete siano apportatrici di sventure ma anche con chi della tradizione vuol fare un criterio di verità; in questo senso, altresì (e per influsso delle idee libertine) egli nega i miracoli e nega che l’ateo debba necessariamente essere im­ morale. Nella sua opera principale, il "Dizionario storico e critico (1697), poi, compie un esame minuzioso di tutta la cultura tradi­ zionale mettendone a nudo gli errori, le falsificazioni ed i pregiu­ dizi: e se anche il suo intento è quello di mostrare l’impossibilità della ragione a decidere la maggior parte delle questioni e a risol­ vere i problemi, e quindi la necessità di attenersi alla fede, il suo Dizionario è interpretato comunemente nel senso di una dimostra­ zione del contrasto insanabile tra ragione e fede e della fragilità

Il nuovo concetto e la nuova funzione della filosofia

La critica di Bayle

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della tradizione sotto l’incalzare di una critica storica imparziale e tesa unicamente alla verità. Assolutismo e Per ben comprendere, del resto, la violenza con cui si espresse autoritarismo la polemica illuministica contro l’autoritarismo, la tradizione e la Chiesa, non si dimentichi il clima di pesante assolutismo e bigot­ tismo ufficiale degli ultimi anni del regno di Luigi XIV e, più ancora, del regno di Luigi XV e lo spirito di soffocante repressione che ispirò la politica culturale della Chiesa in quel periodo: Locke e Newton — osservava amaramente Voltaire — sarebbero stati perse­ guitati in Francia, imprigionati a Roma e bruciati a Lisbona! Di qui anche la simpatia degli illuministi per quei sovrani di altri paesi che apparivano più illuminati, come Federico II di Prussia o Ca­ terina di Russia (presso i quali, del resto, molti di loro trovarono ospitalità e protezione), e che sembravano più sensibili all’esigenza, da loro posta, di un vasto programma di riforme in tutti i settori della vita civile. Montesquieu La politica è uno dei campi in cui con maggior impegno si eser­ cita la critica illuministica, in nome di ideali di eguaglianza che traggono la loro giustificazione dalla convinzione che esiste un’iden­ tica natura umana, la quale rimane inalterata attraverso i tempi e quindi non giustifica in alcun modo i privilegi e la diseguaglianza sanciti dalle tradizioni. E, infatti, poco dopo la morte di Luigi XIV, una rappresentazione negativa degli istituti politici, religiosi, mo­ rali e sociali della Francia veniva espressa, nel 1721, nelle famose Lettere persiane (così dette perché scrìtte sotto forma di impres­ sioni che viaggiatori persiani si scambiano sull’Europa) dal M o n ­ t e s q u i e u (Charles de Sécondat, barone di Montesquieu, 1689-1755). Egli in un’altra celebre opera (Considerazioni sulle cause della gran­ dezza dei romani e della loro decadenza, 1734) individuava nella saggia decisione di non dare ai popoli soggetti leggi troppo rigide e uniformi, nella consuetudine alle contese civili, nel fatto che l’uso delle armi fosse riservato ai soli cittadini, oltre che nell’amore per la libertà e per la patria, le ragioni di una grandezza rapidamente volta al suo opposto quando lo stato romano mutò politica. Ed è interessante osservare, a proposito della casualità storica, che Montesquieu sostiene che anche quando solo il caso sembra deci­ dere le sorti di uno stato (per es. una battaglia persa per cause impreviste) le ragioni per cui ciò accade sono sempre più profonde.

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Ma l’opera più importante di Montesquieu ha per titolo Lo « Spirito » delle Leggi, ed in essa sono messi a frutto i risultati di un’attenta osservazione delle istituzioni dei paesi europei e di un lungo studio degli usi e costumi dei popoli colonizzati d’America, d’Asia e d’Africa al fine di individuare i principi su cui si fonda la « scienza della società »: la legge è un « rapporto necessario » deri­ vante dalla natura delle cose e lo « spirito » delle leggi è il prin­ cipio che unifica tutte le leggi e tutte le ispira nella loro normatività. Tale principio è da Montesquieu identificato nella giustizia e nel­ l’equità, fondate su quella natura umana che è uguale in tutti e identica sempre: contro la tesi contrattualistica, egli sostiene che le leggi seguono e non precedono lo stato e la convivenza sociale. Montesquieu distingue poi quattro forme di governo, la mo­ narchia, il cui principio è l’onore, l’aristocrazia, il cui principio è la moderazione, la democrazia, il cui principio è la virtù e la loro degenerazione, cioè il dispotismo, il cui principio è l’arbitrio e il timore (ed è irrilevante che esso sia esercitato da uno da pochi o da molti). Evidententemente, in questa accezione, « principio » non significa fattore costitutivo, ma principio ideale, mancando il quale una determinata forma di stato non è veramente e intrinsecamente tale. Il cittadino è realmente libero quando la sua volontà è conforme alla legge, cioè quando fa, non quel che vuole, ma quel che deve, in questo senso, il cittadino può vincere anche l’influsso delle cir­ costanze esterne (le condizioni geografiche, la natura del suolo, il clima), il cui influsso sulla convivenza umana e sulla stessa legisla­ zione è stato largamente sottolineato da Montesquieu; ma per ga­ rantire la libertà è necessaria anche una condizione oggettiva e cioè la distinzione dei poteri « legislativo », « esecutivo » e « giudizia­ rio »: non ci può essere libertà là dove chi fa le leggi è lo stesso che le attua e che ne giudica il rispetto. L ’esperienza politica in­ glese si incontra qui con il razionalismo illuministico in una delle prime espressioni consapevoli del liberalismo politico moderno; e tuttavia la visione « moderata » di Montesquieu se non evita gli attacchi dei reazionari e della Chiesa, si attira anche quelle di Vol­ taire (« lo spirito smarrisce e la lettera non insegna nulla ») e degli ambienti illuministici più radicali, volti prima all’ideale di un prin­ cipe illuminato e poi a forme estreme di radicalismo democratico.

Lo « Spìrito » delle Leggi

Le forme di governo

La libertà del cittadino e la distinzione dei poteri

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2 - Voltaire. Voltaire e le La penetrazione della filosofia inglese, e in particolare di Locke discussioni su e di Newton, nella cultura francese, ancora largamente permeata cartesianesimo e di cartesianesimo e di razionalismo, è opera soprattutto di Francois newtonianismo Marie A r u e t , detto V o l t a ir e (1694-1778), che soggiornò in In­

ghilterra dal 1726 al 1729 e che nelle celebri Lettere sugli Inglesi o Lettere filosofiche (1734) volse decisamente a favore dei teorici inglesi il confronto tra le due tradizioni scientifico-filosofiche. An­ cora pochi anni prima, mentre Pierre-Louis M o r e a u d e M a u p e r t u i s (1698-1759) cercava di conciliare le dottrine newtoniane con quelle leibniziane, Bernard L e B o v ie r d e F o n t e n e l l e (1657-1757), segretario perpetuo dell’Accademia delle Scienze e autore di quelle Conversazioni sulla pluralità dei mondi che ebbero larga rino­ manza, ne\YElogio di Newton, pronunciato in occasione della morte del grande scienziato, pur facendo ampi riconoscimenti ai meriti scientifici del grande inglese, aveva posto su un piano di sostanziale parità Cartesio e Newton. Questo giudizio è criticato da Voltaire: Cartesio ha indubbiamente dei meriti importanti nel campo della matematica, ma per il resto ha scritto come un romanzo, in cui tutto sembra verisimile e niente vero. Solo con Newton e con Locke noi troviamo la vera scienza e- la vera filosofia. E di qui Voltaire ampliava il suo esame per esaltare la religiosità dei quaccheri, la libertà politica ed economica degli inglesi e la loro letteratura. Non solo, ma Voltaire traduceva i Principia di Newton, ne divulgava le dottrine negli Elementi della filosofia di Newton (1738) ed istituiva, tutto a loro favore, un confronto anche con quelle di Leibniz, il cui ottimismo era ferocemente satireggiato nel romanzo filosofico Candido e nel Poema sul disastro di Lisbona. Solo nel­ l’eloquenza, nella poesia e nella letteratura moraleggiante Voltaire è disposto a riconoscere un certo primato alla Francia, dove le discussioni sui concetti di gusto, di genio, e sull’universalità del giudizio estetico occupano un posto di primo piano nella cultura illuministica. I molti altri scritti con cui Voltaire svolse instancabilmente L’attività polemica di la sua opera di ispiratore di philosophes illuministi (non filosofi Voltaire in senso tradizionale, ma pensatori e letterati di molteplici interessi e di spirito critico, animati dal proposito di far luce su tutto con i

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lumi della ragione) e che gli costarono aspre polemiche e tenaci ostilità, svolgono con coerenza i motivi critici della cultura del­ l’epoca: contro il dispotismo, il fanatismo politico-religioso e la sovranità di diritto divino, nella tragedia II fanatismo, o Mao­ metto il profeta-, contro le assurdità della fantasia e delle supersti­ zioni umane, e contro le oscurità del medioevo, nella Pulzella di Orléans-, contro le liti tra gesuiti e giansenisti sulla natura umana, nel romanzo l’Ingenuo; contro la pretesa di dare un senso inequi­ vocabile agli avvenimenti umani, nel Zadig o del destino-, contro l’antropocentrismo, nel Micromégas-, contro l’intolleranza, nel Trattato sull’intolleranza-, con il Dizionario filosofico portatile (1764), che nelle varie edizioni si estese in molti volumi, Voltaire dette, infine, una summa delle sue idee. Sensista in gnoseologia, utilitarista in etica, antimetafisico, con­ vinto che, poiché l’uomo non pensa sempre, è assurdo ammettere in lui un’anima (se con ciò s’intende una sostanza la cui essenza è il pensiero), e l’esistenza d’idee innate, Voltaire è largamente debi­ tore, come si è detto, nelle sue idee all’empirismo lockiano. È ne­ cessario, però, mettere in luce ancora due aspetti del suo pensiero che servono a caratterizzare due lati essenziali dell’Illuminismo: la concezione della storia e la concezione della religione. L ’illuminismo si presenta con innegabili caratteri di « antisto­ ricismo »: la polemica contro l’oscurantismo della tradizione; la concezione di una natura umana sempre eguale a sé e identica in tutti, l’idea della ragione come liberatrice dagli errori, lo stesso spi­ rito rivoluzionario che deve fare tabula rasa del passato, son tutti motivi che tendono ad annullare il senso della storia e quindi della storicità del mondo umano. E Voltaire, sia nell’articolo « Histoire » dell 'Enciclopedia sia nelle sue opere storiche, si fa interprete di queste convinzioni; nello stesso tempo, però, volendo considerare la storia da « filosofi », volendo cioè prenderne in esame solo gli elementi costanti e tralasciarne tutti gli aspetti favolosi di cui il fa­ natismo, la credulità, e la cieca riverenza verso il passato li ha rico­ perti, getta le basi di una nuova storiografia: eroi e rivoluzionari ci sono sempre stati e si rassomigliano dappertutto, sicché studiare queste cose — dice Voltaire contro la storiografia retorica e moraleg­ giante del tempo — significa solo riempirsi la memoria di nozioni. L ’antitesi ragione-storia come antitesi identico-diverso si avvia così

La posizione filosofica di Voltaire

La concezione della storia

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a trasformarsi, cercando anche nei mutamenti della storia ciò che permane identico e ne costituisce l’ordine progressivo. E questo elemento costante sono i « costumi », di cui Voltaire si fa appunto storico (Il secolo di Luigi XIV, La storia dei costumi) individuan­ done le quattro età nella Grecia classica, nella Roma di Cesare, nel Rinascimento Italiano e nella Francia di Luigi XIV: da questa pro­ spettiva vedremo nascere, neH’Illuminismo, l’idea di « progresso ». dottrine L ’altro elemento costante della polemica volterriana, e più in religione generale illuministica, è quello che concerne la religione: le reli­ gioni positive — e in particolare il cristianesimo — appaiono come l’incarnazione specifica del fanatismo, dell’intolleranza, dell’irragionevolezza, dei privilegi; e questo spiega anche il violento anti­ clericalismo di Voltaire. Il quale, però, non solo non è un ateo e un materialista, ma neppure un « deista »: ritiene infatti che l’ordi­ ne del mondo e la regolarità delle sue leggi inducono ad ammet­ tere l’esistenza di un Dio intelligente, ma di un Dio unico, spoglio di tutti gli attributi e le sofisticazioni teologiche delle religioni posi­ tive (e Voltaire mette instancabilmente in luce tutte le contraddi­ zioni e le incongruenze delle Scritture, solo salvando l’etica dei Vangeli); e tuttavia è un Dio provvidente. E proprio questa conce­ zione della provvidenza (che rifiuta però di ammettere interventi particolari o arbitrari, come la grazia e il miracolo) distingue e op­ pone il « teismo » di Voltaire rispetto al « deismo » dei pensatori inglesi (cfr. supra, p. 241 sgg.). Il vero teista, come dice Voltaire, si ride di Loreto e della Mecca, ma aiuta l’indigente e difende l’oppresso; la vera religione, infatti, è quella che insegna « il massimo di morale e il minimo di dogmi ». E come unica è la religione naturale, così unica è anche la morale naturale. Con questa prospettiva Voltaire giustifica anche un ideale « laico » dello stato, sottratto ad ogni influenza della Chie­ sa e in cui il sovrano è solo il « primo magistrato »: se ingiusta fu l’uccisione di Enrico IV, perché determinata dal fanatismo reli­ gioso, giusta fu invece quella di Carlo I d’Inghilterra ad opera di un governo uscito da una rivoluzione.

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3 - D ‘Alembert, Diderot e l’« Enciclopedia ». La cultura illuministica trova la sua espressione più tipica e più fortunata nella famosa Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Questa iniziativa editoriale, nata in origine come semplice traduzione e revisione del Dizionario uni­ versale delle arti e delle scienze dell’inglese Chambers, è istruttiva e significativa anche nella sua storia esterna. L ’opera veniva affi­ data a Denis D id e r o t (1713-1784), che ne assunse la direzione, e a Jean Le Rond D ’A l e m b e r t (1717-1783), che compose il ce­ lebre Discorso preliminare al primo volume, uscito nel 1751. Una tale iniziativa, per mole e per importanza, non poteva fare a meno dell’autorizzazione (il cosiddetto « privilegio ») delle autorità; ma con ciò essa diventava, nello stesso tempo, esposta a tutti gli attacchi e a tutte le ostilità degli ambienti più bigotti e tradizionalisti. Ci fu anzi il tentativo, dopo l’uscita del secondo volume nel 1752, di affidare l’iniziativa ai gesuiti. Malgrado questi ostacoli, l’opera potè proseguire fino alla pubblicazione del settimo volume, quando, sotto il premere degli attacchi (soprattutto ad opera dei gesuiti), fu revocato il privilegio delle autorità, e papa Clemente X III pro­ nunciò una solenne condanna (1759). Questi contrasti avevano fi­ nito per avere serie ripercussioni anche nella redazione dell’Enci­ clopedia: D ’Alembert non se la sentì di continuare e tutto il peso dell’opera rimase sulle spalle di Diderot, il quale, fermamente con­ vinto che l’impresa dovesse essere portata a termine, dedicò tutta la sua attività, con pochi altri collaboratori, alla redazione degli altri volumi, in attesa di tempi propizi alla loro pubblicazione. Questi tempi vennero dopo qualche anno (e frattanto si era veri­ ficata anche l’espulsione dei gesuiti): tra il 1765 e il 1772 la pub­ blicazione era completa. Enciclopedia ed Illuminismo sono diventati quasi sinonimi e per questo può, a prima vista, sorprendere che, tra i numerosi au­ tori di articoli, gli esponenti maggiori dell’Illuminismo (da Voltaire a Montesquieu, da Turgot a Rousseau, da d’Holbach a Helvétius) quasi non compaiono o compaiono con contributi non così di ri­ lievo come potremmo aspettarci; egualmente sorprendente può ap­ parire che proprio le voci che riguardano la filosofia e la religione siano quelle in cui meno si avverte quella nuova mentalità raziona-

Le vicende esteriori della

Enciclopedia

L * Enciclopedia

e la cultura illuministica

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I caratteri della

Enciclopedia

D’Alembert

Diderot

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listica, demolitrice e innovatrice al tempo stesso, che invece assai più sensibilmente è percepibile nelle voci di carattere scientifico giu­ ridico ed economico. Tutto ciò si spiega, però, pensando alle cautele necessarie per ottenere l’approvazione e alle difficoltà ed ostilità che, nonostante le cautele, egualmente si manifestarono; e, nello stesso tempo, te­ nendo presente che, pur con tutto ciò, L ’Enciclopedia, non solo nello spirito che la anima, ma anche nell’insieme dei risultati rag­ giunti resta veramente il documento più alto della mentalità illu­ ministica. Essa non poteva non risentire degli squilibri di matura­ zione delle varie discipline, ma nel complesso, come scrisse Dide­ rot ad opera- compiuta, « l’Enciclopedia non poteva essere che il tentativo di un secolo filosofico », la prova cioè di un ardimento intellettuale nell’esaminare e nel rimuovere tutte le conoscenze uma­ ne, senza eccezione e senza riguardo, nello spazzar via le vecchie pue­ rilità, rovesciare le barriere e rendere alle scienze e alle arti la libertà che è loro necessaria. Il Discorso preliminare di D ’Alembert e la voce « Enciclopedia » di Diderot, danno, del resto, un’idea chiara della vastità del piano dell’opera e della partizione del sapere su cui essa si fonda: innanzi tutto, la conoscenza « diretta », delle cose che, unita alla memoria, dà luogo alla storia; poi la conoscenza « riflessa », di carattere razionale, che dà luogo alla filosofia e alla scienza; e infine la,conoscenza di ciò che risulta dalla composizione di realtà simili a quelle che sono oggetto della conoscenza diretta, cioè l’immaginazione, che dà luogo alle arti. Egualmente chiari sono il carattere unitario, che risulta da tutte le voci, e infine lo scopo ul­ timo dell’iniziativa: una sintesi dei programmi scientifici e filoso­ fici di Bacone, Cartesio e Locke, che costituisce il bilancio critico di tutta una lunga operosità intellettuale, da consegnare ai dotti futuri, perché ne proseguano e arricchiscano i risultati. Dei due principali artefici dell ’Enciclopedia, D ’Alembert è so­ prattutto uno scienziato di tipo newtoniano, deista e allo stesso tempo studioso di matematica, astronomia, dinamica e idraulica; avversario di ogni forma di innatismo, egli è egualmente convinto della insolubilità dei tradizionali problemi metafisici e della com­ pleta indipendenza della morale, fondata sui bisogni reciproci che la convivenza sociale mette in luce, dalla religione. Più complessa personalità filosofica è quella di Diderot, autore

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tra l’altro di Pensieri filosofici e Dell’Interpretazione della natura, in cui troviamo non solo tutti i motivi tipici delTilluminismo e in primo luogo l’esaltazione della ragione come guida dell’uomo (pur nella consapevolezza dei suoi limiti) e del valore positivo della cri­ tica e del dubbio, ma anche una chiara consapevolezza dell’insuffi­ cienza di quel metodo geometrico che aveva dominato fino allora nella scienza naturale. L ’ipotesi generale che Diderot formula, ab­ bandonando il primitivo deismo di tipo newtoniano e volgendosi ad una forma di panteismo pieno di echi spinoziani e di spunti materialistici, è quella di una interpretazione della natura che non cada negli arbitri dei giudizi teologici e resti ancorata alla semplice descrizione dei fenomeni ( « i l ” come ” deriva dagli esseri, il ” perché ” deriva dal nostro intelletto »). L ’idea che la materia non è uniforme ma eterogenea, e che la natura diviene in modo autonomo e secondo una propria organizzazione, senza dover ricorrere ad in­ terventi divini, è ricca di anticipazioni rispetto all’indirizzo preva­ lentemente biologico e chimico della scienza ottocentesca e all’ipo­ tesi di una evoluzione graduale delle specie viventi e della natura tutta. In etica Diderot fu sostenitore di un ritorno alla natura e iden­ tificò l’ideale morale in un armonico equilibrio delle passioni, men­ tre nel Trattato sul Bello ribadì il carattere intellettuale e non senti­ mentale del giudizio estetico, fondato su rapporti reali tra le cose (di ordine, di proporzione, ecc.) e quindi avvertiti dall’intelletto me­ diante i sensi, e perciò diversi da quelli puramente fittizi e irreali posti dal solo intelletto. Diderot ha dato anche l’impostazione fondamentale alle di­ Le discussioni scussioni intorno alla sensibilità, in particolare circa la spiegazione sulla sensibilit da dare al fatto che dal concorso di molti sensi nascono le nostre idee del mondo esterno, e circa la risposta al problema se le impres­ sioni visive e quelle tattili convergano e divergano, e se le idee di un cieco nato, che riacquisti improvvisamente la vista, siano simili a quelle di un uomo normale. Sono temi di tipica derivazione lockiana, rispetto ai quali Diderot nella Tetterà sui ciechi e poi nella Lettera sui sordi e sui muti prendeva posizione ribadendo il neces­ sario concorso della vista e del tatto, pur assegnando alla vista un’au­ tonoma capacità di discernimento maggiore di quanto non facesse Locke. Non solo, ma nello spiegare la genesi della sensibilità e delle 18 -

Giamumtoni,

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idee del mondo esterno egli abbozzava quella metafora della statua, che si anima man mano che riceve i singoli sensi e li confronta, che, accolta anche dal celebre naturalista Georges Louis L e c l e r c D e B u f f o n (1707-1788), autore di una rinomata Storia naturale, do­ veva avere i suoi più importanti sviluppi nel pensiero di Condillac. 4 - Sensismo e materialismo. Condillac. Dall’empirismo al sensismo

Condillac

La genesi delle idee dalla sensazione a l’« animazione della statua»

Come abbiamo già detto, grande fu la diffusione delle dottrine di Locke nell’età dell’Illuminismo, e a questa diffusione dettero un contributo considerevole gli scritti di Condillac. Ma mentre Locke ammetteva due fonti di conoscenza, la sensazione e la riflessione, Condillac le riduce ad una sola, la sensazione: l’empirismo prende così un indirizzo decisamente sensistico. Nato nel 1715 e morto nel 1780, Stefano B o n n o t , abate di C o n d i l l a c , che soggiornò anche in Italia come precettore dell’In­ fante don Ferrante di Parma (per il quale compose corsi metodici di insegnamento delle scienze), prende le mosse nel suo primo scritto, il Saggio sull’origine delle conoscenze umane, da una proble­ matica assai vicina a quella di Locke e pertanto in polemica con vari punti della dottrina cartesiana: l’innatismo delle idee, in primo luogo, e in secondo luogo la funzione del dubbio metodico. Dubitare, in­ fatti, vuol dire sospendere il nostro assenso alle idee, e non rimet­ tere in questione le idee stesse, la cui origine rimane così un pro­ blema insoluto. Egualmente poco persuasiva è la tesi opposta, quella materialistica, che rimanda l’analisi della sensibilità a presupposti organici e fisici, ancora ignoti. Meglio dunque attenersi alla soluzione lockiana per spiegare l’origine delle idee e la genesi delle forme più complete di conoscenza: immaginazione, memoria, ragione, ecc. Di particolare interesse sono anche le osservazioni di Condillac sulla genesi del linguaggio, che nella sua forma primitiva è essenzial­ mente « linguaggio d’azione », strettamente collegato all’imitazione dei suoni e al gesto e che si è poi gradatamente sviluppato nelle forme attuali. Condillac abbandona però, come si è detto, il dualismo lockiano di sensazione e riflessione e alla sola sensazione riconduce la genesi non solo delle nostre conoscenze (le idee), ma anche di tutte le capa­ cità, che constatiamo nell’anima umana, di operare su di esse. Que-

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sto punto è ampiamente sviluppato nel successivo e più importante Trattato delle sensazioni, e Condillac, attraverso la descrizione del progressivo processo di animazione di una statua, cui siano confe­ riti, uno dopo l’altro, i cinque sensi, vuol mostrare come si generino in essa le conoscenze e le idee e come si sviluppino le sue facoltà e capacità psichiche. Immaginiamo dunque una statua cui sia confe­ rito il senso dell’odorato e alla quale sia avvicinata una rosa: la sta­ tua avvertirà il profumo, ma da un lato essa non sarà in grado di distinguere l’oggetto che produce la sensazione dalla sensazione stes­ sa che essa avverte, mentre, nello stesso tempo, la gradevolezza o sgradevolezza della sensazione faranno nascere i sentimenti di pia­ cere e di dolore; d’altro lato, essendo questa l’unica sua sensa­ zione, essa vi si concentra tutta, e questa concentrazione è l’« atten­ zione ». Orbene è proprio questa attenzione che, per così dire, trat­ tiene nella statua la sensazione anche quando l’oggetto sentito non è più presente: nascono così la « memoria » e, con essa, la possi­ bilità di confrontare le sensazioni (il « giudizio ») e quindi le idee di mutamento, di successione, di durata; non solo ma dal confronto con le precedenti sensazioni di piacere o di dolore, derivano altresì le idee di desiderio, di bisogno e di timore. E poiché le sensazioni legate alla memoria possono essere rievocate a piacere, dalla memoria nasce l’« immaginazione ». Da questa ulteriore complicazione della vita sensibile derivano via via tutte le altre idee (quelle astratte, quelle di numero, ecc.) Fino a questo punto, tuttavia, siamo sempre nell’ambito sog­ La sensazione e il gettivo delle sensazioni, senza alcuna possibilità di oltrepassarlo per tattile mondo esterno attingere il mondo esterno. Né le cose mutano sostanzialmente ag­ giungendo alla statua i sensi della vista, dell’udito e del gusto. Di­ versa è invece la situazione quando nella statua introduciamo il senso del tatto: se la statua muove una mano e tocca il proprio corpo, avrà contemporaneamente la sensazione di toccare e di es­ sere toccata ed è proprio grazie a questo tipo di sensazione che le sarà possibile, fondandosi sulle sensazioni tattili, di accertare l’esi­ stenza di un mondo esterno e quindi di spiegare la genesi e il fon­ damento delle idee delle cose. L ’animazione è completata e, sulla sola base dei sensi, la statua ha acquisito una vita psichica piena e totale: Condillac poteva così ritenere di aver fatto per la psiche quello che Newton aveva

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La logica

Il sensismo di Condillac non è materialismo

Le tendenze materialistiche : La Mettrie

Bonnet

D’Holbach

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fatto per il mondo fisico, cioè di aver scoperto nella sensazione un principio unitario di interpretazione. Nella Logica e nella Lingua dei calcoli, infine, Condillac non solo illustra il suo metodo analitico della conoscenza, che si attua at­ traverso la « decomposizione » e la « ricomposizione » di un fatto d’esperienza, ma insiste soprattutto sul punto che, poiché l’analisi è possibile solo mediante il linguaggio, un linguaggio perfetto si identificherebbe con la scienza perfetta: ragionare bene altro non è che parlare bene. Si è già ricordata la polemica di Condillac contro il materia­ lismo e qui si può aggiungere che egli riteneva perfettamente conci­ liabile il suo sensismo gnoseologico con i principi fondamentali dello spiritualismo, quali l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Si è già detto che Condillac non spinge il suo sensismo fino al materialismo; tuttavia il materialismo è largamente diffuso tra me­ dici e fisiologi nei circoli illuministici. Tra gli esponenti principali possiamo ricordare Julien O f f r a y d e l a M e t t r i e (1709-1751), autore di scritti (L’uomo macchina e L ’uomo pianta) che godettero di grande fama, e che suscitarono contro di lui ostilità altrettanto grandi. Partendo dalla contestazione dell’identità cartesiana di ma­ teria e di estensione, smentita dalla scoperta di proprietà della ma­ teria non passive, ma attive, come l’attrazione, La Mettrie attribui­ sce ad essa anche altre proprietà, che gli sono suggerite dai suoi studi di medicina e che consentono di dare per certo il passaggio continuo dalla materia alla sensibilità (che, quindi, non è più un dato originario, ma derivato dalle proprietà della materia), e di ne­ gare ogni distinzione sostanziale di anima e corpo. Di qui l’idea dell’« uomo macchina » e dell’« uomo pianta », cioè dell’uomo sot­ toposto alle stesse leggi della natura e agli stessi principi fisiologici di tutti gli altri esseri viventi, seppure con un grado più alto d’or­ ganizzazione, su cui La Mettrie fonda un’etica basata sul criterio del piacere. Nello stesso senso, Carlo B o n n e t (1720-1793) tenta di ridurre le sensazioni alle vibrazioni del sistema nervoso, anche se egli poi reintroduce fattori qualitativi per spiegare le differenze delle sen­ sazioni. Ma il principale divulgatore delle dottrine materialistiche ed anche ateistiche fu Paul-Heinrich D i e t r i c h d ’H o l b a c h (1723-1789),

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autore di un Sistema della natura (pubblicato con uno pseudonimo e alla cui stesura collaborarono anche Diderot e Lagrange), di La morale universale e di numerosi altri scritti. La realtà è ridotta a materia e movimento secondo un’ipotesi atomistica, ed è dominata dalla ferrea necessità della legge di causalità; anche l’uomo, come essere puramente fisico, non solo non ha alcuna posizione privile­ giata nell’universo, ma è sottoposto, come tutte le cose, alla mede­ sima necessità: la volontà è una semplice modificazione del cervello e quindi non è libera; ogni uomo non può agire diversamente da come agisce perché non può essere diverso da quel che è effettiva­ mente. Da queste premesse D ’Holbach deduce una morale fondata sul criterio della ricerca della felicità più stabile e dell’utilità sociale e politica, che giustifica anche la revoca dei poteri del sovrano e il rifiuto delle leggi ritenute dannose, nonché un ideale di tolleranza, motivato con l’irresponsabilità e con la fatalità della condotta umana. Da queste premesse, infine, derivano: l’esaltazione dell’ateismo (l’a­ teo è colui che conosce la natura e le sue leggi, colui che sa cosa la natura gli impone), la violenta polemica antireligiosa e anticleri­ cale, e l’opposizione ai governi reazionari; tutti motivi largamente comuni a questi esponenti delle tendenze più estremiste e coerenti deH’illuminismo. Ad esiti alquanto diveisi, in campo morale, giunge invece il ma- Helvétius terialismo di Claudio H e l v é t i u s (1715-1771), autore di un’opera intitolata Dello spirito (dove « spirito » indica solo quell’aspetto della personalità umana che è acquisibile mediante l’educazione e, come tale, distinto dall’« anima » che è un dato puramente natu­ rale), che fu al centro di un’aspra polemica e quindi condannata non solo dall’autorità ecclesiastica, ma anche dal Parlamento, per la coe­ rente riduzione di tutte le facoltà spirituali alla sensazione, intesa come fenomeno puramente fisico e fisiologico. La morale è fondata sull 'amor proprio, cioè sul proprio interesse individuale e la virtù è seguita solo là dove è premiata; pur negando, in polemica con Rousseau, la bontà originaria e naturale dell’uomo, Helvétius ri­ tiene tuttavia possibile un’educazione dell’uomo (ed anzi su questo punto insiste in modo particolare), da affidare alla legislazione e al potere politico, se è vero, come egli ritiene vero, che la condotta dell’uomo è fortemente condizionata dai fattori ambientali, dall’edu­ cazione ricevuta, dal tipo di società in cui vive.

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5 - he dottrine economiche e l’idea del progresso.

La crisi del mercantilismo. La « fisiocrazia »

Quesnay

Turgot e l’idea di progresso

Prima di passare all’esame del pensiero di Rousseau, che co­ stituisce il punto più alto raggiunto dalla filosofia illuministica, e, nello stesso tempo, l’avvio del suo superamento, dobbiamo com­ pletare il quadro delle tendenze culturali di questa età, facendo un rapido cenno alle dottrine economiche e all’elaborazione di quel­ l’idea di « progresso » che rappresenta una delle esigenze di fondo della cultura illuministica, espressione della stessa funzione emanci­ patrice e liberatrice della ragione. Il secolo xvn era stato, soprattutto in Francia, l’età del mer­ cantilismo, cioè di quella dottrina che teorizzava il continuo inter­ vento dello stato nella vita economica ed il protezionismo doganale. Nel secolo xvm la scienza economica prende mano a mano un in­ dirizzo opposto e nascono quelle che si sogliono chiamare « le scuole classiche » dell’economia: mentre in Inghilterra, come abbiamo vi­ sto (cfr. supra, p. 261 sgg.), si afferma con Adamo Smith il liberismo economico, in Francia si afferma- l’indirizzo dei « fisiocratici », cioè dei seguaci della « fisiocrazia » (letteralmente « dominio della na­ tura »), sostenitori di un’economia regolata su leggi naturali analoghe a quelle che governano il mondo fisico. L ’orientamento generale della scuola, esposto negli scritti (soprattutto nel Tableau économique) del suo fondatore, Francois Q u e s n a y (1694-1774), è ca­ ratterizzato dalla considerazione dell’agricoltura e della terra come le vere e primarie fonti di ricchezza: l’industria e il commercio sono infatti solo trasformazioni e non creazioni di ricchezza. L ’istituto della proprietà privata agricola, la convinzione che il libero gioco degli interessi finisca gradatamente per comporsi in armonia, mal­ grado gli apparenti contrasti, e infine la valutazione del libero « scam­ bio » come il mezzo naturale per equilibrare produzione e consumo, sono i punti dottrinali, che finiscono per dare all’economia anche una caratterizzazione più ampia, inquadrandola nella generale ten­ denza alla liberazione della società umana da tutto ciò che è irra­ gionevole e innaturale. Quesnay riteneva perciò che il dispotismo illuminato fosse la forma di potere politico più adatta a realizzare queste condizioni: ma, a ridimensionare queste speranze, giunse la diretta e negativa esperienza di governo di un altro esponente della fisiocrazia, Robert T u r g o t (1727-1781), ministro di Luigi XVI e

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autore di un Viano di due discorsi sulla storia naturale e di Rifles­ sioni sulla formazione e la distribuzione delle ricchezze. Tuttavia le idee illuministe e fisiocratiche suggeriscono a Turgot una visione « progressiva » dell’umanità nella storia, che diventa caratteristica degli ambienti riformisti e rivoluzionari. Tipica, in questo senso è la concezione del progresso che trova ampio ed entusiastico svolgi­ mento nel Quadro storico dei progressi dello spirito umano di Jean C a r i t a t , Marchese di C o n d o r c e t (1743-1794). L ’opera è Condorcet scritta mentre la rivoluzione è in atto e vittoriosa (e lo stesso au­ tore fu travolto dalla caduta dei Girondini e ghigliottinato) ed è tutta ispirata da un ideale di progresso umano, che è continuo ed indefinito, guidato dalla ragione, che gradatamente elimina le diseguaglianze tra le nazioni e tra gli uomini e perfeziona l’individuo aprendogli sempre più vaste prospettive di felicità e di conoscenza. 6 - Rousseau. La diseguaglianza fra gli uomini e il ritorno alla natura. Nel panorama filosofico dell’Uluminismo la personalità e il pen­ Rousseau: la e gli siero di Rousseau occupano un posto del tutto particolare: i con­ vita scritti cetti di sentimento, istinto, spontaneità, di natura, ecc. che tanta parte hanno nel suo pensiero, sembrano porsi fuori dei quadri men­ tali del razionalismo illuministico ed hanno fatto spesso parlare di un « protoromanticismo » di Rousseau. Né minori spunti alla antitesi con l’illuminismo ha offerto la sua personalità tormentata e inquieta, il suo vivere fra continui sospetti, di cui egli stesso fu la prima vittima, come mostrano le stesse deformazioni delle vicende biografiche che traspaiono nelle sue Confessioni. Nato a Ginevra nel 1712, Jean-Jacques R o u s s e a u fuggi nel 1728 dalla sua città natale, girando per molti luoghi e facendo molti me­ stieri, finché non trovò una tranquilla ospitalità, nelle vicinanze di Chambéry, presso Madame de Warens. Ma nel 1741 si rimette in viaggio e si trasferisce a Parigi, copiando musica per vivere. Qui entra in contatto con i filosofi (soprattutto Diderot) e con i circoli illuministici (specialmente quelli che facevano capo a D ’Holbach e a Madame d’Epinay) e nel 1749, essendo quasi per caso venuto a conoscenza di un concorso bandito dall’Accademia di Digione sul tema se il progresso scientifico e artistico avesse contribuito o meno

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al progresso dei costumi, compose il Discorso sulle scienze e sulle arti, che vinse il premio dell’Accademia e dette all’autore fama e successo. A breve distanza di tempo compose anche il Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini, di nuovo in occasione di un concorso bandito dall’Accademia di Digione. Il carattere scontroso e non privo di stranezze di Rousseau gua­ stò i suoi rapporti con gli ambienti illuministici, portò alla rottura con Diderot e accentuò la polemica con Voltaire. Dal 1758 al 1762 Rousseau fu ospite del maresciallo di Lussemburgo nel castello di Montmorency: risale a questi anni la composizione della Nuova Eloisa (in cui, sotto forma di romanzo d ’amore, Rousseau esalta il matrimonio fondato sulla libera scelta degli istinti naturali, in antitesi alle convenienze e alle convenzioni sociali) del Contratto sociale e dell 'Emilio, che sono le sue opere principali e furono pub­ blicate nel 1762. Dopo la condanna dell 'Emilio da parte del Par­ lamento (che ordinò anche l’arresto dell’autore) e quella dell’auto­ rità ecclesiastica, Rousseau per evitare più gravi conseguenze, fuggì in Svizzera, dove tuttavia potè trattenersi solo per poco tempo a causa dell’ostilità suscitata dalle idee religiose espresse in quella parte dell 'Emilio che porta il titolo di « Professione di fede del Vi­ cario Savoiardo », e che gli procurarono una condanna anche da parte del Parlamento svizzero. Si recò quindi nel 1765 in Inghil­ terra, accettando l’ospitalità offertagli da Hume; ben presto, però, l’assillo di una immaginaria congiura, che sarebbe stata ordita dal filosofo inglese, portò alla rottura anche di questo rapporto e alla fuga di Rousseau anche dall’Inghilterra. Dopo un nuovo tormen­ tato soggiorno parigino, Rousseau morì a Erménonville nel 1778. Natura e Le antitesi fondamentali del pensiero russoiano, quella tra na­ cultura tura e civiltà e quella tra sentimento e ragione, che hanno a lungo tormentato le sue meditazioni, nell’alternativa tra un’esigenza indi­ vidualistica di rifiuto del mondo e di fuga nella solitudine e un’esi­ genza di individuare gli strumenti per reintegrare una condizione felice per tutti gli uomini, emergono chiaramente e non senza qual­ che punta paradossale già nei due Discorsi. Nel primo, sulle scienze e sulle arti, Rousseau sostiene, anche sulla base di un’interpreta­ zione generale delle vicende storiche, che la corruzione umana si è andata sempre più accentuando a mano a mano che, con il progresso delle scienze e delle arti, l’uomo ha moltiolicato i suoi sforzi per uscire

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da quella « felice ignoranza » in cui la saggia natura lo aveva posto. In questo senso ogni singola scienza deriva da un vizio: l’astrono­ mia dalla superstizione, l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dal­ l’adulazione e dalla menzogna, la geometria dall’avarizia, e così via. Le scienze le lettere e le arti hanno finito per soffocare negli uomini il sentimento della libertà originaria, fino al punto di ren­ derli amanti della loro stessa schiavitù, hanno imposto una unifor­ mità di costumi che spegne l’individualità e la particolarità delle inclinazioni personali e hanno sostituito all’amicizia e alla stima la diffidenza, il disprezzo e l’ipocrisia. Similmente, nell’altro Discorso sull’origine ed i fondamenti del­ l’ineguaglianza, spinto dall’esigenza di rintracciare il volto genuino dell’uomo non ancora deturpato dagli artifici della civiltà e dai dis­ sidi creati dalla ragione e dalla riflessione, Rousseau distingue due forme di ineguaglianza, l’ima naturale e l’altra sociale e politica. ' La prima diseguaglianza non è certamente eliminabile e tuttavia non è responsabile dei mali che solitamente le sono attribuiti: le dise­ guaglianze sociali e politiche sono infatti assai maggiori di quelle naturali. E come l’« amor di sé », cioè il naturale e positivo senti­ mento di conservazione e di soddisfazione è dalla riflessione tra­ sformato nell’« amor proprio », che, anteponendoci agli altri, non solo è fonte di insoddisfazione, ma anche della assurda pretesa che gli altri antepongano noi a loro stessi; così è nella società e nello stato che vanno ricercate le origini di quella diseguaglianza tra op­ pressori e oppressi che è la matrice di tutte le altre diseguaglianze: il riconoscimento del diritto della proprietà privata, che sancì la di­ seguaglianza tra ricchi e poveri; l’istituzione della magistratura, che sancì la diseguaglianza tra potenti e deboli; e infine la trasforma­ zione del potere da legittimo in arbitrario, che sancì la disegua­ glianza tra padroni e schiavi, sono le tre tappe di un processo dege­ nerativo che solo in un « ritorno alla natura » può trovare la pro­ pria correzione. Nel concetto russoiano di natura sono impliciti tuttavia due significati: quello di una condizione originaria e pri­ mitiva da restaurare, in antitesi con la storia, la civiltà e la ragione (e questo è l’aspetto più tipicamente antilluministico di Rousseau), e quello di una « norma » ideale, di uno stato « che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai », ma che tuttavia bisogna avere chiaramente presente per misurare

L ’origine dell) diseguaglianza

Il « ritorno alla natura »

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su di esso la condizione presente. E come sarebbe possibile averlo chiaramente presente senza la ragione? La regola di affidarsi al sen­ timento piuttosto che alla ragione, dice Rousseau, è confermata dalla ragione stessa.

7 L e dottrine politiche:

concetto di sovranità

Rousseau. La politica e la pedagogia.

Cosa propriamente Rousseau intenda per « ritorno alla natura » è chiarito, sul piano politico e sociale, dal Contratto sociale e, sul piano dell’educazione individuale, ò&WEmilio. Nel Contratto sociale si parte dal principio che l’uomo è nato libero ed è diventato schia­ vo: questa corruzione della sua condizione non è però opera della natura e della forza, perché né la natura né la forza sanciscono al­ cuna autorità e alcun diritto, ma sono opera della convivenza so­ ciale, che pur non essendo un ordine naturale nasce dalla necessità di salvaguardare la propria conservazione. Di qui la necessità di sti­ pulare un « patto », un « contratto sociale » che instauri un’asso­ ciazione capace di difendere e di proteggere, con la forza di tutta la comunità, la persona e i beni di ciascuno e per il quale ognuno, pur unendosi con tutti, non ubbidisca che a se stesso e resti libero come prima. Un « patto di unione », dunque, e non un « patto di sogge­ zione », fondato sull’eguaglianza e sulla libertà, giacché ogni con­ traente egualmente aliena ogni suo diritto a tutta la comunità e nel far questo resta libero, perché ubbidisce solo a se stesso. Le conseguenze più importanti che Rousseau ricava da questa premessa sono in primo luogo che l’associazione instaura al posto di una dispersa molteplicità di individui un « corpo morale e collet­ tivo », al posto dell’arbitrio individuale la comune libertà nell’obbe­ dienza della legge; e in secondo luogo che l’autorità e la sovranità appartengono a tutto il corpo sociale e non possono essere né alie­ nate né divise: in quanto la sovranità appartiene in modo inalie­ nabile a tutto il corpo sociale, la concezione di Rousseau è « demo­ cratica »; in quanto la sovranità non è divisibile, questa dottrina può essere definita di « democrazia diretta »: i governanti, infatti, sono semplici ministri e non padroni del popolo, e quindi non solo possono essere destituiti quando mancano al proprio dovere, ma non hanno neppure, a rigore, una funzione rappresentativa (che

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anzi nella rappresentatività Rousseau vede un residuo di feudalesi­ mo): essi sono soltanto dei commissari, che non possono decidere nul­ la « in nome del popolo »; ma solo con la ratifica popolare. La possi­ bilità che tutto il popolo eserciti direttamente il suo potere decisio­ nale configura il corpo politico vagheggiato da Rousseau fuori degli schemi dei grandi stati moderni, come piccole comunità politiche, eventualmente collegate tra loro da forme di associazione federativa. Nello stesso quadro rientra anche la distinzione tra « volontà generale » e « volontà di tutti »: quest’ultima non è altro che la somma delle volontà particolari dei singoli e come tale arbitraria; la prima invece è quella che, indipendentemente dal numero di co­ loro che la esprimono, vuole il bene generale, e come tale è infalli­ bile e sicuro fondamento delle leggi. Per questo, la libertà del cit­ tadino si identifica con l’obbedienza alla volontà generale. Se il contratto sociale esprime l’esigenza di riportare la stessa convenzione che regola la convivenza ad una norma naturale, YEmilio esprime l’esigenza di riportare la educazione al criterio del libero manifestarsi delle facoltà naturali, contro tutti gli ostacoli che le convenzioni tradizionali ad essa frappongono. La pedagogia, in altri termini, deve essere talmente profonda da insegnare non già imponendo nozioni ed abitudini, ma facendo in modo da dare l’impressione all’educando di trovare da sé e spon­ taneamente quello che essa vuole che egli apprenda. Essa più che sui precetti deve fondarsi sugli esercizi. Nella sua prima età il fanciullo non ragiona ma sente, non ha idee ma immagini: per questo il primo compito del pedagogo è quello di insegnargli ad usare i sensi (e a questo fine è di particolare utilità il disegno), assecondando la sua spontaneità e facendo in modo che essa si indirizzi da sola verso ciò che gli sarà utile: può darsi che per ciò occorra molto tempo, ma non sarà tempo perso, anzi sarà il tempo meglio impiegato. Ovviamente educare non vuol dire soltanto ammaestrare: quindi una particolare importanza ha la cura del corpo (vita all’aria aperta, semplicità del cibo, ecc.) e la educazione del carattere, lasciando che la natura stessa armonizzi passioni e desideri e che lo stesso educando acquisti dalle sue espe­ rienze i suoi criteri di valutazione, senza pretendere che il fanciullo immediatamente diventi come l’adulto vuole che sia e quindi dan­ dogli il senso della dipendenza dalle cose, ma non da una volontà

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Le dottrine pedagogiche

L ’educazione del fanciullo

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altrui. L ’eccellenza dell’educazione starà dunque unicamente nel­ l’attenzione a procurare all’educando quelle esperienze che sono ne­ cessarie a formarlo nel senso voluto (giacché l’educazione non ri­ sulta da una libertà capricciosa, ma da una libertà « ben guidata »), ma senza imporgli nulla dall’esterno: educazione « negativa », quin­ di, piuttosto che « positiva », capace di insegnare non tanto a pos­ sedere il bene e il vero quanto a fuggire il male e l’errore. L ’educazione Lo stesso criterio deve presiedere anche all’educazione dell’età nell’età dello più matura: la ragione non deve essere imbottita di nozioni appena adolescente comincia a funzionare, ma deve essere guidata a scoprire da sé il mondo, ad « inventare » la scienza, ed ad apprendere l’amore per tutti gli uomini. Ma poiché non c’è felicità senza coraggio, né virtù senza lotta, l’educatore dovrà mettere alla prova l’educando con una serie di ostacoli, affinché la sua bontà naturale non venga meno alle prime difficoltà, ma sia fortificata dalla virtù. La religione Solo dopo l’età dell’adolescenza può cominciare l’insegnamento religioso (giacché prima non avrebbe potuto essere inteso, ed è me­ glio non avere idee di Dio, che averle volgari); e se la pedagogia dell 'Emilio è stata paragonata al processo di animazione della statua di Condillac (cfr. supra, p. 275), la « Professione di fede del Vi­ cario Savoiardo » richiama, come è stato osservato, il procedimento metodico cartesiano: ammettere come evidente solo ciò a cui, nella sincerità del proprio cuore, è impossibile rifiutare il consenso; e come vero solo ciò che con esso è necessariamente connesso, lasciando tutto il resto nel dubbio. E la prima verità è il mio esistere e il mio sentire, accompagnato dalla consapevolezza che fuori di me sono le cose le quali produ­ cono in me le sensazioni; inoltre la sensazione attesta immediata­ mente l’esistenza del movimento che è spontaneo in me stesso, e meccanico nelle cose. E dal movimento si passa alla sua causa, cioè a Dio, presente e provvidente in tutti gli aspetti della realtà. La coscienza, questo « istinto divino », come lo chiama Rous­ seau, e la sua intima esperienza e non la ragione o la filosofia del deismo sono quindi il fondamento della religione e della moralità; di qui la polemica contro le religioni positive, contro l’idea che Dio possa rivelarsi direttamente a qualcuno piuttosto che a qualche altro e che, se pregato, possa esaudire i nostri desideri e perciò mutare il suo volere. « Custodisci sempre la tua anima, esorta il vicario sa-

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voiardo, in un tale stato da desiderare che vi sia un Dio ed allora tu non dubiterai mai di lui ». Questa religione, o meglio religiosità, dell’intimità della coscienza Religione e è perfettamente coerente con lo sviluppo argomentativo dell’Emilio, politica ma nel Contratto sociale, e quindi in una prospettiva diversa, Rous­ seau ne mostra i limiti, rivelando come essa distacchi l’uomo dalla vita sociale e dalle cose del mondo; al polo opposto stanno quelle religioni che instaurano un dualismo di poteri e di legislazione tra autorità religiosa e autorità politica, non meno pernicioso per la vita sociale. E perciò Rousseau parla di una professione di fede civile, di competenza dello stato nella misura in cui essa unifica culto divino e amore per la patria: di qui il diritto dello stato a bandire chi non accetta questo « credo civile » (non già come empio ma come « insocievole ») e a mandare a morte chi, dopo averlo ricono­ sciuto pubblicamente, si comporta come se non vi credesse. È una delle formulazioni più rigorose dell’intolleranza religiosa.

XIV

L'ILLUMINISMO IN ITALIA E IN GERMANIA 1. L ’Illuminismo italiano. L ’ambiente napoletano (p. 286) - 2. L’Illumini­ smo italiano. L ’ambiente milanese (p. 288) - 3. Wolff e l’Illuminismo tedesco (p. 290) - 4. Lessing (p. 296).

1 L ’influenza dello illuminismo francese

Caratteri peculiari dello illuminismo italiano

L'Illuminismo italiano. L'ambiente napoletano.

Abbiamo già visto (cfr. supra, p. 220 sg.) la graduale penetrazione, nella cultura italiana, di idee cartesiane, lockiane ed anche newtonia­ ne nella prima metà del secolo xvm (e qui basti aggiungere la menzione del celebre Newtonianismo per le dame, con cui Francesco A l g a r o t t i , 1712-1764, amico di Voltaire e di Federico II, volle divulgare le dottrine sulla luce e sui colori del grande scienziato inglese); nella seconda metà dello stesso secolo la diffusione delle idee illuministiche, mutuate soprattutto dalla cultura francese (e si rammenti il sog­ giorno di Condillac a Parma dal 1758 al 1767 e l’influsso che il suo pensiero ebbe nell’insegnamento impartito nel collegio Alberoni di Piacenza) si fa particolarmente intensa: vengono tradotte e fatte og­ getto di vive discussioni le opere di Rousseau, di Montesquieu di Voltaire e degli Enciclopedisti; tra il 1758 e il 1779 si ha una ri­ stampa e ima traduzione dell’Enciclopedia-, e il padre Francesco S o a v e (1743-1816), oltre a tradurre il Saggio di Locke, introduce nell’inse­ gnamento accademico (fu professore a Parma) il sensismo di Condillac, a cui è vicino anche Melchiorre G i o i a (1767-1828), educato nel collegio Alberoni, teorico e difensore della scienza della statistica. Questo movimento intellettuale si inserisce nel vasto processo di riforme giuridiche e politiche allora avviato in molti stati italiani: ciò spiega perché l’Illuminismo italiano si occupi in prevalenza di problemi politici, giuridici ed economici e perché la polemica antifeu­ dale e anticlericale, che abbiamo già visto presente in Pietro Giannone, (cfr. supra, p. 221) sia tra i suoi motivi più costanti. D ’altro lato l’Illuminismo italiano, come non ha un’originalità filosofica pari a

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quella dell’Illuminismo francese, così non ne eguaglia neppure il vigore polemico ed il radicalismo delle conseguenze. In tal senso esso ha una grande importanza nella storia della cultura, nella spiegazione della formazione e della continuità di certe tradizioni e di certi nessi storici, ma ha un’importanza minore nella storia della filosofìa in senso proprio, ad eccezione forse dell’opera di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene. I due centri più importanti dell’Illuminismo italiano sono Na- L ’IUuminis poli e Milano. A Napoli, espulsi i Gesuiti nel 1767 e avviato il 8 Napo11 processo di riforme nel periodo di reggenza durante la minore età di Ferdinando IV di Borbone, riprendono yigore gli studi scientifici, giuridici ed economici; anzi, in quella università veniva istituita nel 1754, per la prima volta in Europa, la cattedra di economia civile e a coprirla era chiamato uno studioso largamente influenzato da idee Genovesi illuministiche e lockiane, l’abate Antonio G e n o v e s i (1713-1769) autore, fra l’altro, di Lezioni di commercio, di Meditazioni filosofiche e di una Logica; polemico nei confronti dei metafisici (« i Don Chi­ sciotte della repubblica delle lettere ») e fautore di un empirismo che si rifà a Bacone e a Galilei, di un metodo di analisi delle idee che richiama quello di Locke e di un’etica fondata sui concetti di « inte­ resse » (cioè del desiderio di sfuggire il dolore) e di « piacere », che ricorda Helvétius; il che non esclude però che egli difenda la religione contro gli attacchi degli illuministi francesi e creda nell’esistenza di Dio, nel finalismo del mondo e nell’immortalità dell’anima. Questo contrasto spiega anche il fatto che egli, mentre giudica « vaga e incerta » la filosofia di Cartesio, sembra in qualche punto accettarne il dualismo di pensiero ed estensione. Certo è che l’interesse maggiore del Genovesi sta nelle sue teorie economiche, fondate sull’assunzione dell’agricoltura come base di tutta l’economia e sulla scelta di un moderato liberalismo nella produzione agricola e di un più rigido protezionismo nella produzione industriale. Allo stesso ambiente culturale, anche se poi trapiantato a Parigi Galiam dal 1759 al 1769 come segretario d’Ambasciata, appartiene un altro abate, Ferdinando G a l i a n i (1728-1787), che ottenne grande successo nei salotti intellettuali con il suo brio e il suo spirito. Critico delle dottrine dei fisiocrati nei Dialoghi sul commercio dei grani e del mercantilismo nel trattato Della moneta, il Galiani ha consegnato alle sue vivaci Lettere, scritte in francese, riflessioni filosofiche ricche

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di spunti polemici contro gli atei e i materialisti (sia palesi sia occulti) e tuttavia profondamente influenzate dalle idee dominanti nei circoli da lui frequentati. Filangieri Altro esponente caratteristico dell’Illuminismo napoletano è Gae­ tano F il a n g ie r i (1752-1788), autore di una Scienza della legislazione, rimasta interrotta. Sulle orme di Montesquieu, ma anche di Rousseau, egli si mostra convinto che ima legislazione razionale, oltre a giusti­ ficare le riforme in atto, può costituire la base di tutto il progresso umano, inteso come cammino verso la felicità e verso una retta mani­ festazione dell’« amor proprio ». Il feudalesimo, con i suoi privilegi, il frazionamento della sovranità (ed è interessante che questo fraziona­ mento Filangieri veda sopravvivere anche nella distinzione dei poteri propria della costituzione inglese e che quindi egli manifesti le sue simpatie per un regime come quello di Caterina di Russia) e la super­ stizione religiosa sono i principali ostacoli ad una legislazione che, pur tenendo conto delle diversità storiche e ambientali messe in luce da Montesquieu, sia non solo razionale, ma anche uniforme: e questa uniformità non si può certo ritrovare in una legislazione fatta durante un periodo di tempo di ventidue secoli, emanata da diversi legislatori, in diversi governi, a diverse nazioni e che è un miscuglio della civiltà romana e della barbarie longobarda. Coerentemente con queste premesse, Filangieri difende l’istruzione pubblica e combatte l’istruzione privata. Lo sforzo di conciliare l’idealizzazione della bontà dello stato di Pagano natura fatta da Rousseau con la dottrina vichiana dei « corsi e ricorsi storici », intesi tuttavia prevalentemente in senso naturalistico e quasi fatalistico, è il tema, infine, dei Saggi politici di Mario P ag an o (1748-1799), in cui già si può notare il declino dell’ideale del dispotismo illuminato in favore di forme più liberali di governo. 2 - L'Illuminismo italiano. L'ambiente milanese. Il secondo circolo importante dell’Illuminismo italiano si forma, come si è detto, a Milano, attorno all’Accademia dei Pugni (che già lì Caffi nel nome indica il suo programma di battaglia contro la conservazione e i privilegi), ed ebbe, tra il 1764 e il 1766, come organo di diffusione delle idee e di « illuminazione » delle menti (pur in un rigido ri­ spetto della legge e contro ogni sóvversione violenta degli ordinamenti,

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e anzi in posizione di appoggio alle riforme avviate dal governo di Maria Teresa), il periodico II Caffè, cui collaborarono attivamente i principali esponenti dellTlluminismo milanese e in primo luogo Ì fratelli Verri e il Beccaria, e in cui cominciarono ed esprimersi le prime voci in favore dell’unità e dell’indipendenza italiane. Mentre Alessandro V e r r i (1741-1816) fu prevalentemente un Alessandro letterato e uno storico' e si mosse ad una polemica contro il purismo Verri linguistico e formale della Crusca, in nome di un rinnovamento della lingua come strumento di battaglie civili, più sicura tempra di filosofo ebbe il fratello, Pietro V e r r i (1728-1797), autore di un Discorso Pietro Verri sull’indole del piacere e del dolore. Il piacere e il dolore, secondo la sua dottrina, non sono solo provocati dall’azione di agenti esterni, ma anche dalla speranza e dal timore del futuro. E poiché la speranza, in quanto probabilità di una vita migliore, nasce da uno stato di man­ canza di un bene, da un difetto, ne consegue, per un lato, che ogni piacere non è altro che una cessazione rapida di un dolore, e per altro che, complessivamente, il numero dei dolori supera quello dei piaceri. Anche i piaceri artistici, che solo coloro che sono tristi riescono a provare, non sono altro che cessazioni di dolori (i « dolori innomi­ nati » come Verri li indica). Senza il dolore, quindi non vi sarebbe speranza e senza speranza non vi sarebbe alcuna molla al progresso. Nel Discorso sulla felicità, poi, il Verri completava l’analisi mostrando che se è dannosa una vita in cui i desideri non hanno freno, la felicità è raggiungibile solo da chi, sapendo commisurare i desideri alle possibilità, è virtuoso e « illuminato ». Nelle Meditazioni sull’economia politica, infine, il Verri difende le tesi del liberismo economico nella forma più matura raggiunta dalla letteratura italiana sull’argomento nel Settecento. Ma l’opera più importante, oltre che per Ì meriti intrinseci anche Beccaria per la notorietà e il prestigio ottenuto in Italia e oltralpe, anzi l’unica che possa essere posta sullo stesso piano di quelle più rinomate di Francia e d’Inghilterra è il piccolo volume Dei delitti e delle pene, scritto da Cesare B e c c a r i a (1738-1794) su suggerimento di Pietro Verri; subito tradotto in francese nel 1766 e poi in altre lingue e lodato da Voltaire, Diderot e D ’Alembert, esso esprime le idee illuministiche sul diritto penale, facendo segnare a questa disciplina una tappa miliare. Se è vero che lo scopo della vita associata è la massima felicità 19 •

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divisa nel maggior numero e se è vero che la vita associata e lo stato nascono da un contratto e che le leggi esprimono le condizioni del contratto, valendosi anche delle pene da esse somministrate, allora due sono le conseguenze che devono essere tratte: la prima è che l’unica autorità veramente legittima va riconosciuta ai magistrati; e la seconda, più importante, è che — se i cittadini sottoscrivendo il contratto hanno rinunciato solo ad una minima parte dei loro diritti — le pene, se oltrepassano la necessità di salvaguardare il « deposito della salute 7 pubblica », sono ingiuste. Le pene vanno commisurate perciò al delitto ed hanno la funzione di impedire che il colpevole faccia ancora del male e per distogliere altri dal farne. Non solo, ma la pena può essere commisurata solo dopo che la colpa sia stata accertata con tutte le garanzie (pubblicità delle accuse, del processo, ecc.). Derivano da queste considerazioni due conseguenze importanti: l’illiceità della pena di morte, e l’illiceità della tortura. Il contratto che regge lo stato non dà ad alcuno il diritto di uccidere un suo simile, cosicché la pena di morte non è altro che una « guerra dichia­ rata da una nazione contro un solo cittadino ». Essa perciò non solo è sproporzionata rispetto alla colpa commessa (laddove anche il car­ cere può garantire dalla recidività), ma non raggiunge neppure lo scopo di dissuadere altri. Ed infine, la pena di morte non è, in sé, la massima pena, perché più che l’« intensità » conta l’« estensione » (cioè la durata) e la « certezza » della pena. Quanto alla tortura, poi, essa parte dall’assurdo presupposto che il dolore fisico sia « il crogiuolo » della verità; in realtà si rivela come il mezzo per mandare assolto il criminale robusto e per incriminare l’innocente debole. In conclusione, « perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi ». 3 - W oljf e l ’Illuminismo tedesco. L a cultura tedesca nella seconda metà del ’600 e agli inizi del ’ 700

Se si prescinde dalla grande figura di Leibniz, che per altro è più europea che tedesca in senso stretto, il periodo che va da Melantone, cioè dall’avvio della sistemazione dogmatica della riforma prote­ stante, a Wolff, con cui si suole far cominciare l’Illuminismo tede-

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sco, agli inizi del Settecento, è un periodo che non presenta grandi per­ sonalità speculative, ma che è tuttavia importante per molti rispetti: la cultura teologica e la filosofìa protestante creano un’impalcatura concettuale e sistematica, che costituisce una caratteristica della filo­ sofia tedesca e da cui (quando più sensibile sarà l’influsso dell’Illumi­ nismo inglese e francese) nascono sia l’esigenza di includere anche il sentimento in una precisa architettonica delle facoltà umane, sia la consapevolezza che la conoscenza sensibile è solo un aspetto della conoscenza in generale e che, anche in essa, si manifesta il carattere originario e a priori di altri elementi e facoltà intellettuali; d’altro lato, le esigenze più propriamente intime e personali della fede reli­ giosa sono rivendicate, proprio contro l’intellettualizzazione della dog­ matica ufficiale, dal cosiddetto « pietismo », un movimento religioso e morale che, fondato da Philip Jakob S p e n e r (1635-1705) e rapida­ mente diffusosi nell’Europa centro-settentrionale, esalta, al di sopra delle prescrizioni formali e delle dispute teologiche, il sentimento della coscienza individuale, la fede come attivo impegno nella società e un rigido ideale morale. Per completare il quadro storico, basterà solo fare un cenno ad alcune personalità più spiccate nella seconda metà del Seicento e agli inizi del Settecento, come Walter Von T s c h i r n h a u s (1651-1708), che, nella sua Medicina mentis, volle dare una metodologia generale della conoscenza scientifica conciliando motivi cartesiani e leibniziani: sull’esperienza interiore della nostra coscienza sono fondate le articolazioni essenziali della scienza e cioè i concetti di spirito, di volontà, di vero e di falso e di realtà esterna; e la filosofia si riduce sostanzial­ mente a matematica, perché enti matematici sono quegli oggetti razio­ nali che, insieme a quelli sensibili e a quelli naturali, formano il campo del nostro sapere. Fama europea ebbero anche Samuel P u f e n d o r f (1632-1694) e Christian T h o m a s ( T h o m a s i u s , 1655-1728), che furono importanti teorici del diritto naturale, fondato su esigenze incomprimibili dell’in­ dividuo, come quella alla socievolezza, nel primo, o come quelle ad una vita lunga e felice e alla proprietà, nel secondo. In particolare il Pufendorf cerca di conciliare la concezione del diritto come ragione (Grozio) e quella del diritto come utilità (Hobbes), facendo vedere come, già nella condizione di natura, si formino delle « società di eguali » anteriori allo stato e che anzi nello stato si unifichino me­

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diante un « patto d’unione » a cui segue un « patto di soggezione » che distingue i cittadini in sovrano e* sudditi. E la sovranità è indivi­ sibile e inalienabile. 7 In questo quadro culturale si innestano le dottrine scientifiche di Newton e la polemica tra newtoniani e leibniziani riceve importanti contributi dagli studi matematici dei fratelli Bernouilli e di Eulero Le influenze (cfr. supra, p. 238); si accentua, inoltre, l’influenza delle idee illumi­ illuministiche nistiche, dando luogo a due diversi indirizzi: da un lato, un indirizzo più accademico, e sistematico, rappresentato soprattutto da Wolff e dalla sua scuola, impegnato in una vasta sintesi della tradizione scolastica, della filosofia di Leibniz e delle idee illuministiche; dal­ l’altro un indirizzo rappresentato da personalità più libere e meno sistematiche, come Lessing e altri (che vedremo nel paragrafo suc­ cessivo), ma non per questo meno importanti per la formazione della cultura filosofica tedesca. Wolff Christian W o l f f (1679-1754) fu professore, grazie anche all’ap­ poggio di Leibniz, all’università di Halle; fu allontanato nel 1723 da Federico Guglielmo I di Prussia per le pressioni dei pietisti e dei luterani, fu ristabilito nella sua cattedra da Federico II nel 1740. Wolff scrisse moltissime opere, prima in tedesco (come la serie di Pensieri razionali sulle varie scienze) e poi in latino, fra cui principali la Logica, l’Ontologia, la Cosmologia la Psycbologica rationalis e la Theologia e la Philosophia practica universalis, veri modelli, anche nelle età successive, di manuali e di vocabolario filosofico. I titoli ricordati delle opere latine indicano le principali partizioni Il concetto di filosofia e le della filosofia, dedotte e giustificate rigorosamente dal concetto gene­ sue partizioni rale di questa scienza, cioè fondate mediante un metodo di analisi razionale (di qui appunto la denominazione di « metodo della fonda­ zione » e di « metodo della deduzione »). La filosofia è per Wolff la « scienza del possibile in quanto possi­ bile »: possibile in senso logico ed ontologico è sinonimo di ciò che non è contradditorio e quindi è « pensabile » in un oggetto; in termini leibniziani, la filosofia è la riduzione di tutte le verità di fatto a verità di ragione, del principio di ragion sufficiente a principio di identità. L a logica Propedeutica a tutto il sistema è la « logica », cioè la scienza del concetto ( notio), del giudizio ( iudicium) e del ragionamento (dis­ cursus), basata sul principio di non contraddizione e sulla deduzione

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sillogistica. Anche l’esperienza ha una sua funzione soprattutto nelle scienze naturali, pure se le sue proposizioni sono contingenti (pro­ babili) e non necessarie. La filosofia vera e propria si divide poi in « filosofia teorica » e « filosofia pratica », perché conoscere e volere sono le due forme fondamentali e irriducibili dell’attività umana. La prima sezione della filosofia teoretica è l’« ontologia », cioè la scienza dell’ente in quanto ente, delle determinazioni che apparten­ gono, assolutamente sotto determinate condizioni, a tutti gli enti; le proprietà di una cosa, che non le derivano da un’altra, costituiscono la sostanza della cosa stessa. Nella descrizione di queste determinazioni Wolff finisce per recuperare per intero la metafisica aristotelicoscolastica. All’ontologia tien dietro la « cosmologia », in cui la monadologia leibniziana è reinterpretata nel senso che le monadi (non più come in Leibniz attive sostanze spirituali, ma quasi forme atomiche), essendo tali che in esse il presente contiene le ragioni del seguente, si aggregano nel modo del tutto meccanico e quindi senza alcun bisogno di ricor­ rere all’ipotesi dell’armonia prestabilita; il mondo è paragonato ad un horologium automaton, che, proprio perché fatto da Dio, è impen­ sabile che Dio possa mutarlo: tutto è sottoposto ad un ordine neces­ sario (e non a quello finalistico del « meglio ») e il miracolo non ha luogo. Partendo da questo meccanicismo, si comprende perché Wolff, nella sua « teologia naturale » (o « razionale », in quanto contrapposta a quella « rivelata ») non dia alcun valore probativo all’argomento teologico, mentre conservi le altre prove dell’esistenza di Dio, ed in particolare quella cosmologica. Per il resto egli riprende le linee essenziali della teodicea leibniziana. E al motivo leibniziano dell’armonia prestabilita egli fa ricorso, nella « psicologia », solo per quanto concerne i rapporti tra anima e corpo, riponendo l’essenza dell’anima della forza rappresentativa (che si svolge gradualmente dalla sensazione alla ragione) e nella forza appetitiva. Più che addentrarsi in altri minuti particolari è opportuno notare che, come la conoscenza si distingue in due forme, « empirica » e « razionale », così si distinguono anche tutte le scienze: accanto alla cosmologia razionale, alla psicologia razionale, ecc., si collocano una cosmologia empirica, una psicologia empirica, e così via.

L a filosofia teoretica: la ontologia

L a cosmologi;

L a teologia

L a psicologia

Scienze razionali e scienze empiriche

29 4 L a filosofia pratica: intellettualismo etico

La scuola wolffiana: Knutzen

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Nella filosofia pratica, infine, domina il più rigoroso intellettua­ lismo, cioè la più decisa subordinazione della volontà ad un’idea del bene, concepita dalla ragione e che tale resterebbe anche se Dio non ci fosse (dal momento che il bene è tale per se stesso e non perché è voluto da Dio). L ’ideale morale è quello della perfezione, a cui tutto si commisura: anche il piacere e il dolore non sono altro che perce­ zioni di una perfezione o di una imperfezione, reali o presunte. In economia, Wolff ritiene necessario l’intervento statale e in politica manifesta le sue simpatie per un regime di dispotismo illuminato. Abbiamo già segnalato, nei punti principali i rapporti di Wolff con il pensiero scolastico e con quello di Leibniz; resta da aggiungere che il razionalismo e il meccanicismo, che hanno tanta parte nella sua sistemazione filosofica, denotano una chiara influenza illuministica. La filosofia di Wolff dominò largamente le Università e la cultura accademica tedesca, costituendo una componente essenziale nella for­ mazione filosofica di Kant. Tra i suoi principali discepoli basterà qui ricordare Martin K n u t z e n (1713-1751), che fu maestro di Kant e che nel suo Systema causarum efficentium propose, contro la dottrina leibniziana dell’armonia prestabilita, una dottrina dell’«influsso fisico» dei corpi, come più consono alla cosmologia wolffiana; e Alexander Gottfried B a u m g a r t e n (1714-1762), che, più vicino a Leibniz, pre­ ferì parlare di un « influsso ideale ». Ma l’aspetto più caratteristico del suo pensiero, espresso in una Metaphysica, che ebbe grande rino­ manza e fu attentamente studiata e postillata da Kant, è costituito dal tentativo di dare autonomia e intrinseca validità alla poesia: la « gno­ seologia » o dottrina della conoscenza si divide infatti in una « este­ tica », o dottrina della conoscenza sensibile (dal greco aisthesis = sen­ sazione) e in una « logica » o dottrina della conoscenza razionale. Secondo la prospettiva leibniziana, la conoscenza sensibile altro non è che conoscenza confusa e indistinta e, come tale, è il gradino infimo da cui si svolge l’opera di chiarificazione e di distinzione propria della ragione; tuttavia è possibile una conoscenza che sia « chiara » (che cioè individui l’oggetto nella sua totalità) senza essere però « distinta » (senza cioè che abbia distintamente presenti tutti gli elementi costi­ tuenti quella totalità) e tale conoscenza, pur essendo sempre una gnoseologia inferior, è tuttavia qualcosa di analogo alla ragione e di più della sensazione, così come l’aurora è qualcosa di intermedio tra l’oscurità della notte e la chiarezza del giorno. In altri termini, è quella

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« perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale », in cui con­ siste la bellezza degli oggetti, intuiti nella loro totalità, come « feno­ meni » e non pensati come oggetti della conoscenza razionale. La bellezza è il fine della conoscenza sensibile, di una universalità diversa da quella del pensiero, cittadina autonoma del regno della ragione (e Baumgarten parla infatti di concetti, giudizi e sillogismi estetici), e non schiava di una tirannide. Altrettanto interessanti sono anche le polemiche sollevate dagli avversari di Wolff, e in primo luogo da Andrea R udiger (1673-1731) e da Christian August Cr u siu s (1715-1775), circa la possibilità che il metodo della dedu­ zione e della fondazione possa veramente esaurire le determinazioni non solo logiche, ma anche reali degli oggetti: viene rivalutata l’autonomia della cono­ scenza sensibile e, di fronte alla capacità analitica del iudicium, la capacità sintetica dé l ’ingenium. Crusius altresì critica sia l’ottimismo leibniziano sia il determinismo wolffiano. Ma le • personalità filosofiche più interessanti, in questo ordine di idee, sono quelle del Lambert e del Tetens. Johann Heinrich L a m b e r t (1728-1777), fu, oltre che filosofo, grande matematico e astronomo ed ebbe una corrispondenza molto importante con Kant. Autore di un Nuovo Organon e di un Architet­

Le polemiche anti-wolffiaue Riidiger e Crusius

Lam bert

tonica e teoria degli elementi semplici e primitivi nella conoscenza filosofica e matematica, egli cerca di conciliare Wolff con Locke nel senso che, se la logica wolffiana ha valore in quanto consente di analizzare i concetti più com­ plessi nei loro elementi più semplici, d’altro lato la conoscenza di questi elementi, come « qualcosa di categoricamente reale », non può avvenire se non tramite l’esperienza sensibile (il che non vuol dire che essi siano em­ pirici). Partendo da questi concetti semplici (solidità, esistenza, durata, forza ecc.) e combinandoli secondo determinati principi e postulati, né più né meno di come fa la geometria, sarà possibile costituire un completo sistema di relazioni e quindi di scienze. Solo la conoscenza sensibile consente dunque di distinguere il reale dal­ l’irreale e senza questa distinzione la verità della logica non sarebbe che un vuoto sogno, anzi neppure un sogno ma addirittura un puro nulla se non vi fosse, anche, un eterno suppositum intelligens: la garanzia ultima è dunque in Dio. Anche Johann Nicolaus T etens (1736-1807), autore di una Ricerca filo­ Tetens sofica sulla natura umana e il suo sviluppo, fa appello all’empirismo psicolo­ gico che era stato introdotto dai « nuovi ricercatori » (Locke, Hume, Condillac), ma nella sua psicologia avverte come l’empirismo da solo non sia sufficiente a spiegare completamente l’attività dell’anima: le rappresentazioni originarie dell’anima (quelle su cui avevano insistito le indagini degli empiristi) sono solo la « materia » del conoscere, su cui si esercitano le capacità attive (di scelta, di separazione, di unione, ecc.) delTanima: bisogna dunque ammettere dei « modi di pensare », soggettivamente necessari, e perciò a priori, con

296

IL L U M IN IS M O

E

C R IT IC IS M O

cui spiegare i « pensieri universali » che, se anche occasionati dall’esperienza, hanno una validità che oltrepassa l’esperienza e pertanto non possono es­ sere spiegati con i concetti e i procedimenti empirici dell’associazionismo psi­ cologico. Questa capacità attiva e creativa è particolarmente evidente nella poesia, fondata sul sentimento, cui Tetens dà un posto autonomo fra le fa­ coltà dell’anima, accanto al pensiero e alla volontà.

4 - Lessing. L a « filosofia popolare »

L a critica religiosa: Reimarus

Mendelssohn

La cultura, per così dire, accademica, che abbiamo esami­ nato nel precedente paragrafo, non esaurisce il quadro dell’Illumini­ smo tedesco: vi rientrano infatti anche i cosiddetti « filosofi popolari », personalità più libere e indipendenti, che agitano i temi più vivi della cultura contemporanea europea e in particolare la problematica relativa al « sentimento » e ai rapporti tra sentimento e poesia (e in questo senso ebbe particolare importanza la cosiddetta « scuola svizzera », fondata da Johann Georg S u l z e r , 1720-1779, che rivendicò l’auto­ nomia del gusto, come sentimento del bello, e del suo giudizio da quello intellettuale e da quello morale) e la problematica relativa alla religione. Si diffondono, le idee del deismo e, più in generale, la convinzione che la religione debba essere commisurata alle esigenze della ragione. E se per alcuni l’accordo tra ragione e religione positiva è sicuramente raggiungibile, da altri, invece, anche per l’influsso del riscoperto Spinoza, è sottolineato il loro insanabile dissidio: tipico esponente di questo secondo indirizzo è Hermann Samuel R e i m a r u s (16941768), che riprende e sviluppa tutti i temi della più radicale critica testamentaria e respinge non solo la tradizione, ma il concetto stesso di rivelazione: l’unica forma di religione ammissibile è quella naturale. Diverso è invece l’atteggiamento di un altro esponente di questo filone culturale, Moses M endelssohn (1729-1786): assertore con­ vinto, nell’Aurora, della possibilità di dimostrare per vie puramente razionali l’esistenza di Dio, e, nel Fedone (libero rifacimento dell’omo­ nimo dialogo platonico), dell’immortalità dell’anima. Avversario te­ nace dello spinozismo, tanto da non voler mai riconoscere che il suo amico Lessing da lui stesso iniziato alla filosofia, avesse potuto acco­ glierne alcune idee, Mendelssohn identifica, nella Gerusalemme o sul potere religioso e sul giudaismo, la religione naturale con la religione

L ’ILLU M IN ISM O IN ITALIA E IN GERMANIA

297

ebraica, in quanto aliena ad ogni forma di costrizione, di diritto eccle­ siastico e di rivelazione e tutta rivolta a dare solo norme pratiche di condotta. In nome dei principi della libertà di coscienza e della netta separazione tra religione e potere politico, Mendelssohn rifiuta anche l’ideale leibniziano di una unificazione religiosa. Considerazioni interessanti egli svolge anche in campo estetico, nel suo scritto Sulle sensazioni: egli accetta la definizione dell’arte già data da Baumgarten, ma si preoccupa di distinguere, in base alla loro diversa finalità, la perfezione sensibile da quella intellettuale; separa la perfezione dalla sua espressione, e quindi il contenuto dalla sua forma e, infine, analizzando la distinzione tra bello artistico e bello naturale perviene alla distinzione tra « bello » e « sublime », che vedremo sviluppata in Kant. Ma la figura più rilevante di questo illuminismo religioso è quella di Gotthold Ephraim L e s s i n g (1729-1781). Autore di drammi e teo­ rico dell’arte, egli si sentì particolarmente impegnato nella problematica religiosa, sensibile soprattutto negli ultimi anni, all’esigenza spinoziana dell’« uno-tutto », cioè dell’identità di Dio e del mondo, e tuttavia del senso leibniziano dell’individualità. Nel Cristianesimo della ragione e nella Religione di Cristo, egli sostiene che la migliore religione rivelata è quella che meno aggiunge alla religione naturale: sulla base di quest’ultima, è necessario rite­ nere ben distinta la « religione di Cristo », che è quella da lui predi­ cata e praticata, dalla « religione Cristiana », che nasce dalla divinizza­ zione di Cristo e dall’adorazione del Figlio di Dio. In conseguenza la religione evangelica va seguita perché vera e non perché tramandata in libri sacri: il valore della scrittura deriva dall’intimità dell’espe­ rienza religiosa e non viceversa. Il motivo più profondo della filosofia di Lessing, tuttavia, sta nell’accento che egli pone, anche sorpassando i limiti della mentalità illuministica, sull’esigenza di una continua e indefinita perfettibilità dell’uomo e del genere umano, piuttosto che su un ideale di perfezione e di verità, fissato e posseduto una volta per tutte: « se Dio — dice Lessing — tenesse nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra il solo tendere alla verità con la condizione di errare eternamente smarrito e mi dicesse: Scegli — io mi precipiterei con umiltà alla sua sinistra e direi: Padre, ho scelto; la pura verità è soltanto per te ».

Leasing

Rivelazione

II possesso alla verità

298 Religione e storia: la rivelazione come educazione del genere umano

Estetica

ILLU M IN ISM O E CRITICISM O

Partendo appunto da questo ideale Lessing, nel suo capolavoro, L ’educazione del genere umano, ribadisce che a fondamento delle religioni rivelate esistono sempre delle verità di fatto, delle circostanze, cioè, legate a determinate condizioni di tempo e di spazio, che, per il loro valore di « notizie » storicamente circoscritte, non possono pretendere di sostenere e giustificare delle verità eterne. Orbene quello che per il singolo è l’educazione per l’umanità è la rivelazione, cioè la comunicazione rapida di verità che la ragione non avrebbe ancora potuto raggiungere da sola ma che non devono essere tali da con­ trastare con la ragione stessa. In questo senso la rivelazione è l’educa­ zione del genere umano, ma proprio per ciò come rivelazione non si esaurisce in una sola tra le varie religioni positive, poiché ciascuna di esse è come un momento o un gradino di un processo continuo, che va considerato nel suo insieme e che è costruito dai contributi di tutte. Di qui un senso profondo dello sviluppo storico e un atteggiamento antitetico a quello delPIlluminismo, che nella storia (e soprattutto nella storia religiosa) vede un disperso susseguirsi di errori e di arbi­ trarie superstizioni. La meta di questo « ordine progressivo » è la risoluzione di tutte le religioni positive in una religione naturale o razionale e quindi l’acquisto da parte dell’uomo della vera moralità che consiste nel fare il bene per il bene. In campo estetico il Lessing (nel Laocoonte) teorizza una distin­ zione tra poesia, come rappresentazione di azioni (cioè di successioni temporali), e pittura come, rappresentazione di corpi (cioè di coesi­ stenze nello spazio), accogliendo per il resto largamente la dottrina aristotelica dell’arte come imitazione (specialmente nella Dramma­ turgia Amburghese).

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XV

IM M ANUEL KANT 1. La vita e gli scritti (p. 299) - 2. La filosofia del periodo « precritico » (p. 302) - 3. Il problema critico della conoscenza nella Critica della ragion pura (p. 3 0 5 ) 4 . L ’« estetica » e l’« analitica » trascendentali (p. 309) - 5. La « dia­ lettica » trascendentale (p. 318) - 6. La storia, la natura e la morale. La Critica della ragion pratica (p. 322) - 7. Il giudizio teleologico e la Critica del giudizio (p. 330) - 8. La religione, il diritto, la politica e la pedagogia (p. 335).

1

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La vita e gli scritti.

Tutte le varie tendenze della filosofia del Seicento e del Settecen­ to che abbiamo esposto nei capitoli precedenti trovano la loro conclu­ sione sintetica nella « filosofia critica » di Kant; razionalismo, empiri­ smo, scetticismo, sentimentalismo, filosofia della scienza e filosofia del­ la religione diventano elementi costitutivi di una nuova dottrina della ragione, in cui la ragione stessa giudica, nel suo proprio tribunale, della legittimità delle sue pretese. In questo senso la filosofia di Kant è il punto d’arrivo del pensiero illuministico: « Illuminismo — dice Kant, nello scritto intitolato appunto Risposta alla domanda-, cos’è l’illuminismo?, del 1784 — è l’uscita dell’uomo dalla sua colpe­ vole minorità. Minorità è l’impotenza di servirsi della propria ragione senza la guida di un altro. Ed essa è colpevole, quando la sua causa non sta nella deficienza della capacità intellettuale, ma nella mancanza della decisione e del coraggio di servirsene senza la guida di un altro. Sapere aude: abbi il coraggio di servirti della ragione; questo è il motto dell’Illuminismo ». Nello stesso tempo, proprio in quanto sintesi della filosofia pre­ cedente, la filosofia di Kant ne oltrepassa largamente i limiti, gettando le premesse — per molteplici aspetti — dello sviluppo successivo della filosofia. Nato a Konigsberg (nella Prussia orientale) da famiglia di lontana origine scozzese il 22 aprile del 1724, Immanuel K a n t entrò ad otto anni nel Collegium Fridericianum, il cui direttore Albert Schultz,

K ant e m iliim in ÌB T n r

Gli studi e g scritti del periodo < precritico >

3U U

Gli scritti del periodo

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oltre ad essere amico di famiglia, era anche uno degli esponenti più in vista del pietismo. E dell’educazione pietistica, che lasciò in lui tracce profonde, Kant serbò sempre grato ricordo. Dal 1740 studiò filosofìa nell’Università di Kònigsberg, dove ebbe per maestro il già ricordato (cfr. supra, p. 294) Knutzen, che lo istruì nella filosofia wolffiana e nella scienza newtoniana. Nel 1746 presentò al decano della facoltà il suo primo scritto Pensieri sulla vera estimazione delle forze vive e quindi lasciò per alcuni anni la sua città, pur restando sempre nella Prussia orientale, per fare l’istitutore presso varie famiglie. Tornato a Kònigsberg (per non più lasciarla) nel 1755, pubblicò altri due scritti, De igne e Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidano ; con quest’ultimo ottenne l’abilitazione e comin­ ciò i suoi corsi liberi all’Università che durarono fino al 1770, anno in cui fu chiamato ad occupare, come professore, la cattedra di logica e metafisica. Gli scritti composti in questi quindici anni, oltre ai precedenti, sogliono essere indicati come « precritici », anteriori cioè alla formulazione del « criticismo », cioè della dottrina della « critica della ragione » che è il frutto maturo e di gran lunga più importante del suo pensiero. Tra essi, che segnano il graduale passag­ gio dall’originario dommatismo wolffiano ad una sempre maggiore sensibilità per i problemi dell’empirismo, ricorderemo i principali e cioè: La Storia universale della natura e teoria del cielo, del 1755; la Monadologia fisica, del 1756; la Falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche del 1762; la Ricerca per introdurre il concetto delle grandezze negative nella scienza, del 1763; l'Unico argomento pos­ sibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, del 1763; la Ri­ cerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della mo­ rale, del 1764; e i Sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, del 1766. Nel 1770, all’inizio della sua attività di professore ordinario dell’università, Kant pubblicava la dissertazione De mundi sensibihs atque intelligibilis forma et principus, che segna il passaggio dal periodo precritico al criticismo. Segue un periodo di intensa atti­ vità accademica e di ancora più intenso lavoro intellettuale, in cui Kant viene maturando il contenuto di quella Critica della ragion pura, che è il primo dei suoi capolavori, scritto poi quasi di getto e pubbli­ cato nel 1781. La recensione dell’opera in un periodico tedesco offrì a Kant

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l’occasione di dare una esposizione, diversa nella forma, del suo pensiero con i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenti come scienza (1783). Nello stesso tempo egli dette mano ad una nuova edizione, con notevoli modifiche, della Critica della ragion pura che vide la luce nel 1787, seguita nel 1788, dalla Critica della ragion pratica e nel 1790 dalla Critica del giudizio. Durante e dopo la composizione della grande trilogia si dispongono gli altri scritti, tra i quali sono da ricordare la Fondazione della metafisica dei costumi (1785), i Fondamenti metafisici della scienza della na­ tura (1786), la Religione nei limiti della ragione (1793), Per la pace perpetua (1795), che contiene le sue idee politiche, la Meta­ fisica dei costumi (1797), VAntropologia (1798). A questa vastissima attività di studio non corrispondono avve­ nimenti biografici esteriori degni di rilievo: scandita su un costante programma (lezioni al mattino, studio, passeggiata pomeridiana) la giornata di Kant trascorreva con meticolosa e metodica regolarità, al punto che, si diceva, i suoi concittadini regolavano i loro orologi sulla sua passeggiata; solo una volta, Kant uscì anzi tempo, per andare incontro al corriere dal quale attendeva notizie sulla rivoluzione fran­ cese. Per non modificare le sue abitudini Kant non volle né farsi una famiglia né accettare una cattedra in Università più importanti. E tuttavia sarebbe errato identificare il carattere di Kant soltanto con la sua pedanteria. Non è pedante un uomo di cui Herder, che fu suo discepolo poteva scrivere: « Io ho avuto la fortuna di cono­ scere un filosofo, che era mio maestro. Nella sua piena virilità, egli aveva la vivacità di un giovane, e credo che ancora l’accompagni nella sua tarda vecchiaia. La sua fronte ampia, costruita per il pensiero, era la sede d’indistruttibile serenità e di gioia; il discorso più ricco di pensiero fluiva dalle sue labbra; scherzo, spirito, arguzia erano a suo comando, e la sua istruttiva conversazione era il trattenimento più piacevole... nessuna cosa degna di essere conosciuta gli era indif­ ferente... Egli eccitava e dolcemente forzava a pensar da sé; il di­ spotismo era estraneo alla sua natura ». L ’unico avvenimento degno di nota fu il conflitto con l’auto­ rità censoria nel 1794, sotto Federico Guglielmo II, in occasione della pubblicazione della Religione nei limiti della ragione. Kant non volle ritrattare ma neppure disubbidire e preferì promettere di astenersi dal trattare temi religiosi. Solo nel 1798, morto l’anno

Il carattere e la personalità di K an t

3U2

Gli ultimi anni e gli ultimi scrìtti

ILLU M IN ISM O E CRITICISM O

precedente Federico Guglielmo II, Kant tornò a sostenere pubblica­ mente le sue tesi con lo scritto intitolato Conflitto delle facoltà. Afflitto negli ultimi anni da una profonda decadenza senile, per­ dendo progressivamente la vista, la memoria e la parola, Kant morì il 12 febbraio 1804. I suoi discepoli, che già avevano cominciato a pubblicare le sue lezioni (Logica, nel 1800; Geografia fisica, nel 1802; Pedagogia, nel 1803), pubblicarono, le Lezioni sulla dot­ trina della religione, le Lezioni sulla Metafisica, le Riflessioni sulla filosofia critica, le Lettere e infine l’Opus postumum, comprendente lo scritto incompiuto dal titolo Passaggio dalla metafisica alla fisica e le annotazioni marginali alla Metafisica di Baumgarten, da Kant adoperata come manuale per le sue lezioni universitarie.

2 - La filosofia del periodo « precritico ».

I problemi scientifici e filosofici negli scrìtti tra il 1746 e il 1756: l’influenza di Leibniz e Newton

Nel periodo precritico dell’attività filosofica di Kant si può constatare una notevole differenza tra gli scritti che vanno dal 1746 al 1756 e quelli che vanno dal 1762 al 1770: nei primi l’in­ teresse prevalente è per i problemi filosofici della tradizione leibniz- ' wolffiana e per quelli scientifici della fisica newtoniana; nella seconda il pensiero è più decisamente orientato verso i problemi gnoseologici e morali, si fa sentire l’influsso dell’empirismo e di Rousseau e si ma­ nifestano i primi motivi di critica nei confronti della metafisica. I contributi scientifici di Kant sono stati variamente valutati; certo è che nella Storia universale della natura e teoria del cielo egli enunciò una celebre ipotesi cosmogonica (che del resto ha il suo precedente in Buffon), che pone in origine una nebulosa, i cui residui sono ora la via lattea, e dalla quale, per una progressiva accentuazione del moto vorticoso, prodotto dal coagularsi di elementi diversi tra loro, si sono formati il sistema solare e tutti gli altri infiniti sistemi astrali simili al nostro. La spiegazione puramente meccanica elaborata da Kant (e che poi sarà ripresa da Laplace) non solo però non è estensibile alla vita organica, dominata da una legge di finalità, ma non esclude neppure, anzi richiede la causalità divina: lo « stato ori­ ginario » del sistema solare non è la « causa » di esso. Senza entrare nei dettagli dei problemi scientifici trattati da Kant, tutti gli scritti anteriori al 1756 riflettono l’esigenza, per

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così dire, di conciliare Leibniz e Newton, come è possibile consta­ tare da ciò che concerne tanto il problema delle « forze vive » quanto quello dei « principi della conoscenza metafisica » (leibniziani per quanto riguarda il principio di ragion sufficiente o « determinante », come Kant lo chiama, sulle orme di Crusius). Questo è chiaro, infine, anche rispetto alle oscillazioni che Kant manifesta a proposito del concetto di spazio: da un lato infatti sta la concezione newtoniana di uno spazio assoluto e dall’altro quella leibniziana di uno spazio relativo all’attività della monade (che tuttavia Kant, nella Mona­ dologia fisica interpreta come corpo semplice occupante una quantità minima di spazio). Negli scritti posteriori comincia quello che Kant stesso ha chia­ L ’influsso mato il suo « risveglio dal sonno dogmatico », cioè l’abbandono del edell’empirism di H um e; razionalismo metafisico wolffiano e l’accettazione del punto di vista gli scritti del tra i humiano, per cui l’uso della ragione non deve sorpassare i limiti periodo 1756 e il 17; di un’esperienza possibile. La ricerca sull’intelletto umano di Hume era stata tradotta in tedesco nel 1756, e a Hume Kant stesso rico­ noscerà in seguito il merito di averlo, appunto, risvegliato dal sonno dogmatico. Certamente l’importanza dell’influsso di Hume fu assai notevole; esso però si esercitò su un Kant che già per suo conto era venuto maturando alcuni motivi di crisi nella sua adesione alla metafisica. Come vari documenti consentono di provare la convin­ zione che la ragione umana si trovi impigliata inevitabilmente in antinomie e in contraddizioni ineliminabili non appena affronta problemi metafisici, la cui soluzione è pertanto un’illusione, agì al­ trettanto profondamente sul graduale mutamento di indirizzo del pensiero kantiano. Nello scritto sulle figure sillogistiche Kant non solo considera Il dualismo c e realt valida solo la prima, a cui tutte le altre si riducono, ma identifica logica e le prove i giudizi logici (fondati sul principio d’identità) con i meri giudizi dell’esistenza analitici, incapaci di accrescere i contenuti del nostro sapere. Si fissava di Dio così un dualismo tra logica (formale) e conoscenza della realtà che è assai importante, perché rendeva inapplicabili la vecchia logica ana­ litica (aristotelica) alle connessioni reali e poneva così l’esigenza di una nuova logica. Tale dualismo è ribadito anche nello scritto sulle grandezze negative (che sono, in logica, pura « mancanza », e quindi contraddittorie con quelle positive, e che invece, nella realtà, sono soltanto uria « sottrazione », e quindi compossibili con quelle

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M atematica e filosofia

L a critica della metafisica

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positive) e nello scritto sulle prove dell’esistenza di Dio: in questo scritto Kant confuta l’argomento ontologico (cartesiano: cfr. supra, p. 137) col far vedere che In esisten za» non è un predicato implicato nel concetto di una cosa, ma la « posizione assoluta » della cosa e quindi neppure in Dio è deducibile dalla sua essenza. Egualmente Kant ritiene non probativi l’argomento cosmologico e quello teologico, perché è troppo ampio e non sufficientemente provato il passaggio dalla natura a qualcosa che la trascende, che con questi argomenti si presuppone di poter fare; l’unico argomento possibile è, se mai, quello a contingentia mundi, che Kant pre­ senta come l’inverso di quello ontologico, nel senso che neppure il possibile sarebbe tale se nulla esistesse; ma ciò, la cui soppressione o negazione distrugge ogni possibilità, è assolutamente necessario: vi è dunque un essere necessario, cioè Dio. Anche nella Ricerca sui principi della teologia naturale e della morale torna una impostazione simile, ma arricchita dalla constata­ zione di una differenza fondamentale tra la matematica e la filosofìa: il metodo della prima è infatti sintetico, costruisce cioè i suoi con­ cetti e le sue definizioni e da questi procede; il metodo della seconda è invece analitico, parte cioè dal dato e lo analizza fino ad arrivare alle definizioni: il metodo della filosofia deve essere lo stesso che Newton ha adoperato per la scienza della natura. Del tutto indipendente dalla conoscenza, ma riposta nel « senso morale » (e Kant cita a questo proposito Hutcheson), è la vita morale e il concetto del bene. La critica della metafisica di Wolff e di Crusius raggiunge il suo punto di maggior evidenza, non senza una sottile e arguta sa­ tira, nello scritto sui sogni di un visionario (cioè dello Swedemborg autore di otto volumi di Arcana coelestia): il sogno si differenzia dalla veglia perché, come diceva Aristotele, nel primo ognuno vive un suo mondo particolare e incomunicabile, mentre nel secondo tutti vivono in un mondo pubblico e comune; ciò significa che, quando diversi uomini hanno ciascuno il proprio mondo (come è appunto il caso dei metafisici), essi sognano. Di qui la valutazione della meta­ fisica come un « abisso senza fondo », come un oceano tenebroso e inesplorato: appare così, in Kant, il primo barlume di una scienza dei limiti della ragione che abbia nell’esperienza il suo fondamento e il suo criterio e, nello stesso tempo, la convinzione che l’unico « com-

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mercio degli spiriti » possibile non è quello fantastico degli spiri­ tisti, ma quello morale; il sentimento morale è come la forza di gra­ vitazione degli spiriti, ma su un piano più alto di quello della gra­ vitazione naturale, perché non ha nulla di necessario, ma deriva da una libera scelta. Accanto all’influsso di Hume è qui sensibile anche quello di Rousseau. Questi punti sono già un avviamento significativo al criticismo, ma il passo decisivo Kant lo compie nel 1769, l’anno in cui gli si fece « una gran luce » e concepì la Dissertazione che fu pubblicata l’anno successivo. La distinzione tra « sensibilità » (fondata sulla re­ cettività del soggetto e che ha come suo oggetto i « fenomeni », cioè le cose non come sono in se stesse, ma come appaiono al soggetto) e « intelletto » (che è una facoltà con cui il soggetto si rappresenta gli oggetti che il senso non può cogliere e che quindi sono designa­ bili come « noumeni »); l’« idealità » dello spazio e del tempo, con­ cepiti cioè non come realtà oggettive ma come intuizioni pure pro­ prie del soggetto e con le quali il soggetto ordina le sensazioni che riceve dal mondo esterno; la distinzione tra una « forma » e una « materia » del conoscere: sono questi i risultati fondamentali rag­ giunti, che vedremo più compiutamente sviluppati nella Critica della ragion pura. Ma ciò che nella Dissertazione ancora manca, pur se in qualche misura è presentita (per es., nella negazione di una intuizione intellettuale nell’uomo, analoga, per i noumeni, all’intuizione sensibile per i fenomeni) è la distinzione, con tutte le sue conseguenze, soprattutto in campo metafisico, tra un uso legittimo e un uso illegittimo della ragione, tra « intelletto » e « ra­ gione »: distinzione che invece è fondamentale nella Critica.

3 - 1 1 problema crìtico della conoscenza nella ragion pura

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L a Dissertatio e l’avvio delli filosofia critici

Critica della

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La dottrina critica della conoscenza è esposta compiutamente da Kant nella Critica della ragion pura e nei Prolegomeni: si tratta di due esposizioni di una stessa materia, condotte però da due diversi punti di vista, oltre che assai diseguali in estensione. Nei paragrafi che seguiranno sarà tenuta presente prevalentemente la linea argo­ mentativa della Critica, perché quella diversa dei Prolegomeni non è ■ ?fl -

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L e due esposizioni della « dottrina critica »

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L a « critica della ragion pura »

Empirismo e razionalismo

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stata suggerita da ragioni scientifiche, ma di chiarezza, e cioè dalla preoccupazione di evitare i fraintendimenti cui aveva dato luogo la prima edizione dell’altra opera. Lo stesso scopo, del resto, e l’in­ tento di evitare ogni possibile confusione del suo pensiero con l’idealismo soggettivo di Berkeley ò con lo psicologismo di Tetens indussero Kant ad introdurre varianti di una certa importanza nella seconda edizione della Critica. Cosa vuol dire « critica della ragion pura » ? « Critica » è l’esame che il tribunale della ragione istituisce, nella sua autonomia asso­ luta, per giudicare dei limiti della ragione stessa e per giustificarne i poteri e le pretese nel campo della conoscenza. « Ragione » è, in senso lato, la nostra facoltà di conoscere in generale; Kant però, nel­ l’uso di questo termine, elabora altri due significati che è bene esporre subito per motivi di chiarezza: per un verso infatti chiama « ragione » la facoltà spontanea di conoscere, contrapposta perciò alla « sensibilità » che è recettiva e passiva; per altro verso, limita ancora di più l’estensione del termine ragione ad una terza facoltà che si colloca dopo le prime due, la « sensibilità » e P« intelletto ». È evidente che, per l’aspetto preliminare che qui ci interessa, si deve intendere « ragione » nel primo dei tre significati sopra espo­ sti: la critica della ragione è quindi la critica della nostra facoltà di conoscere in generale. « Pura », infine, vuol dire che ad essa non è mescolato nulla di empirico: « sotto il nome di conoscenze a priori, scrive Kant, s’intendono quelle che sono indipendenti non da questa o da quella, ma da ogni esperienza. Ad esse si oppongono quelle a posteriori, che sono possibili solo per mezzo dell’esperienza. Delle conoscenze a priori diciamo pure quelle a cui non è misto nulla di empirico ». Per intendere con precisione questa definizione della « critica della ragion pura » bisogna tenere presente il cammino precedentemente percorso da Kant dall’iniziale dogmatismo metafisico e razionalismo deduttivo verso una sempre più larga accettazione del punto essenziale dell’empirismo, e cioè che nessuna conoscenza « precede » l’esperienza. Tuttavia l’empirismo, con Hume, aveva concluso con lo scet­ ticismo, dal momento che l’esperienza ci dice solo che qualcosa accade e che finora è accaduta in un certo modo, ma non perché accade e che sempre accade nello stesso modo: in altri termini, poiché il legame posto tra le rappresentazioni non ha (secondo Hume)

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alcun fondamento oggettivo ma è spiegato come un’abitudine sogget­ tiva e un’associazione di idee, l’esperienza è incapace di produrre quelle conoscenze « universali e necessarie », cioè oggettive, che sole, secondo Kant, possono appartenere alla scienza. Per contro, il razionalismo, pur deducendo con rigore le conseguenze dalle sue premesse, ha chiaramente dimostrato di non essere stato capace, almeno fino al momento in cui Kant scrive, di costruire una scienza indipendente dall’esperienza, universale e necessaria, cioè una me­ tafisica. Kant traduce sul piano logico l’opposizione tra empirismo e Giudizi e razionalismo in una opposizione di tipi di giudizi: i giudizi dell’em­ analitici giudizi pirismo sono « sintetici », nel senso che il predicato non è contenuto sintetici nel soggetto ma vi aggiunge qualcosa di nuovo che è desunto, a po­ steriori, dall’esperienza: dire « alcuni corpi sono pesanti » significa pronunciare un giudizio sintetico perché il predicato di pesantezza non è contenuto in quello di corpo in generale. I giudizi dell’empi­ rismo sono « giudizi sintetici a posteriori ». I giudizi del razionalismo sono invece « analitici », nel senso che il predicato è già implicito e con­ tenuto nel soggetto; in tal modo il passaggio dal soggetto al predicato può avvenire senza uscire dal concetto stesso del soggetto, ma per via analitica (senza cioè far ricorso all’esperienza) e a priori, fondan­ dosi solo sul principio di identità: dire « tutti Ì corpi sono estesi » significa pronunciare un giudizio analitico perché il concetto di estensione è implicito in quello di corpo. I giudizi del razionalismo sono perciò « giudizi analitici a priori ». Posta in questi termini la loro alternativa, Kant può allora mo­ Il problema della strare la ragione per cui né l’empirismo né il razionalismo (e i loro critico conoscenza tipi di giudizi) sono adeguati a fornire le condizioni di una scienza universale e oggettiva. Queste condizioni sono, da un lato, la possibilità di arric­ necessaria, ciò oggettiva: chire e di estendere sempre più i propri contenuti e, dall’altro, di i « giudizi comprenderli in proposizioni oggettive, cioè universali e necessarie. sintetici a priori » In altri termini le condizioni della scienza sono la « sinteticità » e l’« apriorità » e la scienza sarà possibile solo se saranno possibili « giudizi sintetici a priori », cioè giudizi che traggano i loro sempre nuovi contenuti dall’esperienza e che poi questi contenuti, questa « materia » del conoscere, ordinino secondo « forme » a priori, appar­ tenenti necessariamente al soggetto conoscente, che non derivano dal­ l’esperienza e sono pertanto capaci di universalità e necessità, e che

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L a p o ssib ilità d e i g iu d iz i s in t e t ic i a priori: l a m a te m a tic a , l a f is ic a e l a m e t a f is ic a

ILLU M IN ISM O E CRITICISM O

tuttavia solo nell’esperienza possono trovare la loro funzione e appli­ cazione. La possibilità che nel soggetto si diano « forme » a priori non deve, d’altronde, far credere che rimetta in discussione il principio che nessuna conoscenza « precede » l’esperienza: le forme non sono conoscenze, assimilabili in qualche modo alle idee innate di Cartesio, e tanto meno alle idee platoniche, ma funzioni e atti del soggetto; non sono ciò che noi conosciamo, ma ciò per cui conosciamo, grazie alle quali, cioè, noi ordiniamo la « materia » del nostro conoscere, che riceviamo soltanto dall’esperienza. Con ciò Kant contesta la validità di quella necessità soltanto soggettiva nella connessione dei fenomeni che è data dall’« abitudine » di cui aveva parlato Hume e ad essa contrappone la necessità oggettiva dei giudizi a priori che concernono i fenomeni, cioè gli oggetti dell’esperienza. Analizzare « come sono possibili i giudizi sintetici a priori » è quindi il compito fondamentale della « critica »; ed è un’« analisi trascendentale », nel senso che nell’esperienza stessa, e non fuori di essa, deve individuare gli elementi del nostro conoscere che non sono empirici ma a priori: « trascendentale » .assume in tal modo un signi­ ficato diverso non solo da « empirico » ma anche da « trascendente »: empirico è ciò che deriva dall’esperienza; trascendente è ciò che oltre­ passa l’esperienza e, come le idee platoniche, è da essa separato; trascendentale è invece ciò che pur non avendo un’origine empirica, ha valore solo « nei limiti dell’esperienza ». L ’insistenza con cui Kant ribadisce il carattere trascendentale di questa analisi trova ragione nella sua preoccupazione di distinguerla chiaramente da quella « psicologi­ ca » (e perciò empirica) di Tetens, con cui pure fu da qualcuno confusa. Riandando per un momento alla tripartizione prima vista del significato di « ragione », « critica della ragion pura » significa, in conclusione, analisi trascendentale degli « elementi a priori » della conoscenza (dottrina degli elementi) e del loro « uso » possibile (dottrina del metodo) sia in ordine alle conoscenze sensibili, sia in ordine alle conoscenze intellettuali, sia in ordine alle conoscenze ra­ zionali. E poiché sulla sensibilità è fondata la matematica, sull’intel­ letto la fisica e sulla ragione la metafisica, domandarsi « come sono possibili i giudizi sintetici a priori » significa domandarsi « come è possibile una matematica pura », « come è possibile una fisica pura » e « come è possibile una metafisica pura ».

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K A N T

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Tuttavia, avverte Kant nei Prolegomeni, le prime due domande hanno un senso diverso dalla terza, perché mentre noi possiamo con­ statare « di fatto » che una matematica pura e una fisica pura esistono come scienze e quindi nei loro confronti dobbiamo porci solo la domanda « di diritto » (come sono possibili?), nei confronti della metafisica questa constatazione non è possibile, perché di fatto non esiste una scienza metafisica, e rispetto ad essa dobbiamo porci la domanda « di fatto » e cioè se la metafisica è possibile quale scienza, e nello stesso tempo spiegare come essa sia possibile quale « disposi­ zione naturale dell’anima », che persiste pur nel fallimento dei tenta­ tivi di farne una scienza; nel campo della metafisica, infatti, la ragione umana ha un « singolare destino », nel senso che è oppressa da pro­ blemi che non può non porsi, perché sono inerenti alla sua stessa natura, ma che non può risolvere, perché oltrepassano i suoi poteri. « Estetica trascendentale », o dottrina della sensibilità, e « Logica Struttura della trascendentale » o dottrina del pensiero, distinta a sua volta in « Ana­ Critica litica trascendentale », o dottrina dell’intelletto e in « Dialettica tra­ scendentale », o dottrina della ragione, sono così le sezioni fondamentali in cui si articola l’analisi trascendentale della Critica della ragion pura.

4 - L ’« estetica » e /’« analitica » trascendentali. L ’« Estetica trascendentale » è, come si è detto, quella parte della Critica che concerne la conoscenza sensibile, e la sensibilità, cioè la facoltà di avere conoscenze sensibili, è detta da Kant « recettiva », perché non produce essa stessa i contenuti delle proprie rappresenta­ zioni, ma li riceve dalla realtà esterna o dall’esperienza interna. Questi contenuti sono quindi, per il soggetto conoscente, « dati » dall’espe­ rienza e costituiscono la « materia » di ogni conoscenza possibile. Tuttavia la sensibilità non è soltanto ricettività ma anche attività, perché essa ordina i dati, la materia del conoscere, secondo le sue « forme » a priori e il compito dell’« estetica trascendentale » è appunto quello di individuare queste forme o elementi a priori della conoscenza sensibile e spiegare come sia possibile l’attività sintetica del soggetto nel momento in cui unifica e ordina i dati empirici.

R e c e ttiv ità e a t t i v i t à d e lla c o n o sc e n z a s e n s ib ile

31U

S p a z io e t e m p o , fo r m e a priori d e lla s e n s ib ilit à

S p a z io e te m p o com e in t u iz io n i p n r e d e lla s e n s ib ilit à

C ara tte re fe n o m e n ic o d e lla co n o sc e n z a s e n s ib ile

ILLU M IN ISM O E CRITICISM O

Kant individua le forme a priori della conoscenza sensibile nello spazio e nel tempo, reinterpretando così in modo del tutto originale ciò che nella tradizione empiristica era stato considerato come il semplice risultato della passività del senso esterno e del senso interno. Spazio e tempo non sono per Kant (come vedremo meglio più avanti) delle realtà conoscibili empiricamente e non sono neppure rappresenta­ zioni che ricaviamo dall’esperienza; il che vuol dire che non sono, essi stessi, conoscenze che il soggetto possiede, ma che sono funzioni costitutive (e perciò necessarie e universali) dell’attività sintetica della nostra sensibilità, mediante le quali il soggetto conoscente opera sui dati empirici, ordinandoli e unificandoli in « oggetti » della nostra esperienza. Nella conoscenza sensibile il soggetto percepisce immediatamente i dati empirici: ciò significa che la conoscenza sensibile, in quanto apprensione immediata dei dati derivati dall’esperienza, è una cono­ scenza « intuitiva », e non « discorsiva » come quella razionale. In tal modo, lo spazio e il tempo, in cui necessariamente sono collocate tutte le rappresentazioni degli oggetti, sono le forme pure dell’intuizione. Questa loro natura intuitiva li distingue nettamente dai concetti della ragione, i quali hanno questo di caratteristico, che non « contengono in sé », ma « sussumono sotto di sé » il molteplice: le singole rappre­ sentazioni, infatti, sottostanno al concetto ma non sono nel concetto, laddove i singoli punti e i singoli istanti sono « nello » spazio e « nel » tempo e non « sotto » di essi. Tuttavia, in quanto le impressioni che riceviamo dal mondo esterno si dispongono nel nostro animo secondo una successione tem­ porale, « il tempo è la formale condizione a priori di tutti i fenomeni in genere ». La conoscenza sensibile è infatti conoscenza delle cose quali « appaiono » a noi nell’esperienza, cioè è conoscenza dei « fenomeni » (dal verbo greco phàinesthai = apparire, manifestarsi): essa rappre­ senta gli oggetti non come sono in se stessi ma come risultano nella loro relazione con il soggetto che se li rappresenta, ordinando il mate­ riale sensibile secondo le forme dello spazio e il tempo: la « rappre­ sentazione di ima cosa in sé » è infatti una contraddizione in termini perché dovrebbe significare la rappresentazione di una cosa come essa è al di fuori di ogni sua rappresentazione. La conoscenza sensibile è dunque « fenomenica », ma non per questo è soggettiva e arbitraria, .

IM M ANUEL KANT

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perché in essa il materiale empirico in primo luogo è « dato » dalla esperienza e in secondo luogo è ordinato dalle forme, che, in quanto a priori, sono, come sappiamo, universali e necessarie e quindi oggettive. La dottrina della sensibilità fin qui tracciata ha come presupposto L ’ « e s p o s iz io n e e t a f is ic a » la apriorità o idealità del tempo e dello spazio; questa apriorità è m d e llo s p a z i o e mostrata (e non dimostrata, dato che si tratta di intuizioni e non di d e l t e m p o concetti) mediante una « esposizione metafisica »: spazio e tempo non sono determinazioni oggettive delle cose, come già mostrò Hume, ma non sono neppure concetti o rappresentazioni desunti dall’espe­ rienza, perché, al contrario, ogni esperienza li presuppone, non po­ tendo noi sentire nulla che non sia in un certo punto dello spazio o in un certo momento del tempo: non resta quindi che ammettere la loro apriorità. A questa esposizione segue una « esposizione trascen­ L ’ « e s p o s iz io n e dentale » che spiega come la forma dello spazio sia la condizione tt ra al es c»e:n d e n ­ trascendentale della geometria (in quanto scienza che dimostra sinte­ g e o m e t r ia e m a te m a tic a ticamente a priori la proprietà dello spazio) e come la forma del c o m e s c ie n z e tempo sia la condizione trascendentale della matematica (in quanto s in t e t ic h e a priori scienza che sintetizza la successione del molteplice numerico). Geome­ tria e matematica sono in tal modo scienze sintetiche a priori, e non analitiche, come per il razionalismo: dire che la somma del nu­ mero 7 e del numero 5 è uguale a 12 significa infatti formulare un giudizio sintetico perché il numero 12 non è analiticamente contenuto nei numeri 7 e 5. D ’altro lato, matematica e geometria non sono neppure empiriche, perché in questo caso i loro principi primi sareb­ bero soltanto delle « percezioni » e non potrebbero avere quell’univèrsalità e necessità che invece, nei fatti, dimostrano di avere. Finché noi riteniamo che la matematica e la geometria siano scienze C r it ic is m o e empiriche o che si riferiscano alle « cose in sé », e non soltanto ai s c e t t i c i s m o fenomeni, lo scetticismo è inevitabile e invincibile, perché nulla ci può garantire la corrispondenza tra le nostre rappresentazioni e le cose in sé. Del tutto diversa è la situazione se invece noi riteniamo la matematica e la geometria come scienze sintetiche a priori: se spazio e tempo sono le forme pure, le proprietà essenziali della nostra sensi­ bilità, per cui soltanto ci sono dati degli oggetti, e se questa sensibilità non ci rappresenta le cose in sé ma solo i fenomeni, allora è provato, dice Kant, che tutti gli oggetti esterni del mondo sensibile devono

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L ’ « a n a lit ic a trasc e n d e n ­ ta le * : s e n s ib ilit à e d in t e lle t t o

L o g ic a g e n e r a le e lo g ic a tra sc e n d e n ta le

ILLU M IN ISM O E CRITICISM O

necessariamente concordare in modo perfetto con le proposizioni della matematica e della geometria, perché è la sensibilità con le sue forme dell’intuizione, oggetti della matematica e della geometria, che sola rende possibili quegli oggetti come fenomeni. Solo la dottrina critica della conoscenza può quindi vincere lo scetticismo e rispondere alla domanda circa la possibilità della matematica e della geometria come scienze. Con P« estetica trascendentale » Kant ha dato una dottrina della conoscenza sensibile che, contro uno dei principi più caratteristici del razionalismo leibniziano o wolffiano (quello per cui il senso è un intelletto oscurato e illanguidito) è fondata sull’autonomia e sulla specificità del senso rispetto all’intelletto e sull’origine empirica della materia del suo conoscere. Autonomia e specificità non significano però separazione giacché la « spontaneità » non implica che il senso crei i suoi oggetti, ma solo che si .comporti in modo attivo verso il materiale che gli è dato dalla conoscenza sensibile. In un passo famoso Kant dice: « senza sensi­ bilità, nessun oggetto ci sarebbe dato, senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. Pensieri senza contenuto sono vuoti, intuizioni senza concetti sono cieche. Perciò è altrettanto necessario rendere sensibili i propri concetti, cioè dare ad essi un oggetto nell’intuizione, quanto rendere intelligibili le intuizioni, cioè portarle sotto i concetti. L ’intel­ letto non può intuir nulla e i sensi non possono pensar nulla ». In tal modo le intuizioni a priori della sensibilità diventano la materia di una forma più alta, quella dell’intelletto, che unifica la loro molteplicità. All’« estetica trascendentale » segue pertanto una « logica trascendentale », la quale però è distinta dalla « logica ge­ nerale » o formale della tradizione aristotelica, che Kant tuttavia accetta, intendendola quale « scienza della forma della nostra cono­ scenza intellettuale » e quindi senza alcun riferimento ai contenuti della conoscenza o a considerazioni di tipo psicologico. Essa, dice Kant, dai tempi di Aristotele non ha fatto quasi più progressi, e ciò vuol dire che è pressoché perfezionata. Diverso è il caso della « logica trascendentale », che non ha pre­ cedenti e che deve studiare non solo le leggi del pensiero, ma anche la loro funzione trascendentale in riferimento agli oggetti del cono­ scere.

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KANT

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La prima parte della logica trascendentale, l’analitica, si divide anch’essa in due parti: un’« analitica dei concetti », che deve scoprire i concetti a priori con cui l’intelletto sussume e unifica il molteplice sensibile; e un’« analitica dei principi », che deve individuare i prin­ cipi in base ai quali gli oggetti possono essere pensati. La scienza della natura non è esaurita dalla conoscenza sensibile, che si limita ad ordinare i particolari dati empirici secondo la forma dello spazio e del tempo, ma richiede una conoscenza più alta, in cui le sue leggi si esprimano in giudizi validi necessariamente e universal­ mente. La scienza della natura non può neppure, in conseguenza, essere ridotta a « giudizi percettivi », che, essendo soltanto empirici, esprimono solo un rapporto tra due sensazioni e uno stesso soggetto: quando, ad esempio, dico che lo zucchero è dolce o che l’assenzio è amaro io affermo solo percezioni soggettive e particolari, fondate su quell’« abitudine » e su quell’« associazione di idee » di cui aveva parlato Hume, ed io non pretendo di dover avere sempre queste percezioni né che le abbiano tutti. Nel caso delle leggi scientifiche, invece, ciò che l’esperienza mi insegna in determinate circostanze è pensato come qualcosa che deve valere sempre e per tutti e ciò è possibile solo se nei giudizi che le esprimono è presente un elemento non empirico, ma a priori, cioè un concetto puro dell’intelletto che unifichi sotto di sé le percezioni empiriche e dia a questa unificazione una validità necessaria e universale. Se io dico che « quando il sole illumina un sasso, questo si scalda » io collego le due rappresenta­ zioni (l’essere illuminato e il riscaldarsi) solo sulla base della mia abi­ tudine a constatarle connesse; ma se io dico che « il sole scalda il sasso » io penso l’azione del sole come « causa » dello scaldarsi del sasso, cioè aggiungo alle percezioni un concetto che le collega univer­ salmente e necessariamente e quindi trasforma la percezione in un giudizio sintetico a priori e quindi in una esperienza scientifica. Ora, il concetto di causa non è un concetto empirico, perché è universale e necessario, ma è un « concetto puro », cioè una forma a priori del nostro pensiero, in quanto non deriva dall’esperienza e non ha mescolato in sé nulla di empirico, pur avendo solo nell’esperienza la possibilità del suo uso al fine della conoscenza scientifica. Ciò signi­ fica che in ogni giudizio sintetico a priori deve poter essere ritrovato, oltre a ciò che deriva dall’esperienza, anche un concetto puro, ima forma a priori, mediante la quale l’intelletto, unificando il molteplice,

L ’« analitica trascenden­ tale »: l’analitica dei concetti e l’analitica dei principi Giudizi percettivi e giudizi sintetici a priori

Le categorie dell’intelletto

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C R IT IC IS M O

svolge la sua funzione « predicativa »: sussumere il molteplice sotto un concetto vuol dire, infatti, formulare un giudizio, in cui il colle­ gamento del predicato al soggetto è reso valido dalla funzione predica­ tiva dei concetti puri, che sono perciò chiamati da Kant anche, con termine aristotelico, « categorie ». Però, mentre per Aristotele le cate­ gorie (a prescindere dal numero) erano i « generi sommi » della predi­ cazione ed avevano un preciso riferimento alla realtà « metafisica » del­ le cose, per Kant esse sono soltanto funzioni del soggetto conoscente, forme della sua attività sintetica. L a tavola delle E proprio perché « pensare » è « giudicare », Kant ritiene possibile categorìe ricavare i concetti puri dell’intelletto dalla tavola dei giudizi della logica formale, nel senso che ad ogni tipo di giudizio deve corrispon­ dere una categoria, una funzione predicativa. Abbiamo quindi la seguente T a vo la

dei

G

iu d iz i

1) Secondo la «q u an tità»:

Particolare Singolare Universale 2) Secondo la « qualità »: Affermativo Negativo Infinito 3) Secondo la « relazione »: Categorico Ipotetico Disgiuntivo 4) Secondo la « modalità »: Problematico Assertorio Apodittico da cui si ricava la seguente T a vo la

d elle

1 ) della « quantità »:

2) della « qualità »:

C a t e g o r ie

Molteplicità Unità Totalità Realtà Negazione Limitazione

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3) della « relazione »:

4) della « modalità »:

315

KANT

Sostanzialità Causalità Reciprocità Possibilità Esistenza Necessità.

