Processo all'obbedienza. La vera storia di don Milani [2 ed.] 8858125908, 9788858125908

Il 15 febbraio del 1966 si concluse a Roma un processo destinato a segnare la storia politica e culturale del nostro pae

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Processo all'obbedienza. La vera storia di don Milani [2 ed.]
 8858125908, 9788858125908

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i Robinson / Letture

Mario Lancisi

Processo all’obbedienza La vera storia di don Milani

Editori Laterza

© 2016, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione ottobre 2016

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Edizione 5 6

Anno 2016 2017 2018 2019 2020 2021 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2590-8

Alla memoria di Sandro

Indice

Introduzione

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1. Alla sbarra

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Pacifisti da salotto, p. 5 - Barbiana chiama Fontamara, p. 7 - Il senso della legge, p. 8 - Amici di spiaggia a Castiglioncello, p. 10 - Il primo no, p. 12 - Prenderò il suo posto, p. 14 - Pavolini e ‘Esperienze pastorali’, p. 16

2. I preti con le stellette

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Ragazzi, c’è l’Ammannati, p. 19 - La scuola popolare di San Donato, p. 21 - Il trasferimento a Barbiana, p. 22 - Don Milani a Barbiana, p. 24 - Proibì di votare per Ammannati, p. 25 - Il comunicato dei cappellani militari, p. 27 - L’indignazione dei ragazzi, p. 29 - Finestra aperta al mondo, p. 30

3. La mia patria sono gli oppressi

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«Abbiamo fornicato con Franco», p. 34 - Il ponte di Luciano, p. 36 - La storia di Mauro, p. 38 - Sacerdozio civile, p. 39 - «Sortirne tutti insieme è la politica», p. 41 - La Costituzione pacifista, p. 43 - Obiezione e obbedienza, p. 44

4. Non uccidere

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Le accuse di Andreotti e del Vaticano, p. 49 - Il ruolo di Florit, p. 50 - Goss e la non violenza, p. 52 - La condanna di Gozzini, p. 55 - Padre Balducci sotto processo, p. 58 - Il Sant’Uffizio assolse, il tribunale condanna, p. 60

5. La croce e la falce

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Dal dialogo al compromesso storico, p. 65 - «Comunista» tra comunisti, p. 66 - La storia di Franco, p. 68 - La crisi delle fabbriche fiorentine, p. 70 - I nuovi barbari, p. 72 - Il vecchio e il nuovo mondo, p. 73

6. Il prete rosso

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Insulti e minacce per il priore, p. 79 - La cellula in parrocchia, p. 81 - Il divieto della Curia, p. 83 - «La violenza del non violen­­­­­VII

to», p. 85 - L’orchestrazione dei giornali, p. 87 - Laico nell’Italia delle due chiese, p. 88 - Lezione sul giornalismo, p. 90

7. Obbedientissimo disobbediente

93

Prete «comunistoide», p. 95 - Le accuse del cardinale, p. 96 - «Io, morto e sepolto in montagna», p. 98 - Lettera ai preti fiorentini, p. 101 - «Mi accusa ora che sono fuori combattimento...», p. 103 - L’assegno di Paolo VI, p. 104 - Le donne tinte del Vaticano, p. 106

8. La difesa

111

Una lettera capolavoro, p. 113 - Lo studente Milani, p. 114 «Non devo difendermi», p. 116 - Il processo a Fabbrini, p. 118 - L’avvocato Gatti a Barbiana, p. 120 - La preparazione della ‘Lettera ai giudici’, p. 122 - Viltà e impegno, p. 123 - Lettera a Capitini, p. 124 - Soldi e bufale, p. 125

9. Il maestro e il giudice

127

Il tribunale e la scuola, p. 128 - Né anarchico e né conformista, p. 130 - Al servizio della classe dominante, p. 132 - L’obbedienza non è più una virtù, p. 135

10. La condanna

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Brulichio di tonache, p. 141 - «Don Lorenzo assoltoooo...», p. 143 - ‘Lettera a una professoressa’, p. 146 - La diversità della scuola di Barbiana, p. 148 - La condanna, p. 150



Riferimenti bibliografici 153



Indice dei nomi 155

Introduzione

Poco prima di morire, in uno dei suoi concitati rapporti con il cardinale Ermenegildo Florit, don Milani ad un certo punto se ne uscì con questa battuta: «Sa quale è la differenza, eminenza, tra me e lei? Io sono avanti di cinquant’anni...». Mezzo secolo dopo papa Francesco ha pareggiato il conto. Il 10 maggio 2014, in piazza San Pietro, in un discorso al mondo scolastico, sottolineando che il segreto della scuola è «imparare ad imparare» per educare i giovani ad essere aperti alla realtà, ha detto: «Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano, che era un prete: don Lorenzo Milani». Per la prima volta il nome del priore di Barbiana, che la Chiesa fiorentina esiliò in una sorta di Siberia ecclesiastica e che il suo vescovo minacciò di spretare, ha risuonato nella piazza simbolo della cristianità. E qualche settimana prima papa Francesco aveva sottratto Esperienze pastorali, il primo libro di don Milani, dal cassetto dei testi proibiti per restituirlo al popolo di Dio come vangelo vissuto nelle strade operaie e comuniste di San Donato di Calenzano. Michele Gesualdi, uno degli allievi più vicini al priore, ha raccontato di aver chiesto a quattro papi di abolire il decreto del Sant’Uffizio su Esperienze pastorali: ma nessuno ha voluto dare ascolto al grido di amore e dolore dei ragazzi montanari di don Milani. Colpisce nel riconoscimento di Bergoglio la preminenza del ruolo civile di don Milani: «Un grande educatore italiano». Il suo essere stato un prete viene dopo. Il che non toglie ­­­­­IX

nulla all’identità di Lorenzo in quanto prete, ma sottrae la sua rappresentazione all’istanza clericale. E forse non è un caso che sia stato un papa di nome Francesco a schiudere alla Chiesa la possibilità di cogliere il legame profondo tra Barbiana e Assisi. Come san Francesco, anche don Milani ha rinunciato alle vesti del privilegio culturale ed economico per abbracciare l’eresia di Gesù Cristo. Questa a noi pare la vera storia di don Milani. Basta passare in rassegna le sue tre opere principali, per cogliere in Milani il tratto di profeta religioso e civile. Con Esperienze pastorali, uscito nel 1958, anticipò la riforma religiosa poi realizzata dal Concilio Vaticano II. Con L’obbedienza non è più una virtù (1965) affrontò con i suoi ragazzi i grandi temi della pace, in un mondo allora sull’orlo del conflitto atomico, della disobbedienza civile e del primato della coscienza. Infine, con Lettera a una professoressa (1967), colse il clima che sfociò nel ’68 denunciando il carattere classista della scuola e affermando la funzione cruciale della cultura e della formazione per la costruzione di una società più giusta. Sul filo della ricostruzione del processo a don Milani per la lettera scritta ai cappellani militari, questo libro cerca di offrire una chiave interpretativa, uno sguardo nuovo, sulla vita del priore di Barbiana: il processo all’obbedienza come conformità e acquiescenza al potere dominante nella Chiesa e nella società. Come sottrazione di responsabilità. Ma anche la disobbedienza diventa mero esercizio di sottrazione di responsabilità, se non presuppone l’obbedienza ad un’istanza superiore. Ai giudici del processo don Milani spiegò che la scuola «siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè il senso politico». Il processo all’obbedienza svela così il senso profondo del­­­­­X

la vita e della proposta religiosa e civile di don Milani. Come anima segreta del progresso spirituale, culturale e politico dell’umanità. Firenze, 30 giugno 2016

Processo all’obbedienza La vera storia di don Milani

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Alla sbarra

Tribunale di Roma, 15 febbraio 1966, un martedì. «In piedi, signori, entra la corte». Con voce solenne il cancelliere diede inizio all’ultima udienza di un processo da prima pagina. Alla sbarra si ritrovarono infatti un prete e un giornalista comunista: don Lorenzo Milani e Luca Pavolini. Nell’Italia della contrapposizione tra la Dc e il Pci, immortalata sul piano satirico dagli scontri paesani tra Peppone e don Camillo, i popolari personaggi di Giovanni Guareschi, la circostanza non passò inosservata. In quello stesso giorno veniva ucciso un ex sacerdote: il colombiano Camilo Torres, nato a Bogotá nel 1929, che aveva lasciato la tonaca per imbracciare il mitra. «Non celebrerò più messa finché non sarà raggiunta giustizia nella mia patria»1, così l’esponente della teologia della liberazione sudamericana spiegò la sua scelta. Quasi un segno del destino, un esile filo rosso congiunge il tribunale di Roma e la Colombia: due storie di preti in cui la fede in Dio si intreccia con la miseria e l’ingiustizia sociale. Sulle pareti di Barbiana non a caso era riportata l’esortazione di Che Guevara: «El niño que no estudia no es un buen revolucionario», «il ragazzo che non studia non è un buon rivoluzionario». La risposta alla miseria si rivelò tuttavia agli opposti: la

1   http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/457-15febbraio-1966-muore-camillo-torres.

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rivoluzione per don Milani passava infatti dalla scuola, per Torres dal mitra. Don Milani e Pavolini erano imputati del reato di apologia e incitamento alla diserzione e alla disobbidienza civile. A prima vista venne naturale pensare che il «cattivo» fosse il giornalista comunista e che il prete si trovasse dietro le sbarre per avergli magari espresso una qualche solidarietà cristiana. Invece no, il «cattivo» era il prete, don Milani, prio­re di Barbiana, autore di una lettera ai cappellani militari toscani in difesa dell’obiezione di coscienza. Ai sacerdoti con l’elmetto quella lettera fece lo stesso effetto di un pugno allo stomaco. Così il giovane priore si ritrovò, mentre veniva divorato da un tumore (morirà sedici mesi dopo), ad un passo dal carcere: «Mi daranno dai tre agli otto anni», confidò ai suoi ragazzi. Tutto aveva avuto origine da un esposto al procuratore della Repubblica di Firenze presentato da parte di sei ex combattenti, che lo accusarono di «malafede», di «aver offeso e turbato» il clero fiorentino e di aver voluto «gettare manate di fango» contro l’esercito. E soprattutto di aver fatto tabula rasa «di un secolo di storia italiana», salvando soltanto gli anni della Resistenza. Che invece per gli ex combattenti era solo «un breve periodo di meno di due anni con le sue luci e le sue ombre»2. Tema caldo, in quegli anni, quello dell’obiezione di coscienza. Chi si rifiutava di indossare la divisa militare finiva in galera. «Dal 1949 ad oggi si sono celebrati in Italia ben 95 processi per 50 casi di obiezione e ogni obiettore ha subìto in media due condanne, cumulando qualcuno fino a 4 anni e 7 mesi di reclusione», riferì Pavolini in un articolo pubblicato su «Rinascita» il 31 luglio del 1965. Il primo obiettore fu Pietro Pinna, morto a 89 anni il 13 aprile 2016 a Firenze. Nel 1948 fu incarcerato per essersi ri2   Dalla denuncia presentata dagli ex combattenti al procuratore della Repubblica, come si ricava dagli atti del processo.

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fiutato di prestare il servizio militare. Venne denunciato, non per obiezione di coscienza, che a quel tempo non era considerata nel codice penale, ma per rifiuto di obbedienza. E il tema dell’obbedienza era la ragione profonda per cui don Milani si ritrovò imputato. «Bisogna avere il coraggio di dire ai giovani, che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto», scrisse il priore nella lettera indirizzata ai giudici del processo. Pacifisti da salotto All’epoca in cui infuriava la polemica sull’obiezione di coscienza, il «disobbediente» Pinna incontrò due volte don Milani. La prima, nel 1965, per parlare ai ragazzi dell’obiezione di coscienza e della sua vicenda personale. Rimase colpito dal fatto che l’interesse del priore di Barbiana e dei suoi ragazzi si appuntò non sulle idee della non violenza, ma sulle sue esperienze concrete di vita: i processi subìti, il carcere, l’orientamento dell’opinione pubblica. A Barbiana le idee generali e astratte rimanevano fuori dalla scuola. Gli ospiti venivano «interrogati» sugli aspetti pratici della loro vita. Questo metodo pedagogico, talora ispido e scomodo, non risparmiò neppure Pietro Ingrao, allora a capo del gruppo comunista alla Camera dei deputati, che proprio durante i mesi del processo fece visita al priore e ai ragazzi. Fu un incontro tempestoso. Così lo ha raccontato Ingrao al giornalista e scrittore Giorgio Pecorini: «Non ci furono convenevoli. Don Milani non concesse nulla – penso deliberatamente – nemmeno alla familiarità che aveva con coloro che mi accompagnavano. La discussione cominciò subito, come un lavoro da svolgere: dinanzi ai ragazzi della scuola, come era consuetudine. In realtà non era una discussione, 5­­­­

ma un lungo interrogatorio critico fatto al ‘politico’ che saliva a Barbiana, al ‘politico’ comunista. Il tema non era marginale: riguardava il rapporto del partito con gli operai e i contadini»3. Il secondo incontro tra Pinna e don Milani avvenne alla vigilia del processo. Pinna salì a Barbiana assieme al segretario dell’Internazionale dei resistenti alla guerra, che chiese quale solidarietà avrebbe potuto dargli in occasione del processo. Don Milani rispose che, se avesse deciso di andare a Roma, al dibattimento avrebbe voluto al più un pullman di operai. Poi aggiunse: «Altri sostegni non mi interessano. Tantomeno da parte di quei pacifisti che solo adesso mi stanno a fianco, facendosi belli della mia bandiera». Pinna ci rimase male. «Guarda, don Lorenzo, che stai parlando con il rappresentante di quei pacifisti che non hanno avuto bisogno della tua bandiera per mettersi in mostra. Ben prima di te hanno alzato la loro bandiera pacifista da obiettori e non da parolai al prezzo di anni di carcere e per taluni anche al prezzo della vita»4, replicò duro. Pinna ha raccontato di essere rimasto impressionato dai visi esterrefatti dei ragazzi nel vedere il loro priore insolitamente interdetto di fronte a una replica così decisa. Don Milani accusò il colpo. Tanto che subito si affrettò a precisare che si era riferito non a loro, pacifisti della prima ora, che avevano pagato di persona finendo anche in carcere, ma «ai pacifisti fiorentini da salotto del tè delle cinque». Si riferiva in particolare, ha riferito Pinna, al gruppo del Cenacolo che faceva capo alla rivista «Testimonianze» fondata nel 1958 dallo scolopio padre Ernesto Balducci (tra i primi abbonati l’allora cardinale di Milano Giovanni Battista Montini, che nel 1963 diverrà papa con il nome di Paolo VI). Pinna rivide don Lorenzo solo alcuni giorni prima della mor-

  Testimonianza di Giorgio Pecorini, in www.pietroingrao.it.   Testimonianza resa all’autore.

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te, quando cacciò i cattolici fiorentini borghesi e intellettuali, ma accolse i pacifisti come lui5. Barbiana chiama Fontamara Di tute blu al processo, come aveva sperato il priore, non se ne videro, ma l’aula del tribunale di Roma era comunque gremita. Giovani, giornalisti e anche qualche prete. Non era il comunista che gli occhi e i flash dei fotografi cercavano, ma lui, il priore di Barbiana. Don Milani, però, non era presente al dibattimento. Aveva inviato un certificato medico perché affetto da un linfogranuloma maligno. Ormai viveva disteso su una brandina o seduto su una poltrona. Parlando con gli amici del priore, tra i quali il cronista giudiziario della «Nazione» Mario Cartoni, in molti cercarono di capire che tipo di prete fosse don Milani. Sì, qualcuno aveva letto il suo primo libro Esperienze pastorali, e anche la lettera ai cappellani, ma i giudizi erano superficiali. Chi lo detestava, chi lo ammirava. La notorietà del priore esploderà solo dopo la sua morte; in quel febbraio del 1966 era ancora un personaggio da scoprire, che divideva gli animi, tra sospetto, repulsione e ammirazione sconfinata. Destava curiosità anche il luogo, Barbiana: dove si trovava, quante persone ci abitavano, che parrocchia era. Davvero era una sorta di Siberia ecclesiastica, come la definiva un amico del priore, il magistrato fiorentino Gian Paolo Meucci, per due decenni, dal 1965 al 1985, presidente del Tribunale dei minori di Firenze e assiduo conferenziere alla scuola milaniana di San Donato di Calenzano? Cartoni e gli altri amici del priore spiegarono ai curiosi che Barbiana era una minuscola parrocchia di una novantina di anime, a metà del monte Giovi, in Mugello, ad una quarantina di chilometri da Firenze. Anime di montanari e contadini.   Mario Lancisi, No alla guerra!, Piemme, 2005.

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Che vivevano tra mucche e pecore, senza acqua, posta e luce in casa, strade fangose d’inverno e polverose d’estate. Invisi ed estranei allo Stato, come ha raccontato il priore nei suoi scritti. Per gli abitanti di Barbiana lo Stato era percepito solo nella funzione repressiva di esattore delle tasse e di chiamata alla leva militare. Uno Stato nemico dei barbianesi come lo era dei contadini e montanari meridionali. In questo senso Barbiana evoca Fontamara, il paese delle campagne abruzzesi raccontato da Ignazio Silone, un’altra figura, come quella del guerrigliero ex prete Torres, molto amata in quegli anni nel mondo cattolico, soprattutto per la sua visione di un socialismo cristiano. È stato definito un cristiano senza Chiesa e un socialista senza tessera. Tuttavia per don Milani il tarlo principale che rodeva il montanaro non era la miseria ma il suo essere un paria, un emarginato sociale. Ha osservato padre David Maria Turoldo: «Io, per esempio, che vengo da un mondo di poveri, subito ho davanti a me l’affamato. Lui, fiorentino, ha davanti a sé l’ignorante. Lui ha scelto un tipo di povertà: la mancanza di cultura e di istruzione. Io ho scelto l’altra»6. Esemplare la storia che don Lorenzo racconta in Esperienze pastorali: un contadino diciottenne, vestito in maniera inappuntabile, decide di entrare in una casa chiusa, ma viene umiliato da una prostituta che, ridendogli in faccia, gli dice: «Te devi aver viaggiato molto... sul carro». Anche in una casa di appuntamenti i montanari venivano derisi, emarginati: nella scala sociale erano considerati più in basso delle prostitute. Il senso della legge «Silenzio, silenzio, il processo ha inizio», così il presidente della giuria richiamò i capannelli di giornalisti e spettatori. Si fece silenzio.

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Gianni Omodei, Ricordo di don Milani, in www.parrocchie.it.

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Poi l’annuncio: l’imputato numero uno, il sacerdote don Milani, è assente per motivi di salute, come da certificato medico, spiegò, nell’udienza del 15 febbraio 1966 il presidente. Che riferì dell’invio ai giudici da parte dell’imputato in abito talare di una lunga lettera, quasi 40mila battute dattiloscritte. Un’autodifesa in cui precisava, a scanso di equivoci, che la malattia era l’unico motivo che lo tratteneva a Barbiana. Non voleva passare per uno di quei preti che, dai tempi di Porta Pia, erano sospettati di avere poco rispetto per lo Stato: «E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò, anzi, quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini». Un incipit che sparigliò le carte. E sorprese non poco: forse gli stessi giudici, certamente i presenti all’udienza. Chi era pronto a sparare al prete ribelle nei confronti dello Stato dovette riporre la spada nel fodero. A Barbiana Socrate era di casa: il rispetto della legge come cardine dell’educazione dei giovani. La legalità come valore. Oggetto del processo, la Lettera ai cappellani militari fu pubblicata a caldo insieme alla Lettera ai giudici alla fine del 1965, proprio mentre a Roma era stato fissato il processo, da «Cultura», un periodico dei fratelli Giorgio e Giovanni Giovannoni, stretti collaboratori di Giorgio La Pira, il sindaco «santo» di Firenze. Attorno alla sua figura, il mondo cattolico fiorentino era da anni impegnato sul fronte della costruzione della pace e del superamento della guerra fredda tra Usa e Urss. Verso la fine del 1965, mentre don Milani era impegnato nel processo alla sua Lettera ai cappellani, La Pira volò ad Hanoi e l’11 novembre, quando aspra infuriava la guerra in Vietnam, incontrò Ho Chi Minh e il primo ministro Pham Van Dong. Lo accompagnava, nell’avventuroso viaggio che gettò i semi della pace in Vietnam, che sarà firmata nel 1973, il ventenne Mario Primicerio, attuale presidente della Fondazione La Pira e sindaco di Firenze negli anni Novanta. 9­­­­

L’edizione delle lettere milaniane curate dalla rivista di La Pira non piacque affatto a don Lorenzo. A partire dal titolo: Il dovere di non obbedire, proposto – pare – dallo stesso La Pira. Si arrabbiò molto il priore e decise di affidare i suoi testi alla Lef, piccola editrice dei fratelli Vittorio e Valerio Zani, cenacolo di intellettuali cattolici fiorentini, curando personalmente l’edizione e suddividendo i capitoli in paragrafi con relativi titoletti. Come titolo scelse L’obbedienza non è più una virtù. Dove l’accento era posto sull’obbedienza: che, ritenuta una virtù, soprattutto negli ambienti ecclesiali e militari, può invece diventare «la più subdola delle tentazioni», come si è visto. La differenza tra i due titoli è netta. Don Milani va oltre l’assunto che in talune circostanze, ad esempio di fronte al comando di sganciare una bomba contro i civili, si impone il dovere della disobbedienza. Per il priore di Barbiana la disobbedienza è la conseguenza naturale del processo all’obbedienza, quando questa si manifesta come sottrazione di responsabilità. Amici di spiaggia a Castiglioncello Don Lorenzo seguì il dibattimento da Barbiana. Attorniato dai suoi ragazzi, attaccò un piccolo registratore al telefono. Dall’altro capo del filo l’amico Cartoni, che alternò gli appunti del dibattimento alla cronaca telefonica del processo. Concluso il dibattimento, la corte si ritirò per emettere la sentenza. Cartoni si preoccupò di rassicurare l’amico prete che tutto sarebbe andato bene. Intanto i ragazzi si radunarono attorno al loro maestro con il cuore in subbuglio. Per loro era più di un maestro e di un prete. Era un padre che aveva accettato il processo e il rischio della condanna per aver voluto insegnare loro il dovere della disobbedienza e il primato della coscienza. E lui, don Milani, probabilmente rimeditò i passi della sua opera e della sua vita, che progressivamente se ne stava andando. Perché quello che si celebrò a Roma, in quel febbraio 10­­­­

del 1966, non fu solo il processo ad una lettera ma all’intera vita del priore di Barbiana. Già processato dalla sua Chiesa per Esperienze pastorali, a Roma, in quel giorno di metà febbraio, don Milani si ritrovava messo sotto accusa anche da parte dello Stato. Se don Milani, impossibilitato dalla sua grave malattia, non si mosse da Barbiana, il comunista Luca Pavolini si presentò regolarmente in aula con il testo dello scandalo in bella evidenza. Direttore di «Rinascita», il settimanale del Pci fondato nel 1944 da Palmiro Togliatti, il 6 marzo del 1965 Pavolini aveva infatti pubblicato il testo integrale della lettera di don Milani ai cappellani militari. Titolo: I preti e la guerra. E di quella pubblicazione il direttore del settimanale del Pci era fiero e anche umanamente felice. Sì, perché l’imputato principale, l’autore dello scritto scandaloso era stato un suo carissimo amico di spiaggia nelle lunghe e fascinose estati a Castiglioncello. Lorenzo e Luca si rivedevano dopo molti anni. Alla sbarra. Neanche fosse la prosecuzione di un gioco infantile. «La nostra è stata un’amicizia da ragazzi quando le nostre famiglie, molto amiche tra di loro, si ritrovavano ogni anno a Castiglioncello. Incontri che avvennero per tutti gli anni dell’infanzia fino all’adolescenza»7, ha ricordato Pavolini prima della morte, avvenuta nel 1986. I Pavolini arrivavano a Castiglioncello da Roma, i Milani da Firenze, dove erano una delle famiglie più ricche della città. Abitavano in una grande palazzina con molti aiutanti: cuoco, cameriera, servitore, autista, balia e istitutrice. I figli, Adriano, il maggiore, Lorenzo, il secondogenito, ed Elena, la più piccola, erano seguiti da istitutrici di lingua tedesca, in casa c’erano collezioni raffinate di dischi di musica classica, statue e persino attrezzature per la scherma. A Firenze, in 7   Mario Lancisi, Gatti: Come vinsi per don Milani, «Il Tirreno», 5 dicembre 1997.

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quegli anni, circolavano soltanto quindici auto: due appartenevano ad Albano e Alice Milani, i genitori di Lorenzo. Oltre alla villa in città i Milani possedevano la tenuta di Gigliola a Montespertoli, composta da venticinque poderi, e una villa al mare, Il Ginepro, a Castiglioncello appunto, dove frequentavano una spiaggia elitaria ed erano vicini di ombrellone di famiglie ricche e aristocratiche: oltre ai Pavolini c’erano gli Spadolini, i futuri attori Bice Valori e Paolo Panelli, i D’Amico, i Ginori Conti. Il primo no Divenuti adulti, le strade dei due amici di giochi si divisero. Luca, nipote del gerarca fascista Alessandro Pavolini, un anno più vecchio di Lorenzo, dopo essersi laureato in chimica, si sentì attratto dalla politica. Militò dapprima nei Cattolici Comunisti e, a partire dal 1946, nel Pci, dove fu anche membro della segreteria in qualità di responsabile del settore stampa e propaganda. Lorenzo, invece, a vent’anni («passati nelle tenebre dell’errore», come li definirà una volta divenuto sacerdote), dopo essersi convertito al cristianesimo scelse di farsi prete ed entrò in seminario, il 9 novembre 1943, mentre Firenze era investita dalla bufera della guerra. Quando due mesi prima, in un giorno di settembre, Lorenzo a tavola comunicò alla famiglia la decisione di farsi prete, mamma Alice scoppiò a piangere di disperazione. La famiglia Milani, infatti, era agnostica. Alice e Albano si erano sposati nel 1919 con il solo rito civile e non avevano battezzato i figli. Solo nel 1933, per evitare le persecuzioni razziali, furono costretti a sposarsi anche in chiesa e a battezzare i loro tre figli. Tra i suoi avi Lorenzo annoverava anche fior di atei e mangiapreti. Nella biografia del priore di Barbiana, Neera Fallaci riferisce che la balia Carola Galastri, che aveva allattato Lorenzo, un giorno rivelò ad Alice Weiss Milani: «Anche mio figlio 12­­­­

si è fatto frate». E Alice avrebbe risposto tagliente: «Latte pessimo»8. La scelta di farsi prete arrivò al culmine di una lunga crisi adolescenziale e di un travaglio interiore. Non fu affatto un colpo sulla via di Damasco. Si configura, per certi versi, come il primo processo all’obbedienza da parte di Lorenzo. L’obbedienza alla famiglia che sognava per lui un futuro sociale prestigioso in continuità con il ricco e colto blasone dei Milani. E la disobbedienza di Lorenzo era iniziata dai tempi milanesi. Nel 1930, infatti, la famiglia Milani si era trasferita nel capoluogo lombardo e qui Lorenzo frequentò le elementari, le medie e poi il liceo Berchet. Conseguita la maturità, il primo no ai genitori che volevano che si iscrivesse all’università. Lorenzo rispose secco e deciso: «Io all’università non ci vado». Scelse di iscriversi alle Belle Arti. «Quando Lorenzo decise di fare l’artista ci furono accese discussioni, si udivano in casa scenate e grida, di mio padre soprattutto, che mai si udirono per altre ragioni – ha raccontato Elena, la sorella, a Giorgio Pecorini –, perché in casa non era permesso gridare. I miei genitori volevano che Lorenzo facesse l’università. Lorenzo superò questa difficoltà soltanto per la sua forte personalità e il carattere risoluto»9. Fin da ragazzo il futuro priore di Barbiana aveva un carattere forte e un’autonomia interiore rara per la sua età: «Lorenzo era uno spirito libero. Io facevo con diligenza il mio dovere, che era poi un dovere verso i genitori, in modo da essere sempre promosso. Lorenzo pareva non avesse da rispondere a nessuno, se non a se stesso»10, ha ricordato Saverio Tutino, compagno di scuola al Berchet. 8   Neera Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Bur Rizzoli, 1993, p. 27. 9   Mario Lancisi, Il segreto di don Milani, Piemme, 2002, p. 24. 10   Ibid.

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Prenderò il suo posto Molteplici i passaggi che segnalano il travaglio interiore del giovane Lorenzo. A cominciare dalla scoperta, nell’estate del 1942, di un vecchio messale nella cappellina sconsacrata di Gigliola, la tenuta della famiglia a Montespertoli. «Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore?», scrisse a Oreste Del Buono, giornalista e scrittore, che fu compagno di don Milani al liceo Berchet di Milano. Lo appassionò così tanto la messa, che l’assunse come tema per affrescare la cappellina di Gigliola. Dal maggio al settembre del 1941 Lorenzo aveva frequentato lo studio, in via dei Serragli a Firenze, di Hans-Joachim Staude, pittore tedesco che trascorse molti anni nel capoluogo toscano, dove la figlia Angela ha conosciuto e sposato il giornalista e scrittore Tiziano Terzani. Staude si mise a spiegare al giovane Lorenzo la «scelta di tutto ciò che è essenziale», l’«unità che deve regnare in ogni lavoro», il «senso sacrale della vita»11. Più che alla pittura lo sguardo del pittore tedesco era rivolto all’assoluto, al senso della vita, e Lorenzo si arricchì interiormente delle sue lezioni. Un giorno, quando era ormai divenuto seminarista, Lorenzo andò a trovare il suo vecchio maestro e lo vide sgranare gli occhi sorpreso. «Ma, Lorenzo, dimmi un po’: come mai questa tonaca?», chiese Staude. «Perché ho deciso di farmi prete? È tutta colpa tua, caro Joachim», rispose Lorenzo. Stupore di Staude: «Colpa mia?». «Sì, perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra – replicò Lorenzo –. A me non bastava cercare questi rapporti con i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada»12.   Ivi, p. 28.   Ivi, pp. 28-29.

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Nella primavera del 1943, chiuso lo studio di pittore a Milano, Lorenzo tornò nella sua Firenze, dove un giorno decise di andare a parlare dei suoi travagli interiori con don Raffae­ le Bensi (1896-1985), un sacerdote molto amato dai giovani della città, figura centrale del cattolicesimo fiorentino del dopoguerra, che ha esercitato una forte influenza spirituale su La Pira, padre Turoldo, padre Balducci e soprattutto don Milani, di cui fu confessore e consigliere spirituale, nel quadro di un rapporto che descrisse come «burrascoso». Anche se Bensi, amico stretto di papa Montini, ha definito più volte con gli amici il priore di Barbiana come la figura di cristiano e di prete più eroica che lui abbia mai conosciuto. Quando don Bensi si vide davanti per la prima volta il giovane Milani, allora ventenne, lo indirizzò da un prete amico, don Mario Lupori (1917-2007), anche lui legato al mondo cattolico progressista vicino a La Pira, amico tra gli altri di Mario Gozzini e fondatore nel 1959 della comunità giovanile San Michele, che ha sfornato nel tempo grandi campioni di calcio, da Paolo Rossi ad Andrea Barzagli. «Milani? Vestiva da laico con un bel vestito. Aveva una serie di foglietti in mano con sopra una serie di argomenti da trattare»13, ha ricordato don Lupori. Lì, su quei foglietti, Lorenzo aveva appuntato una serie incalzante di domande da «neofita», come tenne a precisare. Le risposte di don Lupori non lo persuasero granché: «Si vede che lei non è preparato!», lo sgridò. Ma Lorenzo non si scoraggiò. Tornò da don Bensi. Aveva bisogno di parlare, di aprire il suo cuore. «Non ho tempo per ascoltarti. Devo andare a trovare un giovane prete moribondo», gli disse don Bensi. Lorenzo lo seguì: un’ora e mezzo di cammino a piedi. «Arrivati dal prete lo trovammo morto. Lorenzo lo guardò e dopo un lungo silenzio disse: ‘io devo prendere il suo posto’»14.   Ivi, p. 30.   Ibid.

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Era il 3 giugno del 1943. L’indomani Lorenzo decise di convertirsi e farsi prete. In una lettera a Elena Brambilla Pirelli (figlia di Alberto e amica di don Milani) del 4 giugno 1963, le scrisse: «Proprio oggi ho compiuto 20 anni di vita cristiana». Pavolini e ‘Esperienze pastorali’ Divenuti l’uno dirigente del Pci e l’altro prete in odore di eresia, Luca e Lorenzo tornarono ad incrociare le loro vite nel 1958, ai tempi di Esperienze pastorali, il primo libro di don Milani uscito il 25 marzo ed edito dalla Lef, che anticipò il rinnovamento della Chiesa attuato poi dal Concilio Vaticano II. La molla che spinse don Milani a scrivere Esperienze pastorali fu l’incoerenza religiosa del popolo di San Donato di Calenzano. Il giovane cappellano si propose nel suo libro di cogliere le ragioni sociali, politiche e storiche dell’arretratezza culturale e religiosa dei sandonatesi. Cercò infatti di adottare la sua pastorale alla realtà sociale, culturale, economica e religiosa della parrocchia in cui si trovò ad operare. L’aderenza alla realtà sarà uno dei tratti peculiari della sua identità di prete e maestro. Esperienze pastorali, 477 pagine, è suddiviso in due parti. Nella prima sono analizzati, in quattro capitoli, la fede del popolo di San Donato (esaminata attraverso la somministrazione dei sacramenti), la ricreazione come metodo pastorale tradizionale usato dai parroci per avvicinare i fedeli alla Chiesa, l’istruzione civile e l’indirizzo politico dei parrocchiani. La seconda parte descrive la condizione sociale ed economica del popolo di San Donato attraverso gli indicatori dell’esodo dai monti e dalle campagne in città, delle case, e del lavoro. Il libro si conclude con una lettera ai missionari cinesi. Dall’oltretomba don Lorenzo immagina il martirio dei sacerdoti per non avere elevato i poveri secondo giustizia e per 16­­­­

non aver praticato la povertà delle Beatitudini evangeliche. «Non abbiamo odiato i poveri, come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito [...] Quando ci siamo svegliati era troppo tardi. I poveri erano già partiti senza di noi», spiega don Milani in quella lettera. Esperienze pastorali rimase negli scaffali delle librerie ­otto mesi, un tempo sufficiente per scuotere le coscienze cattoliche e provocare forti entusiasmi e sdegnate polemiche. Finché il Sant’Uffizio, il 18 dicembre 1958, provvide a farlo ritirare dal commercio, giudicandolo un libro inopportuno. Tre giorni dopo la condanna del Sant’Uffizio, il 21 dicembre, Pavolini, allora redattore dell’«Unità», sulla terza pagina scrisse una recensione al libro Un prete di campagna. L’articolo, però, non piacque a don Lorenzo. Che scrisse alla mamma Alice: «M’è parso fatto per difendermi di fronte ai miei superiori. Trovo però piccino da parte sua di non aver ricordato che tante mie accuse valgono e si rivolgono anche contro le Case del popolo». Molti anni dopo, quando don Milani era già morto, Pavolini riconobbe di aver scritto un articolo «settario, chiuso, tipico dell’epoca della guerra fredda». Anche se a parziale scusante aggiunse che per quei tempi «fu un fatto davvero eccezionale che la terza pagina dell’‘Unità’ dedicasse uno spazio rilevante al libro di un sacerdote»15. Ma per Pavolini non era un sacerdote qualsiasi: era stato un amico. E nel militante comunista quelle estati trascorse a Castiglioncello con Lorenzo riemergevano curiose e misteriose. Il mistero di due vite così diverse eppure, chissà, segretamente vicine.

