Prima lezione di psicologia dell’educazione

Citation preview

Universale Laterza 916

PRIME LEZIONI

ultimi volumi PUBBLICATI

Diritto

di Paolo Grossi

Letteratura greca

di Franco Montanari

Archeologia

di Daniele Manacorda

Sociolinguistica

di Gaetano Berruto

Archeologia orientale di Paolo Matthiae

Grammatica

di Luca Serianni

Storia delle relazioni internazionali di Ennio Di Nolfo

Letteratura

di Piero Boitani

Scienza politica di Gianfranco Pasquino

Storia moderna di Giuseppe Galasso

Medicina di Giorgio Cosmacini

Letteratura italiana di Giulio Ferroni

Sociologia del diritto di Vincenzo Ferrari

Metodo storico a cura di Sergio Luzzatto

Psicologia della comunicazione di Luigi Anolli

Relazioni internazionali di Luigi Bonanate

Storia contemporanea

Filosofia morale

Sociologia

Sulla televisione

di Claudio Pavone

di Arnaldo Bagnasco

Fisica

di Carlo Bernardini

di Eugenio Lecaldano di Aldo Grasso

Filosofia di Roberto Casati

Felice Carugati

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato  su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata  Gius. Laterza & Figli Spa,  Roma-Bari Finito di stampare   nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della   Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9538-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia  è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto  di un libro è illecita e minaccia  la sopravvivenza di un modo  di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera  ai danni della cultura.

L’unico periodo in cui la mia educazione si è interrotta è stato quando andavo a scuola George Bernard Shaw I miei problemi sono iniziati con la prima educazione. Andavo in una scuola per insegnanti disagiati Woody Allen Io la tenevo la penna in mano, secondo me leggere e scrivere, non è tanto difficile, quello che è più difficile a scuola è scancellare! Marco Paolini La macchina del capo

Premessa

L’avventura comincia Mettiamo le carte in tavola: le citazioni paradossali di Shaw, Allen e Paolini ci servono per suggerire al lettore un avvicinamento lieve ad un argomento serio e ricco di implicazioni teoriche e pratiche, rilevanti soprattutto in questo periodo, in Italia e non solo. Per documentarsi, è sufficiente consultare gli indici di volumi italiani, francesi o di lingua inglese, oppure gli indici di riviste che abbiano nel titolo Educazione, per trovarsi di fronte ad un catalogo di temi che spaziano fra motivazione, apprendimento, insegnamento (compreso apprendimento e insegnamento a distanza – le cosiddette nuove tecnologie), epistemologie ingenue, dinamiche emotive nelle classi, educazione ai media e molto altro ancora. E allora ecco le carte in tavola: scegliere un punto di vista all’interno del catalogo, un percorso che si collochi al crocevia fra discipline psicologiche quali la psicologia generale, sociale, dello sviluppo, e che si avventuri nel mondo delle dinamiche che caratterizzano da oltre un secolo i processi e i risultati della socializzazione e dell’insegnamento in famiglia e nei sistemi scolastici. È per seguire questo percorso che sono stati scelti i temi dei capitoli che seguono.

­viii

Premessa

Il percorso è caratterizzato dalla prospettiva socio-costruttivista1 che, nel corso del XX secolo, ha solidamente documentato in quale misura i processi di sviluppo e di insegnamento-apprendimento possono essere meglio compresi se si tiene conto della rete di relazioni sociali proprie della vita quotidiana in famiglia, negli asili nido e scuole dell’infanzia, nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle organizzazioni extra-scolastiche. Parlare di relazioni sociali porta inevitabilmente a chiedersi quale sia la loro origine e le loro funzioni. A noi evoca subito il postulato sociale2 della genesi degli strumenti cognitivi, delle funzioni psichiche superiori (nella terminologia di Vygotskij). La locuzione postulato sociale individua una posizione presente in autori operanti già nella seconda metà del XIX secolo e poi più sistematicamente a partire dai primi decenni del XX. Secondo il postulato sociale la mente, ovvero l’insieme degli strumenti cognitivi, è il risultato di una costruzione sociale. Non possiamo qui dettagliare le complesse vicende di questo approccio teorico3: esse attraversano tutto il XX secolo e si concretizzano in programmi di ricerca di cui vedremo nei prossimi capi1 W. Doise, Constructivism in social psychology, in «European Journal of Social Psychology», 1989, 19, 5, pp. 389-400; F. Carugati, M. Gilly, The multiple sides of the same tool: cognitive development as a matter of social construction of meaning, in F. Carugati, M. Gilly (a cura di), Everyday life, social meanings and the social construction of cognitive functioning, numero speciale dell’«European Journal of Psychology of Education», 1993, VIII, 4, pp. 345-354; F. Carugati, Dalle variabili extra-logiche al conflitto socio-cognitivo nello studio del pensiero, in «Studi Urbinati», 1983, B2, LVI, pp. 135-150; A.-N. Perret-Clermont, F. Carugati, Learning and instruction, Social-cognitive perspectives, in N.J. Smelser, P.B. Baltes (a cura di), International Encyclopedia of Social and Behavioral Sciences, Elsevier Science, Amsterdam-New York 2001, pp. 8586-8588. 2 W. Doise, Livelli di spiegazione in psicologia sociale, Giuffrè, Milano 1989 (ed. or. 1982). 3 Il lettore interessato può consultare F. Carugati, P. Selleri, Psicologia dell’educazione, il Mulino, Bologna 20052.

Premessa

ix

toli le principali linee di sviluppo. In ogni caso, almeno fin dagli inizi del XX secolo, quando le condotte sociali adulte e quelle infantili erano spesso studiate da un medesimo autore, la tesi dell’origine sociale degli strumenti cognitivi era ampiamente dibattuta attraverso nozioni quali quelle di imitazione, suggestione, adattamento e conflitto. Pensiamo ad autori quali Cattaneo, Binet e Baldwin4. È soprattutto con Baldwin, in un quadro culturale influenzato dalla teoria dell’evoluzione darwiniana, che vengono poste le basi non solo per una riflessione sui fondamenti sociali della conoscenza, resa autonoma dal dibattito filosofico secolare precedente, ma anche per i primi risultati di ricerche empiriche appropriate. Sulla pista tracciata da Baldwin si impegneranno Vygotskij, Wallon e Piaget, proponendo, come è noto, specifici contributi5. J. Baldwin, Mental development in the child and the race, Macmillan, New York 1895; A. Binet, T. Simon, Le développement de l’intelligence chez l’enfant, in «Année Psychologique», 1908, 14, pp. 1-94; A. Binet, La suggestibilité, Schleicher Frères, Paris 1900; C. Cattaneo, Dell’antitesi come metodo in psicologia sociale, in «Il Politecnico», 1864, 20, pp. 262-270. 5 Ricordiamo il vivace dibattito fra Piaget e Wallon attorno agli anni ’50, e i commenti critici, purtroppo a distanza (fra gli anni ’30 e gli anni ’60), fra Vygotskij e Piaget: Vygotskij ebbe infatti la possibilità di conoscere gli scritti di Piaget solo fino alla sua morte nel 1934, mentre Piaget, a causa della censura operata sull’opera di Vygotskij lungo tutta la prima metà del XX secolo, intervenne episodicamente soltanto nel 1962, conoscendo qualche estratto della versione inglese, pubblicata quell’anno, del volume Pensiero e Linguaggio. Inoltre, negli anni ’30, G.H. Mead (Mente, Sé e Società, Ed. Universitaria, Firenze 1966 [ed. or. 1934]) sostenne che il pensiero si costruisce grazie alla pratica della conversazione di gesti (non verbali e poi verbali) fra partner e alla loro relativa interiorizzazione come insieme di simboli significativi. E ancora A.R. Lurija (Storia sociale dei processi cognitivi, Giunti-Barbera, Firenze 1976 [ed. or. 1974]), ispirandosi esplicitamente a Vygotskij, illustra i cambiamenti nei modi di ragionamento che accompagnarono le grandi trasformazioni sociali e le campagne di alfabetizzazione di adulti in Uzbekistan negli anni ’20. Tuttavia, per ragioni diverse, questo postulato ha dato luogo a filoni di ricerca che 4

­x

Premessa

Ci limitiamo qui a ricordare la tesi, per noi alla base della riflessione in questo volume, secondo la quale insegnamento e apprendimento si costituiscono grazie a due poli o due sistemi: il primo è tributario del sistema storicoculturale, che si concretizza nelle forme storiche della socializzazione e dell’educazione scolastica, dei sistemi scolastici e dei curricula; il secondo, del sistema rappresentato dalle relazioni fra insegnanti e alunni. Questi due sistemi entrano in tensione creando le dinamiche di insegnamento-apprendimento. Il luogo virtuale della realizzazione di questa tensione è definito proprio zona prossimale di sviluppo (Zoped)6. Vygotskij sostiene, infatti, che l’insegnamento è utile quando tende ad operare oltre il livello di sviluppo attuale del soggetto; è sterile se non tiene conto di questo livello e si colloca troppo oltre, ma anche se è al di sotto di esso, se concerne ciò che il bambino non soltanto sa ma già padroneggia individualmente. La tesi centrale è quindi che l’insegnamento per essere efficace deve creare una tensione, una contraddizione fra l’adulto insegnante (e le sue relazioni con il polo rappresentato dalle forme storiche e concrete del sistema scolastico in cui opera) e l’alunno: l’insegnamento, se offre nuovi strumenti, nuovi contenuti, pone l’alunno in situazioni nuove che egli non è in grado, inizialmente, di risolvere da solo. D’altra parte, e contemporaneamente, l’insegnamento, mentre definisce la direzione dello sviluppo cognitivo, non lo determina meccanicamente, ma lascia zone ‘incompiute’. Infatti, gli alunni sono chiamati a fare ciò che non sanno ancora come fare; i quesiti delle prove che vengono loro proposte sono al di sopra delle loro capacità attuali e le risposte sono quindi parziali, ma la semplificazione e la suddivisione in sub-prove operata dall’insegnante (quando lo è effettivasono stati per lunghi anni del tutto minoritari rispetto a quelli fondati su concezioni individualistiche dello sviluppo. 6 F. Carugati, P. Selleri, Psicologia dell’educazione, cit.

Premessa

xi

mente), la messa in comune delle risposte parziali dei compagni, la loro discussione consente non solo di costruire risposte più elaborate ma anche i princìpi che regolano tali risposte e cioè nuovi strumenti cognitivi. Si tratta di una prospettiva teorica ispirata ad una concezione della mente umana che, nei termini del dibattito attuale in psicologia cognitiva, è presente nella distinzione introdotta da Legrenzi fra mente logica e mente sociale7. Secondo Legrenzi, infatti, i limiti della mente logica sono i punti di forza della mente sociale e a questo tema è dedicato, nello specifico, il primo capitolo di questo volume. Il lettore sarà poi invitato a riflettere sulla varietà delle dinamiche socio-cognitive che caratterizzano l’esperienza dell’imparare, intesa come attività situata nel vivo della vita quotidiana delle famiglie, delle classi e delle scuole; sull’influenza dei giudizi scolastici nella costruzione del significato e del piacere (o della fatica o noia) di imparare; sulla necessaria attenzione alle classi e alle scuole, considerate come luoghi e strumenti della costruzione di un’etica privata e pubblica per le giovani generazioni di cittadini responsabili. Si tratta di argomenti di riflessione e di ricerca che si fondano su consolidate tradizioni teoriche e di indagine empirica nei luoghi in cui si concretizza l’intreccio indissolubile fra sviluppo, socializzazione, insegnamento e apprendimento. Al lettore la libertà di valutare in che misura questa prospettiva sia interessante, argomentata e convincente.

7

P. Legrenzi, Come funziona la mente, Laterza, Roma-Bari 20003.

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Capitolo 1

Dal cervello alla mente

Spesso sentiamo l’esortazione ad abbattere il muro tra psicologia ed educazione, e spesso ci viene ricordato che trovarsi tra queste due discipline è come essere fra Scilla e Cariddi. Ma di quali mattoni sarebbe fatto il muro? cosa separa Scilla da Cariddi? o, detto in altri termini, se certamente può esistere una psicologia senza educazione, può esistere un’educazione senza psicologia? nel qual caso, a che cosa fa riferimento allora il titolo di questo volume? è forse una decrepita etichetta su un contenitore vuoto, o piuttosto pieno di buon senso, luoghi comuni, ricette della nonna, istruzioni ad uso di genitori disperati o insegnanti disillusi ed esasperati, fra ministri funambolici e bricoleur, dirigenti dirigisti o lassisti, sindacati ‘alla canna del gas’, studenti immersi nel disagio giovanile? Siamo di fronte ad un’ennesima mission impossible? Per affrontare questo argomento proponiamo una breve digressione verso il tema della mente, ovvero delle funzioni cognitive specificamente umane, che costitui­ scono prerequisiti per ogni attività di insegnamento e apprendimento e per ogni ricerca o intervento in campo educativo.

­4

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Le neuroscienze: dai risultati ai miti Da alcuni anni assistiamo ad una produzione accademica raccolta sotto l’etichetta di neuro-educazione1, denominazione che attira ovviamente la nostra attenzione e la cui eco si sta diffondendo anche in settori non specialistici. Si tratta di ricerche sul funzionamento del sistema nervoso grazie ai metodi di documentazione visiva (a colori vivaci ed accattivanti) delle aree cerebrali particolarmente attive durante l’esecuzione di un compito, la risoluzione di problemi, o addirittura quando si chiede ai soggetti di evocare immagini, eventi, concetti, stati emozionali. I diversi colori nelle immagini rappresentano l’attività elettrica, il consumo di ossigeno, il metabolismo del glucosio che si registrano durante le diverse attività. Si potrebbe quindi temere che gli psicologi, quando utilizzano semplici osservazioni carta/matita, videoregistrano comportamenti, ma anche quando conducono interviste o somministrano questionari, si sentano fuori moda, tagliati fuori dalla ricerca che conta, se confrontati con lo splendore di immagini così sorprendenti per la curiosità anche dei non esperti. Queste immagini sembrano non soltanto consentire di penetrare nei misteri del cervello, ma hanno anche attivato speranze per le possibili implicazioni nei confronti dell’apprendimento e dell’educazione. Pensiamo ai ri­sultati di indagini internazionali quali quelli di OecdPisa2 sul livello di competenze dei quindicenni, provenienti sia da paesi industrializzati3 sia da paesi conside1 R. Cubelli, Mente ed Educazione: Modelli Teorici e Pratica Didattica, http://ospitiweb.indire.it/adi/SemFeb2009_atti/sa9_frame.htm. 2 Oecd-Pisa (2009), PISA 2009 Assessment Framework – Key Competencies in Reading, Mathematics and Science, http://www.oecd. org/pages/0,3417,en_32252351_32236225_1_1_1_1_1,00.html. 3 S. Romagnoli, P. Selleri, La competenza in cerca di autore, in «RicercAzione», in corso di stampa.

1. Dal cervello alla mente

5

rati (con ironia del tutto inopportuna) da decenni ‘in via di sviluppo’: una quota non trascurabile di questi ragazzi raggiunge livelli poco soddisfacenti nella comprensione approfondita di concetti matematici e scientifici. Non c’è quindi da stupirsi della vivacità del dibattito sul fatto che questi risultati insoddisfacenti siano o meno la conseguenza – nei quindicenni – del non avere ricevuto appropriati stimoli cognitivi durante le fasi critiche dello sviluppo cerebrale. D’altra parte molti genitori e insegnanti hanno interpretato con entusiasmo i risultati delle ricerche in neuroscienze, come un messaggio secondo il quale i primi tre anni di vita determinano nel futuro l’acquisizione delle abilità cognitive nei bambini e, in particolare, che interventi precoci farebbero diventare adulti di successo i propri figli/alunni. Forse che le porte del successo non potranno schiudersi se il cervello del proprio figlio non riceverà la giusta dose di stimolazioni nei momenti più appropriati? Esistono prove scientifiche che genitori e/o insegnanti siano effettivamente responsabili del successo così come dell’insuccesso intellettuale? I dati su cui c’è consenso sono i seguenti: un rapido aumento dopo la nascita nel numero di connessioni sinaptiche nel cervello umano e di altre specie animali; l’esistenza di periodi critici nello sviluppo delle funzioni visive e nell’apprendimento del linguaggio. Nel cervello dei ratti, trasferiti da un ambiente meno complesso in un ambiente più complesso, l’aumento del numero di sinapsi è documentato. Nonostante l’interesse per questi risultati, numerosi autori hanno immediatamente messo in guardia dalla diffusione di una nuova mitologia soprattutto fra insegnanti, pedagogisti e politici: dettagliate analisi critiche delle ricerche mostrano che le immagini del cervello sono interpretabili in modo adeguato soltanto se sono integrate, per esempio, con dati derivanti dalla storia dell’apprendimento degli individui. Non a caso già dieci

­6

Prima lezione di psicologia dell’educazione

anni fa Kosslyn4 intitolava un suo lavoro con l’interrogativo: se le immagini del cervello sono la risposta, qual è la domanda? Titolo forse paradossale, ma indicativo della sproporzione fra i limiti dei risultati delle ricerche e le attese irrealistiche attivate da una rappresentazione fideistica della scienza. Ma poiché non riteniamo che le persone di per sé siano credulone, ci domandiamo come si costruiscano questi miti5. Le posizioni più prudenti ipotizzano che ciò succeda quando i risultati di conoscenze specifiche (ognuno ben documentato ma distinto dagli altri) vengono interpretati tutti insieme per trarre la conclusione che i primi tre anni di vita costituiscono un periodo critico, una sorta di organizzatore nel senso psicodinamico del termine, per lo sviluppo del cervello. Questo è il mito: quando dei risultati scientifici sono sovra-interpretati ovvero ipersemplificati da parte di agenti sociali diversi dai ricercatori (mass media, responsabili delle politiche sociali ed educative), oppure (non si può escluderlo) da alcuni degli stessi ricercatori, per ragioni ideologiche o simili. Fra questi miti, ne citiamo alcuni, che traiamo direttamente da un documento frutto di consenso internazionale fra ricercatori Oecd6. Eccone una sintesi: Non bisogna perdere tempo: tutto ciò che è importante è deciso entro i tre anni.

4 S.M. Kosslyn, If neuroimaging is the answer, what is the que­ stion?, in «Philos. Trans. R. Soc. Lond. Ser. B Biol. Sci.», 1999, 354, pp. 1283-1294. 5 J.T. Bruer, The Myth of the First Three Years. A New Understanding of Early Brain Development and Lifelong Learning, Free Press, New York 1999. 6 Oecd (2007), Understanding the Brain: The Birth of a Learning Science, http://www.oecd.org/document/60/0,3343,en_2649_ 35845581_38811388_1_1_1_1,00.html.

1. Dal cervello alla mente

7

Esistono periodi critici durante i quali certe materie devono essere insegnate e apprese. Nella vita quotidiana noi usiamo soltanto il 10-20% del cervello! Io sono un cervello sinistro, tu sei un cervello destro! Credete: ragazzi e uomini hanno cervelli differenti da ragazze e donne! Un bambino può imparare e padroneggiare soltanto una lingua per volta. Aumenta la tua capacità di memoria! Impara mentre dormi!

La cautela nei confronti di questi miti trova riscontro proprio in ambito neuro-scientifico. Il n. 45 del 2009 di «Cortex» ospita un dibattito centrato proprio sul rapporto fra neuroscienze e educazione. Arriviamo così al centro della nostra riflessione. Secondo Della Sala7 una percentuale molto elevata di insegnanti inglesi ritiene che conoscere il funzionamento del cervello sia molto importante per progettare interventi educativi o didattici, ma quando poi sono chiamati a illustrare quali siano le relazioni fra neuroscienze ed educazione la risposta è molto generica. Per un insegnante, seduto di fronte ai propri alunni, che utilità può avere sapere che l’ippocampo è implicato nell’apprendimento? Le neuroscienze possono offrire conoscenze utili per la diagnosi di condizioni patologiche associate all’apprendimento, a deficit cognitivi, a problemi di comportamento? Certamente sì. Ma se teniamo conto degli effetti delle etichette neuro, allora è utile esaminare lo stato dell’arte della questione, con tutte le cautele necessarie. Se è ormai ben documentato il grande entusiasmo per i contributi che provengono dalle ricerche sul cervello, questo entusiasmo viene raffreddato quando si passa fret7 S. Della Sala, The use and misuse of neuroscience in education, in «Cortex», 2009, 45, pp. 443 sgg.

­8

Prima lezione di psicologia dell’educazione

tolosamente a realizzare interventi che abbiano effetti positivi, diretti e immediati sulle modalità d’insegnamento o addirittura sull’adozione di curricula didattici. Dove si è tentato di realizzare questi collegamenti diretti sono state fatte operazioni scientificamente infondate, che hanno dato luogo a insuccessi. Cubelli8 cita un caso verificatosi in alcune scuole inglesi fin dagli anni ’90. All’inizio dell’ora di lezione, o all’inizio della mattinata, gli insegnanti chiedevano ai bambini (si trattava di progetti condotti nelle scuole materne) di muovere alternativamente le gambe e di incrociarle, nella convinzione che l’attività bilaterale alternata favorisse la comunicazione fra gli emisferi cerebrali. Partendo dalla nozione che ogni emisfero cerebrale controlla prevalentemente l’attività motoria delle regioni controlaterali del corpo, sapendo che i due emisferi comunicano attraverso il corpo calloso, si è frettolosamente desunto che l’attività motoria bilaterale favorisse l’attività cerebrale, dunque migliorasse l’efficienza dei sistemi cognitivi. Risultati del tutto deludenti. È vero che gli emisferi cerebrali controllano prevalentemente l’attività senso-motoria delle regioni corporee controlaterali e che comunicano attraverso il corpo calloso, ma non c’è nessun dato che sostenga l’ipotesi secondo cui maggiore è l’attività bilaterale, maggiore è l’efficienza dei processi cognitivi. Ecco un esempio dell’applicazione, peraltro senza risultati effettivi, della cosiddetta ‘ginnastica del cervello’, un’eco moderna di ciò che suggerivano già molti decenni fa insegnanti di grande onestà e rigore a proposito della ‘ginnastica mentale’. Appare quindi opportuno seguire i consigli di chi afferma che è sbagliato (e inutile) credere che il cervello nasconda la ricetta per risolvere i mali della scuola. È sbagliato, cioè, pensare che si possa derivare direttamente da un modello scientifico, da una conoscenza della ricerca di base, un’operatività pratica, un metodo, che 8 R. Cubelli, Theories on mind, not on brain, are relevant for education, in «Cortex», 2009, 45, pp. 562-564.

1. Dal cervello alla mente

9

in qualche modo prescinda dall’esperienza concreta e dalla capacità professionali dei singoli insegnanti. Cubelli è ancora più esplicito sulla prudenza. L’autore sostiene che per elaborare nuove strategie educative è molto più importante disporre di una maggiore conoscenza dell’architettura funzionale dei processi cognitivi, piuttosto che di una conoscenza dell’attività del cervello e dei meccanismi neurofisiologici che sono alla base del comportamento. A questo scopo, Cubelli presenta due esempi circa i modelli della lettura e della memoria. Dalla psicolinguistica, dalle ricerche sul neuroimaging e dalla neuropsicologia sappiamo che la lettura di parole richiede la trasformazione visiva delle stringhe di lettere in frazioni ortografiche astratte prima di accedere alla conoscenza semantica e fonologica, e cioè il significato – culturalmente condiviso – e la pronuncia della parole scritte. I modelli più accreditati della lettura delle parole assumono che la rappresentazione ortografica costituisce il mediatore fra il processamento visivo e l’accesso lessicale. Da ciò deriva che una didattica della lettura dovrebbe essere fondata non sull’associazione fra le forme visive delle stringhe di lettere e il significato di parole conosciute, ma sull’abilità di riconoscere le singole lettere come simboli ortografici e di identificarle in modo indipendente dalla forma e dallo stile. In conclusione, insegnare a leggere dovrebbe essere centrato sull’acquisizione dei segni alfabetici e della corrispondenza fonologica; come conseguenza ulteriore, i metodi cosiddetti ‘globali’ dovrebbero essere scoraggiati, in quanto sovraccaricano la memoria dei bambini, soprattutto per evitare difficoltà successive nella lettura. Queste considerazioni mantengono il loro valore anche se fra i neuroscienziati ancora si dibatte sull’identificazione della regione posteriore del giro medio-fusiforme sinistro come sede dell’area visiva deputata al riconoscimento delle parole.

­10

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Per quanto riguarda la memoria, è ormai accettato che non si tratta di un sistema unitario ma che comprende componenti di magazzino e di processamento delle informazioni. Già negli anni ’30 Bartlett aveva distinto fra processi di ricostruzione (memoria episodica e prospettica) e conoscenza riproduttiva (memoria procedurale e semantica). Mentre le attività quotidiane si fondano sulla memoria ricostruttiva (decisioni e azioni derivano dall’interpretazione attuale di eventi passati), l’insegnamento si fonda prevalentemente sulla memoria riproduttiva (trasmissione di conoscenze e abilità). Per la memoria di eventi l’accuratezza è bassa (il passato è continuamente modificato in accordo con le intenzioni attuali; i dettagli si perdono e gli episodi sono trasformati). Al contrario, per la memoria di fatti e abitudini l’accuratezza deve essere alta (rispetto a idee e abilità occorre acquisire e ricordare informazioni in modo preciso). Per questo gli studenti non devono ignorare i dettagli e le proprietà superficiali dei testi (etichette e definizioni), parole ‘senza senso’ (date storiche, nomi propri) e neppure informazioni ridondanti (nei manuali, per es. riassunti, tavole e figure). Essi devono comprendere e interpretare fatti e idee ma devono anche conservarli in memoria. Così se il funzionamento della memoria è stato studiato molto accuratamente (per esempio, come si ricorda e si dimentica quando si impara in modo intenzionale o accidentale può essere di aiuto per l’apprendimento), la conoscenza del funzionamento del cervello (per esempio, sapere che l’amnesia può derivare da lesioni delle regioni temporali e mediali o delle strutture diencefaliche) offre scarso contributo all’educazione. Cubelli conclude con la raccomandazione che «sono le teorie della mente piuttosto che quelle del cervello ad essere rilevanti per quel che riguarda l’educazione»9.

9

Ivi, p. 564.

1. Dal cervello alla mente

11

Le neuroscienze e il rischio della neuro-mania (anche in educazione) La questione della costruzione e della persistenza dei miti riguardo lo sviluppo, l’apprendimento e le eventuali influenze sulle pratiche di insegnamento, che possono trovare nelle neuroscienze il loro sostegno scientifico e ideologico, apre scenari scientifici e culturali che superano il tema dell’apprendimento e dell’educazione. Legrenzi e Umiltà ci aiutano a trovare una comprensione del fenomeno. Il titolo e sottotitolo del loro lavoro Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo (che alcuni colleghi hanno definito un pamphlet, non sappiamo se con spirito critico, polemico o denigratorio) e un passo del testo sono espliciti: Oggi le varie discipline nate grazie al prefisso ‘neuro’ [...] stanno cercando, per così dire, di scavalcare la mente, l’oggetto di studio della psicologia. È una manovra che avviene, sostanzialmente, cercando di contrabbandare sotto queste nuove etichette le conoscenze che abbiamo cumulato in decenni di studi di psicologia e di neuropsicologia10.

Gli autori si chiedono da cosa derivi la frammentazione in discipline particolari dello studio dei rapporti fra cervello e mente: la risposta è che non si tratta tanto di competizione fra territori accademici, ma di effetti delle conoscenze scientifiche quando sono diffuse e divulgate presso il lettore ingenuo. Citiamo ancora: quando il lettore ingenuo scopre su un giornale che è stato identificato il luogo del cervello deputato all’innamoramento, è incline ad interpretare l’innamoramento stesso come qualcosa di ‘biologicamente determinato’. A questo alludono gli articoli 10 P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, il Mulino, Bologna 2009, p. 110.

­12

Prima lezione di psicologia dell’educazione

divulgativi corredati di foto a colori che ‘mostrano’, ad esempio il centro dell’innamoramento o del disgusto localizzati in una precisa area del cervello11.

Gli autori sono preoccupati (almeno così crediamo) del fatto che tale divulgazione produca una focalizzazione indebita dell’attenzione dell’opinione pubblica sul cervello, come sistema di riferimento generale, il che fa perdere (annulla) le necessarie distinzioni fra ‘naturale’ (quando inizia e finisce la vita del cervello?), ‘culturale’ (quando decidiamo che è iniziata o finita la sua vita?) e ‘politico’ (posso decidere preventivamente di fare terminare la vita del mio cervello se perde funzioni vitali?)12. La tesi degli autori è che non si tratta di una moda passeggera, ma della riattualizzazione di una concezione (già presente nei secoli passati) dell’uomo inteso come ‘corpo’; operando questa semplificazione si giustifica la speranza che si possa giungere a ridurre la complessità del comportamento umano e della vita quotidiana ad un’unica realtà sottostante alla complessità e alle caratteristiche biologiche: che si tratti di eredità genetica o del funzionamento del cervello. Così la settecentesca utopia della riduzione della mente al funzionamento del cervello appare come la scintillante conquista della modernità. In questo senso, l’utilizzazione di tecniche che ‘fotografano’ (o addirittura filmano) il cervello funzionante, senza danneggiarlo (!) è certo uno degli effetti del progresso tecnologico, ma produce come effetto collaterale il ritorno alla concezione dell’uomo e degli animali come ‘macchine naturali’. Tuttavia, per uscire dalla secolare ma sempre attuale diatriba fra riduzionismi e complessità, Legrenzi e Umiltà introducono il tema degli effetti del fascino pericoloso delle spiegazioni neuro-scientifiche. In un paragrafo del capi11 12

Ivi, p. 11. Ivi, p. 12.

1. Dal cervello alla mente

13

tolo 213 gli autori scoprono le carte, descrivendo un esperimento il cui scopo è di accertare se un’eventuale predilezione per le spiegazioni neuro affondi nei modi di rappresentarsi il mondo da parte del grande pubblico. Gli autori si chiedono: «il grande pubblico è disposto a bersi (sic!) qualsiasi spiegazione di tipo neuro-?». Gli autori di una ricerca Usa (Weisberg e Keil, scienziati che operano nella prestigiosa Università di Yale) si sono chiesti, nel 2008, se spiegazioni del comportamento umano (alcune errate, altre corrette) possano essere ritenute più credibili qualora siano sceneggiate attraverso informazioni di tipo ‘neuro’. In sintesi, i risultati mostrano che anche spiegazioni di fatto sbagliate diventano del tutto credibili se sono proposte come derivanti da scannerizzazioni del cervello che dimostrano che i lobi frontali sono quelli coinvolti in scannerizzazioni del cervello che dimostrano che i lobi frontali sono quelli coinvolti nell’autoconoscenza. Questo fenomeno è stato studiato in soggetti del grande pubblico, in matricole di corsi in neuroscienze e in soggetti che avevano completato una formazione in neuroscienze. Soltanto questi ultimi non sono caduti nella... trappola ‘neuro’! In altre parole, l’etichetta ‘neuro’ rende credibili anche informazioni false. La conclusione di Legrenzi e Umiltà merita di essere riportata in dettaglio: in conclusione, il risultato degli studiosi di Yale rimanda ad una più generale rappresentazione ingenua, condivisa dalle persone inesperte in merito al rapporto cervello-mente. Si è inclini ad accettare una sorta di supremazia ‘medico-biologica’ nella rappresentazione dei fenomeni psicologici14.

Il nodo scientifico (al di là delle polemiche) è il significato delle correlazioni documentate fra attività cerebrale e 13 14

Ivi, pp. 64-72. Ivi, p. 72.

­14

Prima lezione di psicologia dell’educazione

stati mentali. Questo tipo di ricerche si fonda su relazioni probabilistiche, ma ciò non implica di per sé alcuna relazione di causalità. C’è un altro aspetto che merita attenzione, e cioè il fatto che non soltanto i lavori scientifici ma anche la divulgazione di questi risultati sono corredati da fotografie del cervello, spesso a colori; immagini sorprendenti e seducenti, soprattutto in quanto il cervello è sempre stato un oggetto misterioso (una scatola nera: lo hanno descritto così anche gli psicologi!) accessibile in precedenza solo attraverso le autopsie. D’altra parte, il fenomeno (l’attività cerebrale documentata nelle immagini) così rappresentato, colpisce la fantasia, suscita meraviglia, stupore, fascino, facili entusiasmi per la potenza della scienza e della tecnologia nelle mani dell’uomo: noi crediamo proprio perché sembra di vedere direttamente quali porzioni del cervello sono attive e quali no (specificamente? funzionano!) mentre il soggetto esaminato pensa a, o vede, qualcosa. Legrenzi e Umiltà ci mettono in guardia in quanto anche molte altre aree cerebrali si attivano in occasione di un qualsiasi compito: aree visive, acustiche, motorie. Se tutto ciò costituisce ancora un problema serio per i ricercatori, secondo gli autori sarebbe la semplificazione prodotta dalla divulgazione di questi risultati a produrre spiegazioni ‘monocausali’, dove un effetto è attribuito ad una sola causa; spiegazioni che, etichettate come ‘neuro’, diventano credibili, convincenti, ‘belle da credere’! Il fenomeno si è così diffuso da produrre dei filoni di ricerca in neuro-economia, neuro-marketing, neuro-design, neuro-teologia, neuro-estetica, neuro-etica, neuropolitica, filoni rispetto ai quali Legrenzi e Umiltà sono altrettanto critici. Nel lavoro di questi autori ciò che è particolarmente interessante è l’argomentazione conclusiva. Essi sostengono che la forza dell’etichetta ‘neuro’ nel rendere convincenti agli inesperti (ma non solo!) certe informazioni risieda soprattutto nel fatto che offre la possibilità (l’illusione) di

1. Dal cervello alla mente

15

individuare una causa precisa (noi diciamo unica) del funzionamento o del blocco di un meccanismo mentale. Nel caso delle spiegazioni neuro, esse non si limitano a favorire la comprensione di come funziona il cervello, quanto piuttosto spingono ad individuare in una parte del cervello la localizzazione e quindi la causa di un fenomeno. Quale luogo/causa più stabile e interna del cervello? Può essere qui citata a ragione tutta la letteratura sulle dinamiche di attribuzione, e lo psicologo Weiner sarebbe certamente lieto di questa interpretazione dei colleghi italiani, ma essi non fanno alcun riferimento all’ampia letteratura sui processi di attribuzione causale (cfr. cap. 4). Di che mente si tratta? Sgombrato il campo dagli eccessi dovuti all’etichetta neuro, resta il problema della mente in tutta la sua complessità. Legrenzi15 sostiene che la psicologia del ragionamento è nata come ‘residuo’ della crisi della logica intesa come insieme delle leggi del pensiero e si è concentrata sull’esplorazione della natura e del senso degli scenari sperimentali in cui erano state messe in luce sistematiche differenze fra risposte dei soggetti e risposte attese in base ai canoni della logica o del calcolo delle probabilità. Se è documentabile la presenza di scarti fra risposte (comportamenti) razionalmente attese e risposte (comportamenti) effettive, è diventato indispensabile nel corso degli esperimenti tener conto non soltanto delle modalità di comunicazione, per accertarsi che il messaggio-consegna nei compiti sperimentali sia realmente capito, ma anche dell’influenza prodotta dallo scenario in cui i compiti cognitivi sono collocati, onde evitare che risultino impoveriti 15

p. 8.

P. Legrenzi, Come funziona la mente, Laterza, Roma-Bari 20003,

­16

Prima lezione di psicologia dell’educazione

al punto da rendere artificiosa tutta la situazione. Da ciò la più generale consapevolezza dell’importanza del contesto sociale nella produzione di decisioni ed azioni. Quali riflessioni traiamo da Legrenzi? Le leggi della logica non sono sufficienti a comprendere come funziona la mente umana. Dalla crisi dell’epistemologia genetica piagetiana e dalla crisi delle prime ricerche sulla psicologia del ragionamento, si è appunto passati all’attenzione per i fattori che, nel 1975, Legrenzi16 definì extra-logici e che nel 2000 precisa «come attenzione al contesto sociale e alle regole (o tacite convenzioni) che presiedono alla conversazione come scambio sociale di informazioni»17. Il nucleo di queste regole è «non si deve dire né più né meno del necessario». Questa è una delle regole auree della comunicazione, regole che non hanno un fondamento logico, ma sono il risultato di pratiche sociali accettate consensualmente e che vincolano il funzionamento della nostra mente. Non sono le regole degli epistemologi o dei logici che guidano i nostri pensieri, ma le convenzioni sociali che permettono una comunicazione, almeno relativamente, efficace. Legrenzi conclude in modo perentorio: «Quelli che sono i limiti della mente logica sono i punti di forza della mente sociale»18. Questo insieme di considerazioni, che riguarda la complessità della sperimentazione e l’importanza della mente sociale nella guida delle decisioni e delle azioni, deve trovare eco quando si parla di situazioni di insegnamentoapprendimento. La nostra proposta di psicologia dell’educazione troverà supporto quindi in queste posizioni più avvertite della psicologia cognitiva e addirittura delle scienze cognitive. 16 P. Legrenzi, Forma e contenuto dei processi cognitivi, il Mulino, Bologna 1975. 17 P. Legrenzi, Come funziona la mente, cit., p. 19. 18 Ivi, p. 24.

Capitolo 2

Sviluppo, educazione, socializzazione

Accettiamo il suggerimento di Legrenzi che i nostri pensieri siano guidati dalle regole o convenzioni sociali che permettono una comunicazione efficace e che i limiti della mente logica sono i punti di forza della mente sociale. Parlare di convenzioni inevitabilmente porta a chiedersi quale sia la loro origine e la loro funzione. A noi evoca subito il postulato sociale1 della genesi degli strumenti cognitivi, nozione che abbiamo anticipato nella Premessa a questo volume. Attualmente abbiamo a disposizione almeno due modelli che hanno concretizzato in linee di ricerca il postulato sociale: quello ecologico di Bronfenbrenner2 e quello di Doise3. Il primo ci suggerisce che la mente si costruisce 1 W. Doise, Livelli di spiegazione in psicologia sociale, Giuffrè, Milano 1989 (ed. or. 1982). 2 U. Bronfenbrenner, Ecologia dello sviluppo umano, il Mulino, Bologna 1986 (ed. or. 1979). 3 W. Doise, Introduzione in W. Doise, A. Palmonari (a cura di), Interazione sociale e sviluppo della persona, il Mulino, Bologna 1988 (ed. or. 1984). Vedi anche F. Carugati, M. Gilly, The multiple sides of the same tool: Cognitive development as a matter of social construction of meaning, in F. Carugati e M. Gilly (a cura di), Everyday life, social meanings and the social construction of cognitive functioning, numero speciale dell’«European Journal of Psychology of Education», 1993, VIII, 4, pp. 345-354. Per completezza, citiamo anche la metafora dello

­18

Prima lezione di psicologia dell’educazione

attraverso la partecipazione a diversi sistemi sociali interdipendenti; il secondo ci offre quattro livelli di analisi per comprendere la dinamica di costruzione degli strumenti che caratterizzano la mente: 1) il livello individuale, dove sono collocate le abilità cognitive; 2) il livello interindividuale, dove agiscono le dinamiche legate a punti di vista diversi circa la soluzione di compiti; 3) il livello dello status dei partner di una interazione, per esempio il rapporto insegnante/alunno o esperto/novizio; 4) il livello delle rappresentazioni, regole, norme e convenzioni sociali, al quale crediamo faccia riferimento (seppure senza citarlo) Legrenzi quando parla di mente sociale. Entrambi i modelli individuano dinamiche attraverso le quali gli adulti organizzano le attività quotidiane sotto forma di frame e di routine4: agli occhi del bambino essi si caratterizzano come aspettative che riguardano la struttura dell’interazione. Il pianto e il conforto, l’evitamento dello sguardo, il dare e prendere, il costruire e distruggere giocattoli, l’apparire e scomparire, il domandare e rispondere, il richiedere e obbedire: nelle routine quotidiane, queste sono tutte attività che concretizzano l’organizzazione e la struttura degli eventi giorno dopo giorno. Questo punto merita un’esplicitazione. Si può sostenere che l’affermazione ‘in principio è l’interazione e il dialogo’ (sotto forma di frame e routine) si concretizza come un vero e proprio microsistema sociale, la cui analisi ecologica, raccomandata da Bronfenbrenner, trova un’analogia con i livelli di analisi che la psicologia sociale propone di

sviluppo a tela di ragno proposta negli anni ’90 da W.A. Corsaro (Interpretive reproduction in the ‘scuola materna’, in «European Journal of Psychology of Education», 1993, VIII, 4, pp. 357-374), nell’ambito dell’etnografia della vita quotidiana dei bambini nelle scuole materne: in questo caso, per illustrare la dinamica dello sviluppo sociale. 4 F. Emiliani, F. Carugati, Il mondo sociale dei bambini, il Mulino, Bologna 1985.