È facile vedere che le categorie così classificate sono quelle del pensiero scientifico, matematico e fisico del tempo di Kant: e infatti Kant raggruppa le categorie della quantità e della qualità come categorie « matematiche » e le altre due come categorie « dinamiche », concernenti cioè la « relazione » delle cose tra loro o il rapporto (« modalità ») con il pensiero. È appena il caso di ribadire che nella terminologia kantiana « concetto e categoria » stanno qui ad indicare non delle conoscenze particolari dell’intelletto, dei « contenuti » del nostro sapere, ma le forme o funzioni mediante le quali conosciamo, mettiamo in rela­ zione e unifichiamo i contenuti del nostro sapere. Le categorie sono dunque a priori: non derivano dall’esperienza ma operano sui con­ tenuti della sensibilità come « leggi costitutive » di ogni « esperienza possibile ». La dimostrazione dell’apriorità delle categorie è da Kant chia­ mata « deduzione metafisica »; la giustificazione del loro uso « dedu­ zione trascendentale »: deduzione significa infatti, in questo caso, non un procedimento analitico, ma, giuridicamente, la giustifica­ zione di una pretesa: la pretesa cioè, delle categorie, che sono sog­ gettive, ad avere un valore oggettivo, (universale e necessario) e quindi ad essere costitutive della scienza della natura. La giustificazione di questa pretesa non è però il solo risultato della deduzione trascendentale: essa mostra (analogamente a quanto abbiamo visto nei rapporti tra spazio e tempo) che ogni sintesi a priori, che connette due oggetti tra loro (per esempio « x » è « c a u sa » di « y »), presuppone sempre un’altra sintesi, quella me­ diante la quale connettiamo le rappresentazioni di quegli oggetti in noi: quale il fondamento di queste due sintesi? Dove trovare il principio unitario dell’attività sintetica, grazie al quale le cate­ gorie cessano di essere una molteplicità irrelata, ma diventano le articolazioni e le specificazioni di un unico principio categorizzante?

Le categorìe come forme della conoscenza intellettuale

Deduzione metafisica e deduzione trascendentale delle categorie

L’« Io penso »

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L ’« analìtica dei principi»: Io schematismo dell’intelletto

IL L U M IN IS M O

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C R IT IC IS M O

Kant risponde: nell’« io penso ». Con questa espressione Kant non intende designare una realtà psicologica, come, ad esempio, l’anima umana o lo spirito, (e anzi nella seconda edizione della Critica ha espunto la « deduzione psicologica » che nella prima edizione precedeva quella trascendentale) ma la condizione universale e nor­ male (la « coscienza normale ») di ogni esperienza possibile. Nessuna conoscenza o collegamento o unificazione di conoscenze è possibile senza quell’« unità della coscienza »: « l’io penso deve poter ac­ compagnare (” deve ” e non ” accompagna ” , appunto perché si tratta di una condizione e non di ima constatazione psicologica ed empirica) tutte le mie rappresentazioni. Questo atto della sponta­ neità io lo chiamo appercezione pura... o anche appercezione ori­ ginaria. L ’unità di esso io chiamo unità trascendentale dell’autoco­ scienza ». Nell’« analitica dei principi », Kant studia e classifica, sulla base della tavola delle categorie, i principi secondo cui le categorie esplicano la loro funzione nei giudizi. L ’unità del contenuto della sensibilità e della forma delle categorie non può avvenire direttamente e immediatamente; ma richiede il tramite di uno « schema » (schematismo dell’intelletto) che è opera dell’« immaginazione »: questa immaginazione, tuttavia, non è « riproduttiva », come quella di cui si parla in sede psicologica, ma « produttiva », perché non « rievoca » una « forma » ma « produce » gli oggetti d’esperienza e li porge all’intelletto, affinché li sussuma sotto leggi, garantendo l’accordo e la corrispondenza tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale. Questa sussunzione avviene secondo quattro principi, che sono modellati sui quattro tipi di categorie: 1) assiomi dell’in­ tuizione (tutte le intuizioni sono grandezze estensive); 2) anticipa­ zioni della percezione (in tutti i fenomeni, il reale oggetto della sensazione ha un grado, cioè una grandezza intensiva); 3) analogie dell’esperienza (l’esperienza è possibile solo mediante l’idea di una necessaria connessione di rappresentazioni); 4) postulati del pen­ siero empirico (determinazioni di ciò che è possibile, reale e ne­ cessario). I primi due sono « principi matematici » ed esprimono la legge della continuità della natura; i secondi i « principi dinamici » ed esprimono la legge di causalità: tutta la scienza newtoniana può così rientrare nei quadri dell’analitica kantiana.

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Dalle intuizioni sensibili, secondo le forme pure dello spazio e del tempo, alle rappresentazioni degli oggetti, sussunte sotto le leggi dell’intelletto, e, infine, all’« io penso », abbiamo visto dispiegarsi la progressiva attività sintetica della soggettività nella sua opera di costituzione di una scienza della natura. Il sapere scientifico ha quindi come base l’esperienza e i suoi limiti sono i limiti dell’espe­ rienza: « noi — dice Kant — non possiamo pensare alcun oggetto senza le categorie; noi non possiamo conoscere nessun oggetto pensa­ to, senza le intuizioni che corrispondono a quei concetti. Ora, tutte le nostre intuizioni sono sensibili, e questa conoscenza, in quanto l’oggetto di essa è dato, è empirica. Ma la conoscenza empirica è esperienza. Per conseguenza, nessuna conoscenza a priori è possi­ bile, se non di oggetti di una possibile esperienza ». Derivano da ciò due conseguenze importanti: la prima è la rin­ novata conferma che ogni conoscenza è conoscenza di « fenomeni », cioè delle cose quali « appaiono a noi » in funzione del nostro modo di organizzare e unificare i dati empirici. Non sono quindi le nostre conoscenze a modellarsi sugli og­ getti, secondo il vecchio principio adeguazionistico, ma sono gli og­ getti e le loro relazioni che si vengono costituendo, nell’esperienza, secondo l’attività sintetica ed oggettivante, universale e necessaria, dell’« io penso ». L ’« io penso », dice Kant, è il « legislatore della natura » e in questa verità egli fa consistere la sua « rivoluzione copernicana »: non più il soggetto attorno alle cose, ma le cose gra­ vitano attorno al nuovo centro, che è l’unità trascendentale della autocoscienza. La seconda conseguenza è che, se la nostra conoscenza è limi­ tata ai fenomeni, resta del tutto esclusa ogni conoscenza del « nou­ meno », cioè della cosa in sé, quale essa è in se stessa, fuori di ogni relazione con il soggetto conoscente: noi potremmo conoscere il noumeno solo se possedessimo una facoltà di « intuizione intellet­ tuale »: come l’intuizione sensibile, così l’intuizione intellettuale ci metterebbe immediatamente in contatto con le cose in sé, senza mediazioni sensibili. Ma siccome ogni attività conoscitiva dell’intel­ letto non può esercitarsi che su una materia empirica, l’intuizione intellettuale non è data all’uomo e il « noumeno » è inconoscibile. Esso è bensì « pensabile » come concetto-limite, come sostrato pos­ sibile del mondo fenomenico; anzi, l’intelletto, per il fatto stesso

L ’esperienza come limite della conoscenza concettuale

L ’Io « legislatore della natura »: la «rivoluzioni copernicana » di Kant

Fenomeni e noumeni

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La confutazione dell’idealismo

Impossibilità della metafisica come scienza

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che pone dei fenomeni, pone anche l’esistenza delle « cose in sé » e, in tal modo, « la rappresentazione di queste realtà, che stanno a fondamento dei fenomeni, non solo è lecita, ma è anche inevitabile ». Tuttavia, siccome il noumeno è fuori di ogni possibile esperienza, è del tutto illusorio pensare di poterlo conoscere e di riferire ad esso le categorie a priori dell’intelletto. Da ciò consegue che anche la conoscenza che il soggetto può avere di se stesso è una conoscenza soltanto fenomenica, limitata a ciò che cade nell’esperienza ed organizzata dalle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto. Ciò spiega perché Kant ha introdotto nella seconda edizione della Critica della ragion pura una « confuta­ zione dell’idealismo », cioè una critica della filosofia di Berkeley, nella quale la riduzione della realtà esterna ad idee e percezioni del soggetto si fonda, secondo Kant, sulla pretesa illusoria di poter conoscere il soggetto, l’anima umana, com’è in se stessa, indipen­ dentemente da ogni possibile esperienza. Al termine dell’« anali­ tica » abbiamo così non solo la risposta alle prime due domande (come è possibile una matematica pura e come è possibile una fi­ sica pura), ma anche il preannuncio della risposta alla terza (come è possibile una metafisica pura): in quanto pretesa di andare oltre i limiti dell’esperienza e di conoscere il « noumeno » la metafisica non è possibile come scienza; ma solo un’illusione della ragione. Il chiarimento di questi due punti è il compito che Kant porta a ter­ mine nell’ultima sezione della Critica, la « dialettica trascendentale ».

5 - La « dialettica » trascendentale. Intelletto e ragione: la dialettica come logica della apparenza

La « dialettica trascendentale » deve mostrare gli errori a cui la ragione Va inevitabilmente incontro, quando pretende di abban­ donare e di oltrepassare il solido regno dell’esperienza: la ragione, quindi, non è altro che l’intelletto nella sua pretesa di fare delle categorie anche un uso trascendente e non solo trascendentale, di andare al di là di ogni esperienza possibile per arrivare a conoscere le cose in sé; ma il noumeno, se anche è « pensabile » non è però « conoscibile », perché alla conoscenza è indispensabile, come sap­ piamo, il fondamento dell’esperienza. Come la colomba che, vo-

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landò, sente la resistenza dell’aria e immagina che potrebbe volare con minore fatica se l’aria non ci fosse, mentre in realtà è proprio l’aria che la sostiene; così la ragione è sostenuta dall’esperienza e non può che cadere nelle illusioni e nelle apparenze se l’esperienza viene a mancare: la logica della ragione è « logica dell’apparenza », cioè « dialettica ». Il principio fondamentale che regge tutta la logica dell’appa­ L a pretesa ragione renza è quello dell’« incondizionato », come « totalità » di tutte le della allo condizioni: l’esperienza non è mai totale, perché è sempre possi­ incondizionato bile che altre esperienze si aggiungano a quelle già avute e la serie delle condizioni è quindi sempre aperta e mai conclusa. La pretesa della ragione è invece quella di assumere l’esperienza già fatta come tutta l’esperienza possibile, come la « totalità » dell’esperienza, e la serie delle condizioni, quindi, come qualcosa di assoluto e incon­ dizionato. La ragione tende a realizzare questa pretesa mediante le sue Le «idee» tre « idee »: quella dell’anima, come totalità sostanziale del sog­ della ragione getto; quella del mondo, come totalità degli oggetti, e quella di Dio, come totalità incondizionata. Per analogia con il metodo del­ l’analitica, Kant cerca di ricavare queste tre idee dai tipi del sillo­ gismo in quanto connessione di giudizi: quella dell’anima del sillo­ gismo categorico, quella del mondo dal sillogismo ipotetico e quella di Dio dal sillogismo disgiuntivo. Su queste tre idee la ragione pretende di costruire tre scienze; la psicologia razionale, la cosmo­ logia razionale e la teologia razionale. Ma questa pretesa è, per Kant, del tutto infondata. La psicologia razionale, nell’assumere la realtà dell’anima, com­ L a psicologia e il mette un errore di ragionamento chiamato « paralogismo », cioè un razionale suo sillogismo in cui, essendo uno dei tre termini di cui è composto « paralogismo » preso in due sensi diversi, viene a mancare la validità della con­ clusione. E il paralogismo è il seguente: ciò che non può essere pen­ sato che come soggetto, non può esistere che come soggetto, e dun­ que è sostanza; ma un essere pensante non può essere pensato che come soggetto; dunque esiste come sostanza. Il termine preso in due sensi è appunto quello di « soggetto » che nella prima pre­ messa è preso come una sostanza metafisica e nella seconda come la condizione trascendentale dell’esperienza. Di qui il carattere il­ lusorio di questo sillogismo.

La cosmologìa razionale e le sue « antinomie »

La teologia razionale e le prove dell’esistenza di Dio

La cosmologia razionale rivela il suo carattere illusorio nelle an­ tinomie in cui necessariamente conclude. Le antinomie, cioè le irre­ solubili contrapposizioni di tesi e antitesi, sono quattro, una per ogni tipo di categoria dell’intelletto: 1) il mondo ha origine nel tempo ed è finito — il mondo non ha origine nel tempo ed è infinito; 2) ogni sostanza composta nel mondo consta di parti semplici — nessuna cosa composta consta di parti semplici; 3) la causalità se­ condo le leggi naturali non è la sola, ma ce n’è anche un’altra se­ condo la libertà — non c’è nessuna libertà, ma tutto accade secondo la necessità delle leggi naturali; 4) al mondo appartiene qualcosa che, o come sua parte o come sua causa, è un essere assolutamente necessario — non vi è nessun essere assolutamente necessario. Kant nota che tutte e quattro le tesi, esprimendo l’idea di una « totalità » limitata, rappresentano il punto di vista del raziona­ lismo, mentre le antitesi esprimono l’idea di una « totalità » infinita, rappresentino il punto di vista dell’empirismo. Non solo, ma tra le prime due antinomie (che Kant chiama, per analogia, matema­ tiche) e le ultime due (dinamiche) c’è una profonda differenza: le tesi e le antitesi delle prime due (che dovrebbero necessariamente essere l’una vera e l’altra falsa se riferite alla « realtà in sé ») pos­ sono essere entrambe false se riferite alla realtà fenomenica; nelle antinomie dinamiche, invece, tesi e antitesi possono essere entrambe vere se riferite l’una alla realtà fenomenica e l’altra alla realtà noumenica: il riferimento a quest’ultima non è certamente possibile sul piano della scienza (perché la scienza è solo dei fenomeni), ma rimane aperta la possibilità di stabilirlo per altra via non specula­ tiva ma pratica: è quello che vedremo nella Critica della ragion pratica. L ’illusorietà della teologia razionale, infine, si rivela nel carat­ tere solo apparente dei classici argomenti, con cui si è creduto di dimostrare l’esistenza di Dio: quello ontologico, quello cosmolo­ gico e quello fisico-teleologico. Per il primo Kant riprende e svi­ luppa la critica che abbiamo già visto nello scritto l'Unico argo­ mento possibile; per gli altri due mostra per un verso l’arbitra­ rietà del passaggio dal condizionato all’incondizionato, dal finito all’infinito, e per altro l’implicita assunzione in essi dell’argomento ontologico.

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Anima, mondo e Dio sono pertanto tre idee che inevitabilmente producono apparenza e illusione, quando la ragione ne fa un uso « costitutivo », quando cioè pretende che esse costituiscano un oggetto reale, allo stesso modo che i concetti dell’intelletto sono costitutivi dell’esperienza; positivo è invece il loro uso, quando sia solo « regolativo », quando, cioè, esso si limiti ad indicare un ideale, una norma o regola di unità e totalità, alla conoscenza, che è poi la condizione per cui l’intelletto non si contenta mai delle cono­ scenze possedute ma ne cerca sempre di nuove. , Termina così, con la dialettica trascendentale, la « dottrina degli elementi » e noi possiamo accennare solo brevemente alla « dot­ trina che, per un verso, dà una « disciplina » alla ragione, escludendo tutti i punti di vista che implicano un suo uso scorretto, e per altro verso le dà un « canone », cioè principio di un corretto uso; l’« architettonica della ragione », infine dà il piano delle sue discipline di cui la Critica costituisce la propedeutica. Più che queste classificazioni, tuttavia, è opportuno ribadire questo risultato conclusivo, e cioè che, come traspare dalla posi­ tività dell’uso regolativo delle idee, le illusioni della ragione non sono eliminabili una volta riconosciute come illusioni, perché non sono fantasticherie arbitrarie ma si radicano nella natura stessa del­ l’uomo e rendono permanente l’esigenza di una realtà noumenica, che, se anche la scienza (ristretta nei limiti dell’esperienza e quin­ di del sapere fenomenico) non può conoscere, la moralità certifica su basi non meno salde. Se quindi è impossibile dimostrare come vere le proposizioni della metafisica, è impossibile anche dimostrarle come false e quindi la metafisica stessa, benché impossibile come scienza, non può es­ sere eliminata. In questo senso, essa serve « se non a darci ammae­ stramenti positivi, ad abbattere le temerarie e funeste affermazioni del materialismo, del naturalismo e del fatalismo e così aprire alle idee morali un libero campo al di là di quello della speculazione ». È qui che alla problematica della Critica della ragion pura si salda quella della Critica della ragion pratica.

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Uso costitutivo e uso regolativo delle idee della ragione

L a dottrina del metodo

Ragion pura e ragion pratica

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6 - La storia, la natura e la morale. La « Critica della ragion pratica ». La filosofia kantiana negli anni tra la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica. Le riflessioni sul problema della storia

I fondamenti metafisici della scienza della natura

I sette anni (dal 1781-1788) che separano la prima edizione della Critica della ragion pura e la pubblicazione della Critica della ragion pratica sono molto importanti per lo sviluppo filosofico di Kant. Nel 1784 è pubblicato lo scritto Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, che insieme alle due recensioni all’opera di Herder, Idee sulla filosofia della storia dell’umanità (cfr. infra, voi. I li) , dell’anno successivo espongono le idee di Kant sulla storia: questa non è scienza, e tuttavia, narrando le manifestazioni della libertà, essa lascia sperare che sia possibile sco­ prirne un regolato movimento e che ciò che nell’individuo è « con­ fuso e senza legge » manifesti nella specie il continuo e progressivo, benché lento, sviluppo di un disegno originario. Non si tratta, di un « piano » armonico e naturale da assumere come fosse una realtà o un fatto attualmente constatabile, ma piuttosto di un ideale orien­ tativo, nel senso che il progresso è possibile e non necessario. E il progresso ha inizio con il primo atto di libertà, cioè con la rottura dell’unità spontanea dell’uomo e del suo ambiente naturale ed ha come fine il raggiungimento della felicità e della perfezione attra­ verso l’uso della ragione, che è possibile solo in una società politica universale, che riduca tutti gli stati ad un’unica legislazione e in cui la libertà di ognuno trovi il suo limite solo nell’eguale libertà altrui. Questo progresso, però, più che degli intenzionali progetti degli uomini, è opera del loro antagonismo, di cui la natura si serve per stimolare le loro facoltà e sviluppare la loro socievolezza. Contemporaneamente Kant dava inizio all’attuazione di quelle ricerche il cui programma era esposto nell’« architettonica » della ragion pura: quivi, dopo aver distinto la conoscenza storica e quella razionale e, nell’ambito di quest’ultima, la matematica e la filosofia, Kant aveva ulteriormente distinto la filosofia in ima filosofia della natura e in etica (o filosofia dei costumi); e poiché di entrambe è possibile dare una trattazione che sia, dal punto di vista dei prin­ cipi, o « pura » (e in questo caso esse assumono la denominazione di « metafisica ») o « empirica », Kant cominciò con lo scrivere i

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Fondamenti metafisici della scienza della natura e la Fondazione della metafisica dei costumi. Il primo scritto è, in sostanza, il tentativo di estendere ulterior­ mente la tabella dei principi (e quindi la conoscenza a priori della natura), includendovi il « movimento », che, rispetto ai quattro gruppi di categorie secondo cui può essere studiato, dà luogo alle quattro scienze della « foronomia » (o cinematica), della « dinamica », della « meccanica » e della « fenomenologia » (in quanto il movi­ mento è un fenomeno del senso esterno). Kant ha modo così di inserire, nei quadri del suo criticismo, le leggi newtoniane del movi­ mento. Il « passaggio dalla metafisica alla fisica », cioè dai principi puri alla scienza è il programma di lavoro che Kant ha sempre avuto presente, come ci è documentato dalle riflessioni raccolte ncWOpus postumum-, esso tuttavia non è mai stato organicamente portato a termine-, per il prevalente interesse, che hanno assunto nel pensiero di Kant i problemi della morale, del sentimento e della religione. La Fondazione della, metafisica dei costumi sta alla Critica della ragion pratica (di tre anni posteriore) nello stesso rapporto che abbiamo visto tra i Prolegomeni e la Critica della ragion pura: essa, cioè, affronta la « questione di fatto », partendo dalla realtà del fatto morale per ricercarne le condizioni; mentre l’altra si pone la « questione di diritto »: « come è possibile una sintesi a priori morale? ». Nella nostra esposizione seguiremo piuttosto la Critica (pur te­ nendo presente anche l’altra opera), anche per mettere in luce le analogie di struttura che Kant ha cercato di stabilire con la Critica della ragion pura. « Critica della ragion pratica » significa esame dei limiti della ragione nel suo uso pratico, cioè in quanto capace di guidare la volontà mediante le sue leggi; ma perché « ragion pratica » e non « ragion pura pratica »? La risposta a questa domanda sta nella differenza fondamentale tra l’analitica della Critica della ragion pura e l’analitica della Critica della ragion pratica: la prima, infatti, per spiegare la conoscenza degli oggetti, deve occuparsi — come abbiamo visto — prima dei concetti e poi dei principi; la seconda, invece, poiché si occupa — come vedremo — degli oggetti non in quanto conosciuti, ma in quanto prodotti, e quindi non presupposti, dalla vo­

l i problema morale e la Critica della ragion pratica

La critica della ragione nel suo uso pratico

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I prìncipi pratici: le « massime » e le « leggi »

Il dualismo di sensibilità e ragione e il concetto di imperativo morale

Il dovere

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lontà, deve seguire il cammino inverso e partire dai principi per de­ terminare poi in modo conforme i concetti di « bene » e « male ». Ècco perché, per la ragione teoretica, è necessaria una critica della « ragion pura » e per la ragione pratica no: « poiché se essa, come ragion pura, è veramente pratica, dimostra la realtà propria e quella dei suol concetti mediante il fatto, ed è vano sofisticare contro la sua possibilità di essere tale ». Kant definisce « principi pratici » quelle proposizioni che con­ tengono una determinazione universale della volontà; essi possono essere « soggettivi » (e in questo caso son detti « massime ») quando sono dal soggetto considerati come validi solo per la propria vo­ lontà; sono invece « oggettivi » (e in questo caso sono chiamati « leggi ») quando sono ritenuti validi per la volontà di ogni essere razionale. Ora la legge ha questo di caratteristico che essa si presenta sotto la forma di un « comando », di un « imperativo ». Questo è il punto centrale dell’etica kantiana: l’uomo è composto di ragione e di sensibilità e se la sua volontà, la sua facoltà di desiderare, fosse necessariamente determinata o dall’ima o dall’altra il problema mo­ rale non si porrebbe. Nel caso, infatti, che la volontà fosse neces­ sariamente determinata dalla sola ragione, i principi della ragione non le si imporrebbero come comandi, ma come regole spontanee: avremmo quella che Kant chiama la « volontà santa »; al contrario, se la volontà fosse necessariamente determinata solo dalla sensibilità l’uomo sarebbe in realtà un « bruto », e un comando della ragione non avrebbe senso. Ma proprio in quanto l’uomo può essere deter­ minato sia dalla ragione sia dalla sensibilità, la moralità richiede che esso debba poter essere determinato dalla ragione, ed è appunto questo « dovere » che è espresso dal comando della ragione: « tu devi! ». Il « dovere » è pertanto l’unico movente possibile dell’azione morale, e Kant lo sottolinea con parole di commossa esaltazione: « Dovere! nome grande e sublime, che non comprendi in te niente di ciò che piace e lusinga, ma reclami l’obbedienza; che tuttavia, per muovere la volontà, non hai in te nulla di minaccioso, ma poni soltanto una legge che trova da sé l’accesso nello spirito e guadagna da sé, anche malgrado noi, la venerazione (se non sempre l’obbe­ dienza) e davanti alla quale tacciono le passioni, pur continuando

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ad agire contro di essa in segreto; quale è la nascita degna di te e dove si trova la radice delle tue nobili origini? Questa radice non può essere se non in ciò che eleva l’uomo, al di sopra di sé, come parte del mondo sensibile, che lo collega con un ordine di cose che soltanto l’intelletto può pensare, e con esso l’esistenza temporale dell’uomo e l’insieme di tutti i suoi fini; essa non è altro che la per­ sonalità, cioè la libertà e l’indipendenza dal meccanismo dell’intera natura ». Questo concetto del « dovere » mostra la profonda differen­ za tra il concetto di legge nel mondo della natura e nel mondo mo­ rale: nel primo caso esso esprime la necessità, la causalità necessa­ ria, dell’accadere fisico; nel secondo caso esso esprime la libertà, cioè la causalità libera, dell’agire morale. Vedremo meglio più avanti l’im­ portanza di questo concetto della « libertà » e della soluzione posi­ tiva alla terza antinomia della « ragion pura » che con ciò è resa pos­ sibile; per il momento dobbiamo fermarci ancora sul concetto di imperativo. Gli imperativi possono essere, infatti, o « ipotetici » o « cate­ gorici »: i primi esprimono un comando che è subordinato ad un fine che si vuol conseguire (per es.: « se vuoi guarire, curati »); i secondi invece esprimono un’azione oggettivamente neces­ saria per se stessa, senza riferimento ad un altro fine. Non solo, ma poiché il fine presupposto dai primi può essere possibile o reale, Kant distingue gli imperativi ipotetici in « regole dell’abilità » (cioè le regole prescritte dalle scienze pratiche, per il conseguimento di fini che è possibile realizzare) e in « consigli della prudenza » (come sono quelli dati in vista del benessere e della felicità, che è un fine presente in tutte le azioni umane): abbiamo così principi pratici problematici (le regole dell’abilità), e assertori (gli imperativi cate­ gorici). Solo gli imperativi categorici dunque esprimono il comando della ragione e quindi la legge morale: questa, infatti, deve potersi imporre alla volontà per sé, senza considerazione di un fine da rag­ giungere (che è sempre di carattere empirico) e la moralità, in conseguenza, non consiste nel successo, nella realizzazione del fine proposto, ma nella « volontà buona », cioè nella semplice conformità della volontà alla legge. Tutti i principi pratici che presuppongono un oggetto (una ma­ teria) della facoltà di desiderare come motivo determinante della

Imperativi ipotetici e imperativi categorici

L a « volontà buona »

Felicità e moralità

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Formalismo della legge morale

L a 1* formula dell’imperativo categorico

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volontà sono empirici — dice Kant — e non possono fornire leggi pratiche; come tali essi sono di una sola e medesima specie e apparten­ gono al principio dell’« amor di sé », ossia della propria felicità. La felicità è dunque un principio universale (essa è infatti desiderata da tutti), ma, proprio per questo, essa non può essere comandata (non si comanda ciò che tutti desiderano) e quindi non può essere assunta come « movente » della volontà; o meglio: quando essa costituisce il movente della volontà, la volontà non è morale, perché si tratta pur sempre di un movente soggettivo (il concetto di feli­ cità è diverso da uomo a uomo) e ci troveremmo quindi sempre di fronte a « massime » e mai a « leggi ». Arriviamo così alla prima determinazione essenziale della legge morale: la sua « formalità »; « se un essere razionale deve concepire le sue massime come leggi pratiche universali, esso può concepire queste massime soltanto come principi tali che contengano il motivo determinante della volontà, non secondo la materia, ma semplicemente secondo la forma ». Ogni determinazione materiale, ogni con­ tenuto incluso in un principio pratico, toglie a questo l’univer­ salità; e non solo perché da alcuni sarà accettato e da alcuni no, ma soprattutto perché, anche ammesso che sia possibile constatare l’accettazione universale, non è possibile stabilire che tale accetta­ zione universale ci sarà anche in futuro: di nessuna determinazione materiale noi possiamo sapere a priori (cioè analizzandola in se stessa) se essa è tale da poter essere assunta come movente determi­ nante di una volontà morale universale. Formalità della legge significa che la ragione comanda non che venga fatta questa o quella azione concreta e particolare, ma che, qualunque cosa si imprenda a fare, la volontà sia conforme alla legge. Per dare questo comando la ragione non ha bisogno di pre­ supporre altro all’infuori di se stessa; ecco allora la prima formula dell’imperativo categorico: « agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, in ogni tempo, come principio di una legislazione universale ». In altri termini se la massima sogget­ tiva della mia volontà, secondo la quale decido di fare qualcosa, è tale che essa può diventare legge e quindi valere universalmente e oggettivamente allora la mia azione è morale; onde ciò che la ragione mi comanda in modo del tutto incondizionato è appunto che la mia massima debba poter valere come legge universale e che la mia

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volontà agisca in modo conforme a questa legge. « La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare un fatto (factum) della ragione,... perché essa ci si impone per se stessa come proposizione sintetica a priori », anche se dall’esperienza non ci venga nessuna conferma di una sua esatta osservanza. Un comando, però, osserva Kant, ha senso solo se rivolto a qualcuno che può anche disubbidire; in altri termini, l’imperativo categorico presuppone la « libertà ». Secondo la Critica della ragion pura, come abbiamo visto, tutto il mondo fenomenico è ordinato sulla categoria della causalità, risultandone così esclusa ogni libertà: anche quando io faccio di me stesso, un oggetto di conoscenza, mi conosco come « fenomeno », cioè ho una serie di rappresen­ tazioni secondo le forme a priori della scienza. Ora, invece, lo stesso principio morale serve come principio della « deduzione » di una facoltà « imperscrutabile », che nessuna esperienza può dimostrare ma che la ragione speculativa deve ammettere come possibile, cioè la « facoltà della libertà » (tu devi, dunque puoi): con ciò la libertà è un « postulato » della ragion pratica, necessariamente richiesto come condizione della volontà. Il principio morale è, in tal senso, la ratio cognoscendi della libertà, così come la libertà è la ratio essendi della moralità: siamo con ciò in quel mondo noumenico di cui sappiamo già che è impos­ sibile una conoscenza scientifica, ma di cui la stessa Critica della ragion pura aveva mostrato la possibilità indagando, nella dia­ lettica, le antinomie della ragione: questa possibilità è ora, per la Ragion pratica, una realtà, affermata non dal punto di vista scien­ tifico ma dal punto di vista morale, che ce ne dà una certezza as­ soluta. L ’imperativo morale presuppone l’esistenza di altri uomini ai quali deve poter essere esteso; ora noi sappiamo che gli uomini sono liberi. Deriva di qui la seconda formula dell’imperativo catego­ rico: « agisci in modo di trattare l’umanità, nella tua come nel­ l’altrui persona, sempre come fine mai come mezzo ». Gli uomini, dunque, come soggetti morali, costituiscono quel soprasensibile « re­ gno dei fini », in cui ognuno è suddito e, al tempo stesso, legi­ slatore. Ciò però non sarebbe possibile e la libertà non sarebbe li­ bertà se l’uomo, come soggetto morale, non fosse anche « auto­ nomo » cioè legislatore a se stesso. Deriva di qui la terza formula

L a libertà come po9tulat della moralità

L a 2® formula dell’imperativo categorico

Il «regno dei fini» e la 3® formula dello imperativo categorico

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L’autonomia della legge morale

I « moventi » della ragione pratica

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dell’imperativo categorico: « agisci in modo che la volontà possa considerare se stessa, mediante la sua massima, come universalmente legislatrice ». L ’« autonomia » è quindi, insieme alla formalità e alla libertà, la terza determinazione fondamentale della moralità; con più preci­ sione, l’autonomia è la determinazione « positiva » della libertà, in quanto affermando che la ragione è legge a se stessa, esclude la validità di tutte le cosiddette morali « eteronome », che si fondano su moventi materiali e che quindi dipendono da altro. L ’autonomia, infine, è ciò che assicura l’assolutezza della morale, costretta invece ad una perenne incertezza finché vien fatta dipendere da altro e in particolare dalla metafisica. Kant classifica i moventi determinanti pratici materiali in « sog­ gettivi » e « oggettivi », distinti a loro volta in « esterni » e « in­ terni »; abbiamo così i vari sistemi etici: di Montaigne, fondato sull’educazione, e di Mandeville, fondato sul governo civile (sog­ gettivi esterni); di Epicuro, fondato sul senso fisico di piacere e di dolore e di Hutcheson, fondato sul senso morale (soggettivi in­ terni); di Wolff, e anche degli stoici, fondato sull’ideale della per­ fezione (oggettivo interno); di Crusius e dei teologi, fondato sulla volontà di Dio (oggettivo esterno). Ogni azione, quindi, che abbia come movente non il rispetto della legge, ma qualunque contenuto sensibile o intellettuale è « eteronoma » e quindi non è morale né virtuosa. Il dovere e la legge morale devono prescindere completamente, quanto alla loro fonda­ zione, da ogni riferimento a quelle che Kant chiama le « affezioni patologiche » dell’anima e che sono, in primo luogo, le inclinazioni sensibili, il piacere e il dolore e perfino la felicità (e il ripetuto insi­ stere, di Kant su questo motivo dà alla sua etica un indiscutibile ac­ cento rigoristico e quasi ascetico). Il dovere per il dovere: questo deve poter essere l’unico movente perché vi siano moralità e virtù; altrimenti sarà bensì possibile una « legalità », cioè una conformità solo esteriore ad una legge, ma in quanto i moventi sono altri, non vi sarà vera e propria moralità, così come non è moralità il « fana­ tismo » morale, cioè la presunzione di adempiere alla legge in base ad una inclinazione naturale, senza sforzo e infallibilmente, dimen­ ticando l’umiltà della semplice sottomissione al dovere. Diversa e positiva è invece la considerazione kantiana del sentimento di « ri-

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spetto », prodotto dalla ragione e indirizzato sempre verso le per­ sone e mai verso le cose: è infatti nel rispetto che si deve cercare il movente ad accogliere in se stessi la legge come massima della propria volontà. È infine l’autonomia della legge morale che rende spiegazione Il paradosso della ragion di ciò che Kant chiama il « paradosso della ragion pratica », cioè del pratica fatto che mentre la ragion pura presuppone i suoi oggetti, il bene e il male, che sono gli oggetti della ragion pratica, non devono es­ sere determinati prima della legge morale, ma soltanto dopo e me­ diante essa. Se il concetto di bene precedesse la determinazione della legge, infatti, questa sarebbe eteronoma, così come sarebbe eteronoma una legge che traesse il suo valore dal comando divino; il movente dell’azione sarebbe allora il rispetto o la paura di Dio e non la legge stessa. Termina così la analitica della ragion pratica: da essa, abbiamo Il dualismo di virtù e visto, risulta un dualismo profondo tra « virtù » (cioè l ’azione di felicità e il una volontà che ha nella legge il suo unico movente) e « felicità ». problema del Orbene, è proprio da questa opposizione che parte la « dialettica « sommo ben della ragion pratica » nel tentativo di giungere all’incondizionato, cioè al « sommo bene ». La virtù, infatti, è il « bene supremo », la « condizione suprema » di ciò che è desiderabile, « ma non per questo essa è il bene intero e perfetto come oggetto della facoltà di desiderare degli esseri razionali finiti: poiché per questo bene si richiede anche la felicità ». Il sommo bene è quindi l’unità di virtù e felicità ed è un’unità Gli altri due che « deve poter essere possibile » se non in questa vita, in una postulati dell ragion pratici vita ultraterrena. L ’esistenza di Dio, come garanzia assoluta della l’esistenza di unità di virtù e felicità, e l’immortalità dell’anima, come garanzia Dio e l’immc talità della della possibilità, per l’uomo, di raggiungerla, sono così, oltre la li­ anima bertà, gli altri due « postulati » della ragion pratica: è moral­ mente necessario ammetterli, se non si vuole, compromettere il concetto di sommo bene, compromettere il concetto stesso di virtù. È facile riconoscere nei tre postulati della ragion pratica le tre La dottrina morale « idee » della ragion pura: l’aspirazione necessaria al sommo bene, della e la possibili) mediante il rispetto alla legge e la supposizione dell’esistenza ogget­ della tiva di questo sommo bene, conduce quindi a concetti che la ragion metafisica Il primato del pura speculativa poteva esporre come problemi ma non risolvere. ragion pratici In ciò consiste quello che Kant chiama il « primato della ragion

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pratica » sulla ragione speculativa e che egli espresse nella celebre frase: « ho dovuto distruggere il sapere, per far posto alla fede », anche se altrove egli piuttosto che l’opposizione tende a sottolineare l’armonia dei due punti di vista, come quando afferma che due cose hanno sempre destato la sua meraviglia, il cielo stellato sopra di lui e la legge morale dentro di lui. L ’adesione, assolutamente necessaria, ai concetti di libertà, di anima e di Dio, significa dunque un’estensione della ragion pura, nel rispetto pratico, senza che ciò però significhi un’estensione della sua conoscenza speculativa: ciò che era trascendente per la ragione speculativa è immanente per la ragion pratica, che perciò, al di là dei fenomeni, ci porta nel cuore stesso della realtà in sé, nel mondo noumenico. 7 - I l giudizio teleologico e la « Critica del giudizio ». Con la Critica della ragion pura e con la Crìtica della ragion dei pratica Kant sembrava giunto a conclusioni contrapposte, che potedefduabamo vano convivere solo in quanto collocate su piani radicalmente ditja le^prime versi: nel primo caso un mondo « fenomenico », governato dal due Critiche meccanicismo causale; nel secondo caso un mondo « noumenico » o dei fini, governato dalla legge di una volontà libera. La contrap­ posizione poteva apparire poi particolarmente lacerante se istituita tra l’Io fenomenico, legislatore della natura secondo la necessità, e l’Io noumenico, legislatore della moralità secondo libertà. Se la contrapposizione fosse stata realmente in questi termini rigidi, essa sarebbe stata insuperabile: in realtà noi abbiamo visto che la prima Critica pone per molti versi esigenze che trovano soddi­ sfazione nella seconda, soprattutto ponendo come « possibile » (cioè pensabile, anche se non conoscibile scientificamente) quel mondo noumenico, della cui realtà la ragione pratica ci rende certi in modo assoluto. E questo non significa un’estensione della ragione sul piano speculativo, ma della ragione nel « rispetto pratico ». D ’altra parte l’unità di natura e libertà morale è sentita dal­ l’uomo come un suo « bisogno » che non può rimanere inappagato: l’uomo non potrebbe agire moralmente, cioè liberamente, in un mondo tutto dominato dalla necessità; ha bisogno cioè di « sen­ tire » la natura in accordo con la sua libertà e tale che, con le sue Il problema

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leggi, questa libertà renda possibile. Ma come è pensabile tutto ciò, tenendo fermi i risultati delle prime due Critiche? È questo il problema della terza Critica, la Critica del giudizio. Per « critica del giudizio » Kant intende l’esame della « facoltà del giudicare », che è intermedia tra l’intelletto e la ragione, cioè tra la sfera della conoscenza e la sfera della moralità. Vedremo me­ glio più avanti come si svolge questa mediazione; per il momento è importante tenere presente che solo nella Critica del giudizio, ri­ spetto alle altre Critiche, viene esplicitamente riconosciuta una terza facoltà, oltre il « potere di conoscere » e il « potere di deside­ rare »: il « sentimento del piacere o del dolore ». Questa assunzione del « sentimento » come facoltà dell’Io è cer­ to il segno più evidente dell’influsso di tutte le discussioni che si ebbero nel Settecento sia in Inghilterra sia in Francia, da Shaftesbury a Rousseau, e non soltanto in tema di etica ma anche di estetica; ed è stata, anzi, forse proprio la riflessione sui giudizi estetici ad indirizzare le ricerche kantiane. Ma quale tipo di giudizio appartiene alla facoltà del sentimento? Noi già conosciamo dalla Critica della ragion pura, il giudizio pro­ prio del pensiero scientifico, e che consiste nel sussumere un’intui­ zione sotto un concetto o universale già dato (cioè Va priori del­ l’intelletto); ma vi è un altro modo in cui il particolare può essere compreso nell’universale, quello cioè in cui è dato il particolare men­ tre l’universale è da trovare. In questo secondo caso con il termine universale non si intende, naturalmente, Va priori dell’intelletto, ma il concetto di « fine ». Kant chiama questo secondo tipo di giudizio « riflettente » e lo contrappone al giudizio « determinante » proprio della ragione speculativa. Quest’ultima, infatti, « determina » il suo oggetto (nella Crìtica della ragion pura Kant avrebbe detto lo « costituisce »), nell’atto stesso in cui, conoscendolo, organizza il materiale empi­ rico mediante la forma a priori. Il giudizio del sentimento, invece, non determina gli oggetti né estende la loro conoscenza, ma si trova davanti, già dati dall’intelletto, gli oggetti e su di essi « ri­ flette » per trovare, in riferimento ad essi, il suo universale, cioè la finalità. Con il concetto della finalità della natura, vale a dire di una natura organizzata in funzione della realizzazione di un fine, l’uomo cerca di determinare quell’accordo della natura con la sua libertà

L a « critica c giudizio »

Il sentimento il suo giudizi

Giudizio « riflettente » e giudizio « determinant

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L a finalità della natura

Il giudizio estetico e il giudizio teleologico

II concetto estetico e il concetto di bello

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morale, che abbiamo visto essere un suo specifico « bisogno ». Per chiarire meglio la differenza, si può pensare al diverso atteggiamento, poniamo, di un geologo e di un turista di fronte ad una bella ca­ scata d’acqua: per il primo, essa deve essere solo un fenomeno da studiare scientificamente nelle sue cause e in tutti i suoi vari aspetti; per il secondo essa è piuttosto uno « spettacolo », che su­ scita un sentimento e un piacere derivante dall’accordo di ciò che vediamo e di ciò che sentiamo e quindi del tutto indipendente dalla conoscenza scientifica del fenomeno. Segue da ciò che la finalità non entra nella « determinazione » o nella « costituzione » degli oggetti e non ne rende possibile, quindi, una conoscenza diversa da quella scientifica. Certo, se l’uomo potesse conoscere la realtà noumenica, se la ragione potesse creare o costituire le cose in sé secondo la sua li­ bertà, la finalità sarebbe un dato oggettivo delle cose nella loro singolarità e nel loro insieme. Ma poiché questo è impossibile per una ragione finita, quale è quella dell’uomo (come sappiamo dalla Critica della ragion pura), il giudizio riflettente non è « oggettivo » ma « soggettivo », dal punto di vista della scienza. Tuttavia, dal punto di vista del sentimento, Kant, chiama « sog­ gettivo » solo uno dei due tipi possibili di giudizio riflettente, quello cioè in cui la finalità della cosa consiste nel suo accordo immediato con il nostro modo di vederla (ed è il « giudizio estetico »); chiama invece « oggettivo » quel giudizio in cui la natura è sentita come tale che realizza un disegno intenzionale e una finalità oggettiva (ed è il « giudizio teleologico »). Kant ha elaborato due trattazioni distinte, nella Critica del giu­ dizio, per il giudizio estetico e per il giudizio teleologico, ciascuna divisa, in analogia con le altre Critiche, in una « analitica » e in una « dialettica ». Nell’analisi del giudizio estetico e della relativa facoltà, che è quella del « gusto », Kant parte dall’osservazione che la « bellezza », e il « bello », non è una proprietà oggettiva delle cose, ma una qualità che noi attribuiamo ad esse in funzione del sentimento di piacere o di dolore che la loro immagine suscita in noi; e poiché ciò che giudica il rapporto tra l’immagine e il sentimento è il « gusto », bello non è tutto ciò che piace, ma solo ciò che piace nel giudizio del gusto, cioè nel giudizio estetico.

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Kant individua quattro elementi caratterizzanti il giudizio este­ tico: 1) bello è ciò che piace « senza interesse »: l’interesse infatti presuppone l’esistenza della cosa, verso la quale ci volgiamo quando vogliamo usarne a scopo o di godimento o di utilità o di un’azione morale. Ma il bello non si identifica né con il piacevole, né con l’utile, né con il buono, e il giudizio che lo esprime è del tutto indifferente alla realtà dell’oggetto e volto unicamente alla contem­ plazione disinteressata della sua rappresentazione. 2) il bello è ciò che piace « universalmente, senza concetto »: il giudizio este­ tico è bensì soggettivo ma non individuale; non è un gusto per­ sonale, di cui, come dice il proverbio, non est disputandum, ma pretende di valere anche per gli altri, in quanto anche negli altri presuppone un’identica disposizione soggettiva e quindi la possi­ bilità di essere condiviso. Certo, non si tratta dell’universalità scien­ tifica, fondata sui concetti e sul ragionamento, ma, in quanto pre­ scinde dagli elementi particolari della soggettività ed è senza inte­ resse, il giudizio estetico deve poter essere fatto proprio da tutti. 3) « la bellezza è la forma di una finalità di un oggetto », cioè non un fine determinato, sensibile razionale o pratico, ma l’idea stessa, soggettiva, della finalità come accordo formale, quasi che fosse intenzionale, delle parti in un tutto armonico. 4) il bello è l’og­ getto di un « piacere necessario »: necessario in un senso soggettivo e non oggettivo, cioè come norma ideale, per la quale tutti debbono poter essere d’accordo sul giudizio di gusto. Diverso dal sentimento del bello è il sentimento del « sublime », suscitato in noi dalla « smisurata grandezza » (sublime matematico) o dalla « smisurata potenza » (sublime dinamico) della natura (e si ricordi, a questo proposito, la distinzione delle categorie in ma­ tematiche e dinamiche): questo sentimento è inizialmente di insuffi­ cienza, e quindi di pena, o di timore, causato dalla consapevolezza dei nostri limiti che lo spettacolo grandioso della natura suscita in noi; tuttavia, in un secondo momento, questo sentimento della propria impotenza sensibile rivela, per contrasto, la coscienza di una potenza illimitata dello stesso soggetto, di una sua superiorità in quanto razionalità, rispetto al proprio destino, che trasforma in po­ sitivo il precedente sentimento negativo. Il « bello », di cui Kant ha fin qui parlato, è essenzialmente il « bello di natura »; ma da questo egli distingue poi il « bello arti-

Le detenmnazion del bello

Il < sublime »

Bello di natui e bello artistico

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Il giudizio teleologico

L’organÌBmo vivente

L ’uomo come scopo finale della natura

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stico » che non è sentito nelle cose mediante il giudizio di gusto, ma è prodotto dal « genio ». E per genio, in quanto facoltà innata, Kant intende l’unione, secondo un certo rapporto, di immaginazione e intelletto, nel senso che l’intelletto spontaneamente regola e indi­ rizza la libertà produttrice dell’immaginazione; per questo, secondo Kant nella scienza ci sono bensì dei grandi « ingegni » ma non pro­ priamente dei « geni », che esistono solo nel campo dell’arte. Al di là della differenza, però, tra bello di natura e bello arti­ stico esiste anche una profonda affinità, perché, da un lato, un og­ getto della natura ci appare bello quando ha l’apparenza dell’arte e, dall’altro, « davanti ad un prodotto dell’arte bisogna essere coscienti che esso è arte e non natura; ma la finalità della sua forma deve apparire libera da ogni costrizione di regole arbitrarie proprio come se fosse un prodotto della natura ». La seconda parte della Critica del giudizio concerne, come si è detto, il « giudizio teleologico », cioè quel giudizio nel quale l’ac­ cordo tra la natura e la libertà è pensato mediante il concetto di fine; si tratta, ribadisce Kant, di un giudizio riflettente e non deter­ minante, che vede la finalità di un oggetto nell’oggetto stesso e non in qualcosa di superiore. La concezione finalistica della natura se quindi, per un certo aspetto, si oppone a quella meccanicistica della scienza, per un altro aspetto, in quanto non è propriamente una conoscenza, deve anche poterla integrare: « non c’è nessuna ragione umana (e neanche alcuna ragione finita superiore alla nostra per grado, ma simile per qualità) che possa sperare di comprendere, se­ condo cause meccaniche, la produzione sia pure di un solo filo d’erba ». E gli organismi viventi offrono appunto l’esempio più ca­ ratteristico di una considerazione finalistica, poiché in essi la cor­ relazione delle loro parti con il tutto è tale da far pensare ad un’idea di una intelligenza che si è proposta quella correlazione come un fine. Tutto ciò non fa comunque progredire la nostra conoscenza, perché noi non conosciamo affatto la maniera di agire di quell’in­ telligenza né le sue idee che debbono contenere « i principi della possibilità delle cose naturali » e non possiamo « spiegare con esse a priori la natura dall’alto al basso ». Ora è proprio la teleologia che ci consente di interpretare l’uomo come « scopo finale » della realtà: esso, infatti, in quanto soggetto noumenico e quindi incondizionato, non suppone alcun’altra realtà

IM M A N U E L

KANT

335

come condizione della sua possibilità. A questo scopo finale la na­ tura è teleogicamente subordinata (senza l’uomo, dice Kant, la crea­ zione sarebbe un inutile deserto) e ciò significa che il « fine ultimo » della natura è quello di rendere possibile la vita morale dell’uomo, mostrando l’accordo che così si instaura tra gli scopi propri del mondo naturale e gli scopi propri dell’uomo come causalità libera. E la garanzia di questo accordo poggia su una « prova morale » dell ’« esistenza di Dio, come causa morale del mondo »; ma questa prova, ribadisce Kant, oltre a non essere utilizzabile speculativamente, non toglie che la moralità debba essere fondata solo sul co­ mando della ragione.

8 - La religione, il diritto, la politica e la pedagogia. Tre anni dopo la Critica del giudizio Kant pubblicò la Religione nei limiti della ragione, in cui, come dice il titolo stesso, cercò di dimostrare che la religione si riduce, quanto alla sua forma, alla mo­ ralità e che perciò va capovolto il tradizionale rapporto, per cui la religione fonda la moralità: quest’ultimo rapporto, infatti rende­ rebbe eteronoma la moralità, mentre noi sappiamo dalla Critica della ragion pratica che non solo la moralità deve poter essere autonoma, ma che la stessa idea di Dio è un postulato della mo­ ralità. Il fondamento di ogni religione è l’idea di un « male radicale », da cui l’uomo si accorge di non potersi liberare con le sole sue forze, e perciò sollecita l’intervento salvifico di Dio. Tale male radicale consiste nella tendenza dell’uomo al male, una tendenza, però, che non è predeterminata e necessitante, ma libera e per questo moralmente riprovevole: l’uomo è un essere fragile e corruttibile, e quindi spesso si lascia trascinare da moventi diversi dalla legge e non sempre chiaramente discernibili, cosicché, pur avendo coscienza della legge, adotta la massima di allontanarsi da essa. Questa devia­ zione, però, non può essere imputata solo alla sensibilità (perché se fosse così, l’uomo sarebbe ridotto ad una condizione animalesca) e neppure solo alla ragione (perché, se così fosse, l’uomo sarebbe ridotto ad una condizione diabolica) ma da un loro rapporto tenden­ zialmente non corretto: in quanto radicato nell’« uso soggettivo della

La religione nei limiti della ragione

Il « male radicale »

ODO

IL L U M IN IS M O

E

C R IT IC IS M O

libertà » il male radicale è ineliminabile, se non per la grazia sal­ vifica di Dio. La differenza tra il male radicale, di cui parla Kant, e il peccato originale della tradizione cristiana sta nel fatto che esso non è tra­ smissibile, altrimenti la stessa libertà umana verrebbe meno: ciò significa che le vicende religiose della caduta e del riscatto, le vicende di Adamo e di Cristo, si riproducono ogni volta nell’inte­ riorità dell’uomo e che secondo questo criterio vanno reinterpretate non solo le Scritture ma anche le verità e i misteri della stessa tradizione dogmatica. L a Chiesa E dato che è nella vita sociale che l’uomo è più esposto al male, invisibile nasce l’esigenza di una « repubblica morale », fondata sulle leggi della virtù e aperta a tutti gli uomini giusti; questa repubblica morale « in quanto non è oggetto di esperienza possibile » è chia­ mata da Kant « chiesa invisibile », la quale, come ideale, conferma le « chiese visibili » che si sono storicamente attuate. Ma questa attuazione comporta anche, in conseguenza della debolezza umana, una deviazione: la chiesa invisibile poggia infatti su una fede reli­ giosa pura, razionale, incentrata sull’idea che il comportamento mo­ rale è l’unica cosa che Dio chiede agli uomini (e questa per Kant costituisce la sola « religione naturale »); le chiese visibili, invece, hanno bisogno di un « culto » e di una « rivelazione » (che è sem­ pre una credenza storica e non razionale), che pongono sempre più l’accento sull’esteriorità del rapporto religioso e favoriscono la su­ perstizione e la fantasticheria. Le dottrine L ’ultima opera sistematica di Kant è la Metafisica dei costumi, *^la d'ottrina ^el 1797, che avrebbe dovuto costituire l’analisi concreta di quei della virtù problemi etici, di cui la Critica della ragion pratica doveva costi­ tuire la premessa e l’introduzione. Essa comprende una « dottrina del diritto » e una « dottrina della virtù » (con ima complessa classificazione dei doveri verso se stessi e dei doveri verso gli al­ tri, che qui possiamo tralasciare), dal momento che le leggi della li­ bertà possono essere considerate come il termine a cui si confor­ mano le azioni esteriori degli uomini (leggi giuridiche) o come il movente della loro volontà (leggi morali). Il diritto È evidente che al diritto non interessa il movente che determina la volontà a fare ima certa azione, ma solo l’azione, non se qualcuno ha mantenuto la promessa perché lo riteneva doveroso o conveniente,

IM M A N U E L

KANT

337

ma solo se la promessa è stata mantenuta. Quindi il diritto concerne l’esteriorità delle azioni e su di esse agisce, anche coattivamente, quando esse entrano in conflitto: « agisci esteriormente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ogni uomo secondo una legge universale ». Questo è il principio del di­ ritto, che si distingue poi in « privato » e « pubblico ». Per ciò che concerne il diritto privato, il punto più interessante è l’affermazione che il rapporto giuridico è sempre tra persone e mai tra una persona e le cose; il « diritto di proprietà » riceve così una nuova interpreta­ zione, perché la semplice affermazione di un mio diritto su una cosa è sempre fatta nei confronti di un altro individuo (o di molti indi­ vidui) e quindi rientra nel generale equilibrio dell’uso della libertà. Il diritto pubblico concerne invece la comunità degli individui ordinata giuridicamente. Kant fa sua, a questo proposito la tripar­ tizione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) enunciata da Montesquieu ed attribuisce il potere legislativo all’insieme di tutti i cittadini, garantiti nella loro libertà legale e nella loro eguaglianza e indipendenza civile. Il che non toglie che Kant neghi la legitti­ mità della ribellione al sovrano. Caratteristica infine è l’opposizione di Kant alle tesi di Beccaria sulla pena: il reo va punito per il male che ha commesso, e non perché la sua pena può portare un beneficio o al reo stesso o alla società (ché in questo caso si farebbe del reo un « mezzo », mentre esso, come persona, è pur sempre un « fine »). Perciò chi ha ucciso, deve morire e quella di Beccaria è una falsa umanità. Le teorie politiche che abbiamo già visto nella Metafisica dei costumi sono integrate da quelle esposte nello scritto sulla Pace per­ petua e che si riferiscono soprattutto ai rapporti internazionali: la necessità di instaurare la pace e di promuovere l’unione degli stati in un’organizzazione federativa ispirano tutte le norme particolari di politica estera che Kant elabora ed elenca organicamente. L ’influsso dell’Emilio di Rousseau, infine, è sensibile nel pensiero pedagogico di Kant, che conosciamo dal corso di lezioni pubblicato dai suoi scolari. Il fine dell’educazione è la formazione dell’uomo in generale e si attua attraverso la formazione fisica (per la quale vale il principio russoiano del lasciar fare il più possibile alla natu­ ra) e l’educazione morale che deve sviluppare, anche con l’ausilio delle punizioni, l’abitudine ad agire secondo le massime della volontà. 22 -

Giannantoni,

II.

Diritto e politica

L a « pace perpetua »

L a pedagogii

INDICE DEI NOMI Abrabanel, Giuda, cfr. Leone Ebreo Abramo 137 Académie Frangaise 120 Accademia del Cimento 111, 119 Accademia degli Investiganti 220 Accademia dei Lincei 111, 119 Accademia Platonica fiorentina 13, 14, 21, 25, 37, 119 Accademia Pontaniana 6 Accademia dei Pugni 288 Accademia Romana 6 Accademia delle Scienze di Berlino 119 Accademia delle Scienze di Parigi 119 Accetto, Torquato 219 Achille 227 Achillini, Alessandro 61 Aconcio, Giacomo 41 Adamo 42, 200, 217, 336 Addison, Joseph 237 Agostino 7, 32, 43, 135, 158, 159, 166, 222 Agricola, Giorgio 77 Agricola, Rodolfo 31 Agrippa di Nettesheim 57, 38 Ailly, Pietro d’ 17 Alberoni, cardinale 234 Alberti, Leon Battista 6, 11, 14, 24 Alberto Magno 12, 57 Alembert, Jean-Baptiste Le Rond, d’ 254, 271-72, 289 Alessandro di Afrodisia 22, 60 Alessandro VI Borgia, papa 4, 34 Alfieri, Vittorio 237 Alfonso di Aragona 14 Algarotti, Francesco 286 Alighieri, Dante 221, 229 Altusio, Giovanni 149-30, 152 Ambrogio 32

Anna Bolena 53 Archimede 11, 59, 77 Argiropulo, Giovanni 9 Ariosto, Ludovico 119 Aristofane 9 Aristotele 10, 11, 12, 13, 14, 16, 19, 20, 31, 49, 59, 61, 62, 63, 66, 67, 68, 80, 84, 87, 94, 100, 104, 108, 147, 219, 220, 304, 312, 314 Arminio, Giacomo 42 Arnauld, Antoine 124, 135, 139, 160, 166, 167, 168, 169, 206, 208 Arouet, Marie, cfr. Voltaire Ashley, Lord 190 Atteone 90 Aubignac, Francois abate d’ 158 Aurispa, Giovanni 9 Averroè 12, 60, 64 Avicebron 88 Avicenna 58 Bach, Johannes Sebastian 121, 238 Bacone, Francesco 79, 97-103, 120, 141, 189, 190, 222, 223, 255, 272, 287 Bacone, Ruggero 189 Balguy, Giovanni 233 Baretti, Giuseppe 237 Battoli, Daniello 219 Baumgarten, Alexander Gottfried 294295, 297, 302 Bayle, Pierre 218, 265-266 Beccaria, Cesare 287, 289-290, 337 Beeckmann, Isacco 123, 131 Bellarmino, Roberto, cardinale 46-47, 67, 106 Bembo, Pietro 24 Beniveni, Girolamo 24

341)

IN D IC E

Berkeley, George 194, 199, 240, 244249, 255, 259, 263, 306, 318 Bernini, Gian Lorenzo 120 Bernouilli, Giacomo 238, 292 Bernouilli, Giovanni 238, 292 Bérulle, Pierre de, cardinale 166 Bessarione, Basilio 9, 13, 22 Bettinelli, Saverio 237 Betussi, Giuseppe 24 Biondo, Flavio 9 Biringuccio, Vannoccio 77 Blackstone, William 243 Boccalini, Traiano 119 Bodin, Giovanni 54-55, 148, 149, 222 Boerhaave, Hermann 239 Boezio, Anicio Manlio Torquato Se­ verino 15 Bohme, Jacopo 42-43, 205 Boiardo, Matteo Maria 6 Boileau, Nicola 120, 157,158,220,238 Boineburg, barone di 206 Bolingbroke, Henry Saint-John 243 Bombast di Hohenheim, Philipp, cfr. Paracelso Bombelli, Raffaele 11 Bonaventura da Bagnoregio 57 Bonnet, Carlo 276 Bonnot, Stefano abate di Condillac, cfr. Condillac Borelli, Alfonso 220 Borgia, Cesare 27 Borromini (Francesco Castelli) 120 Bossuet, Jacques Benigne 120, 157, 207, 233 Boterò, Giovanni 54, 222 Botticella Alessandro 6 Bouhours, Dominique 220 Bouillé, Charles 31, 69 Bovillo e Bovillus, cfr. Bouillé, Charles Boyle, Robert 186-187, 190, 191, 194, 208, 244 Bracciolini, Poggio 5, 6, 8, 13, 16 Bradley, Giacomo 238 Brahe, Ticone 76, 157

D EI

NOMI

Bramhall, vescovo 141, 145, 147 Braunschweig-Luneburg, Giovanni Fe­ derico di, duca di Hannover 206 Brunelleschi, Filippo 6 Bruni, Leonardo 5, 9, 10, 13, 24 Bruno, Giordano 17, 45, 46, 76, 79, 83, 84-90, 97, 171 Bucero, Martino 37 Buckingham, Lord 97 Buffon, Georges-Louis Ledere conte di 239, 254, 274, 302 Burke, Edmund 243, 263 Burthogge, Richard 240 Butler, Joseph 243, 244, 253 Caboto, Giovanni e Sebastiano 5 Caietano, cfr. De Vio, Tommaso Calcondila, Demetrio 9 Calderón de la Barca, Pedro 120 Calvino, Giovanni 37, 38, 39-40, 57, 107 Campanella, Tommaso 45, 79, 85, 9097, 106, 107, 135, 219 Canaletto (Antonio Canal) 120, 238 Carafa, cardinale (v. anche: Paolo IV) 44, 45 Caravaggio, Michelangelo da 120 Cardano, Girolamo 11, 59 Caritat, Jean, marchese di Condorcet, cfr. Condorcet Carlo V, imperatore 27, 28, 34, 36, 38 45 52 Carlo II d’Asburgo 233 Carlo VI d’Austria 233 Carlo V II re di Francia 3 Carlo V il i re di Francia 4 Carlo III di Borbone 235 Carlo I Stuart 115, 190, 270 Carlo II Stuart 118, 141, 190 Carlo il Temerario 3 Carlo Emanuele III 235 Carlotta di Prussia 207 Carracci 120 Cartesio, Renato, cfr. Descartes, René Castelli, Benedetto 105, 108

IN D IC E D E I

Castellione, Sebastiano 41 Castelvetro, Lodovico 66 Castiglione, Baldassarre 24 Caterina, moglie di Enrico V il i 53 Caterina II di Russia 235, 266, 288 Catone 15 Cavalieri, Bonaventura 111 Cervantes De Saavedra, Miguel 120 Cesalpino, Andrea 64 Cesare 15, 209, 270 Cesarini card. 17 Cesi, Federico 119 Chambers, Ephraim 271 Chanut, ambasciatore 125 Charron, Pietro 71-72, 156 Cicerone 8, 9, 16 Cimarosa, Domenico 238 Clarke, Samuel 208, 216, 243-244 Clauberg, Johann 164 Cleante 259 Clemente V ili, papa 29, 64, 67 Clemente XI, papa 118, 159 Clemente X III, papa 271 Clemente XIV, papa 235 Colbert, Jean-Baptiste 117, 118, 119 Collier, Arthur 241 Collins, Anthony 242, 243 Colombo, Cristoforo 5 Colombo, Realdo 78 Comenio, cfr. Komensky, Giovanni Amos Condillac, Stefano Bonnot, abate di 274-276, 284, 286, 295 Condorcet, Jean Caritat, marchese di

279 Contarmi, Gaspare 44, 63 Conti, Antonio 220, 221 Coornhert, Dirck Volckertszoon 42 Copernico, Niccolò 10, 73, 75-76, 84, 85, 94, 105, 106, 142 Cordemoy, Gérard de 164 Corelli, Arcangelo 238 Corneille, Pierre 120 Cornelio, Tommaso 220 Cortese, Paolo 16

NOMI

341

Cortez, Fernando 28 Costantino, imperatore 15, 16 Coulomb, Charles-Auguste de 238 Cremonini, Cesare 65, 104 Crisolora, Manuele 9, 12 Crisostomo, Giovanni 84 Cristina di Lorena 105, 108 Cristina di Svezia 125 Cromwell, Oliviero 116, 140, 190, 249 Crusius, Christian August 295, 303, 304, 328 Cudworth, Ralph 153-154, 190 Culverwel, Nathaniel 153 Cumberland, Richard 154 Cusano, Nicola 17-21, 22, 31, 84 D ’Ancona, Ciriaco 9 Decembrio, Pier Candido 9 De Foe, Daniel 237 De la Ramée, Pierre, cfr. Ramo, Pietro Della Francesca, Piero 6, 11, 24 Della Porta, Gian Battista 59, 60, 84, 91 Demea 259 Democrito 84 Demostene 9 Descartes, René 45, 70, 79, 111, 120, 122-139, 140, 141, 143, 144, 146, 155, 156, 157, 159, 160, 161, 166, 167, 168, 170, 173, 174, 178, 181, 186, 189, 190, 191, 192, 209, 211, 212, 214, 216, 220, 221, 224, 225, 245, 263, 268, 272, 287, 308 De Vio, Tommaso 47 De Vitoria, Francesco 47 De Vries, Simone 171 De Witt, Giovanni 172 Diana 90 Diaz, Bartolomeo 5 Diderot, Denis 254, 271-274, 277, 279, 280, 289 Domenichino (Domenico Zampieri) 120 Donatello 6

342

IN D IC E

Doria, Paolo Mattia 220, 225 Drake, Francis 116 Duns Scoto, Giovanni 19 Dyck, Antonio van 120 Eck, Johann 32 Eckhart, Meister 17, 42 Ecolampadio, Giovanni 37 Elisabetta d’Inghilterra 29, 84, 97, 116 Elisabetta del Palatinato 125, 139 Elisabetta di York 3 Emanuele Filiberto di Savoia 29 Enea 7 Enrico IV di Borbone, re di Francia 29, 115, 118, 270 Enrico V II Tudor 3 Enrico V ili re d’Inghilterra 28, 53 Epicuro 15, 84, 328 Epinay, Madame d’ 279 Epitteto 162 Equicola, Mario 24 Erasmo da Rotterdam 31-33, 36, 37, 84 Ermete Trismegisto 22 Ermolao Barbaro 9, 12, 25, 30 Eschilo 9 Essex, conte di 97 Euclide 11, 59, 77, 104, 141 Eugenio IV, papa 18 Eulero, Leonardo 238, 292 Fabrizio di Acquapendente 78 Falloppio, Gabriele 78 Fazio, Bartolomeo 14 Federico I, re di Prussia 119, 234 Federico II di Prussia 235, 266, 286, 292 Federico di Sassonia 36 Federico Guglielmo I di Prussia 234, 292 Federico Guglielmo II di Prussia 301, 302 Fénelon (Francois de Salignac de la Mothe) 157

D EI

NOMI

Ferdinando d’Aragona, il Cattolico 3 Ferdinando I 28 Ferdinando IV 235, 287 Fermat, Pietro 111, 129, 189 Fernel, Giovanni 78 Ferrante di Parma 274 Ficino, Marsilio 12, 20, 21-24, 25, 30, 31, 32, 84, 222 Fielding, Henry 237 Filangieri, Gaetano 288 Filelfo, Francesco 14 Filippo II di Spagna 28, 29, 115, 120 Filippo V di Spagna 234 Filmer, Robert 200 Filone 259, 260 Flacius, Matthias 39 Fleury, André-Hercule, cardinale de 234 Fludd, Roberto 59 Fontenelle, Bernard Le Bovier de 268 Fracastoro, Girolamo 59, 63, 66 Francesco I di Francia 27, 28 Francesco di Sales 45 Frank, Sebastiano 42, 43 Franklin, Benjamin 238 Galeno 59, 78 Galiani, Ferdinando 287-288 Galilei, Galileo 45, 46, 65, 76, 79, 85, 94, 97, 99, 101, 103-110, 119, 124, 131, 141, 142, 187, 194, 219, 220, 287 Galvani,‘Luigi 238 Gassendi, Pierre 124, 135, 137, 138, 156-157, 211, 218, 220 Gemisto Pletone, Giorgio 9, 12 Genovesi, Antonio 287 Gentile, Alberico 150-151 Gerard, Alexander 263 Gerson, Giovanni 17 Geulinx, Arnold 164-166 Giacomo I Stuart 97, 98, 116 Giacomo da Cremona 11 Giambologna (Jean Boulogne) 120 Giannone, Pietro 221, 286

IN D IC E

Giansenio, Cornelio 49, 158-159, 160, 161 Gibbon, Eduard 243 Gilbert, William 77 Gioia, Melchiorre 286 Giordano, Luca 120 Giorgio Federico, duca di Hannover, cfr. Giorgio I d’Inghilterra Giorgio I re d’Inghilterra 207 Giovanni da Prado 171 Giovanni della Croce 120 Giove 228 Girolamo 32, 46, 84 Giulio II della Rovere, papa 27, 34, 43 Giulio III, papa 45 Giuseppe II d’Austria 235 Gluck, Cristoforo 238 Goethe, Johann Wolfgang 120 Goldoni, Carlo 237 Gottsched, Johann Christian 238 Gracian, Baltasar 120 Grassi, Orazio 106 Gravina, Gian Vincenzo 221 Grazio, Ugo 150, 151-152, 225, 291 Guarino Veronese 9, 22 Guercino (Giovan Francesco Barbieri) 120 Guglielmo III d’Orange 118, 190 Guglielmo il Taciturno 29 Guicciardini, Francesco 52, 54 Gunther, Johann Christian 238 Hakluyt, Richard 116 Haller, Albrecht 238 Halley, Edmund 11, 238 Handel, Giorgio Federico 121, 238 Hartley, David 241 Harvey, Guglielmo 111, 131, 142, 145, 189, 212 Haydn, Giuseppe 238 Hegel, Giorgio Guglielmo Federico 176 Helmont, Giovan Battista 59

DEI

NOMI

343

Helvétius, Claude-Adrien 254, 271, 277-278, 287 Herbert di Cherbury, Edward 141, 153, 241 Herder, Johann Gottfried von 301, 322 Hobbes, Thomas 124, 135, 140-149, 152, 153, 159, 185, 186, 190, 191, 197, 201, 211, 225, 244, 291 Holbach, Paul-Henri Dietrich d’ 254, 271, 276-277, 279 Hooke, Robert 186, 187 Huet, Daniele 136, 157 Hume, David 194, 196, 199, 243, 253, 254-261, 263, 280, 295, 303, 305, 306, 308, 311, 313 Hutcheson, Francesco 243, 252-253, 261, 304, 328 Hutten, Ulrico von 36 Huygens, Christian 157, 172, 186, 206 Ignazio di Loyola 44, 45 Ilario 32 Innocenzo III, papa 14 Innocenzo X, papa 159 Ippocrate 59 Isabella di Castiglia 3 Isacco 137 Ivan III il Grande 4 Ivan il Terribile 115 Jahve 40 Jansen, Cornelius, cfr. Giansenio Kant, Immanuel 294, 295, 297, 299-

337 Keplero, Giovanni 10, 76-77, 104, 105 Klopstok, Friedrich Gottlieb 238 Knox, Giovanni 40 Knutzen, Martin 294, 300 Komensky, Giovanni Amos (Comenio) 204 Krebs, Nicola, cfr. Cusano, Nicola

344

IN D IC E

La Bruyère, Jean de 120, 127 Laclos, Pierre Chorderlos de 237 La Fayette, Louise, M.me de 120 La Fontaine, Jean de 120, 137 Lagrange, Giuseppe Luigi 238, 277 Lambert, Johann Heinrich 295 La Mettrie, Julien Ofiroy de 276 La Mothe Le Vayer, Francois 156 Landino, Cristoforo 14 Laplace, Pierre-Simon 302 La Rochefoucauld, Francois de 120 Lascaris, Costantino 9 Lattanzio 76 Laura 7 Lavoisier, Antoine-Laurent 239 Leeuwenhoek, 212 Lefèvre d’Etaples, Jacques 31 Leibniz, Gottfried Wilhelm 119, 137, 173, 187, 192, 205-218, 220, 225, 268, 290, 292, 293, 294, 303 Leonardo da Vinci 10, 73, 74-75 Leone X, papa 34, 35 Leone Ebreo 24, 171 Lessing, Gotthold Efraim 292, 296,

297-298 Leto, Pomponio 9 Linneo, Carlo 239 Lipsio, Giusto 150 Livio, Tito 9 Locke, John 120, 189-204, 207, 208, 214, 220, 221, 240, 241, 243, 245, 246, 247, 248, 250, 255, 256, 263, 264, 266, 268, 272, 273, 274, 286, 287, 295 Lope de Vega, Felice 120 Lorenzo il Magnifico, cfr. Medici, Lo­ renzo de’ Lucano, Marco Anneo 7 Lucifero 43 Lucrezio Caro, Tito 24 Luigi XI 3 Luigi X III 115 Luigi XIV 115, 117, 118, 119, 156, 159, 206, 233, 266, 270 Luigi XV 235, 266

D EI

NOMI

Luigi XVI 235, 278 Lulli, Jean-Baptiste 121 Lullo, Raimondo 133, 208 Lutero, Martino 16, 32, 33-37, 39, 107, 119 Lyly, John 120 Mabillon, Jean 156 Machiavelli, Niccolò 50-52, 54, 149 Maderno, Stefano 120 Maestro Eckhart, cfr. Eckhart Magellano, Fernando 5 Malebranche, Nicolas de 155, 159, 164, 166-169, 191, 206, 220, 246 Malherbe, Francois de 120 Malpighi, Marcello 189, 212, 220 Malthus, Thomas Robert 262 Malvezzi, Virgilio 219 Mandeville, Bernard de 253, 328 Manetti, Giannozzo 14 Manuzio, Aldo 30 Maometto 59 Maria di Borgogna 4 Maria Teresa d’Austria 235, 289 Mariana, Juan 48 Masaccio, Tommaso 6 Mascardi, Agostino 219 Masham, Francis Sir 190 Massimiliano I d’Asburgo 4 Massimiliano di Baviera 123 Maupertuis, Pierre-Louis Moreau de

238, 268 Maurizio di Nassau, principe 123 Mazzarino (Giulio Mazarini) 115, 117 Medici, Cosimo de’ 21, 29 Medici, Ferdinando I de’ 29 Medici, Lorenzo de’ 4, 6, 21 Medici, Maria de’ 115 Melantone, Filippo 38-39, 290 Mendelssohn, Moses 296-297 Meysenne, Marino 123, 124, 141, 156 Merula, Giorgio 9 Metastasio, Pietro 237 Meyer, Ludovico 156 Milton, John 120, 238

IN D IC E

Mocenigo, Giovanni 84 Molière (Jean-Baptiste Poquelin) 120 Molina, Luis 48-49 Molyneux, William 245 Montaigne, Michele de 69-71, 72, 163, 328 Montesquieu, Charles de Sécondat, barone di 266-267, 271, 286, 288, 337 Monteverdi, Claudio 121 More, Henry 154 Moro, Tommaso 53, 152 Mosè 93 Mozart, Wolfgang Amadeus 238 Muller, Giovanni detto Regiomon­ tano 11 Miinzer, Tommaso 37 Muratori, Ludovico Antonio 221 Murillo (Bartolomeo Esteban) 120 Naudé, Gabriel 156 Newton, Isaac 154, 157, 186, 187189, 190, 206, 207, 208, 215, 216, 218, 220, 241, 243, 245, 255, 264, 266, 268, 275, 292, 303, 304 Niccoli, Niccolò 8, 15 Nicole, Pierre 160 Nicolò V (v. anche Parentucelli, Tom­ maso) 5 Nifo, Agostino 24, 51, 61, 63 Nizolio, Mario 68 Norris, John 241 Ochino, Bernardino 41 Ockham, Guglielmo di 18, 34, 68 Olivares, Gaspare de Guzman duca d’ 115 Omero 221, 227, 229 Opitz, Martin 119 Orfeo 22 Osiander, Andrea 76, 86 Ovidio Nasone, Publio 7 Owen, John, cancelliere 190

DEI

NOMI

345

Pacioli, Luca 11 Pagano, Francesco Mario 288 Paisiello, Giovanni 238 Palmieri, Matteo 13 Panormita (Antonio Beceadelli) 9, 16 Paolo 31, 33 Paolo III, papa 28, 44 Paolo IV, papa (v. anche Antonio Carafa) 45 Paolo V, papa 45 Paracelso (Philipp Theophrast von Hohenheim) 43, 58-59 Parentucelli, Tommaso (v. anche Ni­ colò V) 5 Parini, Giuseppe 237 Pascal, Blaise 120, 137, 156, 160-164, 189 Patrizzi, Francesco 66-67, 80, 222 Penia 24 Pergolesi, Giovan Battista 238 Perotto, Niccolò 16 Perrault, Charles 158 Petrarca, Francesco 7-8, 12 Piccolomini, Enea Silvio (v. anche Pio II) 5, 17, 24 Pico della Mirandola, Giovanni 12, 21, 22, 24, 25-26, 30, 37, 57, 222 Pietro il Grande 207, 233 Pietro Ispano 12 Pietro Leopoldo 235 Pinturicchio (Bernardo Betti) 6 Pio II, papa, cfr. Piccolomini, Enea Silvio Pitagora 22 Pizarro, Francesco 28 Platina, cfr. Sacchi, Bartolomeo Platone 10, 12, 13, 17, 21, 22, 31, 220, 223, 226 Plinio il Vecchio 11 Plotino 21, 22 Poggio, cfr. Bracciolini, Poggio Polibio 66 Poliziano (Agnolo Ambrogini) 6, 16, 24 Pomponazzi, Pietro 61-64 Pontano, Giovanni 6, 9, 24

346

IN D IC E

Pope, Alexander 237 Porfirio 22 Poros 24 Porretano, Gilberto 12 Poussin, Nicola 120 Prévost, Antoine-Frangois 237 Priestley, Joseph 243 Proclo 22 Pseudo Dionigi TAreopagita 15, 17, 18 Pufendorf, Samuel 291 Pulci, Luigi 6 Quesnay, Francois 261, 278 Quintiliano, Marco Fabio 16 Racine, Jean 120, 157 Raimondi, Cosma 14 Raimondo di Sabunda 71 Raleigh, Walter 116 Ramo, Pietro 68, 160 Regiomontano, cfr. Miiller, Giovanni Regis, Pierre-Silvin 157 Regius, cfr. Roy, Enrico de Reid, Thomas 263 Reimarus, Hermann Samuel 296 Rembrandt 120 Reni, Guido 120 Reuchlin, Giovanni 31, 38 Ribera, Giuseppe 120 Ricci, Ostilio 103 Richardson, Samuel 237 Richelieu, Armand-Jean du Plessis, cardinale de 115, 120 Rinuccini, Ottavio 22 Robertson, William 243 Robortelli, Francesco 66 Roemer, Olaiis 157, 187 Rohault, Jacques 137 Rosa, Salvatore 120 Rossi, Tommaso 220 Rousseau, Jean-Jacques 237, 238, 254, 271, 277, 278, 279-283, 286, 288, 302, 305, 331, 337 Roy, Enrico de, detto Regius 133

DEI

NOMI

Rubens, Pier Paolo 120 Riidiger, Andrea 293 Sacchi, Bartolomeo, detto Platina 13 Saint-Pierre, Bernardin de 238 Salutati, Coluccio 5, 8, 9, 13 Sànchez, Francesco 72 Sannazzaro, Jacopo 6 Sarpi, Paolo 45, 47 Savonarola, Girolamo 22, 30, 49, 57 Scarlatti, Alessandro 121, 238 Scarlatti, Domenico 238 Scholario, Giorgio 12 Schultz, Albert 299 Segni, Lotario, cfr. Innocenzo III Seneca 7, 39 Senofonte 9 Sergeant, John 240 Serveto, Michele 40-41 Sesto Empirico 69 Sévigné, Marie, M.me de 120 Sforza, Pallavicino 219 Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper, conte di 243, 230-232, 253, 263, 331 Shakespeare, William 97, 120 Silvestro, papa 16 Simplicio 106, 107 Sisto V, papa 29 Smith, Adamo 253, 261-262, 263, 278 Smith, John 133 Soave, Francesco 286 Socini, Fausto 41, 47 Socini, Lelio 41, 47 Socrate 7 Sofia di Hannover 207 Sofocle 9 Solimano II il Magnifico 28 Spallanzani, Lazzaro 239 Spener, Philipp Jakob 291 Speróni, Sperone 24 Spinoza, Benedetto 156, 170-183, 206, 210, 217, 218, 296 Stahl, Giorgio 239

IN D IC E

Stazio 7 Steele, Richard 237 Sterne, Laurence 237 Stewart, Dugald 263 Stillingfleet, Edward, vescovo di Wor­ cester 191, 240 Suarez, Francesco 48 Sulzer, Johann Georg 296 Swammerdan, Jean 212 Swedenborg, Emanuel 304 Swift, Jonathan 237, 242 Tacito 222, 226 Tanucci, Bernardo 235 Tartaglia, Niccolò 60, 77, 103 Tartini, Giuseppe 238 Tasso, Torquato 66, 119, 220, 221 Tassoni, Alessandro 119, 219 Telesio, Bernardino 79-83, 88, 90, 91, 92, 93, 97 Temi 95 Teodoro, Gaza 12 Tetens, Johann Nicolaus 295-296, 306, 308 Thomas, Christian (Thomasius) 206, 291 Tiepolo, Gian Battista 120, 238 Tindal, Matteo 242 Tirso de Molina 120 Toland, John 241-242, 243 Tolomeo 104 Tomeo, Leonico 61 Tommaso d’Aquino 12, 15, 47, 57, 62 Torricelli, Evangelista 111, 161 Tortelli, Giovanni 16 Toscanelli, Paolo 17 Trapezunzio, Giorgio 12, 13, 68 Tschirnhaus, Walter von 291 Tucidide 141 Turgot, Robert-Jacques 261, 271, 278-

279 Ulisse 227 Urbano V ili, papa 91, 106 Uriel da Costa 171

D EI

NOMI

347

Valla, Lorenzo 9, 14-16, 30, 31, 66, 68 Vanini, Giulio Cesare 65 Varrone, M. Terenzio 8 Vasco da Gama 5 Velazquez, Diego 120 Venere 24 Vergerlo, Pietro Paolo 9, 13 Vernia, Nicoletto 61 Verri, Alessandro 289 Verri, Pietro 289 Vesalio, Andrea 78 Vespucci, Amerigo 5 Vico, Gianbattista 221, 222-229 Viète, Francesco 77 Virgilio 7, 8, 221 Visconti, Gian Galeazzo 4 Vittorio Amedeo II 233 Vittorio Amedeo III 235 Vivaldi, Antonio 238 Vives, Juan Luis 63, 67 Voét, Gisberto de (Voetius) 124, 155 Volta, Alessandro 238 Voltaire (Francois-Marie Arouet) 235, 266, 268-270, 271, 280, 286, 289 Vouet, Simon 120 Wallis, Giovanni 189 Walpole, Robert 234 Warens, Madame de 279 Watt, James 236 Weigel, Valentino 42, 43, 205, 206 Wesley, John 243 Whichcote, Benjamin 153 Wieland, Cristoph Martin 238 Wolff, Christian 238, 290, 292-294, 295, 304, 328 Zabarella, Jacopo 64-65 Zimara, Marco Antonio 61 Zoroastro 22 Zuinglio (Ulderich Zwingli) 37-38

)

INDICE

Parte I

LA FILOSOFIA NELL’ETÀ DELL’UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO I - D all’Umanesimo al Rinascimento - Il secolo xv

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pag.

3

i. Le condizioni storiche (p. 3) - 2. Il rinnovamento culturale. Uma­ nesimo e Rinascimento (p. ;) - 3. La filosofia nel xv secolo. Lorenzo Valla (p. n) - 4./Nicola Cusano (p. 17) - j. Il Platonismo del­ l’Accademia fiorentina. Marsilio Ficino e Pico della Mirandola (p. 21). I I - Il pensiero religioso e politico nel Rinascimento

»

27

1. Le condizioni storiche (p. 27) - 2. Erasmo da Rotterdam e la diffusione dell’Umanesimo in Europa (p. 29) - 3. La riforma prote­ stante. Lutero, Zuinglio, Calvino (p. 34) - 4. La Controriforma cattolica (p. 43) - 5. Il pensiero politico del Rinascimento. Machia­ velli, Guicciardini, Moro, Boterò, Bodin (p. 49).

56

I l i - Filosofia e scienza nel R in ascim en to................................. »

1. Le scienze occulte. Cardano e Della Porta (p. 56) - 2. Pomponazzi e l’aristotelismo. Cisalpino, Zabarella, Cremonini (p. 60). 3. L’antiaristotelismo. Patrizzi, Vives, Nizolio, Ramo (p. 66) 4. Lo scetticismo. Montaigne, Charron, Sànchez (p. 68) - 5. Le origini della nuova scienza della natura. Leonardo, Copernico, Keplero (p. 72). IV - Dalla filosofia della natura alla scienza della natura nell’età del Rinascimento e della Controriforma . . t

1. La filosofia della natura di Bernardino Telesio (p. 79) - i/L a filosofia della natura di Giordano Bruno (p. 83) - 3./La filosofia della natura e la renovatio politico-religiosa di Tommaso Campa­ nella (p. 90) - 4. Il rinnovamento della filosofia e della scienza in Francesco Bacone (p. 97) -/j. Bacone. Il nuovo metodo (p. 100) 6. Galileo Galilei. La vita e l’operosità scientifica (p. 103) - 7. Galilei. L’autonomia della scienza e le caratteristiche del metodo (p. 107) - 8. Galilei. I due «massimi sistemi» (p. no) - 9. I discepoli di Galilei e i progressi scientifici nella prima metà del xvn secolo (p. in ).

»

79

350

IN D IC E

P arte II LA F IL O S O F IA N E L SE C O L O X V II R A Z IO N A LISM O E D E M P IR ISM O

Premessa " V

pag. 115

- D e s c a r t e s ......................................................................................... »

122

i. Vita e scritti (p. 122) - 2. La formazione del pensiero di Cartesio e le «regole» del metodo (p. 125) - 3. Il mondo (p. 128) - 4. Dal dubbio al «cogito» (p. 132) - 5. Dal «cogito» alla metafisica (p. 136) - 6. Il dualismo cartesiano (p. 138).

.-V I

- Tommaso H o b b e s .........................................................................»

140

1. Vita e scritti (p. 140) - 2. Il concetto di filosofia e la logica (p. 142) - 3. Il meccanicismo nella natura e nell’uomo; la cono­ scenza, le passioni e la morale (p. 144) - 4. La filosofia civile; politica e religione (p. 147) - 5. Gli sviluppi del pensiero politico e il giusnaturalismo (p. 149) - 6. I « Platonici » di Cambridge (p. 132).

V II - Gli sviluppi del cartesianesimo. Il giansenismo e Pascal. L ’o c c a s i o n a l i s m o ......................................................... »

155

1. Le polemiche suscitate dalla filosofia cartesiana. Gassendi (p. 155) - 2. Il movimento giansenista (p. 138) - 3. Blaise Pascal (p. 160) 4. L’occasionalismo. Geulinx e Malebranche (p. 164).

-;, V m - Benedetto Spinoza

.................................................. »

170

1. Le componenti del pensiero di Spinoza (p. 170) - 2. La vita e gli scritti (p. 171) - 3. La «emendazione» dell’intelletto e l’intui­ zione di Dio (p. 172) - 4. Dio (p. 174) - 5. Gli attributi e i modi (p. 177) - 6. L’uomo e le passioni. L’amore intellettuale di Dio (p. 180) - 7. Le dottrine sulla religione e la politica (p. 184). IX - Giovanni Locke

.

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.

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_ j 186

»

1. Newton e il progresso delle scienze nella seconda metà del Seicento (p. 186) - 2. Locke. La vita e gli scritti (p. 189) - 3. Locke. L’esperienza e le idee (p. 191) - 4. Locke. La conoscenza e la realtà (p. 197) - 3. Locke. La morale, la politica, la religione e la peda­ gogia (p. 199). «.X - Guglielmo

Leibniz

.

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.

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.

1. La vita e le opere (p. 203) - 2. La logica; verità di ragione e verità di fatto (p. 208) - 3. La metafisica. La monade (p. 211) 4. La conoscenza. Anima e corpo e l’armonia prestabilita (p. 214) 3. L’esistenza di Dio e la « teodicea » (p. 216).

»

205

351

IN D IC E

XI - La filosofia italiana e G . B. V i c o ................................. pag. 219 i. La filosofia italiana da Galilei a Vico (p. 219) - 2. Vico. La vita e gli scritti (p. 222) - 3. Vico. Dalle Orazioni al D e Antiquissima (p. 222) - 4. Vico. La « scienza nuova » (p. 225).

P arte III

IL L U M IN ISM O E C R IT IC ISM O

Premessa-, L ’età deH’IHuminismo

pag- 233

X II - La filosofia inglese nel secolo xvm - Berkeley e Hume

»

240

1. La filosofia inglese nella prima metà del Settecento e il deismo (p. 240) - 2:* George Berkeley (p. 244) - 3. Shaftesbury e la pro­ blematica del senso morale (p. 249) - 4,-David Hume. La ricerca sull’intelletto umano (p. 254) - 5. David Hume. Le dottrine etiche, religiose ed estetiche (p. 238) - 6. La filosofia inglese nella seconda metà del Settecento. Smith e la « scuola scozzese » (p. 261).

264

X III - L ’Illuminismo francese e R o u s s e a u ................................. »

1. L’Illuminismo filosofico. Montesquieu (p. 264) - 2. Voltaire (p. 268) - 3. D’Alembert, Diderot e l'Enciclopedia (p. 271) - 4. Sen­ sismo e materialismo. Condillac (p. 274) - j. Le dottrine economiche e l’idea del progresso (p. 278) - ófRousseau. La diseguaglianza fra gli uomini e il ritorno alla natura (p. 279) - 7. Rousseau. La politica e la pedagogia (p. 282). X IV - L ’Illuminismo in Italia e in Germania .

.

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.

»

286

1. L’Illuminismo italiano. L’ambiente napoletano (p. 286) - 2. L’Il­ luminismo italiano. L’ambiente milanese (p. 288) - 3. Wolff e l’Illuminismo tedesco (p. 290) - 4. Lessing (p. 296). « XV - Immanuel K a n t .................................................................. »

299

1. La vita e gli scritti (p. 299) - 2. La filosofia del periodo « pre­ critico » (p. 302) - 3. Il problema critico della conoscenza nella C ritica della ragion pura (p. 305) - 4. L’«estetica» e l’«analitica» trascendentali (p. 309) - 5. La « dialettica » trascendentale (p. 318) - 6. La storia, la natura e la morale. La C ritica della ragion pratica (p. 322) - 7. Il giudizio teleologico e la C ritica del giudizio (p. 330) 8. La religione, il diritto, la politica e la pedagogia (p. 335).

Indice dei nomi

339

PROFILO DI STORI DELLA FILOSOFI

LOESCHER TOF

G A B R IE LE G IA N N A N T O N I

PROFILO DI STORIA DELLA FILOSOFIA VOLUME III

LOESCHER EDITORE T O R IN O

Quinta ristampa

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

S T IG - S o c ie tà T o rin e s e Industrie G ra fich e - T o rin o 1975

PARTE I

L’ETÀ DEL ROMANTICISMO

I

DAL CRITICISMO AL ROMANTICISMO 1. Le condizioni storiche (p. 3) - 2. Lo « Sturm und Drang». Hamann e Jacobi (p. 7) - 3. Dal Classicismo al Romanticismo. Herder, Goethe, Schiller e Humboldt (p. 11) - 4. La cultura romantica. Schlegel, Novalis, Hòlderlin (p. 17) - 5. Filosofia e religione in F. D. E. Schleiermacher (p. 23).

1 - Le condizioni storiche. Il quarantennio che comprende, grosso modo, gli ultimi dieci anni del Set­ tecento e i primi trenta dell’Ottocento, è un periodo di fondamentale impor­ tanza dal punto di vista sia politico sia culturale: la Rivoluzione francese, il Consolato e poi l’Impero di Napoleone, con tutte le guerre sostenute contro le varie coalizioni europee, il Congresso di Vienna e, infine, il periodo della Restaurazione, che caratterizza la politica interna di quasi tutti gli stati europei, sono avvenimenti troppo noti perché debbano, in questa sede, essere sia pure sommariamente descritti. Più importante è invece mettere in luce alcuni aspetti che trovano un più immediato riflesso nelle vicende culturali e nella matura­ zione delle tendenze ideologiche. Gli avvenimenti che vanno dall’Assemblea Nazionale (1789) alla reazione di Termidoro, al «terrore bianco» (1794) e al Direttorio (1795) avevano messo in luce il contrasto tra una concezione moderata della politica ispirata agli ideali dell’89 e una concezione radicale o di « sinistra » (come si disse dal posto che i suoi esponenti presero nella Convenzione Nazionale rispetto al banco della presidenza), portatrice di esigenze repubblicane e democratiche egualitarie. Alla fine, la prima prevalse, dimostrando come la borghesia, nella sua maggioranza moderata, — una volta preso il potere, e assicuratasi contro il ritorno delVancien régime e la restaurazione monarchica — non esitasse a stroncare le tendenze popolari e democratiche, espresse dai Giacobini, dalla Montagna, dal Comitato di Salute Pubblica ed estese anche ai principi dell’eguaglianza econo­ mica, oltre che politica, dalla propaganda di Babeuf (1760-1796) e di Buonar­ roti (1761-1837), ispiratori della Congiura degli Eguali. Fu appunto la bor­ ghesia moderata che deliberatamente apri la via al Consolato e all’Impero di Napoleone e quindi ad una brusca svolta politica e costituzionale rispetto alla stessa linea intermedia della borghesia rivoluzionaria. Certo alcuni aspetti fondamentali della Rivoluzione caratterizzano anche le prime campagne napoleoniche: basti pensare al rinnovamento della classe militare, al tipo nuovo di esercito creato dalla Rivoluzione, fondato sulla co-

Tendenze moderate e tendenze giacobine nell’ideologia della Rivoluzione

Le prime campagne napoleonici! i

4

entusiasmo Europa per Rivoluzione e l’assenza n appoggio popolare

Consolato e l’Impero

je reazioni ila politica apoleonica e il crollo iell’Impero

l

’e t à

d e l

r o m a n t ic is m o

scrizione in massa e su generali che riponevano le loro fortune non su una carriera progressiva con l’anzianità, ma sull’audacia strategica e sulle vittorie sul campo, e soprattutto al significato ideologico delle guerre, presentate non più come soluzione di conflitti dinastici, ma come liberazione dei popoli europei dall’assolutismo e come lotta per il trionfo dei principi dell’89 (secondo le parole d’ordine già date dai Girondini nel ’92, al canto della « marsigliese »). In tutta Europa, e soprattutto negli ambienti intellettuali, si diffondono le idee politiche giacobine e si crea una solidarietà ideologica che supera i confini degli stati e che saluta con entusiasmo le campagne napoleoniche. Perfino in Inghilterra, di contro alla vastissima opposizione alle idee della Rivoluzione, espressa nelle celebri Riflessioni sulla Rivoluzione Francese di William Burke (1728-1797), si forma una tendenza «rad icale» e filo-francese, capeggiata da William Godwin (1758-1836). La cacciata delle tradizionali monarchie dall’Ita­ lia, tra il 1797 e il 1799, e la creazione delle Repubbliche Cisalpina, Romana e Parteponea, sembrano segnare la vittoria della Rivoluzione, « esportata » dalle armate francesi. In realtà, la debolezza dei governi di queste repubbliche era data dall’assoluta mancanza di appoggio popolare e dall’incapacità a guadagnar­ selo: i contadini e le plebi povere e ignoranti erano facilmente convinte e aizzate dai reazionari, che indicavano nei Francesi i predatori delle loro terre e i nemici della religione. Il cardinale Ruffo con il suo esercito della Santa Fede (donde il nome di « sanfedisti » dato ai suoi seguaci) è, in un certo modo, la figura emblematica di questo moto reazionario. Il colpo di stato del 18 brumaio significò il ritorno all’autoritarismo cen­ trale dello stato, al primato dell’esecutivo poggiato su ristretti gruppi di nota­ bili potenti, sull’esercito, la polizia e la burocrazia, alla nomina governativa dei magistrati, all’esautoramento dell’organo legislativo. Ma soprattutto significò il ritorno ad una politica di alleanza con la Chiesa (concordato del 1801), e l’abbandono di alcune fondamentali conquiste democratiche della Rivoluzione (la scuola elementare gratuita e obbligatoria, l’abolizione della schiavitù, ecc.). Il Codice Civile o Codice Napoleonico sanciva il nuovo assetto sociale ed economico. Napoleone, nel 1804, assumeva il titolo di imperatore, incoronato dal pontefice Pio V II, e riprendeva la politica dinastica dell’ancien règime, costituendo, in tutta l’Europa da lui controllata, regni e ducati per i suoi consan­ guinei e per i suoi generali. Ma proprio nel momento dell’apogeo dell’Impero si manifestarono i sintomi della reazione: lo spirito di libertà e di indipendenza nazionale, le conseguenze economiche del blocco dell’Inghilterra e il malcontento dei contadini e dei la­ voratori in genere, il sentimento religioso offeso dalla prigionia del Papa, il fiorire di sètte, associazioni segrete, le nuove tendenze politiche antilluministiche espresse dalla cultura romantica e quelle degli « ideologi » (come sprezzante­ mente li chiamò Napoleone), senza contare le persistenti correnti filo-liberali e filo­ inglesi. Cosicché si crearono le condizioni favorevoli, dopo il disastro della spedizione russa, alla vittoria della IV Coalizione sull’Impero: battuto militar­ mente a Lipsia (1813) e costretto ad abdicare, Napoleone veniva relegato nel­ l’isola d ’Elba (1814). Né l’epopea dei «Cento giorni» poteva rimettere in

DAL

C R IT IC IS M O

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discussione la fitta trama diplomatica intessuta al Congresso di Vienna e il nuovo assetto europeo che da esso emergeva. Gli accordi diplomatici che sancirono la stabilizzazione dei rapporti interna­ zionali, parzialmente ispirati al principio della « legittimità » sostenuto dal Talleyrand, ubbidivano alla logica dell’equilibrio delle potenze che l’Inghilterra, animatrice della lotta antinapoleonica, aveva fatto trionfare. L ’indirizzo verso una generale restaurazione politica diventava del resto chiaro con la stipula­ zione della Santa Alleanza tra Russia, Austria e Prussia (1815). Le campagne napoleoniche avevano però lasciato tracce profonde in Europa: l’ascesa della borghesia nella direzione dello stato, il rinnovamento dei principi giuridici ispirati dal Codice Civile (l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, l’elimi­ nazione dei residui feudali, ecc.), la riforma delle strutture amministrative, scolastiche, militari, si congiungevano agli ideali politici liberali e al rinnovato sentimento nazionale contro la Santa Alleanza delle dinastie assolutistiche e contro il tentativo di una generale restaurazione dell’Europa AtWancien régime. Si profilano così due fondamentali e contrastanti correnti politiche: una legittimista, reazionaria, sostenitrice dell’alleanza del trono e dell’altare e fau­ trice di un ritorno alla situazione anteriore alla Rivoluzione o addirittura, nella parte più estremista, alle condizioni antecedenti le riforme settecentesche; e una liberale, con punte dichiaratamente repubblicane e democratiche, patriot­ tica, fautrice di governi costituzionali e ispirata agli ideali della tradizione storica e della coscienza nazionale diffusi in tutta Europa dalla cultura roman­ tica. Così, mentre la politica della Restaurazione, dominata dalla figura di Met­ termeli, porta avanti la solidarietà delle corti reazionarie, la rinascita della politica mercantilistica e il privilegio dell’aristocrazia terriera, gli ambienti li­ berali della borghesia alimentano le società segrete (in Italia, oltre la Masso­ neria e la Carboneria, devono essere ricordate quelle dell’Adelfia, dei Sublimi Maestri Perfetti e della Federazione italiana) e tracciano programmi riformatori­ moderati oppure vagheggiano disegni di più radicale rinnovamento politico e sociale. Da questo contrasto prende il via la serie dei moti liberali che, tra il 1820 e il 1821, si accendono in Europa e soprattutto nei vari stati in cui era divisa l’Italia. Ma il contrasto tra liberali moderati e democratici radicali, oltre all’as­ senza di ogni partecipazione popolare, rese effimera la consistenza di questi moti di fronte all’intervento repressivo della Santa Alleanza e dell’Austria in particolare. Frattanto si determinava, però, un fatto importante, destinato ad avere pro­ fonde conseguenze: l’uscita dell’Inghilterra dal blocco conservatore (a cui essa aveva aderito sotto la spinta della guerra antinapoleonica) e la ripresa di una politica liberale, dopo il governo reazionario del Castlereagh, con il governo Canning (1822-1827). Questo mutamento fu dovuto alle preoccupazioni suscitate dalla spedizione francese contro il governo costituzionale spagnolo e dalla nuova situazione verificatasi nell’America del Sud per il crollo dell’impero coloniale spagnolo, situazione che, nella instabilità politica che la caratterizzava, creava un pericoloso vuoto di potere, che poteva minacciare gli interessi commerciali e colo-

II Congresso di Vienna

Legittimisti e liberali: i moti del 1820-1821

Avvicinamen di Inghilterre e Stati Uniti

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Lo sviluppo degli Stati Uniti

liberalismo Inghilterra

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niali inglesi e apriva la via all’intervento francese. Ciò portò ad una convergenza tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti (che ancora nel 1815 erano in guerra per il pos­ sesso del Canada), al superamento del dissidio creato dalla guerra d’indipen­ denza americana e alla creazione di una stabile alleanza e intesa fra le due potenze. Gli Stati Uniti avevano attraversato un periodo di profonda trasforma­ zione politica, economica e sociale dopo la presidenza di Washington (1789-1797): il contrasto tra il partito «federalista» e il partito «democra­ tico » aveva significato un’alternativa nella prospettiva di sviluppo della gio­ vane nazione: per il primo si trattava di accentuare fortemente lo sviluppo industriale e commerciale, appoggiato ad un governo federale dotato di ampi poteri e ad una vasta classe borghese, colta e intraprendente; il secondo vo­ leva rafforzare il carattere agricolo dello stato, individuando, nel regime repubblicano ed egualitario di una comunità democratica di agricoltori (che non esclude la legittimità della schiavitù), l’antidoto ai mali di cui soffrivano gli stati europei. E fu quest’ultimo a prevalere e a dare impulso, sotto la presidenza di Jefferson (1801-1809), ad un vasto ampliamento territoriale degli Stati Uniti sia con l’acquisto della Luisiana (1804) sia con l’avanzata della «fron tiera» dell’Ovest, ad opera di comunità di pionieri portatrici di una società egualitaria e democratica. La pace di cui gli Stati Uniti godettero per tre decenni dopo il 1815 e l’alleanza con l’Inghilterra (che trovò espressione nella cosiddetta « dottrina Monroe », dal nome del presidente James Monroe, 1817-1825, per cui gli Stati Uniti rinunciavano ad ingerirsi negli affari europei, ma si oppone­ vano ad ogni intervento europeo negli affari americani) consentirono un rapi­ dissimo sviluppo industriale ed economico che accentuò, malgrado la lotta del presidente Jackson (1829-1837) contro la Banca d’America in nome degli ideali jeffersoniani, il distacco tra gli stati del Nord, in cui era concentrato il capitalismo industriale e finanziario, e quelli del Sud, a carattere prevalente­ mente agricolo e prosperi soprattutto per la coltivazione, ad opera degli schiavi negri, del cotone. Nello stesso tempo anche l’Inghilterra si sviluppa rapidamente: non solo essa è all’avanguardia, in Europa, nel processo di industrializzazione (come nei grandi complessi tessili, nella navigazione a vapore, nelle ferrovie, ecc.), ma accentua l’indirizzo liberale della sua politica interna ad opera del ministro Peel e poi del governo Grey (1830-1834): la riforma della legislazione penale e della polizia, l’abolizione del Test Act, che faceva obbligo a coloro che vole­ vano ricoprire cariche pubbliche di appartenere alla Chiesa anglicana, e in­ fine la riforma in senso più democratico del sistema elettorale, sono i punti prin­ cipali di questa svolta politica. D ’altro lato, di fronte alla grave crisi economica del 1817 e alle conseguenze della meccanizzazione industriale (che indusse gli operai a ribellarsi, sotto la spinta della disoccupazione e dell'aumentato sfrut­ tamento del lavoro, fino a distruggere le macchine, ritenute causa delle loro sofferenze), la classe operaia cercò di darsi le prime forme di organizzazione e di difesa dei propri interessi: sorsero cosi, nel 1824, le « Trade Unions ».

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Il liberalismo, trionfante in Inghilterra, in Svizzera, in Spagna e in Porto­ gallo, usciva però sconfitto prima nello sfortunato tentativo dei « decabristi » (1825) contro l’assolutismo dello zar Nicola I e poi nei moti che tra il 1830 e “il 1831 si accesero in Polonia e in Italia a seguito della Rivoluzione di Luglio (1830), che aveva portato al trono di Francia Luigi Filippo I, non più re di Francia ma dei Francesi; sempre nel 1830 la Grecia giungeva all’indipen­ denza dopo un decennio di lotte eroiche, che avevano commosso il liberalismo colto europeo. La vita culturale, artistica e scientifica, è nel periodo che abbiamo consi­ derato di eccezionale importanza e perciò meritevole, anche per la stretta connessione con lo sviluppo filosofico, di una considerazione più ampia di quella che può essere data da un cenno riassuntivo in questa sede. Questa con­ siderazione più ampia noi la faremo nei capitoli successivi, esaminando dap­ prima la cultura romantica tedesca e la filosofia che ad essa si collega, per passare poi alla sua diffusione in Europa ed alla cultura dell’età della Restau­ razione e dei circoli liberali e, in connessione con tutto ciò, allo sviluppo del pensiero scientifico.

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- Lo « Sturm und Drang

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Liberalismo conservatorisi in Europa: i moti del 1830-1831

Marnanti e Jacobi.

Uno degli aspetti più caratteristici della cultura tedesca nel de­ cennio che precede la Critica della ragion pura (1781) è dato dà quel movimento letterario che, dal titolo di un dramma di Maximilian K l i n g e r (1750-1831), prese il nome di Sturm und Drang (« tem­ pesta e assalto »). Si tratta di un movimento molto vario nei suoi principali esponenti (oltre a Klinger, Leisewitz, H. L. Wagner, Miiller e soprattutto J . M. R. L e n z , 1751-1792, che, nelle sue Osser­ vazioni sul teatro formulò, in qualche modo, la poetica del movi­ mento) e a cui parteciparono nella loro giovinezza anche Herder, Schiller e Goethe. Il romanzo e il dramma teatrale sono i generi letterari in cui trovano espressione gli impulsi e le ribellioni che ca­ ratterizzano questa tendenza, altrettanto violenta quanto di breve respiro. Il motivo dominante comune può essere individuato nella pole­ mica contro gli ideali dell’illuminismo e la cultura francese (anche in nome di una riscossa irrazionalistica), sebbene, anche in questo senso, non fosse secondario l’influsso di Rousseau e della sua dot­ trina del « ritorno alla natura ». Alle analisi e ai limiti del « sano intelletto » vengono contrapposti il sentimento, la fede, l’intuito, li­ berati da ogni vincolo ed esaltati nella loro naturale spontaneità, sfre-

Lo Sturm und Drang e la reazione alla cultura illuministica

Spontaneità e libertà; sentimento e fede. 11 titanismo

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La natura vivente panteismo

ve esigenze peculative: il dualismo li intelletto 'agione e il >rimato del sentimento della fede

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natezza e infinità: la libertà dett’uomo non è più la libertà della sua ragione, ma la liberazione di tutte le sue facoltà, il potenziamento smisurato della sua sensibilità, della sua fantasia, dei suoi bisogni e della sua sete di possesso e di dominio. Deriva di qui l’idealizzazione, tanto frequente, dell’« uomo di natura » come « superuomo » e come « titano », oppure l’idealizzazione, sul piano di una religione pura­ mente sentimentale, dell’« uomo di fede » come santo e come pro­ feta. Nello stesso quadro rientra anche la concezione della natura non come un meccanismo geometrico, ma come un’inesauribile e spontanea forza vitale, come una « natura vivente », che viene contrapposta al meccanicismo illuministico e di cui vengono sottolineati l’organi­ cità e insieme il ritmo di sviluppo attraverso una legge di opposizione, una « polarità » di opposti, cui i recenti progressi dell’elettrologia,, del magnetismo, della chimica e della fisiologia sembravano offrire convalide e suggestioni. Connesso con questo concetto di natura è il sentimento della presenza intrinseca della divinità, non di rado identi­ ficata con la natura stessa, nelle cose (panteismo) e infine l’esaltazione della libera e spontanea creatività del genio artistico, svincolato da ogni regola e da ogni norma morale. Come si è detto, il movimento non ebbe lunga vita (né, del resto, l’esaltazione letteraria dei « geni originali » nell’arte impedì un’am­ mirazione per Shakespeare, che arrivò fino all’imitazione più scola­ stica); tuttavia alcune sue idee e tendenze furono trasmesse all’età del Romanticismo, maturate e rese meno improvvisate dall’esperienza del classicismo: Goethe e Schiller daranno, come vedremo, testimo­ nianza di questo trapasso. Da un punto di vista più propriamente filosofico, l’atmosfera cul­ turale in cui si inserisce il movimento dello Sturm und Drang spiega il grande fervore di discussioni che subito si accese intorno alla filoso­ fia di Kant che proprio nel decennio tra il 1780 e il 1790 trovava espressione nelle tre grandi Critiche. Noi seguiremo, nel paragrafo seguente, il dibattito sui problemi del criticismo, ma intanto è oppor­ tuno vedere, attraverso l’esame del pensiero di Hamann e di Jacobi, il primo manifestarsi di nuove tendenze speculative, antirazionalisti­ che e antilluministiche. Accogliendo una delle istanze più tipiche della filosofia kantiana, cioè la distinzione tra « intelletto » e « ragione », i pensatori di cui

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dobbiamo occuparci sono legati dalla comune polemica contro l’intel­ letto scientifico, che è analitico e perciò incapace di cogliere la natura profonda delle cose e la totalità della natura come realtà vivente ed organica. Contro le astrazioni dell’intelletto, la « ragione » kantiana esprime bensì l’esigenza di andare oltre la superficie dei fenomeni, ma si dimostra altresì incapace di soddisfarla: ecco perché nei filosofi dell’età dello Sturm und Drang e poi nel Romanticismo si fa spesso strada l’idea che non la ragione ma la fede, il sentimento e l’intui­ zione siano facoltà più appropriate ad assolvere il compito di attin­ gere la realtà. E a questo scopo vengono riprese, andando anche al di là dei loro limiti storici, le dottrine di Shaftesbury sul senti­ mento e quella di Hume sullo scetticismo della ragione e sul carattere di « credenza » (cioè di fede) della conoscenza sensibile. Non a caso, quindi Johann Georg H a m a n n (1730-1788) torna H a m a n n nei Memorabili socratici al motivo socratico del « sapere di non sapere » e alla conseguente polemica, ricca di motivi desunti anche dallo scetticismo di Hume, contro le pretese della scienza e di una ragione, capace di svelare l’errore ma non di provare la verità. Non resta quindi che affidarsi alla fede, l’unica facoltà che possa scorgere la realtà profonda delle cose e del divino attraverso i simboli della natura e della Sacra Scrittura: là dove la critica kantiana non fa altro che distinguere e classificare, lasciandosi così sfuggire quella coinciientia oppositorum che è il principio più alto della filosofia, la Metacritica del purismo della ragione (che è l’opera più famosa di Hamann, in polemica con Kant), cerca di riunificare sensibilità e ragione; e il linguaggio, in cui la ragione trova la sua esistenza sen­ sibile (la ragione presuppone il linguaggio come la matematica pre­ suppone i numeri, dice H amann), la poesia e la storia svelano, al di sotto dei simboli in cui si manifestano, quella più profonda unità. Il linguaggio è stato particolarmente analizzato da Hamann, che in esso vede una creazione spontanea della natura umana, quasi un prolungamento del Logos divino. Anche in Friedrich Heinrich J a c o b i (1743-1819), autore, oltre Jacobi che di molte lettere di argomento filosofico e di scritti polemici, di un Trattato sull’impresa del criticismo di portare la ragione all’in­ telletto, noi ritroviamo i motivi caratteristici della polemica anti­ razionalistica, volti però, anche in contrasto con altre tendenze roman­ tiche, alla difesa di una concezione personalistica e trascendente della

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.a polemica spinozismo

La filosofia della fede

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divinità. Il panteismo, infatti, non è altro che lo sforzo della ragione di comprendere l’infinito e la divinità e come tale è foriero di ateismo: di qui la polemica sullo spinozismo che Jacobi ebbe con Mendelssohn (cfr. voi. II, p. 296) e quella sull’idealismo in filosofia come sostanziale riedizione dello spinozismo, che Jacobi ebbe con Fichte e soprattutto con Schelling. La polemica sullo spinozismo è della massima importanza nella cu^tura di questo periodo, e non tanto per l’aspetto contingente che ad essa dette occasione (e cioè l’adesione o meno di Lessing, nel­ l’ultimo periodo della sua vita, alla dottrina spinoziana dell’« uno­ tutto »), quanto per la diffusione delle dottrine spinoziane e per l’entusiasmo che esse suscitarono. E ciò proprio grazie alle Lettere di Jacobi, raccolte in volume nel 1785 (mentre il testo dell’etica fu pubblicato solo nel 1802). In queste Lettere, infatti, Jacobi pole­ mizzava anche contro gli avversari di Spinoza e degli « spinoziani » Fichte e Schelling, convinto com’era che il razionalismo filosofico andasse difeso contro tutte le obbiezioni e rigorosamente svolto fino alle ultime conseguenze, giacché solo in questo modo sarebbe stato possibile metterne in luce la finale e definitiva inadeguatezza. Ciò spiega come sia potuto accadere che Jacobi ottenesse l’effetto con­ trario a quello che si era ripromesso e come, proprio nella forma data da Jacobi, Spinoza si sia così profondamente inserito nella cultura tedesca: basti pensare, per non parlare ora di Fichte e di Schelling, alla « filosofia della natura » di Goethe, ai dialoghi su Dio di Herder, agli scritti giovanili (Rappresentazione del sistema di Spinoza e Spinozismo) di Schleiermacher, in cui era tentata una sin­ tesi di spinozismo e kantismo. Per Jacobi, l’uomo non ha conoscenza di Dio, ma una spontanea rj vela2ione^ una fede immediata che lo mette in contatto con lui. Non si tratta di una vera e propria accettazione del misticismo (che anzi è combattuto da Jacobi), quanto di una reinterpretazione del concetto humiano di « credenza »: la rappresentazione dell’« incon­ dizionato », cioè di Dio, è anteriore e presupposta dalla rappresen­ tazione del « condizionato », cioè dell’io. « Avevo bisogno, scrive Jacobi, di una verità che non fosse mia creatura, ma di cui fossi io creatura... Io volevo rendermi chiara col mio intelletto una sola cosa: la mia devozione ad un Dio incognito ». Per fede (che è una specie di « istinto », un sentimento oscuro

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di immediata apprensione del vero e del reale), abbiamo la rivela­ zione di Dio, per fede crediamo nell’esistenza nostra e nell’esistenza di altri uomini. E l’accentuazione del carattere personale di Dio com­ porta una parallela accentuazione della personalità e della libertà dell’uomo. Per fede, quindi, noi attingiamo la realtà soprasensibile e in ciò sta il primato della volontà sulla conoscenza, di cui aveva parlato Kant. Il quale aveva giustamente limitato le pretese dell’in- Jacobi e Kc telletto al mondo dei fenomeni, aveva concepito l ’« esistenza » come una posizione assoluta, non riducibile a concetto per via di analisi (e quindi, secondo Jacobi, da accettare per fede, con un « salto mortale » dal pensiero all’essere) e infine aveva confutato la pretesa della ragione di « dimostrare » l’esistenza di Dio. Ma gli errori di Kant furono due; il primo fu quello di concepire la volontà come ragion pratica, mentre è cuore, è sentimento, insofferente di ogni formalismo della legge; il secondo fu quello di non aver saputo uscire dalla contraddizione di presupporre la cosa in sé come fonda­ mento dei fenomeni e poi di dichiararla inconoscibile, non compren­ dendo che solo la « ragione », e non l’« intelletto » (che è sì la facoltà con cui conosciamo l’esperienza, ma che ci dà di essa solo una conoscenza astratta e, appunto, intellettualistica), avrebbe potuto far uscire dalla contraddizione, facendo compiere all’uomo quel « salto mortale » dal pensiero all’essere, dal fenomeno al noumeno, che la fede suggerisce e che solo può confutare quell’idealismo filo­ sofico in cui si è sviluppata la dottrina del criticismo.

3 - Dal Classicismo al Romanticismo. Herder, Goethe, Schiller e Humboldt. Il movimento dello Sturm und Drang ebbe, come si è detto, Dallo Sturm breve durata: la sua stessa scompostezza e immediatezza fece nascere l’esigenza di un nuovo e più alto equilibrio, di una più riflessa consi­ derazione, che senza perdere nulla della vitalità dei nuovi contenuti desse a questi una nuova forma e quindi, evitandone ogni disper­ sione, li rendesse più stabili e significativi. E fu questa l’esperienza compiuta da Herder e da Goethe, da Schiller e da Humboldt, nel passaggio dallo Sturm und Drang al Classicismo e da questo al Romanticismo.