  Lancisi, No alla guerra! cit., pp. 56-57.

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I preti con le stellette

Ragazzi, c’è l’Ammannati «Ragazzi venite, c’è il professor Ammannati...», urlò don Milani nella piazzetta della piccola chiesa. Festosi, esultanti, accorsero al richiamo del maestro e andarono incontro ad Agostino Ammannati, amico del priore dai tempi di Calenzano. Era il 14 febbraio del 1965, una domenica. Da Barbiana la veduta del Mugello si presentava maestosa, imponente. L’aria odorava dei profumi della primavera in arrivo. I campi e i boschi sembravano anche loro esultare per il rigoglioso sbocciare dei fiori. Gli animali uscivano incerti ma curiosi dal letargo invernale. Come tutte le domeniche, a Barbiana c’era anche il piccolo viavai dei montanari e dei contadini. Le donne con il velo andavano a messa e faticavano a capire la predica del priore, anche se questi si sforzava di ancorare il Vangelo alla storia usando un linguaggio comprensibile anche agli analfabeti. La scuola milaniana era nata per questo: offrire ai suoi allievi gli strumenti culturali per comprendere la parola di Dio così come un atto profano, come una delibera del sindaco o l’editoriale del direttore di un quotidiano. Educare i fedeli ad una fede consapevole e i cittadini ad esercitare la loro sovranità: ecco a cosa mirava il priore. «Da bestie si può diventare uomini e da uomini si può diventare santi. Ma da bestie santi d’un passo solo non si può diventare», scrisse don Lorenzo quando, nominato cappellano nella parrocchia di San Donato di Calenzano, dovette constatare l’arretratezza culturale del suo popolo. Constatazione che lo indusse ad essere innanzitutto mae­ 19­­­­

stro e poi sacerdote, e che rappresenta il filo conduttore dell’intera sua esperienza pastorale. Istruì i suoi parrocchiani alla comprensione della parola con la «p» minuscola, condizione necessaria, per chi lo avesse voluto, per afferrare anche il significato della parola con la «P» maiuscola. A San Donato di Calenzano don Milani comprese presto che la pastorale non doveva consistere nell’attrarre i parrocchiani in chiesa con il biliardino e il gioco del pallone, ma nel fornire loro, attraverso la scuola, gli strumenti culturali per comprendere la parola di Dio. Così decise di organizzare in parrocchia una scuola popolare: «Quando un giovane ope­ raio o contadino ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile non occorre fargli lezione di religione per assicurargli l’istruzione religiosa. Il problema si riduce a turbargli l’anima verso i problemi religiosi». Non fu facile per la Curia fiorentina trovargli una parrocchia. Non lo voleva nessuno. Il 20 agosto 1947 fu mandato, in via provvisoria, cappellano a Montespertoli, proprio là dove la famiglia possedeva una villa con numerosi poderi. La sistemazione definitiva tardava e don Lorenzo tradiva la sua impazienza e delusione parlandone con la mamma. «Ora aspetto qualche giorno e poi vado a Firenze a leticare. È tanti anni che aspettavo questo giorno e invece è andata a finire come da altrettanti anni prevedevo», le scrisse. Finché in Curia il vicario mons. Mario Tirapani, che era stato professore in seminario, assai detestato, del giovane Lorenzo, interpellò don Daniele Pugi, parroco di San Donato di Calenzano, che aveva chiesto un giovane cappellano: «Abbiamo un tipo che nessuno vuole: un ragazzo d’una famiglia mezza ebrea, che già in seminario ha fatto molto confondere. Se tu te la senti di prenderlo e di provare...». «A me va bene in tutti i modi, purché dica messa e confessi»1, rispose don Pugi.

  Lancisi, Il segreto cit., p. 45.

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La scuola popolare di San Donato Così don Milani venne assegnato come cappellano alla parrocchia di San Donato di Calenzano. Una destinazione che non piacque affatto alla mamma di Lorenzo, come si ricava dalle lettere inviate alla figlia Elena. «Non sappiamo neanche dove è il posto. Calenzano è tra Sesto e Prato. Ma San Donato? E così anche questo è risolto nel modo che più temevo – una sperduta parrocchia di campagna dove si impantana. È meglio non attaccarsi a nessuna speranza o illusione»2, scriveva Alice Milani il 3 ottobre 1947. Lorenzo arrivò a San Donato la sera del 9 ottobre, un giovedì. Pioveva a dirotto. Lo accolsero una ventina di ragazzi e di giovani che in corteo lo condussero in parrocchia. Mentre il giovane cappellano posava le valigie e salutava il preposto don Pugi, iniziarono a suonare le campane a festa. «Benvenuto, don Lorenzo», fu il saluto festoso. L’impatto con i parrocchiani fu duro, scomodo. «Se non lo si sapesse già in partenza che il nostro è il mestiere dei fiaschi ci sarebbe da scoraggiarsi. Tutto casca, tutto muore, tutto s’arena e ci vuole fede per pigliare iniziative nuove», scriveva don Lorenzo il 27 luglio del 1948. Rimase colpito soprattutto da due aspetti, il giovane cappellano: la flessione dei fedeli e la loro scarsa conoscenza religiosa. Una foto pubblicata dall’«Europeo» nel 1948, a corredo di un’inchiesta di Giorgio Pecorini sulla crisi delle parrocchie, ritraeva dei fedeli seduti per terra in fondo alla chiesa, le spalle voltate all’altare. Era la chiesa di Santo Stefano a Monte Romano: poteva essere molte altre chiese, a cominciare da San Donato di Calenzano. Se nonostante le tante ore dedicate alla cultura religiosa tra i fedeli dominava l’ignoranza, la ragione – a giudizio del giovane cappellano – era legata all’istruzione scarsa, per non dire nulla. Da qui l’idea – i primi accenni sono del giugno del 1949 – di mettere in piedi in parrocchia una scuola popolare.   Ibid.

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All’inizio la scuola era serale e godeva dell’approvazione del Provveditorato agli Studi di Firenze. Il momento forte della settimana scolastica era il venerdì, quando si teneva una conferenza sui temi più svariati, alla quale venivano invitati personaggi più o meno noti. Tra questi, amici molto legati al cappellano come Giorgio La Pira, il giudice Gian Paolo Meucci e lo scrittore Mario Gozzini. Al gioco del calcio e al biliardino, don Lorenzo da subito preferì la scuola perché riteneva che «la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma sul grado di cultura e sulla funzione sociale» e la distinzione in classi sociali «non si può dunque fare sull’imponibile catastale ma su valori culturali». Duplice era la funzione della cultura in don Lorenzo. Sociale, perché l’istruzione consente di ridurre il divario tra il ricco e il povero. E pastorale, in quanto il sapere agevola la comprensione dell’insegnamento religioso. Due funzioni in don Milani molto ben definite, distinte. La scuola popolare era funzionale alla crescita sociale: trasformare delle «bestie» (culturalmente parlando) in uomini. L’evangelizzazione aveva invece luogo in canonica. E tra i due mondi non c’erano porte girevoli, ma muri alti di autonomia. Il trasferimento a Barbiana Quando morì il preposto don Daniele Pugi, il 12 settembre 1954, don Milani pensò che spettasse a lui sostituirlo, ma in Curia erano giunte troppe lamentele contro di lui. «Fai il gioco delle sinistre», lo rimproverò mons. Tirapani. Troppo amico dei comunisti. Critico con la Dc. Metodi pastorali troppo avanzati per quei tempi. E poi quella bocca tagliente, polemica. Così fu deciso di trasferire il giovane cappellano e di nominare al posto del Pugi un nuovo parroco. I parrocchiani di San Donato non accettarono la decisione della Curia e si misero di buona lena ad organizzare una raccolta di firme. Nella petizione si chiedeva al cardi22­­­­

nale Elia Dalla Costa di non rimuovere il cappellano. Una delegazione di sandonatesi si recò in Curia. Il cardinale li ricevette e li ascoltò per un po’. Poi li interruppe: «Voi siete cattolici?». Singolare domanda, pensarono tra di loro i calenzanesi, chissà dove vorrà andare a parare il vecchio e stimato cardinale. «Allora se siete cattolici, io sono il capitano e voi i soldati. Io do gli ordini e voi obbedite»3, li liquidò Dalla Costa. Difficile si rivelò la ricerca di una parrocchia adatta per quel rompiscatole di cappellano. Alla fine la scelta cadde su Barbiana, ribattezzata una Siberia ecclesiastica, che anni dopo la giornalista e scrittrice Emanuela Audisio ha descritto così: «Una stanza sperduta, un sentiero che scoraggia, quattro mura di campagna, un crocefisso piccolo piccolo. Ma l’impressione è che ancor oggi Barbiana continui a suo modo a muovere il mondo»4. Almeno lì, isolato dal mondo, il giovane cappellano si sarebbe calmato un po’, devono aver pensato tirando un sospiro di sollievo. E invece... E pensare che la Curia fiorentina aveva deciso di chiudere Barbiana. Era stato incaricato don Renzo Rossi (1925-2013), amico fraterno di don Lorenzo e parroco di Vicchio, a otto chilometri di distanza, di andarci la domenica a celebrare la messa. Negli altri giorni la canonica e la chiesetta sarebbero rimaste chiuse. Nel dicembre del 1954, però, arrivò il contrordine: «Barbiana resta aperta, ci andrà don Milani», fecero sapere dalla Curia. Mons. Tirapani convocò immediatamente don Rossi in Curia per comunicargli che non c’era più bisogno che si occupasse della piccola parrocchia di Barbiana: «Il cardinale ha deciso di mandarci don Milani». L’amico di seminario rimase sorpreso e timidamente protestò: «Don Lorenzo? Ma come, un’intelligenza così viva, confinata in una parrocchia di una

  Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 187.   Emanuela Audisio, Don Milani, «la Repubblica», 6 marzo 1991.

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sessantina d’anime...». Gelida risposta del vicario: «Al momento non c’è altro di adatto per il caso»5. Don Milani a Barbiana Non senza aver prima suonato al pianoforte un brano di Bach prima di lasciare San Donato, don Milani arrivò a Barbiana nel pomeriggio del 7 dicembre 1954, un martedì piovoso. Il giorno dopo decise di scendere a Vicchio per andare a trovare don Rossi, al quale chiese di essere accompagnato in Comune. «A che fare?», domandò sorpreso l’amico. «Voglio comprarmi la tomba del camposanto», rispose il priore. Don Renzo scosse la testa e lo rimproverò: «Quanto tu se’ bischero!». Ma Lorenzo insistette. C’era una ragione in quella singolare richiesta: la tomba lo «avrebbe fatto sentire totalmente legato alla sua nuova gente nella vita e nella morte»6. Don Renzo Rossi è stato compagno di seminario di don Lorenzo e suo grande amico. Dopo una lunga esperienza a fianco degli operai nelle fabbriche della città, ai tempi di Giorgio La Pira sindaco, negli anni Sessanta, don Rossi chiese e ottenne di aprire la missione fiorentina a Salvador de ­Bahia, in Brasile, di cui è diventato cittadino onorario. Quando don Rossi partì, don Lorenzo gli disse che non era contento: «Devi restare qui dove sono i nostri poveri». Ai tempi dell’arrivo di don Milani, Barbiana era un grumo di una ventina di case e una piccola chiesa con la canonica. Intorno cipressi, faggi e rovi. Gli abitanti, montanari e contadini, erano in tutto una novantina. Per arrivarci bisognava percorrere un sentiero sassoso che con l’auto o il camion poteva essere percorso fino a settecento metri dalla canonica. Poi, come fece anche don Milani il giorno del trasferimento, bisognava andare a piedi.

  Testimonianza resa da don Renzo Rossi all’autore.   Ibid.

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Dalla canonica, scendendo per una trentina di metri, si trova il piccolo cimitero di Barbiana con annessa una minuscola cappella dove i visitatori pregano e scrivono qualche pensiero nel libro delle dediche, raccolte da Liana Fiorani7. L’esilio a Barbiana ferì nel profondo mamma Alice. Non avrebbe mai voluto che Lorenzo scegliesse di indossare la tonaca, ma una volta diventato prete sperava almeno, considerata l’intelligenza e la famiglia da cui proveniva, che facesse carriera nella Chiesa. E invece no: prete e per giunta ribelle, e confinato in un luogo piccolo, lontano, quasi inaccessibile. Anche gli amici di don Lorenzo soffrirono molto per il trasferimento da San Donato a Barbiana, anche se cercarono di rincuorarlo dicendogli di portare pazienza perché prima o poi una parrocchia più adatta e decente sarebbe stata trovata. Preoccupazioni che infastidirono don Lorenzo, che rispose alla mamma e agli amici: «Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano sul numero dei parrocchiani». Non fu facile per Alice Milani capire che il figlio, ritenendo di aver trovato il senso della propria vita nel salvare se stesso e gli altri nella fede in Dio, aveva oltrepassato i propri confini di luogo e di corpo. Confinato a Barbiana con una sottintesa volontà di emarginazione. La voce del priore anziché tacitarsi si fece più forte. Proibì di votare per Ammannati Nella sua nuova destinazione Lorenzo non fu abbandonato dai suoi amici e parrocchiani più fedeli di Calenzano. Uno dei più assidui frequentatori di Barbiana fu proprio Agostino

7  Liana Fiorani, Dediche a don Milani dal cimitero di Barbiana, Qualevita, 2001.

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Ammannati. I ragazzi di don Milani lo chiamavano il Professore. Insegnava nel prestigioso liceo Cicognini di Prato. Era massone, aveva militato nel Partito d’Azione, e nel 1951 il giovane cappellano si attirò le ire della Dc e della Curia perché dal pulpito tuonò contro l’alleanza del partito scudocrociato con i partiti laici che alla croce preferivano talvolta il compasso massonico. Tra i candidati per i quali don Milani proibì di votare c’era anche l’Ammannati. Con il tempo, però, il Professore divenne un collaboratore prezioso e fedele del priore. «A Calenzano si sentiva dire: ‘C’è un prete strano così e così...’. Mi interessò il fatto che faceva scuola. Una volta parlai anch’io alla Scuola popolare di San Donato. Lessi una novella di Giovanni Verga, Rosso Malpelo, e poi ci fu la discussione. Ricordo questi giovani che, dopo aver ascoltato attenti la novella, fecero tante domande sul Verga, su che cosa pensava il Verga dei poveri...», ha raccontato Ammannati a Neera Fallaci8. E il giovane cappellano rimase subito conquistato dal professore massone: «È un uomo d’oro», lo definì don Lorenzo in una lettera alla mamma. A Barbiana il Professore godeva di rispetto e autorevolezza. Ci andava spesso, d’inverno e d’estate, in auto, se qualcuno gli dava un passaggio, ma anche in bicicletta. «Uno come lei può fare a meno di avere un partito, perché è del partito della scuola. Noi due, caro professore, siamo del partito della scuola», gli diceva scherzando il priore. Quella domenica di metà febbraio del 1965, però, la faccia del Professore era un po’ preoccupata come di chi probabilmente sentiva dentro di sé di portare al priore e ai ragazzi una notizia che, conoscendoli bene, li avrebbe fatti indignare. «Che c’è professore?», domandò sorridendo don Milani ad Ammannati, che era accompagnato da due giovani di Calenzano rimasti affezionati al loro ex cappellano.

 Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 422.

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Il Professore si mise la mano in tasca, estrasse un ritaglio della «Nazione» di due giorni prima, datato 12 febbraio, e lo depose sul tavolo della scuola, una stanza grande, rettangolare, la parete destra coperta di grafici raffiguranti la composizione dei parlamenti italiani, dal 1921 al 1968. Poi un grande grafico dell’Africa vista dalla parte dei popoli in lotta per l’indipendenza, un mappamondo, un cannocchiale con il quale don Lorenzo insegnava ai ragazzi a riconoscere le stelle, la stufa, la scritta «I care». «L’ha visto, priore?», domandò indignato il Professore, indicando il ritaglio della «Nazione». Don Lorenzo rispose di no. A Barbiana la lettura del giornale era una delle materie più importanti, le venivano dedicate 500 ore all’anno, ma il priore per ristrettezze economiche era abbonato soltanto al «Giorno», il giornale allora vicino alla sinistra laica e cattolica, strenuo difensore del centrosinistra, su cui scrivevano tra gli altri giornalisti famosi come Giorgio Bocca ed Enzo Forcella, quest’ultimo amico del priore. Il comunicato dei cappellani militari Quel ritaglio il priore non l’aveva visto ed era curioso di sapere che cosa c’era scritto, mosso anche dalla premura un po’ trafelata con cui Ammannati glielo aveva consegnato. Ordinò ai ragazzi di fare silenzio e cominciò a leggerlo ad alta voce. «Nell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri, presso l’Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana...», era l’incipit dell’ordine del giorno dei cappellani militari, scritto l’11 febbraio, appunto in occasione dell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato. Era breve, poche righe. Affrontava il tema dell’obiezione di coscienza. Tema scottante in quel periodo. Reso ancor più incandescente dalla condanna al carcere inflitta al giovane cattolico Giuseppe Gozzini per il suo rifiuto di prestare il servizio mi27­­­­

litare. Gozzini, nato a Cinisello Balsamo nel 1936 e morto nel 2010, è stato un pacifista non violento, un cattolico di formazione marxista (come lo sono stati ad esempio Felice Balbo o Franco Rodano), molto legato a don Primo Mazzolari, padre David Maria Turoldo, padre Umberto Vivarelli e padre Camillo De Piaz. Il suo percorso di formazione, intessuto di letture, incontri ed esperienze nei movimenti pacifisti, lo portò a considerare fondamentale l’obiezione di coscienza al servizio militare. Nell’autunno del 1962, chiamato alle armi, Gozzini si recò al Car (Centro addestramento reclute) di Pistoia dove rifiutò di indossare la divisa militare spiegando che la sua fede cristiana gli impediva di imbracciare il fucile. Un gesto clamoroso perché fino ad allora gli obiettori di coscienza erano stati anarchici o testimoni di Geova. I cattolici non militavano nei movimenti per la pace e per il disarmo e non si erano posti il problema del rifiuto del servizio militare. Il 18 novembre venne trasferito all’ospedale militare di Firenze e sei giorni dopo internato nel carcere militare giudiziario della Fortezza da Basso, sempre nel capoluogo toscano. È in questo crogiuolo di battaglie civili e pacifiste (come vedremo più avanti) che si colloca il comunicato dei cappellani militari della Toscana. Il quale, dopo aver tributato omaggio a tutti i caduti per l’Italia che, morendo, «si sono sacrificati per il sacro ideale di Patria», si concludeva con un’affermazione che avrebbe fatto indignare il priore e i suoi ragazzi: «I cappellani considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà»9. La dizione «i cappellani in congedo della Toscana» era inesatta, cavillò subito il priore di Barbiana: in realtà i presenti erano venti su centoventi, un’esigua minoranza. Tra gli assenti figurava, ad esempio, un amico del priore, don Vitto9   Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù, Fondazione don Lorenzo Milani, 2012, p. 8.

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rio Vacchiano, pievano di Vicchio: «Mi ha dichiarato che non è stato invitato e che è sdegnato della sostanza e della forma del comunicato». L’indignazione dei ragazzi A fare indignare il priore e i suoi ragazzi furono soprattutto la definizione dell’obiezione di coscienza come un insulto e una viltà, e l’idea di fondo dei sacerdoti con le stellette che fosse ingiustificato il ricorso da parte degli obiettori ai valori e alla dottrina cattolica. Per i cappellani il rifiuto del servizio militare era addirittura in contraddizione con l’insegnamento evangelico. Si chiesero il priore e i ragazzi: come si permettevano i cappellani di definire vigliacchi giovani pronti a pagare il loro rifiuto della divisa e delle armi con la durezza del carcere? E l’obiezione di coscienza come poteva essere ritenuta estranea «al comandamento cristiano dell’amore»? Erano in ballo questioni cruciali, quali la responsabilità del cristiano e del cittadino di fronte alla legge, il rispetto per chi paga sulla propria pelle l’affermazione di un ideale, il valore dell’amore evangelico, il primato della coscienza e la legittimità delle armi e della guerra. Per giunta, il fatto che a scrivere quelle parole non fossero stati degli ex combattenti militaristi e destrorsi ma dei confratelli nella fede e nel sacerdozio indusse don Milani a intervenire nella sua duplice veste – spiegherà nella Lettera ai giudici – «di maestro e di sacerdote» per ristabilire la verità offesa di fronte ai suoi ragazzi. Che lo guardavano con occhi «sdegnati e appassionati». Aggiungerà il priore: «Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita». Don Lorenzo non poteva tacere. Capì che i suoi ragazzi 29­­­­

aspettavano che parlasse e desse corpo alla loro indignazione. Trasformandola in una lezione scolastica. E il priore non tacque. «Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dicono. È l’unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi», spiegò don Milani nella Lettera ai giudici. La giornata tipo rifletteva questo clima di austerità. A cominciare dalla sveglia. Che per il priore suonava presto, verso le sei e mezzo. Alle sette svegliava Francuccio e Michele Gesualdi che vivevano con lui in canonica. Seguivano la celebrazione della messa e la colazione. Alle otto arrivavano i ragazzi dai casolari sperduti e cominciava la scuola. La scolaresca era suddivisa in due gruppi. Il primo era curato personalmente da don Milani, mentre nel secondo i «maestri» erano i ragazzi più grandi che insegnavano a quelli più piccoli. A mezzogiorno e mezzo scoccava l’ora del pranzo. Il priore si sedeva a tavola con i ragazzi. «A tavola, a tavola, il mangiare l’è pronto...», era solita gridare Eda Pelagatti (1912-2002), la donna che – con la mamma Giulia – accudì don Milani prima a San Donato e poi a Barbiana. Macché perpetua, l’Eda (come la chiamava il priore) era una di casa. Dirà dieci anni dopo la morte di don Lorenzo: «Eravamo, lui ed io, come fratello e sorella senza interessi né di soldi, né di altro. Io ho vissuto con lui in famiglia, non al suo servizio»10. Finestra aperta al mondo Concluso il pranzo, fino alle tre del pomeriggio i ragazzi svolgevano lavori manuali, necessari per tenere in ordine la piccola comunità di Barbiana. Il priore, invece, si appartava  Testimonianza di Eda Pelagatti, in www.barbiana.it.

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a leggere il giornale e a scegliere gli argomenti da affrontare nella lezione e nella discussione con i ragazzi. E se uno di loro non capiva il significato di una parola doveva interrompere il maestro e farsela spiegare finché non l’avesse capita: «Ogni parola che non conosci è una fregatura in più, è una pedata in più che avrai nella vita», diceva don Lorenzo. La cultura che insegnava era viva, legata ai fatti e alle vicende della società. La finestra della scuola di Barbiana era costantemente spalancata sul mondo attraverso la lettura dei giornali e la presenza degli ospiti che venivano interrogati dai ragazzi perché ciascuno di loro era portatore di fatti, storie, problemi, opinioni con cui confrontarsi. Ospiti, come si è visto a proposito di Ingrao, spremuti come libri di testo da una scuola che non aveva libri, pagelle e voti. Messi spesso alla sbarra, «processati», in un corpo a corpo con i ragazzi. La scuola di Barbiana si interessò alla vita dei cappellani militari per capire il senso della loro scelta, il valore della coscienza e dell’obbedienza, il ruolo degli eserciti nella storia e il rapporto tra fede e uso della forza militare. Da una notizia – l’attacco dei preti con le stellette agli obiettori di coscienza – si dipanò la tela di una lezione in cui cultura e morale si intrecciavano. Era la vita nella sua quotidiana concretezza che offriva al priore e ai suoi ragazzi materiale di insegnamento. Nacque così in una sperduta parrocchia di una novantina di anime a metà del monte Giovi, nell’Appennino toscoromagnolo, tra le povere scarne pareti di una scuola messa in piedi da un prete per insegnare ai poveri il valore della parola, la Lettera ai cappellani militari, che segnerà una tappa fondamentale nella storia del movimento pacifista e non violento e che contribuirà in maniera decisiva al riconoscimento giuridico dell’obiezione. Le due opere più note di don Milani – L’obbedienza non è più una virtù (che accoglierà anche Lettera ai cappellani e Lettera ai giudici) e Lettera a una professoressa – sono nate all’interno della scuola, come lezioni, come esempi di una cultura fortemente radicata nella vita. I fatti entravano den31­­­­

tro la scuola di Barbiana e suscitavano nel maestro e nei suoi discepoli riflessioni e passioni. La vita trasformava la cultura e viceversa: in questa contaminazione sta uno dei segreti più affascinanti e attuali della scuola milaniana. Don Lorenzo impiegò una settimana per scrivere la Lettera ai cappellani. Il 23 febbraio era già pronta: un solo foglio scritto molto fitto e stampato in tremila copie, che inviò a undici giornali, soprattutto cattolici, ai sindacati e agli amici di Barbiana. E a tutti i preti fiorentini. Ci teneva tanto che i suoi confratelli la leggessero, e la inviò loro temendo che nessun giornale l’avrebbe ripresa, come spiegò il 22 febbraio in una lettera alla mamma. Anche in questa circostanza si evidenziò l’attaccamento del priore alla Chiesa, quel suo essere e fare tutto avendo come riferimento principale e privilegiato i vescovi, i preti e i fedeli. Gli interessava farle cambiare passo sul problema dell’obiezione di coscienza. Non aveva altre intenzioni. Non era un prete del dissenso sociale e politico. Successe che la Lettera fu pubblicata, ma non sui giornali cattolici, bensì sulla rivista comunista «Rinascita». Il che generò sospetti nel mondo cattolico e impedì, come sottolineò don Milani, una lettura scevra da condizionamenti e pregiudizi.

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La mia patria sono gli oppressi

Che cosa di così scandaloso ed evangelicamente errato il prio­re di Barbiana aveva scritto in quella Lettera ai cappellani militari di circa 15mila battute, tanto da provocare addirittura una denuncia penale con il conseguente processo? A rileggerla oggi, nonostante siano trascorsi alcuni decenni, se ne comprendono le ragioni in quanto la Lettera conserva intatta la sua carica eversiva. Con il suo stile nitido e serrato affrontava tre temi cruciali che ancora oggi sono di vibrante attualità: patria, guerra e ruolo dei cappellani militari. Don Milani si volle togliere qualche sassolino polemico dalle sue scarpe di prete montanaro e chiese ai cappellani, tanto per cominciare, che cosa li avesse indotti ad insultare gli obiettori di coscienza. Ma come si erano permessi? Mica erano stati chiamati in causa e quindi obbligati giocoforza a rispondere. In fondo, sembrava dire il priore, gli obiettori contro i quali voi cappellani vi accanite non sono che ventenni non violenti. Giovani che hanno pagato il loro no al servizio militare con il carcere: perché li insultate? A meno di pensare – insinuava don Milani – che l’esempio così evangelico di quei giovani pacifisti bruciasse come un rimorso o quantomeno «un’incertezza interiore» nell’animo di quei preti che anziché dire no agli eserciti e alle guerre vi si accodavano con la stola e l’aspersorio benedicente. Con un certo sprezzo intellettuale il priore rimproverava anche ai cappellani di aver usato con leggerezza e superficialità vocaboli più grandi di loro. 33­­­­

Come quello di patria. Per i cappellani l’obiezione di coscienza era un insulto e un gesto vile nei suoi confronti. Già, ma cos’è la patria?, chiedeva don Milani con una domanda che mirava dritta al nocciolo della Lettera e che sarà poi sviluppata in profondità nella Lettera ai giudici. Lui stesso si dava questa risposta: la patria è definita da valori quali la sovranità popolare, la libertà e la giustizia, pilastri di una democrazia matura e moderna. Rifiutava invece, il priore, la suddivisione del mondo in italiani e stranieri, così cara a generali e cappellani militari: «Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri», scriveva don Lorenzo nella Lettera. La suddivisione operata dal priore di Barbiana spariglia il gioco tradizionale delle guerre e l’ideologia ad esse sottesa come contrapposizione di popoli e patrie. Noi e gli altri. Italiani e stranieri. Guerre di confini geografici. Di nazioni contrapposte. Guerre in nome e per conto della patria come entità sovrastante le divisioni e i conflitti sociali. «Abbiamo fornicato con Franco» Don Milani critica alla radice la sovrastruttura ideologica della guerra fondata su una visione interclassista della patria. La difesa della patria, e quindi la guerra, altro non è per il priore che la difesa degli interessi materiali ed economici delle classi dominanti. Ogni guerra è classista. Come la guerra civile spagnola, in cui i fascisti italiani corsero in aiuto di Franco: «Un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo d’un milione e mezzo di morti 34­­­­

riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa», scrive don Milani. Una guerra classista, combattuta in nome e per conto dei ricchi. Citazione non casuale, quella del dittatore Franco, che nel 1939 instaurò in Spagna un regime dittatoriale di impronta reazionaria e fascista. Il priore di Barbiana in diverse occasioni denunciò l’appoggio di certi settori della Chiesa al caudillo spagnolo: «È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberismo di De Gasperi, con i congressi eucaristici di Franco», aveva scritto in Esperienze pastorali. E in Un muro di foglio e di incenso – lettera inviata a Nicola Pistelli, direttore di «Politica», periodico della sinistra Dc, che non la pubblicò; lo fece invece «L’Espresso» qualche anno dopo – don Milani se la prese con l’allora cardinale di Palermo Ernesto Ruffini che aveva lodato il regime di Franco: «Verrebbe voglia di dirgli che un dittatore sanguinario o un governante incapace fa più male alla Chiesa quando la protegge che quando la combatte». Dunque, due idee antitetiche di patria dividono i preti con le stellette dal priore di Barbiana. E, di conseguenza, diametralmente opposti risultano anche i mezzi individuati per difenderla. Scrive don Lorenzo nella Lettera: «E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi». Siamo giunti così al nodo principale dello scontro: al militarismo dei cappellani si contrappone il senso alto del priore per la democrazia: «E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto». Il no milaniano alla guerra riflette dunque un’esigenza 35­­­­

morale, ma avanza soprattutto un’istanza politica. Perché la guerra è la negazione della democrazia. E la democrazia di don Milani, che nel 1946 al referendum tra repubblica e monarchia votò per la prima, è imperniata sulla sacralità della Costituzione. La quale si fonda appunto, per il priore, su due pilastri: il voto e lo sciopero. Il ponte di Luciano Due i libri sacri, a San Donato e Barbiana: il Vangelo e la Costituzione. Che per il priore rappresentava la Carta dei valori in difesa dei poveri e dei figli dei contadini semi-analfabeti ai quali egli voleva fornire gli strumenti culturali per emanciparsi da una situazione di inferiorità economica e sociale. Il Vangelo, infatti, ha valore per i credenti, la Costituzione invece è la Carta comune, e tutti sono chiamati a rispettarli. Non a caso nella Lettera ai cappellani militari don Milani rinuncia ad usare argomenti religiosi (troppo facile dimostrare che Gesù era contro la violenza!) e sceglie di basarsi solo sulla Carta repubblicana fondamentale. Raccontano i suoi ex allievi che il priore si indignava molto quando la mattina vedeva arrivare alla scuola di Barbiana il piccolo Luciano, figlio di una famiglia di contadini poverissimi, dopo aver camminato da solo nel bosco per più di un’ora e mezzo. È mai possibile, si chiedeva, che un bambino di 11 anni debba essere costretto ad una fatica così inumana per andare a scuola mentre il «signorino» Pierino, il figlio del dottore di Lettera a una professoressa, veniva portato in auto dal babbo? Una mattina d’inverno Luciano cadde nel fosso d’acqua che sbarrava la strada e rischiò di affogare. Arrivò a Barbiana tutto inzuppato d’acqua. L’Eda e i ragazzi gli cambiarono i vestiti bagnati e lo riscaldarono. Il giorno dopo, sdegnato, il priore scese a Vicchio e chiese al sindaco una passerella sul fiume per fare attraversare in sicurezza il piccolo Luciano. Lo fece sventolando l’articolo 3 della Costituzione. Quello 36­­­­

più evangelico, in cui si sostiene che la Repubblica si deve impegnare a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano di fatto l’eguaglianza di tutti i cittadini. Vinse la sua battaglia, il priore: il Comune costruì subito il ponte sul ruscello1. L’articolo 3 della Carta costituzionale («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali») è il riferimento morale, civile e politico di don Milani. È questa eguaglianza civile, che richiama le Beatitudini evangeliche, ad orientare come una bussola il suo agire. A cominciare, appunto, dalla scuola dell’obbligo. Don Milani si è battuto perché ai suoi ragazzi venisse riconosciuto il diritto al sapere. Infatti, come aggiunge la seconda parte dell’articolo 3, la cui istanza di eguaglianza è l’anima sottesa a Lettera a una professoressa, spetta alla Repubblica «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Da segnalare come l’articolo 3, negli anni Sessanta, sia stato all’origine di molte storie di cristiani impegnati nel sociale e in politica, compresi alcuni sacerdoti come don Luigi Ciotti e don Pino Puglisi. Costituzione repubblicana e Concilio Vaticano II contribuirono a creare la stagione dei diritti sociali e delle lotte politiche di quegli anni. «Ho iniziato a pensare di entrare in magistratura negli anni Sessanta, quando nella società italiana affiorò con forza l’esigenza dei diritti fondamentali dei cittadini, come previsto dell’articolo 3 della Costituzione», racconta nella sua biografia Gian Carlo Caselli, cattolico e magistrato2.   Michele Gesualdi, Il ponte di Luciano, Lef, 2008.  Gian Carlo Caselli, Nient’altro che la verità, Piemme, 2015, p. 3.