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

19

articolare e di cui ha già intrapreso da decenni lo studio sperimentale5. Le proprietà strutturali dei sistemi sociali (dai più semplici ai più complessi) possono così essere conside­rate in un rapporto di movimento a spirale con le pratiche sociali che li caratterizzano. Da un lato, le proprietà definiscono le pratiche possibili nei sistemi e gli adulti significativi hanno il compito precipuo di mediare queste pratiche sociali ai bambini. In questo compito, tuttavia, gli adulti non sono semplici agenti di rinforzi e modelli di ruolo, ma introducono i bambini ad aspetti della cultura adulta attraverso la partecipazione comune a routine quotidiane iniziate, selezionate e governate dagli adulti stessi. Essi, inoltre, modulano le interazioni faccia-a-faccia con i più piccoli, in funzione di specifiche dinamiche socio-cognitive quali, ad esempio, l’asimmetria di status e le rappresentazioni sociali del bambino (figlio, alunno)6 e dello sviluppo che gli adulti possiedono7. In termini più generali, il rapporto fra costruire conoscenze e mostrare ad altri di possederle da un lato e il sistema sociale dall’altro è definito riproduzione interpre5 W. Doise, Livelli di spiegazione in psicologia sociale, cit.; W. Doise, G. Mugny, La costruzione sociale dell’intelligenza, il Mulino, Bologna 1982 (ed. or. 1981); F. Carugati, G. Mugny, P. Barbieri, P. De Paolis, V. Gherardi, M. Ravenna, Psicologia sociale dello sviluppo cognitivo: imitazione di modelli o conflitto socio-cognitivo?, in «Giornale Italiano di Psicologia», 1978, 2, pp. 323-352. 6 G. Mugny, F. Carugati, L’intelligenza al plurale, Clueb, Bologna 1989 (ed. or. L’intelligence au pluriel, DelVal, Cousset 1985; trad. ­ingl. Social representations of intelligence, Cambridge University Press, Cambridge 1990). 7 G. Mugny, F. Carugati, Psicologia sociale dello sviluppo cognitivo, Giunti, Firenze 1987; G. Mugny, F. Carugati, L’intelligenza al plurale, cit.; I. Miguel, J. Pires Valentim, F. Carugati, Intelligence as social representations: Some implications from adults’ social identities, in «Papers on social representations», in corso di stampa.

­20

Prima lezione di psicologia dell’educazione

tativa, termine che sottolinea come la socializzazione sia da considerare un insieme di routine attraverso le quali i bambini non si limitano ad interiorizzare la cultura degli adulti, ma ne diventano parte attiva, proprio attraverso la negoziazione dei significati della cultura con gli stessi adulti e con i coetanei e la produzione creativa di condotte all’interno di diversi microsistemi della vita quotidiana: in questo quadro sono state studiate le caratteristiche della cultura dei coetanei nelle scuole materne e la costruzione del genere, sempre  nelle scuole materne8. Durante tutta l’infanzia, periodo della socializzazione primaria, per i bambini il mondo degli adulti non è uno dei mondi possibili, ma l’unico mondo esistente e concepibile. I contenuti specifici che vengono acquisiti variano in funzione della cultura di appartenenza, della posizione sociale e delle particolari caratteristiche degli adulti che si occupano dei bambini. Ma alcune coordinate generali possono essere considerate comuni. Infatti in tutte le culture i bambini cominciano il proprio sviluppo in situazioni di dipendenza totale dall’adulto, per raggiungere successivamente una certa autonomia in ambiti di attività e di ragionamento diversi, e partecipano a routine elementari di turn-taking (dare e prendere; fare domande e rispondere; parlare e ascoltare); si tratta di schemi di attività e di interazioni complementari, che consentono la coordinazione delle attività fra almeno due partner e che sono dei prerequisiti per interazioni più complesse. D’altra parte, anche le forme più semplici di 8 B. Lloyd, G. Duveen, Gender Identities and Education: The Impact of Schooling, Harvester Wheatsheaf, New York 1992; G. Duveen, B. Lloyd, The significance of social identities, in «British Journal of Social Psychology», 1986, 25, pp. 219-230; vedi anche F. Carugati, P. Selleri, Social development and the development of social representations: two sides of the same coin?, in A. Antonietti, E. Confalonieri, A. Marchetti (a cura di), Metarepresentation and narrative in educational settings: Where cognitive and social development meet, Psychology Press & Routledge, London, in corso di stampa.

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

21

coordinazioni interpersonali necessitano di coordinazioni spazio-temporali (davanti-dietro; prima-dopo; sopra-sotto) che nel corso delle relazioni interpersonali sono impiegate non in modo arbitrario e casuale, ma secondo modalità socialmente selezionate (frutto delle diverse pratiche culturali di allevamento). È quindi possibile sostenere che l’esercizio di queste modalità ‘generali’ di partecipazione alle relazioni sociali permetta ai bambini di fondarsi su di esse per costruire quelle regolazioni socio-cognitive – schemi, repertori comportamentali, schemi simbolici (il pensiero rappresentativo) – che permetteranno la partecipazione a forme di relazioni sociali più complesse, che a loro volta consentiranno la costruzione delle operazioni concrete e formali del pensiero9: ecco qui il movimento a spirale di cui abbiamo parlato sopra. Questi princìpi di organizzazione delle attività quotidiane vengono coordinati con altri interlocutori nel corso di interazioni sociali più complesse – dalla famiglia all’asilo nido alla scuola primaria – e così via. Inoltre, la vasta gamma di modalità di comunicazione, ed in particolare il linguaggio, diventano sia abilità sia strumenti indispensabili nella vita quotidiana. Attraverso di essi non soltanto vengono acquisiti schemi di attività e di interpretazione del mondo, ma anche richieste sul tipo di bambino che ciascuno è chiamato a diventare: si può ben parlare di programmi di azione presenti e operanti nella vita di tutti i giorni; alcuni di essi potranno essere adottati immediatamente, altri anticipano condotte che saranno richieste nel futuro. Inoltre attraverso il linguaggio vengono acquisiti almeno i rudimenti delle giustificazioni delle condotte, dei ‘perché si deve fare questa o quella ma non quell’altra 9 F. Carugati, Dinamiche sociali, divergenze, conflitti: il modello del conflitto socio-cognitivo nella comprensione dello sviluppo del pensiero, in V. Ugazio (a cura di), La costruzione della conoscenza, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 101-136.

­22

Prima lezione di psicologia dell’educazione

cosa’. È interessante notare che i perché dei bambini (interrogativi ed esplicativi – argomenti cruciali durante la socializzazione primaria) vengono trattati in pratica contemporaneamente nel corso della vita quotidiana. I bambini sono così chiamati al compito complesso di costruire i molteplici significati dei perché: da un lato devono essere distinti i perché interrogativi da quelli esplicativi; d’altro lato, devono essere distinte le domande e le risposte (le proprie e quelle prodotte dagli adulti) nei termini di cause rispetto alle giustificazioni o alle ragioni. È qui che si collocano le funzioni proprie dell’educazione, intesa come accompagnamento, trasmissione, acculturazione, passaggio da una generazione alla successiva. Il mondo della socializzazione primaria appare così al bambino indiscutibilmente reale, ma anche, come ha ben descritto Piaget, un prodotto dell’uomo e delle sue intenzioni (cfr. ad esempio le nozioni di realismo, animismo, artificialismo). Ma se dal suo punto di vista Piaget attribui­ sce queste proprietà esclusivamente alle limitate abilità di comprendere del bambino, dal punto di vista della socializzazione il (proto) realismo infantile, pur certamente evidente nelle sue primissime fasi, è anche un prodotto degli adulti, in quanto essi trasmettono ai bambini una struttura convenzionale della realtà, all’interno della quale i bambini stessi possono essere sicuri che ‘va tutto bene così’ (‘le cose vanno tutte bene’), frase fra le più ripetute dagli adulti, per esempio per tranquillizzare i bambini quando piangono. Ed infatti, lo abbiamo documentato da tempo, i bambini nel periodo prescolare non sono così egocentrici come sostenuto dalla prospettiva piagetiana, e più recentemente i risultati sullo sviluppo della teoria dalla mente confermano la capacità di considerare anche gli altri come dotati di pensieri ed emozioni10.

10

F. Emiliani, F. Carugati, Il mondo sociale dei bambini, cit., so-

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

23

Poiché le definizioni della realtà da parte degli adulti contengono anche definizioni concernenti il tipo di persona che il bambino (e il partner) sono l’uno rispetto all’altro, appare forse più chiaro come la costruzione della conoscenza contenga una dimensione istituzionale imprescindibile, così come le condizioni di una conflittualità potenzialmente presente in ogni relazione. Se poi consideriamo che un numero considerevole di bambini (almeno in molte regioni italiane) viene accolto già fin dal secondo anno di vita (e anche prima) nelle organizzazioni educative prescolastiche (asili nido e scuole dell’infanzia), dove trascorre larga parte della giornata (vedi cap. 6), questo significa che la socializzazione primaria di questi bambini si realizzerà attraverso la combinazione di dinamiche che coinvolgono la vita quotidiana non solo a casa, ma anche fuori casa (il microsistema familiare e quello del nido o della scuola dell’infanzia, e cioè il mesosistema, secondo la prospettiva di Bronfenbrenner). Tuttavia anche per i bambini che restano prevalentemente a casa (con i nonni e le baby sitter), la socializzazione è influenzata in buona misura da una molteplicità di adulti che si prendono cura di loro. Per questo possiamo azzardare la proposta di definire il percorso di socializzazione primaria come caratterizzato da un compito non piccolo: quello di appropriarsi del mestiere di figlio in famiglia, e di bambino di asilo nido e di scuola materna – anticipando per l’età prescolare l’utilizzo della nozione di mestiere, introdotto a proposito della scuola elementare11. In tutti i casi, comunque, questo mestiere ha come interlocutori gli adulti (genitori, nonni, educatrici) ma anche i coetanei. Già la presenza di sorelle o fratelli (certo meno rilevante in questi anni rispetto al prattutto il cap. 3. Per una presentazione delle ricerche classiche sulla teoria della mente: L. Camaioni (a cura di), La Teoria della mente: origini, sviluppo e patologia, Laterza, Roma-Bari 1995. 11 Ph. Perrenoud, Métier d’élève et sens du travail scolaire, Editions Sociales de France, Paris 1994.

­24

Prima lezione di psicologia dell’educazione

passato) e poi di coetanei, già considerevole al nido, assume le caratteristiche di una vera e propria cultura dei coetanei12, diversa o alternativa a quella degli adulti. Si parla addirittura di vita sotterranea, mutuando questa nozione dai lavori di Goffman sulle istituzioni totali (carceri e ospedali psichiatrici). Il lettore non inorridisca subito per avere avvicinato luoghi di pena e sofferenza con la famiglia e le organizzazioni educative. Si tratta comunque della manifestazione di abilità sociali che permettono di ritagliarsi spazi di libero movimento al riparo dalle norme e regole che definiscono (consentendo o vietando) specifiche condotte. Esistono ampie documentazioni di questa abilità sociale di bambini e ragazzi, tratte da studi in ospedale, in scuole materne, nella vita di strada, nei collegi assistenziali. In particolare, citiamo le osservazioni molto dettagliate raccolte in alcune scuole materne italiane a proposito delle modalità secondo cui i bambini riescono a costruirsi una propria vita sotterranea tramite la quale, per esempio, possono svolgere attività proibite dagli educatori durante i periodi di ricreazione o in occasioni nelle quali l’occhio dell’adulto è meno vigile. I bambini adottano comportamenti di resistenza (di aggiramento) alle regole degli educatori, comportamenti che assumono le caratteristiche di vere e proprie routine in quanto sono osservabili quotidianamente e sono ben riconosciuti e apprezzati dai bambini che li mettono in atto e da quelli che li osservano. Fra le più tipiche di queste condotte sono descritte le ‘boccacce’ fatte dietro le spalle degli adulti, oppure il correre intorno a loro quando i bambini vengono chiamati per qualche incombenza a cui vogliono sfuggire; spesso i comportamenti proibiti sono anticipati ai compagni tramite segnali del tipo ‘guarda cosa sto per fare!’, che servono a richiamare la loro attenzione. Questi comportamenti assumono una complessità 12 F. Carugati, P. Selleri, Psicologia dell’educazione, il Mulino, Bologna 20052, cap. V.

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

25

maggiore nel caso dell’impiego di mezzi per ottenere scopi vietati: i sotterfugi sono l’esempio più chiaro. Portare da casa piccoli giochi o caramelle facilmente nascondibili nelle tasche e mostrarli o offrirli agli amici di nascosto; usare le mani o le costruzioni Lego per ‘giocare alla guerra’ o le matite per ‘fare un duello con le spade’ (si tratta in entrambi i casi di comportamenti raramente graditi nelle scuole americane e italiane!); portare gli oggetti con cui è consentito giocare in un luogo specifico in un posto in cui è proibito usarli, per esempio dall’interno della scuola al giardino, oppure portare i giocattoli a tavola durante il pranzo; affermare di ‘non avere sentito che qualcuno mi chiamava’ per evitare di lavarsi le mani prima del pranzo o di svolgere qualche piccola incombenza; questi sono soltanto alcuni esempi della ricca vita sociale (anche sotterranea) che si osserva nelle scuole materne13. Il fatto che questi comportamenti siano risposte collettive (molto spesso creative e originali) alle regole e alle norme sancite dagli adulti, consente ai bambini di sviluppare un senso di comunità ed un’identità di gruppo, oltre che di produrre un certo controllo sulla propria vita quotidiana. Allo stesso tempo i bambini cominciano a sviluppare una nuova consapevolezza, relativa al fatto che è possibile utilizzare vincoli e valori comuni ai coetanei per ottenere scopi e vantaggi personali. Inoltre, il fatto che i bambini costruiscano collettivamente una ‘vita sotterranea’ (composta da una vasta gamma di comportamenti al limite fra ciò che è vietato, tollerato e richiesto dalle regole vigenti nelle scuole) illustra quanto siano ampie e sofisticate le loro conoscenze sull’organizzazione e sul funzionamento delle scuole stesse e come essi possiedano la capacità di 13 E. Goffman, Asylums, Einaudi, Torino 1974 (ed. or. 1961). Per un esempio di studio sulle dinamiche della vita quotidiana nei collegi per minori, cfr. F. Carugati, A. Palmonari, P.E. Ricci Bitti, G. Sarchielli, Gli orfani dell’assistenza, il Mulino, Bologna 1973; W.A. Corsaro, Interpretive reproduction in the ‘scuola materna’, cit.

­26

Prima lezione di psicologia dell’educazione

utilizzare concretamente queste conoscenze. Possiamo proseguire con gli esempi, pensando a ciò che accade con l’ingresso nella scuola elementare: qui la distanza rispetto all’ambiente familiare e a quello della scuola materna è più netta. Questa nuova transizione richiede la ricostruzione della cultura dei coetanei e la riorganizzazione della vita sotterranea nella nuova classe, ma soprattutto fa entrare ogni bambino nello status di alunno, con nuove regole e norme e la presenza, come interlocutori privilegiati, degli insegnanti e delle diverse materie. Se colleghiamo queste indicazioni con il contesto specifico delle organizzazioni educative, possiamo immaginare che il ‘cuore’ delle attività sia occupato dagli scambi insegnanti-alunni, i quali sono connessi con le lezioni quotidiane, a loro volta connesse con specifiche classi, che sono radicate in specifiche scuole, che sono parte del sistema scolastico italiano. Detto in altri termini, le relazioni fra alunni e fra alunni e insegnanti producono specifiche routine quotidiane nelle lezioni, organizzate e definite in funzione delle convenzioni o norme di ciascuna scuola, le quali a loro volta sono decise da specifici organi a ciò deputati (programmazione collegiale, dirigente) ma che fanno riferimento a leggi e normative a livello ministeriale. Ma perché un evento (ad esempio, una lezione) possa verificarsi, i partecipanti devono impegnarsi attivamente nel compito di ‘costruire le lezioni’. I singoli insegnanti (o i collegi di docenti) possono differire nella maniera in cui interpretano le regole e le norme della propria scuola, così come i collegi dei docenti a loro volta differiscono nel produrre i rispettivi tipi di programmazione e le effettive ore di lezione. D’altra parte, le condotte possibili degli alunni non sono mai completamente prevedibili e predeterminabili: il che costituisce una croce (o una delizia) per gli insegnanti ma caratterizza i sistemi scolastici come organizzazioni a legami deboli, rendendoli sostanzialmente diversi dalle organizzazioni di tipo industriale. Questa la descrizione delle caratteristiche delle organiz-

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

27

zazioni educative viste da un osservatore esterno; vediamo ora il punto di vista degli alunni. Ciò che fornisce un significato alle loro esperienze personali nel corso delle attività scolastiche sono gli scopi delle attività stesse; ma da un punto di vista interpersonale, le esperienze personali devono essere integrate le une con le altre. Un approccio tradizionale a questo tema considera le esperienze personali dei singoli partecipanti ad un’attività come segmentate nel tempo e separate le une dalle altre. Ad esempio in classe gli insegnanti per prima cosa diagnosticano (attraverso prove di ingresso o simili), valutano a che punto sono gli alunni rispetto a requisiti più o meno espliciti; poi intervengono con un ‘trattamento’ (l’insegnamento) e valutano nuovamente ciò che è cambiato negli alunni (hanno appreso? che cosa? quanto correttamente?). In questo esempio, gli insegnanti cercano informazioni sui propri alunni prima di conoscerli personalmente. È il caso di ogni transizione: dalla mamma al nido; dal nido alla scuola materna; da questa alla scuola primaria e così via. Ciò che unifica le esperienze personali dei partecipanti, dal punto di vista di una concezione socio-costruttivista, è il condividere scopi e interessi e il comprendere i rispettivi punti di vista, piuttosto che un’attività unilaterale di trasmettere un sapere da parte del più esperto nella ‘mente’ del meno esperto. Sempre nel nostro esempio, insegnanti e alunni, nel momento in cui si interessano a ciò che l’altro aggiungerà o porterà ‘di proprio’ all’attività in corso, cercano di condividere scopi e interessi e intessono le rispettive esperienze personali; e tanto più quando ciò che viene messo in comune, ed eventualmente discusso, è in relazione con ciò che è stato fatto o detto in precedenza. In questo senso si parla di collaborazione, condivisione, costruzione di una intersoggettività fra gli attori nel corso della vita quotidiana14. La mente è così concepibile come il risultato della tessi14

R. Rommetveit, On the architecture of intersubjectivity, in R.

­28

Prima lezione di psicologia dell’educazione

tura (delle dinamiche socio-psicologiche) che collega ogni individuo a diversi livelli del contesto. È in questo senso che interpretiamo le osservazioni di Legrenzi15 circa l’importanza dello scambio sociale di informazioni, soprattutto quando l’autore rileva che gli psicologi non si sono molto dedicati all’analisi dei modi con cui le regole vengono fatte nascere. In realtà, nell’ambito di alcuni approcci in psicologia dello sviluppo è stato da lungo tempo ben documentato16 che fin dai primi mesi di vita i precursori delle regole sono le routine di allevamento, attraverso le quali le madri (o comunque chi si occupa stabilmente dei piccoli) organizzano, selezionano, stabilizzano la vita quotidiana dei propri figli (dei piccoli): dal facciamo così al si fa così, dalle regolarità quotidiane alle regole e condotte reciprocamente attese. Riferiamo qui l’esempio del bambino che si lava le mani solo con l’acqua, senza sapone17: se gli viene chiesto quale regola ha violato, il bambino tenderà a dire che ha violato la regola specifica (‘senza sapone’) e non quella più generale (‘bisogna stare puliti’). Certamente per l’età considerata (bambini di scuola materna, sotto i 6 anni) la risposta si riferisce alla regola specifica piuttosto che a quella generale; ma ipotizziamo che i bambini, acquisito che la routine del lavarsi richiede acqua e sapone attraverso la legittimazione fornita dagli adulti secondo la quale ci si lava così per stare puliti e tutti i bravi bambini si lavano con acqua e sapone, siano in grado di cogliere che la violazione di tale routine non si limita alla regolarità (come abitudine) ma si estende alla regola più generale, secondo la quale l’igiene personale è caratteristica distintiva di un bravo bambino, a casa, a scuola, nel mondo. Siamo di fronte ad Rommetveit, R.M. Blaker (a cura di), Studies of language, thought, and verbal communication, Academic Press, London 1979, pp. 93-108. 15 P. Legrenzi, Come funziona la mente, Laterza, Roma-Bari 20003, p. 20. 16 F. Emiliani, F. Carugati, Il mondo sociale dei bambini, cit. 17 P. Legrenzi, Come funziona la mente, cit., p. 23.

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

29

un caso pertinente della trasformazione di una regolarità in regola. Vedremo più avanti le implicazioni di questa riflessione nella costruzione della moralità (vedi cap. 7). È tipico delle routine familiari (ma anche nelle scuole materne) che ‘prima ci laviamo le mani e poi mangiamo’, ‘prima laviamo i denti e poi leggiamo la favola serale’: bene, queste che in principio sono ancora regolarità nelle routine, verranno prima o poi utilizzate dagli adulti per richiedere il rispetto della routine stessa, magari sotto la forma se... allora (‘se ti lavi come si deve, leggiamo la favoletta’). Siamo qui alle origini degli schemi pragmatici di ragionamento18, la cui influenza sull’acquisizione del pensiero ipotetico deduttivo è ormai patrimonio della psicologia del ragionamento, ma interessa molto anche alla psicologia dell’educazione. È questo un esempio che possiamo utilizzare per sostenere, dal nostro punto di vista, che la mente è sociale in quanto è costruita socialmente. Non solo, ma il ruolo costitutivo che Legrenzi attribuisce alle convenzioni sociali diventa qui un esempio di influenza del quarto livello di analisi19 sulla costruzione degli strumenti cognitivi. Torniamo al postulato sociale Da quanto abbiamo illustrato fino a questo punto, il postulato sociale già presentato risulta studiabile empiricamente. E infatti, a partire dagli anni ’70, è stato intrapreso un filone di ricerche che ha contribuito (e ancora contribuisce) a fornire prove empiriche della pertinenza dell’approccio socio-costruttivista alla costruzione degli strumenti che caratterizzano il funzionamento della mente. Il punto cruciale è la nozione di contesto sociale. Osservata da vicino, ogni interazione è caratterizzata da due partner 18 V. Girotto, Reasoning on deontic rules: The pragmatic schemas approach, in «Intellectica», 1991, 1, 11, pp. 15-52. 19 W. Doise, Livelli di spiegazione in psicologia sociale, cit.

­30

Prima lezione di psicologia dell’educazione

e da un contenuto, un oggetto: può trattarsi di un oggetto fisico (nel caso di un bambino che indica con la mano alla madre un oggetto che lo attira) oppure di un concetto o un argomento da imparare (nel caso della scuola, un sapere che riguarda una materia). È quindi necessaria una nozione di contesto che integri i vertici di un triangolo e quindi una psicologia tripolare (soggetto-contenuti-partner) e non soltanto una psicologia bipolare (soggetto-partner). contenuti

soggetto

partner

E dunque siamo equipaggiati con uno strumento concettuale che permette di comprendere le ricerche che hanno dato luogo alla teoria del conflitto socio-cognitivo20, successivamente sviluppatasi nella teoria dell’elaborazione del conflitto21 attraverso diverse generazioni di studi in quasi quarant’anni22. Ma qual è il nucleo di questi studi? In primo luogo è riconosciuta una funzione potenzialmente positiva a situazioni di conflitto di comunicazione fra due partner posti di fronte ad un compito che non sono in grado di risolvere da soli. Situazioni di questo tipo sono state studiate con bambini di livello preoperatorio W. Doise, G. Mugny, La costruzione sociale dell’intelligenza, cit. J.A. Pérez, G. Mugny, Influences sociales: La théorie de l’élaboration du conflit, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1993. 22 F. Carugati, M. Gilly, The multiple sides of the same tool, cit.; Ch. Psaltis, G. Duveen, A.-N. Perret-Clermont, The social and the psychological: Structure and context in intellectual development, in «Human Development», 2009, 52, pp. 291-312. 20 21

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

31

in compiti di conservazione. Nell’affrontare tali compiti, due bambini preoperatori dispongono di risposte iniziali identiche, che possono però essere rese differenti se, per esempio, sono collocati uno di fronte all’altro. È il caso della conservazione della lunghezza o dei liquidi o dello spazio, dove la medesima strategia non conservatoria dà luogo a risposte inconciliabili, rendendo l’interazione potenzialmente fonte di conflitto, non solo cognitivo ma anche relazionale: come è possibile affrontare il disaccordo? chi ha ragione? Se si apre una negoziazione sulla base delle rispettive risposte iniziali allora è possibile che si costruisca una risposta più corretta, o addirittura del tutto corretta e soddisfacente per entrambi i partner, che progrediscono (regolazione socio-cognitiva del conflitto). Se invece l’interazione si orienta verso la difesa della propria risposta, si attiva una sorta di ‘litigio’ (ho ragione io; no, ho ragione io!), in cui i bambini o non riescono a trovare alcun tipo di accordo, oppure tendono a prevalere l’uno sull’altro, oppure ignorano le rispettive risposte; ma in nessuno di questi casi i due bambini progrediscono (regolazione relazionale del conflitto). Il fatto che i bambini dispongano di risposte differenti non garantisce allora di per sé un progresso, in quanto cooperazione, competizione o disinteresse per il punto di vista altrui sono inerenti ad ogni interazione. È stato così possibile individuare alcune conclusioni generali, che riassumiamo: – i soggetti, coordinando le proprie azioni con quelle dei rispettivi partner coetanei, anch’essi incapaci di risolvere da soli il compito proposto, giungono a costruire strumenti cognitivi che ancora non padroneggiano a livello individuale. Ciò significa che considerare soltanto i risultati dei soggetti che lavorano da soli è troppo riduttivo per comprendere le loro capacità cognitive potenziali; – i soggetti che hanno partecipato a certi tipi di interazioni sociali diventano capaci di eseguire da soli compiti di difficoltà analoga. Ciò significa che i soggetti hanno effettivamente costruito una più elaborata modalità di risolvere

­32

Prima lezione di psicologia dell’educazione

i compiti e la padroneggiano come strumento cognitivo personale; – operazioni cognitive che vengono costruite attraverso un materiale dato e in una situazione sociale specifica (un compito di conservazione dei liquidi, per esempio) hanno carattere di stabilità e sono in parte trasferibili ad altre situazioni e a materiali diversi. Ciò significa che i soggetti non soltanto hanno risolto un certo compito, ma hanno costruito una nozione o una regola più generale da utilizzare per la soluzione di altri compiti; ad esempio la nozione di conservazione, le regole di inferenza deduttiva, la nozione di proporzionalità (le ultime due sono utili, lo ricordiamo, per affrontare le equazioni a scuola). C’è un’ultima riflessione. È possibile indurre un conflitto socio-cognitivo anche quando un bambino lavora da solo, ad esempio offrendo un compito che preveda una corrispondenza fra la regola cognitiva che governa la soluzione del compito e la regola sociale sceneggiata nel compito stesso? Immaginiamo un’aula scolastica arredata con i banchi per gli alunni e la cattedra per la maestra (si tratta sempre di bambini fra i 5 e i 6 anni). Che cosa ha di specifico questo compito? Se si scelgono bambini che non sanno risolvere correttamente un compito sceneggiato come un villaggio di case e una piscina e offriamo loro la messa in scena dell’aula scolastica, questa aula contiene in specifico la rappresentazione della norma sociale che regola la relazione asimmetrica fra alunni e insegnanti (dove sta l’insegnante non stanno gli alunni!). Questa è una condizione socio-cognitiva denominata connotazione sociale23, grazie alla quale i bambini, per 23 P. De Paolis, F. Carugati, M. Erba, G. Mugny, Connotazione sociale e sviluppo cognitivo, in «Giornale Italiano di Psicologia», 1982, VIII, 1, pp. 149-165.

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

33

rispettare la regola sociale, costruiscono la regola cognitiva della conservazione delle relazioni spaziali degli oggetti rispetto ad un punto di riferimento. Non solo, ma se sottoposti in seguito al compito classico del villaggio mostrano di avere costruito la conservazione dello spazio rispondendo correttamente. Ci sembra questo un esempio in linea con quanto affermato da Legrenzi: i pensieri sono guidati dalle regole e convenzioni sociali. In questo caso riteniamo addirittura che la mente sociale serva da guida alla costruzione di una buona mente logica. Abbiamo anticipato che questi risultati sono stati inquadrati nella teoria del conflitto socio-cognitivo, per concettualizzare la dinamica di costruzione in comune delle risposte attraverso la messa in discussione dei rispettivi punti di vista, e la funzione cruciale della comunicazione interpersonale e del conflitto fra partner chiamati a fornire una sola risposta ad un compito. Sottolineiamo una sola risposta, in quanto spesso i partner, non riuscendo a mettersi d’accordo su una risposta soddisfacente per entrambi, tendono a difendere ognuno la propria soluzione, senza cogliere le ragioni per le quali il partner difende la sua. Ecco perché sono state esplicitamente costruite dai ricercatori situazioni di comunicazione interpersonale, dove i punti di vista differenti sono concretamente interpretati da due attori; si tratta proprio di una ‘sceneggiata’ che richiede di risolvere un compito insieme, dove ciascuno dei due partner mette in gioco e deve giustificare le proprie soluzioni al compito. L’ipotesi sottostante è che questa sceneggiata costituisca il tessuto interpersonale attraverso il quale ciascun soggetto vede il compagno offrire e difendere una soluzione inattesa: ciascuno infatti non si aspetta che l’altro fornisca una risposta diversa dalla propria. Facendo giocare a entrambi i partner il ruolo dell’‘egocentrico’ è stato possibile attivare una dinamica di decentrazione: è questo l’‘uovo di Colombo’, che ha permesso di mostrare la co-costruzione di strumenti cognitivi più elaborati in bambini considerati egocentrici

­34

Prima lezione di psicologia dell’educazione

secondo la prospettiva piagetiana classica. Il requisito essenziale per l’efficacia della sceneggiata è la realizzazione di condizioni di interazione in cui i bambini prendano effettivamente in conto la realtà e la legittimità di una risposta diversa dalla propria. Ma quando ciò non si verifica è perché o entrambi dispongono di una qualità di risposte individuali insufficiente per risolvere il compito (e quindi dànno la medesima risposta errata), oppure perché uno dei partner produce una risposta troppo elevata rispetto all’altro, per cui la sua strategia di soluzione risulta incomprensibile al partner, e innesca una soluzione relazionale di compiacenza dell’uno verso l’altro: non capisco ma mi adeguo. Siamo qui al punto cruciale nel quale riassumere il percorso condotto fino ad ora. Ci siamo chiesti che tipo di mente emerge dalle ricerche di psicologia cognitiva, e Legrenzi ha aperto un percorso molto interessante: una mente costruita per seguire regole e convenzioni sociali. Abbiamo così illustrato risultati di ricerche che mostrano come i prodotti cognitivi siano influenzati da regole, convenzioni sociali, connotazione sociale, conflitti di comunicazione, posizionamento dei soggetti in categorie sociali. Sistema e metasistema: un inquadramento concettuale efficace È possibile trovare un inquadramento concettuale ancora più adeguato alla ricchezza di questi risultati. Serge Moscovici24, uno dei maggiori psicologi sociali viventi, ha da lungo tempo ipotizzato che il funzionamento cognitivo si fondi sull’integrazione fra un sistema cognitivo in senso stretto, caratterizzato dalle operazioni logiche (inclusio24 S. Moscovici, La Psychanalyse, son image, son public, Presses Universitaires de France, Paris 19762.

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

35

ni, associazioni, deduzioni, inferenze, falsificazioni) e un metasistema che guida (è proprio il verbo utilizzato anche da Legrenzi) le operazioni del sistema, controllando, verificando, e selezionando le informazioni in accordo con le regole (convenzioni) sociali, siano queste ultime a loro volta logiche oppure no. Le caratteristiche del metasistema sono quelle specifiche delle culture/società in cui i soggetti vivono. Ma possiamo ulteriormente articolare questo punto ricordando che i soggetti, nel corso della vita quotidiana, sono socializzati in specifici microsistemi (famiglia, scuola, lavoro), regolati da specifici insiemi di convenzioni e norme con diversi gradi di vincoli: vincoli almeno conosciuti, se non rispettati. Nel momento in cui regole e norme dei diversi microsistemi diventano sufficientemente stabili e coerenti, esse contribuiscono alla costruzione di un metasistema che caratterizza almeno tutto il periodo della socializzazione nel ciclo scolastico: sotto questo aspetto, il sistema scolastico italiano costituisce il metasistema entro il quale si concretizza l’insieme delle pratiche di insegnamento e apprendimento. Un aspetto importante del metasistema riguarda ciò che è chiamato il ‘senso comune’, termine che ha una sua dignità nella psicologia fin dai lavori di Heider25. Lo utilizziamo qui per riferirci a quell’insieme di opinioni, convinzioni, stereotipi, pregiudizi che riguardano lo sviluppo umano, o il modo in cui si apprende e cosa deve produrre la scuola. Chi non ritiene di avere opinioni sui tre argomenti appena indicati? Tutti hanno il diritto di esprimersi su ognuno di essi, e tutti possono avere una giustificazione per difendere le proprie idee e convinzioni ed esprimere giudizi, anche sferzanti, per esempio sullo sfacelo della scuola 25 F. Heider, The psychology of interpersonal relations, John Wiley & Sons, New York 1958.

­36

Prima lezione di psicologia dell’educazione

italiana, tuonando che a scuola non si impara nulla, tanto meno la buona educazione o il rispetto degli altri. Legrenzi affronta questo argomento in un recente volume26, in particolare in uno dei primi paragrafi, intitolato Bello da credere. Non è forse semplice e bello credere (soprattutto per chi si crede intelligente) che l’intelligenza sia un dono di natura? che il bernoccolo della matematica semplicemente lo si ha oppure no? e quindi che se un alunno non impara è appunto perché non è tanto intelligente o non ha il bernoccolo della matematica? Forse è semplice e bello da credere per (alcuni) insegnanti e addirittura per (alcuni) alunni. È semplice, bello e perfino liberatorio, rispetto alle responsabilità che riguardano l’insegnamento e l’apprendimento a scuola e più in generale le funzioni educative. Ma mettiamoci nei panni dei genitori dei (pochi) alunni che si ritenessero (o fossero valutati) poco intelligenti: come fare fronte a questa credenza, giudizio, diagnosi e al (ben comprensibile) dispiacere che ne deriva? e se un alunno magari fosse intelligente, ma svogliato, annoiato, fannullone, scansafatiche? lo sarebbe per natura? gli mancherebbe forse il bernoccolo dell’impegno, del desiderio di imparare? di quanti bernoccoli sono dotati gli alunni? Non vogliamo tediare il lettore con questi quesiti forse di bassa qualità. In realtà siamo di fronte al tema delle teorie di senso comune circa lo sviluppo, l’apprendimento, l’educazione; teorie che non hanno bisogno di rigorose prove scientifiche per essere accettate e credute, che anzi raccolgono maggior fiducia (credenza) quanto minori sono le prove in loro supporto. Ma poiché neppure le conoscenze scientifiche hanno una carattere monolitico, si trova comunque in qualche talk-show serale un esperto 26

P. Legrenzi, Credere, il Mulino, Bologna 2008.

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

37

che argomenta in modo suadente ciò che avevamo sempre pensato. E allora il gioco è fatto. Il ‘bello da credere’ si avvale dell’autorevolezza di un esperto ‘ad personam’. Ci troviamo così di fronte ad una caratteristica centrale del rapporto fra scienze e senso comune, che caratterizza la cosiddetta modernità. I risultati delle ricerche scientifiche (soprattutto quelli che riguardano la medicina e la genetica) vengono con sempre maggiore frequenza divulgati (a volte persino urlati come scoop) in tempi rapidissimi per poi rapidamente scomparire, senza la possibilità né il tempo di vagliarne l’attendibilità. Il risultato (la notizia, ma potremmo dire il verdetto) domina quindi sulla prova, e l’unico criterio per le persone comuni resta l’attendibilità della fonte: il quotidiano di fiducia, la trasmissione tv, l’esperto prediletto. Entra così in gioco il ‘bello da credere’: nel nostro caso, il credere che l’intelligenza sia un dono naturale, iscritto nel patrimonio biologico – credenza utilizzata per spiegare le differenze, certo presenti, fra gli individui27, e che diventa tanto più credibile se confermata dall’esperto di turno. Tuttavia, non tutti i temi sono meritevoli di questa attività socio-cognitiva. Essa prende piede su temi che interessano in modo particolare solo alcune categorie di persone, provocate e preoccupate da problematiche per loro inspiegabili ma che richiedono contestualmente di prendere decisioni. Consideriamo ad esempio l’intelligenza e l’apprendimento. Un genitore (una madre, soprattutto) ha un figlio non brillante a scuola: come mai va male a scuola? quesito che interessa ricercatori di ogni tipo, che si sbizzarriscono da decenni discutendo teorie assai diverse su cosa è l’intelligenza, sulle basi biologiche dell’apprendimento, sulla motivazione e sugli stili di apprendimento, senza peraltro trovare specifici punti di convergenza. E al27

G. Mugny, F. Carugati, L’intelligenza al plurale, cit.

­38

Prima lezione di psicologia dell’educazione

lora la nostra madre a chi si affida per trovare una risposta al suo cruccio e alla responsabilità che ne deriva? Non può certo avviarsi a studiare psicologia generale o dello sviluppo o dell’educazione, dove troverebbe a fronteggiarsi una varietà di punti di vista, certo interessanti e sofisticati, ma probabilmente inefficaci per le preoccupazioni che giornalmente l’accompagnano. Si affida allora comprensibilmente all’intermediazione di esperti, di divulgatori; alle credenze collettivamente condivise dal suo piccolo gruppo di conoscenti (altre madri); a coloro che forniscono interpretazioni che attenuino il suo senso di responsabilità. Come accettare di avere un figlio non intelligente? Se l’intelligenza è un dono che si manifesta nel successo scolastico, allora non può essere che il figlio non sia intelligente, ma deve essere la scuola che non riesce a insegnare come dovrebbe. Siamo così al centro di un conflitto che coinvolge cronicamente insegnanti e genitori: gli insegnanti sostengono di saper insegnare, ma di avere (alcuni) alunni che non imparano perché sono o poco intelligenti o poco motivati (non si impegnano); mentre (alcuni) genitori ritengono che i propri figli non imparino perché gli insegnanti non sanno insegnare. L’aspetto paradossale di questo conflitto è che genitori (madri) e insegnanti (donne), pur ritenendo che l’intelligenza sia sostanzialmente un fenomeno misterioso e non spiegabile neppure dalla scienza, sono contemporaneamente d’accordo sul fatto che è un dono distribuito in modo diseguale fra gli individui, e dunque occorre intervenire con ogni strumento per fare in modo che gli alunni imparino. Ma a chi compete quest’ultimo compito? È qui che emerge un’argomentazione certo curiosa28: per le insegnanti il compito è della famiglia, per le madri è delle insegnanti! 28 F. Carugati, P. Selleri, E. Scappini, Are social representations an architecture of cognitions? A tentative model for extending the dialogue, in «Papers on Social Representations», 1994, 3, 2, pp. 134-151; P. Selleri, F. Carugati, E. Scappini, What marks should I give? A model of the organization of teachers’ judgments of their pupils, in «European

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

39

Qualche lettore si chiederà perché parliamo soltanto di donne. Non è certo per difendere da queste dinamiche gli uomini, genitori o insegnanti che siano. La ragione riguarda il rapporto specifico che le madri e le insegnanti hanno con i temi dello sviluppo, dell’educazione, dell’apprendimento: essi non sono per loro primariamente oggetto di indagine scientifica, ma provocano la loro identità sociale, personale e professionale rispetto a figli e alunni. Soffermiamoci un momento su questo tema. Nel corso delle nostre ricerche e della pratica di docenti, abbiamo avuto modo di incontrare molte decine di insegnanti e madri. Molte volte abbiamo dovuto tenere conto delle loro perplessità, dello scetticismo, se non dell’aperta avversione e opposizione, di fronte a presentazioni di approcci diversi dalle loro aspettative: per esempio, la possibilità che le difficoltà di apprendimento dipendano in larga misura dalle condizioni organizzative e relazionali in cui si svolge l’attività didattica o la vita quotidiana familiare. Per non parlare del periodo adolescenziale. Se la pubertà non è la causa prima della condotta degli adolescenti, allora cosa fare? Se un adolescente non ha raggiunto il pensiero logico-formale (come dice Piaget! ma Piaget dice proprio così?) come si fa a insegnare la matematica, la fisica, la geometria? Il disorientamento, se non lo scetticismo, si impossessa di madri e insegnanti; allora anche la psicologia non serve: l’ultima risorsa è la propria esperienza personale e professionale, e ‘al diavolo gli psicologi’. Le insegnanti possono arrivare a far ricorso anche a cause familiari, alla società, alla televisione, alla perdita dei valori, in una sorta di mantra che copre una lacuna logica di cui Journal of Psychology of Education», 1995, X, 1, pp. 25-40; F. Carugati, P. Selleri, Intelligence, educational practices and school reform: Organisations change, representations persist, in A. Antonietti (a cura di), What students and teachers think about learning: Contextual aspects, in «European Journal of School Psychology», 2004, 2, 1-2, pp. 149-167.

