Prima lezione di filosofia morale
 9788842089346

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Prima lezione di filosofia morale

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8934-6

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Cosa aspettarci dalla filosofia morale

1.1. Il campo della filosofia morale e la specificità delle problematiche morali attuali Rifiuto di ogni forma di violenza nei confronti di esseri umani e di qualsiasi essere senziente, lotta contro le iniquità derivanti da atteggiamenti discriminatori nei confronti di esseri umani in nome di presunte e pregiudiziali diversità tra loro1. Sono solo alcune delle grandi conquiste etiche del passato che continuano a richiedere una continuità di attenzione anche nelle odierne società democratiche e civili. Si tratta di impegni etici che richiedono una vigilanza costante se, come è sotto gli occhi di tutti, le violazioni di diritti e principi dati per acquisiti sono spesso di attualità nelle nostre società. Basta questo fatto per mettere in crisi qualsiasi ricostruzione ottimistica in termini progressivi della storia morale dell’umanità, spingendoci piuttosto a ipotizzare una vicenda culturale umana caratterizzata da corsi e ricorsi. Muovendoci su di una base del tutto ipotetica e congetturale possiamo provare ad azzardare una caratterizzazione delle situazioni morali tipiche del nostro tempo secondo l’indice della novità e, in un certo senso, dell’esclusività. Anche qui le risposte potrebbero essere diverse e si potrebbe sostenere che sono proprie del nostro tempo le questioni rivolte a segnare un superamento delle discriminazioni di genere – tra maschi e femmine, ma anche nel

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senso del superamento di un uso esclusivo e limitativo del riconoscimento delle identità sessuali – o le questioni della giustizia distributiva nelle risorse tra persone che vivono in diversi paesi o zone geografiche della terra. Ma in questo testo avanziamo l’ipotesi che la riflessione di filosofia morale di quest’inizio del XXI secolo si caratterizzi per il fatto di privilegiare le questioni pratiche concernenti le condotte degli esseri umani che incidono sulla vita umana, animale e vegetale. Al centro della nostra riflessione porremo quindi sia le situazioni di nascita, cura e morte degli esseri umani rese possibili dagli sviluppi della medicina e della ricerca biologica negli ultimi decenni, sia quelle coinvolte dagli avanzamenti della sperimentazione sugli animali, sia, infine, le alternative etiche che sembrano aprirsi con i cambiamenti climatici prodotti da un ipotetico impatto delle azioni umane sull’ambiente – un impatto la cui realtà va sottoposta a una rigorosa verifica empirica e scientifica. Tali questioni orienteranno la nostra ricerca teorica e con esse concluderemo questo lavoro. L’interrogativo da cui muoveremo è se oggigiorno debbano valere ancora i principi che sono stati indicati, sia pure senza successo, come risolutivi nel secolo XX o se, viceversa, la loro scarsa efficacia, la novità dei problemi che ci stanno di fronte non debbano portarci a una riformulazione delle basi su cui distinguere da un punto di vista morale il bene e il male, il giusto e l’ingiusto: un esito che non tanto concluderebbe per la fine e la scomparsa della morale quanto piuttosto per un suo profondo mutamento. La riflessione filosofica non risponde direttamente all’interrogativo appena posto ma procede cercando di capire, in primo luogo, se concettualmente c’è qualche elemento che unifica, come eticamente rilevanti, tutti i casi precedentemente elencati e, subito dopo avere proposto una caratterizzazione di questa unità, muove a elaborare una via per risolverli. Un primo punto risulta certo: questi problemi pongono tutti degli interrogativi che valgono solo per noi esseri umani, e valgono solo in quanto noi esseri umani, ol-