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La storia di Mauro Per ricordare la centralità della Carta nell’insegnamento del maestro, i suoi ex allievi hanno realizzato a Barbiana il sentiero della Costituzione. Lungo il tratto di strada che attraverso il bosco arriva alla canonica sono stati posti 54 grandi pannelli, ognuno dei quali, illustrato con i disegni dei ragazzi di diverse scuole, contiene un articolo della Costituzione. Tra questi, proprio vicino alla scuola, spicca quello che riporta l’articolo 40: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». È uno degli articoli che più stava a cuore a don Milani. In Esperienze pastorali il priore di Barbiana dedica un intero capitolo al lavoro, affrontando soprattutto i problemi della disoccupazione e del sindacato. Con storie di sfruttamento e miseria. Come quella di Mauro, 12 anni. La sua famiglia è poverissima e ha bisogno dei suoi soldi per vivere. Così è costretto, nell’età in cui dovrebbe andare a scuola, a lavorare in un’azienda in cui svolge un lavoro a cottimo per 12 ore, senza assicurazione. Il ragazzo non ce la fa: troppo massacrante. La salute è a rischio. La famiglia, però, non gli può dire di smettere perché nel frattempo si è ammalato anche il babbo. Don Lorenzo si muove a compassione e decide di rivolgersi ad un industriale, il Baffi. Si è diffusa la voce, infatti, che assuma nuovi operai. Don Milani gli spiega la situazione del ragazzo e gli chiede di assumerlo: «È inutile padre che s’affatichi a raccontarmi. La mia amministrazione non può interessarsi a nessun motivo umanitario. Lei mi capirà certo. Qui c’è una legge sola: il bene dell’azienda. Che poi infine è il bene di tutti. Il ragazzo è in prova. Ma gli dica che non ammetto scioperi. Al primo sciopero vola». Ferito e umiliato don Milani incalza: «Ma almeno mi dica se è sicuro di assumerlo». Risponde il Baffi: «Padre, io non posso assicurarle nulla. Io ne licenzio 5 o 6 la settimana e ne assumo altrettanti. Il lavoro a me non manca mai. Ma da me 38­­­­

c’è un sistema speciale. A me piace l’ordine, la disciplina. Son sicuro che anche lei, padre, la pensa come me». No, non la pensa come il Baffi don Lorenzo. Scrive in Esperienze pastorali: «Io penso invece all’art. 40 della Costituzione: il diritto di sciopero. Il tragico è che un pazzo possa impunemente fare e disfare nella vita degli umili. Che la società sia organizzata in modo da proteggerlo. Il potere politico è in mano dei ricchi. Il potere della legge si infrange di fronte al potere economico. Le leve son ferme in quelle mani». Dal Baffi alla Ginori, un’azienda fiorentina in crisi. Quando gli operai proclamarono uno sciopero di solidarietà per i licenziati, un prete osservò che avrebbero fatto meglio a lavorare e inviare ai loro compagni il salario della giornata. «Discorso stupido. Lo sciopero è un’arma. Non ha nulla a che vedere con la beneficienza. Somiglia piuttosto alla spada dei cavalieri medioevali che veniva consacrata sull’altare in difesa dei deboli e degli oppressi. Se era cristiana quella spada, lo sarà un po’ più lo sciopero, arma incruenta! Se c’è uno sciopero che ha il più puro profumo del sacrificio cristiano è lo sciopero di solidarietà». Stare dalla parte dei poveri – gli operai licenziati, senza garanzie, oppressi – indusse don Milani a separare nettamente le sue responsabilità di pastore di anime da quelle di una parte del clero che coltivava rapporti di buon vicinato con il padronato. Sacerdozio civile L’architettura civile milaniana si basa sulla Costituzione e dispiega la sua dialettica democratica attraverso il voto e lo sciopero, cioè l’attività sindacale. Il maestro e il sindacalista sono i mestieri più in auge a Barbiana, il proseguimento idea­ le della scuola, in quanto figure che racchiudono una sorta di sacerdozio civile: la loro missione è di salvare i più deboli dall’ignoranza e dallo sfruttamento della società capitalista. 39­­­­

Non è pertanto un caso che molti ex allievi del priore, da Agostino Burberi a Michele Gesualdi, da Maresco Ballini a Sergio Bicchi, abbiano intrapreso l’attività sindacale. Interessante, ad esempio, la storia sindacale che affiora da una lettera quasi sconosciuta di Sergio Bicchi, operaio di Calenzano, a don Milani. Alla Banchini e Guastini, 50 dipendenti, venne richiesto lo straordinario ai lavoratori a fronte di urgenti impegni. In questa fabbrica lavoravano tre ex allievi di don Milani: oltre a Bicchi, allora militante socialista, Maresco Ballini, sindacalista Cisl di orientamento Dc, e Alvaro Sarti, militante comunista. I tre imposero una discussione approfondita sulla necessità di fare nuove assunzioni, anziché ricorrere a prestazioni fuori orario: «Alla fine votammo – ricorda Bicchi – mettendo nell’urna dadini o rondelle, a seconda della soluzione preferita, e riuscimmo a spuntarla noi. L’azienda dovette fare nuove assunzioni»3. Fin qui la storia che Bicchi raccontò a don Milani. La risposta del priore fu sorprendente e paradigmatica della sua idea sindacale e politica: «Se ho ben capito deve essere stato un bell’episodio, no? Voi tre con in tasca tre tessere differenti avete saputo risolvere nello stesso modo o nel modo giusto un problema che vi si presentava e che la maggioranza risolveva male». Tre tessere, tre riferimenti politici diversi che convergono in una soluzione unitaria. Merito, spiegò don Milani, della sua scuola: «Non v’ha dato un’idea unica e un’unica tessera, ma vi ha abituato a pensare le cose prima di farle e a non farle mai se non coerenti a quel che avete pensato. A questo ideale qui mi preme che tu resti fedele: essere sempre in ogni caso pensoso e coerente». E la fede? E la ricerca di Dio? Don Milani rispose che l’idea di fare le cose con consapevolezza era già sufficiente: «A

  In «Azione sindacale», giornale della Cgil di Prato, 1° maggio 1989.

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me questo basta e avanza. Perché se un giorno (come talvolta ti accade) ti senti rimescolare dentro il bisogno di Dio sarai pensoso di quello e coerente a quello e diventerai un buon cristiano. Se invece il pensiero di Dio non ti verrà, allora ti salverai lo stesso solo per l’essere stato pensoso e coerente alle altre cose che avrai creduto, per esempio al socialismo oppure alla causa dei poveri». Nella lettera a Bicchi don Milani prosegue poi affrontando il rapporto tra lui e i suoi allievi: «Voi mi siete tutti grati della scuola che v’ho fatto e avete ragione. Ma io ho avuto da voi esattamente tanta scuola quanta ne ho fatta. Né un minuto di più né un minuto di meno. E se ne so più di voi, è solo perché io c’ero tutte le sere e voi invece qualche volta non c’eravate. E se molti altri preti son più bischeri e impreparati di me è solo perché non hanno saputo mettersi alla scuola dei loro operai e tendere l’orecchio al loro insegnamento». «Sortirne tutti insieme è la politica» Oltre alle forme di lotta sindacale, l’altro strumento di cambiamento democratico della società, nella visione di don Milani, era il voto, cioè la politica. E infatti lo scopo di fondo della scuola di Barbiana era quello di formare dei cittadini in grado di esprimere la propria sovranità attraverso il voto. In una visione della politica alta, radicata nella profondità del Vangelo: «Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia», si legge in Lettera a una professoressa. La politica si intreccia così all’«I care», «mi interessa», della scuola di Barbiana, espressione massima della carità cristiana, secondo un’espressione cara al cardinale di Milano Carlo Maria Martini. «I care» sarà il titolo assunto dal congresso dei Ds svoltosi a Torino nel gennaio del 2000. A sceglierlo, l’allora segretario diessino Walter Veltroni che un anno prima era salito a Barbiana per rendere omaggio a don Milani. Due le frasi milaniane 41­­­­

su cui si soffermò Veltroni. La prima è quella che riguarda in qualche modo la politica con la sottolineatura che «il mio problema è il tuo problema». La seconda, invece, è quella che si riferisce alla scuola, la quale deve «includere e non escludere, come la società, altrimenti diventa come un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Ho visto tante Barbiana nel mondo e le ho viste nei Paesi poveri. Il problema della formazione è il grande problema del nostro tempo», concluse Veltroni. La chiave per comprendere il senso di don Milani per la politica è il classismo. «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola. Bisogna avere le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti ma schierati. Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero ad un livello superiore. Non dico a un livello pari dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più di tutto». Schierarsi dalla parte dei poveri con la totalità del proprio essere e senza pregiudizi: «Chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama. Voler bene al povero, proporsi di metterlo al posto che gli spetta, significa non solo crescergli i soldi, ma soprattutto crescergli il senso della propria superiorità, mettergli in cuore l’orrore di tutto ciò che è borghese, fargli capire che soltanto facendo tutto il contrario dei borghesi potrà passar loro innanzi ed eliminarli dalla scena politica e sociale». Se la politica deve tendere al cambiamento della società, don Milani riteneva che «il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia, come la può avere solo un povero che è stato a scuola». Il classismo milaniano si richiama al Vangelo, non a Marx, per cui gli ultimi non sono una classe sociale, ma una condizione mutevole dell’uomo. Il metro del priore di Barbiana per determinare le gerarchie sociali è l’adesione alle Beatitudini evangeliche. 42­­­­

Un giorno don Lorenzo mostrò a Francuccio Gesualdi, che allora aveva nove anni, una fotografia in cui si vedeva un uomo legato e un altro uomo che gli puntava il dito addosso con gesto accusatorio. «Per chi sei te di questi due?», gli chiese. «Per questo», rispose il bambino indicando l’uomo legato. Il quale poteva essere il più ricco e potente del mondo, ma in quella condizione diventava il più indifeso. La Costituzione pacifista Nella Lettera ai cappellani militari don Milani assume la Costituzione, e non la patria, come misura di verifica della legittimità delle guerre combattute dall’Italia, a partire dal 1861. Una misura fondata su due articoli: i numeri 11 («L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...») e 52 («La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino»). Nella risposta al comunicato dei cappellani militari, il prio­ re prende in esame la storia dell’Italia post-risorgimentale e le guerre intraprese in nome della patria per giungere a due conclusioni di forte impatto politico e religioso. La prima: nessuna guerra, salvo forse quella partigiana, poteva essere definita giusta e legittima. «Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra ‘giusta’ (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i ‘ribelli’, quali i ‘regolari’? È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo, per esempio, quali sono i ‘ribelli’? Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati». La seconda: le guerre dell’età contemporanea non sono più conflitti tra eserciti, ma colpiscono le vittime civili. Don43­­­­

ne, anziani e bambini, soprattutto. I più inermi e indifesi. Le statistiche ufficiali dell’Onu sulle guerre dell’ultimo mezzo secolo confermano l’analisi di don Milani: il novanta per cento dei morti e dei feriti sono civili. Se dunque le guerre italiane dell’ultimo secolo erano state illegittime, don Milani concludeva che i cappellani militari avrebbero dovuto educare i soldati all’obiezione anziché all’obbedienza militare. Il loro torto era quello di tradire il dovere sacerdotale di obbedire a Dio anziché agli uomini. Torto, agli occhi del priore, reso più grave per l’attacco condotto nei confronti di giovani sbattuti in carcere per aver obiettato in nome di Dio e della loro coscienza: «Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene». Con un argomentare tagliente e provocatorio, don Milani rovesciava l’accusa dei cappellani. Anziché attaccare gli obiettori, dovevano essere loro per primi, in nome del loro sacerdozio divino, a farsi paladini dell’obiezione di coscienza. E invece non solo non avevano educato i soldati a disobbedire alle guerre ingiuste, ma neppure si erano adoperati per assistere in guerra feriti e moribondi. Funzione umanitaria che, peraltro, nella Lettera ai giudici il priore condannerà sul filo di una critica avanzata da Gandhi alla Croce Rossa: «Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra». Don Milani, difendendo l’obiezione di coscienza e dichiarando illegittima qualsiasi guerra, finì per tagliare alla radice la ragion d’essere dei cappellani militari. Obiezione e obbedienza Va detto in realtà che per don Lorenzo i cappellani militari furono solo un pretesto per scrivere una lettera che ricordava 44­­­­

alla sua Chiesa, al magistero papale ed episcopale, al clero e ai fedeli, l’inconciliabilità della guerra con la teologia del Getsemani, quando Gesù ordinò ad uno dei suoi amici, che aveva colpito un servo del sommo sacerdote: «Rimetti la tua spada al suo posto». No spada. No guerra. Scrive don Milani rivolgendosi ai cappellani: «Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?». La Lettera ai cappellani militari esprime il rifiuto delle divisioni basate sulle nazioni, le razze, i confini geografici, rifiuto fondato sull’universalità del messaggio cristiano per cui ogni uomo è fratello all’altro. Ma anche sulla consapevolezza laica che di fronte al crinale apocalittico occorre uno scatto unanime del genere umano in punto di perdizione.

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Non uccidere

La battaglia religiosa e civile di don Milani a sostegno dell’obiezione di coscienza non fu una presa di posizione individuale, ma si inserì nel fertile e inquieto mondo cattolico della Firenze degli anni Sessanta, che La Pira considerava «città laboratorio». Il dibattito riguardò temi cruciali come il rischio della guerra nucleare, la critica della concezione teologica della guerra giusta, la difesa dell’obiezione di coscienza e la proposta di soluzione legislativa portata avanti da Nicola Pistelli (1929-1964), leader della sinistra Dc, morto a soli 35 anni in un incidente stradale. Pistelli, legato a La Pira e alla sinistra di Base che faceva riferimento a Ciriaco De Mita e a Giovanni Marcora, fu autore di una proposta di legge sull’obiezione di coscienza che fece da battistrada al testo che verrà approvato dal parlamento italiano il 15 dicembre del 1972. Relatore della legge, la numero 772, non a caso fu proprio Marcora, che poté usufruire del lavoro fatto da Pistelli e dalle battaglie condotte dai cattolici fiorentini1. Tutto partì da un gesto scandaloso del sindaco «santo» Giorgio La Pira: la proiezione privata, il 18 novembre 1961, del film Tu ne tueras point (Non uccidere) del regista francese Claude Autant-Lara. Un film simbolo sull’obiezione di coscienza, che all’inizio degli anni Sessanta venne «proibito»

1   Lorenzo Milani, I care ancora. Lettere, progetti, appunti e carte inedite e/o restaurate, a cura di Giorgio Pecorini, Emi, 2001.

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in diverse nazioni, fra cui l’Italia. La Pira non esitò a sfidare i divieti della censura e fece proiettare il film di fronte a una platea di 700 invitati, tra i quali figuravano giornalisti e uomini di cultura. Otto mesi prima, a marzo, La Pira era stato eletto sindaco per la terza volta. La notizia rimbalzò su tutti i giornali nazionali. Per il prestigio del personaggio: nato a Pozzallo in Sicilia nel 1904 (morirà a Firenze nel 1977), La Pira approdò nel capoluogo toscano nel 1926 e dopo la guerra fu protagonista della Costituente, poi sottosegretario al Lavoro con Amintore Fanfani, infine sindaco a Palazzo Vecchio dal 1951 al 1957 e punto di riferimento della sinistra cattolica e del mondo pacifista. Ma soprattutto perché la terza giunta di La Pira fu una delle prime di centrosinistra in Italia. Il Psi di Nenni entrò nelle stanze dei bottoni delle amministrazioni comunali per poi fare il suo ingresso, nel 1963, nel governo nazionale presieduto da Aldo Moro. Soprattutto negli anni Cinquanta, nella stagione della Chiesa di papa Pacelli e nell’Italia politica del centrismo degasperiano, La Pira divenne con Giuseppe Dossetti (19131996) – che successivamente, persa la battaglia politica nella Dc di De Gasperi, decise di farsi monaco – il punto di riferimento del cattolicesimo avanzato in Italia. Progressista sul piano sociale (difese gli operai delle fabbriche a rischio chiusura e si batté per la requisizione delle case sfitte) e su quello politico (apertura ai socialisti e fautore del passaggio dal centrismo al centrosinistra), in politica estera La Pira assunse, come Dossetti, una posizione terza e neutrale nello scontro tra Usa e Urss, propugnando un dialogo finalizzato al superamento della guerra fredda. In questo contesto organizzò a Palazzo Vecchio convegni sul Mediterraneo in cui radunò i rappresentanti delle tre religioni monoteiste: cristiani, ebrei e musulmani. Era fedelissimo alla Chiesa quanto «eretico» sul piano degli atteggiamenti sociali e politici. Un po’ come don Milani, di cui, ricambiato, aveva grande stima. 48­­­­

Le accuse di Andreotti e del Vaticano Non fu quindi un caso che, venendo meno agli indirizzi del Vaticano e del governo, La Pira fece proiettare Non uccidere. Il film narrava una storia realmente accaduta, quella di due giovani, un cattolico francese e un seminarista tedesco, che si ritrovarono prigionieri nello stesso carcere ma per ragioni diametralmente opposte. Il giovane francese si era rifiutato di indossare la divisa militare perché, come cristiano, sostenne di avvertire come un tradimento del Vangelo l’uso delle armi e l’addestramento all’uccisione di altri uomini. Il giovane seminarista tedesco si era invece consegnato alla giustizia transalpina perché, obbedendo ad un ordine dei suoi superiori, aveva sparato e ammazzato un partigiano. L’esaltazione evidente dell’obiezione di coscienza, allora considerata un reato, impedì al film di ottenere il nulla osta della commissione ministeriale sulla censura. La scandalosa pellicola e il suo regista furono accusati di istigazione a delinquere. A La Pira invece il film piacque molto e prima della proiezione spiegò che la sua decisione muoveva dalla drammatica consapevolezza che il mondo era sull’orlo di un crinale apocalittico: «Con la pace tutto è guadagnato, con la guerra tutto è perduto»2. La proiezione fiorentina fece scoppiare un caso nazionale. Il ministro della Difesa Giulio Andreotti e il direttore dell’«Osservatore romano» Raimondo Manzini criticarono apertamente La Pira. Dal quotidiano della Santa Sede fu accusato di aver tenuto un atteggiamento «equivoco» verso il film finendo così per «accreditare il sottinteso anticattolico di Non uccidere», commentò Manzini il 20 novembre del 1961. E la Curia fiorentina? Evitò lo scontro diretto con il sindaco «santo» ma boicottò la proiezione del film, organizzando una solenne cerimonia religiosa in suffragio dei tredici aviatori italiani uccisi l’11 novembre a Kindu, in Congo. Durante   Lancisi, No alla guerra! cit., p. 25.

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l’omelia, però, l’arcivescovo Ermenegildo Florit denunciò la presenza di «germi di irrequietezza, di indisciplina, di insincerità nel mondo attuale», come riportò «La Nazione» il 19 novembre. Chiara allusione alla decisione di La Pira. Le critiche e il boicottaggio del film intendevano rassicurare il mondo militare con un messaggio alquanto esplicito: la Chiesa non stava dalla parte degli obiettori del servizio militare e non benediceva i loro amici come La Pira, divenuto nei decenni seguenti un personaggio amato nella Chiesa, ma a quei tempi scomodo e inviso. Di qua e di là del Tevere. A suo modo si può ritenere anche La Pira un obiettore di coscienza, in quanto disobbedì all’ordine di non proiettare Non uccidere. Disobbedienza che pagò duramente. Nei suoi confronti, infatti, l’allora procuratore della Repubblica Raffaele Cantagalli promosse un’azione penale in cui il sindaco venne accusato di aver fatto proiettare il film senza il permesso dell’autorità e la licenza del questore di Firenze. Il ruolo di Florit Per il mondo cattolico lapiriano il 1961 fu un anno cruciale. Per le ragioni già richiamate – l’apertura a sinistra e la proie­ zione del film Non uccidere –, ma anche per la morte il 22 dicembre del cardinale Elia Dalla Costa, figura centrale del cattolicesimo fiorentino del dopoguerra. Dalla Costa, nato nel 1872 a Villaverla, in provincia di Vicenza, nominato arcivescovo di Firenze nel 1931 e poi cardinale nel concistoro del 1933, si distinse per un’aperta avversione al fascismo. Durante la storica visita nel 1938 di Adolf Hitler a Firenze, Dalla Costa sbarrò le finestre del palazzo arcivescovile e non partecipò alle celebrazioni ufficiali, spiegando che non poteva accettare che si venerassero «altre croci che non quella di Cristo», alludendo evidentemente a quella uncinata della svastica. Al cardinale Dalla Costa viene riconosciuto anche il merito storico di aver consentito nella sua diocesi l’affermarsi 50­­­­

del progressismo cattolico di matrice lapiriana. Si racconta che un giorno La Pira prese sottobraccio padre David Maria Turoldo (1916-1992), religioso dei Servi di Maria e poeta friulano, e gli implorò: «David, vieni a Firenze a fare un po’ di confusione». Dove «confusione» mischiava insieme ribellione e condivisione. Erano gli anni Cinquanta. A Firenze e in Toscana intorno a La Pira si erano coagulati intellettuali, preti e monsignori in odore di eresia. Da don Lorenzo Milani allo stesso Turoldo. Da padre Ernesto Balducci (1922-1992), radici maremmane, a Pistelli. Dal viareggino don Sirio Politi (1920-1988), primo prete operaio in Italia, al vescovo lucchese Enrico Bartoletti, nato nel 1916 a San Donato di Calenzano, la stessa parrocchia del cappellano don Milani, e morto nel 1976, quattro anni dopo la nomina a segretario della Cei, la Conferenza episcopale italiana. E poi l’esperienza innovativa di don Zeno Saltini (19001981) a Nomadelfia, nei pressi di Grosseto, l’ecumenismo del livornese mons. Alberto Ablondi (1924-2010) e la scelta della teologia della liberazione di don Arturo Paoli (1912-2015), prete di Lucca. Ogni nome una storia, una battaglia, un azzardo. Uno stuolo di «folli di Dio», come li ha definiti lo storico della Chiesa Alberto Melloni. Storie legate da fili sottili e robusti, malgrado l’emarginazione subìta dalle autorità ecclesiastiche del tempo. Essi rappresentavano un mondo scomodo per la Chiesa e la Dc che, agli occhi del Vaticano, l’anziano cardinale Dalla Costa probabilmente non riusciva più a tenere sotto controllo. Da qui la decisione da parte della Santa Sede, secondo una diffusa ricostruzione storica, di inviare a Firenze mons. Florit (19011985) come ausiliario di Dalla Costa con l’obiettivo di spegnere il fuoco ereticale dei cosiddetti «folli di Dio» e di contrastarne l’influenza politica nell’Italia che si preparava alla rivoluzione del Concilio Vaticano II e all’ingresso della sinistra al governo. Firenze era infatti ritenuta allora un «covo» di cattolici critici con la Chiesa di papa Pacelli e con la Dc di De Gasperi. 51­­­­

Sandra Bonsanti, in un’inchiesta pubblicata da «Il Mondo» l’11 luglio 1971, significativamente intitolata Una mano di Ottaviani a Firenze (il cardinale Alfredo Ottaviani era in quegli anni a capo del potentissimo Sant’Uffizio), riferisce che «Il benvenuto riservato a Florit da Elia Dalla Costa non fu certo molto caloroso». Davanti al suo clero il cardinale si sarebbe lamentato, secondo quanto riportato dalla Bonsanti, di non essere stato consultato: «Anticamente, quando un vescovo sentiva che stava diventando vecchio, era lui a chiedere che gli venisse mandato in aiuto qualcuno più giovane... Ma questo qui (rivolgendosi a Florit, NdA) me lo hanno imposto da Roma!». La ricostruzione della Bonsanti trova conferma nel carteggio tra la mamma di don Milani e la figlia Elena, pubblicato da Giorgio Pecorini. Infatti, in una lettera del 18 ottobre 1954, la signora Alice Milani scrisse: «Pare che il coadiutore (Florit, NdA) sia stato mandato contro il desiderio del cardinale e quasi senza avvertirlo»3. Goss e la non violenza Si inscrive nel fervore e nelle battaglie pacifiste del mondo cattolico fiorentino l’interesse di don Milani per i temi della non violenza e dell’obiezione di coscienza. Un interesse che si può datare a partire dal 1962 quando, il 17 novembre, il priore di Barbiana tornò nella «sua» Calenzano per partecipare ad una conferenza di Jean Goss (1912-1991), un cattolico francese attivista non violento, membro del movimento internazionale per la riconciliazione delle Chiese, incaricato dal cardinale Ottaviani di redigere un dossier sulla guerra per il Concilio Vaticano II. «Sapevi che Ottaviani è un sostenitore appassionato da anni della più moderna interpretazione anzi applicazione delle condizioni di San Tommaso per la guerra giusta e cioè

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Milani, I care ancora cit., p. 411.

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che nega possa oggi esserci una guerra giusta?», scrisse don Milani a Pecorini il 17 dicembre 1962. La lettera documenta che il priore di Barbiana condivideva l’opinione, attribuita al cardinale Ottaviani, secondo cui nessuna guerra poteva più essere definita giusta, acquisizione che diverrà poi centrale nella Lettera ai giudici. La conferenza di Goss, in cui don Milani si rese disponibile a fare da interprete, si tenne nella sala del consiglio comunale di Calenzano. Il tema era attuale e scomodo non solo per il fatto che, come si è visto, in Italia non c’era ancora una legge sull’obiezione di coscienza, ma soprattutto perché, trattandosi di un pubblico cattolico, la Chiesa non aveva ancora assunto una posizione in materia. «La Chiesa non intende pronunciare in questa sede un giudizio morale sulla obiezione di coscienza in se stessa», affermeranno i padri del Concilio tre anni dopo, il 6 dicembre 1965, nel corso delle polemiche provocate dalla Lettera milaniana ai cappellani militari. Bisognerà attendere l’enciclica Populorum Progressio, promulgata da Paolo VI, che benedirà il fatto «che in talune nazioni il servizio militare può essere scambiato in parte con un servizio civile, puro e semplice». Era il 26 marzo 1967, e i processi a don Milani e padre Balducci erano stati già celebrati. Il che dà la misura di quanto il priore di Barbiana e il mondo cattolico fiorentino avessero anticipato quelle che poi nel tempo diverranno le posizioni ufficiali della Chiesa. Ma torniamo a Goss e alla sua conferenza. Don Milani non si limitò a tradurre l’attivista non violento francese, ma intervenne direttamente, provocando, come era facile intuire, vivaci polemiche da parte soprattutto di don Luigi Stefani (1913-1981), un prete profugo di origine istriana, ex cappellano militare, noto a Firenze per le sue posizioni anticomuniste e tradizionaliste. Quest’ultimo non digerì l’accusa rivolta da don Milani alla Chiesa cattolica di essere in evidente ritardo rispetto alle altre Chiese sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Così decise di alzarsi e di prendere la parola per attaccare il priore di Barbiana: «Caro don Milani, i panni 53­­­­

sporchi si lavano in famiglia», polemizzò. «No, no, qui si fa il contrario: i panni sporchi si lavano in pubblico. C’è un comandamento, ricordati, che impone di non dire falsa testimonianza: io non sono qui per fare réclame alla ditta!», fu la replica. La ditta a cui si riferiva don Milani era la Chiesa. Per il priore di Barbiana era come una mamma: l’amava quasi alla follia e tuttavia non accettava che le venissero cucite addosso bugie. La verità era la forma di amore più alto. Per lui valevano le parole del Vangelo: solo la verità rende liberi. Libertà e verità rappresentano il binomio su cui si poggia il processo interiore che è alla base dell’obiezione di coscienza. La polemica tra i due preti rimbalzò subito in Curia, dove la presenza di don Milani alla conferenza di Calenzano non piacque affatto. Gli venne pertanto intimato di non recarsi più a Calenzano e in altre parrocchie senza una preventiva autorizzazione della Curia fiorentina. Guai ad uscire dal confino di Barbiana, in cui era stato mandato per punizione nel dicembre 1954. E quando un giorno il vicario di Florit, mons. Giovanni Bianchi, gli rimproverò di non partecipare mai agli esercizi spirituali con gli altri preti della diocesi, don Milani replicò secco: «I miei esercizi spirituali sono Barbiana». Don Milani non fu il solo a scrivere una lettera ai cappellani militari. Anche don Bruno Borghi (1922-2006), prete operaio, amico molto stimato dal priore, prese carta e penna e indirizzò ai cappellani militari una lettera in cui scrisse: «Quella degli obiettori è una vocazione ‘profetica’ e quindi non di tutti, ma essi sono necessari per riproporre a tutti noi l’ideale cristiano ed umano, che ci impegna a lottare (...) per creare nuove strutture di convivenza umana, non basate sulle armi, sulla paura, sulla guerra calda e fredda, ma sul messaggio evangelico»4. Don Borghi, compagno di seminario di don Milani, è stato personaggio di spicco, anche se discreto e appartato, di

  Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 533.

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quel laboratorio politico ed ecclesiale che fu il cattolicesimo fiorentino degli anni Cinquanta e Sessanta. Divenne prete operaio e la sua scelta di vicinanza ai poveri si sviluppò nel segno della lotta di classe. Il suo classismo influenzò quello milaniano. La lettera di don Borghi, firmata anche da figure di primo piano del mondo cattolico fiorentino, e pubblicata da «Politica» con il titolo La rissa, aveva un altro orizzonte rispetto a quella di don Milani: si soffermava soprattutto sulla posizione della Chiesa nei confronti degli obiettori di coscienza, sul ruolo dei cappellani e sul rapporto tra i valori del Vangelo e quelli insiti nel gesto degli obiettori di rifiutare la divisa militare. Don Milani la definì una «bellissima lettera», ma aggiunse che la sua era «più velenosa». E le immediate reazioni polemiche lo confermarono. La condanna di Gozzini Don Milani non era certo un prete che le mandava a dire. Polemizzava con tutti. Anzi, più uno era potente e più la sua critica si trasformava in una lama sottile. Fu capace di definire il suo vescovo «un indemoniato», per dire. Mai però disubbidì agli ordini dei suoi superiori. In seminario il rettore mons. Giulio Lorini giunse ad auspicare che il giovane Lorenzo se ne tornasse a casa sostenendo che finalmente sarebbe «tornato l’ordine». Era già allora una figura scomoda per la sua intelligenza e autonomia di pensiero fuori del comune. L’espulsione però era impossibile perché Lorenzo – racconta don Bruno Brandani – «era un fanatico dell’osservanza della regola». I superiori non avevano appigli per mandarlo via. «Se si ubbidisce nelle cose piccine, ordinarie, avrà più efficacia il nostro disubbidire nelle cose grosse, quando può essere un dovere disubbidire», era solito ripetere ai suoi compagni. Ad esempio, vigeva una regola che proibiva ad un seminarista di andare nella stanza dei compagni senza autorizza55­­­­

zione; Lorenzo l’applicava alla lettera: «Non c’era verso di entrare in camera sua», ha ricordato don Bruno Brandani, compagno di seminario e uno dei migliori amici del priore di Barbiana5. Sempre obbediente, ad eccezione di una volta. Quella del dicembre 1962, quando fervevano i preparativi per organizzare una manifestazione di solidarietà nei confronti dell’obiettore cattolico Giuseppe Gozzini, fissata per il giorno di Natale, e don Milani decise di parteciparvi assieme ai suoi ragazzi. Per una ragione semplice. Gozzini (da non confondere con Mario, futuro senatore della Repubblica e padre dell’omonima legge sull’ordinamento giudiziario, vedi il capitolo successivo) era, come abbiamo già visto, un fervente cattolico. «Una rarità tra gli obiettori che son tutti protestanti. E loro sono assistiti dalla solidarietà della loro chiesa. Giuseppe no», spiegò don Lorenzo. Il rifiuto della divisa militare e delle armi costò a Gozzini il processo davanti alla corte marziale. La data dell’udienza fu fissata per il 20 dicembre. Nonostante l’ordine curiale di non spostarsi da Barbiana senza il permesso del vescovo, don Milani pensò che fosse importante partecipare alla manifestazione. La considerò un’occasione per far lezione ai ragazzi. Far capire loro l’importanza del gesto di Gozzini, della solidarietà, del pagare di persona per un ideale. Della disobbedienza finita sotto processo. Era uno di quei casi in cui l’obbedienza non gli deve essere parsa una virtù. Per evitare però di essere bloccato da un divieto preventivo, il priore tenne tutti all’oscuro della sua decisione. Sosteneva, infatti, che i preti dovevano assumere le loro posizioni con coraggio, e solo dopo informare il vescovo. Un apparente paradosso che sottolineava l’importanza di un’obbedienza responsabile e non acritica. Così raccomandò al suo amico Pecorini che la notizia ri-

  Le due citazioni di don Bruno Brandani sono ivi, pp. 82-83.

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manesse «segretissima perché non voglio che mi arrivi la proibizione prima del fatto». Il processo venne tuttavia rinviato all’11 gennaio, di conseguenza saltò anche la manifestazione natalizia. Intanto il processo a Gozzini fece discutere, se ne occupò perfino il «Times» e divenne uno dei temi più dibattuti di quel primo scorcio del 1963, segnato dall’apertura ai socialisti e dalla promulgazione, l’11 aprile, dell’enciclica Pacem in terris, in cui Giovanni XXIII, in una sorta di testamento del suo pontificato (morirà due mesi dopo, il 3 giugno), auspicava l’ascesa delle classi popolari e la fine dei conflitti sparsi nel pianeta. Intanto un documento elaborato in carcere da Gozzini fu recapitato nelle redazioni dei giornali. Vi si sosteneva che «ogni volta che un uomo rifiuta di diventare complice di una situazione ingiusta, di eseguire ordini o di compiere azioni contrarie ai suoi principi, si ha obiezione di coscienza»6. Ed è interessante perché si tratta dello stesso concetto che ritroveremo nella Lettera ai giudici di don Milani, cioè il dovere di disobbedire a ordini ingiusti come espressione di una più profonda obbedienza alla propria coscienza e ai valori in cui si crede. Giunse infine l’11 gennaio 1963, il giorno del processo. Gozzini fu condannato a sei mesi senza condizionale. Ai giudici spiegò di essere socio dell’Azione cattolica e di trarre dai principi evangelici e della morale cattolica le ragioni del suo rifiuto ad indossare la divisa militare. Argomenti che non fecero breccia nei giudici che nella loro sentenza posero in evidenza due aspetti, poi riproposti nei processi a padre Balducci e don Milani: l’interpretazione in senso pacifista del messaggio evangelico era in contrasto con la dottrina cattolica, e comunque spettava allo Stato la funzione di «metro della moralità e della socialità di un paese ai fini penali». La sentenza ribadiva il primato dello Stato sulla Chiesa anche sulle questioni etiche, rafforzato da una visione eccle-

  Lancisi, No alla guerra! cit., p. 28.

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siale fondata esclusivamente sul potere cogente del magistero e della dottrina cattolica. La difesa di Gozzini fece sobbalzare sulla sedia il solito don Stefani. Che prese subito carta e penna per precisare, nella sua qualità di assistente diocesano femminile dell’Azione cattolica, che «il gesto arbitrario» di Gozzini lo poneva «al di fuori delle norme di ubbidienza alle legittime autorità dello Stato e quindi contro i principi della morale cattolica»7. Il giornale fiorentino «La Nazione» ospitò il corsivo del prete istriano accanto alla cronaca del processo sposandone di fatto le tesi sostenute. Don Stefani inviò il suo commento anche all’altro quotidiano della città, il «Giornale del Mattino», che non lo pubblicò. L’indomani diede invece spazio a un comunicato dell’Azione cattolica fiorentina che sconfessava don Stefani, sostenendo che riguardo al processo a Gozzini nessuno era stato autorizzato a parlare a nome dell’associazione. Atteggiamenti contrastanti che davano la misura del clima di polemica e di divisione che si viveva in quegli anni a Firenze sui temi della guerra, della pace, del disarmo e dell’obiezione di coscienza. Padre Balducci sotto processo Al corsivo di don Stefani rispose il 13 gennaio lo scolopio padre Balducci, una delle figure più note e seguite del cattolicesimo progressista del Novecento. Nato nel 1922 a Santa Fiora, sull’Amiata, Balducci, figlio di un minatore, è sempre rimasto attaccato alla sua Maremma. Un legame che lo portò a teorizzare il rapporto tra il villaggio e il pianeta. Balducci, affatto nostalgico del passato, sosteneva l’esigenza, nell’era della globalizzazione, di recuperare i valori del paese inteso come villaggio, in definitiva delle proprie radici. Nei suoi libri

  Ivi, p. 29.