­40

Prima lezione di psicologia dell’educazione

raramente le persone sembrano rendersi conto: se io (insegnante) accuso la famiglia, ed io stessa ho una famiglia e dei figli, non rischio di accusare (almeno potenzialmente) anche me stessa? Ecco qui un ulteriore fattore di conflittualità presso le madri. A chi attribuire le responsabilità? Gli esempi nella vita quotidiana non mancano: una vicina che ha sempre lavorato fuori casa, e ‘guarda che bel bambino che ha’, oppure un’altra vicina casalinga con un figlio che ‘è una peste’… Ci sono sempre esempi a disposizione per sostenere che vale meglio affidarsi all’esperienza personale, oppure che le differenze fra bambini e individui in realtà non sono spiegabili, sono la natura capricciosa o l’inspiegabile intrecciarsi delle vicende della vita a tenere le redini dello sviluppo dei figli. Attribuire l’intelligenza (e soprattutto la sua mancanza o carenza) e le dinamiche di apprendimento (e a maggior ragione le difficoltà di apprendimento) a cause naturali o comunque individuali (dotazione biologica e/o predisposizione innata, indipendentemente da specifici dettagli scientifici) consente di sopportare le implicazioni di responsabilità o colpa personale che ne conseguono. E inoltre giustifica la resistenza che molti adulti (madri e insegnanti) oppongono alla presentazione di teorie e evidenze empiriche di tipo socio-costruttivista (vedi sopra) che mettono in luce come l’acquisizione degli strumenti cognitivi e i percorsi di socializzazione siano anche e soprattutto il frutto di una paziente e tenace opera di co-costruzione in cui agiscono dinamiche di livello complesso, come abbiamo già illustrato. Siamo quindi di fronte ad una curiosa situazione che caratterizza le teorie psicologiche (e più in generale le scienze sociali e umane) e i saperi che esse producono e diffondono. Qualunque teoria che riguardi l’uomo e il suo sviluppo deve fare i conti con le concezioni più generali, filosofiche, ideologiche, religiose presenti nelle diverse culture ed epoche storiche. Fare i conti significa

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

41

perfino entrare in aperto conflitto, soprattutto di fronte a prospettive teoriche, come quelle che illustriamo in questo volume, che sono ancora minoritarie, almeno presso il ‘grande pubblico’. Ecco la ragione per la quale possiamo presentare questo capitolo come un dialogo senza fine fra scienza e senso comune. Anche le scienze sono immerse nelle dinamiche socio-culturali proprie dei diversi periodi storici e sembra proprio che quello attuale segni il ritorno, anzi il trionfo, di una concezione individualista dello sviluppo umano, delle sue dinamiche, del primato dei talenti, dell’uomo che si fa da sé (viene in mente l’antico detto della saggezza dei nonni: chi fa da sé fra per tre). A proposito dell’apparire delle prime teorie psicologiche, agli inizi del XX secolo autori come Cooley (nel 1902!) già suggerivano che possono esistere teorie individualiste e teorie sociali dell’individuo, ciascuna delle quali utile per mettere in luce aspetti specifici della complessità dell’uomo e del suo sviluppo. La storia della psicologia è costellata da un largo e costante predominio di teorie individualiste e da una tenace minoranza di teorie sociali, che periodicamente sono riapparse, trasformate e arricchite, secondo una dinamica tipica delle minoranze attive29. 29 Ci riferiamo a S. Moscovici, Psicologia delle minoranze attive, Boringhieri, Torino 1981 (ed. or. 1976).

Capitolo 3

Come si impara?

Considerare i risultati a compiti sperimentali, ma anche a compiti scolastici, come la conseguenza diretta delle caratteristiche cognitive degli individui di ogni età costituisce un’opinione, anzi una convinzione, molto diffusa, largamente maggioritaria non soltanto fra genitori, insegnanti, educatori di ogni tipo, ma anche fra responsabili di politiche educative ed esperti di ogni genere (psicologi, pedagogisti, ricercatori accademici). La conseguenza più immediata e visibile è la mancanza di attenzione alla natura e alla qualità dei rapporti esistenti fra il soggetto (l’alunno) e le condizioni in cui gli viene richiesto di produrre un risultato cognitivo (problem solving) o scolastico (un problema di aritmetica, matematica, geometria). Da molti anni questa relazione è stata studiata e dimostrata essere di natura sociale1, implicante livelli diversi di analisi2. Per esempio, il trattamento di ogni informazione richiede l’attivazione di una certa quantità di attenzione e di controllo sull’attività in corso, quantità tanto maggiore quanto più il compito è complesso e poco familiare; perciò tutto ciò 1 J.-M. Monteil, P. Huguet, Social context and cognitive performance: Towards a social psychology of cognition, Psychology Press, Hove (East Sussex) 1999. 2 W. Doise, Livelli di spiegazione in psicologia sociale, Giuffrè, Milano 1989 (ed. or. 1982).

3. Come si impara?

43

che aiuta a diminuire il costo di attivazione dell’attenzione legato al contesto del compito contribuisce all’efficacia del trattamento dell’informazione. Ma quando si parla di contesto non ci si riferisce soltanto alla messa in scena del compito (presenza di un partner conosciuto o meno; più bravo o meno bravo; più o meno cooperativo); ci riferiamo anche allo stato psicologico del soggetto: per esempio alla propria storia precedente di alunno (esperienze di successo/insuccesso; reputazione di bravo o mediocre alunno). Si tratta di esperienze cognitive e emozionali che entrano in risonanza (sono attivate in memoria sulla base di indici percettivi o ricordi) e generano un sovraccarico o un alleggerimento dell’attenzione richiesta e quindi un trattamento dell’informazione più o meno efficace. Le pagine seguenti portano esempi di come e in che misura memoria e attenzione (due delle componenti funzionali più implicate nei compiti cognitivi) siano sensibili alle condizioni nelle quali opera la ‘macchina cognitiva’, proprio perché essa conserva la memoria della propria storia e cioè di come ha funzionato in precedenza. Storia che contiene caratteristiche cognitive e sociali della qualità delle relazioni passate (con familiari, compagni, insegnanti). Per esempio, la vita quotidiana nelle classi presenta tutti gli aspetti di un luogo caratterizzato in modo esplicito dal confronto sociale. L’incertezza rispetto ai criteri di valutazione dei risultati dell’apprendimento (le cui caratteristiche variano nel corso degli anni di scuola: giudizi, voti…), la visibilità sociale delle valutazioni, i confronti fra gli alunni circa queste valutazioni, conducono inevitabilmente al confronto (alla competizione?) sociale. Ci possiamo chiedere quindi se e quali effetti abbia il confronto sociale sull’attenzione e le produzioni cognitive. In sostanza, l’attribuzione delle risorse di attenzione a un compito dipende, almeno in parte, dal grado di congruenza fra l’esperienza attuale e quelle passate immagazzinate in memoria. D’altra parte, le condizioni di

­44

Prima lezione di psicologia dell’educazione

realizzazione dei compiti possono rivelarsi generatrici di emozioni positive o negative, più o meno congruenti con quelle provate in situazioni passate. Queste diverse possibilità producono dinamiche in grado di interferire sulla rea­lizzazione di un compito, inducendo una focalizzazione sul proprio Sé che costituisce un ostacolo per la soluzione dei compiti. Esiste un’ampia letteratura3 che ha messo in luce la presenza di una molteplicità di dinamiche psico-sociali che influenzano i risultati di un compito: a partire dalle differenze individuali di capacità, dalle attese di successo/ insuccesso, da percezioni diverse del compito fra insegnanti e alunni, dalla natura e difficoltà del compito, dal confronto e visibilità sociale fra alunni rispetto ai risultati attuali e al ricordo di quelli passati. A tutto ciò occorre aggiungere gli effetti della storia personale di ogni alunno (delle sue capacità di esercitare il ‘mestiere’ di alunno) e gli effetti legati alla storia della classe frequentata. Nel costituire uno schema di sé di successo/insuccesso scolastico intervengono anche elementi autobiografici: in altri termini, esistono evidenze empiriche (dagli studi sulla memoria autobiografica)4 secondo le quali fin dalle prime esperienze di vita associata i bambini costruiscono uno schema di sé, che successivamente si arricchisce di contenuti legati alle informazioni più propriamente scolastiche. Si tratta di informazioni legate ad avvenimenti della vita quotidiana e alle loro caratteristiche affettive e valutative che, una volta acquisite in memoria, possono essere ben organizzate e facilmente disponibili e recuperabili. Queste caratteristiche sono state messe in luce in alunni francesi (di età corrispondente a quelli delle scuole medie e prima superiore italiane): offrendo loro una lista di aggettivi di vario tipo, essi ricono3 J.-M. Monteil, P. Huguet, Social context and cognitive performance, cit. 4 Ibid.

3. Come si impara?

45

scono più rapidamente quegli aggettivi che caratterizzano il successo a scuola (la misura sono i tempi di reazione al loro riconoscimento)5. Si potrebbe dire che non è una grande notizia: in realtà, questi risultati documentano non solo il rilievo sociale attribuito alla figura del bravo alunno (non ci sono evidenze empiriche della costruzione di uno schema di sé di insuccesso!), ma anche che questo rilievo si traduce nella costruzione di uno strumento cognitivo disponibile e rapidamente recuperabile in memoria, pronto ad essere attivato nelle situazioni di prestazioni scolastiche. Anche gli alunni mediocri costruiscono uno schema di sé di successo (il che, forse, è meno banale) con il quale devono fare i conti nel corso della loro vita scolastica. La disponibilità di uno schema di sé di successo rende comprensibili i risultati di un programma di ricerche sperimentali, condotte in ambito francese nel corso degli anni ’80, manipolando in modo ingegnoso tre variabili: lo status di alunno bravo/mediocre (si tratta di alunni francesi equiparabili agli ultimi anni della scuola dell’obbligo); la visibilità sociale di questo status (che viene reso pubblico – oppure no – agli alunni partecipanti agli esperimenti); l’eventualità (anticipata o meno) di essere interrogati sul contenuto di una lezione (la situazione sperimentale) in materie di diverso prestigio sociale: matematica, disegno, materie tecniche6. Complessivamente, il panorama di questi risultati è chiaro: nel repertorio della vita delle classi il confronto sociale, il prestigio delle materie, la visibilità pubblica degli alunni più o meno bravi, il rischio (la minaccia?) ovvero l’opportunità, ad esempio attraverso un’interrogazione o un risultato di un compito, di confermare agli occhi degli Ibid. Un’illustrazione dettagliata di questi risultati è disponibile in J.-M. Monteil, Educare e formare, il Mulino, Bologna 1991 (ed. or. 1989). Più recente è il contributo di J.-M. Monteil, P. Huguet, Réussir ou échouer à l’école: une question de contexte, Presses Universitaires de Grenoble, Grenoble 2002. 5 6

­46

Prima lezione di psicologia dell’educazione

altri e di se stessi quanto si è bravi oppure ‘asini’ costituiscono (nel loro intreccio concreto) il tessuto socio-cognitivo che governa i risultati scolastici degli alunni. D’altra parte, la semplice distribuzione casuale (fittizia) degli alunni nelle categorie di alunni bravi o mediocri è sufficiente per attivare risultati diversi ai compiti scolastici: se sono considerato pubblicamente bravo in quella materia, e mi si dice che sarò interrogato, ho un risultato migliore dei miei compagni (altrettanto ‘bravi’) che non saranno interrogati; mentre i miei compagni etichettati mediocri hanno un risultato migliore se non corrono il rischio di essere interrogati, diversamente da coloro che non possono evitare il rischio dell’interrogazione. Ma la storia non è finita. Studiando soggetti effettivamente bravi oppure mediocri (sempre in rapporto ai risultati scolastici), l’andamento di questi fenomeni è analogo. Non solo, ma l’effetto si ottiene anche su un compito di ricordo di figure indipendenti dalla prova che è oggetto della sperimentazione. Ciò significa che le dinamiche attivate influenzano anche la qualità della prestazione della memoria a lungo termine. Resta una possibile obiezione: si tratta pur sempre di risultati di ricerche sperimentali. Quali i rapporti con la vita concreta nelle classi? Contro-obiezione: confronto sociale, visibilità dello status di alunno bravo/mediocre, valore sociale delle materie scolastiche, interrogazioni, compiti in classe non sono forse fenomeni costitutivi del mestiere di alunno e anche del mestiere di insegnante? Se sì, allora la sperimentazione costituisce lo strumento metodologicamente più utile, se non l’unico, per mettere in evidenza le dinamiche attivate dalle condizioni che caratterizzano la vita quotidiana delle classi. I risultati così differenziati a compiti cognitivi non sono dunque da considerare come il prodotto diretto delle capacità individuali, ma anche, almeno in (larga) parte, dell’intreccio fra le caratteristiche delle situazioni in cui

3. Come si impara?

47

viene chiesto di produrre un risultato e la storia personale (fatta di valutazioni e confronti successivi). In sintesi, lo status di alunno bravo o mediocre, la sua visibilità e le occasioni in cui essa è resa saliente sono altrettante condizioni in cui si attiva un confronto sociale che produce effetti differenti. Questi risultati sono da considerare con attenzione di fronte ad una diffusa opinione circa gli effetti positivi del mettere a confronto, o addirittura in competizione, gli alunni per motivarli, spingerli, spronarli a fare meglio. Ma meglio di chi? di me stesso, dei miei compagni più bravi, di quelli bravi come me, di quelli meno bravi? Come si vede il confronto sociale, che costituisce una condizione ineliminabile della vita delle classi (e non solo), può diventare uno strumento didattico ed essere governato in senso virtuoso, oppure utilizzato per attivare vere e proprie dinamiche di competizione sociale. Esiste infatti un’ulteriore letteratura che mette in guardia da una facile e spesso inefficace focalizzazione sul confronto/competizione fra alunni. Recentemente è stata studiata la relazione fra confronto sociale e prestazioni cognitive, tanto da spingere Federico Butera ad intitolare un articolo La meritocrazia a scuola: un serio ostacolo all’apprendimento7: titolo certo sorprendente, almeno per coloro (e non sono pochi) che da diversi anni sventolano, soprattutto in Italia, il vessillo della meritocrazia come rimedio per i mali della scuola. Si può obiettare: che cosa c’entra la meritocrazia con il confronto sociale? È proprio questo il contributo di un’ampia gamma di ricerche che hanno utilizzato concetti e strumenti di psicologia sociale per comprendere ancora meglio gli effetti del confronto sociale. Vediamo per cominciare, seguendo l’argomentazione di Butera, i presupposti della meritocrazia. Essa si fonda su un principio di giustizia che postula che a scuola, così 7

In «Psicologia sociale», 2006, 3, pp. 431-448.

­48

Prima lezione di psicologia dell’educazione

come in altri ambiti della società, ognuno debba essere ricompensato o valorizzato in funzione dei propri risultati. Secondo questo principio, è legittimo (addirittura doveroso e giusto) assegnare i voti più alti agli alunni o studenti che producono migliori prestazioni. All’epoca in cui il principio si è affermato nell’organizzazione dei sistemi scolastici attorno alla fine della seconda guerra mondiale, l’obiettivo era quello di evitare che gli alunni provenienti dai ceti meno abbienti fossero condannati all’insuccesso scolastico sistematico e a corsi di studio brevi che li limitassero ad occupare le stesse posizioni sociali inferiori dei propri genitori, come di fatto allora avveniva. Il principio dell’eguaglianza delle opportunità consiste appunto nel rendere possibile, per gli alunni capaci e meritevoli, di continuare gli studi fino ai più alti gradi dell’istruzione, qualunque sia la loro classe sociale o ceto d’origine8. Il successo di questa prospettiva, e la conseguente enfasi nelle società moderne per ogni tipo di strumenti – test, voti, giudizi, graduatorie – considerati indicatori del merito, sono dovuti al fatto che questi strumenti di misura sono ritenuti in grado di attenuare o neutralizzare gli effetti delle diseguaglianze sociali, rendendole pertanto più accettabili: se le opportunità sono le stesse per tutti, allora gli alunni che riescono meglio sono quelli che dispongono di capacità tali da rendere legittima la loro posizione di superiorità rispetto agli altri alunni. Alcuni autori infatti ritengono che, pur esistendo delle disuguaglianze ingiuste dovute alle origini sociali, l’eguaglianza di opportunità educative (la scuola per tutti, un sistema di valutazione basato esclusivamente sul merito) offre un correttivo alle disuguaglianze sociali, aprendo a tutti la competizione per posizioni sociali elevate9. Altri autori sostengono invece 8 M. Duru-Bellat, L’inflation scolaire: les désillusions de la méritocratie, Seuil, Paris 2006. 9 F. Dubet, L’école des chances, Seuil, Paris 2004.

3. Come si impara?

49

che le ragioni del successo della meritocrazia siano ideo­ logiche: se è vero che fornire a tutti gli stessi strumenti educativi offre le stesse opportunità, è vero anche che nessuno controlla se di fatto tutti abbiano lo stesso livello di partenza. Il sistema meritocratico non fa quindi altro che perpetuare le differenze sociali di partenza: a parità di mezzi, se uno parte avvantaggiato arriva avvantaggiato ma, ahimé, anche viceversa. Inoltre, il fatto che alcuni membri delle classi meno favorite riescano ad approfittare dell’‘ascensore sociale’ e ad accedere ad uno status più elevato viene utilizzato per enfatizzare la permeabilità del sistema sociale, e sottintende che l’insuccesso di coloro che ‘non ce la fanno’ è dovuto a mancanza di impegno e/o di capacità individuali. Ma proseguiamo. Un sistema scolastico basato sul merito individuale, fin nelle sue più fini ramificazioni nella vita quotidiana delle singole classi, induce negli alunni una quotidiana e permanente attività di confronto con i compagni, e cioè l’utilizzo dei risultati dei compagni come termini di paragone per valutare le proprie prestazioni. Queste, a loro volta, sono individuate attraverso la somministrazione di prove che si suppone misurino competenze generali, di base, universali (per esempio, le prove Oecd-Pisa, le prove Invalsi, il Sat americano, oppure più semplicemente, i voti alle interrogazioni o ai compiti in classe10). Se i risultati individuali sono interpretati come norma sociale, il voto che un alunno riceve assume significato non in quanto indicatore di ciò che ha imparato, ma in relazione ai voti dei compagni: che soddisfazione trae un alunno da un 7 se tutti o la maggior parte dei compagni ha avuto 8? così come, se un insegnante rifila voti dal 2 al 4, ad un alunno e alla maggior parte dei compagni, quali 10 Per le prove Oecd-Pisa, http://www.invalsi.it/invalsi/rn/odis. php?page=odis_it_00. Per le attività Invalsi di valutazione degli apprendimenti, http://www.invalsi.it/snv0910/. Per il Sat americano, http://www.bibl.u-szeged.hu/afik/satw.html.

­50

Prima lezione di psicologia dell’educazione

informazioni possono essere tratte per valutare il proprio livello di apprendimento, se non un generico giudizio di ‘asino’? Siamo così di fronte ad una norma di funzionamento scolastico focalizzata sul confronto sociale fra le persone e le rispettive prestazioni. Possiamo chiederci come mai il valore attribuito al confronto sociale appaia così diffuso e onorato. In realtà, è proprio nella psicologia sociale che troviamo spunti per una risposta. Già negli anni ’50 Leon Festinger11 aveva mostrato come sia presente (onnipresente) nell’uomo la funzione di valutarsi (self-evaluation); l’autore parla addirittura di un bisogno fondamentale che si attiva in maniera automatica e inconsapevole e che svolge una funzione adattiva: avere una valutazione corretta delle proprie opinioni o delle proprie competenze permette di evitare comportamenti che possono portare a conseguenze negative. Uno degli aspetti originali del contributo di Festinger è che mette in luce la difficoltà nell’uomo di individuare criteri affidabili per autovalutarsi. Se ho qualche brivido lungo la schiena o un po’ di mal di gola, prendo un termometro e controllo: 36,5? allora purtroppo non ho scuse, devo andare a scuola; se ho 38,5 sono scusato: posso/devo stare a casa. Ma se le domande sono: sono bello? sono bravo? ho imparato? sono intelligente? quali termometri ho a disposizione? In attesa di un bellometro, un bravometro, un intelligentometro, ho a disposizione una vasta gamma di termini di paragone: gli altri. Non tanto gli altri in generale, quanto gli altri vicini a me: compagni, amici, colleghi. Tuttavia sappiamo bene che questi altri mi sono vicini per le ragioni socio-culturali più diverse: se fossi nato in un’altra famiglia? se fossi stato iscritto in un’altra classe o scuola? Inoltre Festinger aveva già notato che siamo esigenti e tendiamo a confrontarci ‘ver11 L. Festinger, A theory of social comparison processes, in «Human Relations», 1954, 7, pp. 117-140.

3. Come si impara?

51

so l’alto’, o quantomeno ‘leggermente più in alto’, allo scopo di ottenere informazioni, incentivi o suggerimenti tali da migliorare i nostri risultati o la nostra posizione. È quanto mostrano in modo molto dettagliato e originale i risultati di ricerche molto più recenti. All’inizio di un anno scolastico, gli autori12 hanno chiesto ad alcuni alunni di scuola media francese chi fossero i compagni con cui si confrontavano di più: le scelte sono cadute soprattutto su compagni dello stesso livello sociale ma con dei voti leggermente superiori ai propri. Inoltre, i risultati di fine anno hanno confermato un miglioramento più pronunciato negli alunni che hanno operato questo confronto ‘verso l’alto’ (verso compagni appena migliori) rispetto a coloro che non l’hanno fatto. In questo caso, il miglioramento dei risultati scolastici avviene quando gli alunni si confrontano con altri alunni tutto sommato molto simili, sia per genere sia per risultati, e non quando si confrontano con il ‘secchione primo della classe’; confronto spesso utilizzato da molti insegnanti, e utilizzato anche in molte aziende attraverso la nomina dell’‘impiegato del mese’ o, più ironicamente, della ‘migliore precaria nel mese’ – come nel caso di Marta, l’operatrice di call center protagonista del film Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (2008). Ma poiché l’uomo sembra proprio un impasto di virtù e debolezze, esiste anche l’altra faccia della medaglia del confronto sociale. È stato messo in luce, infatti, che esistono situazioni nelle quali le persone (alunni compresi) cercano di sentirsi bene o meglio di altri, di sentirsi ‘almeno un po’ superiori’ rispetto agli altri. A giustificazione, almeno parziale, sta il fatto che ciò si verifica soprattutto quando le persone si sentono minacciate da insuccessi, incompetenza percepita o temuta e quando tutto ciò è 12 P. Huguet, F. Dumas, J.-M. Monteil, N. Genestoux, Social comparison choices in the classroom: Further evidence for students’ upward comparison tendency and its beneficial impact on performance, in «European Journal of Social Psychology», 2001, 31, pp. 557-578.

­52

Prima lezione di psicologia dell’educazione

associato ad emozioni quali paura, diffidenza ma anche disprezzo, e perfino piacere per le disavventure o gli insuccessi degli altri. Insegnare e imparare: una dinamica di influenza sociale? Vediamo ora un altro aspetto delle dinamiche che caratterizzano il come si impara. Un gruppo di colleghi ha sviluppato un programma di ricerche ispirate all’ipotesi che l’apprendimento sia caratterizzabile come l’effetto di una forma di influenza sociale (gli autori parlano a questo proposito di teoria dell’elaborazione del conflitto)13. Ipotesi a prima vista curiosa e forse bizzarra, ma neppure molto, se si pensa che le conoscenze degli alunni (i bersagli) devono essere modificate dall’attività degli insegnanti (le fonti di influenza). D’altra parte, quando un alunno non impara si può supporre che resista all’influenza dell’insegnante, mentre quest’ultimo ha il compito di influenzare l’alunno per ottenere che gli oggetti delle conoscenze siano acquisiti. Ma con quali mezzi? Ciò che si conosce a proposito del funzionamento delle dinamiche di influenza sociale è utile per comprendere le dinamiche di insegnamentoapprendimento? Il punto di partenza di queste ricerche è la relazione fra il livello di competenza dell’insegnante (la fonte) e quello dell’alunno (il bersaglio). Se il bersaglio conosce il livello della propria competenza e il livello della competenza della fonte, allora sa in quale tipo di confronto sociale si inserisce la relazione di influenza (confronto ascendente, discendente o laterale, in caso di competenze simili). Ma 13 J.A. Pérez, G. Mugny, The conflict elaboration theory of social influence, in E. Witte e H. Davis (a cura di), Understanding group behaviour, II: Small group processes and interpersonal relations, Lawrence Erlbaum, New Jersey 1996, pp. 191-210.

3. Come si impara?

53

abbiamo visto più sopra che per conoscere gli effetti del confronto sociale bisogna anche poter determinare se questo confronto minaccia o no il Sé. Il modello di ricerca introduce dunque un terzo fattore esplicativo: il livello della minaccia al Sé (alto vs. basso) insito nella relazione di confronto sociale. Teoricamente, incrociando competenza del bersaglio (alto vs. basso), competenza della fonte (alta vs. bassa) e minaccia per il Sé (presente vs. assente) si ottengono otto condizioni sperimentali: un disegno di ricerca con tre variabili e due modalità per ciascuna di esse: 2*2*2. I risultati di queste ricerche meritano una breve illustrazione. L’alta competenza della fonte costituisce, se non intervengono altri fattori moderatori, una minaccia per il Sé del bersaglio e fa sì che il suo funzionamento cognitivo sia focalizzato sul confronto sociale, lasciando poche risorse socio-cognitive per la comprensione e l’elaborazione del compito. Per esempio, un bersaglio che si ritiene molto competente e che è confrontato con una fonte di influenza di uguale competenza (un conflitto tra competenze) mette in atto delle strategie difensive di auto-presentazione (segno di una minaccia al Sé) e mostra forme di ragionamento poco elaborate. Il ragionamento diventa più elaborato solo quando viene proposta al bersaglio l’utilità di cooperare con il partner: in questo caso, la minaccia diminuisce e il bersaglio può riconoscere la competenza di entrambi gli attori. In altre parole, se due partner non riescono a riconoscere la reciproca complementarietà e si focalizzano sulla minaccia che per ciascuno rappresenta la competenza dell’altro, producono un rendimento cognitivo inferiore al potenziale di ciascuno, malgrado la loro competenza individuale. Ma il caso più simile e pertinente per l’insegnamentoapprendimento scolastico è quello dell’asimmetria fra bersaglio poco competente (alunno) e fonte molto competente (insegnante, si spera!). Se il confronto sociale tra bersaglio e fonte è improntato alla competizione, le prestazioni dei

­54

Prima lezione di psicologia dell’educazione

bersagli in compiti di problem solving risultano inferiori a quelle dei bersagli che si trovano in una relazione di confronto sociale non minaccioso con la fonte. Se consideriamo attendibili questi risultati (confermati ormai sistematicamente)14 il trovarsi in una relazione ‘tipica’ dell’apprendimento – il confronto sociale ascendente – non garantisce un funzionamento cognitivo ottimale; è dunque necessario trovare dei dispositivi per ridurre o eliminare la minaccia per il Sé, rappresentata dalla presenza di una persona la cui competenza rischia di indurre nel bersaglio un sentimento di incompetenza. Torniamo a questo punto al tema della meritocrazia a scuola. È certo che occorre essere prudenti quando trattiamo risultati di ricerche sperimentali. E tuttavia, se la meritocrazia si fonda (come affermano gli stessi sostenitori) sul confronto sociale e il confronto può attivare gradi diversi di minaccia per il Sé (con conseguenze potenzialmente negative sulle prestazioni cognitive), la meritocrazia implica necessariamente un confronto minaccioso? Non potrebbe trattarsi invece di un confronto virtuoso, come probabilmente pensano i meritòcrati? Anche in questo caso ci vengono in aiuto risultati di altre ricerche. Le persone si sentono minacciate quando la valutazione di sé le porta alla conclusione, più o meno esplicita, che i propri risultati non sono all’altezza degli standard normativi per loro pertinenti (i risultati di altre persone, i criteri di successo in un dato contesto, le aspettative delle persone di riferimento, i sogni e le ambizioni). Inoltre le persone sono particolarmente preoccupate di ridurre la discrepanza tra la valutazione effettiva (dei propri risultati) e gli standard di riferimento. E questo spiega perché il confronto sociale che risulta dalla meritocrazia si concretizza di fatto in un confronto di tipo 14 J.A. Pérez, G. Mugny, The conflict elaboration theory of social influence, cit.

3. Come si impara?

55

minaccioso. Se si accetta che la meritocrazia usi come criterio primario la qualità delle prestazioni individuali, non si possono eliminare completamente i dubbi relativi agli effetti del confronto sociale rispetto agli altri soggetti di riferimento. E sono proprio questi dubbi, queste discrepanze, che introducono la minaccia per il Sé nel confronto sociale; Butera è perentorio al riguardo: la meritocrazia introduce la minaccia per il Sé, proprio attraverso il confronto sociale che essa stessa crea15. Ma attraverso quali dinamiche la minaccia del confronto sociale rappresenta un impedimento all’apprendimento? In primo luogo, la minaccia provocata dal confronto sociale induce una rappresentazione normativa dell’insegnamento, fissando l’attenzione degli alunni sull’obbedienza all’autorità dell’insegnante più che sull’apprendi­ mento. Ogni volta che un insegnante usa il potere di coer­ cizione o di ricompensa che gli deriva dal suo status, in realtà concentra l’attenzione degli alunni sulla minaccia che proviene dalla posizione dominante nel confronto sociale (l’insegnante ha l’autorità di punire o di non ricompensare) e sottrae quindi una parte delle risorse attenzionali destinate all’esame del contenuto dei compiti. Come il lettore ricorda, abbiamo già parlato di questa dinamica. Analogamente, in situazioni sia quotidiane (le interrogazioni, i compiti in classe) sia più formali (per esempio esami di Stato, prove Pisa o Invalsi) se l’obiettivo principale degli alunni (magari sottolineato dagli insegnanti stessi e da loro desiderato!) è quello di riuscire meglio degli altri, i voti – o i giudizi – si costituiscono come veri e propri strumenti di coercizione o di ricompensa. Cosa fa qualsiasi alunno, al fatidico momento di pubblicazione dei voti o dei risultati di fine anno, se non 15 F. Butera, La meritocrazia a scuola: un serio ostacolo all’apprendimento, cit., p. 438.

­56

Prima lezione di psicologia dell’educazione

guardare nervosamente i propri voti e, un secondo dopo, confrontarli con quelli dei compagni, magari il compagno di banco? Nella misura in cui i voti, i giudizi, le valutazioni costituiscono strumenti di ricompensa o punizione, allora è indispensabile chiarire gli effetti delle relazioni fra insegnamento-apprendimento ed esercizio del potere scolastico. È infatti noto da cinquant’anni16 che coercizioni e ricompense sono potenti strumenti che inducono principalmente effetti di apprendimento superficiale (memorizzazione a breve termine, apprendimento selettivo e strumentale), ma non un apprendimento realmente efficace, sotto la forma di integrazione di nuove informazioni nel sistema di conoscenze già acquisite dal soggetto. Negli stessi anni era stato documentato che non è il potere legato allo status, ma l’autorevolezza delle conoscenze possedute (l’expertise della fonte) a produrre forme di apprendimento elaborate, durature ed integrate. L’insegnante che usa le proprie conoscenze, più che la propria posizione sociale, può attivare curiosità e interessi negli alunni; interessi che favoriscono un trattamento profondo delle informazioni ed una loro integrazione più duratura e stabile nel sistema di conoscenze. Ritorniamo così ad un’intuizione già presente in Piaget, quando sostiene che l’autorità dell’adulto non produce elaborazione di nuove strutture cognitive, ma semplice obbedienza e conformismo. Se imparare (in una prospettiva costruttivista) significa appunto costruire del nuovo, il potere e l’obbedienza sono di ostacolo ad esso. Non basta quindi che l’individuo sia attento e memorizzi le informazioni, ma deve anche trasformare le proprie conoscenze, le credenze, i comportamenti, per adattarli 16 J.R. French, B.H. Raven, The bases of social power, in D. Cart­ wright (a cura di), Studies in social power, University of Michigan Press, Ann Arbor 1959, pp. 150-167.

3. Come si impara?

57

alle nuove informazioni. Nella Premessa a questo volume abbiamo documentato che anche memorizzare è utile, e che apprendere è un insieme di processi integrati di complessità elevata. Qui l’argomentazione si arricchisce di contenuti ulteriori, quali la partecipazione attiva degli alunni, il che implica volontà e responsabilità personali. Che l’obbedienza all’autorità implichi deresponsabilizzazione (ricordiamo gli studenti di Milgram17 e la loro facilità ad adottare il ruolo di inflessibili carcerieri, distributori di scariche elettriche) è dato ben noto. Nel caso dell’apprendimento, se si studia soprattutto per ottenere dei buoni voti, per eccellere, per attirare a sé la simpatia dell’insegnante o per far piacere ai genitori, sono ridotte le probabilità che si attivi un processo di integrazione delle conoscenze. La presenza di una pressione ad agire o a raggiungere un certo risultato, percepita come esterna a sé, porta ad una riduzione del desiderio, della voglia, della motivazione, dell’interesse per affrontare un argomento che pure può inizialmente incuriosire. Ci sono due prospettive di ricerca che ci aiutano a comprendere questo tema. La prima, indicata come teoria dell’autodeterminazione18 (nel campo dell’educazione, del lavoro, dello sport e della salute), ha mostrato che attivare forme di motivazione autonoma induce effetti positivi sulla persistenza nel compito in seguito ad un insuccesso, sulla stabilità di un comportamento, sulla prestazione (soprattutto in compiti che richiedono creatività, flessibilità cognitiva ed una buona comprensione concettuale), sulla soddisfazione e sul benessere, sugli atteggiamenti interpersonali positivi e sui comportamenti pro-sociali. Tutto 17 S. Milgram, Obbedienza all’autorità: il celebre esperimento di Yale sul conflitto tra disciplina e coscienza, Bompiani, Milano 1975 (ed. or. 1974). 18 E.L. Deci, R.M. Ryan, Intrinsic motivation and self-determination in human behavior, Plenum, New York 1985.

­58

Prima lezione di psicologia dell’educazione

questo rispetto alla motivazione esterna. E coercizione e ricompense sono attivatori di motivazioni esterne. La seconda prospettiva è quella proposta da Robert Vincent Joule e colleghi di Aix-en-Provence19, indicata con una locuzione curiosa: mettere-i-piedi-nella-porta. Facciamo un esempio. Alla fine di una lezione, un professore universitario propone ai propri studenti di leggere un articolo importante sull’argomento del corso per la lezione successiva. Il professore sa per lunga esperienza che la probabilità che l’articolo sia affettivamente letto è del 20-25%. Inaccettabile! come fare per aumentare la probabilità? affidarsi alle proprie capacità di persuasione? Tuttavia anche qui l’esperienza è deludente. Quante volte ha fatto ricorso alla qualità del testo, alla sua centralità per il programma, alla notorietà dell’autore? Giunge persino a dire che, se l’articolo non sarà stato letto, non varrà la pena di perdere tempo partecipando alla lezione successiva. Nulla. Allora, prima di chiudere la lezione, si ricorda di una tecnica suggerita da Lewin, e propone agli studenti: «scusate, vorrei sapere chi leggerà l’articolo per la settimana prossima. Nessun obbligo... Solo, per piacere, alzate la mano, giusto per contarvi». La settimana successiva più del 60% degli studenti ha letto l’articolo. Ovviamente non si tratta di un effetto-miracolo, ma vale la pena di chiedersi quale dinamica induca degli studenti a comportarsi in un modo che non avrebbero mai messo in atto spontaneamente, e tanto meno come effetto della persuasione diretta del professore. I lavori che si ispirano a questo modello (già proposto negli anni ’60) si basano su due tecniche apparentemente semplici: in prima istanza, ottenere un poco per poi domandare di più; e in secondo 19 R.V. Joule, Relancer l’intérêt des élèves par une pédagogie del’engagement, in M.-Ch. Toczek, D. Martinot (a cura di), Le défi éducatif, Armand Colin, Paris 2004, pp. 31-53.