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tre a vedere e toccare e ad avere le impressioni che i diversi sensi ci trasmettono delle cose, degli altri esseri viventi e delle persone umane, reagiamo a ciò che accade con una peculiare sensibilità, una sorta di scrupolosità morale, che ci spinge a chiederci appunto quale sia la soluzione o la condotta buona, giusta, doverosa ecc. Inoltre, in quanto esseri umani, siamo capaci di formulare linguisticamente giudizi morali in cui compaiono molti termini quali buono, giusto, dovere, virtù e altre espressioni sicuramente moralmente cariche, quali razionale e giustificato, o ancora una serie di aggettivi quali coraggioso, generoso, tenace, onesto ecc. I nostri problemi morali testimoniano la presenza, nella nostra cultura, di una capacità umana quasi universale di tracciare distinzioni etiche. Così sinteticamente abbiamo già esposto una vera e propria filosofia morale. Nel corso del volume presenteremo un’elaborazione più compiuta di questa caratterizzazione generale, ma prima distinguiamo il nostro modo di definire cosa è la filosofia morale da altri. Va precisato che la filosofia morale, in questo senso stretto, si distingue da un senso ampio, tuttora corrente nei nostri discorsi, secondo il quale essa sarebbe la disciplina che si occupa dell’ambito di questioni che riguardano più propriamente la natura e la cultura umana e che, come tali, non rientrano nel campo delle filosofie della natura o delle scienze naturali. In questo senso ampio, più diffuso nel XVIII secolo, la filosofia morale si presentava, in particolare in alcuni autori (Francis Hutcheson e David Hume), come la pretesa di fornire un’immagine scientifica della natura umana, e, così intesa, veniva distinta dalla filosofia naturale, che era appunto rivolta a una considerazione scientifica di tutti i corpi materiali. Ma già nel XVIII secolo prendeva forma la concezione più ristretta della filosofia morale nel senso in cui viene intesa in questo libro, ovvero come quell’area della riflessione umana che indaga sistematicamente la condotta umana in quanto capace di distinguere tra azioni da approvare e azioni da disapprovare, secondo criteri etici che vanno pubblicamente discussi e giustificati.

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Possiamo poi subito chiarire che la filosofia come viene intesa in queste pagine è una forma di riflessione e conoscenza distinta da quella delle scienze. Nella nostra cultura vi sono forme sistematiche di pensiero, che si aggiungono o che accompagnano le diverse scienze empiriche. Per cui sembra solo essere una forma di riduzionismo il rifiuto di riconoscere come parte pienamente sensata della cultura umana attività quali le produzioni artistiche, la riflessione critica della filosofia, l’elaborazione normativa che ispira l’etica e la politica. Tra queste dimensioni della cultura non riconducibili alle scienze empiriche vi è una riflessione critica sistematica sulle pretese di validità di diverse concezioni etiche. Questo libro proverà a rendere conto di questa riflessione. Così facendo procederemo largamente con una metodologia che possiamo caratterizzare come analitica, intesa come impegnata a distinguere le diverse nozioni in gioco e riesaminare criticamente le argomentazioni e giustificazioni avanzate. Questa prospettiva esclude che si coinvolgano tesi di ordine metafisico o ontologico, ritenendo tali tesi legate all’affermazione di realtà o proprietà non riconducibili all’esperienza sensibile comune. Nessuno di coloro che hanno esteso l’etica a tali realtà e proprietà è mai riuscito a fornire una soluzione etica più sicura, valida o condivisa, proprio perciò sembra corretto procedere dall’inizio con un uso rigoroso del rasoio di Occam. Non va invece tenuta da parte la consapevolezza della storicità del contesto in cui si collocano le concezioni etiche che stiamo cercando di comprendere e criticare2. Nel complesso quella che proveremo a utilizzare sarà una forma di riflessione analitica in un contesto strettamente naturalistico. Per spiegare il posto che occupa la nostra filosofia morale possiamo riprendere una recente caratterizzazione di David Copp: «Uno studio filosofico della moralità è molto differente da uno studio sociologico o antropologico, o da uno studio dalla prospettiva della biologia o della psicologia. Una differenza importante è che nella filosofia