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Herder

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Le riflessioni sulla scienza, sulla storia e sull’arte sono quelle che meglio documentano questo passaggio, né va dimenticata l’ere­ dità del classicismo teorizzato da Winckelmann, che fu maestro di Goethe, e che nell’arte greca vide non una semplice imitazione della natura, ma la riproduzione della sua forma ideale e della sua interna essenza. Il senso della storia, intesa non più come mera ricerca erudita, ma come ricostruzione di uno sviluppo organico sta al centro della ricerca di Johann Gottfried H e r d e r (1744-1803), il cui nome occupa un posto importante anche nella storia della linguistica. Già nella sua polemica giovanile (per esempio nelle Selve critiche e poi nel Trattato sull’origine della lingua) con l’ideologia illuministica egli era venuto sottolineando l’importanza che le forze più oscure e pre­ razionali hanno nella formazione dell’uomo: è anzi in queste forze che sta la genesi prima del linguaggio, come mezzo che l’uomo, nella sua condizione più primitiva e naturale, si forgia per supplire alle deficienze dell’istinto, che è invece sviluppato negli animali. Il lin­ guaggio non è perciò né di origine divina né il prolungamento del Logos divino: esso ha origine nella « riflessione », intendendosi con questo termine non una particolare facoltà intellettuale, ma una forza positiva dell’anima che unifica tutte le sue facoltà: « l’uomo riflette quando nell’oceano delle sensazioni può fissare un’onda e fermarvisi. Il primo segno di questa individuazione è la parola dell’anima ». In questo senso Herder può dire che l’uomo è creatura della lingua, e il problema dell’origine del linguaggio si trasforma nello studio della sua natura intesa come sviluppo ed evoluzione. Nello stesso senso si muovono anche le molteplici cure che Herder ha rivolto allo studio della poesia popolare e primitiva, ed in particolare di quella ebraica (Sullo spirito della poesia ebraica). Egli interpreta l’Antico Testamento come una raccolta di saghe e di miti popolari, non molto diversa da quelli greci. Certo, anche per Herder (come già per Lessing) la rivelazione è educazione dell’uma­ nità, ma questa rivelazione è permanente ed universale e non si iden tifica con nessun determinato momento storico o religione L ’influsso di Spinoza (che abbiamo già visto: cfr. supra, p. 10), mediato da Lessing, e corretto in senso dinamico attraverso Leibniz (il concetto di sostanza è interpretato essenzialmente come « forza »), contribuisce, insieme alle indagini sul linguaggio e la poesia, a fissare

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le linee generali dell’opera maggiore di Herder, le Idee per una filo­ sofia della storia dell’umanità, scritta tra il 1784 e il 1791 ma non portata a compimento. La storia è la « formazione » dell’umanità, sia in senso organico sia in senso morale; come tale è stata fatta dall’uomo nella sua inte­ rezza e non dalla sola ragione, e non con la sola ragione può essere compresa. Anzi la ragione, secondo Herder, non è una facoltà innata: essa si forma progressivamente nella storia e il linguaggio è la sua prima estrinsecazione. Nei suoi momenti più alti, come la civiltà greca e la civiltà del Rinascimento, e nei suoi momenti più oscuri, come l’Impero romano o l ’età del Medioevo, la storia si sviluppa secondo un disegno totale e progressivo, che dalla natura inorganica passa a quella organica, da questa all’uomo e dall’uomo all’« umanità »: l’umanità è infatti il fine della storia e umanità vuol dire il « compendio di tutto ciò che con­ cerne la nobile educazione dell’uomo alla religione e alla libertà ». È qui evidente l’influsso di Lessing al quale si intreccia anche quello della « teodicea » di Leibniz; l’opera di Dio, che si manifesta nella natura, non può mancare nella storia, la quale quindi è la progressiva e armonica attuazione di un piano divino. È su questa armonia e su questo finalismo che si appuntarono le critiche di Kant (cfr. voi. II, p. 322) ed Herder rispose allargando il discorso a tutta la filosofia del suo antico maestro di Konigsberg: compose perciò una Metacritica alla critica della ragion pura e una Kalligone (contrapposta alla Critica del giudizio), scritte tra il 1799 e il 1800, cercando di confutare le opposizioni kantiane di senso e intel­ letto, di natura e libertà, mettendo in luce la difficoltà di concepire un giudizio non concettuale (come quello estetico) e infine notando nel criticismo la lacuna dovuta alla mancanza di un’adeguata tratta­ zione del problema del linguaggio. La personalità che forse meglio di ogni altra simboleggia il pas­ saggio dallo Sturm und Drang al classicismo è quella di Wolfgang G o e t h e (1749-1832), discepolo di Winckelmann, che non solo nella sua altissima produzione poetica e letteraria, ma anche nei suoi scritti critici, scientifici e filosofici espresse il progressivo placarsi dei furori giovanili in una superiore serenità e armonia tra natura e spirito, tra scienza ed arte, tra mondo e Dio.

14 Dal Goetz al Faust

Goethe i filosofia: la natura

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Al titanismo e all’impeto del Goetz, dei Dolori del giovane Wer­ ther, del Prometeo e della prima redazione del Faust (e l’inquietu­ dine e il dissidio di questo personaggio diventano emblematici di un aspetto tipico del sentimentalismo romantico, che ha preso appunto il nome di « faustismo ») seguiva la pacata e rasserenata pacificazione, sulle orme dell’arte classica e rinascimentale, dell’Ifigenia in Tauride e dell 'Hermann e Dorothea. E se nel Wilhelm Meister, pubblicato nel 1795 (un anno dopo la Dottrina della scienza di Fichte) esaltava l’idea fichtiana della vita come continuo superamento degli ostacoli e all’idea dell’« innocenza » contrapponeva quella del « tirocinio », cioè dell’età in cui l’uomo deve lottare contro il disumano per dare un senso alla sua vita, nell’ultima redazione del Faust Goethe esprimeva il raggiunto e posseduto equilibrio. L ’amicizia con Herder, che gli fece conoscere Spinoza, e quella con Schiller, che iniziò nel 1794 e che durò, profondissima, fino alla morte di questi nel 1807 e che gli fece apprezzare soprattutto il Kant della Critica del giudizio, ebbero su di lui un influsso decisivo, mal­ grado le sue ripetute espressioni contro la filosofia o almeno l’osten­ tato disinteresse per essa. In realtà la filosofia da cui Goethe si sente respinto è quella che « divide » e non quella che « unisce », confer­ mando l’impressione originaria di una immediata unità dell’uomo con la natura. E poiché la natura è P« abito vivente » della divinità, pene­ trare nella natura vuol dire cogliere Dio stesso. Di qui l’opposizione di Goethe sia verso coloro che, come Jacobi, concepiscono Dio sepa­ rato dalla natura, sia verso coloro che, come i materialisti e gli em­ piristi, fanno della natura un mero sistema meccanico, privo di organicità e di spontaneità. Non la « struttura », nella sua staticità, ma la « formazione » nel suo dinamismo vitale, è quel « fenomeno originario » che Goethe vuole ricercare nella natura; non i concetti matematici e il meccanicismo della scienza illuministica, ma il concetto di « tipo » può spiegare geneticamente l’unità nel molteplice, la co­ stanza del mutamento, cioè quel « fenomeno originario », che non è visibile sensibilmente, ma che produce lo sviluppo delle forme orga­ niche, attraverso la « polarità » delle forze contrapposte che in esse operano e l’« accrescimento » che da esse risulta. Goethe stesso, del resto, volle dare applicazione scientifica a queste sue idee negli Studi sull’anatomia comparata e nella Dottrina dei colori (in polemica con l’ottica newtoniana).

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Anche l’arte è « impulso formativo » e anche il bello può essere L’arte definito come un « fenomeno originario »; ma l’arte si eleva al di sopra della stessa natura, così come il classicismo si eleva sul natura­ lismo dello Sturm und Drang; più in alto della « semplice imitazione » ci sono la « maniera » e lo « stile » che colgono la « forma interna » delle cose. E ciò può spiegare, infine, il rifiuto di Goethe, nell’ultimo periodo, a lasciarsi contagiare da quella che lui chiamava la « malattia romantica », che lui stesso tuttavia profondamente sentiva e che ve­ deva diffondersi tra i suoi contemporanei, da Schlegel a Novalis. La « olimpica serenità » con cui tante volte si sono voluti identificare gli ideali pratici e lo stesso carattere di Goethe non si astrae dai profondi dissidi della cultura del suo tempo, e neppure si abbandona ad essi per esaltarli, ma cerca di dominarli attraverso la conquistata armonia di natura e spirito, di sensibilità e ragione, di impulsi e moralità. Anche in un altro grande poeta, Friedrich S ch iller (1759-1805), Schiller noi ritroviamo la stessa parabola che abbiamo osservato in Goethe, ma portata più innanzi: se le Lettere filosofiche (1786) rappresentano, per così dire, la teorizzazione del momento dello Sturm und Drang (la natura come riflesso e « geroglifico » di Dio, che ci presenta come diviso quello che in Dio è unito, quasi un prisma che scomponga i colori; l’amore come forza di attrazione del mondo degli spiriti, ecc.), gli scritti Sulla grazia e dignità (1793) e soprattutto le Lettere sulla educazione estetica (1793-1795) esprimono la fase classica e, infine, il Saggio sulla poesia ingenua e sentimentale (1795-1796), il supera­ mento del classicismo e l’avvio al Romanticismo. Per Schiller, soprattutto a partire dal 1791, ha avuto un’impor­ Schiller e Ki tanza decisiva la filosofia di Kant: la Critica del giudizio, in partico­ lare, ha posto quel problema dell’unità di natura e spirito, di sensibilità e moralità su cui egli ha costantemente meditato, cercando nella bellezza la sua soluzione. « Grazia » è infatti, rispetto alla « dignità » che è propria della L ’« anima morale, quella libertà che la bellezza realizza armonizzando istinto e bella » e l’ar dovere: tra questi ultimi, infatti, Schiller non pone quel necessario e ineluttabile contrasto che Kant aveva sottolineato; la perfezione non appartiene a chi si può fidare tanto poco dell’istinto da doverlo continuamente reprimere davanti alla legge morale, ma a chi realizza la loro possibile armonia, all’« anima bella ».

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da ingenua e poesia jntimentale

Humboldt

Le idee politiche

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Questo tema è ulteriormente approfondito nelle Lettere sull'edu­ cazione estetica, in cui Schiller, dal contrasto tra l’« impulso sensi­ bile » verso il nuovo e il diverso, cioè verso la vita, e l’opposto « im­ pulso alla forma », vuol fare emergere una più alta conciliazione nell’« impulso al gioco », che ha come oggetto la forma vivente, cioè la bellezza. Solo la bellezza, infatti, può mediare un’opposizione che ha questo di caratteristico, che i due impulsi, benché si contrastino, si richiamano anche a vicenda, cosicché se uno solo dei due prevalesse, l’uomo cesserebbe di essere tale e anche l’istinto predominante verreb­ be meno. La bellezza e l’educazione estetica devono con ciò impedire che l’uomo sia solo fisico o solo morale, ma fisico e morale insieme in un libero e mosso equilibrio. In questo senso l’educazione estetica è capace di rompere la con­ traddizione tra l’impossibilità di avviare una migliore convivenza politica e civile senza un miglioramento educativo del cittadino e, nello stesso tempo, l’impossibilità di educare meglio un cittadino in una situazione di convivenza civile manchevole: l’educazione estetica è l’avvio e la premessa dell’educazione politica e morale. Nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale, infine, Schiller contrappone la poesia antica, che è « ingenua » perché esprime un’unità tra ideale e reale, tra spirito e natura, immediatamente pos­ seduta e vissuta, alla poesia moderna, che è « sentimentale » perché ha perduto quell’unità e ne ha nostalgia, e cerca perciò di riconqui­ starla: è questo un tema caratteristico del Romanticismo. Personalità complessa e ricca di interessi è anche quella di Wil­ helm H u m b o l d t (1767-1835), fondatore dell’Università di Berlino e uomo politico (fu ministro, tra l’altro, della Pubblica Istruzione e plenipotenziario della Prussia nel Congresso di Vienna), oltre che scrittore, critico e studioso e teorico insigne soprattutto dei fatti lin­ guistici. Le sue idee politiche, espresse nello scritto Saggio sui limiti del­ l’azione dello stato (composto nel 1792, ma pubblicato postumo nel 1851), sono incentrate sull’idea della libertà del cittadino, come unica fonte valida delle sue iniziative economiche, politiche, morali e religiose, laddove la coazione isterilisce ogni attività. L ’unico modo per educare l ’uomo alla libertà è quello di farlo vivere nella libertà e perciò lo stato non deve intervenire positivamente a costrin­ gere, ma solo negativamente per garantire le condizioni della libertà.

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Nel saggio su Hermann e Dorotbea di Goethe Humboldt teo­ rizza la poesia come trasformazione in immagine della realtà natu­ rale. Ma l’immaginazione non si limita ad abbellire l’oggetto, perché essa è una vera e propria attività creatrice, fondata sul « genio » e capace di armonizzare tutte le facoltà umane (e perciò diversa dal­ l’immaginazione come mera e arbitraria fantasticheria). Il carattere fondamentale della creazione artistica è la « totalità », perché la poesia produce un mondo armonioso, un regno ideale. Influenzato dalle idee di Herder, anche Humboldt intende la storia come una progressiva e indefinita realizzazione dell’ideale dell’« umanità », che rende grandi quegli uomini e quei popoli che più riescono ad incarnarlo. Nello scritto intitolato Discorso sull’uf­ ficio dello storico, poi, Humboldt intende la storia come lo « sforzo dell’idea per conquistare la sua esistenza nella realtà »; di qui la necessità che lo storico non si limiti ad accertare filologicamente gli aspetti sensibili delle vicende storiche, ma si sforzi di coglierne le ragioni profonde e il disegno unitario. Più volte è stata sottolineata l’affinità di queste idee con quelle di Vico, anche se questi non fu noto a Humboldt. Dalla concezione del fine della storia come realizzazione dell’idea dell’umanità discende l’importanza del « linguaggio », la cui analisi ha maggiormente contribuito alla fama di Humboldt. Il linguaggio è l’espressione non del solo intelletto, ma anche della fantasia: in una parola, di tutte le forze e le potenze dell’anima; in esse si ma­ nifesta, attraverso l’opera degli individui, il potere creativo delle nazioni. Ciò spiega, pur nella diversità, la « parentela » delle varie lingue, la loro organicità e il loro sviluppo, sia fonetico sia seman­ tico, attuantesi nella relazione reciproca tra la soggettività del lin­ guaggio profferito e l’oggettività del linguaggio ascoltato. Gli scritti Sullo studio comparativo delle lingue e Sulla diversità di costru­ zione del linguaggio umano e sull’influsso di esso nello sviluppo spirituale dell’umanità sono i più importanti a questo riguardo.

L ’arte

L a storia

Il linguaggio

4 - La cultura romantica. Schlegel, Novalis, Holderlin. Nei paragrafi precedenti abbiamo esaminato i momenti più ca­ II ratteristici ed importanti della cultura filosofica di quel movimento ilRomanticismc circolo che si inizia con l’esperienza tumultuosa dello Sturm und Drang e di Jena 2 • ( tia n n n n tfìn ì

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L a « scuola romantica » di Berlino e Lthenaeura»: Fr. Schlegel

Hòlderlin e Novalis

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che, attraverso il classicismo, si conclude nel vero e proprio Roman­ ticismo, nei primi decenni del secolo xix. Jena è il centro di questo complesso movimento: nella sua università insegnano Reinhold, Fichte, Schelling e, come storico, Schiller, attorno al quale si raccol­ gono i Novalis e gli Humboldt; a Jena soggiornarono, tra il 1796 e il 1800, i fratelli Schlegel e il poeta Tieck e vicina a Jena era Weimar, la cittadina dove risiedeva Goethe. E se anche Goethe con­ siderava il movimento romantico con ironico distacco e Schiller lo avversava apertamente, ciò non tolse che questi due artisti fossero considerati dai romantici come dei maestri: Friedrich Schlegel diceva che i tre avvenimenti più importanti del secolo erano stati la Ri­ voluzione francese, la Dottrina della scienza di Fichte e il Wilhelm Meister di Goethe. Se si vuole parlare, in senso stretto, di una « scuola romantica » (che in origine si chiamò «nuova scuola» per differenziarsi da quella classica), si deve riandare alla breve vicenda della rivista « Athenaeum », edita tra il 1798 e il 1800 a Berlino (dove si era recato dopo la rottura con Schiller) da Friedrich S c h l e g e l (1772-1829) e intorno alla quale si raccolse un vero e proprio cir­ colo romantico, di cui fecero parte, tra gli altri, il fratello di Fried­ rich, August Wilhelm S c h l e g e l (1767-1845) e sua moglie Caro­ lina, Ludwig T i e c k (1773-1853) e Friedrich v o n H a r d e n b e r g detto N o v a l i s (1772-1801), ai quali può essere accostato il poeta Fried­ rich F I ò l d e r l i n (1770-1843): tutti poeti e letterati largamente in­ fluenzati da idee filosofiche e che interpretano esigenze ed ideali in larga misura analoghi. Hòlderlin, nel suo romanzo Iperione, esprime il comune vagheggiamento di un ideale superiore di bellezza e di perfezione identificato con la civiltà dell’antica Grecia: « essere uno con il tutto, questa è la vita degli dei e il cielo dell’uomo »; ma l’uomo è un dio quando sogna e un mendicante quando pensa, e l’arte e la bellezza sono così le vie per raggiungere l’ideale, men­ tre l’intelletto resta confinato alla conoscenza del contingente. L ’esaltazione del genio artistico come una specie di superuomo, della poesia e dell’arte, intese come manifestazioni di un’infinita creatività dello spirito, di un libero giuoco della fantasia, dell’« iro­ nia » tipica dello spirito, che non si arresta mai in alcuna delle sue creazioni ma tutte le sorpassa infinitamente; l’interpretazione del mondo stesso come libero sogno poetico e quindi come creazione

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« magica » dell’uomo in quanto artista sono i motivi più frequente­ mente ricorrenti nei frammenti di Federico Schlegel e soprattutto nei versi di Novalis, la cui concezione si è soliti designare appunto come « idealismo magico ». Novalis esaltò nelle sue ultime espres­ sioni letterarie la poesia della malattia e della morte e negli Inni alla notte fece dell’opposizione di giorno e notte il simbolo di una vicenda che vede nella luce il manifestarsi della effimera vita e nella notte il santo mistero da cui la vita è nata e in cui tornerà a pla­ carsi e ad annullarsi. Il linguaggio è elevato ad incantesimo e ad evocazione e in esso le parole « elaborano un mondo per sé, gio­ cano soltanto con se stesse ». Ma, anche oltre i limiti del circolo dell’« Athenaeum », il Ro­ manticismo è una temperie culturale di carattere generale, europea e non solo tedesca (anche se in Germania ebbe le prime e più im­ portanti espressioni, soprattutto teoriche), che investe tutti gli aspetti della vita letteraria, filosofica e scientifica, una « visione del mondo », e un atteggiamento di fronte al mondo come lo furono il Rinasci­ mento, la Riforma e l’Illuminismo. Con questo non si vuol dire che il Romanticismo, come gli altri movimenti ora ricordati, sia qualcosa di omogeneo e uniforme, esprimibile con una formula o una breve definizione, né tantomeno che esso sia ima « categoria dello spirito », cioè un momento eterno e quasi soprastorico, costi­ tutivo, come il suo opposto, il Classicismo, della struttura stessa dello spirito umano. Al contrario il Romanticismo è un fatto sto­ rico determinato nel tempo e nelle condizioni storiche che lo pro­ dussero, è perciò riconducibile alla concretezza del suo contrasto con gli ideali dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese e al generale clima di restaurazione politica e culturale che ne seguì. Anzi è proprio in questo quadro che si precisano alcuni dei motivi più caratterizzanti, che noi abbiamo già avuto occasione di incon­ trare e che ora mette conto di riassumere rapidamente. Il motivo su cui si è forse maggiormente insistito nel tentativo di individuare il concetto di Romanticismo è quello del primato del « sentimento », e romantico è stato spesso assunto come sinonimo di sentimentale. Con ciò non ci si vuole riferire ad un atteggia­ mento psicologico individuale (anche se questo fu certamente, anche esteriormente, un elemento vistoso, soprattutto nella fase decli­ nante del Romanticismo) ma, in primo luogo, ad una posizione fi-

L a cultura romantica

Il primato del sentimento

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Il senso dell’infinito

« titanismo »

L ’« ironia »

L a natura

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losofica, a determinare la quale concorrono e l’eredità della Critica del giudizio di Kant, che aveva lasciato intravedere una conciliazione « sentimentale » tra scienza e moralità, tra natura e spirito, e la pole­ mica contro l’astratto razionalismo illuministico, capace tutt’al più, come la luce, di rischiarare la superficie delle cose, ma non di pene­ trarne e comprenderne l’essenza nascosta e i profondi legami reciproci. Questa eccellenza del sentimento (che è l’eredità più vistosa dello Sturm und Drang) si concreta in due atteggiamenti opposti e nello stesso tempo complementari, la cui comune radice è nella convinzione che la realtà è una totalità organica (l’« Uno-tutto » di derivazione spinoziana), che continuamente si sviluppa, si accresce e si arricchisce senza però mai raggiungere la mèta e il fine, o meglio continuamente oltrepassando e superando ogni mèta e ogni fine: il finito è infatti manifestazione sensibile dell’infinito e, come tale, incapace di esaurirlo completamente e di realizzarlo totalmente. Di qui i due atteggiamenti opposti, come si diceva, del « titanismo » e dell’« ironia »: il primo esprime l’insofferenza e la ribellione con­ tro il finito, il ripetersi della ribellione di Prometeo a Zeus, nello sforzo continuo di superare il finito e di attingere l’infinito; ma è, come quello dei Titani della mitologia, uno sforzo vano, perché l’uomo non può vivere che nel finito e quindi la ribellione acquista un accento drammatico e doloroso, nel momento stesso che diventa fine a se stessa, un ribellarsi solo per ribellarsi, senza che questa ribellione possa avere uno sbocco positivo. Di qui anche gli atteg­ giamenti di compiacimento del dolore e di nostalgia, il senso del crepuscolare e del notturno, che sono tipici della psicologia roman­ tica, anzi di quella che è stata detta la « malattia romantica ». Anche l’atteggiamento « ironico » nasce dalla convinzione che nessuna determinazione concreta e finita può esaurire mai comple­ tamente l’infinito, ma esso esprime appunto l’accettazione consape­ vole di questo fatto, che si manifesta nel distacco da ogni determi­ nazione finita in quanto semplicemente provvisoria, destinata ad es­ sere superata e sostituita, e quindi tale da non meritare di essere presa sul serio. Strettamente connessa con questo modo di sentire è anche la filosofia romantica della natura, di cui vedremo tipiche teorizzazioni in Fichte e più ancora in Schelling; e la « fisica speculativa » (in opposizione al meccanismo della fisica newtoniana) ha alla sua base

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una convinzione che potrebbe essere propriamente definita un « mito », e cioè quella per cui tutte le forme inorganiche ed orga­ niche della natura sono considerate come simboli dello sviluppo dello spirito, cosicché la fisica si riduce alla scienza delP« eterna trasmutazione di Dio nel mondo », cioè all’interpretazione del mondo come divina teofania. Titanismo ed ironia sono due degli aspetti più interessanti del Romanticismo letterario; sul piano propriamente filosofico il primato dell’atteggiamento sentimentale si traduce nella sopravvalutazione dell’arte e della religione rispetto alla conoscenza propriamente filosofico-razionale. L ’arte, come sentimento, e la religione, come fede, sembrano assai più idonee che non l’astratta ragione illuministica a mettere l’uomo in rapporto con l’infinità, come infinito processo di produzione della realtà sensibile, e quindi a cogliere il nesso dell’« uno-tutto ». Nello stesso tempo, però, matura anche una più alta istanza ra­ zionale che porta ad un diverso concetto di ragione: la ragione illuministica viene ricondotta all’intelletto kantiano, cioè a quella facoltà del conoscere scientifico che, nella misura in cui assume la esperienza come un dato estrinseco ed inesplicabile e si limita ad organizzarla secondo i principi del meccanicismo newtoniano, resta inevitabilmente « astratta » e superficiale, incapace di comprendere quel concetto di organismo, di totalità organica, nel quale soltanto la concretezza del particolare viene non già annullata nella falsa generalità della scienza, ma realmente collegata all’insieme cui appar­ tiene. Una volta rimosso l’ostacolo della « cosa in sé », la « ragione », che, come facoltà superiore all’intelletto, secondo Kant, era condan­ nata all’antinomia e all’illusione trascendentale, diventa veramente l’espressione più alta della filosofia, come sapere assoluto, come mani­ festazione di quella medesima creatività, libertà e attività che opera nella realtà. E se la realtà, nel suo libero sviluppo, è sempre sintesi di un’opposizione immanente, dialettica, di finito e infinito, anche la ragione non può non essere dialettica, capace cioè di cogliere l’unità nell’opposizione e l’opposizione nell’unità e quindi di conciliare quelle antinomie, a cui Kant era invece rimasto fermo. Derivano di qui altri aspetti importanti del Romanticismo, come quelli dell’« ottimismo », del « provvidenzialismo » e dello « stori­ cismo »: se la realtà è razionalità, se cioè è comprensibile dalla ragione,

L ’arte, la religione la filosofia

« Ragione » speculativa e « intelletto scientifico

Ottimismo, provvidenzia Usino, storicismo

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Il valore a tradizione e il ritorno il Medioevo

manticismo illuminismo in politica

La « scuola storica del diritto »

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ed è dialettica, cioè unità degli opposti e superamento del negativo, il dolore e il male sono momenti necessari e perciò ineliminabili nella vita della realtà e dello spirito: ma, in quanto essi sono destinati ad es­ sere continuamente superati in una sintesi positiva, la realtà è conside­ rata come una totalità pacificata, che nel suo svolgimento (nella sua sto­ ria) si realizza sempre più compiutamente e priva così di ogni fonda­ mento gli astratti ideali rivoluzionari dell’Illuminismo. Questo atteggiamento può avere, e storicamente ha avuto, due esiti opposti: da un lato un atteggiamento, per così dire, « progres­ sivo » che dall’idea dello sviluppo continuo della realtà trae motivo per un superamento delle determinazioni presenti attraverso la loro negazione e una sintesi più avanzata; dall’altro un atteggiamento « conservatore », che esalta la razionalità del presente e si volge piuttosto al passato, per ricercare nella « tradizione » i fondamenti positivi del presente, che devono essere perciò conservati. Di qui, ad esempio, l’esaltazione del Medioevo non solo per ciò che esso significa, storicamente, per la « nazione » tedesca, che i romantici vedevano smembrata in un’infinità di staterelli, ma anche perché portatore di valori religiosi popolari, sentimentali e artistici che si vogliono riguadagnare. Si spiegano così i frequenti ritorni alla reli­ gione positiva e le conversioni al cattolicesimo, di cui quella di Fede­ rico Schlegel ha avuto un valore quasi paradigmatico. E queste concezioni dello sviluppo della realtà, se da un lato producono una nuova storiografia che supera la prospettiva pura­ mente erudita e documentaria di quella precedente e cerca di cogliere il senso generale dello svolgimento, dall’altro si traducono in una concezione politica antitetica dell’astratto cosmopolitismo illuministico e tesa ad affermare il concetto di « nazione » come vivente organi­ smo spirituale e morale oltre che politico: donde le polemiche contro gli ideali rivoluzionari dell’89, contro le ideologie liberali del Sette­ cento e contro le astrazioni giuridiche e universalistiche: e proprio in questo periodo nasce la « scuola storica del diritto » ad opera di Fried rich Karl von S avigny (1779-1861), il quale nel suo scritto Sulla voca zione del nostro tempo per la legislazione e la scienza del diritto (1814) sostenne che la storia, la tradizione e lo sviluppo continuo dello « spi­ rito del popolo » sono la fonte di quel diritto che non tollera di essere cristallizzato in una legislazione e in un codice (e la polemica era diretta

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contro la codificazione napoleonica e le imitazioni che essa aveva avuto in Europa). In sede più propriamente politica, la rivalutazione della forza Haller contro il diritto, della distinzione tra potenti e deboli contro l’egualitarismo illuministico e l’ideale di un principato più feudale che costituzionale sono i motivi fatti valere nella Restaurazione della scienza dello stato di Karl Ludwig von H a l l e r (1768-1854).

5 - Filosofia e religione in F.D .E. Schleiermacher.

La personalità e il pensiero di Schleiermacher hanno un posto Schleiermach< rilevante nel quadro della filosofia del Romanticismo e nella matura- Vlta e 9cnttl zione di quella problematica religiosa che la caratterizza nella sua fase conclusiva. Nato nel 1768 a Breslavia, Friederich Daniel Ernst S c h l e ie r m a c h e r studiò teologia ad Halle. La crisi religiosa, che lo portò ben presto fuori dell’ortodossia tradizionale, non lo distolse però dalla meditazione sui problemi religiosi, cui dettero anzi ulte­ riore impulso la letteratura delle lettere sullo Spinoza di Jacobi e delle opere dello stesso filosofo olandese (cui dedicò due scritti, Espo­ sizione del sistema di Spinoza e Spinozismo). Nello stesso tempo studia Kant, di cui però non condivide la soluzione del problema religioso, la concezione della libertà e il dualismo tra moralità e inclinazioni. Recatosi a Berlino come predicatore, entra in rapporti con il circolo romantico e stringe amicizia con Federico Schlegel. Nel 1799 pubblica i Discorsi sulla religione che lo impongono negli ambienti culturali e a cui fanno seguito nel 1800 i Monologhi. Le polemiche suscitate dal romanzo Lucinda di Schlegel, per il quale Schleierma­ cher scrisse le Lettere confidenziali in cui teorizzava l’ideale roman­ tico dell’amore come sintesi di senso e spiritualità, e alcune vicende personali lo costrinsero ad allontanarsi da Berlino nel 1802. Nel 1803 compose la Critica della dottrina morale e nell’anno successivo ini­ ziò l’insegnamento di teologia nell’Università di Halle per conti­ nuarlo, dal 1810, all’Università di Berlino, rimanendovi fino alla morte avvenuta nel 1834. Nel 1821-1822 aveva pubblicato la Dottrina della fede, mentre solo dopo la morte videro la luce i suoi corsi universitari (Dialettica, Etica, Estetica, Dottrina dello stato, Dottrina

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La religione come sentimento dell’infinito

Religione, filosofia e morale

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dell’educazione)-, al periodo di Halle, infine, risale la classica tradu­ zione dei dialoghi platonici (accompagnata da importanti saggi critici e introduttivi), che doveva in origine essere realizzata in collabora­ zione con Schlegel, ma che Schleiermacher portò a termine da solo, a causa di alcuni dissidi che incrinarono la loro amicizia. L ’idea centrale che Schleiermacher svolge nei Discorsi è che la religione è, nella sua essenza, « sentimento dell’infinito ». Come sen­ timento la religione è dunque diversa dalla filosofia, che è pensiero, e dalla morale, che è volontà. Con più precisione la religione è una intuizione dell’universo sotto la forma del sentimento, nel senso che, nell’esperienza religiosa, l’intuizione del mondo non può stare senza il sentimento e il sentimento senza l’intuizione. E poiché il senti­ mento religioso è propriamente sentimento dell’infinito, sul piano della religione il singolo è sentito come partecipe del tutto e il finito come espressione dell’infinito. Per questo la religione non può avere punti di interferenza con la filosofia e la morale: essa non ha enti da conoscere e neppure imperativi ed obblighi da comandare e non si deve pertanto chia­ mare religione lo « strano miscuglio » di opinioni su Dio e sul mondo e di norme della condotta che tradizionalmente va sotto quel nome; anzi la religione deve, per così dire, restituire alla filosofia e alla mo­ rale ciò che spetta loro e che le è stato indebitamente attribuito e tornare a intuire l’universo, cioè a guardarlo pienamente in tutte le sue manifestazioni e lasciarsi così « penetrare e riempire dei suoi immediati influssi con infantile passività ». L ’intolleranza non è per­ ciò conseguente alla religione, ma a quanto di filosofico e metafisico vi è in essa commisto, perché è tipica della filosofia la pretesa di uni­ ficare le intelligenze sotto un unico sapere. La filosofia e la morale sono essenzialmente antropocentriche, ma la religione non pone al centro della sua considerazione l’uomo più di qualsiasi altra realtà: tutto è espressione dell’infinito e il senti­ mento che lo coglie non solo non ha pretese conoscitive, ma non instaura neppure (come fa la scienza) rapporti e relazioni tra le cose, ciascuna delle quali, per essa, rappresenta tutto un mondo. Di qui l’esaltazione che Schleiermacher fa di Spinoza come massima espres­ sione del sentimento religioso: cercare di dimostrare l’esistenza di un dio personale o dell’immortalità dell’anima sono problemi che non riguardano la religione: « Dio nella religione non è tutto, ma

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una parte, e l’universo è in essa più che Dio »; « diventare una sola cosa con l’infinito, pur essendo in mezzo al finito; essere eterni in un momento del tempo, questa è l’immortalità della religione ». Si vede chiaramente, in questa impostazione, il carattere pecu­ liare della ricerca di Schleiermacher, che è volta a conoscere non già la realtà di Dio e il modo in cui essa agisce e si manifesta, come pre­ tenderebbero la filosofia e la teologia, ma quali sono le condizioni che rendono possibile, in noi, l’esperienza religiosa, cioè quel senti­ mento, appunto, di soggezione ad un potere assoluto, che nulla ci rivela sull’essenza e sulla natura di questo potere, la cui azione è tuttavia da noi avvertita nella misura in cui cade nella esperienza degli uomini e si modifica e diversifica secondo la loro particolare capacità di riceverla e di determinarla. Proprio in quanto « sentimento dell’infinito » la religione ricéve la sua più piena attuazione non nella solitudine, poiché in questa non si esce dalla propria finitezza, ma nella comunità umana: « inu­ tilmente il tutto esiste per chi è solo; perché per intuire il mondo ed avere religione, l’uomo deve aver prima trovato l’umanità e la trova solo nell’amore e attraverso l’amore » (e questo tema dell’a­ more, insieme a quello della necessità di ritornare nell’intimità della propria coscienza, è centrale anche nei Monologhi). Nasce così la Chiesa, in cui ognuno è nello stesso tempo sacerdote e laico, guida e seguace, perché la religione è un fatto che concerne la coscienza individuale e non richiede gerarchie e istituzioni rigide. Ma la co­ munità tra gli uomini può realizzarsi anche nel tempo: la storia assume così un alto valore per la religione, perché rivela i vari gradi in cui si manifesta progressivamente l’esperienza religiosa (feticismo, politeismo, monoteismo, panteismo). Il concetto di rivelazione subisce, in tal modo, una profonda trasformazione: nessuna religione positiva esaurisce l’esperienza re­ ligiosa, così come nessuna determinazione finita esaurisce da sola l’infinito; di conseguenza ciò che le religioni positive chiamarono rivelazione non è affatto più « rivelatore » di qualunque altro fatto od esperienza, così come non esistono « miracoli », cioè avveni­ menti eccezionali rispetto ad altri che sarebbero normali, ma tutto ciò che accade è miracoloso. Alla luce di questi principi Schleiermacher ha intrapreso nella Dottrina della fede un sistematico lavoro di reinterpretazione di

L’esperienza religiosa : il sentimento di soggezione assoluta

La comunità religiosa

Religione, storia e rivelazione

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tutti i principi e gli elementi della religione, dando progressivamente una valutazione sempre più positiva del cristianesimo: il che spiega la fortuna che l’opera ha avuto negli ambienti protestanti. Eguale spirito sistematico ispira la più matura filosofìa di Schleiermacher, esposta nei corsi universitari, di cui i più importanti sono quelli sulla dialettica e sull’etica. E mentre nei primi è evidente la ripresa di motivi della dialet­ tica platonica e la polemica contro l’idea, formulata da Hegel (cfr. in­ fra, p. 86), che la religione sia una forma di sapere destinata ad essere superata e inverata dalla filosofia; nell’etica è esposta una posizione che cerca di superare l’antinomia kantiana tra spirito e natura, tra ragione e inclinazioni mediante il concetto dell’amore. E la morale si articola in una dottrina del bene, una dottrina della virtù e una dottrina del dovere. Bene, virtù e dovere esprimono, ciascuno secondo il suo proprio modo, la totalità della morale, ma l’uno implica gli altri e viceversa: nessun singolo bene può essere compiuto con l’adempimento di un singolo dovere, ma di tutti; e nessun singolo dovere può essere compiuto con l’azione di una sola virtù, ma di tutte. « Agisci in modo che tutte le virtù siano in te attive in riferimento a tutti i beni »: questa è la formula del dovere morale.

11 FIC H T E E L ’ID E A L ISM O E T IC O 1. I problemi del criticismo: Reinhold, Schulze, Maimon e Beck (p. 27) 2. J. G. Fichte: la vita e gli scritti (p. 30) - 3. Fichte: la « dottrina della scienza » (p. 32) - 4. Fichte: il primato dell’Io pratico sull’Io teoretico: l’idea­ lismo etico. Diritto, politica e morale (p. 37) - 5. L ’ultima fase della filosofìa di Fichte (p. 41).

1 - I problemi del criticismo: Reinhold, Schulze, Maimon e Beck.

Abbiamo già visto (cfr. voi. II, p. 306 e 318) che Kant pose Le discussion filosofia più volte le sue cure a distinguere i risultati della Critica della ra­ sulla di Kant gion pura dalle conclusioni dell’idealismo di Berkeley; nel volgere di un decennio però l’importanza e l’originalità del pensiero in essa espresso si erano imposti alla cultura tedesca, anche se la tradizionali­ sta Accademia di Berlino, nel 1791, premiava una tesi, presentata da Johann Cristoph S chw ab (1743-1821), che negava la filosofia avesse fatto ( * avesse bisogno di fare) progressi dopo Leibniz e Wolff. La diffusione del criticismo è tale che le stesse opposizioni a Kant che si manifestano nell’ultimo periodo della sua vita e dopo la sua morte sembrano trovare spunto e alimento in Kant stesso (e in que­ sto senso Goethe, con profondo intuito, parlò di « ironia » kantiana): era Kant, infatti, che dopo aver ristretto la validità della sua cono­ scenza al solo mondo fenomenico e dopo aver fatto dell’intelletto l’organo di una scienza della natura di tipo newtoniano, aveva poi lasciato sussistere il noumeno e la ragione e si era sforzato di recupe­ rare la possibilità di un giudizio teleologico fondato sul sentimento; era Kant stesso che dopo aver scritto nella Critica della ragion pra­ tica, « tu devi, quindi puoi », infine, aveva parlato di un male radicale dell’uomo; era Kant stesso che dopo aver negato la possibilità di una intuizione intellettuale aveva indicato nel genio artistico la manifesta­ zione dell’attività creatrice delPimmaginazione unita all’intelletto.

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Ma proprio per ciò il pensiero kantiano è al centro delle discus­ sioni filosofiche della cultura tedesca: la sensazione generale è che egli costituisca il punto d’approdo di un lungo travaglio iniziato dal Rinascimento e dalla Riforma e, nello stesso tempo, il punto di par­ tenza imprescindibile della nuova filosofia, in cui la cultura tedesca è destinata a svolgere un ruolo di avanguardia e una funzione di guida: Holderlin dirà che « Kant è il Mosè della nostra nazione ». distinzione Nel nuovo clima culturale due sono i problemi che vengono parti­ Ile facoltà e colarmente messi a fuoco: in primo luogo, la distinzione delle facoltà cosa in sé » (senso e intelletto, ragione pura e ragion pratica), che viene conside­ rata come una difficoltà rispetto all’esigenza di trovare un principio unitario della filosofia e dell’attività spirituale; in secondo luogo, la realtà della « cosa in sé », che appare sempre più come un residuo dogmatico, come qualcosa che o viene ricondotta all’interno dell’atti­ vità spirituale o deve essere espunta dalla filosofia critica. Dalla ri­ flessione su questi temi (e dalle nuove esigenze della cultura roman­ tica) prenderà avvio quel complesso indirizzo filosofico che è indicato con il nome di « idealismo » e che ha in Fichte, Schelling e Hegel i suoi massimi rappresentanti. Esso è tuttavia in qualche modo prepa­ rato e anticipato da una serie di pensatori e da una serie di discussioni di cui conviene dare un rapido cenno perché possa essere seguito lo sviluppo dei problemi. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di ri­ cerche che si presentano come interpretazioni o delucidazioni della dottrina kantiana, nella generale convinzione che, fino a Kant, si è progredito « verso » la filosofia come scienza e che, dopo Kant, si tratta di progredire « nella » filosofia come scienza. Reinhold Questa espressione è di Karl Leonhard R einhold (1758-1823), professore il concetto nell’università di Jena prima di Fichte. Reinhold dopo aver difeso nelle Lettere rappresen­ tazione sulla filosofia kantiana (1786) le dottrine del pensatore di Konigsberg dalle

opposte obbiezioni di coloro che in essa vedevano l’espressione di un eccessivo naturalismo o di un eccessivo spiritualismo, di un eccessivo razionalismo o di un eccessivo empirismo, di ateismo o di dogmatismo religioso, avanza, nella Ricerca di una teoria della facoltà rappresentativa umana (1787) e nella Nuova esposizione dei momenti principali della filosofia elementare (1790), la sua interpretazione volta a identificare nella « rappresentazione », come fatto di coscienza, il principio più elementare ed unitario della filosofia. La rappresenta­ zione, cioè quella che Kant chiamava conoscenza del fenomeno, il modo in cui le cose « appaiono » a noi nell’atto in cui unifichiamo i dati sensibili con le forme a priori, ha infatti questo di caratteristico che « viene nella coscienza

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distinta dal rappresentante (cioè dal soggetto) e dal rappresentato (cioè dall’og­ getto) e riferita all’uno e all’altro ». In tal modo Reinhold ha creduto di dare non solo il « fondamento gnoseologico », ma anche il « fondamento reale » del sapere e di reinterpretare, sulla base dell’opposizione di « rappresentante » e di « rappresentato », tutti i dualismi kantiani, unificati finalmente nel con­ cetto di « rappresentazione » e perciò speculativamente giustificabili: così, ad esempio, la materia del conoscere è ciò che nella rappresentazione viene riferito al soggetto (al rappresentante). E un analogo ragionamento può esser fatto per gli altri dualismi (tra ricettività e spontaneità, tra sensazione e intui­ zione, ecc.). Resta fermo così che la filosofia è circoscritta nei limiti della rappresenta­ zione e che essa non può fare affermazioni su ciò che è il soggetto in sé o l’oggetto in sé. Della cosa in sé è possibile quindi solo una « rappresentazione contraddittoria », perché essa non può essere negata, dovendo noi ammettere qualcosa che sta alla base della materia delle rappresentazioni, e, nello stesso tempo, « di questo quid nulla è rappresentabile, giacché esso è la negazione della forma della rappresentazione ». Di qui il concetto della cosa in sé come un nihil negativum, nel senso che di essa si può dire solo quello che essa non è. La filosofia di Reinhold, che esprime già un considerevole passo innanzi sulla via della eliminazione della cosa in sé e quindi sulla via dell’idealismo, è senz’altro assunta come uno sviluppo coerente della filosofia kantiana in un’opera dal titolo Enesidemo o sui fondamenti della filosofia elementare insegnata in

La cosa in sé

Schulze e il ritorno dello scetticismo

Jena dal Prof. Reinhold, con una difesa dello scetticismo contro l’arroganza della Critica della Ragione. L ’opera uscì anonima nel 1792, ma era dovuta alla penna di Gottlob Ernst S chulze (1761-1833). Essa si propose di dimostrare che a tutti i ragionamenti di Kant (e di Reinhold) era sottesa un’implicita assunzione dell’argomento ontologico, caposaldo del dogmatismo; l’andamento del ragio­ namento kantiano consiste, infatti, nel determinare le condizioni sotto le quali soltanto un concetto è pensabile e nell’affermare, in conseguenza, la realtà di quelle condizioni (le categorie). Oltre a ciò, nulla giustifica nella rappresentazione, di cui parlava Reinhold, una distinzione di ciò che si riferisce all’oggetto e di ciò che si riferisce al soggetto e affermare, con Kant, la possibilità di applicare alla materia del conoscere le forme a priori significa ricadere nel dogmatismo e in una nuova forma di « armonia prestabilita ». Contro questo dogmatismo Schulze riaffermava la necessità di un ritorno allo « scetticismo » (di qui il ri­ chiamo all’antico filosofo scettico Enesidemo: cfr. voi. I, p. 138) e all’empirismo conseguente di Hume. La critica alla « cosa in sé » è ancora più radicale in Salomon M aimon (1735-1800), autore, tra l’altro, di una Ricerca sulla filosofia trascendentale e di una Ricerca di una nuova logica o teoria del pensiero. Se fosse veramente « fuori » del nostro pensiero e della nostra coscienza, la « cosa in sé » sarebbe piuttosto una non-cosa, dal momento che ogni oggetto è tale solo in quanto è oggetto di una rappresentazione. Ma poi: cosa vuol dire « fuori »? Certo non una determinazione spaziale, perché lo spazio non è altro che una forma della nostra soggettività; non resta quindi che pensare che con l’espressione « fuori »

Maimon: la contradditto­ rietà della « cosa in sé » e il ritorni a Hume

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si voglia solo indicare « una cosa nella cui rappresentazione non abbiamo co­ scienza di alcuna spontaneità ed attività nostra ». Ciò significa che quello di « cosa in sé » è piuttosto un concetto « limite » (in qualche modo analogo alle « piccole percezioni » di Leibniz, che Maimon conosce e richiama), quel « dato » a cui la coscienza cerca indefinitamente di avvicinarsi per penetrarlo, senza mai riuscirvi completamente e che, proprio per questo, sembra « estraneo » allo spirito. Il « dato » è perciò sempre una conoscenza incompiuta, mentre la cono­ scenza compiuta è sempre prodotta dalla coscienza, e l’oggetto non la precede ma la segue come suo risultato. Da questa posizione anche Maimon ricava conseguenze scettiche e quindi la necessità di un ritorno a Hume. Nel senso di uno sviluppo già chiaramente idealistico del criticismo, si muove l’ultimo pensatore che dobbiamo qui esami­ L’idealismo nare, Jakob Sigismund B eck (1761-1840), discepolo di Kant e professore a di Beck Rostock, autore, di un Compendio esplicativo degli scritti critici del prof. Kant, il cui terzo volume porta il titolo L'unico punto di vista possibile dal quale la filosofia critica può essere giudicata (1796). L ’« unico punto di v ista» è quello in cui l’oggetto della rappresentazione non può che essere il risultato, anch’esso, di un’attività rappresentativa, di un « originario rappresentante », da Beck iden­ tificato con la kantiana unità trascendentale dell’appercezione o « Io penso ». L ’oggetto non ha più bisogno, quindi, del sostegno della cosa in sé, ma è il prodotto di una rappresentazione originaria, che in un secondo momento il soggetto « riconosce » come sua rappresentazione. Sono questi, risultati assai vicini a quelli che in quegli stessi anni raggiungeva anche Fichte, la cui Dottrina della scienza, anteriore di due anni, oscurava completamente l’opera di Beck.

2 - J.G . Fichte: la vita e gli scritti. Il periodo giovanile: apporti con il pensiero uministico e i la filosofia di Kant

Nato a Rammenau nel 1762 da modesta famiglia, Johann Gottlieb F ic h t e conobbe in gioventù la povertà. Studiò a Jena e a Lip­ sia, facendo contemporaneamente il precettore presso varie famiglie per mantenersi. Dal 1788 al 1790 fu a Zurigo dove conobbe Gio­ vanna Rahn, che poi sposò. Sono questi gli anni della adesione agli ideali delPllluminismo e della Rivoluzione dell’89, del progetto di un vasto programma educativo secondo le direttive del Pestalozzi. Nel 1790 Fichte torna a Lipsia e prende contatto con la filosofia kantiana, che lo entusiasma al punto da indurlo a partire per Kònigsberg per sottoporre a Kant il manoscritto di un suo lavoro dal titolo Ricerca di una critica di ogni rivelazione: si trattava di una elabora­ zione condotta in uno spirito di piena adesione alla filosofia di Kant, sulla base del concetto che solo la moralità può fornire il criterio di validità di qualunque rivelazione e che la religione ha ragion d’essere

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solo nella misura in cui l’uomo è anche sensibilità, la quale può es­ sere soddisfatta molto più dalla religione che non dalla pura mora­ lità. Kant lesse con favore lo scritto e lo fece pubblicare dal suo edi­ tore; ma esso uscì anonimo e l ’opinione pubblica lo attribuì allo stesso Kant, che, intervenendo direttamente a chiarirne la paternità, dette al nome di Fichte grande fama e grande credito. Nel 1794 Fichte fu chiamato all’università di Jena, nella catte­ Il periodo dra lasciata da Reinhold, e vi rimase cinque anni fino al 1799. Sono di Jena anni di grande successo didattico e di febbrile produzione letteraria, condotta secondo due diversi criteri che rispecchiano i due lati della personalità di Fichte: da un lato uno spirito di autoconcentrazione e di astrazione che lo portava alle più remote astrazioni concettuali, e dall’altro uno spirito quasi missionario di diffusione della cultura e della scienza. Così, dai corsi universitari del 1794, nascono il Fon­ damento della dottrina della scienza, che è il suo scritto più impor­ tante, e i Discorsi sulla missione del dotto. Negli anni immediatamente successivi Fichte sviluppa sia la parte teoretica sia la parte pratica della sua « dottrina della scienza » (Compendio dei tratti partico­ lari della Dottrina della scienza in rapporto alla facoltà teoretica, del 1795; Fondamento del diritto naturale, del 1796; e Sistema della morale, del 1798); nello stesso tempo compone altri scritti di ca­ rattere più divulgativo, come la Prima e la Seconda introduzione alla dottrina della scienza. Nel 1799 fu costretto a dare le dimissioni dalla cattedra in se­ La controversia guito ad una « controversia sull’ateismo » originata dall’articolo Sul «sull’ateismo » fondamento della nostra credenza nel governo del mondo, in cui il e l’allontana­ suo discepolo Friedrich Karl F o rber g (1770-1848) identificava Dio mento da Jen con l’ordine morale. Di fronte alle pressioni del governo della Sas­ sonia e alla eventualità di una censura accademica, Fichte minacciò le dimissioni sue e dei suoi colleghi. Ma quando la censura venne, Fichte fu lasciato solo dai suoi colleghi e le dimissioni furono accolte, anche se formalmente erano state minacciate ma non date. Si narra che Goethe, che aveva contribuito all’azione contro Fichte pur dopo averlo a lungo protetto, commentasse dicendo: « Una stella tramonta, una stella sorge » e volesse con ciò alludere all’ascesa di Schelling alla cattedra di Jena. ann Fichte si recò allora a Berlino e strinse rapporti con i fratelli eGligliultimi ultimi Schlegel, con Schleiermacher, con Tieck e con gli altri membri di scritti

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quel circolo romantico, ma non riuscì mai a legare in modo vera­ mente profondo. Professore a Erlangen nel 1805, si recò di nuovo a Konigsberg e poi a Berlino, dove, ancora durante l’occupazione francese, pronunciò, nel 1807-1808, quei Discorsi alla nazione te­ desca, che sono considerati il manifesto del nazionalismo germanico. Negli ultimi anni fu professore e, per breve tempo, anche ret­ tore dell’università di Berlino, fondata, come sappiamo, nel 1810 da Humboldt. Morì nel 1814 per una malattia infettiva, che gli fu trasmessa dalla moglie, ammalatasi mentre si prodigava a curare i feriti della guerra contro Napoleone. A partire dal 1800 circa il pensiero di Fichte assunse un indi­ rizzo caratterizzato sempre più dalla prevalenza della tematica reli­ giosa e che è documentato da una serie di frequenti revisioni e rifa­ cimenti della Dottrina della scienza e che complessivamente vanno sotto il nome di « seconda dottrina della scienza ». Del 1800 è anche lo Stato commerciale chiuso che esprime le concezioni politico­ economiche di Fichte. Ricorderemo ancora, oltre ai rifacimenti della Missione del dotto (Sull’essenza del dotto, del 1806; Cinque lezioni sulla missione del dotto, del 1811), La missione degli uomini (1800), Introduzione alla vita beata (1805), I tratti dell’età presente (1806) e, infine, il Sistema della morale e il Sistema del diritto, entrambi del 1812. 3 - Fichte: la « dottrina della scienza ». Dall’« io penso » Abbiamo già visto in precedenza che le discussioni sul criticismo kantiano, all’« Io kantiano, da Reinhold a Beck, si erano venute orientando nel senso assoluto » di una eliminazione del noumeno come fondamento extra-soggettivo

dei contenuti della conoscenza e quindi nel senso di fare dell’io il principio non solo formale, come in Kant, ma anche materiale del conoscere. Questo orientamento trova appunto in Fichte il suo espo­ nente più rigoroso e più conseguente: l’« io penso », che Kant aveva chiamato anche « appercezione trascendentale » per sottolinearne il carattere di condizione a priori del conoscere, che nel dato sensibile trova il suo limite, diventa in Fichte, una volta tolto il noumeno e quindi il carattere « recettivo » della sensibilità, P« Io assoluto », « Io infinito », in quanto principio assoluto non solo del pensiero ma anche di ogni suo possibile oggetto. Il termine di « trascenden-

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tale », pertanto, potrà essere riferito all’Io non in relazione al conte­ nuto della conoscenza (che non è più, per Fichte, come era per Kant, un « dato » indipendente dalla spontaneità dell’intelletto) ma in rife­ rimento ai molteplici « io empirici », ai singoli individui, di cui esso è la condizione e il fondamento. L ’io assoluto è dunque l’unico vero principio incondizionato del conoscere, della « dottrina della scienza ». Questo concetto è da Fichte chiarito anche attraverso una critica di ciò che tradizionalmente era considerato il principio fondamentale del sapere, cioè del principio di identità. La formula A = A, esprimendo che un concetto, un oggetto è identico a se stesso, è certamente vera, ma questo principio non è il primo, perché assume A come un « dato », come qualcosa che è posto per sé senza spiegare come ciò sia possibile. Questa spiegazione è invece necessaria e può essere raggiunta solo se a fondamento di quell’identità c’è l’Io che la pone, nell’atto stesso che pone se stesso (Io = Io). E l’Io, a sua volta, non deve essere spiegato, non ha bisogno di avere un fondamento, perché è il presupposto di ogni spie­ gazione e di ogni fondazione. Assumere dunque l’Io come principio non solo formale ma anche materiale (cioè del contenuto) del sapere significa assumere l’Io come assoluta infinità e come assoluta libertà, dal momento che è impos­ sibile concepire una realtà che esista « fuori » di lui e costituisca una limitazione e un suo condizionamento. Ecco il principio che distingue la vera filosofia critica, cioè l’idealismo, dal suo opposto, cioè dal dogmatismo: quest’ultimo assume come punto di partenza e come presupposto non giustificato il dato, cioè le cose come esistenti indi­ pendentemente dal soggetto; ma così facendo, esso resta legato alle cose ed è incapace di risalire allo spirito e alla sua libertà. Per questo il dogmatismo significa, in sostanza, materialismo e fatalismo: « un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato e dalla schiavitù spirituale, non potrà mai elevarsi all’idealismo ». Il contrasto tra le due filosofie non è componibile: nessuna delle due può confutare direttamente l’altra, perché la loro opposizione concerne il « principio primo » per sé non deducibile e perché cia­ scuna può criticare il principio dell’altra solo già supponendo come vero il proprio. E se anche accade, dice Fichte, che i due sistemi 3 -

Giannnntoni.

III.

Il principio della « dottrina della scienza » e il principio di identità

Idealismo e dogmatismo'

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La prima proposizione della « dottrina della scienza»: l’Io pone se stesso

La seconda proposizione della « dottrina della scienza»: all’Io si oppone il non-Io

La terza proposizione della « dottrina della scienza » : l’unità dell’Io e del non-Io

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formulino proposizioni in termini identici, l’accordo è apparente, per­ ché l’uno intende le parole in un senso diverso dall’altro. Il contrasto tra dogmatismo e idealismo, perciò, non è solo dot­ trinale, ma totale e l’accettazione dell’uno o dell’altro dipende da una scelta di fondo, che impegna tutto l’uomo « perché un sistema filosofico non è un’inerte suppellettile che si può usare e smettere, ma è animato dallo spirito dell’uomo che l’ha ». Tuttavia, benché si tratti di una scelta di fondo, questa scelta non è arbitraria, irra­ zionale e immotivata, giacché se il dogmatismo, chiuso nelle cose, non è capace di dare ragione dello spirito e della libertà, l’idealismo, invece (e questo è il segno della sua superiorità) è in grado di dare ragione e dello spirito (l’Io assoluto, infinito e libero) e, grazie ad esso, anche delle cose. Tutto ciò è sinteticamente espresso nella prima proposizione fon­ damentale della « dottrina della scienza »: l’Io pone se stesso. Ciò il cui essere (essenza), dice Fichte, consiste soltanto nel porre se stesso come esistente, è l’io come assoluto soggetto. L ’Io, dunque, è auto-produzione, auto-creazione, e, in quanto ha se stesso come oggetto, auto-coscienza: l ’errore di Spinoza è consistito nell’aver posto la « sostanza » (cioè, nei termini di Fichte, la coscienza pura e l’Io trascendentale) al di là della coscienza empirica, mentre i due termini non sono separati ma immanenti. La prima proposizione, ora vista, esige però di essere ulterior­ mente integrata: se tutta la realtà e l’attività dell’Io si esaurisse nel porre se stesso, sarebbe una realtà e un’attività vuota, inconcludente. Di qui la seconda proposizione fondamentale della « dottrina della scienza »: all’Io si oppone un non-Io (cioè gli oggetti, la cosiddetta realtà esterna, la natura), perché solo un non-Io può essere l’opposto dell’Io; e come l’Io costituisce il momento della libertà, così il non-Io costituisce il momento della necessità. In quanto posto dall’Io, però, il non-Io si contrappone all’Io non in modo totale, fino ad annullarlo completamente, ma lo definisce e lo limita. Si ha così la terza proposizione fondamentale della « dot­ trina della scienza »: nell’Io stesso, l’Io è limitato dal non-Io e il non-Io è limitato dall’Io. Essa costituisce la sintesi delle due prececedenti ed esprime l’esigenza che l’opposizione del non-Io venga ricondotta allTo, venga ricompresa nello stesso Io che l’ha pro­ dotta: « nessuna antitesi, dice Fichte, è possibile senza sintesi; infatti

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l’antitesi consiste in ciò, che nell’identico viene cercato l’opposto; ma gli identici non sarebbero tali senza un’azione sintetica che li iden­ tifica ». L ’espressione « nell’Io stesso » che si trova nella terza proposi­ zione indica che questa sintesi non avviene tra l’Io e qualcosa che è « fuori » di lui: l’Io, infatti, nella sua assolutezza, non ammette limiti esterni; ciò significa che la limitazione reciproca di Io e di non-Io, che avviene « nell’Io stesso », concerne un « io » limitato, divisibile e molteplice (perché solo ad esso si può opporre la moltepli­ cità empirica del non-Io). Abbiamo così la molteplicità dei soggetti individuali, delle coscienze finite e la molteplicità degli oggetti empirici, cioè il mondo degli uomini e delle cose, quale ci appare nell’esperienza immediata. Con le prime tre proposizioni della dottrina della scienza, osserva La deduzione Fichte, si è raggiunta anche la deduzione delle prime tre categorie, delle categorie cioè quelle della qualità: affermazione (l’Io pone se stesso), negazione (l’Io oppone a sé un non-Io) e limitazione (l’Io è limitato dal non-Io e il non-Io dall’Io). E poiché, come abbiamo visto, l’opposizione dell’Io da parte del non-Io non è totale, non annulla ma limita l’Io, e poiché la limitazione comporta la divisibilità (onde la terza proposi­ zione della « dottrina della scienza » prende anche la forma: l’Io oppone, nell’Io, al non-Io divisibile un Io divisibile), è possibile procedere ad un’analoga deduzione delle categorie della quantità. An­ cora, dalla terza proposizione risulta che l’Io determina se stesso in quanto è determinato, ed è determinato in quanto si determina: è questa quella categoria di « determinazione reciproca », che apre la serie di categorie di relazione, a cui fanno seguito la categoria di causa (il non-Io che determina l’Io) e la categoria di sostanza (l’Io che è determinato in quanto si determina). Il termine « deduzione » ha però in Fichte un senso profondamente diverso da quello che aveva in Kant: non una giustificazione dei principi a priori del conoscere nel loro uso « trascendentale », ma una vera e propria « deduzione metafisica » del soggetto e dell’oggetto dall’Io. E ciò è perfettamente conseguente con l’eliminazione della cosa in sé e della recettività della sensibilità e con l’assunzione dell’Io come principio sia formale sia materiale del conoscere, che portano Fichte lontano dalla filosofia di Kant. Possiamo anche spiegarci, allora, il fatto che Fichte ritenga pos­ sibile quella « intuizione intellettuale » che Kant aveva escluso, in

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La dialettica dell’Io

L’« immagina­ zione produttiva» e il inondo empirico

La a riflessione » cosciente

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conseguenza, appunto, della « recettività » della sensibilità e del ca­ rattere fenomenico del conoscere scientifico. I tre momenti dell’attività dell’Io sono dunque il suo autoporsi (tesi), l’opposizione del non-Io (antitesi), e la sintesi dell’opposizione: in ciò consiste la « dialettica », come unione degli opposti, che costi­ tuisce la struttura fondamentale dell’attività dell’Io, che proprio per­ ché è finito, non può essere esaurito da nessuna opposizione e limita­ zione, ma sempre e indefinitamente le supera per crearne di nuove e ulteriori e per superarle ancora: tesi, antitesi e sintesi sono i tre momenti di un processo dialettico che si prolunga all’infinito. Ma se il mondo oggettivo è creazione dell’Io, non si riduce a sogno e a inconsistente fantasma? E, in secondo luogo, come si spiega che esso si presenti come qualcosa di dato, di indipendente da noi e anzi come qualcosa che ci necessita e ci condiziona? « La dottrina della scienza, afferma Fichte, è realistica. Essa mostra che non si può in nessun modo spiegare la coscienza delle nature finite se non si ammette una forza indipendente da esse, ad esse completamente opposta e dalla quale quelle nature dipendono per ciò che riguarda la loro esistenza empirica ». In altri termini agli io empirici, ai sin­ goli uomini, si oppone la realtà delle cose empiriche, come qualcosa di indipendente da essi. Ma ciò è appunto il risultato dell’attività dell’Io assoluto che mediante l’« immaginazione produttiva » (cioè quella facoltà che Kant aveva introdotto tra sensibilità e intelletto per spiegare l’uso del secondo rispetto agli oggetti della prima) in­ consapevolmente crea il non-Io, cioè il mondo. Il fatto che si tratti di una produzione inconsapevole, mediante la quale sia l’Io che il non-Io opponendosi si dividono formando la molteplicità degli io empirici e delle cose, spiega perché l’io empirico si trovi di fronte la realtà come qualcosa di indipendente e di esterno e perché la cono­ scenza si presenti come « rappresentazione », cioè come relazione del­ l’io e del non-io. L ’io empirico, però, non è separato e « diverso » dall’Io assoluto (come si è visto) e perciò alPimmaginazione produttiva fa seguito la « riflessione » consapevole, mediante la quale il non-Io è ricondotto e ricompreso nell’Io, che nel non-Io riconosce un proprio prodotto. Il processo, mediante il quale la riflessione ripercorre ascensivamente le tappe che l’Io ha percorso discensivamente, mediante l’immagina­ zione, nella produzione del mondo, costituisce quella che Fichte

FICHTE E L'ID EA LISM O ETICO

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chiama la « storia prammatica » dello spirito umano ed ha nella sen­ sazione, nell’intuizione, nell’intelletto e infine nella ragione le sue tappe progressive. Se infatti nella sensazione l’io empirico avverte l’oggetto come qualcosa che è dato fuori di lui e se stesso come recet­ tività e se nell’intuizione e nell’intelletto egli ordina il materiale em­ pirico secondo le forme dello spazio e del tempo e secondo le cate­ gorie, è nel momento della ragione che l’io, riflettendo su se stesso e sulle sue operazioni, ritrova l’incondizionalità, la creatività e la pu­ rezza della propria soggettività e scopre che il non-Io non è un dato esterno, ma qualcosa che è posto da lui stesso. La metafisica dell’Io, dello spirito, prende il posto dell’antica metafisica dell’essere e il con­ cetto di attività in continuo sviluppo sostituisce quello di sostanza.

4 - Fichte: il primato dell’Io pratico sull’Io teoretico: l’ideali­ smo etico. Diritto, politica e morale. Della determinazione reciproca dell’Io e del non-Io (terza pro­ posizione fondamentale della dottrina della scienza), Fichte ha fin qui esaminato propriamente solo un aspetto, quello per cui l’Io pone se stesso come limitato dal non-Io: e questo è l’aspetto propriamente « teoretico » dell’attività dell’Io, che conosce, mediante la riflessione, i suoi oggetti; ma vi è anche un secondo aspetto, quello per cui l’Io pone il non-Io come limitato dall’Io, e che costituisce l’aspetto pro­ priamente « pratico » dell’attività dell’Io, che agli oggetti si volge non per conoscerli come sono, ma per modificarli. In quanto pone se stesso come limitato dal non-Io, l’Io si deter­ mina, diventa finito e soggetto all’azione del non-Io (la rappresenta­ zione). Invece, in quanto pone il non-Io come limitato da se stesso, l’Io esplica la sua attività infinita, cioè la sua moralità. La quale, tuttavia, non potrebbe esplicarsi realmente se non ci fosse un limite, un urto e un ostacolo da superare. Lo « sforzo » e la tensione che costituiscono le caratteristiche peculiari dell’attività pratica svanireb­ bero se non si scontrassero con la resistenza di qualcosa che ad esse si oppone; e questo qualcosa è il non-Io, il mondo, inteso appunto come il « materiale del dovere reso accessibile ai sensi ». Ecco dunque che l’attività pratica dell’Io sta a fondamento anche di quella teoretica: l’Io pone il non-Io perché rispetto ad esso possa realizzarsi quello

Io « teoretico » e Io « pratico i

Il primato dell’Io pratico sull’Io teoretici

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Dall’inclinaine al dovere

Intenzione c azione; >rale e diritto

Lo stato:

a) Lo stato

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« sforzo » che è la peculiarità della sua attività morale: e come era un processo all’infinito la dialettica dell’Io teoretico, così è uno « sforzo all’infinito » la dialettica dell’Io pratico, che continuamente supera gli ostacoli che si trova di fronte, cioè che esso stesso si pone. In ciò consiste quel primato dell’Io pratico sull’Io teoretico, della moralità sulla conoscenza, di cui già Kant aveva parlato, e che dà all’idealismo fichtiano la caratteristica di « idealismo etico ». Alla « storia prammatica » dell’Io teoretico corrisponde così una « storia prammatica » dell’Io pratico: dallo sforzo consapevole, infatti, nasce l ’« inclinazione », la quale, in quanto mai completamente appa­ gata, genera il « bisogno » e quindi il « desiderio », che trova la sua delimitazione nella « esigenza pura », cioè nel « dovere », con cui si instaura la vera e propria moralità. Ma, come aveva già detto Kant, l’agire umano può essere consi­ derato da due punti di vista, quello estrinseco dell’azione e quello interiore dell’intenzione con cui l’azione è compiuta; e questa duplicità è il fondamento della distinzione tra diritto e morale (tra la « dottrina del diritto » e la « dottrina della morale »), tra la coazione giuridica e l’obbligazione etica. Benché sia possibile parlare, come aveva soste­ nuto la tradizione giusnaturalistica, di diritti originari (o naturali) del­ l’individuo in sé (libertà, proprietà e conservazione), non è dubbio, però, che la validità del rapporto giuridico si manifesta solo nella con­ vivenza sociale, nella relazione di una persona con le altre persone: mentre la moralità, quindi, si svolge essenzialmente all’interno dell’Io (come rapporto dell’Io assoluto e dell’io empirico), il diritto presup­ pone l’esistenza di altri; l’io infatti si determina come « persona » solo in quanto delimita la propria sfera di libertà escludendone ogni altra volontà. Sulle cose l’uomo ha solo una potenza, e nella misura in cui anche altri avanzano identiche pretese sulle medesime cose, nasce un diritto su di esse e, in conseguenza, l’esigenza che questo diritto sia imposto a tutti e che le trasgressioni vengano punite. Nasce così lo stato, come formazione di una « volontà generale » e che si presenta in primo luogo come uno « stato di polizia »: tre sono infatti i poteri fondamentali dello stato: il « potere di poli­ zia », che impedisce la violazione del diritto, e il « potere giudiziario » che constata se una violazione c’è stata, e il « potere penale » che sancisce la pena per la violazione commessa; di questi tre poteri è responsabile il governo, sottoposto al giudizio e al controllo di una

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assemblea che, dal nome della celebre magistratura spartana, Fichte chiama « eforato ». Il fondamento dello stato è il contratto sociale, che ha come suo principio il diritto che ciascuno possa vivere del proprio lavoro. Lo stato deve garantire questo diritto e poiché colui che ne è privato non è tenuto al rispetto del contratto, i cittadini devono assicurargli i mezzi di sussistenza, per evitare che il contratto sia spezzato. Ma con quali mezzi lo stato può garantire a tutti i cittadini il diritto a vivere del proprio lavoro? Lo stato liberale, con il suo « lasciar fare » al libero gioco delle forze economiche, è inadeguato a questo fine; occorre invece un intervento positivo dello stato, che è possibile solo in uno « stato commerciale chiuso », cioè in uno stato completamente autosufficiente dal punto di vista economico. Fichte parte da una distinzione dei cittadini in tre ceti: i produttori, gli artigiani e i commercianti, e da una determinazione del numero dei loro membri che assicuri, a ciascuno di questi, una quota pro­ porzionale e sufficiente della ricchezza comune. Il numero dei pro­ duttori (e per produzione si intende essenzialmente agricoltura) è determinato spontaneamente dalla quantità di terra da coltivare; il numero di artigiani e commercianti deve essere coattivamente im­ posto dallo stato in modo tale che il loro lavoro non sia né inferiore né superiore alla quantità dei beni prodotti. Ne consegue la « chiu­ sura » commerciale dello stato verso gli altri stati, a partire dal momento in cui esso ha raggiunto la perfetta autonomia. Solo così sarà possibile eliminare la lotta tra gli individui, le classi sociali e gli stati. Ma per raggiungere questo obbiettivo sono necessarie tre con­ dizioni: la prima è che lo stato produca tutto ciò di cui ha bisogno; la seconda è che lo stato distolga i cittadini dai beni che non può produrre (e che altrimenti dovrebbe commerciare con l’estero); la terza è che lo stato raggiunga i suoi confini naturali: solo a questo fine la guerra è giustificabile. Questa concezione « organicistica », non individualistica e, in un certo modo, « socialistica » dello stato differenzia profondamente la dottrina politica di Fichte, in cui è sensibile l’influsso di Rous­ seau, da quella liberale: la libertà individuale è sentita più come un elemento disgregatore della compagine statale che come un fat­ tore positivo, e la libertà che lo stato deve realizzare non è quella

6) Lo « state commerciale chiuso »

Lo stato e la libertà

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Lo stato e la cultura

La missione dell’uomo la missione del dotto

La moralità

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del singolo in quanto tale, ma quella di una più vasta comunità, a cui il cittadino partecipa e, partecipandovi, supera la propria individualità e la propria particolarità. Ma lo stato, se deve essere chiuso dal punto di vista economico, deve però essere « aperto » dal punto di vista scientifico e artistico: scienza e arte non hanno confini, e in questo quadro si collocano la « missione del dotto » e la giusta soluzione del problema dei rap­ porti tra politica e cultura. Ogni uomo, in quanto essere ragionevole, ha una sua « mis­ sione », che consiste nell’acquisire l’abilità e la capacità di reprimere e vincere le inclinazioni imperfette che derivano dalla sua natura sen­ sibile: il pieno accordo dell’uomo con se stesso, della sua sensibilità e della sua moralità è il fine ultimo, a cui l’uomo può bensì indefi­ nitamente avvicinarsi, ma mai adeguarsi completamente. Al di so­ pra di questa missione dell’uomo in generale, che si estrinseca nella comunità e nei ceti sociali, in cui questa si articola, e che ha come suo fondamento lo spontaneo e libero consenso, si colloca la « mis­ sione del dotto », cioè di colui che, conoscendo il grado di cultura proprio della società di cui fa parte, ha la visione del progresso umano e dei mezzi per realizzarlo: il dotto è l’educatore dell’umanità. In questo senso il dotto è un funzionario dello stato, ma non un funzionario diretto: lo stato non è infatti, esso stesso, né un edu­ catore né un ricercatore e non può quindi imporre al dotto né cosa deve insegnare né cosa deve ricercare; può invece favorirne l’opera, mettendolo nelle migliori condizioni di lavoro e di libertà: « la vita nello stato non appartiene al fine dell’uomo, ma solo sotto certe condizioni è un mezzo per fondare una società perfetta ». Il passaggio dal diritto allo stato rappresenta il passaggio da una forma di coazione puramente estrinseca ad un legame più alto, di natura etica, tra gli uomini. Tuttavia non si può parlare di un vero e proprio « stato etico » perché, per Fichte, la vita nello stato non appartiene al fine assoluto dell’uomo, che è appunto la moralità; l’attività dell’Io è infatti infinita e non può quindi essere esaurita da nessuna realizzazione concreta. L ’uomo può essere considerato come essere naturale (come og­ getto) e come essere spirituale (come soggetto): di qui la duplicità delle sue « inclinazioni », sensibili e pure, e la conseguente determi­ nazione dell’inclinazione morale come sintesi di entrambe come « in-

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clinazione mista » di cui l’inclinazione sensibile costituisce la ma­ teria e quella pura la forma. Pertanto, in Fichte, come già in Kant, l’inclinazione sensibile è qualcosa da vincere, un ostacolo da superare (e Fichte parla, a questo proposito, di « male radicale », cioè di una persistente resistenza ad operare il bene, di una « iner­ zia » da cui derivano la « viltà » e l’insincerità). Però, a differenza di Kant, il fine della moralità non è soltanto la vittoria sulle incli­ nazioni sensibili, ma la loro armonizzazione con le inclinazioni pure: questa armonizzazione, che non è mai una condizione raggiunta ma sempre una meta da raggiungere (altrimenti il dover essere non sarebbe tale ma si convertirebbe in una situazione di fatto) comporta la pos­ sibilità di formulare non solo imperativi formali, ma anche mate­ riali, cioè di comandare anche i contenuti dell’agire. E se l’imperativo formale si esprime nella formula « agisci se­ condo coscienza », gli imperativi materiali possono concernere o l’edu­ cazione delle inclinazioni sensibili, affinché esse non siano identifi­ cate con il fine dell’uomo né siano considerate come l’ostacolo in­ sormontabile al raggiungimento del fine; oppure i rapporti tra vita teoretica e vita morale, che si riassumono nella formula: conosci, non per mera curiosità, ma per sapere qual è il tuo dovere morale.

5 - L ’ultima fase della filosofia di Fichte. Nell’ultimo periodo della sua speculazione, che ha inizio con Accentuazio dell’interess la pubblicazione della Missione dell’uomo, del 1800, e con la rie­ religioso laborazione della Dottrina della scienza, del 1801, Fichte dà al suo pensiero un indirizzo sempre più marcatamente religioso: Dio, che negli scritti precedenti era dichiarato come « impensabile » o inte­ ramente risolto nell’ordinamento morale del mondo, diventa gra­ datamente l’Essere, l’Assoluto, di cui l’io, l’autocoscienza e il sa­ pere sono le immagini o le manifestazioni. Molteplici ragioni sono state portate per spiegare questo mu­ tamento; la religiosità tipica del Romanticismo, l’influsso della filo­ sofia di Jacobi, la polemica con Schelling sull’Assoluto (che vedremo più avanti), le conseguenze prodotte, sia sul piano teorico sia su quello psicologico, dalla « controversia sull’ateismo »; infine il de­ siderio di liberare la « dottrina della scienza » dall’accusa di atei-

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Il sapere e la fede

l.a filosofia ; « fenome­ nologia >> •H*Assoluto

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smo e di ridare ad essa, con la visione religiosa, quella efficacia pra­ tica che la moralità aveva già cercato di darle, ma che ora, nella nuova situazione culturale del Romanticismo, era venuta perdendo. Tutti questi motivi hanno certamente la loro parte di importanza, ma il problema fondamentale sta nello spiegare il mutamento senza dimenticare la precedente fase speculativa: non a caso Fichte di­ chiarò sempre di non aver mai mutato o rinnegato le precedenti posizioni del suo pensiero. In tal senso il mutamento andrebbe interpretato come un’« estensione » della filosofia al di là dei li­ miti della dottrina della scienza e al di là dell’identità di finito e infinito, per attingere quell’infinità dell’infinito che non è mai esau­ rita dal finito e resta fuori di esso: cioè, Dio. Per usare le parole di Gian Paolo Richter, che di Fichte fu amico, Fichte ora fa filoso­ fia « fuori della filosofia ». Già nella Missione dell’uomo, la fede è posta al di sopra del dubbio e del sapere. Al culmine della considerazione dell’uomo come semplice essere naturale e finito nasce infatti il dubbio se l’uomo sia soltanto la manifestazione di una forza naturale o anche un soggetto libero e autonomo. Il sapere (la dottrina della scienza) elimina que­ sto dubbio mostrando che ciò che prima appariva come natura e come mondo esterno non è altro che una produzione dell’io; questa produzione è però ora concepita come mera immagine e sogno: in­ tuire è sognare e pensare è sognare il sogno. Ma noi conosciamo per agire, perché l’azione è il nostro destino; e nell’azione i nostri con­ cetti non sono mere immagini, ma « fini », cioè modelli di qualcosa da produrre. Bisogna quindi andare oltre il sapere e oltre il sapere non c’è che la fede. Solo la fede dà una sanzione alla scienza e confe­ rendo realtà alle cose garantisce che esse non sono vane illusioni. L ’Assoluto, Dio, si pone al di là del sapere di cui pure costituisce l’origine: è questo il motivo che emerge in modo sempre più appro­ fondito nelle varie redazioni della Dottrina della Scienza, di cui le principali sono quelle del 1801, del 1804 e del 1810. La filosofia diventa un’esposizione dell’Assoluto, una sua « fenomenologia » (nel senso di una descrizione delle « forme apparenti » che esso assume): il sapere non è l’Assoluto, non è Dio, perché questo è unità e quello è dualità di soggetto e oggetto, esso è perciò « fuori di Dio »; tutta­ via, poiché Dio è in tutto, il sapere è « l’essere di Dio fuori di Dio » (come conclude nella Dottrina della scienza del 1810), cioè è l’este-

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riorizzazione di Dio, la manifestazione del suo essere sul piano della esistenza. Fichte stesso sottolinea l’affinità di questo suo modo di considerare il sapere con la concezione del Logos del IV Vangelo (e in questo senso si parla di una « fase giovannea » del suo pen­ siero), fin dal 1806, l’anno della pubblicazione della Introduzione alla vita beata e dei Tratti fondamentali dell’epoca presente. La beatitudine consiste nell’unione con Dio, di cui il nostro pensiero può raggiungere solo l’immagine (l’esistenza con l’essenza), ma che l’amore ci fa sentire, agire e vivere in noi stessi. Niente, dice Fichte, è come è perché Dio lo voglia arbitrariamente così, ma perché Egli non potrebbe manifestarsi diversamente. Riconoscere ciò, rassegnarvisi con umiltà ed essere felice nella consapevolezza della nostra identità con la potenza di Dio è il compito dell’uomo. La storia, poi, è lo sviluppo del sapere, cioè dell’immagine di Dio; e questo sviluppo passa da una fase di innocenza, di indistin­ zione tra ragione e istinto, ad una fase in cui la ragione domina liberamente e che dal kantiano « regno dei fini » ascende al regno di Dio. La nostra epoca, dice Fichte, è quella intermedia tra le due, è l’età dell’« illuminismo », cioè dell’intelletto che nell’esperienza cerca la soddisfazione degli interessi particolari. Anche i Discorsi alla nazione tedesca riflettono queste tendenze: la Germania è divisa in molti stati percorsi dagli eserciti stranieri, ma lo « stato » è una realtà soltanto geografica e politica, al di sopra del quale c’è una più profonda realtà spirituale, quella della « pa­ tria », della « nazione », del « popolo »: « il vero onnipotente amor patrio consiste nel concepire il popolo come qualcosa di eterno ». Di qui l’appello alla nazione tedesca, perché ritrovi se stessa e affermi il proprio « primato »: essa infatti è l’unica che nella razza, nella lingua, nella cultura ha conservato i suoi tratti originari, popo­ lari e medievali; essa è l’unica che con la Riforma luterana, con il ritorno cioè al Cristianesimo primitivo, e con la filosofia di Leibniz e di Kant ha ritrovato coscienza di sé e si è rivelata come la « na­ zione eletta », come il nuovo « popolo di Dio »: sono le basi teori­ che del nazionalismo tedesco. Gli ultimi scritti di Fichte rielaborano, alla luce della nuova posizione raggiunta, le precedenti dottrine giuridiche e morali: così la « missione del dotto » viene ora interpretata (nelle opere Sull’es­ senza del dotto, del 1806 e Sulla missione del dotto, del 1811) in

La storia

Il primato della « nazio tedesca »

L’ultima for delle dottrin giuridiche e morali

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senso schiettamente religioso, come un’opera di educazione non più alla scienza e alla cultura, ma ad indirizzare tutta la specie umana all’unità con Dio. Analogamente nel Sistema della dottrina del diritto e nel Sistema della dottrina della morale, entrambi del 1812, Fichte da un lato modifica l’originaria indipendenza del diritto dalla morale e fa del primo la condizione preparatoria della seconda; dall’altro so­ stituisce all’autonomia della morale la dipendenza di questa dalla religione.

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FR IED R ICH W ILH ELM JO SE P H SC H ELLIN G 1. Vita e scritti (p. 45) - 2. Il distacco da Fichte e la filosofia della natura (p. 46) - 3. Il sistema dell’idealismo trascendentale (p. 50) - 4. La filosofia dell’identità; religione e filosofia positiva (p. 53).

1 - Vita e scritti. Schelling è il secondo grande esponente dell’idealismo tedesco, quello nel cui pensiero forse meglio si rispecchiano le molteplici e varie tendenze dell’età del Romanticismo, in particolare per l’impor­ tanza data alla considerazione della natura, per il ruolo assegnato all’arte, per la sua apertura verso il panteismo spinoziano e il misti­ cismo religioso. La vita di Friedrich. Wilhelm Joseph S c h e l l i n g si differenzia profondamente da quella di Fichte e di Fiegei per il carattere appar­ tato e isolato. Nato a Leonberg, nel Wiirttemberg, nel 1775, Schel­ ling studiò dapprima teologia nel seminario di Tubinga, insieme a Holderlin e a Hegel. Si reca quindi a Lipsia dove coltiva gli studi di matematica e di scienze e infine a Jena, dove ascolta le lezioni di Fichte. E Fichte, Kant e Spinoza sono gli autori da lui più intensa­ mente studiati. In questo periodo compone una serie di scritti (Sulla possibilità di una forma della filosofia in generale, del 1794; Sull’io come principio della filosofia, del 1795; Le lettere filosofiche sul dogmatismo e sul criticismo, del 1795; Dissertazioni per l’amplia­ mento dell’idealismo, del 1796-1797), in cui l’iniziale adesione alle dottrine di Fichte si viene a mano a mano attenuando fino ad un più preciso distacco nelle Idee per una filosofia della natura, del 1797, che apre una nuova fase nel suo pensiero. A seguito della « contesa sull’ateismo », come abbiamo visto (cfr. supra, p. 31), Schelling, appena ventiquattrenne, succedeva a Fichte nella cattedra di Jena, grazie anche all’appoggio di Goethe.

Gli anni di studio a Tubinga, Lipsia e Jen

46 ;namento Diversità di Jena

I periodo Monaco

namento niversità Berlino

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Gli anni dell’insegnamento di Jena (1798-1803) sono i più felici e i più fecondi. Entra in rapporti con gli Schlegel (e si unisce in ma­ trimonio con Carolina Schlegel, già divorziata da Guglielmo) e con Novalis; nel 1800 pubblica la sua opera fondamentale, il Sistema dell’idealismo trascendentale, e nel 1801-1802 dirige il « Giornale critico della filosofia », in cui i suoi scritti (tra cui l’Esposizione del mio sistema, del 1801), escono accanto a quelli di Hegel; nel 1802 pubblica il dialogo Bruno o il principio naturale e divino delle cose. L ’amicizia con Hegel non durò a lungo (come del resto quella con Fichte), poiché Schelling si risentì di un attacco che credette di ve­ dere nella prefazione della Fenomenologia hegeliana; il risentimento non si estinse con il passare degli anni. Dal 1803 al 1806 insegnò a Wurzburg, donde si trasferì a Mo­ naco; diventò segretario della classe filosofica dell’Accademia delle Scienze, e venne approfondendo il problema religioso (anche per l’in­ flusso dei mistici tedeschi, al cui studio è spinto dal suo amico Baader, naturalista e teosofo). Nel 1809 pubblica le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, che documentano questa nuova ten­ denza della sua riflessione. Segue un lungo periodo di isolamento e di silenzio, interrotto dai ritorni all’insegnamento (a Erlangen e a Monaco) e dalla pubblica­ zione di pochissimi brevi scritti. Nel 1841 fu chiamato da Federico Guglielmo IV a ricoprire nell’Università di Berlino la cattedra che era stata di Hegel (morto nel 1831) e Schelling credette di poter dare l’impronta al moto di reazione all’hegelismo che si andava al­ lora profilando, elaborando una filosofia che egli definì « positiva ». La pubblicazione postuma della Filosofia della mitologìa e della Filo­ sofia della rivelazione ci ha fatto conoscere il suo pensiero esposto nei corsi berlinesi. Schelling nel 1847 si ritirò dall’insegnamento e morì nel 1854.

2 - Il distacco da Fichte e la filosofia della natura. iroblema i natura distacco schei] ing ì Fichte

I primi scritti di Schelling segnano, come si è detto, un progressivo distacco dalle posizioni di Fichte: il pensiero centrale che domina infatti le sue prime riflessioni è quello della natura, la cui compren­ sione gli sembra non raggiunta, se essa è ridotta a mero non-Io, a

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momento soltanto negativo della dialettica dell’Io, che nell’atto stesso che la pone la supera, e quindi a qualcosa che non ha la ragione della sua consistenza e della sua realtà in se stessa, ma nell’attività morale dell’Io, che si protende all’infinito senza mai acquietarsi e concludersi. Se quindi nello scritto Sulla possibilità di una forma della filoso­ fia in generale, Schelling riconosce ancora nell’Io il principio incon­ dizionato del sapere, che, ponendo il non-Io, pone ciò che nel sapere è condizionato e finito, nello scritto successivo, L ’io come principio della filosofia, il problema è considerato in modo che lascia intravedere i futuri sviluppi: l’Io assoluto non può non essere quell’« Uno­ tutto » di cui aveva parlato Spinoza e da cui si originano sia l’io fi­ nito sia l’oggetto, sia la libertà sia la necessità. In questo senso « criticismo » e « dogmatismo » tendono verso un’unica meta, cioè quell’identità di soggetto e oggetto, che il primo realizza mediante il concetto di un assoluto soggetto, per il quale l’identità con l’og­ getto è un compito infinito (come in Fichte), e che il secondo presup­ pone già dato in un oggetto assoluto (come la sostanza spinoziana, di cui pensiero ed estensione sono solo attributi). La loro differenza, come Schelling dice nelle Lettere filosofiche sul dogmatismo e il cri­ ticismo, sta nel fatto che il dogmatismo nega ciò che il criticismo af­ ferma, e cioè la libertà del soggetto. Di qui la necessità di un « allargamento » dell’idealismo (come L ’« allarga­ mento » suona il titolo dell’ultimo scritto del primo periodo), cioè la conside­ dell’idealismo razione della natura come una realtà, che non è altro che il nostro spirito creativo nelle sue infinite produzioni e riproduzioni: la na­ tura, in questo senso, è la « storia dello spirito », tendente a solle­ varsi, attraverso la sua progressiva organizzazione, verso la libertà. È qui evidente l’influsso della Critica del giudizio di Kant, anche se la finalità della natura non è, per Schelling, il semplice risultato del nostro giudizio riflettente, ma una condizione intrinseca della natura stessa e della sua organizzazione, in vista della produzione della vita organica e quindi dell’emergere dell’autocoscienza. Ma la produzione dello spirito è incosciente e pertanto non è cono­ scenza ma volontà, o meglio (come dice Schelling), « coscienza pura del volere »: con la volontà noi usciamo dall’ambito soggettivo delle rappresentazioni e possiamo attingere quel punto di appoggio che Archimede chiedeva per sollevare il mondo. Ciò spiega, da un lato,

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concezione ellinghiana Ila natura, ìe « spirito visibile »

La « fisica eculativa »

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perché all’io la natura appaia come qualcosa di esterno e di dato; e, d’altro lato, perché la volontà sia la vera sintesi di reale e di ideale, l’atto con cui lo spirito si sente limitato e nello stesso tempo libera­ mente si limita. Nel gruppo di scritti composto tra il 1797 e il 1800, Schelling precisa la sua concezione della natura in relazione all’idealismo fi­ elitiano: si trattava, nei propositi di Schelling, di mostrare che la na­ tura non è soltanto il momento negativo dell’attività infinita dell’io, ma che è, essa stessa, autoproduzione e autosviluppo, unità di sog­ gettivo e oggettivo, di ideale e reale; e quindi di ritrovare nella stessa natura quei momenti di autoproduzione e autosviluppo che la Dottrina della scienza di Fichte aveva rintracciato nell’attività dell’Io. Pertanto, Schelling può dire che la natura non è altro che lo « spirito visibile », così come lo spirito non è altro che la « natura invisibile ». Confluiscono in questa concezione molteplici influenze cul­ turali, tra le quali sono certamente predominanti quella del paralleli­ smo spinoziano tra estensione e pensiero, tra natura e spirito (come tali che scaturiscono da un unico principio) e quella delle nuove ten­ denze della scienza della natura, che nelle analisi dei fenomeni del magnetismo, dell’elettricità e del chimismo venivano rivelando forme sempre più complesse di organizzazione, fondate su una antitesi di poli opposti, e pertanto tali da trovare nella stessa dialettica, che Fichte aveva messo in luce nell’attività dell’Io, il loro criterio più vero di interpretazione. Di qui il rifiuto, da parte di Schelling, del meccanicismo scienti­ fico (opera dell’intelletto, che astrattamente irrigidisce ciò che è vi­ vente ed organico, pretendendo che il tutto sia soltanto la somma estrinseca degli elementi e delle parti) e l’esigenza di una « fisica speculativa » che sappia penetrare lo sviluppo con cui la natura organizza se stessa. Con l’espressione « fisica speculativa » Schelling non intende una scienza aprioristica, che presuma di poter fare a meno dell’esperienza, ma una scienza che comprendendo i fenomeni naturali, comprenda anche che la natura stessa è a priori, cioè tale che la parte è posteriore e predeterminata rispetto al tutto. Certo, nelle analisi della natura compiute da Schelling c’è una larga parte di arbi­ trio e di fantasia, ma esse non mancarono di avere anche un effetto benefico nello sviluppo della scienza, sia nel senso di presentire nuove vie di ricerche sia nel mettere in luce i limiti del meccanicismo e

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la necessità di rintracciare l’unità e l’analogia di serie diverse di feno­ meni, fino ad allora considerate senza connessioni reciproche. Il principio fondamentale della filosofia della natura di Schelling Il concetto è l’organicità: l’organismo si presenta infatti non come una somma di organismo meccanica di parti staccate, ma come un’unità che ha in se stessa (e non nel solo nostro giudizio riflettente, come voleva Kant) il prin­ cipio di organizzazione e di sviluppo e la necessità della rela­ zione delle parti con la totalità. Mentre perciò, assumendo come momento iniziale il meccanicismo, l’organismo vivente diviene ine­ splicabile; al contrario, partendo dal punto di vista organicistico, il meccanicismo e ciò che viene solitamente designato come natura inorganica, possono essere spiegati come limiti negativi dello svi­ luppo organico della natura. L ’organismo è, in generale, il risultato del corso di un’opposi­ zione di forze, di cui il magnetismo, l’elettricità e il chimismo (e, in particolare, il processo di combustione) offrivano a Schelling esempi particolarmente stimolanti. Ma Schelling vuole andare più a fondo e considerare magnetismo, elettricità e combustione come momenti e quasi battute d’arresto di un’unica opposizione più fondamentale, tra una forza « attrattiva » e una forza « repulsiva ». Quando le due forze sono in equilibrio il loro prodotto è un « corpo non vivente », quando l’equilibrio si rompe e poi si ricompone il loro prodotto è un « fenomeno chimico » e, infine, quando l’equilibrio non si com­ pone mai completamente il loro prodotto è la « vita ». E come sul piano dell’organismo vivente noi troviamo un dispie­ L a natura garsi di gradi o momenti analoghi a quelli già considerati del magne­ come organismo tismo, elettricità e chimismo, e cioè la sensibilità, l’irritabilità e la produzione; così, alla fine, noi intuiamo che non esistono molti organismi, ma che la natura stessa, nella sua totalità, è un unico organismo vivente (che Schelling torna a designare con l’antico nome neoplatonico di « anima del mondo »): ciò significa che non le cose sono i principi dell’organismo, ma che l ’organismo è il principio delle cose: « l’individuo deve apparire come un mezzo e la specie come un fine della natura — l’individuo passa, la specie rimane — se è vero che i singoli prodotti della natura devono essere considerati come tentativi mal riusciti di rappresentare l’assoluto ». sviluppo Un infinito sviluppo attraverso gradi e prodotti finiti di orga­ Lo autoproduttivc nizzazione: così noi possiamo comprendere l’autoproduzione della della natura 4 - Giannantoni, III.

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natura, che ha il suo primo momento nella opposizione tra l’attività spazializzante e quella temporale, E poiché l’attività spazializzante non può prescindere da quella delle forze elementari che producono la materia che occupa lo spazio, le tre dimensioni vengono fatte deri­ vare dal magnetismo (lunghezza), dall’elettricità (lunghezza più lun­ ghezza, cioè superfìcie) e chimismo (lunghezza e profondità, cioè volume). Gravità, La « gravità », come risultato dell’opposizione della forza attrat­ luce e vita tiva e di quella repulsiva, la « luce », come manifestazione visibile e più alta del processo che sul piano della gravità avviene in modo oscuro e invisibile; e infine la « vita », sono le tre potenze o gradi della natura che ripetono i momenti della produzione inconscia, della riproduzione cosciente e dell’autocoscienza in cui Fichte aveva scan­ dito l’attività infinita dell’Io: poteva sembrare così completato il compito iniziale che Schelling si era assunto, e cioè di costruire per la natura una « dottrina della scienza » analoga a quella che Fichte aveva costruito per l’Io; in realtà, la natura, nella misura in cui non è più soltanto non-Io e oggetto, ma unità di soggetto e oggetto, di ideale e reale, vede riconosciuto un proprio valore autonomo che non poteva esimere Schelling dal dover riconsiderare in modo nuovo i rapporti tra natura ed Io.

3 - II sistema dell’idealismo trascendentale. [1 problema della distinzione lei soggetto dell’oggetto

Nella filosofia della natura, fino ad ora considerata, Schelling, partito dall’idea che la natura non può essere ridotta a mero non-Io, aveva ripercorso tutte le tappe e i gradi del suo sviluppo cercando di mostrare come in essa lo spirito si manifesti visibilmente. È solo quando emerge la coscienza e la distinzione che essa instaura tra sé, come attività consapevole, e il suo contenuto, come oggetto consa­ puto, che si opera il dualismo di soggettivo ed oggettivo; e perciò i risultati della filosofia della natura devono trovare il loro analogo in quelli della « filosofia trascendentale », che muove dal soggetto per mostrare come da esso si produca l'oggettività, cioè il limite stesso dell’attività del soggetto. In questo senso, il « sistema del­ l’idealismo trascendentale » (come suona il titolo dell’opera in cui Schelling espone, nel 1800, queste idee) è la più alta unità di idea-

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lismo (cioè della dottrina dell’idealità del limite, o filosofia teoretica) e realismo (e cioè della dottrina della realtà del limite, o filosofia pratica). Al processo di sviluppo della natura corrisponde, in questo nuovo piano, il processo di sviluppo dell’autocoscienza, che si articola in tre momenti fondamentali: il primo che dalla sensazione si eleva all’intuizione, il secondo che segna il passaggio dall’intuizione alla riflessione, e infine il terzo con cui lo spirito passa dalla riflessione alla volizione. Autocoscienza, sensazione e intuizione sono i momenti attraverso i quali l’Io esercita la sua attività produttiva degli oggetti; orbene, questa attività è inconsapevole, altrimenti non si spieghe­ rebbe come potrebbe accadere che l’Io senta le cose come qualcosa di estraneo e di esterno e che le intuisca come date. La riflessione è il momento della conoscenza di ciò che è stato prodotto e della coscienza (riflessa e non intuita) che l’oggetto è un prodotto dell’attività dell’Io. Ma l’acquisita consapevolezza della pro­ duzione delle cose da parte dell’Io non rende cosciente la produzione stessa: l’attività « reale » (cioè produttiva) permane inconsapevole anche quando l’attività « ideale » (cioè riflessiva) ci rende consape­ voli di quella produzione. In tal modo tutta la vita dell’autocoscienza si svolge secondo il ritmo dialettico che emerge dall’opposizione del­ l’attività reale, che è limitata (perché produce, cioè si traduce in prodotti finiti), e dell’attività ideale, che è infinita (perché sempre tende ad oltrepassare il limite che le è dato dagli oggetti finiti). At­ tività ideale e attività reale corrispondono così a quelle forze di « at­ trazione » e « repulsione » che abbiamo visto operare nella natura, e Schelling spinge ancora più oltre la corrispondenza, facendo del­ l’autocoscienza, della sensazione e dell’intuizione l’analogo del ma­ gnetismo e dell’elettricità e del chimismo. Con la riflessione l’intelligenza diventa consapevole della for­ ma della sua attività in generale, astraendo da ogni suo contenuto possibile: siamo con ciò sul piano della vera e propria filosofia. D ’altra parte, questa astrazione dell’intelligenza, in quanto è un at­ to spontaneo, un’autodeterminazione, implica la volontà, cioè il pas­ saggio dalla filosofia teoretica alla filosofia pratica. Tuttavia la volontà, in quanto autodeterminazione, svincolata da qualsiasi contenuto ed oggetto, sarebbe un’attività infinita, senza limiti, e quindi impossibilitata a volere qualcosa di concreto. Ma

Lo sviluppo dell’auto­ coscienza

A ttività « reale » e attività « ideale »

L a volontà e la filosofia pratica

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La storia

L ’Assoluto. L’arte le « organo » ella filosofia

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Schelling avverte che ogni volontà e intelligenza presuppone sem­ pre altre volontà e altre intelligenze fuori di essa e che ne costitui­ scono il limite. Entriamo così nel campo del diritto, della morale e, più in generale, della storia: la storia, anzi, è la sintesi e l’unità della necessità, che trova espressione nella norma giuridica e della libertà che si manifesta nella volontà morale. E l’antitesi della ne­ cessità e della libertà non è altro che l’antitesi dell’inconscio e del conscio, nel senso che se l ’intenzione e l’iniziativa nostre nell’agire sono libere e consapevoli, il risultato e la realizzazione dipendono anche dall’azione di altra volontà: « nella libertà, dice Schelling, deve ritrovarsi la necessità; ciò significa che per mezzo della libertà stessa, e mentre io credo di operare liberamente, deve nascere in maniera inconscia, cioè senza la mia cooperazione, ciò che io non mi proponevo ». La storia rappresenta per la filosofia pratica quello che la na­ tura rappresenta per la filosofia teoretica: anch’essa è sviluppo e anch’essa ha le sue epoche (quella incosciente del destino e quella della natura, a cui farà seguito quella della provvidenza), e Schel­ ling la paragona ad una rappresentazione scenica, in cui ciascun at­ tore recita liberamente la sua parte, ma che solo nella poesia del­ l’autore del dramma trova la sua unità e il suo svolgimento. La sto­ ria, pertanto, come unità di libertà e necessità è, nella sua totalità, la progressiva rivelazione dell’Assoluto, cioè dell’identità di sogget­ tivo e oggettivo, di ideale e reale di consapevolezza e incoscienza. L ’Assoluto è dunque assoluta identità originaria di tutte quel­ le opposizioni di cui abbiamo visto fin qui le progressive manife­ stazioni: natura e spirito, oggetto e soggetto, reale e ideale, incon­ scio e conscio. Penetrare nella natura dell’Assoluto non è però com­ pito della ragione e della riflessione, che hanno sempre a che fare con la distinzione e con il finito; è compito dell’« arte », perché solo nell’arte si coglie l’unità di consapevolezza e di incoscienza, di produzione e di riflessione, di oggetto e soggetto. In questo sen­ so l’arte è l’« organo » della filosofia. La produttività del genio, l’ispirazione inconsapevole (la poesia) che spinge l’artista ad espri­ mere cose che egli stesso non comprende compiutamente e che han­ no un senso infinito, e infine l’« arte », cioè l’elemento riflessivo e cosciente (che può essere imparato e insegnato), costituiscono i mo­ menti di quell’esperienza estetica che porta l’uomo al punto più

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alto a cui egli può giungere: « la filosofia raggiunge bensì il punto più alto, ma fino a questo punto non porta che quasi un frammento dell’uomo. L ’arte porta l’uomo, come egli è nella sua interezza, alla conoscenza del punto più alto ». L ’arte, secondo una celebre immagine di Schelling, apre all’uomo il sacrario, dove in eterna e originaria unione brucia in una sola fiamma ciò che nella natura e nella storia è diviso e quello che nella vita e nell’azione, come nel pensiero, eternamente si cerca ed eternamente sfugge a se stesso: « ciò che noi chiamiamo natura è un poema chiuso in caratteri mi­ steriosi e mirabili. Ma se l’enigma si potesse svelare, noi vi cono­ sceremmo l’odissea dèlio spirito, il quale, per mirabile illusione, cercandosi, sfugge se stesso ».

4 - La filosofia dell’identità; religione e filosofa positiva. Abbiamo visto, fin qui, come Schelling abbia percorso la du­ plice via della filosofia della natura e dell’idealismo trascenden­ tale, e come nell’Assoluto e nell’arte abbia indicato la loro unità e lo strumento idoneo a penetrarle. Questo procedimento non è però ancora pienamente esauriente: non basta, cioè, dagli opposti risalire all’unità, ma è necessario altresì mostrare come dall’unità si generi l’opposizione. È a questo compito, che Schelling dedica gli scritti composti tra il 1801 e il 1803 (dalle Esposizioni del mio sistema al dialogo Erano alle lezioni sulla Filosofia dell’arte). Po­ trebbe sembrare che questo compito si riduca a ripercorrere, in senso inverso, il cammino già compiuto; ma, come vedremo, non è così. L ’Assoluto, come si è detto, è assoluta identità: come spie­ gare dunque partendo da esso le specificazioni e le opposizioni (di natura e spirito, di oggettivo e di soggettivo, di reale e di idea­ le, ecc.) che si sono precedentemente incontrate? Il finito non può essere dedotto dall’infinito, l’opposizione non è ricavabile dalla iden­ tità e dalPindistinzione; e l’Assoluto non è né spirito né natura, ma è « prima » di tutte le opposizioni. Ma le opposizioni, il finito e il molteplice debbono essere, in qualche modo, contenuti nell’Assoluto (perché altrimenti non sa­ rebbe più tale); e vi sono contenuti, secondo Schelling, non nella loro realtà (cioè nelle limitazioni e imperfezioni della loro concreta

L ’Assoluto come assoluta identità ; la distinzione di soggetto e oggetto

Idealità e realtà delle cose

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Arte, filosofia e religione

La « caduta » dall’Assoluto nel finito

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realizzazione) ma nella loro « idealità »: questo dualismo tra idea­ lità delle cose richiama il dualismo platonico tra mondo delle idee e mondo sensibile e Schelling esplicitamente lo ricorda, così come a Platone e al Neoplatonismo si riferisce quando vuole interpre­ tare il passaggio dall’idealità alla realtà delle cose come una « ca­ duta nell’esistenza ». Alla caduta segue la palingenesi, all’allon­ tanamento il ritorno, all’Iliade l’Odissea della realtà, come Schel­ ling dirà in Filosofia e religione, del 1804. La storia diviene senz’al­ tro la progressiva epifania di Dio. In questo contesto anche la filosofia dell’arte ha un’ulteriore esposizione e un diverso significato: la distinzione di reale e ideale si manifesta nella corrispondente distinzione tra arti figurative (mu­ sica, pittura e scultura, cioè la rappresentazione della realtà ad una, due e tre dimensioni) e arti letterarie (lirica, epica, drammatica); ma ciò che è ancor più significativo è che l’arte è concepita come una manifestazione del divino: « mentre la filosofia vede le idee come sono in sé, l’arte le vede nella loro realtà ». E le idee reali e viventi altro non sono che gli dei, onde la mitologia è l’univer­ sale esposizione delle idee divine incarnate negli dei, cioè nella loro vivente realtà. È evidente, da quanto siamo venuti dicendo, una sempre maggiore accentuazione dell’ispirazione religiosa della filosofia di Schelling: il concetto della « caduta » dà all’Assoluto un significato che lo av­ vicina più alla divinità trascendentale delle religioni che non all’as­ soluta identità dell’idealismo trascendente. E questa accentuazione dell’ispirazione religiosa risulterà sempre più marcata nelle opere successive di Schelling (da Filosofia e religione, del 1804, alle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, del 1809). Schelling sottolinea il motivo della « caduta », del « salto », dal­ l’Assoluto alla finitezza e particolarità delle cose; questa caduta e questo salto sono dovuti al distaccarsi della libertà dalla necessità (con cui è unita nell’Assoluto) e il cui risultato è la produzione del mondo sensibile, che non è un mondo reale, ma un’« immagine apparente », un « fenomeno di rifrazione » prodotto dall’Io, per­ ché la vera vita del finito è solo quella nell’Assoluto. Ma la soluzione ora considerata non è veramente una solu­ zione, perché non spiega come e perché si opera il distacco della libertà dalla necessità. Il superamento di questa ulteriore difficoltà

FRIEDRICH W ILHELM JO SEPH SCHELLING

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e insieme le critiche, che Hegel aveva formulato nella prefazione alla Fenomenologia (che è del 1807) e che riguardavano il concetto stesso dell’Assoluto come identità e indifferenza e perciò incapace di dare spiegazione delle determinazioni concrete della realtà, spinge Schel­ ling, che aveva frattanto approfondito il pensiero di Bòhme e della mistica tedesca, a porre in Dio stesso, nello stesso Assoluto l’origine e la ragione del distacco della libertà e della caduta del finito. In Dio non è solo « essere »; esso non è da sempre perfetto e immobile nella sua perfezione (come vuole il teismo e come vuole anche Jacobi, contro cui Schelling polemizza), ma dobbiamo pensare in lui anche un « fondamento oscuro », una nascosta « bra­ ma », un inconscio desiderio di essere e di volere (ciò che possiamo considerare la « natura » in Dio: donde il parziale motivo di ve­ rità del pantesimo). La vita di Dio è in tal modo analoga a quella dell’uomo, che dall’originaria incoscienza gradatamente si svolge e si sviluppa nelle sue determinazioni concrete. E dovunque c’è svol­ gimento e sviluppo, lì c’è dialettica tra due opposti principi; e dun­ que anche in Dio: la cieca e irrazionale volontà della « brama » e il consapevole e ragionevole volere, la forza espansiva e infinita dell’amore e quella limitante dell’egoismo sono appunto i due ter­ mini (quello ideale e quello reale) attraverso i quali si giustifica il divenire di Dio, la produzione del mondo sensibile e la stessa libertà e moralità dell’uomo. Il male, infatti, non è mero non es­ sere semplice deficienza (giacché, se così fosse, scomparirebbe la stessa libertà) e non è neppure da identificare con l’egoismo in sé, ma con il prevalere dell’egoismo sull’amore. Questa prevalenza non è possibile in Dio, ma nell’uomo (pur avendo nella natura di Dio il fondamento della sua possibilità) e ciò dà ragione della sua libertà e quindi del suo dovere morale di ricomporre l’equilibrio spezzato. Come si è già detto, dopo il 1809 segue, nell’attività di Schel­ ling, un lungo periodo di silenzio: sono gli anni del trionfo della filosofia di Hegel. E quando Schelling riprende l’insegnamento a Berlino è proprio contro il principio fondamentale dell’hegelismo che egli polemizza ed in funzione di questa polemica elabora la sua « filosofia positiva », estremo punto di approdo del suo pen­ siero. Hegel aveva sostenuto, come vedremo, che tutto ciò che è reale è razionale e che tutto ciò che è razionale è reale; in altri

La vita di Dio e l’opposizione in essa latente

La filosofia positiva e la fede

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termini aveva ridotto la realtà al concetto, nel senso che le deter­ minazioni della realtà sono identiche alle determinazioni che sono pensate nel suo concetto. Ma con ciò, osserva Schelling, noi stabi­ liamo solo le condizioni « negative » delle cose, quelle cioè senza le quali le cose non possono essere pensate; mancano però ancora le condizioni « positive », per le quali qualcosa esiste effettivamente nella realtà. L ’a priori, il concetto esprime l’essenza delle cose, ma non l’esistenza effettiva (positiva) delle cose, che dipende invece dalla creazione mediante la quale la volontà di Dio si manifesta. Se quindi nella costruzione della « filosofìa negativa » noi possiamo valerci della ragione, sul piano della « filosofia positiva » possia­ mo entrare soltanto mediante un atto pratico, mediante la fede. La filosofia si trasforma così in una religione filosofica: e allo stes­ so modo che Dio dapprima si manifesta nella sua natura e nella sua necessità e poi si rivela nella sua libertà e personalità, anche la religione filosofica passa per due fasi, quella della religione natu­ rale o mitologica (il politeismo antico) e quella della religione rive­ lata (il cristianesimo): di qui la partizione della filosofia positiva in una filosofia della mitologia e in una filosofia della rivelazione; ma di qui anche l’esigenza, avvertita da Schelling, di una superiore religione filosofica che unifichi religione naturale e religione sopran­ naturale.

IV G E O R G W IL H E L M F R IE D R IC H H E G E L 1. La vita e gli scritti (p. 57) - 2. Dagli scritti giovanili alla filosofia del periodo di Jena (p. 60) - 3. La fenomenologia dello Spirito (p. 66) - 4. La logica (p. 70) - 5. Dall’Idea allo Spirito oggettivo (p. 75) - 6. Lo Spirito as­ soluto (p. 84).

1 - La vita e gli scritti. Con Hegel, l’idealismo dell’età del Romanticismo raggiunge il suo momento di più profonda maturità e, nello stesso tempo, la sua conclusione speculativa. Una cultura vastissima e una raziona­ lità capace non solo di delineare un coerente ed organico sistema dalla grandiosa architettura, ma anche di scendere fino ai partico­ lari per reinterpretarli e scoprire in essi un significato profondo e nascosto, e per includerli così come momenti della totalità del sistema, fanno della filosofia di Hegel uno dei punti nodali, tra i più importanti, della storia del pensiero. Nato nel 1770 a Stoccarda da un funzionario del Duca di Sas­ La vita di Hegel sonia, Georg Wilhelm Friedrich H e g e l trascorse i primi diciotto anni della sua vita nel rigido ambiente familiare, educato al più scrupoloso rispetto della tradizione religiosa e dell’autorità politica, da cui il suo carattere e le sue stesse abitudini esteriori ricevettero un’impronta durevole. I suoi contemporanei ci parlano della sua diligenza a scuola, della sua pedanteria da « primo della classe » e, insomma, della sua « prosaicità », come la definì Hòlderlin. Ma, fin dagli anni giovanili, la povertà di avvenimenti, di at­ teggiamenti e di circostanze esteriori capaci di arricchire la biogra­ fia, ha la sua controparte in un’intensa vita intellettuale, in uno sforzo profondo di meditazione e di concentrazione, che la pubbli­ cazione postuma degli scritti giovanili (quelli cioè che vanno dal 1793 al 1800) hanno adeguatamente documentato.

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Gli studi Dal 1788 al 1793 fu a Tubinga, dove seguì per due anni i n Tubinga corsi di filosofia e per tre quelli di teologia, disciplina in cui si ad­

Il soggiorno a Berna Francòfone

Il periodo di Jena

dottorò. Strinse amicizia con Schelling e con Holderlin, che erano suoi compagni nella frequenza ai corsi; cominciò lo studio della filosofia di Kant, di Herder, degli illuministi, dei classici greci e attraversò un periodo di fervido entusiasmo per la Rivoluzione francese, parte­ cipando attivamente alle discussioni sugli ideali di libertà e di egua­ glianza e fraternità. Risale a questo periodo il cosiddetto fram­ mento Sulla religione nazionale. Da Tubinga si trasferì a Berna, come istitutore della famiglia Steiger, rimanendovi per tre anni, dal 1793 al 1796; sono gli anni in cui compone la Vita di Gesù, La positività della religione cri­ stiana e la poesia Eieusi, rimasti, come si è detto, inediti. Nel 1796 si trasferisce, sempre come istitutore, a Francoforte, grazie all’interessamento di Holderlin, e vi soggiorna fino al 1800, continuando i suoi studi sulla religione, che si concretano nello scritto più importante di questo periodo, Sullo spirito e il destino del Cristianesimo. In esso arriva a compimento il distacco dalle ini­ ziali posizioni kantiane e inizia quella elaborazione sistematica che maturerà negli anni successivi, ma che intanto trova una prima for­ mulazione nel Frammento di sistema, che è del 1800. Al 1798 ri­ sale infine lo scritto Sui recenti rapporti interni del Wurttemberg, che documenta un interesse per i problemi politici che non venne mai meno. Con le disponibilità delTeredità paterna, Hegel si trasferisce da Francoforte a Jena, il centro della cultura romantica che aveva vi­ sto Tinsegnamento di Reinhold, di Fichte, e ora, di Schelling. E con Schelling, Hegel inizia la collaborazione nella pubblicazione del « Giornale critico della filosofia », dopo essersi abilitato all’insegna­ mento, nel 1801, con una dissertazione, De orbitis planetarum, in cui contestava che le dottrine newtoniane costituissero un progresso rispetto a quelle di Keplero. Sempre nel 1801, pubblica il suo primo scritto filosofico vero e proprio, dal titolo Differenze dei sistemi di filosofia di Fichte e di Schelling. Nei due anni successivi scrive numerosi articoli per il « Giornale critico della filosofia », i quali, ben­ ché pubblicati anonimi, sono stati identificati dagli interpreti: tra essi hanno particolare importanza quelli dal titolo Sull’essenza della Critica filosofica, Rapporto dello scetticismo con la filosofia, Fede

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e sapere, Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale. Inedito è invece rimasto un altro importante scritto, il Sistema dell’eticità. Nello stesso tempo, tra il 1802 e il 1806, Hegel, oltre a proseguire nella sua meditazione dei problemi politici {La costi­ tuzione della Germania e altri frammenti) studia Spinoza, gli eco­ nomisti (e in particolare Smith) e tiene corsi all’Università di Jena che sono stati raccolti e pubblicati, dopo la morte dell’autore, con l’indicazione di « Logica, Metafìsica e Filosofia della natura di Jena » e che documentano l’avvenuta determinazione, nelle sue linee generali, del sistema. Culmine di tutta questa attività è la ste­ sura, nel 1806, della prima tra le sue opere maggiori, la Fenome­ nologia dello spirito, che fu pubblicata l’anno successivo e deter­ minò, come già sappiamo, la rottura dei rapporti con Schelling. Allontanatosi da Jena dopo la conquista di Napoleone (ed He­ gel scrisse di aver visto passare a cavallo lo « spirito del mondo ») Hegel diresse per breve tempo il « Giornale di Bamberga » per trasferirsi, nel 1808, a Norimberga, come direttore del Ginnasio, dove rimase fino al 1816; e a Norimberga sposò Maria von Tucher, che gli fu sempre affettuosamente vicina: « con un impiego e una donna si ha tutto in questo mondo », scrisse poco dopo il matrimonio. Risale a questo periodo la composizione della grande Scienza della Logica (le cui due prime parti videro la luce nel 1812 e la terza nel 1816) e il Saggio politico sulla costituzione del Wùrttemberg (1815), in cui è ormai netto il distacco dalle ideolo­ gie dell’Illuminismo; contemporaneamente veniva redigendo per i suoi studenti dei corsi preparatori in cui erano trattate tutte le sezioni del sistema. Questi corsi, rimasti allora inediti e poi pub­ blicati postumi con il titolo di Propedeutica filosofica, costituiscono la fase preliminare di elaborazione di quella compiuta esposizione del suo pensiero, cui Hegel dette il nome di Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. L ’Enciclopedia fu pubblicata nel 1817 ad Heidelberg, nella cui Università Hegel insegnò dal 1816 al 1818, e fu dallo stesso He­ gel nuovamente pubblicata nel 1827 e nel 1830, sempre accresciuta di nuovi paragrafi e annotazioni. I suoi scolari, infine, fecero un’altra edizione, postuma, raccogliendo e ordinando tutto il materiale tratto dalle lezioni universitarie: l’opera raggiunse così un’estensione di ben tre volumi e va sotto il nome di Grande Enciclopedia.

Il periodo di Norimberga

II periodo di Heidelberg

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nsegnamento Nel 1818 Hegel fu chiamato all’Università di Berlino e vi ri­ ill’Università mase fino alla morte, nel 1831. Sono gli anni del successo e della di Berlino

consacrazione del suo insegnamento; il suo pensiero domina la cul­ tura tedesca e diviene in qualche modo la filosofia ufficiale dello stato prussiano, la cui « affinità elettiva » con le proprie idee He­ gel stesso sottolineò nella prolusione accademica. È il periodo della restaurazione post-napoleonica e Hegel dedica una delle sue opere maggiori, i Lineamenti di filosofia del diritto (pubblicata nel 1821), alla trattazione di problemi del diritto, della moralità, dell’eticità e dello stato. Gli ultimi anni della vita di Hegel sono occupati quasi com­ pletamente dall’insegnamento e dalla attività accademica. I suoi cor­ si universitari, dedicati a particolari sezioni e aspetti del suo siste­ ma, sono stati raccolti e pubblicati dai discepoli dopo la morte del maestro: abbiamo così le Lezioni sulla filosofia della storia, le Lezioni sull’estetica, le Lezioni sulla filosofia della religione e le Lezioni sulla storia della filosofia. 2 - Dagli scritti giovanili alla filosofia del periodo di Jena.