3. Come si impara?

59

luogo, fare appello al sentimento di libertà personale (sei libero di accettare o rifiutare…) per indurre le persone a fare ciò che mai farebbero spontaneamente. Inquadrate in termini teorici, queste tecniche si rifanno ad una definizione dell’impegno così formulata: l’impegno, in una specifica situazione concreta, corrisponde alle condizioni in cui la rea­ lizzazione di una condotta può essere imputata soltanto a colui che la mette in atto. Come si vede, la valorizzazione sociale (culturalmente diffusa e riconosciuta) della libertà personale viene qui utilizzata allo scopo di ottenere dalle persone di mettere in atto condotte senza imposizione esplicita. Abbiamo visto che per ottenere risultati di modifica di condotte possono essere utilizzate due modalità che diremmo opposte: l’autodeterminazione e l’attivazione della libertà di impegnarsi. A successivi studi il compito di comprendere se l’autodeterminazione non sia a sua volta sottilmente indotta! Torniamo ora al confronto sociale. Un’ulteriore forma di minaccia al Sé deriva dal fatto che essa induce una rappresentazione competitiva delle interazioni sociali, a sua volta nociva per l’apprendimento. Essa riduce i benefici della cooperazione fra individui. L’utilità della cooperazione fra partner è acquisizione consolidata nella ricerca, anche se attività didattiche effettivamente fondate (e documentate nei dettagli) sull’apprendimento cooperativo (almeno in Italia e nonostante la pubblicizzazione di traduzioni di volumi americani ed enfasi verbali in congressi di varia natura) sono molto rare. Occorre riconoscere che gli autori promotori dell’apprendimento cooperativo, nelle loro analisi dettagliate e prudenti al tempo stesso, confermano che i dispositivi di apprendimento cooperativo ottengono effetti più positivi sulle relazioni interpersonali e intergruppo, sulla motivazione (intrinseca) e sull’apprendimento, rispetto ai dispositivi competitivi o individuali. Ma condizione decisiva, spesso tralasciata

­60

Prima lezione di psicologia dell’educazione

dall’enfasi semplicistica e un poco propagandistica, è che questi dispositivi funzionano se (aggiungiamo e soltanto se) la cooperazione è reale e se nella relazione tra i partner non sono presenti dinamiche di minaccia al Sé20. Lavori più recenti hanno ulteriormente introdotto elementi di fiducia ma anche di prudenza. È stato chiesto a coppie di studenti universitari di studiare un testo insieme, spiegandolo l’uno all’altro, per poi sostenere un test di valutazione su ciò che i due hanno compreso. Nella prima condizione sperimentale, è stata affidata ad ognuno una parte dell’intero testo (condizione di interdipendenza positiva delle risorse), una procedura utilizzata per indurre un sentimento di competenza equivalente (ognuno è esperto della propria parte e la deve spiegare all’altro). Nella seconda condizione, a ciascun partner è stato dato l’intero testo (indipendenza delle risorse), cosicché ciascuno, pur dovendone spiegare all’altro solo una parte, conosca il testo completo e possa, di conseguenza, valutare se il compagno spiega la propria parte in modo chiaro (per chi ascolta). Questa seconda è una condizione di potenziale confronto minaccioso per le competenze di entrambi, e infatti l’apprendimento a lungo termine (un mese dopo la prova) si è rivelato inferiore rispetto a quello osservato nella prima condizione21. Detto in altre parole, se la cooperazione effettivamente funziona e se il confronto sociale si articola attorno alla complementarietà dei ruoli, la competenza del partner diventa un aiuto all’apprendimento. Ma se in un compito cooperativo il confronto sociale attiva la valutazione delle competenze reciproche, allora la competenza del partner diventa una minaccia e un ostacolo all’apprendimento. 20 C. Buchs, F. Butera, Complementarity of information and quality of relationship in cooperative learning, in «Social Psychology of Education», 2001, 4, pp. 335-357. 21 Ibid.

3. Come si impara?

61

Altri due studi confermano i risultati appena presentati22. Con un dispositivo di apprendimento cooperativo simile a quello appena descritto, il tempo utilizzato per confrontare i punti di vista alternativi è positivamente correlato con l’apprendimento quando le competenze dei partner sono complementari (interdipendenza positiva), mentre è negativamente correlato con l’apprendimento quando le competenze dei partner interferiscono l’una con l’altra (indipendenza delle risorse). Insomma, questa linea di ricerca mostra che la minaccia nel confronto sociale può essere un impedimento all’apprendimento anche in condizioni che altrimenti avrebbero un effetto positivo. Meritocrazia: un’etichetta ambigua Ma la meritocrazia riduce anche i benefici che si presentano in condizioni di conflitto socio-cognitivo23. Sin dagli anni ’70 è stato documentato che già bambini in età di scuola materna, quando si trovano a confrontare il proprio punto di vista con quello di un compagno rispetto alla soluzione di un medesimo compito cognitivo, riescono a trovare soluzioni o produrre ragionamenti migliori di quelli di cui dispongono a livello individuale. Ma questi risultati possono essere influenzati dal tipo di obiettivo che i soggetti si prefiggono quando devono risolvere un compito. Si impegnano per far meglio dei compagni, per avere punteggi migliori, per eccellere (obiettivi di performance)? oppure per padroneggiare un contenuto, capire in maniera approfondita, insomma per imparare, per met22 C. Buchs, F. Butera, G. Mugny, Resource in(ter)dependence, student interactions and performance in cooperative learning, in «Educational Psychology», 2004, 24, pp. 291-314. 23 F. Carugati, G. Mugny, P. Barbieri, P. De Paolis, V. Gherardi, M. Ravenna, Psicologia sociale dello sviluppo cognitivo: imitazione di modelli o conflitto socio-cognitivo?, in «Giornale Italiano di Psicologia», 1978, 2, pp. 323-352.

­62

Prima lezione di psicologia dell’educazione

tersi alla prova, incuriositi dal compito stesso (obiettivi di apprendimento)? Come si vede, si tratta di obiettivi qualitativamente diversi; e se questi obiettivi sono utilizzati per costruire delle condizioni sperimentali distinte, i soggetti ai quali sono attivati obiettivi di apprendimento mostrano risultati migliori rispetto all’altra condizione. Si può quindi sostenere che gli effetti positivi delle condizioni di conflitto socio-cognitivo dipendono dal fatto che i bambini si concentrino sul contenuto del compito, liberi dal desiderio di mostrare quanto sono bravi o almeno più bravi dei compagni. Ma non basta: anche nel caso in cui i soggetti pensano di non essere delle ‘cime’ e cercano così di dissimulare la propria ‘ignoranza’ producono risultati peggiori. Ritroviamo qui la conferma di una dinamica già presente nei lavori di Monteil24: il rischio di essere interrogati porta gli alunni (non bravi) a risultati modesti, così come gli alunni indotti a considerare un compito come un’occasione di confronto sociale minaccioso conseguono risultati modesti. Insomma, obiettivi che inducono un individuo a fare meglio degli altri (ad eccellere) non solo eliminano l’effetto benefico del conflitto socio-cognitivo, ma lo rendono persino negativo. Si può sostenere addirittura che attivare sistematicamente obiettivi competitivi (un clima, in classe, competitivo) pur non essendo utile per apprendere, induce addirittura a cercare di superare gli altri sul piano relazionale, non riconoscendoli fonte di punti di vista accettabili (almeno provvisoriamente), o magari denigrandoli. La sperimentazione aggiunge ulteriori elementi di riflessione pertinenti per il tema della meritocrazia. Un certo numero di ricerche ha studiato gli effetti della minaccia per il Sé su meccanismi percettivi e cognitivi importanti 24 J.-M. Monteil, Educare e formare, il Mulino, Bologna 1991 (ed. or. 1989).

3. Come si impara?

63

per l’apprendimento. L’idea generale è che una minaccia per il Sé porta le persone a rimuginare su come ridurre la minaccia stessa (rumination)25, occupando così una buona parte dell’attenzione utile per affrontare i compiti (con effetti di distrazione!). Questa distrazione induce una focalizzazione dell’attenzione sugli elementi centrali di un compito, portando l’individuo a tralasciare gli elementi periferici. Se il compito è complesso, come è il caso della maggior parte dei compiti di apprendimento, la focalizzazione porta a considerare soltanto le caratteristiche centrali del compito, tralasciando aspetti specifici ma necessari per una soluzione corretta. Una conclusione sembra plausibile: quando il confronto sociale è minaccioso si pensa troppo al proprio status, e rimangono così poche risorse attenzionali per occuparsi di ciò che si dovrebbe, o che magari si vorrebbe, imparare. Più in generale, la meritocrazia è dunque una prospettiva che, volendo promuovere l’eccellenza, riduce di fatto le opportunità di apprendimento per coloro che vi sono coinvolti. L’argomento secondo il quale proporre programmi di studio o di formazione con caratteristiche meritocratiche ha l’obiettivo di favorire i più bravi, oltre ad essere tautologico, è anche fallace, come mostrano a vario titolo i lavori che abbiamo presentato, compresi quelli che spiegano come, in una classe in cui è preminente il confronto sociale, al primo dubbio sulle proprie competenze gli alunni bravi si ritrovino nelle stesse situazioni di insuccesso degli alunni ‘deboli’. Possiamo chiederci a questo punto a quali teorie dello sviluppo-apprendimento si ispirino i sostenitori della meritocrazia. Prendiamo in considerazione un testo di uno 25 S.L. Koole, K. Smeets, A. van Knippenberg, A. Dijksterhuis, The cessation of rumination through self-affirmation, in «Journal of Personality and Social Psychology», 1999, 77, pp. 111-125.

­64

Prima lezione di psicologia dell’educazione

degli esponenti italiani più convinti, Roger Abravanel: in Meritocrazia troviamo una definizione del termine che, curiosamente, l’autore riprende da Wikipedia26, successivamente precisata da una formula definita equazione del merito, ovvero equazione di Young27 e cioè: I+E=M Questa equazione regge tutta l’ideologia della meritocrazia: guida le regole, i comportamenti e le misure del merito nelle società meritocratiche. M sta per merito, che si distingue in merito razionale e merito morale. Il merito razionale è rappresentato da I, che sta per Intelligenza e, più ampiamente, per qualità intrinseche di un individuo: le sue capacità cognitive, come l’abilità nel capire, interpretare, analizzare e utilizzare in modo produttivo le informazioni, la capacità di intelligenza emotiva e di leadership, la forza di carattere. Secondo l’autore, sessant’anni di ricerche psicometriche e sociologiche hanno portato a ritenere che tali capacità intellettive e caratteriali siano prevedibili, senza che sia necessario attendere la selezione naturale della società. Il merito morale E (Effort) è lo sforzo, l’impegno, caratterizzante i comportamenti che ogni persona deve mettere in atto per avere successo nella vita, come segno della salvezza che Dio concede a chi si impegna. Ogni persona è quindi padrona del proprio destino. È del tutto chiaro come le origini di questo credo meritocratico 26 http://it.wikipedia.org/wiki/Meritocrazia; R. Abravanel, Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008, p. 59. 27 M. Young, L’avvento della meritocrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1962 (ed. or. The rise of meritocracy, 1870-2033: An essay on education and equality, Thames and Hudson, 1958). Come ricorda Abravanel, Young è considerato «l’inventore della meritocrazia» ed uno dei campioni del merito insieme al presidente J.B. Conant dell’Harvard University di Boston, che negli anni ’50 crearono le basi per definire i criteri di accesso al sistema universitario americano.

3. Come si impara?

65

affondino nel complesso dei valori protestanti, ispiratori dei padri fondatori delle colonie Usa. Abravanel fa suoi i fondamenti del credo meritocratico propugnato dal presidente dell’Università di Harvard alla fine degli anni ’90: ognuno sarebbe (sic!) dovuto andare alle scuole elementari e alle scuole superiori. Poi sarebbe intervenuta una selezione molto severa. Gli studenti più intelligenti sarebbero andati all’università a spese dello Stato28.

Conseguenza diretta dell’applicazione di questo credo è l’utilizzazione «dell’arma segreta della meritocrazia»29, e cioè il Sat (Scholastic Aptitude Test)30, un test largamente utilizzato da molti anni nelle università americane per la selezione delle matricole, ma che nonostante l’entusiasmo di Abravanel non è esente da critiche anche molto severe, peraltro non prese in ­considerazione dall’autore. Infatti già nel 2001 l’allora presidente dell’Università della California (dell’intero sistema universitario californiano), Richard C. Atkinson (un notissimo psicologo!), in un convegno dell’American Council on Education raccomandò di evitare l’utilizzo del Sat Reasoning Test (oltre che di altri test) come strumento di ammissione ai college con queste parole31: Chiunque è coinvolto nell’educazione deve essere preoccupato per l’enfasi eccessiva dedicata al Sat, in quanto distorce le priorità educative e le pratiche di insegnamento. Il test infatti è considerato da molti come ingiusto e inadeguato e può avere R. Abravanel, Meritocrazia, cit., p. 45. È l’espressione coniata dal giornalista Nicholas Lemann in The big test: The secret history of the American meritocracy (Farrar Strauss and Giroux, New York 1999) e fatta propria da Abravanel, Meritocrazia, cit., p. 47. 30 http://it.wikipedia.org/wiki/SAT_Reasoning_Test. 31 http://www.ucop.edu/news/sat/speech.html. 28 29

­66

Prima lezione di psicologia dell’educazione

un impatto devastante (sic!) sulla stima di sé e sulle aspirazioni degli studenti. Esiste un diffuso accordo che questa enfasi eccessiva sul Sat nuoce e produce danni al sistema educativo americano.

In risposta alle critiche, il College Entrance Examination Board (l’agenzia privata produttrice del Sat) annunciò la pubblicazione di una revisione del Sat, avvenuta nel 2005, ma anche questa versione è stata oggetto di severe critiche. Proprio nel 2005 un esponente del prestigioso Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, Les Perelman, e il National Council of Teachers of English ha mostrato che chiedere di scrivere un saggio in 25 minuti (standard di una sezione del Sat) è contrario alle metodiche di insegnamento dell’inglese nelle scuole precedenti, soprattutto perché la ristrettezza del tempo ostacola un’attenta produzione, revisione e controllo del testo, e induce gli stessi insegnanti (per preparare gli studenti al Sat) a produrre ‘cattivi scrittori’32. È ovvio che la discussione deve proseguire e lo faremo in altra sede. Resta comunque il problema, ovvero l’obiettivo virtuoso e condivisibile che i sostenitori della meritocrazia intendono perseguire: la massimizzazione del potenziale degli individui. Anche in questo caso siamo del tutto d’accordo che esista un potenziale di apprendimento; tutto l’approccio socio-costruttivista che stiamo illustrando si fonda sulla presenza di una zona prossimale di sviluppo33. Ma il punto di distinzione, e crediamo di 32 Un aggiornamento al luglio 2010 della discussione, che coinvolge prestigiosi docenti del Mit (l’Università di Boston che viene spesso citata come esempio di qualità eccellente per ricerca e didattica), sui pro e contro del Sat è disponibile sul sito http://www.npr.org/tem plates/story/story.php?storyId=4634566. Il titolo dell’intervista al già citato Les Perelman, direttore del corso di Undergraduate writing al Mit, è chiaro: MIT Professor Finds Fault with SAT Essay. 33 F. Carugati, P. Selleri, Psicologia dell’educazione, il Mulino, Bologna 20052.

3. Come si impara?

67

disaccordo, con i meritòcrati è là dove essi ritengono che il potenziale sia un patrimonio esclusivamente individuale, un dono distribuito in modo ineguale (dalla Provvidenza? dal Caso?). E su questo punto il dibattito può certamente proseguire.

Capitolo 4

Giudizi sociali e valutazioni

Le metafore possono essere uno strumento utile per i ricercatori, in quanto servono a confrontare oggetti conosciuti con oggetti o eventi sconosciuti: per esempio, la metafora dell’uomo come macchina e quella del cervello come un computer (si parla di processamento delle informazioni, evocando così i processori dei pc), oppure la metafora della persona (del bambino) come scienziato ingenuo (nella teo­ ria dell’attribuzione, ma non solo) hanno prodotto, già da molti anni, ricerche interessanti. Non ci sorprendiamo perciò che si trovino metafore anche in ambito educativo e a proposito del comportamento degli alunni: per esempio, le istituzioni scolastiche definite come templi dell’apprendimento e gli ambienti scolastici come luoghi sacri, evocando così l’idea della scuola come luogo sacro dove si celebrano liturgie dedicate all’apprendimento e dove si manifesta l’intelligenza1. Più recentemente sono state introdotte anche

G. Mugny, F. Carugati, L’intelligenza al plurale, Clueb, Bologna 1988 (ed. or. L’intelligence au pluriel, DelVal, Cousset 1985; trad. ingl. Social representations of intelligence, Cambridge University Press, Cambridge 1990); F. Carugati, P. Selleri, Intelligence, educational practices and school reform: Organizations change, representations persist, in A. Antonietti (a cura di), What Students and Teachers Think about Learning: Contextual Aspects, in «European Journal of School Psychology», 2004, 2, 1-2, pp. 149-167; F. Carugati, Psicologia 1

4. Giudizi sociali e valutazioni

69

metafore economico-commerciali, che descrivono i sistemi scolastici come luoghi dove si vendono e si acquistano conoscenze, competenze e abilità per entrare nel mercato del sapere: genitori e alunni come clienti, esperienze di lavoro che possono essere riconosciute nei percorsi universitari, corsi di formazione on demand e simili. Nessuna meraviglia, quindi, che metafore religioso-spirituali, meccanico-informatiche o commercial-ipermercatistiche siano associate alle più disparate attività educativo-didattiche. Recentemente abbiamo riscontrato l’ennesima metafora: quella delle classi come aule giudiziarie, in sintonia con quanto avevamo noi stessi proposto nel 1994 in occasione di un convegno di psicologia dell’educazione, con una comunicazione dal titolo: Giudici, insegnanti, psicologi2. Quella delle classi come aule giudiziarie è la metafora proposta da Bernard Weiner3, un collega di Los Angeles, per interpretare le caratteristiche dei giudizi che gli insegnanti producono nei confronti degli studenti e le modalità che gli studenti utilizzano per rispondere ai giudizi degli insegnanti. Per dirla in modo un po’ impertinente, l’eterna disfida fra insegnanti e studenti sceneggiata come disfida fra ladri gaglioffi e giudici integerrimi e inflessibili. Ma più seriamente, questa metafora ha ispirato un filone di

e sistemi scolastici: risorse e limiti di un’avventura, in E. Confalonieri, S. Cannone, C. Martelli (a cura di), Psicologia e scuola: forme di intervento e prospettive future, Erickson, Trento 2009, pp. 29-42. F. Carugati, P. Selleri, Social development and the development of social representations: two sides of the same coin?, in A. Antonietti, E. Confalonieri, A. Marchetti (a cura di), Metarepresentation and narrative in educational settings: Where cognitive and social development meet, Psychology Press & Routledge, London, in corso di stampa. 2 P. Selleri, F. Carugati, Giudici, insegnanti, psicologi: il ruolo di domande e risposte nella formulazione dei giudizi, Contributo al Congresso Nazionale SIPs, Divisione di Psicologia Educativa, Milano, 14-16 ottobre 1994. 3 B. Weiner, The classroom as a courtroom, in «Social Psychology of Education» 2003, 6, pp. 3-15.

­70

Prima lezione di psicologia dell’educazione

ricerche ricco di risultati, che qui riferiamo con qualche dettaglio. Se ci chiediamo quali sono le determinanti nella valutazione dei risultati scolastici, in particolare le relazioni fra l’informazione disponibile (il risultato ad un compito o interrogazione) e le inferenze circa il livello di abilità e di impegno che gli insegnanti producono, tali determinanti possono essere affrontate tramite i concetti giuridici di actus reus e mens rea, propri della tradizione del diritto romano e utilizzati come strumenti di argomentazione nelle sentenze. Un altro concetto utile è poi quello di percezione della legittimità della giustizia, quando si utilizzano inferenze sul grado di responsabilità personale dei soggetti e si assegnano loro i voti. È possibile, inoltre, considerare quali funzioni svolgano i feedback negativi prodotti al momento di prove o esami, ispirandosi alla distinzione fra obiettivi retributivi e obiettivi utilitaristici delle pene inflitte, distinzione che ispira le sentenze nei tribunali. Infine, è possibile considerare cosa può fare l’‘accusato’ (lo studente) per modificare l’opinione del ‘giudice’ (l’insegnante) e attenuare le conseguenze della sentenza (un giudizio o una votazione). Valutazione dei risultati scolastici: quanto è ‘giusta’ una valutazione? Per studiare concretamente tali questioni, Weiner4 lavora con un dispositivo sperimentale che prevede di offrire ai soggetti (insegnanti) informazioni sia circa i risultati di uno studente (fittizio) ad un esame (condizione successo vs. insuccesso), sia circa il livello di impegno (alto/basso) e il livello di abilità (alto/basso). La combinazione di queste tre fonti di variabilità (ciascuna con due livelli) dà luogo ad un piano sperimentale 2*2*2 che produce otto tipi di studenti 4

Ibid.

4. Giudizi sociali e valutazioni

71

fittizi. Così, per esempio, uno studente è presentato come alto in abilità, basso in impegno, e con bassi voti. Questi otto studenti fittizi sono presentati separatamente a otto diversi gruppi di insegnanti, ai quali si chiede loro di dare un punteggio allo studente presentato utilizzando una scala da +5 a –5. I primi risultati hanno mostrato, in modo congruente con il principio utilizzato nei tribunali, che un voto basso (punizione) è proporzionato alla gravità del crimine (actus reus), secondo l’antico principio biblico «occhio per occhio, dente per dente»5: peggiore è l’esito di un esame peggiore sarà il voto, secondo un risultato solo apparentemente banale. Infatti i tribunali personalizzano la punizione nella misura in cui il criminale presenti una mens rea, sia cioè ritenuto direttamente responsabile del crimine di cui è accusato: il che viene inferito da una varietà di circostanze, per esempio la reiterazione del reato, oppure il riconoscimento di circostanze attenuanti o aggravanti. Così la severità della punizione è influenzata dalla responsabilità inferita. D’altra parte, la giurisprudenza ha sempre messo in relazione la responsabilità morale con l’amministrazione della giustizia, e tenere conto della responsabilità personale è una costante nel pensiero e nella pratica giurisprudenziale. Analogamente, le conclusioni di Weiner mostrano che un risultato scolastico è valutato più severamente (o meno positivamente, nel caso di successo) se è considerato assente (o basso) l’impegno inferito dal risultato, in rapporto alle condizioni nelle quali lo studente ha lavorato. Così, anche la responsabilità inferita influenza la valutazione del risultato. Nel caso di un risultato scadente, la mancanza di impegno associata ad alta abilità è valutata in modo particolarmente negativo: in parte perché la presenza di abilità 5

Esodo, 21-24.

­72

Prima lezione di psicologia dell’educazione

offre evidenza che l’insuccesso sia da imputare a fattori che possono essere sotto il controllo personale (impegnarsi), ma anche perché appare ‘immorale’ non utilizzare al massimo le proprie abilità. Insomma, i giudizi sulle prove scolastiche, così come le sentenze nei tribunali, sono influenzati da almeno due componenti: il risultato (la gravità del crimine, actus reus) e il grado di responsabilità personale attribuito allo studente (mens rea). È ormai acquisito che giudici e insegnanti utilizzano inferenze sulla responsabilità personale nel decidere quanto severamente punire infrazioni. Questo è certamente considerato giusto nell’ambito giuridico e prassi consolidata nella giurisprudenza. Ma è da considerare ‘giusto’ nell’ambito scolastico? Si potrebbe osservare che il grado di impegno non dovrebbe essere oggetto di valutazione in un risultato a scuola, in quanto non impegnarsi non danneggia di per sé altri soggetti. Ma come in ambito giuridico non ci può essere un reato senza vittima, analogamente in ambito scolastico un successo senza impegno può essere considerato come immeritato, ingiusto, e quindi almeno potenzialmente oggetto di sanzione. Le ricerche su questo tema sono state condotte con studenti fittizi, descritti come insufficienti ad una prova di esame: si tratta di una potenziale trasgressione, se l’insufficienza è considerata sotto il profilo morale, ma la gravità può essere diversa se considerata frutto di mancato impegno (una circostanza aggravante), ovvero per mancanza di abilità (una circostanza attenuante). Queste informazioni sono state associate ad una valutazione da poco a molto severa (da –1 a –5). In sintesi, i risultati mostrano che le diverse valutazioni sono considerate giuste o severe a seconda dei casi: è considerato più giusto valutare in maniera maggiormente negativa un insuccesso dovuto a mancanza di impegno piuttosto che a mancanza di abilità; così come, analogamente, è considerato più ingiusto valutare in maniera maggiormente negativa la mancanza di abilità rispetto alla mancanza di impegno. In sostanza i giudizi,

4. Giudizi sociali e valutazioni

73

anche in ambito di risultati scolastici, si ispirano a princìpi morali e gli insegnanti considerano appropriato e giusto utilizzare la responsabilità personale come un criterio per esprimere giudizi sui risultati scolastici. Gli obiettivi delle punizioni Ricevere valutazioni negative per i risultati scolastici può essere considerata una forma di punizione: lo studente fa esperienza di una punizione per una trasgressione. Ma sotto quali altri aspetti le valutazioni scolastiche sono simili ai giudizi dei tribunali? Un aspetto riguarda gli obiettivi della punizione. Nei contesti giudiziari gli esperti di diritto hanno individuato due obiettivi: utilitaristico e retributivo. Il primo considera i costi e i benefici delle punizioni, ovvero ridurre la probabilità del ripetersi dei crimini da parte dei colpevoli o di altri nella società; è il caso di coloro che ritengono l’inasprimento delle pene come fattore di riduzione dei crimini. Il secondo obiettivo è retributivo: la retribuzione riguarda il risarcimento, la rivalsa rispetto al crimine compiuto nel passato, piuttosto che le conseguenze future della punizione. Lo scopo è il ‘risarcimento’, cioè decretare una giusta punizione a chi se lo merita, piuttosto che prevenire future trasgressioni. Questa distinzione fra gli obiettivi è applicabile nella scuola? Se uno studente non assolve sistematicamente ai suoi doveri scolastici un insegnante può punirlo per ridurre la probabilità del ripetersi di quel comportamento (obiettivo utilitaristico). Ma una medesima punizione può essere considerata un pagamento in natura per la trasgressione ad una norma della classe (obiettivo retributivo). Weiner ha documentato che i suoi insegnanti (americani) si sono ispirati ad entrambi gli obiettivi nel produrre giudizi e valutazioni sugli studenti, così come i giudici nei tribunali. Con Weiner abbiamo documentato l’approccio americano al tema delle valutazioni scolastiche. Sul versante

­74

Prima lezione di psicologia dell’educazione

europeo esiste una linea di ricerca che si occupa da tempo dell’influenza della norma di internalità quando si studiano le spiegazioni delle condotte in ambito scolastico. Per norma di internalità si intende il valore sociale riconosciuto ai giudizi che sottolineano l’attribuzione all’attore della causa delle proprie condotte6. Nel caso degli insegnanti italiani7, abbiamo documentato che quando viene loro chiesto di valutare alunni di scuola elementare (fittizi) che differiscono fra loro sulla base del tipo di giustificazioni delle proprie prestazioni scolastiche, i soggetti che giustificano il proprio insuccesso in termini di mancato impegno sono valutati più positivamente rispetto a coloro che forniscono giustificazioni in termini di mancanza di abilità. Non soltanto, ma per i primi è pronosticato un miglior successo nella carriera scolastica futura, anche se attualmente non hanno successo a scuola; risultato che si comprende bene all’interno dell’interpretazione della vita quotidiana a scuola come un luogo dedicato anche alla socializzazione e all’etica di cittadini responsabili. Infatti, oltre che insegnare a leggere, scrivere e far di conto, almeno a partire dalla scuola primaria gli insegnanti sono chiamati alla costruzione di alunni-cittadini. Come comprendere altrimenti l’incessante riferimento alle ‘regole’, cui fanno ricorso gli insegnanti quando periodicamente si lamentano di molti alunni che non rispettano le regole del vivere civile? Per contrasto, quindi, gli insegnanti sembrano apprezzare (forse anche eccessivamente) quegli alunni che si mo6 N. Dubois, F. Loose, M.C. Matteucci, P. Selleri, Sociocognitive development, in N. Dubois (a cura di), A sociocognitive approach to social norms, Routledge, London 2003, pp. 94-122. 7 M.C. Matteucci, C. Tomasetto, P. Selleri, F. Carugati, ­Teachers’ judgments and pupils’ causal explanation: Social valorization of effortbased explanations in school context, in «European Journal of Psychology of Education», 2008, XXIII, 4, pp. 421-432. B. Weiner, On theoretical co-existence versus theoretical integration, in «European Journal of Psychology of Education», 2008, XXIII, 4, pp. 433-438.

4. Giudizi sociali e valutazioni

75

strano consapevoli dell’importanza dell’impegno nel raggiungere risultati scolastici positivi, anche nel caso di esiti mediocri o negativi. Esistono interpretazioni interessanti di questa dinamica di costruzione di giudizi sociali nei termini di utilità sociale8, che qui possiamo rileggere come un giudizio che si fonda sul presupposto che insegnanti e alunni debbano perseguire lo scopo comune (socialmente richiesto) di produrre un risultato scolastico almeno soddisfacente. Ma poiché l’attività professionale degli insegnanti è legata in modo inestricabile ai risultati dei propri alunni, come affrontarne il possibile fallimento, e cioè gli insuccessi scolastici? Fallimento, non dimentichiamolo, che si può trasformare, a posteriori, in una valutazione negativa della propria attività professionale. È qui che entrano in gioco le giustificazioni che gli insegnanti utilizzano per interpretare le condotte degli alunni. Su cosa si fondano queste giustificazioni? sulle abilità o sull’impegno personale degli alunni? Entrambe sono caratteristiche aventi come causa l’individuo singolo, ma possono essere distinte in immodificabili o modificabili dall’individuo stesso: la letteratura scientifica considera le abilità individuali almeno stabili (se non innate, e quindi radicalmente immodificabili) e l’impegno almeno potenzialmente instabile (modificabile). Come si vede, l’intreccio fra le diverse interpretazioni rende complesso questo tema, ancor più intricato per il fatto che in ambito scolastico queste rappresentazioni si associano alla responsabilità personale costitutiva dell’ethos del sistema scolastico. E gli alunni (almeno alcuni) imparano questa lezione. Infatti, se passiamo dalla sperimentazione allo studio di alunni concreti (di scuola secondaria di primo grado 8 N. Dubois, J.-L. Beauvois, Normativeness and individualism, in «European Journal of Psychology of Education», 2005, 35, pp. 123146.

­76

Prima lezione di psicologia dell’educazione

francese)9, coloro che mostrano di avere ‘capito’ che presentarsi responsabili delle proprie condotte porta vantaggi alla loro reputazione sono effettivamente valutati più favorevolmente dagli insegnanti, anche se debolucci nel profitto. Gli autori che hanno studiato queste dinamiche hanno scelto, per definire questa abilità, il termine consapevolezza normativa (clairevoyance)10; termine forse troppo impegnativo nella traduzione italiana, ma che rende bene l’abilità di sfruttare l’utilità sociale di assumersi la responsabilità personale. D’altra parte, non si dice forse che una delle caratteristiche dell’adulto maturo è quella di essere responsabile delle proprie azioni? Inoltre, l’attribuire importanza all’impegno personale consente agli insegnanti di considerarsi meno (o per nulla) responsabili degli insuccessi scolastici dei propri alunni. D’altra parte, quante volte ai genitori (ma anche agli alunni stessi) gli insegnanti si rivolgono esortando alla motivazione e all’impegno personale nello studio? e così il ciclo dell’attribuzione di responsabilità si chiude. Scelte disciplinari e manipolazione delle impressioni Nei sistemi scolastici gli insegnanti hanno differenti gradi di libertà, nella loro attività professionale, per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia di fronte alle trasgressioni degli studenti; possono cioè scegliere fra diversi tipi d’intervento per motivare o sanzionare. È quindi possibile chiedere agli insegnanti quali siano le opzioni disciplinari considerate J. Py, S. Jouffre, The explanatory production among Fourth-graders to Ninth-graders: Impact of institutional and social demands on the development of unstable internal causality, in «European Journal of Psychology of Education», 2009, XXIV, 3, pp. 317-323. 10  J. Py, A. Somat, Normativité, conformité et clairvoyance: leurs effets sur le jugement évaluatif dans un contexte scolaire, in J.-L. Beauvois, R.V. Joule, J.-M. Monteil (a cura di), Perspectives cognitives et conduites sociales, Delval, Cousset 1991, pp. 167-193. 9

4. Giudizi sociali e valutazioni

77

più efficaci di fronte ai diversi tipi di studenti (fittizi). Weiner11 ha individuato come strumenti didattico-disciplinari: compiti aggiuntivi a casa; mandare fuori aula; trattenere a scuola oltre l’orario scolastico; ignorare le richieste dell’alunno; usare criteri differenziati per alunno; ricompensare; lodare. In sintesi, si tratta di strategie per allontanare, ignorare, incoraggiare e favorire. Se si propone a gruppi di insegnanti di indicare quali fra questi strumenti siano da applicare ai diversi tipi di studenti, appare che allontanare lo studente dall’aula è indicato soprattutto nel caso di uno studente considerato responsabile per un insuccesso e può essere considerata una strategia retributiva; incoraggiare e favorire sono invece indicati per alunni considerati non responsabili dell’insuccesso. È così possibile documentare che in ambito scolastico, come in quello giuridico, l’informazione circa la gravità del risultato (gravità del reato, risultato di una prova scolastica) così come le inferenze circa la responsabilità personale (intenzione di commettere un reato, impegno) influenzano la severità della punizione. Studenti trasgressori, considerati responsabili, attivano più frequentemente negli insegnanti obiettivi retributivi di punizione, mentre studenti ‘colpevoli non responsabili’ della trasgressione attivano punizioni di tipo utilitaristico. Così, nei contesti scolastici, le strategie di intervento sono influenzate dal grado di responsabilità personale attribuita agli studenti e dagli obiettivi educativi associati a questa attribuzione. D’altra parte, come rispondono gli accusati/studenti per modificare questi effetti, per mostrarsi sotto una buona luce o almeno per mitigare le pene, per cercare di farsi assolvere o di ottenere le attenuanti generiche? La gamma di attenuanti è ampia12: inabilità generali, 11 12

B. Weiner, The classroom as a courtroom, cit. Ibid.

­78

Prima lezione di psicologia dell’educazione

incontrollabilità, incapacità di comprendere l’errore (dove ho sbagliato?), incapacità di intendere e di volere, appartenenza ad altre culture. È stato inoltre messo in luce che, in caso di buoni risultati, studenti adolescenti rispondono che hanno lavorato sodo, mentre rari sono i riferimenti a supposte abilità personali; viceversa l’insuccesso è attribuito a mancanza di abilità (è un modo per autoassolversi dall’accusa di responsabilità personale?) piuttosto che a mancanza di impegno. Sempre in tema di produzione e controllo di impressioni, gli studenti mostrano condotte diversificate in funzione degli interlocutori evocati: insegnanti, genitori, compagni. Quando si tratta di insegnanti e di genitori, la tendenza è quella di mostrare che hanno lavorato sodo in caso di successo, mentre in caso di insuccesso viene evocata la mancanza di abilità (per auto-assolversi?). Lo schema del funzionamento socio-cognitivo sembra il seguente: – lo studente fallisce → lo studente comunica mancanza di impegno → l’insegnante attribuisce l’insuccesso alla mancanza di impegno → l’insegnante considera lo studente responsabile → l’insegnante punisce (a scopo retributivo – ‘se lo merita’, oppure ‘così capisce che deve migliorare’). – lo studente fallisce → lo studente comunica mancanza di abilità → l’insegnante attribuisce l’insuccesso alla mancanza di abilità → l’insegnante considera lo studente non responsabile → l’insegnante non punisce o punisce lievemente (a scopo utilitaristico – ‘non è colpa sua’, oppure ‘se non è abile, almeno si impegni di più’). Se invece, sempre attraverso esperimenti, vengono evocati i propri compagni di classe, la giustificazione più utilizzata dagli alunni, sia per il successo sia per l’insuccesso, è quella dell’impegno. Si potrebbe supporre che gli studenti (almeno quelli oggetto di studio) si comportino in modo

4. Giudizi sociali e valutazioni

79

astuto: di fronte ai compagni e in caso di insuccesso, dichiarare la mancanza di impegno significa preservare un’immagine di se stessi come abili (intelligenti?) anche se un po’ (o molto) svogliati e comunque non secchioni, il che riteniamo ‘non guasti’ per mantenere rapporti accettabili con i compagni. Ma dichiarare la propria scarsa abilità presso gli insegnanti non serve (forse!) a muoverli a compassione, a carpire la clemenza della corte? Infatti se gli alunni confessassero mancanza di impegno, incorrerebbero nella fattispecie che prevede sanzioni a carico dei responsabili: se anche non sei un genio, almeno dài prova di confessare la tua mancanza di responsabilità. Anche in questo caso, la metafora delle aule scolastiche come aule di giustizia aiuta a comprendere la varietà di condotte presenti e le dinamiche socio-cognitive che caratterizzano la vita quotidiana nelle scuole. Considerata nelle sue articolazioni, la metafora della classe come aula di tribunale appare utile ma anche potenzialmente rischiosa, se non dannosa. Essa è utile per aiutare a comprendere che la vita quotidiana nelle scuole e nelle classi è interpretabile come una vera e propria commedia umana, nella quale agiscono attori che seguono e interpretano dei copioni e delle parti tutt’altro che semplici e banali: insegnare e imparare sono soltanto alcune delle dinamiche in gioco. Le classi non sono soltanto templi del sapere (o della conoscenza), né supermercati dove si acquistano conoscenze on demand o diplomi. Per gli alunni sono anche luoghi dove difendere la propria reputazione presso insegnanti e compagni, dove rendere conto non solo delle proprie prestazioni, ma anche del grado di adattamento alle attese di insegnanti e genitori e alle norme del sistema scolastico. Sotto questo aspetto, come abbiamo illustrato nei capitoli precedenti, i bambini, almeno fin dalla scuola dell’obbligo, sono chiamati al compito di imparare il mestiere di alunno: i bambini diventano alunni. Possiamo

­80

Prima lezione di psicologia dell’educazione

addirittura parlare di una vera e propria carriera di alunno e studente. Alunno e studente: non si tratta di una questione di nomi, ma dell’acquisizione di uno specifico ruolo, come abbiamo documentato13 nella linea di ricerca già presente in ambito francofono14. Le classi sono luoghi deputati alla socializzazione nelle organizzazioni sociali, anche se gli insegnanti non ne fanno oggetto di riflessione specifica. Non stupisce dunque che gli alunni siano chiamati ad acquisire le attese e le norme vigenti nelle proprie classi e utilizzarle per vivere/sopravvivere nel corso della vita quotidiana. Le ricerche di Weiner sono state ispirate dal ruolo che riveste l’etica dell’impegno personale nei sistemi scolastici anglofoni (l’eco di Lutero e di Max Weber). Non siamo in grado di confermare che anche nel sistema scolastico italiano tale etica ispiri in ugual misura le condotte e le attese di insegnanti e genitori. E tuttavia nella cultura occidentale (compresi i princìpi che ispirano la cultura giuridica e il diritto civile e penale) le caratteristiche personali e la responsabilità personale costituiscono uno dei capisaldi e dei valori che caratterizzano la maturità degli adulti. Quando si è riconosciuti adulti, se non quando la legge riconosce ai soggetti la pienezza di diritti e doveri di cittadini? Sotto questo aspetto, la socializzazione nella scuola, attraverso la costruzione di alunni impegnati nello studio, contribuisce per tutto il percorso scolastico alla realizzazione della carriera di cittadini e la metafora delle classi come aule giudiziarie si iscrive pienamente nell’alveo della cultura occidentale.

13 F. Carugati, P. Selleri, Quelli che la scuola… Il mestiere di alunno nelle culture delle scuole, in «Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria», 1998, LIX, 5, pp. 582-597. 14 Ph. Perrenoud, Métier d’élève et sens du travail scolaire, ESF, Paris 1994.

4. Giudizi sociali e valutazioni

81

Dai giudizi ai voti alle norme di riferimento Possiamo affrontare il tema dei giudizi scolastici anche da un altro punto di vista. Nell’ambito scolastico essi si concretizzano anche in voti (ricordiamo però il balletto fra voti-giudizi-voti che ha caratterizzato in Italia la scuola dell’obbligo nel corso dei decenni dal 1980 ad oggi). Possiamo approfondire le dinamiche che presiedono alla produzione dei voti/giudizi scolastici. Non affrontiamo però la questione dei voti sotto il profilo della docimologia, ovvero di quella parte della pedagogia che in Italia ha avuto il suo primo e sistematico contributo nei lavori di Gattullo15. La domanda d’inizio riguarda i criteri ispiratori dei voti. Abbiamo visto che gli insegnanti considerano in modo più favorevole gli alunni, diciamo così, con attribuzione interna, e ciò è socialmente utile in quanto ribadisce l’importanza socializzante della responsabilità personale. Ma a scuola ai voti non si sfugge. È immaginabile una scuola senza voti? Forse no e forse sì, con un uso meno ossessivo; ma per ora no voti, no scuola! Potremmo anche dire che voti o giudizi per noi pari sono, come testimonia un collega ricordando il passaggio dai voti ai giudizi, operazione che ha coinvolto il nostro sistema scolastico negli anni ’80 e successivi: Quando entrai in prima media a Milano fui colpito dal clima di grande effervescenza che vi regnava. Era l’anno in cui si passò dai voti ai giudizi. Erano i giorni in cui i voti numerici, da 0 a 10, accusati di esacerbare la salienza della gerarchia di merito tra gli allievi, cedevano alla contestazione e lasciavano il posto ai giudizi, considerati come garanzia di una maggiore umanità nella 15 M. Gattullo, Didattica e Docimologia. Misurazione e valutazione nella scuola, Armando, Roma 1968; vedi anche, in ambito francese: ­J.-P. Caverni, G. Noizet, Psychologie de l’évaluation scolaire, in «Revue européenne des sciences sociales», 23, 70, 1985, pp. 177-198.