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morale non prendiamo le distanze dalle nostre concezioni morali nel modo in cui faremmo se fossimo impegnati nello studio di una delle altre prospettive: essa non si limita a considerare come un dato da spiegare il fatto che le persone, incluse noi stesse, hanno delle concezioni morali . Il nostro obiettivo non è semplicemente spiegare i dati di questo tipo, si tratti della distribuzione delle credenze o degli atteggiamenti morali o la presenza di azioni egoiste o altruistiche. Piuttosto, in filosofia morale la correttezza o efficacia o difendibilità delle pretese, convinzioni e atteggiamenti morali, o la probità dei vari comportamenti sono tra le cose in discussione»3. In quanto la filosofia morale ha prevalentemente un obiettivo critico e ricostruttivo della collocazione concettuale della vita morale, essa non può essere fatta coincidere esattamente con un qualche discorso persuasivo rivolto a fare sì che si facciano o non si facciano certe azioni. Per cogliere questa distinzione possiamo riprendere quanto a suo tempo sosteneva Giulio Preti4. Preti rimarcava che proprio nel XVIII secolo, con autori come Hume e Kant, si era realizzata una profonda trasformazione della filosofia morale, che non svolgeva più il ruolo precedente che consisteva nell’indicare esplicitamente una concezione della vita buona, ma cercava piuttosto di approfondire criticamente il tipo di riflessioni che le persone devono sviluppare quando si interrogano su ciò che è bene o doveroso fare. Tanto radicale era la svolta, secondo Preti, da comportare una trasformazione anche terminologica nel modo di caratterizzare questa disciplina, indicando in questa sua fase, più moderna e contemporanea, non già la presentazione di una filosofia morale ma più propriamente di una «filosofia della morale»: espressione che rende esplicito il passaggio da una riflessione rivolta alla sottoscrizione di un insieme di valori a una riflessione che intende prima comprendere la natura della morale e poi eventualmente passare alla sottoscrizione di valori. Una trasformazione avvenuta, probabilmente, come risposta a

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più ampi cambiamenti storico-sociali: il passaggio da un quadro della cultura occidentale caratterizzato da unità e condivisione di valori etici a un’epoca nella quale si confrontavano una molteplicità di diverse concezioni dell’etica. Tale cambiamento spingeva a mettere da parte una riflessione rivolta alla semplice elaborazione di valori all’interno di un quadro condiviso per impegnarsi, invece, in un’indagine sui modi in cui possiamo distinguere una concezione etica da una che non lo è e giustificare la concezione che privilegiamo. 1.2. Spiegazioni e non fondazioni Fin dall’inizio bisogna dissipare l’equivoco che il compito della ricerca filosofica sulla morale sia quello di creare o fare nascere la moralità, ovvero le distinzioni tra bene e male, giusto e ingiusto, virtuoso e vizioso. Se fosse questo il suo obiettivo, la filosofia morale sarebbe destinata al fallimento per una pretesa eccessiva. In realtà la riflessione filosofica sulla morale, storicamente e nei suoi esponenti principali – basti qui richiamare i già ricordati Hume e Kant –, si è piuttosto proposta di spiegare che cosa fosse la morale. In un certo senso, l’oggetto della filosofia morale deve quindi essere già un dato della nostra esperienza e della nostra cultura e la riflessione procederà cercando di illustrare la natura di questo dato e di chiarire i problemi che a esso si accompagnano. Proprio in questo modo ha proceduto il primo filosofo morale della storia dell’umanità: Socrate. Anche nelle discussioni di Socrate con scettici come Trasimaco, il punto che viene tematizzato non è quello di fondare le distinzioni etiche, quanto piuttosto di renderne conto in modo adeguato. L’Eutifrone è una chiara ricostruzione del modo in cui Socrate procedeva con le sue interrogazioni nel tentativo di rendere esplicito il senso dei concetti e definirli, non certo di creare nuovi sensi e concetti5.