Gli « scritti La pubblicazione degli « scritti giovanili », quelli cioè anteriori giovanili » al 1800 e lasciati inediti dal loro autore, ha consentito di ricostruire il problema ella religione il cammino speculativo di Hegel dagli originari studi teologici di

Tubinga al primo sistema elaborato nei corsi universitari di Jena. Tale cammino può essere rappresentato come il passaggio dalla re­ ligione alla filosofia: non si tratta, come potrebbe sembrare da que­ sta formula di una conversione « a rovescio », ma di un processo molto più complesso, che matura attraverso la continua medita­ zione della filosofia di Kant, degli illuministi, di Fichte, di Schel­ ling e di Schleiermacher e che sfocia nell’abbandono del concetto tradizionale di filosofia (che, con la sua inadeguatezza, giustificava l’esigenza di trovare nella religione una prospettiva più esauriente) e nell’elaborazione di un concetto di filosofia nuovo, capace di ri­ solvere anche quei problemi che non trovano completa soluzione sul piano della religione. L ’ambiente accademico di Tubinga, in cui Hegel matura le sue prime esperienze è alieno da quegli ideali rivoluzionari ed illumi­ nistici, che entusiasmano il giovane studente di Stoccarda ed i suoi

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amici, ed è ancora imbevuto di un tenace tradizionalismo filosofico e religioso, che ispira il cosiddetto « indirizzo soprannaturale », vol­ to alla difesa dell’autorità della Scrittura e della religione rivelata contro ogni forma di deismo e di religione naturale o razionale. Gli interessi del giovane Hegel sono rivolti in questo periodo innanzi tutto ai problemi della filosofia della storia e del rinnova­ mento culturale e politico dell’umanità, cosicché la stessa rifles­ sione sui problemi religiosi e l ’elaborazione del concetto di « reli­ gione popolare » acquistano questo più ampio significato, e non sono più limitate alla discussione puramente teorica di problemi teologici o religiosi in senso dogmatico e positivo. Gli autori, del p resto che più parlano a Hegel sono Rousseau ed Herder. Nel fram­ mento Sulla religione nazionale Hegel mette in luce le opposte uni­ lateralità delle religioni razionali e delle religioni positive, delle cosiddette religioni « soggettive » e « oggettive », al fine di instau­ rare l’armonia di ragione e sensibilità nell’uomo, considerato nella concreta condizione storica in cui opera; di qui l’esigenza di una « religione popolare » capace di realizzare quell’armonia e di « ren­ dere pratici i principi » (di parlare, cioè non solo all’intelletto ma anche al cuore) e avviare così l’uomo alla felicità. Di qui la contrap­ posizione della religione popolare, propria dell’Ellade antica, idea­ lizzata dal neo-classicismo, e la religione cristiana, ecclesiastica e dogmatica, e perciò teologica ed intellettuale. In questa alternativa si inserisce, nel successivo periodo ber­ nese, la riflessione sul concetto di religione « nei limiti della ra­ gione » e quindi lo studio approfondito di Kant: nella Vita di Gesù Hegel interpreta, in termini strettamente kantiani, la predi­ cazione di Cristo come una religione del dovere, per la quale la divinità non è altro che la pura ragione e la cui moralità è con­ trapposta all’esteriorità del culto e della legge dei Farisei e del­ l’ambiente giudaico: il regno dei cieli promesso da Gesù è così ricondotto al kantiano regno dei fini. Ma come è potuto accadere che la religione morale di Gesù si sia trasformata nella religione positiva, ecclesiastica e dogmatica del cristianesimo? A questo pro­ blema Hegel cerca di dare una risposta nella Positività della re­ ligione cristiana-, il legalismo dell’ambiente giudaico, la perdita dell’indipendenza politica del popolo ebraico spiegano il passaggio dalla fede morale alla fede nell’autorità.

La religione popolare

L’influenza di Kant nella meditazione dei problemi religiosi

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« positività i» ella religione

La funzione dell’amore ; il concetto « scissione »

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Il concetto di « positività » della religione, in questo scritto, è ancora sostanzialmente quello illuministico, nella cui polemica le religioni positive, cioè quelle storicamente esistenti, sono svalutate e contrapposte alla religione razionale; ma questo concetto di « po­ sitività » muta gradatamente in Hegel e da negativo diventa po­ sitivo nel periodo di Francoforte, in cui Hegel mette più larga­ mente a frutto la esperienza del criticismo, dell’idealismo e della cultura romantica. L ’esigenza di fondo del pensiero hegeliano di questo periodo, espressa nello scritto Sullo spirito e il destino del cristianesimo, è il tentativo di comprendere la vita spirituale del­ l’umanità come un « intero », come la « totalità » articolata di tutte le sue manifestazioni. La religione e la vita politica sono le espres­ sioni di questa totalità e il divino è, appunto, quelPintero che ol­ trepassa ogni opposizione. Di qui l’atteggiamento critico di Hegel di fronte ad ogni scissione tra l’individuo e la totalità cui appar­ tiene, sia essa lo stato o la chiesa (che quindi diventano istituti positivi), e quindi anche di fronte alle filosofie di Kant e di Fichte, che sanciscono un’opposizione permanente tra inclinazione e impe­ rativi, tra sensibilità e ragione, tra soggetto e oggetto. Il vincolo dell’amore è ciò che, secondo Hegel, tiene unite la totalità e le sue interne articolazioni, poiché « solo nell’amore il soggetto è uno con l’oggetto, non domina e non viene dominato » e nell’unione di soggetto e oggetto è il divino. Nasce così un nuovo concetto di religione, in opposizione, da un lato, ad una religione puramente soggettiva e individuale, che instaura una « scissione » tra il singolo e la collettività, tra la disposizione personale alla fede e il contenuto oggettivo di essa; e, dall’altro, ad una religione astrat­ tamente oggettiva e universale, fissata in dogmi e in comandamenti rigidi e immutabili. La religione a cui Hegel pensa è invece quella che non subisce questa scissione e questa contrapposizione e vive nell’armonico accordo del singolo e della collettività, della fede e dei suoi contenuti. Simbolo dell’armonico accordo è, per Hegel, in questo periodo, la religione del popolo greco, in cui po­ litica, filosofia e arte concorrono a creare un perfetto equilibrio, mentre la religione del popolo ebraico è il simbolo del dissidio e della scissione tra il popolo e il suo Dio, tra la fede e una legge esterna e trascendente; non solo, ma il popolo ebraico si scinde,

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in conseguenza di ciò, anche dagli altri popoli e perfino in se stes­ so; come è provato dalla diaspora. E quella pacificazione tra il sin­ golo e la collettività, che nella tragedia greca è simboleggiata dall’ac­ cettazione del destino, non è possibile nella religione ebraica, in cui il dissidio si conclude con la morte del peccatore ad opera della giustizia primitiva di Dio che non consente mediazione e riscatto. Analogamente, nello scritto Sui recenti rapporti interni del Wurttemberg Hegel esprime l’esigenza che il mondo interiore si traduca in un’« universalità dotata di forza », cioè un ordine giuridico che sappia conciliare l’individualismo soggettivo con l’oggettività della comunità. Il senso generale di questa prima fase della filosofia hegeliana si trova espresso con chiarezza nel Frammento di sistema-, il pro­ blema sta nel trovare la conciliazione tra finito e infinito, nell’« innalzamento dell’uomo da vita finita a vita infinita ». Questo problema può trovare soluzione solo nella religione, come sentimento dell’unità dell’umano e del divino: se finito e infinito sono considerati, infatti, come termini scissi e senza relazione, l’unificazione è impos­ sibile; tuttavia in quanto il finito è esso stesso vita, porta in sé la possibilità di innalzarsi alla vita infinita, cioè di realizzare l’uni­ ficazione. La vita infinita, lo spirito, non può essere concepita però solo come unificazione, ma essa si presenta anche come opposizione, perché essa è la totalità e tutto deve comprendere in sé. Ma questo non è ancora sufficiente: « se dico che la vita è unione di opposi­ zione e relazione, questa unione può anche venire isolata e si può obbiettare che essa starebbe di contro alla non-unione; dovrei allora dire che la vita è unione dell’unione e della non-unione ». In al­ tri termini, porre qualcosa significa sempre porre quella cosa e non altra e quindi isolarla e relativizzarla; non può quindi essere in­ tesa in questo modo la posizione dell’assoluto, che, in quanto tale, è la totalità onnicomprensiva, che non può avere nulla fuori di sé: l’assoluto non è il finito e neppure l’infinito, isolati l’uno dall’altro, ma la loro unione; ma questa unione deve essere concepita come tale che includa anche la loro opposizione oltre che la loro unità. Hegel, per influsso di Schleiermacher, identifica dunque nella religione, come si è detto, l’unica soluzione al problema dell’asso­ luto nel senso ora visto. Negli scritti del periodo di Jena ( 1800-1806), però, non più la religione ma la ragione e la filosofia sono

Il superamento della scissione

Il passaggio dalla religione alla filosofia

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Hegel e Kant

Hegel e Fichte

Hegel

e Schelling

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da Hegel concepite come capaci di raggiungere l’assoluto. Questo mu­ tamento si spiega con un approfondimento della dottrina di Kant e di Fichte, che è documentato dalla Differenza dei sistemi filoso­ fici di Fichte e di Schelling. Kant ha distinto intelletto e ragione ed ha fatto del primo l’organo della conoscenza scientifica, mentre alla seconda viene negata la capacità di risolvere le antinomie e di superare i limiti della conoscenza trascendentale. Ma l’intelletto, osserva Hegel, separa il fenomeno dal noumeno, la conoscenza dalla realtà, fissa e isola i singoli aspetti e momenti del pensiero e dell’essere, e così facendo li cristallizza nella loro particolarità e rende impossibile una reale unificazione della loro molteplicità. Questa unificazione, però, è necessaria, perché la vita non si lascia imprigionare nella particolarità ma tende a superarla; e in ciò si manifesta l’attività della ragione, che vuole conseguire l’assoluto. La ragione non si pone contro l’opposizione e la limitazione: « infatti il necessario sdoppiamento è un fattore della vita, che si forma opponendosi eternamente; e la totalità, nella vitalità più alta, è possibile solo con l’unificazione della divisione più alta. Quello che la ragione nega è solo l’assoluto irrigidirsi dello sdoppiamento mediante lo intelletto ». Anche nei confronti della filosofia di Fichte, in conseguenza, Hegel prende un atteggiamento critico: l’interesse proprio della ragione è di superare tutte le opposizioni, anche quella di Io e non-Io: se l’assoluto è l’Io e non l’unità di Io e non-Io, il non-Io diventa qualcosa di astratto e di inspiegabile, un mero ostacolo da superare; e questo superamento è una meta mai raggiunta e che si sposta all’infinito, rendendo permanente la scissione: se in­ fatti si pretende di sopprimere la scissione annullando uno degli opposti ed elevando l’altro all’infinito, non si ottiene lo scopo, perché l’opposizione resta, nel senso che ciò che è posto come l’as­ soluto (l’infinito) è condizionato dal finito e se l’uno sussiste an­ che l’altro sussiste: « per sopprimere l’opposizione, la scissione, bisogna sopprimere i due opposti, sia il soggetto che l’oggetto; ed essi sono soppressi come soggetto ed oggetto nella misura in cui sono posti come identici ». Con ciò Hegel sembra porsi dal punto di vista della filosofia schellinghiana dell’Identità; tuttavia egli si oppone risolutamente

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non solo alle scissioni dell’intelletto, ma anche alle unificazioni im­ mediate dell’intuizione di tipo romantico: l’unificazione implica la mediazione e la sintesi implica l’opposizione. In questo senso la filosofia, in quanto totalità del sapere prodotto dalla riflessione e non in quanto dottrina particolare, diventa un « sistema », un tutto organico di concetti, « la cui legge suprema è non l’intelletto ma la ragione ». Emerge da questa impostazione tutta una serie di motivi de­ stinati a caratterizzare la riflessione ulteriore di Hegel. Innanzi tutto il carattere dialettico del pensare: la molteplicità, la particola­ rità e le opposizioni, che sono proprie dell’intelletto, devono essere nello stesso tempo negate e conservate dalla ragione; la posizione (tesi), la negazione (antitesi) e la negazione della negazione (sin­ tesi) sono i tre momenti di uno sviluppo che riguarda il pensiero non meno della realtà; Platone (il Platone dei dialoghi dialettici) ha mostrato che la dialettica è una scienza e non un gioco sofi­ stico e arbitrario, mentre Kant ha mostrato che essa è un’opera­ zione necessaria della ragione; Hegel, illustrandone la struttura, sottolinea l’aspetto oggettivo e concreto della dialettica e della ra­ gione. In questo senso la logica è nello stesso tempo una meta­ fisica; e poiché il momento dell’astratta posizione e dell’astratta negazione è quello dell’intelletto, questo non è semplicemente un opposto della ragione, cioè qualcosa che le sia esterno ed etero­ geneo, ma anche un momento intrinseco e necessario della ragione stessa: la logica tradizionale, quella aristotelica, è con ciò, in quan­ to logica astratta e classificatoria, abbassata a logica dell’intelletto e nello stesso tempo ricompresa nella logica dialettica che è pro­ pria della ragione: il momento della negazione ha infatti questo di caratteristico, che in esso il finito nega bensì l’infinito (in quan­ to lo limita) ma, in quanto l’infinito è presente nel finito, che non può esaurirlo, il finito stesso si rivela come contraddittorio, e questa contraddittorietà è la ragione di quell’« irrequietezza » che pone l’esigenza di un « superamento » del finito stesso. D ’altra parte, come logica, lo spirito è ancora soltanto « idea », che per realiz­ zarsi compiutamente deve negarsi e alienarsi come natura e quindi ritornare in sé come spirito: idea, natura e spirito sono i tre mo­ menti del processo dialettico, che Hegel individua già chiaramente nei corsi universitari di Jena e che costituiscono la prima formula5-

G ia n n a n t o n i,

III.

La nascita del sistema nelle lezioni di Jena

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zione del suo sistema; ma che noi esamineremo nelle più mature espressioni delle opere maggiori. Qui mette conto rilevare che Hegel, negli scritti pubblicati nella rivista di Schelling, mostri come il concetto di ragione, nel senso che abbiamo visto, permette di risolvere l’antinomia di « conoscenza » e « fede »: l’intelletto dell’Illuminismo ha bensì vinto la fede ma, come già accadde a Roma, Graecia capta feruta victorera vicit\ e se la fede è tornata a pre­ valere in Kant e in Fichte, ciò fu dovuto al fatto che né la reli­ gione positiva, contro cui combattè la ragione illuministica, era pro­ priamente religione, né quella che vinse era propriamente ragione. Nello stesso tempo, Hegel polemizza nei confronti sia dell’empi­ rismo sia dell’ideale kantiano e fichtiano in ordine ai problemi eti­ ci e politici. Gli istituti empirici non hanno valore assoluto, e il dovere è un’astrazione, nella misura in cui è concepito come un « dover essere » che, proprio in quanto tale, non « è » mai com­ piutamente: « l’assoluta totalità morale non è altro che un popo­ lo ». Anche questo è un tema che vedremo ampliamente svilup­ pato da Hegel nelle opere posteriori.

3 - La fenomenologia dello Spirito. Nelle intenzioni originarie di Hegel la Fenomenologia doveva Intento e struttura essere una introduzione alla logica, cioè la descrizione delle estrin­ della

fenomenologia secazioni o manifestazioni della coscienza nel suo progressivo svi­

luppo dal suo grado più basso (la conoscenza sensibile) a quello più alto (il sapere filosofico) da cui prende avvio la logica. Ma lo svolgimento di questo compito si è rivelato talmente complesso, che la sua realizzazione si è trasformata in un’opera a sé stante, in cui si intrecciano sostanzialmente due piani diversi, imo che po­ tremmo definire piuttosto storico-concettuale, nel senso che tende ad identificare i momenti della coscienza con « figure » storiche o, viceversa, determinate figure storiche con i momenti dello svilup­ po della coscienza; e uno piuttosto concettuale-sistematico, che ten­ de ad identificare la fenomenologia con una determinata sezione della filosofia dello spirito. Questo secondo aspetto sarà definitiva­ mente assunto nell 'Enciclopedia, in cui, come vedremo, la « feno­ menologia » non è più l’introduzione alla logica, l’elevazione della

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coscienza individuale all’universalità del sapere, ma un insieme di categorie assolute che descrivono un momento dello « spirito sog­ gettivo ». « Il singolo, scrive Hegel, deve ripercorrere i gradi di forma­ zione dello spirito universale, anche secondo il contenuto, ma come ” figure ” dallo spirito già deposte, come gradi di una via già trac­ ciata e spianata ». E il primo grado di questa via è quello della co­ noscenza sensibile, che appare all’inizio come la più ricca e la più certa e che alla fine si rivela invece come la più povera: essa è co­ noscenza del particolare sensibile, senza che la coscienza si distin­ gua dal suo oggetto (senza cioè che vi sia una « riflessione » della coscienza su se stessa e sul suo oggetto). Nella conoscenza sensi­ bile ciò che appare è « questo » oggetto « qui » ed « ora », ma il « questo », il « qui » e l’« ora », che dovrebbero indicare la par­ ticolarità dell’oggetto, si rivelano come determinazioni astratte e ge­ nerali dello spazio e del tempo. La coscienza si innalza così ad un livello superiore, quello della « percezione », in cui l’oggetto ap­ pare come « uno » (per esempio una mela) e nello stesso tempo come « molteplice » (colore, sapore, forma, ecc.); onde se si consi­ dera reale la molteplicità, diventa soggettiva l’unità, e viceversa. Di qui l’impossibilità per la semplice percezione, di unificare il modo in cui le cose sono « per sé » e il modo in cui le cose sono « per l’altro » (cioè per la coscienza) e quindi la necessità, per la coscienza, di innalzarsi ad un livello più alto, quello dell’« intel­ letto », che nel molteplice vede la manifestazione, il « fenomeno », di una forza intrinseca, il « noumeno ». Conoscenza sensibile, percezione e intelletto costituiscono i tre momenti della coscienza: ma il suo stesso punto di arrivo (la di­ stinzione di un’esteriorità e di un’interiorità delle cose) spinge lo spirito ad un ulteriore grado, ad un atto che, distinguendo la co­ scienza dal molteplice delle cose in cui era finora immersa, la porta a riflettere su se stessa, a diventare, cioè, « autocoscienza »: l’au­ tocoscienza è così il riconoscimento, da parte della coscienza, di sé nell’altro e dell’altro in se stessa. L ’uomo si trova in presenza di altri uomini e la prima forma che prende questo rapporto è quella della lotta e del contrasto, in cui il vincitore dapprima uc­ cide il suo avversario, ma poi lo tiene in vita per servirsi del suo lavoro e sfruttarlo. Il rapporto signoria e servitù (tipica del mondo

La coscienz! dalla conoscenza sensibile all’intelletto

L’auto­ coscienza : la dialettica « servopadrone »

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itilo stoicismo la « coscienza infelice »

La ragione

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antico) dà così luogo alla figura del « servo-padrone »: il padrone afferma se stesso sfruttando il lavoro del servo, mentre il servo vive non « per sé » ma « per l’altro »; tuttavia il servo, lavorando, ac­ quista coscienza di sé e del proprio valore mentre il padrone, di­ pendente dal lavoro del servo, perde sempre più la sua autono­ mia: il servo diventa padrone del suo padrone e il padrone servo del suo servo. Lo sbocco di questa dialettica è la libertà che nel mondo antico si incarna nella figura dello stoicismo. Ma la libertà dello stoicismo è una libertà astratta, perché la natura, cioè la necessità, non è da essa negata ma solo disprezzata. Ecco quindi l’ulteriore figura, quella dello scetticismo, che nega bensì la natura e la riporta nella soggettività della coscienza, ma poi ricade nella contraddizione, perché nello scetticismo ognuno nega quel che l’altro afferma e viceversa. Questa contraddizione è il preludio dell’ultima figura dell’au­ tocoscienza, quella della « coscienza infelice », che si esprime nella religiosità medievale: essa segnala una scissione tra una coscienza mutevole (quella umana) e una coscienza immutabile (quella di­ vina). Dio e uomo, mondo e soprammondo appaiono così realtà contrapposte e la coscienza infelice, cioè la coscienza di questa contrapposizione, cerca di uscirne mediante l’« ascetismo ». Ma que­ sta via non redime la coscenza infelice, anzi riafferma la sua infe­ licità, perché la contrapposizione tra uomo e Dio non è componi­ bile (malgrado la stessa mediazione del Cristo) finché uomo e Dio sono considerate realtà diverse e la coscienza non si avvede che il dissidio, la scissione, è solo al suo interno. L ’autocoscienza deve innalzarsi perciò ad un gradino più alto, quello della « ragione », che compone il dissidio tra soggetto e og­ getto, tra uomo e mondo. « La ragione è certezza di essere ogni realtà » e con ciò è superata la scissione, l’eterogeneità di ragione e realtà. Ma perché la certezza della ragione diventi una verità è necessario che la ragione cerchi se stessa nelle cose: ecco perciò il primo momento, quello della ragione « osservativa », cioè della osservazione della natura, che è tipica delle figure del naturalismo rinascimentale e dell’empirismo. Questo primo momento si conclu­ de quando la ragione si ritrova nelle cose e da « osservativa » di­ venta « attiva »: e il primo momento della ragione attiva è il dis-

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sidio con la scienza. Come il Faust di Goethe, essa si sente delusa della scienza e vuole dedicarsi al godimento (faustismo o edonismo). Anche qui, però, la soggettività del godimento si scontra con l’oggettività e necessità della realtà e la ragione cerca di conciliare il contrasto con un’esigenza d’armonia e di unificazione (la legge del cuore, il sentimentalismo russoiano e romantico). Tuttavia, poi­ ché questa armonia e unificazione è sempre rimessa in discussione dalla sua esperienza della vita e della realtà, la ragione vive il suo terzo e conclusivo momento, quello del rigorismo della virtù, che vuol vincere o distruggere il mondo, purché trionfi la sua giustizia. Questa pretesa di ricondurre il reale all’ideale, l’essere al do­ ver essere è però, anch’essa, astratta: è solo soggettiva « moralità » e non oggettiva « eticità », in cui si realizza la reale conciliazione di individuale e universale, di essere e di dover essere: il sentirsi dell’uomo nel mondo come a casa propria. Con ciò la ragione si solleva allo « spirito », in cui si riproducono bensì le scissioni che richiamano quella della coscienza infelice (la riduzione dell’in­ dividuo a « persona », cioè — nel senso etimologico — a « maschera gitiridica »; il contrasto tra cultura e fede, ecc.), ma ad un livello più alto e destinato a trovare nella religione e nel sapere assoluto la loro totale conciliazione. Nell 'Enciclopedia e nella Filosofia del diritto noi troveremo la compiuta elaborazione di queste idee. Qui è più opportuno ricor­ dare che nella prefazione, che Hegel premise all’opera dopo averla composta, è con chiarezza espresso il suo distacco dalla filosofia di Schelling: l’Assoluto è infatti criticato perché, come assoluta indifferenza, è incapace di spiegare il prodursi delle differenze: esso è come la notte in cui tutte le vacche sono nere. Per Hegel, invece, la verità esiste solo come il sistema scientifico di essa: non quindi nell’intuizione e neppure nel sentimento, ma nella ra­ gione speculativa, nell’organizzazione sistematica dei suoi concetti, consiste la filosofia: « la verità è il tutto. Ma il tutto è solo l’es­ senza che viene a compimento mediante il suo sviluppo. Dell’asso­ luto si può dire che è essenzialmente risultato; che esso è alla fine quel che in verità è ».

Lo spirito

Le critiche di Hegel a Schelling

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tiomenologia e logica

La logica ime scienza l’Idea pura

.e posizioni el pensiero ico rispetto oggettività

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4 - L a logica. La Fenomenologia ha mostrato il modo in cui la coscienza si innalza, per un interno processo dialettico, dalla conoscenza sen­ sibile al sapere assoluto. Ma la coscienza, a rigore, non è neppure essa un « principio », bensì il risultato di un processo; la scienza, perciò, ha bisogno di un « cominciamento » diverso, che può essere trovato solo nelle prime e più astratte determinazioni del pensiero, cioè nelle categorie più generali della logica. Allo sviluppo di questa scienza Hegel ha dedicato, oltre le trat­ tazioni dei corsi di Jena e della Propedeutica filosofica, due tratta­ zioni fondamentali, quella della grande Logica e quella, più rias­ suntiva, della prima sezione dell’Enciclopedia. Già Kant aveva osservato che la logica, come scienza del pen­ siero puro, considerato indipendentemente dal suo uso, non aveva fatto sostanziali progressi dopo la forma che, per primo, Aristo­ tele le aveva dato. Ciò però non significa, osserva Hegel, che essa sia nata già perfetta e non suscettibile di rielaborazione; significa, al contrario, che in essa non s’è ancora fatto sentire « lo spirito nuovo che è sorto per la scienza non meno che per la realtà », e che quindi è assolutamente necessario colmare urgentemente que­ sta lacuna, elaborando e sviluppando un nuovo concetto della lo­ gica, adeguato ad esprimere i suoi nuovi contenuti. La logica è, per Hegel, « la scienza dell’idea pura, cioè del­ l’idea nell’elemento astratto del pensiero ». Essa si presenta come un sistema della ragion pura, come un regno del puro pensiero: « questo regno è la verità come essa è in sé e per sé senza velo. E il suo contenuto è l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza, prima della creazione della natura e di uno spirito finito ». Al di fuori delle analogie religiose e delle suggestioni cronologiche, l’« idea », che è oggetto della logica, è il primo momento dello sviluppo ideale che ha, come vedremo, i suoi ulteriori momenti nella « natura » e nello « spirito »; in questo senso, l’idea è il si­ stema delle categorie o determinazioni più astratte del pensiero, anzi è il pensiero stesso, nello sviluppo delle sue articolazioni, con­ cepito come tale che « è in sé e per sé ». A chiarire questo concetto della logica può essere utile ri­ chiamare quanto Hegel stesso dice nell 'Enciclopedia per differen­ ziarlo dagli altri modi con cui storicamente è stata concepita la lo-

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gica e che egli definisce come « posizioni del pensiero logico di fronte all’oggettività ». La prima posizione è quella del pensiero ingenuo, che ritiene che da una parte vi sia il pensiero e dall’altra le cose e che il pensiero, mediante la riflessione, possa conoscere le cose come realmente sono; la seconda posizione è quella dell’em­ pirismo, per il quale la rappresentazione viene considerata come fondamento e misura dell’oggettività, come unità del molteplice fenomenico. Anche per l’empirismo però la realtà vera delle cose resta qualcosa di misterioso e quindi di estraneo al pensiero, come si può constatare nella filosofia kantiana, che distingue il fenomeno dal noumeno e, ritenendo quest’ultimo inconoscibile, riduce la dia­ lettica della ragione a mera logica dell’apparenza. Affermare inol­ tre che, prima di conoscere le cose, è necessario conoscere i limiti della ragione è un assurdo, simile a quello in cui cadrebbe chi vo­ lesse imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua: i limiti dell’uso della ragione si conoscono solo usando la ragione e cioè conoscendo. E a questo proposito Hegel rivendica, contro Kant, la validità filosofica dell’argomento ontologico: « infatti ogni fi­ nito consiste in ciò, e solo in ciò, che l’esistenza di esso è diversa dal suo concetto. Ma Dio deve espressamente essere ciò che può essere pensato solo come esistente, in cui il concetto involge l’esistenza ». La terza ed ultima posizione è quella della filosofia della fede, a cui Hegel riconosce il merito di aver posto l’esigenza di « sal­ tare » dal pensiero all’essere, dal soggetto all’oggetto; ma in quanto questo salto è poggiato sul sentimento e sulla fede e non sulla ra­ gione è destinato a fallire: il « salto mortale » di cui parlava Jacobi (cfr. supra, p. 11) è, osserva Hegel, mortale solo per la fi­ losofia. Rispetto a queste posizioni, quella hegeliana si presenta come una scienza delle determinazioni del pensiero concreto, cioè di quel pensiero che non è astrattamente separato dalle cose e che quindi non presuppone la realtà di fronte a sé come un dato eterogeneo e perciò inspiegabile. Certo, le cose non sono comprese entro le strutture della logica in quanto realtà empiriche e accidentali, ma nella loro essenzialità, nel loro concetto; solo così è possibile attua­ re l’unità di forma e contenuto, di verità e certezza. Per questo, Hegel, di fronte alla logica dell’intelletto astratto, per il quale la

La logica di H eg el: identità di logica e metafisica

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I principi Iella logica ll’intelletto i principi Iella logica Ila ragione

dialettica

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realtà dell’oggetto è perfettamente compiuta in sé e può fare a meno del pensiero mentre il pensiero è vuota forma e quindi ha | bisogno di un contenuto che gli venga dall’esterno, rivaluta in un certo senso la « vecchia metafìsica » fondata sull’idea che ciò che si conosce delle cose e nelle cose per mezzo del pensiero è il solo « vero » che le cose racchiudono: « il vero, dunque, per quella metafisica non erano le cose nella loro immediatezza, ma le cose elevate nella forma del pensiero, le cose pensate. Quella metafisica riteneva, perciò, che il pensiero e le determinazioni del pensiero non fossero un che di estraneo alle cose; ma fossero la loro essen­ za ». In questo senso la logica di Hegel è scienza dell’unità del pensiero nella sua realtà e della realtà nella sua essenza razionale: il dualismo di pensiero ed essere, di razionalità e realtà è così su­ perato e logica e metafisica si identificano completamente. Abbiamo detto che Pinteiletto procede isolando i suoi oggetti e astraendoli da quella « totalità » di cui essi sono « parti »: in ciò consiste propriamente il « definire », cioè il tracciare i « con­ fini » che separano una cosa da tutte le altre per considerarla in sé, in ciò che essa propriamente è in se stessa, nella sua identità. Di qui l’importanza che nella logica dell’intelletto hanno i prin­ cipi di identità e di non contraddizione, asserenti appunto che ogni cosa è identica a se stessa (A = A) e non è tutte le altre (A non è non-A). A questa logica dell’intelletto, che nell’« universale astrat­ to », nell’universale separato dall’individuale, trova il suo punto di arrivo, Hegel contrappone la sua logica della ragione e dell’« uni­ versale concreto », che non isola le parti, ma cerca di compren­ derle nella loro totalità, che non si ferma alla considerazione del­ l’astratta identità e non contraddizione; se è vero che l’intelletto nel­ l’atto stesso che afferma l’identità di una cosa con se stessa afferma anche la differenza di essa dalle altre e nell’atto stesso che sancisce il principio di non contraddizione irrigidisce anche l’opposizione delle cose, la ragione va oltre e coglie l’unità e l’identità degli opposti, di finito e infinito; e in ciò consiste la struttura dialettica di un processo che è logico non meno che reale. Il primo momento del processo dialettico è la « tesi », la po­ sizione o affermazione di qualcosa, ed è il momento che Hegel chiama « astratto o intellettuale ». Il secondo momento è l’« anti­ tesi », la negazione di ciò che nel momento precedente era affer-

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mato; questa negazione però non è una contrapposizione statica del positivo e del negativo (quale è quella istituita dall’intelletto) ma dinamica; essa è, come dice Hegel, una « mediazione » perché la negazione della tesi è, nello stesso tempo, l’affermazione di una parte che vuole porsi come totalità: per questo Hegel chiama il se­ condo momento « dialettico » o « negativo-razionale ». Il terzo mo­ mento è quello della « sintesi », dell’unità di tesi e antitesi che si attua attraverso la riaffermazione della tesi mediante la negazione della antitesi (negazione della negazione): ma questa riaffermazione non è una semplice ripetizione, perché è arricchita dalla sua nega­ zione, non esclude ma comprende in sé l’opposizione; questo mo­ mento è da Hegel chiamato « speculativo » o « positivo-razionale ». Questa struttura dialettica mostra perciò l’impossibilità della ragione di fermarsi alle determinazioni finite, isolate dalla totalità di cui sono parti, e quindi la necessità di superarne la finitezza in determinazioni sempre più complesse ed organiche, fino al com­ piuto sistema delle loro relazioni: la dialettica di Fichte era un « processo all’infinito », una « cattiva infinità », perché il ritmo di tesi, antitesi e sintesi era proprio di imo sviluppo destinato a non raggiungere mai la sua meta. Per Hegel, invece, l’infinito non sta fuori del finito, l’universale non è astratto dal particolare, anche se nessuna realtà finita e particolare può esaurire da sola e in se stessa l’infinito e l’universale. Ciò significa che la meta del pro­ cesso è la totalità delle determinazioni particolari, prese però non nella loro particolàrftà e singolarità, ma nel sistema delle loro relazioni reciproche: si tratta, insomma, di una « circolarità », di un ritor­ nare al principio, arricchito da tutte le acquisizioni del processo com­ piuto. Ed è appunto questa totalità, questo sistema delle relazioni La deduzion delle che Hegel vuol mettere in luce nella deduzione delle categorie della prime catego logica, partendo da quelle più astratte e più povere di contenuto, della logica per mostrare come proprio dall’esame della struttura intrinseca di ciascuna di esse sia posta l’esigenza di un superamento della loro finitezza e quindi di ima più alta posizione di pensiero. Ma qual è la categoria più astratta e più povera di contenuto? Come deter­ minare l’inizio della deduzione delle categorie? Il cominciare, dice Hegel, non è il puro nulla, « ma un nulla da cui deve uscire qualcosa; dunque anche nel cominciamento è già contenuto l’es-

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La logica dell’essere

La logica d ell’ esse n z a

La logica el concetto

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sere; il cominciamento contiene dunque l’uno e l’altro, l’essere e il nulla, è anzi l’unità di essere e nulla ». L ’« essere » è cosi la prima categoria della logica: con ciò non si intende un determinato essere, bensì l’essere assolutamente privo di qualsiasi determina­ zione. Ma l’essere così inteso si converte nel suo opposto, nel non­ essere o puro nulla, e la loro sintesi è il « divenire », che è ap­ punto il passaggio dal non-essere all’essere o dall’essere al non-essere. Con la dialettica dell’essere, non-essere e divenire, tutto il pro­ cesso di deduzione delle categorie della logica è messo in movi­ mento. Il divenire si presenta infatti come un processo, nel quale ogni momento è superato dal successivo e si trasforma perciò in un « divenuto ». Come tale, esso acquista una « qualità », una carat­ teristica sua propria, che lo determina: il risultato, cioè, è un « essere determinato » o, come dice Hegel, un « esserci ». Essere, non-essere e divenire costituiscono pertanto la categoria della qua­ lità », ma l’essere determinato che costituisce il loro risultato, es­ sendo posto come un essere determinato, che si collega accanto ad altri esseri determinati, implica la categoria della « quantità ». La qualità determina l’essere interiormente, la quantità lo deter­ mina esteriormente: il rapporto qualità-quantità costituisce la « mi­ sura », che è la terza ed ultima categoria della logica dell’essere. Le misure, però, sono variabili e questo stesso loro variare pone l’esigenza di ricercare la « ragion d’essere » che sottostà alla variazione, l’« essenza » che costituisce il fondamento delle relazio­ ni tra qualità e quantità: dall’essere immediato si passa così ad una riflessione dell’essere su se stesso. Alla logica dell’essere segue così la « logica dell’essenza », nei suoi tre momenti della « riflessione », che separa l’essenza dall’essere, del « fenomeno », che riduce a semplice apparenza l’essere scisso dall’essenza e della « realtà in atto », che esprime l’unità dell’essenza con le sue manifestazioni fenomeniche, l’unità di essenza e di esistenza. Quest’ultimo mo­ mento è, a sua volta, organizzato secondo le categorie kantiane della relazione: sostanza, causa e azione reciproca. È a questo punto che l’essere, arricchito di tutte le sue deter­ minazioni e quindi diventato realtà in atto, si rivela come « con­ cetto », cioè come lo « spirito vivente della realtà ». La « logica del concetto », che corona l’edifìcio della logica hegeliana, si articola an-

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ch’essa in tre momenti: la soggettività (che è il campo della vecchia lo­ gica formale, del pensiero considerato indipendentemente dal suo contenuto e che si suddivide nel concetto logico, nel giudizio e nel sillogismo), l’oggettività (cioè i principi dell’interpretazione concet­ tuale della natura secondo le categorie del meccanicismo, del chi­ mismo e del finalismo) e infine l’« Idea », come sintesi di sogget­ tività e oggettività, meta ultima del processo. Conoscenza e vo­ lontà sono i due momenti finiti (perché entrambi determinati dal­ l’oggetto da conoscere o da modificare) della ragione che nell’« Idea assoluta » trovano la loro sintesi finale: e l’Idea assoluta è il sistema stesso della logica hegeliana nella totalità e articolazione delle sue categorie. 5 - D all’Idea allo Spirito oggettivo. Il primo momento dello sviluppo dello Spirito è, come ab­ Idea, Natur e Spirito biamo visto, la Idea in sé e per sé, oggetto della logica. Il se­ condo momento, secondo lo schema della dialettica già considerato, è la negazione di questo essere in sé e per sé dell’Idea, e quindi l’Idea nel suo alienarsi da sé, nella « forma dell’essere altro »: cioè l’Idea come Natura. Il terzo momento, infine, è il supera­ mento dell’alienazione, il ritornare in sé dell’Idea: cioè l’Idea come Spirito. Si tratta, come ormai sappiamo, non di tre momenti cronologici, ma di tre momenti logici: Idea, Natura e Spirito ri­ petono il ritmo di tesi, antitesi e sintesi, e la realtà e la verità stanno solo nell’ultimo momento, appunto come sintesi della tota­ lità del processo che l’ha prodotto: il momento della sintesi (e quindi lo Spirito) è reale e vero in quanto processo che attua l’unificazione di una opposizione che vive in esso. Senza l’opposi­ zione, la sintesi non è né reale né razionale, così come gli opposti, da cui essa risulta (e quindi l’Idea e la Natura), presi nella loro astratta contrapposizione, fuori della sintesi, non sono né reali né veri. 'La Natura è, dunque, l’Idea nella forma dell’essere altro, l’I­ La Natura dea che si è negata (onde giustamente gli antichi parlavano della materia come non-essere) e che si è fatta « esterna » a se stessa: l’esteriorità è la determinazione nella quale l’Idea è come Natura. Ciò spiega come possa apparire reale alla conoscenza sensibile e

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Filosofia ìlla natura e scienza ;lla natura

I gradi Ila Natura

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come, invece, per la filosofia essa si presenti quale « contraddi­ zione insoluta »: infatti la Natura, considerata in sé, nella sua idea, è divina, ma nel suo proprio essere non corrisponde al suo concetto. Di qui il fastidio che Hegel non manca di manifestare per quella sensibilità superficiale e arbitraria che fa della Natura l’oggetto di un’alta ammirazione e di un fervido entusiasmo: la Natura è una caduta dell’Idea e, in se stessa, non rivela libertà alcuna, ma solo necessità e accidentalità sfrenata e sregolata; e anche la forma più alta della Natura, la vita, è « in preda dell’irrazionalità dell’este­ riorità ». Per cui è un errore stimare i fatti spirituali meno delle cose naturali: « la natura non è da divinizzare né bisogna conside­ rare il sole, la luna, gli animali e le piante quali opere di Dio a preferenza dei fatti e delle cose umane ». Per ciò che concerne la scienza della natura Hegel osserva che la fisica sperimentale, fondata sull’esperienza sensibile, può for­ nire bensì il materiale grezzo alla considerazione concettuale, ma non può prendere il posto di questa: « se la fisica dovesse fondarsi sulle percezioni e le percezioni non fossero altro che i dati dei sensi, il procedimento della fisica consisterebbe nel vedere, ascol­ tare, fiutare, ecc. e anche gli animali in questo modo sarebbero dei fisici ». Alla considerazione concettuale, invece, la natura ap­ pare come un « sistema di gradi » che scaturiscono necessariamente l’uno dall’altro, ma non secondo un criterio evoluzionistico (che anzi Hegel esplicitamente esclude dalla filosofia), bensì secondo quello stesso procedimento dialettico con cui abbiamo visto dispie­ garsi il sistema delle categorie nella logica. La filosofia della natura è quindi la teoria dello sviluppo della Natura nei suoi tre momenti fondamentali, che sono la « mecca­ nica », la « fisica » e l’« organica »: spazio, tempo e materia sono le tre manifestazioni della natura come pura esteriorità e culminano nella gravitazione universale che, contraddicendo all’inerzia propria della materia, segna il passaggio dalla meccanica alla fisica, nella quale Hegel riprende la dottrina schellinghiana del magnetismo, dell’elettricità e del chimismo. Con quest’ultimo si apre la via allo stadio successivo, quello dell’organica, a sua volta scandito nei tre momenti del processo di organizzazione della vita: geologico, ve­ getale e animale. Anche nella vita animale (che è il momento in cui si attua il vero e proprio organismo vivente e in cui traspare

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quella finalità secondo il concetto, che fu già vista da Aristotele con la dottrina dell’« entelechia », e da Kant con la dottrina del « giudizio riflettente ») Hegel distingue tre momenti, quello della sensibilità, quello dell’irritabilità e quello della riproduzione; ma l’analisi della riproduzione mostra la contraddizione tra P« indivi­ duo » singolo destinato alla morte e la « specie » universale che, attraverso la riproduzione, è immortale; da questa contraddizione è possibile uscire solo superandola in un momento più alto: lo Spirito. La contraddizione in cui culmina la vita animale non è che la forma più alta della contraddizione della Natura in generale, in quanto non corrispondente al suo concetto: questa « impotenza del­ ia natura » pone dei limiti alla filosofia, nel senso che è del tutto arbitrario pretendere che il concetto comprenda (o addirittura de­ duca) l’accidentalità. Certo, è possibile rintracciare « tracce » del concetto fin nelle cose più particolari, ma il particolare non si esau­ risce in esse e resta sempre un margine di accidentalità. È quindi impossibile che il concetto proceda con fermezza nella sua opera e che siano trovate differenze rigorose di classi e di ordini per mezzo della considerazione empirica: « dovunque la natura me­ scola le linee divisorie essenziali con prodotti ibridi e cattivi ». Con l’uomo la natura raggiunge la sua espressione più alta e nell’uomo comincia il superamento e l’alienazione dell’Idea, il ri­ torno dell’Idea in sé. Siamo con ciò nel terzo e conclusivo mo­ mento, quello dello Spirito, che Hegel vede articolarsi in tre fasi di sempre più piena attuazione: quella dello « spirito soggettivo », dello « spirito oggettivo » e dello « spirito assoluto ». Lo « spirito soggettivo » (di cui possediamo solo la trattazione che è inclusa neli’Enciclopedia e che, in una sua sezione, riassume, come vedremo, i momenti della fenomenologia) nasce quando co­ mincia il superamento dell’uomo come essere semplicemente natu­ rale e nell’uomo si risveglia la coscienza. Anche all’interno dello spirito soggettivo possiamo distinguere tre momenti: il primo, og­ getto dell’« antropologia », è quello dell’uomo come anima natu­ rale, cioè come partecipe di una psichicità oscura e indifferenziata, quale è quella a cui l’uomo torna quando dalla coscienza della ve­ glia passa nel sonno e che ripete simbolicamente il passaggio natu­ rale dal giórno alla notte. Ciò chiarisce tutto quello che nell’uomo

Impossibilità di una rigoro filosofia della natura

Dalla Natura allo Spirito: lo Spirito soggettivo

L ’« antro­ pologia »

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è condizionato, anche sul piano psicologico, dai vari fattori natu­ rali (dal clima alle necessità organiche) e il formarsi delle abitu­ dini, che sono certamente una sorta di naturalità dell’anima (che in esse opera inconsapevolmente e senza riflettere) ma che, proprio per questo, consentono all’anima di non impegnarsi totalmente in esse e di rimanere libera per le attività più alte, servendosi di quanto la sensazione e la memoria hanno tesaurizzato nel fondo remoto della sua coscienza. La « feno­ Il secondo momento, oggetto della « fenomenologia », è quello menologia » della coscienza, cioè della distinzione di sé nell’altro, del soggetto e dell’oggetto e della loro unità. In questa sezione Hegel segue lo sviluppo della coscienza fino all’autocoscienza nei termini che abbiamo già visti nella Fenomenologia-, la loro trattazione molto più breve si spiega con il fatto che ora essa è concepita come una parte del sistema e non più come una introduzione generale ad esso. (psicologia)) : L ’ultimo momento dello spirito soggettivo, oggetto della « psi­ conoscenza cologia », è la sintesi dei due precedenti, dell’anima e della co­ e volontà scienza, portati su un piano più alto, quello del conoscere (inteso anche come espressione, cioè come linguaggio: ciò che non può essere espresso, dice Hegel, non è veramente pensato) e quello del volere. La conoscenza, nei suoi gradi dell’intuizione, della rappre­ sentazione e del pensiero, e la volontà, nei suoi gradi del senti­ mento pratico, degli impulsi e dell’aspirazione alla felicità, non sono due statiche « facoltà » dell’anima, ma due aspetti dello stesso comportamento: il conoscere è attività e la volontà è l’impulso del pensiero a darsi l’esistenza. La psicologia non deve quindi li­ mitarsi a considerare i fatti dell’anima nella loro empiricità, né deve cristallizzarne le operazioni in facoltà astratte e statiche, ma deve considerare i momenti dello spirito come gradi di una pro­ gressiva liberazione dall’opposizione. In questo senso Hegel può parlare della libertà come sintesi di conoscenza e volontà. La libertà Ma la libertà non si identifica con l’arbitrio. L ’arbitrio ha in­ fatti questo di caratteristico, che in esso l’io è indeterminato e in­ vece il contenuto è determinato (rispetto a questa determinata cosa io posso comportarmi in un modo o in un altro): « nel­ l’arbitrio è implicito che il contenuto non è determinato ad esser mio dalla mia volontà, ma dalla contingenza; io sono dunque di­ pendente da quel contenuto ed è questa la contraddizione che si

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dà nell’arbitrio ». Contro le tesi giusnaturalistiche, che vedevano nel passaggio dallo stato di natura alla società una perdita di li­ bertà e di diritto, Hegel obbietta che il supposto stato di natura è in realtà il regno della forza e della prepotenza individuale, di cui l’unica cosa che si può dire è che da esso si deve uscire al più presto. Nel sapere, nell’agire, nell’arte, ecc. l’arbitrio non è mai un valore e la libertà può quindi consistere solo nella negazione del proprio arbitrio, della propria singolarità, e nell’oggettivare se stesso nel mondo dei rapporti giuridici, morali e politici con gli altri uomini: dallo spirito soggettivo si passa allo spirito ogget­ tivo, in cui la libertà dell’uomo trova un terreno di attuazione sem­ pre più ampio e concreto. Alla trattazione dello « spirito oggettivo » Hegel ha dedicato, Lo « spirito oltre la rispettiva sezione dell’Enciclopedia, una delle sue opere oggettlvo * maggiori, La filosofia del diritto, in cui gli schemi dialettici sono vivificati da un contenuto straordinariamente ricco e profondo. Quando si studia, da un punto di vista filosofico, il mondo esterno, si ammette che esso debba essere compreso per come esso è, nell’intrinseca razionalità che in esso si concretizza e si manifesta; eguale atteggiamento andrà allora assunto nelle que­ stioni giuridiche, morali e politiche e si dovrà riconoscere come vera razionalità quella che si è realizzata come « forza e potenza nello stato ». Le dottrine illuministiche, democratiche e liberali, nella loro polemica contro l’assolutismo dello stato, dissolvono « nel­ la pappa del cuore, dell’amistà e dell’ispirazione » l’architettonica razionale e la ricca intelaiatura dell’« ethos in sé », cioè dello stato. Lo stato, quindi, come sintesi della famiglia e della società ci­ vile, è il momento culminante dello spirito oggettivo, quale si at­ tua attraverso il processo dialettico che dalla fase del « diritto » lo porta a quella della « moralità » e infine a quella dell’« eticità ». Abbiamo visto che la libertà costituisce il punto d’arrivo dello il diritto spirito soggettivo: orbene, « la volontà libera, dice Hegel, per non restare astratta, deve darsi innanzi tutto una esistenza e la prima materia sensibile di questa esistenza sono le cose, cioè gli oggetti esterni ». Nasce così la prima forma del diritto, cioè la proprietà: se l’uomo fosse solo non ci sarebbero limiti alla sua appropria­ zione delle cose, ma l’esistenza di altre persone, cioè di altri « sog­ getti di dirittdy», pone la necessità di limitare il diritto di ognuno.

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Il « contratto » riconosce questa limitazione e trasforma l’immedia­ to appropriarsi delle cose nella mediazione della proprietà giuri­ dica. Il carattere privato del contratto spiega l’errore del giusna­ turalismo, che sul contratto voleva fondare la dottrina dello stato, laddove questo appartiene ad un ordine oggettivo e pubblico più alto. La rottura del contratto è il delitto e al delitto, come rottura del rapporto giuridico, si contrappone la pena. Tuttavia la pena, considerata per sé, è una ritorsione e una vendetta che crea un nuovo torto e apre così un processo all’infinito, in cui lo spirito non può placarsi e perciò è spinto a porsi un piano più alto, quello della « moralità ». La moralità La sfera delle cose, come sfera degli oggetti del diritto, deli­ mita l’esistenza immediata delle persone: « questa semplice imme­ diatezza dell’esistenza non è però adeguata alla libertà, e la nega­ zione di essa è la sfera della moralità ». La moralità è così la sfera della libertà soggettiva, indipendente dalle cose: « in questa sfera opera il mio giudizio, la mia intenzione e il mio fine, perché l’este­ riorità è posta come indifferente ». La moralità è dunque il regno del proposito e dell’intenzione soggettiva nel suo innalzarsi ad un contenuto universale, cioè al concetto del bene. Da questo concetto del bene non è possibile prescindere, altrimenti si finisce per cadere nell’arbitrarietà e nel N soggettivismo del sentimento, delle ragioni del cuore, del culto va­ nitoso di sé; ma non è possibile neppure vedere, con Kant, nel dovere la meta della vita morale: il dovere è vuota formalità priva di ogni contenuto ed esprime un’esigenza che non trova mai compimento. Il « dover essere » si contrappone così all’« essere », l’intenzione alla realizzazione, la volontà al bene e si apre, nuo­ vamente, un processo all’infinito, da cui lo spirito deve uscire. L ’ e tic ità II bene, cioè il fine universale, « non deve restare semplicemente nel mio interno, ma deve anche realizzarsi. La volontà sog­ gettiva cioè esige che il suo interno, in fine, consegua esistenza esterna, e che quindi il bene debba essere compiuto nell’esistenza esteriore. La moralità e il momento precedente del diritto formale sono due astrazioni, la cui verità è solamente l’eticità ». L ’eticità è dunque il momento in cui finalmente soggettività e oggettività, individualità della volontà e universalità concreta del bene si uni­ ficano pienamente.

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La famiglia, come istituto fondato sulla naturalità del rapporto a) La famig sessuale e sulla spiritualità del sentimento (e quindi non riducibile ad un semplice « contratto », come per Kant), è la prima forma in cui si realizza una totalità etica e in cui l’individuo annulla la sua per­ sonalità in sé chiusa e si ritrova, con la sua coscienza in qualcosa di oggettivamente valido. Quando però i figli crescono e diventano adulti, l’unità della famiglia si rompe e si disperde: si formano nuove fami­ glie e si instaura una nuova forma di comunità di individui, la « so­ cietà civile ». La società civile è la forma che la società degli uomini prende b) La societi per tutti quegli aspetti che sono « prima » e « fuori » dei veri e CIV,le propri compiti e funzioni dello stato. Come tale essa è l’insieme delle famiglie, delle corporazioni, dei ceti, delle classi sociali ed economiche. Certo, Hegel ha innanzi agli occhi la società tedesca contemporanea, ancora così ricca di istituti e tradizioni feudali, non ancora investita nelle sue strutture dal processo di industrializza­ zione; onde la preponderanza riconosciuta alla classe degli agri­ coltori, che forma la base della società e al di sopra della quale si dispongono le corporazioni degli artigiani e dei commercianti e poi, via via, gli impiegati e i proprietari indipendenti, che costi­ tuiscono la vera e propria classe politica. Tuttavia Hegel ha for­ mulato, nella sua analisi, interpretazioni geniali e che si sono ri­ velate straordinariamente feconde. Egli ha visto con chiarezza, per esempio, l’importanza dell’economia politica, « una scienza che fa onore al pensiero, perché trova leggi stabili in una massa di con­ tingenze », la natura economica delle differenze delle classi sociali, l’alienazione che la divisione del lavoro produce nell’uomo (rico­ noscendo quindi in certo modo la genesi sociale ed economica del « proletariato », che ancora Kant considerava una plebaglia) e in­ fine il valore sociale del lavoro, che, producendo i mezzi adatti ad appagare i bisogni individuali, media l’egoismo dei bisogni in­ dividuali con il soddisfacimento dei bisogni di tutti gli altri, « co­ sicché, mentre ciascuno acquista, produce e gode per sé, appunto per ciò produce e acquista per il godimento degli altri ». Il principio rappresentativo, che è il fondamento essenziale dello stato liberale, è per Hegel qualcosa che vale solo nell’ambito della società civile: le rappresentanze delle varie corporazioni e classi hanno infatti solo una funzione di controllo, ma lo stato 6-

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non ha come sua base né il concetto di sovranità popolare né come suo istituto il regime parlamentare-rappresentativo, così come non appartiene istituzionalmente a lui ma alla società civile l’ammini­ strazione della giustizia, anche se è poi lo stato che l’adempie. c) L o s t a t o Il valore dello stato è superiore a quello della società civile: lo stato infatti « è lo spirito, nel quale ha luogo la prodigiosa unione dell’individuale e della sostanzialità universale. Il diritto dello stato è quindi più alto degli altri gradi: è la libertà nella sua concreta formazione, la quale cede soltanto alla suprema assoluta verità dello spirito universale (cioè la storia) ». In questo senso, lo stato è la « realtà etica », consapevole di sé, che si incarna in un popolo; di qui deriva l’opposizione di Hegel ad ogni concezione che neghi questo carattere dello stato, per ridurlo ad un gestore o a un gendarme. Il sentimento pro­ fondo dello stato come una totalità concreta porta Hegel a riesa­ minare la teoria della divisione dei poteri di Montesquieu: certo, i poteri debbono essere distinti (e Hegel parla di un potere legi­ slativo, governativo e monarchico), ma non devono perdere il senso della loro più profonda unità: « se invece le distinzioni esistono astrattamente per sé, è evidente che due autonomie non possono costituire un’unità, ma debbono continuamente produrre una lotta, per cui o la totalità è distrutta o l’unità si ristabilisce per mezzo della forza... ed è assurdo formulare la pretesa morale dell’armonia ». Qui si misura il distacco di Hegel dalle dottrine giusnatura­ listiche e illuministiche, dagli ideali cosmopolitici ed egualitari; nello stesso ambito rientra anche l’esaltazione, contro ogni mora­ lismo e utopia, della guerra, considerata come il mezzo capace di conservare la « salute etica », simile al vento che impedisce alle acque di stagnare e di corrompersi. Ma con la guerra entriamo nel campo delle relazioni tra gli stati, il cui teatro è la storia. La filosofia La storia, a cui sono dedicate le Lezioni sulla filosofia della iella storia storia, è certamente l’insieme delle vicende dei vari stati nel tem­ po, ma, attraverso queste vicende, si manifesta qualcosa di più alto e di più necessario, e cioè lo spirito universale, lo spirito del mon­ do, che di volta in volta si incarna nello spirito di singoli popoli e realizza così la sua piena e totale libertà: « i princìpi degli spi­ riti dei popoli, in una necessaria e graduale successione, non sono essi stessi che momenti dell’unico spirito universale, il quale,

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attraverso di essi, nella storia si innalza e conclude in una tota­ lità autocomprensiva ». Solo questo svolgimento è necessario e « sostanziale » e tutto ciò che da esso devia o si allontana è con­ tingente e « accidentale » e, come tale, è condannato dalla storia: « può anche accadere, certo, che così resti sacrificato il diritto del­ l’individuo: ma ciò non riguarda la storia del mondo, a cui gli individui servono solo come mezzo per il suo progresso ». Solo ciò che è razionale, dice Hegel, è reale e ciò che è reale è razio­ nale: i lamenti suH’irrealizzabilità dell’ideale, le vane immagina­ zioni, le vuote speranze sono destinati a passare senza lasciare traccia: « la storia del mondo è il giudizio del mondo ». La storia è il progresso della coscienza della libertà, nel senso che attraverso di essa lo spirito si fa libero. Hegel distingue tre grandi periodi nei quali questo progresso si attua: il mondo orien­ tale, in cui uno solo è libero; il mondo greco-romano, in cui po­ chi sono liberi; il mondo germanico, in cui tutti sono liberi. E gli uomini sono, ad un tempo, gli attori e gli strumenti di una tale trama: negli uomini ci sono la passione e la ragione, ma è la passione l’elemento attivo (nulla di grande, dice Hegel, è stato fatto sen­ za passione); accade però che dalle azioni degli uomini risulti qual­ cosa d’altro da ciò che si propongono, da ciò che immediatamente sanno e vogliono: è questa l’« astuzia della ragione », l’opera dello spirito che trasforma le azioni e i fini particolari in momenti della sua universalità. E ancora, al di sopra della comune umanità, ci sono le grandi personalità creatrici, gli « eroi cosmico-storici » (Alessandro, Cesare, Napoleone), ai quali soltanto è concesso di cam­ biare il mondo in cui vivono e di preparare il futuro: essi vedono ciò che è necessario e lo realizzano, anche se la loro persona pe­ risce. Come gli individui, anche lo spirito particolare dei popoli « sog­ giace alla transitorietà », nasce, fiorisce e muore, quando « cessa di essere il portatore del concetto supremo che lo spirito ha con­ quistato di sé. Il popolo del momento, il dominatore, è infatti di volta in volta quello che ha concepito il più alto concetto dello spirito. Può avvenire che popoli portatori di concetti non così alti continuino ad esistere. Nella storia del mondo vengono messi in disparte ». Nel popolo tedesco, a partire dalla Riforma, Hegel vede il « dominatore » della sua età.

Lo sviluppo storico e l’« astuzia » della ragione

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6 - Lo Spirito assoluto. Anche gli stati sono però qualcosa di particolare, di finito e di transeunte e nessuno di essi può esaurire l’infinità dello spi­ rito. Perciò il processo del ritorno in sé dell’Idea, la realizzazione della sua piena autocoscienza, si attua completamente solo quando lo spirito da oggettivo diventa « assoluto », quando cioè risolve in sé ogni realtà finita e manifesta così la sua totale libertà. Tre sono i momenti in cui si articola questo processo, e cioè l’arte, la religione e la filosofia, di cui Hegel ci ha dato approfondite trat­ tazioni nelle sue lezioni berlinesi. Arte, religione e filosofia sono momenti della eterna dialettica intrinseca dello spirito assoluto e non epoche della storia; tuttavia Hegel, nel tentativo costante di ritrovare nello stesso corso storico le successive tappe in cui 10 spirito si manifesta, parla del mondo classico come il mondo dell’arte, di quello cristiano-medievale come il mondo della reli­ gione, di quello moderno come il mondo della filosofia. L ’arte L ’arte è dunque un momento della manifestazione dell’assoluto ed essa lo esprime servendosi di immagini e di elementi naturali; 11 bello è l’apparenza sensibile dell’Idea, è l’Idea oggettiva in una forma sensibile. Derivano da questa impostazione due conseguen­ ze: la prima è che, rispetto alla tradizionale distinzione tra bello naturale e bello artistico, il primato spetta senz’altro al secondo; la natura è infatti alienazione, assenza di libertà, e se anche in essa vi è lo sforzo di elevarsi all’ideale, tuttavia « di quanto lo spirito e le sue produzioni sovrastano la natura, di tanto il bello d’arte sovrasta quello naturale ». La seconda conseguenza è che l’arte esprime il momento della oggettività e non della soggettività, o, meglio, esprime l’unità dell’oggettivo e del soggettivo (che per l’in­ telletto sono distinti) in forme plastiche e oggettive: certo, la fan­ tasia creatrice dell’artista ha un ruolo primario, ma, perché vi sia arte, è necessario che essa non emerga come qualcosa di sog­ gettivo e di distinto dalla sua opera, altrimenti si ha solo una « maniera », ma non il vero e proprio « stile », che è il segno del vero genio. Le forme Hegel distingue tre forme di arte: l’arte « simbolica », carat­ dell’arte terizzata dal mancato equilibrio tra l’ideale e la sua forma sen­ sibile e che nel « sublime » trova la sua espressione più caratte-

compimento el processo: lo Spirito assoluto

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ristica; l’arte « classica », in cui l’equilibrio è perfettamente rag­ giunto; e l’arte « romantica », in cui l’equilibrio è oltrepassato, perché la soggettività dell’artista va oltre i limiti oggettivi dell’i­ deale che vuole esprimere. Queste tre forme sono proprie di tutte le singole arti, che nel loro insieme formano il « regno dell’arte » e che si dispongono secondo una gerarchia conseguente alla sempre minore materialità dei mezzi espressivi di cui si servono: architet­ tura, scultura, pittura, musica e poesia. Ma Hegel intreccia poi i due criteri e considera l’architettura come l’espressione dell’arte simbolica, la scultura dell’arte classica e le altre dell’arte romantica. Nello stesso senso considera l’arte simbolica, classica e romantica come espressioni tipiche, rispettivamente, del mondo orientale, gre­ co-romano e cristiano germanico. Il traboccare della soggettività nell’arte romantica segna la « mor­ te dell’arte » e il suo passaggio nell’opposto: la religione. Soli­ tamente la religione vien fatta consistere nel sentimento (Schleiermacher) o nella fede soggettiva (Jacobi); in realtà, dice Hegel, essa è qualcosa di molto più complesso e profondo: essa ha il me­ rito di mostrare all’uomo che il punto di vista del « finito » non può essere l’ultimo per l’uomo e che quindi è necessario andare oltre, verso l’infinito; la religione è pertanto l’unità della coscienza religiosa e del suo oggetto, dell’uomo e di Dio, del finito e del­ l’infinito. Nella religione, però, questa unità è solo « rappresen­ tata » e non « pensata » e ciò spiega l’importanza che in essa hanno il culto e l’esteriorità. E come nel culto è possibile constatare una progressiva evoluzione che, dall’olocausto materiale all’offerta del proprio cuore, segna una sua progressiva spiritualizzazione, così anche è possibile tracciare una storia della religione, che altro non è se non la storia dello spirito da quel determinato punto di vista. Le prime forme di religione sono quelle che Hegel chiama « naturali », prendendo il termine non dell’accezione del deismo e dell’Illuminismo settecentesco (cioè come una religione propria della natura umana, al di là di tutte le differenze delle religioni positive e storiche), ma nel senso che in esse Dio è immerso nella natura e il culto consiste nella venerazione di oggetti materiali: tale è ad esempio il feticismo, rispetto al quale si pongono su un piano più elevato le varie forme di panteismo e di religione dei popoli orientali (cinese, indiana, buddista, ecc.). Dalla religione

La religione

Dalla religione naturale alla religione assoluta

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La filosofìa e l’identità di filosofia e storia Iella filosofia

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naturale si passa, attraverso forme intermedie di « religione della libertà » (come quella persiana o egiziana), alla « religione della individualità spirituale », quella cioè in cui Dio è posto come per­ sona (come l’ebraica, la greca e la romana), per giungere infine alla « religione assoluta », cioè il cristianesimo. Quella cristiana è la religione assoluta perché è quella che ha pienamente realizzato il suo concetto: Padre, Figlio e Spirito, le tre persone dell’unità di Dio, non sono che la « rappresentazione » dei tre momenti dello sviluppo dialettico dell’Idea (Dio prima della creazione, la creazione e il ricongiungersi, attraverso l’incarnazione, della creatura e del creatore), che la filosofia « pensa » nella forma del concetto: « alla filosofia è stato fatto il rimprovero di porsi al di sopra della religione; ma questo è già falso in linea di fatto perché essa ha per contenuto la religione e nient’altro. Essa dà questo contenuto nella forma del pensiero e si pone così soltanto al di sopra della forma della fede; il contenuto è lo stesso ». Per la religione, però, il suo contenuto è un « dato » in cui cre­ dere e di cui non sa spiegare l’origine. Solo la filosofia, il pensiero speculativo, è in grado di conoscere, oltre l’arte e la religione, an­ che se stessa: nella filosofia l’Idea raggiunge l’assoluta autocoscienza e il processo dialettico trova la sua sintesi conclusiva. « La filosofia tutta spiegata riposa su se stessa... Quindi essa è il sistema della, necessità, della sua propria necessità, la quale è ad un tempo la sua libertà », perché nulla c’è, fuori di essa, che possa condizionarla. Deriva di qui l’identità della filosofia e della sua storia. La storia del pensiero non è una rassegna di opinioni casuali e reci­ procamente escludentisi; al contrario, ogni suo momento, nell’atto stesso in cui è superato dal successivo, è anche conservato, tesau­ rizzato e rielaborato. Per un verso, quindi, la successione dei si­ stemi filosofici, che si manifesta nella storia, è « necessaria », nel senso che è identica alla successione che si ha nella deduzione lo­ gica delle determinazioni concettuali dell’idea (pensiero greco, me­ dievale, e cristiano-germanico riproducono i tre momenti dello svi­ luppo dell’Idea); per altro verso la filosofia, che è ultima nel tem­ po, è un risultato delle precedenti e deve contenerne in sé i prin­ cipi, e, nello stesso tempo, è la più sviluppata, ricca e concreta. « La filosofia, dice Hegel, è il proprio tempo appreso con il pen­ siero ».

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F IL O SO F IA

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R E ST A U R A Z IO N E

1. L ’« ideologia » e la filosofia di Maine de Biran (p. 87) - 2. De Maistre e il tradizionalismo; l’eclettismo (p. 91) - 3. Saint-simonismo e liberalismo in Francia (p. 94) - 4. Bentham e Ricardo. Filosofia ed economia in Inghilterra (p. 99) - 5. Lo sviluppo del pensiero scientifico (p. 103)

1 - L '« ideologia » e la filosofia di Maine de Biran. Il passaggio dall’età delPIlluminismo e della Rivoluzione a quella napoleonica e della Restaurazione determina una svolta profonda della cultura e della filosofia francesi. Noi vedremo nel paragrafo seguente il manifestarsi di tendenze sostanzialmente avverse, sul piano delle conquiste politico-sociali non meno che su quello delle impostazioni filosofiche, alle tendenze affermatesi con l’Illuminismo e con la Ri­ voluzione dell’89 e quindi favorevoli a « restaurare » la situazione precedente. Ma anche all’interno di correnti di pensiero che pure si rifanno ad alcuni aspetti della filosofia illuministica il mutamento è altrettanto ben visibile. È questo il caso della cosiddetta corrente degli « ideologi », cioè di coloro che, nel solco delle indagini di Condillac, si propongono di portare avanti « l’analisi delle sensazioni e delle idee » (secondo la definizione che del termine « ideologia » dette uno dei principali esponenti di questa corrente, il Destutt de Tracy). Pro­ prio il richiamo alla filosofia dell’Illuminismo, doveva finire per col­ locare molti di questi pensatori (e spesso si tratta di giuristi, di uo­ mini politici, di amministratori, di scienziati che nella filosofia e nella ideologia cercano una base teorica di carattere generale) in una posi­ zione di ostilità verso la politica di Napoleone e il suo potere; e Napoleone reagisce chiudendo, nel 1803 (dopo la congiura di Cadoudal), il Consiglio della Pubblica Istruzione e l’Accademia delle scienze morali, di cui facevano parte molti ideologi, e nello stesso tempo presentando questi pensatori come « dottrinari », privi di

La filosofia francese nell’età della Restaurazione: l’« ideologia »

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senso pratico e di contatto con la realtà concreta, e come oziosi pa­ rolai. Deriva anzi da questa polemica imo dei significati fondamentali, che nell’epoca moderna ha assunto il termine di « ideologia » cioè quello negativo di una teoria sostenuta non tanto per il suo valore scientifico e per la sua validità oggettiva, quando per gli interessi par­ ticolari, più o meno palesi, di coloro che se ne servono. Destutt L ’ispiratore e il teorico del movimento degli « ideologi » è Ande Tracy toine-Claude-Louis D e s t u t t d e T racy (1754-1836), autore di Ele­ menti di ideologia (suddivisi in varie sezioni pubblicate tra il 1801 e il 1815) e di un Commentario sullo « Spirito delle Leggi » di Mon­ tesquieu, tradotto in inglese dal presidente degli Stati Uniti, Jefferson, suo amico. Il programma della sua ricerca si articola secondo tre direzioni fondamentali: l’ideologia propriamente detta, cioè lo studio della ge­ nesi delle idee e la loro analisi; la grammatica, cioè lo studio del­ l’espressione delle idee; e la logica, cioè lo studio delle combinazioni delle idee. L ’etica e la politica, infine, sono forme di « ideologia ap­ plicata ». Nel tentativo di ricondurre alla sensibilità tutte le facoltà dell’anima, Destutt de Tracy giunge a classificare quattro tipi distinti di sensibilità: innanzi tutto quello per cui l’uomo « sente » e che si manifesta nell’azione che gli oggetti producono sugli organi di senso^ in secondo luogo quello per cui l’uomo « risente » e « ricorda » e che consiste in una particolare disposizione che le sensazioni passate la­ sciano nella sensibilità; in terzo luogo quello per cui l’uomo « giu­ dica » e che si manifesta in occasione di impressioni prodotte da più oggetti in rapporto tra loro; e in quarto luogo quello per cui l’uomo « vuole » e che si manifesta in occasione di impressioni che nascono da bisogni e che generano in noi il desiderio di soddisfarli. Memoria, giudizio e volontà sono però modi attivi e non passivi della sensibilità; inoltre Destutt de Tracy ritiene che non dalle sensa­ zioni tattili, come voleva Condillac, ma da quelle di movimento venga l’idea del mondo esterno. La « motilità » (cioè la sensazione del moto) concorre così, insieme alla memoria, al giudizio e alla volontà, a pro­ durre quei concetti di « sforzo » e di « ostacolo », come elementi co­ stitutivi della coscienza della realtà, che avranno ampio svolgimento nella filosofia spiritualistica. Cabanis Un altro esponente di rilievo della corrente degli ideologi è il medico Pierre-Jean-Georges C abanis (1757-1808), autore di un’opera

LA FILOSOFIA N EL L’ETÀ DELLA RESTAURAZIONE

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dal titolo Rapporti tra il fisico e il morale dell’uomo, in cui cerca di ricondurre alla sensibilità anche la vita morale e di analizzare, in generale, la dipendenza della sensibilità dalle condizioni fisiologiche e soprattutto dai modi di funzionamento dell’apparato nervoso: que­ sti si esplicano essenzialmente in una passività, quando la corrente nervosa va dalla periferia al centro dell’organismo, e in una reatti­ vità, quando il senso della corrente è inverso. Ciò porta Cabanis a correggere la dottrina di Condillac nel senso che anche le impressioni interne, e non solo le sensazioni prodotte dagli oggetti esterni, con­ tribuiscono alla produzione delle idee e delle determinazioni morali. Le impressioni interne sono tuttavia inconsapevoli e danno luogo agli istinti. Con ciò un più vasto campo è aperto alla psicologia e nella sua analisi Cabanis persegue un intento espressamente descrittivo, alieno dal ricorrere a spiegazioni ultime e generali e, nello stesso tempo, teso a costruire quella complessa scienza dell’uomo che, dal­ l’esame delle condizioni fisiche e psichiche, può dare anche una sicura norma di condotta. Queste tesi, d’altro lato non implicano un’adesione di Cabanis alle posizioni classiche del materialismo, infatti nella postuma Lettera sulle cause prime, egli si mostra assertore dell’esistenza dell’anima, cioè di una sostanza spirituale, di una causa prima e intelligente del mondo e quindi di una interpretazione teologica della realtà. Il pensatore che meglio esprime il convergere del movimento degli « ideologi » verso posizioni esplicitamente spiritualistiche è FrangoisPierre M a in e de B iran (1766-1824). Autore di numerosi scritti per lo più pubblicati postumi (Influenza dell’abitudine sulla facoltà di pensare, Saggio sui fondamenti della psicologia, Nuovi saggi d’antro­ pologia e della scienza dell’uomo interiore, Diario ìntimo), Maine de Biran si rifà decisamente alla tradizione di pensiero francese pre-illuministico, da Montaigne a Pascal a Malebranche, e dà quindi all’in­ trospezione, all’osservazione interiore, una funzione del tutto premi­ nente nell’ambito della ricerca filosofica. Analizzando il concetto di abitudine, Maine de Biran osserva come il ripetersi costante di de­ terminate impressioni, mentre attenua le sensazioni di piacere e di dolore che sono ad esse originariamente connesse, conferisce maggiore precisione e sicurezza alla conoscenza che esse producono: ciò è spie­ gabile non con l’azione degli oggetti su di noi e quindi con la passi­ vità della sensibilità, ma riconoscendo in noi una « libera attività ».

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capace in qualche modo di svincolarsi dai legami della sensazione e della natura esterna e di conferire ai suoi prodotti un carattere di forza, di costanza e di perfettibilità. Solo in questo modo è possibile fare una distinzione precisa tra ciò che vi è di passivo in noi e ciò che vi è di attivo e che Maine de Biran chiama « sensazioni trasformate ». Su questa base si giustifica il primato della « coscienza », del « senso intimo » e quindi l’impossibilità di ridurre tutto a sensazione come voleva Condillac: « senza il sentimento di esistenza individuale che noi in psicologia chiamiamo ” coscienza ” (conscius sui, compos sui) non c’è un fatto che si possa dire conosciuto, né conoscenza di alcuna specie; giacché un fatto non è nulla se non è conosciuto, cioè se non c’è un soggetto individuale permanente che conosce ». La coscienza non è però soltanto la prima e fondamentale conoscenza, ma anche la più semplice e la più certa, quella cioè di un « io » che ha il « senso intimo » della sua esistenza individuale, come qualcosa di unitario, di identico e di permanente, al di là del continuo fluire e mutare di tutte le sensazioni, rappresentazioni e immaginazioni, sia esterne che in­ terne. Come tale, il « senso intimo » di sé non porta, come il co­ gito cartesiano, all’affermazione di una sostanza pensante, ma al ri­ conoscimento di un « io » che agisce e vuole e che quindi si sa come « forza » e come « causa ». I concetti di « forza », cioè della volontà che si manifesta come « sforzo », e di « causa » documentano l’esito metafisico della psi­ cologia di Maine de Biran e confermano che « le considerazioni e le espressioni fisiologiche che hanno per oggetto i fenomeni del corpo vivente studiati nelle funzioni, movimenti o mutamenti degli organi che li compongono, non possono gettare alcuna luce sui fenomeni del pensiero e della coscienza, che sono soggetti di osservazioni e di esperienze di natura del tutto diversa ». Al di sopra di quella organica e di quella psicologica, c’è infatti nell’uomo una terza vita, più alta e che segna il punto in cui lo spirito conosce Dio e se stesso. È la vita religiosa, che si attua attraverso la meditazione e la preghiera e in cui il senso intimo, la coscienza, appare come una diretta rivela­ zione di Dio: Dio è per l’anima ciò che l’anima stessa è per il corpo, cioè un principio di guida qualitativamente superiore. Questo esito religioso segna il punto di convergenza della filosofia degli « ideologi » con quelle tendenze che della difesa della tradizione e dell’autorità fa­ cevano la loro bandiera contro gli ideali illuministici e rivoluzionari.

LA FILOSOFIA N EL L’ETÀ DELLA RESTAURAZIONE

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La « rivelazione interiore » della coscienza, infatti, deriva direttamente da Dio e quindi non può discordare da quella esteriore (fondata sulle Scritture e l’autorità) che egualmente deriva da Dio; in tal modo tutti i motivi della tradizione e dell’autorità, sia in sede religiosa, sia in sede politica, sono ricompresi in una metafisica spiritualistica.

2 - De Maistre e il tradizionalismo; l ’eclettismo. L ’età della Restaurazione vede il manifestarsi di tendenze molte­ plici, che tuttavia esprimono un atteggiamento di reazione e di oppo­ sizione alle condizioni più caratterizzanti della mentalità illuministica, e cioè il razionalismo, la critica religiosa e la polemica contro la tradi­ zione. Un fattore importante nella maturazione di queste tendenze è costituito dalla diffusione delle idee del Romanticismo in Francia, soprattutto ad opera di Madame de Staèl e di Chateaubriand. Germaine N e c k e r , baronessa d e S t a é l (1766-1817), pubblicò nel 1810 la sua opera famosa Della Germania, in cui sulle orme di Augusto Guglielmo Schlegel, riproponeva l’antitesi di poesia classica e poesia romantica, e, schierandosi apertamente per quest’ultima, fa­ ceva conoscere gli ideali artistici e sentimentali del Romanticismo alla cultura francese, che ne restò profondamente influenzata. Qualche anno prima Frangois-René de C h a tea u b r ia n d (1769-1848) aveva di­ feso nella sua celebre opera, Il genio del Cristianesimo, il valore della religione cristiana e della tradizione su cui essa si fonda, esaltandola altresì come genuina fonte di ispirazione artistica e popolare e con­ trapponendola all’arte classica, il cui progressivo isterilirsi è fatto risalire all’abbandono della fede e all’indifferenza per la natura, opera e simulacro di Dio. Le idee del Romanticismo assumono così, in conformità con gli indirizzi politici predominanti, un senso nettamente « reazionario », cioè di una giustificazione della necessità di cancellare le conseguenze dell’Illuminismo e della Rivoluzione e di restaurare ciò che l’Illumi­ nismo e la Rivoluzione avevano violentemente spezzato. In tal modo l’esigenza religiosa, che la cultura romantica aveva vigorosamente sot­ tolineato, torna in primo piano, ma non come espressione dell’unità di finito e infinito, come immanenza di Dio nel mondo, bensì come « trascendenza » assoluta di Dio rispetto al mondo e all’uomo. Non

L a diffusione della cultura romantica in Francia

Madame de Stael e Chateaubriand

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Hegel, ma piuttosto Schelling, l’ultimo Fichte, Schleiermacher e Fe­ derico Schlegel sono gli autori che ispirano questa religiosità e la con­ versione di Schlegel (e con lui di molti altri) al cattolicesimo ha un significato emblematico: esaltazione del sentimento religioso diventa sempre più l’adesione ad una religione positiva e in primo luogo al cattolicesimo, considerato come l’unico fondamento possibile della convivenza umana. Eguale significato ha anche la rivalutazione della tradizione, con­ cepita come un’antitesi alla Rivoluzione e quindi come un ritorno al passato, ai principi di legittimità e di autorità, su cui poggiare la sta­ bilità delle istituzioni e dell’assetto sociale. Esponenti di queste ten­ denze sono i pensatori noti con il nome di « tradizionalisti » e di « ultramontanisti », che si fanno portavoce della reazione al Terrore, della polemica contro gli ideali rivoluzionari della libertà e dell’egua­ glianza e dell’indipendenza e sostenitori del primato del Papato e della Chiesa rispetto allo stato, contro le correnti gallicane, de Maistre Queste idee trovano una loro prima e più tipica espressione negli scritti di Joseph d e M a is t r e (1753-1821), il maggiore esponente della polemica antigallicana e della reazione « ultramontanista ». De Maistre nelle sue opere (Considerazioni sulla storia di Francia, La Chiesa gallicana in rapporto al sovrano Pontefice, Il Papa, e Serate di Pietroburgo o il governo temporale della provvidenza, che è forse la più importante) riprende molte delle idee antilluministiche e anti­ rivoluzionarie già espresse dal Burke nelle sue Riflessioni sulla rivo­ luzione francese, ed in particolare la polemica contro l’astrattezza e l’individualismo del secolo dei lumi, capaci solo di produrre « diver­ genze di opinioni » e a cui è contrapposta la « ragione universale o nazionale », cioè l’insieme dei dogmi politici e religiosi e degli « utili pregiudizi ». E questa polemica è sorretta da una visione religiosa di netto stampo apocalittico, per cui tutte le « diaboliche stranezze » del mondo moderno, le sventure della Francia e dell’Europa, le stragi del Ter­ rore, le imprese napoleoniche, la costituzione civile del clero e le pretese della chiesa nazionale francese di essere indipendente dal Pa­ pato sono considerate come conseguenze dell'abbandono dei principi della teocrazia medievale, del governo temporale del Papato e della monarchia di diritto divino. L ’uomo è irrimediabilmente corrotto dal peccato originale e quindi non può che essere malvagio l’uso che egli

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fa della sua libertà, così come il preteso progresso storico che ne con segue. L ’uomo merita perciò i mali di cui soffre e, per liberarsi da essi, non può fare da sè: deve soltanto rimettersi all’autorità reli­ giosa e politica perché la Chiesa e lo Stato sono gli istituti di cui la Provvidenza si serve per realizzare i suoi fini. Idee in qualche modo analoghe a queste, ma meno apocalittiche si de Bonald trovano espresse anche nella Teoria del potere politico e religioso e poi nella Legislazione primitiva e nella Dimostrazione filosofica del principio costitutivo della società di Louis-Gabriel-Ambroise d e B o n a l d (1754-1840), difensore dell’assolutismo e dell’autorità: il ra­ zionalismo illuministico e lo spirito critico hanno sovvertito con il loro arbitrio e il loro individualismo l’ordine naturale che è voluto da Dio e che può essere restaurato solo ad opera di un potere assoluto del re, ispirato dalla Chiesa. Sul terreno più propriamente filosofico De Bonald combatte sia il sensismo sia l’analisi introspettiva e sostiene che solo il « linguaggio primitivo », dato all’uomo direttamente da Dio all’atto della creazione e conservato dalla tradizione, può rivelare le verità eterne. Alla corrente tradizionalistica si accostò anche, almeno in un primo Lamennais tempo, Robert d e L a m e n n a i s (1782-1854), che nel suo Saggio sul­ l'indifferenza in materia religiosa, nell’intento di combattere l’indiffe­ renza religiosa e l’individualismo razionalistico, pose come criterio di verità una « ragione comune » a tutti gli uomini, capace di intuire le verità eterne e fondamento della tradizione universale che prende avvio da una diretta rivelazione di Dio. Ma con ciò Lamennais veniva a negare che la Chiesa fosse l’unica fonte e l’esclusiva depositaria della verità e della tradizione; si spiega in tal modo il suo progressivo di­ stacco dalle posizioni più reazionarie e il suo avvicinarsi alle tesi del cattolicesimo liberale, che — come vedremo — in quegli anni si an­ dava ampiamente diffondendo in Europa, malgrado le condanne ec­ clesiastiche (sancite dalle bolle di Gregorio XVI Mirari vos del 1832 e Singulari nos del 1834), per approdare alla fine ad una sorta di cattolicesimo sociale, volto al riscatto degli umili e degli oppressi. Vicino per molteplici aspetti al tradizionalismo e all’esito spiri­ L ’eclettismo tualistico della corrente degli ideologi è anche l’indirizzo cosiddetto «eclettico». Vi appartennero Pierre L a r o m i g u i è r e (1756-1837), Pierre-Paul R o y e r -C o l l a r d (1763-1843) e Théodore J o u f f r o y (1796-1842), che criticarono i fondamenti della scuola scozzese e del

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Cousin

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pensiero di Reid (cfr. voi. II, p. 263). Ma l’esponente di maggior rilievo fu Victor C o u s i n (1792-1867), che, anche per le sue alte cariche accademiche e politiche, divenne in un certo modo l’esponente della filosofia ufficiale durante il regno di Luigi Filippo. Oltre a far conoscere in Francia il pensiero di Hegel (personalmente conosciuto, insieme a Jacobi, Schelling e Goethe durante vari viaggi in Germania), Cousin si acquistò meriti cospicui come storico della filosofia e come editore e traduttore di testi. Le sue idee sono esposte nello scritto Del vero, del bello e del bene, in cui Cousin formula un teismo e uno spiritualismo che hanno nel concetto di Dio, come unità di ve­ rità, bellezza e bontà, e nelle attestazioni immediate della coscienza umana i loro punti di riferimento. È questa filosofia l’unica che, se­ condo Cousin, « insegna la spiritualità dell’anima, la libertà e la re­ sponsabilità delle azioni umane, le obbligazioni morali, la virtù disin­ teressata, la dignità della giustizia, la bellezza della carità ». Come tale, questa filosofia è la naturale alleata delle « buone cause » (la religione, l’arte, il diritto, l’amore) e di quell’ideale di convivenza sociale che solo nella monarchia costituzionale può avere la sua realizzazione.

3 - Saint-simonismo e liberalismo in Francia. Problemi politico­ economici e cultura scientifica

Per completare il quadro del pensiero francese nei primi decenni del xix secolo è necessario prendere in considerazione gli aspetti prin­ cipali dello sviluppo del pensiero politico che dalle esperienze della Rivoluzione, della Restaurazione e della monarchia di luglio trae con­ tinuo alimento. Ma accanto a questi fattori più propriamente politici devono essere tenuti presenti altri elementi caratterizzanti, come lo sviluppo economico e soprattutto industriale, il progresso scientifico e tecnico, la sempre maggiore organizzazione della ricerca e la sensazione sempre più precisa degli stretti legami tra progresso scientifico e svi­ luppo industriale. Si spiega così la grande importanza che ha in questo periodo la « Scuola politecnica » di Parigi: fondata nel periodo della Rivoluzione soprattutto per preparare i quadri tecnici del nuovo esercito, essa, dopo un breve periodo di chiusura, continua la sua attività con il pro­ gramma di preparare il gran numero di scienziati e di tecnici specializ­ zati richiesto dallo sviluppo dell’industria e dal rinnovamento dei me-

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todi di produzione. La serietà degli studi, il prestigio scientifico con­ quistato, la coscienza dei nessi tra ricerca teorica e applicazioni tec­ niche e soprattutto il chiaro riconoscimento della funzione sociale della scienza e della naturale alleanza tra scienziati e industriali sono fat­ tori importanti per comprendere molti atteggiamenti della cultura del tempo. In questo quadro si collocano, infatti, le riflessioni politiche e sociali di Saint-Simon. Industriale e affarista, dopo aver combattuto in gioventù per l’indipendenza americana e aver rinunciato ai ti­ toli nobiliari durante la Rivoluzione, Claude-Henri d e S a i n t -S im o n (1760-1825), prodigò le sue sostanze per realizzare i suoi progetti, che espose in numerosi scritti, tra i quali i più importanti sono L ’Indu­ stria, L ’Organizzatore, Il sistema industriale, Il catechismo degli in­ dustriali, Il nuovo cristianesimo. Nella ininterrotta successione sto­ rica degli avvenimenti, che formano una « sola e medesima serie », Saint-Simon vede ripetersi un’alternanza tra epoche « organiche » e epoche « critiche »: epoca organica è quella in cui vige un determi­ nato e coerente sistema di valori, critica è quella in cui, per interno sviluppo e progresso, questo sistema non risponde più ai nuovi bi­ sogni. In tal senso, il Medioevo fu per eccellenza un’epoca organica, cui ha fatto seguito la crisi dalla Riforma in poi; ma proprio da questa criki prende l’avvio il formarsi della futura epoca organica: il sapere scientifico si è liberato dalle ipoteche della metafisica adottando il metodo sperimentale, e quando anche la filosofia sarà diventata una scienza positiva saranno state gettate le premesse di una nuova epoca organica. L ’idea dell’organicità è di chiara ispirazione romantica, ma nel pensiero di Saint-Simon è viva anche ima tendenza di derivazione illu­ ministica e che si manifesta nell’ideale di una società governata dagli scienziati, per ciò che concerne gli affari spirituali, e dagli industriali, per ciò che concerne gli affari temporali. E a conferma di ciò SaintSimon in una celebre « parabola », mostra come nessun danno po­ trebbe conseguire da un’improvvisa scomparsa delle tremila persone che occupano le cariche politiche, amministrative e religiose (perché sarebbe facilissimo sostituirle), mentre danni irreparabili si verifiche­ rebbero se la società fosse privata dei tremila più esperti scienziati, imprenditori e tecnici che possiede. Il posto direttivo assegnato agli industriali, nella convinzione

Saint-Simon: epoche organiche e epoche critiche della storia

Il governo degli scienziati e degli industriali

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La nuova politica

Il « nuovo Cristianesimo »

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che dal coordinamento della loro opera dipenda il benessere della società, e l’esaltazione dell’industria come « fonte unica di tutte le ricchezze e di tutte le proprietà » dimostrano che Saint-Simon si rende già conto (e in questo senso Marx lo distingueva, con un giu­ dizio positivo, dalla corrente del cosiddetto « socialismo utopistico », a cui pure è sovente ricollegato) che esiste uno stretto legame tra la soluzione dei problemi economici e dei problemi politici e che la giusta soluzione di entrambi condiziona lo stesso assetto etico della società: la riforma della società non è infatti un ideale morale, ma la meta di un processo che si attua attraverso l’inserimento dell’indi­ viduo nel sistema delle forze economiche produttive, il riconosci­ mento equo del valore del lavoro di ognuno nella produzione del benessere comune e quindi la distribuzione della ricchezza in funzione dei bisogni e dell’utilità sociale. In questo contesto si collocano anche le critiche, sviluppate soprattutto dai discepoli, alla proprietà privata (e, in conseguenza, al diritto di eredità), destinata ad essere sempre più largamente sostituita da quella statale o pubblica, che finalmente al posto dello sfruttamento dei lavoratori instaurerà lo sfruttamento delle energie naturali, reso possibile dai progressi scientifici e tecnici. La politica, in tal modo, esce dalle incertezze e dalle contingenze, per diventare una scienza certa e, più precisamente, « scienza della produzione », perché dalla produzione dipende il soddisfacimento di quegli interessi (lo sviluppo della vita e del benessere) sui quali soltanto gli uomini debbono decidere e agire in comune. Non solo, ma questa decisione e questa azione non appartengono più « agli uomini investiti di funzioni sociali », ma al « corpo sociale » nel suo insieme: « e così la stessa società può realmente esercitare la sovranità che non consiste più in un’opinione arbitraria eretta a legge della massa, ma in un principio derivato dalla natura stessa e di cui gli uomini non fanno che proclamare la necessità ». La società futura, estesa, nello scritto sulla Riorganizzazione della società europea (che è di un anno anteriore al Congresso di Vienna), a tutta l’Europa e governata da un parlamento europeo sovranazionale, è una meta inevitabile del progresso storico, che può essere affrettata o ritardata ma non mutata. In questo senso, soprattutto nell’ultimo scritto di Saint-Simon [Il nuovo cristianesimo) essa acqui­ sta una accentuata coloritura religiosa, configurandosi come un ritorno al cristianesimo primitivo, fondato non su dogmi e riti ma sull’amore

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del prossimo, alieno da ogni forma di violenza e di coercizione, viva­ mente sollecito del bene fisico e morale delle classi più povere e oppresse e quindi vagamente ispirato ad istanze socialistiche. Questo aspetto religioso è prevalente (fino a toccare toni mistici) nei seguaci di Saint-Simon: il movimento saint-simoniano ebbe infatti profonda influenza in Francia, sia sul formarsi delle prime correnti socialistiche, che si battevano per un più giusto assetto sociale, sia sullo sviluppo economico e industriale francese, attraverso iniziative e intraprese in numerose branche produttive, fino alla progettazione dei canali di Suez e di Panama. I principali esponenti di questo movi­ mento furono Armand B azard (1791-1832) e Barthélemy-Prosper E nfantin (1796-1866), che fu il «pontefice» della corrente misticheggiante e utopistica e finì, quando il movimento si dissolse, per convertirsi al cristianesimo. Con la dottrina saint-simoniana cominciano a trovare espressione le prime idee socialistiche. Nello stesso tempo, però, le dottrine economiche liberistiche vengono discusse dal ramo francese della cosid­ detta « scuola classica », anche se l’eredità delle tesi di Condillac fa prevalere una concezione del valore economico basata sull’utilità e la rarità dei prodotti, rispetto a quella elaborata da Adamo Smith sulla base dell’equazione valore-lavoro. Il più importante esponente di questo indirizzo è Jean-Baptiste S ay (1767-1832), che nel suo Trattato d’economia politica e poi nel suo Corso d’economia politica si propose di offrire una semplice « esposizione » del modo in cui si formano, si distribuiscono e si consumano le ricchezze. In questo senso, l’economia politica è una scienza descrittiva e non valutativa e Say elaborò analisi interessanti su alcuni problemi: la produzione, la formazione del capitale, la distinzione tra capitalista e imprendi­ tore (cioè l’intermediario che combina i servizi necessari a produrre un bene in proporzione della domanda di quel bene stesso), il mec­ canismo degli scambi e della ripartizione, ecc. (cfr. infra, p. 194). Tuttavia lo sviluppo del pensiero socialista impegnò sempre più questa scuola ad una difesa « dottrinaria » del regime liberista, dei principi della libertà e della proprietà privata e fece trascurare l’analisi dei principali meccanismi economici. Significativi, a questo proposito, i Sofismi economici di Frédéric B a s t i a t (1801-1850), polemici non solo nei confronti delle teorie socialistiche, ma anche nei confronti di quegli elementi « disarmonici » messi in luce nelle 7-

G ia n n a n t o t i i,

III.

I saintsimoniani

L a dottrina della « scuola classica » di economia in Francia

Say

Bastiat

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teorie liberistiche da Ricardo, come vedremo nel paragrafo seguente. Alla base delle dottrine di Bastiat è il rifiuto della teoria del valorelavoro e l’accettazione del valore-servizio, cioè la determinazione del valore sulla base del rapporto tra due servizi scambiati. Il liberalismo Dal punto di vista più propriamente politico le dottrine liberali politico : Constant trovano una vigorosa difesa negli scritti (Corso di politica costituzio­ nale, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Della religione considerata nella sua fonte, nelle sue forme e nei suoi svi­ luppi) di Benjamin-Henry C o n s t a n t d e R e b e c q u e (1767-1830); si tratta però di un liberalismo di netta impronta individualistica: « ho difeso per quarantanni lo stesso principio, libertà in tutto, in religione, in filosofia, in letteratura, in industria, in politica: e per libertà intendo il trionfo dell’individualità, sia sull’autorità che vor­ rebbe governare col dispotismo, sia sulle masse che reclamano il diritto di asservire la minoranza alla maggioranza ». Nello stesso tempo, però, Constant polemizza con i concetti classici del liberalismo, come quelli dell’« interesse beninteso » e dell’« utilità », che nei para­ grafi seguenti vedremo sviluppati da Bentham e da altri, e ad essi contrappone il concetto di diritti imprescrittibili e inalienabili (sotto­ mettere il diritto all’utilità è, dice Constant, come sottomettere il prin­ cipio al risultato, il dovere alla realtà effettuale): di qui la componente religiosa del liberalismo di Constant, per il quale l’uomo è religioso perché è uomo; di qui anche la polemica contro l’intervento dello stato, contro gli entusiasmi riformatori e contro ogni eccessiva fiducia nell’opera del legislatore per la soluzione dei problemi della vita civile e sociale, quasi che il legislatore non sia un uomo come tutti gli altri e, come tutti gli altri, fallibile. Per ciò che concerne la sfera economica Constant accetta i principi del « lasciar fare », della libera concorrenza e dello spontaneo armonizzarsi di interesse personale e di interesse collettivo, che avevano ispirato le dottrine di Smith (cfr. voi. II, p. 261-2). Nasce da questa impostazione la contrapposizione tra libertà degli antichi, intesa come partecipazione alla vita politica dello stato, e la libertà dei moderni, che è soprattutto libertà di attendere alle proprie faccende, dato che la formazione dei grandi stati moderni rende impos­ sibile la partecipazione diretta alla vita pubblica e impone invece il criterio della rappresentanza. Stato costituzionale, dunque, è quello vagheggiato da Constant, volto a realizzare un equilibrio di contrappesi

LA FILOSOFIA N E L L’ETÀ DELLA RESTAURAZIONE

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il non-proprietario non è, per Constant, sollecito del benessere gene­ rale) e che si basi sul potere regio, sul potere esecutivo, sul potere rappresentativo, articolato in due camere (una ereditaria, rappresenta­ tiva della durata, e una elettiva, rappresentativa dell’opinione), e infine che garantisca i diritti individuali (in primo luogo la proprietà privata: sul potere giudiziario.

4 - Bentham e Ricardo. Filosofia ed economia in Inghilterra. Il pensiero filosofico inglese tra la fine del xvm secolo e primi decenni del xix è ancora dominato dalle tendenze illuministiche che nei decenni precedenti avevano avuto il loro massimo esponente in Adamo Smith (cfr. voi. II, p. 261 sg.). Esso prende in questo periodo un più deciso indirizzo utilitaristico, nel senso che il concetto di « uti­ lità » vien posto al centro dei dibattiti etici, politici, e, come vedremo, anche economici. Il più importante esponente di questo indirizzo è Jeremiah B e n ­ t h a m (1748-1832), autore di vari scritti di argomento filosofico, giu­ ridico ed economico, tra i quali principale è VIntroduzione ai principi della morale e della legislazione. L ’intento precipuo della sua ricerca (che si richiama anche a Hume, a Helvetius e a Beccaria) è la determi­ nazione della morale come una scienza esatta, fondata sul concetto di utilità e a sua volta fondamento della politica e della legislazione. La possibilità di una scienza poggia sull’esame di realtà fattuali e sulla loro traduzione in determinati rapporti quantitativi; orbene, nel campo morale (e non soltanto in questo) i fatti sono dati dalle reazioni di pia­ cere e di dolore e l’utilità non indica altro se non che da qualcosa noi possiamo aspettarci o che derivi un piacere o che sia allontanato un dolore. Il bene, quindi, è soltanto ciò che produce piacere e il male è ciò che produce dolore e allo stesso criterio si riconducono tutte le valutazioni morali (virtù e vizio, giustizia e ingiustizia, ecc.). Il fine di ogni comportamento etico e politico, come pure di ogni norma giu­ ridica, non può essere che quello dell’utilità, cioè della massima feli­ cità per il massimo numero di persone; questo principio, che già Bec­ caria aveva indicato come fondamento della legislazione è esteso a tutti i campi e prende la forma della « massimizzazione » del piacere e della « minimizzazione » del dolore. In questo senso, la valutazione

L ’utilitarismo

Bentham : il piacere, il dolore e il concetto di « utile »

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L ’aritmetica dei piaceri

Le dottrine politiche

Jam es Mill

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di qualsiasi comportamento dipende non dall’intenzione, dall’obbligazione morale, dalla coscienza (tutte cose che Bentham chiama « non entità »), ma dalle conseguenze piacevoli o dolorose che esso produce: piacere e dolore sono così le « sanzioni » (e non fa differenza, da questo punto di vista, che siano sanzioni fisiche, politiche, morali o religiose) e il legislatore deve promulgare le norme e sancire le pene in modo tale che il piacere stia sempre, alla fine, dalla parte di ciò che egli proibisce o prescrive di fare. Nasce di qui l’esigenza di un calcolo esatto delle conseguenze pos­ sibili, e poiché il piacere e il dolore sono misurabili quantitativamente (dal punto di vista dell’intensità e della durata) sia in se stessi sia in rapporto alla loro capacità di causare altri piaceri e altri dolori, è pos­ sibile una rigorosa « aritmetica dei piaceri », che consideri non solo la « patologia », cioè la passività del modo in cui nell’uomo si producono determinate affezioni piacevoli e dolorose, ma anche la « dinamica » cioè la possibilità (che compete soprattutto al politico e al legislatore) di suscitare opportunamente sensazioni piacevoli o dolorose. Sul piano più propriamente politico, infine, l’utilità costituisce, ancora una volta, il punto di equilibrio tra libertà e coercizione e il limite dell’intervento statale, che deve comunque essere ridotto al minimo. Di qui la diffi­ denza di Bentham verso il puro e semplice conservatorismo e, all’oppo­ sto, verso i programmi rinnovatori della Rivoluzione francese; e parti­ colarmente esplicita è la polemica verso i cosiddetti diritti naturali e i diritti del cittadino, considerati causa di disorientamento politico. Sono i temi classici del liberalismo moderato, che in Bentham non ven­ gono meno del tutto anche quando, nell’ultima fase della sua vita, si stacca dal partito « tory » per avvicinarsi ad ideali di più marcato radicalismo democratico. Il discepolo più interessante di Bentham fu James M i l l ( 1 7 7 3 1836), autore di un’Analisi dei fenomeni dello spirito umano e di vari articoli sulla « Enciclopedia Britannica » (come quello sul Governo) che ne fecero conoscere largamente le idee. Le sue dottrine segnano un punto significativo, nella filosofia inglese, del passaggio dalla cultura illuministica all’incipiente cultura positivistica. E fu certamente opera di Bentham e di Mill (difensore anche lui della concezione liberale e del sistema rappresentativo) se il positivismo inglese fu, diversamente da quanto accadde in altri paesi, liberale in politica.

LA FILOSO FIA N ELL’ETÀ DELLA RESTAURAZIONE

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Nell’analisi dei fenomeni dello spirito umano, Mill da un lato accoglie, come loro spiegazione, la legge dell’« associazione » già for­ mulata da Hume, e dall’altro vuole pervenire alla loro riduzione nei fattori più elementari. Questi fattori sono le sensazioni (di cui le idee sono soltanto copie), e le sensazioni si associano secondo criteri deter­ minati, in modo più o meno stabile e la frequenza della loro associa­ zione costituisce il carattere abituale di alcune di esse. Questi principi gnoseologici valgono anche per spiegare la vita morale, ricondotta ai criteri fondamentali del piacere e del dolore; solo dall’associazione co­ stante del piacere nostro con il piacere altrui nasce ciò che si suole chiamare altruismo, virtù, giustizia, ecc. Tuttavia, chiarisce Mill, scom­ porre l’altruismo, la virtù, la giustizia, ecc. nei loro fattori egoistici non significa svalutarli o negarli, così come la luce bianca resta bianca anche quando si sappia che è scomponibile nei colori dell’iride. Grande importanza, in questo periodo, viene assumendo, con sem­ pre maggiore evidenza, la discussione teorica sui problemi dell’eco­ nomia. La concezione dominante è ancora quella liberistica di Adamo Smith, ma l’idea di un ordine « naturale », di uno spontaneo armoniz­ zarsi dell’interesse individuale e dell’interesse generale è sempre più sottoposta a revisione sia in conseguenza della lezione dei fatti (con­ centrazione capitalistica, strutture industriali sempre più complesse e imponenti, meccanizzazione della produzione, condizioni estremamente gravi del proletariato, disoccupazione e, infine, crisi economica conse­ guente alle guerre napoleoniche) sia per interno approfondimento teorico. Noi abbiamo già visto (cfr. voi. II, p. 262) come all’ottimismo di Smith si contrapponga il pessimismo di Malthus, suggerito dal divario sempre crescente tra l’incremento della popolazione e l’aumento di mezzi di sussistenza; dobbiamo ora esaminare le dottrine di quello che è stato forse il maggiore rappresentante della cosiddetta « scuola clas­ sica » di economia: David R ic a r d o (1772-1823), il cui pensiero, come vedremo, esercitò una considerevole influenza sulla formazione della teoria di Marx. Nei suoi Principi d’economia politica Ricardo prende le mosse dal principio che il valore (in senso economico) delle cose dipende non dalla loro utilità (benché anche questo elemento sia essenziale), ma dal loro costo di produzione. Le cose non riproducibili, per esempio un’opera d’arte, hanno un valore fissato unicamente sulla base della

La legge di associazione

Lo sviluppo delle dottrin economiche

Ricardo

La dottrina del valore

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La rendita fondiaria

Il salario e il profitto

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loro rarità; ma tutte le cose riproducibili traggono il loro valore dalla quantità di lavoro necessaria a produrle. Certo, in un’economia indu­ strializzata, oltre il lavoro degli operai, opera anche il capitale (gli investimenti di denaro, le macchine e, in generale, i mezzi di produ­ zione), ma poiché il capitale altro non è, per Ricardo, che una accumu­ lazione di lavoro prestato in precedenza, il principio dell’equazione valore-lavoro resta saldo. Con ciò siamo ancora nell’ambito della teoria smithiana, ma Ri­ cardo va più avanti e si pone il problema della ripartizione dei redditi. Anche a questo proposito il punto di partenza è dato dalla classi­ ficazione smithiana di tre tipi di redditi: la rendita del proprietario fondiario, il salario del lavoratore, il « profitto » del capitalista. Quanto alla « rendita fondiaria », Ricardo è convinto che essa tenda a salire: l’aumento della popolazione, infatti, costringe a colti­ vare sempre nuove terre, le quali, essendo meno fertili (perché le terre coltivate per prime si può supporre che siano le migliori), pro­ vocano un aumento dei prezzi di vendita dei beni prodotti. Questo aumento dei prezzi non porta vantaggi, però, solo ai proprietari delle terre più fertili, perché tutti i proprietari indistintamente, man mano che salgono i prezzi, tendono ad aumentare i fitti a coloro che effetti­ vamente coltivano la terra e quindi la loro rendita tende ad aumen­ tare. Il « salario », invece tende a rimanere basso il più possibile, cioè ad un livello tale « da fornire agli operai in generale i mezzi per sopravvivere e per perpetuare la loro specie senza accrescimento né diminuzione ». Questo resta vero anche se, in qualche caso, il salario nominale sembra aumentare, perché l’aumento dei prezzi che lo rende necessario lo annulla e lascia inalterato il salario reale. In netto con­ trasto e antagonismo con il salario è infine il « profitto » del capita­ lista, perché il primo non può aumentare se non a spese del secondo e viceversa; tuttavia anche il profitto tende a diminuire, secondo Ri­ cardo, perché l’aumento dei prezzi, facendo aumentare i salari riduce la remunerazione del capitale, cioè il profitto. Quest’ultimo punto, però, fu ben presto confutato, sia perché confonde l’aumento « no­ minale » con l’aumento « reale » dei salari (è infatti solo quest’ul­ timo che potrebbe ridurre il profitto, ma Ricardo stesso ha sostenuto che esso non si verifica), sia perché il profitto fu ben presto assimilato, dagli economisti, alla rendita. In questo caso Ricardo scambiò una

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circostanza contingente (la crisi economica dopo le guerre napoleo­ niche) con una legge generale di tendenza. Le dottrine di Ricardo ebbero vasta diffusione non solo in Inghil­ Discussioni sulle dottrine terra, dove dettero luogo ad una scuola fiorente, ma anche in Ger­ di Ricardo mania e in Italia; ma ben presto, al di là della discussione di punti particolari, si venne facendo sempre più evidente un punto critico di importanza fondamentale, e cioè il fatto che le disfunzioni messe in luce nella distribuzione dei redditi potevano diventare altrettanti argomenti contro le stesse conclusioni liberistiche, cui Ricardo si era mantenuto fedele, e altrettanti fermenti a favore di una concezione socialistica. Ciò spiega come alcuni ricardiani tornassero alle teorie del liberismo puro e altri si convertissero al socialismo. Avremo modo di toccare più avanti i punti essenziali di questo dibattito.

5 - Lo sviluppo del pensiero scientifico. Il periodo tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento è particolarmente significativo per lo sviluppo del pensiero scientifico. La grande filosofia idealistica tedesca, e, in generale, la cultura romantica hanno esercitato un duplice profondo influsso sulla scienza: da un lato, infatti, la stessa idea di una filosofia della natura (ad esempio quella di Schelling e quella di He­ gel) implicava, in certo senso, una svalutazione della scienza, del metodo del­ l’analisi sperimentale e dei risultati specifici e particolari raggiunti dalle sin­ gole discipline: onde la reciproca diffidenza, che si venne progressivamente accentuando, tra scienziati e filosofi, a loro volta accusati di apriorismo e di vane fantasticherie metafisiche. Dall’altro lato, però, la concezione della natura e della realtà elaborata dal Romanticismo, con i suoi principi dell’unità vi­ vente e dell’organicità, contribuì non poco a rimettere in discussione l’impo­ stazione meccanicistica della fisica newtoniana e a dare un forte impulso a discipline (come la chimica e la biologia) fino ad allora meno coltivate rispetto alla fisica e all’astronomia. Ed è infatti proprio in queste ultime discipline che l’indirizzo newtoniano persiste con maggior prestigio. Basti pensare all’opera scientifica di Pierre-Simon L aplace (1749-1827), autore de L ’esposizione del sistema del mondo, di un Trattato dì meccanica celeste e di un Saggio filosofico sulla probabilità. Il meccanicismo e il determinismo della scienza newtoniana trovano in Laplace una coerente sistemazione, che deve egualmente investire tutti i fenomeni, da quelli più grandiosi (e celebre è l’ipotesi di formazione del sistema solare da un’originaria nebulosa, che va sotto il nome suo e di Kant) a quelli più mi­ croscopici, cosicché se una intelligenza potesse conoscere tutte le forze della

L ’influsso della cultura romantica : scienza e filosofia

II newtonianesimo : Laplace

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La cializzazione scientifica e la scuola politecnica

matematica i geometrìa: Gauss

Il problema e geometrie uon-euclidee

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natura e la situazione reciproca degli esseri, quali si presentano in un determi­ nato momento, potrebbe unificare tutti i fenomeni sotto un’unica formula (eliminando così tutte quelle differenze che la nostra ignoranza della loro più profonda uniformità crede di fissare) ed in base ad essa ricostruire il passato e predire il futuro. Ne risultava altresì una conseguente e radicale eliminazione di ogni ipotesi metafisica e di qualsiasi ricorso all’intervento, sia pure sol­ tanto iniziale, di Dio nell’ordinamento dell’universo. Laplace ebbe una parte importante nella istituzione della Scuola Politec­ nica e della Scuola Normale di Francia ed apportò contributi importanti so­ prattutto in astronomia (le variazioni del movimento della luna, l’eccentricità dell’orbita terrestre, i satelliti di Giove, l’anello di Saturno, le comete, le maree, ecc.); ma egli più che aprire una nuova epoca, si può dire che concluda la precedente: non soltanto il nuovo concetto di natura, introdotto dal Roman­ ticismo, rimette in discussione la prospettiva meccanicistica di Newton, ma cambiano altresì alcuni caratteri tradizionali del sapere scientifico: si accentua, infatti, il fenomeno della specializzazione scientifica, del distacco delle sin­ gole discipline dalla loro matrice comune e, più ancora, dalla filosofia, del­ l’abbandono delle ipotesi universali; nascono nuove discipline e nuove tecniche, entra in crisi la precedente partizione e classificazione delle scienze e si ven­ gono individuando campi di ricerche che riguardano contemporaneamente vari settori e che richiedono la cooperazione di competenze diverse. L ’esempio di questa nuova organizzazione della ricerca e della preparazione dei nuovi quadri scientifici e tecnici è dato, in Francia, dalla Scuola Politecnica; ed è un esempio che trova seguito, sia pure con qualche ritardo, anche in Germania e in Inghilterra, promuovendo riforme anche nelle strutture scolastiche (sia a livello di scuola secondaria sia a livello universitario) e diffondendo un inte­ resse sempre più vasto per i progressi delle scienze e una speranza sempre più viva sui suoi immancabili benefici effetti sull’organizzazione sociale. In questo clima troverà terreno propizio l’affermarsi delle idee positivistiche. Passando ora ad un rapidissimo cenno sui progressi delle singole scienze è forse opportuno iniziare dalla matematica e dalla geometria, nelle quali ben­ ché sia relativamente minore l’influsso della nuova forma mentis del Romanti­ cismo, si ebbero decisivi progressi teorici. Oltre ad un rigoroso sviluppo del calcolo infinitesimale, ad opera soprattutto di Augustin-Louis C auchy (1789-1857) e del suo discepolo Niels Henrik A bel (1802-1829), gli sviluppi più impor­ tanti si ebbero nel campo dell’algebra, con gli studi sulle equazioni algebriche e gli altri contributi di Évariste G alois (1811-1832), e nel campo dell’aritmetizzazione della matematica (cioè nella riduzióne della matematica alla teo­ ria dei numeri interi, considerata come fondamento di tutta la scienza) con Karl Friedrich G au ss (1777-1855). Gauss è anzi il maggiore matematico di questo periodo e a lui si deve un fondamentale contributo alla costruzione delle cosiddette « geometrie non-euclidee »: per secoli la geometria euclidea era stata considerata come l’unica pos­ sibile, fondata su quel concetto di uno spazio assoluto, ancora teorizzato da Newton in sede scientifica e da Kant in sede filosofica: e Kant riteneva che

LA FILOSO FIA N EL L’ETÀ DELLA RESTAURAZIONE

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la geometria di Euclide fosse, senz’altro, la geometria, cioè la scienza universale e necessaria secondo la forma a priori dello spazio. Questa impostazione viene però rimessa in discussione già nel corso del secolo xvm , attraverso una cri­ tica sempre più approfondita del quinto postulato di Euclide, cioè quello delle parallele; questo postulato, che com’è noto, afferma che per un punto, esterno ad una retta data, passa una e una sola parallela, fu per secoli ritenuta una verità indubitabile, rispetto alla quale unico compito del geometra sarebbe stato quello di tentarne una dimostrazione. E per questa via si erano appunto posti Gerolamo S accheri (1667-1733), Johann Heinrich L ambert (1728-1777) e Adrien-Marie L egendre (1752-1833). In particolare, il primo, fondandosi sul fatto che il postulato delle parallele è alla base della dimostrazione del teo­ rema per cui la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due angoli retti, aveva cercato di dare una prova per assurdo del postulato delle parallele, dimostrando la falsità di una conclusione che supponesse la somma degli angoli interni di un triangolo maggiore o minore di due angoli retti. E poiché questa dimostrazione non gli era riuscita, ne risultava implicitamente che non erano teoricamente impossibili geometrie diverse da quella euclidea, che partissero da altri postulati e quindi da altre rappresentazioni dello spazio. La dimostrazione di possibilità di geometrie non euclidee fu raggiunta ap­ punto da Gauss, i cui manoscritti rimasero però, per il momento, inediti, e noi ve­ dremo più avanti l’importanza e gli sviluppi teorici di questa nuova impostazione. La fisica newtoniana non viene rimessa in discussione soltanto dai problemi sollevati, intorno al concetto di spazio, dalla possibilità di geometrie non-euclidee, ma anche in altri settori: contro la teoria newtoniana della natura corpuscolare della luce (cfr. voi. II, p. 188) Augustin-Jean F resnel (1788-1827) e Thomas Y oung (1773-1831) riprendono la dottrina ondulatoria, e nel 1850 Leon F ou­ cault (1819-1868) determinerà la velocità della luce nell’aria e nell’acqua. Ma i risultati più rilevanti, nel campo della fisica, sono ottenuti nel campo del­ l’elettrologia, mediante la scoperta della connessione tra elettricità e magneti­ smo, provata dalle deviazioni della bussola in presenza di corrente elettrica, e mediante la scoperta della connessione tra fenomeni elettrici e fenomeni dina­ mici: elettromagnetismo ed elettrodinamica sono in tal modo i due campi in cui eccellono i nomi di Giovanni Hans Christian O ersted (1777-1851) di Do minique-Frangois A rago (1786-1853) e soprattutto di André-Marie A mpère (1775-1836), autore della Teoria dei fenomeni elettrodinamici e scopritore dei principi della telegrafia elettrica. D ’altro canto, Sadi Carnot (1796-1832) gettava i fondamenti della termodinamica, destinata ad importanti sviluppi nei decenni successivi. L ’altro campo della ricerca scientifica che presenta il maggior interesse, anche dal punto di vista della storia del pensiero, è dato dal grande sviluppo della biologia. Le idee fondamentali che avevano ispirato la Storia naturale di Buffon (cfr. voi. II, p. 239) vengono ulteriormente sviluppate dal suo disce­ polo Jean-Baptiste L amarck (1744-1829), autore di una Filosofia zoologica e di una Storia naturale degli animali invertebrati. Questi infatti riprende la critica ai concetti di « genere », « specie », « classe », ecc. sostenendo che la

La fisica

La biologia e le dispute intorno all’ipotesi evoluzionistici

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natura produce non classi di esseri viventi, ma individui, che costituiscono, nel loro insieme, una serie continua, formatasi gradatamente nel tempo e nel tempo soggetta a continue variazioni ambientali che alterano le loro somiglianze originarie. Le variazioni ambientali, infatti, impongono variazioni nelle condi­ zioni di vita degli individui e queste si ripercuotono nei loro organi, svilup­ pando di più quelli più utili o addirittura producendone di nuovi e gradatamente atrofizzando gli altri. Quando queste mutazioni sono abbastanza conso­ lidate in una coppia, esse si trasmettono poi per ereditarietà. Con ciò la bio­ logia prendeva una netta tendenza evoluzionistica, non senza contrasti: accolta infatti da S. Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844), autore di una Filosofia ana­ tomica e teorico del « principio della connessione » (cioè della inalterabilità della posizione reciproca degli organi) e del « principio dell’equilibrio organico » (cioè della compensazione reciproca nello sviluppo dei vari organi), la teoria di Lamarck fu aspramente combattuta dal grande naturalista Georges C uvier (1769-1832), che ad essa contrappose la cosiddetta «dottrina delle catastrofi», cioè la teoria della scomparsa di vecchie specie e la comparsa di nuove nelle varie epoche geologiche. Cuvier dette contributi essenziali all’anatomia compa­ rata e alla paleontologia e basò le sue ricerche su due principi fondamentali: quello della « subordinazione degli organi », vale a dire del ruolo preminente di alcuni organi su altri nella modificazione degli organismi, e quello della « correlazione delle forme », cioè del costante richiamarsi o escludersi reciproco di determinate caratteristiche. E furono questi principi che gli consentirono di ricostruire, da pochi resti, le forme di specie scomparse o sconosciute. La di­ sputa tra Cuvier e Saint-Hilaire fu temporaneamente risolta a favore del primo in una celebre seduta dell’Accademia delle scienze di Parigi nel 1830, ma la tesi evoluzionistica doveva trovare, dopo pochi anni, nuove conferme in In­ ghilterra con Charles L yell (1797-1875) e ricevere infine la più compiuta for­ mulazione con Darwin. Intanto Matthia S chleiden e Theodor Schwann (1810-1882) portavano avanti lo studio delle cellule, sia animali sia vegetali. Nel campo della chimica, infine, importante è l’introduzione dell’ipotesi chimica atomica (anche se gli atomi non sono, come quelli di Democrito, qualitativa­ mente indifferenziati), sulla quale vengono basate le indagini circa le composi­ zioni dei corpi e circa la « legge delle proporzioni definite », che regola i rap­ porti secondo cui i vari elementi si combinano. Oltre agli inglesi Humphry D avy (1778-1829) e John D alton (1766-1844), che indagò la composizione atomica delle molecole delle sostanze elementari e quelle delle sostanze com­ poste, sono da ricordare i francesi Claude-Louis B erthollet (1748-1822), che scoprì le proprietà decoloranti del cloro e il potere detonante del clorato di potassio, e il suo discepolo Joseph-Louis G ay-Lu ssac (1778-1850), che deter­ minò la legge di dilatazione dei gas e quella della loro combinazione, mentre al chimico italiano Amedeo A vogadro (1776-1856) risale la determinazione dell’eguale numero di atomi in eguali volumi di gas, anche diversi. Friedrich Woehler (1800-1882), oltre a scoprire in giovanissima età l’alluminio, ebbe il merito di ottenere sinteticamente una sostanza organica, l’urea, e di porre cosi sullo stesso piano le indagini di chimica organica e quelle di chimica inorganica.