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ha manifestato spesso quasi un sentimento di colpa per l’abbandono del mondo povero dei minatori per vivere in quello agiato dei chierici. Riguardo alla Chiesa, Balducci ha camminato sul crinale tra dentro e fuori. Fervente lapiriano negli anni Quaranta e Cinquanta, nel 1959 fu costretto dalla Curia a lasciare Firenze. Ma proprio in esilio, prima a Frascati e poi a Roma, il padre scolopio entrò in amicizia con il prefetto di ferro del Sant’Uffizio, il cardinale Alfredo Ottaviani: «Mancò poco che finissimo a giocare insieme a scopone»8, raccontò una volta Balducci per sottolineare il lato umano che si annida anche nel rigore freddo delle istituzioni. Negli anni Sessanta e Settanta Balducci, attraverso la rivista «Testimonianze» fondata nel 1958 (Paolo VI e il manager calcistico Italo Allodi furono tra i primi abbonati, ad indicare la trasversalità del suo messaggio), sostenne la riforma del Concilio e avviò il dialogo tra cristianesimo e marxismo. Inoltre, in sintonia con La Pira e don Milani, si impegnò sul fronte del riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Per questo non poteva lasciar passare sotto silenzio il corsivo di don Stefani contro Gozzini. E lo fece con un articolo-intervista dal titolo La Chiesa e la patria pubblicato dal «Giornale del Mattino» – quotidiano nato nel 1947 e chiuso il 31 luglio 1966, di ispirazione democristiana (Amintore Fanfani e La Pira i suoi riferimenti politici), che fu diretto tra gli altri da Ettore Bernabei e che annoverò tra le sue firme quelle di Oriana Fallaci e del poeta Mario Luzi. Padre Balducci vi sostenne che la Chiesa aveva sempre adottato la nozione di guerra giusta e guerra ingiusta, concludendo che, dopo l’invenzione delle armi nucleari, «essa ha in maniera autorevole dichiarato che una guerra totale sarebbe inevitabilmente ingiusta». Il padre scolopio anticipò così la conclusione della Lettera

  Testimonianza resa all’autore.

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ai giudici, secondo cui nell’era contemporanea la guerra si è trasformata a tal punto nei mezzi (nucleari) e negli effetti (le vittime sono soprattutto i civili) che è venuta meno qualsiasi legittimità sul piano della dottrina cattolica. «La guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una guerra giusta né per la Chiesa né per la Costituzione. A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la sopravvivenza della specie umana», scriverà don Milani ai giudici. Il Sant’Uffizio assolse, il tribunale condanna L’intervista di Balducci finì sotto processo. Due zelanti cittadini, Francesco Bacci e Guglielmo Francois, lo denunciarono alla procura della Repubblica per apologia di reato e vilipendio delle istituzioni e delle leggi. Mentre un terzo cittadino, Guido Adami Lami, inoltrò un esposto al provinciale dell’ordine religioso degli Scolopi e chiese anche l’intervento del Sant’Uffizio e del Tribunale ecclesiastico diocesano. Fu lo stesso Balducci, appresa la notizia dell’esposto al Sant’Uffizio, a recarsi di persona in Vaticano per chiedere al monsignor Parente un giudizio teologico sull’articolo incriminato. La sentenza fu positiva: «Nulla da condannare». Balducci preparò anche un dossier sulla vicenda e lo trasmise alle gerarchie ecclesiastiche. «Allo stato attuale delle fonti non sono noti gli itinerari e gli esiti di questo dossier, certo è che nell’ottobre del 1964, pochi mesi dopo la condanna definitiva in Cassazione – riferisce la storica Bruna Camaia­ni Bocchini –, Balducci veniva ricevuto da Paolo VI, che aveva sempre mostrato stima e attenzione nei suoi confronti; inoltre, per esplicito intervento della Segreteria di Stato, nel 1965 il religioso poteva ritornare a Firenze, da dove era stato ‘esiliato’ a Frascati dal 1959»9.

9   Centro don Milani-Comune di Vicchio, A trent’anni dalla ‘Lettera ai giudici’ di don Milani, Lef, 1998, p. 57.

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La vicenda di padre Balducci, come quella di don Milani, mise in risalto un atteggiamento della Santa Sede non ostile, anzi tollerante, talvolta quasi di cauto favore, rispetto alle posizioni scomode assunte dai due preti fiorentini sull’obiezione di coscienza e sui temi ad essa connessi. Di diverso segno fu invece l’iter del processo penale. Il giudice istruttore accolse le conclusioni del pubblico ministero che non ravvisò nelle parole di padre Balducci i reati ipotizzati nella denuncia e quindi decise di archiviarla. L’archiviazione venne però impugnata dal procuratore generale presso la Corte di Appello di Firenze Ferruccio Perfetti, che promosse addirittura un giudizio per direttissima contro il padre scolopio e il direttore del «Giornale del Mattino» Leonardo Pinzauti per apologia di reato. Il 7 marzo 1963 si tenne il processo. Gli imputati vennero assolti con formula piena. In una lettera a Pecorini del 9 marzo don Milani definì «saggio» il tribunale fiorentino «perché la questione oggi è a un punto in cui Chiesa e Stato dovrebbero spararsi a vicenda, lo Stato cioè perseguitare la Chiesa che dovrebbe gridare forte che ogni guerra (perfino difensiva) è oggi in sé immorale. E lo Stato non lo può fare perché ormai se ne sono accorti anche K e K (Kennedy e Krusciov) e tra poco se ne accorgeranno anche altri capi di Stato e piano piano lasceranno cadere la retorica della Patria e dell’Esercito». Su guerra giusta, patria ed esercito il clima storico, caratterizzato dalle speranze suscitate da Kennedy e Krusciov, sembrò a don Milani più avanzato delle posizioni dello Stato e della Chiesa. Le lancette dell’orologio-Italia erano più indietro di quelle del resto del mondo. La saggezza dei giudici fiorentini consisteva nell’aver preso atto della discrepanza tra la legge e la storia. Urgeva alle porte un mondo nuovo, al quale contribuì in maniera decisiva, in quello scorcio del 1963, anche l’emanazione, come si è detto, dell’enciclica Pacem in terris, che, invocando con forza la pace come alternativa al pericolo incombente della guerra atomica, diede impulso al movimento pacifista. 61­­­­

Ma nella storia umana il nuovo sboccia sempre attraverso un parto travagliato, con frequenti e inevitabili colpi di coda. Come nella vicenda del processo a padre Balducci. Il procuratore Perfetti, infatti, non si diede per vinto e ricorse in appello. Il processo si tenne il 15 ottobre 1963. Questa volta lo scolopio venne condannato a otto mesi con la condizionale e le attenuanti generiche. Il 1° giugno 1964 la Cassazione confermerà definitivamente la condanna. È probabile che l’accanimento giudiziario, reso evidente anche dai tempi molto ravvicinati dei processi, rispondesse all’esigenza politica del tempo di frapporre una sorta di tolleranza zero nei confronti dell’incalzante movimento pacifista. Scosso dalla condanna, padre Balducci corse nella sua Maremma a pregare sulla tomba del babbo Luigi, un minatore che si recava a lavorare in miniera a piedi, tre ore di viaggio al giorno. Ad un certo punto, Balducci si sentì toccare alle spalle, e si voltò: era Manfredi, il fabbro ferraio di Santa Fiora, un anarchico, gran bestemmiatore. Un tipo, per dire, che al gabinetto aveva appesa la scritta: «Saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si seggono, sono tutti come me». Quando il dodicenne Ernesto lasciò Santa Fiora per entrare in seminario, Manfredi lo implorò: «Mi raccomando, non ti fare fregare dai preti». Era il 1924. Quarant’anni dopo Manfredi e Balducci si ritrovarono per la prima volta e il vecchio fabbro abbracciò l’amico prete e gli disse: «Bravo Ernesto, non ci sono riusciti».

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La croce e la falce

Quando la Lettera ai cappellani arrivò sul suo tavolo, Pavolini non ebbe la benché minima esitazione su cosa farne: «La dobbiamo pubblicare per intero», ordinò con gli occhi febbrili di chi intuisce di avere tra le mani uno scoop politico e giornalistico. Non poteva non cogliere, l’esponente comunista, gli aspetti esplosivi della lettera milaniana che metteva sotto accusa il militarismo e le guerre combattute dall’Italia nell’ultimo secolo e costituiva una significativa contraddizione nel mondo cattolico1. Un prete contro i preti con le stellette. Anche se non esente da aspetti di evidente strumentalizzazione politica, come riconobbe qualche anno dopo lo stesso Pavolini, quel testo del priore di Barbiana rappresentava agli occhi del Pci la conferma della giustezza della sua strategia imperniata sulla convinzione che la Chiesa non fosse un monolite compatto, non scalfibile e che anzi settori significativi del mondo cattolico potevano essere attratti dalle ragioni politiche della sinistra. Da tempo si erano avviati cauti colloqui e aperture tra comunisti e cattolici. Il primo passo l’aveva compiuto Togliatti stesso, che il 20 marzo 1963 tenne alla conferenza del Pci di Bergamo – la terra di Giovanni XXIII, e la scelta del luogo non parve casuale – un discorso, poi ribattezzato «Il destino dell’uomo», che di fatto aprì la strada al dialogo tra cristiani e marxisti.   Testimonianza di Luca Pavolini resa all’autore.

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Togliatti affrontò il tema della collaborazione tra quei due mondi contrapposti per difendere l’umanità, in nome della coesistenza pacifica, dal rischio della guerra atomica, e per lottare contro l’ingiustizia del capitalismo. Il segretario del Pci prospettò in maniera esplicita l’incontro tra comunisti e cattolici, «ma non nell’immediato, bensì davanti a una prospettiva più lunga», precisò. Ed evocò una sorta di «compromesso tra le due ideologie»2. Il leader comunista analizzò anche il tema della religione e della fede in termini nuovi rispetto alla tradizione ateista del Pci. Affermò infatti il superamento «della concezione ingenua e errata, che basterebbe la estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali». Frutto per certi versi dell’apertura di Togliatti ai cattolici, è da registrare nel novembre del 1964 a Firenze, edito da Vallecchi e curato dallo scrittore cattolico Mario Gozzini, la pubblicazione del libro Il dialogo alla prova in cui si confrontavano intellettuali marxisti e cristiani, cinque per ciascuno degli opposti campi: oltre a Gozzini, anche Lucio Lombardo Radice, Nando Fabro, Luciano Gruppi, Ruggero Orfei, Alberto Cecchi, Gian Paolo Meucci, Ignazio Delogu, Danilo Zolo e Salvatore Di Marco. «Il dialogo, instaurato in queste pagine, di cattolici e di comunisti non ha come fine un compromesso; ciò attiene, o potrebbe attenere, alla sfera politica, che non è la nostra. Esso ha come fine qualche cosa di molto meno e di molto di più: e cioè la verifica di una eventuale coincidenza sul valore dell’uomo», si poteva leggere nell’introduzione al libro. Due le parole-chiave: uomo e compromesso. Al valore dell’uomo aveva fatto riferimento il discorso di qualche mese prima di Togliatti, mentre al compromesso si richiamerà nove anni dopo, nel 1973, Enrico Berlinguer, quando in seguito al

2  Palmiro Togliatti, Il destino dell’uomo, in Id., La politica nel pensiero e nell’azione: scritti e discorsi 1917-1964, Bompiani, 2014.

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golpe in Cile lanciò la proposta, appunto, del «compromesso storico». Dal dialogo al compromesso storico Si comprende come, in questo contesto, la Lettera milaniana sia stata subito rilanciata in grande stile da «Rinascita», sicuramente con l’avallo della segreteria del Pci. Sempre nel 1965, come si è ricordato, si svolsero i tentativi diplomatici di La Pira per far cessare la guerra nel Vietnam e per la distensione pacifica tra le due superpotenze, Usa e Urss. Gesti, eventi e iniziative che agli occhi del Pci togliattiano erano la conferma che il dialogo con il mondo cattolico si faceva promettente e che l’unità politica dei cattolici nella Dc non era più indissolubile. È a partire da questo clima che si arrivò, nel giro di otto anni, alla proposta politica dell’intesa tra Pci e Dc. Un ispiratore molto influente di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer fu l’intellettuale cattolico Franco Rodano (1920-1983), che visse una doppia militanza: religiosa nella Chiesa e politica nel Pci. Rodano fondò nel 1943 il movimento dei Cattolici Comunisti nel quale militò anche Pavolini. Successivamente quello della Sinistra Cristiana, che visse una breve stagione politica, dal 1944 al 1945. Concluse queste esperienze, Rodano restò un importante consigliere dei due leader comunisti. Nel mondo cattolico, tra i promotori del dialogo, spiccò Mario Gozzini (1920-1999), insegnante di storia e di filosofia nei licei fiorentini, scrittore e coordinatore editoriale presso la casa editrice Vallecchi della collana «I nuovi padri: saggi sul Cristianesimo del nostro tempo» e dell’enciclopedia delle religioni. Fu anche tra i fondatori di «L’ultima» (1946) e di «Testimonianze» (1958), riviste in cui intrecciò rapporti di amicizia culturale e religiosa con gli scrittori Giovanni Papini e Geno Pampaloni e con Dossetti, La Pira e padre Balducci. Nel 1976 Gozzini venne eletto senatore nelle liste del Pci e formò per tre legislature a Palazzo Madama il gruppo della 65­­­­

Sinistra Indipendente con Raniero La Valle, Piero Pratesi e Adriano Ossicini. Ultima tappa di un percorso partito nel dopoguerra, continuato negli anni Cinquanta e Sessanta – quelli in cui si sviluppò la vicenda milaniana e in cui si affermò, attorno a La Pira, un laboratorio avanzato di esperienze, elaborazioni e incontri – e sfociato nella proposta berlingueriana del compromesso storico. Un percorso compiuto con modalità diverse tra loro. Dal dialogo culturale a quello politico che porterà molti cattolici, come ad esempio Gozzini, a rompere con la Dc per approdare nel Pci, seppure da indipendente, fino all’esperienza religiosa avanzata, in cui si distinse nel comunismo l’ideologia atea e materialista dall’istanza della giustizia sociale. «Comunista» tra comunisti Don Milani fu sostanzialmente estraneo al dialogo tra cattolici e comunisti. La nozione prevalente nel priore di Barbiana non fu infatti il dialogo tra mondi fino ad allora contrapposti, ma quella dell’immedesimazione nella storia degli ultimi, degli emarginati, dei poveri. In definitiva, nel rapporto con i comunisti non fu mosso da un interesse di tipo politico e culturale, ma dall’intento evangelico riassunto nelle Beatitudini. I comunisti gli stavano a cuore solo in quanto poveri e affamati di giustizia. Non vedeva in loro i militanti del Pci, ma le vittime della storia, corpi e anime da salvare, gli ultimi della società mentre lui portava su di sé il peso del privilegio familiare e poi, divenuto prete, quello di far comunque parte del sistema di potere: «Per un prete quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Esser liberi, avere in mano sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’esser derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti». La modalità milaniana può essere inscritta nella categoria 66­­­­

del mimetismo, come volontà di immedesimarsi con la vittima, di vestire i suoi panni. Ha osservato Adriano Sofri: «Il mimetismo è la chiave della carità, e anche della solidarietà politica vissuta con fervore: le quali non si accontentano di immaginarsi nei panni altrui, ma li indossano davvero. Per questo, quando si incontra uno straccione o una barbona, bisogna sempre stare all’erta: potrebbe essere un santo, o una santa»3. Se il mimetismo fu per Sofri un tratto peculiare del movimento di Lotta Continua (1969-1976), a maggior ragione lo è anche di molte esperienze religiose. L’identificazione con gli altri, il vestire i loro panni, segnerà l’esperienza di don Milani ma anche quella, per citare soltanto due nomi, del comboniano Alex Zanotelli con i diseredati di Korogocho e di don Pino Puglisi, immedesimato nella vita dei diseredati di Brancaccio a Palermo. Appena approdato a San Donato di Calenzano, zona operaia e comunista, il giovane cappellano ebbe subito modo di vedere in faccia, nella vita concreta dei suoi parrocchiani, i drammi sociali e i conflitti politici della società italiana degli anni Cinquanta. Era l’Italia divisa in due dalla guerra fredda e lacerata dalle tensioni sociali prodotte dalla ricostruzione dell’Italia post-bellica. La carità sacerdotale lo indusse a indossare i panni dei lontani. Diventò così povero tra i poveri, operaio tra gli operai, orfano tra gli orfani, ultimo tra gli ultimi. E in questo senso si può dire che fu anche «comunista» tra i comunisti. Nel suo amore per i poveri non gli fece ostacolo se essi erano comunisti. Lui non lo era, ma si mise nei panni dei poveri che lo erano. Immerso in contrapposizioni che non consentivano scelte ispirate da un senso evangelico della storia, per cui occorreva schierarsi o di qua o di là, bianchi o rossi, padroni o operai, don Milani, nel cercare la sua strada di autonomia in nome 3   Mario Lancisi, Il miscredente. Adriano Sofri e la fede di un ateo, Piemme, 2006, p. 113.

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dei valori del Vangelo, finì per urtare contro le ragioni politiche della Chiesa e della Dc. Fu questo il suo dramma: la sua perenne inattualità. Il processo che intentò all’obbedienza al potere costituito lo tramutò nel Grande Disobbediente. Il giovane cappellano non poteva accettare di piegare la verità del Vangelo, l’unica bussola che ispirava i suoi comportamenti, al realismo dello scontro politico, ideologico e sociale del tempo e pagò la sua obbedientissima ribellione con l’esilio a Barbiana e l’emarginazione dalla sua Chiesa. Quella di don Milani è un’obbedienza al Vangelo totale, radicale. Viveva e predicava la parola di Dio alla lettera, senza sconti per sé e per gli altri, con rigore estremo. «La ricerca dell’ultimo come campo dove buttare il seme del Vangelo fu il segno della sua profezia. Egli è l’uomo di Dio, suo annunciatore, suo profeta»4, sottolinea Giorgio Falossi, un operaio amico di don Milani. La storia di Franco Una storia emblematica per comprendere l’atteggiamento di don Milani nei confronti dei comunisti è quella di Franco, un ragazzo di Calenzano che, quando perse il lavoro, si rivolse disperato a don Lorenzo: «Mi accompagna da qualche industriale per chiedere di essere assunto? La mia famiglia ha assoluto bisogno che io vada a lavorare e, a fine mese, porti lo stipendio a casa...»5. Don Lorenzo detestava le raccomandazioni e quindi lì per lì esitò. Riteneva il lavoro un diritto, era scritto anche nella Costituzione: perché umiliarsi a chiederlo? Alla fine però comprese che tra i principi morali e la realtà c’è talvolta un fossato. Fosse stato per qualcosa che riguardava la sua per4   Testimonianza-prefazione di Giorgio Falossi a Mario Lancisi (a cura di), ...E allora don Milani fondò una scuola: lettere da Barbiana e S. Donato, Coines, 1979, p. 7. 5   Lancisi, Il segreto cit., p. 57.

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sona, non l’avrebbe mai oltrepassato, ma in questo caso si trattava di un ragazzo poverissimo e disperato. Forzando le sue convinzioni più radicate decise di accompagnare Franco a cercare lavoro. A un ricco industriale di Prato, noto perché assumeva operai, il priore si sforzò di mettere in bella luce il suo ragazzo: la capacità professionale, la serietà e anche la necessità familiare di lavorare. L’industriale ascoltò cortese e premuroso: quella tonaca era più importante di un curriculum. «Guardi, le faccio giungere una lettera dall’officina dove Franco ha lavorato fin ora», gli disse don Lorenzo, ma non c’era bisogno. «Non importa, don Lorenzo, se me lo raccomanda lei non sarà certo un comunista». Macché referenze e curriculum: al padrone pratese premeva solo che Franco non avesse idee comuniste. Negli anni Cinquanta la discriminazione politica nelle fabbriche italiane era molto diffusa e Prato non faceva eccezione. Lo si sapeva che la raccomandazione dei preti rappresentava una segnalazione preziosa. Ma un conto è sentirlo dire e un altro verificarlo di persona. L’esperienza colpì e ferì molto il giovane cappellano tanto che decise di raccontarla, il 15 novembre del 1949, su «Adesso», periodico fondato da don Primo Mazzolari (1890-1959), prete, scrittore e partigiano, una delle figure più importanti del cattolicesimo progressista del Novecento. Scrisse don Milani: «Fratello industriale, quando mi è venuta la risposta ero già di nuovo nel tuo ascensore che mi riportava al piano terreno. Non ho avuto il coraggio di tornare indietro a leticare. Ho avuto paura per il lavoro del mio Franco. Ma ora mi pare di averti ingannato, bisogna che ti risponda. Sì, che il mio Franco è un comunista. ‘E un comunista non deve mangiare?’, ha chiesto Franco nel tuo ascensore lucente. Posso pregare per te perché Dio ti perdoni d’essere ricco. Ma non posso difendere il tuo mondo. Tu, Franco, lo sai, vero? Che io non sono per loro». Ecco la preoccupazione che assillava il giovane cappellano: non essere connivente con il potere democristiano e 69­­­­

confindustriale. E neppure dare l’impressione ai suoi parrocchiani di esserlo. Stare dalla parte dei poveri non gli bastava: doveva dimostrarlo anche sul piano formale se voleva essere credibile agli occhi dei suoi fedeli. Per questo si preoccupò sempre di scindere le sue responsabilità da quelle della classe dirigente dell’epoca. Accusato di eccessiva accondiscendenza nei confronti dei comunisti, don Milani scrisse una lettera al cardinale Elia Dalla Costa che costituì una sorta di autodifesa, utile per comprendere l’impostazione che egli diede ai problemi politici: «Mi sono convinto del grave stato di disagio in cui vive il mio popolo, delle ingiustizie sociali delle quali è vittima e della profondità del rancore che nutriva verso la classe dirigente, il governo e il clero – scrisse nel promemoria al cardinale, datato 25 aprile 1954 –. Ho allora sentito quanto questo rancore fosse insormontabile ostacolo alla sua evangelizzazione e ho perciò deciso di dedicarmi a una precisa distinzione di responsabilità. Scindere cioè con esattezza a costo d’essere crudeli le responsabilità (fittizie o reali che siano) del governo dai purissimi principi del Vangelo e delle encicliche sociali». La crisi delle fabbriche fiorentine Gli anni Cinquanta furono pesanti per quella parte del mondo cattolico che non era disposta a piegarsi alla politica ultraliberista della Confindustria di Angelo Costa. Don Milani poté respirare il clima fiorentino in cui l’impegno di La Pira in difesa delle fabbriche a rischio chiusura lo portò ad avere duri scontri con il governo e gli industriali. Nel 1954 la Manetti&Roberts licenziò molti dei suoi dipendenti e il sindaco inviò un telegramma di indignazione al presidente del Consiglio Mario Scelba. «Con la carità, con l’amore del prossimo si può, si deve fare molto e tutti potremmo fare molto di più, ma in nome della carità non si può presumere di superare le leggi dell’economia», scrisse il 22 aprile il presidente di Confindustria al sindaco di Firenze. 70­­­­

Replicò sarcastico La Pira: «Anche a Lei, caro dott. Costa, è rimasto alla ‘contemplazione’ incantatrice dei ‘maestosi’ anzi ‘divini’ principi di Ricardo e di Smith! (...) Si chiudono le aziende? Si disperdono preziose risorse produttive meccaniche ed umane? Si sgretola una intiera economia cittadina? Si mette la disperazione in migliaia e migliaia di famiglie? Niente paura! Tutti fenomeni che la ‘divina’ meccanica di Bastiat ha già preveduti; tutto si assesta: lasciate che la meccanica economica – leggi divine! – svolga i suoi congegni e vedrete quali armonie si produrranno, davvero prestigiose e feconde!»6. La vicenda più clamorosa ed emblematica fu quella della Pignone. Nel novembre del 1953 la società proprietaria, la Snia Viscosa, annunciò la chiusura degli stabilimenti e gli operai in risposta decisero di occupare la fabbrica. Il sindaco, che abitava in una cella dei frati domenicani di San Marco, non ebbe esitazioni: si schierò apertamente dalla parte degli operai licenziati. E ottenne il sostegno del governo. Il leader degli industriali, inferocito, attaccò duramente sia il governo che La Pira. Don Milani non assistette passivo allo scontro: la difesa degli operai era nelle corde del suo impegno pastorale. Così decise di scendere in campo contro Costa «che può ridersene d’ogni ardita azione dei cristiani cioè di coloro i quali non vogliono decidersi a mettergli una carica di dinamite nel sedere». Durissimo con gli industriali, don Lorenzo non risparmiò, quando necessario, critiche anche ai sindacati, dei quali, come abbiamo visto, ebbe in generale un’alta considerazione. Li attaccava quando anziché difendere gli operai si mettevano a fare politica. Nelle forti contrapposizioni sociali degli anni Cinquanta, ci furono settori sindacali che spesso si schierarono dalla parte degli imprenditori contro la Cgil e il Pci. Un giorno arrivò in canonica un sindacalista della Cisl:

  Ivi, p. 58.

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«Scusi, don Lorenzo, ma qui a San Donato ci sono molti rossi?». Don Milani lo fulminò con lo sguardo: «Perché? Forse il compito della Cisl è quello di combattere i rossi?», chiese. Don Lorenzo non aveva pregiudizi, parlava con tutti: «È andato per una pratica alla Camera del Lavoro – la famigerata Cgil – alle 11,30 e ha incominciato a chiacchierare con un giovane comunista e non hanno smesso che alle 16,30. Appena allora si sono accorti che avevano saltato la colazione», riferisce un po’ stupita la mamma Alice alla figlia Elena, in una lettera del 7 settembre 1948. I nuovi barbari Al di là dei singoli gesti e delle prese di posizione, per cogliere la profondità e originalità della posizione di don Milani nei confronti del comunismo appare di grande interesse e profetica la lettera che, appena nominato cappellano a San Donato, quindi quando ancora non aveva vissuto le esperienze sociali del mondo operaio di Calenzano ed era fresco degli studi in seminario, inviò a Carlo Weiss. Questi era figlio di Ottocar Weiss (nato a Trieste nel 1896 e morto a New York nel 1971), cugino di Alice Weiss, mamma di don Lorenzo. Alto dirigente delle assicurazioni Generali, Ottocar, che sposò una nipote di Italo Svevo, emigrò nel 1938 con la moglie e i due figli maschi negli Stati Uniti per sottrarsi alle leggi razziali fasciste. Dall’America il giovane Weiss espresse a Lorenzo la sua forte preoccupazione sull’avanzata del comunismo e sul conseguente futuro del mondo occidentale. In un’epoca segnata dal dominio degli Stati Uniti, usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale, e dalla lotta al comunismo, che culminerà nel 18 aprile del ’48, data in cui la Dc ottenne la maggioranza dei seggi a danno del Fronte popolare composto da Pci e Psi, e, l’anno successivo, nella scomunica della Chiesa, don Lorenzo rispose, il 26 dicembre 1947, con riflessioni sorprendenti e assolutamente non in linea con le preoccupazioni di Carlo. 72­­­­

Don Milani invitò il parente a non avere paura del nuovo mondo che avanzava: «Anche ai tempi delle invasioni barbariche sembrava la fine. Venivano giù col loro cumulo di errori: paganesimo, barbarie, arretratezza in tante cose, distrussero l’impero romano che sembrava il baluardo della civiltà... sembrava il sostegno assolutamente necessario alla Chiesa». È successo invece che l’impero romano è rotolato giù come un vecchio palazzo fatiscente: è insomma caduto «quel che aveva da cadere, è restato quel poco che aveva da rimanere», argomentò il giovane Lorenzo. La distruzione dell’impero romano non ha segnato il tramonto della civiltà occidentale e meno che mai della Chiesa cattolica protetta dal potere imperiale, ma ha prodotto l’avvento di «un mondo nuovo e mille volte più bello: il Medioevo (anche a pensare solo all’arte, che era il mio mestiere, pensa l’arte gotica, altissima, forse la più alta). Così oggi vengono giù dei barbari e travolgeranno certo mille belle cose e istituzioni cui eravamo attaccati. Perseguiteranno certo anche la Chiesa e i preti (ma se fosse bene?, forse ce n’è bisogno)», sostenne il giovane cappellano. Il carteggio tra i rampolli di due famiglie borghesi occidentali risulta di grande attualità. Il giovane Carlo si fa interprete infatti delle paure dell’uomo occidentale di fronte all’avanzare del mondo nuovo che viene da Oriente. La paura del comunismo e dell’Islam. Già allora, in quegli anni del dopoguerra, si configurava lo scontro di civiltà evocato ai giorni nostri. Il vecchio mondo occidentale si sentiva assediato e rispondeva con la guerra fredda e le scomuniche religiose e politiche. Il vecchio e il nuovo mondo Si può superare la paura dei barbari alla condizione di operare una sorta di rivoluzione copernicana per cui il centro di gravità del mondo nuovo non è più l’America, avvertì don Milani: «Per noi l’America non è più il ‘Nuovo Mondo’, ma 73­­­­

il Vecchio quello che sta morendo, mentre da quest’altra parte non ci sarà ancora il mondo nuovo che nasce, ma certo siamo in quella direzione». È un rovesciamento di fronte che si ritrova anche in Lettera a una professoressa, dove si afferma l’esistenza di più culture, quella dominante ma anche quella degli operai e dei montanari. E comunque sia, insiste don Milani, è un errore storico attribuire al comunismo il crollo dei valori spirituali e l’affermazione dell’ateismo: «Il comunismo in questa determinata forma non ne è che un’incidentale conseguenza. Perché il crollo c’era già da tempo e prodotto da chissà quante cause, ben più antiche e profonde». L’occidente milaniano non costituisce il baluardo della cristianità e dei suoi valori. La storia delle guerre dall’unità di Italia in poi, ad esempio, come il priore di Barbiana spiega nella Lettera ai cappellani, è la conferma di una profonda scissione tra Dio e gli uomini che non deriva certo dal comunismo. E anche sull’ateismo l’analisi del giovane Lorenzo è sorprendente e spiazzante: «Di fronte a certi modi di essere religiosi che c’è nel nostro mondo è meglio l’ateismo, almeno è più schietto e più coerente». Ecco l’aggettivo chiave: «coerente». Quello che rimproverava alla Chiesa e ai cristiani era l’incoerenza tra i principi evangelici e i comportamenti di vita. Un altro effetto negativo che il pensiero occidentale attribuiva al comunismo era di natura economica. Si riteneva che avrebbe prodotto un sistema caratterizzato da una diffusa povertà. Il comunismo avrebbe non arricchito ma al contrario impoverito il vecchio continente europeo. Don Milani a queste preoccupazioni del parente americano obiettò: «Ma non è meglio morir di fame in un mondo nuovo e anelante a una nuova giustizia, più larga, più universale, senza barriere di classe, di nazione ecc., piuttosto che ingrassare in un mondo che sta per morire?». Dinanzi a questi ragionamenti, il giovane Carlo avrebbe potuto pensare che don Lorenzo fosse simpatizzante del co74­­­­

munismo, ma il giovane cappellano tenne a precisare di non esserlo. Precisò comunque di non guardare «al comunismo come a un nemico da combattere o distruggere, tutt’altro, caso mai è un mondo da cristianizzare. San Gregorio Magno non è mica che fosse paganeggiante quando mandò da Roma i suoi monaci a aprire le braccia della Chiesa ai barbari perché il clero bretone si rifiutava di evangelizzarli». E concluse il giovane cappellano: «A combattere il comunismo mi parrebbe di oppormi alla storia, il che è come ribellarsi a Dio, perché è lui che la disegna. Ma con questo non sono comunista, come Geremia non era sincretista e San Gregorio non era paganeggiante. Sono solo uno che aspetta». Il cristiano per don Lorenzo non doveva essere un guerriero, un crociato: ma uno scrutatore dei segni dei tempi che rivelano i disegni di Dio. Per essere pronto a capire se il disegno piega verso sinistra per esempio, «per buttarmi con lui, a aiutarlo a incarnarsi anche lì come ha saputo incarnarsi in tutte le civiltà, nazioni, tempi, lingue, climi, ordinamenti. Babilonesi, Germani, Bolscevichi, tre feroci distruttori di tre grandi civiltà, a prima vista sembravano le forze del male scatenate dal Nemico per distruggere la Città di Dio e invece a guardarli bene non son stati che l’adorabile lungimirante liberatore dito di Dio». Quando infine tre anni dopo Carlo decise di venire in Italia a studiare la Dc, don Milani lo mise in guardia dal considerarla «un’emanazione del cristianesimo»: «La saggezza umana di rimandare la giustizia a più tardi colla scusa che oggi è imprudenza è ben più profondamente atea che lo sbuzzar preti e profanar chiese. Speriamo che Dio riesca a perdonarli. Il nostro comune nonno Geremia non li avrebbe perdonati di certo. E neanch’io. Quando penso ai poveri traditi e traditi in nome di Cristo o in nome della libertà che per loro poveri è proprio la catena più dura!»7. 7   Le lettere a Carlo Weiss ritrovate sono due e fanno parte del carteggio pubblicato a cura di Giorgio Pecorini in Milani, I care ancora cit., pp. 31-58.

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E tuttavia don Lorenzo non risparmiò critiche al Pci. Distinguendo la dottrina comunista, l’apparato del partito e la povera gente che votava comunista anticipò di una decina d’anni la distinzione di Giovanni XXIII tra l’errore e l’errante. Esemplare del rapporto milaniano con il Pci e il comunismo è la celebre lettera a Pipetta, un giovane attivista comunista di Calenzano, del 1950: «È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori. Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocefisso». Lettera che ha il sacro sapore di una parabola evangelica.

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Il prete rosso

Il priore era consapevole che la sua Lettera ai cappellani avrebbe provocato un vespaio di polemiche. «Spero di tirarmi addosso tutte le grane possibili», scrisse alla mamma il 16 febbraio 1965, due giorni dopo la lettura del ritaglio stampa portatogli dal professor Ammannati. E così in effetti successe. Il tema era scottante. Un prete contro altri preti. Il militarismo e le guerre alla sbarra. Insomma c’erano tutti gli ingredienti per suscitare polemiche. A don Milani interessava far discutere, avrebbe invece fatto volentieri a meno di attacchi e grane di vario genere. La Lettera cadde in una fase storica segnata da divisioni ideologiche molto profonde. I temi dell’obiezione di coscienza e della pace in un mondo sul crinale apocalittico della guerra atomica, come denunciava La Pira, erano molto sentiti. Il Concilio Vaticano II, aperto l’11 ottobre del 1962 e conclusosi il 7 dicembre del 1965, provocava forti tensioni tra riformatori e conservatori. Infine la politica italiana era dilaniata da feroci contrasti: il centrosinistra era appena nato e le riforme propugnate dai socialisti suscitavano forti reazioni nei ceti sociali più conservatori. Un Paese sull’orlo di una crisi di nervi in cui bastava poco per accendere il fuoco della polemica faziosa, del pregiudizio e dell’intolleranza. Con questo clima don Milani dovette subito fare i conti. Per giunta non gli giovò il fatto che a pubblicare per intero la sua Lettera ai cappellani fosse stato il settimanale comunista «Rinascita», per giunta sotto il titolo I preti e la guerra. Don Milani lamentò la strumentalizzazione politica del foglio comunista. Il Pci infatti non condivideva le posizioni 77­­­­

del priore di Barbiana sull’obiezione di coscienza: era sì favorevole ad una sua soluzione legislativa, ma a tre condizioni, agli antipodi delle conclusioni della Lettera: non intaccare il principio dell’esercito di leva, né il sistema militare e meno che mai la guerra, qualunque guerra, come si ricava da una lettera aperta che lo stesso Pavolini pubblicò il 31 luglio 1965 sul settimanale comunista. Il cordone ombelicale con l’Urss era ancora robusto. Si venne così a creare una situazione in cui la pubblicazione della Lettera su «Rinascita» le diede una risonanza nazionale e una valenza politica non volute dal priore di Barbiana. Se a questo si aggiunge il silenzio assordante della stampa cattolica, a cui la Lettera era stata inviata, unito all’ostilità della Curia fiorentina, si comprende come don Milani rimase solo ed esposto alle reazioni della destra politica e militare. La macchina del fango scattò subito. «Rinascita» era ancora fresca di stampa quando il 10 marzo le associazioni d’arma di Firenze si riunirono per lamentare «gli spregevoli attacchi mossi ai cappellani da un sacerdote attraverso una certa stampa» e conclusero auspicando la «doverosa attenzione della competente autorità giudiziaria»1 sulla Lettera milianiana. Era il via libera alla denuncia penale, che non fu presentata dai cappellani militari, come ci si sarebbe potuto aspettare. Da un suo allievo in una scuola statale dove insegnava don Alberto Cambi, il presidente della sezione toscana dei cappellani, don Milani venne infatti a sapere che essi avevano ricevuto l’ordine di star fermi e zitti perché a muoversi ci avrebbero pensato le associazioni d’arma, come riferì il priore alla mamma in una lettera del 15 marzo 1965. Così difatti avvenne. Sul tavolo del procuratore della Repubblica di Firenze pervenne un esposto presentato da sei ex combattenti contro don Milani e Pavolini per incitamento alla diserzione. Il priore di

  Lancisi, No alla guerra! cit., p. 40.