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L’abbandono di una concezione «fondazionalista» della filosofia morale risulta tanto più obbligato alla luce della spiegazione della natura della morale che elaboreremo nei capitoli successivi. Sosterremo infatti che alla radice della moralità c’è una peculiare capacità sentimentale degli esseri umani, istintiva e originaria, e questa spiegazione sentimentalistica6 della moralità come fatto primario della nostra natura comporta che la sensibilità morale non può certo essere acquisita attraverso discorsi o ragionamenti. Nessuna elaborazione teorica di un filosofo ha il potere di fare sorgere in un ascoltatore che ne fosse sprovvisto la capacità morale fondamentale, quella di reagire partecipando alle sofferenze di un altro essere. Si procede dunque con la nostra filosofia morale a una riflessione sistematica rivolta a capire che cosa fanno gli esseri umani quando tracciano distinzioni morali, non perdendo di vista quanto ci è già testimoniato dalla nostra esperienza e riflessione comune. Questa testimonianza ci presenta una congerie di dati e di idee che vanno ordinati e che rendono possibili diverse interpretazioni. Nelle pagine seguenti si abbraccerà una di queste interpretazioni (in particolare quella di un naturalismo sentimentalistico, in opposizione alle interpretazioni religiose o a quelle razionalistiche) e si svilupperà quindi un’argomentazione unitaria, approfondita e in un certo senso sistematica su quello che si deve intendere con «morale» ed «etica». Verranno anche offerte varie argomentazioni rivolte a mostrare che questa concezione della moralità è più fertile di quelle fornite da altre teorie. Presentando quella che ci sembra la migliore spiegazione dell’etica non intendiamo certo fornire una definizione conclusiva e risolutiva del concetto di moralità. Una filosofia morale o un’etica presentata oggi non può limitarsi a riprendere le spiegazioni e i criteri che sono stati forniti nelle epoche passate. O meglio può anche riproporre le filosofie morali del passato, ma lo può fare solo dopo averci convinto che in nessun modo sono cam-

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biate le condizioni in cui gli esseri umani, anche oggi, distinguono tra bene e male, giusto e ingiusto ecc. Noi sosterremo invece che si sono proprio trasformate le condizioni in cui gli esseri umani tracciano le distinzioni morali. Proprio le peculiarità dei problemi etici del nostro tempo, con cui abbiamo iniziato le nostre analisi, ci aiutano a individuare la riqualificazione dello spazio della nostra vita morale e forniscono una nuova consapevolezza per impostare la ricerca teorica che svilupperemo. Per cominciare da qui non si devono perdere di vista due dimensioni centrali della nostra esperienza e riflessione sulla moralità, che riguardano esclusivamente la nostra situazione storica attuale e non certo quella delle generazioni del passato. In primo luogo, va data una risposta alla tesi che la storia dell’umanità, nel XX secolo, ha assistito a una crisi decisiva della moralità, per così dire a un suo fallimento che non può non giustificare la diagnosi di una sua scomparsa. In secondo luogo, va preso atto che la nostra esperienza e riflessione morale si confrontano con un ordine di questioni, scelte e decisioni del tutto diverse da quelle che impegnavano gli esseri umani nelle epoche che ci hanno preceduto. Una novità essenziale è che il confronto etico odierno viene impostato in un contesto di disaccordi e conflitti etici che danno per scontate, spesso, la diversità e la pluralità dei valori. 1.3. Esiste ancora una morale da spiegare? Non si può dunque scrivere di filosofia morale agli inizi del XXI secolo senza interrogarsi sui grandi fallimenti etici che hanno attraversato tutto il Novecento e stanno caratterizzando anche i primi anni successivi al Duemila. La storia dell’ultimo secolo, dal punto di vista morale, è una storia di orrori e di sconfitte. Ha provato a narrarla – senza indorare in alcun modo la pillola – Jonathan Glover in un ponderoso volume intitolato Humanity7.