­82

Prima lezione di psicologia dell’educazione

valutazione. Pochi giorni dopo l’inizio della scuola, e malgrado la nostra giovane età, avevamo già capito che nulla era cambiato. Ottimo valeva 10, distinto 9; seguivano buono per l’8, discreto per il 7 e così via. Il vecchio sistema si era riprodotto con nuove etichette, ma con la stessa capacità di stabilire una gerarchia di merito tra gli allievi di una classe16.

Voti o giudizi sono comunque prodotti sulla base di criteri più o meno espliciti agli occhi di insegnanti, alunni o genitori, ma ben conosciuti. La letteratura specialistica sostiene una stretta relazione fra voti/giudizi e norme sociali. Lo abbiamo visto a proposito della norma di internalità e della sua utilità sociale; ora consideriamo un ulteriore approfondimento. Secondo Falko Rheinberg17, la valutazione dei prodotti scolastici è un compito degli insegnanti fin da quando esiste questa attività professionale; in particolare il tema trova ulteriore sostegno con la diffusione, fra le due guerre mondiali, dei test psicologici. È probabile che questa esplicita ispirazione alla teoria del testing psicologico abbia contribuito a introdurre e consolidare un assunto implicito: una corretta valutazione dei prodotti scolastici si deve basare sul confronto sociale fra gli studenti, con la conseguente enfasi sulla distribuzione normale (nel senso statistico del termine) dei voti (o giudizi) sugli alunni. Heckhausen18 ha definito questo criterio di confronto norma di riferimento sociale. Ma già Glaser19 aveva messo in discussione l’opportunità di accettare in 16 F. Butera, La meritocrazia a scuola: un serio ostacolo all’apprendimento, in «Psicologia sociale», 2006, 3, pp. 431-448 e in part. p. 431. 17 F. Rheinberg, Achievement evaluation: A fundamental difference and is motivational consequences, in «Studies in Educational Evaluation», 1983, 9, pp. 185-194. 18 H. Heckhausen, Achievement motivation and its constructs: A cognitive model, in «Motivation and Emotion», 1977, 1, pp. 283-329. 19 R. Glaser, Instructional technology and the measurement of ­learning outcomes: some questions, in «American Psychologist», 1963, 18, pp. 519-521.

4. Giudizi sociali e valutazioni

83

modo acritico questo tipo di norma. L’autore presentò argomenti convincenti sulla necessità di evitare che lo standard di confronto fra studenti fossero i risultati degli altri studenti, ma piuttosto un grado di performance da definire in modo operazionale, e cioè un livello di risultato dipendente dagli obiettivi dell’insegnamento (norma criterio-orientata). Almeno da allora, ogni discussione sulla valutazione scolastica si è fondata sulla messa a confronto di questi due sistemi di riferimento normativo: norma di riferimento sociale e norma criterio-orientata. Rheinberg20 sostiene che nonostante che i responsabili delle politiche educative suggerissero (almeno all’epoca del suo lavoro) agli insegnanti di utilizzare entrambi i sistemi in funzione degli obiettivi specifici dell’insegnamento, le definizioni ufficiali dei sistemi di votazione dei Ministeri erano ancora piuttosto basate sul riferimento sociale, e per di più in maniera piuttosto confusa. Il tema da allora, tuttavia, è caduto in dimenticanza, ma sta ritornando imperiosamente in questi anni attraverso la campagna per la meritocrazia. L’argomento delle norme di riferimento può essere affrontato anche empiricamente. Quale tipo di norma preferiscono (e usano) gli insegnanti quando valutano i propri alunni? Quali tipi di confronto possono essere utilizzati, soprattutto se non esistono prescrizioni chiare e vincolanti? Questa domanda è tanto più importante in quanto, come abbiamo già accennato, gran parte della vita quotidiana a scuola è dedicata a valutare gli studenti attraverso giudizi formali o informali. Fortunatamente, almeno i giudizi informali, seppure frequenti, non sono sottoposti a prescrizioni ufficiali che impongano quale sistema di riferimento utilizzare. È quindi possibile affrontare l’argomento cercando nella letteratura contributi pertinenti.

20

F. Rheinberg, Achievement evaluation, cit.

­84

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Ulteriori riflessioni hanno permesso di individuare un terzo criterio di confronto nella produzione di valutazioni scolastiche: la norma di riferimento individuale21. La norma individuale si basa su una prospettiva squisitamente longitudinale: un risultato è considerato positivo se migliore di quanto prodotto in precedenza ma negativo se peggiore rispetto ad un’occasione precedente. Non ha importanza il fatto che questo risultato sia al di sopra o al di sotto rispetto ad una media sociale, o se esso raggiunga un certo livello prefissato. L’informazione cruciale è soltanto la direzione del progresso o del peggioramento dei risultati individuali. È evidente che questa norma di riferimento individuale non può essere utilizzata per valutazioni finali ufficiali di un curriculum; tuttavia queste ultime sono soltanto una parte dell’insieme delle valutazioni prodotte in ambito scolastico. Individuate queste tre norme, Rheinberg sostiene che è possibile uscire da una generica impostazione teorica, e trasformare la vaga aneddotica di osservazioni in oggetti di ricerca empirica. È stato soprattutto grazie agli studi sulla motivazione al successo22 che si è posta attenzione alle differenze fra le norme sociali e individuali e alle loro conseguenze sulla motivazione e sullo sviluppo in soggetti in età evolutiva. Per esempio, nei bambini di età prescolare è prevalente la norma individuale; successivamente si assiste ad un periodo dove prevale un orientamento verso la norma sociale, mentre durante la seconda decade di vita si assiste ad un’integrazione dei due sistemi di riferimento. Ma questa integrazione può essere messa in discussione quando, nella scuola, gli studenti fanno esperienza che la norma indi21 A. Fernandes Pratas, F. Carugati, P. Selleri, Sobre a avaliação: o comportamento subjacente à ‘norma de referência’, in «Análise Psicológica», 2001, XIX, 3, pp. 435-452. 22 H. Heckhausen, Achievement motivation and its constructs, cit., pp. 283-329.

4. Giudizi sociali e valutazioni

85

viduale non conta molto nella vita concreta della classe, a favore della norma sociale. Ulteriori evidenze empiriche circa gli effetti differenziali delle due norme provengono dagli studi sulla motivazione al successo. Se la strategia di valutazione di un insegnante fa sì che gli studenti si aspettino che i propri risultati, in un dato momento, siano confrontati con i precedenti, la probabilità di successo (di essere cioè migliore che in precedenza) è di circa il 50%, il che può costitui­re un buon risultato per la motivazione. Se invece gli studenti si aspettano di essere confrontati con la media della classe, la probabilità di successo sarà troppo alta per i ‘bravi’ e troppo bassa per i ‘mediocri’; di conseguenza, in questo modo la motivazione a produrre buoni risultati non sarebbe attivata in nessuno dei due gruppi di studenti. In un lavoro di Forzi23 abbiamo trovato un’illustrazione empirica della diversa presenza della norma sociale e individuale nel comportamento valutativo di insegnanti italiani di scuola elementare; gli insegnanti ‘sociali’ spiegano le condotte dei propri alunni nei termini di qualità stabili, organizzano il lavoro scolastico in modo uniforme per tutti gli alunni, hanno aspettative di prestazioni stabili (sarà sempre così!) rispetto al presente e al futuro degli alunni; gli insegnanti ‘individuali’ spiegano le condotte dei propri alunni in modo più articolato, organizzano il lavoro scolastico in modo più flessibile e hanno aspettative di prestazioni più flessibili (l’alunno può migliorare!) rispetto al futuro. Forzi si chiede a questo punto: che effetto sugli alunni ci si può attendere dalla presenza nelle classi, per almeno un anno scolastico, di insegnanti sociali oppure individuali? Con insegnanti individuali gli alunni dovrebbero 23 M. Forzi, Orientamento valutativo degli insegnanti e aspettative di controllo negli allievi, in «Ricerche di Psicologia», 1994, 18, 2, pp. 167-178.

­86

Prima lezione di psicologia dell’educazione

approfittare, per incrementare aspettative di controllo e responsabilità personale, della propria condotta e dei risultati scolastici (anche di insuccesso), e dovrebbero centrarsi sull’impegno personale piuttosto che su un’interpretazione stabile e delle proprie abilità. In altri termini, anche le abilità personali (soprattutto se non molto elevate sul momento) potrebbero essere considerate migliorabili: una rappresentazione dell’intelligenza non come dono, ma come prodotto di costruzione sociale come abbiamo documentato da tempo24. D’altra parte, Forzi documenta che l’orientamento valutativo individuale degli insegnanti è correlato con la valorizzazione di alunni che si focalizzano sulla responsabilità personale. E infatti gli alunni di questi insegnanti ‘individuali’ globalmente dànno più importanza all’impegno che alle abilità per tutte le proprie prestazioni, ma privilegiano l’impegno nel caso di successo e la mancanza di abilità nel caso di insuccesso. E così, anche in questo caso, il ciclo dell’attribuzione della responsabilità personale si chiude, e tuttavia con una via di uscita difensiva, da parte degli alunni: in caso di insuccesso, il ricorso alla mancanza di abilità resta sempre un argomento a disposizione della ‘difesa’ per richiedere delle attenuanti, prima che la corte si ritiri per la sentenza. La metafora dell’aula di tribunale, con la quale abbiamo aperto questo capitolo, sembra dunque sufficientemente appropriata per comprendere almeno alcune dinamiche che caratterizzano la vita quotidiana delle classi. 24

G. Mugny, F. Carugati, L’intelligenza al plurale, cit.

Capitolo 5

Effetto scuola, effetto classe

Quali effetti produce negli alunni la frequenza scolastica? In che misura successo e insuccesso scolastico sono in relazione con caratteristiche di vario tipo della scuola frequentata? Tale quesito, del tutto legittimo, diventa parte della ricerca empirica a partire dalla metà degli anni ’60 in Usa, quando prese vigore un vasto piano di lotta alla povertà avviato, dopo l’assassinio del presidente John F. Kennedy, dal suo successore Lindon B. Johnson. Il piano, chiamato Head Start, intendeva offrire risorse igienico-sanitarie e supporto all’alimentazione e all’educazione ai bambini fino ai cinque anni appartenenti a famiglie ai limiti o sotto il livello di povertà. Parallelamente, nel 1964, sulla base di una legge federale Usa, il Dipartimento della Salute, Educazione e Welfare commissionò ad uno dei più prestigiosi sociologi dell’epoca, James Coleman, uno studio denominato The Equality of Educational Opportunity Study (Eeos)1, per valutare in che misura alunni di differenti etnie, religioni, nazionalità, colore della pelle, disponessero di uguali opportunità educativo-scolastiche. Si tratta di un esempio virtuoso di una ricerca sociale, voluta come strumento per progettare interventi di politiche sociali, educative e di

1

http://www.icpsr.umich.edu/icpsrweb/ICPSR/studies/6389.

­88

Prima lezione di psicologia dell’educazione

promozione della salute pubblica. Per dare solo un’idea delle dimensioni della ricerca, furono studiate oltre 4.000 scuole (di livello corrispondente alla scuola dell’obbligo italiana) e 600.000 studenti in tutti gli Stati dell’Unione. Le principali variabili prese in esame furono: costi annuali per studente, livello socio-culturale degli insegnanti, vetustà delle scuole, dimensioni delle classi, disponibilità di laboratori, biblioteche e simili; diversi indicatori socioeconomici e culturali degli alunni e ovviamente diversi indicatori di risultati scolastici. I risultati ottenuti misero in evidenza, per la prima volta in modo così documentato, l’influenza negativa dell’origine socio-economica, culturale ed etnica degli alunni sui loro risultati scolastici, rispetto alla frequenza di scuole diverse. Si può immaginare la vastità e l’asprezza del dibattito politico e scientifico che si aprì. Non possiamo darne conto in questa sede, ma un effetto, diciamo così collaterale, che si produsse fu l’avvio di un campo di ricerche che va sotto il nome di efficacia delle scuole2. Si tratta di un effetto virtuoso che si origina quando il dibattito su un tema controverso viene affrontato dai diversi partecipanti restando centrati sull’oggetto e individuando punti deboli nei risultati, nella metodologia, nelle procedure, senza deviare verso la delegittimazione della fonte dello studio. Un esempio. Ronald Edmonds, all’epoca direttore del Centro di Studi Urbani ad Harvard, scegliendo dal medesimo campione di Coleman un gruppo di scuole dove alunni di fasce sociali povere avevano avuto risultati scolastici brillanti, mostrò che almeno certe scuole possono fare la differenza e fanno differenza: risultati confermati anche da altri ricercatori, utilizzando la base dati messa a disposizione dal Dipartimento federale promotore della 2 A. Sandoval-Hernandez, School effectiveness research: A review of criticism and some proposals to address them, in «Educate-Special Issue», March, 2008, pp. 31-44, http://www.educatejournal.org.

5. Effetto scuola, effetto classe

89

ricerca. E qui è opportuna un’osservazione di metodo, e cioè la disponibilità della base dati delle ricerche, che in questo caso è ancora consultabile, dopo 50 anni, sul web3. Restava comunque irrisolto il quesito circa le ragioni per le quali certe scuole producono effetti positivi e altre meno; quesito affrontato con un’ulteriore serie di ricerche (confrontando scuole vicine tra di loro ma con risultati diversi) che fornirono come conclusione che esistono delle correlazioni in termini di livelli medi di apprendimento di base di concetti e abilità (definite dai curricula scolastici) ma indipendenti da genere, etnia, famiglie povere o ricche, colore della pelle. Inoltre nelle scuole dove furono presentati e discussi questi risultati si registrò un ulteriore miglioramento negli alunni o, almeno, non un peggioramento. Quali sono quindi le variabili in gioco? Vediamole. 15.000 ore a scuola Verso la metà degli anni ’70, in Gran Bretagna, un gruppo di studiosi guidati da uno psichiatra di fama, Michael Rutter4, ha approfondito in modo molto originale il tema dell’efficacia delle scuole, realizzando una ricerca longitudinale sugli esiti della scolarizzazione. Si tratta di un lavoro che costituisce ormai un ‘classico’, e che provocò immediatamente un vivace dibattito fra studiosi e responsabili di politiche scolastiche britannici e dell’area anglosassone. La raccolta e l’analisi dei dati fu condotta con l’occhio del clinico, ma anche di chi è attento alle dinamiche delle organizzazioni scolastiche e delle classi, senza mai perdere 3 http://www.mes.org/esr.html; http://education-advisory.org/ Involved/2007/08/22/effective-schools-checklist/. Una condotta simile è adottata anche dall’Oecd per le ricerche Pisa, http://www. pisa.oecd.org/document; per l’Italia, http://www.invalsi.it/invalsi. 4 M. Rutter, B. Maughan, P. Mortimore, J. Ouston, A. Smith, Fifteen thousand hours: Secondary schools and their effects on children, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1979.

­90

Prima lezione di psicologia dell’educazione

di vista gli alunni. All’epoca il totale delle ore trascorse durante la scuola dell’obbligo era di 15.000. L’obiettivo generale di Rutter non era tanto la difesa di un particolare modello organizzativo di scuola, quanto piuttosto la raccolta di informazioni sistematiche sullo spinoso problema del successo scolastico, individuando una serie di variabili attraverso le quali seguire per tre anni un campione di alunni che, all’inizio della ricerca, si trovavano tutti nel quattordicesimo anno di età, frequentanti il terzo anno di scuole secondarie del medesimo tipo (corrispondenti in Italia al passaggio dalla scuola secondaria di primo a quella di secondo grado). Le dodici scuole prescelte si trovavano tutte in quartieri socialmente svantaggiati di Londra, ma rappresentavano la realtà scolastica non solo londinese degli anni ’70: ne furono scelte di piccole e grandi dimensioni (da circa 450 alunni a poco meno di 2000), di laiche e religiose, con classi miste e classi distinte per genere. Occorre precisare che queste scuole raccoglievano gran parte degli alunni che, all’età di dieci anni, avevano partecipato ad una precedente indagine; per questo sotto-campione è stato quindi possibile avere un quadro dell’esperienza scolastica precedente ed un’ulteriore misura longitudinale, ottenuta con gli stessi strumenti d’indagine usati in precedenza. Il controllo delle caratteristiche individuali all’inizio della ricerca è stato condotto utilizzando indici di diversa natura: punteggi ottenuti dagli alunni nelle prove standardizzate al termine della scuola primaria, quindi all’età di dieci anni, relative al ragionamento verbale; status sociale dei genitori; una misura delle difficoltà emozionali e di comportamento di ogni alunno, secondo il punto di vista degli insegnanti; una misura del comportamento degli alunni (scale di auto-descrizione e osservazioni delle attività in classe, comprese quelle riferibili all’ordine e pulizia delle aule e delle scuole); tassi di assenteismo (numero di giorni di assenza ogni anno); successo negli esami pubblici al termine del quinto anno della scuola secondaria (anno in

5. Effetto scuola, effetto classe

91

cui termina la scuola obbligatoria, cioè all’età di 16 anni, coincidente con la conclusione della ricerca); inserimento lavorativo (tempo trascorso prima di ottenere la prima occupazione al termine della scuola frequentata); numero di passaggi da un lavoro all’altro nel corso del primo anno di inserimento nel mondo del lavoro; licenziamenti; episodi di delinquenza (i dati sono stati raccolti in coincidenza con il compimento del diciottesimo anno d’età dei soggetti, consultando i registri della polizia giudiziaria); infine individuando i criteri di scelta della scuola da parte dei genitori (scelta in base alla reputazione, oppure per semplice vicinanza a casa); composizione sociale delle aree urbane delle scuole. Rispetto alle caratteristiche delle scuole, sono state studiate le modalità di organizzazione della vita scolastica, tramite le informazioni su vita quotidiana, finalità della scuola, contenuti e modalità di risoluzione delle discussioni tra docenti, modalità di gestione delle classi sul versante dell’apprendimento e delle condotte, raccolte attraverso interviste semi-strutturate allo staff. Inoltre sono state raccolte informazioni tramite questionario (sottoposto ad un campione di quasi 3000 alunni scelti casualmente fra tutte le scuole) con domande relative a: esperienza scolastica in generale e finalità della scuola da loro frequentata; premi e punizioni ricevute; quantità dei compiti a casa; rispetto delle regole; disponibilità degli insegnanti al colloquio con gli alunni. Da ultimo, sono state condotte osservazioni dirette in un campione di classi durante le ore di lezione, comprendenti i momenti iniziali, quelli centrali e quelli finali, e osservazioni dettagliate delle interazioni insegnanticlasse e insegnanti-singoli alunni. Gli autori hanno così raccolto, nel corso di tre anni di ricerca, una quantità di informazioni che spazia da caratteristiche organizzative e di funzionamento quotidiano fino ai risultati scolastici degli alunni. Per quanto riguarda il rapporto fra gli aspetti organizzativi, ritenuti importanti per comprendere i processi di insegnamento e apprendi-

­92

Prima lezione di psicologia dell’educazione

mento, e i risultati ottenuti dagli alunni, gli autori hanno individuato alcune caratteristiche. Importanza data dagli insegnanti alle attività a scuola e a casa. Le scuole in cui vengono assegnati frequentemente compiti a casa, che vengono poi regolarmente controllati, tendono ad avere risultati scolastici migliori. Gli autori ipotizzano che i compiti a casa, oltre ad essere importanti per l’apprendimento come occasioni per esercitarsi su specifici argomenti, assumano un valore legato all’interesse che la scuola dimostra verso il successo scolastico individuale, quando gli insegnanti li valorizzano considerandoli una dimostrazione del possesso di capacità utili per lavorare da soli. In secondo luogo, ottengono successi migliori gli alunni delle scuole in cui i docenti programmano il lavoro in gruppo e dove i curricula scolastici hanno la supervisione costante di un responsabile della scuola; un andamento analogo riguarda gli alunni delle scuole in cui gli insegnanti coordinano il lavoro con i colleghi. Inoltre, la tendenza verso risultati finali migliori riguarda le scuole in cui sui muri delle aule si trova esposto un gran numero di lavori fatti dagli alunni (disegni, poster), una pratica che serve anche a disincentivare l’abitudine di tracciare scritte e graffiti sui muri; è maggiore il temposcuola settimanalmente dedicato all’insegnamento. Quando si chiede agli alunni di mettere in evidenza i principali obiettivi e le funzioni della scuola, essi scelgono generalmente obiettivi ‘strumentali’, come avere successo negli esami ma anche essere adeguatamente preparati per il mondo del lavoro; in altre parole, una scuola che sottolinea l’importanza della serietà e dell’impegno nel lavoro quotidiano non solo ottiene risultati migliori, ma corrisponde anche maggiormente alle aspettative degli alunni. Pianificazione organica dell’attività didattica. Per quanto riguarda il lavoro quotidiano in classe, le scuole variano molto fra loro; il comportamento degli alunni è migliore nelle

5. Effetto scuola, effetto classe

93

scuole dove è presente una ben organizzata attività didattica degli insegnanti: per esempio, dedicare più tempo ai contenuti didattici significa che sono molto ridotti i tempi dedicati alla gestione della classe (richiamare l’attenzione, governare i problemi di comportamento). Tuttavia non emerge una relazione significativa fra risultati finali e maggior tempo dedicato all’insegnamento. Le scuole in cui vengono raggiunti risultati complessivamente migliori sono quelle in cui gli insegnanti usano la maggior parte del tempo-scuola lavorando con l’intera classe piuttosto che con i singoli alunni; a questo proposito, gli insegnanti con minore esperienza professionale mostrano difficoltà a mantenere un rapporto costante con tutta la classe e, dedicando più frequentemente la loro attenzione ai singoli alunni, permettono agli altri di distrarsi, con conseguenze negative sul comportamento e sul rendimento. Inoltre le ore di lezione comprendono anche momenti di attività individuale, nei quali gli alunni lavorano tranquilli, seduti al loro banco ed in silenzio. Corretta impostazione dei rapporti tra insegnanti e alunni. Per quanto riguarda premi e sanzioni, ottengono risultati migliori gli alunni delle scuole in cui l’apprezzamento del lavoro svolto e del comportamento è manifestato pubblicamente, davanti all’intera classe (cfr. cap. 3). Per quanto riguarda le sanzioni (rimanere a scuola oltre l’orario, compiti aggiuntivi, richiami del preside), non sono state registrate associazioni con i successi scolastici. Un dato importante riguarda invece il rapporto fra questi indicatori e la qualità e la chiarezza delle regole di condotta. Ritorna anche qui l’importanza della condivisione, fra il corpo docente, dei fondamenti ideali del lavoro comune: non è tanto l’uso di specifiche norme e l’applicazione di queste che assicura la disciplina, quanto l’esistenza nelle scuole di un insieme di regole riconosciute, accettate e considerate legittime da tutti (insegnanti ed alunni) come requisiti minimi e condivisi, riferiti al comportamento da tenere a scuola, ma anche a casa.

­94

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Per quanto riguarda la qualità della vita quotidiana si hanno risultati migliori nelle scuole in cui la disponibilità degli insegnanti ad affrontare i problemi scolastici e personali degli alunni è offerta ogni volta in cui viene loro richiesta, contrariamente a quanto accade nelle scuole in cui questa attività di supporto viene fornita in momenti programmati e prefissati. Importante risulta anche la qualità della partecipazione alla vita della scuola e della responsabilità individuale. La stabilità dei rapporti all’interno della scuola è una caratteristica che attiene alla gestione e organizzazione del personale docente. I risultati mostrano che un’elevata continuità non ha un legame diretto con la qualità dei risultati scolastici; in altre parole, cambiare gli insegnanti nelle materie principali non necessariamente è un fatto negativo o traumatico, ma a condizione che esista una tradizione di lavoro comune fra gli insegnanti, che consenta una continuità nella programmazione delle attività didattiche nelle classi. Per quanto riguarda la continuità riferita al gruppo dei coetanei, la possibilità di rimanere con gli stessi compagni per più anni di seguito e l’instaurarsi di legami di amicizia che vanno oltre le ore di scuola sono elementi correlati positivamente con una scarsa frequenza di episodi di delinquenza. Sono efficaci le scuole oppure sono bravi gli alunni? Quali conclusioni si possono trarre da questi risultati? Secondo gli autori le scuole non sono effettivamente tutte uguali: la qualità della vita quotidiana e i risultati finali degli alunni sono correlati con la qualità del percorso scolastico. Le 15.000 ore trascorse in classe nel periodo della scuola dell’obbligo (almeno in quegli anni!) fanno la differenza. Gli autori, puntigliosamente, notano che raramente una singola variabile ha una relazione diretta con le misure di successo scolastico, mentre è l’associazione fra più variabili a risultare rilevante, così come le differenze

5. Effetto scuola, effetto classe

95

fra i risultati finali non sono tanto legate alle singole misure d’ingresso nelle scuole quanto piuttosto alle dinamiche che caratterizzano la vita quotidiana al loro interno. Inoltre, è stato messo in evidenza come sia modesta la relazione tra le variabili organizzative e i risultati dei singoli alunni, mentre è elevata quella con i risultati complessivi degli alunni nelle classi. Questo consente di ipotizzare un effetto combinato degli interventi didattici in classe, grazie al quale ogni azione diretta al singolo alunno contribuisce a produrre effetti anche sui compagni. Un esempio è dato dal modo in cui gli insegnanti cercano di governare la disciplina: se nel corso di una lezione un insegnante interviene con molti rimproveri individuali, l’effetto secondario di una tale pratica è quello di interrompere il lavoro e la concentrazione di tutti, rallentando i ritmi di lavoro dell’intera classe. Occorre infatti pensare alla scuola nei termini di un’organizzazione sociale in cui diversi gruppi di individui si incontrano con regole, valori e modalità di comportamento differenti. È facile pensare che gli insegnanti debbano intervenire sul piano disciplinare ogni qualvolta ci sia una buona ragione per farlo; ma la disciplina della classe non migliora o peggiora solo per i singoli interventi dell’insegnante (che può effettivamente essere troppo tollerante o troppo severo), ma sembra dipendere soprattutto dal rapporto fra le condotte degli insegnanti, le condotte degli alunni ed il sistema generale di valori e norme tipiche delle diverse classi e scuole. Esistono infatti scuole più o meno tolleranti a proposito delle regole che governano la vita quotidiana, per esempio sugli orari, sulle giustificazioni, persino sulla gestione del fumo! Un altro aspetto riguarda il grado in cui gli alunni fanno proprie le norme e i valori delle scuole che frequentano. Il processo di identificazione con un gruppo sociale passa attraverso l’assunzione personale della prospettiva del gruppo: così possiamo avere gruppi di alunni che accettano valori e obiettivi della scuola e gruppi che vi si

­96

Prima lezione di psicologia dell’educazione

oppongono. Le caratteristiche delle scuole in cui gli alunni non si oppongono massicciamente al corpo docente sono riassumibili nella buona qualità delle condizioni generali di lavoro di insegnanti ed alunni, nell’uso di pratiche di lavoro comune, nel rispetto delle opinioni personali, nell’esercizio della responsabilità individuale. E così il cerchio si chiude: nelle scuole che funzionano in questo modo, non solo gli alunni sono meno oppositivi, ma raggiungono anche risultati complessivamente migliori. Questo lavoro di Rutter ha sollevato un dibattito della medesima ampiezza di quello aperto da Coleman. Anche noi ci possiamo chiedere: sono efficaci le scuole oppure sono bravi gli alunni? Quesito non banale, tenendo conto che gli alunni studiati erano ‘veterani’ del sistema scolastico (avevano già 14 anni). A questa obiezione ha cercato di rispondere una ricerca longitudinale5 condotta in 50 primary schools (con alunni dai 7 agli 11 anni, quindi equivalenti alle nostre scuole elementari) della periferia londinese, dal 1980 al 1984. È stato così possibile studiare un ampio campione di alunni (utilizzando i medesimi indicatori della ricerca precedente) con lo scopo specifico di illustrare quanto il progresso di ogni alunno possa essere messo in relazione alla frequenza di una certa scuola e quanto invece possa essere attribuito alle condizioni di partenza di ognuno. I dati raccolti fanno capo a tre distinte classi di indicatori: – misure d’ingresso: età anagrafica, condizione sociale, appartenenza etnica, livello di correttezza nell’uso della lingua; valutazioni degli insegnanti su un gruppo di apprendimenti ritenuti importanti all’ingresso della scuola (lettura, matematica ed abilità spaziali); 5 P. Mortimore, P. Sammons, L. Stoll, D. Lewis, R. Ecob, School Matters. The Junior Years, Open Books Publishing, London 1988.

5. Effetto scuola, effetto classe

97

– misure relative ai risultati scolastici: ogni anno agli alunni sono state somministrate prove standardizzate di lettura e matematica, ai cui risultati sono state aggiunte le valutazioni degli insegnanti sull’espressione orale e scritta, sul ragionamento verbale e le valutazioni riferite a comportamento a scuola, impegno, metodo di lavoro; i singoli alunni sono stati inoltre intervistati sulle loro opinioni verso le materie scolastiche e la scuola in generale. Infine, nel corso del terzo anno della ricerca, è stato anche ottenuto un indice di auto-valutazione, chiedendo ad ogni alunno come pensava di essere percepito dagli insegnanti e dai compagni; – misure relative alla scuola ed alla classe frequentata: finalità educative della scuola; organizzazione della scuola stessa e delle diverse classi; grado di coinvolgimento dei genitori e loro giudizio sulla scuola frequentata dai figli. Secondo gli autori, la scelta di utilizzare misure iniziali di tipo individuale rispondeva alle frequenti critiche rivolte in quegli anni all’uso del metodo longitudinale, poiché solo partendo da queste informazioni è possibile studiare i progressi individuali negli anni, cioè l’effetto combinato dei fattori che caratterizzano le condizioni di partenza di ogni alunno e dei fattori legati all’esperienza scolastica. Inoltre, proprio per le finalità educative della scuola primaria, dirette allo sviluppo armonico degli alunni, la scelta di utilizzare solo indicatori riferiti al rendimento scolastico in quanto tale, legati cioè ai risultati in lettura, scrittura e matematica, avrebbe offerto un quadro parziale e poco fedele degli effetti dell’esperienza scolastica: per questo motivo sono stati considerati anche indici riferiti al comportamento ed alla percezione interpersonale. Infine, la scelta di studiare la vita quotidiana in classe all’interno di una cornice più ampia, definita dalla scuola di cui quella classe fa parte (utilizzando a questo scopo molte fonti d’informazioni: osservazioni sistematiche, questionari ed interviste ai docenti e ai dirigenti), rispondeva all’obiettivo di disporre di una

­98

Prima lezione di psicologia dell’educazione

gamma di dati di osservazione da confrontare con i resoconti dei protagonisti. Una conferma della bontà di questa scelta è offerta dall’esempio seguente. Durante le interviste, un gran numero di insegnanti aveva affermato di utilizzare la maggior parte del tempo a disposizione interagendo con l’intero gruppo classe, piuttosto che con singoli alunni o con piccoli gruppi; al contrario, dalle osservazioni sistematiche è risultato che gli stessi insegnanti utilizzavano la maggior parte del loro tempo comunicando con singoli alunni o con piccoli gruppi. Per gli autori, questa è una dimostrazione di come la percezione del proprio comportamento possa non corrispondere a ciò che effettivamente viene realizzato nella pratica, e quindi come non sia sufficiente l’uso di una sola fonte di informazione, ma occorra utilizzarne molte, soprattutto quando si tratta di ricerche longitudinali, che riguardano l’attività in comune di più soggetti. Fra i risultati più significativi segnaliamo che la scuola frequentata ha, nei progressi degli alunni, un’influenza che, paragonata a quella dovuta a fattori extra-scolastici (classe sociale, famiglia, genere, età, gruppo etnico), è di gran lunga superiore. Ci sono alunni che nel corso dei tre anni mostrano progressi in lettura e in matematica molto più cospicui di quanto non fosse prevedibile aspettarsi, a partire dalle misure d’ingresso e dall’ambiente socio-familiare di provenienza; al contrario, altri soggetti raggiungono risultati inferiori rispetto a quanto fosse lecito immaginare sulla base delle medesime misure. Sempre sul tema dell’influenza specifica delle scuole, dove si ottengono i maggiori progressi in matematica si ha il medesimo andamento anche per la lettura e la scrittura, e ciò è probabilmente dovuto ad una particolare enfasi che tutto il corpo docente mette nel perseguire finalità ed obiettivi in alcune specifiche materie, quelle ritenute più utili ai loro alunni. In altre parole, risulta esplicita la relazione fra la qualità delle scuole e i risultati degli alunni dopo quattro anni di frequenza: le scuole migliori sono stabilmente le migliori

5. Effetto scuola, effetto classe

99

per la gran parte dei propri alunni, così come quelle che presentano qualità inferiori producono scarsi successi per i propri alunni, indipendentemente dalle variabili extrascolastiche. Nelle scuole efficaci gli alunni possono fare progressi: il risultato più importante in queste scuole è che esse offrono un ambiente favorevole all’apprendimento della maggior parte degli alunni. Inoltre, sostengono gli autori, nell’arco della scuola primaria gli alunni sono ancora in grado di modificare più volte la propria immagine di bravo o di cattivo scolaro, una flessibilità che nel passaggio alle scuole superiori si affievolisce; l’efficacia di una scuola consiste anche nella capacità di aiutare gli alunni a costrui­ re, ovvero a migliorare, la qualità del proprio ‘mestiere di alunno’ e di produrre e conservare un’identità sociale di ‘buon alunno’. Luci e ombre: la riflessione continua Ricerche di questo tipo hanno dato luogo, nel corso degli anni, a numerosi rilievi critici che hanno messo in luce limiti metodologici e debolezze nell’analisi dei dati. Una ricognizione onesta permette comunque di individuare alcuni aspetti che indicano la funzione positiva svolta dall’insieme delle ricerche sull’efficacia delle scuole. In primo luogo è stato dimostrato (fin dagli anni ’70) che i risultati scolastici non si distribuiscono sempre e comunque secondo la classica (in senso statistico) ‘curva a campana’: i risultati scolastici non sono un fenomeno naturale, né la manifestazione di un dono di natura per i fortunati né una maledizione per i poveri insufficienti scolastici. In secondo luogo, fare ricerca in questo campo ha focalizzato l’attenzione di studiosi, politici, amministratori, insegnanti, genitori e alunni non solo sui risultati della scolarizzazione, ma anche sulla varietà di processi che sono implicati nel corso della scolarizzazione. In particolare, è stata messa in luce l’importanza delle variabili illustrate

­100

Prima lezione di psicologia dell’educazione

nelle pagine precedenti non solo sui risultati finali, ma soprattutto sul rapporto fra condizioni di entrata e risultati finali, e cioè del progresso personale che gli alunni possono ottenere negli anni della scuola: il successo scolastico, cioè, non può essere valutato soltanto in termini assoluti, ma anche (soprattutto per gli alunni di classi socio-culturali svantaggiate) in termini di progresso personale rispetto alle condizioni di partenza. Il movimento di ricerca sull’efficacia delle scuole ha avuto poi un terzo merito: avere smascherato la pratica, ricorrente all’epoca, ma di gran moda anche in questi anni e mesi, di braccare i colpevoli: siano essi il sistema scolastico, le singole scuole, gli insegnanti, gli alunni, le famiglie (le mamme soprattutto). Per esempio, vengono accusati i quindicenni italiani (si veda l’utilizzo dei risultati delle ricerche Pisa) di essere sotto la media Ocse, attivando così sentimenti di meraviglia o di invidia o disinteresse per i coetanei finlandesi (che però sono pochi, meno delle renne che pascolano serene nella tundra). Le affermazioni: troppi soldi per la scuola rispetto ai risultati, oppure noi insegniamo, loro non imparano, appaiono sostanzialmente destituite di fondamento logico-empirico; in realtà le scuole sono organizzazioni complesse ma anche comunità di gruppi di attori, ciascuno dei quali possiede responsabilità specifiche, che quando sono condivise e perseguite coerentemente possono produrre risultati positivi. E qui passiamo al quarto punto, e cioè che le scuole fanno la differenza quando hanno organizzazione, cultura e strumenti simbolici che contribuiscono a costituire ciò che è stato chiamato l’ethos6 delle scuole; termine forse 6 Il termine è già presente in M. Rutter, B. Maughan, P. Mortimore, J. Ouston, A. Smith, Fifteen thousand hours, cit. L’autore è

5. Effetto scuola, effetto classe

101

sfuggente, impalpabile, che certo fa storcere il naso a ricercatori esigenti sul piano di una puntigliosa individuazione di variabili empiriche. Si tratta di un concetto riferito alle caratteristiche di una scuola che impegna l’attività dei docenti, degli alunni e dei genitori nei termini di un’organizzazione sociale, verso la condivisione di regole generali e di comportamento e di obiettivi e valori che costituiscano punti di riferimento stabili nella vita quotidiana. Diversi autori nel corso degli anni hanno descritto le scuole come organizzazioni a legami deboli, e in certa misura è inevitabile che siano così; ma non fino al punto da ridursi ad una casuale collezione e giustapposizione di sotto-categorie di individui, ciascuna delle quali va per la propria strada o, peggio, apre e coltiva contenziosi di ogni tipo e senza fine. Dalle scuole alle classi I risultati delle ricerche che abbiamo illustrato in precedenza possono essere utilizzati per riflettere sulle relazioni fra scelte di politica scolastica e specifiche modalità organizzative. A questo scopo possiamo utilizzare alcune dimensioni concettuali7 che riguardano in specifico la vita quotidiana nelle classi. La prima riguarda la struttura degli scopi e delle ricompense, e si riferisce alle caratteristiche delle interazioni che avvengono fra alunni e insegnanti a proposito delle attività scolastiche, del modo di eseguirle e del sistema di ricompense. Tre strutture di scopi appaiono prevalenti: competitiva, cooperativa, individuale. Si noti che per ricompense ritornato sull’argomento successivamente: M. Rutter, B. Maughan, School Effectiveness – Findings 1979-2002, in «Journal of School Psychology», 2002, 40, 6, pp. 451-475, e ancora più di recente in un’intervista: http://www.ucl.ac.uk/histmed/downloads/hist_neuro science_transcripts/rutter.pdf. 7 F. Carugati, P. Selleri, Psicologia dell’educazione, il Mulino, Bologna 20052, cap. 2.