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Barbiana fu accusato di «malafede», di «aver offeso e turbato» il clero fiorentino e di aver voluto «gettare manate di fango» contro l’esercito. Ai sei ex combattenti non andò giù neppure il fatto che il priore di Barbiana avesse con un tratto di penna denigrato le guerre combattute dall’Italia nell’ultimo secolo, salvando soltanto gli anni della Resistenza. Che ovviamente per gli ex combattenti fascisti era tutt’altro che da salvare. Insulti e minacce per il priore L’esposto dei sei ex combattenti e le polemiche politiche e giornalistiche portarono ad una valanga di insulti e di minacce contro don Milani attraverso lettere e cartoline anonime. Su un disegno era raffigurata una bara in stile mafioso. Arrivarono fino al punto di inviargli una lettera vergata con il sangue. «Tu sei il più grande porco che la storia d’Italia annovera nei suoi archivi. Non illuderti caro mio che quello straccio che porti come veste ti possa salvare, erri piccolo verme schifoso, verrà anche per te l’ora che pagherai l’insulto dato a tutti i combattenti»2, scriveva il 12 aprile un ex combattente d’Africa. La fiumana di attacchi che gli si rovesciò contro spaventò non poco don Milani, anche perché Barbiana era un luogo isolato, quasi inaccessibile, in cui qualche male intenzionato avrebbe potuto arrivare senza essere visto fino in canonica, dove dormivano il priore, Eda Pelagatti e qualche ragazzo. Il maresciallo di Vicchio Ettore Bianchini pensò bene di offrirgli la protezione dei suoi uomini: don Lorenzo però la rifiutò. Giorgio Pecorini, in un convegno tenutosi il 30 e 31 maggio 1998 a Sant’Agata Feltria (Pesaro), avrebbe rivelato, secondo quanto riferito dal giornalista Carlo Galeotti, che «in quel periodo erano state organizzate speciali modalità di salvaguardia dell’incolumità del priore di Barbiana».

  Ivi, p. 41.

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Nevio Santini, uno degli allievi del priore, racconta che furono mesi particolarmente pericolosi per le famiglie dei ragazzi, ma in special modo per don Milani: «Tutti i giorni veniva minacciato e c’era gente che si avvicinava vicino alla canonica. Noi ragazzi facevamo da scudo al priore controllando tutto il perimetro intorno alla chiesa, pronti a far intervenire i nostri genitori a turno per la notte. Un nostro compagno, Aldo Bozzolini, specialista in elettricità, riuscì con una batteria di una macchina a montargli un campanello diretto con la famiglia Carotti che abitava dietro la chiesa». C’erano anche fotografi che si nascondevano dietro alberi e cespugli a caccia di qualche scatto, ma quando i ragazzi se ne accorgevano si mettevano il giornale davanti al volto e poi, ricorda ancora Santini, «gli correvamo dietro ma non ci fu mai uno che si fermò: scappavano tutti come caprioli»3. E i giornali? Quelli di destra e fascisti spararono addosso al priore. Usando spesso più gli insulti e le minacce pubbliche che gli argomenti, anche se critici. «Ecco come a volte la violenza può trovare una sua giustificazione. Qui io sono di fronte ad un pazzo, ad un ignorante e ad un mascalzone», scrisse Antonio Pugliese il 7 novembre 1965 sul «Roma», giornale di Napoli vicino all’estrema destra. Pugliese definì l’autore della Lettera ai cappellani «un cialtrone in pantofole», un «maniaco del dialogo», «uno sporco disfattista». Un tipo, per parlar chiaro, da togliere dalla circolazione: «Con la galera o con l’ostracismo non importa. E, se occorre, con un fracco di legnate». Eh sì, perché con tipi come don Milani «il ricorso alla santa violenza» era giustificato. Dieci giorni dopo, sempre sul «Roma», comparve un’altra raffica di insulti, firmata nientemeno che da un generale dell’esercito, Guido Bauer, che definì senza giri di parole il priore un ignorante, traditore, mascalzone, traditore, pazzo.

  Testimonianza di Nevio Santini resa all’autore.

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La cellula in parrocchia La Lettera era stata scritta da meno di un mese quando un altro giornale di destra, il settimanale «Lo Specchio», il 23 marzo del 1965 uscì in edicola con una copertina scoop: la foto in verticale di don Milani con il titolo gridato: «La cellula in parrocchia. Rapporto sui preti rossi». Il servizio, realizzato il 9 marzo da Pier Francesco Pingitore – che diventerà poi autore di testi comici per il cabaret romano del Bagaglino –, da Giulio Schettini e dal fotografo Bruno Tartaglia, nell’ambito di un’inchiesta sui preti rossi della Toscana, riportava un colloquio avvenuto senza registratore. Che l’intento fosse denigratorio lo si desume anche dalla descrizione dell’aspetto fisico di don Milani: «viso grasso», «calvizie molto avanzata», «tonaca in disordine». Ignorarono o finsero di ignorare, Pingitore e gli altri giornalisti dello «Specchio», che don Lorenzo recava nel suo corpo le stigmate classiche del cancro come ad esempio la calvizie. Per il resto si trattò non di un’intervista, ma di uno scambio verbale molto acceso. Infatti, appena Pingitore e Schettini si qualificarono come giornalisti dello «Specchio», il priore si rifiutò di concedere loro l’ospitalità. La ragione era semplice: non aveva alcuna voglia e interesse a concedere un’intervista ad un foglio di destra. Normale e legittimo diniego che diede vita ad un botta e risposta polemico tra il sacerdote e i giornalisti fascisti. Poiché don Milani non era certo un prete prudente e formale, accompagnò la sua decisione di non concedere l’intervista con frasi che furono strumentalizzate e montate in modo da offrire ai lettori il ritratto di un prete comunista, violento, intollerante. «Siete pagati dai nostri oppressori», «siete proprio dalla parte degli oppressori, dei padroni che affamano il popolo e rovinano il Paese», «non si può avere carità per i fascisti», «i comunisti sono persone perbene, stanno dalla parte dei lavoratori», furono alcune delle frasi attribuite dallo «Specchio» al priore. 81­­­­

Poi il finale burrascoso. Don Milani avrebbe gridato contro Pingitore: «Lei è un farabutto». E Pingitore replicò: «Allora lei è un mascalzone». E il priore: «Siete dalla parte degli oppressori, perciò siete farabutti». Di nuovo Pingitore: «E lei è doppiamente mascalzone, perché prima mi fa entrare nella sua casa e poi mi insulta». Battuta conclusiva di don Milani: «Siete voi che siete venuti a rompermi i c...!». Sull’attendibilità dell’intervista si è molto discusso. Don Milani la definì «una truffa» e se la prese molto con don Bensi, il suo consigliere spirituale, perché a questi sembrò vera, almeno stando a quanto riportato da un allievo della scuola di San Donato. Il 4 aprile il priore gli scrisse una lettera molto risentita: «L’intervista è tutta una truffa (...). L’immagine di me che lei dice di conoscere è un’immagine stereotipa che lei ha ricevuto di terza mano per un complesso di motivi. Lei mi ha sempre sentito parlare in modo controllatissimo e non mi ha mai fatto mistero di esserne ogni giorno più ammirato». Don Milani imputò il clima ostile nei suoi confronti al cardinale Florit: soffrì molto perché di fronte agli attacchi di certa stampa il vescovo e la stampa cattolica non pronunciarono parola. Si aspettava di essere difeso ma non lo fu, anzi si ritrovò solo o quasi. Ora, va detto che don Milani non era certo il tipo che ci pensava due volte a dare del farabutto ad uno o a chiamare coglioni i genitali maschili. «Il galateo, legge mondana, è stato eretto a legge morale nella Chiesa di Cristo. Chi dice coglioni va all’inferno. Chi invece non lo dice ma ci mette un elettrodo viene in visita in Italia e il galateo vuole che lo si accolga col sorriso», scrisse don Milani in Un muro di foglio e di incenso. La visita a cui si riferiva il priore fu quella del generale De Gaulle in Italia, nel 1959, mentre i poliziotti francesi torturavano gli algerini del Fronte di liberazione. Don Milani denunciava l’ipocrisia di chi si scandalizzava se qualcuno usava quella parola, salvo poi non provare sdegno o riprovazione per chi ai testicoli applicava un mezzo di tortura. 82­­­­

Dunque appare verosimile che don Milani abbia usato un linguaggio forte e colorato, non certo da galateo; ma, come ha osservato Neera Fallaci, «il falso di cui si rammaricava don Milani consisteva nell’avergli messo in bocca qua e là, maliziosamente o inconsciamente, in mezzo a un resoconto in linea generale abbastanza fedele, espressioni tipiche da agitprop comunista»4. Fatto è che «Lo Specchio» raggiunse il suo obiettivo: suscitare un clima ostile al priore soprattutto nell’opinione pubblica cattolica. La campagna di stampa orchestrata dal centrodestra contro la Lettera ai cappellani sembrava obbedire ad una strategia studiata a tavolino: denigrare la figura di don Lorenzo, presentandolo come prete al servizio del Pci, per squalificare automaticamente anche il suo scritto. Il divieto della Curia A don Milani il danno più grande lo procurarono però gli articoli della «Nazione». In particolare quelli di Piero Magi. La ragione è facile da capire: a Firenze «La Nazione» è il giornale letto in quasi tutte le case, nelle canoniche, in arcivescovado. Di gran lunga il più influente. La linea del direttore Enrico Mattei era molto ostile nei confronti della sinistra democristiana e cattolica. Il giornale di via Paolieri trattò con guanti di ferro la Lettera ai cappellani e con guanti di piuma la successiva Lettera ai giudici, in seguito (come vedremo più avanti) all’intervento sull’editore dell’allora segretario del Pli Giovanni Malagodi. Va detto che don Milani non fu tenero con «La Nazione», quando su Esperienze pastorali scrisse: «A Firenze il giornale ‘indipendente’ è ‘La Nazione’. È stato comprato recentemente dagli Zuccheri. Ora non è da credersi che gli Zuccheri (che lesinano l’aumento di una lira agli operai o la riduzione di una

  Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 405.

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lira ai consumatori con la scusa che non ci rientrano) vogliano poi spendere 4 miliardi per comprare una testata di giornale (passivo) senza un preciso scopo. Questo scopo è la lotta di classe e non di quella all’acqua di rosa». Dopo l’uscita dello «Specchio» con la presunta intervista a don Milani, la Lettera ai cappellani divenne ancor di più un caso nazionale e «La Nazione» decise di gettare nella mischia la sua firma più brillante. Magi salì a Vicchio il 31 marzo in occasione di un dibattito pubblico sull’obiezione di coscienza organizzato dal Comune. Invitato eccellente: don Milani. Il priore accettò con entusiasmo di partecipare alla conferenza-dibattito e si diede un gran daffare per invitare quanti più preti possibile. L’intento era quello di dimostrare che sull’obiezione di coscienza la Chiesa stava dalla sua parte e non da quella dei cappellani militari. «Spero di riuscire a portarci molti preti, ma non sarà facile. Sarebbe un sistema semplicissimo per smontare la speculazione comunista», spiegò don Lorenzo alla mamma, in una lettera del 30 marzo 1965. Il teatro di Vicchio era molto affollato, presenti un discreto numero di giornalisti, mancava solo don Milani. Il personaggio clou dell’incontro, il più atteso. Poche ore prima da mons. Giovanni Bianchi, il vescovo coadiutore del cardinale Florit, gli era giunto il divieto, esteso a tutti i sacerdoti della diocesi, a partecipare all’incontro. A Barbiana non c’era il telefono per cui fu affidato a don Vacchiano, il pievano di Vicchio, il compito di trasmettere al priore di Barbiana il divieto curiale. Il priore ci rimase male, gli sembrò una posizione miope quella della Curia fiorentina: «Era un’occasione meravigliosa per poter trattare male i comunisti... Loro mi facevano grandi onori, arrivavo lì e dicevo: guardate, non esagerate perché voi siete contrari all’obiezione di coscienza in realtà».

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«La violenza del non violento» Forse il più deluso dall’assenza del priore fu Magi. Gli venne a mancare il protagonista dell’articolo. Fu così costretto, il giorno dopo, a recarsi a Barbiana. Non per chiedere un’intervista, come ebbe a precisare, ma per conoscere da vicino il personaggio. Risultato? Un articolo in linea con l’immagine che di don Lorenzo aveva fornito «Lo Specchio». Il titolo era molto eloquente: «La violenza del non violento». Il sommario poi sembrava un vero e proprio capo di accusa: «Al di là delle sue idee politiche, l’interlocutore che non condivide le sue opinioni si sente considerato un nemico. Un linguaggio da tribuno e privo di amore. La figura del sacerdote sopraffatta da una girandola di parole insultanti». Un bel ritrattino, non c’è che dire. Che ferì profondamente don Milani: «L’articolo di Magi mi ha fatto un male immenso. ‘La Nazione’ è il giornale che tutti i preti della diocesi leggono. È il giornale di Firenze e dell’intera Toscana. Quanto è stampato lì sopra viene ufficializzato. Attraverso questo strumento tremendo, attraverso questo ritratto maligno o in buona fede che sia, io sono consacrato ‘prete ribelle’ e fuori della Chiesa. Ribelle io!? Fuori della Chiesa io!?». All’incontro tra Magi e don Milani aveva partecipato anche don Cesare Mazzoni, parroco di Dicomano e amico del priore, che si sentì in dovere di scrivere una lettera di protesta alla «Nazione». Raccontò tra l’altro che il giornalista avrebbe espresso «ripetutamente stupore nel trovare don Milani e il suo ambiente, diversamente da come se l’aspettava, sereni e accoglienti». «La Nazione» pubblicò la lettera di don Mazzoni con una replica di Magi che incredibilmente argomentò che il suo stupore era riferito non alla serenità e all’accoglienza del priore ma a quella del Mugello. «L’unica cosa che la violenza di don Milani non sia ancora riuscita a sciupare», concluse. Dall’articolo di Magi lo stato d’animo del priore ricevette un duro colpo. Come ha riferito padre Reginaldo Santilli 85­­­­

(1908-1981), teologo domenicano e insegnante di seminario di don Lorenzo, che un giorno incontrò il suo ex allievo in bicicletta in piazza Santa Maria Novella a Firenze. Padre Santilli gli chiese informazioni sulla sua vita, e il discorso alla fine cadde sull’articolo di Magi. Don Milani fu però molto scarno di parole. «Era stanco e un po’ triste. Mi salutò, abbracciandomi e baciandomi come si fa quando ci si separa per lungo tempo. Rimontò in bicicletta. Lo vidi allontanarsi con una pedalata decisa ma affaticata. Lo seguii con lo sguardo. Mi si strinse l’anima e il cuore», ricorda padre Santilli. Che nella vita di don Milani ha avuto un ruolo non secondario. Fu lui infatti a dare il nihil obstat al libro Esperienze pastorali. In seguito alle polemiche suscitate dal libro, padre Santilli, che ne era stato il revisore ecclesiastico, scrisse: «Sarebbe difficile e penoso scrivere la storia di quel libro accettato da alcuni come richiamo di rinnovamento dei nostri metodi pastorali; rifiutato e criticato da altri per i quali rappresentava, e rappresenta, ‘la presunzione di un uomo, sia pure sacerdote, di volere impartire lezioni alla Chiesa’. Io non intendo legarmi a nessuno dei suddetti giudizi in questa sede, ma solo far conoscere, a chi ancora non lo sapesse, che lo scrittore di quel libro non era un ‘ribelle’ e molto meno un ‘rivoluzionario mancato’. Era un ‘figlio obbediente della Chiesa’ e aveva tutte le carte in regola con Dio e con la sua coscienza»5. L’amarezza di don Milani era provocata dal silenzio della stampa cattolica, del vescovo e dei preti. Si sentiva isolato. «Voglio essere difeso dal Vescovo o (se lui seguita a rifiutarsi di fare il Vescovo) almeno da un gruppetto di confratelli che rompano la situazione assurda che s’è formata e facciano succedere qualcosa di visibile (non solo care, e apprezzate del resto, lettere di solidarietà private a me)», si confidò don Lorenzo con mons. Bensi.

 Ricordo di don Milani, in «Vita sociale», luglio-ottobre 1967.

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L’orchestrazione dei giornali Don Milani era un amante dei giornali. Li considerava, come abbiamo visto, utili testi scolastici per capire i fatti e da lì risalire alla storia, alla lingua, all’economia, a tutte le nozioni che potevano essere utili per incrementare il bagaglio culturale dei suoi ragazzi. Partire dai fatti, ecco il segreto della pedagogia milaniana, tutta imperniata sul senso dell’utilità. Un sapere utile per i ragazzi per diventare cittadini sovrani e per affrontare la vita con consapevolezza e senso critico. Il priore di Barbiana fu anche uno straordinario precursore del valore della comunicazione. Sapeva quanto la stampa e la tv, in generale l’informazione, potessero orientare l’opinione pubblica. E anche manipolare le coscienze, indirizzarle là dove spinge l’interesse dei poteri economici e politici. Ne aveva avuta una prova lui stesso con la Lettera ai cappellani. Il fatto che a pubblicarla fosse stata soltanto «Rinascita» e in parte «l’Unità» condizionò il giudizio dell’opinione pubblica e della Chiesa e contribuì a creare intorno al priore di Barbiana un clima ostile. Da prete rosso. Proprio questa esperienza negativa vissuta dopo la pubblicazione della Lettera ai cappellani indusse don Milani, nei mesi che intercorsero tra il rinvio a giudizio e il processo, ad accompagnare la scrittura della Lettera ai giudici con la costruzione di una vasta ragnatela di relazioni e contatti con i giornali perché grazie ad essa questa volta si registrasse una positiva e favorevole attenzione da parte della Chiesa, dei preti e del mondo cattolico. Una decisione che evidenzia la straordinaria modernità di don Milani, che comprese come non bastasse scrivere una lettera bella e provocatoria. Ma bisognava anche comunicarla bene. Don Lorenzo definì questa sua ricerca del consenso con un termine assai evocativo: orchestrazione. Eh sì, proprio l’orchestra era l’immagine più precisa, con il suo concerto di voci e di strumenti impegnati a suonare musiche tra di loro diverse ma finalizzate tutte a produrre una dolce melodia. 87­­­­

Fuor di metafora: un’orchestra di giornali che nella loro eterogeneità politica e culturale confluissero a dare un giudizio del priore e della sua Lettera tale da conseguire il consenso della Chiesa. Più che alla sentenza del tribunale, il priore di Barbiana era interessato al giudizio della sua «ditta», come la chiamava. Poteva sopportare la condanna dei giudici, non quella della Chiesa, dei cristiani e dei suoi ragazzi. Sì, perché in fondo la Lettera ai giudici era rivolta agli allievi della sua scuola, ma soprattutto al popolo di Dio, ad una cristianità smarrita che nel Concilio Vaticano II stava cercando faticosamente di cambiare rotta rispetto al passato. Così i giornali comunisti non dovevano esagerare in simpatia, quelli laicisti mostrare una simpatia condizionata, quelli indipendenti esibire il rispetto per la persona, mentre quelli cattolici avrebbero dovuto esaltare con trombe e violini i contenuti della Lettera ai giudici. In occasione della Lettera ai cappellani, invece, era successo l’esatto contrario. Calci negli stinchi da parte dei giornali indipendenti, a cominciare dalla «Nazione». Muro di indifferenza da parte dei fogli cattolici. Elogi dalla stampa comunista. Laico nell’Italia delle due chiese Non è che il priore prestasse attenzione al colore delle simpatie. Fu molto felice ad esempio quando, nel 1958, dopo l’uscita di Esperienze pastorali, gli giunse una lettera elogiativa scritta dall’ex presidente della Repubblica, il liberale Luigi Einaudi. Ma nell’Italia della guerra fredda il fatto che la Lettera ai cappellani fosse stata pubblicata da «Rinascita» fece sì che, come osservò don Lorenzo, molti girassero «l’interruttore ai propri occhi, al proprio cervello». Erano tempi in cui dominavano faziosità e pregiudizio. O di qua o di là. O con il Pci o con la Dc, seppure con tutte le varianti del caso. Erano le due Chiese, i due grandi mondi dentro i quali si plasmavano le identità di ciascuno. 88­­­­

Don Milani cercò di sfuggire al dilemma. La sua identità l’aveva plasmata al fuoco del Vangelo e quello era il metro con cui operava. Fatti e persone dovevano essere giudicati pertanto per quello che erano, per la verità che sapevano trasmettere, e non per la bandiera politica che sventolavano. Era fortemente laico, lui prete fino al midollo, nell’Italia delle due Chiese. E mentre nell’Italia del Duemila il simbolo del crocifisso è tornato a dividere e a suscitare vibranti polemiche ideologiche, mezzo secolo prima, sulle pareti della scuola popolare di San Donato di Calenzano, don Milani decise di farne a meno. Spiegò che non doveva esserci neppure un simbolo che potesse far pensare ad una scuola confessionale: «Ragazzi, vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per darvi l’istruzione e che vi dirò sempre la verità d’ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia ditta (la Chiesa, NdA), sia che le faccia disonore». Nella ricerca meticolosa con cui cercò di orchestrare i giornali a proprio favore, don Lorenzo non era mosso da una qualche segreta ragione di vanagloria personale, ma dall’intento che aveva mosso tutta la sua vita sacerdotale: l’approvazione della Chiesa, dalla quale si aspettava il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, dell’ingiustizia della guerra e del primato della coscienza. Tutti temi in linea con il Vangelo e la dottrina cattolica, sosteneva il priore. Uno dei più grossolani errori commessi dai biografi e critici di don Milani è stato quello di ritenerlo disinteressato alla riforma della Chiesa. Si è scritto che l’attenzione del priore al Concilio fu scarsa, quasi distratta. Lo si è persino dipinto come un prete con un lobo del cervello rivolto al Concilio di Trento. In realtà il priore di Barbiana è stato il più grande riformatore della Chiesa cattolica del Novecento. Barbiana fu il suo Concilio. E i ragazzi, i montanari, gli operai, i poveri del pianeta vennero da lui eletti a teologi, vescovi, cardinali. Da loro imparò ad amare e a temprare la sua fede. Erano gli ultimi i suoi maestri. «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho 89­­­­

speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto», scrisse don Milani nel testamento lasciato ai suoi ragazzi. Lezione sul giornalismo Nell’«orchestrazione» della stampa era sottesa anche una finalità pedagogica. L’operazione di accattivarsi le simpatie dei giornali, quel suo manovrare amici, parenti e avversari per raggiungere lo scopo, si rivelò infatti una grande lezione sul giornalismo. Ai figli di montanari e contadini don Milani volle svelare i meccanismi del potere mediatico. Far capire loro la dipendenza dei giornali da interessi economici e politici. «Ho voluto provare, una volta, a vedere cosa succede a rigirar la gente movendo anche la Confindustria e Malagodi e i comunisti e i laicisti e tutte le forze che avevo a disposizione – spiegò don Milani ad un gruppo di studenti fiorentini di una scuola di giornalismo –. Io sono mezzo ebreo sicché ho mosso gli ebrei; mezzo signore, di origine, ho mosso i signori; mezzo prete, ho mosso i preti; mezzo di sinistra, ho mosso le sinistre; mezzo di destra no: ho mosso tutti fuorché le destre, fuorché le destre dichiarate, utilizzando tutto il sudiciume delle mie amicizie... e ho turlupinato la gente»6. Un esempio di «turlupinatura»? «La Nazione». Don Milani riteneva di essere stato trattato malissimo dal giornale di Firenze. Soprattutto da Magi. Beninteso, il priore non aveva nulla da ridire sulle critiche ai contenuti della sua Lettera ai cappellani: era pane per i suoi denti. Con l’esercizio del senso critico ci andava a nozze. Ai suoi ragazzi insegnò soprattutto a mettere tutto in discussione. Li educò ad essere vivi, critici e ribelli. Non tollerava però attacchi gratuiti alla sua persona. Demolire una persona per combattere le 6   Giorgio Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi, 1996, p. 363.

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sue idee era un metodo stalinista e fazioso. Proprio l’esatto contrario della lezione milaniana. Per far cambiare idea alla «Nazione» il priore pensò bene di giocare la carta di Giovanni Malagodi, segretario del Pli. Il partito della Confindustria. Quindi anche dell’editore del quotidiano, nonché punto di riferimento del suo direttore Enrico Mattei. Si ricordò infatti che Malagodi nel 1959 elogiò Esperienze pastorali. Poi venne a sapere che ad una recente cena in casa di ricchi fiorentini il segretario del Pli aveva riem­pito il prete di Barbiana di «lodi sperticate». Don Milani decise pertanto, il 20 ottobre, di inviare una lettera a Elena Brambilla Pirelli per chiederle di usare le sue amicizie altolocate per arrivare a Malagodi e pregarlo di prestare attenzione alla sua Lettera ai giudici. Il contatto avvenne e Malagodi – sarà lui stesso a confermarlo – avvicinò il direttore Mattei e lo pregò affinché «La Nazione presentasse in maniera obiettiva la vicenda di don Milani»7. Difficile dire se la pressione ebbe successo. Fatto è che il processo al priore di Barbiana venne affidato ad un amico come Cartoni. Poiché era il cronista giudiziario del giornale, la sua scelta poteva anche apparire scontata. Meno scontato il cambio di linea della «Nazione», che ospitò gli articoli di Cartoni intrisi di aperta simpatia nei confronti del priore. L’«orchestrazione preventiva» diede i suoi risultati. Il giorno dopo la prima udienza del processo, letti i giornali, don Milani tracciò un giudizio positivo della rassegna stampa. «Per ora meglio di così non poteva andare», commentò. In particolare, il priore rimase molto contento del comportamento della «Nazione sera», che aveva pubblicato il testo completo della sua Lettera ai giudici, «accuratissimamente stampata», e della «Nazione», che aveva pubblicato un articolo di Cartoni definito «bellissimo». 7  Maurizio Di Giacomo, Don Milani tra solitudine e Vangelo. 1923-1967, Borla, 2001, p. 256.

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Obbedientissimo disobbediente

Il processo di don Milani all’obbedienza si è consumato in maniera paradigmatica soprattutto nel suo rapporto con la Chiesa, verso la quale è stato «obbedientissimo», ma anche ribelle, disobbediente. Un paradosso fonte di equivoci interpretativi e palesi strumentalizzazioni. C’è chi ha sottolineato il ribellismo milaniano nei confronti di una Chiesa conservatrice e repressiva e chi invece, per reazione, ne ha enfatizzato l’obbedienza. Entrambe le posizioni non colgono la fecondità di quel paradosso, peraltro solo apparente, come vedremo, dentro cui si racchiude il segreto di don Milani, la sua vera storia. L’obbedienza assoluta al Vangelo lo portò a scontrarsi e a disobbedire nella prassi alla sua Chiesa tutte le volte che questa si rivelò non coerente con i valori e i principi professati. La grande lezione del priore di Barbiana consiste nell’insegnamento che non esiste obbedienza vera, profonda, non formale senza disobbedienza come processo critico di assunzione di responsabilità. L’obbedienza sine glossa al Vangelo implicò nel priore la fedeltà alla Chiesa, la quale sola ha la funzione di interpretare la parola di Dio e di amministrare i sacramenti: «Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi sacramenti e senza il suo insegnamento», scrisse. E aggiunse, in un’altra lettera, che nella religione cattolica «c’è tra le altre cose, importantissimo, fondamentale il sacramento della confessione, per il quale solo, quasi per quello solo, sono cattolico, per poter continuamente avere il perdono dei peccati, averlo e darlo». 93­­­­

La Chiesa è il luogo dell’incontro di Milani con Gesù e il suo Vangelo, quello in cui si certifica la confessione dei peccati e la loro assoluzione. Il luogo che salva, che dà senso alla vita: «Allora io non lascio la Chiesa a nessun prezzo al mondo, perché mi ricordo che cosa era vivere fuori della Chiesa, tentando di leggere il Vangelo senza l’appoggio della Chiesa, uno che tenta, un disgraziato, uno studentello o pittorello che tenta di trovare la verità del Vangelo». La Chiesa però è peccatrice. Don Milani scopre soffrendo che essa ha spesso eretto un muro tra i poveri e il Vangelo, per cui invoca ripetutamente l’abbattimento di quel «muro che mi impedisce di andare incontro al povero e additargli la Croce». È questa la radice dei conflitti tra don Milani e la Chiesa che lo resero prete ribelle, scomodo, inviso spesso a confratelli e superiori. L’arcivescovo Ermenegildo Florit, ad esempio, così tratteggiava la figura di don Milani in una lettera riservata al cardinale Giuseppe Pizzardo, segretario della suprema sacra congregazione del Sant’Uffizio: «Si tratta di un sacerdote (...nato da una famiglia israelita e battezzato in età adulta...) indubbiamente di buoni costumi, di intelligenza abbastanza penetrante, che reca con sé le tracce del mondo a cui ha appartenuto prima della conversione. Una di queste è il grande amore al paradosso e una spiccata libertà di giudizio. I Superiori tuttavia non hanno dovuto lamentare in lui segni particolari di indisciplina o di ribellione»1. Un giudizio in cui il riconoscimento dell’obbedienza si intreccia ad una sottolineatura critica delle radici milaniane. Già in questo giudizio appare evidente il limite di Florit nell’approccio alla natura ricca e complessa di don Milani. Il cardinale non riuscì mai a capirlo. Come si ricava anche dalla vicenda della Lettera ai cappellani militari.

1   Massimo Toschi, Don Lorenzo Milani e la sua Chiesa. Documenti e studi, Polistampa, 1994, p. 124.

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Prete «comunistoide» «Una giornata triste», così il cardinale Florit definì nel suo diario personale il 6 marzo 1965, il giorno in cui «Rinascita» pubblicò la Lettera ai cappellani di don Milani e un breve riassunto di quella di don Borghi e degli altri cattolici fiorentini. Nella sua amarezza Florit andò oltre e tacciò Milani e Borghi di essere due preti «comunistoidi». E trasse, a riguardo della lettera che i due preti gli spedirono il 1° ottobre del 1964 per chiedere un clima di dialogo nella Chiesa fiorentina, questa amara conclusione: «Se questo sia avviare il dialogo secondo spirito e linguaggio evangelico e non piuttosto secondo la dialettica appresa dall’‘Unità’ è facile saperlo»2. Florit infine giudicò la lettera milaniana offensiva soprattutto «verso la nazione italiana». Dal suo diario emergono le ragioni del muro di diffidenza e di sospetti che la Curia fiorentina innalzò nei confronti di don Milani, un prete sensibile agli interessi e alle logiche politiche della «stampa periodica comunista». Colpisce che Florit ricalchi l’accusa rivolta a don Milani dalla destra di essere un «prete rosso». Il prelato friulano, in realtà, non aveva mai visto di buon occhio il priore di Barbiana. Dopo l’uscita di Esperienze pastorali, il 15 marzo del 1958 intervenne presso la Santa Sede per far condannare il libro, che pure aveva avuto il nihil obstat del suo superiore, il cardinale Elia Dalla Costa, suggerendo al sostituto della Segreteria di Stato mons. Angelo Dell’Acqua di affidare alla «Civiltà Cattolica» – autorevole periodico dei gesuiti le cui bozze prima di andare in stampa venivano vistate da un ufficiale della Segreteria di Stato vaticana – il compito di scrivere una recensione che stroncasse il volume del priore di Barbiana. Quando scoppiarono le prime polemiche per i contenuti del libro, Florit, allora ausiliare del cardinale Dalla Costa, prese le distanze dal suo superiore, raccordandosi all’ala più   Il diario di Florit è riportato ivi.

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conservatrice del Vaticano. «Non riesco a conoscere che cosa abbia influito sull’animo dell’E.mo Cardinale per l’effettiva concessione dell’imprimatur, concessione avvenuta del tutto all’insaputa del sottoscritto», si giustificò Florit con mons. Dell’Acqua. Ma qualche riga dopo insinuò che l’anziano cardinale fosse stato aggirato. Il disegno di Florit andò a buon fine. «La Civiltà Cattolica», nel numero del 20 settembre 1958, stroncò l’opera del priore di Barbiana con un articolo, Le esperienze di don Milani, firmato da padre Angelo Perego, che scrisse: «All’autore del libro ci sia permesso, infine, di augurare, anche come riparazione del grande male che la sua opera certamente farà a tante anime irrequiete e poco formate, di poter scrivere pagine più serene». Quattro giorni dopo l’uscita dell’articolo, su ispirazione della Santa Sede, si mise in moto la macchina del Sant’Uffizio che decise di promuovere un’inchiesta sul libro, conclusasi il 10 dicembre 1958 con una sentenza negativa: «Il libro Esperienze pastorali del sacerdote don Lorenzo Milani sia ritirato dal commercio: sul medesimo sacerdote l’Ordinario (ovvero il vescovo titolare dell’arcidiocesi di Firenze, NdA) eserciti vigilanza». L’11 dicembre la deliberazione del Sant’Uffizio venne approvata da Giovanni XXIII, divenuto papa un mese e mezzo prima, e «L’Osservatore romano» spiegò che la concessione dell’imprimatur da parte del cardinale Dalla Costa era stato un equivoco. Le accuse del cardinale Anche in occasione della pubblicazione su «Rinascita» della Lettera ai cappellani militari l’arcivescovo Florit manifestò, come nella vicenda di Esperienze pastorali, avversione nei confronti del priore di Barbiana. Due giorni dopo l’uscita del settimanale del Pci partirono dalla Curia fiorentina due lettere a firma del cardinale. 96­­­­

Destinatario della prima era don Alberto Cambi, presidente dei cappellani militari, con la preghiera di soprassedere alla polemica con don Milani. Un cauto e sobrio invito a non rispondere al priore e a cessare la polemica, a non attizzarla. La seconda, durissima, era invece indirizzata a don Lorenzo, e si chiudeva con la minaccia della sospensione a divinis. Scrisse Florit: «I suoi interventi che sanno di classismo sono immediatamente strumentalizzati e distorti, a prescindere dalle sue intenzioni, dalla stampa comunista. Pertanto la invito a sottopormi, a partire da questo momento in ogni caso, ogni eventuale suo scritto, prima di dargli pubblicità in qualsiasi modo. Consideri la presente come una precisa prescrizione. Qualora ella avesse a contravvenirvi, sappia che mi riservo, occorrendo, di sospenderla a divinis e di pubblicare il provvedimento»3. Un mese dopo, il 14 aprile, giunse un altro attacco a don Milani sempre firmato Florit. Che richiamò pubblicamente lui e don Borghi, pur senza nominarli. Motivo? Le lettere che i due sacerdoti fiorentini avevano scritto come reazione al comunicato dei cappellani militari. Florit indirizzò al clero una lettera sull’obiezione di coscienza – il tema che stava dividendo la Chiesa fiorentina –, nella quale espresse laconicamente la sua presa di posizione: si limitò a ricordare, infatti, che la Chiesa non aveva ancora deciso da che parte stare. Né contro e né a favore. Così che avevano torto i cappellani militari, ma anche i due preti «ribelli». Però nel tono e anche negli argomenti usati, sotto accusa finirono soprattutto don Milani e don Borghi. Florit di fatto si schierò dalla parte dell’ordine costituito. Negò al singolo cittadino la competenza sui «molteplici aspetti relativi alla moralità e alla ingiustizia degli ordini che riceve» e soprattutto deplorò la «demagogia e il classismo» ai quali prestavano «la loro voce sacerdoti anche

  Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 308.