VI LA REAZIO N E A N TIH EG ELIA N A 1. Destra e sinistra nella scuola hegeliana (p. 107) - 2. Feuerbach (p. 112) 3. Herbart e lo psicologismo (p. 115) - 4. Schopenhauer (p. 121) - 5. Kierke­ gaard (p. 130).

1 - Destra e sinistra nella scuola hegeliana. Nel 1830 cioè un anno prima della morte di Hegel, vedeva la luce I caratteri della reazior il primo volume del Corso di filosofia positiva di Augusto Comte e antihegeliani nasceva un movimento di pensiero, il positivismo, destinato ad avere un’influenza profonda sulla vita culturale e sociale dell’Europa nella seconda metà del secolo xix e a sostituire il suo predominio a quello della cultura romantica e della filosofia idealistica. Anche indipenden­ temente, però, dalla filosofia positivistica l’idealismo tedesco e so­ prattutto il pensiero di Hegel suscitano, nei decenni tra il 1830 e il 1860 ed in particolare nella cultura tedesca, tutta una serie di rea­ zioni e di opposizioni, assai varie nelle loro forme e nei loro conte­ nuti, ma egualmente destinate a sollevare problemi che resteranno al centro del pensiero posteriore. Le figure principali, in questo quadro, sono quelle di Herbart, Schopenhauer e Kierkegaard e le questioni toccate riguardano tutti i punti fondamentali della filosofia hegeliana: contro l’identità di reale e razionale, torna ad essere fatta valere la irriducibilità del reale a pensiero e quindi il loro dualismo; contro la dialettica, si insiste sull’impossibilità, per la ragione umana, di ac­ cogliere la contraddizione, sia pure soltanto per superarla; contro il « panlogismo », cioè contro la riduzione a razionalità autocosciente di tutta la vita spirituale (anche della religione e dell’arte) e di tutta la storia delle vicende umane, e contro l’« ottimismo » ad esso con­ giunto, viene rivendicata la realtà di tutta una sfera di vita spirituale irrazionale, oscura e dolorosa; contro lo « schiacciamento » dell’indi-

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La scuola hegeliana: a « destra » « sinistra »

I problemi religiosi

I problemi politici

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viduo ad opera dello Stato, dello Spirito, delPuniversiale, si torna ad insistere sui valori originari e insopprimibili del singolo, sul senso della sua esistenza e della sua responsabilità. Tutti questi fermenti critici sono sviluppati da pensatori che, come quelli precedentemente nominati, sono fuori della scuola hegeliana pro­ priamente detta; ma anche all’interno di questa si producono diver­ genze profonde nell’interpretazione della filosofia del maestro, che danno luogo alla spaccatura della scuola stessa in due tendenze, una « destra » e una « sinistra », come furono chiamate da una dei prin­ cipali esponenti della seconda, David Strauss, in analogia con la de­ nominazione che conservatori e progressisti avevano assunto nel Par­ lamento francese a seconda dei seggi occupati rispetto al banco della presidenza. La spaccatura avviene essenzialmente su due ordini di questioni: l’atteggiamento nei confronti della religione e l’atteggia­ mento nei confronti dello Stato e delle istituzioni politiche, sociali e religiose. Come abbiamo visto (cfr. supra, p. 81) Hegel aveva sostenuto che religione e filosofia non si distinguono per il loro contenuto, ma per la forma in cui lo esprimono, l’una nella forma della rappresenta­ zione e l’altra nella forma del concetto. Nascono da qui due divergenti interpretazioni, l’una tendente a mostrare la sostanziale conciliazione della filosofia hegeliana e delle verità religiose e anzi a giustificare le seconde (e soprattutto la realtà e personalità di Dio e l’immortalità dell’anima individuale) mediante un’adeguata rielaborazione della prima; l’altra tendente invece a mostrarne l’inconciliabilità, a sottolineare l’opposizione tra la trascendenza della religione e l’immanenza della filosofia, e a difendere il concetto di « superamento » che la filosofia realizza rispetto alla religione. In ordine, poi, ai problemi politico-sociali la distinzione tra « con­ servatori » (per lo più i professori universitari, i teologi e gli espo­ nenti della cultura ufficiale dello stato prussiano) e i « progressiti » (i cosiddetti « giovani hegeliani », in polemica con la cultura accade­ mica, avversi alle strutture politiche e sociali e spesso perseguitati dalle autorità) si determina in relazione alle conseguenze che venivano tratte dalle dottrine hegeliane della dialettica e della identità di reale e razionale: per i primi, infatti, lo stato prussiano, il suo assetto eco­ nomico e sociale dovevano essere considerati come il punto di arrivo della dialettica storica e, nella loro realtà, come espressione della

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razionalità dello spirito; per i secondi, invece, la teoria della dialet­ tica implicava l’impossibilità di arrestarsi ad un assetto determinato e la necessità di superarlo negandolo e facendo sì che si realizzasse una più alta razionalità. Gli esponenti principali della « destra » hegeliana furono Her­ mann Friedrich Wilhelm H in r ic h s (1794-1861), Karl Friedrich G o s c h e l (1781-1861), Kasimir C o nra di (1784-1849), Georg An­ dreas G a b l e r (1786-1853), Julius S c h a l l e r (1807-1868), Christian Hermann W e i s s e (1801-1866) e Johann Eduard E r d m a n n (1805-1892); alla «sin istra » appartennero invece David Friedrich S t r a u s s (1808-1874), Arnold R u g e (1802-1880), Bruno B a u e r (1809-1882), che in gioventù aveva appartenuto alla destra, e Max S t ir n e r (1806-1856), senza contare Feuerbach e Marx, di cui ci occuperemo a parte. In una posizione di « centro » tra « destra » e « sinistra », infine, Strauss collocò Karl Friedrich R o se n k r a n z (1805-1879), vicino al quale possono essere ricordati anche Karl Ludwig M i c h e l e t (1801-1893) e Kuno F i s c h e r (1824-1907). Il primo periodo della scuola hegeliana coincide con l’insegnamento di He­ gel ad Heidelberg e a Berlino (1816-1831) e le discussioni, soprattutto su argo­ menti logico-metafisici, che in essa si sviluppano, sono largamente dominate dalla personalità e dalFinsegnamento del maestro, che vi interviene assiduamente con articoli e contributi. Nel 1822 vede la luce l’opera La religione nei suoi rapporti con la scienza dello H inrichs , in cui era sostenuta la tesi della coin­ cidenza di ragione e fede; in una lunga prefazione, H egel tornava sul problema, affermando che se finora era venuta meno la conciliazione di religione e filoso­ fia, la causa andava ricercata nelle astrazioni prodotte dall’intelletto, che da un lato particolarizza l’idea di Dio e dall’altro la priva di ogni, contenuto, come è avvenuto nell’Illuminismo e nella filosofia di Kant. Nel 1827 vengono fondati gli « Annali per la critica scientifica », noti an­ che come « Annali di Berlino » e dedicati a recensire ciò che d’importante ve­ niva pubblicato in Germania nel campo della filosofia, della filologia della let­ teratura ecc. Hegel vi portò alcuni importanti contributi, prendendo posizione rispetto al pensiero di Herbart e agli ultimi sviluppi della filosofia di Schelling. Nello stesso tempo, Hegel scriveva una recensione altamente elogiativa dell’opera Aforismi sul Non-saper e sul Sapere assoluto, del suo discepolo G oschel , destinato a diventare uno degli esponenti più caratteristici della « destra » hegeliana. Tra i contributi più significativi dei discepoli possono essere ricordate due recensioni, una di H inrichs alla Metafisica generale di Herbart e una di R osenkranz alla Fede cristiana di Schleiermacher, che preci­ savano le posizioni della scuola rispetto alle altre correnti di pensiero.

Il primo periodo della scuola hegeliana (1816-31)

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La situazione comincia a mutare con la morte di Hegel, la salita al trono La seconda fase di Federico Guglielmo IV e la nomina di Eichhorn a ministro del Culto e Iella scuola dell’Istruzione: i dissensi latenti tra i discepoli, che l’autorità del maestro era hegeliana

riuscita ancora a comporre, si manifestano sempre più chiaramente, anche in conseguenza dell’accentuato indirizzo reazionario nella politica culturale delle autorità. Comincia così la seconda fase nella vita della scuola, che va dal 1831 al 1839, e che ha al centro la discussione sui problemi della religione. La disputa prende avvio dal problema dell’immortalità dell’anima indivi­ duale, in relazione alla tesi sostenuta da Friedrich R ichter nello scritto La nuova dottrina dell'immortalità, secondo cui era impossibile parlare, dal punto di vista hegeliano, di immortalità dell’anima. In difesa della possibilità di una giustificazione speculativa (in senso hegeliano) dell’immortalità dell’anima e contro le tesi di Richter si espressero i principali esponenti della « destra »: il We is s e , con lo scritto La dottrina filosofica segreta dell’immortalità dell’in­ dividuo umano (e lo stesso autore, in un’opera precedente Sul punto di vista presente delle scienze filosofiche, aveva sostenuto la necessità di elaborare una « teologia speculativa », con cui sintetizzare i concetti di Spirito e Natura nel concetto di Dio e quindi capace di dare una conferma razionale del dogma religioso; da questa posizione prese avvio l’indirizzo dei cosiddetti « teisti speculativi »); il G oschel , autore fra l’altro di un’opera Sulle prove dell’im­ mortalità dell’anima alla luce della filosofia speculativa e di Contributi alla filosofia speculativa su Dio, l’uomo e l’uomo-Dio, che si propose di mostrare l’accordo della filosofia speculativa con le verità religiose e di fornire una giu­ stificazione speculativa (sulla base della dialettica individuale-universale-parti­ colare) delle prove dell’immortalità dell’anima; e il Conradi, che, nello scritto su Immortalità e vita eterna, si muove in analogo giro di idee distinguendo tra immortalità, propria dell’uomo, e eternità, propria di Dio. Nel 1835 vede la luce la celebre Vita di Gesù dello St r a u ss : in essa La rita di Gesù è sostenuto il punto di vista che il racconto evangelico (nel quale Strauss aveva di Strauss già contrapposto la lettera, rappresentata dai Sinottici, e lo spirito, rappresen­ tato dal vangelo di Giovanni), non è storia, ma « mito »; esso non è opera di testimoni oculari né di un vaglio critico delle testimonianze ad opera di contemporanei: come tale, esso non offre il Gesù storico ma il « Cristo della fede ». Il mito evangelico non è però un’invenzione individuale, ma una costruzione poetica popolare, originata dall’aspettazione del Messia, dal fa­ scino della personalità di Gesù e dalla trasfigurazione di fatti reali. In questa opera e negli scritti composti per replicare agli attacchi e alle obbiezioni degli avversari (il Weisse, lo Schaller, il Gabler e il Bauer, tanto per rimanere tra gli hegeliani), Strauss non solo teorizzava la distinzione tra « destra », per la quale la storia evangelica è storia autentica, e « sinistra hegeliana », per la quale la storia evangelica è mito: ma esprimeva la sua tesi della inconciliabilità tra filosofia hegeliana e cristianesimo sotto due aspetti: per il primo, l’unità dell’umano e del divino deve essere pensata non come tale che sia realizzata una sola volta nella storia in una sola persona, come vorrebbe il cristianesimo, ma come realizzantesi in un numero infinito di individui; per ii secondo, se (1831-39)

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è vero che religione e filosofia sono identiche per il contenuto e differenti solo nella forma in cui lo esprimono non può essere conciliato con il pensiero hegeliano il rigido dualismo cristiano tra umano e divino. La « sinistra hegeliana » acquistò un’importanza sempre maggiore negli anni seguenti: ad essa aderì Bruno B auer, passato dalla critica a Strauss a posizioni di estremo radicalismo in materia religiosa fino all’esplicito ateismo; ad essa, infine, dette un contributo fondamentale la pubblicazione, tra il 1838 e il 1843 degli « Annali di Halle per la scienza e l’arte tedesca », diretti da Arnold R uge. Si passa cosi dalla seconda alla terza fase della storia della scuola hegeliana, che va dal 1840 al 1843. La polemica sulle questioni religiose continua ancora negli scritti di Strauss (La fede cristiana nel suo sviluppo e nella lotta con la scienza moderna) e di B auer (La critica dell’evangelo di Giovanni e La critica degli evangeli sinottici), ma l’interesse si sposta gradatamente verso i problemi politico-sociali e giuridici, ad opera per esempio del R uge. Nello stesso quadro si colloca il pensiero di Max Stirner , teorico del più rigoroso individualismo e anarchismo: nello scritto L ’unico e la sua proprietà, egli sostiene che l’« unico », cioè l’individuo nella sua irripetibile singolarità, è il solo valore e la sola fonte di diritto: di qui la negazione della società e di ogni forma di rivoluzione che tenda a sostituire un certo tipo di società con un altro tipo di società e l’esaltazione della libera « associazione » e della « insurrezione » come abbattimento di ogni ordine costituito e di ogni ingerenza politica, religiosa e sociale. Nello stesso tempo, però le posizioni della sinistra hegeliana vengono investite da una critica radicale, che diventa senz’altro, alla fine, una critica alla « filosofia speculativa » di Hegel, ad opera di pensatori come Feuerbach e Marx. Rimandiamo quindi alla trattazione di questi l’esame degli ultimi sviluppi della scuola. Ora è più opportuno considerare brevissimamente gli sviluppi delPhegelismo « ortodosso » intorno alla metà del xix secolo. Nel 1840 vedono la luce le Ricerche logiche di Friedrich Adolph T rendelenburg (1802-1872), che, partendo da una posizione di sostanziale rivalutazione della logica aristo­ telica, contengono una duplice critica alla logica hegeliana, l’una in riferimento alla deduzione delle prime categorie e l’altra in relazione allo scambio, che sarebbe stato compiuto da Hegel, tra « contraddizione logica » e « contrarietà reale ». Contro queste critiche, contro quelle di panteismo e ateismo avanzate dai teologi ortodossi e dai « teologi speculativi » e altre si levarono a difesa vari hegeliani, tra i quali sarà sufficiente ricordare il G abler con la sua opera su La filosofia hegeliana, il R osenkranz e il M ichelet , con due celebri «apolo­ gie » del maestro, I’E rdmann e il F ischer con i loro fondamentali studi storici sulla filosofia moderna. I tentativi di correzione e di « riforma » delle dottrine hegeliane compiute da questi autori ebbero notevole influenza, come vedremo, sull’hegelismo italiano, e soprattutto in Bertrando Spaventa e Giovanni Gentile.

La terza fa della scuola hegeliana (1840-45)

L ’hegelismo alla metà d secolo XIX

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2 -

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Feuerbach.

Se anche per molti aspetti legata alla problematica della « sini­ stra hegeliana », la filosofia di Feuerbach rappresenta qualcosa di di­ verso e di nuovo: la riduzione della religione ad antropologia, la critica radicale della filosofia hegeliana come « religione travestita » e la dottrina delP« alienazione » dell’uomo nella religione sfociano infatti in un « umanesimo » integrale, in una concezione dell’uomo visto non nella sua idealità, ma nella concreta naturalità dei suoi bisogni e della sua sensibilità. Nato nel 1804, Ludwig F e u e r b a c h studia dapprima teologia ad Fleidelberg e quindi ascolta a Berlino le lezioni di Hegel. Nel 1830 prende posizione contro le tesi hegeliane di destra con lo scritto Pensieri sulla morte e sull’immortalità, in cui l’immortalità è negata al singolo e ammessa solo per l’umanità nel suo sviluppo storico. Queste dottrine pregiudicarono definitivamente la sua carriera acca­ demica. Feuerbach si ritira allora a Bruckberg e, dopo una breve pa­ rentesi di insegnamento ad Heidelberg nell’inverno del 1848-1849 (nella nuova situazione creata dai sommovimenti politici di quell’anno), a Rechenberg, dove muore in miseria nel 1872. Le sue opere più im­ portanti sono L ’essenza del cristianesimo e L ’essenza della religione, in cui espone la sua riduzione della religione ad antropologia; le Tesi provvisorie per la riforma della filosofia e i Principi della filosofia dell’avvenire, in cui elabora la sua critica alla filosofia hegeliana e il suo umanesimo. La critica « La religione, dice Feuerbach, è la coscienza dell’infinito », ma 'alienazione ciò non significa coscienza di qualcosa di superiore e diverso rispetto religiosa all’uomo, bensì coscienza che l’uomo ha, non della limitazione (giac­ ché limitazione e nullità sono identiche), ma dell’infinità del suo es­ sere. Certo, l’uomo, come singolo, è e si sente limitato, ma non è né si sente limitato come « specie », e per questo la coscienza che l’uomo ha di Dio è la coscienza che l’uomo ha di se stesso; anzi, con formula molto efficace, Feuerbach scrive che « Dio è Vottativo del cuore cambiato in un presente felice ». Per questo se la religione è « la prima ma indiretta coscienza che l’uomo ha di se stesso » e se, come tale, essa precede (sia nell’esperienza individuale sia nella sto­ ria collettiva) la filosofia, spetta poi alla filosofia spiegare come ciò avvenga, restituendo l ’uomo a se stesso e liberandolo dall’« aliena-

Feuerbach: ita e scritti

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zione religiosa », cioè da quella situazione in cui l’uomo, nell’espe­ rienza religiosa, è fatto estraneo a se stesso. C ’è infatti un modo si­ curo, secondo Feuerbach, per misurare le possibilità dell’attività uma­ na, ed è quello di guardare agli oggetti che essa può raggiungere: « l’oggetto a cui un soggetto è legato da rapporti necessari, essenziali, questo oggetto non è altro che l’essenza propria, ma oggettiva del soggetto ». Ciò significa, per un verso, che l’uomo quando è in un determinato rapporto con un oggetto e ne prende coscienza, prende coscienza, in realtà, di se stesso e che l’uomo non può affermare qual­ cosa d’altro senza affermare se stesso-, per altro verso, quando l’uomo coglie un suo oggetto come qualcosa d’altro e lo cristallizza in questo rapporto di alterità, « aliena » se stesso nell’oggetto, considera come estraneo ciò che invece è suo e appartiene alla sua essenza. Ed è appunto questo che accade nel rapporto religioso, in cui l’uomo aliena se stesso (si tratta quindi di una autoalienazione) in Dio, nella somma delle sue perfezioni, e gli si sottomette, come ad un essere infinita­ mente superiore (donde il fanatismo e il servilismo), senza avvedersi che « l’essere assoluto, il Dio dell’uomo, è l’essere stesso dell’uomo » e che la potenza dell’oggetto sull’uomo non è altro che la potenza della sua intima natura. Pertanto nell’attribuire a Dio l’onniscenza, l’onnipotenza, l’infinito amore e tutte le altre perfezioni, l’uomo non fa che obbiettivare e attuare in Dio le infinite possibilità della sua essenza. Per questo, sostiene Feuerbach, bisogna invertire la posizione reli­ giosa, che fa di Dio il soggetto e dell’uomo il predicato, e conside­ rare invece l’uomo come soggetto e Dio come predicato, nella con­ sapevolezza che conoscere Dio vuol dire, a rigore, conoscere l’essenza dell’uomo, i suoi desideri e i suoi bisogni (come egli vorrebbe essere). Proprio per queste considerazioni, Feuerbach considera il cristiane­ simo, con il suo comandamento dell’amore e della fratellanza e con il suo mistero dell’incarnazione e della passione del Cristo, la forma più alta di religione, pur se non è esente dall’errore e dall’illusione fondamentali di ogni religione. Nella stessa direzione si muove anche la critica di Feuerbach alla La critica filosofia filosofia di Hegel: certo, l’assoluto è da Hegel considerato non tra­ alla di Hegel scendente (come vuole la religione e la teologia), bensì immanente, ma l’essere della logica hegeliana è pur sempre il « pensiero trascenden­ te », il pensiero dell’uomo posto fuori dell’uomo e perciò riproduce

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l’alienazione, rivelandosi, in realtà, come una teologia mascherata: « lo spirito assoluto di Hegel non è altro che lo spirito finito, astratto, estraniato a se stesso, così come l’essere infinito della teologia non è altro che l’essere finito ». Il compito della vera filosofia, invece, non è di riconoscere l’infinito come finito, bensì di riconoscere il finito come infinito; non è quello di porre il finito nell’infinito, ma l’infi­ nito nel finito. L'umanesimo Di qui la critica alla filosofia di Hegel di essere soltanto una li Feuerbach filosofia « speculativa », che non si volge alla realtà, ma risolve il mondo nel pensiero, che « costruisce » il mondo invece di presup­ porlo; di qui anche l’« umanesimo » integrale di Feuerbach: « He­ gel pone l’uomo sulla testa, io lo pongo sui propri piedi ». E l’uomo, che Feuerbach pone al centro del suo umanesimo, è l’« uomo sensi­ bile », l’« uomo naturale », organismo corporeo e non soltanto spi­ rito, nella concretezza dei suoi bisogni, dei suoi desideri e nella con­ tinua tensione per soddisfarli. Onde, non soltanto « la realtà dell’idea è il senso », ma la stessa coscienza, la stessa personalità dell’uomo sono nulla senza la natura, e la natura è corpo, sangue e carne, vita. Questa è l’antropologia che Feuerbach considera la « filosofia dell’av­ venire » e nella sua difesa egli non recede dal trarne tutte le conse­ guenze polemiche: « la teoria degli alimenti è di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in sangue; il sangue in cuore e cervello, in materia di sentimenti e di pensieri: l’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far miglio­ rare il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore. L ’uomo è ciò che mangia ». Ma l’aspetto su cui Feuerbach maggiormente insiste è la necessità naturale del rap­ porto che deve unire l’uomo all’uomo: l’essenza dell’uomo non è esau­ rita dal singolo isolato dagli altri, ma da un io che si sente legato con un rapporto essenziale ad un tu\ e questo rapporto è il fondamento e il criterio non solo dell’amore, e quindi anche della società e della moralità, ma anche dell’attività razionale: « la vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l ’io e il tu ».

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3 - Herbart e lo psicologismo. La polemica antidealistica si manifesta, nel pensiero di Herbart, come una decisa affermazione del « realismo », cioè della dottrina per cui la realtà non è una posizione dell’io ma è una « posizione as­ soluta », del tutto indipendente dall’io, e come un’altrettanto de­ cisa contestazione dell’identità di reale e razionale e del carattere dialettico del pensiero. Nato ad Oldenburg nel 1776, Johann Friedrich H e r b a r t ascoltò i corsi di Fichte a Jena, ma non mancò di esprimere, fin dal 1794, un atteggiamento critico nei confronti della Dottrina della scienza, che ribadì anche negli anni seguenti, estendendolo altresì alla filosofia di Schelling. Durante un soggiorno in Svizzera venne a conoscenza degli scritti pedagogici di Enrico Pestalozzi (1746-1827), che esercitarono un durevole influsso sul suo pensiero. Nel 1805 Herbart fu nominato professore di filosofia e pedagogia a Kònigsberg, dove rimase fino al 1833; in questi anni compose le sue opere principali, e cioè la Pedagogia generale, l’Introduzione alla filosofia, che costituisce una esposizione generale del suo sistema, la Psicologia come scienza e la Metafisica generale. Nel 1833, non essendo riuscito a farsi chiamare alla cattedra dell’Università di Berlino, che era stata di Hegel, passò ad insegnare all’Università di Gottinga, rimanendovi fino alla morte, nel 1841. Herbart definisce la filosofia come « elaborazione dei concetti », nel senso che essa ha il compito di mettere ordine e connessione tra t concetti e le idee fondamentali delle scienze, consentendo così non soltanto di abbracciare complessivamente tutto il sapere umano ma anche di dare maggiore serietà e risolutezza alla nostra vita pratica. Nel definire la filosofia come abbiamo visto, però, Herbart sottolinea che i concetti non devono essere considerati nel loro essere manife­ stazioni o produzioni dell’io: questo scambio della logica e della scienza con la psicologia è una delle caratteristiche peculiari dell’idea­ lismo, il quale, nella sua pretesa di « intuire in una sola volta tutto l’universo », riportando tutte le cose all’io, è simile a quelle specu­ lazioni mistiche che pretendono di vedere tutto in Dio. La filosofia, al contrario, deve volgere il suo sguardo in giro per abbracciare gli oggetti di esperienza, così come essi si presentano. Più precisamente si deve dire che non esistono oggetti propri della filosofia, distinti e

L a reazione antidealistica di H erbart

L a vita e gli scritti

N atura e compito della filosofia: l’elaborazione dei concetti

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L a logica

L ’esperienza e le sue ntraddizioni

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diversi dagli oggetti di altre scienze, perché, a proposito di qualsiasi oggetto, essa ha il compito di sceverare e ordinare i concetti relativi. In tal senso il rapporto tra la filosofia e le altre scienze particolari si configura nel senso che alle scienze particolari spetta l’accertamento dei dati di fatto e alla filosofia l’elaborazione dei concetti che derivano dai dati di fatto, il loro ordinamento e la loro concatenazione: « ogni studio di altra scienza è per ogni aspetto deficiente se non fa capo alla filosofia, così come lo studio della filosofia è molto più deficiente se non favorisce l’interesse per altri studi ». Il modo più generale di elaborazione dei concetti è quello dato dalla logica, che considera in universale la distinzione dei concetti e le forme dei loro collegamenti, secondo i rapporti di opposizione e di subordinazione che li legano nei giudizi e, per mezzo dei giudizi, nel sillogismo. I concetti, per essa, non valgono come oggetti reali e nep­ pure come atti effettivi del pensiero, cioè come prodotti di un’attività che spetta piuttosto alla psicologia studiare nei suoi modi e nelle sue forme. Nelle sue analisi particolari la logica di Herbart è una sostan­ ziale ripresa di quella aristotelica e scolastica ed è esplicitamente pre­ sentata come la propedeutica di tutte le altre scienze, le quali hanno bensì metodi e procedimenti propri, ma tutte presuppongono le re­ lazioni più universali stabilite dalla logica. Herbart è d’avviso che l’esperienza debba essere il punto di par­ tenza di ogni analisi filosofica, di ogni elaborazione di concetti. L ’espe­ rienza, però, sia per ciò che concerne le cose esterne sia per ciò che concerne il nostro io, appare al pensiero come intimamente contraddit­ toria e tale che non può essere assunta come la vera realtà: ogni cosa, infatti, si presenta come « una » cosa, cioè come una unità; se tuttavia cerchiamo di determinare che cosa essa sia, possiamo farlo solo enumerandone le molteplici qualità; un ragionamento analogo è suggerito da altri dati costitutivi dell’esperienza, come lo spazio, il tempo, la causalità, ecc. Un caso particolarmente significativo è poi offerto dal « mutamento » in tutte le sue forme (e Herbart ne classi­ fica tre: il divenire in generale, il movimento spontaneo, che ha la sua causa in se stesso, e il meccanismo, che ha una causa esterna). Il mutamento infatti è il tratto più caratteristico del mondo dell’espe­ rienza. Orbene, quando diciamo che qualcosa muta intendiamo dire che essa diventa, per un lato, « diversa », ma anche, per un altro lato, che essa rimane « identica », o meglio, che in essa, pur mutando, per-

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mane qualcosa di identico, perché altrimenti non avremmo ragione di dire che è la stessa cosa prima e dopo il mutamento. Il concetto stesso di materia, infine, è contraddittorio perché il suo essere « una estensione nello spazio » implica la sua unità ma anche la sua infinita molteplicità e divisibilità. Questa contraddizione non si manifesta però soltanto nell’espe­ rienza del mondo esterno ma altresì nell’esperienza del nostro io: anche qui noi ritroviamo la contraddizione tra l’unità dell’io e la molteplicità delle sue rappresentazioni e determinazioni; troviamo però un’ulteriore e più profonda contraddizione: quando, per esem­ pio, l’io è definito dall’idealismo come autocoscienza, si cade nell’as­ surdo di fare dell’io, cioè di ciò che è sempre e soltanto soggetto di un rappresentare, un oggetto della rappresentazione (l’io oggetto di se stesso) e si apre in tal modo un processo all’infinito: l’io ha coscienza di sé, ma questo « sé », in quanto è lo stesso io, è pur sempre un « aver coscienza » e quindi la formula dell’autocoscienza è traducibile in « una coscienza di un aver coscienza », cioè « di un rappresentare senza rappresentato »: il che è una palese contraddi­ zione. In questa contraddizione dell’esperienza il pensiero non può quie­ tarsi e l’errore della dialettica hegeliana sta appunto nella pretesa di assumere l’opposizione e la contraddizione in quanto tale; è quindi ne­ cessario andare oltre l’esperienza e superare le difficoltà mediante una operazione che Herbart chiama di « integrazione » o « rettificazione » dei concetti e che è simile all’operazione che gli astronomi compiono quando partono dai movimenti apparenti degli astri e, spinti dalle difficoltà che questi sollevano, ne ricercano i movimenti reali. E la metafisica è appunto la scienza a cui spetta questa operazione di in­ tegrazione e rettificazione. La prima e fondamentale opera di integrazione e rettificazione è la distinzione, su cui si basa tutta la metafisica, tra « apparenza » e « realtà ». Con questa distinzione Herbart intende riprendere un mo­ tivo che, nell’antico pensiero greco, era stato tipico della filosofia della scuola eleatica e dello stesso Platone: l’esperienza non è la vera realtà, perché la vera realtà non può essere affetta da quelle contraddizioni che l’esperienza continuamente manifesta; essa è dunque « appa­ renza », ma, proprio per ciò, indica che c’è qualcosa che in questo apparire si rivela, una « realtà » che l’esperienza stessa presuppone.

Dall’esperienzi all’ elaborazion dei concetti

L a metafisica: realtà e apparenza

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I « reali » ; le « vedute accidentali »

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psicologia

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Se la realtà, dunque, deve essere esente da quelle contraddizioni che sono constatate nell’esperienza, essa deve escludere da sé ogni molteplicità e ogni relazione. Ciò non significa che la realtà sia unica, come l’« essere » di Parmenide e l’« uno » di Zenone: analogamente ai pensatori pluralisti pre-socratici, Herbart ritiene che vi siano molte realtà, da lui denominate « reali », ciascuna delle quali è però in se stessa un’unità semplice e priva di relazioni con le altre. La realtà torna così ad essere una « posizione assoluta », cioè completamente sciolta e indipendente dalla molteplicità delle determinazioni qualita­ tive e quantitative, che Herbart, in modo del tutto conseguente, de­ signa come « vedute accidentali »: in altri termini, le molteplici de­ terminazioni che comunemente attribuiamo ad una qualsivoglia realtà, non appartengono a tale realtà in se stessa, ma al nostro pensiero di questa realtà e quindi sono, rispetto ad essa, accidentali. Accidentali, però, non vuol dire arbitrarie, perché non può sussistere dubbio, dice Herbart, circa la validità di ciò che noi fissiamo intorno alla realtà in un « pensare necessario ». Abbiamo già visto come, sul piano dell’esperienza, i concetti di tempo, spazio e movimento partecipino delle stesse contraddizioni del mondo empirico in generale; tuttavia, per spiegare la relazione tra il mondo dei reali e quello delle sue manifestazioni empiriche, dobbiamo ricorrere a concetti « sussidiari » di tempo, spazio e movimento intellegibili, in base ai quali ogni reale diventa il centro di un processo di « autoconservazione » rispetto all’azione degli altri reali che con lui vengono a contatto. L ’esempio più significativo di questo processo di autoconservazione ci è dato da quella realtà semplice che è l’anima umana: di fronte agli stimoli e ai perturbamenti esterni l’anima rea­ gisce mediante le « rappresentazioni », che sono appunto gli atti con cui l’anima riafferma se stessa; e analogamente dobbiamo pensare che accada negli altri reali e nei loro « stati interni ». Deriva di qui l’importanza che la psicologia ha nel sistema di Herbart: essa ha validità di scienza, perché può determinare con esat­ tezza il meccanismo rigoroso che domina le azioni e le reazioni del­ l’anima. Il principio fondamentale della psicologia è infatti espresso da Herbart in questi termini: « le rappresentazioni, compenetrandosi a vicenda nell’anima, che è una, si impediscono in quanto opposte e si unificano in una forza comune in quanto non sono opposte ». Le rappresentazioni, cioè, quando sono opposte, tendono ad annullarsi

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reciprocamente e, quando non sono opposte, esse confluiscono a for­ mare una determinata « tendenza » a rappresentare: si generano così gli stimoli, gli appetiti, la volontà e tutte quelle altre forme dell’atti­ vità psicologica, che erroneamente sono state considerate come « fa­ coltà » originarie dell’anima. Il rigoroso meccanicismo con cui sono considerate le azioni e reazioni dell’anima consente poi ad Herbart di parlare di una « statica » e di una « dinamica » psicologiche e di tentare, secondo un’ipotesi destinata ad avere importanti sviluppi, una loro traduzione in formule matematiche: secondo questa prospet­ tiva le rappresentazioni, anche se soltanto in piccola parte sono pre­ senti alla nostra coscienza in questo istante, si riuniscono e si accumu­ lano in « masse », che costituiscono le caratteristiche psicologiche di un individuo. In questo modo si spiega la formazione del carattere, cioè di una massa di rappresentazioni dominanti, e il prodursi dell’« appercezione », cioè dell’accoglimento da parte di una massa di rappresentazioni preesistenti di nuove rappresentazioni omogenee; e si spiegano altresì l’intelletto, cioè la facoltà di « connettere i pensieri secondo la natura del pensato » e quindi di garantire l’accordo tra pen­ siero e realtà, e la ragione, come « capacità di riflettere e di intendere ragioni e controragioni ». E se la ragione è la massima unificazione delle rappresentazioni, la demenza, al contrario, significa la loro rot­ tura e la loro scissione. In qualche modo analoga alla psicologia è la filosofia della na­ L a filosofia tura: anche qui i termini del problema sono quelli individuati dalla della natura metafisica, e cioè i reali semplici, i loro rapporti accidentali e i loro processi di autoconservazione. Abbiamo così l’« attrazione » e la « re­ pulsione », il compenetrarsi reciproco, o il loro escludersi, di due realtà opposte, cioè delle due forze fondamentali, che, insieme, costi­ tuiscono la materia e di cui la coesione, l’elasticità, il calore, l’elettri­ cità e via dicendo sono i gradi e i modi. Sembrerebbe discendere da questa impostazione una concezione rigidamente meccanicistica e de­ terministica: Herbart, tuttavia, ammette anche, soprattutto in base alla considerazione dei fenomeni organici e biologici, un finalismo della natura, che lo porta a riconoscere, altresì, l’esistenza di Dio, non già come un reale determinato in mezzo agli altri reali, ma come un’in­ telligenza divina che è a fondamento e regola dei rapporti fra i reali. L ’estetica : Un posto di particolare rilievo ha, infine, nel sistema di Herbart a) la teorìa l’« estetica ». Con questo nome egli indica la scienza estimativa, la del bello

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scienza del valutare: rientra perciò nell’estetica tanto la valutazione del bello, o estetica propriamente detta, quanto la valutazione del bene, o etica; e questa unica scienza ha il compito di elaborare i « con­ cetti-modello » o « idee », disponendoli secondo un ordine preciso e depurandoli da ogni elemento soggettivo o mutevole: in tal modo essi potranno costituire il fondamento sicuro delle valutazioni degli uomini. Così, in campo propriamente estetico, l’idea del bello mostra come questo non si identifichi né con l’utile né con il gradevole, ma debba essere ricondotto a ciò che, sul piano oggettivo, « piace o di­ spiace spontaneamente », trovando con ciò espressione stabile nel giudizio estetico. L ’estetica : In sede di analisi etica Herbart individua cinque idee e concetti­ 6) la teoria modello che esprimono le relazioni tra i singoli atti della volontà no­ Iella morale stra e altrui. La prima idea è quella della « libertà interiore », che esprime il consenso dell’atto della volontà con la valutazione dell’atto stesso e l’armonia interiore che ne risulta; la seconda idea è quella della « perfezione », che non esprime una misura assoluta dell’atto della volontà, ma solo una sua valutazione relativa ad altri atti, che ci fa preferire quello che è maggiore dal punto di vista dell’intensità o dell’estensione e così via; la terza idea è quella della « benevolenza », che nasce dal confronto tra la volontà nostra e la volontà altrui e dalla valutazione positiva che si ricava dal soddisfacimento della volontà altrui; la quarta idea è quella del « diritto », che nasce dall’intimo dispiacere che si prova quando si avverte un conflitto tra la volontà propria e quella altrui e quindi dall’esigenza di risolvere tale conflitto; la quinta idea, infine, è quella di « equità » o di « retribuzione », che esprime l’esigenza di eliminare il perturbamento prodotto dalla man­ cata retribuzione di un determinato atto. > pedagogia Queste cinque idee rappresentano, sul terreno della morale e della la religione condotta umana, il culmine di quella « elaborazione dei concetti » in cui abbiamo visto consistere la filosofia in generale; Herbart avverte, però, che sarebbe un grave errore se noi, nel nostro comportamento, ci attenessimo o all’una o all’altra di esse, singolarmente presa, giac­ ché solo tutte insieme possono fornire un criterio adeguato di con­ dotta razionale e morale. La realizzazione di questo obbiettivo è com­ pito della pedagogia, il cui fine è perciò « l’istruzione relativa plu­ rilaterale », cioè aperta a tutti gli aspetti dell’esperienza. La psicolo­ gia con la sua dottrina dell’appercezione indica come questo fine è

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raggiungibile e quali sono i mezzi per educare il carattere di un indi­ viduo, cioè per modificare le masse di rappresentazioni dominanti. Anche la religione, infine, concorre al perfezionamento morale del­ l’uomo, dandogli quella fiducia che deriva dalla fede in un governo provvidenziale del mondo e presentando l’idea di Dio come la sin­ tesi delle idee morali. Nello stesso periodo di tempo in cui Herbart veniva delineando la sua psicologia, fondata su un’elaborazione di concetti che si solleva dal piano della pura osservazione empirica per ricollegarsi ai concetti fondamentali della metafisica, si manifesta in Germania, e sempre come reazione all’idealismo di Fichte e di Hegel, un altro indirizzo di ricerca, che si suole chiamare « psicologismo » e che ha i suoi prin­ cipali rappresentanti in Jacob Friedrich F r ies (1773-1844) e in Fried­ rich Eduard B e n e k e (1798-1834). Comune ad entrambi è la tendenza a ridurre la filosofia a psicologia e a concepire quest’ultima essenzial­ mente come osservazione empirica. E se per il primo l’osservazione psicologica è intesa soprattutto come introspezione e « autosservazione », per il secondo è possibile arrivare, mediante l’induzione em­ pirica, ad una « fisica dei costumi » esattamente analoga alla fisica dei fenomeni naturali. Di qui anche la comune tendenza, contro l’in­ terpretazione idealistica, a « tornare a Kant », ma ad un Kant inter­ pretato secondo il metodo della psicologia e quindi « liberato » dal falso problema della ricerca del fondamento trascendentale della scienza.

Lo psicologismo: Fries e Bene!

4 - Schopenhauer. La reazione antidealistica e, in particolare, antihegeliana si pre­ senta, nel pensiero di Schopenhauer, per un lato come un ritorno a Kant e a Platone e per altro come un recupero di motivi tipici del pensiero indiano e della mistica tedesca. Nato a Danzica nel 1778 da famiglia agiata, Arthur S c h o p e n ­ h a u e r , dopo un periodo giovanile di viaggi in Francia e in Inghil­ terra, studiò all’università di Gottinga, dove ebbe come maestro lo Schulze (cfr. supra, p. 29), che lo indirizzò allo studio di Platone e di Kant. A Berlino ascoltò le lezioni di Fichte e a Jena si laureò

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11 mondo come rappresen­ tazione

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nel 1813 con una tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente-, durante un soggiorno a Weimar si legò di amicizia con Goethe e conobbe l’orientalista Federico Mayer che lo stimolò allo studio della filosofìa indiana. Dal 1814 al 1818 soggiornò a Dresda, attendendo alla composizione della sua opera principale, Il mondo come volontà e come rappresentazione, che vide la luce nel 1819. A parte alcuni viaggi in Italia, dal 1820 al 1832 Schopenhauer insegnò, come libero docente, a Berlino, proprio nel periodo di maggior successo del magistero hegeliano. Questa circostanza certamente acuì il suo astio verso l’idealismo e soprattutto verso Hegel, qualificato come un « ciar­ latano pesante e stucchevole », e verso la sua filosofia, definita come « la più vuota, insignificante chiaccherata di cui si sia mai contentata una testa di legno ». Giudizi non meno negativi espresse del resto sugli altri filosofi contemporanei, da Schleiermacher a Herbart a Fries. Dal 1832 fino alla sua morte, avvenuta nel 1861, Schopenhauer risiedette a Francoforte e dette alle stampe, oltre ad una nuova edi­ zione della sua opera principale, altri scritti, tra cui La volontà nella natura, I due problemi fondamentali dell’etica e infine una raccolta di saggi dal titolo Parerga e paralipomena. La verità, acquisita da tutto il pensiero moderno da Cartesio a Berkeley e soprattutto a Kant e da cui la riflessione filosofica non può assolutamente prescindere, sta nell’affermazione che il mondo non è altro che « rappresentazione », nel senso che esso esiste, nella sua immediata e sensibile concretezza, solo per colui che se lo rappresenta, per il soggetto, ed esiste, appunto, come rappresentazione del sog­ getto. Nella rappresentazione, osserva Schopenhauer, possono e deb­ bono essere distinti due aspetti, che costituiscono le condizioni di ogni conoscenza: il « soggetto », cioè ciò che non può mai essere con­ tenuto di una rappresentazione perché è sempre attività, forma, che si rappresenta qualcosa; e l’« oggetto », cioè il contenuto, la materia della rappresentazione, determinato e particolarizzato, secondo quanto aveva mostrato Kant, mediante le forme a priori dello spazio e del tempo. È distinguendo questi due aspetti costitutivi di ogni rappre­ sentazione che si coglie l’errore dell’idealismo, che pretende di ri­ durre l’oggetto al soggetto, e l’errore del materialismo, che pretende di ridurre il soggetto all’oggetto.

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Spazio e tempo sono forme a priori perché possono essere cono­ L e forme priori sciute anche senza la conoscenza stessa delPoggetto ma non sono le adella sole forme a priori. Schopenhauer, infatti, pone accanto ad esse anche rappresenta, zione; la quella della « causalità », cioè l’intuizione del rapporto causale tra gli causalità oggetti, onde uno di essi è posto come determinante e un altro è posto come determinato: l’« intera esistenza di tutti gli oggetti, in quanto oggetti, rappresentazioni e null’altro, in tutto e per tutto fa capo a quel loro necessario e scambievole rapporto ». Ciò significa che l’azione causale di un oggetto è l’intera realtà dell’oggetto stesso, che quindi non esiste « fuori » della rappresentazione e « oltre » essa. Ciò che viene determinato mediante il principio di causalità, dice Schopenhauer, non è la successione nel « tempo puro », ma una suc­ cessione determinata rispetto ad uno spazio determinato; non è la presenza in un « luogo puro », ma la presenza in un luogo determinato in un determinato tempo: « la modificazione, ossia il cambiamento che sopraggiunge secondo la legge causale, concerne perciò ogni volta una determinata parte dello spazio e una determinata parte del tempo, simultaneamente e insieme; perciò la causalità congiunge lo spazio col tempo ». Già nella sua tesi di laurea, del resto, egli aveva ri­ preso le discussioni sul « principio di ragion sufficiente » sviluppatesi, dopo Leibniz, nella scuola wolffiana (cfr. voi. II, p. 209 e p. 292) e aveva distinto quattro forme della « ragion sufficiente » o « cau­ salità », rispetto alle quali determinare poi anche i rispettivi gruppi di oggetti: 1) la forma del « divenire », cioè la causalità vera e pro­ pria nei rapporti tra gli oggetti naturali; 2) la forma del « conoscere », cioè la relazione tra premesse e conseguenze nei rapporti tra i giu­ dizi e le conoscenze razionali; 3) la forma dell’« essere », cioè la relazione tra le parti del tempo e dello spazio nella concatenazione degli enti aritmetici e geometrici; 4) la forma dell’« agire », cioè il rapporto tra le azioni e i loro moventi. L ’intuizione dei rapporti causali è propria dell’intelletto, che tut­ Il mondo come tavia, per Schopenhauer, non si aggiunge come una diversa e supe­ rappresenta­ riore facoltà di conoscere (quale era ancora in Kant) alla rappresenta­ zione è zione, ma ne è parte; egli parla, anzi, dell’intelletto come unicamente fenomeno una funzione del cervello e stabilisce la sua distinzione dalla sensa­ zione su considerazioni puramente biologiche, che riprende dai fisiologi francesi contemporanei. In quanto intuizione, poi, l’intelletto si distin­ gue dal pensiero discorsivo, dal giudizio della « ragione », che opera

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)al fenomeno al noumeno

Il mondo come noumeno: la volontà

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soltanto su concetti astratti, tanto più astratti quanto più distanti dalle rappresentazioni. Il mondo come rappresentazione è dunque « fenomeno » e, da questo punto di vista, nessuna differenza è possibile tra il sogno e la veglia, se non quella per cui il primo ha minore continuità e coerenza. Per questo Schopenhauer parla del fenomeno non soltanto, kantiana­ mente, come di un’apparenza, come di una rappresentazione che non concerne il noumeno, la realtà in sé delle cose; ma anche come di una illusione, che si frappone tra l’uomo e la vera realtà, come di un « velo di Maya », secondo una metafora tratta dalla filosofia indiana, che copre il volto delle cose e che quindi bisogna lacerare per cogliere le cose stesse nella loro autentica essenza. Questa lacerazione è possibile in quanto l’uomo non è soltanto rappresentazione, fenomeno: non lo è nel senso, già visto, per cui esso è soggetto conoscente e non oggetto di rappresentazione; ma non lo è soprattutto perché egli non è soltanto pura attività conoscitiva, un’« alata testa d’angelo » bensì è anche « corpo »: ora è vero che il corpo è, per un certo aspetto, oggetto di rappresentazione e quindi fenomeno; ma per un altro aspetto esso ci conduce oltre il mondo della rappresentazione. Grazie al nostro corpo, infatti, noi sentiamo di vivere, proviamo piaceri e dolori, avvertiamo, attraverso il moto muscolare, l’interiore sforzo e brama di vivere; in altri termini, il corpo si rivela, intrinsecamente, come manifestazione oggettiva di quella « volontà » che è un « cieco, irresistibile impeto » e che deve perciò essere diffusa e presente in tutta la realtà e anzi costituente la sua più profonda essenza, la sua realtà noumenica. In tal senso, la volontà è la cosa in sé, del tutto diversa dal mondo della rappresentazione; essa non è perciò determinata dalle forme a priori della rappresentazione (spazio, tempo e causalità) e quindi non è individuata, né molteplice e neppure sottoposta a motivazioni o ragioni causali: essa pertanto è infinita, unica in tutti gli esseri, as­ solutamente libera, cieca e irrazionale: è « il nocciolo di ogni singolo ed egualmente del tutto ». Essa si manifesta nella natura inorganica e in quella vegetale, come anche nella parte vegetativa della vita stessa dell’uomo; più in generale, essa appare in ogni cieca forza naturale e nella stessa condotta meditata dell’uomo, dal momento che la dif­ ferenza tra forza cieca e comportamento consapevole « concerne il grado della manifestazione, non l’essenza della volontà che si mani-

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festa ». In una pagina molto significativa Schopenhauer scrive infatti che l’uomo dovrà riconoscere come « più intima essenza », una me­ desima volontà non soltanto in quei fenomeni che sono a lui più simili (ad esempio, quelli che egli osserva negli altri uomini e negli altri esseri viventi), ma anche in quelli che appaiono più diversi e lontani, come « la forza che vive e vegeta nella pianta, e quella per cui si forma il cristallo, e quella che indirizza la bussola verso il polo, e quella che scocca nel contatto fra due metalli eterogenei, e quella che si rivela nelle affinità elettive della materia, come repulsione e attra­ zione, separazione e combinazione, e da ultimo perfino la gravità ». Schopenhauer appare così fortemente influenzato dal clima cultu­ rale del Romanticismo e dèlia stessa filosofia idealistica: tipica, da questo punto di vista, è l’idea che il finito (il mondo come rappre­ sentazione) è solo apparenza e che unica vera realtà è l’infinito (il mondo come volontà). Si spiega inoltre, in tal modo, la presenza nella dottrina di Schopenhauer di una « filosofia della natura », le cui affinità con quella di Schelling sono state spesso sottolineate. La struttura di questa filosofia della natura è data dalla serie di « gradi » in cui via via l’infinita e irrazionale volontà si oggettiva e si fissa: Schopenhauer riprende, in questo contesto, alcuni motivi caratteristici della dottrina platonica delle idee, nel senso che ogni grado è, appunto, un’« idea » in senso platonico, un archetipo o modello eterno, da cui gradatamente emerge l’individualità. Il grado più basso è infatti costituito dalle forze più generali della natura inorganica (solidità, fluidità, ecc.) e quello più alto dall’uomo, in cui la volontà non agisce più come impulso cieco, irrazionale e fatale, bensì secondo motivazioni consapevoli e perciò stesso soggetta ad errore. Il passaggio da un grado più basso ad uno più elevato avviene in quanto la volontà non può mai placarsi e acquietarsi nelle sue pro­ gressive obbiettivazioni: nel mondo della rappresentazione l’unica volontà si individualizza e si particolarizza come fenomeno secondo le forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità; e la « legge naturale » esprime appunto la relazione tra l’idea, in cui la volontà si obbiettiva, e la forma del fenomeno, in cui la volontà si particolarizza. Orbene, « l’unica volontà che si obbiettiva in tutte le idee, mentre tende ad un’obbiettivazione la più alta possibile, depone i gradi più bassi del proprio fenomeno, dopo un loro conflitto, per apparire di tanto più forte in un grado più elevato ».

L a « filosofia della natura » : l’« idea » come oggettivazione della volontà

126 L a volontà universale ;ome cieco e irrazionale processo di autoafferma­ zione

La negazione della finalità 1 pessimismo. L a storia

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Questo elemento del conflitto, attraverso cui la volontà si obbiet­ tiva, è importante, perché mostra l’intima scissione, la lacerazione, il contrasto intrinseco e « doloroso » che sono propri della volontà, e che differenziano profondamente, come vedremo meglio più avanti, il processo delle sue manifestazioni, dal processo dialettico teorizzato da Hegel e che si presentava come una progressiva e ottimistica rea­ lizzazione e attuazione della ragione. Schopenhaeur descrive dunque il processo di obbiettivazione della volontà e delle sue manifestazioni fenomeniche come una continua lotta autodistruttiva: il mondo animale si nutre di quello vegetale, e gli stessi animali si nutrono l’uno dell’altro; da ultimo, « la specie umana ritiene la natura creata per proprio uso e rivela in se me­ desima la lotta e il dissidio della volontà: homo homini lupus ». In questa lotta la volontà universale si presenta essenzialmente come universale « volontà di vivere », e anzi, in generale, dire « volontà » e dire « volontà di vivere » è la stessa cosa: cosicché in ogni mo­ mento della vita e in ogni aspetto del mondo è sempre la stessa vo­ lontà di vivere che si impone e che di ogni mezzo si serve per affer­ marsi ed attuarsi e per conservare gli individui e le specie. Qualunque cosa noi pensiamo e facciamo, credendo di essere li­ beri ed autonomi, è in realtà voluta dalla volontà, che, tramite la nostra individualità, vuole affermare se stessa: è essa che ci illude, facendoci credere che la scelta di un altro essere umano da amare e la generazione di una nuova creatura siano nostri atti liberi e spon­ tanei, laddove è la stessa volontà che per mezzo di questi atti si afferma assicurandosi la continuità della specie; è essa che ci fa cre­ dere bella e degna di essere vissuta una vita che invece non è altro che Pautoaffermazione, attraverso la singola individualità, della vo­ lontà. In questa incessante autoaffermazione la volontà non ha alcun fine da raggiungere: anzi, alla sua essenza appartiene la mancanza di qual­ siasi finalità, « essa è un perenne tendere senza una meta ultima ed ogni meta raggiunta è alla sua volta principio di un nuovo per­ corso, e così all’infinito ». Come tale, la volontà è una perenne ten­ denza all’autosoddisfazione e una mancanza, altrettanto perenne, del raggiungimento di questo obbiettivo, giacché se la volontà potesse veramente soddisfare se stessa cesserebbe, in quel momento, di es­ sere volontà, cioè se stessa: qui sta il fondamento di quel pessimi-

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smo totale che costituisce la caratteristica principale della dottrina dello Schopenhauer. Questo pessimismo si manifesta in modo parti­ colarmente evidente nella concezione della storia, in cui è più mar­ cata l’opposizione con lo storicismo hegeliano: nessun finalismo o provvidenzialismo può essere ammesso ed egualmente ingiustificato è qualsiasi ottimismo che pretenda di riconoscere nell’infinito accadere degli eventi particolari il realizzarsi di un valore universale e l’attuarsi di un progresso. La storia non è dunque razionalità ma « destino », cioè il fatale ripetersi della stessa vicenda, sia pure in modi e forme apparentemente diversi; e rendersi conto di ciò significa per l’uomo prendere coscienza del proprio destino, non rimanere chiuso nell’im­ mediata attualità del presente e liberarsi da quella condizione di son­ nambulismo, per cui non si sa la mattina quel che è successo la notte. Prendere coscienza della propria storia significa per l’uomo, però, soltanto rendersi conto di essere immerso, come semplice strumento, nella eterna, cieca, anonima e dolorosa vicenda della volontà univer­ sale. È tuttavia possibile, per l’uomo, liberarsi da questa vicenda, uscire dai suoi contrasti e dalle sue interne lacerazioni? Schopenhauer indica nell’arte, nell’esperienza estetica, una con­ dizione in cui questa liberazione sembra possibile. La conoscenza scientifica, come quella più immediata o comune, è, come abbiamo visto, conoscenza di oggetti singoli, determinati dalle forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità. Diversa e superiore è invece la conoscenza estetica, che non è conoscenza del fenomeno ma del­ l’idea: tale conoscenza è possibile solo in quanto da un lato si ab­ bandoni il modo consueto di considerare gli oggetti nelle loro rela­ zioni reciproche e dall’altro si impedisca che i concetti della ragione si impadroniscano della coscienza, e si concentri invece tutta la forza del proprio spirito nella intuizione dell’oggetto che ci sta in­ nanzi. Concentrarsi totalmente nell’intuizione, significa dimenticarsi della propria individualità e della propria volontà, e operare così un distacco della conoscenza dalla volontà, liberando la prima dalla ser­ vitù alla seconda. Per questa via l’individuo conoscente diventa sog­ getto puro, « puro occhio del mondo » e « chiaro specchio dell’og­ getto ». In tal modo, ciò che viene conosciuto non è più l’oggetto sin­ golo come tale, ma l’oggetto sciolto da ogni relazione con gli altri og­ getti, cioè l’« idea », l’« eterna forma », e colui che riesce a contem-

L a liberazione dalla volontà: l’arte

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L a liberazione dalla volontà: dalla giustizia alla compassione

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piarla sotto questo aspetto è dimentico di sé, fuori della volontà, del tempo e del dolore. Schopenhauer descrive una gerarchia delle arti, che vanno grada­ tamente elevandosi dall’architettura alla scultura, alla pittura e alla poesia, e al di sopra di tutte pone la musica, che è « oggettivazione e immagine della volontà tanto diretta quanto il mondo, o anzi quanto le idee stesse » e come tale è la più universale di tutte, l’unica capace di narrare « la storia più segreta della volontà ». L ’arte, però, se anche è una liberazione dalla volontà è però una liberazione solo parziale e temporanea, cosicché, a rigore, più che una vera e propria .liberazione dalla vita è una « consolazione della vita ». Come è dunque possibile liberarsi veramente dalla volontà di vivere? Certo questo problema presuppone la soluzione del problema anteriore, e cioè che questa possibilità esista e che quindi l’uomo sia capace, malgrado la coerente negazione della libertà individuale espressa da Schopenhauer, di una iniziativa liberatrice verso quella stessa volontà che vuole strumentizzarlo. Comunque sia di ciò, tale possibilità è di fatto ammessa. Schopenhauer descrive con grande efficacia il carattere « doloroso » della vita umana: volere significa desiderare, e il desiderio implica sempre la mancanza di ciò che si desidera, implica cioè una condizione di insoddisfazione e di dolore. Se questa è la condizione permanente dell’uomo, egualmente negativa è anche ogni soddisfazione di questo desiderio. Il piacere non è altro che la cessazione di un dolore e quindi la premessa di un nuovo desiderio e di un nuovo dolore: « nessun oggetto della volontà, una volta conseguito, può dare ap­ pagamento durevole, che più non muti; ma rassomiglia solo all’ele­ mosina che, gettata al mendico, prolunga oggi la sua vita, per conti­ nuare domani il suo tormento ». Se il piacere è cessazione del dolore, la fine del dolore è anche la fine del piacere che si prova a lenirlo; cosicché se si potesse ipotizzare una totale soddisfazione del desiderio e una completa cessazione del dolore, la condizione permanente sarebbe la « noia », ancora peggiore del dolore stesso. Dei sette giorni della settimana, sei sono colmi di fatica e di dolore e il settimo di noia; e in questa alternativa di dolore e di noia scorre tutta la vita umana. La liberazione da questa alternativa intollerabile non può essere realizzata se non sopprimendo, in se stessi, la volontà di vivere. E

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il primo gradino di tale soppressione è il superamento dell’egoismo, cioè di quella espressione della lacerazione e del conflitto della volontà che si manifesta nella tendenza a soddisfare i propri bisogni calpe­ stando quelli altrui, nell’opposizione e nella sopraffazione degli altri uomini. In questo senso, il superamento dell’egoismo si realizza in­ nanzi tutto come « giustizia ». Questo però non è ancora sufficiente, perché bisogna andare oltre e colpire alla radice quella « illusione del­ l’individualità » su cui poggia l’egoismo. Non basta, in altri termini, considerare gli altri uomini come eguali a sé, perché in tal modo li si considera pur sempre come distinti e quindi « diversi »; ma è ne­ cessario guardare di là dall’individualità e sopprimere ogni distinzione tra la nostra e l’altrui individualità e riconoscere che in tutti preme la medesima volontà. Questo più alto livello è la « bontà », l’amore disinteressato, che si manifesta essenzialmente come « compassione »: conoscere, infatti, il dolore altrui, attraverso il proprio, e ritenerlo pari a questo significa far cadere ogni ragione di preferire sé agli altri o gli altri a sé, e quindi « compatire ». Ma compatire è pur sempre ancora un patire. Per liberarsi com­ pletamente della volontà di vivere è necessario rinnegarla radical­ mente, e questo è possibile solo mediante l’« ascesi », alla cui defini­ zione, nel pensiero di Schopenhauer, concorrono elementi tratti sia dalla speculazione della tradizione mistica tedesca sia dalla filosofia indiana. L ’ascesi comincia infatti quando l’uomo cessa di volere, cioè di indirizzare la sua volontà ad un oggetto qualsiasi, esercita in se stesso la massima indifferenza per ogni cosa e finisce per provare « orrore » per quell’« essere di cui è fenomeno », per quella volontà di vivere che è il nocciolo del mondo riconosciuto pieno di dolore. Il primo gradino dell’ascesi è la perfetta castità, cioè la soppressione di quel fondamentale impulso della volontà di vivere che è l’impulso sessuale alla generazione; seguono poi la povertà volontaria, il digiuno, il sacrificio e infine la morte. Non la morte volontaria, il suicidio, che è anch’essa un’affermazione di volontà, ma la soppressione totale della volontà di vivere, la « nolontà », l’assoluta quiete dell’animo: in una parola, il « puro nulla ». « Quel che rimane, scrive Schopenhauer, dopo la soppressione completa della volontà, è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà di vita. Ma per gli altri, in cui la a

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L ’ascesi e la negazione della volontà

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volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla ».

5 L a protesta antihegeliana di Kierkegaard

L a vita e gli scritti

Kierkegaard.

La reazione antidealistica acquista il senso, nel pensiero di Kier­ kegaard, di una vera e propria « protesta » antihegeliana, cioè della testimonianza di un’esperienza di vita assolutamente antitetica e ir­ riducibile: non la ragione universale, la dialettica delle cose, il dispie­ garsi razionale della realtà e della storia; ma il « singolo » nella irri­ petibile individualità della sua esistenza, la radicale antitesi della scelta che la possibilità apre continuamente di fronte all’uomo, l’angoscia, la disperazione e la fede come categorie fondamentali dell’esistenza umana. Sono questi i motivi di fondo dell’« esistenzialismo » o « filo­ sofia dell’esistenza » di Kierkegaard, che rappresenta perciò un chiaro ritorno, seppure in forme nuove e profondamente originali, a quelle posizioni di irrazionalismo e di valorizzazione dell’esperienza religiosa individuale che lo storicismo hegeliano pretendeva di aver confutato o superato. Nato a Copenhagen nel 1813, Sòren K ier keg a a rd visse la sua fanciullezza sotto la preponderante influenza del clima di rigida religio­ sità della sua famiglia, ricevendone un senso profondo del peccato, reso ancora più tormentoso dal sentimento di un’oscura colpa e di un oscuro castigo incombente sulla sua famiglia (« essa doveva scomparire, can­ cellata come un tentativo mal riuscito dalla potente mano di Dio », secondo quanto scriverà nel Diario). Nel decennio che va dal 1830 al 1840 studia nella facoltà teologica di Copenhagen, allora sotto il dominio intellettuale della filosofia hegeliana, e vi si laurea con una dissertazione dal titolo Sul concetto dell’ironia con particolare riguardo a Socrate, pubblicata nel 1841. Nello stesso anno interrompe, per sua volontà, il fidanzamento con Regina Olsen e matura la sua decisione di rifiutare ogni compromesso mondano e ogni inserimento nella so­ cietà per vivere compiutamente la sua vita individuale. Rinuncia per­ ciò a farsi pastore e nel 1841-1842 si reca a Berlino dove ascolta le lezioni di Schelling, rimanendone ben presto deluso. Tornato a Copen­ hagen, grazie ad una rendita lasciatagli dal padre può dedicarsi com­ pletamente alla riflessione e alla composizione dei suoi libri, trascor-

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rendo i rimanenti anni della sua breve vita senza avvenimenti parti­ colarmente importanti, ove si eccettuino gli attacchi che gli furono mossi sul giornale satirico « Il Corsaro » e la polemica contro l’op­ portunismo e il conformismo religioso che egli condusse nell’ultimo anno della sua vita dalle pagine de « Il Momento », da lui diretto. Morì nel 1833. Tra le sue opere principali basterà ricordare Aut-Aut, di cui fa parte il Diario di un seduttore, e poi II concetto dell’angoscia, La malattia mortale e il Diario, che va dal 1834 alla morte. Il pensiero di Kierkegaard si esprime in una tendenza essenzial­ mente religiosa: in questo senso si può dire che esso indica piuttosto un « orientamento » filosofico che un « sistema » vero e proprio. L ’atteggiamento religioso e l’antitesi radicale tra esperienza religiosa e esperienza mondana maturano assai presto nella sua riflessione e si acuiscono in alcuni momenti della sua vita, che agli occhi del filosofo acquistano un significato emblematico: la morte del padre, la rottura del fidanzamento, la prematura scomparsa di cinque dei sei fratelli fanno balzare in primo piano alla sua attenzione i temi della salvezza e della grazia, della provvidenza e della predestinazione, del rapporto tra il singolo uomo e Dio. Questo orientamento si precisa, altresì, per contrasto con il tipo di risposta che ai problemi dell’uomo viene dalla scienza e dalla filosofia, soprattutto hegeliana. Si tratta di una risposta radicalmente inadeguata e travisante, nel senso che l’errore fondamentale del pensiero moderno, dal cogito cartesiano alla dialettica hegeliana è dato appunto dalla pretesa di « produrre il movimento con il pensiero », di « introdurre il movi­ mento nella logica ». Questa pretesa è priva di fondamento, perché la logica, la riflessione oggettiva, guarda alla sfera dei rapporti neces­ sari e quindi è sottratta ad ogni movimento: non la contingenza e la libertà, ma la necessità (onde Hegel, con piena coerenza, non poteva definire la libertà se non come « necessità che determina se stessa »), non l’esistenza nella sua individua specificità (che quindi non può es­ sere ridotta, come Hegel avrebbe voluto, a « funzione del concetto »), ma l’essenza nella sua universalità costituiscono il terreno della logica, del suo sforzo di determinare l’« inclusione » necessaria del predicato nel soggetto e la « continuità » necessaria dei vari momenti del pro­ cesso razionale. Di qui la vanità della dialettica hegeliana, perché solo « sulla carta » può essere tentata la deduzione del particolare dall’uni­ versale, del molteplice dall’identico e del movimento dall’immobilità.

L ’orientamenti filosofico : esperienza religiosa e razionalismo filosofico'

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Il « singolo » la dimensione della soggettività

L a possibilità e la libertà

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Libertà e necessità, esistenza e essenza rappresentano antitesi incon­ ciliabili; per questo, contro tutti i tentativi di mediazioni e di conci­ liazioni dialettiche, « protesterà in eterno la personalità, la quale ri­ peterà in eterno il suo dilemma immortale: essere o non essere, questo è il problema ». L ’unica alternativa valida alla filosofia hegeliana e al razionalismo moderno consiste pertanto nel porre in primo piano il problema del­ l’esistenza del « singolo » in quanto tale: anche qui Hegel aveva com­ messo l’errore di considerare l’umanità come una specie animale e quindi di valutare la specie come più alta e importante del singolo; ma questo, nella specie umana, non è vero: il singolo, in essa, è più alto e importante del tutto e in ciò consiste il « paradosso » del cristiane­ simo, per il quale « questo singolo uomo, Gesù Cristo, è il vero Dio ». Il singolo, quindi, « è la categoria attraverso la quale l’epoca, la storia, l’umanità devono passare »; nella sua individualità è qualcosa di assolutamente originale e irripetibile e solo tenendo fermo questo punto è possibile confutare ogni forma di immanentismo e di pantei­ smo, cioè di riassorbimento dell’individuale nell’universale, e tenere aperta la possibilità di una trascendenza radicale, di un rapporto per­ sonale e diretto tra il singolo uomo e Dio. E questa visione religiosa (la religiosità B) è da Kierkegaard nettamente contrapposta a quell’altra (religiosità A ), che è tipica della « religione naturale » e della « fede comune », che pretende di salire gradualmente e razionalmente dal finito all’Infinito, dal mondo a Dio. Questa rivalutazione del singolo mette in luce, altresì, la dimen­ sione « soggettiva » della riflessione di Kierkegaard. Ogni singolo in­ dividuo è assolutamente incomparabile con gli altri: tutto il suo mondo interiore ha valore appunto in quanto è il « suo » mondo e l’atto stesso del pensiero non sarebbe pensiero se non scaturisse da un sin­ golo. « La verità, scrive Kierkegaard, è una verità solo quando è una verità per me ». Io posso astrarre da tutto ma non da me stesso e non posso mai dimenticarmi di me stesso, neppure per un istante, neppure quando dormo; per questo, aggiunge Kierkegaard, « non c’è nulla di più grande e di più terribile che esistere in quanto individuo, vivere sotto il proprio controllo, solo nel mondo intero ». La categoria del singolo, la sua esistenza individuale e irripetibile, richiama immediatamente quelle che sono le sue condizioni essenziali, e cioè la « possibilità » e la « libertà ». Il concetto di possibilità è

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tuttavia analizzato da Kierkegaard non nel suo aspetto positivo, ma in quello negativo, non come possibilità di fare qualcosa, di decidersi in un determinato senso, ma piuttosto come possibilità di non fare, di non decidersi; ed appunto questa « possibilità-che-non » determina quella « minaccia del nulla » che dà all’esistenza del singolo una con­ dizione di radicale instabilità, di persistente indecisione e di insana­ bile paralisi onde essa è sempre sospesa tra l’essere e il nulla: ex-sistere significa propriamente e-mergere dal nulla e trovarsi al confine tra l’es­ sere e il non essere: « il possibile corrisponde esattamente al futuro. Il possibile è, per la libertà, il futuro e il futuro è, per il tempo, il possibile ». Da questo punto di vista la libertà si presenta essenzial­ mente come rischio, come problematicità e come incertezza, e la sua caratteristica è quella di procedere in modo discontinuo e per salti. Ancora una volta torna la puntuale polemica contro la filosofia di L a scelta : Hegel: questi aveva parlato, è vero, di una « coscienza infelice », ma au t-au t aveva anche creduto che l’opposizione ad essa intrinseca fosse supe­ rabile dialetticamente in una conciliazione più alta, che include in sé « e » l’uno « e » l’altro opposto {et...et). Ma proprio qui sta l’errore di Hegel: nella vita del singolo l’opposizione si presenta alla sua libertà e alla sua possibilità come un’alternativa radicale, come una « scelta » tra l’uno « o » l’altro dei due opposti (aut...aut). L ’individuo quindi non è quel che è (come la logica e la filosofia pretenderebbero di defi­ nirlo), ma diviene quel che sceglie di essere: il suo inizio, il suo cominciamento assoluto, è un atto di scelta, che è libero e perciò non deducibile e non giustificabile razionalmente. Per questo, non è pos­ sibile un « sistema dell’esistenza ». Nell’opera Stadi sul cammino della vita, Kierkegaard ha rico­ I tre « stadi struito, come sua vicenda autobiografica, le sfere fondamentali del­ dell’esistenza » l’esistenza: quella della dissipazione giovanile, quella del tentativo di entrare nel mondo e di costruirsi una vita famigliare e infine quella del totale impegno per l’esperienza religiosa. Queste tre sfere di esi­ stenza, che Kierkegaard chiama rispettivamente « estetica », « etica » e « religiosa », sono però, in se stesse, assolutamente esclusive l’una dall’altra e tali quindi che si presentano alla libertà dell’uomo come termini di un’alternativa e di una scelta; non sono quindi i momenti di uno sviluppo organico della vita di tutti gli uomini, né il momento suc­ cessivo assorbe in sé e supera il precedente (« come il titolo di com­ mendatore assorbe quello di cavaliere »).

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Lo stadio estetico

Lo stadio etico

Lo stadio religioso

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Lo « stadio estetico » è la forma di vita propria di chi sceglie di vivere attimo per attimo, vagheggiando una vita che non si traduce mai in un programma di impegno per il futuro disperdendosi nel mol­ teplice, nel piacere e nella dissipazione e cercando di fuggire la bana­ lità e la « ripetizione »; le figure umane che meglio lo incarnano sono quella dell’« artista », che vive in un suo mondo di forme poetiche continuamente cangianti, e quella del « seduttore » (il Don Giovanni di Mozart) che rimane celibe per godere di una libertà irresponsabile. Ma la vita estetica si esaurisce in se stessa e termina nella noia e nella disperazione; e la disperazione è appunto il bisogno di una vita diversa, il sentimento della possibilità di una alternativa. Se quindi si vuole spezzare il cerchio magico della vita estetica non bisogna evi­ tare la disperazione, ma anzi sceglierla ed attaccarsi ad essa: « dispe­ randosi si sceglie di nuovo e si sceglie se stesso, non nella propria immediatezza, come individuo accidentale, ma si sceglie se stesso nella propria validità eterna ». Avviene in tal modo il « salto » allo « stadio etico », in cui la vita è dedicata al dovere. Qui l’individuo sceglie il suo posto, il suo impegno nella « generalità »: impegno famigliare, innanzi tutto, e impegno di lavoro; e in secondo luogo sceglie la fedeltà a questo im­ pegno. Per questo la figura che meglio incarna lo stadio etico è quella del « marito ». Nella scelta dell’impegno l’individuo prende su di sé tutte le responsabilità, anche di ciò che è avvenuto di crudele e di doloroso, e non solo rispetto a se stesso, ma anche rispetto alla propria famiglia e all’umanità. In questo senso, Kierkegaard vede nel « pentimento » la conclusione della vita etica e la condizione che schiude la scelta verso lo « stadio religioso ». All’alternativa tra vita estetica e vita etica, descritta in Aut-Aut, fa così seguito l’altra alternativa, non meno radicale, tra vita etica e vita religiosa, descritta in Timore e Tremore. Il simbolo di questa alternativa è Abramo, che riceve da Dio un ordine che sembra in­ frangere ogni legge morale, quello cioè di uccidere il figlio Isacco. Qui il dissidio tra il principio religioso (l’ubbidienza a Dio) e il principio morale (l’amore per il figlio) è totale e Abramo, che ha la fede, sceglie il primo e, per esso, viene salvato proprio nel momento di maggiore angoscia. In quanto rapporto privato tra il singolo e Dio, in quanto in esso non è possibile essere « in compagnia » di altri, la fede implica un

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elemento di incertezza e di rischio: come può essere sicuro Abramo che quello che ha ascoltato è veramente il comando di Dio? Ma è proprio l’urgenza angosciosa di questa domanda che certifica la fede: noi possiamo credere o non credere e sta a noi scegliere; ma è anche vero, alla fine, che non siamo noi che scegliamo Dio, ma Dio che sceglie noi, perché tutto, e quindi anche la nostra scelta, viene da lui. A fondamento della fede sta il sentimento dell’« angoscia », che L ’angoscia e la è costitutivo del singolo in quanto possibilità e libertà: esso è, anzi, disperazione il sentimento stesso della possibilità e come tale è incomparabile con quelle paure e timori che sono determinate da oggetti o situazioni ben definiti. « Nel possibile, tutto è possibile » ed è proprio l’infi­ nità delle possibilità che genera l’« angoscia ». In questo senso il sentimento dell’angoscia è strettamente collegato al peccato e, in primo luogo, al peccato originale. Dio ha creato l’uomo « innocente » e, nello stesso tempo, « libero »; l’innocenza è per lui ignoranza di ciò che è bene e di ciò che è male e la libertà è l’assoluta indetermi­ nazione, l’infinita apertura a tutte le possibilità. La coscienza di questa libertà viene risvegliata dal divieto divino di mangiare il frutto del­ l’albero della scienza del bene e del male, e per cui Adamo perde l’innocenza e muore. Prima Adamo non sapeva e perciò era innocente, ma le parole di Dio lo rendono consapevole di non sapere e quindi di poter sapere: « quanto a ciò che può, egli non ne ha nessuna idea, altrimenti sarebbe presupposto ciò che segue, cioè la differenza tra il bene e il male ». La scelta di questa possibilità di sapere è il « peccato » nel senso che l’uomo si riconosce solo attraverso un atto di ribellione a Dio, afferma se stesso negando Dio; l’uomo non può esistere se non peccando e, d’altra parte, per esistere, non può non peccare. E questa è propriamente l’angoscia, che da un lato non ci consente di chiuderci nel finito e dall’altro ci presenta la salvezza solo come una « possibilità » e un « rischio ». E accanto all’angoscia Kierkegaard parla della « disperazione », come condizione che carat­ terizza il rapporto del singolo con se stesso: essa nasce sia quando il singolo sceglie di essere se stesso, perché si trova insufficiente, sia quando sceglie di non essere se stesso, perché questo è impossibile; e perciò Kierkegaard la chiama la « malattia mortale », non nel senso che uccide il singolo ma nel senso che gli fa « vivere la sua morte ».

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II ; ideali della democrazia radicale e pubblicati soprattutto sul giornale « La Gazzetta Renana »: la censura, la libertà di stampa, il rispetto delle garanzie della democrazia rappresentativa, i privilegi della bor ghesia, ecc. sono i temi della polemica marxiana. La soppressione de « La Gazzetta Renana » spinge Marx ad accentuare la necessità del-

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soggiorno a Parigi Bruxelles

1848

e il

M anifesto

LE TENDENZE FILOSOFICHE N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

l’impegno politico e nello stesso tempo a rimeditarne i problemi teorici. Il maturare di queste esperienze e la lettura di Feuerbach sono alla base del lavoro teorico che Marx svolge in questi anni e che si concreta nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (rimasta inedita fino al 1927). Nel 1844 Marx è costretto a lasciare la Germania e si stabilisce a Parigi, dove in collaborazione con Arnold Ruge fonda la rivista « Annali franco-tedeschi », che però non andò oltre il primo nu­ mero, per il dissidio politico tra i due direttori. Nello stesso tempo Marx entra in contatto con i circoli comunisti in Francia, aderisce al socialismo e stringe con Friedrich Engels un’amicizia e una collaborazione di lavoro destinate a durare fino alla morte. Risalgono a questo periodo Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Intro­ duzione, pubblicata negli « Annali » insieme alla Questione ebraica, e i Manoscritti economico-filosofici del ’44 (pubblicati postumi nel 1932), in cui sono precisate le critiche alla filosofia hegeliana e all’economia classica. Nell’anno successivo Marx, in collaborazione con Engels, compone La sacra famiglia, o critica della critica diretta contro Bruno Bauer e che è la prima delle due opere scritte in polemica contro le dottrine della sinistra hegeliana e di Feuerbach; la seconda" è L ’ideologia tedesca (pubblicata postuma nel 1932), anche questa in collaborazione con Engels, scritta nel 1846 a Bruxelles, dove Marx si era rifugiato dopo l’espulsione per le sue idee politiche da Parigi. A queste due opere sono da aggiungere Le tesi su Feuerbach, com­ poste nel ’45 ma pubblicate da Engels nell’88 in appendice al suo Feuerbach. Sempre a Bruxelles, nel 1846, Marx pubblica in fran­ cese la Miseria della filosofia, risposta alla filosofia della miseria di Proudhon, che mette in luce le differenze profonde tra il « sociali­ smo scientifico » marxiano e le varie forme di « socialismo utopistico ». Frattanto Marx ed Engels vengono stringendo sempre più quella « società di corrispondenza » con i gruppi clandestini dei comunisti, specialmente tedeschi all’estero, che costituisce uno degli elementi della prima organizzazione internazionale del movimento operaio. È da questa fervida e fitta attività teorica e pratica che matura tra il ’47 e il ’48 il Manifesto del partito comunista, scritto da Marx ed Engels per incarico della « Lega dei comunisti » e che rappresenta la carta ideologica e politica del movimento operaio organizzato. Esso comincia con le parole famose: « Uno spettro si aggira per l’Europa,

IL MARXISMO

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il papa e Io zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti te­ deschi si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spet­ tro... Da questo fatto si ricavano due conclusioni. Il comuniSmo è ormai riconosciuto come potenza da tutte le potenze del mondo. È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che alla fiaba dello spettro del comuniSmo contrappongano un manifesto del partito. A tal fine, i comunisti delle più varie nazionalità si sono riuniti a Londra e hanno redatto il seguente manifesto ». La pubblicazione del manifesto, che si concludeva con lo storico appello: « proletari di tutto il mondo unitevi! », veniva così a coincidere con i moti del ’48, che da Parigi si diffusero rapidamente per tutta l’Europa. La coincidenza è rilevata dallo stesso Engels nel proemio che egli scrisse nel 1893 per l’edizione italiana del Manifesto e vi aggiungeva le seguenti consi­ derazioni: « dappertutto quella rivoluzione fu opera della classe operaia; fu questa che fece le barricate e pagò di persona. Solo gli operai di Parigi, rovesciando il governo, avevano l’intenzione ben determinata di rovesciare il regime della borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza dell’antagonismo fatale che esisteva fra la loro propria classe e la borghesia, né il progresso economico del paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse operaie francesi erano giunte al grado che avrebbe reso possibile una ricostruzione sociale. I frutti della rivoluzione furono dunque raccolti, in ultima analisi, dalla classe capitalistica. Negli altri paesi, in Italia, in Germania, in Austria, in Ungheria, gli operai non fecero, dapprincipio, che portare al potere la borghesia... Se, dunque, la rivoluzione del 1848 non fu una rivolu­ zione socialista, essa spianò la via, preparò il terreno a quest’ultima ». Gli avvenimenti del ’48 se costringono Marx ad abbandonare ancht Bruxelles, gli consentono un breve ritorno a Colonia (dove fonda la « Nuova Gazzetta Renana », costretta a sospendere quasi subito la pubblicazione) e a Parigi; ma alla fine deve rifugiarsi definitiva­ mente a Londra, che gli offre asilo e possibilità di studio, fino alla morte avvenuta nel 1883. Sono anni di dura miseria, alleviata dal­ l’affetto della moglie e dall’aiuto economico di Engels; ma è anche il periodo dell’intenso approfondimento degli studi di economia e della redazione delle opere fondamentali, Critica dell'economia politica, del 1859, e II Capitale, di cui il primo volume fu pubblicato dallo stesso Marx nel 1867, mentre gli altri due furono editi postumi da Engels

Il periodo londinese: il Capitale e la Prima Internazional

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nel 1885 e nel 1895. Nello stesso tempo, Marx continua la sua attività di organizzazione del movimento operaio, che si era venuto notevolmente sviluppando in Europa: in Inghilterra con la liqui­ dazione del programma « cartista » e la rinascita delle Trade-Unions; in Francia, con il socialismo libertario di Proudhon e con il « manifesto dei sessanta » (cfr. supra, p. 197 sg.); in Italia, dove l’ideologia maz­ ziniana si scontrava con l’anarchismo bakuniniano; in Germania, dove per influsso delle idee di Lassalle, favorevole alla creazione di un par­ tito operaio contrapposto ai partiti borghesi, veniva fondata quella « Associazione generale degli operai tedeschi », da cui doveva na­ scere la socialdemocrazia tedesca. La necessità di coordinare tutti questi movimenti portava alla fondazione a Londra, nel 1864, della « Asso­ ciazione internazionale dei lavoratori » (la I Internazionale), in cui l’azione di Marx fu di grande rilievo. Le divergenze esistenti tra le varie tendenze e soprattutto le aspre polemiche tra socialisti ed anar­ chici (soprattutto Bakunin) e tra socialisti e repubblicani, esasperate dalle vicende della Comune di Parigi (1871) e della sua repressione (Marx aveva salutato la Comune come espressione delle capacità rivo­ luzionarie del proletariato) portarono, nel 1872, alla fine della I Inter­ nazionale (anche se lo scioglimento formale sarà deciso nel 1876), quando il Congresso dell’Aia, oltre a ribadire la condanna di Bakunin e dell’Alleanza della democrazia socialista, decide il trasferimento della sede centrale a New York. L ’ultimo decennio della vita di Marx fu un periodo di lavoro intensissimo. Nel 1875 Marx pubblica la Critica al programma di Gotha, in cui prende posizione contro le dottrine di Lassalle in occa­ sione dell’unificazione tra l’Associazione operaia tedesca e il Partito socialdemocratico tedesco; ma soprattutto attende febbrilmente al Capitale e la sua salute, malgrado la fortissima tempra, ne fu pro­ gressivamente compromessa. Quando « l’uomo più odiato e calunniato del mondo » morì, Engels osservò: « poteva avere molti avversari ma nessun nemico personale! » 3 - Marx. G li scrìtti giovanili. Marx L ’iniziale adesione di Marx alle posizioni dei giovani hegeliani di e la filosofìa sinistra non è, come si è detto, senza riserve: il rifiuto delle posizioni Hegeliana

della destra, per cui la filosofia è giustificazione degli istituti esistenti

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e pertanto conciliabile con i dogmi religiosi, significa certamente l’esi­ genza di restituire alla filosofia la sua funzione « critica » e rinnova­ trice nei confronti del mondo « come esso è »; ma resta aperto il problema di come questa critica debba essere fondata, per evitare che essa esprima un concetto soltanto soggettivo e quindi velleitario e parziale, come lo stesso Hegel aveva insegnato. Il passaggio dall’ideologia radical-democratica al comuniSmo, av­ venuto nel seno stesso di una concreta battaglia politica e l’acquisita consapevolezza dell’insufficienza di una polemica soltanto dottrinale, mentre da un lato spingono Marx ad un riesame generale delle sue concezioni politiche e ad una loro verifica alla luce di quella scienza dell’economia politica che sempre più chiaramente si andrà configu­ rando ai suoi occhi come l’anatomia della società civile; dall’altro lato gli offriranno i mezzi per elaborare una critica risolutiva delle posi­ zioni teorico-pratiche del « partito del concetto » (la sinistra hegeliana) e della stessa filosofia di Hegel. Lo sviluppo di questi temi è chiaramente visibile negli scritti degli anni 1843-1844, dai due apparsi negli « Annali franco-tedeschi » alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, ed ai Mano­ scritti Già nei primi due scritti è chiaro in Marx il concetto che la « critica » non deve esaurirsi in se stessa (« l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi »), ma in compiti per la cui soluzione esiste un unico mezzo: la « prassi », cioè l’azione rivoluzionaria delle masse, guidate da una teoria che diviene, essa stessa, una forza mate­ riale « non appena si impadronisce delle masse ». Per questa via è possibile, contro l’astrattezza della filosofia hegeliana, delineare una via concreta dell’emancipazione della Germania, che non può ovvia­ mente ridursi all’emancipazione soltanto « politica » (l’unica che la borghesia può concedere perché non tocca le strutture economiche della società), ma deve investire l’assetto economico-sociale: « l’eman­ cipazione politica è certamente un grande passo in avanti, non è però che la forma ultima dell’emancipazione umana entro l’ordine mondiale attuale ». E nello stesso indirizzo Marx esamina la « questione ebraica » (la richiesta, da parte degli ebrei, dell’emancipazione politica e civile), concludendola con la proposizione che « l’emancipazione sociale dell’ebreo è l’emancipazione della società dall’ebraismo ». Contemporaneamente, Marx dà un rilievo del tutto particolare alla critica della religione, che egli definisce, con formula famosa, « l’oppio

Gli « Annali francotedeschi » e problema d emancipazio politica e religiosa

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critica alla ilosofìa del to di Hegel

:omunismo l’economia politica

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del popolo »: la religione infatti è il fondamento universale di giu­ stificazione e di consolazione nei confronti dello stato e della società esistenti. Eliminare la religione, come felicità illusoria, significa volere la felicità reale e l ’esigenza di abbandonare le illusioni sulla condizione del popolo è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni: « la critica del cielo si trasforma così in critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teolo­ gia nella critica della politica ». La critica della filosofia hegeliana viene sviluppata nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico-. Hegel aveva posto al di sopra della società civile lo stato, come unità « etica » del popolo e su questa base aveva giustificato il potere del sovrano, il potere del go­ verno (burocrazia) e il potere legislativo. Ma per questa via Hegel rovescia i rapporti reali e fa dell’Idea il soggetto e dell’uomo, con i suoi bisogni e la sua attività, il predicato. In ciò consiste il suo aprio­ rismo speculativo: i fatti empirici e gli istituti storici non sono presi per quello che sono ma come manifestazioni dell’assoluto, come mo­ menti ideali e necessari dello sviluppo dell’Idea, e pertanto sono inve­ stiti di un « significato » assoluto che essi non hanno e che conferisce alla loro dialettica il carattere astratto di una « totalità » soltanto pen­ sata, malgrado la parvenza di realtà. A quella di Hegel, Marx contrap­ pone una concezione, per molti versi, radical-democratica (sono l’uomo e il popolo che fanno la società e lo stato e non viceversa), la quale ha perlomeno il merito di esprimere in modo palese la contraddizione tipica del mondo moderno tra società e stato, tra economia e politica: « non è da biasimare Hegel, osserva Marx, perché egli descrive l’essere dello stato moderno tale qual è, ma perché spaccia ciò che è come l’essenza dello stato »; in tal modo egli introduce, al posto della « logica della cosa », della razionalità concreta, la « cosa della logica », cioè una razionalità aprioristica scambiata con la realtà. li passaggio di Marx al comuniSmo e al « materialismo storico » (il senso di questa espressione verrà chiarito nel seguito dell’esposi­ zione) può dirsi compiuto nei Manoscritti-, il primo di questi com­ prende le analisi sul salario, sul capitale e il profitto del capitale, sulla rendita fondiaria e sul « lavoro alienato »; il secondo tratta del rap­ porto della proprietà privata e il terzo ancora della proprietà privata, della produzione e divisione del lavoro, del denaro e si conclude con una « critica della dialettica e della filosofia hegeliana in generale ».

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Due sono i punti di maggior rilievo su cui Marx concentra la sua La critica dcg attenzione: il primo è dato dalla critica delle dottrine degli economisti economisti classici classici, nel senso che è falsa la loro pretesa di far passare come eterne quelle che essi considerano le leggi della produzione economica e quindi come immodifìcabile la società che ne risulta; si tratta in realtà di leggi proprie del modo di produzione capitalistico e quindi non solo da questo condizionate, ma anche legate al suo destino, segnato dalle contraddizioni ad esso intrinseche e che implicano la necessità del loro superamento e quindi di un radicale mutamento dei rapporti di produzione. Il secondo punto è costituito dall’analisi del concetto di A lie n a z io n e e « alienazione », esaminato nel capitolo sul lavoro alienato e poi la v o r o a lie n a t ripreso, in funzione antihegeliana, nel capitolo finale. Marx parte, 2 questo proposito, dalle critiche di Feuerbach per mostrare il carat­ tere mistificato della dialettica e del concetto di alienazione in Hegel, nel senso che con l’una e con l’altro Hegel ha soltanto trovato l’espres­ sione astratta, logica, speculativa del movimento della storia, che « non è peranco la storia reale dell’uomo ». E poiché per lui l’essere, l’oggetto, è un ente ideale e il soggetto è sempre coscienza e autoco­ scienza, le diverse forme di alienazione considerate sono soltanto « fi­ gure variate della coscienza e dell’autocoscienza ». Ma Marx non si ferma a questa critica; egli riconosce anche che nella Fenomenologia hegeliana, « nella misura in cui tiene ferma l’alienazione umana — anche se l’uomo appaia soltanto nella figura dello spirito — si trovano nascosti tutti gli elementi della critica, e spesso preparati ed elaborati in una guisa che sorpassa di molto il punto di vista hege­ liano ». Vedremo più avanti altre espressioni, divenute classiche, di questo modo di demistificazione e di riappropriazione, con cui Marx giudica la filosofia hegeliana. Il carattere non mistificato ma reale del­ l’alienazione deve essere cercato nel processo di produzione economico, nella struttura stessa dell’economia capitalistica: « l’oggettivazione si presenta come perdita dell’oggetto... il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui (il lavoratore) riesce ad impadronirsi soltanto con il più grande sforzo... l’appropriazione dell’oggetto si presenta come estraneazione, in modo tale che quanto più oggetti l’operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la si­ gnoria di ciò che egli produce, il capitale ». La critica di Marx rie­ cheggia qui quella di Feuerbach alla religione. Questa alienazione non è opera degli dèi né della natura, ma dell’uomo stesso, del capitalista

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rispetto all’operaio. È necessario, perciò, per superare questa aliena­ zione e consentire l’emancipazione del lavoratore (cioè la riappropria­ zione del suo lavoro e quindi della sua essenza), non già fare di tutti gli uomini dei proprietari, come volevano i socialisti utopisti, ma eliminare la proprietà privata e, con essa, ogni remora al pieno sviluppo dell’uomo: è necessario il comuniSmo, come negazione di quella nega­ zione (dell’uomo) che è la società borghese. E il comuniSmo, in quanto è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, rende possibile all’uomo di « riappropriarsi » della sua reale essenza; è la vera soluzione del contrasto dell’uomo con la na­ tura e con l’uomo, e quindi l’eliminazione del conflitto tra libertà e necessità, tra individuo e genere. Il comuniSmo, come Marx dirà nella C ritic a d e ll’e co n o m ia p o litic a , è compiuto « umanesimo » e compiuto « naturalismo ».

4 - Marx. Dalla « Sacra famiglia » al « Manifesto ». Antropologia materialistica e materialismo storico: con questi nomi si è soliti indicare le posizioni teoriche raggiunte da Marx nelle opere che vanno dalla Sacra Famiglia al Manifesto e in, cui Marx, in collaborazione con Engels, elabora la sua concezione del comuni­ Smo e porta fino in fondo il suo distacco dalle tesi della sinistra hege­ liana e di Feuerbach. Nella Sacra Famiglia la polemica è diretta soprat­ tutto contro Bruno Bauer e nell’Ideologia tedesca essa è estesa anche a Stirner e a Feuerbach: è infatti proprio in questa seconda opera e nelle Tesi su Feuerbach che si opera quella « rottura » con l’« umani­ smo reale » di Feuerbach che rappresenta, per Marx, il passaggio dalla filosofia e dalla ideologia alla teoria scientifica, cioè al materialismo storico e alla « critica dell’economia politica ». Riferendosi, nel 1859, all’Ideologia tedesca, Marx scrive (a proposito di sé e di Engels): « de­ cidemmo di mettere in chiaro, in un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica ». Il punto centrale della polemica contro le tesi della sinistra Coscienza, ideologia hegeliana sta nella convinzione che le « vere catene » degli uomini non e p raxis sono date dalle loro rappresentazioni e dai loro concetti, cosicché, in conseguenza, basti « criticare » e modificare queste rappresentazioni e

.a polemica contro la sinistra hegeliana

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questi concetti per liberarli, ma dalle loro condizioni materiali, cioè dai concreti rapporti di produzione in cui essi vivono: « non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la co­ scienza », scrive Marx n e ll’Id e o lo g ia te d e sc a e ancora nella prefazione di V er la critica d e ll’eco n o m ia p o litic a ribadirà, proprio in riferimento ai risultati raggiunti nell’opera precedente: « nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, neces­ sari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L ’insieme di questi rapporti di produzione costi­ tuisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corri­ spondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo della produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza ». Orbene, il fatto proprio di ogni ideologia è quello di rappresentare come capovolto questo rapporto e di argomentare come se le forme materiali di vita degli uomini, il loro « essere sociale », dipendessero dalla loro coscienza. In luogo di essere una zona « privilegiata » dell’uomo, un dato originario e a p rio ri che può essere colto nell’immediatezza « privata » della propria interiorità, la coscienza è essa stessa un prodotto storico e come tale dipendente dallo sviluppo dei modi di produzione. « La divisione del lavoro, scrive Marx, diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro men­ tale. Da questo momento in poi la coscienza p u ò realmente figurarsi di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realm en te qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la « pura » teoria, teologia, filosofia, mo­ rale, ecc. ». Ecco perché una critica puramente intellettuale, che ritenga sufficiente muoversi sul solo terreno della « lotta delle idee » e che quindi risolve tutto nell’autocoscienza, è puramente ideologica e non adeguata a far presa sulla realtà, laddove solo la p r a x is umana, cioè la concreta azione rivoluzionaria (che è teoria e pratica insieme), investendo le condizioni reali di vita, può modificare queste e quindi

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Gli individui reali e le loro romlizioni materiali

La divisione del lavoro e le lorme storiche della proprietà

Struttura e sovrastruttura

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anche il modo di pensare degli uomini: « non la critica, ma la rivo­ luzione è la forza motrice della storia ». Torneremo più avanti sui concetti di « struttura » e « sovrastrut­ tura », ma intanto è opportuno ribadire che il « presupposto » da cui Marx dichiara che deve procedere la ricerca è costituito dagli indi­ vidui reali, dalla loro azione e dalle loro condizioni materiali di vita, sia quelle che essi hanno trovato già esistenti sia quelle che essi stessi hanno contribuito a produrre. La soddisfazione dei bisogni più elemen­ tari per vivere implica già una produzione. « Si possono distinguere gli uomini dagli animali, avverte Marx, per la coscienza, per la reli­ gione, o per qualunque altra cosa si vuole, ma la distinzione vera degli animali comincia solo quando essi cominciano a « produrre » i loro mezzi di sussistenza e quindi, indirettamente, la loro stessa vita ma­ teriale ». Questo fatto e l’aumento della popolazione (con la connessa comparsa della famiglia e di una primitiva organizzazione sociale) creano altri bisogni e quindi la « divisione del lavoro », cioè del la­ voro industriale da quello agricofo (con la connessa separazione di « città » e « campagna »), del lavoro commerciale da quello indu­ striale, del lavoro intellettuale da quello manuale. In questo senso si può dire che « i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà ». La prima forma di proprietà è la proprietà tribale, a cui segue quella della comunità antica e dello stato, che ha origine dall’unione di' più tribù in una città. Terza forma è la proprietà feudale, in cui all’organizzazione feudale del possesso fondiario nella campagna corrisponde nelle città la propriev.à corporativa e da cui si sviluppa la borghesia per la formazione dell’industria e del capitalismo. Ora, ciò che è caratteristico di questo sviluppo è che in esso la « produzione delle idee e della coscienza » è direttamente intrecciata con le forme di produzione economiche e con le relazioni « materiali » degli uomini tra loro: anzi la prima appare una « diretta emanazione » delle seconde. Ne consegue, in primo luogo, che, in ogni epoca, le idee delle classi dominanti (che dispongono cioè dei mezzi della pro­ duzione materiale) sono le idee dominanti: « le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee »; in secondo luogo, la religione, la metafisica, l’arte e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, conservano solo una

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parvenza di autonomia: « esse non hanno storia, non hanno sviluppo, scrive Marx, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero ». In questi termini si chiarisce il rap­ porto che Marx pone tra « struttura » economica e « sovrastruttura », cioè politica, diritto, religione, morale, filosofìa, ecc. La dipendenza della sovrastruttura dalla struttura non va però intesa in modo mec­ canico e immediato, ma storico e dialettico, perché in primo luogo l’uomo, che è determinato dalle condizioni economiche in cui vive, trasforma con la sua attività reale queste condizioni; e in secondo luogo, quando i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive esistenti, allora anche le sovrastrutture entrano in contraddizione con i rapporti esistenti, pur potendo ancora soprav­ vivere. La condizione reale di questo rapporto tra struttura e sovrastrut­ tura sta nella divisione del lavoro, di cui abbiamo già visto il ruolo che Marx le assegna nello sviluppo delle forme di proprietà. Ed è la divisione del lavoro la ragione del fatto che l’attività spirituale e quella materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo, toc­ chino ad individui diversi; non solo, ma è sempre su di essa che trovano fondamento la ripartizione « ineguale », sia per quantità sia per qua­ lità, del lavoro e dei suoi prodotti (cioè la proprietà) e quella contraddi­ zione tra l’interesse del singolo e l’interesse collettivo, da cui emerge lo «stato », come interesse collettivo autonomo e separato dai reali in­ teressi singoli e generali, ai quali viene imposto come qualcosa di estraneo e indipendente. La divisione del lavoro, infine, offre anche il primo esempio del fatto che fintanto che essa sussiste, « l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata ». Torniamo così a quel motivo dell’alienazione o, come anche dice Marx con termine hegeliano, alla « estraneazione », da cui l’emancipazione è possibile solo abolendo la divisione del lavoro e instaurando il comuniSmo: « il comuniSmo per noi, scrive Marx, non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comuniSmo il movimento reale che abolisce lo stato pre­ sente ». Le condizioni di questo movimento reale sono le contraddi­ zioni, tipiche della società capitalistica, tra rapporti di produzione e forze produttive, tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e il 14 - Giannantoni, III.

L a divisione di lavoro e la società capitalistica

II m aterialism sto rico

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caraitere sociale dei beni prodotti, e quindi l’antagonismo storico tra la classe dominante (la borghesia) e la classe operaria. Questa, nelle sue grandi linee, quella che viene comunemente designata come « la concezione materialistica della storia », il « materialismo storico », di Marx: non astratta teoria, ma analisi reale delle condizioni materiali (cioè economiche) dello sviluppo sociale e quindi strumento pratico per modificarle: « ed in realtà per il materialista pratico, cioè per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di mettere mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo ». Da questo punto di vista, Marx può non solo formulare compiutamente le sue critiche alP« idtologia » della sinistra hegeliana (soprat­ tutto Bauer e Stirner), ma anche misurare la distanza che ormai lo se­ para dalla dottrina di Feuerbach e da quella dei cosiddetti « socialisti utopisti ». Per quanto concerne Feuerbach, neWIdeologia tedesca e nelle Tesi, Marx insiste soprattutto sul fatto che egli (come del resto tutto il materialismo passato) ha considerato l’oggetto del pen­ siero. la realtà, il sensibile solo come « oggetto » e non come « attività sensitiva umana », cioè come « prassi ». Egli, in altri termini, resta sul terreno della reoria e quindi all’astrazione « uomo » (in questo senso Marx dice che il materialismo e Feuerbach hanno, come punto di vista, la società borghese) e non riesce a cogliere gli uomini reali, nella loro connessione sociale, e neppure il mondo sensibile come l’insieme del­ l’attività sensibile vivente degli individui che lo formano: « fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista ». Ciò spiega anche il limite della sua critica religiosa: l’analisi della alienazione religiosa porta infatti, in lui, ad una distinzione di due mondi, il mondo religioso, rappresentativo, e il mondo reale; ma non si avvede che la loro contraddizione non può essere superata se non si vede questa duplicazione come conseguenza di una contraddizione più profonda che è propria del mondo reale (l’alienazione religiosa come sovrastruttura dell’alienazione economica). Il sentimento reli­ gioso è un « prodotto sociale » e non c’è nessuna « essenza umana », data una volta per tutte, a cui ricondurlo. Il punto decisivo, dunque, resta il concetto di prassi rivoluzionaria (il cosiddetto « rovescia­ mento della prassi »); in questo senso Marx dice che la questione se il pensiero giunga alla verità oggettiva è pratica e non teorica, perché solo nella pratica l’uomo può provare la realtà, potenza e positività del

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suo pensiero. E le Tesi si concludono con la frase famosa: « I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo, ma si tratta di cam­ biarlo ». Quanto a Proudhon, Marx non solo lo colpì con pungente ironia, Marx, Proudhon e il dicendo che in Francia aveva il diritto di essere un cattivo economista socialismo perché passava per un buon filosofo tedesco, mentre in Germania aveva utopistico il diritto di essere un cattivo filosofo perché passava per uno dei più quotati economisti francesi; ma attraverso una minuziosa analisi delle dottrine economiche giudicò che gli vedesse il processo alla società « dal punto di vista e con gli occhi del piccolo contadino (e in seguito del piccolo borghese) francese », che considera la proprietà un furto dovuto all’egoismo di pochi. In sostanza, in Proudhon e negli altri socialisti utopisti al posto dell’analisi dei processi economici e sociali reali troviamo un confronto tra la realtà e un ideale (quello di « una borghesia senza proletariato ») e la condanna della prima in nome del secondo: che è, appunto, il modo tipicamente idealistico di interpre­ tare, e soltanto interpretare, il mondo. Ciò che occorre è non una « filosofia della miseria », cioè una teoria astratta, ma un’analisi mate­ rialistica, da cui risulterà anche la « miseria della filosofia », di ogni filosofia astratta. La critica delle varie forme di socialismo precedente (piccolo­ Il Manifesto: di clas borghese e utopistico), ricondotte alle loro reali matrici di classe, lotta e comuniSmo occupa buona parte del Manifesto. In questo scritto Marx ed Engels, nel delineare la piattaforma teorica e strategica del movimento comu­ nista, svolgono sostanzialmente due concetti: il primo è che la storia di ogni società è storia delle lotte di classe e che la forma attuale di tale lotta, tra borghesia (di cui pure è riconosciuto l’alto valore rivoluzio­ nario e progressista nella lotta contro il feudalismo) e proletariato, è conseguenza della contraddizione tipica dei rapporti economici capita­ listici; il secondo è che lo sbocco inevitabile di tale lotta è la soppres­ sione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la costruzione di una società comunista, ad opera del proletariato, di cui i comunisti sono parte integrante e avanguardia cosciente. E con la società comu­ nista è soppresso lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo: « al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antago­ nismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è condizione per il libero sviluppo di tutti ».

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5 - Marx. Dal « Manifesto » al « Capitale ». La teoria ientifica del :ialism o: la dialettica

I] periodo che va dalla pubblicazione del Manifesto e dall’inizio del soggiorno londinese alla morte è quello in cui Marx elabora in modo analitico la sua teoria scientifica dello sviluppo della società. L ’economia politica, in quanto offre l’« anatomia » della società, è appunto la scienza che dà fondamento a tale teoria: per questo la « critica dell’economia politica » è nello stesso tempo critica della teoria economica borghese e critica del sistema borghese capitalistico di produzione. Essa è certamente uno sviluppo di quella concezione materialistica della storia che abbiamo visto nel paragrafo precedente, ma è anche qualcosa di nuovo«e specifico. Spesso si è espresso questo fatto contrapponendo il « materialismo dialettico » del Capitale al « materialismo storico » degli scritti precedenti. Non è dubbio, certa­ mente, che nel Capitale noi assistiamo ad un recupero, dal nuovo punto di vista, della dialettica ed è Marx stesso a dirlo quando, nel « po­ scritto » alla seconda edizione, osserva: « per il suo fondamento, il mio metodo dialettico, non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l’opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente con il nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell’idea o processo del pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tra­ dotto nel cervello degli uomini ». E ricorda quindi la sua critica al lato mistificatore della dialettica hegeliana compiuta nei Manoscritti e poi la sua reazione al modo in cui essa era tradotta dagli epigoni hegeliani. « Per questo, aggiunge, mi sono professato apertamente scolaro di quei grande pensatore, e ho perfino civettato, qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampia­ mente e consapevolmente le forme generali del movimento della dia­ lettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico ». La dialettica infatti è critica e rivoluzionaria per essenza e il suo nocciolo razionale sta nel fatto che essa « nella comprensione positiva dello stato di cose esi­ stente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso ». Tornano così i temi della « totalità organica », del supera-

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mento che è anche conservazione e tesaurizzazione, della continua storicizzazione delle astrazioni scientifiche e altri tipici motivi dialettici di evidente origine hegeliana. Questo metodo dialettico non è però qualcosa di estrinseco, che viene applicato all’esterno e a priori alle cose: esso è valido in quanto è dialettica la natura stessa degli oggetti studiati e quindi il materia­ lismo dialettico non è un’aggiunta o un’integrazione del materialismo storico, ma sta con questo nello stesso rapporto in cui abbiamo visto essere la scienza dell’economia politica con il materialismo storico. Donde l’impossibilità di separare, o addirittura di contrapporre, il Marx filosofo e il Marx economista. 1 punti della dottrina economica marxistica, che in questa sede meritano di essere considerati più da vicino, sono la teoria del valore e la legge di sviluppo dell’economia capitalistica. La teoria del valore ha i suoi precedenti non solo nei cosiddetti socialisti utopistici, ma anche nei teorici dell’economia classica e soprattutto in Ricardo e noi abbiamo già avuto occasione di ricordare (cfr. supra, p. 194 sgg.) come essa avesse avuto sviluppi « socialistici ». Marx comincia la sua analisi dalla « merce », dal cui insieme risulta la ricchezza della società; orbene la merce è, in generale, un oggetto esterno, una cosa, che, in virtù delle sue proprietà, è in grado di soddisfare un bisogno; la sua utilità, perciò, fa di quella cosa un « valore d’uso ». Ma dal « valore d’uso » è necessario distinguere il « valore di scambio »: i valori d’uso, dice Marx, costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, a prescin­ dere dalla forma della società; ma nella società capitalistica i valori di uso si presentano come i portatori materiali del valore di scambio, cioè di quel valore in base al quale si determina il rapporto quanti­ tativo, la proporzione, in cui il valore d’uso di una certa specie (per esempio uno staio di grano) si scambia con il valore d’uso di un’altra specie (per esempio due braccia di seta). Poiché, però, una merce può essere scambiata con molte merci il suo valore di scambio deve essere qualcosa di distinguibile dai modi in cui viene scambiata: se scambio uno staio di grano con due braccia di seta, ciò vuol dire che una determinata quantità del primo è equi­ valente ad una determinata quantità della seconda. Ma cosa stabilisce questa equivalenza? Che cosa è questo quantum identico che esiste in due cose diverse e che le rende scambiabili in determinate propor­ zioni e non in altre? Esso non può essere dato dal valore d’uso, che

L ’economia politica di M arx: la teori: del valore (valore d’uso e valore di scambio)

L ’equazione valore-lavoro

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forza-lavoro ne merce e il l plusvalore »

Il lavoro ilienato e la legge di sviluppo ell’economia capitalistica

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riguarda la qualità e non la quantità della cosa, che è invece qui in questione: « ora, se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, non rimane loro che una qualità, quella di essere prodotti di lavoro ». Ciò significa che il valore (di scambio) di una merce è dato dalla « quantità di lavoro sociale occorrente a produrla » (lavoro sociale, e non lavoro del singolo, perché il lavoro di un inesperto, essendo maggiore di quello di un esperto, aumenterebbe il valore della merce prodotta, il che è assurdo). Questa equazione valore-lavoro richiede però un ulteriore appro­ fondimento: anche il lavoro, infatti, dal punto di vista economico è una merce (e in questo senso Marx preferisce parlare di forza-lavoro), una merce che il suo proprietario, il « proletario », vende, in cambio del salario, al « capitalista ». Orbene, il capitalista paga « giusta­ mente », con il salario, la merce che‘acquista, cioè la paga in modo ade­ guato al suo valore, che è dato, come per ogni altra merce, dalla quantità di lavoro necessario a produrla, cioè dal valore dei mezzi di sussistenza necessari a tenere in vita il lavoratore. Ma la forza-lavoro è uns merce particolare, nel senso che essa non soltanto è un valafe, ma « produce valori » e ciò fa sì che la forza-lavoro « cristallizztìfF» nel prodotto abbia un valore superiore a quello del salario pagato dal capitalista: si realizza così quel « plusvalore » che il capitalista intasca e che produce l’accrescimento e l’accumulazione del capitale. Da questa « mercificazione » deriva anche l’alienazione del la­ voro che nel Capitale torna ad essere indicata come una condizione storica e non come una figura speculativa: « non è l’operaio che ado­ pera i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che adope­ rano l’operaio... lo consumano come fermento del loro processo vitale; e il processo vitale del capitale consiste solo nel suo movimento di valore che valorizza se stesso ». Prende così l’avvio l’analisi della legge di sviluppo dell’economia capitalistica. Marx dopo aver distinto due forme di capitale, il « capitale variabile », destinato all’acquisto della forza lavoro, e il « capitale costante », investito nei mezzi di produ­ zione (macchinari, ecc.), rappresenta il processo di produzione capita­ listico con la formula « D-M-D1 », dove D è il denaro speso per l’acquisto di M, cioè della merce (sia la forza-lavoro sia i mezzi di produzione), e D 1 è il denaro guadagnato, che deve essere maggiore del denaro speso (altrimenti il processo produttivo finisce) e che sarà maggiore in virtù del plusvalore che il capitalista non paga. Ma il

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plusvalore non è neppure (almeno in buona parte) consumato: esso deve essere reinvestito per non soccombere alla concorrenza. Di qui la necessità del processo di espansione capitalistica, e della sua progressiva concentrazione in poche mani; ma anche delle crisi con cui il capitalismo si difende: l’espansione e l’accumulazione capitali­ stica, infatti, provocano un aumento dei salari e una parallela riduzione del capitale variabile da cui deriva il plusvalore, cioè il profitto; a ciò il capitalista reagisce introducendo nuove tecniche produttive e nuove macchine e quindi diminuendo la domanda di forza-lavoro, creando disoccupazione e cercando di ristabilire quindi l’equilibrio tra salari e plusvalore, tra capitale variabile e profitto. Ma questo saggio di profitto non elimina del tutto la crisi: am­ messo infatti che il capitalista riesca a mantenere inalterato il capitale variabile destinato ai salari e perciò a conservare il plusvalore, egli è tuttavia costretto ad accrescere il capitale costante destinato ai mezzi di produzione: ciò significa che diminuisce il « profitto » che è co­ stituito dal rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale, sia variabile sia costante; certamente il capitalista ha strumenti per correggere questa « tendenza » (aumento dello sfruttamento del lavoro, riduzione del salario, ecc.), ma ciò non toglie il valore, « tendenziale » appunto, alla legge di caduta del saggio di profitto. Se queste sono le caratteristiche del processo di produzione capita­ listica, allora è evidente la sua contraddizione oggettiva, indipendente dalla volontà dei singoli, soggetta ad aggravarsi sempre più e perciò destinata ad esplodere e quindi ad essere eliminata solo mediante la eliminazione delle strutture capitalistiche: la contraddizione è data dal ratto che il capitalismo non può sussistere se non mediante il la­ voro salariato; ma il lavoro salariato porta con sé la nascita e la con­ centrazione del proletariato, cioè della classe sociale storicamente anta­ gonista al capitalismo perchè oggetto dello sfruttamento (secondo il classico schema signoria-servitù), e quindi destinata ad abbatterla: « la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili con il loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatoti vengono espro­ priati! » In altri termini, la contraddizione fondamentale si apre tra la proprietà dei mezzi di produzione, da cui deriva la divisione della società in classi, e il sempre più accentuato carattere sociale della pro-

La caduta tendenziale d saggio di profitto

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contraddi zion oggettiva del economia capitalistica

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capitalismo come forma storica di eduzione : la sua fase estrema

i « politica » di Marx

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duzione. Ciò significa che i rapporti sociali, che sono instaurati dalle forze produttive in vista del proprio sviluppo, dopo aver consentito il massimo sviluppo delle forze produttive stesse, ad un certo punto le ostacolano ed entrano con esse in contraddizione; di qui il ca­ rattere oggettivo e inconciliabile della lotta di classe e la necessità storica della soppressione del capitalismo e della rivoluzione socialista; necessità dialettica, perché la contraddizione intrinseca del capitalismo è la premessa stessa della sua eliminazione. II capitalismo non è pertanto la forma assoluta e immodificabile della produzione, come volevano gli economisti classici, ma è una forma storica e perciò transeunte di produzione. Da questo punto di vista Marx non solo critica la distinzione fatta dall’economia classica tra leggi (naturali) di produzione dei beni e leggi (sociali) di distri­ buzione dei beni prodotti e tutte riduce a leggi sociali, cioè a prodotti storici, ma ne trae un’ulteriore conferma all’avvento della società socialista. Il capitale finanziario e la società per azioni, con la connessa assunzione delle funzioni imprenditoriali, prima svolte dal capitalista, ad opera del tecnico dirigente, che non è un proprietario ma un sala­ riato, mostra che siamo in presenza della fase estrema del capitalismo, così come, avverte Marx, l’assunzione delle funzioni giudiziarie e am­ ministrative ad opera di funzionari stipendiati diversi dai proprietari terrieri segnò la fine dell’età feudale. Su questa analisi economica si fonda altresì la « politica » di Marx. Anche qui il motivo di fondo è il legame tra' struttura economica e sovrastruttura politica e nel Manifesto leggiamo che « il potere sta­ tale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese ». Perciò Marx, pur lodando lo stato liberale-rappresentativo perché meglio mette in luce il carattere clas­ sista dell’organizzazione statuale e quindi favorisce la lotta di classe, ribadisce che l’emancipazione del proletariato non può avvenire sul solo terreno politico. Certo: il proletariato deve acquistare (e que­ sto è il compito dei comunisti) una « coscienza di classe », deve porsi come nuova classe dominante e sostituire la sua « dittatura » a quella della borghesia. Ma intanto la dittatura del proletariato sarà la dit­ tatura della stragrande maggioranza su una piccola minoranza di capitalisti espropriati, e poi, soprattutto, nella società comunista, eliminata la divisione in classi, sarà destinato a finire anche il potere

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del proletariato come classe e quindi il pubblico potere perderà il suo carattere « politico ». Democrazia diretta e autogoverno popolare, attraverso lo stru­ mento tecnico-scientifico (e non politico) della pianificazione economica (contrapposta all’anarchia e all’egoismo della produzione capitalistica fondata sul profitto) sono quindi i cardini di una visione « antipoli­ tica » che Marx contrappone allo stato « politico » liberale-rappresen­ tativo in cui le libertà sono solo « formali », perché devono ricoprire la sostanziale diseguaglianza economica. La società socialista sarà perciò la società della libertà vera, reale, quella società di eguali in cui ciascuno darà secondo le sue capacità e riceverà non secondo i suoi meriti, ma secondo i suoi bisogni. 6 - Engels. Figura di rilievo indubbiamente minore, sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista politico è quella del grande amico e collaboratore di Marx, Friedrich E n g e l s (1820-1895), di cui abbiamo già ricordato la partecipazione alla redazione di alcune opere di Marx e alla quale egli certamente portò la sua competenza di econo­ mista, dimostrata dai suoi scritti Lineamenti di una critica dell’eco­ nomia politica, destinati ad essere pubblicati negli « Annali franco­ tedeschi » di Marx e Ruge, e La situazione della classe operaia in Inghilterra pubblicata nel 1845. Gli altri scritti di Engels sono poste­ riori di un trentennio e più: nel 1878 infatti pubblica L 'Antiduhring, che c uno scritto volto per intero alla polemica contro il filosofo posi­ tivista e socialista borghese Diihring (cfr. supra, p. 191); a questo segue L ’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, abbozzo di storiografia materialista delle fasi primitive dello sviluppo della civiltà e della società, problemi di cui già Marx e lo stesso Engels si erano occupati, ma che ora tornavano di attualità a seguito della pubblicazione (1877) della Società Antica dell’americano Lewis Flenry M o r g a n (1818-1881). Engels pubblica ancora Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca, mentre postuma, nel 1925, vede la luce la Dialettica della natura, la sua opera più famosa. In Engels l’interpretazione della dialettica è svolta in riferimento soprattutto ai problemi della natura, sotto lo stimolo della proble­ matica che il positivismo aveva introdotto nel concetto di scienza.

Engels: la viti e gli scritti

La dialettica della natura e 1 sue leggi

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« La dialettica, scrive Engels, è per la scienza naturale odierna la forma di pensiero più importante, perché essa sola offre l’analogia e con ciò i metodi per comprendere i processi di sviluppo che hanno luogo nella natura, i nessi generali, i passaggi da un campo di ricerca ad un altro ». Non si tratta, almeno così crede Engels, dell’applica­ zione aprioristica di uno schema logico alla realtà naturale, ma del­ ibi astrazione » delle leggi dialettiche dalla storia della natura come dalla storia della scienza. Queste leggi sono tre: la prima è quella della conversione della quantità in qualità e viceversa; la seconda è quella della compenetrazione reciproca degli opposti; la terza quella della negazione della negazione. • Questa accentuazione in senso naturalistico della dialettica, a parte il merito scientifico o l’interesse di singoli spunti, che non è possibile qui esaminare, si riflette del resto anche nel modo in cui Engels formula nelle sue pagine la stessa teoria comunista di Marx. E non è da trascurare la continua polemica che Engels (come del resto anche Marx) conduce contro il materialismo non dinamico dei pensa­ tori del Settecento, contro il materialismo « volgare » ottocentesco (Vogr, Moleschott) e contro l’evoluzionismo positivistico, di cui sono messe in luce le « infiltrazioni idealistiche ».

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LA F IL O SO F IA IT A L IA N A N E L SE C O LO X I X 1. La cultura italiana dell’800 (p. 219) - 2. Romagnosi e Galluppi (p. 223) • 3. Rosmini (p. 227) - 4. Gioberti (p. 231) - 5. Mazzini e le correnti del pen­ siero politico italiano (p. 235) - 6. Ardigò e il positivismo italiano (p. 238) 7. Spaventa e la tradizione hegeliana (p. 243).

1 - La cultura italiana dell’800.