­102

Prima lezione di psicologia dell’educazione

intendiamo non soltanto voti e giudizi espliciti sui risultati scolastici, ma anche l’insieme dei commenti e delle valutazioni sulle condotte scolastiche. Le ricompense possono essere distribuite sulla base del confronto fra i risultati ottenuti dai singoli alunni di una medesima classe, sulla base del risultato di un unico compito prodotto da un’attività di gruppo, oppure sulla base del confronto fra i risultati attuali e i risultati precedenti di ogni singolo alunno. Nella struttura competitiva la valutazione su ogni alunno è prodotta attraverso il confronto con i risultati degli altri alunni. Le abilità per ottenere risultati alti o per essere ‘il migliore’ sono definite come obiettivi desiderabili e necessari: ciò comporta una sottolineatura di attribuzioni delle abilità degli alunni come interne agli individui e stabili nel tempo. Quindi, in situazioni competitive, gli alunni cercano risultati che aumentino il proprio status nella classe rispetto ai compagni; nelle classi competitive le spiegazioni circa le proprie competenze sono limitate a cause personali, proprio perché il successo è definito rispetto ai risultati dei compagni, piuttosto che in riferimento al grado di padronanza di un’abilità, di una nozione o di un ambito di conoscenze. Ciò limita il numero di potenziali successi disponibili in una classe: pochi alunni raggiungono i livelli più elevati. Se un alunno si sente bravo e competente, può misurarsi con gli obiettivi offerti dall’insegnante; ma se l’alunno si sente poco bravo e incompetente, le situazioni competitive possono generare ansietà ed essere evitate. Così il sentimento di competenza diventa cruciale nel determinare il grado di coinvolgimento e il desiderio di ottenere risultati positivi. Soprattutto dove le classi scolastiche sono composte da alunni provenienti da culture molto diverse, e dove la diversità è accompagnata da variazioni notevoli nel livello dei risultati raggiunti, la prevalenza di dinamiche competitive, accompagnata all’attribuzione di scarse abilità individuali, incoraggia la costruzione di atteggiamenti e condotte di discriminazione. Una classe a struttura cooperativa, invece, si basa su un’organizzazione in cui gli alunni lavorano insieme verso

5. Effetto scuola, effetto classe

103

scopi interdipendenti, definiti dal gruppo stesso; questa struttura degli scopi può essere particolarmente utile là dove si trovano alunni che hanno storie sociali o scolastiche diverse (altre classi, altre scuole, altre culture) e che di fatto sono marginali. Si tratta di alunni ai quali pochi rivolgono la parola e a cui viene concesso poco tempo per rispondere. Le loro possibilità di scelta sono limitate, i loro interventi non sono valorizzati e tali sentimenti diventano ben presto reciproci. Nei compiti cooperativi, il successo dipende dal grado di raggiungimento di un obiettivo definito, piuttosto che dal confronto sociale fra le risposte individuali; gli alunni possono partecipare anche se inizialmente non possiedono grandi abilità rispetto al compito, e questo riduce il rischio che i meno bravi restino ‘da parte’ o addirittura siano evitati dai compagni. È possibile supporre che strutture cooperative favoriscano i meno abili, in quanto consentono di creare una zona di sviluppo prossimale8 resa possibile attraverso la presenza contemporanea di vari livelli di abilità: ciascuno può imparare dai livelli a lui più prossimi. Una classe a struttura individuale si focalizza sulle caratteristiche del compito e sulle abilità che esso richiede, mentre le ricompense si riferiscono al grado di padronanza di abilità: agli alunni si chiede di ‘fare del loro meglio’, e non meglio degli altri; sforzo e progresso individuale verso la padronanza del compito sono sottolineate. La seconda dimensione è riferita alle relazioni di ruolo e di potere. Ci riferiamo a caratteristiche che riguardano, da un lato, il grado di autonomia attribuito agli alunni rispetto al grado di controllo esercitato e di obbedienza richiesta dall’insegnante; d’altro lato, il fare assegnamento sulle proprie forze, rispetto al ricorrere al sostegno dell’insegnante. Se consideriamo questo argomento dal punto 8

Ibid.

­104

Prima lezione di psicologia dell’educazione

di vista degli alunni, l’interrogativo che essi si pongono è: Ciò che sto facendo è una mia scelta oppure io sono una pedina nelle mani di qualcun altro? Se gli alunni ritengono di essere l’origine, il centro di iniziativa delle proprie condotte, è molto probabile che si impegnino personalmente nello svolgimento dei compiti e nel perseguimento degli obiettivi, nel migliorare le proprie competenze per poi decidere di impegnarsi in compiti più complessi, magari anche con altri compagni. Il sentirsi ‘pedina in mani altrui’ sembra essere una posizione molto diffusa in quelle classi scolastiche in cui agli alunni vengono assegnati compiti e obiettivi senza che essi abbiano molta voce in capitolo sul come, quando e perché i compiti debbano essere eseguiti. Appare qui in tutta la sua importanza il quesito circa le condizioni in cui un alunno si sente autorizzato ad esprimere un sapere posseduto, soprattutto quando si tratta di un sapere diverso, minoritario, ‘primitivo’: condizioni rispetto alle quali alunni di culture diverse, alunni mediocri, alunni che cambiano città e classi possono trovare difficoltà anche molto rilevanti ad esprimersi, almeno fino a quando non hanno imparato le ‘regole del gioco’ vigenti nella nuova classe. Le classi in cui vengono valorizzate le iniziative degli alunni sottolineano l’autonomia nella scelta di compiti e di obiettivi e in aspetti importanti del governo della classe. Sono le classi dove viene incoraggiata la partecipazione, la responsabilità individuale e collettiva degli alunni e il fare affidamento sulle proprie risorse, sull’impegno nel portare a termine i compiti. In molte classi agli alunni non vengono offerte occasioni per sviluppare o migliorare le proprie abilità di porsi degli obiettivi. Al contrario, gli insegnanti si aspettano che gli alunni seguano gli obiettivi indicati dalla scuola (cioè da loro stessi) indipendentemente dal fatto che tali obiettivi siano valorizzati dagli alunni. Anche in questo caso, la composizione culturale diversa della classe accentua questi fenomeni. Si può creare un miglior senso

5. Effetto scuola, effetto classe

105

di autonomia semplicemente fornendo diverse alternative tra cui scegliere, piuttosto che non far scegliere affatto. Fare scelte e selezionare obiettivi è senza dubbio di importanza fondamentale nel preparare gli alunni a fronteggiare la società complessa nella quale dovranno vivere. Nel corso della vita quotidiana della scuola, si verifica spesso che gli alunni, pur lavorando ad un compito insieme, si trovino a discutere sui risultati, sulle procedure utilizzate, sulle proposte per proseguire, e si creino rapidamente due o più ‘squadre’, formate da coloro che condividono idee comuni e contrapposte alle altre, e cercano di fare prevalere la propria posizione, di mostrare la debolezza dell’altra squadra, di vincere insomma. Tutto ciò sembra inevitabile, indipendentemente dagli insegnanti e dagli alunni. Se queste dinamiche sono intese soltanto come fonti di divisioni, di umiliazione o addirittura di emarginazione degli alunni meno bravi, allora è comprensibile che gli insegnanti le temano accuratamente e cerchino in ogni modo di evitarle. Forse anche molti alunni le temono, mentre altri possono addirittura crearle di proposito, per mostrare quanto sono bravi a discutere e quanto sono in grado di prevalere sui compagni. La terza dimensione concettuale riguarda i sistemi di comunicazione di risultati e valutazioni. Ci riferiamo all’aspetto intenzionalmente comunicativo con cui vengono utilizzati non soltanto i giudizi sui compiti scolastici, ma anche l’insieme delle valutazioni sulle condotte quotidiane degli alunni. Infatti i giudizi degli insegnanti non esprimono soltanto un’informazione tecnica e neutrale sulla quantità o la qualità delle conoscenze possedute dagli alunni, anche se gli insegnanti si ispirano esplicitamente alle più aggiornate tecniche docimologiche e cercano di applicarle diligentemente. Nella dinamica della classe ogni valutazione (di prodotti cognitivi, di condotte sociali) è un giudizio espresso pubblicamente, che si colloca all’interno di una storia in comune: questi giudizi definiscono e rafforzano la struttura

­106

Prima lezione di psicologia dell’educazione

degli scopi della classe, così come rafforzano le relazioni di ruolo e di potere fra insegnanti e alunni, mentre possono incidere sulle relazioni fra compagni, soprattutto in organizzazioni di tipo competitivo: ogni lettore ricorderà certo le discussioni e le polemiche attorno alle caratteristiche dei compagni ‘secchioni’, alle condotte ritenute doverose nei loro confronti, all’importanza dei giudizi scolastici nella costruzione e nella messa in crisi delle relazioni amicali. Ogni occasione di valutazione pubblica conferma o mette in discussione le definizioni di alunno bravo o mediocre possedute da ogni soggetto; mette alla prova i criteri di giustizia distributiva utilizzati dagli insegnanti, che una volta introdotti devono essere stabili nel tempo; induce confronti fra i criteri adottati da diversi insegnanti; conferma o mette in discussione i princìpi di giustizia che caratterizzano una certa classe e un certo gruppo di docenti. Un’enfasi esagerata su un sistema di valutazioni dominato dall’insegnante ha come effetto che il compito venga svolto semplicemente come un lavoro da fare per qualcun altro, l’insegnante appunto. Quando gli insegnanti si lamentano di avere alunni poco motivati o disinteressati alle attività scolastiche, possono utilmente riflettere sulle caratteristiche dei sistemi di valutazione e giudizio vigenti nella loro classe. Non ci siamo posti in questo volume l’obiettivo di discutere il problema della valutazione scolastica nei suoi aspetti specifici (docimologici, ad esempio), ma da quanto detto in precedenza emergono alcuni criteri minimali per comprendere l’influenza dei sistemi di valutazione sul funzionamento delle classi. Voti, giudizi, lettere e altri simboli meno ufficiali sono ugualmente indicatori di una valutazione, i cui effetti sono già stati illustrati nel cap. 4. Qui ne illustriamo un ultimo in dettaglio. Si tratta di un effetto particolare del sistema di valutazioni per giudizi scolastici (in vigore fino al 1994) nelle scuole elementari. Esaminando le schede di valutazione redatte dagli inse-

5. Effetto scuola, effetto classe

107

gnanti che hanno seguito una classe di alunni dalla prima alla quinta elementare, abbiamo studiato9 l’organizzazione dei giudizi espressi al termine del secondo quadrimestre della classe prima, terza e quinta; dall’analisi condotta sono stati individuati tre nuclei tematici attorno ai quali si organizzano i giudizi e che si ritrovano stabilmente in ogni anno scolastico: – materie forti: si tratta dei giudizi espressi sulla matematica, sulla lettura, sull’espressione orale e scritta; – educazione: giudizi espressi sull’educazione morale e civile e sull’educazione fisica; – metodo: giudizi espressi sulla partecipazione alla vita della classe e sul metodo di studio. Questi temi costituiscono un primo livello di organizzazione che sintetizza i rapporti fra le materie previste dai programmi e gli obiettivi generali della scuola elementare, di cui si trova traccia nei discorsi di insegnanti e genitori: abilità di base, bravo alunno, buon cittadino. Inoltre questi insegnanti mostrano di avere valutato i propri alunni partendo effettivamente dai risultati scolastici di questi ultimi, e di averlo fatto in modo strutturato ed articolato, tanto da registrare alcune piccole modifiche nei giudizi prodotti negli anni successivi. In seguito, abbiamo documentato l’esistenza di un secondo livello di organizzazione dei giudizi, da noi interpretato come una sorta di teoria implicita della valutazione alla quale gli insegnanti si ispirano, e che contiene i criteri utilizzati per valutare gli alunni. Questa teoria costituisce una modalità molto generale che si forma in prima elementare e si mantiene stabile negli anni successivi. Nella ricerca abbiamo infatti documentato che i giudizi espressi in prima elementare si mantengono praticamente inalterati in tutte le classi successive fino alla 9 P. Selleri, F. Carugati, E. Scappini, What marks should I give? A model of the organization of teachers’ judgments of their pupils, in «European Journal of Psychology of Education», 1995, X, 1, pp. 25-40.

­108

Prima lezione di psicologia dell’educazione

quinta: è come dire: se parti bene, il gioco è fatto; se parti male... son dolori! L’ultima dimensione riguarda i simboli di identità propri di una classe. Gli studi sulle organizzazioni hanno indicato da tempo l’importanza dei valori propugnati e degli obiettivi perseguiti, dallo staff direttivo e dai membri dell’organizzazione, nel caratterizzare non soltanto la qualità del lavoro quotidiano, ma anche il grado di assunzione di responsabilità individuali, di soddisfazione, di motivazione. È chiaro che occorre la massima prudenza nel trasporre caratteristiche e dinamiche delle organizzazioni industriali al mondo della scuola; tuttavia già nel lavoro di Rutter è ben documentato che i risultati scolastici positivi sono collegati all’ethos delle scuole, ma che qui possiamo articolare anche come ethos della classe, quando gli insegnanti manifestano la convinzione che lavorare in classe ‘significa qualcosa’ per loro; che nella loro attività professionale vale la pena di impegnarsi. Essi producono iniziative tese a costituire uno spirito di collaborazione e coinvolgimento emotivo fra tutti i membri della classe, e sottolineano l’importanza del loro impegno diretto nel governo della vita quotidiana. Gli insegnanti svolgono una funzione decisiva, in quanto sono i mediatori quotidiani degli obiettivi di apprendimento e di educazione, attraverso l’utilizzazione di strumenti connessi con le dimensioni concettuali sopra descritte, soprattutto in un momento storico nel quale le classi sono sempre più frequentemente confrontate con i fenomeni delle diversità culturali. Abbiamo intitolato questo capitolo Effetto scuola, effetto classe proprio per focalizzare l’attenzione del lettore sui diversi livelli di analisi che riteniamo utili per comprendere le complesse relazioni fra i risultati scolastici dei singoli alunni e le caratteristiche delle dinamiche di insegnamento-apprendimento fra insegnanti e alunni, il loro status, le caratteristiche della vita quotidiana delle

5. Effetto scuola, effetto classe

109

scuole e delle classi. Il lettore potrà chiedersi come mai abbiamo dedicato due capitoli a temi che sembrano non direttamente pertinenti per ciò che usualmente viene inteso quando si pensa all’imparare, in particolare la vita quotidiana a scuola e a casa. Speriamo che i fenomeni descritti e l’argomentazione svolta siano sufficientemente chiari. L’obiettivo è stato quello di dettagliare quali sono alcune delle condizioni socio-psicologiche rese disponibili nelle ricerche sull’apprendimento all’interno della vita quotidiana delle scuole e delle classi. Certamente altre condizioni possono intervenire: noi abbiamo scelto quelle che meglio si inseriscono nel quadro concettuale offerto nel cap. 2.

Capitolo 6

Il fascino discreto della vita quotidiana nelle organizzazioni educative

Perché proprio ‘fascino discreto’? Le ragioni sono molteplici, e qui ne discutiamo due fra le principali. Una deriva dall’abbondanza di ricerche che, nell’ambito della prospettiva storico-culturale e socio-costruttivista internazionale, ci illustra la varietà della vita quotidiana nelle classi e delle condotte degli attori che la animano: sentiamo il vociare degli alunni, gli interventi degli insegnanti, il girovagare nell’aula di alunni distratti, svogliati, o soltanto immersi nei loro pensieri o desiderosi di essere altrove, i tentativi, da parte di qualche alunno che finalmente trova il coraggio di ‘dire la sua’, di intervenire senza alzare la mano o rispettare i ‘turni’ – il solito maldestro, che offre un’idea interessante e magari una risposta pertinente, ma viene bellamente ignorato da tutti1. La vita quotidiana è presente attraverso i contenuti: lezioni di matematica, costruzione di testi, uso di computer, navigazione in ipertesti. E ancora la vita quotidiana è presente nelle conversazioni durante le cene in famiglia; nelle discussioni fra madre e figlio maggiore, alla presenza del fratello mino1 P. Selleri, F. Carugati, ‘Ecoutez-moi les enfants’. De la conversation à l’étude des routines scolaires, in M.Gilly, J.-P. Roux, A. Trognon (a cura di), Apprendre dans l’interaction: analyse des médiations sémiotiques, Presses Universitaires, Nancy 1999.

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

111

re; nelle classi, nei giardinetti dove alunni e compagni di classe o di giochi si incontrano anche per avventurarsi in piccoli o grossi litigi, per discutere, cercare di intessere amicizie, sempre pronte a disfarsi e rifarsi per le ragioni più varie, e spesso poco comprensibili ad adulti distratti. Si tratta della ‘realtà delle piccole cose’, la cui importanza per la costruzione della tessitura della vita quotidiana è stata recentemente illustrata in modo convincente e letterariamente molto gradevole2. La seconda ragione riguarda proprio l’influenza che lo svolgersi minuto della vita quotidiana esercita sulla socializzazione lungo l’arco di vita. Su questo punto i capitoli precedenti hanno portato argomenti ed esempi empirici a livello, diremmo, microsociale. Ma l’organizzazione della vita quotidiana risente anche di influenze di livello più ampio, per esempio delle trasformazioni che coinvolgono la struttura e l’organizzazione delle famiglie e le loro scelte educative, nonché alcune condotte di nostro interesse, rilevabili nelle fasce di soggetti fino alla maggiore età. Quale occasione più favorevole per utilizzare la consistente e sistematica documentazione offerta da diverse ricerche Istat, che riguardano la fascia 0-17, complessivamente per il periodo 1989-2008?3 F. Emiliani, La realtà delle piccole cose, il Mulino, Bologna 2008. I dati in queste pagine sono stati tratti da: Istat (2005), Indagine multiscopo sulle famiglie italiane – aspetti della vita quotidiana. La vita quotidiana dei bambini, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20051117_00/; Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Direzione generale per la famiglia, i diritti sociali e la responsabilità sociale delle imprese (Csr) – Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza (ottobre 2005), L’eccezionale quotidiano. Rapporto sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, http://www.minori.it/files/eccezionale_ quotidiano_completo.pdf; L.L. Sabbadini, La vita quotidiana dell’infanzia nelle indagini Istat – Ministero del Lavoro, della salute, delle politiche sociali, in «Conferenza Nazionale sull’Infanzia e l’Adolescenza – Il futuro dei bambini è nel presente», Napoli, 18-20 novembre 2009, http://www.istat.it/istat/eventi/2009/convegnonapoli/index.html. 2 3

­112

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Minori nelle famiglie che cambiano La documentazione disponibile sull’influenza delle trasformazioni familiari in atto sulla vita dei minori è ampia e convincente. Nella fascia 0-17 anni essi vivono in un mondo con sempre meno coetanei. Come conseguenza delle tendenze demografiche in atto e dell’affermarsi del modello del figlio unico al Centro-nord e di due figli (in media) al Sud Italia, diminuiscono comunque i bambini che hanno due o più fratelli. I bambini che vivono in famiglie con sempre meno coetanei hanno anche meno cugini. È interessante, però, notare che i genitori dei figli unici favoriscono una più ampia rete di relazioni all’esterno e cercano così di compensare la povertà relazionale in famiglia: i figli unici frequentano di più coetanei e iniziative di varia natura, dentro e fuori dalla scuola. I bambini stanno anche meno tempo con i loro genitori: infatti sono ormai di più i bambini con tutti e due i genitori occupati di quelli che hanno la madre casalinga e il padre occupato. Aumentano anche i bambini che vivono con un solo genitore: sono passati dal 5% all’8%. Questo aspetto va ricollegato all’aumento, nel periodo considerato, di separazioni e divorzi e, per certi versi, rappresenta un fenomeno da seguire con attenzione. Da un recente rapporto Istat4 su dati 2008 risulta che dal 1995 al 2008 sia le separazioni che i divorzi sono più che raddoppiati: un fenomeno molto delicato, se si considera che la vita matrimoniale dura in media 15 anni prima della decisione di separarsi e arriva a 18 anni in caso di divorzio. Nella maggior parte dei casi le crisi coniugali coinvolgono anche i figli che si ritrovano divisi tra i due genitori. Dopo l’emanazione della legge 54/2006 (che ha introdotto l’istituto dell’affidamento congiunto, e solo come eccezio-

4

http://www.barimia.info/modules/article/view.article.php?32334.

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

113

ne l’affido a uno solo dei genitori) quasi l’80% degli affidi per figli minori è condiviso. Si tratta di un provvedimento (efficace sul piano giuridico della corresponsabilità) del tutto condivisibile, anche se restano da valutare in concreto le modalità operative e gli andamenti nel tempo, in quanto di fatto i bambini riorganizzano gran parte della propria vita quotidiana con la madre piuttosto che con il padre, soprattutto se si tratta di bambini almeno fino ai 10-12 anni. I genitori dedicano più tempo ai figli. Nelle famiglie il lavoro di cura di madri e padri è in aumento, se si considerano i tempi dedicati alle varie attività della giornata nell’arco dei dieci anni considerati. E tuttavia le madri continuano a essere sovraccariche di lavoro familiare ma cercano comunque di non diminuire il tempo dedicato ai figli, riducendo piuttosto quello dedicato alle attività domestiche. Qualche cambiamento, seppure di minore entità, si osserva anche nell’universo maschile. Aumentano i padri che contribuiscono al lavoro familiare, svolgendo quotidianamente almeno un’attività di servizio o di cura, che si concentra nell’occuparsi almeno un poco dei figli, se grandicelli, con giochi e passatempi. Nel caso di bambini fino a due anni, i padri si avventurano anche in attività quali mettere a letto il bimbo, cambiargli il pannolino, vestirlo. I padri più collaborativi sono quelli con titolo di studio più alto, con la partner che lavora, del Nord-ovest, e con un orario di lavoro più corto. E quando i genitori non sono a casa? Ecco pronti i nonni.  Nei momenti in cui il figlio non frequenta i servizi educativi o non sta con i genitori si ricorre a figure – parentali o no – che sostengano la famiglia. I bambini tra 0 e 13 anni che vengono affidati a qualche adulto, almeno qualche volta a settimana, sono circa il 52% del totale. Il ricorso a figure di supporto nella cura dei bambini è tanto più diffuso quanto minore è l’età. Al primo posto si

­114

Prima lezione di psicologia dell’educazione

collocano i nonni conviventi e non. Soprattutto quando i bambini sono piccoli, il loro sostegno si rivela decisivo: altri parenti (conviventi e non) si prendono cura di una quota più limitata di bambini; ancora più ridotta la quota di bambini affidati a persone retribuite, quota che però sale di un poco se la madre lavora, soprattutto se è dirigente, imprenditrice o libera professionista. E quando i genitori non sono a casa? I servizi educativi. Per le famiglie con bambini fino a 2 anni, a svolgere una funzione importante per l’affidamento e la cura dei figli ci sono, accanto al sostegno della rete informale, gli asili nido. La riduzione dei membri delle famiglie e la crescente partecipazione delle donne nel mercato del lavoro attribuiscono a questo servizio un ruolo sempre più rilevante nell’organizzazione della vita quotidiana delle famiglie con figli piccoli. È interessante notare che, a fronte di un aumento della percentuale di bambini da 0 a 2 anni che frequentano un asilo nido (al 2008 il 16% della popolazione, con mamme che lavorano), si diffonde anche una variazione delle ragioni indicate dai genitori per questa scelta: l’asilo nido è sempre più considerato come un’opportunità educativa e di socializzazione, piuttosto che come un’‘area di parcheggio’. È un’esperienza importante da un punto di vista educativo, lo mando al nido per farlo stare con altri bambini sono le ragioni che raccolgono il maggior numero di consensi. In ogni caso, quasi un quarto delle madri riconosce di non avere altri familiari disponibili. La vita quotidiana nella fascia di età scolare I bambini e i ragazzi collaborano in casa con alcuni lavoretti. La maggioranza dei bambini tra i 6 e i 17 anni è coinvolto in attività di aiuto ai genitori come badare ai fratelli più piccoli, rifarsi il letto, riordinare le proprie cose ecc.

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

115

L’89% dei bambini e ragazzi di questa età, infatti, svolge almeno una di queste attività, con una leggera prevalenza delle femmine rispetto ai maschi. Il grado di coinvolgimento è ovviamente maggiore tra gli 11 e i 17 anni, età in cui oltre il 92% dei bambini e ragazzi sono coinvolti in almeno un’attività. Tra le attività svolte abitualmente all’interno della famiglia da bambini e ragazzi, le più frequenti sono riordinare i propri oggetti e apparecchiare e/o sparecchiare la tavola, occuparsi della spazzatura e fare la spesa o piccole mansioni casalinghe. Le attività più tipicamente domestiche (apparecchiare/sparecchiare, fare le pulizie, lavare piatti e simili, rifare il letto) sono appannaggio quasi esclusivo delle femmine, mentre i maschi fanno qualche lavoretto, piccole riparazioni, vanno all’ufficio postale. Il livello di coinvolgimento in queste attività è maggiore nelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, e ciò vale in particolare per le figlie. Considerando il livello di istruzione della madre, emerge come al diminuire del titolo di studio della madre diminuisce anche il livello di coinvolgimento dei figli, ma solo nel caso di figli maschi. Le differenze di genere risultano fortemente influenzate dalle caratteristiche della famiglia e in particolare dal livello di istruzione della madre e dalla condizione occupazionale dei genitori. Per quanto concerne il titolo di studio della madre, le differenze di genere si attenuano notevolmente se questa è diplomata o laureata, rispetto ai casi in cui la madre ha titolo elementare o nessun titolo. Lettura e spettacoli: attività al femminile. Sempre nel periodo considerato dalla ricerca, la quota di bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni che hanno letto almeno un libro nel loro tempo libero è oltre la metà dei soggetti, ma l’interesse per la lettura è maggiore tra le femmine rispetto ai maschi in tutte le fasce d’età considerate, e la distanza maschi/femmine aumenta a favore delle ragazze col crescere dell’età. Bambine e ragazze non solo prevalgono sui maschi, ma leggono un numero maggiore di libri all’anno,

­116

Prima lezione di psicologia dell’educazione

con differenze territoriali anche in questo caso molto elevate a vantaggio del Nord. Le differenze sociali e di opportunità sono ancora molto alte. Se il mondo dei bambini e dei ragazzi si presenta come un grande e variegato puzzle, le differenze territoriali e sociali continuano ad esistere, e prefigurano l’esistenza di ampie fasce di bambini con minori opportunità di altri o addirittura esclusi. Il 74% delle famiglie con minori del Nord-ovest possiede un computer, contro il 51% nelle Isole; l’85% delle famiglie di imprenditori, dirigenti e liberi professionisti, contro il 54,1% delle famiglie operaie. L’utilizzo delle nuove tecnologie è fortemente influenzato dal possesso in casa del pc, con una differenza rilevante a sfavore dei figli di operai rispetto ai figli di liberi professionisti, imprenditori o dirigenti. Il «minore multimediale» (è una definizione dell’autrice del Rapporto), soggetto emergente nel paese, non è ancora maggioritario nelle classi sociali più basse e nel Sud del paese. Tuttavia un dato positivo è che proprio là dove le differenze sono più ampie la riduzione delle disuguaglianze è stata maggiore negli ultimi anni, soprattutto nel rapporto con le nuove tecnologie, segno che i nuovi comportamenti cominciano a incrinare anche gli ostacoli sociali e territoriali. Sotto questo aspetto, il sistema scolastico non è riuscito a svolgere ancora un ruolo attivo nella riduzione delle differenze, soprattutto nell’uso delle nuove tecnologie, in quanto la riduzione delle differenze sociali e territoriali non è avvenuta con un utilizzo crescente del pc a scuola ma con una maggiore disponibilità presso le famiglie. Una tipologia interessante. Recentemente la dott.ssa Sabbadini, Direttore Centrale Istat5, ha presentato una sintesi  L.L. Sabbadini, La vita quotidiana dell’infanzia, cit.

5

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

117

delle indagini svolte negli ultimi anni, proponendo una tipizzazione della fascia dei 14-17enni che qui riassumiamo: – Ragazzi del Centro-nord di estrazione sociale alta che frequentano licei, iper-attivi sul fronte culturale. Dispongono di risorse familiari adeguate, il capofamiglia ha una laurea o un diploma superiore; i risultati scolastici sono ottimi o distinti alle medie; frequentano corsi extrascolastici; vanno al cinema, teatro, musei, concerti; leggono libri, fanno sport, usano pc e internet; sono coinvolti in associazioni, soddisfatti delle relazioni familiari, degli amici, del tempo libero, della situazione economica, guardano la tv per meno di 3 ore. Vivono in un contesto culturale vivace e si attivano in linea con tale contesto. – Ragazze del Sud di estrazione sociale bassa che investono in cultura e negli studi e hanno ottimi risultati. Il capofamiglia ha nella maggioranza dei casi la licenza elementare o media; sono molto collaborative in casa; frequentano licei (anche licei psico-pedagogici), leggono molto, vanno al cinema, usano pc e internet, non bevono alcool, non frequentano corsi perché non possono permetterselo; sono soddisfatte di tutti gli aspetti della vita, anche di quello economico (si accontentano). Il rendimento scolastico ottimo è qui frutto della determinazione delle ragazze e non del contesto culturale in cui vivono. – Ragazzi del Nord-est di estrazione sociale media, internauti, che socializzano molto ma hanno comportamenti a rischio di alcool. Frequentano istituti tecnici o professionali; leggono quotidiani ma pochi libri, vanno soprattutto a concerti di musica e al cinema, visitano musei e frequentano corsi di formazione; vedono amici tutti i giorni, frequentano bar, pub, discoteche, pizzerie, fast food. Hanno rendimento scolastico sufficiente o buono, ma comportamenti a rischio di alcool. Collaborano in casa apparec-

­118

Prima lezione di psicologia dell’educazione

chiando e sparecchiando. Dispongono di maggiori opportunità rispetto alle ragazze del Sud ma le sfruttano meno. – Ragazzi del Sud informatizzati che socializzano molto con amici, praticano sport, scarsa fruizione culturale. Frequentano scuole tecnico-professionali; non fruiscono di spettacoli se non qualche volta al cinema; giocano a videogiochi tutti i giorni, usano pc e internet; si vedono quotidianamente con gli amici, frequentano strade, pizzerie, sale giochi, campi sportivi; non collaborano in casa. L’istruzione del capofamiglia è almeno superiore. Rendimento scolastico sufficiente o buono. – Ragazze del Sud con risorse familiari scarse escluse da tutto. Una parte è ancora iscritta alla scuola superiore di primo grado (l’antica scuola media inferiore); non usano pc né internet; sono insoddisfatte della situazione economica familiare; socializzano poco; non fruiscono di nessun tipo di spettacolo; non giocano a videogiochi; vanno raramente in pizzeria o al cinema. Oltre a questa tipologia non mancano altri dati che fanno riflettere. I risultati scolastici dipendono dall’estrazione sociale dei genitori. Il 16,9% dei ragazzi di 14-17 anni, nel 2008, aveva conseguito la licenza media con giudizio ottimo, quota che sale al 28,7% dei ragazzi se il capofamiglia è dirigente/imprenditore o libero professionista contro il 13,1% di coloro che vivono in famiglie operaie. Le differenze di genere sono molto forti: i ragazzi che hanno ottenuto ottimo sono l’11,7%, ma se il capofamiglia è dirigente/imprenditore o libero professionista raggiungono il 21%, mentre se il capofamiglia è operaio sono soltanto il 7%. Le ragazze che hanno ottenuto ottimo sono il 22,3%, ma se hanno il capofamiglia dirigente/imprenditore o libero professionista passano al 37,%, mentre se il capofamiglia è operaio si limitano al 20%. È da registrare un consumo di alcool precoce tra i giovanissimi di 11-13

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

119

anni (8%), mentre aumenta tra i giovani di 14-17 anni, passando dal 41% del 1998 al 42% del 2008. Uno stile di vita nuovo, non tipico del nostro paese, abituato ad un consumo moderato di alcool durante i pasti, emerge per i 14-17enni sia nel consolidarsi del binge drinking (bere ripetutamente in tempi rapidi fino ad ubriacarsi – 5,3%), sia soprattutto nella crescita del consumo di alcolici fuori pasto: dal 13% del 1998 al 19% del 2008. Si tratta di condotte che coinvolgono anche quote crescenti di ragazze: dal 10% del 1998 al 14% del 2008. Queste condotte si associano ad altre non salutari come l’abitudine al fumo: per esempio, tra i ragazzi di 11-17 anni il binge drinking passa dall’1,9% dei non fumatori al 28% dei fumatori. La vita quotidiana: opportunità di apprendimento e di socializzazione Abbiamo voluto dedicare le pagine precedenti a dati di ordine quantitativo per offrire spunti di riflessione su quali siano le luci e le ombre nella vita quotidiana dei minori. Si tratta di un quadro variegato delle trasformazioni verificatesi in un decennio, dove persistono tuttavia numerose differenze socio-economiche e culturali. È una ‘metà del cielo’ dei percorsi di socializzazione, alla quale fa da contrappunto l’altra metà e cioè le dinamiche attraverso le quali i bambini si appropriano delle pratiche educative che caratterizzano la vita quotidiana. Proseguendo la nostra riflessione ispirata dall’approccio socio-costruttivista, la socializzazione, dal punto di vista dei bambini e dei ragazzi, implica il riconoscimento che essi sono posti quotidianamente di fronte a difficoltà nella costruzione del significato delle esperienze quo­tidiane: molti fenomeni, almeno nei primi anni, sono misteriosi e ambigui e raramente sono compresi rapidamente e senza incertezze. Il termine usato per descrivere il processo di costruzione dei significati della vita quotidiana da parte dei bambini è quello di riproduzione inter-

­120

Prima lezione di psicologia dell’educazione

pretativa6. L’aggettivo interpretativa indica gli aspetti innovativi e creativi della partecipazione sociale che i bambini mettono in atto nel corso della vita quotidiana, mentre il termine riproduzione avverte che i bambini non si limitano a imitare o interiorizzare ciò che i genitori e la società chiedono loro, ma contribuiscono attivamente alla produzione e al cambiamento di tali richieste. Ed è proprio attraverso l’acquisizione del linguaggio (della lingua materna!) che si realizzano le prime forme di riproduzione interpretativa. Parliamo di lingua materna e non soltanto di linguaggio (termine che, tecnicamente, rimanda alla psicolinguistica o ad approcci individualistici all’apprendimento della lingua) per sottolineare che attraverso la lingua viene co-costruito (grazie agli adulti) un sistema simbolico che organizza e fornisce significati condivisi alla struttura sociale della vita quotidiana, e successivamente delle organizzazioni educative e della cultura in senso più ampio. Ma la lingua è anche strumento che costruisce e conserva la realtà della vita quotidiana. Acquisizione della lingua e delle routine costituiscono i ‘fondamentali’ della cultura dei coetanei, definita come l’insieme stabile di attività, routine, prodotti, valori, interessi ed obiettivi comuni, che i bambini producono e condividono nel corso della vita quotidiana a casa e delle organizzazioni educative. In queste attività i bambini cercano tenacemente di costruire modalità di governo e di controllo della vita quotidiana, attraverso la creazione di una rete di compagniamici che permetta loro di partecipare alla vita sociale e di condividerla. In particolare, durante gli anni della scuola materna, appaiono come fenomeni cruciali gli sforzi per partecipare attivamente alle attività quotidiane e per mettere in discussione l’autorità degli adulti, guadagnando spazi di negoziazione. 6 W.A. Corsaro, Le culture dei bambini, il Mulino, Bologna 2003 (ed. or. 1997).

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

121

In questo ambito sono state documentate le complesse strategie di accesso ai giochi che i bambini elaborano ed acquisiscono per superare le resistenze e le frontiere alzate da coloro che già stanno giocando insieme: si tratta di vere e proprie abilità sociali, necessarie per entrare a far parte della cultura dei coetanei. Essere accettato nei gruppi di gioco costituisce un vero e proprio successo sociale per i bambini e proprio grazie a queste attività essi costruiscono anche relazioni di amicizia: frasi come Siamo amici, vero? costituiscono la prova di questo costruirsi, nell’agire quotidiano, del comportamento prosociale. Inoltre anche i tentativi dei bambini di provocare e mettere in discussione l’autorità degli adulti e di mantenere il controllo sul fluire della propria vita quotidiana sono aspetti centrali della cultura dei coetanei fin dai primissimi anni. Fra i 14 e i 24 mesi, i bambini (osservati nelle loro case) mostrano segni inequivocabili di divertirsi sempre di più nel compiere azioni proibite: non solo, ma essi condividono con i fratelli (quando ci sono) queste trasgressioni, ridendone insieme, come chiaro segno di provocazione dell’autorità degli adulti. Entrando nelle scuole materne, i bambini sviluppano rapidamente un’identità di gruppo, che rafforza il piacere di provocare e ‘prendere in giro’ sia i compagni sia le educatrici. Per esempio, Corsaro7 ha descritto che nelle scuole materne americane e italiane esiste un regola ben chiara che proibisce agli alunni, o ammette con molti limiti, di portare piccoli giochi o oggetti da casa. Questi oggetti diventano così molto attraenti agli occhi degli alunni, soprattutto perché sanno che sono vietati; quindi i bambini non si limitano solo a portare oggetti piccoli, che possono essere nascosti nelle tasche, ma trovano molto divertente farli vedere di nascosto all’amico del cuore, magari dietro le spalle di una educatrice, che spesso ‘chiude un occhio’, 7

Ibid.

­122

Prima lezione di psicologia dell’educazione

purché non scoppino litigi la cui risoluzione richiederebbe di riaffermare la proibizione generale. Un altro aspetto importante della cultura dei coetanei è quello di consentire che i contenuti della cultura adulta (timori, paure, momenti di confusione, discorsi su argomenti sconosciuti) vengano ripresi e trasformati in routine di gioco collettivo. Una di queste routine è stata descritta come approccio-fuga; essa implica l’identificazione dell’agente che minaccia (ad esempio un bambino che fa la parte di un ‘mostro’), un comportamento molto ‘guardingo’ ed infine la fuga dal mostro in seguito ad un suo attacco. Questa routine, all’apparenza molto semplice, mostra due caratteristiche-chiave: i bambini minacciati hanno un controllo molto elevato sullo svolgersi della routine, in quanto sono loro che possono iniziarla e rilanciarla nella fase di approccio, mentre hanno anche la possibilità di proteggersi nella ‘base’ (o nella ‘tana’), luogo sicuro durante la fuga. Il tema della paura viene quindi affrontato in gruppo, ed ogni partecipante al gioco conosce i modi per difendersi e salvarsi. Per non parlare dei giochi che si inventano bambini coinvolti in diversi teatri di guerra (Iraq, Palestina), poco dopo attentati ed esplosioni drammatiche, con residui di vario genere e addirittura con armi vere proprie. La tv documenta senza risparmio questi episodi che, pur nella loro drammaticità, testimoniano lo sforzo che i bambini fanno per affrontare la loro vita quotidiana. Nelle organizzazioni educative, la vita sotterranea costituisce un aspetto particolare della cultura dei coetanei. È stata studiata a partire dagli anni ’60 nelle istituzioni totali (carceri, ospedali psichiatrici) ma costituisce un utile punto di riferimento per comprendere la varietà di condotte osservabili nelle organizzazioni educative. Si tratta di attività reali al riparo dallo sguardo e dal controllo degli adulti (in luoghi appartati della scuola – bagni, sgabuzzini, in un punto periferico di un giardino – nei momenti di ricreazione); attività che possono essere individuali, di

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

123

coppia, di piccoli gruppi ma che devono coinvolgere in vario modo anche altri compagni, perché coloro che le eseguono devono raccontarle agli altri, per trarre dal racconto una certa conferma di sé e delle proprie capacità di sfidare l’autorità, che costituisce lo scopo principale di queste ‘imprese’. Scambiarsi oggetti proibiti e poi, con il passare degli anni, fumare nei bagni, fare incursioni nelle cucine, sono tutte occasioni per mostrare a se stessi e agli altri che l’autorità è sfidabile e ‘si può fare’. Un esempio di vita sotterranea molto elaborata è presente in un film ormai entrato fra i classici della filmografia dell’adolescenza: la vita della «Setta dei Poeti Estinti», ne L’attimo fuggente di Peter Weir (1989). Come descritto nella trama, che traiamo da Wikipedia8, durante la notte i ragazzi ‘evadono’ dal dormitorio avventurandosi nel bosco che circonda l’high school, raggiungono una grotta ospitale, e una volta arrivati, dichiarano risorta la Setta dei Poeti Estinti, leggendo un verso di uno degli antichi fondatori: «Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità, succhiando tutto il midollo della vita per sbaragliare tutto ciò che non era vita e per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto». Il professor Keating (l’attore Robin Williams) svolge magistralmente la funzione di attivare una cultura dei coe­ tanei (all’interno di una severa e assai tradizionalista high school), ma che può realizzarsi soltanto come sotterranea nel senso letterale: nel film infatti è ambientata in una grotta. Vita sotterranea per trovare la propria strada, per coltivare aspirazioni, attraverso il carpe diem che giunge fino alla scena madre in cui il libro preso a simbolo del tradizionalismo inaccettabile viene stracciato; qui la vita sotterranea alimenta e dà il coraggio per opporsi all’autorità. Il prezzo per alcuni degli studenti è molto alto (uno di loro 8

http://it.wikipedia.org/wiki/L’attimo_fuggente.