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della nostra arcidiocesi». Si lamentò, infine, di «come le affermazioni incontrollate, e gli estremismi verbali di certe lettere aperte, dei comunicati non meditati, delle interviste inconsulte, venissero immediatamente strumentalizzate dagli organi di stampa di destra e di sinistra»4. Don Milani ci rimase male a tal punto che rifiutò l’invito di mons. Bianchi, coadiutore dell’arcivescovo Florit, che lo aveva invitato ad un incontro per chiarire e chiudere la vicenda, accusando la Curia di non averlo difeso, su questioni peraltro di grande importanza come la guerra e l’obiezione di coscienza, dall’attacco di una parte della stampa, soprattutto di destra: «Mi lamento che i giornali possano liberamente insultare me e il cardinale travisando ogni mia parola o addirittura inventando di sana pianta senza che nessuno si muova a difendermi visto che a me avete proibito di difendermi sia per scritto (lettera del cardinale dell’8-3-65) sia a voce (telefonata sua). Insomma tutto sommato io non mi sento ancora sufficientemente rasserenato (cioè dall’essere i fatti abbastanza lontani per poterli inquadrare in un perdono profondo) da poter venire a parlare con lei in questo momento». «Io, morto e sepolto in montagna» Se tesi e conflittuali furono i rapporti di don Milani con Florit, quelli con il suo predecessore, il cardinale Dalla Costa, li potremmo definire controversi e alterni. Ad esempio, quando alle elezioni comunali del 1951 il giovane cappellano di San Donato si espresse a favore dei candidati democristiani più onesti, Dalla Costa gli ordinò di tacere per non nuocere alla Dc. Invito che il cardinale gli ripeté anche per le politiche del 1953. Le posizioni elettorali del giovane cappellano favorevole a candidati coerenti con la

  Ivi, p. 535.

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dottrina cattolica crearono scompiglio nella Dc di Calenzano. Un anno dopo, anche in seguito alle tensioni provocate a livello politico, Dalla Costa esiliò don Milani a Barbiana, almeno sul piano formale delle responsabilità. Di contro, però, fu proprio Dalla Costa che concesse l’imprimatur ad Esperienze pastorali. Inoltre ci sono qua e là, soprattutto nel carteggio della madre di don Milani, passaggi che riferiscono sentimenti di stima e affetto del cardinale per il giovane cappellano: «Il cardinale ha detto che non voleva offrire una piccola parrocchia a Lorenzo e che di grandi non ne aveva e che ammira e ama moltissimo Lorenzo. Chi ci capisce niente?», scrisse Alice Milani alla figlia Elena nei mesi arroventati dell’esilio a Barbiana. Non è da escludere che nelle decisioni di Dalla Costa avverse a don Milani abbiano giocato un ruolo decisivo mons. Tirapani e il vescovo ausiliare Florit. Dopo il caso di Esperienze pastorali, per qualche anno le tensioni tra la Curia e don Milani si raffreddarono e i rapporti divennero abbastanza normali. La temperatura tornò alta nel marzo del 1963, quando il vicario mons. Bianchi inviò un telegramma a don Milani per proibirgli di partecipare ad un convegno sulla scuola organizzato dal Comune di Calenzano. Il priore chinò il capo. Reagì solo qualche mese più tardi, quando accusò, in una lettera indirizzata a mons. Bianchi, la Curia di essere «assurdamente contraria a una semplice opera di bene e solidale ancora una volta con le spie, gli invidiosi, i cercatori di male nel bene, i ciechi implacabili nemici d’un povero prete morto e seppellito in montagna». Aggiunse inoltre che la Chiesa fiorentina aveva tenuto per tutti gli anni del suo sacerdozio un «silenzio vile» e concluse: «Capisco che forse non è tutta colpa sua se ella è circondato da così miserevoli informatori. Forse è colpa anche dei migliori preti della diocesi che accettano gli schiaffi porgendo l’altra guancia. Così adempiono il Vangelo, ma intanto non aiutano né lei né il vescovo a evitare questa catena di scandali». 99­­­­

Parole che ripropongono il nocciolo del processo di don Milani all’obbedienza formale, subdola, come mera sottrazione di responsabilità. Un anno dopo, il 5 marzo del 1964, in risposta ad una lettera in cui il cardinale Florit si informava del suo stato di salute, il priore di Barbiana rispose con una missiva, definita da mamma Alice «asprissima», in cui con grande amarezza tracciò un bilancio dei suoi rapporti con la Curia: «Per nove anni ho badato solo a salvarmi l’anima, ad accettare in silenzio le crudeltà puerili, sadiche, irreligiose, incoscienti con cui mons. Tirapani, lei e mons. Bianchi (e quindi automaticamente anche tutti quei sacerdoti che ruotano nel vostro ambiente) calpestavate in me un uomo, un neofita, un cristiano, un sacerdote, un parroco cui in 17 anni di sacerdozio non avevate saputo trovare neanche il più piccolo appiglio per un richiamo un consiglio un rimprovero». Il male incurabile stava avanzando a grandi passi («Da due anni in qua i medici e alcuni segni m’hanno detto che è l’ora di prepararsi alla morte») e don Milani decise che era giunto il momento di riesaminare «freddamente» i suoi diciasette anni di sacerdozio: «E m’è improvvisamente saltato all’occhio che la santità non è così semplice come io credevo. Lasciarsi calpestare può essere santo ma nel calpestare me voi calpestate (oppure calpestavate?) anche i miei poveri, li allontanavate dalla Chiesa e da Dio. E poi che serve amare e tacere, porger la guancia ai soprusi e alle calunnie quando chi li compie è il capo della Chiesa fiorentina?». Don Milani concluse con la richiesta di «un qualsiasi atto solenne» da parte della Curia, perché non voleva che il suo apostolato apparisse agli occhi dei suoi parrocchiani «un fatto privato, qualcosa di simile all’opera d’un pastore protestante. Mi inviti lei personalmente a tenere delle lezioni o conversazioni di pratica pastorale al Seminario Maggiore. Non le chiedo di dire ai seminaristi e ai miei due infelici popoli di San Donato e di Barbiana che questa mia è la santità, che questa è la ricetta unica dell’apostolato, che tutto il resto è errore. Le chiedo solo 100­­­­

di dire ai seminaristi e ai miei due infelici popoli che nella Casa del Padre mansiones multae sunt (‘molte e varie sono le mansioni’). E che una di esse generosa e ortodossa fino allo spasimo (sottolineato, NdA) è stata quella del prete che ella ha fino ad oggi implicitamente insultato e lasciato insultare». Lettera ai preti fiorentini Un altro passaggio cruciale, nella ricostruzione dei rapporti tra don Milani e la Curia fiorentina, risale al 1° ottobre del 1964, quando il priore di Barbiana e don Bruno Borghi scrissero una lettera al clero fiorentino in seguito alla defenestrazione da parte di Florit del rettore del seminario mons. Gino Bonanni (1913-1995), ex insegnante del giovane Lorenzo, figura di prete conciliare: «Da 5 anni al confino, dal regime vigente. Appartenevo all’altro regime. È la legge del potere. È successo sempre così nella Chiesa medievale. A Firenze siamo ancora in quel clima feudale»5, scrisse mons. Bonanni nei suoi quaderni. Contro il «regime» e il «clima feudale» si scagliarono don Milani e don Borghi, invocando un radicale rinnovamento nel segno del dialogo e di un rapporto sincero con il vescovo: «Non è con i telegrammi d’auguri, il regalo di una croce pettorale e le genuflessioni che si mostra l’amore al vescovo, ma piuttosto con la sincerità rispettosa, il rifiuto del pettegolezzo di sagrestia», scrissero i due preti. Florit, però, non raccolse la proposta del dialogo. Ai due contestatori, come li definì, replicò che se non si trovavano bene nella diocesi di Firenze potevano chiedere in ogni momento «le lettere di escardinazione». Potevano cioè cambiare diocesi, per «procurarsi così quella libertà e serenità che è da loro richiesta»6.

  http://archivitoscana.it/index.php?id=372.   Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 305.

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Dalla minaccia di sospensione a divinis alla proposta di cambiare diocesi: il dialogo tra la Curia fiorentina e il priore di Barbiana risultò impossibile. Florit non calò sul tavolo dei rapporti con don Milani la carta della condanna, optò per quella dell’indifferenza: il prete ribelle era agli sgoccioli della sua vita e quindi apparve più conveniente il silenzio, il muro di gomma, il gelido distacco. Nonostante che dal pozzo della sua infelicità fisica il priore gridasse alla Chiesa tutto il suo amore: «Sembrerà che condanniate le idee personali di un prete strano. Ma io sono parte viva della Chiesa, anzi suo ministro». Florit riemerse dal suo silenzio nei confronti del priore di Barbiana alla fine di gennaio del 1966. Il 21 si recò a trovarlo all’ospedale («L’ho benedetto e persino accarezzato», annotò nel suo diario) e il 25 gli scrisse però una letteraccia. Che, a 18 mesi dalla morte del priore, può essere letta come una sorta di j’accuse del cardinale Florit contro il prete «ribelle». Una sorta di processo finale. Con sentenza di condanna: «Qualche volta ho l’impressione che tu abbia consapevolezza eccessiva di quanto hai sofferto, e che questo ti faccia sentire in diritto di giudicare. Di qui nasce quella certa atmosfera quasi di lotta classista che è presente nei tuoi interventi. (...) Tu, don Milani, sei per natura un assolutista, e rischi di produrre, specialmente tra i più sprovveduti di cultura e di fede, dei veri classisti, di destra o di sinistra non importa». Florit spiegò a don Milani anche che, se per anni era rimasto confinato a Barbiana, doveva battersi il petto: «I tuoi superiori hanno creduto di non riconoscere in te la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore che ti fa apparire dominatore delle coscienze prima ancora che padre»7. Il processo della Curia al priore di Barbiana si consumò con questa lettera. Malato e ad un passo dalla morte, don Mi-

  Ivi, p. 472.

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lani avvertì l’abbandono e la solitudine: aveva implorato dalla Chiesa fiorentina un segno di approvazione e una carezza, ma ricevette da questa lettera del cardinale lo schiaffo amaro e doloroso di una condanna. «Mi accusa ora che sono fuori combattimento...» Fu durissima la reazione di don Milani. Il 30 gennaio 1966, in una lettera a Francuccio Gesualdi, definì la lettera di Florit «tre pagine di crudeltà di falsità di ingiurie» e riferì all’allievo che il cardinale gli aveva spiegato che se non gli avevano mai affidato una parrocchia era perché «manco di carità pastorale, sono classista, sferzante, credo di prendere la gente con l’aceto e invece ci vuole il miele ecc. ecc. Ci ho sofferto per qualche ora. Poi mi è passata perché lui (il cardinale Florit, NdA) è un deficiente indemoniato (basti pensare alla scelta del momento!) mi accusa ora che sono fuori combattimento di cose che se avesse creduto vere aveva il dovere di dirmi quando ero giovane e potevo correggermi. Pensa che è il primo rimprovero che ricevo dai miei ‘superiori’ in 19 anni di sacerdozio». Nel contempo, il priore decise di attuare quello che definì il «blocco continentale» (considerando Barbiana e Firenze come due continenti). Vietò cioè ai suoi amici fiorentini colti e borghesi di andarlo a trovare. Li incolpò di aver informato male sul suo conto il cardinale Florit, che il 22 marzo 1966 decise di salire a Barbiana insieme ad altri sacerdoti. Fu un incontro tempestoso, stando a quanto riferì il cardinale nel suo diario: «È stata una conversazione concitata di oltre un’ora. Momenti angosciosi. È un dialettico affetto da mania di persecuzione. Non preoccupazione di santità fondata sull’umiltà, ma pseudo-santità puntata verso la canonizzazione di se stesso. Egocentrismo pazzo; tipo orgoglioso e squilibrato». In una lettera alla mamma, invece, don Milani riassunse così quell’incontro: «È stato straordinariamente rasserenante. È così evidente la malvagità, l’odio non represso, la superbia 103­­­­

che ci sente scagliati dalla parte del bene, inondati di santità e di ragione». Sfumò quel giorno qualsiasi possibilità di dialogo tra don Milani e il suo vescovo. Massimo Toschi, a cui si deve il saggio più documentato sul rapporto tra il priore di Barbiana e la Chiesa, commenta che la «ribellione obbedientissima» di Milani «non è stata accolta in tutta la sua novità, al tempo stesso fedele, ma anche originale nell’immaginare una forma di dialogo pubblica e libera». Don Milani si rivelò in questo «più avanti del suo tempo» e la «ribellione obbedientissima appare a Florit come una forma di insubordinazione, tanto è lontana dagli stili ecclesiastici dell’epoca». Florit e Milani si vedranno per l’ultima volta il 21 maggio 1967 a casa della mamma di Lorenzo, a Firenze, in cui il prio­ re si era rifugiato in punto di morte: «Alle 9,30 mi recai in casa di don Milani. Sembra grave. Stenta a parlare. Malgrado tutto l’ho baciato alla fine. Due suoi allievi non si sono mossi e mi hanno guardato di malocchio e così una religiosa calasanziana che dice di essere del cenacolo di p. Balducci e una nevrastenica professoressa di Borgo San Lorenzo», annotò il cardinale nel suo diario. L’assegno di Paolo VI Nei confronti di don Milani si registrarono comportamenti molto diversi, quasi contrapposti, tra la Curia fiorentina e la Santa Sede. In Vaticano si mostrò benevolenza nei confronti del priore di Barbiana, grazie soprattutto al ruolo di mediazione svolto da Loris Capovilla (1915-2016), segretario di papa Giovanni XXIII e poi collaboratore di Paolo VI. La sua testimonianza, raccolta in un importante carteggio, è fondamentale per ricostruire i rapporti tra il Vaticano e don Milani8.

  Vedi Il carteggio Capovilla in Milani, I care ancora cit., pp. 59-77.

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Tra le lettere inviate a Capovilla da don Milani una risale all’8 novembre 1965, prima del processo, in cui gli inviò il testo destinato ai giudici. «La conservo tra le mie carte come testimonianza del nostro tempo e dei problemi che ha sollevato», gli rispose l’11 novembre mons. Capovilla. Sulla vicenda della Lettera ai cappellani la Santa Sede agì in modo diverso rispetto alla Curia fiorentina. Mentre Florit, come abbiamo visto, minacciò don Lorenzo di sospenderlo a divinis, il 18 marzo Paolo VI, per il tramite dell’amico mons. Bensi, gli fece pervenire un assegno con una lettera benevola, stando almeno alla ricostruzione che ne fece il priore in una lettera del 30 marzo a Marco Sassano, giornalista dell’«Avanti!»: «È venuto qui sabato monsignor Bensi (che mi ha fatto da padre) latore di una lettera del Papa a lui in cui lo pregava di portarmi un assegno di 100.000 lire (accluso) per la mia scuola, s’interessava con grande affetto e stima a me e aggiungeva in fondo solo questa critica così breve da valere come approvazione ‘Colga l’occasione di fare notare delicatamente a don Lorenzo l’inopportunità di scrivere articoli per ‘Rinascita’’. Monsignor Bensi gli ha subito risposto che non ho affatto scritto per ‘Rinascita’, ma per la stampa cattolica». Da notare che la lettera di Paolo VI fu scritta il 18 marzo, dieci giorni dopo quella in cui Florit minacciò don Milani di sospenderlo a divinis. Circostanza che indusse il priore di Barbiana a ritenere che il papa avesse voluto fargli sapere «che non era d’accordo col rimprovero» del cardinale. La lettera del papa piacque a don Milani, ma fece infuriare Florit, che il 2 aprile criticò nel suo diario l’iniziativa di Paolo VI attribuendola alla Segreteria di Stato: «Risulta che don Milani è stato aiutato dalla Segreteria di Stato con l’offerta di centomila lire. Si dice anche che della lettera contro i cappellani militari si è detto solo che era ‘inopportuna’. Questo è grave. Solo inopportuna? Cosa deve fare l’arcivescovo di Firenze con questa altalena della Segreteria di Stato? E come mai si è fatto tutto all’insaputa del Vescovo?». 105­­­­

Florit non si limitò a esprimere il suo rammarico e la sua amarezza nell’intimità del diario personale, ma il 23 aprile protestò ufficialmente con mons. Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato. Si disse anche contrariato dal fatto che «la lettera del Santo Padre di paterna solidarietà con don Milani e con il suo articolo pubblicato da ‘Rinascita’» era rimbalzata sui giornali, nel silenzio della Santa Sede: «Mentre l’arcivescovo di Firenze è costretto a deplorare le posizioni classiste e le affermazioni incontrollate del Milani, Vostra Eccellenza comprende come il lasciare senza risposta le falsità propagate significa far pensare che la Santa Sede appoggia o favorisce gli squilibrati, in contrasto con i loro vescovi»9. Le donne tinte del Vaticano Un altro momento chiave per analizzare la posizione della Santa Sede nei confronti del priore di Barbiana è quello delle polemiche che seguirono all’uscita di Esperienze pastorali. Se il libro non finì al rogo, sostenne don Milani in una lettera del 1960 e in una conversazione del 1965, il merito doveva essere attribuito a Giovanni XXIII, il quale mise sì la firma nel documento in cui il Sant’Uffizio sanzionò il ritiro del libro dal commercio, ma appena due mesi dopo essere diventato papa. «Al papa il mio libro piace molto e, per questo, coloro a cui non piace hanno potuto ottenere semplicemente un divieto di proseguirne la diffusione. Non c’è stata condanna dottrinale», scrisse il priore il 7 marzo 1960. E cinque anni dopo aggiunse che papa Roncalli non permise che Esperienze pastorali «fosse messo all’Indice. Perché a lui il libro andava molto bene». Singolare e curiosi giudizi se si considera che, quando era ancora patriarca di Venezia, Roncalli liquidò malamente il

  Toschi, Don Lorenzo Milani cit., p. 193.

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giovane prete toscano. «L’autore del libro deve essere un povero pazzerello scappato dal manicomio»10, scrisse. In realtà questo giudizio quasi offensivo fu indotto non dalla lettura del libro di don Milani, ma dalla stroncatura della «Civiltà Cattolica» e della «Settimana del clero». «In questo senso parlai con il cardinale patriarca Roncalli e gli lessi i testi dei due periodici. Su quella condanna anch’io mi acquietai, pure mostrando rispetto e simpatia per don Lorenzo», scrisse Capovilla in un promemoria del 26 giugno 1967. Anche in seguito l’ex segretario di papa Giovanni ha confermato questa versione: «Il card. Roncalli nei giudizi confidenzialmente espressi si basò unicamente sulle recensione apparsa sulla ‘Civiltà Cattolica’, periodico ufficioso, di cui ogni suo numero, prima della pubblicazione, passa dai tavoli della Segreteria di Stato». Riguardo a quella che sarà poi la posizione di Roncalli divenuto papa, sono da segnalare due lettere. Nella prima, datata 5 luglio 1959, don Milani scrisse alla mamma per riferire la visita al papa di mons. Giuseppe D’Avack, arcivescovo di Camerino e prefattore di Esperienze pastorali, avvenuta il 24 giugno: «Ieri ho avuto anche una lettera da D’Avack che dice: ‘Ho piacere di dirle che l’altro giorno ebbi udienza privata dal S. Padre. Il Papa di sua iniziativa mi parlò di lei con grande paterno affetto...’». Nella seconda, indirizzata a Capovilla il 28 maggio 1962, in seguito ad un viaggio a Roma con diciannove ragazzi di Barbiana ai musei vaticani e all’udienza del papa, don Milani denunciò il negativo impatto con la burocrazia e il cerimoniale dello Stato pontificio: caro-biglietti, maleducazione e un sistema in cui gli addetti erano «irriverenti verso il sacerdote, irriverenti verso l’educatore, insensibili di fronte a un gruppo di ragazzi, insensibili di fronte a ragazzi di montagna, sensibili solo alle contesse tinte e ingioiellate».

  Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 269.

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Don Milani non andò per il sottile: «In Vaticano dei ragazzi di montagna che vivono fra dure privazioni contano meno di un oppressore in marsina e cilindro con moglie letteralmente coperta di gioielli e tinta che abbiamo visto distintamente a mezzo metro dal Papa. I miei ragazzi non sono abituati a vedere donne tinte. Nessuna delle loro mamme o sorelle si tinge. Non potrebbe il Papa mettere dei lavandini agli ingressi del Vaticano e ricever solo figliole con la faccia lavata? In tal caso può mettere anche il sapone a pagamento perché le mie bambine non ne avranno bisogno». Capovilla non cestinò quella lettera, ma la fece leggere al papa e a mons. Angelo Dell’Acqua, che in risposta gli trasmise una nota in cui sottolineò che la «lettera va letta e riletta e..., se fosse possibile, fatta leggere o almeno conoscere in Vaticano»11. Poi giudicò don Milani «un buon parroco» e propose «di fare un gesto di bontà e generosità: l’invio di lit. 500.000», mentre ai bambini «non sarebbe male far pervenire un regaluccio ricordo della loro visita al Papa». E la reazione del papa? Capovilla ha rivelato che la lettera del priore di Barbiana, un vero e sarcastico j’accuse contro la burocrazia vaticana, «commosse papa Giovanni. Sul tono delle lettera egli avrebbe preferito qualche sfumatura, ma la sostanza lo turbò». Riguardo alla posizione di Paolo VI nei confronti di don Milani, Capovilla ha ricordato una lettera che il 6 giugno 1964 il priore di Barbiana scrisse a Montini per avere un farmaco contro il tumore, molto costoso e in vendita solo nella farmacia vaticana. La lettera passò prima al vaglio di Capovilla che ne propose l’invio con una nota in cui aggiunse: «Don Milani ha molto sofferto. Dirà taluno: per causa sua. Ma, in faccia alla morte, sembra doveroso aggiungere: trovandosi in zona scristianizzata ha voluto tentare metodi nuovi, disturbando quei ceti padronali che non perdonano». 11   Questo e i successivi passi riguardanti Loris Capovilla sono in Lancisi, No alla guerra! cit., pp. 125-128.

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Lasciato il Vaticano per diventare vescovo, Capovilla scriverà che, «vittima dell’ambiente», non osò mai recarsi a Barbiana, e concluse: «Me ne dispiace tuttora. Non tutto era perfetto in don Milani, ma tutto proveniva dalla sua granitica fede, dalla fiducia nella Chiesa; dall’amore per tutti i poveri... Alcune sue esternazioni lasciavano impietriti, come le voci dei profeti i quali non conoscono sfumature di sorta». Ecco: voce di profeta. Il massimo riconoscimento per don Milani esiliato, criticato e minacciato di essere spretato.

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La difesa

Estate calda e inquieta, quella del 1965. Il presidente americano Lyndon Johnson annunciò un maggiore impegno militare in Vietnam, mentre nel ghetto di Watts a Los Angeles una rivolta dei neri venne repressa dalla polizia con il tragico bilancio di 34 morti. Intanto in Italia, a Milano e Roma, arrivarono i Beatles facendo registrare il tutto esaurito. Il ’68 si annunciava alle porte. Persino nel Pci affioravano le prime crepe nel centralismo democratico: Achille Occhetto e Luigi Pintor votarono contro la relazione del segretario. Fatti richiamati come metafora di quel 1965, in cui si dispiegò la vicenda milaniana dell’obiezione di coscienza, tra il vecchio e il nuovo mondo: l’America della guerra fredda e del razzismo e il vecchio continente in cui iniziò ad emergere il protagonismo giovanile, impersonato dai Beatles e dal dissenso politico nel monolite comunista. Al vecchio mondo del militarismo italiano apparteneva l’esposto degli ex combattenti che portò rapidamente al rinvio a giudizio di don Milani e di Pavolini. L’atto di comparizione arrivò a Barbiana proprio nel luglio del 1965 e don Lorenzo informò i suoi ragazzi all’estero per studio e lavoro (una sorta di anticipazione milaniana dell’Erasmus) con una circolare datata 27 luglio. «Cari, vi ho mandato ieri copia dell’atto di comparizione al tribunale di Roma per il processo che si terrà il 30 ottobre...», esordì il priore. L’atto di comparizione era allegato alla circolare con la quale, soprattutto negli ultimi mesi quando la malattia gli impediva di scrivere ad ognuno dei ragazzi, don Lorenzo li informava sulla vita e le novità che si registravano a Barbiana. 111­­­­

Anche se una comparizione giudiziaria è scritta con un linguaggio tecnico e burocratico, don Milani decise di trasformarla in materia utile per fare scuola ai ragazzi. Poteva infatti limitarsi all’informazione del rinvio a giudizio e della data del processo, ma andò oltre. Inviando il testo integrale della comparizione, il priore voleva che i ragazzi imparassero a leggerlo, decifrarlo, comprenderlo. Anche loro, come il prio­re, un giorno si sarebbero potuti imbattere in un processo. Era pertanto bene che cominciassero a conoscere il significato di parole come «comparizione», «articolo» e «comma» di legge e a distinguere il ruolo dell’avvocato, del pubblico ministero e del giudice. Così don Lorenzo illustrò ai suoi «figlioli», come spesso chiamava i ragazzi, i capi di imputazione per i quali era stato rinviato a giudizio, i relativi articoli di legge e le pene previste dal codice penale: «Come avrete visto, i capi di imputazione sono ridotti a incitamento alla diserzione e incitamento alla disubbidienza militare», spiegò. Tre gli articoli del codice penale richiamati nell’atto di comparizione: 110, 414 e 266. «Per l’art. 110 sia io che Luca Pavolini prenderemo la stessa pena secondo il proverbio che è ladro tanto chi ruba che chi para il sacco. Per l’art. 414, istigazione a delinquere, da uno a cinque anni. Per l’art. 266, istigazione di militare alla disubbidienza alle leggi, da due a cinque anni», scrisse il priore1. Don Milani fece anche il calcolo degli anni di pena che i giudici avrebbero potuto infliggergli: poteva essere condannato da tre ad un massimo di dieci anni. Descritti i reati e le pene conseguenti in termini chiari e didascalici, il priore aggiunse il suo commento con un intento anche di rassicurazione per i suoi giovani allievi. Come dire: cari ragazzi, sono accusato di questi reati, rischio una pena di alcuni anni, ma vedrete che alla fine andrà tutto bene. «Naturalmente i giudici dovranno trovare un sistema per assolvermi

 Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 526, dove è riportata la circolare.

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o per darmi meno di dodici mesi perché io possa ottenere la condizionale, visto che sarebbe la prima condanna della mia vita», argomentò il priore. Dietro le sbarre di una prigione proprio non riusciva a vedersi. «Perché non è seriamente prevedibile che vogliano mettere in prigione un prete, col bel risultato di commuovere mezzo mondo e far disprezzare l’Italia da tutti i paesi che hanno il servizio militare volontario e da quelli che hanno riconosciuto il diritto all’obiezione», osservò. Una lettera capolavoro Con una narrazione giornalistica – prima il fatto, poi le rea­ zioni –, don Milani passò poi a raccontare ai ragazzi cosa era successo a Barbiana all’annuncio del rinvio a giudizio, soffermandosi in particolare sull’arrivo di due fotografi di «Panorama», «una nuova rivista di Mondadori fatta un po’ sullo stile di ‘Time’», la definì il priore con competenza. Don Milani non volle essere fotografato e propose ai due di rimanere a cena purché rinunciassero a scattare foto. Così avvenne. Seguì poi un racconto divertito di quella serata, alla quale parteciparono con i due fotografi anche alcuni amici del priore e della scuola di Barbiana. «Intorno alla tavola ci si sbellicava dalle risa a ogni balla che io dicevo», riferì don Milani ai ragazzi. Ad esempio, quando gli era stato chiesto dove fosse nato, il priore aveva risposto: «Qui, sono nativo di Barbiana». E ancora: «Che studi ha fatto?». Don Milani: «Il veterinario nell’università di Milano». Il priore raccontò di essersi preso gioco degli inviati di «Panorama». Per dimostrare, se avessero riportato le sue risposte fasulle, la loro «mancanza di informazione». Una tecnica per mettere a nudo la disinformazione della stampa. A suo modo, una lezione per accrescere il senso critico nei suoi ragazzi e insegnare loro a non prendere nulla per oro colato, ma di sottoporlo al vaglio della critica. Arrivato il mandato di comparizione, il priore cominciò a riflettere sull’impostazione da dare alla sua difesa. Lo attira113­­­­

va l’idea di poter scegliere un taglio storico, lo stesso usato nella Lettera ai cappellani, in quanto gli avrebbe permesso di passare con i ragazzi quella calda estate del 1965 a ripercorrere eventi del passato. «Mi piacerebbe sapere come si può impostare la difesa perché, se sapessi che si può entrare anche nel merito dei fatti storici, allora vorrei divertirmi da qui a ottobre a studiare solo storia coi ragazzi e arrivare là tutto verve nutrita di base storica documentata e spiritosa», scrisse alla mamma in una lettera del 26 luglio 1965. Scartò invece, come sgradita e ostica, un’impostazione teologica e giuridica. Se avesse dovuto mettersi a studiare le opinioni dei teologi o quelle dei giuristi preferiva non andarci nemmeno al processo. Ciò rivela come nel luglio del 1965 don Milani pensava di poter essere presente in aula. Se poi ad ottobre dovette rinunciare fu soltanto per il progredire del cancro che lo stava rapidamente divorando. Lo studente Milani La preferenza per la storia rispetto alla teologia e al diritto non deve sorprendere. Anche da studente Lorenzo prediligeva le materie vive rispetto a quelle astratte. Non fu uno studente modello: studiava ciò che giudicava importante o che lo appassionava. Nelle interrogazioni, se era impreparato, non menava il can per l’aia. Era sincero, rispondeva al professore di non aver studiato perché non gli interessava la materia. Le sue pagelle somigliavano ad un’altalena: voti alti e bassi. Tra le sufficienze un po’ stiracchiate c’erano Teologia dogmatica, Sacra Scrittura, Storia ecclesiastica e Diritto canonico. Andava invece molto bene in Teologia pastorale, Scrittura, rigorosamente storicizzata, Teologia morale, Patrologia e in Questione sociale, una materia che consentiva uno sguardo sociologico ai «lontani» dalla Chiesa. Anche con gli insegnanti ebbe un rapporto differente: alcuni li seguiva con attenzione, altri no. Gli piaceva ad esempio il rigore scientifico con cui don Enrico Bartoletti, che 114­­­­

verrà poi nominato vescovo di Lucca e segretario della Cei, insegnava ebraico, greco e Sacra Scrittura. Il rigore e l’attenzione ai fatti storici porteranno don Milani, divenuto sacerdote, a realizzare un catechismo non astratto, pieno di formulette, ma fondato sulla ricostruzione storica del Vangelo. Nel 1952 l’allora cappellano di San Donato scrisse al regista francese Maurice Cloche, autore di Monsieur Vincent, il film dedicato alla vita di San Vincenzo de’ Paoli, per proporgli un film su Gesù che avesse «l’austerità di un documentario scientifico». Don Milani raccomandò a Cloche, se avesse accettato, di considerare gli spettatori come adulti: «Far loro capire che la storia che hanno sentito nella loro infanzia non era che un riassunto ad usum Delphini d’un fatto rigorosamente storico. Ergo: fedeltà assoluta al testo evangelico, al suo spirito, alla mentalità dell’epoca e dell’ambiente, alle notizie geografiche e storiche e archeologiche, agli ultimi studi di cronologia e di interpretazione...». Il giovane Lorenzo si appassionava anche alle lezioni del domenicano padre Reginaldo Santilli sulla questione sociale, in cui sosteneva «il dovere dell’individuo di rafforzare le basi sociali», criticava il razzismo e la proprietà privata seguendo gli stimoli culturali di un cattolicesimo progressista che si rifaceva alla dottrina sociale e alle idee di Jacques Maritain. Per i seminaristi, la cui unica lettura consentita in quegli anni era «L’Osservatore romano», le lezioni di padre Santilli rappresentavano uno sguardo culturale nuovo. Infine, Lorenzo ammirava anche l’insegnamento della Teologia pastorale, tenuto da don Andrea Bonardi, che in pratica insegnava ai seminaristi il mestiere di prete, come affrontare i problemi che avrebbero incontrato una volta ordinati sacerdoti. Tra i libri consigliati da Bonardi vi erano le lettere di un parroco di campagna e di un parroco di città, curate da George Fonsegrive. Si trattava di consigli tecnici, di pastorale pratica su come il parroco doveva «mescolarsi alla vita di tutti». 115­­­­

«Non devo difendermi» Il 2 settembre don Milani annunciò, in una lettera inviata a Francuccio Gesualdi, la decisione di scrivere un documento che avrebbe dovuto fare scalpore e previde anche le conseguenze a cui sarebbe andato incontro: «Ho voglia di andare a Roma, o meglio di mandarci una lettera importante, un vero capolavoro di dosaggio delle parole più bella ancora della lettera ai cappellani e più ardita ancora. Una lettera da farsi condannare, da aggravare la posizione ma il presidente del Tribunale sarà costretto a leggerla davanti a tutti e poi metterla agli atti e là i giornalisti potranno copiarla e così potrò andare in tasca elegantemente all’ordine di Florit di non pubblicare nulla senza il suo permesso e la lettera avrà risonanza enorme». Una lettera interessante per almeno due ragioni. Intanto appare evidente l’intento del priore di sfruttare il rinvio a giudizio per mettere in scena un processo all’obbedienza. Non era particolarmente preoccupato per la sua posizione di imputato o per un’eventuale condanna, anche perché, tra l’altro, era forse consapevole di avere i mesi contati. Il centro dell’interesse milaniano è socratico: si conforma alle leggi degli uomini per sovvertire quelle che ritiene sbagliate e dannose per i poveri. In nessun punto l’imputato di Barbiana proclama la sua innocenza. Perché non è in discussione la fedina personale ma quella sociale. Il processo è all’obbedienza secondo i canoni giuridici e le leggi vigenti. Furono due i processi che si svolsero nel tribunale di Roma. Quello a don Milani per la Lettera ai cappellani militari, e quello che il priore di Barbiana intese costruire e mettere al centro della scena mediatica nei confronti di chi lo processava. Autodifesa e accusa si intrecciarono nel segno della dicotomia tra obbedienza e disobbedienza. L’altro aspetto da sottolineare è l’espediente escogitato per aggirare il divieto del cardinale Florit di pubblicare qualcosa senza la sua autorizzazione. Don Milani non contesta il divieto, lo accetta, obbedisce, ma si ingegna ad aggirarlo. 116­­­­

Inoltre, il priore di Barbiana non volle per principio un avvocato in quanto non si sentiva imputato: riteneva di non aver nulla da cui difendersi. La Lettera ai cappellani l’avrebbe riscritta di nuovo. Magari «più vivace ancora», precisò. Ma il tribunale di Roma gli assegnò di ufficio Adolfo Gatti (19192001), noto penalista che ha lasciato una forte impronta in molti processi, legato alla sinistra liberale di Pietro Calamandrei ed Ernesto Rossi, agli intellettuali del «Mondo» di Mario Pannunzio e amico di Eugenio Scalfari. Giorgio Pecorini, giornalista e scrittore amico del priore, in un’intervista resa a Luca Kocci, giornalista di «Adista», agenzia di stampa dei cristiani progressisti, ha raccontato che inizialmente don Lorenzo rifiutò di nominare come difensore qualche avvocato amico. Anzi, a loro chiedeva consiglio per riuscire ad evitare il patrocinio. «Quando si rese conto che non era possibile, accettò, dicendo però che gli avrebbe chiesto di non parlare. Sarebbe interessante capire come mai venne nominato Adolfo Gatti come avvocato d’ufficio. Gli avvocati d’ufficio sono degli ‘avvocaticchi’, Gatti invece era un ‘principe del foro’ di Roma», ha osservato Pecorini2. L’assegnazione di Gatti non andò giù al priore di Barbiana: «Non voglio un luminare del foro col bavero di pelliccia e la macchina con le tendine e l’autista, un avvocato borghese che difende i giornali intellettuali come ‘L’Espresso’ e ‘Il Mondo’... Se mi vuol difendere, delinqua anche lui come ho delinquito io», protestò il priore3. Dopo aver annunciato l’intenzione di preparare una lettera per il presidente del tribunale, don Milani spiegò così a Gatti il senso della sua reazione: «Ho notato altre volte che gli avvocati si sentono obbligati a consigliare solo cose che possono servire alla difesa, ma io non ho motivo di difendermi o 2   L’eredità di don Milani a 50 anni dal processo. In dialogo con Giorgio Pecorini, «Adista», n. 9, 5 marzo 2016. 3  Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 429.