L ’influenza delle idee illuministiche sulla cultura e la filosofia italiane nella La cultura seconda metà del Settecento è profonda, anche se non mancarono tratti pecu­ italiana nella liari e originali, dovuti soprattutto ai legami ancora tenaci con la tradizione età napoleonic precedente. Questo senso della tradizione emerge con maggior forza durante il periodo napoleonico e nelle vicende che portarono al Congresso di Vienna: rapi­ damente tramontati gli ideali democratici e giacobini e la speranza di una « espor­ tazione » della rivoluzione, delusi dalla politica imperialistica e senza scrupoli di Napoleone, patrioti e uomini di cultura gradatamente si convincono che il problema di una rinascita democratica non può essere disgiunto da quello della creazione di uno stato italiano libero e indipendente, e che tutto ciò è possi­ bile solo a seguito di un profondo rinnovamento spirituale. Di qui l’esigenza sempre più sentita e sempre più diffusa di una salda co­ scienza storica, di una riflessione consapevole sulla tradizione culturale italiana e sui suoi motivi profondi di originalità e di continuità, da Telesio a Campa­ nella, a Sarpi, da Machiavelli a Vico, agli esponenti stessi deH’illuminismo ita­ liano; anzi, di questi ultimi viene esaltato il senso pratico e l’attenzione alle questioni giuridiche ed economiche, la sensibilità per le particolarità della realtà concreta di fronte alle astrattezze ideologiche e rivoluzionarie d’oltralpe; ad ap­ profondire tali motivi critici concorre del resto l’incontro degli esuli napoletani con gli ambienti più vivaci dei maggiori centri di cultura (come Milano). La riflessione sull’amara esperienza della rivoluzione napoletana del ’99 e sulla successiva reazione borbonica costituiscono così un elemento importante nello sviluppo di una coscienza patriottica e nella ricerca delle condizioni che po­ tessero avviare il processo di unificazione e indipendenza nazionale: basti pen­ sare al celebre Rapporto al cittadino Carnot di Francesco L o m o n a c o (17721810) e soprattutto al Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco (1770-1823), che per la critica all’astrattismo ideologico e ri­ voluzionario (arricchita dall’insegnamento che egli aveva tratto dalla lezione storicistica di Vico) rappresenta, in qualche modo, un analogo nella cultura ita­ liana di ciò che erano stati gli scritti di Burke nella cultura inglese e di De Mais-

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tre in quella francese; ma lo sbocco non è reazionario: in Cuoco è viva la consapevolezza dello iato esistente tra gli ideali di piccole minoranze di pa­ trioti e di intellettuali e il grado di coscienza, le esigenze, delle più vaste masse popolari ed è viva altresì la convinzione che, se il popolo non si muove, nes­ sun rinnovamento è possibile. Questa tematica politico-ideologica e le nascenti aspirazioni patriottiche sottostanno, con maggiore o minore nettezza, con maggiore o minore coerenza, alle varie tendenze della vita letteraria e culturale italiana dei primi decenni deH’800: dal neoclassicismo, celebrato dall’arte di Antonio C anova (17571822) e dalla produzione letteraria e poetica di Vincenzo Monti (1754-1828) e di Ippolito P indemonte (1753-1828), alle discussioni sul purismo e sulla prosa illustre, dalla « questione della lingua » al fiorire di tutta una serie di opere di estetica e di critica letteraria, dalle grandi iniziative editoriali alla pro­ duzione storiografica e memorialistica. I nomi di Antonio Cesari e di Pietro Giordani, di Carlo Botta e di Pietro Colletta valgono a definire, insieme a quelli già menzionati, un quadro culturale ricco di fermenti e di collegamenti con la cultura europea, già aperto a esigenze in varia misura romantiche, e da cui emerge la grande figura di Ugo F oscolo (1778-1827). omanticismo Nel secondo e nel terzo decennio dell’800 si diffondono anche in Italia le in Italia Jjjgg d d Romanticismo e la conoscenza degli scritti della Staél, degli Schlegel, di Goethe e Schiller, di Sismondi e Chateaubriand, di Bvron e Scott, ecc.; si hanno, anche da noi, le prime teorizzazioni ad opera dei letterati del gruppo del « Conciliatore » (da Pellico a Di Breme, da Borsieri a Berchet, da Visconti a Confalonieri), accanto alle quali si collocano, su un più elevato livello di medi­ tazione e di cultura, quelle di Manzoni, di Leopardi e di Mazzini. E quasi sem­ pre all’accoglimento delle idee romantiche sulla poesia popolare e alla polemica contro il formalismo e la pedanteria imitatrice della tradizione classicistica si ac­ compagnano un vivo spirito liberale, patriottico e antiaustriaco, un senso pro­ fondo della tradizione storica e culturale, una rivalutazione, non priva di ten­ denze critiche, dei valori religiosi del Cristianesimo e dell’impegno educativo e morale, come base della stessa produzione letteraria e artistica. Non possiamo certo esaminare in questa sede i vari aspetti della cultura romantica italiana, anche perché di alcuni di essi, più direttamente interessanti la problematica filosofica (come il pensiero politico, la storiografia, l’estetica) avremo occasione di occuparci nei successivi paragrafi. Ma nettamente al di sopra dei numerosi e non secondari autori di questo periodo, dal Tommaseo al Nievo, dal Prati all’Aleardi, dal Berchet al Giusti, dal Porta al Belli, si innal­ zano per vastità e profondità di cultura (oltre che, naturalmente, per valore poetico) le figure di Manzoni e di Leopardi, di cui sarà opportuno fare un ra­ pido cenno per precisare il quadro delle idee discusse in questo periodo e per cogliere con maggiore evidenza, pur nella profonda diversità delle conclusioni, la parabola della cultura italiana dall’eredità settecentesca e illuministica alle nuove conquiste dell’età romantica. Manzoni Anche nella vicenda personale, Alessandro M anzoni (1785-1873) documenta questa parabola con il lento maturare e il subitaneo dichiararsi di quella con-

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versione, che dalle idee razionalistiche e rivoluzionarie giovanili lo portò ad approdare ad un cattolicesimo liberale e non privo di venature giansenistiche: una vicenda, quindi, che non conosce le conclusioni reazionarie dei tradizio­ nalisti e teorici della Restaurazione, ma che al contrario conserva il patrimonio delle idee di democrazia, libertà e giustizia che aveva ereditato daH’illuminismo lombardo. Così, nelle Osservazioni sulla morale cattolica (concepita come rispo­ sta alle obbiezioni del Sismondi), se da un lato critica l’utilitarismo del Bentham, dall’altro si mostra alieno anche dalla casistica gesuitica e dalla scolastica: la morale cattolica, in tal modo, viene a fondarsi su un armonico concorso di ra­ gione e di fede e risponde a quelle esigenze di operosità, di ferma chiarezza in­ teriore, di sollecita partecipazione verso gli altri, di libertà, che animavano an­ che l’etica laica del liberalismo moderato. Nello stesso tempo, Manzoni l’arric­ chisce di tutta una serie di riflessioni psicologiche sulla natura umana, sui suoi vizi e le sue virtù, che troveranno incarnazione poetica nei personaggi delle sue tragedie e del suo romanzo. Nel medesimo quadro culturale si forma anche la concezione manzoniana della storia e della provvidenza divina, la sua simpatia per gli umili e gli op­ pressi, il suo fastidio per i potenti e per i furbi, il suo umanitarismo un po’ mo­ ralistico e, infine, il suo rifiuto della violenza e della prassi rivoluzionaria, pur nella consapevolezza della necessità di portare avanti il processo di indipendenza e unità nazionale. Anzi questo clima « patriottico » fa da sfondo anche a molti aspetti della poetica manzoniana: a cominciare dalla sua soluzione della questione della lingua, che per lui è una realtà che nella storia e nell’uso (donde la sua scelta per il dialetto fiorentino), e non nell’artifizio dei letterati, ha il suo fon­ damento e la sua legittimazione. Manzoni respinge perciò la distinzione tra una lingua di letterati, che nessuno parla, e un linguaggio parlato, privo di dignità letteraria: la lingua deve essere un mezzo di comunicazione su tutti gli argo­ menti fra tutti gli italiani e non « d’alcuni intorno ad alcune cose ». Questa esigenza antiletteraria e antiumanistica, questo rifiuto di ogni atteggiamento aristocratico in nome di una lingua popolare e nazionale implicavano, natural­ mente, un rinnovamento dei contenuti e della forma artistica, e dunque una nuova poetica. La polemica contro le regole aristoteliche, contro l’imitazione dei classici, contro la mitologia, contro il formalismo, approda ad un concetto dell’arte radicata nei sentimenti umani e popolari, ricca di valori morali ed edu­ cativi e, in sostanza, « vera ». E cercando di definire la verità dell’arte, Man­ zoni si accostava al Rosmini e la individuava nella « verità ideale » che essa esprime, cioè in Dio stesso. Il concetto dell’arte si saldava così alle più pro­ fonde convinzioni etiche e religiose e si esprimeva in una poetica che poneva in primo piano l’oggettività del contenuto (popolare, e nello stesso tempo, colto e lungamente meditato) e rifiutava l’estro individuale, i capricci della fantasia, il sentimentalismo e il lirismo. Con esiti radicalmente opposti si conclude invece il travaglio spirituale di Leopard Giacomo L eopardi (1798-1837), che reagisce all’angustia reazionaria dell’am­ biente in cui si forma con il rigoroso materialismo e il lucido e disperato pessi-

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mismo della sua lirica. Molto si è discusso della pretesa « filosofia » di Leopardi, e a queste discussioni hanno non poco contribuito alcune espressioni con cui il poeta ha fissato la sua vicenda intellettuale (le conversioni dall’erudizione al bello e dal bello al vero, le teorizzazioni della noia e della disperazione ma non della rassegnazione, la scoperta del « solido nulla », ecc.): che si voglia dare alle idee di Leopardi il valore di una vera e propria riflessione sistematica e consapevole, oppure che siano assunte come espressioni puramente sentimentali e segni di una condizione psicologica non risolta, resta comunque acquisita l’importanza di queste idee nel quadro culturale di questa età. La concezione della natura, espressa nelle Operette morali, non più come regno della bellezza e della felicità, russoianamente contrapposto ai guasti della ragione e della civiltà, ma, come ingannatrice matrigna degli uomini e quindi svelata nella sua identità con il destino cieco, che travolge entusiasmi speranze e impegni e che perseguita le sue creature c^l momento stesso in cui le pro­ duce; il rigoroso materialismo del Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco e dello Zibaldone, che finisce per giustificare la necessità dell’infelicità e la to­ tale vanificazione degli ideali, o, meglio, degli idoli dell’uomo, dalla virtù alla bellezza; la «verissima pazzia» di chi, lacerate le fantasie fanciullesche e le mediocrità volgari dell’uomo comune, percepisce il vuoto e il nulla; e infine la consapevole accettazione della poesia sentimentale (secondo l’accezione schilleriana: cfr. supra, p. 15 sg.), come unica espressione possibile dell’atteggiamento dell’uomo disperato ma non rassegnato, come lirica che canta l’infinito e la « rimembranza »: sono questi i motivi fondamentali dell’orizzonte ideale e poe­ tico di Leopardi, che, pur segnando un versante diverso e per certi versi oppo­ sto a quello dell’esperienza manzoniana, concorre, con l’altro, a ridare alla cul­ tura italiana una dimensione e un valore europei e quindi ad accellerare il pro­ cesso di rinnovamento delle strutture reazionarie e feudali. La cultura della seconda metà dell’Ottocento, esauriti i fermenti più pro­ cultura del secondo priamente romantici, rispecchia gli ideali della borghesia che veniva costruendo Ottocento lo stato unitario sotto l’egida moderata e conservatrice della monarchia sabauda e della classe dirigente piemontese, vittoriosa alla fine delle tendenze repubbli­ cane, democratiche e persino socialisteggianti di Mazzini, di Garibaldi, di Pisacane. E ciò comporta una chiusura, un qual certo ritorno ad un clima provin­ ciale e una perdita di contatti profondi con la cultura europea e la storia con­ temporanea. Basti pensare a cosa rappresentò da noi, in confronto con il deca­ dentismo e il naturalismo soprattutto francese, il fenomeno della « scapiglia­ tura », che pure ebbe il merito di mantenere viva l’esigenza di una cultura e una letteratura realistica, i cui frutti più cospicui si vedranno nella poetica del «verism o» e nell’arte di Giovanni V erga (1840-1922). E discorso analogo po­ trebbe essere fatto per le correnti artistiche, dai macchiaioli agli impressionisti. Nello stesso senso è da intendere anche l’opposto indirizzo classicistico, non privo di retorica ingenua e di tendenze nazionalistiche, che solo Giosuè C arducci (1835-1907) riuscì a liberare dall’esangue accademismo con una più robusta pas­ sione, con una cultura non mediocre e con un alto magistero letterario, ma che

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non ebbe mai la forza di diventare una nuova cultura popolare é che non perse mai, anzi, una qual certa aura di ufficialità e di aristocrazia. Vedremo nei paragrafi successivi come anche la filosofia italiana rifletta queste tendenze culturali e sociali.

2 • Romagnosi e Galluppi. Abbiamo già visto (cfr. voi. II, p. 286 sgg.) l’influenza esercitata dalle idee illuministiche francesi e inglesi sulla cultura italiana sul finire del Settecento, e abbiamo visto altresì come, attraverso l’esame della filosofia di Cartesio, di Locke, di Bentham e di Condillac, la tematica dell’« ideologia » trovasse vasta diffusione negli ambienti in­ tellettuali più vivaci. Un’influenza decisiva è tuttavia operata, ora, dalle vicende, piene di speranze e poi di delusioni, dell’età na­ poleonica e di quella della Restaurazione; le quali mentre spiegano le tendenze politiche assunte dal moto risorgimentale, costituiscono anche il terreno su cui maturano le due principali tendenze teoriche: una, che si riallaccia all’ideologia illuministica, su posizioni nettamente antispiritualistiche (anche anticlericali) e di democrazia radicale, e che attraverso Cattaneo, Ferrari e Pisacane confluisce nel filone positivistico della cultura italiana; l’altra, invece, con Galluppi, Rosmini e Gioberti, ed anche con Mazzini, rappresenta il tenta­ tivo di un ritorno a posizioni schiettamente metafisiche e spirituali­ stiche, in polemica perciò contro le idee illuministiche e contro le ten­ denze soggettivistiche che, da Cartesio a Kant e a Hegel, hanno caratterizzato il pensiero moderno, rivelandosi foriere di errori filo­ sofici. quali il panteismo lo scetticismo, lo « psicologismo » (cioè l’assunzione dell’« io » come fondamento e punto di riferimento di ogni verità e di ogni realtà), non meno che di disordini sociali. Anche se non approda mai alle posizioni reazionarie dei teorici della Restaurazione, questo secondo indirizzo risponde tuttavia ad un’esigenza tipicamente moderata, confermata del resto dagli stessi ideali politici e dal ruolo di questi pensatori nel processo del nostro Risorgimento. Esso conferma altresì il carattere ritardato della mag­ gior parte della nostra cultura dell’Ottocento rispetto alle tendenze contemporanee della cultura europea, non meno che il suo « provin­ cialismo »: la stessa rivalutazione della tradizione storica e della religione (che nella tradizione offre il fondamento e il criterio) si

Le tendenze della filosofia italiana nella prima metà dell’Ottocento

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Romagnosi: la dottrina della conoscenza

Romagnosi: la filosofìa civile

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inserisce nel filone spiritualistico e « platonizzante », che, senza grandi risultati, era sopravvissuto tenacemente nella cultura italiana dopo la grande età rinascimentale e che aveva in qualche modo iso­ lato il pensiero italiano durante tutto il Seicento e il Settecento, fil­ trando e, per così dire, smorzando via via le dottrine di cui prendeva cognizione e così perdendo il loro significato più caratteristico e rin­ novatore. Il pensatore più importante del primo trentennio dell’800 fu Gian Domenico R omagnosi (1761-1835), che dopo aver studiato nel Collegio Alberoni di Piacenza, dove era ancor viva la tradizione del sensismo (cfr. supra, voi. II, p. 286) e dopo un soggiorno a Trento, insegnò nelle università di Parma e di Pavia; nell’ultimo periodo della sua vita subì le durezze della repressione austriaca, per essere stato implicato nel processo contro Pellico e Maroncelli. Romagnosi appare in più aspetti influenzato dalla problematica dell’« ideologia », che egli riprende in vari scritti (tra cui il più importante è Che cosa è la mente sana?)-, la conoscenza umana, egli osserva, ha la sua base nella sensazione, ma in essa l’anima non è soltanto passiva, bensì manifesta una sua attività (cui Romagnosi dà il nome di « senso logico »), che concorre con l’azione degli og­ getti, a produrre l’atto sintetico della conoscenza, elaborando e coor­ dinando, mediante i suoi concetti, i dati sensibili secondo una legge che e definitiva di « compotenza causale »; tutte le nostre conoscenze sono pertanto « fatture mentali », in cui alle « segnature positive » e sensoriali viene posto il suggello delle « segnature razionali ». Ro­ magnosi tuttavia respinge nettamente ogni analogia tra la sua dot­ trina e quella kantiana, cercando di confutare sia il concetto di tra­ scendentalità delle categorie sia il concetto di fenomenalità delle co­ noscenze: le idee e le relazioni con cui opera il senso logico, e che Romagnosi chiama anche « logie » o « emissioni intime » o « suità psicologiche », non sono né idee innate né un patrimonio ori­ ginario dell’anima, ma sono strettamente dipendenti, quanto alla loro formazione, dall’esperienza. D ’altro lato, le nostre conoscenze, pur essendo « fatture mentali », sono tuttavia « segni » reali e na­ turali delle cose. In tal modo la scienza si basa sul tradizionale metodo sperimentale­ induttivo, ed è con questo metodo e quindi fondandosi su leggi certe e solide della natura umana che Romagnosi cerca di assolvere

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il compito per lui più importante, e cioè la costruzione di una « filo­ sofia civile », in cui confluiscano la morale, il diritto e la politica. Nelle sue opere più conosciute (Genesi del diritto morale, Introdu­ zione al diritto pubblico universale) e soprattutto in quella Sull’in­ dole e sui fattori dell’incivilimento, Romagnosi definisce la filosofia civile come la « storia naturale ragionata delle menti individuali per compiere quella dell’uomo collettivo ». Ciò significa innanzi tutto, che l’uomo vi deve essere considerato non astrattamente (ricorrendo alle idee platoniche, alle quiddità aristoteliche o alle « sfumature trascendentali »), ma nella concretezza dei modi in cui vive, conosce e opera sulla terra; in secondo luogo, che la considerazione deve esten­ dersi a tutto il contesto sociale, a tutte le forze storiche che si in­ dividuano nelle nazioni e negli stati. In tale prospettiva riemergono le linee del progressivo « incivilimento », cioè del realizzarsi delle condizioni di « una colta e soddisfacente convenienza », e del supe­ ramento degli antagonismi in una più alta e comprensiva armonizza­ zione, anche se tale realizzazione è definita e continua, poiché la sto­ ria ci insegna che « la decadenza può avvenire in ogni stadio ». Se la filosofia di Romagnosi e il gruppo di discepoli che si raccol- Galluppi sero attorno a lui rappresentano la continuità della tradizione dell’illuminismo settecentesco negli ambienti culturalmente più vivi dell’Italia settentrionale, e prepararono, in un certo senso, il terreno all’esperienza positivistica; la filosofia di Galluppi, invece, segna il ritorno ai più schietti motivi della filosofia spiritualistica. Nato in Calabria nel 1770 e morto a Napoli, nella cui università fu insegnante, nel 1846, Pasquale G allu ppi ha esposto le sue idee in numerosi scritti (Sull’analisi e la sintesi, Saggio filosofico sulla critica della conoscenza. Lezioni di logica e di metafisica, La filoso­ fia della volontà), contribuendo altresì alla diffusione della cono­ scenza della filosofia europea in Italia (Lettere filosofiche sulle vi­ cende filosofiche da Cartesio sino a Kant, Considerazioni filosofiche sull’idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto). Anche Galluppi si richiama alla filosofia degli ideologi e degli eclettici fran­ cesi, nonché a quella della scuola scozzese del senso comune: il metodo dell’indagine filosofica è infatti, per lui, quello analitico, ma il suo oggetto è la « coscienza »: solo partendo dall’analisi della coscienza, infatti, è possibile acquisire in modo sicuro le tre fonda15 - Giannantoni, III.

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LE TENDENZE FILOSOFICHE N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

mentali verità metafìsiche: l’esistenza dell’io, l’esistenza del mondo esterno e l’esistenza di Dio, La coscienza « intuisce immediatamente » e secondo verità resi­ stenza dell’io, perché tale esistenza non si presenta ad essa come un oggetto esteriore ed estrinseco, ma le è sempre immediatamente presente. Quanto alle cose e al mondo esterno, Galluppi, afferma che ogni sensazione ha un suo oggetto (non potendosi dare una sensazione che sia sensazione di nulla) e pertanto, se l’io e le sue modificazioni sono oggetto della coscienza (del « sentir di sentire »), come oggetto delle sensazioni non restano che le cose esterne, la cui realtà e oggettività risulta così indubitabile. Galluppi ritiene di con­ futare in tal modo sia lo scetticismo di Hume sia il « fenomenismo » di Kant (« il fuor di me non esiste perché mi modifica, ma mi modi­ fica perché esso esiste ») e di restituire piena e òggettiva validità alla legge di causalità; anzi, mediante il principio di causalità, egli giudica di poter fondare con sicurezza anche la terza verità metafisica e cioè l’esistenza di Dio; l’esperienza di me stesso, infatti, mi dice che io sono un essere mutevole e che non esisto per me stesso; ed è la ragione stessa a mostrarmi che la causa che mi ha prodotto è una causa intelligente, e cioè Dio. La coscienza di me è dunque il fondamento e il criterio di ogni verità; e ciò che l’analisi scompone la « sintesi » (operata dalla volontà sotto la spinta del desiderio) ricompone; abbiamo così le « sintesi reali » (come quelle tra sostanza e accidente, tra causa ed effetto), le sintesi « ideali » (come quelle di identità e differenza) e le « sintesi immaginative » (come nel caso delle « sintesi politiche » e delle « sintesi civili », quelle cioè che esprimono la nostra volontà di cam­ biare la natura e la società secondo i nostri ideali). Ancora nella coscienza, infine, Galluppi ritrova il fondamento dei principi della vita morale e di una concezione della virtù come fine, e non come mezzo, e quindi l’insostenibilità di ogni forma di eudemonismo e di utilitarismo; la morale e la sua legge hanno una fondazione au­ tonoma rispetto alla religione, e tuttavia Galluppi riafferma che la legge morale esprime il comando stesso di Dio.

LA FILOSO FIA ITALIANA NEL SECOLO XIX

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3 - Rosmini. La filosofìa di Rosmini rappresenta, nel pensiero italiano, non soltanto una ripresa di motivi spiritualistici, ma anche il tentativo di soddisfare l’esigenza di una conciliazione tra filosofia e religione, attraverso un sistema filosofico che la teologia potesse accogliere come suo « ausiliare ». Nato a Rovereto nel 1797, Antonio R osmini S erbati , dopo aver studiato a Padova abbraccia nel 1826 il sacerdozio e fonda nel 1828 anche una congregazione religiosa che egli chiama Istituto della Carità; trascorse tutta la sua vita dedicandosi interamente agli studi e solo nel 1848 svolge una missione pubblica, recandosi a Roma su incarico di Carlo Alberto per indurre il pontefice Pio IX ad allearsi con il Piemonte. La missione fallisce, e Rosmini, dopo aver acfcompagnato il Papa a Gaeta scongiurandolo di non fare ricorso a truppe straniere per tornare, si stabilisce a Stresa, dove riprende gli studi e dove riceve visite di amici illustri, quali il Manzoni e il Bonghi. E a Stresa lo coglie la morte nel 1855. Tra i suoi numerosis­ simi scritti basterà qui ricordare, oltre il ricco epistolario, il Nuovo saggio sull’origine delle idee, che è la sua opera fondamentale, i Principi della scienza morale, l’Antropologia, la Filosofia della poli­ tica. la Filosofia del diritto, la Teodicea, la Teosofia, la Psicologia, la Logica e infine Delle cinque piaghe della Chiesa. I,'errore filosofico fondamentale che Rosmini intende confu­ tare e che gli appare necessariamente foriero di scetticismo, è il soggettivismo, tanto nella forma del sensismo, propria dell’empirismo inglese e delle correnti illuministiche che fanno capo al Condillac, quanto in quella del razionalismo che culmina nell’apriorismo di Kant e nel conseguente soggettivismo assoluto degli idealisti. Empi­ risti e sensisti, infatti, hanno errato « per difetto » quando hanno cercato di spiegare l’origine delle idee riducendo tutta la conoscenza a sensazione. Questo errore dipende dal fatto che nella nostra cono­ scenza « sensazione » e « percezione intellettiva » (cioè l’operazione mentale che unisce le idee ai dati sensibili) si susseguono così rapida­ mente da sembrare un solo atto conoscitivo: in realtà l’una non è riducibile all’altra e qualunque cosa conosciamo ci deve essere nota mediante una percezione intellettiva o idea, senza la quale la sen­ sazione stessa rimane del tutto inintelligibile. Tuttavia, avverte Ro-

Rosinini: la vita e gli scrii

La polemica contro il soggettivismo il sensismo e kantismo

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l sentimento mdamentale a percezione intellettiva

L’idea dell’essere

LE TENDENZE FILOSOFICHE N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

smini, anche i filosofi razionalisti, come Platone, Leibniz e Kant, hanno commesso un errore, ma « per eccesso », nel senso che assunsero più di quanto fosse strettamente necessario per la spiegazione dei fatti spirituali. In particolare, Kant ebbe il merito di considerare irriducibile alle sensazioni « il formale della ragione » e di fare di quelle la materia di questo, ma errò nel considerare che le forme dello spirito fossero addirittura diciassette: due della sensibilità, dodici dell’intelletto e tre della ragione. Si tratta dunque di esaminare con cura tutto il processo del no­ stro conoscere. La base di tale processo è, secondo Rosmini, il « sen­ timento fondamentale », cioè il sentimento per cui l’io si sente esi­ stere, è autocosciente della sua unità psico-fisica e avverte il suo corpo « come una cosa con lui », lo sente « come con-senziente ». Il sentimento fondamentale è sempre identico a se stesso e diverso dalle sensazioni, che mutano con il mutare degli oggetti sensibili che le determinano: le sensazioni dunque sono definibili come « modifica­ zioni del sentimento fondamentale » e pertanto presuppongono il sentimento fondamentale. Ma la sensazione non è soltanto una modificazione soggettiva, ma rimanda anche a qualcosa di extrasog­ gettivo e in questo senso essa diventa u n a « percezione sensitiva ». La conoscenza però non si esaurisce a questo punto, come vorrebbero l’empirismo e il sensismo; al di sopra della percezione sensitiva Rosmini pone la « percezione intellettiva », con la quale la mente ap­ prende un oggetto come un « reale » diverso da lei, come qualcosa che « è » e dunque come un « essere » determinato, oggettivo e sussistente in se stesso: cioè un’« idea ». Questo però non è ancora tutto. Ogni nostra idea determinata si presenta come una « sintesi oggettivante » tra una « forma » e una « materia »: la forma è data dall’« idea dell’essere », cioè da ouelPidea senza la quale non sarebbe possibile affermare la realtà di alcunché, e una « materia », che è data dalle sensazioni e che offre all’idea le sue determinazioni concrete. L ’analisi stessa del processo conoscitivo, dunque, mostra la presenza in esso di un elemento irridu­ cibile alla 'sensazione, che è appunto l’« idea dell’essere »: non l’idea di un essere determinato, realizzato nelle sue concrete partico­ larità, ma l’idea dell’essere in generale, dell’essere assolutamente in­ determinato e quindi dellV essere possibile » (nel senso che ha la « potenza » di ricevere tutte le determinazioni possibili senza mai

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essere esaurito da nessuna). A mostrare l’irriducibilità dell’« idea dell’essere » alla sensazione basta del resto porre attenzione alle sue connotazioni, completamente opposte a quelle delle sensazioni: idea­ lità, semplicità, unità, universalità, immutabilità, eternità e indetermi­ natezza. E soprattutto oggettività. È anzi proprio su questa connotazione dell’oggettività che Ro­ smini insiste particolarmente per dissipare ogni sospetto di soggetti­ vismo e per marcare la differenza tra la sua dottrina e quella di Kant: per Rosmini infatti l’« idea dell’essere » non è una funzione ma un vero e proprio « oggetto » della nostra mente, un a priori ontologico e non solo gnoseologico, innato in essa e che essa intuisce immedia­ tamente, ma proprio per ciò, diverso da essa e dall’atto con cui essa lo intuisce. Da questo punto di vista, anche quei concetti di « io », di « certezza interiore », di « autocoscienza » su cui si è fondato il moderilo soggettivismo presuppongono l’« idea dell’essere ». Cono­ scere è pertanto « determinare l’essere possibile » o, che è lo stesso, « universalizzare un’idea particolare ». Per questa via Rosmini ritiene di aver trovato il fondamento di una conoscenza non puramente fenomenica e quindi la possibilità di costruire una metafisica spiritualistica. Egli infatti non solo deduce dall’idea dell’essere i « principi scientifici » (di identità, di contrad­ dizione, di sostanza, di causa) e quelle altre idee che derivano dalla associazione del puro principio formale dell’idea dell’essere con il sentimento fondamentale (corpo, tempo, spazio, movimento), ma anche l’esistenza di Dio, Essere Realissimo, come causa adeguata di quella idea. Se perciò l’essere ideale è oggetto delle scienze ideolo­ giche, l’essere reale è oggetto delle scienze metafisiche, distinte in teosofia, o scienza dello spirito infinito, e in psicologia, o scienza dello spirito finito (e basterà ricordare che Rosmini afferma l’immortalità dell’anima sulla base dell’unione di questa con l’essere ideale). Ma per completare la nuova enciclopedia delle scienze bisogna considerare l’essere ancora da un terzo ed ultimo punto di vista, e cioè come essere morale o dover-essere, e questa considerazione dà luogo alle scienze deontologiche o morali (morale, diritto, politica). La morale consiste nel rapporto che deve essere posto tra la volontà umana, che è libera, ed il bene; e perciò il bene è l’essere stesso, cioè Dio, la legge morale non può non sancire la soggezione della volontà al bene oggettivo, cioè il riconoscimento di una ge-

L’idea dell’essere « oggetto » del mente

La metafisica essere ideale ed essere reale

La morale, il diritto e la politica

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LE TENDENZE FILOSOFICHE N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

rarchia di valori, e al tempo stesso ontologica, che vede al suo culmine Dio Anche in sede morale Rosmini contrappone la sua tesi sia alle dottrine empiristiche e utilitaristiche, sia alla dottrina kantiana, la cui autonomia e formalità vengono respinte come misconoscimento deir oggettività ontologica del bene e quindi come causa di ogni sog­ gettivismo e arbitrio. Il male, il peccato conseguono dunque non dalla mente, ma dalla volontà che non riconosce l’ordine gerarchico della realtà che la mente le presenta. Se Dio è il fine supremo, in un senso derivato si può ben dire che anche la persona umana è un fine. Ed è appunto la persona umana il centro e il fine del diritto, fondato sulla forza, ma legittimo solo nella misura in cui è subordinato alla legge morale. Per quanto concerne, infine, i problemi politici, Rosmini riconosce in certa misura l’auto­ nomia dello stato nell’occuparsi dell’utile del cittadino, ma da un lato egli ne limita i poteri e le competenze, preoccupato com’è di combattere sia le prime tesi socialistiche (Saint-Simon, Fourier) sia le dottrine « statolatriche » (come quelle di Hegel e in via derivata di Mazzini e dei « cosiddetti dottrinari francesi »), le quali tutte an­ tepongono il « principio del bene pubblico », cioè del corpo sociale nel suo insieme, al « principio del bene comune », cioè di ogni sin­ golo cittadino come fonte di diritti; e, dall’altro, subordina la politica alla morale, riconoscendo l’autorità di giudicare soltanto al­ l’istituzione divina della Chiesa (l’unica che esiste indipendentemente dalla volontà umana e che non sia subordinata al rispetto della per­ sona umana, essendo anzi fonte e garanzia di tale rispetto). e « piaghe » Tale il suo « cattolicesimo liberale », che sta alla base del pro­ iella Chiesa gramma di rinnovamento religioso, con cui Rosmini intendeva cu­ rare le « cinque piaghe della Chiesa » e cioè la divisione del popolo cristiano dal clero, l ’insufficiente educazione del clero, la mancanza di unità tra i vescovi, l’interferenza del potere secolare nella nomina dei vescovi, la mancanza di un rendiconto pubblico dell’amministra­ zione dei beni. Accanto alle esigenze di un ritorno alle origini evan­ geliche del cristianesimo, si fanno valere queste moderate esigenze li­ berali, che non mancarono però di suscitare contro Rosmini accuse e condanne (soprattutto ad opera dei Gesuiti), così come la sua filosofia parve agli ambienti più chiusi e tradizionalisti pericolosamente inficiata di soggettivismo e panteismo.

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4 - Gioberti. Anche nel pensiero di Gioberti la difesa dei valori spirituali e della tradizione religiosa è al centro di una vasta costruzione siste­ matica in cui convergono sia il filone del platonismo cristiano, da Agostino a Scoto Eriugena, sia (soprattutto nell’ultima fase) Finflusso di Hegel; cosicché se Rosmini fu definito, con enfasi « il Kant italiano », Gioberti fu definito l’« Hegel italiano ». Nato nel 1801, Vincenzo G i o b e r t i abbraccia il sacerdozio; per le sue idee liberali e repubblicane è costretto all’esilio nel 1833, nel momento cioè in cui nel Regno Sardo si fa più forte la repressione della propaganda mazziniana, a cui Gioberti stesso, in primo tempo aveva aderito. Dopo soggiorni a Parigi, a Bruxelles e poi di nuovo a Parigi, Gioberti può tornare in patria nel 1848 a seguito della mutata situa­ zione politica, che gli consente anzi una rapida carriera politica: de­ putato/ ministro e infine presidente del consiglio, egli cerca di rea­ lizzare quella politica neoguelfa che aveva teorizzato nel Primato morale e civile degli italiani. Ma il fallimento di questa politica e le vicende postquarantottesche portano nuovamente Gioberti sulle strade dell’esilio. Muore a Parigi nel 1852. ' Tra i suoi scritti molto numerosi di filosofia, di religione e di .politica sono qui da ricordare Teorica del soprannaturale, Introduzione allo studio della filosofia (che è la sua opera più importante , Del bello, Del buono, Degli errori filosofici di Antonio Rosmini e, oltre al già citato Primato, il Gesuita moderno. All’ultimo periodo della sua speculazione appartengono poi Del rinnovamento civile in Italia, la Protologia, e la Filosofia della rivelazione, queste ultime due pub­ blicate postume, Il primo motivo del pensiero di Gioberti, su cui conviene fer­ marsi, è l’accentuazione della polemica contro il soggettivismo e, come allora si diceva, lo « psicologismo »: il principio del libero esame, fatto valere in filosofia da Cartesio e in religione da Lutero, è alla base non solo di tutti gli errori e i travisamenti concettuali, ma anche di tutti gli arbitri e gli eccessi pratici, civili e politici. E dallo psi­ cologismo non si è liberato neppure Rosmini, quando ha posto come oggetto della mente l’« idea dell’essere possibile » e non l’essere stesso, e quindi un dato soggettivo, una forma del nostro conoscere. Se si vuole invece scalzare dalle sue basi lo psicologismo e fondare un au-

Gioberti: la vita e gli scrii

La polemica contro lo psicologismo. Gioberti c Rosmini

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Intuito e riflessione

LE TENDENZE FILOSOFICHE N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

tentico « on tologism o » , cioè una concezione realm ente oggettiv a, bi­ sogna partire da ciò che è « prim o ontologicam ente » , cioè d a ll’E n te. C iò richiam a il secondo m otivo della speculazione giobertiana, la distinzione tra « in tuito » e « riflessione » ; in tuito è l ’appren sione im ­ m ediata n ecessaria e totale, anche se puram en te p assiva, da parte dello spirito um ano, d e ll’Id e a; l ’idea però è in tesa da G io b erti non in senso logico e gn oseologico, m a ontologicam ente (e platonicam ente) com e l ’essere in sé, la realtà assolu ta; riflessione è invece l ’attività che, m ediante la p aro la, determ ina e circoscrive, n ell’atto stesso di esplicarlo, l ’oggetto d e ll’intuito. L a filosofia du n qu e, che è riflessione, presuppon e la rivelazione d ell’Id e a, da cui ha origine la parola stessa, e quindi p resu p p on e l ’in tuito, che essa traduce in un giudizio, in una « form ula ideale » , che esprim e l ’Id e a in m odo chiaro, sem plice e preciso. I! primo giudizio contenuto in questa formula ideale, è « l’Ente è necessario ». Più precisamente, nell’intuito è l’Ente 'stesso che si

La formula ideale: I) l’Ente è necessaria­ fa Verbo e pronuncia il giudizio « Io sono necessariamente » e il mente nostro spirito è, di fronte a questa affermazione, « semplice testimonio

ed uditore di una sentenza che non esce da lui »: se così non fosse tutto sarebbe soggettivo e lo scetticismo sarebbe inevitabile. L ’asso­ luta oggettività di questo primo giudizio garantisce altresì l’oggettività della traduzione che la nostra riflessione ne fa, quando dice « l’Ente è necessariamente »: « questo giudizio riflessivo è volontario, subiet­ tivo, umano; tuttavia, avverte Gioberti, è legittimo, perché è la semplice ripetizione del giudizio intuitivo che lo precede, lo fonda e lo autorizza. La ragione dell’uomo per questo rispetto è veramente la ragione di Dio e quindi possiede un’autorità senza appello ». Dio è quindi il « primo filosofo » e la filosofia umana è la continuazione e la ripetizione di quella divina. Tuttavia l’espressione « l’Ente è » solo apparentemente è un giu­ La formula ile: 2 ) l’Ente dizio, poiché, esprimendo una tautologia, contiene un solo termine; i l’esistente è necessario, perché giudizio vi sia, che sia espresso anche un predicato, e questo predicato è l’« esistente », sicché il giudizio che esprime la prima parte della formula ideale dice: « l’Ente crea l’esistente ». L ’esistente, infatti, non è una realtà che sta a sé, ma dipende nel suo essere (ex-sistere) dall’attività causatrice e creatrice di Dio. Con ciò Gioberti intende sottolineare, in risposta alle obbiezioni di Ro­ smini, non solo la differenza profonda tra la sua filosofia e ogni forma

LA FILOSOFIA ITALIANA NEL SECOLO XIX

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di panteismo, compreso quello hegeliano (rispetto al quale insiste sul carattere contingente e libero della creazione, in antitesi al carattere necessario che in Hegel aveva il manifestarsi dell’infinito nel finito), ma anche il fatto che per cogliere la vera natura del processo crea­ tivo bisogna partire dal creatore e non dalle creature, perché per chi è immerso nelle cose anche Dio finisce per diventare una realtà parti­ colare tra le altre. In questo senso Gioberti parla dell’uomo come di uno « spetta­ tore diretto ed immediato della creazione » in ogni istante della sua vita intellettuale; ma l’uomo non è soltanto spettatore dell’opera della creazione, ma in qualche modo ne partecipa, giacché il processo crea­ tivo non termina con la creazione dell’esistente ma implica anche il progressivo tendere dell’esistente a ricongiungersi all’Ente. Di qui la seconda parte della formula ideale: « l’esistente ritorna all’Ente ». La partecipazione dell’uomo al ciclo creativo è possibile in virtù della sua scelta morale, che rende l’uomo meritevole della sua beatitudine, cioè di tornare all’Ente. Scrive Gioberti con evidenti accenti neoplatonizzanti: « uscita da Dio e ritorno a Dio: eccovi la filosofia e la natura, l’ordine universale ^elle cognizioni e quello delle esistenze. Laonde l’ontologia, che è la scienza dei principi, concerne principalmente il primo ciclo e l’etica il secondo: l’una è la base, e l’altra la cima del sapere ». La formula ideale, infine, offre l’unico saldo fondamento possibile ad una nuova enciclopedia del sapere: l’idea dell’ente, infatti, dà luogo alla filosofia, che ne studia gli elementi razionali e intelligibili, e alla teologia, che ne esplica gli elementi sovrannaturali, noti me­ diante la rivelazione; il concetto di creazione, poi, dà luogo alla mate­ matica, alla logica e alla morale, che, benché diverse tra loro, espri­ mono tutte « una sintesi media tra l’ente e l’esistente, tra l’intelli­ gibile e il sensibile; il concetto di esistente, infine, dà luogo da un lato alle scienze fisiche, che però non vanno al di là della semplice esteriorità degli oggetti, e dall’altro alla psicologia, alla cosmologia, alla estetica (in cui Gioberti distingue il « sublime », proprio dell’Ente, dal « bello », proprio delle cose sensibili) e alla politica. Anche a proposito di quest’ultima scienza Gioberti ritiene ur­ gente porre rimedio ai guasti prodotti dallo psicologismo e in primo luogo al « caos spaventevole » dovuto all’ideologia liberale, con la sua rivendicazione di una libertà individuale, negativa, fondata sul-

La formula ideale: 3) l’esistente torna all’ Ente

La nuova enciclopedia del sapere

Le dottrine politiche

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l’ultima fase pensiero di Gioberti: la dialettica di mimesi e metessi

LE TENDENZE FILOSO FICH E N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

l’arbitrio e non sulP« ordine morale delle cose ». I cardini di questo programma di risanamento sono da Gioberti individuati nella riaf­ fermazione del « primato » degli italiani e dell’ideale neo-guelfo. Il primato degli italiani trae il suo titolo di legittimità dal rapporto del tutto speciale tra il popolo italiano e la Chiesa cattolica: mentre infatti nelle altre nazioni europee la riforma protestante e la filosofia hanno spezzato la continuità della tradizione cattolica, solo in Ita­ lia, dove ha la sua sede e il suo centro, il cattolicesimo ha conti­ nuato la sua missione. E poiché la traduzione, sul piano sociale, della formula ideale mostra che « la religione crea la moralità e la civiltà del genere umano », agli Italiani è affidato il compito storico di ri­ portare la civiltà e i popoli non ad una religiosità astratta e nebu­ losa, incomprensibile alle masse (com’era quella di Mazzini), ma alla tradizione concreta e alla forza morale del cattolicesimo, unifi­ cando così tradizione e progresso. Questo compito è assolvibile, per Gioberti, solo abbandonando la via insurrezionale e la prospettiva unitaria e realizzando una federazione degli stati italiani sotto l’egida e l’autorità del Papa, sostenuta dalla forza militare del Regno di Sardegna. Su questi argomenti, poi, Gioberti concretava altresì la sua polemica contro le tendenze democratiche, fondate sulla sovranità popolare: la sovranità, infatti, è propria dell’Idea (dell’« ingegno ») e il popolo « diventa » sovrano solo quando la sovranità dell’Idea lo rende tale, e senza la quale è soltanto « plebe ». Era così giustifi­ cata la funzione di guida delle minoranze intellettuali. Il fallimento, dopo il ’48, di questo programma politico, impli­ cante altresì una « riforma cattolica », che liberasse la Chiesa da tutte quelle incrostazioni conservatrici, che impedivano la saldatura tra tradizione e progresso, e che da Gioberti erano identificate con l’azione e con la politica dei Gesuiti, porta il suo autore, negli anni del secondo esilio, ad una revisione generale della prospettiva in cui realizzarlo: non più gli stati e i governanti, ma i popoli diven­ gono i destinatari dell’appello: di qui l’accentuazione di istanze tipi­ camente riformistiche, quali la necessità dell’istruzione, dell’eleva­ mento delle condizioni economiche, e così via. Contemporaneamente, sempre negli anni del secondo esilio, Gio­ berti porta a termine una rielaborazione e una riesposizione del suo sistema filosofico, in cui l’eco delle dottrine di Hegel e il dialogo con esse è assai più evidente. In questo senso egli, piuttosto che di in-

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tuito, parla ora di « pensiero immanente », cioè di un pensiero inte­ ramente riempito dall’Ente che gli si rivela e, rivelandoglisi, lo crea, e quindi di un pensiero totalmente oggettivo e perciò distinto dalla riflessione che è libera e soggettiva. Il rapporto di creazione tra l’Ente e il pensiero immanente consente a Gioberti di continuare ad insistere sulla differenza tra la sua filosofia e qualsiasi forma di pan­ teismo e di identità tra essere e pensiero, tra infinito e finito (Schel­ ling e Hegel). 1 due cicli del processo creativo, infatti, sono da Gioberti consi­ derati in uno stesso nesso « dialettico », i cui due momenti sono de­ signati platonicamente, con i termini di « mimesi » (o imitazione) e di « metessi » (o di partecipazione): mimesi è il momento in cui il mondo si allontana da Dio, cercando di imitarne imperfettamente la natura; metessi è il momento in cui il mondo, grazie all’opera parte­ cipativa dell’uomo all’opera della creazione, torna a Dio e attua così la sua « palingenesi », la sua divinizzazione. « La metessi è la finalità del mondo e il progresso è il moto della mimesi verso la metessi ». La cosmogonia torna ad essere così una teogonia.

5 - Mazzini e le correnti del pensiero politico italiano. Il formarsi e il diffondersi delle varie tendenze del pensiero politico italiano Il cattolicesir nell’Ottocento sono, com’è naturale, strettamente collegate alle vicende risor­ liberale e il gimentali e al modo con cui fu costruito lo stato unitario. Nello stesso tempo, neo-guelfismo a questo dibattito è collegato un vasto fiorire di studi storici (anche di romanzi, drammi, ecc. a sfondo storico) che nel passato cerca, da diversi punti di vista, le ragioni del presente e la giustificazione dell’azione da intraprendere nel fu­ turo. Con Manzoni, Rosmini e Gioberti noi abbiamo esaminato le teorizzazioni più interessanti di quel filone di cattolicesimo liberale e di neoguelfismo, che è cer­ tamente tra le correnti più vive, soprattutto tra il terzo e il quinto decennio del secolo. Attorno ad esse si raccolsero figure non secondarie di pensatori, let­ terati e storici, da Raffaello L ambruschini (1798-1873) a Gino Capponi (17921876', che con Viessieux fondò la rivista « Antologia » e fu autore di rinomate opere storiche (Lettere sulla dominazione dei Longobardi in Italia e Storia della Repubblica di Firenze), dagli storici Carlo T roya (1784-1858), Luigi T osti (1811-1897) e Michele A mari (1806-1889), a Cesare B albo (1789-1853), il quale oltre che del Sommario della storia d’Italia fu autore anche di quelle Speranze d’Italia che precisavano il programma del Primato giobertiano affrontando la questione della necessità di allontanare l’Austria dal Lombardo-Veneto, senza

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Le correnti donane del ittoUcesimo

Le correnti e liberali e mocratiche

LE TENDENZE FILOSOFICHE N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

di che la confederazione degli stati italiani sarebbe stata impossibile. E I’obbiettivo era ritenuto raggiungibile non con la guerra, ma con la trattativa, compensando l’Austria nei Balcani. Benché spesso su posizioni differenti soprattutto per ciò che concerne il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa (ché, anzi, in molti di essi, come il Lambruschini, si fa sentire l’eco del movimento riformistico detto del « Risve­ glio » e delle dottrine dello svizzero Alessandro V inet (1797-1847), tendenti ad affermare una netta separazione tra Stato e Chiesa e il ritorno di quest’ultima alle origini evangeliche), tutti questi pensatori concorrono a delineare un movi­ mento cattolico libera'e « moderato », monarchico, federalista e riformista, e perciò in antitesi con quello repubblicano, unitario e insurrezionale delle cor­ renti laiche liberali, democratiche e radicali. Ciò non di meno, esso si trovò a dover sopportare anche la lotta e la condanna delle correnti più reazionarie e tradizionaliste (nel senso dell’ultramontanismo e della « sacra alleanza » tra il trono e l’altare), rappresentate per lungo tempo, oltre che dai gesuiti, dal Pa­ pato stesso. È del 1832 l’enciclica Mirati vos con cui il Pontefice Gregorio XVI, talmente contrario ad ogni forma di progresso da opporsi alla costruzione delle ferrovie, condannava radicalmente il liberalismo di Lamennais (cfr. supra, p 93), esecrando « questa pazzia, che si debba procurare e garantire a ciascuno libertà di coscienza ». E la condanna era ribadita due anni dopo dall’enciclica Singulari e accompagnata dalle polemiche contro le tesi di Rosmini e Gioberti. Questo atteggiamento reazionario della Chiesa trovava del resto espressione, dopo la breve parentesi quarantottesca, nella stessa politica di Pio IX, consacrata dal­ l’enciclica Quanta Cura (1864) e dall’annesso Sillabo, in cui era ribadita l’asso­ luta inconciliabilità tra l’autorità del Papa e della Chiesa e « il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna ». La definizione del dogma dell’Immacolata Concezione e quella del dogma dell’Infallibilità papale, avvenuta nel Concilio Vaticano (1869-1870), mentre da un lato confermavano l’irrigidimento dottri­ nario della Chiesa, dall’altro accentuavano il carattere autoritario e centralizzato del potere del Pontefice. Questo irrigidimento sanciva e caso mai approfondiva un distacco tra cor­ renti cattoliche e correnti laiche che però, anche sul piano politico, già esisteva e risaliva alla diffusione stessa delle idee liberali, democratiche e poi socialiste, in Italia. Ma anche in campo laico, o come anche qualche volta fu detto, « neo­ ghibellino » si distinsero ben presto due tendenze, una di liberalismo moderato, che si ispirava sostanzialmente alla costituzione inglese, e una di democrazia radicale, o giacobina, che si rifaceva invece ai principi dell’89 e alla Francia rivoluzionaria; e l’una e l’altra maturarono le loro idee e i loro programmi patriottici nella co­ spirazione antiaustriaca, nell’attività delle società segrete, nella promozione del progresso civile ed economico, nell’operosità intellettuale: basti pensare a ri­ viste come il «Conciliatore» (1818-1819) attorno al quale si raccolse un gruppo di patrizi e liberali milanesi capeggiato da Federico Confalonieri (17851846), da Luigi Porro L ambertenghi (1780-1860) e di cui fece parte anche il Pel­ lico; o come l’« Antologia » (1821-1833), di Giampiero V iessieu x (1779-1863)

LA FILOSOFIA ITALIANA NEL SECOLO XIX

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e dei già ricordato Capponi, che fu non soltanto l’organo dei liberali toscani, ma anche centro e punto di riferimento di tutta la cultura italiana. L ’esperienza amara delle cospirazioni Carbonare e il fallimento dei moti li­ Mazzini berali dei '20-21 e del '30-31 fecero sentire l’esigenza di nuove idee, di nuovi programmi e di nuove forme di lotta. È in questo quadro che si forma la teoria e la prassi del maggior pensatore politico italiano di questo periodo: Giuseppe M azzini (1805-1872). Al centro del pensiero mazziniano sta l’idea che l’opera di rinascita nazionale e di rinnovamento civile non può avere successo finché non diventi iniziativa di tutto il popolo, uscendo dalle ristrette cerehie dei co­ spiratori e dalle astrattezze dei loro programmi. Di qui il programma di uno stato repubblicano e non monarchico, unitario e non federato, e democratico: libertà e indipendenza, infatti, non possono realizzarsi per dono sovrano o per l’opera illuminata di pochi né, tantomeno, possono venire dall’esterno, ma pos­ sono risultare solo dall’azione del popolo, in quanto depositario di una « mis­ sione divina ». « Dio e popolo » e « Pensiero e azione » son i due motti fa­ mosi in cui Mazzini condensò le direttrici del suo programma. Le idee gianseniste e romantiche, la polemica contro l’astrattezza e l’utilitarismo delle dottrine illuministiche e il rifiuto di ogni forma di materialismo e di meccanicismo danno il senso della profonda ispirazione religiosa del pensiero di Mazzini; un’ispira­ zione che non si riconosce nella « morta religione del papato », ma in una « religione del progresso », fondata sul concetto del « dovere » e incarnata nel popolo. I due soli criteri che l’umanità abbia per raggiungere la verità sono la « coscienza » e la « tradizione », che non debbono mai essere obliterati né subordinati l’uno all’altro: « l’individualità, la coscienza, esercitata da sola con­ duce all’anarchia; la società, la tradizione, dove non sia a ogni tanto interpretata e sospinta sulle vie del futuro dalla intuizione della coscienza, genera il dispo­ tismo e l’immobilità ». La religione del progresso è quindi la religione di una progressiva incarnazione di Dio nell’umanità e la famiglia, la nazione e l’uma­ nità sono le sfere sempre più ampie in cui questa incarnazione si attua. Libertà e indipendenza per le singole nazioni e libera associazione tra le nazioni, e nello stesso tempo una missione educativa del popolo‘(alla quale egli dava un valore primario) erano quindi gli obbiettivi che Mazzini dava alla « Giovane Italia » e alla « Giovane Europa ». II metodo che Mazzini sostenne per raggiungere questi obbiettivi consisteva I limiti del nell’insurrezione popolare e nella guerriglia (e si rifaceva all’opuscolo di Carlo pensiero Bianco, Della guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia, mazziniano « altre tenden uscito nel 1830), un metodo però che presupponeva l’appoggio delle masse con­ del pensiero tadine, che invece non riuscì mai ad avere, sia perché la « religione del politico itali: progresso » non era in grado di sostituire la secolare tradizione cattolica nelle campagne sia perché Mazzini pospose sempre i problemi economico-sociali al­ l’attuazione del disegno politico-religioso, rimase sempre contrario alla soppres­ sione della proprietà e non fu così in grado di dare obbiettivi concreti alle ten­ sioni sociali e di mobilitare gli stati più bassi della popolazione. Ciò spiega altresì la rottura con la I Internazionale, la polemica con il marxismo (cui

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LE TENDENZE FILOSOFICHE N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

Mazzini rimprovera la negazione di Dio, della patria e della proprietà e con­ trappone il principio dell’associazione di capitale e lavoro) e quindi il distacco del mazzinianesimo dalle tendenze più avanzate e progressiste che il socialismo (si pensi all’influenza di Bakunin e di altri socialisti rivoluzionari e anarchici) an­ dava diffondendo tra operai e contadini, e che trova un’espressione caratteri­ stica nel socialismo, di stampo prudhoniano e fondato sulla nazionalizzazione delle terre e del capitale, esposto da Carlo P isacane (1818-1857) nel suo Saggio sulla rivoluzione. Il che non significa attenuare l’importanza fondamen­ tale del pensiero e dell’azione mazziniana nella storia del nostro Risorgimento, ma solo collocarla storicamente, accanto alla linea liberal-moderata di Cavour e a quella democratica del Partito d ’Azione d’ispirazione garibaldina. Rimandando al paragrafo seguente l’esame, nel quadro della diffusione in i letteratura unorialistica Italia delle idee positivistiche, delle dottrine politiche del Cattaneo e del Fer­ rari, dobbiamo qui ricordare che un’importanza notevole per la diffusione delle idee politiche, morali e religiose del Risorgimento ebbe, oltre il melodramma, la letteratura storica e memorialistica: dalle Mie prigioni di Silvio P ellico (17891854) alle Ricordanze di Luigi S ettembrini (1813-1876), da I miei ricordi di Massimo D ’A zeglio (1798-1866) alle memorie di Pietro M aroncelli (17951846), di Carlo B ini (1806-1842) e altri, alla letteratura garibaldina (Giuseppe Cesare Abba , 1838-1911).

6

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Ardigò e il positivismo italiano.

L ’influsso delle idee positivistiche sulla cultura italiana è piut­ tosto tardo e si manifesta con ampiezza solo nell’ultimo trentennio dell’Ottocento con la filosofia di Ardigò e, su un piano di minore originalità, con tutta una serie di scienziati, medici, psicologi, giu­ risti, sociologi. Già nei decenni precedenti, però, si era venuta conso­ lidando, soprattutto nell’Italia settentrionale, una tradizione di « studi positivi » che si ispirava alla filosofia di Romagnosi e al gruppo di intellettuali che si era raccolto intorno a lui. Le idee dell’illumini­ smo, Saint-Simon e Vico sono tra i punti di riferimento più frequenti di questi pensatori, tra cui spiccano il Cattaneo e il Ferrari. Discepolo del Romagnosi e fondatore di quell’importantissima Cattaneo rivista che fu il « Politecnico », patriota fervente, di cui è nota l’at­ tiva partecipazione alle cinque giornate di Milano, e infine esule, di idee democratiche, repubblicane e federaliste, Carlo C a t t a n e o (1801-1869), autore di numerosi scritti, articoli e opuscoli, di cui è da ricordare la Psicologia delle menti associate, occupa un posto importante nella culrura italiana per l’opera di sprovincializzazione

Tradizione lluministica positivismo

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F IL O S O F IA

IT A L IA N A

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SECOLO

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in cui si impegnò e per la molteplicità di interessi che coltivò. La filosofia, per lui, non è inerte speculazione, ma « milizia » impegnata nella trasformazione del mondo: per questo essa deve essere li­ berata da ogni fantasticheria metafisica e dalle ipotesi astratte e quindi restituita al metodo sperimentale, alla positività dei fatti sia naturali che sociali, alla concretezza di tutti gli elementi che concor­ rono a formare la molteplice varietà del mondo e della vita (è chiaro qui l’influsso della « filosofia civile » di Romagnosi). Lo stesso studio del pensiero umano va condotto sul « terreno storico e sperimentale »: di qui il ritorno a Vico, cui il Cattaneo attribuisce il merito di aver fondato « l’ideologia sociale », cioè lo studio dell’individuo nel seno dell’umanità, anche se non ne condivide la teoria dei corsi e ricorsi (che è anzi incompatibile con una vera e propria teoria del progresso storico, continuo malgrado le antitesi e le derivazioni temporanee, quale egli accetta da Saint-Simon e da Hegel); di qui anche ima con­ siderazione nuova della storia, polemica contro tutte le fumoserie spiritualistiche, attenta ai fattori giuridici, economici e sociali e fon­ damento di quella « psicologia delle menti associate », che risolve in psicologia sociale la tradizionale psicologia spiritualistica e in­ terpreta come atti sociali (cioè non del singolo ma della comunità) le tradizionali « facoltà dell’anima ». Motivi in qualche modo analoghi si ritrovano anche in Giuseppe Ferrari F e r r a r i (1812-1876), autore di una Filosofia della rivoluzione e primo editore delle opere complete dì Vico. La filosofia, per lui, ha il compito di portare a termine il cammino intrapreso dalla Rivo­ luzione francese e interrotto dalla rivincita reazionaria. Si tratta in primo luogo di sgombrare il terreno dallo spiritualismo tornato in auge, dalle astruserie della metafisica e dagli apriorismi della « lo­ gica », e ^quindi di tenersi saldamente al « fatto », subordinando ad esso la teoria. Alla rivelazione religiosa egli intende sostituire così la « rivelazione naturale », cioè l’intuizione e l’osservazione diretta dei fatti, la quale, memore della lezione di Hume, rinuncia alle con­ getture e alle ipotesi arbitrarie ed a porre « un fenomeno al di là dei fenomeni ». Solo così è possibile, dopo l’età della religione e quella della metafisica, dare avvio all’epoca della « rivoluzione » che instaurerà il regno della scienza e dell’eguaglianza, fondato sul pri­ mato dell’esperienza, sulla soppressione delle chiese, sul socialismo e sulla democrazia, i cui avversari, ormai non sono più principi, re

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a diffusione delle idee ositivistiche

A rd igò

LE

TENDENZE

F IL O S O F IC H E

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e nobili, ma « i borghesi che vegliano inesorabili alla difesa della proprietà e della religione ». Come si è detto, l’influsso delle idee positivistiche, della filo­ sofia di Comte e soprattutto di Darwin, Spencer e dei materialisti tedeschi, si fa sempre più accentuato a partire dalla metà del secolo, trovando condizioni favorevoli nello stesso sviluppo civile e sociale italiano e nella problematica che domina la costituzione dello stato unitario; nello stesso tempo spontaneamente si ricollega alla tradizione, mai del tutto interrotta, del naturalismo rinascimentale e dello spe­ rimentalismo galileiano. Così, se Andrea A n g iu l l i (1837-1890), autore de La filoso­ fia e la ricerca positiva, polemizza da posizioni positivistiche contro quella filosofia idealistica a cui pure aveva inizialmente aderito, Ari­ stide G a b e l l i (1830-1891), autore de L ’uomo e le scienze morali, Salvatore T o m m a s i (1813-1888), autore del Naturalismo moderno, e Pasquale V i l l a r i (1820-1918), autore, oltre che di importanti opere storiche, di La filosofia positiva e il metodo storico, danno con­ tributi di un certo rilievo all’approfondimento delle dottrine posi­ tivistiche nel campo pedagogico e morale (tra l’altro ispirando anche concrete riforme scolastiche, soprattutto nell’ordine primario), nel campo della scienza naturale e in quello delle scienze storiche: primato dell’esperienza, rifiuto della metafisica e della ricerca di verità assolute, applicazione dello sperimentalismo galileiano an­ che alle discipline morali sono i capisaldi di questa corrente positivi­ stica, che trova più matura e consapevole elaborazione sistematica nell’opera di Ardigò. Nato nel 1828, Roberto A rdigò entra nella vita sacerdotale, che poi abbandona a seguito di una lunga crisi maturata attraverso gli studi di filosofia, Questa crisi, gli attacchi cui fu fatto oggetto (tra l’altro fu scomunicato) e l’appassionato dibattito che investì il mondo culturale e politico quando fu nominato professore all’Università di Padova fecero di Ardigò in qualche modo il simbolo delle cor­ renti progressiste e laiche e una figura emblematica delle vicende della cultura e della società italiana, anche al di là dei suoi effettivi meriti filosofici. Ardigò muore, suicida, nel 1920, dopo una vita di esem­ plare probità morale, in pieno clima di reazione neo-idealistica che del suo pensiero aveva fatto uno dei suoi bersagli polemici. Tra i numerosi scritti che egli compose, spesso con intento di chiarimento

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o di polemica, meritano di essere ricordati il saggio su Pietro Pomponazzi, in cui manifestava le sue simpatie per il naturalismo rina­ scimentale, considerato precursore del positivismo, La psicologia come scienza positiva, La formazione naturale nel fatto del sistema so­ lare, La morale dei positivisti, Sociologia, La dottrina spenceriana dell’inconoscibile. La scienza, secondo Ardigò, si fonda nei fatti, sulla base dei quali L a scienza e F« ignoto » (no opera le sue progressive generalizzazioni, fino a costruire il quadro l’« inconosci­ sinottico e classificatorio dei fatti presi in esame: in questo senso, bile ») il « fatto » ha realtà per sé, inalterabile da parte nostra, e perciò è « divino »; l’astrazione e la generalizzazione, invece, Sono opera nostra e quindi sono « umane ». Ardigò procede in conseguenza ad una caratteristica classificazione delle scienze: da un lato le « scienze speciali », e cioè la psicologia, che studia il fatto psichico dal punto di vista individuale e che comprende la logica, la gnoseologia e l’estetica, e la sociologia, che studia il fatto psichico dal punto di vista sociale e che comprende l’etica, la « diceica » (o scienza della giustizia) e l’economia; dall’altro una « scienza generale », che su­ pera i limiti delle scienze particolari e attinge il limite stesso del nostro conoscere: per questa ragione Ardigò la battezza con il nome di « peratologia » (dal greco péras = limite) e la contrappone ad ogni « protologia » (si ricordi il titolo dell’opera di Gioberti) di tipo metafisico e spiritualistico. Ma al di là del limite non c’è l’« inconoscibile » di cui aveva parlato Spencer sulle orme di Hamilton (cfr. supra, p. 181), ma solo ciò che è ancora « ignoto »: è vero che ogni singola conoscenza è relativa, ma non lo è la conoscenza "nel suo insieme e pertanto l’« ignoto » è un elemento integrativo della stessa conoscenza e non una realtà a sé stante ed opposta alla conoscenza, su cui possa poi fondarsi anche la validità della religione. Non è del resto, questo il solo punto in cui Ardigò tende a diffe­ L ’evoluzione passagg renziare la propria dalla filosofia di Spencer, di cui pure condivide la come dallo generale impostazione evoluzionistica. L ’evoluzione è infatti per « indistinto » Ardigò, studioso dei fenomeni psichici più che di quelli biologici, al « distinto » il passaggio, non dall’omogeneo all’eterogeneo, ma dall’« indistinto » al « distinto »: l’indistinto originario è dato dall’« unità psico-fisica », quale possiamo cogliere nel fatto della sensazione, in cui sono an­ cora indistinti soggetto e oggetto, il me e il fuori di me. La pro16 -

Giannantoni,

III.

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ileccanicismo e casualità

Le dottrine etiche

Lombroso

LE TENDENZE FILOSO FICH E N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

gressiva distinzione della sfera dell’io e di quella del non-io, della coscienza e del mondo esterno sta alla base dei due processi, quello della formazione dell’io o « autosintesi » e quello della formazione del non-io o « eterosintesi ». Il che esclude, tra l’altro, che si possa continuare a parlare di astrazioni metafisiche come la « materia » o 10 « spirito ». Non c’è fatto, nella realtà naturale e in quella psichica, dalla formazione del sistema solare a qualsiasi atto spirituale che non sia 11 risultato di una evoluzione di questo tipo, dove l’indistinto è tale sempre relativamente, cioè rispetto al distinto che ne consegue. E l’evoluzione non è il realizzarsi di un disegno provvidenziale e neppure il dispiegarsi di un’arcana razionalità, ma il risultato di « un sem­ plice lavoro meccanico ». Ardigò, tuttavia, attenua questo rigido mec­ canicismo, ammettendo il casuale e il contingente, non già nel senso che esista libertà e finalismo, ma nel senso che l’indistinto ha una vir­ tualità che non si determina in un solo ordine, ma in un’infinità di ordini e quindi un avvenimento finisce per essere l’intreccio non causale, in momento dato, di serie causali diverse. Anche nelle dottrine etiche, pedagogiche e giuridiche Ardigò segue la generale impostazione positivistica, da un lato polemiz­ zando contro le posizioni religiose e spiritualistiche e dall’altro cer­ cando di ricondurle ai loro elementi naturali e sociali. Tuttavia egli scrive che l’« uomo in quella specialità di atti che lo caratterizza, segue l ’ispirazione di una idealità, tende cioè ad incarnare una forma che non esiste, e a trarla, in un certo modo, dal nulla; che è quanto dire che la sua opera è una creazione ». Tale idealità, come pure il senso del dovere, nasce nella coscienza dal ripetersi dell’esperienza che noi abbiamo delle reazioni della società contro le azioni che la danneggiano; è quindi la società stessa che sottrae l’uomo al suo ego­ ismo e che fonda l’altruismo. Onde Ardigò, se considera il positivismo come un corollario del Vangelo, non nasconde neppure le sue simpa­ tie per il socialismo. Anche il concetto di diritto, infine, ha la stessa origine sociale e l’evoluzione della giustizia è determinata dalla spinta delle idealità che esprimono il diritto naturale a conformare a sé il diritte positivo. 1! positivismo ebbe una vasta diffusione nella cultura italiana, introducendo fermenti nuovi in numerose discipline e in modo par­ ticolare nella sociologia, nel diritto e nell’antropologia. A questo prò-

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posito, anzi, è da ricordare, oltre la scuola positiva del diritto penale, la figura di Cesare L o m b r o s o (1836-1909), autore di Genio e fol­ lia e de L ’uomo delinquente, che innovò l’antropologia criminale, concependo la follia e la delinquenza come malattie, con precise carat­ teristiche somatiche, studiandone le condizioni sociali, oltre che psico­ fisiche, e cercando di porre strette analogie tra la follia e il genio. Contributi importanti vennero altresì dal positivismo nell’organizza­ zione della società civile e dell’istruzione pubblica, nel clima politico successivo alla caduta della Destra storica, e al dibattito ideologico: profondamente imbevuto di positivismo è il socialismo italiano e, in generale, il revisionismo della Seconda Internazionale. Questa diffusione del positivismo si spiega altresì con l’incon­ Gli epigoni sistenza teorica dei suoi avversari, gli epigoni dello spiritualismo: dello spiritualismo da Terenzio M a m ia n i (1799-1885) e Luigi F e r r i (1826-1895) che fondarono la rivista « Filosofia delle scuole italiane », per opporre al dilagante positivismo la tradizionale « filosofia antica italiana » delle scuole, a Giovanni Maria B e r t i n i (1817-1876), a Francesco B ona t e l l i (1830-1911) ed Augusto C o n t i (1822-1905). La vera e propria reazione al positivismo si ebbe quando, agli inizi del Nove­ cento, si crearono le condizioni favorevoli ad una « rinascita neo-idea­ listica » con Croce e Gentile, di cui dobbiamo ora esaminare gli an­ tecedenti. 7 - Spaventa e la tradizione hegeliana. La polemica contro la tradizione spiritualistica e metafisica viene condotta, da diverso punto di vista, anche da quegli ambienti che, at­ torno alla metà del secolo, si mostrarono permeati dalla filosofia idealistica tedesca; si tratta di una polemica, però, che se si indirizza soprattutto contro l’impostazione dualistica e trascendente, tende anche a reinterpretare e a far propria la linea di quella tradizione. Iniziatore di questa ripresa dell’hegelismo, che ha nell’Università di Napoli il suo centro principale, può essere considerato Augu­ sto V e r a (1813-1885), autore di una Introduzione alla filosofia di Hegel e di un Saggio di filosofia hegeliana, che dedicò la maggior parte della sua vita alla traduzione e al commento degli scritti di Hegel; la sua interpretazione, priva di vera originalità, richiama le tendenze della cosiddetta « destra hegeliana » (cfr. supra, p. 107 sgg.), identi-

L ’hegelismo Ita lia: Vera

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Spaventa

Filosofia italiana e filosofia europea

« comincialento » della filosofia: il pensiero è il p rim u m

LE TENDENZE FILOSOFICHE N ELL’ETÀ DEL POSITIVISM O

ficando l’Idea con il Dio della tradizione religiosa e più propriamente cattolica. Più interessante, se non altro per l’importanza che essa ebbe nell’ulteriore sviluppo del neo-idealismo italiano, è la filosofia di Ber­ trando S paventa (1817-1883), fratello di Silvio, che fu uno dei capi della Destra storica. Bertrando insegnò a Napoli dopo un periodo di esilio a Firenze e Tonino, in cui ebbe modo di svolgere una vasta polemica contro i Gesuiti sulla libertà della cultura e dell’insegnamento. Dei suoi numerosi scritti (per lo più raccolti e pubblicati dopo la sua morte da Giovanni Gentile) ricordiamo qui La filosofia italiana e le sue relazioni con la filosofia europea, Princìpi di filosofia e Da Socrate a Hegel. Nella prima di queste opere Spaventa compie un esame generale della tradizione filosofica italiana, di cui proprio lo spiritualismo aveva cercato di ricostruire le linee fondamentali, dagli antichi pitagorici a Vico a Gioberti. Spaventa non contesta questa tradizione, ma la reinterpreta cercando di inserirla nella più vasta corrente della filo­ sofia europea, togliendola così dall’isolamento e dal provincialismo in cui era tenuta: per tale via, la filosofia moderna, dopo aver avuto inizio in Italia nell’età del Rinascimento ed essersi diffusa in Europa e soprattutto in Germania (« il pensiero filosofico italiano non fu spento sui roghi dei nostri filosofi, ma mutò stanza e si continuò in più libera terra e in menti più libere »), è ora destinata a tornare alla sua origine. Di qui le analogie che Spaventa cerca di mettere in luce, di Bruno con Spinoza, di Vico (scopritore della metafisica della mente in contrapposizione a quella dell’essere) e di Rosmini con Kant, di Gioberti con l’idealismo tedesco e soprattutto con Hegel. Quali che possano essere gli errori di questa prospettiva essa ebbe il merito di contribuire a scuotere la soggezione della cultura italiana verso quella straniera e di stimolare molteplici ricerce di storia della filosofia. In sede più propriamente teoretica, questa ricostruzione storica porta alla conclusione che la filosofia è « la ricerca del principio di ogni cosa non nella assoluta oggettività, materiale o ideale, ma nella mente assoluta ». Questo primato del soggetto assoluto è in realtà una ripresa di un tipico motivo fichtiano che Spaventa introduce nella sua interpretazione di Hegel. E questo spiega anche la critica che egli muove ad Hegel sul problema del « cominciamento » della filosofia e quindi delle prime tre categorie della logica, essere, non-

LA FILOSOFIA ITALIANA NEL SECOLO XIX

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essere e divenire: il movimento dialettico di queste categorie non sta a sé e neppure precede, ma presuppone il pensiero. Il pen­ siero. e non l’essere, è dunque il primutn e il pensiero non è l’opposto dell’essere, perché l’essere è posto appunto dall’atto del pensiero. Non solo, ma ancora sulle orme di Fichte, Spaventa insiste sul fatto che questo pensiero, che è il primum, non è il pensiero che diventa oggetto della coscienza, ma il pensiero che pensa questa stessa rela­ zione. In altri termini, il vero primum è il « pensiero pensante » e non il « pensiero pensato »: « io non posso, scrive Spaventa, affer­ rare l’atto come atto, come energia, come agens, l’atto afferrato non è più atto, ma è actum ». Per questa via la hegeliana « filosofia della totalità determinata » viene ridotta ad una gnoseologia trascenden­ tale, in cui tutti i contenuti concreti sono svalutati di fronte all’inaf­ ferrabile attività del pensiero pensante che li fonda e li fa essere. Non possiamo concludere questo panorama della cultura hegeliana De Sanctis in Italia senza fare un rapido cenno all’attività di critico letterario e di teorico dell’estetica di Francesco D e S a n c t is (1818-1883), autore della classica Storia della letteratura italiana e di numerosi Saggi e insegnante di letteratura italiana all’Università di Napoli tra il ’70 e il ’77, dopo una lunga attività patriottica e politica De Sanctis riprende la tesi centrale dell’estetica di Hegel per cui l’arte è la rivelazione dell’Idea sotto forma fantastica, anche se non ne accoglie tutte le implicazioni sistematiche (come, ad esempio, la « morte dell’arte »): di qui la polemica contro le astrattezze intellettualistiche dell’estetica illuministica, contro la vuota retorica e l’inutile eru­ dizione che permeavano la tradizione storiografica italiana, e il conti­ nuo richiamo alla pienezza dei sentimenti e delle passioni, espressa nei contenuti poetici, al concreto mondo fantastico dell’artista nei suoi nessi inscindibili con il più vasto mondo della cultura, con Ì valori morali, politici e sociali del suo tempo. Per questo, se per un verso De Sanctis sostiene che una storia della letteratura italiana non può essere altro che una « storia d ’Italia » tout-court, per altro verso egli sostiene la perfetta identità di forma e contenuto dell’opera d’arte: la forma, infatti, « non è qualcosa che stia da sé e diversa dal con­ tenuto, quasi ornamento o veste o apparenza o aggiunto di esso, anzi è essa generata dal contenuto attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma ». Vedremo più avanti come questi punti tro­ veranno ampi sviluppi nell’estetica del Croce.

PARTE III

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

PREMESSA La parabola degli avvenimenti che vanno dal finire del secolo xix ai nostri giorni è ricca di una serie di fatti che hanno radicalmente mutato la natura e la misura dei problemi che l’umanità deve affrontare. Innanzi tutto la profonda trasformazione economica che caratterizza il pe­ riodo che arriva alla prima guerra mondiale: si tratta del fenomeno che viene comunemente designato come il passaggio dal capitalismo classico all’imperialismo. L ’incremento senza precedenti della produzione, conseguente all’impetuoso sviluppo dell’industria, soprattutto nei settori siderurgico, elettrico-chimico e tes­ sile, favorito anche dall’organizzazione e dai progressi della ricerca scientifica (in particolare nelle Università tedesche); il predominio del capitale finanziario e il fenomeno dell’esportazione dei capitali; la concentrazione capitalistica, fa­ vorita da un vasto protezionismo doganale praticato da quasi tutti gli stati verso la propria agricoltura e la propria industria, e la conseguente formazione di mo­ nopoli, cartelli industriali, trusts e forme varie di dumping (cioè di prezzi diffe­ renziati per l’interno e per l’estero), che da un lato distruggono progressiva­ mente la libera concorrenza e dall’altro accrescono sempre più l’importanza, poli­ tica ed economica, dell’industria degli armamenti: sono tutti fattori che con­ corrono, insieme con l’allargamento del mercato agricolo, con il colonialismo e con la rapida estensione della rete dei trasporti marittimi e navali, alla crea­ zione di un « mercato mondiale », all’acuirsi dei conflitti politici ed economici fra gli stati (come conseguenze della saldatura che si crea, con il protezionismo, tra classe politica e i gruppi economici dominanti) e quindi alla ricerca di spazi economici sempre più vasti da parte delle singole economie nazionali: in una parola, all’imperialismo. Queste tendenze dello sviluppo economico misero in crisi l’Europa liberale che si era sviluppata nel cinquantennio precedente al congresso di Berlino (1878). Dal punto di vista internazionale, conquistata l’unità e l’indipendenza da parte dell’Italia e della Germania (mentre irrisolte erano ancora le questioni della Polonia e della zona danubiana e balcanica), i fatti di maggior rilievo sono da un lato la spinta colonialistica dell’Inghilterra, in primo luogo, della Francia, e dopo Bismarck, della Germania; il progressivo inserimento nella scena politica degli Stati Uniti e del Giappone; e, infine, la crisi della politica bismarckiana delle alleanze, che culmina nel nuovo assetto creato dalla Triplice Alleanza fra Austria, Germania e Italia (1882) da una parte, dalla Duplice Al­ leanza franco-russa ( 189^ > e dall'Entente cordiale anglo-francese (1904) dall’altra. Assetto peraltro destinato a mutare in seguito alla sconfitta della Russia nella guerra giapponese: si arrivò così alla costituzione, della Triplice Intesa anglofranco-russa, cui si avvicinava anche l’Italia, contrapposta all’alleanza austro-ger­ manica. Le potenze europee avevano trovato lo schieramento con cui si accin­ gevano allo scontro frontale.

Le trasformazion del capitalisti nel secolo XI l’imperialismo

La crisi della Europa libera

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LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

Sul piano della politica interna si accentua più o meno, il conflitto sociale La lotta lolitica nelle e ideologico: in quasi tutti i paesi nascono partiti socialisti e l’azione politica ioni europee della borghesia assume progressivamente un carattere conservatore. Se la Ger­

movimento operaio e la Rivoluzione d’ottobre

n situazione conseguente alla prima guerra mondiale

movimenti totalitari : fascismo e nazismo

mania di Guglielmo II e l’Impero austro-ungarico sono gli alfieri della politica reazionaria, fondata sull’aperta alleanza della grande industria e degli ambienti militari, anche nei paesi dove si ha un certo sviluppo degli istituti liberali e democratici (soprattutto con l’estensione del diritto di voto) le tentazioni con­ servatrici e autoritarie rimangono assai forti, come provano in Francia l’affare Dreyfus e in Italia la repressione ordinata da Bava Beccaris e le leggi eccezio­ nali del ministero Pelloux. Si diffonde, anzi, largamente una profonda sfiducia negli istituti della democrazia rappresentativa, considerata da destra troppo de­ bole a frenare la spinta eversiva del movimento operaio e da sinistra un’ingan­ nevole invenzione delle classi dominanti per conservare il potere. D ’altra parte, anche tentativi (come quelli di Giolitti in Italia) di evitare uno scontro fron­ tale e di avviare un lento processo evolutivo del clima politico e delle questioni sociali non portano a radicali mutamenti nei termini del problema. Le ideologie nazionalistiche, le suggestioni autoritarie, i miti politici della razza, dei « de­ stini » nazionali, ecc. trovano così un fertile terreno e mascherano il conflitto economico e politico. Importanza sempre più considerevole, sulla scena politica dei singoli paesi viene intanto acquistando il movimento operaio organizzato: al movimento so­ cialista francese e alla poderosa socialdemocrazia tedesca seguono il Partito Laburista in Inghilterra (1900) e il Partito Socialista in Italia (1892), mentre si cercava di rimettere in piedi l’organizzazione internazionale del movimento (II Internazionale, 1889). Nello stesso tempo, accanto a quella propriamente po­ litica, si veniva sviluppando anche l’organizzazione sindacale. Ricche come sono di implicazioni ideologiche, le posizioni e tendenze che via via si manifestarono nella storia del movimento operaio saranno oggetto di più esplicito esame in sede di analisi dello sviluppo teorico del marxismo (cfr. infra, pp. 406-14); ma qui non possiamo passare sotto silenzio l’importanza che ha, per la storia dell’ultimo cinquantennio, la creazione del primo stato socialista a seguito della Rivolu­ zione russa dell’ottobre 1917. L ’immane tragedia della I guerra mondiale (1914-18), con i suoi milioni di morti e con le tremende distruzioni nell’economia e nel tessuto sociale delle nazioni belligeranti, aggrava anziché risolvere i problemi. Le complesse que­ stioni relative alle controversie sulle riparazioni dei danni di guerra, l’astrattezza delle molte ipotesi di sistemazione politica e territoriale, si trascinano per anni, mentre sempre più torti si fanno le tensioni sociali e parti consistenti e orga­ nizzate del movimento operaio cominciano a guardare alla rivoluzione russa e all’U.R.S.S. come ad un punto di riferimento reale e ad una base concreta di un movimento rivoluzionario mondiale. La paura del bolscevismo, i timori suscitati dalle rivoluzioni socialiste (poi fallite) in Germania, in Austria e in Ungheria, la difesa delle strutture eco­ nomiche e sociali, la logica stessa dello sviluppo capitalistico, che abbiamo pre­ cedentemente visto, la crisi politica, economica e sociale ereditata dalla guerra

PREM ESSA

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e la fragilità delle istituzioni liberali confluiscono così con le spinte nazionali­ stiche e con lo « spirito di rivincita » e danno luogo nelle nazioni sconfìtte, come la Germania, o nelle nazioni « deluse » dalla vittoria, come l’Italia, a movimenti nazionalisti e autoritari, che trovano condizioni favorevoli ad una rapida con­ quista del potere. In Italia, il fascismo dell’ex socialista Mussolini passa rapi­ damente dall’iniziale spinta anarcoide e anticapitalistica a quel regime corpora­ tivo, che in un quadro politico totalitario e antidemocratico, pone ben presto lo stato a difesa dei grandi interessi industriali e agrari, mentre la ricerca di un ruolo primario dell’Italia nel concerto delle grandi potenze spinge la politica estera del fascismo sulla strada del bellicismo e dell’imperialismo. In Germania la presa del potere da parte del partito nazista di Hitler, dopo il fallimento della repubblica di Weimar, dà luogo ad un regime militaresco e poliziesco assai più spietato e brutale (e più efficiente) del fascismo italiano, alimentato da miti barbarici (come quello della supremazia razziale degli ariani non solo sugli ebrei, ma anche sugli slavi e i latini) e da sogni di potenza (il Reich destinato a « durare mille anni »: ma ne durò solo dodici), e fondato sulla potenza indu­ striale, con sempre più accentuata preponderanza di quella bellica, sul grande capitale e sull’espansionismo imperialistico ( « l o spazio vitale»). L ’ascesa del totalitarismo fascista e nazista, che divenne ben presto un fe­ L’atteg­ nomeno europeo con la presa del potere da parte di Franco in Spagna, di Sa- giamento dell democrazie lazar in Portogallo e con esperienze analoghe in altri paesi, non fu seriamente occidentali. contrastata dalle democrazie occidentali, colpite dalla gravissima crisi economica L’U.R.S.S. e { del 1929, e paralizzate dall’illusione di fermare con le trattative le tendenze U.S.A. espansionistiche della Germania (secondate alla fine dal fascismo) e dal calcolo di utilizzarle in funzione antisovietica. La Russia, d’altra parte, uscita prostrata dalla guerra e dai tentativi controrivoluzionari, era totalmente assorbita in uno sforzo grandioso di industrializzazione, di ricostruzione economica e di consolida­ mento (con profonde degenerazioni) del potere socialista, sotto la guida di Stalin; e gli Stati Uniti, sotto la presidenza di Roosevelt, erano impegnati a curare le ferite della crisi del ’29 e a dare avvio, con il « new deal », ad un processo di svi­ luppo economico e sociale che doveva farne la prima potenza militare ed eco­ nomica del mondo e che doveva gradatamente farle superare le sue persistenti tendenze isolazionistiche. L ’espansionismo imperialistico del fascismo (conquista del!’« impero » e La II guerra annessione dell’Albania) e del nazismo (annessione dell’Austria, occupazione della mondiale Cecoslovacchia, mire su Danzica, ecc.) aveva infine il suo corrispettivo in Estremo Oriente neU’imperialismo nipponico. Lo scontro divenne cosi inevita­ bile e fu la II guerra mondiale (1939-1945), incomparabilmente più sanguinosa e distruttiva della prima (basti pensare al peso che vi ebbe la guerra aerea e la sua conclusione atomica). La vittoria dell’alleanza tra le democrazie occiden­ tali e l’Unione Sovietica, il crollo del fascismo, del nazismo e del militarismo nipponico, la sistemazione mondiale delle conferenze di Teheran (1943) e di Yalta (1945) se concludevano un’epoca ne aprivano un’altra, in cui i problemi hanno assunto dimensioni e natura completamente nuove.

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La divisione del mondo in due blocchi militari ed economici contrapposti, I problemi ell’età nostra quello capitalistico sotto l’egemonia degli Stati Uniti, e quello socialista, sotto l’egemonia sovietica; la sempre più radicata convinzione dell’« impossibilità » di uno scontro armato, che, per il terrificante sviluppo degli armamenti atomici e termonucleari, non lascerebbe né vinti né vincitori, e quindi la ricerca di una « coesistenza » tra i due blocchi, sempre difficile e instabile per lo scoppio di conflitti locali (Corea, Medio Oriente, Viet Nam) che, benché contenuti, sono sintomi dell’antagonismo permanente tra imperialismo e socialismo e di un equi­ librio fondato ancora sul « terrore » e perciò sostenuto da immani spese per gli armamenti; la fine del colonialismo classico e il neo-colonialismo; l’estrema gra­ vità della situazione economica, sociale, alimentare e sanitaria dei paesi del co­ siddetto « terzo mondo »; il permanere dei conflitti razziali e sociali. Sono questi i dati caratteristici di una situazione, che vede, nello stesso tempo, le quasi incredibili prospettive di progresso aperte dallo sviluppo della scienza e dalla seconda rivoluzione industriale (elettronica, cibernetica, automazione), dalle sco­ perte conseguenti alla fissione dell’atomo e dalle esplorazioni spaziali; dall’espan­ sione del benessere, anche se molto squilibrato e tuttora ristretto a determinate zone di « civiltà ». Né è possibile trascurare le nuove tendenze ecumeniche della coscienza religiosa, lo sviluppo della civiltà dei consumi, dei sistemi di informa­ zione e di persuasione di massa (con la conseguenza di un condizionamento so­ ciale sempre più oppressivo che provoca manifestazioni di forme sempre più « globali » di contestazione); le contraddizioni dello sviluppo economico, sociale e democratico nei paesi « avanzati » e le divergenze, e anche le rotture, prodot­ tesi nel campo socialista in conseguenza della fine dello stalinismo, della pecu­ liarità delle varie situazioni e delle accresciute esigenze civili e democratiche. Di tutti questi problemi e contraddizioni, che travagliano l’umanità contempo­ ranea, anche in sede di riflessione teorica sono sempre più evidenti i riflessi. La crisi A questo svolgimento storico fa infine riscontro una profonda crisi cul­ culturale turale: a prescindere dall’evoluzione del pensiero scientifico su cui torneremo specificamente, la reazione antipositivistica fa da sfondo a tutta una serie di mo­ vimenti, tendenze e anche mode, di tipo irrazionalistico e pragmatista, che inve­ stono la letteratura non meno che le arti figurative e la musica; il simbolismo, l’estetismo decadente, l’espressionismo, l’ermetismo, il futurismo, il cubismo, il surrealismo, l’astrattismo, la pop art, il jazz, la musica dodecafonica ed elet­ tronica, l’architettura razionale, sono alcune delle etichette che esprimono tutta una serie di esperienze culturali non riducibili a tendenze positive comuni e ricche di fermenti di ricerche nuove e di inquietudini; mentre la psicanalisi e la sociologia assurgono al rango di scienze e acquisiscono nuovi metodi di co­ noscenza della realtà umana, sia individuale sia collettiva. Ma qualche ulteriore elemento avremo occasione di ricordare nei capitoli che seguono.

XI

LA R E A Z IO N E A N T IP O SIT IV IST IC A E L E C O R R E N T I D E L P E N SIE R O T ED ESC O 1. Nietzsche (p. 253) - 2. L ’empiriocriticismo (p. 258) - 3. Il neocriticismo della scuola di Marburgo e la « filosofia dei valori » (p. 261) - 4. Lo storicismo, Simmel e Vaihinger (p. 266) - 5. Husserl e la fenomenologia (p. 273).

1 - Nietzsche.

Noi abbiamo già visto (cfr. supra, p. 191) che nella cultura te­ Nietzsche: la desca della seconda metà dell’Ottocento opera una cospicua schiera vita e gli scrii di pensatori « spiritualisti », che testimoniano un’alternativa alla diffusione delle idee del positivismo. Ma sia il positivismo che lo spiritualismo, come forme di comprensione scientifica o comunque razionale della realtà, trovano, nel clima della Germania bismarckiana e guglielmina e della sua politica di potenza, una radicale contesta­ zione nella filosofia di Nietzsche, certamente una delle espressioni più tipiche dell’irrazionalismo della cultura europea contemporanea, sintomo di esigenze e tendenze profonde e perciò non immediatamente riducibili alle vicende e alle sofferenze personali del suo autore, come pure si è tentato di accreditare. Nato presso Lutzen nel 11844), Friedrich N i e t z s c h e studia filo­ logia classica a Bonn e a Lipsia; i suoi primi studi in questo campo gli valgono la chiamata, nel 1 8 6 9 , alla cattedra di filologia classica nell’Università di Basilea. Durante il soggiorno in questa città conobbe Richard Wagner, della cui musica e delle cui dottrine estetiche sul dramma musicale divenne grande e fervente ammiratore. L ’influsso di Wagner, quello della filosofia di Schopenhauer, studiata a fondo durante la residenza a Lipsia, e la passione per il mondo greco più antico diventano così i fattori fondamentali della cultura e della forma mentis di Nietzsche. Nel 1 8 7 2 pubblica il suo primo libro, La nascita della tragedia, cui fanno seguito, l’anno dopo, le Considerazioni inattuali e, nel 1878,

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Umano, troppo umano. Con quest’opera si suole segnare il distacco di Nietzsche rispetto a Wagner (il Parsifal gli apparirà il culmine della decadenza europea e, per contro esalterà la musica « mediterranea » di Rossini e di Bizet) e una diversa considerazione della filosofia di Schopenhauer; anche gli studi di filologia classica, adatti a soddisfare i « bisogni dotti ed insipidi », erano stati abbandonati e nel 1879 Nietzsche lascia la cattedra. A questa decisione contribuì certamente anche l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, che per un decennio lo portarono, irrequieto e nervoso, a peregrinare per la Svizzera e l’Italia settentrionale, finché nel 1889 è preda di quella follia che non doveva più abbandonarlo fino alla morte, avvenuta nel 1900 a Weimar, dopo un periodo di degenza alla clinica psichiatrica di Lipsia. Il decennio dal 1879 al 1889 è il periodo in cui Nietzsche com­ pone i suoi libri più significativi, da La gaia scienza a Così parlò Zaratustra, da Al di là del bene e del male a La genealogia della morale, da Ecce homo alla Volontà di potenza, spesso con uno stile aforistico e di alto lirismo, in cui poesia, tono profetico e filosofia si fondono in una visione della vita, di cui la sua vicenda personale, era la totale negazione, ma proprio per ciò tanto più profondamente sofferta: vero pensatore è, per Nietzsche, colui che affronta i pro­ blemi in modo tale da trovare in essi il proprio destino, la propria pena e la propria maggiore felicità; se invece i problemi si affrontano in modo « impersonale » non si ottiene alcun risultato, « giacché una cosa è certa, ed è che i grandi problemi, ammesso che si lascino rag­ giungere, non si lasciano guardare dai deboli e da esseri dal sangue di rana ». Già nella Nascita della tragedia è svolto uno dei temi più carat­ ,a concezione « dionisiaca » teristici della filosofia di Nietzsche: la concezione « dionisiaca » della vita della vita. Spirito « apollineo », cioè armonia delle forme, e spi­ rito « dionisiaco », cioè ebrezza orgiastica ed entusiasmo, sono le due categorie dell’arte, che emergono con chiarezza dalla più antica civiltà greca. Ed è appunto l’arte che rende accettabile la vita e il mondo, così come sono, all’uomo greco, trasfigurando nel sublime o nel comico l’assurdità dell’esistenza. Nella tragedia antica Nietzsche vede la più compiuta espressione dello spirito dionisiaco, dell’unità dell’uomo e della natura, dell’accettazione totale ed entusiastica della vita, della creazione del mito e della poesia; con Socrate (la cui

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« ironia » è la prova più evidente della consapevolezza con cui egli perpetrò il suo « tradimento »), invece, e con la filosofia comincia la scissione, il dualismo di soggetto e oggetto, e il predominio dell’in­ telletto sull’impeto e sulla generosità degli istinti e delle passioni, e quindi la contraddizione lacerante che l’umanità si porta dietro da allora: la « cultura alessandrina » e la « scienza » (cioè l’ideale della vita soltanto teorica) sono diventati gli ideali dell’uomo. È contro questi ideali, contro l’ottimismo, contro la pretesa di risolvere con la scienza gli enigmi dell’universo e della società, con­ tro l’eguaglianza e gli ideali progressivi della democrazia e del so­ cialismo, che Nietzsche preconizza il ritorno alla cultura dionisiaca, di cui vede i segni premonitori nella rinascita dello spirito tedesco, nella filosofia di Schopenhauer, che ha svelato l’irrazionalità della vita e il vuoto dei valori umani di fronte alla mancanza di ordine e di scopo, alla casualità e al caos del mondo come volontà, e infine nell’arte di Wagner, che ha posto fine al melodramma « bastardo » della tradi­ zione. Strauss, Feuerbach e Comte sono gli ultimi esponenti della cultura « socratica » dell’ideale della scienza e della « mediocrità » morale, contro cui Nietzsche continua la polemica anche nelle Con­ siderazioni inattuali, estendendola anche ad ogni forma di storicismo, in quanto la storia crea l’illusione di un corso universale e provviden­ ziale degli avvenimenti e quindi contribuisce a smorzare le energie vitali dell’individuo, volgendolo al passato e con ciò precludendogli la proiezione verso il futuro e la creazione originale. Anzi, gli uomini mediocri vedono nella scienza e nella « malattia » storica la giu­ stificazione per esimersi dal dovere dell’intelligenza e della creazione originali e per « vendicarsi », con le loro filosofie e le loro morali, di chi rompe gli schemi con la sua vitalità e originalità. Se prescindiamo da quell’attenuazione della polemica antiscientifica e antipositivistica (attenuazione che però è in funzione polemica contro il romanticismo, su cui vedremo più avanti il giudizio negativo di Nietzsche) che è rappresentato da Umano, troppo umano, l’esalta­ zione dello spirito dionisiaco trova completo svolgimento nelle opere del decennio 1879-1889 e particolarmente in Così parlò Zaratustra e nella Volontà di potenza, come antitesi a tutte quelle forme di « morale della rinuncia » che gli uomini, in ossequio della scienza e della storia, hanno via via escogitato, fino a Schopenhauer, il quale, pur avendo capito che la vita umana è irrazionalità e casualità, aveva scelto l’at-

Cultura « dionisiaca » e coltura « socratica »

La lotta contr la morale dell rinuncia

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teggiamento pessimistico della rinuncia e dell’ascetismo. La genesi di questa antitesi è nella contrapposizione, raffigurata dal Gorgia plato­ nico, tra la morale di Socrate e l’immoralità di Callide, che esalta « il diritto del più forte » ad infrangere sia le leggi della città sia le norme della moralità tradizionale per la propria autoaffermazione e la soddisfazione dei propri desideri. Ma la scienza e la mediocrità degli uomini hanno fatto prevalere la morale della rinuncia che ha nel Cristianesimo la sua espressione più completa: lo «spirito di risentimento » degli uomini deboli contro ogni forma di vita superiore ha prodotto tutti gli ideali del Cristiane­ simo: il disinteresse, il sacrificio di sé, la virtù come sottomissione a Dio, la rinuncia degli uomini schiavi contro gli uomini superiori ed aristocratici. « Mentre ogni morale aristocratica nasce da una trionfale affermazione di sé, la morale degli schiavi oppone sin dal principio un no a ciò che non fa parte di se stessa, a ciò che è differente da sé ed è il suo non-io; ed è il suo atto creatore. Questo capovolgimento... appartiene in proprio al risentimento ». È questa morale degli schiavi che, salvo la breve parentesi del Rinascimento (di cui Nietzsche esalta il naturalismo e l’accettazione gioiosa ed eroica della vita, a cui sovrastano non le divinità ma la fortuna e il fato) ha dominato la storia umana, fino a quel « furore espressivo » del Romanticismo, che nasce non da abbondanza ma da indigenza dello spirito. La scienza e la metafisica, d’altra parte, con la loro pretesa di conoscere il mondo razionalmente, hanno portato il loro contributo al rafforzamento dello « spirito di risentimento »: l’una, ormai orien­ tata verso la conoscenza e non verso il dominio delle cose, che, solo, può in qualche modo legittimarla, dando ad essa una veste di « obbiettività »; e l’altra inventando un mondo superiore, da cui poter « calunniare e insudiciare questo mondo », svalutato a mera apparenza. Per questo gli uomini di cultura moderni, i cosiddetti spiriti liberi sono, dice Nietzsche, tutt’altro che liberi, perché cre­ dono ancora alla verità. A tutto ciò, alle « menzogne di vari millenni », Nietzsche con­ La trasmutazione trappone la sua radicale « trasmutazione di tutti i valori »: « la di tutti i valori mia verità è spaventosa, perché sinora si è chiamata verità la menzogna. Trasmutazione di tutti i valori: ecco la mia formula per un atto di supremo riconoscimento di sé, di tutta l’umanità, atto

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che in me è diventato carne e genio ». Alla rinuncia e alla nega­ zione del mondo si contrappone così l’accettazione e l’affermazione di tutto ciò che è terrestre e corporeo. Zaratustra, il profeta di Dio­ niso, bandisce la nuova verità e la nuova fierezza: « non nascondere la testa nella sabbia delle cose celesti, ma portarla fieramente, testa terrestre, che crea il senso della terra ». Ristabilire, in opposizione alla filosofia « socratica », l’innocenza del divenire e superare ogni obbiezione contro l’esistenza significa riconoscere il carattere intera­ mente terrestre dell’esistenza: l’uomo è interamente corpo e l’anima è soltanto « una parola, che indica una particella del corpo ». Alle virtù del cristianesimo si contrappongono le nuove virtù: la fierezza, la gioia, la salute, l’amore, l’inimicizia e la guerra, la volontà forte, la disciplina dell’intellettualità superiore. L ’amoralismo della poli­ tica di potenza e il senso di pienezza ebbra dell’arte sono le forme più significative in cui si esprime la trasmutazione dei valori: « Parte! corrisponde agli stati di vigore animale. È da una parte l’eccesso di una costituzione florida che trabocca nel mondo delle immagini e dei desideri; dall’altra è l’eccitamento delle funzioni animali mediante le immagini e i desideri di una vita intensificata, una sopraelevazione del sentimento della vita e uno stimolante della vita ». La trasmutazione di tutti i valori è la condizione perché si abbia !*• il superamento dell’uomo e l’avvento del « superuomo », dell’uomo superiore che, nell’accettazione totale e gioiosa della vita com’è, realizza la sua piena libertà e si pone, per ciò stesso, « al di là del bene e del male », al di là delle prescrizioni e dei divieti della mo­ rale degli schiavi; dell’uomo che, appunto, « diviene ciò che è », che non sceglie e quindi non esclude, non nega alcuna delle possi­ bilità che gli sono offerte, ma si eleva al di sopra del gregge degli uomini mediocri, attuando la sua « volontà di potenza ». E quando il superuomo « spinge nell’avvenire la sua mano creatrice », allora per lui, tutto ciò che è stato e tutto ciò che è diventa un mezzo, uno strumento, un « martello » e il suo conoscere equivale ad un creare e il suo creare ad un legiferare, il suo « volere la verità » ad un « volere la potenza ». Alla darwiniana lotta per l’esistenza subentra la lotta per la supremazia e, in questo senso, Zaratustra è venuto ad annunciare che l’uomo deve essere superato, perché « il superuomo è il senso della terra»; « l ’uomo è una corda tesa 17 - Giannantoni. 111.

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tra la bestia e il superuomo, una corda sull’abisso... Ciò che si può amare nell’uomo è_che egli è un passaggio e un tramonto ». Il superuomo non è per Nietzsche incarnazione dell’assoluto o L’« eterno ritorno » c espressione di valori universali: il mondo è dominato dal caso e Vamor f a t i dall’irrazionalità, non è riducibile ad un principio logico unitario e la sua. trama svela la mancanza di un qualsiasi ordine, di una qual­ siasi bellezza e di una qualsiasi saggezza. Ma nel mondo è possibile scorgere una « necessità » ed è quella della « volontà » che vuole riaffermare se stessa, del mondo che vuole eternamente tornare se stesso. È questo quel concetto dell’« eterno ritorno » che esprime il senso cosmologico della dottrina di Nietzsche e al quale è collegato quello dell 'amor fati, che esprime la conciliazione dell’uomo con il passato e con la vicenda dell’eterno ritorno, una volta che egli abbia riconosciuto nella sua volontà di accettazione del mondo la stessa volontà del mondo che accetta se stesso. Allora, in ciò che prima era frammento, caso, enigma la volontà riconosce la sua opera e che appunto quello era ciò che essa opera e che appunto quello era ciò che essa voleva, è ciò che vuole e sarà ciò che vorrà. E questa è la volontà nuova che Zaratustra insegna agli uomini: « seguirei .volontariamente la via che gli uomini hanno seguito cie­ camente, approvare questa via e non più cercare di fuggirla come i malati e i decrepiti ». La fortuna di Nietzsche comincia quando la sua vita volge al termine ed è una fortuna che ha avuto riflessi anche assai lontani dalle genuine intenzioni del suo autore (si pensi all’interpretazione este­ tizzante di un D ’Annunzio o a quella accreditata da varie dottrine nazionalistiche o addirittura razzistiche), ma certamente trovò un terreno favorevole soprattutto in Germania, nel clima di preparazione alla prima guerra mondiale e poi nell’età del nazismo, ma anche fuori della Germania, nella crisi europea delle prospettive progressiste del positivismo.

2 - L ’empiriocriticismo. L’empirio criticismo

Il dibattito, che si sviluppa in Europa e negli Stati Uniti sulla validità dei concetti e delle pretese scientifiche del positivismo, porta gradatamente ad un riesame del concetto stesso di scienza, ad una

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critica dei suoi fondamenti e delle sue metodologie e quindi ad una nuova impostazione dei rapporti tra filosofia e scienza. Questi pro­ blemi hanno avuto un approfondimento particolarmente considerevole negli ultimi decenni, anche in relazione a profonde rivoluzioni delle prospettive tradizionali di alcune scienze (matematica, geometria, fisica' e al notevole sviluppo di altre. Noi esamineremo questo di­ battito nell’ultimo capitolo del volume, ma intanto è opportuno dare un rapido sguardo a quell’indirizzo filosofico che è noto con il nome di « empiriocriticismo » e che è una delle prime manifestazioni, nella cultura tedesca, di una profonda revisione dello scientismo po­ sitivistico. Iniziatore di tale indirizzo è considerato Richard A v e n a r iu s Avenarius (1843-1896), che insegnò filosofia a Zurigo e compose numerose opere, tra cui La critica dell’esperienza pura e II concetto umano del mondo. L ’« esperienza pura », cioè scevra di ogni implicazione metafisica, sia positivistica sia idealistica, è la condizione da cui, secondo Avena­ rius, conviene partire se si vuole costruire una scienza rigorosa e una filosofia rigorosa come la scienza; di qui l’esigenza di una « critica della esperienza », che giustifica il nome di empiriocriticismo data a questo indirizzo di pensiero. Per « esperienza pura » Avenarius in­ tende l’esperienza originaria e spontanea, in cui non si è ancora ope­ rata la distinzione tra il « fisico » e lo « psichico » : le contrapposi­ zioni di spirito e materia, di soggetto e oggetto, di esperienza interna e esperienza esterna e via dicendo, non risultano dall’esperienza stessa, che è data dalle sensazioni (che egli chiama anche « elementi » del­ l’esperienza) e dalle loro relazioni (che egli chiama anche « caratteri » dell’esperienza), e pongono perciò problemi insolubili, in conseguenza di un processo fittizio, denominato di « introiezione » o interio­ rizzazione e consistente nel contrapporre alla « mia » coscienza e al « mio » pensiero le « mie » sensazioni e le « mie » rappresentazioni. Queste tesi sono largamente condivise anche da Ernst M a c h Mach: (1838-1916), professore di fisica e poi di filosofia nell’Università di la 8Cieaza. e 1 Vienna, autore tra Tauro di Analisi delle sensazioni e di Conoscenza ed errore e certamente l’esponente più di rilievo di questo indi­ rizzo di pensiero. La scienza, per Mach, non è altro che la continuazione e il per­ fezionamento dell’adattamento biologico all’ambiente: essa è in­ sieme « osservazione », cioè adattamento dei oensieri ai fatti, e

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Natura « economica » Ile leggi e dei concetti scientifici

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« teoria », cioè adattamento dei pensieri tra di loro, e i suoi oggetti più elementari sono le sensazioni, nella cui analisi Mach insiste non tanto sul fatto che non esiste differenza qualitativa tra fatti fisici e fatti psichici, ma solo una diversa prospettiva con cui vengono consi­ derati (un colore, in riferimento alla fonte luminosa, è un fatto fisico; in riferimento alla modificazione della retina dell’occhio è un tatto psicologico), quanto sul fatto che è erroneo sovrapporre alle sensazioni qualsiasi presupposto sostanzialistico: non sono i « corpi » che producono le sensazioni, ma al contrario sono i com­ plessi di sensazione che danno luogo ai corpi. E ciò che vale per il concetto di « corpo » vale anche per il concetto di « io ». Non solo, ma la critica del concetto di sostanza implica anche un’analoga critica del concetto di causa, al quale Mach intende so­ stituire il concetto di « funzione » matematica, cioè di interdipendenza e concomitanza dei fatti, e quindi una diversa concezione della scienza. Mach non si limita infatti a criticare il meccanicismo del positivismo, riecheggiando le critiche di Hume all’assolutezza delle leggi scienti­ fiche. ma ne contesta anche l’ottimistica fiducia nel sapere scientifico, la « nuova fede » dei tempi moderni in un arcano e magico potere: « l’uomo, egli dice, acquista le sue cognizioni intorno alla natura istintivamente, riproducendo e immaginando i fatti nella propria mente, ed integrando col pensiero, più agile e veloce, i dati della lenta esperienza; e fa questo per il proprio vantaggio materiale ». L ’origine di quell’integrazione dell’esperienza, in cui consiste la scienza, sta dunque in un’esigenza di carattere « economico », uti­ litaristico. Tale natura « economica », e quindi non conoscitiva, dei con­ cetti e delle leggi scientifiche è da intendere in due sensi: in prime luogo, nel senso che concetti e leggi sono « segni », che descri­ vono « sinteticamente », cioè classificano i fatti e quindi consentono di evitare che siano tenuti presenti e comunicati i singoli fatti uno per uno; in secondo luogo, nel senso che « la scienza sostituisce all’esperienza rappresentazioni o immagini, mediante le quali di­ venta più facile maneggiare l’esperienza stessa ». E con ciò cadono due preconcetti tradizionali sulla scienza: da un lato l ’idea che leggi e concetti scientifici abbiano una validità costante e inviolabile, e dall’altro l’idea che essi attingano ad una realtà uniforme e costante che si celi dietro il variare dei fenomeni: « la scienza, avverte

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Mach, mancherebbe alla propria dignità se i mezzi economici e mutevoli da lei stessa creati (i quali non sono che mezzi arbitrari e transitori per comprendere in modo frammentario ciò che non si può comprendere con un solò atto mentale) vedesse qualcosa di reale oltre il fenomeno ». In questo senso si spiega, altresì, l’importanza che Mach attribuisce alla critica del linguaggio scientifico, che deve eliminare tutti quei termini equivoci che la metafisica vi ha introdotto. Mentre in Germania continua ancora, da parte di scienziati-fi- Altre tendenz losofi, la tradizione della filosofia della natura, come per esempio l’« energetismo » di Wilhelm O s t w a l d (1853-1932), autore di La crisi del materialismo scientifico e di La moderna filosofia della natura, o come il « vitalismo » di Hans D r i é s c h (1867-1941), au­ tore de II vitalismo come storia e come dottrina, una più diretta influenza delle tesi di Mach è avvertibile nel « convenzionalismo » del fisico Heinrich H e r t z (1857-1894), autore di Principi di mec­ canica. Per Hertz la scienza non pone relazioni dei simboli (o segni) con le cose, ma dei simboli tra loro, cosicché « variando la scelta delle proposizioni che noi assumiamo come fondamentali » è possibile dare varie rappresentazioni dei principi della scienza e procedere al loro sviluppo deduttivo; del che egli stesso dette l’esempio nel campo della meccanica (cfr. supra, p. 165). La dottrina dell’empiriocriticismo ha avuto una considerevole importanza, perché se da una parte ha iniziato, dal punto di vista filosofico e metodologico, il processo critico sulla natura e i fe­ nomeni della scienza, dall’altra la sua dottrina sulla natura econo­ mica e non conoscitiva della scienza, con le sue implicazioni anti­ positivistiche e antimaterialistiche (che spiegano reazioni contrarie, come ad esempio quella, che vedremo più avanti, di Lenin), sarà ripresa e portata a conclusioni estreme da quelle filosofie, come lo spiritualismo e il neoidealismo, che tendono ad una radicale svalu­ tazione della scienza e dei suoi risultati. 3 - I l neocriticismo della scuola di Marburgo e la « filosofia dei valori ». Noi abbiamo già esaminato (cfr. supra, p. 189) come, intorno il neocriticism alla metà del secolo xix, si venisse manifestando nella cultura te- juJarfroigo desca quel moto di reazione al positivismo che prende il nome di

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« neocriticismo », perché si presenta esplicitamente come un « ri­ torno a Kant ». I temi fondamentali di questo indirizzo di pensiero, e cioè la polemica contro la metafisica (materialistica, idealistica o positivistica che essa fosse) e contro la pretesa di attribuire un valore assoluto alla scienza; il rifiuto della riduzione dell’esperienza umana (non solo quella scientifica, ma anche quella etica e quella estetica) a mero « empirismo » o ad uno « psicologismo » necessa­ riamente soggettivistico; la necessità di tenere fermamente distinte dalle « condizioni di fatto », empiriche e psicologiche, quelle che sono invece le condizioni trascendentali di « validità » della scienza, della morale e dell’arte: tutti questi temi trovano ampio svolgimento, negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, nella scuola di Marburgo, cosiddetta perché nell’Università di Marburgo tennero il loro insegnamento i suoi primi esponenti, Cohen e Natorp, e nella cosiddetta « scuola del Baden », che con Windelband e Rickert, svolge il punto di vista della « filosofia dei valori ». Autore di importanti studi sul pensiero di Kant, Hermann C o h e n (1842-1918), ha esposto le sue concezioni nel Sistema di filosofia, distinto in « logica della conoscenza pura », « etica del volere puro » ed « estetica del sentimento puro ». Se si vuole eliminare, sostiene Cohen, ogni possibilità di ricaduta nella metafisica è necessario ricon­ siderare quei punti della filosofia kantiana che lasciano sussistere una tale possibilità, e cioè la presupposizione di una « cosa in sé », e quindi di una realtà diversa da quella che ci è data dalla conoscenza scientifica, e la distinzione tra « estetica » e « analitica », tra cono­ scenza sensibile e conoscenza intellettuale, che reintroduce una in­ sostenibile distinzione tra il pensiero e una realtà (i dati dell’espe­ rienza) ad esso esterna. Pensiero ed essere pertanto coincidono, ma non nel senso che questa identità ha assunto nell’idealismo post-kantiano con una metafisica del soggetto assoluto e neppure nel senso di una riduzione della conoscenza scientifica a soggettivismo e re­ lativismo, bensì nel senso che entrambe sono ricondotte al con­ cetto di « oggettività pensabile », cioè alle strutture oggettive e ai contenuti del sapere scientifico: « l’attività stessa è il contenuto, la produzione è il prodotto, l’unificazione è l’unità. Solo a questo patto la caratteristica del pensiero si lascia sollevare al punto di vista della conoscenza pura ». In questo senso, la soluzione della scuola di Marburgo rappresenta un esito del kantismo opposto a

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quello idealistico, una riduzione dell’attività del pensiero all’oggettività delle strutture del pensato, e pertanto ad una nuova « tavola delle categorie ». Cohen distingue infatti i giudizi di « origine », « identità » e « contraddizione », che danno luogo alla logica; i giudizi di « realtà », « pluralità » e « totalità », che danno luogo alla matematica; i giudizi di « sostanza », « legge » e « concetto », che danno luogo alle scienze matematiche della natura; e infine i giu­ dizi di « possibilità », di « realtà » e di « necessità » che danno luogo alla scienza metodica. Assai più vicina alle tesi di Kant è l’« etica del volere puro » di Cohen, le cui condizioni di validità si sommano nel concetto di « unità dell’azione » e di « unità dell’uomo »; questa unità ha infatti il suo fondamento nell’idea del « dover essere »: « Senza dover es­ sere non c’è volere ma soltanto desiderio. Attraverso il dover essere la volontà realizza e conquista un autentico essere ». Cohen torna quindi a ribadire la validità dell’imperativo che comanda di con­ siderare l’umanità in sé e negli altri sempre come fine e mai come mezzo e ciò può trovare attuazione solo in un sistema « socialista », giacché non è possibile conciliare la dignità della persona umana con la riduzione del valore del lavoro a quello di una merce qualsiasi. Non sono quindi le contraddizioni interne e le leggi oggettive di sviluppo dell’economia capitalistica, ma un ideale morale ciò che spinge al socialismo; e non a caso Cohen polemizza contro il socialismo materialistico di Marx e finisce con l’esaltare il primato spirituale del popolo tedesco e la sua missione; la spiritualità etica della Germa­ nia, impersonata da Kant, è così contrapposta al sensismo, utilitari­ smo ed eudemonismo della cultura anglosassone. Cohen aveva più volte sottolineato l’affinità della sua dottrina Natorp / dell’« oggettività pensabile » con la dottrina platonica delle idee, e a Platone dedica uno dei suoi studi storici più importanti, La dottrina platonica delle idee, l’altro principale esponente della scuola di Marburgo, Paul N a t o r p (1854-1924): contro l’interpretazione aristotelica che concepisce le idee come fossero « super-cose », cioè realtà superiori poste in un mondo iperuranio, Natorp insiste nella tesi che « l’idea esprime il termine, il punto infinitamente lontano, al quale indirizzano le vie dell’esperienza; le idee sono perciò le leggi del procedimento scientifico ». Per il resto Natorp, nei suoi scritti teorici (tra cui Fondamenti logici delle scienze esatte), svolge

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idee sostanzialmente analoghe a quelle di Cohen, sottolineando par­ ticolarmente il valore metodologico della ricerca filosofica e l’iden­ tità di logica e matematica (la logica è la metodologia della conoscenza delle scienze esatte). Anche in Natorp troviamo infine ripresi i motivi del « socialismo etico » (che ritroveremo anche nella tradizione riformi­ stica del socialismo: cfr. infra, p. 406) e quelli del primato del po­ polo tedesco, ben inquadrabili nel clima politico dei primi anni della I guerra mondiale. Cassirer Sviluppi originali e importanti le dottrine della scuola di Marburgo hanno trovato, infine, nel pensiero di Ernst C a s s i r e r (1874-1945), professore ad Amburgo e a Berlino e, dopo il 1940, nell’Università di Yale negli Stati Uniti. Autore di fondamentali studi sulla filoso­ fia del Rinascimento e dell’Illuminismo e di una monumentale sto­ ria del Problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’età moderna, Cassirer ha esposto le sue dottrine in varie opere, di cui la più importante è la Filosofia delle forme simboliche. Anche in questo pensatore è viva la polemica contro ogni inter­ pretazione sostanzialistica delle condizioni di validità del sapere scien­ tifico: si tratta piuttosto di « funzioni », e in questa dottrina egli si richiama non solo alle tesi della scuola di Marburgo, ma anche a quelle dell’empiriocriticismo e in particolare di Hertz (cfr. supra, p. 261). E proprio il concetto di funzione mette in luce il ruolo pri­ mario che nella costituzione, non della sola scienza, bensì di tutto il mondo umano è assunto dal « simbolo », cioè dal linguaggio, che perciò non ha valore unicamente per comunicare un contenuto già elaborato, ma un valore ancora più fondamentale nella costruzione e determinazione del contenuto stesso del pensiero. La « filosofia delle forme simboliche » è pertanto l’analisi delle forme assunte da questa attività simbolica, dal mito alla religione, dall’arte alla scienza e alla storia (come interpretazione che svela il significato degli avveni­ menti), forme che sono tanto più valide quanto più si allonta­ nano dal cosiddetto dato originario e intuitivo: « la negazione delle forme simboliche, anziché afferrare il contenuto della vita, distrug­ gerebbe la forma spirituale alla quale questo contenuto si dimo­ stra necessariamente legato ». Perciò, osserva Cassirer, piuttosto che animai rationale (dato che il concetto di ragione è inadeguato a com­ prendere tutta la vita culturale) è opportuno chiamare l’uomo ani­ mai symbolicum.