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Le occasioni in cui qualsiasi appello alla moralità è risultato vacuo e del tutto ininfluente sono state continue e si spingono fino ai nostri giorni: prima guerra mondiale, nazismo, stalinismo, maoismo, Cambogia, guerre di Iugoslavia, stragi nell’Africa centrale come quella del Ruanda e più recentemente il terrorismo internazionale e la distruzione delle Twin Towers di New York e le conseguenti guerre in Afghanistan e Iraq. Un secolo, il Novecento, attraversato da una serie di genocidi8, a cominciare da quello degli armeni nel primo quindicennio, e con al suo centro l’Olocausto, nel quale sei milioni di ebrei sono stati eliminati con metodi efferati, e incomprensibili per qualsiasi essere umano dotato di un minimo di sensibilità, quali le camere a gas. Dunque milioni di esseri umani sono stati uccisi crudelmente, violentati, torturati, trattati senza alcun rispetto per la loro dignità e senza alcuna considerazione per le loro sofferenze. Guerre rovinose hanno attraversato l’ultimo secolo e continuano tuttora. Il tentativo di creare delle istituzioni internazionali (Onu, la Corte penale internazionale) che abbiano una qualche efficacia è tutt’altro che consolidato9. Nessun ottimismo si può avere per i prossimi decenni pur di fronte a eventi recenti moralmente significativi, quali il pronunciamento a maggioranza dell’Onu a favore dell’abolizione della pena di morte nel dicembre 2007. In questi pochi anni del XXI secolo abbiamo visto ricomparire l’uso politico della tortura (ad esempio a Guantánamo, con il waterboarding) e la sua giustificazione, oltre il ricorso a leggi e norme che discriminano le persone a seconda delle razze e nazionalità anche nei paesi europei e anglosassoni che pure si facevano un vanto di avere messo al bando queste condotte come immorali e illegali. Né l’Italia è indenne da questi processi di ritorno a barbarie che si speravano definitivamente superate. Secondo questa lettura degli eventi storici, gli esseri umani con la loro condotta avrebbero mostrato di considerare la morale niente di più che una vacua retorica, non solo quando si sono impegnati a muoversi guerra recipro-

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camente, a distruggersi e a incrudelire. Anche le loro abitudini di vita, per così dire, pacifica sarebbero state caratterizzate dal prevalere di un’avidità senza regole né responsabilità, che li ha portati a deteriorare perfino l’ambiente naturale in cui vivono, a depredarlo delle principali risorse in esso presenti e a creare condizioni che fanno prevedere difficoltà sempre maggiori per le generazioni future. Senza nessuna responsabilità spesso hanno messo al mondo una prole troppo numerosa, costretta a vivere una vita breve e piena di sofferenze, con un devastante incremento demografico ora arrivato, in pochi decenni, a quasi sette miliardi di esseri umani e che raggiungerà prevedibilmente i dieci miliardi nel 205010. La creazione di un ampio mercato globale, in sé non negativa, sembra sia stata governata solo dagli interessi egoistici ed economici. Infatti la globalizzazione, non governata certamente dall’etica ma dall’avidità, dalla rapacità e dai rapporti di forza e di potere, si è accompagnata con il generarsi di tutta una serie di situazioni di allarme, con crisi sempre più gravi e una profonda iniquità e immoralità per quanto riguarda la gestione di un’unica atmosfera, economia, diritto, comunità umana: sono cresciute le diversità economiche, è aumentato il numero di esseri umani che vivono in condizioni di estrema indigenza e povertà, si sono accentuati i conflitti etnici e razziali come risposta a fenomeni quali l’immigrazione e i viaggi dai paesi del Sud del mondo verso quelli del Nord11. Allargando lo sguardo al di là degli esseri umani, anche gli animali nell’ultimo secolo sono stati sottoposti a uno sfruttamento illimitato attraverso forme di industria alimentare esclusivamente finalizzate a realizzare utili economici producendo una quantità maggiore di cibo, senza minimamente preoccuparsi delle crudeltà verso gli esseri viventi coinvolti. Non diversamente, gli animali sono stati sottoposti a crudeltà del tutto gratuite in sperimentazioni che potevano facilmente essere sostituite da altre forme di ricerca e la cui unica motivazione era il successo nella carriera delle persone che vi ricorrevano per