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farmi difendere per uno scritto che sarei pronto a riscrivere e possibilmente più vivace ancora. Vede dunque che mi è impossibile pensare che un avvocato parli a nome mio o aggiunga una sola parola a quelle che avrò giudicate necessarie e sufficienti per la mia lettera al tribunale»4. Il processo a Fabbrini Se proprio c’era bisogno di un avvocato don Milani non ne voleva uno di grido, gliene bastava uno qualsiasi, anche perché la difesa la voleva condurre lui, con la Lettera ai giudici. Puntò ad avere un avvocato cattolico e manovrabile. Che si fosse accontentato di presentare al tribunale la memoria difensiva. Un tramite tra lui e i giudici. Il nome ideale per il priore era l’amico Carlo Arturo Jemolo, il quale gli espresse la disponibilità a scrivere una memoria difensiva, aggiungendo però di non essere in grado di affrontare il dibattimento in aula perché «ignorantissimo di procedura penale». Scartato Jemolo, il priore puntò su Gian Carlo Melli, un giovane amico avvocato al quale era solito rivolgersi per chiedere consigli e aiuti legali a difesa dei poveri abitanti di Barbiana. Melli però era solo procuratore, e quindi non avrebbe potuto assumere la difesa penale del priore. Un giorno si recò a Barbiana anche il giovane obiettore Fabrizio Fabbrini che, in quanto avvocato, propose a don Lorenzo la sua assistenza legale. «Mi ringraziò ma rispose che aveva già affidato la difesa a un ben noto principe del foro. Da quel momento iniziò tra noi un rapporto intenso e ogni volta che potevo recarmi a Barbiana egli mi metteva a insegnare ai ragazzi: parlavo di diritto, della Costituzione e di tanti aspetti delle vicende internazionali di allora. Anche

4   Michele Gesualdi (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori, 1970, pp. 238-239.

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di letteratura e di arte»5, ha raccontato Fabbrini. Di tutt’altro tenore la versione che dell’incontro diede don Lorenzo in una lettera alla mamma: «Ho passato mezza nottata per spiegargli che non mi facevo difendere da lui. Temo però che non l’abbia capito...». Fabbrini aveva obiettato quando era soldato sotto l’Aeronautica: a soli dieci giorni dal congedo, restituì la divisa in segno di solidarietà con gli obiettori di coscienza. Era il 6 dicembre 1965, il giorno prima della fine del Concilio Vaticano II. I suoi ufficiali fecero di tutto per impedire che Fabbrini obiettasse. Il suo colonnello glielo aveva detto chiaramente. «Avevano una paura terribile che qualcuno del mondo cattolico facesse obiezione, perché con il Concilio in corso c’era una cassa di risonanza enorme. E il Concilio si era espresso favorevolmente sull’obiezione di coscienza», ha raccontato Fabbrini a Claudio Turrini di «Toscanaoggi»6. Fabbrini scrisse anche una lettera aperta a Paolo VI, inviata a sei giornali, ma pubblicata solo su «Paese Sera», per chiedere lumi sul discorso che il papa aveva tenuto ad una delegazione di militari belgi, il 21 aprile 1965, in cui aveva sostenuto che «la vocazione del soldato è per definizione una vocazione al servizio; e il Centurione del Vangelo ci attesta che non ci sono incompatibilità tra le esigenze della disciplina militare e quelle della fede, tra l’ideale del soldato e quello del credente»7. Fabbrini fu processato dal 12 al 22 febbraio 1966, in concomitanza con il processo a don Milani. Il giorno della sentenza era un martedì grasso, ma la sala era piena di giovani. Dopo dieci ore di camera di consiglio, i giudici emisero una sentenza di condanna a due anni di carcere. Al giovane Fabbrini furono contestati anche i reati di insubordinazione aggravata e continuata e l’apologia di reato. «Quando venne   Testimonianza resa all’autore.   Claudio Turrini, La storia di Fabbrini che a 10 giorni dal congedo rifiutò di rivestire la divisa, «Toscanaoggi», 5 dicembre 2012. 7   «L’Osservatore romano», 22 aprile 1965. 5 6

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emessa la sentenza, alle 22,30, il mio colonnello e altri ufficiali mi vennero incontro e mi strinsero la mano in segno di ammirazione»8, ha ricordato Fabbrini. Nel frattempo il parlamento aveva approvato l’amnistia per il ventennale della Costituzione, ma il giovane obiettore la rifiutò perché avrebbe cancellato con la pena anche il reato. «Non ho mai accettato di cancellare quella condanna dalla mia fedina penale», ha precisato Fabbrini, che però fu obbligato ad accettare l’indulto, che gli consentì di stare in carcere solo sei mesi. Tornato alla vita civile, Fabbrini venne immediatamente rimosso dal posto di ruolo all’Università di Roma, ma da Firenze Giorgio La Pira gli spedì questo telegramma: «Se da Roma la cacciano, a Firenze c’è posto per lei». Era tuttavia un posto non pagato. «Dovetti poi vincere il concorso a cattedre per insegnare Storia e Filosofia nei licei, cosa che feci per tre anni prima di vincere il posto di ruolo con La Pira. Né più, non potevo essere assunto perché non avevo l’indispensabile certificato di buona condotta. Fu dunque una odissea», ha raccontato Fabbrini, sottolineando le conseguenze anche sul piano professionale di chi si professava allora obiettore di coscienza. L’avvocato Gatti a Barbiana Don Milani alla fine si arrese e, persuaso dagli amici, accettò la difesa di Gatti. Fece colpo sul priore l’amico Mario Cartoni, che usò argomenti cari al priore quali la coerenza con gli ultimi, i poveri, insomma tutti coloro che non hanno i soldi per pagarsi un avvocato di fiducia. Gatti poteva anche essere un borghese e appartenere alla classe sociale dalla quale don Lorenzo si era staccato diventando prete e abbracciando la causa dei poveri. Però l’istituto civile che Gatti rappresen-

8   Questa e le successive citazioni di Fabbrini sono in Lancisi, No alla guerra! cit., pp. 155-162.

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tava, quello dell’avvocato che la giustizia assegna d’ufficio all’imputato privo di un difensore, era molto utile. L’avvocato di ufficio è infatti gratuito e viene assegnato a chi non ha denaro sufficiente. Disco verde, dunque, per Gatti che quattro giorni prima dell’udienza, il 26 ottobre, salì a Barbiana per concordare la difesa. Si presentò con un’auto con le tendine ai vetri e l’autista, segno inequivocabile di appartenenza al mondo dei ricchi, dei borghesi. Ciò rese don Milani ancora più sospettoso e guardingo, pensando soprattutto ai suoi ragazzi montanari, che si ritrovarono come difensore un avvocato così importante. «Si accomodi», disse il priore a Gatti, indicando ai ragazzi di sedergli intorno, con il chiaro intento di trasformare anche quel colloquio in una lezione. Don Milani esordì ripetendo quanto aveva già scritto a Gatti: non aveva bisogno di avvocati, si sarebbe difeso da solo e, se proprio era necessaria la sua presenza, l’illustre luminare del foro romano avrebbe dovuto non prendere la parola in aula. Gatti ascoltò con pazienza, poi replicò che la proposta del priore era per lui inaccettabile. Come si poteva chiedere ad un avvocato di non parlare? Un controsenso, un’aberrazione del diritto. Nella Lettera ai giudici, in una ricostruzione dell’incontro, don Milani spiegherà di aver compreso le ragioni di Gatti: «Una precisazione a proposito del difensore. Le cose che ho voluto dire con la lettera incriminata toccano da vicino la mia persona di maestro e di sacerdote. In queste due vesti so parlare da me. Avevo perciò chiesto al mio difensore d’ufficio di non prendere la parola. Ma egli mi ha spiegato che non me lo può promettere né come avvocato né come uomo. Ho capito le sue ragioni e non ho insistito». Nonostante le diffidenze iniziali, il priore ebbe una buona impressione dell’avvocato. Appena questi se ne tornò con la sua auto di lusso a Roma, don Lorenzo prese carta e penna per scrivere alla mamma che Gatti gli era piaciuto molto. Di quell’incontro esiste anche la versione che Gatti ha reso nel 1997 al «Tirreno»: «Quando andai a trovarlo a Barbiana 121­­­­

mi disse che accettava la mia difesa ma pose dei paletti. Io mi rifiutai. Fu un dialogo molto serrato. Lui rimase colpito dalla mia fermezza»9. La preparazione della ‘Lettera ai giudici’ La Lettera ai giudici fu redatta da don Lorenzo e dai ragazzi in quasi due mesi: seguendo la cosiddetta arte dello scrivere che, secondo il priore, doveva consentire al lettore di «leggere in mezz’ora il lavoro di un mese». Essa si svolgeva in tre fasi. La prima era quella che potremmo definire della semina: quando su un determinato tema ad un allievo veniva un’idea o un vocabolo appropriati doveva appuntarseli in un foglietto. Poi nella seconda fase, quella della scrittura, i foglietti compilati venivano raccolti su un grande tavolo e suddivisi secondo la scaletta predisposta. Infine, nell’ultima fase, i ragazzi svolgevano un lavoro di cancellazione delle ripetizioni, delle parole incongrue e di aggiunta dei vocaboli che alla scolaresca apparivano migliori. «Chi riesce a levare le parole, dopo un’ora, io ne ho levate trenta, io le ho levate tutte. Eh, chi più ne leva vince. Naturalmente bisogna giustificare perché l’ha levate, vero, e questo si può discutere benissimo insieme, soltanto che richiede un tempo enorme, ma questo è proprio il tributo che l’artista deve al suo lettore», spiegò don Milani nel dicembre 1965 ad un gruppo di giovani fiorentini di una scuola di giornalismo. Come riferito da Pecorini, all’incontro parteciparono anche don Auro Giubbolini, compagno di scuola del priore e suo amico, e alcuni abitanti del quartiere fiorentino dell’Isolotto, dove operava la comunità parrocchiale di don Enzo Mazzi, che nel 1969 diede vita al primo caso in Italia di contestazione ecclesiale, nel solco dell’esperienza dei cattolici fiorentini progressisti.   Lancisi, Gatti: Come vinsi per don Milani cit.

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Riguardo all’arte dello scrivere, così viene sintetizzata in Lettera a una professoressa: «Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Non porsi limiti di tempo». I mesi di agosto e settembre il priore li trascorse chiuso in archivio dalla mattina alla sera per preparare al meglio la lettera per i giudici del tribunale. Anche i ragazzi diedero una mano, soprattutto per togliere le parole ripetute e poco adatte e per aiutare il loro maestro nel lavoro di documentazione. Furono sentiti in molti, tra cui Carlo Francovich, ex professore di Storia all’Università di Firenze e amico del fratello del priore, Adriano, con il quale aveva fatto la Resistenza, Agostino Ammannati, al quale fu affidato il compito di ricercare testi del filosofo Benedetto Croce sulla seconda guerra mondiale, e Giorgio Peyrot, docente di Diritto ecclesiastico all’Università di Roma, impegnato in quei mesi nella ricerca delle sentenze dei processi, oltre duecento, contro gli obiettori di coscienza. Viltà e impegno Peyrot (1910-2006), valdese, che nella sua produzione scientifica si è caratterizzato soprattutto come difensore delle minoranze, fu interpellato dal priore perché verificasse nelle sentenze contro gli obiettori quante volte i giudici avessero usato la parola «viltà» con la quale i cappellani militari avevano definito, nel loro comunicato, il rifiuto del servizio militare. Come si è visto, l’indignazione che mosse don Milani a scrivere la Lettera ai cappellani fu proprio quel giudizio di viltà appiccicato addosso ai giovani obiettori. Vile è chi fugge dalle proprie responsabilità, non certo chi, come gli obiettori, sceglievano di non fare il militare e pagavano di persona la loro scelta coraggiosa ed evangelica. Don Milani voleva dimostrare, con la richiesta avanzata a Peyrot, che i cappellani avevano osato quello che nessun giu123­­­­

dice nelle sentenze di condanna nei confronti degli obiettori aveva mai fatto: accusare di viltà gli obiettori di coscienza. A Don Milani premeva far chiarezza sui punti principali del documento dei cappellani militari. Li riteneva centrali nell’educazione da impartire ai suoi ragazzi. Un’educazione basata sull’idea della solidarietà nei confronti del prossimo, sul dovere dell’«I care», del farsi carico dei problemi degli altri, contrapposto al «me ne frego» fascista. In Lettera a una professoressa il fine della scuola veniva individuato nella solidarietà e nell’impegno per gli altri: «Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola?». Un’idea di scuola solidale che si contrapponeva a quella individualista e borghese: «Una sola compagna mi parve un po’ elevata. Studiava per amore allo studio. Leggeva dei bei libri. Si chiudeva in camera a ascoltare Bach. È il frutto massimo cui può aspirare una scuola come la vostra. A me invece m’hanno insegnato che questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo. ‘Dicesi maestro chi non ha nessun interesse quando è solo’». Avendo speso i suoi anni di sacerdote e di maestro ad insegnare il valore della solidarietà, don Milani non poteva far passare sotto silenzio il fatto che chi va in carcere per un ideale nobile è in genere persona generosa e solidale e non vile. E la ricerca di Peyrot lo confortò nella sua convinzione: neppure i giudici si erano permessi la sfrontatezza dei venti cappellani militari fiorentini. Al contrario, avevano espresso grande rispetto per la scelta morale e civile degli obiettori, anche se poi, come giudici, erano costretti a condannare perché la legge non consentiva l’obiezione di coscienza. Lettera a Capitini Una volta che la Lettera fu terminata, don Milani evitò di commettere l’errore compiuto quando mandò in giro a preti e giornalisti la sua Lettera ai cappellani e se la vide poi pub124­­­­

blicata solo da «Rinascita». Questa volta agì con più cautela. La Lettera arrivò in poche e fidatissime mani per evitare le strumentalizzazioni dei giornali, per riguardo nei confronti del collegio giudicante e per evitare manifestazioni di solidarietà davanti al tribunale. Ad esempio, quando venne a sapere che alcune associazioni dei non violenti e degli obiettori avevano deciso di partecipare al processo, don Milani scrisse ad Aldo Capitini per chiedergli di adoperarsi per evitare qualsiasi manifestazione prima dell’udienza con sedute e cartelli, rinviando a dopo la sentenza qualsiasi iniziativa. «Mi pare che questo sia un dovere verso il tribunale e il miglior modo d’educare la gente a un serio dibattito d’idee», osservò il priore10. Alla gestazione della Lettera don Milani fece partecipare molti amici. Era ossessionato dall’esigenza di una scrittura chiara, comprensibile e incisiva. Ci fu chi gli consigliò di essere più cauto nei confronti dei giudici, chi di togliere quell’accenno polemico al cardinale, chi quell’espressione poco garbata sui comunisti, che in fondo erano stati gli unici a pubblicare la sua Lettera ai cappellani. Tutti inviti alla prudenza che don Milani respinse, mentre accolse quelli alla chiarezza. «Perché se uno dice che non è chiaro, vuol dire che non ha capito. E se non ha capito, bisogna riscrivere il discorso. E infatti in quei casi, e solo in quei casi, si buttava tutto all’aria»11. Soldi e bufale Approssimandosi la data del processo, alcuni amici del priore si fecero avanti per proporre raccolte di fondi per le spese processuali. Uno di questi fu il giornalista Enzo Forcella, che gli aveva confessato l’indignazione provata per un articolo

  Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., pp. 435-436.  Pecorini, Don Milani! Chi era costui? cit., p. 374.

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di Carlo Falconi dell’«Espresso», in cui don Milani veniva accusato di classismo e di operare una sorta di lavaggio del cervello dei ragazzi12. Ma il priore rifiutò qualsiasi offerta. «Per il processo non intendo spendere niente e sono sicuro che Gatti non mi prenderà niente. Del resto quando sabato avrà visto Barbiana, la strada, la casa, la scuola, penso che sarà più facile che mi lasci 10.000 lire per la scuola che non me ne chieda per il processo»13. Un’agenzia di stampa fascista e alcuni fogli di destra come «Realtà politica», «Giornale d’Italia» e «Giornale di Bergamo» scrissero che il Pci aveva lanciato a tutte le sezioni la proposta di raccogliere soldi per sostenere le spese processuali e l’impegno pacifista del priore di Barbiana. La notizia rimbalzò in Vaticano. Dalla Segreteria di Stato arrivò una richiesta di chiarimento al cardinale Florit, che la trasmise al diretto interessato. Don Milani replicò che la notizia era falsa, di aver provveduto a smentire chi l’aveva scritta e di non aver ricevuto soldi dal Pci, al quale riconosceva di aver tenuto nei suoi confronti, negli ultimi mesi, un atteggiamento «ineccepibile» ma nulla di più14.  Carlo Falconi, Il prete amaro di Barbiana, «L’Espresso», 11 aprile 1965.  Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., p. 434. 14  Di Giacomo, Don Milani tra solitudine e Vangelo cit., pp. 269-270. 12 13

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Il maestro e il giudice

«Vi spiegherò quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini». Nell’incipit della Lettera ai giudici don Milani spariglia i pregiudizi e i comodi schemi di chi ha scambiato L’obbedienza non è più una virtù per un elogio del ribellismo sterile, della disubbidienza senza obbedienza, del no senza l’istanza morale del sì responsabile. O peggio ancora ha ritenuto di annoverare il priore di Barbiana nella schiera folta e nostalgica del papa re e della negazione del Risorgimento. Don Milani comincia la sua Lettera giustificandosi per l’assenza. Non è in aula come un cittadino osservante delle leggi non certo per mancanza di rispetto per lo Stato, ma solo per la malattia devastante che nel giro di quattro mesi lo porterà alla morte. «La malattia è l’unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato», tiene a precisare don Lorenzo. Don Milani si rivolge ai giudici nella sua qualità di parroco e di maestro. La prima funzione non necessità di spiegazioni, la seconda sì. Il priore racconta ai giudici perché si è messo a fare scuola a Barbiana. C’era solo una scuola elementare con cinque classi in una sola stanza e i ragazzi quando finivano gli studi erano, scrive don Lorenzo, semianalfabeti. Il loro destino di ragazzi timidi e disprezzati erano i campi e le stalle. «Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola», scrive don Milani. 127­­­­

Una scuola severa, dodici ore al giorno, 365 giorni l’anno, in cui i ragazzi vivono con il maestro più che in famiglia: «Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme». Ed è in questa scuola che un giorno arrivò un amico del priore e dei ragazzi, Agostino Ammannati, a portare, come si è visto, il testo del comunicato stampa dei cappellani militari, definito «gratuitamente provocatorio». Perché dei preti seppure con le stellette avevano usato definire vili gli obiettori? I ragazzi erano sdegnati. Ciò indusse il priore a dar loro «una lezione di vita». Scrive don Milani: «Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande ‘I care’. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’». Il tribunale e la scuola La Lettera prosegue poi raccontando il metodo di lavoro adottato, la ricerca di una guerra giusta nella storia dell’Italia dal 1861 in poi («Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata») e infine le reazioni con decine di lettere anonime piene di ingiurie e di minacce, i travisamenti della stampa, l’ostilità della Curia. Fino all’incriminazione. «Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale», scrive don Lorenzo. Giovani così diversi dai coetanei «che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione», prosegue la Lettera. E così diversi anche da uno dei cappellani militari, professore di religione di un ragazzo di Barbiana. Un prete con 128­­­­

le stellette che in classe parlava spesso di sport. Che raccontava di essere appassionato di caccia e di judo. Che ha l’automobile. «Non toccava a lui chiamare ‘vili e estranei al comandamento cristiano dell’amore’ quei 31 giovani. I miei figlioli voglio che somiglino più a loro che a lui», polemizza il priore di Barbiana. Che subito aggiunge una frase chiave per comprendere la Lettera: «E ciò nonostante non voglio che vengano su anarchici». Ecco il punto. La Lettera difende gli obiettori di coscienza e processa l’obbedienza acritica, ma lo fa in nome dell’impegno sociale e politico. Questo si propone la scuola di Barbiana: formare ragazzi impegnati, responsabili. «La scuola deve tendere tutto nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: ‘Povera vecchia, non ti intendi più di nulla’ e la scuola risponde con la rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo felice solo che il suo figliolo sia vivo e ribelle», scrisse il priore a Michele Gesualdi. I grandi temi della Lettera sono sì l’obbedienza, la guerra, il primato della coscienza, ma quello che tutti li sottende riguarda la concezione della scuola. Già, ma cosa è una scuola? Qual è in definitiva il motivo profondo che ha spinto don Milani a rispondere ai cappellani militari? Lo spiega lui stesso, con queste parole: «La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione)». Questo è il cuore del processo all’obbedienza. Il giudice è chiamato a far rispettare la legge: è il suo mestiere. Il maestro invece deve educare i ragazzi a impegnarsi per leggi migliori. Ma il dramma del giudice è che talora deve sentenziare in nome di leggi sbagliate. Don Milani porta come esempio i magistrati che in passato hanno dovuto perfino emettere 129­­­­

sentenze di condanna a morte. «Se tutti oggi inorridiamo a questo pensiero dobbiamo ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare la legge che allora vigeva», spiega. Né anarchico e né conformista Il giudice e il maestro. Il tribunale e la scuola. Due ruoli e due mondi apparentemente contrapposti, ma in realtà legati da una necessità storica: le leggi per progredire e scandire i passaggi d’epoca delle civiltà hanno bisogno di maestri che insegnino ad andare oltre, a disobbedire in nome di un’obbedienza superiore. In questo senso, il sapere deve aiutare a migliorare le leggi. Ma il miglioramento passa anche attraverso la nozione del conflitto, della disobbedienza, dell’obiezione di coscienza a leggi sbagliate. «Ecco perché, in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico», scrive don Milani. La scuola che emerge dalla Lettera è una zona franca in cui formare i ragazzi al senso della legalità, ma anche al superamento delle leggi sbagliate. «Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i ‘segni dei tempi’, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso», scrive il priore. In questa ottica, l’insegnamento ai ragazzi della disobbedienza alla legge sbagliata può diventare amore per una legge migliore. «Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il 130­­­­

sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate». Questa tecnica di amore costruttivo, scrive don Milani, si rifà alla lettura del Critone, dell’Apologia di Socrate, della vita del Signore nei quattro Vangeli, dell’autobiografia di Gandhi e delle lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che si sono trovati in contrasto con l’ordinamento vigente al loro tempo «non per scardinarlo, ma per renderlo migliore». Una tecnica a cui lui stesso si è ispirato: «L’ho applicata, nel mio piccolo, anche a tutta la mia vita di cristiano nei confronti delle leggi e delle autorità della Chiesa. Severamente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo, appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno d’aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime!». E a questi valori – conclude don Milani – ha educato anche i suoi ragazzi. Li ha educati ad essere «né anarchici e né conformisti». Anche ai giudici, il priore di Barbiana ripete quanto scritto ai cappellani: la leva per cambiare la legge è rappresentata dal voto e dalla Costituzione, precisa, affiancando ad essi anche lo strumento dello sciopero. «Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. È scuola per esempio la nostra lettera sul banco dell’imputato e è scuola la testimonianza di quei 31 giovani che sono a Gaeta. Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l’anarchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto».

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Al servizio della classe dominante Ma è poi reato la lettera incriminata?, chiede ad un certo punto ai giudici don Milani. Se anche lo fosse stata, argomenta il priore, era suo dovere morale di maestro scriverla egualmente. «Vi ho fatto notare che togliendomi questa libertà attentereste alla scuola cioè al progresso legislativo», precisa il priore di Barbiana. No, quella lettera non configurava un reato, prosegue convinto don Milani. Perché l’articolo 11 della Costituzione, richiamato a misura della legittimità delle guerre combattute dopo l’Unità d’Italia, evidenzia come tutte fossero, alla luce della Carta repubblicana, illegittime. Il priore fa notare ai giudici come il pubblico ministero abbia interpretato come apologia della disobbedienza una lettera che è un esame di cento anni di storia alla luce del verbo «ripudia», citato nell’articolo 11. Insomma, è dalla premessa di come si giudicano quelle guerre che consegue la decisione di obbedire o meno a guerre future, sottolinea don Milani. È la Costituzione che consente di fatto la disobbedienza quando la guerra si profila come aggressione di altri popoli. Nell’anno in cui don Milani scriveva ai cappellani militari e ai giudici del tribunale di Roma, iniziavano a formarsi le prime contestazioni giovanili al sistema di potere, di cui il militarismo era una struttura portante. A Pisa, ad esempio, cominciava a farsi conoscere Adriano Sofri. Si era appena laureato con una tesi su Gramsci e, due anni prima, studente alla Normale, aveva avuto il coraggio di contestare pubblicamente Palmiro Togliatti. «Ci voleva l’ingenuità d’un generale americano per pensare che un partito che si proclamava comunista volesse il comunismo», urlò il ventunenne Sofri rivoltò al segretario del Pci. Che stizzito e un po’ sprezzante replicò: «Devi ancora crescere. Provaci tu, a fare la rivoluzione», e Sofri concluse: «Ci proverò, ci proverò»1. Quattro anni dopo il giovane Adriano fondò Lotta Continua.

  Lancisi, Il miscredente cit., p. 38.

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In quegli anni febbrili, il giovane normalista che sognava la rivoluzione lesse con molta attenzione L’obbedienza non è più una virtù, testo al quale riconosce il merito di aver contribuito «a demolire il militarismo, cioè il cattivo deposito delle cose peggiori: lo spirito di corpo, il maschilismo, il culto della virilità e della forza, il culto dell’abnegazione che aliena la personalità e l’individuo. L’obiezione di coscienza mossa da don Milani è stato un fenomeno decisivo anche dal punto di vista dei diritti umani»2. E tra le «cose peggiori» la principale, quella che in qualche modo tutte le riassumeva, era l’ideale di patria. «Quando andavamo a scuola noi i nostri maestri, Dio li perdoni, ci avevano così bassamente ingannati. A sentir loro tutte le guerre erano ‘per la Patria’»3. Già, ma cosa è la patria? Milani prende in esame diverse concezioni e idee. Una definizione che un marxista come Sofri avrà sicuramente condiviso appieno sottolineava il rapporto tra classe dominante e patria: «I nostri maestri si dimenticavano di farci notare una cosa lapalissiana e cioè che gli eserciti marciano agli ordini della classe dominante», scrive il priore di Barbiana nella Lettera ai giudici. È la storia di tutte le guerre. Basti soffermarsi a quelle contemporanee, dove il petrolio e l’industria sono le motivazioni scatenanti dei conflitti degli ultimi anni, dall’Iraq all’Afghanistan, come denunciano leader pacifisti come Gino Strada e padre Alex Zanotelli, che molto devono alla lezione di don Milani. «L’esercito ha marciato solo agli ordini di una classe ristretta», sottolinea il priore. La classe dominante detiene il potere economico e, attraverso il voto, quello politico. Una classe ricca e ristretta. In Italia, spiega don Milani ai giudici, fino al 1880 aveva diritto di voto solo il 2% della popolazione. Percentuale che sale al 7% fino al 1909. Nel 1913 gli italiani che avevano il diritto di recarsi alle urne erano il 23%   Lancisi, No alla guerra! cit., p. 182.   Milani, L’obbedienza non è più una virtù cit., p. 46.

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di tutta la popolazione. Durante il fascismo poi, dal 1922 al 1945, al posto del certificato elettorale, annota amaramente il priore di Barbiana, arrivarono nelle case degli italiani le cartoline di chiamata per guerre tragiche. Facile concludere che «l’esercito non ha mai o quasi mai rappresentato la Patria nella sua totalità e nella sua eguaglianza», ma ha marciato solo agli ordini di una classe dominante ristretta. «Del resto ne porta ancora il marchio: il servizio di leva è compensato con 93.000 al mese per i figli dei ricchi e con 4.500 lire al mese per i figli dei poveri, essi non mangiano lo stesso rancio alla stessa mensa, i figli dei ricchi sono serviti da un attendente figlio dei poveri», osserva don Milani. A scuola il priore aveva solo figli di contadini e di operai. Nelle loro case la luce elettrica era arrivata da poco, ma le cartoline di precetto avevano cominciato a portarle a domicilio fin dal 1861: «Non posso non avvertire i miei ragazzi che i loro infelici babbi han sofferto e fatto soffrire in guerra per difendere gli interessi di una classe ristretta (di cui non facevano nemmeno parte!), non gli interessi della Patria». Poi c’è un’idea di patria che spinge gli eserciti alla conquista e all’aggressione di altre nazioni, di territori altrui. Una patria che si alimenta dell’ideologia della grande patria e dell’impero. «Ci presentavano l’Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri s’erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla», scrive don Milani. Tra le molte lettere, spesso zeppe di insulti, che il priore di Barbiana ricevette dai fascisti dopo la Lettera ai cappellani militari, alcune lo avvertivano minacciose di sciacquarsi la bocca prima di pronunciare il nome di Cesare Battisti. Un equivoco dovuto al fatto che a scuola era stato presentato come un eroe fascista. «Si erano dimenticati di dirci che era un socialista. Che se fosse stato vivo il 4 novembre quando gli italiani entrarono nel Sud Tirolo avrebbe obiettato. Non 134­­­­

avrebbe mosso un passo di là da Salorno per lo stessissimo motivo per cui quattro anni prima aveva obiettato alla presenza degli austriaci di qua da Salorno e s’era buttato disertore, come dico appunto nella mia lettera», scrive don Milani. La conclusione è che la patria, se viene trasformata in oggetto di adorazione, diventa un idolo. Questo il senso dei cattivi sedimenti evocati da Sofri: la patria come idolo al quale si offrono in pasto vite umane. «Anche la Patria è una creatura cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora. Io penso che non si può dar la vita per qualcosa di meno di Dio. Ma se anche si dovesse concedere che si può dar la vita per l’idolo buono (la Patria), certo non si potrà concedere che si possa dar la vita per l’idolo cattivo (le speculazioni degli industriali)», osserva don Milani. Ad esempio, aggiunge il priore, a scuola «I nostri maestri non ci dissero che nel ’66 l’Austria ci aveva offerto il Veneto gratis. Cioè che quei morti erano morti senza scopo. Che è mostruoso andare a morire e uccidere senza scopo». Accusato di aver oltraggiato la memoria dei soldati caduti in guerra, don Milani così si difende: «Ho rispetto per quelle infelici vittime. Proprio per questo mi parrebbe di offenderle se lodassi chi le ha mandate a morire e poi si è messo in salvo». L’obbedienza non è più una virtù Negli ultimi paragrafi, la Lettera giunge al cuore del processo milaniano all’obbedienza, là dove il priore mette in scena l’antico contrasto tra la legge dello Stato e la coscienza dell’individuo per concludere con il primato della seconda sulla prima. Partendo dalla sua storia di ragazzo educato in una scuola fascista: «Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per essere più precisi, obbedienti agli ordini di Hitler. Cinquanta milioni di morti». Una tragedia. Una immane tragedia. Che affondava le sue radici nella cat135­­­­

tiva educazione impartita nelle scuole fasciste. Per cui il ragazzo di 13 anni «volgarmente mistificato» dai suoi maestri, una volta diventato lui stesso maestro, ha avvertito l’obbligo morale e civico di raccontare la verità ai suoi allievi. E quale migliore verità di quella «di demistificare tutto, compresa l’obbedienza militare come ce la insegnavano allora»? Sfogliando i codici, don Milani racconta di aver scoperto che anche l’ordinamento giuridico riconosce che «il soldato ha una coscienza e deve saperla usare quando è l’ora». Che non è un robot: pigi un comando e quello esegue le stragi comandate. No, non è così, argomenta il priore. «Abbiamo trovato che il soldato non deve obbedire quando l’atto comandato è manifestamente delittuoso. Che l’ordine deve avere un minimo d’apparenza di legittimità». Ecco la parola chiave, anche se debole, quasi indefinita: una legittimità almeno apparente. «Come potrebbe avere un minimo di parvenza di legittimità una decimazione, una rappresaglia su ostaggi, la deportazione degli ebrei, la tortura, una guerra coloniale?», si chiede don Milani. Il priore e i suoi ragazzi avevano trovato anche una sentenza in cui un soldato era stato condannato per aver obbedito ad un ordine di strage di civili. Non è importante quanti anni di galera si sia preso il soldato e quante donne e bambini abbia ucciso. Importa che sia stato condannato. Che non sempre è lecito obbedire. Che anche l’obbedienza può portare a compiere reati. Sì, è vero che il cardinale Florit, in una lettera al clero del 14 aprile del 1965, aveva scritto che «è praticamente impossibile all’individuo singolo valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità degli ordini che riceve», ma il priore di Barbiana precisa che il suo superiore «non voleva riferirsi all’ordine che hanno ricevuto le infermiere tedesche di uccidere i loro malati. E neppure a quello che ricevette Badoglio e trasmise ai suoi soldati di mirare anche agli ospedali (telegramma di Mussolini 28-3-1936). E neppure all’uso dei gas». Insomma, ci sono ordini e ordini, e occorre che il cittadino 136­­­­

discerna. Quegli ufficiali e soldati obbedienti che usarono i gas in Etiopia sono per don Milani «criminali di guerra e non son ancora stati processati». E invece, si lamenta il priore, è stato processato lui per aver scritto una lettera considerata da molti nobile: «Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati». La tensione della Lettera sale quanto più si avvicina ad affrontare la tragedia della seconda guerra mondiale. I nazisti condannati a Norimberga e Gerusalemme avevano obbedito, quando dovevano disobbedire in nome di una legge superiore. Per alcuni la legge di Dio, per altri la legge della coscienza. Così come obbedì Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima. Un delitto che ha coinvolto migliaia di corresponsabili: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori. Ed ecco il passo cruciale, l’anima della Lettera: «A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C’è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

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La condanna

Il 30 ottobre 1965, un sabato, si tenne la prima udienza del processo. «L’Unità» riportò la notizia a quattro colonne in terza pagina, sotto una foto-notizia su una manifestazione contro la guerra in Vietnam a New York, dove ventisei giorni prima, festa di San Francesco, Paolo VI aveva tenuto al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite un discorso storico contro la guerra. «Jamais la guerre! Jamais la guerre!», aveva invocato il pontefice. «Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità!»1. New York chiamava Barbiana. Il papa si sintonizzava sulle onde lunghe e profetiche di un prete in odore di «eresia». Nella Lettera, depositata in tribunale proprio in quei giorni di ottobre, don Milani sosteneva: «Allora la guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una ‘guerra giusta’ né per la Chiesa né per la Costituzione». Il discorso di Paolo VI dava obiettivamente una mano alla difesa di don Milani. Un ottimo e inatteso viatico. Il rifiuto papale della guerra per dirimere i conflitti tra i popoli era il segno evidente e solenne che l’azzardo profetico da Barbiana si estendeva a tutta la Chiesa e, attraverso le parole del papa, raggiungeva tutti i popoli. Se per la narrazione di La Pira   Lancisi, No alla guerra! cit., p. 73.