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Se la scuola di Marburgo insisteva sulla contrapposizione tra espe­ rienza e condizioni di validità dell’esperienza stessa, la scuola di Baden mette in luce, sempre in relazione polemica con la metafisica e il positivismo, l’irriducibile opposizione tra « fatto » e « valore » e « filosofia dei valori » è chiamato appunto questo indirizzo di pen­ siero. I suoi maggiori esponenti sono Wilhelm W in d e l b a n d (18481915), professore a Zurigo, Strasburgo e ad Heidelberg e autore di un famoso Manuale di storia della filosofia, di uno studio su Platone e di vari scritti teorici, tra cui il più importante è la raccolta di saggi dal titolo Preludi-, e Heinrich R i c k e r t (1863-1936), che succedette a Windelband nell’insegnamento ad Heidelberg e le cui opere più importanti sono Sistema della filosofia e Problemi fondamentali della filosofia. Le idee di Rickert non presentano sviluppi particolarmente originali e rilevanti rispetto a quelle di Windelband, di cui costi­ tuiscono piuttosto un’esposizione più sistematica ed anche scolastica. Windelband polemizza, d’accordo con Kant, con i tentativi di fondare una scienza metafisica ed ugualmente polemizza contro il concetto di filosofia proposto dal positivismo, perché fare della filo­ sofia la rielaborazione e unificazione dei risultati ultimi della scienza, significa ridurla ad un « lavoro letterario da dilettanti », che non sono competenti in nessuna scienza e tuttavia pretenderebbero esserlo in tutte. Certo, la filosofia deve collegarsi ai risultati delle scienze, ma ricercando la « struttura intima » del lavoro intellettuale e le sue « premesse obbiettive », indipendentemente dalla loro genesi psico­ logica. Orbene noi attribuiamo ad alcune rappresentazioni una vali­ dità universale e il carattere di una necessità che va oltre quella della loro origine empirica, cioè riteniamo che esse siano un « valore ». Il problema che ci si presenta è di stabilire la legittimità di questo procedimento (si tratta, dunque, di una quaestio iuris e non di una quaestio facti, secondo la distinzione kantiana: cfr. voi. II, p. 309); la filosofia si identifica pertanto con la « scienza critica dei valori univer­ sali e necessari » e suo compito è indagare « a quali condizioni una scienza possieda il valore di verità con validità necessaria e univer­ sale, a quali condizioni un’azione possieda il valore di bontà, a quali condizioni infine un vedere o un sentire possieda il valore di bellezza, egualmente con validità necessaria e universale ». A questa triparti­ zione di Windelband, Rickert sostituisce una più complessa classifica­ zione: sei sono i « domini del valore », logica, estetica, mistica, etica,

La scuola di Baden: Windelband, Rickert e la « filosofia dei valori »

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erotica e filosofia della religione, che concernono rispettivamente i valori di verità, bellezza, santità impersonale, moralità, felicità e san­ tità personale, e che danno luogo ad altrettante forme di intuizione della vita (intellettualismo, estetismo, misticismo, moralismo, eude­ monismo e teismo). Quale che sia l’importanza di queste classificazioni, il punto fondamentale sta nella distinzione tra « giudizi di valore », formulati dalla filosofia e « giudizi di fatto », formulati dalla scienza. La caratteri­ stica dei giudizi di valore è la pretesa di avere un valore assoluto non solo per noi, ma anche per gli altri. In questo senso essi sono « ideali perché non esprimono un dato di fatto, e necessari perché devono poter valere per tutti; ma avverte Windelband (anche qui riecheggiando una distinzione kantiana: cfr. voi. II, p. 325) si tratta non di una necessità naturale, ma di una necessità ideale, di una necessità « non del non poter essere altrimenti, ma del non poter essere permesso il contrario ». E questa necessità ideale costi­ tuisce quella « coscienza normativa », che la nostra coscienza empirica trova in sé e a cui deve adeguarsi. Windelband, infine, propone in polemica con Dilthey (cfr. para­ grafo seguente) una distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, secondo la quale le prime sarebbero essenzialmente « nomotetiche », cioè volte a « porre leggi » dei fatti, e le seconde « idiografiche », cioè volte a « descrivere la particolarità » di ciascun fatto nella sua singolarità. Ma si tratta di una distinzione non « oggettiva » ma soltanto « metodica » perché qualsiasi fatto può essere considerato da entrambi i punti di vista. 4 - Lo storicismo. Simmel e Vaihinger. In senso lato, per « storicismo » si intende quella concezione filosofica per cui la realtà, tutta la realtà, è storia e nient’altro che storia, cioè sviluppo, divenire, e per cui ogni accadimento è storica­ mente condizionato, cioè possibile e valido solo nella determinata situazione storica che l’ha prodotto. In questo senso, lo storicismo è uno degli aspetti più caratteristici del pensiero contemporaneo, una delle testimonianze più significative del persistere dell’eredità hege­ liana. Ma vi è anche un senso più specifico del termine « storicismo », che caratterizza quella corrente di pensiero che si sviluppa in Germa-

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nia tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento: si tratta, in questo caso, di un’analisi critica della « conoscenza sto­ rica >••. dei suoi oggetti e dei suoi strumenti, distinta e contrapposta alla « conoscenza scientifica ». In qualche modo, il problema posto dai pensatori appartenenti a questo indirizzo è analogo al problema che Kant aveva posto per la scienza della natura: « come è possibile la conoscenza storica? », quali sono le condizioni della sua validità? Alla « critica della ragion pura » di Kant, deve pertanto seguire una « critica della ragione storica ». E se anche le singole soluzioni sono variamente configurate, due problemi si impongono all’attenzione di questi pensatori: il problema dell’« individualità », come oggetto della conoscenza storica, contrapposta alla « generalità » che è propria della conoscenza scientifica; e il problema dei « valori », cioè della stabi­ lità t costanza di certi ideali e criteri, rispetto al variare e mutare del divenire storico. Già da questi tratti generali è possibile cogliere i legami che esi­ Lo sviluppo degli studi stono tra lo storicismo tedesco e le contemporanee correnti dell’em­ storici piriocriticismo e della filosofia dei valori e, nello stesso tempo, la generale intonazione antipositivistica del clima culturale tedesco di questo periodo. Né è da dimenticare il grande sviluppo degli studi storici e filologici che pongono la Germania alla testa della cultura europea in questi campi: i nomi di Barthold N i e b u h r (1776-1831), autore di una Storia romane di Leopold R a n k e (1795-1886), autore di una Storia dei Papi nei secoli X V I e X V II e di una Storia della Germania ai tempi della Riforma, di Gustav D r o y s e n (1808-1884), au­ tore di una Storia dell’Ellenismo, di Theodor M o m m s e n (1817-1903), autore di una grande Storia romana, di Jakob B u r c k h a r d t (18181897), autore di ha civiltà del Rinascimento in Italia, di Karl Julius B e l o c h (1854-1929), autore di una fondamentale Storia greca, con­ corrono veramente a fare dell’Ottocento il « secolo della storia ». La storia politica, religiosa, artistica, economica e filosofica sono oggetto di una fervida attività, di cui è parte integrante il grande sviluppo della filologia classica, in tutti i suoi rami, dall’epigrafia alla critica testuale, dall’archeologia alla storia della filosofia. Anche in questo caso non possiamo entrare in dettagli, ma non possiamo non ricor­ dare il dibattito che si sviluppò tra due grandi filologi, Erwin R o h d e (1845-1898) e Ulrich W i l a m o w i t z M o e l l e n d o r f f (1848-1931), circa le tesi che sul mondo greco aveva enunciato il Nietzsche e che

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il secondo definì ironicamente « filologia dell’avvenire ». D ’altra parte i progressi della « scienza dell’antichità » e l’esposizione sistematica dei testi letterari e papiracei rendono possibile una paziente opera di recupero degli sparsi frammenti e delle testimonianze dei filosofi greci, che ora vengono raccolti e ordinati (da quelli epicurei, ad opera di Hermann Usener, a quelli presocratici, ad opera di Hermann Diels, a quelli stoici, ad opera di Hans von Arnim) e che si accompagnano alle edizioni critiche di Platone e di Aristotele, mentre Eduard Z e l l e r (1814-1918) sistemava i risultati raggiunti in una fondamentale Filosofia dei greci nel suo sviluppo storico. Da ultimo è da ricordare lo sviluppo della linguistica storica e della linguistica comparata: parentela delle lingue indoeuropee, evoluzione « diacronica » della lingua, leggi fonetiche, grammatica storica, stu­ dio del sanscrito e delle lingue romanze, oltre che storia comparata delle lingue classiche, sono i temi di grandi glottologi, da Max Mueller, ai fratelli Grimm, dal Bopp al Pott. Ed è questo indirizzo che impone il senso della storicità della lingua e che insieme alla consi­ derazione « strutturale » e « sincronica », dà luogo alla linguistica moderna. Dilthey È dunque questo il clima filosofico e culturale in cui fiorisce lo storicismo tedesco, il cui primo esponente che dobbiamo esami­ nare è anche una delle figure più significative di questo indirizzo: Wiinelm D i l t h e y (1833-1911). Successore di Lotze all’Università di Berlino, Dilthey concepì il disegno di una storia dello spirito europeo, di cui dette saggi nei suoi scritti storici sul Rinascimento, sulla Riforma, sul Romanticismo, sulle opere giovanili di Hegel; tra i suoi scritti teorici i più importanti sono Introduzione alle scienze dello spirito, Studi sulla fondazione delle scienze dello spirito e La costruzione del mondo storico. Il punto fondamentale dell’indagine di Dilthey è costituito dal­ l’esigenza di dare al sapere storico autonomia rispetto sia alla me­ tafisica (cui è finora soggiaciuto) sia alle scienze naturali; di qui la contrapposizione di « scienze della natura » e di « scienze dello spi­ rito »: le prime volte allo studio di ciò che è « esterno » a noi, le se­ conde volte a studiare ciò che è « interno » a noi stessi. Lo scopo delle scienze dello spirito è infatti quello di « raggiungere il sin­ golare e l’individuale nella realtà storico-sociale », ed ha questo di particolare, che l’individuo, mentre da un lato è il punto di incrocio

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di sistemi diversi di relazioni reciproche della realtà storico-sociale e nello stesso tempo capacità di reagire consapevolmente a queste rela­ zioni, dall’altro è anche « intelligenza che intuisce e che ricerca ». I fatti sociali, avverte Dilthey, « ci sono comprensibili dall’interno, noi li possiamo riprodurre fino ad un certo punto in noi, in base all’osservazione dei nostri stessi stati, e intuendoli noi accompa­ gniamo la rappresentazione del mondo storico con l’amore e con l’odio, con tutto il giuoco dei nostri affetti ». Questa interiorità del mondo storico ha il suo fondamento nel concetto di « Erlebnis », cioè di « esperienza vissuta », nella sua totalità, e quindi non soltanto come teoria e rappresentazione, ma anche come volontà e sentimento. Ed è appunto sull’originarietà dell’esperienza vissuta che si fonda il « comprendere storico » (diverso dallo « spiegare » scientifico che è solo intellettualistico), che assume l’esperienza vissuta come ma­ teria e che questa esperienza riesce ad intendere in virtù dei « segni » in cui essa si esprime. Connettere vita, espressione ed intendimento e unire in un sistema l’elemento comune in un certo campo (il « tipo ») cón l ’individualità che in esso si realizza è pertanto il com­ pito essenziale del sapere storico e delle scienze dello spirito. Di qui le due fondamentali « categorie della ragione storica », intese da Dilthey non come Va priori kantiano, ma come « modi » dell’intendimento storico e al tempo stesso come « strutture » ogget­ tive del mondo storico: la prima categoria è quella della « vita » nelle sue strutture della « temporalità » e dell’« importanza » (vale a dire del rapporto delle parti al tutto), cioè il modo in cui l’uomo esiste ed è situato nel mondo; la seconda categoria è quella della « connessione dinamica », per cui il processo storico, a differenza del mondo naturale dominato dal rapporto causa-effetto, produce « valori » e realizza « scopi ». Questo « teleologismo immanente » non ha però nessun significato assoluto: « ogni forma della vita storica è finita », afferma Dilthey, e quindi anche ogni valore e ogni scopo è storicamente condizionato e relativo, malgrado le sue pretese di assolutezza; anzi la consapevolezza di tale finitudine e relatività « è l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo », e ad esse non si sottrae neppure la filosofia, malgrado che in essa le pretese di universalità e di assolutezza siano più evidenti; ma quando a queste pretese si cerca di dare un fondamento teorico si ricade nella metafisica: non c’è la filosofia, ma ci sono le filosofie, e ogni

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epoca ha la sua « visione del mondo », riconducibile ad uno dei tre tipi seguenti: l’« empirismo », o « naturalismo », fondato sull’espe­ rienza sensibile (da Democrito a Spencer); l’« idealismo oggettivo », fondato sul sentimento del valore (da Platone a Hegel); e l’« ideali­ smo soggettivo », fondato sulla spontaneità del volere (da Socrate a Fichte). Spengler

L ’opposizione di natura e storia è ulteriormente sviluppata da Òswald S peng­ (1880-1936), la cui opera più famosa è il Tramonto dell’Occidente, Ab­ bozzo di una morfologia di una storia del mondo: la natura è il mondo del « divenuto », cioè ciò che la vita ha prodotto e quasi staccato da sé ed obbedisce ad una necessità causale; la storia è il mondo del « divenire », cioè della crea­ tività della vita, ed obbedisce ad una necessità organica. Questo concetto di or­ ganicità presiede alla costruzione delle varie forme storiche, delle singole « ci­ viltà » in sé concluse, il cui principio di unità è dato dalla cultura e la cui vi­ cenda, come quella degli organismi biologici, è « destinata » ad essere scandita dalla nascita, dallo sviluppo e dal tramonto. Di qui l’inevitabile « tramonto del­ l’occidente », cioè dell’attuale forma di civiltà, di cui Spengler vede i preludi nella crisi morale e religiosa e nel diffondersi delle idee democratiche e socialiste. E può essere interessante notare che nei suoi scritti politici posteriori alla scon­ fitta della Germania nella I guerra mondiale (Prussianesimo e socialismo, Ricostruzione dello stato tedesco, ecc.) egli si fa portavoce di ideali politici assai vicini a quelli del nazismo. Toynbee La risposta a questa visione apocalittica la troviamo in un pensatore inglese ancora vivente, Arnold J. T oynbee (nato nel 1889), autore di Uno studio della storia, le genesi delle civiltà e II mondo e l’occidente, il quale ha contestato il carattere organico e « biologico » delle civiltà e quindi l’ineluttabilità del loro tramonto. I successivi esponenti dello storicismo tedesco, invece, hanno concen­ trato la loro attenzione sul problema dei rapporti tra il divenire e il relativismo Troeltsch storico e l’eternità dei valori religiosi. Cosi il grande storico del Cristianesimo ler

(L’assolutezza del cristianesimo e la storia della religione; La dottrina sociale della Chiesa e dei gruppi cristiani), Ernst T roeltsch (1865-1923), sottolinea nei suoi scritti teorici, Psicologia e teoria della conoscenza nella scienza della religione, Lo storicismo e il suo superamento, il carattere storico del fenomeno religioso: le religioni, e lo stesso Cristianesimo, sono fatti storici, hanno cioè la « condizionatezza di un fenomeno storico individuato »; nello stesso tempo è presente nella religione un elemento trascendente e assoluto che non è esaurito dal divenire storico: « la relatività dei valori ha senso soltanto se in questo rela­ tivo è vivente e creante qualcosa di assoluto. Altrimenti essa sarebbe mera relaMeinecke tività e non relatività dei valori ». Considerazioni analoghe, in polemica con concezioni totalmente relativistiche dello storicismo, svolge anche Friedrich Meinecke (1862-1954), storico della Germania moderna e autore, oltre che de L’idea della ragion di stato nella storia moderna, dell’opera L ’origine dello sto­ ricismo. Lo storicismo, nato dalla dissoluzione di quel concetto di ragione umana,

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identica e costante in tutti gli uomini, da cui aveva preso le mosse il giusnatu­ ralismo, è il riconoscimento dell’individualità di ogni fenomeno storico e quindi relativismo dei valori. Ciò non di meno, anche in questa individualità e in questo relativismo è avvertibile « l’oscura sorgente di forza che deriva dalla fede in valori assoluti e in un’ultima assoluta fonte di ogni vita », cioè Dio.

Da problemi analoghi a quelli dello storicismo e nello stesso tempo dall’esigenza di dare una fondazione autonoma alla sociologia come scienza (e quindi liberata dalle implicazioni metafisiche di Comte) prende le mosse anche la riflessione di Max W e b e r (18641920), uno dei pensatori tedeschi di maggior rilievo di questo pe­ riodo, autore di numerosi scritti storici (L ’etica protestante e lo spi­ rito del capitalismo, oltre a numerosi studi soprattutto di storia economica dell’antichità e del medioevo) e metodologici, raccolti in diversi volumi. Anche Weber è d’accordo con lo storicismo che l’individualità è l’oggetto proprio delle scienze storico-sociali; ma l’individualità non appartiene oggettivamente alle cose o agli avvenimenti, bensì risulta da una « scelta individualizzante », dalla scelta, cioè, di un fatto cui si attribuisce un significato, e che perciò è isolato da altri fatti ri­ tenuti insignificanti. Ora, ciò che dà significato ad un fatto e costi­ tuisce il criterio della scelta è il « valore »: un valore pur sempre relativo e non assoluto, che conferisce alla ricerca un ineliminabile carattere di unilateralità. Dove invece Weber si distacca dallo sto­ ricismo, in particolare da quello di Dilthey, è nel ritenere valido, anche per le scienze storico-sociali, il ricorso al concetto di causa (che Weber chiama « interpretazione » e che contrappone alla « compren­ sione » immediata e intuitiva degli storicisti). L ’interpretazione causale delle scienze storiche si distingue però dalla spiegazione causale delle scienze della natura, perché fa riferimento non ad una serie univoca di causa-effetto concatenati necessariamente, bensì al concetto di « possibilità oggettiva », che consiste nello stabilire il campo di possibilità di una determinata situazione (a Maratona potevano vincere tanto gli Ateniesi quanto i Persiani) e nello spiegare per quali condizioni solo una di quelle possibilità si è verificata e quindi nell’illustrare il significato (le conseguenze) di tutto ciò. Per questo la storia deve ricorrere al concetto di legge e servirsi, come ausiliarie, delle scienze « nomologiche », che individuano le

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leggi del mondo umano, e in primo luogo della sociologia. Non l’indi­ vidualità dell’esperienza vissuta (Dilthey) ma l’uniformità dell’agire umano, studiata dalla sociologia è il principale ausilio del compren­ dere storico. E Weber ha dato un contributo di grande rilievo allo sviluppo della sociologia e delle sue tecniche di ricerca. L ’ultimo punto che qui conviene menzionare dell’analisi di Weber è la distinzione che egli insistentemente pone tra « descri­ zione » (o, meglio, « constatazione ») dei fatti, che è propria di tutte le scienze, sia naturali sia spirituali, e « valutazione » dei fatti stessi. Alla scienza descrittiva, la quale considera l’oggetto come « esistente », si contrappone la valutazione, che considera invece l’oggetto come « valido » e che è essenzialmente una presa di posizione pratica, dalla cui responsabilità l’uomo non può essere sollevato dalla scienza, che si limita a constatare i conflitti degli scopi e che tuttavia risponde essa stessa ad una vocazione di chiarezza intellettuale. Simmer A conclusione di questo paragrafo è opportuno fare un cenno alla « filosoVaihinger fia della vita » di Georg S im m el (1858-1918), autore tra l’altro di un’Introdu­ zione alle scienze morali e di Problemi fondamentali della filosofia, e alla « fi­ losofia del come-se » di Hans V aihinger (1852-1933), autore di un commento alla prima Critica kantiana e di un’opera dal titolo Filosofia del come-se. In Simmel la filosofia della vita è l’esito di un radicale relativismo che investe non solo i risultati ma anche i metodi di ricerca e che fa dei valori e delle categorie del sapere non già « principi costitutivi », come sono, in fondo, per il neocriti­ cismo non meno che per la metafisica, ma « principi regolativi » (secondo la distinzione kantiana: cfr. voi. II, p. 321), cioè sforniti di validità oggettiva e quindi validi solo per la loro utilità nella vita, che è un continuo scorrere e procedere oltre le forme determinate che essa crea e lascia emergere: « l’asso­ luto è la vita, ultima realtà cui possiamo pervenire, non dominandola concet­ tualmente, sibbene vivendola ». Anche per Vaihinger la validità dei concetti, delle categorie e in generale della conoscenza, è soltanto pratica, in relazione alla loro utilità, e non teo­ retica: anzi dal punto di vista teoretico ogni conoscenza che vada al di là del­ l’esperienza immediata non è altro che finzione, ma rispetto a tali finzioni gli uomini si comportano « come se » fossero vere, così come la ragione kantiana si comportava nel suo « uso regolativo » delle idee (cfr. voi. II, p. 321).

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5 - Husserl e la fenomenologia. La « fenomenologia » è una delle correnti più originali del pensiero contemporaneo, che si sviluppa principalmente nell’ul­ timo decennio dell’Ottocento e nei primi tre decenni del Nove­ cento, con un indirizzo sempre più chiaramente realistico e spiritua­ listico e perciò antitetico al positivismo; nel cui modo di affrontare il problema della scienza, anzi, vede una delle ragioni di fondo di ciò che Husserl chiama la « crisi delle scienze europee ». In Hegel, come sappiamo (cfr. supra, p. 66 sgg.), la fenomenologia era l’analisi del progressivo manifestarsi dello spirito soggettivo, del suo innalzamento dalla coscienza sensibile all’autocoscienza e alla ragione; nella corrente di pensiero che qui esaminiamo, invece, con il termine « fenomenologia » si fa riferimento, come vedremo più chiaramente in seguito, all’analisi della coscienza nella sua « inten­ zionalità », cioè nel suo volgersi, come spettatrice (e quindi senza deformazioni di tipo psicologistico e soggettivistico), verso oggetti che ad essa si presentano come « fenomeni », che cioè ad essa si mani­ festano (« appaiono ») nei modi specifici (cioè come « essenza »), in cui l’oggetto « si dà » alla coscienza pur non restandone coinvolto. Il rappresentante di gran lunga più importante di questa corrente di pensiero (al punto che questo si identifica pressoché completamente con le sue dottrine) è Husserl; tuttavia, prima di esaminare la sua filosofia è opportuno fare un riferimento alla dottrina dell’« inten­ zionalità della coscienza », elaborata dal suo maestro nell’Università di Vienna Franz B r e n t a n o (1838-1917), autore, tra l’altro, di una Psicologia dal punto di vista empirico. Il termine di intentio fu usato nella scolastica del secolo xiv, in contrapposizione alla dottrina del concetto come species, per indicare che il concetto si riferisce a qual­ cosa d’altro e sta in luogo di esso (cfr. voi. I, p. 367 e sgg.). Bren­ tano lo riprende per indicare la caratteristica più importante, a suo avviso, dei fatti psichici, e cioè il loro riferirsi sempre ad un oggetto immanente, il loro « dirigersi verso un oggetto »: nella rappresenta­ zione. infatti, l’oggetto è presente, nel giudizio è affermato o negato, nel sentimento è amato o odiato. Il principio dell’« intenzionalità » della coscienza non ha avuto particolari sviluppi nel pensiero di Brentano; diventa invece uno dei motivi speculativi fondamentali della filosofia di Husserl. 18 - Giannantoni. III.

La

fenomenologia

Brentano e l’intenzionalit della coscienzi

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Husserl: vita e scritti

Ha psicologia illa logica ; la dottrina del sanificato: gli oggetti e le essenze

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Nato in Moravia nel 1859, Edmund H u s s e r l studia dap­ prima matematica con Weierstrass e poi psicologia con Brentano; i risultati di queste prime riflessioni, esposte nella Filosofia dell’arit­ metica (1891), muovono nel senso di un’analisi psicologica dei con­ cetti della logica e della matematica. Questo scritto fu recensito dal grande logico e matematico Gottlob Frege (cfr. infra, p. 352 sg.), il quale aveva già svolto nei suoi Fondamenti dell’aritmetica una critica radicale alla logica psicologistica; e fu proprio questa recensione ad indurre Husserl ad abbandonare la primitiva impostazione. Frutto del nuovo indirizzo di pensiero sono i due volumi delle Ricerche logiche, pubblicate nel 1900-1901, e a cui fanno seguito, dopo alcuni anni, La filosofia come scienza rigorosa (1911) e le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913), che esprimono le linee generali del suo pensiero. Frattanto insegna nelPUniversità di Gottinga e poi, fino al 1929, in quella di Friburgo; e proprio nel 1929 vede la luce l’opera Logica formale e trascendentale, saggio di una critica della ragione logica, a cui seguono, nel 1931, le Meditazioni cartesiane, e, nel 1936, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Husserl muore a Friburgo nel 1938. Dal vastissimo materiale lasciato inedito veniva tratto e pubblicato postumo da un suo scolaro il volume Esperienza e giudizio; il resto, salvato fortunosamente durante la guerra, costituisce ora gli Archivi Husserl nell’Università di Lovanio e sta gradatamente vedendo 11 luce. La svolta del pensiero di Husserl è segnata, come abbiamo visto, dall’abbandono di quell’impostazione psicologica dei problemi logici che era tipica del positivismo (si pensi a Stuart Mill): le leggi psico­ logiche hanno una natura empirica come le scienze della natura, e perciò è impossibile, su questa base, cogliere l’essenza della coscienza e dei modi in cui gli oggetti si presentano ad essa, e quindi raggiun­ gere quel grado di necessità che devono possedere le leggi di una « logica pura », concepita come una « visione evidente dell’essenza dei modi di conoscenza ». Per chiarire questa definizione occorre par­ tire dall’idea, sostenuta da Husserl, che gli oggetti della logica appar­ tengono alla sfera del « significato » e non si identificano con le cose conosciute, quali immediatamente ci appaiono nella nostra esperienza sensibile; anzi averli identificati con queste ha portato l’empirismo alla negazione degli universali. Ma che i significati siano diversi non

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solo quantitativamente ma anche qualitativamente dagli oggetti parti­ colari (per esempio il colore da questo colore rosso di questo oggetto qui) è provato dal fatto che questi ultimi sono determinati bine et nunc, mentre da queste determinazioni prescinde completamente il significato universale, che si presenta quindi come un « puro quid », come un’« essenza » o, con termine platonico, come un eidos. L ’atto con cui noi cogliamo il significato universale, l’essenza, è L’intuizione ontologie da Husserl indicato nelle Ricerche logiche con il termine di « astra­ le regionali zione », ma questo termine ha un senso diverso da quello che esso aveva nella tradizione empiristica, perché l’essenza non è « ricavata » dagli oggetti particolari, ma colta indipendentemente da essi. Per questo nelle Idee Husserl preferisce dare a questo atto il nome di « intuizione »: « l’intuizione empirica, in particolare l’esperienza in senso naturalistico, è la coscienza di un oggetto individuale, e, come coscienza intuitiva, presenta l’oggetto come dato... Parimenti l’intuizione delle essenze è coscienza di qualcosa, di un quid verso il quale si rivolge il suo sguardo e che le è dato in se stesso ». La conoscenza delle essenze è dunque un’intuizione (« intuizione eide­ tica »), anche se di tipo diverso da quella sensibile: la fenomenologia, infatti, è una scienza non di fatti ma di essenze (è « scienza eidetica ») e le sue proposizioni sono universali, necessarie e a priori. Husserl ritiene possibile altresì isolare, mediante l’astrazione, alcune « re­ gioni » della realtà e procedere quindi all’analisi di « ontologie regio­ nali », ciascuna sufficiente a se stessa nella sua organizzazione struttu­ rale (la natura, la moralità, la religione, ecc.); ma non ha dato parti­ colare sviluppo a questo punto. Negli scritti che seguono alle Ricerche Husserl elabora i due L ’ epocht temi fondamentali della fenomenologia: quello dell’epoché (un ter­ mine che indica la « sospensione dell’assenso » e che Husserl riprende dal vocabolario dello scetticismo greco) e quello dell’« intenzionalità della coscienza » Noi abbiamo già visto che Husserl considera ormai la psicologia come una scienza empirica, al pari di tutte le scienze naturalistiche; orbene, la filosofia non può diventare una scienza rigo­ rosa finché non abbia eliminato da sé ogni residuo naturalistico, ogni presupposizione nel porre il problema della conoscenza; anche nel criticismo kantiano, per esempio, la distinzione del soggetto e del­ l’oggetto implica che tanto il soggetto quanto l’oggetto siano già dati e quindi che tutta la realtà sia già data. Se perciò noi vogliamo

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compiere il passaggio dalla psicologia alla fenomenologia, dobbiamo « mettere tra parentesi il mondo » quale esso immediatamente ci si presenta nella sua realtà più ovvia, dobbiamo sospendere il nostro giudizio su di esso. Questo atteggiamento è indicato da Husserl con il termine di epoché: per esso « noi mettiamo fuori azione la tesi gene­ rale che appartiene all’essenza dell’atteggiamento naturale, mettiamo tra parentesi tutto quanto abbraccia sotto l’aspetto ontico: dunque l’intero mondo naturale che è costantemente qui per noi, alla mano, e che continuerà a permanere come realtà per la coscienza anche se noi lo mettiamo tra parentesi. Facendo questo, scrive Husserl, io non nego questo mondo, come fossi un sofista, non metto in dubbio la sua esistenza, come fossi uno scettico, ma esercito l'epoché fenome­ nologica che mi vieta di considerare come esistente il mondo che mi sta dinnanzi, come invece faccio nella vita pratica e nelle stesse scienze positive ». Sino a che si considera esistente il mondo si è « interes­ sati » all’esistenza delle cose e al loro possesso; solo con Vepoché si diventa perciò « spettatori disinteressati », « osservatori teoretici » e quindi può aver luogo una filosofia rigorosa. La Mettere tra parentesi il mondo, però, non significa mettere tra itenzionalità parentesi la « coscienza » a cui il mondo appare: la coscienza, anzi, la coscienza è il « residuo fenomenologico », ciò che resta quando è portata a termine quella a riduzione eidetica », mediante la quale, come abbiamo visto, sostituiamo alla considerazione dei fatti e delle cose naturali la considerazione delle essenze o éide. « Ridurre » fenomenologicamente significa dunque operare una catarsi della coscienza, ridare ad essa la libertà e la consapevolezza che a fondamento di tutti i sensi possi­ bili c’è il senso ontico, l’intuizione delle essenze. La coscienza è pertanto il vero oggetto della fenomenologia pura e il suo carattere fondamentale è l’« intenzionalità », nel senso che abbiamo già incon­ trato in Brentano: la coscienza è sempre coscienza « di qualcosa » e analizzare la coscienza vuol dire analizzare i modi in cui la coscienza si rapporta agli oggetti o, che è lo stesso, i modi in cui gli oggetti « si danno » alla coscienza. Tuttavia il rapporto tra gli oggetti e la co­ scienza è di « trascendenza » nel senso che la coscienza stessa non è un oggetto e gli oggetti « ci appaiono come appartenenti al mondo dei fenomeni » e non a quello della coscienza, non sono riducibili a parti o elementi costitutivi della coscienza.

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Questo rapporto di trascendenza è ulteriormente chiarito da Husserl mediante i concetti di noesis e di noema. La coscienza è concepita come una corrente di « esperienze vissute » (Erlebnisse: si ricordi Dilthey), cioè percezione, ricordo, emozione, volontà, ecc. e ad esse gli oggetti « si danno » nei modi che sono loro propri. Orbene, Husserl mentre da un lato ritiene che l’intenzionalità sia solo un ca­ rattere delT« esperienza vissuta » ma non esaurisca l’essenza, dall’al­ tro distingue nelle esperienze vissute un aspetto soggettivo (cioè gli atti del percepire, ricordare, ecc., che tendono ad afferrare l’oggetto), a cui dà il nome di noesis, e un aspetto oggettivo (il percepito, il ricordato, ecc.), a cui dà il nome di noema: ma il noema non è l’og­ getto, che resta trascendente. Di qui la definizione di « idealismo tra­ scendentale » che Husserl stesso dà della sua filosofia e la distinzione tra la « percezione immanente », che la coscienza ha di sé e che pro­ prio perciò è assolutamente certa e indubitabile, e la « percezione trascendentale », che la coscienza ha degli oggetti, la cui realtà resta sempre « presuntiva ». Ecco perché una conoscenza rigorosa ed evidente è possibile, per Husserl, solo partendo dalla coscienza, come aveva già visto Cartesio, quando aveva superato il dubbio me­ todico (in termini husserliani: Yepoché) e aveva fondato l’evidenza sul cogito: « per quanto la mia corrente di coscienza non venga affer­ rata che in ristretta misura, per quanto sia sconosciuta nelle parti già fruite o ancora a venire, tuttavia, gettando lo sguardo sulla mia vita fluente nel suo effettivo presente e cogliendo me stesso quale puro soggetto di questa vita, necessariamente affermo: io sono, questa mia vita è, io vivo: cogito ». L ’errore di Cartesio consiste, caso mai, nell’essere tornato a considerare il sum come una coscienza empirica, come una res cogitans e quindi come un ente del mondo, una cosa tra le cose. Nelle ultime opere, e soprattutto nella Crisi delle scienze europee, Husserl insiste in modo particolare sul carattere originario della co­ scienza, sull’autosufficienza, personalità, soggettività e individualità spirituale dell’ego e richiama esplicitamente, a questo proposito, la dottrina leibniziana della monade; l’analisi fenomenologica è con­ centrata sulla « costituzione » creativa che la coscienza fa del mondo e viene marcata l’opposizione tra il « mondo della vita » costituito dalle esperienze vissute e il mondo oggettivo di cui si occupano le scienze. Il mondo della vita è il regno delle evidenze originarie da

N o e sis e noen Husserl e Cartesio

L ’originarieti della coscien e la « crisi » de scienze euroj

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LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

cui non possono prescindere le stesse operazioni logiche delle scienze; anche l’operazione primaria della logica, il giudizio predicativo, deve rifarsi ad un’evidenza « antepredicativa », che è quella con cui gli oggetti « si danno » nel mondo della vita. La crisi delle scienze europee deriva dunque dal fatto che esse hanno dimenticato che la realtà originaria è la coscienza e al posto di essa hanno messo la natura, irrigidita negli schemi di una scienza che è « interessata » alle cose (nel senso sopra chiarito) e che pertanto non è capace di rivelare il senso dell’esistenza. Solo la filosofia, che si volge direttamente alle « cose stesse » ed è pura « teoresi disinteres­ sata », che coglie intuitivamente le essenze e prescinde dagli oggetti, può pertanto ricercare il vero essere, che « è sempre un fine ideale, un compito dell 'episteme, della ragione, in contrapposizione a quel­ l’essere che la doxa ammette e suppone come ovvio ». Il platonismo (cfr. voi. I, p. 78) è uno dei punti di riferimento costanti della rifles­ sione husserliana. La fenomenologia era stata definita da Husserl, come abbiamo visto, « idealismo trascendentale »; come « materialismo trascenden­ tale » può essere definito lo sviluppo in senso realistico e antisog­ gettivistico che di essa troviamo negli scritti di Nicolai H artm ann (1882-1950), Principi di metafisica della conoscenza, Possibilità e realtà e La costruzione del mondo reale. Hartmann sottolinea da un lato la « aporeticità », cioè la problematicità, della ricerca filosofica, e dall’altro la « trascendenza » dell’atto conoscitivo, che non esaurisce né il soggetto né l’oggetto e che, lasciando sussistere un « residuo transobbiettivo » (ciò che dell’oggetto non entra nel rapporto cono­ scitivo), offre la possibilità di costruire un’« ontologia critica », di­ versa da quella tradizionale che considerava la sfera dell’essere identica a quella del pensiero. Hartmann si rifà inoltre all’argomento « domina­ tore » (cfr. voi. I, p. 64) del megarico Diodoro Crono per mostrare che la « possibilità » e la « necessità » non sono altro che modi relativi deli-essere nella sua « effettualità », cioè nel suo essere semplicemente così com’è: « l’effettualità dell’effettuale consiste nell’essere insieme possibile e necessario... il reale effettuale a ogni tempo non può essere diverso da come è, e sebbene possa diventare diverso da come è, non può diventare diverso da come diventa ». Con il che è esclusa la possibilità di concepire la libertà.

REAZIONE ANTIPOSITIVISTICA E PENSIERO TEDESCO

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L ’analisi fenomenologica, che in Husserl era vista essenzialmente nel suo aspetto teoretico, è estesa anche agli aspetti emozionali e pra­ tici nel pensiero di Max S c h e l e r (1875-1928), autore di un’opera dal titolo II formalismo nell’etica e l’etica materiale del valore. In questo caso gli oggetti, ai quali si dirige l’intenzionalità della coscienza, sono i « valori », disposti in ordine eterno e gerarchico, che vede nella prima modalità il « gradevole » e lo « sgradevole » e poi via via i. valori vitali, i valori spirituali e i valori religiosi. Di qui la po­ lemica contro il formalismo etico kantiano e la rivendicazione di un’etica « materiale », fondata sulla gerarchia dei valori, che non sono « fini », scopi per i quali si faccia qualcosa, ma sono « oggetti assoluti » e quindi non è ipotetico l’imperativo che li comanda. Al culmine Scheler pone la simpatia, che distrugge l’illusione solipsistica e ci rivela la realtà dell’« altro in quanto altro » come tale che è dotata di un valore eguale alla nostra, e l’amore, che consiste nel comprendere gli altri, nel potermi mettere al loro posto pur conti­ nuando a considerarli come « modalmente differenti » da me. La fenomenologia, non meno dello storicismo, ha avuto grande influenza sul pensiero contemporaneo e in particolare sull’esistenzia­ lismo. Ma di ciò avremo modo di parlare nell’ultimo capitolo.

Scheler

Fenomenolc ed esistenzialis

XII

LO SPIRITUALISMO FRANCESE 1. Spiritualismo, neocriticismo e contingentismo (p. 280) - 2. Blondel e la « filosofia dell’azione » (p. 285) - 3. Modernismo e neotomismo (p. 287) 4. Bergson. I dati immediati della coscienza (p. 290) - 5. Bergson. L ’evoluzione creatrice (p. 294).

1 a reazione itualistica ositivismo

Spiritualismo, neocriticismo e contingentismo.

La Francia, nel periodo che qui consideriamo, è il centro di un vivace dibattito filosofico e culturale. Se si prescinde dall’Inghilterra, è in questa nazione infatti che l’influenza del positivismo è stata più avvertibile non solo nel campo speculativo ma anche in quello lette­ rario e artistico, sociale e politico. Nello stesso tempo, però, la Francia è anche la patria della tradizione del razionalismo e dello spi­ ritualismo, una tradizione che va da Cartesio a Pascal, da Malebranche a Maine de Biran. È quindi perfettamente comprensibile che qui la reazione al positivismo prenda un indirizzo decisamente spiritualistico. Certo, non si tratta di un indirizzo univoco, che anzi è riscontrabile una gamma assai vasta di tendenze e di sfumature, ma un tratto co­ mune unisce, si può dire, tutti i pensatori che considereremo in questo capitolo, ed è la recisa opposizione alla riduzione, tipica del positivismo, dei fenomeni spirituali a « fatti », analizzabili con gli stessi metodi e gli stessi presupposti teorici delle scienze naturali e regolati dalle stesse leggi e dallo stesso causalismo deterministico che dominano la natura fisica. Di qui una netta contrapposizione tra spirito e natura, tra interiorità della coscienza e esteriorità del mondo esterno, tra un mondo in cui regnano il finalismo, la libertà, i valori e un mondo dominato dal determinismo, dalla necessità, dall’anonimo accadere dei fatti; e, in conseguenza, la contrapposizione dei metodi di analisi: all’osservazione empirica, all’induzione e alla razionalità del procedimento scientifico vengono contrapposte l’introspezione, la deduzione, l’intuizione immediata e la coscienza, come principio asso-

LO SPIR ITU A LISM O FRANCESE

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Imamente originario e « testimonianza privilegiata » della realtà spi­ rituale. Ma questa contrapposizione è solo provvisoria, nel senso che anche per ciò che concerne il mondo della natura, dei fatti, la scienza viene alla fine svalutata, è riaffermato il primato dell’intuizione e la natura stessa viene, in qualche modo, « spiritualizzata ». Proprio per la tradizione prima richiamata del pensiero francese, non stu- Lequier pirà, quindi, che lo spiritualismo sia presente nella cultura francese anche du­ rante il periodo di massima influenza positivistica, anche se solo in questo pe­ riodo quel pensiero è, per cosi dire, « riscoperto ». Tipico, per esempio, è il caso di Jules L equier (1814-1862), i cui inediti cominciarono ad essere pubbli­ cati dal Renouvier. La coscienza, in cui parla il vero Dio, è al centro del suo pensiero: « io mi appello alla coscienza, io sottometto tutto alla coscienza e sottometto la scienza soltanto ad essa ». Tra la libertà della coscienza e la necessità della natura esiste un’antinomia irriducibile; ed è appunto la libertà, con la connessa responsabilità, che mette a contatto l’uomo con Dio, il quale co­ nosce non solo ciò che l’uomo fa ma anche ciò che egli non fa, ma che tut­ tavia potrebbe fare in ragione della sua libertà. Questi temi, che ritroviamo con vari accenti anche in altri pensatori, come Ravaisson Henri Frédéric A m iel (1821-1881) e Charles S ecretan (1815-1895), sono più ampiamente sviluppati nelle opere storiche e filosofiche di Félix R avaisson (1813-1900), il quale, nel Saggio sulla metafisica di Aristotele, vede nel filosofo di Stagira, fondatore della metafisica, colui che per primo dette alla filosofia come principi non entità astratte, quali, per esempio, i numeri e le idee, ma l’intelligenza, che in se stessa coglie la realtà assoluta per un atto di esperienza immediata, cioè la coscienza. Solo l’« esperienza di coscienza » permette di libe­ rare la filosofia dalla « fisica », cioè dal naturalismo, dall’empirismo e dallo scientismo illuministico, mostrando in tutte le cose la causa e lo « spirito » che è in esse, e quindi facendo della filosofia la scienza per eccellenza. Nel Rap­ porto sulla filosofia in Francia nel secolo XIX, Ravaisson esalta Maine de Biran e il carattere aristocratico dello spiritualismo contro quello plebeo dell’illuminismo e del positivismo e dà una valutazione dello sviluppo filosofico esatta­ mente antitetica a quella che il positivista Taine aveva dato ne I filosofi fran­ cesi del secolo XIX. Nello scritto L’abitudine, infine, osserva che se la natura ci appare come meccanicismo e determinismo, ciò è soltanto effetto dell’« abi­ tudine », cioè di una disposizione che sembra automatica e che tuttavia è sem­ pre guidata dall’intelligenza. Un’analoga contrapposizione tra apparenza e astrazione, proprie del mecca- Lachelier nicismo naturale, e realtà e concretezza, proprie del finalismo spirituale (che perciò sta a fondamento anche del meccanicismo), si ritrova altresì in Jules L a­ chelier (1834-1918), autore de II fondamento dell'induzione e di Psicologia e metafisica. La psicologia ha come suo oggetto la conoscenza sensibile o, meglio, conosce il pensiero nelle sue manifestazioni sensibili, laddove solo la metafisica conosce il pensiero in se stesso e con ciò riconosce che la vera realtà di tutte

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Hamelin le cose è Dio. Nel senso di una conciliazione tra tendenze spiritualistiche e idealistiche si muove poi la riflessione di Octave H amelin (1856-1907), autore di molte opere di storia della filosofìa e di un Saggio sugli elementi principali della rappresentazione, nel quale, però, i motivi della trascendenza di Dio, della non coincidenza tra processo logico e processo storico, della « priorità » della coscienza e della persona come libertà giuocano un ruolo nettamente prepon­ derante. nouvier: il Nel quadro dello spiritualismo francese di questo periodo un posto di riocriticismo iievo spetta anche al « criticismo » e al « personalismo » di Charles Renouvier (1815-1903), delle cui numerose opere sono qui da ricordare Saggi di critica generale (che restano il suo scritto più significativo, diviso in quatto parti: analisi generale della conoscenza, psicologia razionale, principi della natura e introduzione alla filosofia analitica della storia), La nuova monadologia e II per­ sonalismo, che risalgono all’ultimo periodo della sua vita. Renouvier non vuole soltanto « ritornare » a Kant, ma anche ampliare e portare a compimento il pensiero di questo filosofo, nel senso di una rigorosa limitazione della validità della conoscenza al mondo fenomenico e alle sue leggi e di un’altrettanto rigo­ rosa critica di quella distinzione tra rappresentazione e realtà, tra fenomeno e noumeno, che è il principio di ogni metafisica. Da questo punto di vista si comprende come Renouvier elimini totalmente, contro la stessa impostazione kantiana, qualsiasi riferimento alla « cosa in sé » e sottolinei il carattere di « relatività » di ciascun fenomeno, che non è conosci­ bile se non in relazione ad altri che lo comprendono o entrano a costituirlo se­ condo determinate funzioni. La « relatività » è anzi la categoria fondamentale, quella a cui devono essere ricondotte tutte le categorie kantiane, giacché se ogni conoscenza è « un fatto di coscienza », che implica una coscienza e un oggetto rappresentato, la rappresentazione, d’altra parte, non è che una « relazione » o « un gruppo di relazioni riunite da una legge ». Forme e specificazioni di questa categoria fondamentale sono le altre categorie elencate da Renouvier: numero, estensione, durata, qualità, divenire, forza, fatalità e personalità. La comparsa di queste due ultime categorie indica la direzione « spirituali­ stica » del pensiero di Renouvier. È vero che, in un primo momento, l’inclu­ sione della personalità nel novero delle categorie ha un significato di polemica contro i residui metafisici della filosofia kantiana, e cioè la distinzione di co­ noscenza e moralità e la dottrina dell’« Io penso » (da cui si è sviluppata la metafisica idealistica) e che essa sta precisamente ad indicare che « l’oggetto della critica è precisamente quello di studiare l’io come altro dall’io come una fra le altre cose rappresentate »; non è dubbio, però, che, nell’ultimo periodo della sua riflessione, Renouvier si muove sempre più decisamente verso il personalismo metafisico. E metafisica è certamente quella cosmologia ciclica, che egli riprende dalla patristica greca, fondata sul succedersi di una pluralità di mondi esposta nella Nuova monadologia. Il motivo fondamentale del personalismo di Renouvier è la libertà dell’uomo, una libertà che egli rivendica non solo contro il determinismo delle grandi « leggi a priori della storia » formulate da Hegel e da Saint-Simon o contro

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l’organizzazione scientifica della società propugnata dal positivismo, ma anche contro Kant, che ha finito per misconoscere la persona reale « i cui metodi sono tutti fenomenici ». In questo senso egli afferma che dalla considerazione della storia è possibile ricavare solo « leggi empiriche », dalle quali è supposto il libero arbitrio e, pone altresì esplicitamente l’esigenza di un « atto creativo » come principio della serie dei fenomeni e quindi di una « persona prima e crea­ trice », cioè Dio. Motivi critici del neocriticismo sono presenti anche nel pensiero di Léon Brunschvicg B runschvicg (1869-1944), autore fra l’altro de L ’idealismo contemporaneo e de L'esperienza umana e la causalità fisica. Il compito della filosofia critica non è quello di aumentare la « quantità » del nostro sapere, ma quello di riflettere sulla « qualità » di esso; la filosofia critica è quindi « conoscenza della cono­ scenza » e il progresso in ogni campo, nella scienza, nella morale e nella reli­ gione, è dato dal sempre maggiore rilievo di questo punto di vista.

Ma il pensatore che meglio esprime in Francia la polemica dello Boutroux: il spiritualismo nei confronti del positivismo e del suo ideale della contmsent131 scienza è, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Émile B o u t r o u x (1845-1921), il cui «contingentism o» ha fortemente influenzato lo spiritualismo posteriore. Professore alla Sorbona di Parigi (che divenne il vero e proprio centro della reazione antipositi­ vistica e spiritualistica), Boutroux, nel suo scritto su La contingenza delle leggi naturali, non si limitò ad affermare la superiorità dello « spi­ rituale » sul « naturale », ma volle condurre la sua critica all’interno della stessa concezione scientifica della natura, per vedere che relazione si sia venuta stabilendo tra la legge scientifica, a cui si vuole ridurre la natura delle cose, e la libertà e la responsabilità dell’uomo. Il problema, egli avverte, si presenta con una particolare urgenza, perché la scienza ha ormai chiaramente resa esplicita la sua pretesa di esten­ dere universalmente la sua validità e non è più possibile pertanto con­ siderare come « regno della libertà » una realtà diversa da quella studiata dalla scienza. Dovremo quindi concludere che tutto è determinato e necessario e la libertà è un sentimento che deriva solo da ignoranza o da illusione? Rispondere a questa domanda si­ gnifica stabilire se il determinismo è un’« idea costitutiva » o soltanto un’« idea regolativa » (secondo la terminologia kantiana: cfr. voi. II, p. 321) dell’esperienza. E che sia vera la seconda alternativa, Boutroux crede di poter mostrare affermando che la logica, la matematica e la loro applicazione al mondo della natura contengono elementi irridu­ cibili al pensiero puro e quindi alla rigida concatenazione di un’analisi

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LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

razionale e puramente deduttiva. La polemica di Boutroux contro lo scritto di Taine L ’intelligenza (cfr. supra, p. 160 sg.) riecheggia quella di Pascal contro l'esprit de géométrie. In secondo luogo Boutroux sostiene che la realtà si dispone attraverso una serie di gradi (la materia, il mondo organico, l’uomo) ciascuno dei quali non è spiegabile sulla base del precedente, perché contiene degli elementi veramente « nuovi » e « originari », e quindi « contingenti » (nel senso che non derivano necessariamente dal grado inferiore): e contingenza è si­ nonimo di libertà. In particolare Boutroux sottolinea il « salto » che c’è tra l’ordine chimico e quello biologico e tra l’ordine biologico e quello spirituale Se tutto ciò che accade fosse un effetto proporzio­ nato alla causa, come vuole il principio di causalità, questa contingenza sarebbe inspiegabile, laddove, al contrario, l’effetto è sempre originale e contingente rispetto alla sua causa: materia inorganica, vita orga­ nica e vita spirituale costituiscono una gerarchia, al cui vertice, come causa e fine (cioè provvidenza) è Dio. Nei suoi altri scritti (L ’idea di legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanea e Scienza e religione nella scienza contempo­ ranea), Boutroux ribadisce che i vari tipi di leggi della realtà (mate­ matiche, fisiche, chimiche, psicologiche, ecc.) non solo non sono ridu­ cibili l’uno all’altro, ma perdono il loro valore di necessità quanto più si avvicinano alla realtà concreta e particolare, perché la loro astratta generalità non afferra la « contingenza » delle singole cose. E alla critica, all’interpretazione scientifica della natura si accompa­ gna una rivendicazione dell’« originarietà » della vita morale, fondata sul comando del « dover-essere », sull’aspirazione all’ideale e alla perfezione e infine sull’amore, e insieme una rivalutazione della fede e dell’esperienza religiosa, che nella « coscienza » hanno la loro sede e che la scienza non può scalfire: « la religione ha un oggetto diverso dalla scienza; essa non è, o non è più, la spiegazione dei fenomeni. Non può sentirsi toccata dalle scoperte della scienza relative alla natura e all'origine oggettiva delle cose. I fenomeni, agli occhi della religione, valgono per il loro significato morale, per i sentimenti che sugge­ riscono, per la vita interiore che esprimono e suscitano; è nessuna spiegazione scientifica può togliere ad essi questo carattere ». Ed è solo nel Dio del Cristianesimo che noi troviamo la ragione profonda del nostro impulso al dover-essere, alla perfezione e all’amore. Da questo punto di vista la critica di Boutroux alla scienza non è rappor-

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tabiJe a quella che, negli stessi anni, viene svolta, anche in Francia, da scienziati e epistemologi, rimanendo airinterno della stessa proble­ matica scientifica. Ma di quest’ultima ci occuperemo più avanti.

2 - Blondel e la « filosofia dell’azione ». La filosofia di Blondel, che si inserisce nel quadro dèlio spiritua­ lismo francese per la comune tendenza a « privilegiare » la coscienza rispetto alla realtà esterna, è di solito individuata con la denomina­ zione di « filosofia dell’azione », per il primato che essa riconosce alla volontà e, appunto, all’azione rispetto alla contemplazione e all’in­ trospezione: la coscienza è essa stessa azione, creazione dei valori morali, sociali e religiosi. In questo senso la filosofia di Blondel si incontra con un filone speculativo, tipico dell’apolegetica del catto­ licesimo francese, rappresentato per esempio da Léon O l l é - L a p r u n e (1830-1899), autore di La certezza morale, di La filosofia e il tempo presente, di La vitalità cristiana e altri scritti, per il quale non solo il dovere, il senso dell’« obbligazione morale », è costitutivo dell’es­ senza dell’uomo, ma anche il giudizio teorico e l’assenso che ad esso si accompagna sono opera della volontà (si ricordi la dottrina cartesiana: cfr. voi. II, p. 138), la quale, dunque, ha una funzione essenziale nella stessa attività teorica ed è la base della fede religiosa. Vedremo più avanti le relazioni tra questo indirizzo e lo sviluppo della corrente « modernista » del Cristianesimo. Nato nel 1861, Maurice B l o n d e l pubblica nel 1893 la sua opera più significativa ed importante, dal titolo L ’azione, saggio di una critica della vita e d’una scienza della pratica, alla quale seguono la Lettera sulle esigenze del pensiero contemporaneo in materia di apologetica e Storia e dogma-, negli stessi anni Blondel collabora, firmando con uno pseudonimo, agli « Annali di filosofia cristiana » di Laberthonnière (cfr. paragrafo seguente), ma, dopo la condanna del modernismo (1907), rinuncia per un lungo periodo a pubblicare altri scritti, che non fossero brevi saggi di chiarimento. Solo nel 1934 vede la luce un’opera in due volumi, dal titolo II pensiero, a cui seguono L ’essere e gli esseri, una nuova edizione dell’Azione e infine La filosofia e lo spirito cristiano. Blondel muore nel 1949.

L a filosofia dell’azione

Blondel

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,a dialettica ella volontà e Dio

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

Il motivo fondamentale svolto nèh'Azione è quello della dialet­ tica della volontà: c’è sempre un immanente contrasto, un’interna tensione, tra la « volontà di dominare tutto o di poter tutto ratificare » e « ciò che domina e opprime la volontà »; un contrasto che risorge continuamente dai precari equilibri che di volta in volta sono rag­ giunti e che solo nel « soprannaturale » può trovare il suo acquieta­ mento. La filosofia, pertanto, se vuole cogliere questa dialettica, non deve ragionare astrattamente sull’« idea » di azione, ma deve penetrare nell’intimo dell’azione, farsi essa stessa azione. Il dissidio, immanente nell’azione, tra la volontà volente e la volontà voluta (cioè la sua realizzazione) segna anche il destino del­ l’uomo e dà ad esso un senso: è infatti quel dissidio che produce le sempre nuove e più ampie forme di azione. Blondel, tuttavia, non interpreta in modo ottimistico e progressivo questa dialettica del­ l’azione, nel senso cioè di un impegno sempre più pieno e vasto, ma la interpreta come tale che rivela sempre più chiaramente la sua defi­ cienza e la sua inefficacia. E questo è vero sia nelle sue forme più basse, come il corpo e le sensazioni, sia in quelle più alte. Nelle sen­ sazioni, infatti, il carattere di immediata e totale certezza che sembra contraddistinguerle è in contraddizione con il fatto che esse non potrebbero essere neppure sentite se non fossero oggetto di rappre­ sentazione, cioè se non ricevessero da noi qualcosa che esse non pos­ siedono. Senza soluzioni di continuità, questo dissidio è immanente anche nella scienza (tra leggi universali e intuizioni particolari, tra oggettività delle sue proposizioni e intervento costante della sogget­ tività dello scienziato); e non può quindi la scienza indicarci il nostro destino, ma al contrario è il nostro destino che dà sostegno alla scienza. Di qui la « priorità » della coscienza, che è soggettività e interiorità, rispetto al mondo esterno e ai suoi dati, e la rivendicazione della sua libertà. Il « bisogno di espansione di una volontà divisa e contrastata in se stessa » mostra quindi la deficienza e l’inefficacia dell’individuo nel suo isolamento e nella sua singolarità, giacché l’individuo comprende di essere soltanto « un mezzo o una specie di oggetto » rispetto a quel « soggetto » che vuol essere. Nasce pertanto l’apertura verso gli altri, la socialità, che si realizza nei tre gradi della famiglia, della patria e del­ l’umanità, e quindi della moralità. Ma qui il dissidio tra volontà vo-

LO SPIR ITU A LISM O FRANCESE

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lente e volontà voluta, tra il dover-essere e l’essere, anziché placarsi si accentua e si rivela come incomponibile sul piano del finito. Perché scompaia il contrasto tra « ciò che faccio senza volere » e « ciò che voglio senza fare », perché insomma l’uomo possa voler volere e quindi attingere un termine che segni l’adeguazione tra la volontà e la sua realizzazione, è necessario trascendere il piano del finito: « volere tutto ciò che vogliamo nella sincerità piena del cuore è collocare in noi l’« essere e l’azione di Dio ». Dio e la religione sono così l’esito ultimo della filosofia dell’azione: ma la trascendenza divina scaturisce direttamente dall’azione e la sua infinità dal dissidio che è immanente nel finito. Non si tratta quindi di un riconoscimento intellettuale di Dio, perché « il problema che l’azione pone solo l’azione può risolvere », e lo risolve appunto « collocando in noi » l’essere e l’azione di Dio: questo è ciò che Blondel chiama il « metodo dell’immanenza » nell’apologetica, espo­ sto nella Lettera, e con il quale non si intende affermare l’immanenza reale dell’uomo in Dio, ma solo che dallo stesso riconoscimento del­ l’inadeguatezza dell’ordine naturale scaturisce la capacità di riconoscere e ricevere il soprannaturale. Negli scritti pubblicati da Blondel dopo il 1934 il dato più carat­ teristico è costituito da un accentuato avvicinamento alle impostazioni tradizionali del pensiero religioso e metafisico, ed in particolare a quelle agostiniane (si ricordi la triade di « essere », « sapere » e « amore »: cfr. voi. I. p. 253). Non più quindi soltanto l’« azione », ma anche il « pensiero » e l’« essere » entrano nella nuova prospettiva, pur nell’analogia del metodo di analisi, che tende a mettere in luce il dissidio anche all’interno del pensiero (tra pensiero « noetico» o pensiero dell’unità e pensiero « pneumatico » o pensiero della mol­ teplicità) e all’interno dell’essere (tra la certezza « di un fondo solido » nell’esistenza degli esseri finiti e il senso di mistero che la circonda).

3 -

Il « metodo della immanenza »

Gli ultimi scritti

Modernismo e ncotomismo.

Assai vicino alle impostazioni speculative della « filosofia del­ l’azione » e del « metodo dell’immanenza » nell’apologetica, che abbiamo visto elaborate da Blondel, è il cosiddetto « modernismo », un movimento di pensiero e di critica religiosa, ben presto interrotto

Tomismo e modernismo

288

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

e disperso dalla condanna formulata dal papa Pio X con l’enciclica Pascendi, nel 1 9 0 7 . Questa condanna era del resto perfettamente in linea con la ribadita approvazione del tomismo come filosofia ufficiale della Chiesa, contenuta nell’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII nel 1 8 7 9 . Ciò chiarisce i termini di quella crisi profonda che investe la coscienza di numerosi cattolici tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento e che si manifesta nel contrasto tra il « mo­ dernismo » e il « tomismo » ufficiale della Chiesa. Mentre infatti i modernisti ritenevano (come scrisse uno di loro, il Loisy) che « porre di colpo le stesse affermazioni iniziali e dottrinali del secolo x m significa chiudersi ogni accesso agli spiriti che vivono di pensieri del nostro tempo », dall’altro lato la posizione ufficialmente ribadita dalla Chiesa dava luogo ad un vasto rifiorire, soprattutto nei paesi latini, di studi tomistici e ad una ripresa dei temi della filosofia di Tommaso d’Aquino che prendono il nome di « neo-tomismo » o di « neoscolastica » (nome meno appropriato, perché non tutta la scolastica è riducibile al tomismo, ma che tuttavia rivela la tendenza a fare Il neo-tomismo del tomismo il culmine di quella stagione speculativa). La denomina­ zione di « neo-tomismo » (anziché semplicemente « tomismo ») è giustificata dal fatto che questo indirizzo non si limita a parafrasare i testi di Tommaso d’Aquino, ma cerca di affrontare i problemi nuovi nella fedeltà ai principi fondamentali della filosofia aristotelico-tomistica (realismo, eterogeneità di pensiero ed essere, metafisica della potenza e dell’atto, analogicità dell’essere e teoria dell’astrazione: cfr. voi. I, pp 3 4 1 - 4 2 e 3 4 6 ) . I maggiori esponenti del neo-tomismo, che è tuttora largamente seguito dalle scuole cattoliche (nell’Univer­ sità belga di Lovanio, in primo luogo, in quella svizzera di Friburgo e nell’Università cattolica di Milano), possono essere considerati il belga Desiré M e r c i e r ( 1 8 3 1 - 1 9 2 3 ) e soprattutto il francese Jacques M a r i t a i n ( 1882 - 1973), passato dal bergsonismo al tomismo e autore, tra l’altro, di Riflessioni sull’intelligenza e la sua propria vita e di Distinguere per unire o i gradi del sapere. Per Maritain Lutero, Cartesio e Rousseau sono i responsabili primi del distacco del pensiero moderno dal tomismo, al quale egli si volge con una particolare atten­ zione per i problemi posti dall’esistenzialismo: anzi è proprio Tom­ maso per la sua dottrina dell’essenza e dell’esistenza (cfr. voi. I, p. 341) il più « esistenziale » dei filosofi. Ma anche a prescindere dal rilievo di questi risultati speculativi, non deve essere dimenticato il

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notevole impulso dato da questo indirizzo al rifiorire degli studi medievali e all’esame critico della filosofia scolastica: particolarmente importanti, in questo senso, sono le ricerche del tedesco Martin G r a b m a n (1875-1949), autore della Storia del metodo scolastico e di Étienne G i l s o n (nato nel 1884), autore di fondamentali studi di storia della filosofia medievale. Di fronte al neo-tomismo, il « modernismo » rappresenta, come si il è detto, il tentativo di adeguare i metodi ed i contenuti del catto- «modermsmo » licesimo ai problemi nuovi dell’uomo moderno, sia dal punto di vista dottrinale sia dal punto di vista storico (onde il rilievo che ebbe in questi pensatori l’indagine biblica e neotestamentaria). Per il primo aspetto il « modernismo » poteva riallacciarsi a talune tendenze del « protestantesimo liberale » tedesco, che rivendicava, in polemica con la tradizione aristotelico-tomistica, l’autonomia e il primato della sfera morale e della rivelazione interiore, rispetto alle quali erano conseguentemente svalutate le rigide formulazioni dei dogmi e le cristalizzate dottrine metafisiche. Nella stessa Francia, il teologo prote­ stante Louis-Auguste S a b a t ie r (1839-1901), autore di La religione e la cultura moderna, aveva circoscritto il valore dei dogmi a quello di meri « simboli provvisori » di verità che acquistano tutto il loro significato solo nel modo in cui sono interiormente ricreate e vissute. Questa tesi, insieme a quella del primato della volontà (nel senso messo in luce dalla filosofia dell’azione di Blondel) e all’apologetica del « metodo immanente », costituisce il punto centrale della posizione modernistica, quale la troviamo espressa nei Saggi di filosofia religiosa del suo maggior teorico, Lucien L a b e r t h o n n i è r e (1860-1932), per il Laberthonnière quale la verità soprannaturale della rivelazione acquista significato per l’uomo solo nella misura in cui egli la ricrea in se stesso; l’unione intima di Dio con l’uomo non è altro che il « prolungamento » della vita divina in quella umana: « se l ’uomo desidera possedere Dio ed essere Dio, Dio s’è già dato a lui. Ecco come nella natura possono trovarsi e si trovano le esigenze del soprannaturale ». E questo è ap­ punto il « metodo dell’immanenza », che finisce per ridurre il ma­ gistero della Chiesa a semplice azione educatrice. Nel suo libro forse più noto, Il realismo cristiano e l’idealismo greco, infine, Laberthon­ nière sottolinea la scoperta della soggettività e dell’interiorità che è essenziale all’intuizione cristiana e che è andata smarrita proprio 19 -

Giannantanù

III.

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Loisy

Diffusione del modernismo e suoi aspetti politico-sociali

LA FILO SO FIA DEL NOVECENTO

quando la scolastica ha recuperato l’oggettività astratta delle categorie logico-metafisiche del mondo greco. Nell’altro esponente del modernismo francese, Alfred L o i s y (1857-1940), autore tra l’altro ài-L ’evangelo e la Chiesa, di La reli­ gione d’Israele, de II quarto evangelo e di Gli evangeli sinottici, è particolarmente messo in evidenza l’aspetto storico-esegetico, che (superando largamente i limiti posti dall’enciclica Provvidentissimus di Leone X III nel 1893) deve mostrare come la tradizione storica non è qualcosa di fissato e cristallizzato fino dall’inizio, ma un processo che via via si arricchisce, e che è legato da vincoli di continuità con il passato. « L ’evangelo, scrive Loisy, non è entrato nel mondo come un assoluto incondizionato »: fin dalle sue origini e poi in tutta la sua storia ha sentito profondamente le influenze dell’ambiente, anche se non è da porre in secondo piano la « forza intima che l’ha fatto duraturo ». Sono evidenti le ragioni che hanno spinto la Chiesa a condannare questo « storicismo »: il carattere simbolico e provvisorio dei dogmi (esplicitamente sostenuto da Loisy), il metodo dell’imma­ nenza, il soggettivismo della fede e altri punti. Il modernismo ebbe diffusione anche fuori della Francia: in Inghilterra con il teologo George T y r r e l (1861-1909) e in Italia con lo storico delle religioni Ernesto B u o n a iu t i (1881-1946). In riferi­ mento, infine, all’enciclica « sociale » di Leone X III, la Rerum Novarum, del 1891 si parla anche di un « modernismo politico­ sociale », nel senso di una più aperta considerazione dei problemi della società e del lavoro e di una più decisa presa di posizione in favore della democrazia e della distinzione tra sfera religiosa e sfera politica. In questo senso è ricollegata al modernismo la proposta, fatta da Romolo M u r r i (1870-1944) nella rivista «Cultura so­ ciale» (1898-1907), della costituzione di un partito politico della « Democrazia cristiana », svincolato dalla dipendenza diretta dalle gerarchie ecclesiastiche.

4 - Bergson. I dati immediati della coscienza. Bergson: la ita e gli scritti

Nella filosofia di Bergson convergono le molteplici tradizioni dello spiritualismo non soltanto francese: da quella agostiniana a quella dell’Oratorio (Malebranche), dalla polemica di Pascal contro Vesprit

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de géométrie alla reazione antipositivistica, dal tradizionalismo allo spiritualismo evoluzionistico. Essa costituisce, anche per questo, la manifestazione più significativa del pensiero francese dei primi de­ cenni del Novecento, ed ha largamente influenzato, anche per i pregi dell’espressione letteraria, la cultura europea. Nato a Parigi nel 1859, Henri B e r g s o n , discepolo di Ollé-Laprune e di Boutroux, è stato per molti anni professore al Collegio di Francia; membro dell’Accademia di Francia e premio Nobel, nell’ul­ timo periodo della sua vita egli si è andato progressivamente avvi­ cinando al cattolicesimo, ma, di fronte all’ondata di antisemitismo, scatenata dal nazismo, non volle rinunciare formalmente alla sua origine israelitica, per « restare fra quelli che saranno domani dei perseguitati ». Bergson muore nel 1941. Tra le opere più importanti sono il Saggio sui dati immediati della coscienza, del 1889, Materia e memoria, del 1896, L ’evoluzione creatrice, del 1907, Le due fonti della morale e della religione, del 1932. La speculazione di Bergson prende le mosse dall’evoluzionismo di Spencer; anzi, egli stesso dirà più tardi che all’inizio non voleva fare altro che completare e consolidare questa dottrina, sviluppan­ done alcuni punti che non gli sembravano adeguatamente trattati. E fu proprio questo lavoro che lo portò nel cuore di un problema che è fondamentale per ogni concezione evoluzionistica, e cioè quello del tempo. « E là ci attendeva una sorpresa ». Bergson scopre infatti che il concetto del tempo che è proprio della scienza è fondato su una rappresentazione « spazializzata » di esso, cioè come una linea composta da una serie infinita di punti discontinui, come una successione di momenti, ciascuno dei quali indica non tanto il tempo quanto i suoi « arresti ». Questa rappresentazione di un « tempo spazializzato » è però del tutto inadeguata ad esprimere il movimento reale del tempo: se noi ci liberiamo dalle sovrastrutture intellettuali­ stiche della scienza e torniamo ai « dati immediati della coscienza », possiamo cogliere la vera natura del tempo, che è quella di una continua « durata ». Noi, osserva Bergson con evidenti reminiscenze agostiniane (cfr voi. I, p. 255), viviamo il tempo e la nostra vita interiore è un continuo fluire, un « durare » della coscienza, in cui non è possibile distinguere un momento dall’altro, ma l’uno si salda e si compenetra con l’altro. In tal modo la molteplicità dei mo­ menti, che nella « durata » è solo qualitativa e perciò non distrugge

Il problema tempo : « ten spazializzato e « durata »

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I dati imediati della scienza e gli chemi pratici della scienza

Spirito e memoria, memoria e percezione

LA FILOSO FIA DEL NOVECENTO

la sua unità, nella rappresentazione spazializzata della scienza diventa quantitativa (e quindi misurabile) e si cristallizza in una serie di mo­ menti discontinui ed estrinseci l’uno all’altro. La ragione di ciò sta nelle finalità pratiche della scienza, che deve misurare e prevedere. Bergson riprende in tal modo la dottrina « economica » della scienza dell’empiriocriticismo, ma nello stesso tempo insiste sulla radicale inadeguatezza che è caratteristica del suo modo di presentare i problemi della coscienza. L ’opposizione tra il « tempo spazializzato » della scienza e la « durata » della co­ scienza diventa in tal modo rivelatrice di un’antinomia, tra una consi­ derazione meramente intellettualistica della realtà e della vita e una considerazione basata sui « dati immediati della coscienza », che costituisce il motivo di fondo della speculazione bergsoniana. Cosi, nel primo scritto, Bergson confuta la psicologia, mostrando come è proprio l’applicazione ai problemi dell’anima del tempo spazializzato, ciò che porta a considerare la vita psichica come una successione di stati discontinui e quindi ad aprire l’insolubile disputa tra de­ terministi, cioè coloro che tra questi stati vogliono porre un rapporto di causa ed effetto, e i sostenitori del libero arbitrio, che questo rap­ porto negano. La insolubilità di questa disputa sta nell’errore delle sue premesse: « l’io, osserva Bergson, infallibile nelle sue constatazioni immediate, si sente libero e lo dichiara; ma appena cerca di spiegare a se stesso la propria libertà, non si percepisce più se non per mezzo di una specie di rifrazione attraverso lo spazio; di qui un simbolismo di natura meccanicistica, parimenti inetto a comprovare la tesi del libero arbitrio, a farla comprendere e a confutarla ». Nell’opera successiva, Materia e memoria, la medesima anti­ nomia serve a chiarire quelle di corpo e spirito, di cervello e coscienza, di percezione e memoria. Da questo punto di vista Bergson non si limita a confutare, come è ovvio, l’evoluzionismo materialistico, ma ritiene altresì falsa la soluzione dello spiritualismo evoluzionistico: « sia che si consideri, egli scrive, il pensiero come una semplice fun­ zione del cervello e lo stato di coscienza come un epifenomeno dello stato cerebrale, sia che si ritengano gli stati del pensiero e gli stati del cervello come traduzioni di due lingue diverse dello stesso originale, si pone nell’un caso e nell’altro lo stesso principio: se potessimo penetrare nell’interno di un cervello che lavora e assistere all’incro-

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ciarsi degli atomi di cui è fatta la corteccia cerebrale, o se dall’altra parte possedessimo la chiave della psicofisiologia, sapremmo detta­ gliatamente tutto ciò che accade nella coscienza corrispondente ». La soluzione, sostiene Bergson, è invece da cercare su un piano del tutto diverso: il corpo, egli sostiene, è solo un centro di azione, ed essendo sempre orientato verso l’azione, « ha per funzione essenziale quella di limitare, in vista dell’azione, la vita dello spirito ». Esso, in altri termini, « sceglie » un effetto tra i molti possibili e per questo nel corpo e nel cervello c’è infinitamente meno di quanto c’è nello spirito e nella coscienza, cioè solo quanto può tradursi in azione, in gesti, atteggiamenti e movimenti del corpo. Chi pretendesse di co­ gliere la vita della coscienza dai gesti, dagli atteggiamenti e dai mo­ vimenti del corpo sarebbe nella medesima situazione di chi assistesse ad uno spettacolo teatrale e potesse vedere l’azione scenica ma non ascoltare le parole pronunciate dagli attori. In quell’insieme di immagini reali che costituisce, immediata­ mente, il mondo, una, quella del corpo, si presenta con il particolare carattere di poter agire sulle altre immagini e questa azione Bergson chiama « percezione »: di qui, allora, il riprodursi dell’opposizione tra corpo e spirito, tra cervèllo e coscienza, in quella di « percezione » e « memoria »: mentre la memoria coincide con l’essenza della vita spirituale, nel senso che il nostro passato ci « segue » tutto intero, « incalza » alla porta della coscienza e quindi fa tutt’uno con la « durata » della coscienza, la percezione invece rappresenta la scelta compiuta dal corpo e dal cervello, che sono volti al presente e ai suoi bisogni e quindi del passato conservano solo quanto è utile per il presente, nella sua istantaneità condannando il resto all’oblio. In questo senso, Bergson parla anche, a proposito della percezione, di « memoria-abitudine », cristallizzazione del processo della coscienza, e quindi opposta alla memoria vera, quella spirituale. La vita è per­ tanto, in ogni momento, un concentrarsi della memoria nella perce­ zione e un dispiegarsi della percezione nella memoria: « tutto deve dunque accadere come se una memoria indipendente raccogliesse le immagini lungo il corso del tempo a misura che esse si producono, e come se il nostro corpo, con ciò che lo circonda, non fosse che una di queste immagini, l’ultima, quella che otteniamo ad ogni momento, praticando un taglio istantaneo nel divenire generale ». L ’indipendenza

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LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

della memoria è sottolineata con particolare insistenza da Bergson in polemica con il positivismo: una lesione cerebrale non menoma la memoria ma solo il rapporto della memoria con la realtà.

5

-

Bergson. L ’evoluzione creatrice.

Con L ‘evoluzione creatrice Bergson allarga la sua considerazione ad una concezione generale della realtà, che utilizza i risultati otte­ nuti nell’analisi dei dati immediati della coscienza e nello stesso tempo cerca di andare al fondo stesso dell’antinomia fondamentale tra tempo spazi alizzato e durata, scoprendo l’unità da cui essa si origina in quello stesso movimento che costituisce la vita dello spirito. Anche a questo proposito, Bergson parte da quella che egli consi­ dera l’intuizione più penetrante di Spencer, e cioè il concetto di « evoluzione », pur mettendo immediatamente, in luce la radicale ina­ deguatezza della formulazione « spazializzata » che essa ha avuto in Spencer stesso e nel positivismo: meccanicismo e finalismo sono infatti le sue soluzioni opposte, ma egualmente derivate da questa imposta­ zione spazializzata, poiché nel primo caso la serie discontinua degli avvenimenti è determinata, in ogni momento, dall’avvenimento pre­ cedente, concepito come causa, e nel secondo caso la serie discontinua degli avvenimenti è determinata, in ogni momento, dall’avvenimento successivo, concepito come fine. Tale radicale inadeguatezza è particolarmente evidente nella bio­ Lo slancio vitale e la logia, in cui l’impostazione meccanicistica, al pari di quella finalistica, materia se anche può valere limitatamente alle esigenze dell’azione, cioè dei rapporti dell’organismo biologico con il suo ambiente, non è assolu­ tamente in grado di comprendere la natura profonda della vita, che è libera e imprevedibile creazione, « evoluzione creatrice », « slancio vitale », durata, di cui la materia non è altro che il momento del­ l’arresto: « lo slancio vitale non ha che da distendersi per estendersi ». Per questo, mentre la materia è azione che si dissolve e si logora e perciò progressivo depotenziamento e degradazione, la vita è creazione e continuo arricchimento qualitativo: essa è una « corrente che attra­ versando i corpi che essa ha via via organizzati e passando di genera­ zione in generazione si è divisa tra le specie e sparsa tra gli individui senza perdere nulla della sua forza originaria, anzi intensificandosi a

l’evoluzione creatrice

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mano a mano che procedeva ». Il rapporto tra materia ed evoluzione creatrice è quindi analogo a quello, che abbiamo visto nel paragrafo precedente, tra percezione e memoria. L ’evoluzione creatrice della vita, il suo processo di arricchimento continuo non è uniforme, ma è da Bergson paragonata allo scoppio di un proiettile i cui frammenti esplodono a loro volta, oppure anche ad un fascio di steli, ciascuno dei quali rappresenta una linea di sviluppo, un ramo delle biforcazioni a cui essa dà continuamente luogo: la prima biforcazione è quella tra « vegetali » e « animali » e, tra queste ultime, alcune forme di evoluzione si sono arrestate quasi subito (come i molluschi), altre ad un livello più elevato, ma solo nell’uomo, in cui si spezza la catena dell’automatismo e la coscienza « libera se stessa », essa ha creato le condizioni per potersi sviluppare indefini­ tamente; anche se, con ciò, essa « non trascina con sé tutto ciò che la vita richiudeva in se stessa ». Su questa distinzione tra l’uomo e le altre forme di « animali » Istinto e intelligenza si fonda l’altra distinzione, fondamentale nel pensiero di Bergson, tra « istinto » e « intelligenza ». Anche se nella realtà non si dà mai una separazione assoluta dell’uno dall’altra, tuttavia la distinzione è possibile nel senso che l’istinto è la facoltà di utilizzare strumenti organizzati, mentre l’intelligenza è la capacità di fabbricare strumenti artificiali e di variarne continuamente la fabbricazione: in questo senso l’uomo è faber prima di essere sapiens. E se l’istinto è incosciente, nel senso che quando non incontra ostacoli esso è del tutto immediato e spontaneo, e si dirige direttamente alle cose, l’intelligenza è invece cosciente, perché nasce dal bisogno di col­ mare artificialmente le deficienze che l’uomo riscontra nella sua vita; e l’intelligenza si dirige piuttosto verso i rapporti tra le cose ed è capace di una conoscenza formale, opposta perciò a quella materiale dell’istinto. Ora proprio in questo sta il limite dell’intelligenza, che essa è Intelligenza direttamente in funzione dei bisogni della vita, della direzione della e scienza nostra condotta; ecco perché le è intrinseca quella « considerazione spazializzata » della realtà che abbiamo visto precedentemente e ciò spiega il processo di adattamento che vi è stato tra le categorie dell’in­ telligenza (riflesse dal linguaggio e da quelle forme cristallizzate che sono le parole e i simboli) e la struttura spaziale della materia. Al­ l’intelligenza dunque, e alla scienza che da essa è costruita, manca la

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L’intuizione

borale della bligazione e morale assoluta, lieta chiusa cietà aperta

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

possibilità di penetrare la vera natura delle cose, lo slancio vitale (anche se poi questo scacco conoscitivo è condizione del suo successo pratico, che presuppone solidità e stabilità): l’intelligenza è perciò paragonata da Bergson ad una ripresa cinematografica, in cui la con­ tinuità del movimento è spezzata e fissata in una serie di fotografie istantanee. E si capisce allora perché per l’intelligenza siano insolubili le famose antinomie di Zenone sul movimento e in particolare quella della freccia (cfr. voi. I, p. 27), fondate appunto sulla divisibilità all’infinito del tempo spazializzato. Con ciò la filosofia di Bergson si inquadra in quel vasto movimento di reazione al positivismo e di svalutazione della scienza che caratterizza numerose correnti di pensiero, spiritualistiche, idealistiche e irrazionalistiche e che è uno dei tratti caratteristici della cultura europea dell’epoca. Occorre dunque una facoltà conoscitiva più alta dell’intelligenza per penetrare la natura delle cose e questa facoltà è individuata da Bergson nell’« intuizione », diretta e immediata come l’istinto e co­ sciente come l’intelligenza; anzi l’intuizione può essere definita come un consapevole ritorno dell’intelligenza all’istinto e così essa può co­ gliere immediatamente l’individualità delle cose nella sua concretezza, interiorità e dinamismo: è l’intuizione infatti che ci rivela la « du­ rata » e la memoria, che ci fa sentire la nostra libertà e ci fa pene­ trare nello slancio vitale. Se quindi l’intelligenza è l’organo della scienza, l’intuizione è l’organo della filosofia e della metafisica: « essa, scrive Bergson, giunge in possesso di un filo: dovrà essa stessa vedere se questo filo sale fino al cielo o se si ferma a qualche distanza dalla terra. Nel primo caso, l’esperienza metafisica si collegherà a quella dei grandi mistici: ed io posso constatare, per mio conto, che questa è la verità. Nel se­ condo caso le esperienze metafisiche resteranno isolate le une dalle altre, senza tuttavia contrastare fra loro. In ogni caso, la filosofia ci avrà sollevati al di sopra della condizione umana ». L ’opposizione tra l’intelligenza ed intuizione, tra materia e evolu­ zione creatrice, ed il richiamo all’esperienza mistica stanno altresì alla base delle considerazioni sulla morale e sulla religione che Bergson svolge ne Le due fonti. Egli contrappone infatti la « morale dell’obbligazione » alla « morale assoluta » e quindi la « società chiusa » alla « società aperta », che da esse derivano. Nella « società chiusa », quale è di fatto ciascuna delle società storicamente prodottesi nel

LO SPIR ITU A LISM O FRANCESE

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corso della storia, l’individuo è parte del tutto e l’ordine sociale è modellato in modo analogo a quello fisico; alla base di questo ordine ci sono le « abitudini » sociali, anzi « l’abitudine di contrarre abitu­ dini » e tali abitudini sono all’origine delle obbligazioni morali. Caratteri della morale dell’obbligazione sono quindi la staticità, l’im­ personalità e il conformismo, a cui si contrappongono il dinamismo, l’iniziativa personale e la novità della « morale assoluta » che si ri­ volge a tutta l’umanità e non ad un gruppo sociale e che ha avuto i suoi campioni nei profeti di Israele, nei saggi della Grecia e nei santi del Cristianesimo. Anche nella vita religiosa l’antinomia si riproduce. La religione, come insieme di miti e di credenze, è frutto di quella che Bergson chiama « funzione fabulatrice », cioè la capacità di immaginare poteri extranaturali, i quali rafforzano le prescrizioni sociali e imponendo all’uomo il legame con i suoi simili, dandogli la speranza dell’immor­ talità, la fiducia di un potere straordinario sulla natura e la convin­ zione di una protezione soprannaturale, difendono la vita stessa dai « pericoli » dell'intelligenza, in primo luogo dall’egoismo e dall’ac­ cidia. Questa è tuttavia solo una religione « naturale », infra-intellettuale, analoga alla morale dell’obbligazione e alla società chiusa: è la « religione dinamica », per la quale i dogmi sono forme cristallizzate (e qui è evidente l’eco del modernismo) e ciò che conta è il contatto diretto con Dio, con il processo creatore che « se non è Dio stesso, è da Dio »; e questa è la religione propria di quegli spiriti privilegiati che sono i mistici: non i mistici della pura contemplazione, ma quelli per i. quali l’estasi diventa un nuovo e più alto punto di partenza per agire nel mondo: da Paolo a Francesco d’Assisi, da Teresa a Caterina da Siena. E solo da un nuovo genio mistico il mondo moderno potrà avere l ’indicazione per uscire dalla crisi che lo travaglia e ricevere quel « supplemento d’anima », di cui lo stesso sviluppo scientifico farebbe sentire la necessità. L ’esito ultimo della filosofia di Bergson, della sua critica alla « parola » della scienza, è dunque l’interiorità e l’ineffa­ bilità dell’esperienza mistica. L ’influenza delle idee di Bergson nell’indirizzare in senso spiri­ tualistico la cultura francese (e non soltanto francese) è stato assai considerevole. Noi vedremo più avanti (cfr. infra, p. 409) i legami che ad esse uniscono le tesi delPanarco-sindacalismo di Sorel; qui vogliamo soltanto fare un cenno alle discussioni, che ne derivano,

La funzione fabulatrice: 1; religione stati e la religione dinamica

Le Roy

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sulla funzione pratica della scienza e sulla superiorità del sapere intuitivo. Oltre a quanto abbiamo detto a proposito dello sviluppo dell’epistemologia e della critica della scienza, merita infatti di essere ricordato il pensiero di Eduard L e R oy (1870-1954), autore di Scienza e filosofia, Il pensiero intuitivo, Il problema di Dio, in cui la critica della scienza diventa senz’altro la svalutazione totale del pensiero di­ scorsivo in nome dell’intuizione e della fede religiosa, che egli intende con notevoli coloriture moderniste.

X III

L ’IDEALISM O E LE ALTRE CORRENTI D EL PENSIERO ITALIANO 1. Croce. Lo La filosofia dello liana (p. 312) pensiero italiano

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sviluppo del suo pensiero fino all’Estetica (p. 299) - 2. Croce. spirito (p. 304) - 3. Gentile. La riforma della dialettica hege­ 4. Gentile. L ’attualismo (p. 316) - 5. Le altre tendenze del nel Novecento (p. 321).

Croce. Lo sviluppo del suo pensiero fino all’« Estetica

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La reazione al positivismo si configura nel pensiero italiano essen­ La rinascita idealistica ir zialmente come un ritorno ad Hegel e a Kant; in questo senso essa Italia si colloca anche in posizione critica nei confronti della tradizione religiosa e spiritualistica della filosofia italiana dell’Ottocento, di cui per un verso respinge il dualismo ed il ricorso alla trascendenza e per altro cerca di dare una reinterpretazione in chiave idealistica. Certamente il neoidealismo, di cui massimi rappresentanti sono Croce e Gentile (dapprima legati da stretta amicizia e da intensi rapporti di collaborazione intellettuale e poi divisi da una tenace polemica teorica e politica), non esaurisce, come vedremo, il panorama della filosofia italiana sul finire dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento; ciò non toglie che esso ha esercitato una sorta di egemonia, dalla quale la cultura italiana, pur nella consapevolezza dei suoi debiti verso di esso, si è venuta liberando, soprattutto nel secondo dopo­ guerra, riallacciando i rapporti con le contemporanee correnti del pen­ siero europeo. Nato a Pescasseroli, in Abruzzo, nel 1866, Benedetto C r o c e vive Croce: formazioi tutta la sua lunga vita a Napoli, dove muore nel 1952, lontano dagli la filosofica ambienti accademici e interamente dedito agli studi, salvo alcune pa­ rentesi di attività politica (fu senatore e ministro della Pubblica Istru­ zione con Giolitti e poi ancora ministro e presidente del Partito Li­ berale nel secondo dopoguerra). Interrotti i corsi di giurisprudenza e dedicatosi agli studi di filosofia, per lo stimolo in lui suscitato dal-

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l’insegnamento di Antonio Labriola, il massimo rappresentante del marxismo teorico in Italia in quegli anni (cfr. infra, p. 412) e di cui ascoltò le lezioni all’Università di Roma, divenendone in seguito amico ed editore, Croce si dedica prevalentemente allo studio del mar­ xismo, mentre continua a coltivare gli studi storico-eruditi e lette­ rari, cui era appassionato. Frutto di questi primi studi e ricerche sono gli scritti La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, del 1893, in cui è già chiara la polemica contro la tesi positivistica che riduceva la storiografia ad una scienza analoga nei metodi alle scienze naturali, e La critica letteraria. Questioni teoriche, dell’anno se­ guente (questi scritti furono poi ripubblicati nel volume Primi saggi). Gli anni tra il 1895 e il 1900 sono gli anni degli studi di dottrina economica, di storia e teoria del socialismo, che portano Croce alla redazione dei saggi raccolti nel volume Materialismo storico ed eco­ nomìa marxista (1900). Conclusa con questo volume la sua espe­ rienza « marxista », Croce torna allo studio dei problemi teorici dell’arte, che, dopo alcune formulazioni provvisorie, trovano com­ piuta e sistematica trattazione nel primo dei volumi della « Filoso­ fia dello Spirito », l’Estetica come scienza dell’espressione e lingui­ stica generale, del 1902. Nello stesso anno Croce inizia con Gentile la pubblicazione della rivista « La critica », che, puntualmente per quattro decenni, ha accompagnato la vita filosofica, letteraria e cul­ turale italiana ed europea e in cui Croce ha esposto, con ammirevole operosità, i risultati delle sue riflessioni, attraverso saggi storici e critici e attraverso note polemiche, che venivano, via via raccolti in volumi. L ’atteggiamento che Croce assume nei confronti del marxismo è fortemente riduttivo del senso e della portata della sua proble­ matica: egli non solo ritiene di aver chiarito la natura erronea delle fondamentali dottrine economiche di Marx, e cioè quella della caduta tendenziale del saggio di profitto e quella del plusvalore (che, per Croce, non tiene conto della parte che avrebbe il « capitale » nella formazione del valore della merce e che pertanto è solo un « paragone ellittico » tra la società reale e una società ideale, in cui il valore è equivalente al lavoro), ma anzi, di aver mostrato che quella di Marx non è scienza economica, perché questa, in quanto scienza filosofica dell’economia e teoria del valore in generale (e perciò diversa dalla comune economia empirico-astratta), non si oc-

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cupa di una determinata forma di produzione, ma del fatto econo­ mico in sé. In conclusione, Croce si dichiara persuaso che l’unico valore che possa essere riconosciuto al marxismo è quello di essere un « canone di interpretazione storica » cioè un richiamo all’im­ portanza dei fattori economici. Diversa è la valutazione di Marx come politico e uomo d ’azione: Croce lo chiama « il Machiavelli del proletariato » e ne apprezza il significato alto e forte della politica, che adegua i mezzi ai fini, che non si lascia deviare da dilacerazioni sentimentali e non è sottomessa a scrupoli morali o a vaghi ideali, ma coglie il senso della storia e delle forze in giuoco: più tardi egli scriverà che il marxismo gli faceva risentire il fascino « della grande filosofia storica del periodo romantico » e che lo riportava alle migliori tradizioni della scienza po­ litica italiana « mercé la ferma asserzione del principio della forza, della lotta, della potenza e la satirica e caustica opposizione alle insi­ pidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell’89 ». Perciò serbava a Marx la gratitudine per averlo reso insensibile « alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità ». Vedremo più avanti gli sviluppi teorici di questa concezione dell’economia e della politica; qui basti accennare al fatto che Croce, recuperata direttamente la filosofia storica del periodo romantico (Hegel) e la scienza politica italiana (Machiavelli), considererà chiusa la parabola del marxismo (nel 1937 scriverà Come nacque e morì il marxismo teorico in Italia. 1895-1900) e, anche in conseguenza delle mutate condizioni storiche e politiche oltre che della sua evoluzione filosofica, accentuerà sempre più una polemica frontale contro il marxismo e il comuniSmo fino ad accomunarlo, nel 1946, al fascismo e al razzismo {UAnticristo che è in noi). Nell ’Estetica Croce si muove decisamente alla costruzione di quella « filosofia dello spirito » che poi svilupperà nelle opere seguenti, lavorando incessantemente a chiarirla, specificarla, arricchirla e correg gerla. Come scientia de universalibus, la filosofia non può avere altro oggetto che lo Spirito universale (non quello dell’individuo sin­ golo, empirico), considerato nella sua incessante attività e crea­ zione, quale si svolge in un compiuto sistema di « forme » e « ca­ tegorie »: lo Spirito è teoria e pratica, conoscenza e volontà (« con la forma teoretica l’uomo comprende le cose, con la pratica le

Il marxismo e la concezioi politica di Croce

L ’Estetica e 1
ce e Hegel: 'elaborazione Iella filosofia dello spirito

che è vivo e che è morto ella filosofia di Hegel

Il sistema della « filosofia dello spirito » viene elaborato compiu­ tamente negli altri volumi che, con l'Estetica ne formano la te­ tralogia: Logica come scienza del concetto puro, Filosofia della pratica. Economia ed etica, entrambe del 1909 e, più tardi, Teoria e storia della storiografia, del 1917. Gli anni che corrono tra l’Este­ tica e la Logica sono gli anni di una profonda meditazione, stimolata anche dalla consuetudine con il Gentile, della filosofia di Hegel e dei suoi problemi. Frutto di queste riflessioni è il volume Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, del 1906, poi ristampato, arricchito, nel 1912 con il titolo Saggio sullo Hegel. Contemporaneamente, negli anni che arrivano fino al termine della prima guerra mondiale, Croce pubblica La filosofia di Giambattista Vico (1911) e ritorna più volte, con sviluppi anche interessanti sui problemi di estetica: Problemi di estetica, nel 1912 e Breviario di estetica, nel 1912; inizia altresì, nel 1915, la pubblicazione della serie delle Conversazioni critiche, mentre prosegue nella sua vastis­ sima e instancabile operosità di storico e critico della letteratura e della cultura italiana ed europea, di cui menzioneremo più avanti i contributi più importanti. L ’incontro di Croce con Hegel è particolarmente ricco di risul­ tati speculativi; egli ne trae innanzi tutto una lezione immanenti­ stica diventa così uno dei suoi temi filosofici più rilevanti la polemica contro la trascendenza, contro la metafisica (anche religiosa), con­ tro la filosofia dei « massimi problemi » e contro il razionalismo astratto che divide la realtà « in soprastoria e storia, in un mondo di idee o di valori e in un basso mondo che li riflette o li ha riflessi finora in modo fuggevole e imperfetto, e al quale converrà una buona volta imporli, facendo succedere alla storia imperfetta, o alla storia senz’altro, una realtà razionale perfetta ». Lezione immanenti­ stica vuol dire lezione storicistica, giacché la realtà, tutta la realtà, non è altro che lo sviluppo, il divenire dello spirito, come Hegel ha per primo insegnato, anche se ha coltivato l’impossibile pretesa di una « filosofia della natura » e di una « filosofia della storia » (ve­ dremo più avanti perché impossibile, ma intanto è da osservare che respingendo queste sezioni, su cui maggiormente si appuntavano le critiche di apriorismo e di infondatezza scientifica, Croce ha for-

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temente contribuito alla diffusione dell’hegelismo, specialmente negli ambienti della cultura storico-letteraria). In tal modo, il principio per cui « tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale », con il conseguente « odio contro l’astratto e l’immobile, contro il dover essere che non è, contro l’ideale che non è reale », diventa, insieme alla grande scoperta filosofica di Hegel, la dialettica, l’eredità più cospicua che Croce coglie da Hegel. Ma proprio il tema della dialettica offre a Croce il terreno per una critica ad Hegel che sta a fondamento della sua filosofia dello spirito: Hegel ha avuto il grande merito di scoprire in tutto il suo significato speculativo che la dialettica, l’opposizione è l’« anima » della realtà e che lo Spirito è opposizione e unità, o sintesi, degli opposti; ma, come spesso accade a chi ha la ventura di scoprire qual­ cosa di importante, Hegel ha indebitamente esteso la « dialettica degli opposti » anche a ciò che opposto non è, e di qui derivano i suoi errori filosofici. Nella filosofia dello Spirito assoluto, per esempio, egli ha posto l’arte come uno degli opposti, come solo un momento, de­ stinato ad essere superato nella sintesi che è la filosofia. In ciò egli faceva consistere la « morte dell’arte ». Ma l’arte, per Croce, non muore: essa è una forma autonoma ed eterna dello spirito, distinta, ma non opposta rispetto alla filosofia. La relazione di « opposizione » che c’è tra « bello » e « brutto » non è la medesima che c’è tra « bello » e « vero », che è invece di « distinzione ». Per que­ sto Croce insiste ora e insisterà poi sempre (anche in relazione alle critiche che su questo punto gli muoverà, come vedremo, il Gen­ tile) sul fatto che nella vita dello spirito non va mantenuta solo la dialettica degli opposti, che è reale e operante all’« interno » di ciascuna forma (bello-brutto, vero-falso, utile-dannoso, bene-male), ma anche il « nesso dei distinti» o dei « g r a d i» , secondo cui si scandisce il rapporto di ciascuna forma con le altre. Croce chiarisce la questione in questi termini: « se noi ora dal rapporto di gradi a e b (e, nell’esempio scelto, arte e filosofia) passiamo al rapporto degli opposti nella sintesi, a, /?, y, (e, nell’esempio, essere, non­ essere e divenire), potremo scorgere la differenza logica tra i due rapporti. A e b sono due concetti, il secondo dei quali sarebbe arbi­ trario e astratto senza il primo, ma che, nel suo nesso col primo, è reale e concreto quanto quello. Invece a e /S, fuori di y, non sono due concetti, ma due astrazioni: il solo concetto concreto è y, il di20 ■ G i a n n a n t e m i . TTT.

La dialettica degli opposti il nesso dei distinti

La circolariti della vita de Spirito

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venire... Nel nesso di gradi, a è superato da b, cioè soppresso come indipendente e conservato come dipendente... Nel nesso degli opposti, considerato oggettivamente, a e /S, distinti tra loro, sono entrambi soppressi e conservati; ma solo metaforicamente, perché non esistono mai come a e /3 distinti ». Mediante il « nesso (o anche ” dialettica ” ) dei distinti » si chiari­ sce anche quel rapporto di implicazione in cui abbiamo visto essere le quattro forme dello spirito: a queste, infatti, è intrinseca l’unità non meno che la distinzione, perché lo Spirito è attività, soggettività e quindi unità. Lo Spirito è perciò sempre presente tutto in cia­ scuna forma e attraverso il loro nesso si viene svolgendo e arric­ chendo: l’intuizione si offre come materia, contenuto concreto, al­ l’universalità del pensiero logico, da cui sorge la volizione, che a sua volta diventa materia di una successiva intuizione. La vita dello Spirito è pertanto « circolarità », ma non un ritornare alle posizioni di partenza: lo Spirito, infatti, trapassa da una forma aH’altra e sempre, quando torna su ciascuna di esse, vi torna ar­ ricchito dalle precedenti e quindi su un piano più alto, logica La logica, cioè la filosofìa, è « pensamento del concetto puro », cioè dell’universale ed ha come suo antecedente le rappresentazioni, o intuizioni, e il linguaggio; le caratteristiche fondamentali del con­ cetto vero e proprio, appunto perché non è rappresentazione, non può avere per contenuto nessun singolo elemento rappresentativo, né riferirsi a questa o quella rappresentazione, o a questo o quel gruppo di rappresentazioni; ma, d’altra parte, appunto perché è l’universale rispetto all’individuale delle rappresentazioni deve riferirsi a tutte e ciascuna insieme. Il concetto, quindi, è « universale concreto », « sintesi a priori » logica di intuizione e concetto: l’immanenza del­ l’universale concettuale all’individuale rappresentativo è implicita, infatti, nel già visto nesso di « unità-distinzione » delle forme dello spirito; donde l’intrinseca impossibilità ed errore di ogni logica « for­ male » e puramente « verbalistica » (quale è quella aristotelicoscolastica) che pretende di formulare le leggi del pensiero; essa sta alla logica reale come la retorica e la grammatica stanno al linguaggio tità di vivo e all’intuizione. Ciò comporta che le uniche due forme possibili filosofia di giudizio logico: il « giudizio definitorio » (in cui il soggetto e il predicato sono entrambi universali; per esempio: la logica è il pen­ samento del concetto) e il « giudizio universale » (in cui il soggetto è

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particolare e il predicato è universale; per esempio: questo deter­ minato pensiero è vero) sono identiche e identiche sono le due forme di sapere che ad esse corrispondono, cioè la « filosofia » in senso stretto e la « storia »: la storia non si limita infatti a stabilire che qualcosa è accaduto, ma dice anche che cosa è questo qualcosa, lo qualifica e quindi lo riporta ad un universale e ad un concetto; d’altra parte la filosofia non è possibile senza l’elemento storico, giacché essa è sempre formulata da individui determinati in determi­ nate circostanze rispetto a determinati problemi; essa è quindi « stori­ camente condizionata » (tale il problema, tale la soluzione) e perciò sempre nuova e in via di sviluppo: non esistono sistemi definiti, ve­ rità soprastoriche, ma solo soluzioni valide per quei problemi che lo Spirito di volta in volta si pone. L ’identità di storia e filosofia è il risultato più nuovo della Logica rispetto alla riduzione della storia sotto il concetto dell’arte sostenuta ancora neìYEstetica; ma essa conferma l’opposizione permanente di Croce a considerarla, positivisticamente, come una « scienza ». Il sapere scientifico, infatti, per Croce non è vero sapere, conoscenza, ma è « pseudo-concetto », nel senso che esso o è rappresentazione empirica, come negli pseudoconcetti delle scienze della natura, o è astrazione senza rappresentazione, come negli pseudoconcetti della matematica: manca ad esso, in ogni caso, la vera concretezza e la vera universalità, perché si muove sul piano della classificazione em­ pirica o dell’astrazione. La scienza, in altri termini, non pensa con­ cetti (donde l’assurdità di ogni « filosofia della natura ») ma costi­ tuisce schemi, utili soltanto per il nostro comportamento pratico; non è conoscenza ma azione e soddisfazione di bisogni pratici. Torna così, anche in Croce, la dottrina della natura « economica » della scien­ za elaborata dall’empiriocriticismo (cfr. supra, p. 258 sgg.), e natura economica ha per Croce anche l’errore: il pensiero, in quanto tale, pensa sempre il vero e il falco è l’opposto ad esso immanente, il ne­ gativo che sempre accompagna dialetticamente il positivo; ma quando noi constatiamo positivamente un errore, ciò che abbiamo innanzi non è un pensiero sbagliato (cosa in sé assurda), ma un atto pratico, un atto della volontà che ha cercato il proprio utile e ha preso il posto del richiesto atto di pensiero. Siamo così sul terreno di quella filosofia della pratica il cui og­ getto è la volontà, l’azione. Anche l’atto della volontà, la volizione,

Gli pseudo­ concetti: la scienza e l’errore

La filosofia della pratica la volizione

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Kconomia ed etica

L a politica e il diritto

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come abbiamo già visto per le forme precedenti, non nasce dal nulla, ma sorge sempre su un terreno determinato: « tale la situazione tale la volizione » dice Croce in polemica contro ogni forma di idea­ lismo, di sentimentalismo, e astrattismo, di fuga dalla realtà e contro ogni concezione astratta della libertà (libertà di scelta, libero ar­ bitrio); certo, lo Spirito è libero, perché non c’è nulla fuori di lui che lo condiziona, la libertà reale (la volontà) fa tutt’uno con la necessità (la situazione). La volizione, poi, si traduce in azione, e l’azione sta alla volizione come l’espressione all’intuizione; il che vuol dire che non esiste volizione senza azione (poiché il volere in astratto, senza agire, è un volere astratto e non reale). Diverso è invece il rap­ porto tra « azione » e « accadimento », cioè tra l’agire e i risultati del­ l’azione; qui non c’è identità, perché l’accadimento è il risultato non della sola nostra volizione-azione, ma di tutte le volizioni-azioni che in esso convergono: l’accadimento è quindi opera non del singolo, ma dello Spirito universale; anzi ciò che noi chiamiano il sin­ golo, l’individuo (Tizio o Caio) è, a rigore un’astrazione, un insieme di « abiti » volitivi. Reali sono gli accadimenti e lo Spirito che in essi si realizza. Come abbiamo visto anche la forma pratica dello Spirito è unità-distinzione di due forme, l’economia, o volizione del particolare, cioè dell’utile, e l’etica o volizione dell’universale, cioè del bene. E proprio il principio dell’unità-distinzione chiarisce che se è possi­ bile volere l’utile senza volere il bene (e in questo senso l’utile è « a-morale », « pre-morale », ma non « immorale ») non è poi possi­ bile volere il bene senza volere anche l’utile: la moralità trionfa degli interessi solo in quanto si fa essa stessa supremo interesse. Di qui la critica non solo delle etiche « materiali » (che identificano immedia­ tamente bene e utile), ma anche di quelle « formali » (che scindono totalmente il bene dall’utile): contro il dover-essere kantiano Croce riecheggia le critiche di Hegel (cfr. supra, p. 80). Il corollario fondamentale di questa impostazione è la riduzione della politica e del diritto ad attività economica: la politica è azione né morale né immorale, ma amorale (e in questo senso Croce si richiama a Machiavelli); le sue leggi sono quelle dell’utile, della riu­ scita, dell’efficienza ed è vano vagheggiare una politica che ripudi la forzo, la potenza, la lotta e la guerra; anche il diritto, come sistema di leggi, è prodotto dell’attività economica: la legge infatti « foggia

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classi di azioni e di reazioni (le sanzioni) », utili a regolare una vita civile ordinata, ma « irreali », perché la volontà è sempre concreta e non fa mai delle « classi » o « schemi » (che del resto risultano sempre inadeguati a sentenziare nei casi concreti) gli oggetti del suo volere. Con la filosofia della pratica il sistema della filosofia dello spirito è compiuto. In Teoria e storia della storiografia, Croce sviluppa lo storicismo implicito nella sua concezione: la storia, cioè l’insieme delle res gestae, altro non è che l’infinito sviluppo dello Spirito e la storiografia, cioè Yhistoria rerum gestarum, è la ricostruzione di tale sviluppo. Essa è pertanto « storia dell’universale », ma non « storia universale », come tradizionalmente si intende la pretesa di ridurre in un unico quadro tutti i fatti del genere umano: l’universale è, come abbiamo visto, universale concreto e la storiografia non può non in­ dagare problemi concreti e particolari; problemi che nascono nella mente dello storiografo in relazione agli interessi suoi ed ai pro­ blemi suoi. In questo senso, ogni ricerca verso il passato nasce sem­ pre da un interesse presente; in altri termini, ogni opera di vera storia è sempre di « storia contemporanea » ed è vana ogni pretesa di una storiografia cosiddetta oggettiva, cioè senza interessi e senza problemi, così come è erronea la tesi opposta che dalla inevitabile soggettività della storiografia conclude in uno scetticismo storico. Qui sta anzi la ragione della differenza tra « storia » e « cronaca », della convenzio­ nalità pratica della distinzione tra le varie storie cosiddette « speciali » (politiche, economiche, ecc.) o « nazionali » e del periodizzamento storico. E nella riconfermata identità di storia e filosofia è da ri­ cercare, infine, la incongruenza teorica di ogni « filosofia della storia », che pretenda di conferire ai fatti un valore da essi diverso e trascen­ dente, di presentare cioè i fatti come il necessario manifestarsi di un’idea o di un valore: determinismo, finalismo, irrazionalismo sono pertanto tutte pseudo-categorie storiche, che la vera storiografia re­ spinge da sé. In questo contesto, la filosofia non è altro che « meto­ dologia della storia », dilucidazione delle categorie del comprendere storico: « e poiché la storiografia ha per contenuto la vita concreta dello spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità, e in questa varietà delle sue forme è pur una, la dilucidazione si muove nelle distinzioni dell’Estetica e della Logica, dell’Economia e dell’Etica, e tutte le congiunge e le risolve nella filo-

L a storiografia la filosofia com metodologia della storiografia

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Gli sviluppi delìo spirito^ l’estetica

Le idee politiche

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

sofia dello spirito. Se un problema filosofico si dimostra affatto sterile per il giudizio storico, si ha in ciò la prova che quel problema è ozioso, malamente posto, e in realtà non sussiste ». Negli anni successivi, come si è detto, Croce ha lavorato indefessamente ai problemi posti dalla sua stessa filosofia, saggiandola alla prova di una vastissima attività critica, non solo sul terreno della filo­ sofia vera e propria, ma anche dell’arte (soprattutto la poesia e la letteratura), della storiografia e dei problemi etico-politici. Non è possibile, evidentemente, dare in questa sede un quadro dettagliato di questo lavoro, ma un cenno va fatto agli sviluppi dati all’este­ tica e alla concezione dello storicismo. Noi abbiamo già menzionato, oltre i Problemi di estetica, il Breviario di estetica (la cosiddetta « seconda estetica »), al quale fanno seguito VAesthetica in nuce (la cosiddetta « terza estetica »), del 1928, una serie di scritti rac­ colti nei Nuovi saggi di estetica (1920) e in Ultimi saggi (1935), e infine il volume La poesia (1936): in questi scritti Croce sviluppa il concetto dell’arte come « intuizione », parlando di un’« intuizione lirica » (l’arte è sempre espressione di un sentimento soggettivo), defi­ nendo l’arte come « sintesi di un sentimento e di un’immagine » e riconoscendo ad essa una universalità (o « cosmicità »), che non è quella del pensiero e del concetto ma che tuttavia consente di dare ad essa, come fondamento, la « coscienza morale ». In questo quadro, Croce ritiene possibile porre accanto all’espressione poetica vera e propria, altri tipi di espressione (sentimentale, prosaica e oratoria) che, pur non essendo poetiche, hanno un loro valore e costituiscono la « letteratura ». I volumi su La letteratura della nuova Italia (1911 sgg.), su La poesia di Dante (1921), su Ariosto Shakespeare e Corneille (1920), su Poesia e non poesia (1923) sono tra i documenti della sua attività di critico, dal gusto alquanto conservatore. Si è già detto che Croce fu ministro del governo Giolitti nel 2920-21 e il « giolittismo » rimase sempre il suo ideale politico di illuminato conservatore, difensore dell’ordine costituito e della di­ sciplina sociale, non insensibile ai richiami della politica di potenza e del nazionalismo: di qui il suo schierarsi a favore dell’intervento nella prima guerra mondiale (la « religiosa ecatombe » da cui doveva scaturire « un sentimento più alto, più grave, più tragico della vita e dei suoi doveri ») e le sue iniziali simpatie per il fascismo, consi­ derato come una forza capace, nelle travagliate vicende del dopo-

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guerra, di restaurare l’ordine contro le forze sovversive. Neppure l’assassinio di Matteotti valse a mutare questo atteggiamento, che durò sostanzialmente fino a quando, intorno al 1924-1925, il fasci­ smo non abrogò le garanzie dello statuto e dette via esplicitamente ad un regime totalitario. Rotti i rapporti personali con Gentile, che aveva continuato ad aderire al fascismo, Croce passò all’opposizione e divenne il capo riconosciuto dell’antifascismo liberale. L ’opposizione di Croce si manifestò soprattutto nel campo culturale, senza che il fascismo fosse in condizione di metterla definitivamente a tacere. È in questa mutata situazione che Croce matura anche in sede teo­ La « religione della libertà » rica la sua concezione liberale, di cui sono documento, sul piano storio­ e lo storicism grafico, la Storia d’Italia dal 1871 al 1915, pubblicata nel 1928 assoluto e la Storia d’Europa nel secolo X IX , del 1932 e sul piano teorico il volume Etica e politica, del 1931 e soprattutto La storia come pensiero e come azione, del 1936. La storia è pensiero, conoscenza del passato e, l’uomo, quando si volge ad essa, ha solo il dovere di comprendere razionalmente, senza approvare né condannare (cioè senza giustificare moralmente), ma accettando ciò che è stato e che non può essere modi­ ficato. Ma storia non è solo quella conosciuta ma è anche quella agita, non è solo pensiero ma anche « azione »; e il giudizio storico risol­ vendo i problemi che di volta in volta si pongono è anche la pre­ messa dell’ulteriore azione. Orbene, nell’agire ciò che si fa valere è l’ideale morale, razionale non meno del reale, e in cui si esprime ciò che a ciascuno, nelle circostanze date, la coscienza morale comanda di fare; la moralità, d’altra parte, in quanto « azione che mantiene nei loro confini le singole attività, che tutte le eccita ad adempiere uni­ camente il loro ufficio proprio e che si oppone in tal modo al di­ sgregamento dell’unità spirituale » fa tutt’uno con la libertà. La storia, dunque, è sempre storia della libertà, anche quando le con­ tingenze sembrano occultarla provvisoriamente, perché la libertà « ha per sé l’eterno ». È questa quella « religione della libertà », l’ultima e più alta forma di religione, a cui Croce ispira la sua conce­ zione storica ed etico-politica. E se da un lato, per togliere ogni pos­ sibile equivoco metafisico, Croce tende ora a presentare la sua fi­ losofia dello spirito come uno « storicismo assoluto », come totale immanentismo e a reinterpretare la categoria dell’« economico » in quella più complessa ed esistenziale della « vitalità », « terribile forza per sé affatto amorale, che genera e asservisce o divora gli

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individui, che è gioia ed è dolore, che è epopea ed è tragedia, che è riso ed è pianto, che fa che l’uomo ora si senta pari ad un Dio, ora miserabile e vile ». {Il carattere della filosofia moderna, 1940; Di­ scorsi di varia filosofia, 1945, Filosofia e storiografia, 1949 e Indagine su Fiegei e schiarimenti filosofici, 1952); dall’altro, sul piano politico, Croce, dopo la Liberazione, si illude che, chiusa la parentesi fascista, sia possibile riallacciare un legame di continuità con gli ideali dell’età giolittiana, e si sforza di presentare la politica del partito liberale non solo come non identificabile con il liberismo economico e con istituti determinati e soggetti al divenire storico, ma quasi come una « meta­ politica », cioè come la garanzia di quella libertà al cui interno vivono le concrete formazioni politiche.

3 - Gentile. La riforma della dialettica hegeliana. Quanto la filosofia di Croce dà l’impressione di ricchezza di itile: la vita e gli scritti contenuti e di complessità di un pensiero che si nutre di esigenze diverse, tanto la filosofia di Gentile dà l’impressione di essere mono­ corde, intesa a svalutare la positività di qualsiasi contenuto rispetto al pensiero che lo pone e, ponendolo, lo supera. In realtà si tratta, in entrambi i casi, di un’impressione che merita di essere corretta, e comunque a Gentile va riconosciuto il merito di aver portato fino alle estreme conseguenze, e con assoluta coerenza, una « riforma della dialettica hegeliana » che è veramente la conclusione di questa stagione della filosofia italiana. Nato a Castelvetrano, in Sicilia, nel 1875, Giovanni G e n t i l e studia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ascolta le le­ zioni dell’hegeliano Donato Jaia e viene così a conoscenza del pen­ siero di Spaventa. Ed alle dottrine di Spaventa sulla storia della filosofia italiana e su i suoi rapporti con la filosofia europea (cfr. supra, p. 244) è chiaramente ispirato il suo scritto, Rosmini e Gio­ ipporti con berti, del 1898. Anche Gentile, come Croce, è spinto agli inizi della tarxismo ed sua attività speculativa a fare i conti con la filosofia di Marx. La modernismo filosofia di Marx, pubblicata nel 1899, rappresenta il tentativo di porre in evidenza una « metafisica o intuizione del mondo », che costituisce il nucleo filosofico di quel materialismo storico che, a rigore, filosofia non è; e tale nucleo è individuato nella « filosofia della

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prassi », cioè nell’idea, che Marx elaborò in polemica con Feuerbach, per cui la realtà è una « produzione soggettiva dell’uomo ». Ma in quanto si tratta di una produzione sensibile e non del pensiero (come aveva sostenuto Hegel), Marx finisce in un’antinomia, perché, so­ stiene Gentile, se è veramente produzione non può essere materialistica e se è sensibile non può essere veramente produzione. A questi scritti facevano seguito, nel 1903, Dal Genovesi al Galluppi, e, nel 1909, Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia-, in quest’ultimo Gentile prende decisamente posizione contro il modernismo e contro il suo tentativo di portare il cattolicesimo al passo con i tempi, conciliandolo con la scienza e il pensiero moderno: « se non siete cattolici, scrive Gentile rivolto ai moder­ nisti, fateci il piacere di lasciare in pace il cattolicesimo, come fa da quattro e più secoli la filosofia moderna. Siete ridicoli, se credete che incominci ora la critica del cattolicismo, che per la filosofia è morto da un gran pezzo. Siete anche ridicoli, se credete che voi possiate ammazzarlo ben altrimenti che non abbia fatto la filoso­ fia cioè nella filosofia ». Gentile ha continuato per tutta la sua vita un’intensa attività Gli scritti storici e quell storiografica soprattutto nel campo del pensiero italiano del Rina­ teoretici scimento e del Risorgimento [I problemi della scolastica e il pen­ siero italiano, 1913; Studi vichiani, 1914; Le origini della filo­ sofia contemporanea in Italia, 3 voli. 1917-23; Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo X IX , 1922; Studi sul Rinascimento, 1923; I profeti del Risorgimento italiano, 1923; Il pensiero italiano del Rinascimento, 1940); un’attività volta in primo luogo a ritro­ vare un filo rosso che segni la continuità di quella tradizione specu­ lativa, che appunto nella filosofia di Gentile ha la sua compiuta e definitiva formulazione. Sul piano più propriamente teorico gli scritti fondamentali, di Gentile sono La riforma della dialettica hegeliana, 1913; La teoria generale dello spirito come atto puro, 1916; I fondamenti della filosofia del diritto, 1916; Sistema di logica come teoria del cono­ scere, 2 volumi. 1917-22; La filosofia dell'arte, 1931; e Genesi e struttura della società, pubblicato postumo nel 1946; importanti sono anche gli scritti pedagogici, e in particolare il Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 2 volumi (1912-1913''

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Professore prima nell’Università di Palermo e di Pisa e dopo Gentile e il fascismo il 1917 in quella di Roma, Gentile copre la carica di ministro della Pubblica Istruzione dal 1922 al 1924, portando a termine quella riforma della scuola che, corretta in seguito dal fascismo, è rimasta tuttora in vigore. L ’adesione di Gentile al fascismo, di cui divenne in certo modo il filosofo ufficiale (Che cosa è il fascismo, 1925; Fascismo e cultura, 1928) è motivata dall’interpretazione del tota­ litarismo di quel movimento come eticità dello stato e superamento in essa del particolarismo individualistico. Insignito di numerose cariche culturali e politiche, Gentile ribadì la sua adesione al fa­ scismo anche dopo il luglio del ’43, l’occupazione tedesca e la repub­ blica di Salò. Fu ucciso in un’azione partigiana a Firenze nel 1944. Le critiche La « riforma della dialettica hegeliana », elaborata da Gentile, alla dialettica riprende e sviluppa le critiche che già Spaventa aveva elaborato, hegeliana soprattuttto in polemica con l’interpretazione di « destra » data da Vera (cfr. supra, p. 243). I punti su cui opera tale riforma sono essenzialmente due: da un lato la separazione, fatta da Hegel, della « fenomenologia » dalla « logica », cioè del processo per cui la coscienza si solleva dalla certezza sensibile all’autocoscienza e alla ra­ gione, superando il dualismo gnoseologico di soggetto e oggetto, dal pensiero come sistema delle categorie; e dall’altro la tripartizione del sistema in logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito, tripartizione che, tornando a concepire il logo come astratta Idea in sé e la natura come astratta Idea per sé, e quindi quasi dimenticando i risultati della fenomenologia, u- na a riproporre il dualismo di sog­ getto e oggetto come anteriore alla loro sintesi, lo spirito. In realtà, Hegel, se fosse stato coerente con il suo assunto immanentistico e sin­ tetico, avrebbe dovuto accorgersi che con la logica, intesa come espo­ sizione delle forme del sapere assoluto a cui la coscienza si solleva dialetticamente dalla certezza sensibile, il compito della scienza era compiuto. Non essersi accorto di questo ha significato per lui l’im­ possibile ricerca di una dialettica oggettiva e quindi l’impossibile ten­ tativo di mettere in moto la dialettica partendo dalle prime tre cate­ gorie della logica: essere, non-essere e divenire. « Hegel vide che non si concepisce dialetticamente il reale, se non si concepisce il reale stesso come pensiero: e distinse l’intelletto che concepisce le cose, dalla ragione che concepisce lo spirito. ... Ebbene, Hegel stesso... tornato a rappresentarsi questa dialettica come legge archetipa del

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pensiero in atto, e quindi suo ideale presupposto, non potè non fis­ sarla egli pure in concetti astratti e quindi immobili, che sono affatto privi di ogni dialettismo, e di cui perciò non è dato intendere come possano, per se stessi, passare l’uno nell’altro e unificarsi nel reale continuo moto logico ». L ’unica dialettica possibile, obbietta Gentile, è quella del sog­ La riforma della dialettici getto o pensiero, che, pensando, pone i suoi contenuti e nello stesso hegeliana tempo li ricompi ende in sé e li supera; l’unico divenire reale è quello dell’atto del pensiero, con cui esso pensa sia l’essere che il non­ essere. E se Hegel non ha visto chiaramente questo punto o non lo ha tenuto ben fermo, in ciò sta la ragione per cui nel suo sistema non è compiutamente superato quel dualismo metafisico platoneggiante, che è alla base, poi, dello scindersi della sua scuola in una « destra », che torna esplicitamente alla trascendenza, e in una « sinistra », che finisce nel materialismo. Bisogna dunque risolutamente partire dal concetto che lo spirito, il soggetto è il pen­ siero e che il pensiero è attività. Questo era già stato chiaramente visto da Fichte e, prima ancora da Kant (con la dottrina dell’Io penso), i quali avevano mostrato che tipico del soggetto, dell’attività del pensiero, è che esso non può venir trattato mai come un oggetto, come un pensato, perché appena si tenta di fare ciò l’oggetto, il pen­ sato non è più quel pensiero in atto, che appunto pensa il pensiero come oggetto, e che perciò resta sempre « al di qua » di tutti i suoi contenuti. Il punto su cui Gentile insiste in modo particolare è la necessità di un concetto rigoroso della « sintesi a priori », il che per lui implica che si tenga ben fermo che la sintesi, per essere vera­ mente a priori, non può essere concepita come un atto che unifichi due opposti, distinti e « pre-esistenti » (come avevano finito per fare Kant, per il quale molteplicità dei dati sensibili e forme a priori del soggetto precedevano l’atto sintetico; e come aveva finito per fare Hegel, per il quale essere e non-essere erano « anteriori » al di­ venire): non prima l’analisi e poi la sintesi, ma al contrario, prima la sintesi e poi l’analisi, giacché solo così è possibile superare l’astratta sintesi di relativismo soggettivistico e di dogmatismo oggettivistico, di una conoscenza che sia ridotta a mero fenomenismo soggettivo, incapace di cogliere la realtà in sé delle cose, e di una conoscenza che, trovandosi di fronte un oggetto, rispetto ad essa esteriore e indipendente, non può fare altro che cercare di adeguarsi ad esso.