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potersi vantare dei risultati12. Allo stesso modo sono state sfruttate le risorse naturali: acqua, boschi, atmosfera sono stati inquinati senza alcuna considerazione per la riduzione della biodiversità e per i danni che ricadranno su tutti coloro che verranno dopo di noi; e oggi non mancano ripetuti allarmi – corroborati da numerosi dati scientifici – su catastrofici cambiamenti delle condizioni di vita sul nostro pianeta alla fine del XXI secolo13. Non sono solo le vicende disastrose del XX secolo appena ricordate che contribuiscono a screditare la morale. Vi è un altro modo di chiamare in causa la morale, particolarmente diffuso nella società italiana, che porta a considerarla non solo come una pratica inutile o della quale possiamo fare benissimo a meno, ma addirittura come dannosa. Si tratta di tutti quegli interventi nelle nostre vite che si presentano come forme di un insopportabile e invadente moralismo. Non passa giorno che da qualche pulpito non si emettano giudizi morali sulla nostra vita sessuale, sul modo in cui dobbiamo far nascere la nostra prole, istituire relazioni di coppia e condurre la nostra vita affettiva, avvicinarci alla nostra morte, curarci, svolgere le nostre professioni di scienziati e ricercatori ecc. Il più delle volte, non solo la morale in queste forme risulta inutile, ma è proprio intollerabile in nome della libertà di noi tutti e della dignità delle nostre esistenze. I critici sostengono quindi che non solo la moralità avrebbe fallito nella sua dimensione di regola della vita pubblica, ma rimarrebbe come pratica residuale che pretende in modo del tutto indebito di guidare le nostre vite. Tenendo conto di queste riflessioni sulla nostra storia nell’ultimo secolo e sulle tentazioni moralistiche prevalenti nelle nostre società, ci si può chiedere se impegnarsi con una filosofia morale non sia una vana perdita di tempo: al massimo una ricostruzione archeologica che può identificare le tappe che hanno portato all’estinzione di una certa civiltà, di certi modi di vivere sensibili al condizionamento dell’etica. E il riconoscimento di alcuni isolati casi di

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persone virtuose non allontana certo l’idea di una scomparsa della moralità come pratica in grado di influenzare positivamente la condotta sociale delle persone. Proprio in questo quadro ci si spinge talvolta fino a diagnosticare una crisi così ampia da giustificare una vera e propria dichiarazione di fine della morale. Peraltro un’argomentazione rivolta a decretare la fine della filosofia morale conseguente alla scomparsa della stessa moralità era quanto – secondo alcuni – aveva sviluppato, con le sue abituali capacità profetiche, Friedrich Nietzsche alla fine del XIX secolo14. Il secolo che si apriva mentre egli stava morendo sembra avergli dato ragione nel mostrare che la morale, come pratica universale che ispira la condotta umana, ha fatto il suo tempo. Anticipando quanto sosterremo più dettagliatamente nel resto del volume, possiamo ipotizzare che ritenere completamente scomparsa la capacità degli esseri umani di fare distinzioni morali, a causa degli eventi e delle condizioni che abbiamo appena ricordato, significhi dare per scontata una caratterizzazione di questa capacità del tutto irrealistica e infondata: dobbiamo piuttosto contrapporre la nostra più adeguata spiegazione della natura dell’etica. Infatti, se per morale intendiamo una qualche forma di lealtà universalmente diffusa a principi assoluti ed eterni, allora il XX secolo ci si presenta senz’altro pieno di azioni che negano questa lealtà degli esseri umani. Va inoltre rilevato che anche le ripetute intrusioni dei moralisti nelle nostre vite personali risultano nient’altro che la continuazione di questo appello a osservare una serie di obblighi assoluti ed eterni. Esse non sono che un tentativo di continuare a incidere sulle nostre vite in nome di quelle moralità assolutistiche e totalizzanti che hanno mostrato la loro inadeguatezza come baluardo difensivo contro i disastri etici del XX secolo. Ma, consapevoli del fallimento morale del XX secolo e dell’opportunità di rifiutare le attuali soluzioni dei moralisti, proviamo a guardare alla moralità non già come il piano dell’enunciazione di principi asso-