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Firenze era la nuova Gerusalemme, si può forse sottolineare come, almeno in questa vicenda, la nuova Gerusalemme era Barbiana. Se nei processi a Giuseppe Gozzini e a padre Ernesto Balducci i giudici avevano potuto sostenere le loro sentenze di condanna sulla dottrina cattolica, da New York era partito un colpo forse decisivo all’istanza ideologica della «guerra giusta». Il cancro che lo stava divorando impedì a don Milani di prendere il treno per Roma per recarsi da imputato al processo. Mandò il certificato medico. «Dato il tipo di malattia e le sue attuali condizioni, non è consigliabile che si sottoponga a affaticamenti fisici e psichici», scrisse il professor Enrico Greppi, direttore della clinica medica di Careggi. Al certificato medico il priore allegò la Lettera ai giudici, che l’avvocato Gatti consegnò al presidente della giuria Carlo Testi. La giuria era composta anche dal giudice estensore Vincenzo Simonelli, dal giudice Brunello Della Penna, mentre la funzione di pubblico ministero venne svolta da Pasquale Pedote. Si presentò invece in aula Pavolini. I suoi difensori chiesero i termini a difesa per il proprio assistito. Furono accordati e il processo slittò di un mese e mezzo, dal 30 ottobre al 14 dicembre. La prima udienza fu brevissima, appena cinque minuti, il tempo di svolgere le formalità di rito. In aula pochissima gente: i giornalisti, qualche avvocato, l’imputato di «Rinascita» con qualche suo amico, nessun prete, annotò il giornalista della «Nazione» Mario Cartoni. Il suo articolo piacque molto a don Milani. Lo trovò «spiritoso, simpatico, inequivocabile»2. Lo colpì l’annotazione: «Nessun prete». L’unico aspetto negativo dell’udienza. Scherzosamente, ma non tanto, il priore assicurò l’amico giornalista che per il 14 dicembre avrebbe cercato di mobilitare un po’ di tonache, «almeno 10», spe2   Il carteggio tra Mario Cartoni e don Milani è in Di Giacomo, Don Milani tra solitudine e Vangelo cit., pp. 380-391.

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cificò. Era rivolta alla sua Chiesa, alla sua «ditta», come la chiamava, l’attenzione principale del priore, non ricambiata dal mondo cattolico, in cui faceva fatica a mettere radici il discorso di Paolo VI all’Onu: predominava una mistura di silenzio, ostilità, indifferenza, che lo amareggiava molto, anche perché ad essa faceva da contraltare la solidarietà di protestanti e valdesi. Agli amici, tra cui il pastore dei valdesi di Firenze Luigi Santini, che erano saliti a Barbiana per esprimergli solidarietà, don Milani confessò che a Roma ci sarebbe andato in barella se fosse stato sicuro di trovare la piazza antistante il tribunale «nereggiante di preti»: «Non per me, ma perché questo significherebbe che la Chiesa ha preso coscienza, tutta intera, del problema degli obiettori»3. Brulichio di tonache La solidarietà dei suoi confratelli divenne un’ossessione per don Lorenzo. Barbiana, in quei mesi, fu inondata da un fiume di solidarietà «atea, laica, protestante, anarchica, comunista», ma le lettere dei sacerdoti furono poche. E il priore ne soffrì molto. Lo si ricava dalla risposta ad un biglietto di solidarietà fattogli pervenire nientemeno che da un vescovo: «Caro monsignore, nello scrivermi quel biglietto lei intendeva farmi piacere, ma certo non poteva indovinare che fame io avessi d’un biglietto così e d’ogni altra manifestazione cattolica»4. Così, alla vigilia della seconda udienza, ai suoi amici giornalisti più fidati chiese di sottolineare la presenza al processo di preti. A Cartoni ad esempio raccomandò di scrivere: «l’aula questa volta brulicava di tonache: è chiaro che ultimamente qualche cosa s’è mosso». E in effetti, nella seconda udienza, la situazione andò un po’ meglio. «Una piccola folla di giovani sacerdoti 3   Virgilio Zangrilli, Dibattito sulla scuola di Barbiana, «Scuola e città», gennaio 1968. 4   Gesualdi (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani cit., pp. 268-269.

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e seminaristi ha atteso stamani, inutilmente, l’arrivo di don Lorenzo Milani in tribunale», fu l’incipit dell’articolo di Roberto Martinelli, cronista giudiziario del «Corriere della Sera». Nel dibattimento, l’avvocato Gatti chiese di sentire come testi alcuni parlamentari che avevano presentato una proposta di legge sull’obiezione di coscienza e anche l’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti, che del problema si era occupato nella relazione al bilancio. La richiesta non venne accolta perché i giudici fecero propria la tesi del pubblico ministero, secondo la quale il tribunale non avrebbe dovuto entrare nel merito del dibattito sull’obiezione di coscienza, ma giudicare se don Milani avesse travalicato il diritto di opinione. Dopo un ulteriore rinvio, l’udienza decisiva si tenne il 15 febbraio 1966 in un’aula affollata di giornalisti, di giovani e anche di alcuni preti. Una giornata storica. Un prete alla sbarra per aver difeso il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, per il quale alcuni giovani erano stati sbattuti in galera. Indifesi. Lo Stato contro. La Chiesa né di qua né di là. Indifferenza a sinistra. Ostilità a destra. In una lettera all’amico giornalista Enzo Forcella, scritta il 14 ottobre 1965, il priore paragonò il suo processo a quello che proprio in quel periodo si stava tenendo contro i coniugi Claire e Youssef Bebawi per l’omicidio di Farouk El Chour­ bagi: «Si vedrà chi vince tra me e la signora Bebawi! Del resto, io non voglio nessuna risonanza teatrale al processo, ma solo risonanza di approfondimento e discussione serena sulla mia lettera nuova e su quella incriminata». Il giallo della dolce vita romana, che ottenne la copertina dei settimanali dell’epoca, risaliva al 18 gennaio 1964 quando venne ucciso il ventisettenne Farouk El Chourbagi, giovane miliardario di origine egiziana ma nazionalità libanese, rampollo dell’ex ministro del Tesoro dell’Egitto. Farouk fu assassinato con quattro colpi di pistola, una calibro 7,65, e sfregiato al volto con il vetriolo. Ad alimentare l’interesse contribuì anche la sfida tra due principi del foro: Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica, difensore di Claire, e Giuliano 142­­­­

Vassalli, futuro ministro di Grazia e Giustizia, «padre» del nuovo codice processuale penale, difensore di Youssef. «Don Lorenzo assoltoooo...» Il primo a prendere la parola nel dibattimento fu il pm Pasquale Pedote. Il nocciolo della sua arringa fu l’accusa a don Milani di essersi dimenticato dell’articolo 54 della Costituzione, il quale sancisce il dovere dei cittadini di rispettare le leggi5. Pedote richiamò polemicamente la scritta «I care» che campeggiava sulle pareti della scuola di Barbiana. Significava «mi preme, mi sta a cuore». Era il motto dei giovani americani migliori. Che don Milani mutuò come senso profondo della sua esperienza pedagogica: la cultura come interesse per il prossimo. «Cercarsi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola?», scriverà don Lorenzo in Lettera a una professoressa. Ebbene, incalzò Pedote, come era possibile che don Milani avesse assunto come motto della sua scuola «I care» e poi insegnasse ai suoi allievi l’obiezione di coscienza nei confronti di leggi ingiuste? Il pm non sembrò comprendere il nocciolo del processo: il contrasto, cioè, tra la funzione del maestro e quella del giudice, evocato – come abbiamo visto­ – nella Lettera ai giudici. L’«I care» milaniano implicava uno scatto di passione politica e uno sguardo sul futuro che la formale osservanza 5   Per la cronaca del processo si rinvia all’articolo pubblicato da Mario Cartoni sulla «Nazione» del 16 febbraio 1966. Sulla vicenda del processo e del ricorso in appello con la conseguente condanna, vedi Fallaci, Dalla parte dell’ultimo cit., pp. 428-442.

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astratta della legge da parte del pubblico ministero non era in grado di cogliere. Pedote concluse infatti la requisitoria richiamando la distinzione tra il diritto alla critica e l’osservanza delle leggi: «Qui non è in discussione il problema dell’obbedienza, ma soltanto il problema dell’osservanza delle leggi: quelli leggi che don Milani ha violato andando oltre i limiti del suo innegabile diritto, il diritto alla critica». Il pubblico ministero chiese per il priore di Barbiana una condanna a 8 mesi di reclusione e per Pavolini a 8 mesi e mezzo. L’avvocato Gatti basò la sua arringa sul richiamo ai giudici ad avere un senso politico e storico delle leggi, sul fatto cioè che esse possano e debbano essere migliorate. Non una giustizia formale, astratta e farisaica, ma viva, dinamica. Gatti sottolineò che non si stava dibattendo, in quell’aula, di un’apologia di reato relativa a una rapina o a un furto. In ballo c’era qualcosa di più profondo e nobile: «Siamo di fronte al più grave dei problemi che occupano la coscienza del nostro paese. Parlando di obiezione di coscienza non commettiamo un crimine. Assistiamo solo all’intervento di cittadini e religiosi su questo tema appassionante e difficile». D’altra parte, i giudici dovevano tener conto che a sollevare il problema era una figura come don Milani, che aveva «consacrato tutta la sua esistenza all’esercizio delle scelte gravi». Non un personaggio qualunque, uno a cui magari scappa una frase di troppo: «È un’obiezione, la sua, che comincia subito dopo l’età dell’adolescenza quando, rifiutando gli agi della sua condizione borghese, optò per lo stato di povertà», spiegò Gatti. Anche il reato che gli si rimproverava non era altro, aggiunse, che «l’ultimo gesto di coerenza verso i principi, antichi e nuovi, del suo stato sacerdotale, della sua scuola di sincerità e di verità, a beneficio anche di noi uomini moderni». Doveva risultare evidente che la sua Lettera ai cappellani era stata scritta per porre un problema dibattuto, al quale andava data una risposta non formale: «Qui, signori giudici, occorre un colpo d’ala...», concluse Gatti. 144­­­­

E il colpo d’ala ci fu. «L’imputato don Lorenzo Milani è assolto perché il fatto non costituisce reato...», sentenziò la corte. Parole che trasformarono l’aula del processo in un tripudio: avvocati che danzavano dalla gioia, giovani che applaudivano, persino il compassato Gatti si mise a saltare come un ragazzino. Attorniato dai suoi ragazzi, don Lorenzo seguì il processo da Barbiana. Con un piccolo registratore attaccato al telefono, si tenne in collegamento costante con l’amico Cartoni, che alternava gli appunti del dibattimento alla cronaca telefonica del processo. Fu un’altalena di emozioni. La pesante requisitoria del pubblico ministero, la richiesta di condanna, poi la felice arringa dell’avvocato Gatti, infine l’assoluzione. «Don Lorenzo, assoltoooo...», gridò a squarciagola Cartoni. «Assolto come?», domando di rimando il priore. Cartoni: «Formula piena: perché il fatto non costituisce reato. Contento?». «Sì, ma... Mi sento quasi mortificato», rispose sorridendo. Succede spesso che i pericoli appaiano meno pesanti, una volta che sono stati superati. In fondo, deve aver pensato don Milani, non meritava tanto dolore, rumore e polemiche un testo che non avrebbe dovuto essere processato e che lo fu soltanto per una forzatura giuridica e politica. Tirò un sospiro di sollievo anche il cardinale Florit. Finalmente si concludeva una vicenda che gli aveva procurato tormento: «Durante la cena, la radio televisione comunica che don Milani, obiettore di coscienza, è stato assolto per insufficienza di prove. Speriamo che si finisca una buona volta con tanta reclamistica. Avrei dovuto pubblicamente protestare verso cattivo uso perché fatto con omissione intenzionale del mio testo-notificazione al clero di un anno fa. È incredibile la facilità con cui tutto viene travisato»6. Fu un sospiro, quello del cardinale, polemico, acido, amaro. Don Milani scambiato per obiettore di coscienza, accu-

 Toschi, Don Lorenzo Milani cit., p. 104.

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sato di aver travisato la lettera di Florit di un anno prima, assolto per insufficienza di prove quando invece l’assoluzione fu concessa con formula piena. A distanza di anni, l’avvocato Gatti ha ricordato che non fu affatto un processo facile e scontato perché l’opinione pubblica era divisa: «L’obiezione di coscienza era una delle cose più difficili da introdurre nel nostro sistema: si temeva che potesse disgregare l’apparato militare»7. La sentenza del tribunale che mandò assolti don Milani e Pavolini ebbe il merito storico di fare da apripista al riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza. Come in altre occasioni della storia del nostro Paese, la giustizia assolse ad una funzione di stimolo nei confronti della politica, sollecitandola ad aprirsi alla novità dei tempi. ‘Lettera a una professoressa’ Neppure il tempo di godere dell’assoluzione al processo per la Lettera ai cappellani militari, anche se poi incomberà l’appello, che per don Milani già si profilò un’altra battaglia. Un altro processo. Questa volta alla scuola italiana. Nell’anno che intercorre tra il processo di Roma del 15 febbraio 1966 e la morte avvenuta il 26 giugno del 1967, don Lorenzo e i suoi ragazzi furono presi dalla stesura di Lettera a una professoressa, scritta «per provocare risentimento, turbamento, traumi, discussioni, contrasti, riflessioni». La Lettera, uscita nel maggio del 1967, è stato un bestseller internazionale, ha anticipato per certi versi il ’68 e ha scosso dalle fondamenta la scuola italiana. Della sua preparazione e finalità il priore parlò per la prima volta in una lettera a Agostino Burberi, il 20 settembre 1966: «Stiamo lavorando a una importante lettera aperta alla professoressa che bocciò il Biondo e Enrico l’anno scorso. Le

 Lancisi, Gatti: Come vinsi per don Milani cit.

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tre bocciature di quest’anno mi hanno rinfocolato la rabbia e penso che verrà fuori un capolavoro. Sarà un canto di fede nella scuola e il manifesto del sindacato genitori di cui te e Michele (Gesualdi, NdA) sarete un giorno l’anima». Quando Vittorio Zani, titolare della Lef, la piccola casa editrice fiorentina della Lettera, presentò a don Milani la prima copia stampata, il priore gli domandò: «Vittorio, quante ne hai stampate?». «Diecimila copie», rispose Zani. «Sei un bischero, ne venderai un milione», brontolò il priore. Che vide lungo: tra edizioni italiane e straniere, nel giro di quarant’anni la Lettera ha venduto milioni di copie. E se ne continuano a vendere. Lettera a una professoressa nacque in risposta alla bocciatura di tre ragazzi della scuola di Barbiana, studenti delle magistrali. Bocciati. Nonostante che fossero, così li definisce don Lorenzo, «ragazzi meravigliosi, che parlano correttamente due o tre lingue moderne, che sono stati a lungo all’estero a lavorare, che sanno tutto di politica e di sindacato». Non erano quindi ragazzi pigri, in difficoltà. Alla scuola del priore erano bravi, alla scuola pubblica furono respinti. La ragione? Semplice, rispose don Milani. La sua scuola era troppo diversa da quella pubblica. Due scuole e didattiche alternative tra loro: «Il modo di scrivere che gli ho insegnato io là è considerato scarno, e poi con il tipo di temi che ricevono non sono capaci di scrivere perché considerano il tema una farsa, una cosa convenzionale. Qui erano abituati a scrivere solo quando occorreva scrivere e mai per esercitazione. Parlare una lingua straniera là è considerato zero, se non si conoscono le regoline. La storia moderna su cui sono ferrati, là non la fanno nemmeno. La geografia politica su cui saprebbero tutto là non viene chiesta. La cultura sindacale ancora meno. La passione per l’insegnamento oppure anni di insegnamento che hanno fatto qui ai loro compagni minori non è considerato quanto la conoscenza del parentado di Enea».

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La diversità della scuola di Barbiana Ma in cosa consiste la grandezza, e insieme la diversità, della scuola di Barbiana? Molteplici gli aspetti della Lettera che meritano di essere sottolineati. A cominciare dalle finalità pedagogiche e morali. La scuola deve avere, sottolinea don Milani, un fine «onesto», «grande», che non presupponga nel ragazzo «null’altro che d’essere uomo» e che vada bene per credenti e atei. La scuola è la differenza di fondo che, per don Milani, c’è tra l’uomo e gli animali: «Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti». La Lettera individua nella politica, nel sindacato e nella scuola i luoghi sociali per eccellenza dove può manifestarsi l’attenzione agli altri. Se il fine ultimo della scuola è dedicarsi al prossimo, quello immediato è «intendere gli altri e farsi intendere». L’attenzione è pensiero, sentimento e sguardo che diventano amore, solidarietà e politica attraverso la parola. La quale, nell’accezione milaniana, è anche «sacramento», cioè segno, dell’amore di Dio nei confronti degli uomini. La parola con la «p» minuscola ha la sua radice nella Parola con la «P» maiuscola. Un giorno don Milani scrisse a una professoressa di Verona: «Il desiderio di esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore. Per cui essere maestro, esser sacerdote, esser cristiano, esser artista e esser amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa». La parola, in don Milani, definisce l’identità di una persona, cioè la capacità di esprimere il proprio pensiero e di capire quello altrui. E nel contempo consente all’uomo di essere solidale con gli altri esseri in quanto la parola consente la relazione tra gli individui. Tre erano le caratteristiche della scuola di Barbiana: viva, vera e laica. La scuola di Barbiana era una finestra sempre aperta sul mondo. Negli anni Sessanta i ragazzi di don Mila148­­­­

ni leggevano per due ore al giorno i giornali. L’attenzione al mondo si esprimeva anche nell’apprendimento delle lingue straniere e dai viaggi all’estero. Don Milani teneva molto a mandare i ragazzi nei Paesi stranieri per lavorare e apprendere la lingua. «Devono imparare almeno tre lingue perché le barriere spariranno e vivremo a contatto con persone che parlano lingue diverse», diceva il priore. E ancora: «La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose». Nella Lettera viene evidenziata la contraddizione di fondo della scuola borghese, che fa sì che la massa non possieda la parola e chi possiede la parola sia estraneo alla massa. La prima è una cultura muta: i poveri conoscono le cose e «i bisogni dei più» ma sono incapaci di parlare. La seconda è una cultura cieca: è ricca di parole ma non vede le cose che davvero contano nella vita. Ripete «solo cose scritte nei libri». La contraddizione si risolve riconoscendo che non esiste un’unica cultura. «Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri», affermano i ragazzi nella Lettera a una professoressa. Infine, una scuola laica. La pluralità delle culture conferisce alla scuola di Barbiana un aspetto ulteriore di attualità: quello della laicità del processo pedagogico. La scuola milaniana non trasmette verità ma nozioni tecniche. Così come le divisioni accese tra scuola confessionale e non confessionale non hanno senso, avvertì il priore di Barbiana, se si vuol bene davvero ai ragazzi. Una scuola laica fino al punto di non avere alcuna pretesa di trasmettere se stessa: «È meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia, e qui è il fine 149­­­­

ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso», scrisse don Milani a Michele Gesualdi. La condanna Mentre Lettera a una professoressa era in stampa, don Milani comprese di avere i giorni contati. Come se dovesse partire per un lungo viaggio, decise di sistemare un po’ di cose che gli stavano particolarmente a cuore. Come Eda Pelagatti, che aveva accudito lui e i ragazzi come una madre. Don Lorenzo le destinò i diritti di autore. Fermamente convinto, come disse più volte ai suoi ragazzi, che il segreto pedagogico non fosse esportabile, si mise a bruciare nella stufa molti documenti della scuola e la chiuse. Il 25 aprile 1967 fece le valigie e andò ad abitare dalla mamma, in via Masaccio 218, a Firenze. Prima di salutare i ragazzi, si mise a guardare una a una le stanze della canonica e della scuola. Infine disse loro: «Ragazzi, chissà se ci ritornerò». Il morbo di Hodgkin che lo colpì a morte aveva fatto sentire i suoi aculei nel 1960, ma per tre anni si brancolò nel buio nella sua esatta diagnosi. Che arrivò solo il 7 febbraio del 1964, quando mamma Alice informò la figlia Elena che Lorenzo veniva curato per «un linfogranuloma dichiarato». Dalla metà del 1964 agli inizi del 1967 il priore fu sottoposto a ricoveri ospedalieri e continue, dolorose cure, ma continuò a tenere le sue lezioni a letto o seduto in una sdraio. Nonostante la malattia e i lancinanti dolori, in quello squarcio di anni don Milani scrisse due opere come L’obbedienza non è più una virtù e Lettera a una professoressa. Anche nel periodo dell’agonia, nella casa materna, da fine aprile alla morte, non dismise la veste di maestro. Continuò ad insegnare ai suoi ragazzi: «Ci diceva, sul letto di morte, che bisognava per tempo imparare a morire. Chi non si abbando150­­­­

na alla morte vuol dire che prima non si è abbandonato alla vita, alle passioni e all’amore», ricorda Edoardo Martinelli, un ex allievo, autore di Progetto Lorenzo Milani, pubblicato nel 1998 dal Centro documentazione che porta il nome del priore di Barbiana. L’ultima lezione don Lorenzo la tenne il 24 giugno, un sabato. Avvertendo che il suo calvario stava per concludersi, chiese ai suoi ragazzi di andare a salutarlo per il suo congedo dalla vita. «Ragazzi, un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello passa per la cruna di un ago». Due giorni dopo, il 26 giugno, un lunedì, spirò con il corpo proteso in avanti e sostenuto da Michele Gesualdi. «Un piccolo rigolo di sangue e due occhi sgranati in avanti indifferenti al gioco della vita», ricorda ancora Martinelli. «Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo posto», scrisse nel testamento. Quattro mesi dopo, il 28 ottobre 1967, si tenne il processo d’appello. Don Milani era stato costretto, il 1° dicembre 1966, a scrivere di nuovo ai giudici per giustificare la sua assenza. Poche righe, ironiche. Da congedo finale: «Caro presidente, io ho la bua. Tanta tanta bua. Che sei bischero a farmi venire a Roma? Se mi vuoi vedere vieni te. Un bacio anche a tua moglie». Don Milani questa volta fu condannato. La condanna non poté però essere applicata. «Il reato è estinto per la morte del reo», scrissero i giudici. Disobbediente alla sua famiglia, alla Chiesa e allo Stato in nome di un’obbedienza a Dio e ai poveri, questa condanna conferisce, mezzo secolo dopo la sua morte, dolore e stupore alla vera storia di don Milani, vissuto – come ha scritto Mario Luzi – «nel fuoco della controversia». Che, nonostante il tempo, resta acceso sotto la cenere dei tentativi di annessione e omologazione. 151­­­­

Il processo all’obbedienza altro non è che lo sforzo di sottolineare che il priore di Barbiana è stato – e resta – irriducibile a qualsiasi compromesso. Un aculeo per la coscienza di tutti. Un profeta religioso e civile. Quanti hanno deciso di porsi il problema dell’obbedienza e della coscienza, della giustizia e della solidarietà, del bene e del male, non possono non provare gratitudine per il coraggio e la passione del «reo» Lorenzo Milani.

Riferimenti bibliografici

Per evitare di appesantire il testo, si è scelto di ridurre al minimo le note, fornendo qui di seguito l’elenco delle opere dalle quali sono tratti i brani citati. Eraldo Affinati, L’uomo del futuro, Mondadori, 2016. Centro don Milani-Comune di Vicchio, A trent’anni dalla ‘Lettera ai giudici’ di don Milani, Lef, 1998. Maurizio Di Giacomo, Don Milani tra solitudine e Vangelo. 1923-1967, Borla, 2001. Neera Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Bur Rizzoli, 1993. Michele Gesualdi (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori, 1970. Gruppo don Milani-Calenzano, Don Lorenzo Milani. Riflessioni e testimonianze a trent’anni dalla morte, Lef, 1997. Mario Lancisi, No alla guerra!, Piemme, 2005. Mario Lancisi, Don Milani. La vita, Piemme, 2007. Lorenzo Milani, Lettere alla mamma. 1943-1967, a cura di Alice Milani Comparetti, Mondadori, 1973. Lorenzo Milani, I care ancora. Lettere, progetti, appunti e carte inedite e/o restaurate, a cura di Giorgio Pecorini, Emi, 2001. Giorgio Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi, 1996. Massimo Toschi, Don Lorenzo Milani e la sua Chiesa. Documenti e studi, Polistampa, 1994.

Indice dei nomi

Ablondi, Alberto, 51. Adami Lami, Guido, 60. Allodi, Italo, 59. Ammannati, Agostino, 19, 25-27, 77, 123, 128. Andreotti, Giulio, 49, 142. Audisio, Emanuela, 23 e n. Autant-Lara, Claude, 47.

Bozzolini, Aldo, 80. Brambilla Pirelli, Elena, 16, 91. Brantani, Bruno, 55, 56 e n. Burberi, Agostino, 40, 146. Calamandrei, Piero, 117. Camaiani Bocchini, Bruna, 60. Cambi, Alberto, 78, 97. Cantagalli, Raffaele, 50. Capitini, Aldo, 125. Capovilla, Loris, 104-105, 107, 108 e n, 109. Carotti, famiglia, 80. Cartoni, Mario, 7, 10, 91, 120, 140 e n, 141, 143n, 145. Caselli, Gian Carlo, 37 e n. Cecchi, Alberto, 64. Ciotti, Luigi, 37. Cloche, Maurizio, 115. Costa, Angelo, 70-71. Croce, Benedetto, 123.

Bacci, Francesco, 60. Bach, Johann Sebastian, 24, 124. Badoglio, Pietro, 136. Baffi, 38-39. Balbo, Felice, 28. Balducci, Ernesto, 6, 15, 51, 53, 57-62, 65, 104, 140. Ballini, Maresco, 40. Bartoletti, Enrico, 51, 114. Barzagli, Andrea, 15. Bastiat, Frédéric, 71. Battisti, Cesare, 134. Bauer, Guido, 80. Beatles, 111. Bebawi, Claire, 142. Bebawi, Youssef, 142-143. Bensi, Raffaele, 15, 82, 86, 105. Bergoglio, Jorge Mario, vedi Francesco. Berlinguer, Enrico, 64-65. Bernabei, Ettore, 59. Bianchi, Giovanni, 54, 84, 98-100. Bianchini, Ettore, 79. Bicchi, Sergio, 40-41. Bocca, Giorgio, 27. Bonanni, Gino, 101. Bonardi, Andrea, 115. Bonsanti, Sandra, 52. Borghi, Bruno, 54-55, 95, 97, 101.

Dalla Costa, Elia, 23, 50-52, 70, 95-96, 98-99. D’Amico, famiglia, 12. D’Avack, Giuseppe, 107. De Gasperi, Alcide, 35, 48, 51. de Gaulle, Charles, 82. Del Buono, Oreste, 14. Dell’Acqua, Angelo, 95-96, 106, 108. Della Penna, Brunello, 140. Delogu, Ignazio, 64. De Mita, Ciriaco, 47. De Piaz, Camillo, 28. Di Giacomo, Maurizio, 91n, 126n, 140n. Di Marco, Salvatore, 64. Dossetti, Giuseppe, 48, 65.

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Eatherly, Claude, 137. Einaudi, Luigi, 88. El Chourbagi, Farouk, 142.

Gruppi, Luciano, 64. Guareschi, Giovanni, 3. Guevara, Ernesto, detto el Che, 3.

Fabbrini, Fabrizio, 118-119, 120 e n. Fabro, Nando, 64. Falconi, Carlo, 126 e n. Fallaci, Neera, 12, 13n, 23n, 26 e n, 54n, 83 e n, 97n, 101n, 107n, 112n, 117n, 125n, 126n, 143n. Fallaci, Oriana, 59. Falossi, Giorgio, 68 e n. Fanfani, Amintore, 48, 59. Fiorani, Liana, 25 e n. Florit, Ermenegildo, ix, 50-52, 54, 82, 84, 94, 95 e n, 96-105, 116, 126, 136, 146. Fonsegrive, George, 115. Forcella, Enzo, 27, 125, 142. Francesco (Jorge Mario Bergoglio), papa, ix-x. Francesco d’Assisi, santo, x. Franco, Francisco, 34-35. Francois, Guglielmo, 60. Francovich, Carlo, 123.

Hitler, Adolf, 50, 135, 137. Ho Chi Minh, 9. Ingrao, Pietro, 5, 31. Jemolo, Carlo Arturo, 118. Johnson, Lyndon, 111. Kennedy, John Fitzgerald, 61. Kocci, Luca, 117. Krusciov, Nikita, 61. Lancisi, Mario, 7n, 11n, 13n, 17n, 20n, 49n, 57n, 67n, 68n, 78n, 120n, 121n, 132n, 133n, 139n, 146n. La Pira, Giorgio, 9-10, 15, 22, 24, 4751, 59, 65-66, 70-71, 77, 120, 139. La Valle, Raniero, 66. Leone, Giovanni, 142. Lombardo Radice, Lucio, 64. Lorini, Giulio, 55. Lupori, Mario, 15. Luzi, Mario, 59, 151.

Galastri, Carola, 12. Galeotti, Carlo, 79. Gandhi, Mohandas Karamchand, 44, 131. Gatti, Adolfo, 117, 120-121, 126, 140, 142, 144-146. Gesualdi, Francuccio, 30, 43, 103, 116, 151. Gesualdi, Michele, ix, 30, 37n, 40, 118n, 129, 141n, 147, 150-151. Gesù Cristo, x, 36, 45, 82, 94, 115. Ginori Conti, famiglia, 12. Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), papa, 57, 63, 76, 96, 104, 106-108. Giovannoni, Giorgio, 9. Giovannoni, Giovanni, 9. Giubbolini, Auro, 122. Goss, Jean, 52-53. Gozzini, Giuseppe, 27-28, 56-59, 140. Gozzini, Mario, 15, 22, 56, 64, 65-66. Gramsci, Antonio, 132. Gregorio Magno, santo, 75. Greppi, Enrico, 140.

Magi, Piero, 83-86, 90. Malagodi, Giovanni, 83, 90-91. Manzini, Raimondo, 49. Marcora, Giovanni, 47. Maritain, Jacques, 115. Martinelli, Edoardo, 151. Martinelli, Roberto, 142. Martini, Carlo Maria, 41. Marx, Karl, 42. Mattei, Enrico, 83, 91. Mazzi, Enzo, 122. Mazzolari, Primo, 28, 69. Mazzoni, Cesare, 85. Melli, Gian Carlo, 118. Melloni, Alberto, 51. Meucci, Gian Paolo, 7, 22, 64. Milani, famiglia, 11-13. Milani, Adriano, 11, 123. Milani, Albano, 12. Milani, Elena, 11, 13, 21, 52, 72, 99, 150. Montini, Giovanni Battista, vedi Paolo VI.

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Moro, Aldo, 48. Mussolini, Benito, 135-136.

Ricardo, David, 71. Rodano, Franco, 28, 65. Roncalli, Angelo Giuseppe, vedi Giovanni XXIII. Rossi, Ernesto, 117. Rossi, Paolo, 15. Rossi, Renzo, 23, 24 e n. Ruffini, Ernesto, 35.

Nenni, Pietro, 48. Occhetto, Achille, 111. Omodei, Gianni, 8n. Orfei, Ruggero, 64. Ossicini, Adriano, 66. Ottaviani, Alfredo, 52-53, 59.

Saltini, Zeno, 51. Santilli, Reginaldo, 85-86, 115. Santini, Luigi, 141. Santini, Nevio, 80 e n. Sarti, Alvaro, 40. Sassano, Marco, 105. Scalfari, Eugenio, 117. Scelba, Mario, 70. Schettini, Giulio, 81. Silone, Ignazio, 8. Simonelli, Vincenzo, 140. Smith, Adam, 71. Socrate, 9. Sofri, Adriano, 67, 132, 135. Spadolini, famiglia, 12. Staude, Angela, 14. Staude, Hans-Joachim, 14. Stefani, Luigi, 53, 58-59. Strada, Gino, 133. Svevo, Italo, 72.

Pacelli, Eugenio, vedi Pio XII. Pampaloni, Geno, 65. Panelli, Paolo, 12. Pannunzio, Mario, 117. Paoli, Arturo, 51. Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 6, 15, 53, 59-60, 104-105, 108, 119, 139, 141. Papini, Giovanni, 65. Parente, Pietro, 60. Pavolini, famiglia, 11-12. Pavolini, Alessandro, 12. Pavolini, Luca, 3-4, 11-12, 16-17, 63 e n, 65, 78, 111-112, 140, 144, 146. Pecorini, Giorgio, 5, 6n, 13, 21, 47n, 52-53, 56, 61, 75n, 79, 90n, 117, 122, 125. Pedote, Pasquale, 140, 143-144. Pelagatti, Eda, 30 e n, 36, 79, 150. Pelagatti, Giulia, 30. Perego, Angelo, 96. Perfetti, Ferruccio, 61-62. Peyrot, Giorgio, 123-124. Pham Van Dong, 9. Pingitore, Pier Francesco, 81-82. Pinna, Pietro, 4-6. Pintor, Luigi, 111. Pinzauti, Leonardo, 61. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 48, 51. Pirelli, Alberto, 16. Pistelli, Nicola, 35, 47, 51. Pizzardo, Giuseppe, 94. Politi, Sirio, 51. Pratesi, Piero, 66. Primicerio, Mario, 9. Pugi, Daniele, 20-22. Pugliese, Antonio, 80. Puglisi, Pino, 37, 67.

Tartaglia, Bruno, 81. Terzani, Tiziano, 14. Testi, Carlo, 140. Tirapani, Mario, 20, 22-23, 99-100. Togliatti, Palmiro, 11, 63, 64 e n, 65, 132. Torres, Camilo, 3. Toschi, Massimo, 94n, 104, 106n, 145n. Turoldo, David Maria, 8, 15, 28, 51. Turrini, Claudio, 119 e n. Tutino, Saverio, 13. Vacchiano, Vittorio, 28-29. Valori, Bice, 12. Vassalli, Giuliano, 142-143. Veltroni, Walter, 41-42. Verga, Giovanni, 26. Vincenzo de’ Paoli, santo, 115. Vivarelli, Umberto, 28.

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Weiss, Carlo, 72-73, 75 e n. Weiss, Geremia, 75. Weiss, Ottocar, 72. Weiss Milani, Alice, 12-13, 17, 21, 25, 52, 72, 99-100, 150.

Zangrilli, Virgilio, 141n. Zani, Valerio, 10. Zani, Vittorio, 10, 147. Zanotelli, Alex, 67, 133. Zolo, Danilo, 64.