­124

Prima lezione di psicologia dell’educazione

si suicida, sovrastato dalle pressioni combinate del padre e del direttore della scuola) ed anche il professor Keating è licenziato, ma simbolicamente tutto si conclude con un riconoscente e disperato «Capitano, mio capitano!» rivolto da tutti gli studenti al professore. E la vita quotidiana in casa? In che misura le madri sono coinvolte nelle scelte e nel supporto alla vita scolastica dei propri figli? È fin troppo noto che le madri svolgono quelle funzioni che in sociologia della famiglia sono descritte come la doppia presenza: oltre al tempo impiegato nel lavoro, una volta a casa esse si rimboccano le maniche e si occupano della vita quotidiana fra le pareti domestiche, come abbiamo dettagliatamente documentato. Quale posto occupa la cura dei figli in relazione alla loro attività scolastica? Questa cura può realizzarsi almeno secondo tre modalità: scelta della scuola in relazione all’abitazione della famiglia; partecipazione alla gestione della scuola; supporto allo studio del figlio a casa. Partiamo da un interrogativo che sorge sempre di fronte alla scelta della scuola per il figlio: si sceglie la scuola più vicina a casa o al posto di lavoro della madre, oppure la scuola più adatta? Non tenere conto delle opportunità offerte da una scuola vicino a casa o al lavoro è considerato un indicatore sensibile della cura verso i propri figli. Rispondiamo a questo quesito utilizzando i risultati di una recente ricerca9: nel caso delle nostre madri, soltanto un quinto dichiara di avere scelto una scuola vicino a casa o al posto di lavoro, 9 F. Carugati, P. Selleri, Le scuole della nostra fiducia: esperienze e rappresentazioni di madri con figli in scuole paritarie, in S. Versari (a cura di), Le scuole paritarie nel sistema nazionale di istruzione, Tecnodid Editrice, Napoli 2009, pp. 111-141.

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

125

sostanzialmente senza differenze rispetto al livello socioprofessionale e al tipo di scuola frequentata. Un secondo tema riguarda il tipo di supporto che le madri offrono ai figli rispetto ai compiti a casa. In questo caso il livello socio-culturale influenza in modo esplicito la condotta delle madri: abbiamo il 59% di madri di livello medio-basso contro il 68% di madri di livello medio-alto che dichiarano di occuparsi in vario modo della preparazione dei propri figli, mentre le ragioni a giustificazione del mancato sostegno sono di solito mio figlio non ha compiti, se la cava da solo oppure io non ho tempo. Tuttavia, almeno tre quarti delle madri si dichiarano soddisfatte della propria condotta circa questo tema, senza differenza rispetto al livello socio-culturale. Resta comunque il riconoscimento, da parte del restante 25%, che si potrebbe fare di più: ma il lavoro impegna troppo, così come è riconosciuto il ‘non sentirsi all’altezza’, rispetto alle caratteristiche dei compiti o degli argomenti di studio. L’inadeguatezza personale (almeno relativa) rispetto alla complessità dei programmi, dei testi scolastici, dei compiti costituisce un argomento che le madri citano spesso quando si parla con loro. Si tratta di un argomento che merita riflessioni più approfondite che qui non possiamo svolgere, ma che rappresenta un’eco della loro esperienza scolastica: spesso genitori, anche di livello culturale medio-alto, riconoscono di trovarsi a disagio quando leggono o sfogliano testi di italiano, matematica, storia. Sembra che il ‘loro’ italiano, la ‘loro’ storia, la ‘loro’ matematica siano diversi da quella dei figli: questi genitori non si ritrovano più, si dichiarano smarriti. Le madri del nostro campione sono soddisfatte della propria esperienza scolastica, anche se con moderazione. Si parla di soddisfazione senza entusiasmo anche nei confronti della cura verso la vita scolastica dei figli. Lo confermano le risposte al quesito circa il coinvolgimento nella gestione della scuola dei figli: oltre i tre quarti

­126

Prima lezione di psicologia dell’educazione

delle madri riconoscono di non partecipare attivamente, mentre le restanti svolgono il ruolo di rappresentanti di classe o membri del consiglio di istituto. L’andamento in relazione al livello socio-professionale e socio-culturale è analogo, senza differenze di rilievo anche rispetto al tipo di scuola dei figli. E tuttavia queste madri riconoscono qualche difficoltà a partecipare attivamente alla vita delle scuole, e potrebbero ‘fare di più’. Ma dove sta l’ostacolo? Nella loro specifica condizione di madri e lavoratrici: sono infatti una quota trascurabile le madri ‘soltanto casalinghe’. Come contrappunto alla condizione di madri-lavoratrici, esse si dichiarano soddisfatte delle informazioni che dicono di ricevere dalle scuole e soprattutto soddisfatte degli insegnanti dei figli. Qui c’è forse un’eco dell’esperienza scolastica positiva delle madri, che ricordano in larga misura di avere incontrato almeno un’insegnante (utilizziamo il femminile, ma non abbiamo conferma del genere!) che ha influito positivamente, un’insegnante che ha lasciato una ‘buona traccia’. Non dimentichiamo neppure che si tratta di madri e figli con buoni risultati scolastici: famiglie con un buon capitale umano e culturale, si potrebbe dire. Il quadro complessivo sembra così ben delineato e non abbiamo motivi di dubitare della sostanziale soddisfazione delle madri. A noi qui interessa individuare, almeno in filigrana e sullo sfondo della soddisfazione, qualche indizio di una situazione socio-cognitiva di potenziale conflitto fra propositi e intenzioni, consapevolezza delle difficoltà presenti nella vita quotidiana e ancoraggio alla fiducia riposta nell’offerta di istruzione ed educazione da parte del sistema scolastico. Possiamo così concludere che la condizione di madri costituisce un principio organizzatore delle opinioni, dei punti di vista, dei criteri di scelta, e anche delle prese di posizione e delle decisioni che le madri stesse sono chiamate a produrre di fronte a questioni che riguardano

6. Il fascino discreto della vita quotidiana

127

l’educazione dei figli, imponendo impegni e responsabilità che ricadono ancora in modo troppo esclusivo su di loro. Che lo si voglia o no, lo si approvi o meno, occorre riconoscere che le madri giocano ancora un ruolo particolarmente oneroso nella cura e nell’educazione dei figli, non solo durante le età dell’infanzia e della scuola dell’obbligo, ma anche quando i bambini vedono crescere i primi baffetti e le bambine diventano ‘signorine’. E quando i figli giungono all’adolescenza, sono le stesse madri a riconoscere che ‘le cose cambiano’: ragazzi e ragazze non sono più i loro piccoli, ma anche in questa età impegno e responsabilità si intensificano con il mutare dei problemi, il sorgere di conflitti e di incomprensioni. Diciamolo con franchezza: le madri sono sempre potenzialmente sospettabili e in stato di accusa, per quanto fanno e quanto non fanno, in casa e nel rapporto con le scuole e gli insegnanti; diciamo che a loro spetta comunque l’onere delle prove a difesa. E comunque la loro influenza sulle caratteristiche dell’organizzazione della vita quotidiana e indirettamente sull’apprendimento degli alunni resta un risultato solido e convincente.

Capitolo 7

Vita morale, trasgressioni, violenze ed altre preoccupazioni educative

Partiamo da un assunto esplicito: la vita quotidiana, a scuola come in famiglia, è intrisa di significati e implicazioni morali. In tutte le routine quotidiane sono presenti messaggi morali ad alunni e figli. È usuale che insegnanti e altre categorie di adulti sostengano che occorre prevedere insegnamenti specifici nei curricula scolastici, per esempio educazione civica, oppure iniziative promosse dalle scuole, denominate educazione alla cittadinanza, alla legalità. Conosciamo esempi ed iniziative interessanti e lodevoli al proposito: magistrati ospiti delle scuole, che testimoniano personalmente sulla lotta alla criminalità organizzata; parenti di magistrati o di giornalisti assassinati dalla criminalità, che trasformano la propria sofferenza in testimonianze civili di grande valore ed esempio. Non mancano neppure volumi scritti da questi testimoni diretti, che documentano sofferenze, ricostruiscono episodi con lucida drammaticità, ne offrono interpretazioni convincenti. Siamo fiduciosi che questo insieme di esperienze costituisca un patrimonio prezioso al quale insegnanti, genitori ed educatori possono attingere per operare verso la costruzione di giovani cittadini sensibili ai valori della legalità e della cittadinanza attiva e pronti a fare le proprie scelte civiche, etiche e politiche, tenendo conto che già a 18 anni diventano cittadini italiani autorizzati a disporre della pienezza di diritti e doveri.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

129

Ma prima di questa età? Cosa succede nel corso della vita quotidiana per preparare alla legalità e alla cittadinanza attiva? Si può essere dei figli attivi? degli alunni attivi? sensibili alla legalità in casa e a scuola? Esistono cioè delle condizioni preparatorie alla pratica delle virtù civiche? Non possiamo certo qui ripercorrere il contributo di filosofi e moralisti, da Socrate a Seneca, a Montaigne (per limitarci alla cultura occidentale), per delineare le virtù dell’uomo giusto e virtuoso. Affrontiamo la questione più modestamente a partire da quanto conosciamo dal punto di vista che ci è proprio. Regole e norme nella vita quotidiana A livello di analisi intra-individuale, abbiamo a disposizione le conoscenze derivanti dalle ricerche sullo sviluppo del giudizio morale a partire dai lavori di Piaget e Kohlberg. È noto, per esempio, che il contributo di Kohlberg, nonostante le revisioni condotte in fasi successive, si presti a molte critiche, anche solo a partire dagli strumenti utilizzati per raccogliere i giudizi morali dei soggetti, ai quali viene sottoposta una storia che si conclude con un dilemma morale, rispetto al quale si chiede di giudicare il comportamento adottato dal protagonista. Si tratta quindi di un’attività verbale, e dai protocolli si coglie come ciò che varia sia soprattutto l’oggetto del discorso, poiché il bambino assume se stesso come punto di partenza, mentre l’adulto si riferisce al sistema sociale ed istituzionale; ci si può chiedere quindi quanto peso abbia nella costruzione delle risposte la padronanza delle abilità linguistiche e la connotazione culturale della prova, poiché il sistema sociale ed istituzionale dei soggetti studiati è diverso da cultura a cultura; inoltre l’abilità di ragionamento logico-formale è molto valorizzata (è cioè diventata esplicito obiettivo di apprendimento scolastico) soprattutto nelle culture industrializzate. Senza addentrarci ulteriormente nella discussione, tutto ciò rende

­130

Prima lezione di psicologia dell’educazione

evidente come resti aperto il quesito circa l’universalità degli stadi dello sviluppo morale individuati da Piaget e successivamente articolati da Kohlberg. Inoltre, nella prospettiva piagetiana, le regole dei giochi sono considerate come il primo sistema di regole acquisito dai bambini, sistema ritenuto precursore delle regole morali. Entrambi i sistemi sarebbero manifestazioni del concetto di regola che si svilupperà poi durante il periodo operatorio concreto. Come conseguenza di ciò, regole sociali e regole morali sono state considerate forme diverse di una medesima attività operatoria, le prime studiate come una sottocategoria delle seconde. È attorno agli anni ’801 che viene introdotta la distinzione fra i due tipi di regole come appartenenti a due universi concettuali differenti. Le regole o convenzioni sociali sono delle uniformità comportamentali, che servono a coordinare le interazioni sociali, dipendono dai contesti di specifici sistemi sociali e riguardano il mantenimento dell’ordine sociale. Le regole morali, invece, si riferiscono a giudizi prescrittivi sulla giustizia, i diritti umani, il benessere pubblico; sono pertinenti a come le persone devono mettersi in relazione con gli altri e riguardano le conseguenze delle azioni degli uni verso gli altri. Le prescrizioni morali non sono quindi dipendenti da contesti specifici e non sono definite da essi. Dagli anni ’80 in poi sono fiorite le ricerche tese a documentare la presenza e le caratteristiche di questi due ambiti concettuali: moralità e convenzioni sociali. In effetti la distinzione è presente fin dall’età prescolare2: la com1 E. Turiel, The development of social knowledge: Morality and convention, Cambridge University Press, Cambridge 1983. 2 M.S. Barbieri, P. Legrenzi, Transgression: Some psychological aspects of social rules in the preschool children, in «European Journal of Psychology of Education», 1988, III, 3, pp. 327-340. M.S. Barbieri, M. Griguolo, Context and quantitative dimension

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

131

prensione delle norme morali è associata alle esperienze sociali che riguardano la giustizia, l’equità e il benessere degli altri, mentre la comprensione di regole convenzionali è legata ad eventi regolati socialmente, come per esempio i vestiti da indossare per mostrare le differenze di genere. È noto anche che bambini di 3-4 anni sono in grado di distinguere fra trasgressioni sociali e morali (e quindi fra regole sociali e norme morali); queste ultime sono considerate molto più gravi e meritevoli di sanzioni più severe. È vero che questa distinzione è stata messa in discussione in quanto la gravità di una trasgressione3 risente di variazioni culturali che dipendono da norme più generali connesse a norme costituzionali e legislazioni più o meno restrittive, ma la distinzione fra norme morali e convenzioni è da tempo utilizzata come ipotesi di lavoro nella ricerca su questi temi. Per esempio, è stato possibile documentare che anche bambini di età prescolare considerano che una medesima regola convenzionale può essere trasgredita a livelli di gravità diversa. Facciamo due esempi: la colazione al mattino e il lavarsi i denti. Le trasgressioni possono essere molto severe (rifiutare di fare colazione o di lavarsi i denti), abbastanza severe (a colazione, volere pane e salame invece dell’usuale latte e biscotti; lavarsi i denti soltanto con acqua) o meno severe (a colazione: frutta e succhi vari; per i denti: spazzolino senza dentifricio). Questi due esempi sono costruiti sulla base di un’ipotesi precisa di rappresentazione cognitiva delle regole: se le regole sono rappresentate sotto forma di script (prototipi) allora una regola è tanto più trasgredita quanto più si alof social conventional transgression: It is more serious at home or at school, in «European Journal of Psychology of Education», 1993, VIII, 2, pp. 105-118. 3 Ibid.

­132

Prima lezione di psicologia dell’educazione

lontana dal prototipo (il prototipo del lavarsi i denti comprende spazzolino, dentifricio e acqua); se è rappresentata sotto forma astratta (i denti devono essere lavati), allora ogni azione che ‘pulisca i denti’ soddisfa la regola (anche una rapida sorsata d’acqua pulisce i denti; o un rapido passaggio di spazzolino asciutto, o addirittura un po’ di dentifricio sfregato con un dito!). Quale genitore (ma anche quale figlio) non ricorda la paziente e defatigante attività impiegata per concludere il lavaggio dei denti? Quante negoziazioni per ottenere (quando mai?) che il lavare i denti entrasse nelle routine giornaliere? Per non parlare del lavare le orecchie o del bagno o doccia, che si voglia. Come si vede, le routine di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti sono intrise non solo di regolarità (nel tempo e nello spazio, sì da diventare script prototipici) ma anche di regole, nella misura in cui la regolarità viene richiesta nel corso della socializzazione almeno come convenzione da rispettare. Se poi la richiesta viene legittimata con argomentazioni di carattere morale (un bravo bambino si lava i denti ‘come si deve’ dopo ogni pasto), oppure di carattere igienico-sanitario-morale (il rischio della carie, connesso ad un regime di vita che preservi la propria salute e il rispetto delle richieste degli adulti), allora anche regole convenzionali possono assumere una connotazione morale. Si vede così che non solo le relazioni asimmetriche fra adulti e bambini contengono istanze morali, ma anche le relazioni fra bambini, nel corso della socializzazione e attraverso gli interventi degli adulti, possono assumere un carattere di moralità. Stiamo così passando dal livello individuale caratteristico dell’approccio di Piaget e Kohlberg, ma anche di Turiel e altri, ad un approccio che collega la costruzione delle regole (sociali e morali) ai processi di socializzazione, ed in particolare alle dinamiche della vita quotidiana nelle famiglie e nelle classi che costituiscono luoghi dove si costruisce,

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

133

si esercita e si sanziona la moralità delle condotte. Come i genitori anche gli insegnanti, attraverso il governo delle condotte e delle pratiche quotidiane, creano un ambiente nel quale figli e alunni colgono modalità positive (o negative) di trattare gli altri (compagni o adulti) in modo corretto, richiesto o accettabile e quindi moralmente definito. Facciamo un esempio. Sono numerose le occasioni in cui gli adulti distribuiscono fra i bambini oggetti (caramelle, smarties: quantità discrete) o porzioni di cibo (fette di torta, succhi di frutta e simili: quantità continue). Dal punto di vista strettamente cognitivo (in termini piagetiani, per esempio) si tratta della conservazione del numero, della sostanza, dei liquidi, insomma delle invarianti proprie delle operazioni concrete. Ma dalla parte dei bambini non si tratta forse di dare a ciascuno il suo? ma il mio di me non deve essere forse uguale al suo di lui? Non si tratta forse di un esempio di amministrazione della giustizia distributiva? Siamo tutti bambini e dunque siamo tutti uguali! E allora perché lui (lei) ha un pezzettino di più di torta o di succo? Certo, l’adulto ha dalla sua una risorsa decisiva: guarda bene, il tuo bicchiere è più basso ma più largo; il suo è più alto ma più stretto. Chissà se il bambino che si sente defraudato di una briciola o di un mezzo dito di succo, si convince, costruendo contemporaneamente un’invariante operatoria, oppure ribadisce che non è giusto, però!: senza costruire alcuna invariante, ma concludendo (temporanea­ mente, speriamo) che non c’è giustizia in questo mondo, e che qualche bambino è più uguale di altri. Di esempi di questo genere sono piene le giornate in famiglia e nelle scuole dell’infanzia; esempi che si collegano ad altri dove, di fronte a richieste o divieti, i bambini chiedono ma perché? perché sì, perché no? Per comprendere quali siano le implicazioni di questi perché (e delle risposte degli adulti) sul piano cognitivo e della costruzione della moralità, ci affidiamo alle ricerche sulla costruzione della conoscenza fondata sugli schemi pragmatici di ragio-

­134

Prima lezione di psicologia dell’educazione

namento4. Sinteticamente, uno schema pragmatico di ragionamento consiste di un insieme di regole generalizzate (ma dipendenti dai contesti) che sono definite in termini di classi di scopi (eseguire azioni desiderabili o fare previsioni circa possibili eventi futuri) e di relazioni con tali scopi (ad esempio, relazioni di causa-effetto o prerequisiti per svolgere certe azioni). Sono state studiate soprattutto regole di obbligo e regole di permesso. Uno schema pragmatico contiene dei concetti quali la possibilità ovvero la necessità che un’azione sia eseguita e certe precondizioni alle quali un’azione può o deve essere svolta. In uno schema di questo tipo le formule se (e soltanto se)..., allora... della sintassi della logica formale sono qui espresse tramite verbi modali, quali potere (nel significato di essere permesso) e dovere; le formule linguistiche diventano del tipo: se vuole..., allora deve...; se esiste il requisito X..., allora è permesso che... Le caratteristiche fondamentali di uno schema pragmatico di ragionamento possono essere riassunte dalle seguenti regole: – se un’azione è eseguita, allora una precondizione deve essere soddisfatta; – se un’azione non è eseguita, allora una precondizione non necessariamente deve essere soddisfatta; – se una precondizione è soddisfatta, allora un’azione può essere eseguita; – se una precondizione non è soddisfatta, allora un’azione non deve essere eseguita. Vediamo, come esempio concreto, la regola seguente: Se una persona guida una vettura, allora deve avere 18 anni com4 V. Girotto, Reasoning on deontic rules: The pragmatic schemas approach, in «Intellectica», 1991, 11, pp. 15-52. Vedi anche F. Carugati, P. Selleri, Psicologia dell’educazione, il Mulino, Bologna 20052, cap. 3.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

135

piuti. Analizziamola seguendo le quattro regole. La prima regola richiede la precondizione di avere 18 anni per potere guidare. La seconda consente a chi non guida di avere anche meno di 18 anni; la terza consente a chi ha 18 anni di guidare ma non lo obbliga a farlo; infine la quarta impedisce a chi ha meno di 18 anni di guidare. Se usiamo quattro carte per rappresentare la regola, nella prima mettiamo una vettura, nella seconda una bicicletta, nella terza un soggetto con un’età superiore a 18 anni e nella quarta un soggetto con un’età inferiore a 18 anni: ecco un compito che concretizza lo studio degli schemi pragmatici di ragionamento, qui rappresentato da uno schema di obbligo. Questa l’analisi dal punto di vista cognitivo. Ma questa regola di obbligo è una convenzione oppure ha anche una connotazione morale? È prevista dal codice stradale, certo, ma perché prima dei 18 anni è vietato e dopo è permesso? È ispirata a qualche principio morale? Quale inferenza è implicita circa le capacità di assumersi responsabilità civili e penali riconosciute ai minorenni verso i maggiorenni? Troviamo qui un tema generale che riguarda le caratteristiche del cittadino maturo. Le regole e le prescrizioni del codice della strada sono semplicemente delle convenzioni (come lavarsi i denti con acqua, dentifricio e spazzolino) oppure contengono delle istanze morali generali (universali) circa la tutela di diritti-doveri reciproci fra cittadini? È stato ampiamente documentato che compiti di inferenza, sceneggiati sotto forma di schemi pragmatici, sono risolti più frequentemente e anche in età assai precoce (910 anni) quando ancora i compiti classici (le quattro carte di Wason) sono falliti. Non entriamo qui nel dibattito sul significato specifico di questi risultati rispetto al ragionamento adulto. Dal nostro punto di vista, gli schemi pragmatici contengono implicazioni sia di ordine razionale (padroneggiare le forme di ragionamento se... allora) sia di ordine morale. Siamo sostenuti in questa posizione dall’interpretazione dei risultati che ne danno gli stessi autori, nel momento in cui sostengono che i compiti sono risolti

­136

Prima lezione di psicologia dell’educazione

correttamente quando le informazioni in essi contenute riguardano gli scopi e le motivazioni degli attori che potrebbero infrangere la regola, oppure quanto più i soggetti sono messi nella condizione di assumere la prospettiva di uno che possa essere ingannato: in questo caso i soggetti sono indotti a assumere il ruolo di colui che cerca l’ingannatore o il baro. Responsabilità, colpa, inganno sono tutti temi che evocano istanze morali. Dal ragionamento alla vita quotidiana Affrontiamo ora aspetti concreti delle relazioni fra caratteristiche del funzionamento delle scuole e istanze morali. Abbiamo già illustrato (cfr. cap. 5) che le scuole e le classi fanno la differenza, ed abbiamo illustrato la varietà di condotte che ora possiamo analizzare dal punto di vista della moralità implicita nella loro messa in atto oppure no. Quando si sostiene l’importanza della puntualità dei docenti, nel rispetto degli orari ma anche, aggiungiamo noi, nel correggere tempestivamente i compiti in classe o quelli assegnati a casa o durante le vacanze, non si contribuisce forse a creare un’atmosfera di rispetto verso gli alunni, riconoscendo che i compiti assumono valore agli occhi degli insegnanti? Ecco un esempio di riconoscimento di diritti e doveri reciproci. Una letteratura non certo recente (di cui sembra perso il ricordo5) ci ricorda che gli insegnanti (certamente quelli studiati) si comportano in modo diverso nei confronti degli alunni considerati bravi: per esempio, rivolgono più frequentemente sorrisi e approvazioni ai loro commenti e interventi; hanno condotte più amichevoli; offrono maggiori informazioni ed esercizi; hanno maggiori esigenze e maggiori attese di impegno; rivolgono maggiori richieste di pareri e giudizi; in occasione di compiti o prove in clas5

D.J. Stipek, Motivation to learn, Allyn and Bacon, Boston 1993.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

137

se, offrono maggiori indizi e suggerimenti per risolvere un problema e maggiori riformulazioni di quesiti che non sono stati compresi; hanno maggiore pazienza e dànno maggiori feedback verbali e non verbali; rivolgono maggiori espressioni di approvazione in caso di risposte o condotte positive e maggiori espressioni di rammarico in caso di condotte o risposte insoddisfacenti. Viceversa, nei confronti di alunni giudicati mediocri, quasi in un gioco di specchi, gli insegnanti rivolgono maggiori critiche e svalutazioni; hanno minori contatti verbali e non verbali; si limitano all’accettazione di risposte inadeguate, senza feedback; in caso di insuccesso, manifestano, più che rammarico, compatimento o ironia. Precisiamo che si trattava, all’epoca, di insegnanti, diciamo così, normali, che cercavano di svolgere onestamente e con professionalità il proprio lavoro. Cosa riteniamo pensi un alunno mediocre, di fronte a tali manifestazioni di diversità di trattamento? Si tratta di condotte che tengono in considerazione i princìpi di rispetto verso tutti gli alunni? È giusto che gli insegnanti utilizzino i risultati scolastici come strumenti per costruire o sancire delle discriminazioni fra alunni, almeno nel corso della vita quotidiana in classe? Prendiamo un altro esempio, quello dei voti. Abbiamo già visto le diverse condizioni di produzione di risultati, e in particolare gli effetti della competizione sociale e, più in generale, della meritocrazia. Quali sono le condizioni nelle quali vengono proclamati i risultati di un compito in classe, o annunciato il voto di un’interrogazione orale? Abbiamo visto che gli alunni, bravi o mediocri, producono risultati diversi in funzione delle condizioni in cui svolgono i compiti, ma si costrui­ scono anche una rappresentazione di sé nei termini di alunno bravo/mediocre in base a tali risultati. Ora, non sosteniamo che si tratti di stigmatizzazioni indelebili che segnano per la vita, ma certo non è possibile sottovalutarne l’influenza. Nei resoconti di soggetti giova-

­138

Prima lezione di psicologia dell’educazione

ni adulti che rievocano la propria esperienza scolastica, è costante il riferimento ad una causalità/responsabilità individuale non solo nei comportamenti (non andavo bene a scuola) ma anche nelle caratteristiche più valorizzate dagli adulti come diagnostiche (non ero portato per la matematica). Nel momento in cui è chiaro che una materia è considerata dal sistema scolastico come diagnostica del bravo alunno, una delle strategie per proteggersi (nel caso di alunni mediocri) è proprio quella di attribuire a caratteristiche stabili ma indipendenti dalla propria volontà o impegno i propri insuccessi: ‘non essere portato’ significa deresponsabilizzarsi invocando la mancanza di una qualità, diciamo così, innata, per esempio la mancanza del ‘bernoccolo della matematica’ (cfr. cap. 4). Ma non tutte le materie dispongono di bernoccoli: avete mai sentito un ragazzo veterano di insuccessi scolastici dire: non ero portato per la geografia, per la storia? Dirà piuttosto che non gli piaceva: è noto che sui gusti non si discute; se a me piace Vasco Rossi e a qualche lettore no, non si va oltre. A ciascuno i propri gusti. Abbiamo mai pensato che, nelle rappresentazioni delle materie scolastiche (presso adulti e ragazzi, insegnanti e alunni), ci sono materie che, piacciano o non piacciano, si devono studiare (e basta studiarle: d’altra parte, cosa c’è da capire nella storia, letteratura, geografia?) e materie che si capiscono (matematica, fisica)? altrimenti non c’è salvezza a scuola. Abbiamo descritto le aule scolastiche come aule di giustizia, ma su quali fondamenti morali si regge l’amministrazione della giustizia in classe? Il riconoscimento della responsabilità personale svolge un ruolo decisivo da parte degli insegnanti nella percezione e nella valutazione degli alunni: non solo al momento in cui valutano un risultato scolastico, ma anche nelle previsioni di successo e nel suggerimento dei percorsi scolastici successivi, ciò che viene chiamato orientamento scolastico-professionale. E reciprocamente, gli alunni non bravi nelle materie prestigiose

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

139

e diagnostiche della bravura (soprattutto la matematica) saranno pure non bravi, ma hanno anche imparato (almeno alcuni) il ‘mestiere di alunno mediocre’, utilizzando per sopravvivere la consolidata tecnica di invocare un’interpretazione diffusa anche fra gli insegnanti: la mancanza di capacità individuali. Anche per molti insegnanti un certo numero di alunni (c’è chi sostiene molti!) ‘non è portato’ per la matematica, forse addirittura ‘non è portato’ per la scuola. Il periodo cruciale di questa valutazione riassuntiva è l’uscita dalle scuole superiori di primo grado – qui è Rodi, qui si salta! D’altronde, le iniziative di anticipare le scelte fra continuare la scuola o entrare nella formazione professionale, e le decisioni di inasprire le norme sui voti in condotta6 rendono attuale l’intreccio fra concezioni innatiste delle abilità di apprendimento e severità nei giudizi sulla condotta (ammissione alla maturità con tutte sufficienze e introduzione del voto di condotta nel calcolo della media) con l’argomentazione: «Si torna [...] a una scuola del rigore che fa del comportamento un elemento significativo per formare la personalità dei ragazzi», e ancora «il voto in condotta farà media perché sappiamo che l’aumento di episodi di bullismo preoccupa molto genitori e insegnanti»7. Non intendiamo qui discutere queste recenti iniziative ministeriali, ma le argomentazioni ci interessano in quanto evocano non solo strategie di governo del sistema scolastico ma soprattutto una prospettiva che Foucault definirebbe «sorvegliare e punire»: una delle possibili modalità di moralizzazione della vita quotidiana nelle scuole. 6 MIUR-Ufficio stampa (28 maggio 2009), Regolamento sulla valutazione degli studenti, http://www.elledici.org/scuola/ministe ro/oggi/MIUR%20Regolamento%20sulla%20valutazione%20de gli%20studenti.pdf. 7 Da una nota riassuntiva di una conferenza stampa del ministro Gelmini, 27 gennaio 2009, http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/ articoli/articolo439852.shtml.

­140

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Siamo così di fronte alla presenza di condotte, da parte di insegnanti e alunni, che possono essere comprese sotto l’insegna di istanze morali che permeano la vita quotidiana delle scuole e delle classi. Già Rutter nel 1979 aveva riassunto questo insieme di istanze morali sotto la denominazione di ethos delle scuole. Il termine non ha bisogno di traduzione (ne abbiamo già parlato nel cap. 5) e lo ritroviamo attualmente ripreso in un documento disponibile nel sito ufficiale del Dipartimento inglese dell’Educazione8 che qui sintetizziamo: una scuola con un buon ethos è caratterizzata dalla coesione fra studenti, da attese positive degli insegnanti verso gli studenti, dall’utilizzo di ricompense frequenti e adeguate verso gli studenti, da valori condivisi e stabili nel tempo. Si tratta di scuole dove i buoni risultati scolastici non sono perseguiti e ottenuti come semplici performance, ma all’interno di un insieme di attività virtuose degli insegnanti, che riescono a governare le condotte e a orientare positivamente le caratteristiche di una vita quotidiana ordinata; dove il rispetto delle regole e degli studenti vanno di pari passo alle richieste di impegno da parte degli studenti stessi. È una sintesi degli indicatori che abbiamo già illustrato, che assumono nella nozione di ethos una specifica valenza etica. Questa sintesi trova dettagliate applicazioni in specifiche linee-guida, indirizzate alle scuole inglesi9. Una preoccupazione educativa: la demoralizzazione Abbiamo illustrato il lato costruttivo (con un dubbio sulle iniziative ministeriali!) del tema delle scuole che funziohttp://www.education.gov.uk/. http://www.standards.dfes.gov.uk/parentalinvolvement/hsa/ hsa_guidance/hsa_guidance_should2/. Per le scuole scozzesi: http://www.ethosnet.co.uk/ e per quelle irlandesi http://www.schoolethos.ie/. 8 9

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

141

nano e dell’importanza dell’impegno morale di tutti i protagonisti che le animano: potremmo dire, la presenza di realismo della ragione e di ottimismo della volontà. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla demoralizzazione, una nozione introdotta nel corso degli anni ’90 da William Damon, autore di riconosciuto prestigio negli studi sullo sviluppo morale; nozione che si riferisce alla perdita dei valori morali, documentata nei suoi studi in Usa10. Nelle scuole studiate, paragonabili al nostro ciclo dell’obbligo, gli insegnanti hanno notato, rispetto agli anni precedenti, un aumento dell’aggressività, del turpiloquio e delle scortesie e una diminuzione del rispetto verso gli oggetti di proprietà della scuola; una maggiore difficoltà degli alunni nel prestare attenzione ed una crescita delle malattie psicosomatiche; una forte tendenza verso il materialismo, inteso come possesso di oggetti costosi. Le riflessioni di Damon si allargano: la vita scolastica copre una larga parte della giornata dei ragazzi, ma sempre più spesso gli educatori non sanno cosa accade ai loro alunni fuori dalla scuola; terminato l’orario di lezione, ogni alunno torna ad essere un privato cittadino che deve rispondere di se stesso alla famiglia o alla società; la scuola ha così concluso il suo compito, almeno fino al mattino seguente. Le critiche alla scuola statunitense non finiscono qui. L’autore mette in risalto come l’atmosfera morale delle scuole sia in forte degrado anche a causa di profondi cambiamenti nell’ethos dell’insegnamento: gli insegnanti si considerano contemporaneamente professionisti specializzati e dipendenti sindacalizzati; il loro agire quotidiano non sarebbe più legato all’esercizio della responsabilità, ma ad una sorta di implicito ‘mansionario’, dove non un minuto in più del tempo previsto viene usato dopo le lezioni; inoltre sarebbero sempre di meno gli insegnanti che esigono dai 10 W. Damon, Più grandi speranze, Longanesi, Milano 1997 (ed. or. 1995).

­142

Prima lezione di psicologia dell’educazione

propri alunni impegno oltre i risultati, e sempre di più coloro che consentono ai ragazzi di cavarsela con il minimo sforzo, rendendo così la mediocrità una sorta di norma per studenti e insegnanti. Secondo Damon, l’autorevolezza dell’insegnante deve fondarsi su tre requisiti: imparzialità, sincerità e responsabilità verso gli studenti. L’imparzialità garantisce che nelle relazioni asimmetriche insegnanti/alunni non ci sia un esercizio unilaterale del potere; la sincerità consente di riconoscere i propri errori; la responsabilità è il prendersi cura dello studente per quanto riguarda l’apprendimento, il suo benessere personale, l’esercizio personale delle scelte e dei giudizi, sì da aiutarlo a diventare un membro della comunità. Purtroppo questi presupposti sembrano perdere ogni giorno terreno; per esempio, un insegnante che non interviene se vede un alunno copiare non esercita la giustizia in modo imparziale, manca di sincerità verso gli alunni e non offre loro un esempio di comportamento responsabile. In altre parole, egli ha perso un’occasione per far riflettere i suoi alunni sul valore delle regole stabilite per garantire che ognuno riceva il frutto del proprio lavoro (giustizia retributiva). Quindici anni dopo avere scritto il volume che ha aperto il dibattito sulla demoralizzazione, nel 2008 Damon ha articolato ulteriormente la sua posizione11. Attraverso una ricerca molto ampia su soggetti fra i 12 e i 26 anni, Damon ha individuato quattro tipi di studenti: i disimpegnati (22%); i dilettanti superficiali (28%), che si impegnano in diversi campi ma trovano poi un obiettivo preciso da perseguire; i sognatori (25%), che vorrebbero fare molto e bene ma non sanno come fare; i determinati (25%) a perseguire i propri obiettivi. Al di là dei dettagli statistici, Damon considera con preoccupazione la grande quantità 11 W. Damon, Purposeful Youth: Is it asking too much?, Free Press, New York 2008.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

143

di studenti che non mostrano di costruirsi degli obiettivi significativi come guida delle condotte verso il futuro, ma sottolinea anche che gli studenti stessi non ricevono molto supporto dai propri insegnanti. Quali sono degli obiettivi significativi? Conseguire buoni risultati scolastici ed entrare in un college (all’università) non sono obiettivi significativi che di per sé esauriscono il senso del vivere. Come si vede, quando si affrontano questioni relative agli obiettivi di vita e al significato di essa si entra in un territorio delicato, irto di quesiti che inducono intrecci forse inevitabili fra scuola e famiglie, e fra scuola e società. Questo contributo di Damon ci induce a riflettere sulle profonde differenze fra questi intrecci nella società americana e in quella italiana, al livello dei sistemi scolastici e degli obiettivi (compresi risorse e ostacoli) che le due società propongono ai propri giovani cittadini. Non possiamo entrare qui nei dettagli, ma abbiamo accennato a queste questioni per ricordarci che, quando si parla di vita morale, si introduce inevitabilmente la necessità di fare ricorso a livelli di analisi più ampi di quello dello sviluppo del giudizio morale in chiave individualistica e delle relazioni interpersonali e di ruolo. Un esempio pertinente ci è offerto da un commentatore del volume di Damon, Nathan Glazer, professore emerito di sociologia ad Harvard, che si chiede: Damon non pensa troppo riduttivamente ad un modello di vita professionale proprio delle classi manageriali Usa?12. Così come sono troppo pochi gli studenti che si propongono obiettivi significativi, allo stesso modo soltanto una minoranza di adulti americani occupa posizioni lavorative che offrono occasioni di pensare e operare in termini di obiettivi significativi; per la maggior parte, trovare e conservare un lavoro che sostenga le proprie famiglie sono obiettivi sufficientemente significativi. Cercare (scoprire), individuare una carriera che realizzi le proprie potenzialità 12

http://educationnext.org/purposeful-youth/.