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4 - Gentile. L ’attualismo. La riforma della dialettica hegeliana proposta da Gentile mostra già chiaramente in che direzione si muove il suo pensiero e su quale principio egli ritiene possibile fondare una « teoria generale dello spirito ». Reale è soltanto il pensiero nella sua « attualità », l’atto puro del pensiero; con l’espressione « atto puro », da cui deriva la denominazione di « attualismo » con cui è caratterizzata la filosofìa di Gentile, è da intendere non l’aristotelico actum purum, una entità pienamente realizzata e pertanto « pura » da ogni potenzialità e divenire (questa entità, proprio perché già at­ tuata, è, dal punto di vista di Gentile, piuttosto un factum), ma è da intendere Yactus purus, la pura attività, il puro divenire, che « è » solo nella misura in cui « si viene facendo ». Se dunque l’unica realtà è « lo spirito come atto puro », cioè come pensiero in atto, allora due sono le immediate conseguenze più im­ portanti: da un lato, qualsiasi oggetto di questo pensiero e persino il pensiero stesso, quando è fatto oggetto di pensiero, non è un atto, ma un « fatto » del pensiero, un suo contenuto pensato, che è reale in quanto è pensato; esso non sussiste dunque indipendentemente dall’atto del pensiero che lo pensa, e pensandolo lo pone (lo fa essere e lo determina) e ponendolo lo ricomprende in sé e lo su­ pera; d’altro lato, il pensiero in atto è non l’io empirico, ma l’« Io » o Soggetto trascendentale, universale e infinito, che proprio perché tale, non può mai diventare oggetto a se stesso, ed è sempre pen­ siero « pensante » e mai pensiero « pensato »: « la coscienza, scrive Gentile, in quanto oggetto di coscienza non è più coscienza; in quanto oggetto appercepito, l’appercezione originaria non è più appercezione: non è propriamente più soggetto, ma oggetto; non è più Io ma non-io... Il punto di vista trascendentale è quello che si coglie nella realtà del nostro pensiero, quando il pensiero si con­ sideri non come atto compiuto, ma, per così dire, quasi atto in atto: atto che non si può assolutamente trascendere poiché esso è la nostra stessa soggettività, cioè noi stessi; atto che non si può mai in nessun modo oggettivare ». Io In questa prospettiva l’io empirico, il singolo individuo pen­ rascendentale sante, non può essere concepito altrimenti che come un oggetto, d io empirico posto dall’Io trascendentale, che lo pensa e pensandolo ne supera l’inIl pensiero ime atto puro

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dividualità empirica e lo universalizza; esso non ha quindi una sua propria realtà autonoma, giacché se è vero (come per Gentile è vero) che « conoscere è identificare, superare l’alterità come tale », allora è evidente che « altri oltre di noi non ci può essere, parlando a rigore, se noi lo conosciamo e ne parliamo ». Certo, anche noi siamo io empirici, ma solo in quanto diventiamo oggetti del pen­ siero in atto; in quanto attualità del pensiero nulla esiste « fuori » di noi, e il pensiero del filosofo idealista è lo stesso pensiero del Sog­ getto trascendentale: le altre filosofie non sono infatti, da questo punto di vista, altri pensieri pensanti, ma altri pensieri pensati, anzi, a rigore, non sono neppure « altri » pensieri, perché il filosofo idea­ lista, conoscendoli, ne supera l’alterità e scopre che essi sono reali solo in quanto da lui pensati: « il punto di vista trascendentale, scrive Gentile, è quello che si coglie nella realtà del nostro pensiero, quando il pensiero si consideri non come atto compiuto, ma, per così dire, come atto in atto: atto che non si può assolutamente tra­ scendere perché esso è la nostra stessa soggettività, cioè noi stessi: atto che non si può mai in alcun modo oggettivare ». Con piena coerenza, Gentile svolge il principio del pensiero come La logica: log atto puro in una logica e in una dialettica ad esso intrinseche. La ^creU) * 1g logica di Gentile si fonda sull’opposizione, già vista, di « pensiero pensante » e di « pensiero pensato », o anche come egli li designa in sede logica, di « logo concreto » e « logo astratto »: il primo indica l’unità, l’universalità e la verità dell’« atto » del pensiero, il secondo indica la molteplicità, la particolarità e l ’errore del « fatto » del pen­ siero; scambiare il pensiero con i pensati, l’atto con i suoi contenuti e le sue determinazioni, dando a questi contenuti e a queste determi­ nazioni una realtà a sé che non hanno, significa appunto fare una « logica astratta », astrarre cioè l’oggetto del pensiero dalla realtà del pensiero che lo pensa: ed è questo propriamente l’errore, il carat­ tere naturalistico e non idealistico della logica antica, platonico-aristo­ telica, che scambiava la dialettica delle idee e l’analisi delle forme del pensiero pensato con la dialettica del pensiero e la sintesi dell’atto; errore che continua a persistere nella logica kantiana e in quella hege­ liana, come abbiamo visto. Non solo ma anche la « filosofia dello spi- Gentile e Croc rito » di Croce resta, per Gentile, sul piano della logica del pensato e quindi dell’astratto: arte, logica, economia ed etica non sono che « quattro parole » perché reale è solo l’unico atto del pensiero, che

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pensa il fatto artistico, logico, economico ed etico. Il nesso dei di­ stinti rompe l’unità dello spirito e distrugge la vera dialettica, che è quella degli opposti, donde l’inestricabile contraddizione in cui Croce si impiglia e per cui il « brutto » per un lato è l’opposto del « bello » e per l’altro è invece soltanto un « distinto » da esso, dal momento che ciò che diciamo brutto in un’opera d’arte è la presenza in essa di elementi didascalici (il vero), edonistici (l’economico) o moralistici (l’etico). Contro la distinzione, Gentile riafferma l’assoluta unità dello spirito, la totale identità di teoria e prassi: il « fare » dello spirito, il suo creare, non è altro che il suo « pensare » la realtà. Tuttavia il logo astratto, il pensiero pensato, non è eliminabile, ma intrinseco e necessario alla dialettica del logo concreto, del pensiero pensante: « affinché si attui la concretezza del pensiero, che è nega­ zione dell’immediatezza di ogni posizione astratta, è necessario che l’astrattezza sia non solo negata ma anche affermata; a quel modo stesso che a mantenere acceso il fuoco che distrugge il combustibile occorre che ci sia sempre del combustibile e che questo non sia sot­ tratto alle fiamme divoratrici ma sia effettivamente combusto ». Si spiega, in questo contesto, che il pensiero in atto sia, per Gentile, sempre verità e bene: l ’errore e il male non sono infatti reali se non in quanto il pensiero in atto li pone come tali e li considera come suoi momenti superati e oltrepassati e quindi come opposizione a sé nella sua attualità, che è la sua verità. Allo stesso modo non esiste alcuna realtà « esterna e indipendente » rispetto all’atto del pensiero: non sono reali in sé la natura, Dio, gli individui, la storia, ma reale è solo l’atto del pensiero che pensa la natura, Dio, gli individui, la storia E poiché la natura, come realtà indipendente dal pensiero, è una finzione, poiché la sua molteplicità non è altro che il risultato dell’at­ tività spazializzatrice e temporalizzatrice del soggetto, è evidente che la scienza non è conoscenza reale, ma logo astratto; tuttavia è neces­ sario che prima consideriamo come Gentile concepisce il concreto at­ tuarsi del pensiero. Noi già sappiamo che l’unica dialettica reale, l’unico concreto divenire è l’atto del pensiero. Ma come si articola questa dialettica e questo divenire? Gentile accetta lo schema della tesi, dell’antitesi e della sintesi, e poiché la sintesi non può che essere l’atto del pen­ siero concreto, tesi e antitesi si configurano come le posizioni astratte del pensiero, e cioè come astratta soggettività e astratta

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oggettività. Gentile identifica l’astratta soggettività con l’arte, l’astratta oggettività con la religione e la loro concreta sintesi con la filosofia. L ’arte è la « forma dell’io come puro soggetto », l’esal­ tazione della pura soggettività, « sottratta ai vincoli del reale », la « liricità » dell’atto pensante: « la vita vagheggiata dal poeta è una vita il cui valore consiste appunto nel non inserirsi nella vita a cui mira l’uomo pratico, nel non potervisi inserire, poiché essa è libera creazione del soggetto che si stacca dal reale e si pone nella sua astratta e immediata soggettività ». Pertanto l’arte pura è « inat­ tuale », come « inattuale » è il sentimento, che dell’arte costituisce la forma, la soggettività (e non il contenuto, come voleva Croce, giac­ ché per Gentile il contenuto è dato dall’immagine): l’attualità del­ l’arte sta solo nel pensiero. Antitesi dell’arte è la religione, in cui si ha « l’esaltazione del­ l’oggetto, sottratto ai vincoli dello spirito, in cui consiste l’idealità, la conoscibilità e razionalità dell’oggetto stesso ». In questo senso la religione « sostituisce al concetto della creazione come autoctisi quello della creazione come eteroctisi; e al concetto del conoscere come po­ sizione che il soggetto fa dell’oggetto, quello della rivelazione che l’oggetto fa di se stesso; al concetto della buona volontà, che è la crea­ zione che la volontà fa del bene (cioè di se stessa come bene), quello della grazia che il bene (Dio) fa di sé al soggetto ». Consegue da ciò in primo luogo che l’essenza della religione è il « misticismo », cioè l’annullamento del soggetto nell’oggetto, e in secondo luogo che solo nella filosofia la religione riceve il suo « inveramento » (e Gentile ha insistito più volte sul carattere « religioso » della sua filosofia). Solo la filosofia, dunque, come attualità dell’arte e inveramento della Scienza, e stori religione, è la vera, concreta e reale sintesi, l’autocoscienza dello spi­ filosofia della filosofia rito come auto-creazione (autoctisi), quale non può essere la scienza. La scienza, infatti, è sempre particolare, perché « la sua realtà è una realtà particolare e perciò puramente subbiettiva »; in secondo luogo essa ha innanzi a sé un oggetto che non è stato posto da lei e che non si sa spiegare (e in questo senso è agnostica: non solo dice ignoramus ma sempre dirà ignorabimus): « la scienza perciò, oscil­ lando tra l’arte e la religione, non le unifica, come la filosofia, in una sintesi superiore, anzi assomma con il difetto di obbiettività e univer­ salità dell’arte il difetto di subiettività e razionalità della religione ». La « filosofia », infine, è identica con la « storia della filosofia »:

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Gentile, con assoluta coerenza, nega la distinzione tra res gestae e historia rerum gestarum, il dualismo tra i fatti accaduti e il pen­ siero che li pensa; ma proprio per questo la storia si risolve nella storia della filosofia e questa nell’attualità del pensiero, cioè nella filosofia. Pedagogia, Gentile ha dato particolare sviluppo ai principi dell’attualismo diritto e nel campo della pedagogia e nel campo della dottrina dello stato e politica della società. L ’educazione è innanzi tutto « autoeducazione », unità, nel soggetto trascendentale, di maestro e discepolo, rispetto a cui hanno valore solo secondario tutte le forme di « etero-educazione », i rap­ porti estrinseci tra maestro e discepolo, le tecniche pedagogiche e le analisi psicologiche, che considerano i fatti psichici appunto come « fatti », cioè analoghi ai fatti naturali. La pedagogia viene in tal modo identificata con la filosofia. Parallelamente, anche la società (come insieme di individui em­ pirici) e le sue regole, morali, politiche e giuridiche, hanno valore solo nell’atto del pensiero: società e stato non sono inter homines, ma in interiore homine e rappresentano perciò, posta l’identità di pensiero e volontà, di teoria e prassi, il mondo della « volontà voluta » rispetto all’atto della « volontà volente »: il diritto, pertanto, non è più « libertà che è forza », ma « forza senza libertà », non è più « og­ getto che è soggetto », ma « oggetto opposto al soggetto ». Mo­ rale e diritto, sfera privata e sfera pubblica, individuo e stato si identificano così pienamente; donde il dovere di ciascuno è quello di lottare non contro lo stato e le leggi, ma contro se stesso e la propria inerzia: lo stato è tutto e l’individuo è nulla; ma, poiché lo stato non è altro che la stessa volontà dell’individuo in quanto uni­ versale e necessario, è vero anche il contrario. Assurda è pertanto la concezione liberale, per cui gli individui sono « atomi », ognuno per sé stante, e per cui lo stato avrebbe solo il compito di limitare e coordinare le « libere attività dei singoli ». Con questi argomenti Gentile credette di poter interpretare e giustificare, in sede teorica, la politica del fascismo.

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5 - Le altre tendenze del pensiero italiano nel Novecento. Come si è già detto, le filosofie di Croce e di Gentile hanno esercitato un’in­ fluenza egemonica sulla cultura italiana nella prima metà del Novecento. A questa influenza si devono effetti positivi e negativi, giacché fu certamente po­ sitiva la polemica culturale, che essi condussero contro la mediocrità della cul­ tura positivistica tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, la problematica che essi agitarono, i legami che essi riannodarono con la cultura, non solo filosofica, europea. Ma non mancarono anche conseguenze negative, come la svalutazione della problematica scientifica, il carattere prevalentemente umanistico-storico riconosciuto al concetto di cultura, il bando inflitto a disci­ pline « umane », come la psicologia, la sociologia, la psicanalisi, ecc. (giudicate meralmente empiriche e descrittive), la chiusura verso le contemporanee tendenze della filosofia europea, dal neopositivismo alla fenomenologia, dall’esistenzialismo al marxismo. Certo, esponenti singoli di tendenze diverse da quelle crociana e gentiliana non mancarono nella cultura italiana, come vedremo, ma non è dubbio che il clima generale della cultura italiana fu crociano e gentiliano, almeno fino alla crisi del fascismo e della II guerra mondiale. Il che può valere anche a spie­ gare perché l’esperienza culturale di quelle filosofie risultasse del tutto com­ piuta nell’arco della lunga e vasta operosità dei loro autori e perché lo stori­ cismo crociano e l’attualismo gentiliano ebbero molti seguaci e ripetitori ma non dei veri e propri pensatori che ne sviluppassero positivamente il pensiero. Questo è vero soprattutto per lo storicismo crociano, se si fa eccezione soltanto per l’opera di Carlo A ntoni (1896-1959), autore di Dallo storicismo alla socio­ logia, La lotta contro la ragione e Commento a Croce, oltre al quale possono essere ricordati i nomi di Adelchi A ttisani e di Alfredo P arente. L ’attualismo invece visse, soprattutto nel decennio dal 1940 al 1950, una vicenda che ha richiamato l’analogia con la scuola hegeliana: si è parlato cosi di una « destra » e di una « sinistra » gentiliana, la prima volta ad un recupero della trascendenza religiosa proprio sul fondamento del continuo trascendimento dell’atto rispetto ai fatti; la seconda volta, in varie tendenze, ad uno sviluppo dell’immanentismo idealistico nel senso di una accentuazione del momento problematico dell’atto; oppure a tradurre la problematica dell’attualismo in termini non gnoseologici (ché, anzi, la gnoseologia è considerata conclusa, come problema) ma morali; oppure, infine ad un recupero dell’individuo, nella sua concreta e vivente uma­ nità. Si tratta di una problematica i cui protagonisti sono per la maggior parte viventi e pertanto concernente più l’attualità che non la storia del pensiero. Ci limiteremo quindi a ricordare gli esponenti di maggior rilievo della « destra », talvolta in polemica più o meno esplicita (almeno fino a quando non ci fu un vero e proprio ritorno nell’ortodossia) con il neo-tomismo (che trovò un centro importante in Italia nella Cattolica di Milano e dei cui esponenti una menzione meritano Gustavo Bontadini e Francesco O lgiati): da Balbino G iuliano ad Armando Carlini, da Luigi S tefanini a Vincenzo la V ia , da Augusto Guzzo a Felice B attaglia a Michele Federico S ciacca. Nell’ambito della « sinistra » "71 . C ì n t u t / I M tfitti T T I .

Lo storicismo crociano e l’attualismo gentiliano

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vanno fatti i nomi di Giuseppe Saitta e Vito F azio A llmayer , Vincenzo Chia­ e Vladimiro A rangio R uiz , di Ugo S pirito , Guido Calogero e Franco L ombardi, per molti dei quali l’esperienza attualistica è stata il punto di par­ tenza di riflessioni che sono via via pervenute a sistemazioni del tutto originali. Non riconducibile a stretti legami di scuola è l’attività di Luigi S caravelli (1894-1957), la cui opera Critica del capire è un’analisi della «comprensione» in quanto funzione limitata e perciò diversa dalla « risoluzione » di un problema. Aperta ad esigenze attualistiche, ma sempre più orientata verso lo storicismo cro­ ciano è stata infine l’attività di Guido de R uggiero (1888-1948), noto soprat­ tutto come autore di un’ampia Storia della filosofia e di una Storia del liberali­ vacci

smo europeo.

Lo spiritualismo : Martinetti, Varisco, Carabellese e De Sarlo

Tra le correnti di pensiero che cercarono di contrastare l’egemonia dell’idea­ lismo (e qui prescindiamo dagli sviluppi del pensiero scientifico e del marxi­ smo, che vedremo più avanti, cfr. infra, p. 352 e p. 412) un particolare rilievo ebbero lo spiritualismo e il pragmatismo. Lo spiritualismo si configura come « evoluzionismo spiritualistico », in qual­ che modo analogo a quello di Wundt, nel pensiero di Filippo Masci (18441923), autore di II materialismo psico-fisico e la dottrina del parallelismo in psi­ cologia e di Pensiero e conoscenza-, la realtà è per questo pensatore una sostanza psico-fisica, la cui evoluzione si caratterizza come un’individuazione progressiva, al cui culmine è lo spirito come io e autocoscienza. Caratteristiche più originali ha lo spiritualismo di Piero Martinetti (18711943), professore a Milano e destituito dall’insegnamento per non aver voluto (insieme a pochi altri) prestare giuramento di fedeltà al fascismo, autore di un 'Introduzione alla metafisica, di La libertà e di Ragione e fede, e critico del­ l’idealismo, cui rimprovera il naturalismo del suo immanentismo: scienza e fi­ losofia stanno, per Martinetti, nel rapporto di conoscenza imperfetta e cono­ scenza perfetta, di premessa e fine; e la filosofia ha la sua base nella coscienza, come unificazione soggettiva della molteplicità degli oggetti. Ma questa coscienza, questa soggettività non è meramente empirica (come volevano gli idealisti): esiste una molteplicità di soggetti particolari, rispetto ai quali sta, nella sua trascendenza, unità e atemporalità, il Soggetto assoluto. Di qui l’intonazione religiosa del suo pensiero e la convinzione che l’attività della ragione deve avere il suo completamento e la sua integrazione ideale nella « fede ». Anche Bernardino V arisco (1850-1933), autore de I massimi problemi, assume come reale una molteplicità di soggetti, rispetto a cui sta l’assoluta trascendenza di un Dio personale (teismo), e svolge un minuta analisi del sapere scientifico per mostrare la sua inadeguatezza a risolvere « i massimi problemi » dell’uomo. Tra gli altri esponenti dello spiritualismo basterà ricordare ancora Pantaleo Carabellese (1877-1948), autore di una Critica del concreto e di Il problema teologico come filosofia, la cui filosofia è tutta imperniata sull’idea che l’oggetto (non quello empirico, ma quello assoluto) non è estrinseco alla coscienza e che tale oggetto puro della coscienza è Dio stesso; e Francesco de Sarlo (1864-1937), autore tra l’altro di Psicologia e filosofia e di Introduzione alla filosofia, che cercò di contrastare il declinante positivismo e l’insorgente

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idealismo sulla base di una psicologia fondata sul concetto di « anima » come so­ stanza spirituale, ed ebbe una numerosa scuola, cui appartennero tra gli altri Emilio Paolo L amanna (1885-1967) e Antonio Aliotta (1881-1964), che cer­ cherà di dare maggiore importanza all’esperienza e al valore gnoseologico della scienza. Aliotta si ricollegava in tal modo, con il suo sperimentalismo, alle tendenze del pragmatismo anglosassone (cfr. capitolo seguente), che trovano altresì espres­ sione, in Italia, da un lato nella polemica culturale della rivista « Leonardo », di cui esponente caratteristico fu il letterato Giovanni Papini, e dall’altro nella filosofìa di Giovanni V ailati (1863-1909) e di Mario C alderoni (1879-1914). Discepolo di Peano (cfr. infra, p. 352), Vailati nei suoi Scritti cercò di unificare i risultati delle sue analisi di metodologia della scienza con la prospettiva del pragmatismo: il significato di una nozione, nell’ambito di una scienza, non è altro che l’uso che di questa nozione fa la scienza; in tal modo i postulati della matematica, per esempio, non sono proposizioni « privilegiate », di particolare verità, ma sono proposizioni come tutte le altre, « scelte » solo in vista degli scopi che la matematica vuole conseguire. Metodologia della scienza e pragma­ tismo concorrono in tal modo ad abbattere la monarchia delle verità assolute e ad instaurare la democrazia di principi scelti unicamente in funzione « dell’in­ teresse del pubblico » e della precisione e semplicità delle proposizioni scienti­ fiche. Chiuderemo questo rapido panorama con il ricordo di una singolare figura di pensatore, morto suicida a soli ventitré anni e non riconducibile a nessuna delle tendenze fin qui descritte. Si tratta di Carlo M ichelstaedter (1887-1910), autore di Persuasione e retorica, pubblicato postumo. Uomo di grandi doti intellettuali e morali, Michelstaedter ha posto al centro delle sue riflessioni il senso di insoddisfazione e di deficienza che è intrinseco alla finitezza e alla temporalità dell’esistenza umana e quindi il bisogno di una soddisfazione, di una « risposta assoluta », di una proiezione verso il futuro: l’uomo « si gira per la via dei singoli bisogni e sfugge sempre a se stesso. Egli non può possedere se stesso, aver la ragione di sé, quando è necessitato ad attribuire valore alla propria persona determinata nelle cose, e alle cose delle quali abbisogna per continuare. Che da queste è via via distratto nel tempo. Il suo avvenire alla vita mortale, il suo nascere, è nella altrui volontà ». Perciò il rifiuto assoluto, la negazione totale è l’inizio di quel possesso di sé in cui consiste la « persua­ sione », impersonata da Socrate, mentre la « retorica », impersonata da Platone, è quella finzione che vuole vestire d’assoluto le escogitazioni dell’intelletto e dare un valore alle cose determinate. È facile scorgere alcuni dei temi che saranno dibattuti dal pensiero esistenzialistico.

Il pragmatismo V ailati

Michelslaedti

X IV

L ’ID EA LISM O , PRAGMATISMO E REALISM O N ELLA FILO SO FIA ANGLO-AMERICAN A 1. Spiritualismo, criticismo e idealismo. Bradley e Royce (p. 324) - 2. Il pragmatismo. Peirce e James (p. 327) - 3. Dewey e lo « strumentalismo » (p. 332) - 4. Il realismo. Alexander e Whitehead (p. 340).

1 - Spiritualismo, criticismo e idealismo. Bradley e Royce. Lo Anche nel mondo anglosassone, e particolarmente in Inghilterra, lo spirispiritnalismo tualismo trova molteplici espressioni, tendenti tutte a sottolineare la irriduci­ bilità dello spirito, della coscienza personale e dell’esperienza soggettivamente vissuta, alla natura, all’esperienza oggettivamente osservata, a categorie univer­ sali e non personali. In questo quadro la critica al naturalismo positivistico, negatore della coscienza, del « senso intimo individuale » e della fede, e perciò incapace ili soddisfare la sua pretesa di esaurire tutti gli aspetti della realtà, è particolarmente sviluppata da Arthur James B alfour (1848-1931), autore di Le basi della fede e di Teismo e pensiero, e da James W ard (1843-1925), che analizza nei suoi scritti, Naturalismo e agnosticismo, Prìncipi psicologici, ecc., il contrasto tra una concezione puramente contenutistica delle cose e una con­ cezione fondata invece sulla valutazione morale delle cose, come mezzi o come fini. Componente essenziale, anche dello spiritualismo anglo-sassone, è l’inte­ resse religioso, il rapporto personale tra l’uomo e Dio. Questo motivo è indi­ rizzato, anche in funzione polemica, verso l’idealismo hegeliano, contro il con­ cetto di « coscienza assoluta » teorizzato da Green e da Bradley (cfr. supra, p. 169 e infra, p. 325): così, per esempio, in Andrew Seth P ringle-Pattison (18561931), autore di Videa di Dio alla luce della recente filosofia, che agli hegeliani rimprovera l’indebita riduzione dell’ontologia a gnoseologia, l’equazione di logica e metafisica, di pensiero e realtà; e in Clement C. J. W ebb (1865-1954), au­ tore di Dio è personalità e di Lineamenti di una filosofia della religione, che riafferma il carattere personale di Dio, nello stesso tempo trascendente e im­ manente, infinitamente superiore alla natura e alla storia e tuttavia in esse pre­ sente. Il c riticism o Anche il tema del « ritorno a Kant », da cui abbiamo visto partire la rina­ scita del criticismo in Germania (cfr. supra, p. 189 e p. 261), è presente nella cultura filosofica inglese, anche se non vi acquista un ruolo di particolare ri­ lievo; anzi le istanze empiristiche che esso pure esprime troveranno più ade-

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guata formulazione in altre prospettive teoriche. Basterà quindi ora segnalare che il motivo di fondo, comune a tutto il criticismo inglese, è la distinzione tra il punto di vista della psicologia e il punto di vista della gnoseologia, tra « esi­ stenza » ed « essenza » (il che e il quale nella terminologia di Hodgson) tra i fenomeni di coscienza con i relativi processi per i quali si sviluppa, da tali fenomeni, la distinzione di soggetto e oggetto, e la validità dei concetti che derivano da questa distinzione. Il fatto che non sia considerata come originaria e a priori la distinzione di soggetto e oggetto, dimostra l’accentuato empirismo di questo indirizzo, i cui principali esponenti sono Shadworth H. H odgson (1832-1912), autore de La metafisica dell’esperienza-, Robert A damson (18521902), autore de Lo sviluppo della filosofia moderna-, e George Dawes H icks (1862-1941), autore di Realismo critico. Ma la corrente di pensiero, che con maggiore consistenza si oppone all’empirismo e al positivismo dominanti, è certamente l’idealismo di derivazione hegeliana: la persistente tradizione platoneggiante e religiosa, che dal Rinascimento in poi si contrappone alla tradizione empiristica, è il terreno in cui si innesta l’esperienza, breve ma fruttuosa, dell’idealismo. Noi ne abbiamo già visto (cfr. supra, p. 168 sg.) le origini e le caratteristiche di « destra »; queste caratteri­ stiche sono del resto confermate anche dalle influenze che esso ha avuto sulla storia e la filosofìa della religione e che sono particolarmente evidenti negli scritti di John C aird (1820-1898), autore di una Introduzione alla filosofia della religione, e di Edward Caird (1835-1908), autore di una vasta monografia su Kant e de L’evoluzione della religione. Per il primo la vita religiosa è il solle­ varsi del finito all’infinito, la cui unità è pienamente realizzata in Dio; per il secondo le singole forme di religione sono vari stadi di un processo, in cui cia­ scuno stadio non è la causa del successivo ma un momento imperfetto di un processo che più compiutamente si manifesta nello stadio successivo: e infatti questo processo si svolge, secondo Caird, con un ritmo dialettico, in cui il politeismo (e il panteismo) rappresenta il momento dell’oggettività, il giudaismo quello della soggettività e il cristianesimo il momento della sintesi. Se non si in­ tende questa dialettica e si pone, come fa Spencer, Dio « al di là » del processo, si cade in quella « cattiva infinità » che Hegel condannava come morte del pensiero. Il pensatore più interessante dell’idealismo inglese è certamente Francis Herbert B radley (1846-1924), autore, tra l’altro, di Apparenza e realtà. Il cen­ tro della speculazione di Bradley è la critica radicale dell’esperienza e la sua riduzione a mera « apparenza »: ogni realtà empirica (e lo stesso discorso vale per ogni realtà finita e quindi anche per i singoli concetti della logica e per le loro relazioni espresse dai giudizi) ha questo infatti di caratteristico, che quahdo noi cerchiamo di determinare il contenuto della sua esistenza, che cos’è ciò che essa è, allora quel contenuto si rivela come contraddittorio, perché per un verso esso è finito e chiuso in sé e per altro verso i suoi confini sono spezzati dalle relazioni che esso ha con le altre cose. E la relazione, in quanto identifica­ zione e unificazione del diverso, è in sé stessa inconcepibile e contraddittoria. Di questo tipo sono le relazioni tra qualità primarie e secondarie (che Bradley con­ sidera tutte egualmente soggettive, contestando la distinzione fatta da Locke:

L’idealismo e tradizione di Pe" slero ®

Bradley

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Le altre tendenze lell’idealisruo inglese

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

cfr. voi. II, p. 194) e tra qualità e sostanza, le relazioni di spazio, di tempo e di causa. Quando si pongono in relazione cose diverse, si pone in relazione quella parte di esse che ha aspetti comuni: ciò implica una scissione, in cia­ scuna cosa, tra la parte comune e la parte non comune; ma questa scissione implica a sua volta una relazione tra le parti, cosicché la scissione di ciascuna cosa va all’infinito. Di qui il carattere contraddittorio di ogni realtà empirica, che non può essere perciò la vera realtà e che si presenta pertanto come mera realtà « apparente ». Dire questo, però, significa ammettere di possedere un criterio per giudicare la vera realtà, criterio che è dato dalla non contraddittorietà. E non contraddit­ toria può essere solo una realtà assoluta e armoniosa, che deve esistere perché altrimenti non esisterebbe neppure l’apparenza (che è apparenza di qualcosa e non di niente) e che Bradley identifica con la coscienza universale e assolutamente coerente. L ’assoluto è con ciò quella realtà perfetta, in cui il finito è contenuto ma senza i caratteri di contraddittorietà, quella realtà immobile e senza storia, che comprende tutti i movimenti e tutte le storie. In questa prospettiva la conoscenza umana, secondo Bradley, pur non rag­ giungendo mai pienamente la verità, può raggiungere gradi sempre più ampi e armoniosi: la dialettica si trasforma in tal modo in un semplice processo di in­ definita adeguazione ad una verità assoluta e perfetta, in cui il motivo della contraddizione, dell’antitesi e della negazione — su cui invece insiste in questo pe­ riodo, con maggiore aderenza alla lettera della logica hegeliana, Bernard B osanQUET (1848-1923) — va completamente perduto. Tale trasformazione della dia­ lettica è esplicitamente teorizzata da John Me T aggart (1866-1925), autore di Studi sulla dialettica hegeliana, di un Commentario alla logica di Hegel e de La natura dell’esistenza, per il quale la dialettica è la ricerca che il momento astratto della coscienza fa, non della negazione come tale, ma del suo comple­ tamento e della sua perfezione. La dialettica, pertanto, non appartiene alla na­ tura del pensiero puro, all’idea realizzata ab aeterno, ma solo al processo con cui la nostra mente tende all’assoluto. Quella coscienza assoluta, di cui aveva parlato Bradley, è concepita da Me Taggart come la società delle realtà spiri­ tuali finite, che trovano il loro principio di individuazione non nella conoscenza, ma nell’amore. Diverso da questa interpretazione della dialettica è invece l’hegelismo, che si richiama piuttosto alla Fenomenologia e al motivo dello sviluppo della co­ scienza, di James B. B aillie (1872-1940), autore di studi su Hegel e di Linea­ menti della costruzione idealistica dell’esperienza. L ’universale, l’assoluto, non è per lui qualcosa che sta « per sé », distinto dal processo in cui esso si manifesta; analogamente anche il semplice individuo, storicamente ed empiricamente deter­ minato, è una astrazione. La verità è nel processo che realizza la sintesi, nel­ l’universale che si individua e nell’individuo che si universalizza. L ’esperienza della I guerra mondiale lo indusse tuttavia ad abbandonare la concezione otti­ mistica di Hegel e a vedere nel cosiddetto progresso « un continuo processo di tentativi, esperimenti ed errori ».

IDEALISM O, PRAGMATISMO E REALISM O ANGLO-AMERICANI

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Anche in America l’idealismo di derivazione hegeliana ha trovato un espo­ nente di rilievo in Josiah R oyce (1855-1916), autore, tra l’altro, de II mondo e l’individuo e de II problema del Cristianesimo. Per Royce l’assoluto è una coscienza universale che racchiude e nello stesso tempo completa e supera tutti gli sforzi imperfetti, sia di ordine teoretico che di ordine pratico, degli indi­ vidui finiti e che quindi risolve compiutamente il « significato esterno » di un’idea (il suo riferimento ad una realtà ad essa diversa) nel suo « significato interno » (cioè il suo essere, non soltanto un’immagine della cosa, ma anche la coscienza di un proponimento pratico verso di essa, lo strumento per un fine). Ne consegue che la filosofia di Kant è un idealismo solo a metà, perché manca l’unificazione di essenza (l’esperienza possibile) e di esperienza (l’esperienza reale della sua attualità), e che il vero idealismo, unificando essenza ed esistenza, universale e particolare, concepisce il mondo come una « totalità individuale », cioè come Dio stesso, in cui tuttavia gli individui finiti non sono annullati: Dio è metafisicamente rappresentabile come uno di quei « sistemi autorappresenta­ tivi » di cui parla la matematica, un sistema cioè che contiene infinite parti simili al tutto, analogo ad una carta geografica, dice Royce, che contenesse, in una serie infinita di carte geografiche, l’esatta ubicazione di ciò che rappresenta (per esempio una carta del Lazio che contenesse l’ubicazione di questa regione nel­ l’Italia, poi nell’Europa, poi nella terra e cosi via all’infinito). Nell’ultimo periodo Royce si avvicina alla tesi del pragmatismo e ad una con­ cezione di una « comunità spirituale », che sta alle società storicamente date come la Chiesa invisibile alle Chiese visibili. Per chiudere questa sommaria esposizione ricorderemo che la filosofia di Croce ha trovato interessanti consonanze nel pensiero dell’inglese Robin George Collingwood (1889-1943), che del filosofo italiano fu amico e traduttore in inglese dell’Estetica. Nei suoi Principi dell’arte e nel Saggio sulla metafisica sostenne tesi vicine all’estetica e allo storicismo di Croce.

Royce e l’idealismo americano

Idealismo inglese e idealismo italiano

2 - Il pragmatismo. Peirce e James. Con il termine « pragmatismo » (dal greco pràgma = azione) si suole indicare quella corrente di pensiero, sorta negli Stati Uniti e poi diffusasi anche in Europa che vede nel patrimonio di idee e di « verità » dell’uomo non tanto un possesso soltanto teorico quanto piuttosto qualcosa di valido e significativo solo nella misura in cui esso può essere usato come regola dell’azione e come criterio di condotta, sia in sede conoscitiva che in sede pratica, rispetto ad una possibile esperienza futura. Mentre quindi l’empirismo classico, che è tanta parte della tradizione filosofica inglese, si presentava come la verifica di qualsiasi verità e di qualsiasi proposizione sulla base del­ l’esperienza già data in quel momento (cioè dell’esperienza progressi-

Il pragmatisi

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LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

vamente accumulatasi nel passato) e quindi come la graduale e sem­ pre più ampia organizzazione e sistemazione dei dati empirici già acquisiti; il pragmatismo invece si presenta essenzialmente come una « progettazione » e una « previsione » volta verso il futuro, cioè verso l’esperienza ancora da fare, e risente largamente delle discus­ sioni sul valore gnoseologico della scienza sollevate dall’empiriocriticismo, dallo spiritualismo e dal convenzionalismo. In questo senso il pragmatismo è il primo e più rilevante contributo filosofico che il pensiero statunitense ha dato alla filosofia moderna. Peircc Fondatore del pragmatismo è comunemente considerato Charles Sanders P e i r c e (1839-1914), cultore di logica, scienziato (per molti anni fece parte del servizio geodesico degli Stati Uniti) e autore di una serie di articoli e brevi saggi (il più celebre è quello dal titolo Come rendere chiare le nostre idee) comparsi in varie riviste e rac­ colti e pubblicati postumi in volume. La filosofia di Peirce ha una decisa caratterizzazione antimetafi­ sica e antimistica e concepisce la scienza come un processo pubblico, aperto a risultati sempre nuovi e sottoposto ad una continua azione di verifica e di controllo. Per questo dalla scienza vanno bandite sia le dottrine metafisiche, cause di infinite dispute e incapaci di fornire una base qualsiasi per conclusioni certe ed utili, sia le presunzioni arbitrarie e individuali. Ciò non toglie la validità dell’esigenza di una verità « definitiva » (non in senso metafisico, ma « operativo », appunto come base per conclusioni certe ed utili), ed anzi Peirce sottolinea il valore universale di questa esigenza, anche se essa non è di fatto realizzata in tutti gli uomini e per tutti i problemi. Resta il fatto che su molte questioni l’accordo è già stato raggiunto: « se un essere umano avesse un’informazione sufficiente ed esercitasse suffi­ cientemente il proprio tempo su una questione, egli arriverebbe ad una conclusione definitiva, uguale a quella cui giungerebbe chiunque altro in analoghe circostanze favorevoli ». Il fine di ogni indagine razionale e di ogni ragionamento è quello concetto di « credenza » di trovare, sulla base di ciò che già si conosce, qualcosa che ancora non si conosce e acquisire così una nuova « credenza ». Il concetto di « credenza », derivato dalla filosofia di Hume (cfr. voi. II, p. 258), è molto importante nella dottrina di Peirce: esso indica che la co­ noscenza non è concepita come semplice nozione rappresentativa, ma come una regola d’azione, come produzione di « abiti » (nel

IDEALISM O, PRAGMATISMO E REALISM O ANGLO-AMERICANI

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senso aristotelico di « abitudini ») che consentono di seguire un deter­ minato comportamento quando l’occasione si presenta. Proprio per questo carattere pratico Peirce può mostrare che, se la credenza su­ pera quel dubbio che sorge di fronte a ciò che ancora non conosciamo e che quindi ci paralizza nel nostro comportamento, del tutto intel­ lettualistico e sterile è invece quel « dubbio metodico » di cui aveva parlato Cartesio: « il solo porre una posizione nella forma interro­ gativa non stimola lo spirito alla lotta per la credenza ». Vi sono molteplici metodi grazie ai quali è possibile « il fissarsi della credenza » nel nostro spirito: tali sono il « metodo della tena­ cia », proprio di chi si ostina a non rimettere in discussione le cre­ denze acquisite; il « metodo dell’autorità », quando l’ostinazione nel non ammettere credenze difformi è propria dello stato o di altri sistemi superindividuali; il « metodo dell’apriorismo », proprio dei metafìsici, che ammettono solo quelle credenze che siano in accordo con la « ragione ». Vi è infine il « metodo della scienza », che, a differenza dei precedenti, è l’unico in grado di correggere, oltre le credenze errate, anche se stesso, ed è quindi l’unico valido, proprio in virtù — e non malgrado — della sua « fallibilità ». Il metodo della scienza consiste nel « rendere chiare le nostre idee », cioè nel deter­ minare con esattezza il significato delle nostre credenze e i conse­ guenti « abiti » di comportamento. In questo senso, il significato di una credenza, di un’idea o di una cosa, si riduce alle sue possibili conseguenze pratiche, all’« abito » implicato da essa: « per svilup­ pare il significato di una cosa, dobbiamo semplicemente determinare quali abiti essa produce perché quel che una cosa significa consiste semplicemente negli abiti che essa implica ». Ora l’identità di un abito dipende dal come esso può condurci ad agire, non solo nelle circostanze che possono probabilmente accadere, ma anche in quelle che, per improbabili che siano, sono tuttavia possibili. Quello che l’abito è dipende da quando e come esso ci porta ad agire. Cosicché « non c’è distinzione di significato così fine che non consista in una possibile differenza pratica ». Differenza pratica, ovviamente, che solo l’osservazione empirica potrà constatare: per fare un esempio, la pesantezza di un corpo « significa » soltanto che in determinate circostanze esso cadrà e le differenze di caduta di due corpi saranno « significative » della loro differenza di peso. Coronamento di questa concezione della scienza, aperta alla veri-

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LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

fica e non dogmatica, è una visione del mondo che ripudia, tanto nella conoscenza quanto nella realtà, ogni teoria della « necessità univer­ sale »: il mondo è il regno della probabilità e del caso, anche se sono riscontrabili andamenti uniformi, che possono essere espressi nelle leggi scientifiche. « Probabilismo » e « tichismo » (dal termine greco tyche = caso) sono le denominazioni di cui Peirce si serve per caratterizzare questa sua visione del mondo. James II pragmatismo, che in Peirce aveva un chiaro indirizzo empiri­ stico, acquista un’intonazione nettamente spiritualistica (al punto che Peirce per mantenere la distinzione preferisce designare la sua filoso­ fia con il nome di « pragmaticismo ») nel pensiero e nella problema­ tica religiosa di William J a m e s (1842-1910), professore prima di psi­ cologia e poi di filosofia nell’Università di Harvard e autore di Principi di psicologia, di Varie forme dell’esperienza religiosa e di numerosi altri scritti, tra cui significativo è quello dal titolo La volontà di credere. Il pensiero di James, che con i suoi frequenti viaggi in Europa contribuì moltissimo alla diffusione delle idee del pragmatismo, riprende la polemica contro l’intellettualismo e contro la concezione che Ir conoscenza riguardi soltanto la « rappresentazione » del mondo e non anche l’« azione » da compiere in esso. In questa prospettiva il ruolo fondamentale spetta al perseguimento dei « fini futuri »; ed ed è anzi proprio in questo che si può distinguere un comportamento consapevole da un comportamento puramente meccanico: la sen­ sazione « serve » solo per risvegliare la riflessione e questa per susci­ tare la volontà e l’azione: la coscienza è un processo, una « corrente continua », in cui l’atto del volere che determina se stesso è il culmine dell’evoluzione biologica (e James riconosce anche l’importanza della zona del subconscio e dell’inconscio — dell’« io transmarginale » — da cui promanano la genialità e la santità). « Il dipartimento volitivo della nostra natura, dice James, domina sia il dipartimento razionale sia il dipartimento sensibile; o, in linguaggio più chiaro, la percezione e il pensiero esistono solo in vista della condotta ». Portando al­ l’estremo la tesi del pragmatismo, James sostiene che sono « vere » solo quelle idee che sono « utili » per l’azione e che la stessa scienza deve essere giudicata con questo criterio. “ Non solo, ma noi, oltre a constatare che la volontà domina di » fatto sulla nostra sensibilità e la nostra ragione, dobbiamo altresì

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riconoscere che in alcune scelte questo predominio è inevitabile e legittimo: James osserva che questo è esatto già sul terreno stesso della scienza, dove nessun progresso è mai stato possibile se non sulla base dell’« interesse » e dell’« appassionamento » dello scien­ ziato. In questo senso egli polemizza contro l’intellettualismo di chi immagina uno scienziato indifferente e oggettivo osservatore di un fenomeno e si richiama esplicitamente alle « ragioni del cuore » di cui parlava Pascal (cfr. voi. II, p. 162). E in questo modo di porre il problema sta altresì l’aggancio con la problematica religiosa, che ha certamente un ruolo primario nella riflessione di James. La dottrina della « credenza », infatti, giustifica la fede religiosa, la « volontà di credere » esprime l’esigenza di far diventare vero ciò che viene creduto, e gli « effetti pratici » della credenza si interioriz­ zano, fino a definire lo stato d’animo fiducioso e sereno di colui che possiede la fede. Comunemente si designa come fede la credenza in qualcosa che non è vero, e si crede perciò opportuno che l’uomo « metta un catenaccio » al suo cuore finché l’intelletto non abbia raggiunta l’evi­ denza: ciò è profondamente falso per James, il quale ritiene che, di fronte alle alternative ultime, l’uomo non può non compiere la « scelta » (il « salto », la « scommessa », in termini pascaliani), perché anche colui che ritenesse di dover sospendere il giudizio lo fa a suo rischio e pericolo, come colui che sceglie di credere o di non credere. D ’altra parte la ragione, avendo come sua funzione quella di servire per l’azione, non ha diritto di bloccare una credenza che è utile ad un’azione efficace nel mondo perché non può stabilire né se è vera né se è falsa. Di qui il valore della fede e il primato della stessa esperienza religiosa, che per James non può evidentemente fon­ darsi né sulla rivelazione che Dio fa di sé né su una dimostrazione ra­ zionale della sua esistenza. Lo spiritualismo di James è decisamente « pluralistico »: il monismo, sia materialistico sia spiritualistico, è necessariamente deterministico e solo l’accettazione di un universo molteplice (di un « multiverso »), di una molteplicità di forze indipen­ denti, apre lo spazio ad un’azione libera e creativa e ad una conver­ genza di queste forze. In questo « multiverso » anche Dio non può che essere « finito » ed avere funzioni « simili » alle nostre, proprio perché non è più l’assoluto impersonale del monismo.

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Altri isponenti del pragmatismo

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Questa interpretazione spiritualistica del pragmatismo suscitò vi­ vaci reazioni tra i filosofi americani e non solo americani: abbiamo già visto la reazione di Peirce e più avanti vedremo lo sviluppo del pragmatismo in una direzione rigorosamente « strumentalista » ad opera di Dewey. Qui non resta che fare un rapido accenno ad altri due esponenti del pragmatismo: l’inglese Ferdinand C. S . S c h i l l e r (1864-1937), professore prima a Oxford e poi a Los Angeles e autore, tra l’altro, di Studi sull’umanismo e di Problemi della cre­ denza; e George Herbert M e a d (1863-1931), autore di numerosi saggi raccolti in volumi dopo la sua morte (La filosofia del presente, Spinto, io e società, ecc.). Nel primo di questi il pragmatismo diventa un relativismo e un utilitarismo, che richiamano esplicitamente la dottrina protagorea dell’uomo misura di tutte le cose (cfr. voi. I, p. 46-47 ). Nel secondo i temi più interessanti sono il rapporto di condizionalità reciproca posto tra condizionante e condizionato (ad esem­ pio il presente è condizionato dal passato, ma a sua volta lo con­ diziona, in quanto lo sceglie e ne fa la storia) e il carattere « sociale », e non intimo, dell’esperienza e dell’io stesso: sono temi che vedremo sviluppati nella filosofia di Dewey, di cui Mead fu amico, collaboratore e collega nell’Università di Chicago.

3 - Dewey e lo « strumentammo ». wey: ia vita e gli scritti

Dewey è il maggior pensatore americano del Novecento e una delle £gUre più significative della cultura filosofica dei nostri tempi. Con lui il pragmatismo si sottrae alle tentazioni dello spiritualismo, ac­ quista una più ampia consapevolezza dei problemi e della loro comples­ sità ed assurge ad una visione globale della realtà e dell’uomo che interpreta in profondità le esigenze più vive e progressive della so­ cietà americana nel periodo tra le due guerre mondiali. Nato nel 1839, John D e w e y insegna in molte Università sta­ tunitensi e in particolare in quella di Chicago dal 1894 al 1904 e nella Columbia University di New York dal 1904 al 1929, pren­ dendo attivamente parte alle battaglie culturali. La morte lo rag­ giunge in tarda età nel 1952. Dewey è autore di numerosi scritti: nel campo degli studi logici, che egli ha sempre coltivato con pro­ fondo interesse, sono da ricordare Gli studi sulla teoria logica, scritti

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nel 1903 in collaborazione con altri e da cui prese l’avvio la cosid­ detta « scuola di Chicago »; la Logica, teoria della indagine, che è del 1938 e rappresenta il frutto più importante delle sue riflessioni su questo argomento. Altri scritti fondamentali per comprendere il suo pensiero sono Natura e condotta dell’uomo, Esperienza e natura, La ricerca della certezza, Teoria della valutazione (scritto per l’« En­ ciclopedia Internazionale della scienza unificata », di cui parleremo più avanti), Ricostruzione filosofica e Come pensiamo (in due volumi); ai problemi religiosi è dedicato lo scritto dal titolo Una fede comune e ai problemi pedagogici, che hanno un posto di considerevole ri­ lievo nel pensiero di Dewey, sono dedicati i volumi Scuola e società, Democrazia ed educazione, Esperienza ed educazione. La prima fase dell’attività filosofica di Dewey è caratterizzata da un approfondito studio della filosofia di Hegel, che ha lasciato una traccia profonda anche nelle fasi successive, almeno nel senso di avviare il suo pensiero in direzione di quella concezione organicistica e unitaria dei vari aspetti della realtà, uomo compreso, tutti connessi da rapporti reciproci di interdipendenza e di integrazione, che doveva risultare confermata dalla successiva esperienza positivistica. Di­ ventano così centrali del pensiero di Dewey i concetti di natura, di organismo e di ambiente che concorrono a definire il nuovo con­ cetto di « esperienza ». È infatti nel concetto di esperienza che comincia a manifestarsi II la novità della posizione di Dewey rispetto alla tradizione empiristica es inglese e allo stesso pragmatismo: tale concetto comprende infatti la totalità degli aspetti della realtà e della vita, anche quelli che esu­ lano dallo stesso ambito conoscitivo e riguardano i fattori di turba­ mento e di errore, di valutazione e di desiderio, ivi compresi quelli che ciascun individuo riceve come eredità dal passato. In sostanza l’esperienza non è qualcosa che si contrappone all’individuo come oggetto a soggetto, qualcosa che l’uomo si limita a registrare conosci­ tivamente e a ordinare e generalizzare nella scienza, perché lo stesso rapporto tra individuo e natura, tra organismo e ambiente (rapporto che è biologico e pratico non meno che conoscitivo) è « interno » alla sfera dell’esperienza, che quindi è una realtà « squisitamente ob­ biettiva ». Vi sono, dice Dewey, due « dimensioni » dell’esperienza, una che consiste nell’« avere » le cose e una che consiste nel « co­ noscere » le cose, per « averle » in modo più adguato: l’esperienza

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I concetto di interazione » e quello di mutamento »

conoscenza concetto di ransazione »

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non si limita pertanto alla semplice registrazione di ciò che è ac­ caduto, ma anche allo sforzo per cambiare ciò che è dato. E con ciò Dewey si riallaccia alle tesi del pragmatismo. Esiste dunque uno stretto rapporto di interdipendenza tra l’in­ dividuo e la natura, tra l’organismo e l’ambiente, di cui Dewey sot­ tolinea, in polemica con il determinismo materialistico, l’aspetto at­ tivo e che perciò egli preferisce indicare con il nome di « interazione »: l’organismo si trova in un dato ambiente che lo condiziona e che nello stesso tempo lo sollecita a lottare per cambiarlo e renderlo più adatto alla sua sopravvivenza. Tuttavia, proprio per l’ampiezza con cui abbiamo visto che Dewey concepisce l’esperienza, questa inter­ azione non ha un carattere necessario e non è predestinata al suc­ cesso: ogni ottimismo aprioristico è respinto ed è anzi sottolineato il carattere di precarietà e di instabilità dell’esistenza, che non può essere affrontata con il quietismo di chi crede che comunque tutto an­ drà per il meglio. E poiché l’uomo vuole sentirsi riparato da questa precarietà e da questa instabilità, nascono le fedi nelle pratiche ma­ giche, le superstizioni e ad un livello più elevato le religioni e le metafisiche: ma, proprio in questo caso, la filosofia cade nella più grave « fallacia », perché estrapola in modo sofistico ciò che può garantire l’esperienza umana contro la precarietà e l’instabilità e si sforza di presentarlo come il carattere totale dell’esperienza. Né a questo sofisma si sottraggono quelle filosofie (e Dewey si richiama esplicitamente a Eraclito e a Hegel, a Spencer e a Bergson) che hanno riconosciuto il mutamento continuo, che è tipico dell’esperienza, ma che poi hanno costruito una « metafisica del mutamento », « hanno deificato il mutamento, rendendolo universale, regolare e sicuro ». Certo, la filosofia non deve « riverire » il mutamento così deificato, ma non deve neppure ridursi all’accettazione rassegnata della preca­ rietà: essa deve bensì cercare la stabilità di ciò che è positivo ed eli­ minare il negativo, ma questo sforzo intelligente non ha garanzie meta­ fisiche, può riuscire ma può anche fallire, può svilupparsi ma può anche ricadere nella routine e nella rinuncia all’uso dell’intelligenza. Anche la conoscenza è una forma di interazione tra l’organismo e l’ambiente, o meglio è il ristabilimento di un’interazione, brusca­ mente interrotta da un ostacolo improvviso (Dewey fa l’analogia con lo spezzarsi della punta della matita, mentre si è tutti intenti a scrivere) e che è causa di uno stato di incertezza e di dubbio e

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che la conoscenza ricompone, modificando il quadro della precedente esperienza ed inserendolo in un quadro più ampio. Dewey riba­ disce la sua critica ad ogni distinzione aprioristica di soggetto e og­ getto e alle soluzioni offerte sia dall’idealismo sia dall’empirismo : il primo, con la dottrina della razionalità del reale, rende superfluo qualsiasi intervento del pensiero per modificare in meglio la realtà; il secondo, con la distinzione di sensazione e pensiero, fa della sensa­ zione il semplice oggetto della rappresentazione di un pensiero che ad essa rimane estraneo. Spirito e materia, soggetto e oggetto non sono entità preesistenti e separate, ma « la distinzione tra gradi diversi di complessità crescente e di intima azione reciproca fra gli eventi na­ turali ». Ciò spiega perché Dewey preferirà designare quella parti­ colare interazione che è la conoscenza con il termine, preso dal lin­ guaggio degli affari, di « transazione »: tale termine « indica nega­ tivamente che né il senso comune né la scienza devono essere consi­ derati come entità, come alcunché di collocato a parte, completo e circoscritto... Positivamente indica che devono essere contrassegnati dalle caratteristiche e dalle proprietà che si riscontrano in qualsiasi cosa riconosciuta come transazione: per esempio, un affare o tran­ sazione commerciale. Questa transazione fa di un partecipante un compratore e dell’altro un venditore: non esistono compratori e ven­ ditori che in transazione e a causa di transazione in cui siano impe­ gnati ». Nello stesso senso, Dewey preferisce parlare di « asseribilità garantita » anziché di « verità »: è insostenibile infatti la tesi che concepisce la « verità » di una proposizione come la sua statica corrispondenza ad una realtà data; più esattamente si deve dire che una proposizione è vera quando è « asseribile in modo garantito », cioè quando le conseguenze di operazioni volte a risolvere un pro­ blema sono le stesse conseguenze implicite nel significato della propo­ sizione che le esprime. Da questa interpretazione della conoscenza deriva anche un di­ La logica cor teoria della verso concetto della logica: nella sua Logica, teorìa dell’indagine indagine Dewey passa bensì in rassegna i tradizionali concetti e procedimenti della logica (termini, proposizioni, sillogismi, induzione, ecc.; e a proposito dell’induzione, Dewey osserva che essa non indica tanto un procedimento generalizzante, quanto la determinazione di un caso « esemplare », di un « campione » e cioè un « complesso dei metodi » volti a determinare se un caso sia o meno rappresentativo della gene-

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ralità); ma ciò che gli preme sottolineare è che non si tratta di ope­ razioni meramente conoscitive o « linguistiche », di cui sia possibile ricostruire una intrinseca « sintassi » logica, come vedremo stavano tentando di fare in quegli anni talune correnti del neopositivismo e della filosofia analitica (cfr. infra, p. 364); anzi, insiste Dewey, è erroneo ritenere che il linguaggio possegga strutture sue proprie: esso ha una funzione operativa (e a tale scopo può essere certamente utile l’analisi del linguaggio e l’uso di simboli, che ci liberano dall’immedia­ tezza dell’esperienza) e un valore essenzialmente sociale, perché l’in­ terazione che in esso si compie è la comunicazione tra individui. Con piena coerenza, Dewey sostiene che le operazioni di cui si occupa la logica sono operazioni « esistenziali », che concernono cioè la trasformazione delle cose in funzione del loro uso: non esi­ stono « forme logiche pre-esistenti ed eterne », ma solo forme condi­ zionate a situazioni determinate, che sviluppano le precedenti e pre­ parano le future; e non esiste neppure soluzione di continuità tra conoscenza comune e conoscenza scientifica, legate invece da un rap­ porto genetico e funzionale. In questo senso la logica è per Dewey una « teoria dell’indagine », dove per indagine è da intendere « la trasformazione controllata e diretta di una situazione indeterminata in una situazione determinata nelle sue distinzioni e relazioni costi­ tutive, a tal punto da convertire gli elementi della situazione ori­ ginaria in un tutto unificato ». I momenti in cui si attua questa trasfor­ mazione sono per Dewey cinque: una situazione « problematica », che viene fatta oggetto di riflessione; l’« idea », o possibilità di risolu­ zione del problema, intravista dalla riflessione e da cui si svolge il ragionamento; l’« esperimento » o « osservazione », con cui è messa alla prova l’idea e si decide se la soluzione è da accettare o scartare; il « giudizio » che trae le conclusioni, sul piano intellettuale, del­ l’esperimento fatto; e infine la « verifica finale », con cui vengono messe in opera le conclusioni raggiunte e si supera definitivamente il dubbio. Come risultati di indagini precedenti e continuamente ri­ messi alla prova, le « cose » (le pietre, le stelle, gli alberi, i cani, i gatti, ecc.) sono « reali », possono essere considerate come esistenti indipendentemente dai particolari processi di un soggetto conoscente: « in molti casi sarebbe uno sperpero inutile di energia ripetere le operazioni in virtù delle quali essi sono stati istituiti e confermati. Per il soggetto individuale, supporre che è lui a costruirli nei suoi

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im m ediati processi mentali, è così assurdo come supporre che è lui a creare le vie e le case che egli vede camminando per la città. Tut­ tavia, le vie e le case sono state costruite, sebbene da operazioni esi­ stenziali esercitate su materiali esistenti indipendentemente, e non da processi mentali ». Questo modo di intendere la conoscenza e la logica definisce lo Lo « strument lismo » « strumentalismo » di Dewey: ogni processo di conoscenza è un impegno di trasformazione del mondo (e per questo il filosofo inglese Bertrand Russell riteneva la dottrina di Dewey analoga a quella espressa da Marx nelle Glosse a Feuerbach-, cfr. supra, p. 206) e quindi ogni conoscenza non è altro che uno « strumento » per l’azione. Dewey presenta il suo « strumentalismo » in netta antitesi con la concezione greca e classica: per questa, infatti (secondo la sua inter­ pretazione), la realtà è un « cosmo », un ordine eterno e stabile, ri­ spetto a cui il pensiero non ha altro compito che contemplarlo e rifletterne le leggi immutabili; l’ideale per l’uomo era con ciò identi­ ficato con la « vita contemplativa ». E mentre il mondo del divenire e del mutamento era svalutato come mera « apparenza » o come « male », anche l’attività tecnica e manuale, la « vita pratica » e l’ap­ plicazione scientifica, erano considerate indegne di un uomo libero. Questa concezione del mondo rispecchiava esattamente una struttura sociale divisa in liberi e schiavi e in cui solo a pochi privilegiati, ri­ scattati dal lavoro manuale e da interessi pratici, era riservata la cultura « disinteressata ». Oggi però, osserva D ew ey, la situazione è pro­ fondamente mutata: la società si muove nel senso di un’organizza­ zione sempre più democratica, nella quale le differenze e le lotte delle classi sono sempre meno marcate; la cultura va verso forme progres­ sive di integrazione tra la tecnica e una scienza, che ha ormai adottato « il punto di vista delle arti utili » ed è attivamente impegnata nella trasformazione della natura. E in questa prospettiva strumentalistica, infine, anche il divenire, il mutamento « perde il suo pàthos, cessa di essere guardato con malinconia come una caduta della grazia, come fautore di decadenza e di perdizione. Esso viene a significare nuove pos­ sibilità e nuovi fini da raggiungere: diviene profetico di un futuro migliore ». La contrapposizione fin qui delineata ha il suo corrispettivo anche La pedagogia sul piano pedagogico: la pedagogia classica era essenzialmente nozioni­ stica e mnemonica, riduceva l’educazione ad un apprendimento pu22 -

Giannantoni,

III.

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ramente intellettuale di verità già date e non modificabili. A questa pedagogia e a quella « solitaria » delYEmilio di Rousseau (cfr. voi. II, p. 283-4) Dewey contrappone la sua, fondata sul rispetto della personalità del discente, sul carattere attivo dell’educazione e sul rico­ noscimento delle sue essenziali finalità sociali: di qui il programma di una « scuola attiva », che parta dagli interessi del fanciullo e li educhi senza trascurarli o reprimerli, che unifichi gioco e lavoro, la­ sciando allo stesso discente la verifica dei propri errori, attraverso l’ap­ prendimento, non di nozioni, ma di metodi di apprendimento, che lo portino a riscoprire quel che deve sapere; un programma, insomma, che prepari l’uomo a prendere, attraverso il lavoro, il suo posto in una società che è sempre più democratica, industriale e scientifica, e che quindi lo metta in condizione di dare tutto l’apporto creativo di cui è capace, sviluppando tutte le facoltà in vista dell’utilità generale dei compiti che svolgerà nella società. Il concetto di pedagogia ha quindi nel pensiero di Dewey un’accezione assai vasta ed un ruolo primario ed ha influenzato profondamente il pensiero educativo americano ed europeo. I caratteri fondamentali dello strumentalismo fin qui considerati Esperienza valutazione mettono in condizione di intendere le idee di Dewey in sede etico­ sociale, estetica e religiosa e quindi il rapporto tra « esperienza » e « valutazione »: Dewey polemizza, a questo proposito, con tutti coloro che pongono uno iato netto tra i problemi dell’esperienza e i problemi della valutazione (in sostanza quelli etico-sociali ed estetici) nel senso che solo i primi sarebbero empiricamente verificabili e quindi trattabili scientificamente, mentre i valori e le valutazioni cadrebbero del tutto fuori di qualsiasi determinazione intellettuale e di conoscenza valida. Se fosse vera questa impostazione o se fosse vero che la morale si occupa di « valori intrinseci » e di « fini in sé », allora il mondo delle valutazioni sarebbe rimesso all’arbitrio dell’interiorità e della soggettività e l’organizzazione sociale a strut­ ture ed istituti irrazionali e ad una irrazionale distribuzione del po­ tere. Ma come sostenere che l’intelligenza non ha nulla da dire, per esempio, sulla scelta tra l’uso pacifico e costruttivo e l’uso bellico e distruttivo dell’energia dell’atomo? In realtà proprio lo sviluppo scien­ tifico del mondo moderno richiede con urgenza che il mondo delle valutazioni non rimanga dominio dell’arbitrio o delle suggestioni spi­ ritualistiche.

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l 'uomo non è un’anima, una sostanza in sé, diversa dal mondo, ma è un continuo processo interattivo tra il suo « spirito », cioè il sistema di credenze, nozioni e ignoranze, di accettazioni e rifiuti, che si è formato sotto l’influenza dell’abitudine e della tradizione », e il suo « io », la sua « personalità », che emerge quando egli si pone come attivo critico e modificatore di quel sistema, rifiutando gli op­ posti estremi del conformismo e dell’egoismo solitario, quando cioè esercita la sua libertà, che non consiste in un astratto libero arbitrio, ma nella possibilità di un’azione efficace e intelligente. In questo senso, solo una società democratica, in cui le istituzioni sono fatte per l’uomo e non viceversa e che evita i difetti dell’atomismo liberale e dell’organicismo romantico, è omogenea allo sviluppo della scienza. E come non esiste una sostanza metafisica dell’uomo così non esistono metafisici « fini in sé »; mezzi e fini, la riduzione di fini a mezzi e viceversa, vengono determinati di volta in volta dall’attività in­ telligente, come « strumenti » dello sviluppo dell’uomo e della so­ cietà. Ed è proprio nella relazione tra mezzi e fini che consiste il problema della valutazione. Conseguentemente, anche la valutazione estetica ha caratteri si­ L’arte mili ad ogni altra forma di valutazione: « la storia della separazione e dell’acuta contrapposizione finale dell’utile e del bello è la storia di quello sviluppo industriale, attraverso il quale tanta parte della produzione è diventata una forma di vita asservita e tanta parte del consumo un godimento parassitario dei frutti della fatica degli altri ». L ’arte, dunque, è una forma dell’interazione dell’uomo con l’ambiente, che tuttavia ha un valore « finale » e non « strumentale », perché in essa la situazione che la produce è esaurita dalla forma e dal contenuto dell’opera d’arte e non rimanda ad altro. Non meno della scienza, anche la filosofia è l’esercizio del « me­ La filosofia, la religione e todo dell’intelligenza », ma con un’eminente funzione critica; anzi metodo della Dewey definisce la filosofia come « critica delle critiche », perché essa intelligenza non solo interpreta gli eventi come strumenti per la realizzazione dei valori, ma critica altresì il significato di questi valori e li rinnova continuamente. Il male cessa di essere un problema metafisico o teologico e la filosofia non ha più il compito angoscioso di cercare di mostrare che esso è solo apparenza e non-essere o di cercare di giustificarlo: essa deve cercare di ridurlo il più possibile e di mi­ gliorare l’uomo. Di fronte alle opposte concezioni dell’ottimismo e

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del pessimismo, egualmente mortificatrici dell’iniziativa umana, De­ wey propone il suo « migliorismo », cioè la sua convinzione (la sola che possa incoraggiare l’intelligenza e suscitare una confidenza e una speranza ragionevoli), per cui le condizioni esistenti ad un dato momento possono essere comunque migliorate. •'< Abbandonare, scrive Dewey, la ricerca della realtà e del valore assoluto e immutabile può sembrare un sacrificio. Ma questa ri­ nuncia è la condizione per impegnarsi in una vocazione più vitale. La ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti, perché connessi ai fondamenti della vita sociale, è una ricerca in cui la filosofia troverà non rivali ma coadiutori negli uomini di buona volontà ». Discendono di qui anche le critiche di Dewey alle religioni storiche in quanto sistemi di presunte verità assolute e in quanto pre­ tese di determinare e codificare l’atteggiamento religioso, di de­ finirne la « qualità religiosa »: in realtà la « qualità religiosa » è solo l’effetto di quell’atteggiamento che produce il migliore adatta­ mento alla vita e alle sue condizioni; perciò, di fronte alle religioni, la « religiosità » non è altro che l’esercizio di quel « metodo del­ l’intelligenza », che è identico al metodo della scienza e in cui risiede l’unica alternativa al pregiudizio, al dogmatismo e all’autoritarismo

4 - I l realismo. Alexander e Whitehead. caratteri del realismo

Una delle tendenze fondamentali del pensiero, sia inglese sia americano, del Novecento è costituita dal realismo, di cui Alexander e soprattutto Whitehead sono gli esponenti principali. Si tratta di un movimento filosofico che si caratterizza, ovviamente, in antitesi con l’idealismo, di cui contesta la riduzione degli oggetti a semplici contenuti della coscienza. Tuttavia la sua asserzione di un’esistenza propria e indipendente degli oggetti, che è però conoscibile e descri­ vibile, è ricca di implicazioni che distinguono il realismo tanto dal­ l’empirismo quanto dal materialismo. L ’empirismo infatti assumeva come dato ultimo delle sue analisi la sensazione: di qui l’ineliminabile fondo soggettivistico e la conseguente necessaria prevalenza del problema della conoscenza; il materialismo, a sua volta, per l’im­ postazione essenzialmente statica e quantitativa data ai problemi, non riusciva a dare una risposta esauriente circa il divenire della

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natura e la formazione delle qualità più elevate e irriducibili alle precedenti. Il realismo, per suo conto, vuole essere una filosofìa delle cose e non delle sensazioni, si sforza di mostrare che il problema della conoscenza non ha nessun particolare rilievo, perché questa si riduce ad una relazione tra due termini non molto diversa qualitativamente dalle altre relazioni, cerca di costruire un quadro della realtà, o meglio una « cosmologia », in cui alla materia è sostituita come ele­ mento primordiale l’« evento », cioè l’unità elementare spazio-tem­ porale, alla quale, quindi, il divenire, il « processo », è intrinseco (proprio per la presenza della dimensione temporale oltre le tre spaziali) e non estrinseco e aggiunto, non si sa come, ad una materia per sé statica. È da dire, infine, che sia pure in misura diversa, è avvertibile nei vari esponenti della corrente del realismo l’influenza di dottrine scientifiche (soprattutto quella della relatività) e filosofiche (e in primo luogo la problematica degli analisti del linguaggio) che noi considereremo nel successivo capitolo. Uno dei primi esponenti del realismo è l’inglese George Edward M oore Moore (1873-1958), professore a Cambridge e autore, tra l’altro, di Problemi di etica, di un’Etica e di Alcuni principali problemi della filosofia; nel 1903 Moore aveva infatti pubblicato un articolo dal titolo La confutazione dell’idealismo, che è tutto imperniato sull’idea che la conoscenza è una « relazione » non « in­ clusiva » (come voleva l’idealismo, per il quale l’oggetto è compreso nel sog­ getto), ma « esterna » e quindi tale da non modificare i due termini che essa collega, rispetto a come essi sono fuori della relazione. In questo senso Moore presenta la sua filosofia come una difesa del « senso comune » e riecheggia le tendenze della scuola scozzese (cfr. voi. II, p. 263). Orbene il senso comune af­ ferma sostanzialmente due cose, che non è possibile revocare in dubbio: resi­ stenza di cose materiali e l’esistenza di una molteplicità di soggetti composti di una mente e di un corpo. La filosofia non ha altro compito che quello di ana­ lizzare le concezioni del senso comune e delle proposizioni in cui si esprime (analisi del linguaggio comune), così come l’etica è l’analisi del concetto del bene e delle proposizioni in cui si esprime (analisi del linguaggio morale), anzi soprattutto di queste ultime, perché il bene è una nozione semplice, di cui il senso comune è provvisto e che non può essere spiegata, come non può esserlo, ad esempio, quella di « giallo ». L ’etica ha pertanto un carattere descrittivo e og­ gettivo e la nozione del dovere nasce dall’opportunità di compiere certe azioni di cui si sono osservate le conseguenze « buone ». Soluzione nettamente realistica è anche quella data da Charlie Dunbar Broad B road (nato nel 1887), autore di Pensiero scientifico, de L ’etica e la storia della filosofia e di Religione, filosofia e ricerca psichica, al problema della validità della conoscenza scientifica e della percezione: la validità della conoscenza scien-

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Kemp Smith

Il realismo americano

Santayana

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tifica poggia infatti su quella della percezione e questa è fondata sul dualismo tra « corpo » e « oggetto della percezione ». In questa dottrina degli oggetti della percezione o sema, che è comune, oltre a Broad e a Moore, anche ad un altro esponente del realismo, l’inglese Norman K em p Smith (nato nel 1872), studioso di Cartesio e di Kant e autore, tra l’altro, di Prolegomeni ad una teo­ ria idealistica della conoscenza, è stata vista l’ultima eco della scolastica medie­ vale e delle dottrine delle « specie sensibili ». Certo è, comunque, che essa pone il problema dei rapporti tra le « cose » e gli « oggetti della percezione ». La soluzione forse più interessante è quella di Broad, che lo concepisce in modo tale che il sensum sarebbe la ratio cognoscendi della cosa e la cosa la ratio essendi del sensum, ricorrendo alla seguente argomentazione: quando noi avvertiamo un sensum rosso, ciò significa che la nostra retina è colpita da determinate vi­ brazioni, ma questo non vuol dire che il corpo non sia rosso, perché potrebbe darsi che solo corpi rossi possano emettere quelle determinate vibrazioni. Solo l’intelletto, però, e non la sensazione può persuadersi dell’esistenza degli og­ getti. Il realismo trova esponenti e manifestazioni anche nella filosofia americana. Possiamo qui ricordare il realismo razionalistico (cioè non puramente meccanicistico o intuizionistico) di Morris R. Cohen (1880-1947), professore al City College di New York e autore tra l’altro di Ragione e natura-, e il naturalismo di Frederick J. E. W oodbridge (1867-1940), professore alla Columbia Univer­ sity di New York e autore di Natura e spirito, e di John Hermann R andall (nato nel 1899), anche lui professore alla Columbia e autore de La natura e l’esperienza storica-, caratteristica di questi ultimi due è l’ammissione della possibilità di una metafisica « descrittiva », che abbia per oggetto non l’essere della metafisica tradizionale (come qualcosa di unico, come totalità onnicom­ prensiva), ma dell’essere di ogni esistenza o di ogni questione essenziale. Assai caratteristici, infine, per delineare le tendenze del realismo americano sono due volumi, opera collettiva di gruppi di studiosi: il primo, Il nuovo rea­ lismo, pubblicato nel 1912, riprende in sostanza le tesi di Moore; il secondo, Saggi di realismo critico, pubblicato nel 1920, cerca di formulare una prospet­ tiva capace di superare il dualismo metafisico tradizionale di natura e spirito, di realtà e pensiero e di presentare su basi puramente naturali la loro distinzione. Tra gli autori del primo volume un cenno particolare merita William Pepperell Montague (1878-1953), professore alla Columbia University e autore de Le vie del conoscere e de Le grandi visioni della filosofia, che espone un punto di vista in certo modo eclettico, nel senso che considera dogmatismo, misticismo, soggettivismo, empirismo, pagmatismo e via dicendo come soluzioni egualmente valide ma in ambiti di competenze diverse. Tra gli autori del secondo volume di un certo rilievo è la personalità di George S antayana (1863-1952), di origine spagnola, professore nella Harvard University e autore, tra l’altro, di due voluminose opere: La vita della ragione, in cinque volumi, e II regno dell’essere, in quattro volumi. Il motivo di fondo del suo pensiero è costituito dall’affermazione di un dualismo, di evidente ispi­ razione platonica, tra il mondo spazio-temporale della natura e della materia

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e il mondo spirituale delle « essenze », un mondo quest’ultimo non ordinato e sistematico e che può essere colto solo con l’intuizione. L ’essenza è l’oggetto della conoscenza, ma solo quella che Santayana chiama la « fede animale » ci garantisce che al di là delle essenze c’è qualcosa di esistente. Incarnato nella ma­ teria e finito è anche lo spirito, e la vita spirituale non si volge ad un altro mondo, ma alla bellezza e alla perfezione di questo: la sua funzione è quella di intermediario tra mondo della materia e mondo della essenza. In questo senso Santayana interpreta anche la trinità cristiana, in cui il Padre sta per la materia, il Figlio per l’essenza e lo Spirito per la vita spirituale.

Le tendenze del realismo a configurare una vera e propria « cosmologia » è particolarmente evidente nella filosofia di Samuel A l e ­ x a n d e r (1859-1938), di origine australiana e professore a Man­ chester. Nella sua opera più importante, Spazio, tempo e divinità, egli espone la sua dottrina delP« evoluzione emergente », che in qualche modo richiama quella delT« evoluzione creatrice » di Bergson. E Alexander manifesta un alto apprezzamento del pensiero di Bergson proprio per il rilievo che in esso ha la considerazione del problema del tempo. Alla base dell’evoluzione emergente non è posta infatti la materia ma l’unità spazio-temporale, concepita dinamicamente nel senso che il tempo è il principio interno di organizzazione e di svi­ luppo dello spazio. Ricorrendo ad un’analogia, Alexander dice che il tempo è per lo spazio quello che la mente è per il corpo. II dina­ mismo di questa unità spazio-temporale è regolato dalle « categorie » (termine usato tuttavia in senso completamente diverso da quello kantiano e piuttosto sinonimo delle oggettive idee platoniche), di cui è rielaborata una completa tavola; si attua così quella evoluzione da cui emergono stadi sempre nuovi e originali, irriducibili ai pre­ cedenti: dai processi fisio-chimici emerge la vita e dalla vita la mente e la coscienza: « le menti, scrive Alexander, sono soltanto i più do­ tati membri di una democrazia di cose; e come in una democrazia, dove il talento ha campo aperto innanzi a sé, i membri più dotati salgono in influenza ed autorità ». È a questo livello che si pone il problema della conoscenza, il quale è così ridotto a momento par­ ziale del più generale problema metafisico: la conoscenza è una rela­ zione tra due termini eterogenei ed ha questo di particolare che il soggetto, nell’atto stesso in cui « contempla » le cose, « gode », « fruisce » anche della sua propria coscienza. Ma lo spirito, la mente e la coscienza, non è l’ultimo stadio (l’ul-

Alexander

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tima « qualità empirica », nella terminologia di Alexander) dell’evolu­ zione emergente, che urge verso uno stadio più alto, e cioè la « di­ vinità », che sta alla totalità del mondo come il tempo allo spazio e la mente al corpo; se Alexander parla piuttosto di divinità anziché di Dio è perché si tratta di una qualità empirica che non esiste an­ cora, perché allorché fosse attuata essa cesserebbe di essere infinita e si moltiplicherebbe in una pluralità di dèi finiti, con una nuova « di­ vinità » unica al di là di essi. Un’analoga esigenza « cosmologica » è evidente altresì nella filo­ sofia di Alfred North W h i t e h e a d (1861-1947), che insegna prima in Inghilterra e poi, dopo il 1924, negli Stati Uniti alla Harvard Uni­ versity. Esperto di problemi matematici e scientifici, egli dapprima collabora con Russell alla redazione dei Principia mathematica e in seguito si dedica sempre più alle indagini filosofiche e all’elaborazione del suo « naturalismo organicistico », esposto nel Concetto della na­ turii, in Processo e realtà e in vari altri scritti. Whitehead polemizza contro l’eccessiva specializzazione scien­ tifica che ha portato gli uomini di scienza a guardare solo nel pro­ prio campo ben delimitato: « l’ufficio proprio della filosofia è quello di sfidare le mezze verità costituenti i primi principi della scienza » e di arrivare ad una concezione che sia « organica », capace, cioè, di cogliere le correlazioni reciproce delle varie nozioni. Orbene la tesi fondamentale del realismo di Whitehead è che gli oggetti della per­ cezione o del pensiero (vale a dire la natura) sono realtà che, pro­ prio nell’essere percepiti o pensati, si rivelano come esistenti per sé e indipendenti dalla percezione e dal pensiero. Nella terminologia di Whitehead, gli « enti attuali » (gli oggetti), i « nexus » (le correlazioni reciproche) e le « prensioni » (le percezioni) sono gli ultimi ele­ menti dell’esperienza, in cui pertanto non è possibile introdurre un dualismo metafisico di pensiero e natura, di conoscenza ed esistenza: « io protesto, egli scrive, contro questa biforcazione della natura in due sistemi di entità che sarebbero reali in due sensi differenti. Una realtà sarebbe quella delle entità, come gli elettroni, studiati dalla fi­ sica: è la realtà che sta immobile innanzi alla conoscenza e che non è a sua volta mai conosciuta. Infatti, ciò ch’è conosciuto è un’altra specie di realtà, che risulta dal concorso della mente. Così vi sarebbero due nature: l’una è la ’ congettura ’, l’altra è il ’ sogno ’ ». La scienza deve perciò occuparsi degli oggetti e delle loro con-

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nessioni come sono indipendentemente dal rapporto con il soggetto conoscente: l’aspetto spirituale si integra così con l’aspetto fisico nella bipolarità, che è caratteristica dell’esperienza. « La filosofia del­ l’organismo attribuisce sensibilità a tutto il mondo attuale » e con­ cepisce il mondo attuale come un insieme di « eventi », ciascuno dei quali è un’unità spazio-temporale, un insieme di relazioni, o « pren­ sioni », con tutti gli altri eventi, analoghe, in qualche modo, alle « piccole percezioni » di cui parlava Leibniz (cfr. voi. II, p. 214) e a fondamento delle quali è illusorio ipostatizzare una « sostanza » materiale. Il carattere dinamico dell’evento, mentre da un lato marca la differenza con le concezioni materialistiche (per le quali le particelle elementari sono statiche, chiuse in se stesse e con una realtà indipendente dalle relazioni in cui possono venirsi a trovare), dal­ l’altro dà a tutta la natura il carattere di un « processo continuo » e di un « organismo », alla cui « concrescenza » convergono gli sforzi di tutti gli « enti attuali » (anche qui l’influsso della monadologia leibniziana è evidente). In questa prospettiva Dio è la potenzialità infinita che accompagna il progresso del mondo e che con questo progresso è in un rapporto di convergenza. « Dio e il mondo, scrive Whitehead, si muovono reciprocamente incontro attraverso i loro processi... Così Dio deve essere concepito come uno e come molti nel senso inverso in cui il mondo deve essere concepito come molti e come uno. Il tema della cosmologia, che è la base di ogni reli­ gione, è la storia dello sforzo dinamico del mondo verso una dura­ tura unità e della statica maestà della visione di Dio che raggiunge il suo scopo di completamento assorbendo la molteplicità degli sforzi del mondo ». Metafisica e panteismo sono così gli esiti del realismo di Whitehead

XV L E CO RREN TI CONTEMPORANEE: FILO SO FIA DELLA SCIENZA, NEO PO SITIV ISM O , A N A LISI D EL LIN G U A G G IO 1. Gli sviluppi della fisica teorica. Teoria della relatività e fisica dei quanti (p. 346) - 2. Matematica e logica. Russell (p. 350) - 3. Wittgenstein (p. 357) 4. Il neopositivismo (p. 361) - 5. La filosofia analitica (p. 367).

1 - Gli sviluppi della fisica teorica. Teoria della relatività e fisica dei quanti. In questo e nel successivo capitolo ci proponiamo di integrare il quadro della Lo sviluppo Ila scienza e filosofia del Novecento, dando un rapido sguardo alle tendenze, finora non con­ della tecnica

siderate, su cui è attualmente impegnato un dibattito che è lungi dall’essere con­ cluso. Si tratta quindi di uno sguardo essenzialmente orientativo, e possiamo per­ tanto prescindere, in questa sede, da un criterio di completezza che richiederebbe anche l’esame di quelle posizioni di pensiero che sono bensì presenti nella cul­ tura filosofica dei nostri giorni, ma che in sostanza continuano, senza spunti di particolare originalità, indirizzi già esaminati: il che non vuol dire che, in qualche caso (quale è quello, ad esempio, del pensiero cattolico), esse non ab­ biano un considerevole peso nella determinazione delle nuove tendenze culturali. Il fatto più rilevante che dobbiamo cominciare a prendere in esame è certa­ mente lo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico, reso possibile dalla diffusione della scolarizzazione e dell’istruzione, daH’incremento massiccio delle istituzioni della ricerca (dagli istituti universitari e extrauniversitari ai labora­ tori e gabinetti scientifici dell’industria), dalla formazione di schiere sempre più ampie di scienziati e di tecnici. In pochi decenni è radicalmente cambiato il modo di vivere degli uomini (almeno nei paesi più avanzati) e più ancora promette di cambiare per il futuro: lo sfruttamento dell’energia atomica per usi pacifici e l’esplorazione spaziale hanno aperto orizzonti insospettati rispetto al modo tradizionale con cui l’uomo ha finora considerato il suo posto nella natura e nel­ l’universo: i progressi della chimica, della batteriologia, della biologia (soprat­ tutto della microbiologia e della genetica) e della chirurgia hanno reso possi­ bile vittorie decisive su malattie finora incurabili (basti pensare all’introduzione della penicillina e degli altri antibiotici o alle vaccinazioni di massa), ponendo in termini radicalmente nuovi il problema della salute mondiale e allungando la media della vita umana, con tutte le implicazioni sociali ed economiche che questi risultati comportano; lo sviluppo della tecnologia, della automazione, del­ l’elettronica e della cibernetica sta trasformando profondamente la produzione industriale e l’organizzazione sociale del lavoro, anche qui con rilevanti conse­ guenze di ordine economico e sociale (lo spostamento di masse sempre mag-

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giori di uomini dall’agricoltura all’industria e alle cosiddette attività terziarie, l’urbanesimo, lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni, che sta rapida­ mente unificando il mondo, rompendo l’isolamento tradizionale di gruppi e po­ poli, fino a superare, non senza difficoltà, le barriere politiche). Questi risul­ tati sono sotto gli occhi di tutti, così come è evidente il progressivo affermarsi di una civiltà dei consumi di massa, che ha caratteri tendenzialmente uniformi anche in paesi diversi e che ha creato problemi nuovi e stimolato quelle ricer­ che nel campo della psicologia, della sociologia e dell’antropologia che sono tanta parte del quadro culturale del nostro tempo. Né va trascurata, anche dal punto di vista teorico, la progressiva trasforma­ zione della tradizionale partizione delle scienze, il sorgere e 1’affermarsi di di­ scipline nuove e, come si suol dire, « di confine », l’applicazione dei risultati e dei metodi di una scienza ad un’altra scienza, l’approfondimento del dibattito teorico sui problemi del metodo di ricerca, la possibilità di disporre di sempre più raffinati strumenti di indagine e di osservazione, e infine l’organizzazione col­ legiale della ricerca dovuta alla necessità di conciliare la sempre maggiore spe­ cializzazione con l’esigenza di tenere presenti tutti gli aspetti e tutte le impli­ cazioni di un determinato problema. È evidente, pertanto, che non è possibile neppure tentare, in questa sede, un’analisi sommaria dei risultati raggiunti nei singoli settori, sia per la vastità dell’argomento sia perché essa non potrebbe essere ormai, anche a livello di rapido consuntivo, che l’opera di un gruppo di competenti nei singoli settori. D ’altra parte, dal punto di vista con cui consideriamo lo sviluppo delle scienze e che concerne soprattutto le implicazioni e i riflessi teorici nel campo della considerazione filosofica, un esame complessivo sarebbe forse anche prema­ turo e certamente non esauriente; più opportuno ci sembra quindi limitarsi a considerare qui sommariamente due scienze, in cui le implicazioni e i riflessi di cui si diceva sono oggi forse più chiaramente individuabili: e cioè la fisica e la matematica, riservandoci nel successivo capitolo qualche breve riferimento alla psicologia (e alla psicoanalisi), alla sociologia e alla antropologia. Il decennio che va dal 1895 al 1905 è decisivo nello sviluppo della fisica e della matematica moderne: al 1895 risale, infatti, la scoperta dei raggi X, che apre la strada alla fisica dei « quanti »; nel 1903 vede la luce il secondo volume dei Principi dell’aritmetica di Frege, che segna la cosiddetta « crisi dei fondamenti »; nel 1905, infine, Einstein presenta la prima esposizione della teoria della « relatività ristretta » o « relatività speciale ». Queste scoperte e queste teorie, destinate a rivoluzionare ben presto le impostazioni tradizionali della fisica e della matematica classiche, hanno avuto un’influenza profonda anche sul piano dell’epistemologia e della filosofia della scienza, del resto già aperte ad un largo dibattito, man mano che entravano in crisi le generalizzazioni e i presupposti dello scientismo positivistico: la crisi del valore gnoseologico asso­ luto delle scienze è già evidente in quelle dottrine sulla natura « economica », « convenzionale » e « contingente » della scienza, che dall’empirio-criticismo in poi, abbiamo visto essere presenti in molte correnti della filosofia europea, dallo spiritualismo allo storicismo e al neo-idealismo. E tuttavia è necessario fare una

Lo sviluppo della fisica teorica e la epistemologia

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Einstein: la teoria della relatività

i « relatività generale »

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

distinzione tra queste filosofie che dai dibattiti epistemologici e dalle ipotesi scientifiche ricavano una sostanziale svalutazione del sapere scientifico rispetto ad altre forme di conoscenza (dall’intuizione di Bergson al concetto di Croce) e un atteggiamento di indifferenza per i suoi problemi ed i suoi risultati; e quelle dottrine filosofiche che invece si muovono all’interno stesso della pro­ blematica scientifica e che ad essa danno dei contributi teorici e metodologici non secondari. La teoria « relatività ristretta » o « relatività speciale » fu elaborata da Albert E instein (1879-1955) in riferimento al problema posto dalla costanza della velocità della luce. L ’asserita costanza della velocità della luce, infatti, sembrava contrastare con un principio fondamentale della meccanica classica, quello, cioè, per cui si sommano le velocità di due corpi che si avvicinano: in base a tale principio, la velocità della luce proveniente da astri a cui si avvi­ cina il nostro pianeta nel suo movimento dovrebbe essere maggiore di quella della luce che proviene da astri da cui il nostro pianeta si allontana. Le espe­ rienze compiute da William M orley (1838-1923) e da Albert M ichelson (1852-1931) mostrarono invece che la velocità della luce rimane costante e non si somma a quella della terra: ciò sembrò confermare l’ipotesi dell’esistenza del­ l’etere, come sostanza che da un lato doveva servire ad evitare l’ammissione (che pareva assurda) della propagazione della luce nel vuoto, e che dall’altro, in quanto assolutamente immobile, potesse servire come punto di riferimento per la misurazione della velocità degli astri. L ’impossibilità di una misurazione di questo genere indusse Einstein a capovolgere i termini del problema e ad estendere anche ai fenomeni elettromagnetici (quali sono quelli della luce, come aveva dimostrato Maxwell: cfr. supra, p’. 164) un principio galileiano relativo ai fenomeni meccanici, quello cioè per cui non è possibile, compiendo un espe­ rimento meccanico all’interno di un sistema rigido (per esempio facendo cadere un grave all’interno di una nave) stabilire se tale sistema rigido è in quiete o in moto. Nello stesso modo non è possibile misurare le variazioni di velocità della luce facendo riferimento ad un criterio di misura e ad un osservatore che sono, essi stessi, soggetti a tali variazioni. Ciò significa che la costanza della velocità della luce è « relativa » al sistema di misura prescelta e che quindi « relativi » sono anche i concetti di spazio e tempo (con cui si misura la velo­ cità): l’introduzione di una considerazione « critica » (e Einstein si richiama a Hume e a Mach) dei metodi di osservazione scientifica; il rilievo dato all’os­ servatore; l’abbandono dell’assolutezza dei concetti di spazio, di tempo e di velocità e la loro « relativizzazione » ad un sistema di riferimenti dato (senza che vi sia un sistema di riferimenti valido assolutamente); la conseguente rela­ tivizzazione dei concetti derivati di massa, di cui è asserita l’equivalenza con l’energia, di lunghezza, di volume e di accelerazione, ecc.; sono questi i risul­ tati più rilevanti acquisiti dalla dottrina della relatività rispetto all’immagine tradizionale della natura e della scienza. Non è possibile seguire in questa sede gli sviluppi che Einstein dette alla sua teoria della relatività, cercando di estenderne i criteri progressivamente a tutti i fenomeni meccanici ed elettromagnetici: basterà ricordare che nel 1915,

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enunciando la sua teoria della « relatività generale », Einstein tentava una spie­ gazione dei fenomeni meccanici che prescindesse dal concetto newtoniano di gra­ vitazione; ricorreva perciò all’ipotesi di una « curvatura » delle dimensioni spazio-temporali, che respingeva i postulati di Euclide e accoglieva la dottrina dello spazio di Riemann (cfr. supra, p. 164). Nello stesso tempo egli genera­ lizzava il concetto di « campo » (elaborato per i fenomeni elettromagnetici) con­ siderando gli stessi corpi fisici come particolari « densità di campo » e quindi annullando la tradizionale differenza qualitativa tra materia ed energia. La teoria della relatività ha avuto un’importanza determinante nello sviluppo della « fisica atomica » contemporanea; ma un’importanza non inferiore ha avuto la cosiddetta « fisica dei quanti » questa ha il suo immediato precedente nella scoperta dei fenomeni radioattivi: nel 1895, come si è detto, Wilhelm Konrad R oentgen (1845-1923) scopre i raggi X e poco dopo l’inglese T homson (18561940) osserva che tali raggi quando attraversano un gas lo rendono conduttore di elettricità. Questa osservazione, sviluppata anche dal neozelandese Ernest Rutherford (1871-1937), è alla base della scoperta dell’elettrone: di qui la scoperta della radioattività dell’uranio, fatta da E. B ecquerel (1852-1908), e, nel 1898, quella del radio, legata ai nomi di Pierre Curie (1859-1906) e di Marie Curie (1867-1934). Da tutti questi studi vengono create le condizioni che permettono a Max P lanck (1858-1947) di formulare nel 1900 la teoria quantistica: l’energia delle radiazioni non è un flusso continuo, ma una struttura discontinua, un insieme di « quanti » (di unità di quantità), proporzionali alla frequenza delle oscilla­ zioni dell’energia e tali che possono essere emessi o assorbiti sempre per intero e che comunque non possono essere inferiori ad una certa « costante » (detta appunto di Planck). A questa teoria sono legate due conseguenze di fondamentale importanza: la prima è la contrapposizione della teoria quantistica della luce a quella ondulatoria, definitivamente prevalsa nel secolo xix rispetto a quella corpuscolare di Newton (cfr. voi. II, p. 188) e fondata appunto sull’ipotesi di una emissione continua; ciò apriva però il grave problema di due dottrine della luce, ciascuna delle quali valida a spiegare un certo ambito di fenomeni e tuttavia non ancora unificabili in una teoria generale. La seconda conseguenza consisteva nella determinazione della struttura planetaria dell’atomo, elaborata nel 1913 da Niels B ohr (nato nel 1885): la scoperta che l’atomo non è una particella ultima, ma risulta da un nucleo centrale e da un certo numero di elet­ troni, che gli ruotano attorno e le cui orbite sono fissate da forze elettriche di attrazione e di coesione, apriva la strada, da un lato, alla « fissione » dell’atomo e alla utilizzazione dell’energia che così si sviluppa, e dall’altro ad importanti sviluppi teorici. Si arriva così al tentativo, elaborato, per strade diverse ma convergenti, da Werner H eisenberg (nato nel 1901) e da Erwin S chroedinger (nato nel 1887), di costruire una «meccanica quantistica»; e alla constatazione che, ,, . ,.r nella scala atomica, 1 energia impiegata per osservare un fenomeno modifica il fenomeno stesso in modo imprevedibile, perché modifica la velocità della par­ ticella di cui si vuole osservare la posizione. Non solo quindi non è possibile

La fisica dei quanti

La meccanica quantistica e i «principio di mdetermina2j0ne>

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LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

stabilire con assoluta precisione la posizione e, insieme, la velocità delle par­ ticelle subatomiche, ma anche il concetto di « orbita » degli elettroni viene rimesso in discussione: intanto non è vero che un elettrone percorra tutte le orbite che in teoria potrebbe compiere in base alla meccanica classica, ma « salta » da un’orbita ad un’altra; in secondo luogo, poi (ed è la cosa più impor­ tante) l’orbita di un elettrone non è osservabile giacché, per la variazione di velo­ cità provocata dall’osservazione, l’elettrone è osservabile solo nel momento in cui salta da un’orbita ad un’altra; per cui la determinazione della posizione lascia indeterminata la velocità e viceversa. Sono questi risultati che stanno alla base del « principio di indeterminazione » di Heisenberg e del « principio di comple­ mentarità » di Bohr. Senza entrare in ulteriori dettagli, è evidente da quanto detto la profonda rivoluzione che la nuova fisica ha introdotto nei tradizionali concetti dell’inter­ pretazione della natura; e in questa sede tre conseguenze sono particolarmente da porre in rilievo, collegate al principio di indeterminazione di Heisenberg: la prima è la necessità di « interazione tra oggetto e osservatore » da cui la mecca­ nica classica credeva di poter prescindere; la seconda è l’abbandono della vecchia ipotesi deterministica degli eventi naturali e del concetto di « causa » ad essa connesso, al cui posto è introdotto il concetto di « probabilità »; la terza, infine, è la matematizzazione della fisica, della cui importanza potremo renderci conto analizzando gli sviluppi della matematica e dei suoi rapporti con la logica e con la filosofia.

2 - Matematica e logica. Russell. Lo sviluppo Nel campo della matematica, le ricerche svolte nella prima metà della del Novecento hanno un rilievo del tutto particolare, per lo svi­ matematica: ntuizionismo luppo di quell’esigenza di rigore e di quel processo di aritmetizzazione

su cui abbiamo visto concentrarsi l’interesse degli studiosi da Weierstrass in poi (cfr. supra, p. 163 sg.). Tuttavia, in questa sede due punti devono essere soprattutto posti in evidenza: il primo è costituito dal dibattito che si sviluppa intorno alla natura degli oggetti matema­ tici e dei fondamenti stessi della matematica; il secondo, forse ancora più interessante, è dato dai tentativi di giungere ad una completa identificazione di matematica e logica e alla costruzione di una logica completamente formalizzata, con simboli, relazioni e operazioni di calcolo analoghe a quelle algebriche. Quanto al primo punto, sia Cantor che Dedekind (cfr. supra, p. 163 sg.) erano stati dell’avviso che i numeri e gli oggetti matematici (a parte il loro significato di « immagini » di processi che accadono nella realtà) abbiamo un’« esistenza » loro particolare come entità

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intellettuali, come oggetti logici. Accanto a questa interpretazione dobbiamo ricordare quelle, particolarmente sviluppate nel Novecento, degli « intuizionisti » e dei « formalisti »: i primi, tra i quali sono da ricordare L. E. J. B r o u w e r (nato nel 1881), Hermann W e y l (1885-1955), sostengono, riprendendo alcuni principi già enunciati da Poincaré e risalendo fino all’estetica trascendentale di Kant, che a fondamento della matematica sta l’intuizione del tempo e che i suoi oggetti (non riconducibili né a convenzioni né ad entità logiche) sono solo quelli costruibili sulla base di questa intuizione. L ’indirizzo formalistico prende invece avvio dalle fondamentali ri­ Hilbert e il formalismo cerche di David H i l b e r t (1862-1943), autore de I fondamenti della geometrìa e de J fondamenti della matematica. Secondo la sua impo­ stazione la matematica è un sistema coerente di « assiomi », in cui gli assiomi sono enumerati con completezza, deducendo poi da essi tutte le altre proposizioni. L ’unica condizione di validità di un qua­ lunque sistema di assiomi è la sua non contraddittorietà interna. Par­ tendo da questo criterio formale Hilbert concepisce le operazioni matematiche come procedimenti puramente meccanici, come esercizi logici ipotetico-deduttivi: in tal modo, lo sviluppo della totalità della scienza matematica si realizza in due modi: derivando dagli assiomi nuove formule, che possano essere dimostrate mediante deduzioni puramente formali, e introducendo nuovi assiomi che non contrad­ dicano a quelli già posti. Stabilire la non contraddittorietà reciproca degli assiomi non è però compito che possa essere assolto dagli as­ siomi, dalle proposizioni dedotte e, in generale, dagli enti matematici: esso spetta piuttosto ai « discorsi » che si fanno su di essi; ed Hilbert cercò di dare forma scientifica a questi discorsi mediante una nuova disciplina che egli chiamò « meta-matematica ». Questa im­ postazione, oltre ad avere grande influenza sugli studi di logica e di « meta-logica », ebbe importanti sviluppi anche in sede matematica: il contributo più importante è quello dato, nel 1931, dal matematico Kurt G o d e l , mediante la dimostrazione che la non' contraddittorietà di un sistema formale non può essere provata con i mezzi logici offerti dal sistema stesso, ma che occorre ricorrere ad un sistema più ampio e più ricco (teorema di Godei): non è pertanto possibile provare la non contraddittorietà della totalità della matematica, nell’ipotesi che essa sia ridotta ad un sistema formalizzato. E se il formalismo e il meccanicismo operativo di Hilbert ha dato un forte impulso alla co-

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LA FILOSO FIA DEL NOVECENTO

struzione delle macchine calcolatrici, il teorema di Godei ne ha chia­ rito i limiti intrinseci. logistica: Oltre quello « intuizionistico » e quello « formalistico », un terzo e Peano indirizzo di grande interesse è quello « logistico », da cui prende avvio tutta la formalizzazione della moderna « logica matematica ». I precedenti immediati di questo indirizzo, che si riallaccia alle intui­ zioni della « caratteristica universale » e del « calcolo » logico di Leibniz (cfr. voi. II, p. 208), vanno ricercati, oltre che nell’appro­ fondimento dell’aritmetizzazione della matematica, nelle indagini di Boole e di Peano. L ’inglese George B o o l e (1815-1864), autore de L'analisi matematica della logica, dalla constatazione che la validità dell’algebra simbolica dipende non dall’interpretazione dei simboli ma dalle leggi della loro combinazione (per esempio, nella com­ binazione x : y = 2x : 2y, la validità della proposizione non dipende dall’interpretazione di x e di y), prese lo spunto per sostenere che tale validità poteva essere estesa anche ad altri campi e che le leggi logiche « sono identiche nella forma con quelle dei simboli generali dell’algebra». L ’italiano Giuseppe P e a n o (1858-1932), autore di Arithmetices principia nova methodo exposita e di un noto Formulario di matematica, proseguì le indagini sulla aritmetizzazione della matematica, concludendo che, da un lato, tutta la matematica può essere ricondotta ai concetti e alle operazioni dell’arit­ metica, e, dall’altro, che tutta l’aritmetica può essere costruita utiliz­ zando soltanto tre concetti base (quelli di zero, di numero naturale e di successivo) e cinque assiomi. Peano, inoltre, riuscì a tradurre tutta la matematica in un linguaggio formalizzato rigoroso mediante l’ado­ zione di un completo sistema di simboli, e colse la « grande ana­ logia » esistente tra le operazioni della logica deduttiva e quelle del­ l’algebra e del calcolo geometrico. Frege Su questo punto, tuttavia, il contributo fondamentale è stato portato dal grande matematico e fondatore della moderna logica formale, Gottlob F r e g e (1848-1925), autore, fra l’altro, de I fon­ damenti dell’aritemtica, di Senso e significato e di Principi dell’arit­ metica. Frege si dichiara convinto che l’aritmetica è « una branca della logica » e che « le leggi del numero debbono trovarsi nel più intimo rapporto con le leggi del pensiero ». Egli compie così il passo decisivo per identificare aritmetica e logica e, proprio in conseguenza di ciò, si dichiara nettamente contrario sia all’intepretazione empiri-

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stica sia all’interpretazione psicologica dei concetti logici e degli enti matematici (e abbiamo già visto l’importanza di questa tesi nello svi­ luppo della filosofia di Husserl: cfr. supra, p. 274). I concetti logici e gli enti della matematica hanno una loro consistenza, indipendente da chi li giudica, e una loro piena oggettività, anche se si tratta di una oggettività « non reale », che cioè non cade sotto i sensi. Di note­ vole interesse è anche la distinzione tra « significato » di un segno (cioè l’oggetto) e il « senso » di un segno (cioè il modo in cui un oggetto si è dato): per esempio, « Dante » è un significato, « au­ tore della Divina Commedia » è un senso. Nel 1903 Frege, nel pubblicare il secondo volume dei suoi Prin­ cipi dell’aritmetica, dava notizia di una lettera con cui Bertrand Rus­ sell gli segnalava un’antinomia emergente dalle sue dimostrazioni. L ’antinomia consisteva in questo: dato un insieme x, come « insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi », qual è la risposta alla domanda se x contiene o no se stesso come elemento? Se la ri­ sposta è affermativa, essa contraddice alla stessa definizione di x; se la risposta è negativa la contraddizione si ripresenta egualmente, perché viene ad escludere che x, non includendo se stesso, sia l’insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi. Tale antinomia apparve tanto grave a Frege da indurlo ad ab­ bandonare le ricerche; si aprì in tal modo quel capitolo della « crisi dei fondamenti » della matematica, che non è ancora completamente concluso, e a cui lo stesso Russell ha dato un contributo impor­ tante, proseguendo nella strada della « logicizzazione » dell’aritme­ tica. Bertrand R u s s e l l (1872-1970) ha accompagnato, in tutta la sua lunga vita, le riflessioni sulla logica e la conoscenza con vivaci bat­ taglie contro l’autoritarismo e il conformismo su questioni politiche, etiche e pedagogiche, in nome della libertà dell’individuo, di un ideale democratico del socialismo e del pacifismo, pagando spesso di per­ sona: nel 1916 fu rimosso dall’insegnamento a Cambridge per le sue idee in favore dell’obbiezione di coscienza; nel 1918 fu condannato a sei mesi di carcere per la sua propaganda pacifista. E anche negli Stati Uniti, nel 1940 nel 1943 gli fu revocato l’insegnamento per avversione alle sue idee sul matrimonio, la morale e la società. An­ cora oggi presiede il tribunale internazionale per i crimini di guerra nel Vietnam. Nel campo degli studi logici gli scritti più importanti 23 -

Giannantonì,

III.

Le antinomie < la « crisi dei fondamenti »

Russell: la vita e gli scritti

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Il realismo logico

Identità di logica e aritmetica

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

sono i Principi di matematica del 1903, a cui facevano seguito i tre volumi dei Principia mathematica (1910-1913), scritti in collabora­ zione con Whitehead, che ne rielaboravano e sviluppavano il conte­ nuto in vista della soluzione del problema delle antinomie. Lo svi­ luppo del suo pensiero nel senso di un sempre più radicale empirismo è documentato dagli scritti successivi, L ’analisi dello spirito, L'ana­ lisi della materia e La conoscenza umana: il suo ambito e i suoi limiti, scritti tra il 1921 e il 1940, accanto ai quali può essere ricordata una vasta e brillante Storia della filosofia occidentale. Nel campo dei problemi etico-politici e sociali, i suoi scritti più noti sono Vie della libertà: socialismo, anarchismo e sindacalismo, Perché non sono cristiano, Matrimonio e morale, L ’educazione e l’ordine sociale, Re­ ligione e scienza, Autorità e individuo. La posizione di Russell in logica è, in origine, nettamente realistica; egli stesso dice di aver condiviso con Frege « la credenza nella realtà platonica dei numeri »: una realtà platonica, tuttavia, non separata dal mondo reale, del quale costituisce in certo qual modo la strut­ tura. Gli oggetti della logica e della matematica sono « entità, a cui si può pensare » e che esistono indipendentemente dal pensiero che le pensa. Questo realismo non verrà mai meno del tutto nel pensiero di Russell, anche quando, nell’ultimo periodo, accentua l’impostazione empiristica: in questo senso egli critica non solo l’intuizionismo (che è un residuo del misticismo! e l’interpretazione psicologica dei con­ cetti logici, ma anche il formalismo di Hilbert, contro il quale scrive che « l’applicazione del numero al materiale empirico non fa parte né della logica né dell’aritmetica: però una teoria che la renda a priori impossibile non può essere giusta ». In conclusione, Russell nega che i rapporti logici e aritmetici riguardino qualche fatto solo circa il linguaggio e non circa il mondo. La tesi fondamentale di Russell, caratteristica di tutto il moderno « logicismo », è l’identità di logica e aritmetica, una tesi che è espressa anche in forma più attenuata nel senso di ritenere che la logica sia costituita dalle « premesse dell’aritmetica ». La logica può essere pertanto totalmente formalizzata con sim­ boli analoghi a quelli dell’algebra; in conseguenza, è possibile sta­ bilire operazioni e calcoli sulle relazioni dei simboli, indipendente­ mente dal loro riferimento a dati empirici. La simbologia di Rus­ sell (per gran parte ripresa da quella di Peano) è assai complessa e

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non può certo essere esposta in questa sede: essa mira comunque a fornire una costruzione simbolica assolutamente rigorosa delle rela­ zioni logiche, guardando unicamente alla loro « forma » e prescindendo completamente dai significati che possono essere dati ai termini di que­ ste relazioni (le cosiddette « variabili »). Solo per fare un esempio, io posso scrivere, per esprimere una relazione (R) tra due variabili: x R y e pormi in conseguenza il problema se sia valida anche la relazione y R x. Ora è evidente che s e x e y sono due individui e R indica la relazione di fratellanza la reciprocità esiste, ma se R indica la relazione di paternità, la reciprocità non esiste più. Poiché però, una formula simbolica deve essere valida indipendentemente dal riferimento em­ pirico, io non posso senz’altro affermare che «se x R y allora y R x », ma devo introdurre nuovi simboli e operare calcoli più complessi: chia­ mando p la relazione x R y, e r la relazione y R x e indicando con il simbolo « D » l’espressione di implicazione « se .... allora », io potrò asserire « pD r », soltanto se riuscirò a trovare una relazione q tale che « p D q » e « q D r », in base al fatto che essendo sempre valida l’asserzione: « s e p D q e q D r allora p D r » è necessaria­ mente vero il suo conseguente {p D r). ii evidente che questa proposizione può essere ulteriormente e La logica più rigorosamente formalizzata, ma ciò che qui preme mettere in proposizionaI< evidenza è che, caduto ogni riferimento empirico alle cose e alle loro qualità, cade anche la logica tradizionale dei « termini » (soggetto e predicato): la logica si trasforma in una « logica proposizionale » (e Russell distingue le « proposizioni atomiche » quelle più semplici, e non deducibili da altre; e « proposizioni molecolari » che includono proposizioni atomiche e anche relazioni tra di esse) e i suoi concetti fon­ damentali diventano quelli di « classe » (come insieme di individui che soddisfano a certe condizioni), di « proposizione » e di « relazione »; ed anzi è proprio il « calcolo delle relazioni » la parte più nuova della logica di Russell e quella che realizza la piena identificazione di ma­ tematica e logica, giacché il « contare » non è altro che porre una relazione da termine a termine nella serie dei numeri naturali. A proposito delle antinomie e della « crisi dei fondamenti », in­ Le antinomie fine, la soluzione di Russell si muove nel senso di determinare una « teoria dei tipi » dei concetti (i concetti di tipo « zero » sono gli individui; quelli di tipo « uno » sono le proprietà di più individui; quelli di tipo « due » sono le proprietà delle proprietà, ecc.) e di ir-

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LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

stabilire con ciò la regola che un concetto non può mai fungere da predicato in una proposizione in cui il soggetto sia di tipo eguale o maggiore. Il linguaggio Un posto di rilievo, nella filosofia di Russell ha anche la dot­ trina del linguaggio: egli stesso parla della formalizzazione mediante simboli della logica come di un linguaggio in cui c’è solo sintassi e niente vocabolario. Tuttavia non è possibile aggiungere questo voca­ bolario: se infatti è vero che il linguaggio è costituito di proposizioni e che i simboli costituenti la proposizione « significano » i costituenti dei fatti che rendono vera o falsa la proposizione stessa (le proposizioni atomiche esprimono « fatti atomici » e possono essere asserite o ne­ gate solo in base all’esperienza); è anche vero che tali costituenti dei fatti possono diventare noti solo per « conoscenza diretta » e che questa « conoscenza diretta », è diversa da individuo a individuo. Se quindi il vocabolario esprimesse solo la conoscenza diretta di colui che parla, esso non potrebbe essere capito da chi ascolta ed ha una diversa conoscenza diretta: paradossalmente, il vocabolario serve alla comunicazione proprio perché impreciso. L’empirismo Si è già detto che in un secondo momento, soprattutto per in­ fluenza delle ricerche dei filosofi neopositivisti (cfr. paragrafo se­ guente), Russell accentua l’impostazione empiristica della sua filoso­ fia della conoscenza: l’esperienza è la base non solo della nostra cono­ scenza diretta o conoscenza di fatto, ma anche delle conoscenze che possiamo da essa « inferire ». In altri termini, hanno fondamento empirico le conoscenze « fattuali » della realtà (le scienze), ma a questo fondamento empirico sono in ultima analisi legate anche le proposizioni della matematica e della logica. Ma con ciò Russell veniva a trovarsi di fronte a due difficoltà: da un lato quella per cui, se a fondamento della conoscenza sta l’esperienza immediata e personale e questa è diversa da individuo a individuo, sembra impos­ sibile uscire dal solipsismo (cioè dall’affermazione che esisto solo io e che tutti gli altri e tutte le cose sono solo mie idee o rappresenta­ zioni); dall’altro quella per cui, se tutta la nostra conoscenza fat­ tuale è basata sull’esperienza, non può essere basata sull’esperienza l’enunciazione che « tutta la nostra conoscenza fattuale è basata sul­ l’esperienza ». Dalla prima difficoltà Russell cerca di uscire soste­ nendo che molte nostre conoscenze sono « quasi pubbliche » e si­ mili a quelle di altri; dalla seconda, ammettendo bensì l’inadeguatezza

CORRENTI CONTEMPORANEE

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dell’empirismo, ma nello stesso tempo sostenendo che questa ina­ deguatezza è certamente inferiore a quella di altre soluzioni. Quanto al mondo delle valutazioni e dei valori, Russell non I problemi pensa che essi siano passibili di trattazione scientifica, se non indi­ morali rettamente. Nondimeno egli ha dedicato numerosissimi saggi ai pro­ blemi etici, politici e sociali, in nome di un ideale di convivenza dei desideri individuali (il « dovere » non è altro che il desi­ derio che altri hanno che anche noi desideriamo ciò che essi desi­ derano), e di uno spirito laico e illuministico di negazione dei va­ lori Kierkegaard (p. 130).

P arte II L E T E N D E N Z E F IL O S O F IC H E N E L L ’ET À D E L P O SIT IV ISM O

Premessa V II

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- La filosofia del positivismo in Francia

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pag. 141 »

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» i . Comte e la filosofia del positivismo : la « legge dei tre stadi » e la classificazione delle scienze (p. 146) - 2. Comte: la sociologia e la «religione dell’Umanità» (p. 151) - 3. La cultura romantica e gli sviluppi della filosofia positivistica (p. 136) - 4. Gli sviluppi delle scienze in Europa nella seconda metà del xix secolo (p. 162). V i l i - Il positivismo in Inghilterra e in Germania .

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1. Romanticismo e idealismo nella cultura anglosassone (p. 167) 2. Stuart Mill (p. 170) - 3. Darwin e Spencer (p. 177) - 4. Positi­ vismo, materialismo e altre tendenze del pensiero tedesco (p. 186). IX - Il marxismo

.................................................. »

194

•» 1. Gli sviluppi del pensiero economico e il « socialismo utopistico » (p. 194) - 2. Marx. La vita e gli scritti (p. 199) - 3. Marx. Gli scritti giovanili (p. 202) - 4. Marx. Dalla Sacra fam iglia al Manifesto (p. 206) - 3. Marx. Dal Manifesto al Capitale (p. 212) - 6. Engels (p. 217). X - La filosofia italiana nel secolo xix

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1. La cultura italiana dell’800 (p. 219) - 2. Romagnosi e Galluppi (p. 223) - 3. Rosmini (p: 227) - 4. Gioberti (p. 231) - 3. Mazzini e le correnti del pensiero politico italiano (p. 233) - 6. Ardigò e il positivismo italiano (p. 238) - 7. Spaventa e la tradizione hegeliana (P- * 4 J)-

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219

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IN D IC E

P a r te I II LA F IL O S O F IA D E L N O V EC E N T O

Pag- 249

Premessa XI

- La reazione antipositivistica e le correnti del pensiero t e d e s c o ................................................................................... »

253

M. Nietzsche (p. 253) - 2. L’empiriocriticismo (p. 258) - 3. II neocriticismo della scuola di Marburgo e la « filosofia dei valori » (p. 261) - 4. Lo storicismo, Simmel e Vaihinger (p. 266) - Jt Husserl e la fenomenologia (p. 273). X II

- Lo spiritualismo francese

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1. Spiritualismo, neocriticismo e contingentismo (p. 280) 2. Blondel e la « filosofia dell’azione » (p. 285) - 3. Modernismo e neotomismo (p. 287) - 4» Bergson. I dati immediati della coscienza (p. 290) - 5. Bergson. L’evoluzione creatrice (p. 294). X III

- L ’idealismo e le altre correnti del pensiero italiano . vi. Croce. Lo sviluppo del suo pensiero fino all'E stetica (p. 299) 2. Croce. La filosofia dello spirito (p. 304) - 3>Gentile. La riforma della dialettica hegeliana (p. 312) - 4. Gentile. L’attualismo (p. 316) 5. Le altre tendenze del pensiero italiano nel Novecento (p. 321).

XIV

- Idealism o, pragmatismo e realismo nella filosofia angloamericana ................................................................................... »

324

1. Spiritualismo, criticismo e idealismo. Bradley e Royce (p. 324) 2. Il pragmatismo. Peirce e James (p. 327) - 3A Dewey e lo « strumentalismo » (p. 332) - 4. Il realismo. Alexander e Whitehead (p. 340). XV

- Le correnti contemporanee: filosofia della scienza, neopo­ sitivismo, analisi del lin g u a g g io ......................................... » ■' 1. Gli sviluppi della fisica teorica. Teoria della relatività e fisica dei quanti (p. 346) - 2. Matematica e logica. Russell (p. 350) 3. Wittgenstein (p. 357) - 4. Il neopositivismo (p. 361) - 5. La filosofia analitica (p. 367).

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IN D IC E

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XVI - Le correnti contemporanee: esistenzialismo, marxismo e altre t e n d e n z e ......................................................... pag. 370 i. Esistenzialismo e « Rinascita kierkegaardiana ». Barth e Jaspers (p. 3 7 0 ) - 2 . Heidegger (p. 3 7 7 ) - 3 . Sartre e l’esistenzialismo fran­ cese (p. 3 8 3 ) - 4 . Sociologia (p. 3 9 4 ) - 3 . Psicologia, psicanalisi e strutturalismo (p. 3 9 9 ) - 6 . Gli sviluppi teorici del marxismo (p. 4 0 6 ).

Conclusione-. Uno sguardo « sinottico » sulla filosofia contempo­ ranea .......................................................................................»

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Indice dei nomi

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