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luti o della predicazione di norme universali, ma come una sensibilità che permette di orientarsi nel giudicare e valutare ciò che gli altri esseri umani stanno facendo e di sottoporre a continuo esame le nostre stesse scelte. Possiamo ipotizzare che la presa di questa sensibilità non sia stata del tutto assente nel XX secolo. Infatti, nel momento stesso in cui si sviluppavano quelle condotte atroci che abbiamo elencato, era anche largamente diffusa tra un gran numero di individui la disapprovazione morale nei loro confronti. Solo il rifiuto, da parte di un numero crescente di esseri umani, di condurre vite che permettessero azioni violente, crudeli, discriminatorie verso altre persone ha permesso di superare quella crisi morale nella storia dell’umanità. Ma allora la morale di cui abbiamo bisogno per fronteggiare le violenze, i genocidi, le torture, le discriminazioni non è quella fatta di norme e principi assoluti predicati dall’alto da qualcuno che pretende di fondarli sulla ragione: abbiamo invece bisogno di una morale che sia radicata nei nostri sentimenti ed emozioni. Coloro che moralizzano sulle nostre vite private in nome dei loro principi assoluti e razionali non fanno altro che continuare a proporci quella forma di morale astratta che è risultata del tutto inefficace nella storia del XX secolo. Fallimenti etici del XX secolo e moralismi attuali sono così due aree della nostra esperienza che ci possono aiutare a rivedere la nostra concezione della moralità. La moralità tradizionale ha fallito perché ruotava intorno a valori astratti, considerati eterni e assoluti e che si riteneva potessero essere fondati e giustificati esclusivamente con il ricorso a una Ragione universale o a qualche fede religiosa. Il punto non è dunque che la morale è scomparsa dalla vita degli esseri umani, ma piuttosto che sono tramontati molti valori del passato e il modo tradizionale di difenderli: si trattava non tanto di valori ingiusti, quanto più che altro male formulati o trasmessi in modi non idonei. A questa ricostruzione della storia morale del passato possiamo accompagnare, in questo inizio del XXI secolo, lo sforzo che dobbia-

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mo fare per reagire ai tentativi dei moralisti di continuare a fare valere per le nostre vite private tutto un insieme illusorio di valori assoluti, universali e razionalmente fondati. Anche per risolvere le questioni morali della bioetica, del cambiamento climatico, dell’ingegneria genetica – in una parola tutti i problemi che chiamano in causa le nostre responsabilità verso le generazioni future – dovremo opporci ai tentativi di rendere obbliganti vuoti e astratti principi, facendo valere piuttosto quelle regole che ricaviamo dalle nostre emozioni e dai nostri sentimenti morali. Ma vediamo ora se questa serie di tesi e diagnosi trova una qualche conferma in quegli approfondimenti analitici e critici che oggi possono essere fatti rientrare in un’accettabile filosofia morale.