­144

Prima lezione di psicologia dell’educazione

appare un obiettivo tipico della classe medio-alta per la maggior parte degli americani, anche in questi anni del nuovo secolo, e anche per gli studenti che aspirano al college, ma che non hanno come riferimento le classiche professioni liberali. Insomma costruire obiettivi significativi e operare per il benessere proprio ma anche degli altri sembra una delle tante missions impossible richieste non solo ai giovani, ma anche ai sistemi scolastici. Una preoccupazione educativa: copiare in classe Vediamo ora un terzo tema che caratterizza la vita morale nelle organizzazioni educative. Per ogni sistema di regole (sociali o morali che siano) è plausibile aspettarsi un corrispettivo di trasgressioni. Abbiamo già visto che fin da piccoli i bambini differenziano fra regole morali e convenzioni, e per queste individuano diversi livelli di gravità delle possibili trasgressioni. Una di queste, in ogni aula da quelle elementari a quelle universitarie, ha un nome preciso: copiare in classe. Dobbiamo a Marcello Dei13, un sociologo dell’educazione, una serie di ricerche ingegnose che presenta una panoramica sul tema, dalle scuole medie inferiori alle superiori. Dei documenta che su Google, inserendo le parole-chiave ‘copiare a scuola’, compaiono pagine del tipo: sul 13 A. Parisi, Compagni che copiano, in «Il Mulino», 1991, 3, pp. 91-100, ripubblicato in «Il Mulino», 2009, 9, pp. 863-873; M. Dei, Copiare in classe, il Mulino, Bologna, in corso di stampa (ringrazio Marcello per avermi messo a disposizione il testo prima della pubblicazione); W. Damon, The lifelong transformation of moral goals trough social influence, in P. Baltes, U. Staudiger (a cura di), Interactive minds, Cambridge University Press, Cambridge 1996; M. Dei, Lo spirito civico e i suoi nemici, in «Scuola e Città», 30 novembre, 1999 pp. 477-491. M. Dei, Sulle tracce della società civile, Franco Angeli, Milano 2002; M. Dei, Economia e società. La cultura economica dei giovani, Franco Angeli, Milano 2006.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

145

sito Fuoriditesta.it:Ragazzi/Scuola/Trucchi per copiare, Virgilio genio/Ragazzi/Scopiazzare; Impicci... Vorrei suggerire un altro metodo per copiare; sul sito skuola.net 53 trucchi per copiare; A scuola bisogna saper copiare; sul Quotidiano. Net Hi Tech-Sondaggi. Per copiare a scuola utilizzo: il cellulare, il palmare, i bigliettini di carta; Bar degli studenti. Ecco 34 metodi per copiare durante i compiti in classe. L’elenco prosegue con un ricco e dettagliato menu di trucchi e strumenti, che va da biglietti e foglietti di ogni genere a scrittura su mani, maniche, bordi della lavagna, biglietti nelle calze, nel tappo della biro, nel casco della moto e in altri luoghi del corpo14. Ma non mancano tecnologie (ormai non più) avanzate: dal cellulare al palmare collegati a Google. Monitorando questi siti, ci accorgiamo che siamo oltre l’ingegneria dei trucchi, la fantasia degli espedienti e degli strumenti ormai quotidiani; c’è qualcosa che supera la ricerca di efficienza e perfino lo stesso scopo pratico del copiare. Dei commenta che siamo di fronte all’esibizione di un autocompiacimento ludico-scanzonato, alla rappresentazione spensierata di come si deve fare a cavarsela nella vita. Un tripudio di frizzi e lazzi saluta l’apoteosi della furbizia. Se copiare è una prassi assai diffusa, ancora più diffusa è l’argomentazione a sostegno. È qui che entra in gioco la questione della vita morale nelle classi, ma anche l’eco nelle classi di una possibile demoralizzazione del tema del copiare. Secondo Dei, l’84% degli studenti oggetto di studio afferma che copiare è poco o per niente condannabile e non è giusto definirlo truffa. Se dai compiti in classe passiamo agli esami di Stato, il consenso ai raggiri cala decisamente. È prudente evitare analogie fra eventi diversi ma ne vengono alla mente 14 L’autore di questo volumetto ha chiesto qualche anno fa l’intervento di una collega, durante una prova scritta universitaria – sessione estiva – per far raccogliere una pioggia di bigliettini-fotocopie corpo 4, che scendeva da una gonnella di una studentessa molto trendy.

­146

Prima lezione di psicologia dell’educazione

molti sull’onda di cronache ricorrenti: temi prefabbricati a concorsi pubblici, certificazioni di falsi invalidi, falsi incidenti stradali, giochi televisivi truccati, false prescrizioni mediche, test di ammissione a facoltà universitarie, false attività finanziate dall’Unione Europea. Come contrappunto è pertinente citare un aneddoto che negli Stati Uniti rappresenta un caso del tutto banale. Durante una prova d’esame, uno studente di un college californiano si alza in piedi e indica al professore uno studente che copia il compito da un vicino. È immaginabile che accada in Italia? Lasciamo l’interrogativo aperto. Cerchiamo il bandolo di questa matassa ­riferendoci alle dinamiche che caratterizzano la socializzazione nelle aule scolastiche, così come suggerisce il sociologo del­ l’educazione americano Steven Brint15, secondo il quale la socializzazione in aula può essere descritta secondo un modello concentrico, organizzato intorno a un nucleo di norme e pratiche quotidiane, circondato da anelli di educazione morale. L’insegnamento delle virtù morali (se e quando si verifica, probabilmente in misura maggiore alle elementari) costituisce l’educazione morale esplicita, mentre le lezioni tratte dalla letteratura e dalla storia, come anche gli insegnanti stessi in veste di esempi morali, costituiscono gli anelli più esterni della socializzazione, e cioè l’educazione morale implicita. In particolare, fanno parte del nucleo centrale le regole che derivano, per esempio in Italia, dalle Carte dei servizi o dai Regolamenti delle scuole e dalle pratiche consolidate (ricordiamo l’ethos delle scuole?) che definiscono quali inosservanze esigono una sanzione: fare male agli altri alunni, insultare gli insegnanti, danneggiare aule, copiare e così via. Le regole scolastiche dettano anche dove gli alunni devono trovarsi nel corso della giornata scolastica e le condizioni alle quali posso15

S. Brint, Scuola e società, il Mulino, Bologna 2006.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

147

no allontanarsi dalle aule. Poiché queste regole e pratiche fanno parte del tessuto della vita quotidiana, vengono date per scontate, così come tutte le condotte routinarie, la cui influenza sulla costruzione della moralità nelle classi e nelle scuole è troppo sottovalutata. Ma che posto occupano le regole e il loro rispetto nella vita delle classi e delle scuole? In altri termini: rappresentano un tipo di condotta da ottenere, in quanto componente caratterizzante dell’educazione alla cittadinanza? sono uno strumento per raggiungere risultati scolastici positivi? e quindi sono necessarie per avere successo nella scuola, oppure trasgredirle (per esempio, copiando) può essere strumento di successo? Della socializzazione nelle scuole e nelle classi fa parte anche (forse soprattutto, ma anche in questo caso gioca molto l’ethos delle scuole) la valutazione delle prestazioni individuali degli alunni. Le pratiche e le routine scolastiche socializzano gli alunni ad una vita di valutazione basata sulle prestazioni individuali. Possiamo pensare ad una vita quotidiana nelle classi senza interrogazioni né compiti in classe? L’impiego costante della routine organizzativa scolastica a tre fasi – assegnazione di compiti, prestazione, valutazione – induce gli alunni a distinguere i propri sforzi individuali da quelli dei compagni. Le valutazioni scolastiche sono formali, pubbliche, cariche di conseguenze (cfr. cap. 4). È utile ricordare come, già verso la fine degli anni ’60, Jackson, il padre delle nozioni di curriculum esplicito (il che cosa: il contenuto dell’insegnamento e i programmi) e di curriculum implicito (il come: le dinamiche, i processi) avesse anticipato l’influenza della competizione e dell’identità personale sulle conseguenze della valutazione: Poiché la valutazione è così importante nelle scuole, queste ultime cercano di impartire non solo i valori dell’impegno e dell’autorealizzazione, ma anche diversi stratagemmi per la gestione della valutazione e la difesa dell’identità. Gli studenti

­148

Prima lezione di psicologia dell’educazione

apprendono a valorizzare le lodi, a pubblicizzare le valutazioni positive e a nascondere quelle negative16.

Appare chiaro, così, che il divieto di copiare non è un aspetto secondario dell’educazione morale, ma uno strumento strategico caratterizzante il nucleo centrale della socializzazione che si realizza nelle scuole e nelle aule. Ma sono attive anche dinamiche riferibili agli insegnanti e alla società più ampia, come abbiamo visto a proposito della socializzazione in aula. Pensiamo per esempio alle condotte, documentate in molti paesi, di falsificazione delle valutazioni degli apprendimenti, da parte di singoli insegnanti ma anche da parte delle scuole come tali. Negli Usa si stima che siano diventate ‘epidemiche’ da quando, nel 2001, la legge No Child Left Behind17 ha elevato il livello di difficoltà dei test, stabilendo che i singoli Stati possano chiudere le scuole che non raggiungono gli standard prestabiliti. In Italia ha fatto scalpore (durato però lo spazio di una notizia quotidiana, e con una quota di ipocrisia notevole) la notizia che i test di verifica delle competenze degli alunni di scuole elementari affidati alle cure dell’Invalsi siano stati compilati con la complicità di docenti e (forse) di dirigenti. Probabilmente queste contraffazioni o falsificazioni organizzate dei test non hanno inciso in misura significativa sul livello di preparazione degli alunni. Certo è che delegittimano i criteri di imparzialità e di buona fe16 P.W. Jackson, Life in the classroom, Holt, Rinehart & Wilson, Troy 1968, p. 26. 17 «Act NCLB is the latest federal legislation that enacts the theories of standards-based education reform, which is based on the belief that setting high standards and establishing measurable goals can improve individual outcomes in education. The Act requires states to develop assessments in basic skills to be given to all students in certain grades, if those states are to receive federal funding for schools. The Act does not assert a national achievement standard; standards are set by each individual state»; http:// en.wikipedia.org/wiki/No_Child_Left_Behind_.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

149

de che ci si aspetta orientino le condotte degli insegnanti, mentre legittimano la pratica copiatoria e si fanno beffe del merito. È una lezione applicata di educazione civica alla rovescia. L’intento di dare un’immagine positiva delle scuole mina alla radice e squalifica gli obiettivi delle valutazioni, mentre veicola, da parte del medesimo sistema scolastico, la giustificazione per cui diventano leciti (o almeno tollerati, o minimizzati) a livello istituzionale comportamenti che definisce illeciti a livello individuale. Una preoccupazione educativa: l’assenteismo di alunni e insegnanti Ma le preoccupazioni educative non finiscono qui. Cosa dire dell’assenteismo? Il fenomeno è diffuso in tutti i paesi e interessa alunni e insegnanti. Ma andiamo con ordine. A proposito degli alunni, come documenta nel suo sito Norberto Bottani18, si tratta di un problema ignorato dai sistemi scolastici fino a una ventina d’anni fa, quando i Ministeri dell’educazione dichiaravano alle organizzazioni internazionali che l’assenteismo non poteva esistere, perché esisteva l’obbligo scolastico. Nel 1990, nella maggior parte dei sistemi scolastici non esistevano dati statistici sulle dimensioni del fenomeno. Autorità scolastiche e organizzazioni sindacali degli insegnanti ne negavano l’importanza e addirittura l’esistenza. Nel corso dei decenni successivi l’attenzione è aumentata, tanto che ora si parla di un fenomeno dilagante: non è più solo un comportamento presente nelle scuole superiori di primo e secondo grado, ma anche fra gli alunni della scuola primaria. Se18 Norberto Bottani è un esperto di sistemi educativi di reputazione internazionale, più volte chiamato come consulente, nel recente passato, da diversi ministri italiani dell’Istruzione (variamente denominati nel corso dei decenni): http://norberto.bottani.free. fr/spip/. http://oxydiane.net/spip.php?page=imprimir_articulo&id_ article=420.

­150

Prima lezione di psicologia dell’educazione

condo il quotidiano francese «La Provence»19, a Marsiglia si stima che ci sarebbero già circa 2000 alunni di 8-9 anni che non vanno più a scuola. Secondo le stime, in Francia il 7% degli studenti di scuola media (inferiore), ovverosia circa 300.000 studenti, marina regolarmente la scuola con una scusa o con un’altra. Le assenze si ripetono e si moltiplicano durante l’anno. La Svizzera non è da meno: sul sito swissinfo.ch, nel 2006, si affermava che un alunno su due marina saltuariamente la scuola e i controlli sono quasi inesistenti (secondo uno studio del Fondo nazionale svizzero per la ricerca). Il fenomeno deve essere considerato un problema non solo individuale, ma anche istituzionale, anche se in Svizzera viene spesso sottovalutato da parte dei responsabili delle politiche educative. Gli insegnanti e i responsabili cantonali dell’educazione tollerano questo fenomeno, come se fosse soltanto una questione individuale. In Italia, «tutti o quasi chiudono un occhio. Pochissimi ne parlano. Non ci sono dati attendibili sulla sua ampiezza, mancano quasi del tutto le indagini scientifiche, perché la pedagogia italiana si occupa di ben altro»: così si esprime l’Adi20, che fornisce nel suo sito informazioni su quanto succede sia in Inghilterra e in Francia, sia in Italia grazie ai dati di un’indagine svolta dall’associazione AssoUtenti nel 1997-1998 e di una dell’Adi, in anni più recenti, presso un istituto professionale bolognese. Dal momento in cui il fenomeno è considerato dilagante, si corre ai ripari con politiche sanzionatorie e repressive: in Francia è stata presentata nel 2009, dal governo Sarkozy, una proposta di legge per sospendere l’erogazione degli assegni familiari ai genitori in caso di ripetute assenze scolastiche ingiustificate dei figli. Secondo il governo fran19 20

15 giugno 2010. Associazione Docenti Italiani, http://ospitiweb.indire.it/adi/.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

151

cese, l’assenteismo va infatti imputato alle famiglie, che si disinteressano di quanto fanno i figli a scuola. La scuola sarebbe del tutto incolpevole di fronte a un fenomeno pur riconosciuto dilagante. In Inghilterra, da anni, la politica è ancora più severa: tra il 2005 e il 2007 133 genitori sono stati imprigionati, proprio perché tolleravano l’assenteismo dei propri figli. Sempre in Inghilterra, circa 10.000 contravvenzioni all’anno vengono inviate ai genitori che si ritiene non svolgano coscienziosamente il loro mestiere di educatori, ad esempio non collaborando con la scuola. Purtroppo questa politica repressiva si è rivelata inefficace, come è documentato dalle cifre dell’assenteismo scolastico, che sono persino aumentate nel corso dell’anno scolastico 2008-2009. Anno dopo anno l’assenteismo scolastico in Inghilterra ha continuato ad aumentare. Alcuni commentatori hanno stilato un elenco di possibili ragioni, anche comprensibili, dell’assenteismo, soprattutto nelle scuole dove episodi di violenze sono diffusi: sottrarsi al racket, necessità di lavorare, situazioni familiari difficili, risultati scolastici disastrosi, scelte scolastiche sbagliate. È del mese di luglio 201021 (proprio mentre scriviamo) un’iniziativa del governo inglese di autorizzare il ricorso alla forza fisica (con l’unica avvertenza di non ferire i ragazzi) per impedire comportamenti antisociali. Inoltre gli insegnanti possono intervenire non solo nel caso di armi, droghe, e alcool (casi già previsti dalla legge vigente) ma anche per dissuadere gli alunni dal maneggiare cellulari, mp3, materiale pornografico e tutto ciò che sia considerato improprio. Ancora: gli insegnanti possono imporre i cosiddetti ‘provvedimenti di detenzione’ senza le 24 ore di preavviso già previste. I puniti, cioè, possono essere costretti a fermarsi a scuola nelle ore pomeridiane, senza passare da casa, per essere sottoposti a lezioni di recupero. Infine agli insegnanti accusati di maltrattamen21

«La Stampa», giovedì 8 luglio 2010, p. 15.

­152

Prima lezione di psicologia dell’educazione

ti o di comportamenti scorretti è assicurato l’anonimato, per proteggerli da false accuse. A complemento di questo pacchetto, il ministro desidererebbe che tutti gli studenti (delle grammar schools: 11-18 anni) dal 2011 indossassero una divisa propria di ogni scuola. Occorre prudenza tutte le volte che leggiamo notizie del genere; per questo abbiamo controllato sul sito ufficiale del Ministero inglese, dove sono effettivamente reperibili queste regole, che assumeranno la veste di un disegno di legge da sottoporre al Parlamento22. Ma accanto alla repressione si interviene anche con un ventaglio di ‘carote’: per esempio, sempre in Inghilterra, si pagano gli studenti assidui, che non marinano; si offrono posti allo stadio per assistere alle partite di calcio della squadra locale; si distribuiscono t-shirt premio con il logo della scuola e simili. Gli studenti, probabilmente, si divertono ad accaparrarsi queste ‘carote’; ma lo sanno che non si va a scuola per ricevere un posto allo stadio o una maglietta. È anche possibile che a breve l’assenteismo diminuisca (come è successo in Italia con l’obbligo del casco: diminuzione temporanea di conseguenze gravi in caso di incidenti); si accettano premi e incentivi, si fa finta di essere diventati saggi, di essere diventati studenti assidui, ma poi l’assenteismo riparte alla grande. Una preoccupazione educativa: gli insegnanti Vogliamo parlare anche degli insegnanti? La melodia non muta, ma non intendiamo affrontare l’argomento dal punto di vista delle recenti iniziative governative contro i dipendenti fannulloni del pubblico impiego. Citiamo soltanto un titolo comparso su un quotidiano nazionale 22 Sito del Ministero dell’Educazione inglese, http://www.education.gov.uk/news/press-notices-new/free-teachers.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

153

nel 2007, anche prima delle iniziative anti-fannulloni23. La denuncia di non pochi dirigenti scolastici è da considerare seriamente, così come i provvedimenti disciplinari invocati o messi in opera. Successivamente, sul «Sole24Ore» del 29 febbraio 2008, l’articolo Colpire l’assenteista protegge i più deboli ci informa che nel North Carolina, Stati Uniti, si registra, in media, un giorno in più di assenza per insegnante nelle scuole pubbliche con alunni appartenenti a famiglie collocate nel quartile più basso della distribuzione dei redditi, rispetto a quanto accade nelle scuole al servizio delle famiglie più ricche (quarto quartile). Le scuole con una più elevata incidenza e soprattutto persistenza dell’assenteismo degli insegnanti sono quelle frequentate da studenti poveri e appartenenti a gruppi etnici svantaggiati. È ragionevole ipotizzare che l’assenteismo degli insegnanti influenzi negativamente l’apprendimento. Questo studio conferma questa ipotesi misurando, con un’attenta analisi statistica, che dieci giorni di assenza di un insegnante hanno, sui risultati dei test di matematica, un effetto pari a quello di avere un insegnante appena assunto piuttosto che un insegnante con due anni di esperienza professionale. Pur con tutta la prudenza necessaria quando si citano ricerche tratte da sistemi scolastici così differenti dal nostro, il tema è pronto per passare da riferimenti occasionali, ispirati da fatti di cronaca, ad una presa in carico effettiva del fenomeno, evitando accuse e difese reciproche fra scuola, famiglie e studenti. Abbiamo preso in considerazione l’assenteismo dai due punti di vista degli alunni e degli insegnanti, per introdurre una riflessione che eviti posizioni frettolosamente 23 Il prof è assenteista? Lo sospendo: Pugno di ferro contro i ‘cattivi maestri’. «L’esempio sono loro», «la Repubblica – Roma», 12 settembre 2007, p. 2.

­154

Prima lezione di psicologia dell’educazione

accusatorie ma paralizzanti sul piano della comprensione. Il contrappunto dell’assenteismo degli alunni è la noia, la mancanza di senso e di prospettive future; il contrappunto dell’assenteismo degli insegnanti è la sindrome del burnout: insegnanti bruciati, esauriti, senza futuro, senza risorse. Annoiati ed esauriti, i due principali protagonisti della vita quotidiana delle classi e delle scuole appaiono, al di là delle ricerche e delle statistiche (che pure documentano le dimensioni dei fenomeni), coinvolti e avvinghiati in una spirale viziosa che li asfissia e li sfinisce. Se poi aggiungiamo la posizione dei genitori, con molte delle loro associazioni che aggiungono accuse ad accuse, allora sembra proprio che non ci sia via d’uscita. E invece le ricerche possono offrire spunti per riflessioni e interventi non occasionali. Una preoccupazione educativa: le violenze nelle scuole Non possiamo concludere questo capitolo senza un argomento in grado di colpire al cuore la vita quotidiana delle scuole e delle classi, e cioè i fenomeni di violenze. Usiamo volutamente il termine violenze e non bullismo, per contribuire a ridurre equivoci sul piano della comprensione di una gamma di fenomeni molto diversificati. La maggior parte degli episodi di cui si viene a conoscenza dai mezzi di informazione sono opportunamente classificabili come episodi di violenza privata (reati contro la persona, suggeriscono i giuristi), tentativi o veri e propri reati di stupro (individuale o di gruppo – anche questi, peraltro, delitti contro la persona) o reati contro il patrimonio (edifici scolastici, giardini, luoghi pubblici e simili). Il termine ‘bullo’ ha un significato ben delimitato nella letteratura specialistica, e i colleghi psicologi che studiano le condotte di bullismo dovrebbero intervenire con decisione, per stabilire opportune distinzioni e non aggravare la confusione. Un singolo o due o tre ragazzi che attirano una compagna in qualche luogo o la aggrediscono senza troppi preamboli non sono affatto dei bulli, compiono un reato di violenza

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

155

contro la persona, più o meno aggravato da specifiche circostanze; ragazzi che allagano una scuola o distruggono arredi, deturpano luoghi pubblici, compiono atti di vandalismo; ragazzi che circondano un compagno, lo isolano e gli impongono di cedere un cellulare o del denaro compiono un tentativo di rapina (magari a mano armata di un coltellino, o simili). Il ricorso ad immagini credute orripilanti, quali il branco (poveri lupi, ai quali tutto si può rimproverare salvo che comportamenti simili a quelli di certi gruppi di ragazzi o adulti) serve solo a far perdere la collocazione sociale e giuridica di queste condotte, provocando soltanto superficiali giudizi di orrore temporaneo. Affrontare la questione delle condotte trasgressive nei minori (nelle scuole o altrove) è argomento assai complesso e articolato. Abbiamo già offerto una prima ricognizione di condotte violente. Ma esiste anche un’ampia varietà di violenze morali o simboliche, sotto forma di episodi singoli oppure a ripetizione periodica o sistematica: si tratta di episodi stressanti, raramente penalizzati e non necessariamente passibili di penalizzazione. Alcuni autori francesi utilizzano il termine inciviltà: ingiurie verbali – parole che feriscono e umiliano –, villanie, comportamenti umilianti, diffusione di pettegolezzi fino a false informazioni (tese a minare la reputazione) che possono essere considerate addirittura calunnie. Come si può notare, si passa da condotte esplicitamente sanzionate dal codice civile e penale a condotte che costituiscono una galassia variegata, con confini fluttuanti, largamente influenzati dall’eco che tali condotte provocano nei soggetti che ne sono bersaglio e nella pubblica opinione, e soprattutto dal grado di intollerabilità e/o sofferenza che esse inducono nei soggetti e nelle varie componenti dell’opinione pubblica. D’altra parte, non si può certo limitarsi a considerare soltanto le condotte violente di pertinenza del codice penale (minorile, ma non solo). Esse non sono immodifica-

­156

Prima lezione di psicologia dell’educazione

bili: sono costruite e legittimate dalle specifiche culture e dalle loro trasformazioni (pensiamo ai fenomeni definiti come mobbing, di recente entrati nelle fattispecie di pertinenza giuridica, alle nozioni di danno biologico e di danno psicologico). Anche il legislatore si trasforma nel corso dei decenni: pensiamo ai crimini di sangue, che nel XIX secolo erano raramente perseguiti se frutto di risse nelle bettole, mentre in epoca napoleonica i furti dei domestici verso i padroni erano duramente condannati. Da ultimo, le violenze nelle scuole e altrove sono di ampiezza globale, nel senso che sono documentate in tutti i paesi con caratteristiche di cronicità, emergendo di tanto in tanto sotto forme eclatanti, come il caso, nel 1999, della scuola di Columbine, in Usa24, e un altro più recente in Finlandia25. In un recente convegno internazionale del 200826, sono convenuti rappresentanti di 50 paesi, fra i quali Giappone, Giordania, Brasile, Norvegia, Israele, Malesia, Sud Africa, Etiopia, Usa, allarmati da fatti definiti da loro stessi atroci e insensati. Per rendere ancora più dettagliata la documentazione è ormai chiaro che le violenze non sono appannaggio soltanto dei paesi industrializzati, ma anche di quelli che dal 1960 sono indicati (con suprema ipocrisia) paesi in via di sviluppo. Le ricerche sul tema delle violenze nelle scuole sono caratterizzate da due linee diverse: una più centrata sulle 24 http://history1900s.about.com/od/famouscrimesscandals/a/co lumbine.htm. 25 http://blog.panorama.it/mondo/2007/11/07/finlandia-stragestile-columbine-in-liceo-nove-morti/. 26 R.A. Astor, R. Benbenishty, R. Marachi, Making the case for an international perspective on school violence: Implications for theory, research, policy, and assessment, in S.R. Jimerson and M.J. Furlong (a cura di), Handbook of school violence and school safety: From research to practice, Erlbaum, Mahwah (NJ) 2006, pp. 257-273.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

157

caratteristiche individuali quasi personologiche dei soggetti attori e vittime (sono le ricerche sul bullismo27), l’altra centrata sulle relazioni fra qualità delle scuole e presenza di episodi di violenze. È su quest’ultima linea che intendiamo fornire informazioni, in quanto più coerente con l’insieme delle riflessioni di questo volume. Siamo d’altra parte in linea con un approccio largamente condiviso in ambito internazionale, dove si raccomanda di andare oltre la documentazione fornita sotto forma di self-report (negli ultimi mesi quante volte hai assistito/subito episodi di...) per integrarla con osservazioni prolungate nelle classi e nelle scuole, informazioni di altri attori (insegnanti, dirigenti, personale non docente e simili), caratteristiche dei quartieri dove sono presenti le scuole. È questa la prospettiva presente nella ricerca francofona, che riassumiamo con una sintesi offerta da un dossier (certo attuale, anche se non recentissimo) di «Le Monde de l’Education»28 (una rivista mensile francese che tutti coloro che si occupano di scuola in Italia potrebbero consultare sistematicamente) dedicato al nostro tema. Il titolo è già di per sé emblematico: Les non-dits de la violence scolaire. Evocare le violenze nelle scuole è come tirare il filo di un’esca che attrae un pesce. Fuor di metafora, parlare di violenze nelle scuole obbliga ad affrontare sia le questioni collegate all’insuccesso scolastico e alle modalità di fare fronte ad esso, sia le questioni della giustizia, delle sanzioni e dell’esercizio dell’autorità; implica inoltre affrontare le relazioni con le famiglie, così come le condizioni di vita nei quartieri. Isolare la violenza, in quanto fenomeno in sé isolato, è una posizione indifendibile, così come la sua negazione, visto che si tratta di un fenomeno presente in forme anche 27 F. Carugati, Le scuole al tempo delle violenze: fra ordine pubblico e educazione alla legalità, in G. Crocetti, D. Galassi (a cura di), Bulli marionette. Bullismi nella cultura del disagio impossibile, Pendragon, Bologna 2005, pp. 159-178. 28 «Le Monde de l’Education», giugno 2004, 326, pp. 20-34.

­158

Prima lezione di psicologia dell’educazione

molto simili in tutti i sistemi scolastici. I risultati di programmi di ricerche, che in Francia sono condotte sistematicamente da oltre vent’anni, documentano che si tratta di un insieme di fenomeni fluttuanti nel tempo e negli ordini scolastici. Ma il dato costante è che le scuole ‘fanno differenza’: le scuole di quartieri appartenenti a ‘zone sensibili’ (gli autori francesi sono prodighi di definizioni delicate ed eufemistiche) sono sistematicamente più colpite dalle violenze. Come commenta Eric Debarbieux, il direttore dell’Osservatorio sulla violenza29, «lo studio della violenza nelle scuole, è lo studio dell’esclusione sociale»30. Si tratta, nella larghissima maggioranza dei casi, di micro-violenze croniche. Per documentare quanto questo tema mantenga un posto di rilievo nell’agenda politica francese, nel periodo 1992-2002 sono stati varati sei piani di intervento specifici dai governi che si sono succeduti, pur di diverso orientamento politico. A quali condizioni questi piani hanno prodotto qualche effetto positivo? I responsabili ministeriali riconoscono che si tratta di fenomeni che rimandano all’insieme delle condizioni di funzionamento dei sistemi scolastici; non è possibile una lotta a livello individuale dei singoli alunni: occorre agire nel quadro di interventi progettati da équipe integrate di insegnanti ed esperti, e con il coinvolgimento dei partner responsabili delle politiche sociali ed educative dei quartieri e delle città. Ancora più recentemente (aprile 2010), durante la rea­ lizzazione degli Stati generali sulla sicurezza nelle scuole, promossi dal Ministero dell’Educazione francese31 (sappiamo quanto i francesi siano affezionati all’organizzazione di Stati generali!), Debarbieux ha confermato diversi punti fermi sul tema delle violenze: diffidare dalle mani29 http://www.ijvs.org/2-6035-Observatoire-International-de-laViolence-a-l-Ecole.php. 30 «Le Monde de l’Education», cit., p. 23. 31 http://les-etats-generaux-de-la-securite-a-l-ecole.education.go uv.fr/pid23905/les-videos.htm.

7. Vita morale ed altre preoccupazioni educative

159

polazioni di episodi eclatanti (i veri e propri crimini nelle scuole sono rari, mentre i fenomeni seri risiedono nelle croniche inciviltà e soprusi quotidiani); documentare localmente e individuare le specifiche diversità nelle singole scuole; evitare l’illusione di trovare cause uniche (non è la tv, non sono i videogiochi, né i genitori inetti né tantomeno il maggio ’68). Sono i fattori di rischio variamente combinati fra di loro (caratteristiche individuali dell’aggressore, condizioni familiari, rapporti scuole-quartieri, turn-over degli insegnanti, composizione socio-culturale delle classi, impegno condiviso dei docenti – ancora una volta l’ethos delle scuole) che rendono più o meno probabile il passaggio all’azione di alcuni fra gli alunni. Un’attenzione specifica va rivolta alla solitudine di alunni e insegnanti, pur nell’affollamento, a volte sconsiderato, delle scuole (1500 alunni per 400 insegnanti, pari alle dimensioni di una media industria); solitudine che costituisce uno dei maggiori fattori di rischio, non solo per l’efficacia e l’ethos delle scuole, ma anche per la probabilità di produrre violenze32. E ancora, occorre evitare l’illusione che le punizioni di per sé, e tanto meno la cosiddetta tolleranza zero, producano effetti positivi a medio e lungo termine; alle punizioni, pur severe ma isolate, fanno seguito condotte ancora più trasgressive e accanite. Sanzioni all’interno di un insieme di provvedimenti derivanti dai punti precedenti, all’insegna di un’autorevolezza salda, stabile ed equilibrata, sono più efficaci. Come si vede, si tratta di considerazioni e suggerimenti assai diversi da quelli indicati in ambito inglese; ma per attenuare l’ottimismo che potrebbe scaturire dalla prospettiva francese, informiamo che al termine degli Stati generali nell’aprile 2010, il ministro dell’Educazione nazionale 32 Non possiamo dimenticare che David Riesman, sociologo, scriveva negli anni ’50 un volume dal titolo laicamente profetico: La folla solitaria, il Mulino, Bologna 1956 (ed. or. 1950).

­160

Prima lezione di psicologia dell’educazione

Chatel «preferisce Sarkozy agli esperti», come comunica sul suo sito il Café pédagogique33. E tuttavia, poiché siamo degli ottimisti ad oltranza, già il fatto di attivare un dibattito a livello nazionale e di ascoltare un rispettabile gruppo di esperti mostra (nonostante il motto politique d’abord, che soffia in tutta Europa fra i governi che brandiscono la sicurezza a tolleranza zero) che esiste l’intenzione di mantenere attuale il tema della giustizia e della vita morale nei sistemi scolastici. Un messaggio non banale anche per le scuole italiane, gli alunni, i loro insegnanti e genitori: ci sono responsabili di politiche educative che sono attenti (almeno nelle dichiarazioni) alle condizioni di giustizia e di legalità che devono governare la vita quotidiana delle scuole. C’è un giudice a Berlino... ci permettiamo di concludere, anche se gli alunni non sono mugnai e gli insegnanti non sono in alcun modo degli imperatori di Prussia, desiderosi di costruirsi dimore estive non disturbate dalla vicinanza di brutti mulini. E tuttavia la socializzazione alla legalità, intesa come virtù privata e pubblica, non è certo di poco rilievo, in questi anni, nel corso della vita quotidiana delle scuole.

http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2010/04/ EtatsGenerauxSecuriteEcole.aspx#a2. 33

Indici

Indice dei nomi

Abravanel, R., 64 e n, 65 e n. Allen, W., vii. Antonietti, A., 20n, 39n, 68n, 69n. Astor, R.A., 156n. Atkinson, R.C., 65. Baldwin, J., ix e n. Baltes, P., 144n. Baltes, P.B., viiin. Barbieri, M.S., 130n. Barbieri, P., 19n, 61n. Bartlett, F., 10. Beauvois, J.-L., 75n, 76n. Benbenishty, R., 156n. Binet, A., ix e n. Blaker, R.M., 28n. Bottani, N., 149 e n. Brint, S., 146 e n. Bronfenbrenner, U., 17 e n, 18, 23. Bruer, J.T., 6n. Buchs, C., 60n, 61n. Butera, F., 47, 55 e n, 60n, 61n, 82n. Camaioni, L., 23n. Cannone, S., 69n. Cartwright, D., 56n. Carugati, F., viiin, xn, 17n, 18n,

19n, 20n, 21n, 22n, 24n, 25n, 28n, 30n, 32n, 37n, 38n, 39n, 61n, 66n, 68n, 69n, 74n, 80n, 84n, 86n, 101n, 107n, 110n, 124n, 134n, 157n. Cattaneo, C., ix e n. Caverni, J.-P., 81n. Chatel, L., 160. Coleman, J., 87-88, 96. Conant, J.B., 64n. Confalonieri, E., 20n, 69n. Cooley, C.H., 41. Corsaro, W.A., 18n, 25n, 120n, 121. Crocetti, G., 157n. Cubelli, R., 4n, 8 e n, 9-10. Damon, W., 141 e n, 142 e n, 143, 144n. Davis, H., 52n. Debarbieux, E., 158. Deci, E.L., 57n. Dei, M., 144 e n, 145. Della Sala, S., 7 e n. De Paolis, P., 19n, 32n, 61n. Dijksterhuis, A., 63n. Doise, W., viiin, 17 e n, 19n, 29n, 30n, 42n. Dubet, F., 48n. Dubois, N., 74n, 75n.

­164 Dumas, F., 51n. Duru-Bellat, M., 48n. Duveen, G., 20n, 30n. Ecob, R., 96n. Edmonds, R., 88. Emiliani, F., 18n, 22n, 28n, 111n. Erba, M., 32n. Fernandes Pratas, A., 84n. Festinger, L., 50 e n. Forzi, M., 85 e n, 86. Foucault, M., 139. French, J.R., 56n. Furlong, M.J., 156n. Galassi, D., 157n. Gattullo, M., 81 e n. Gelmini, M., 139n. Genestoux, N., 51n. Gherardi, V., 19n, 61n. Gilly, M., viiin, 17n, 30n, 110n. Girotto, V., 29n, 134n. Glaser, R., 82 e n. Glazer, N., 143. Goffman, E., 24, 25n. Griguolo, M., 130n.

Indice dei nomi 15 e n, 16 e n, 17-18, 28n, 29, 33-35, 36 e n, 130n. Lemann, N., 65n. Lewin, K., 58. Lewis, D., 96n. Lloyd, B., 20n. Loose, F., 74n. Lurija, A.R., ixn. Lutero, M., 80. Marachi, R., 156n. Marchetti, A., 20n, 69n. Martelli, C., 69n. Martinot, D., 58n. Matteucci, M.C., 74n. Maughan, B., 89n, 100n, 101n. Mead, G.H., ixn. Miguel, I., 19n. Milgram, S., 57 e n. Montaigne, M. de, 129. Monteil, J.-M., 42n, 44n, 45n, 51n, 62 e n, 76n. Mortimore, P., 89n, 96n, 100n. Moscovici, S., 34 e n, 41n. Mugny, G., 19n, 30n, 32n, 37n, 52n, 54n, 61n, 68n, 86n.

Heckhausen, H., 82 e n, 84n. Heider, F., 35 e n. Huguet, P., 42n, 44n, 45n, 51n.

Noizet, G., 81n.

Jackson, P.W., 147, 148n. Jimerson, S.R., 156n. Johnson, L.B., 87. Jouffre, S., 76n. Joule, R.V., 58 e n, 76n.

Palmonari, A., 17n, 25n. Paolini, M., vii. Parisi, A., 144n. Perelman, L., 66 e n. Pérez, J.A., 30n, 52n, 54n. Perrenoud, Ph., 23n, 80n. Perret-Clermont, A.-N., viiin, 30n. Piaget, J., ix e n, 22, 39, 56, 129130, 132. Pires Valentim, J., 19n. Psaltis, Ch., 30n. Py, J., 76n.

Keil, F.C., 13. Kennedy, J.F., 87. Kohlberg, L., 129-130, 132. Koole, S.L., 63n. Kosslyn, S.M., 6 e n. Legrenzi, P., xi e n, 11 e n, 12-14,

Ouston, J., 89n, 100n.

165

Indice dei nomi Raven, B.H., 56n. Ravenna, M., 19n, 61n. Rheinberg, F., 82 e n, 83 e n, 84. Ricci Bitti, P.E., 25n. Riesman, D., 159n. Romagnoli, S., 4n. Rommetveit, R., 27n, 28n. Rossi, V., 138. Roux, J.-P., 110n. Rutter, M., 89 e n, 90, 96, 100n, 101n, 108, 140. Ryan, R.M., 57n. Sabbadini, L.L., 111n, 116 e n. Sammons, P., 96n. Sandoval-Hernandez, A., 88n. Sarchielli, G., 25n. Sarkozy, N., 150, 160. Scappini, E., 38n, 107n. Selleri, P., viiin, xn, 4n, 20n, 24n, 38n, 39n, 66n, 68n, 69n, 74n, 80n, 84n, 101n, 107n, 110n, 124n, 134n. Seneca, 129. Shaw, G.B., vii. Simon, T., ixn. Smeets, K., 63n. Smelser, N.J., viiin. Smith, A., 89n, 100n.

Socrate, 129. Somat, A., 76n. Staudiger, U., 144n. Stipek, D.J., 136n. Stoll, L., 96n. Toczek, M.-Ch., 58n. Tomasetto, C., 74n. Trognon, A., 110n. Turiel, E., 130n, 132. Ugazio, V., 21n. Umiltà, C., 11 e n, 12-14. van Knippenberg, A., 63n. Versari, S., 124n. Virzì, P., 51. Vygotskij, L.S., viii, ix e n, x. Wallon, H., ix e n. Weber, M., 80. Weiner, B., 15, 69 e n, 70-71, 73, 74n, 77 e n, 80. Weir, P., 123. Weisberg, D.S., 13. Williams, R., 123. Witte, E., 52n. Young, M., 64n.

Indice del volume

Premessa

vii

L’avventura comincia, p. vii

1. Dal cervello alla mente

3

Le neuroscienze: dai risultati ai miti, p. 4 - Le neuroscienze e il rischio della neuro-mania (anche in educazione), p. 11 - Di che mente si tratta?, p. 15

2. Sviluppo, educazione, socializzazione

17

Torniamo al postulato sociale, p. 29 - Sistema e metasistema: un inquadramento concettuale efficace, p. 34

3. Come si impara?

42

Insegnare e imparare: una dinamica di influenza sociale?, p. 52 - Meritocrazia: un’etichetta ambigua, p. 61

4. Giudizi sociali e valutazioni

68

Valutazione dei risultati scolastici: quanto è ‘giusta’ una valutazione?, p. 70 - Gli obiettivi delle punizioni, p. 73 - Scelte disciplinari e manipolazione delle impressioni, p. 76 - Dai giudizi ai voti alle norme di riferimento, p. 81

5. Effetto scuola, effetto classe 15.000 ore a scuola, p. 89 - Sono efficaci le scuole oppure sono bravi gli alunni?, p. 94 - Luci e om-

87

­168

Indice del volume bre: la riflessione continua, p. 99 - Dalle scuole alle classi, p. 101

6. Il fascino discreto della vita quotidiana nelle organizzazioni educative

110

Minori nelle famiglie che cambiano, p. 112 - La vita quotidiana nella fascia di età scolare, p. 114 La vita quotidiana: opportunità di apprendimento e di socializzazione, p. 119 - E la vita quotidiana in casa?, p. 124

7. Vita morale, trasgressioni, violenze ed altre preoccupazioni educative

128

Regole e norme nella vita quotidiana, p. 129 - Dal ragionamento alla vita quotidiana, p. 136 - Una preoccupazione educativa: la demoralizzazione, p. 140 - Una preoccupazione educativa: copiare in classe, p. 144 - Una preoccupazione educativa: l’assenteismo di alunni e insegnanti, p. 149 - Una preoccupazione educativa: gli insegnanti, p. 152 Una preoccupazione educativa: le violenze nelle scuole, p. 154

Indice dei nomi

163