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Spiegazioni genealogiche della moralità a confronto

2.1. Oltre le spiegazioni in termini di comandi divini, leggi naturali e fondazione razionale Vi è un primo modo per impostare criticamente la riflessione etica e consiste nel riesaminare le diverse versioni che sono state offerte per molti secoli sull’origine della moralità per gli esseri umani: è utile farlo anche perché alcune di queste narrazioni sono ancora proposte. Nel valutare le diverse spiegazioni genealogiche della morale non intendiamo suggerire che sapere come sia nata la moralità equivale ad avere trovato la soluzione giusta per i nostri problemi etici. Contro questo modo di ragionare vale quanto rilevava John Stuart Mill quando cercava di ricostruire l’incidenza del sentimento nella genesi delle nostre nozioni di giustizia: «non c’è una connessione necessaria fra la questione della origine [di questo sentimento] e quella della sua forza vincolante. Che un sentimento ci sia elargito dalla Natura, non legittima necessariamente tutte le sue sollecitazioni»1. Non bisogna dunque confondere il piano della ricostruzione genealogica o genetica della nostra capacità di trarre distinzioni morali con la riflessione normativa su quali siano i giudizi morali corretti. Ma proprio questa confusione è al centro delle genealogie tradizionali che ora passeremo in rassegna: esse hanno derivato da una concezione specifica dell’origine della morale conclusioni su ciò che si deve ritene-

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re moralmente legittimo o no. Al di là di una denuncia di questa loro fallacia genetica vedremo anche come queste concezioni sull’origine della moralità risultino di per se stesse inaccettabili. In questo capitolo proveremo anche a delineare una spiegazione di questa origine più soddisfacente e più empiricamente fondata. Questa spiegazione ci aiuterà a individuare ciò che conta veramente nella nostra esperienza della vita morale, ovvero a impostare in modo adeguato la nostra ricerca per una soluzione accettabile delle questioni etiche. Molte delle genealogie tradizionali cercavano di corroborare l’idea che la moralità fosse principalmente una questione dipendente dalla peculiare capacità razionale di cui gli esseri umani, a differenza di altri esseri viventi, sarebbero dotati. Le spiegazioni genealogiche che si sono accompagnate nel corso della storia umana con una concezione razionalistica dell’etica sono state principalmente tre: quella che faceva discendere la morale direttamente da un comando divino che l’essere umano era in grado di fare proprio solo in quanto unica specie del creato fornita di ragione; quella che la faceva nascere pur sempre da una creazione divina che però non veniva trasmessa direttamente agli esseri umani, ma piuttosto inscritta nella natura delle cose come leggi naturali che solo gli uomini forniti di ragione erano in grado di cogliere per uniformarsi a esse; quella infine che faceva derivare la moralità direttamente dalla peculiare facoltà razionale di cui solo gli esseri umani sono dotati e che permette loro di cogliere quei principi morali, assoluti e universali, dotati effettivamente di verità. Come è evidente, le prime due genealogie fanno derivare la moralità da un’origine religiosa diretta o indiretta, mentre la terza può accompagnarsi a una concezione del tutto naturale e secolare della moralità ove consideri – come è possibile fare – la ragione come una facoltà naturale degli esseri umani. In questo volume si ipotizza che anche la terza concezione sia dipendente dalla tesi che collega la moralità alla religione: sia pure in forma residuale

II. Spiegazioni genealogiche della moralità a confronto

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il razionalismo etico secolarizzato continua a ritenere che i principi morali debbano essere caratterizzati da quei tratti di assolutezza ed eternità che erano al centro delle genealogie religiose della moralità. Come abbiamo detto, una prima critica che può essere rivolta a tutte e tre le spiegazioni genealogiche di marca razionalistica è di essere cadute nella fallacia genetica denunciata da Mill: ovvero l’avere identificato una ricostruzione della genesi della moralità con una fondazione della validità di certi contenuti dell’etica. L’idea era che la moralità trovasse una sua giustificazione proprio nella Ragione da cui derivava. Una fallacia genetica che si spingeva molto avanti sia indicando solo negli esseri umani forniti di ragione i soggetti morali, sia indicando come contenuto normativo principale e quasi esclusivo il rispetto della dignità della persona umana, ovvero dell’unica realtà che nel creato sarebbe stata fornita di Razionalità. Nessuna ricostruzione empirica riesce a rintracciare in tutti i membri della specie umana la stessa razionalità e comunque nessuna giustificazione può essere fornita di quei principi che permettono di compiere le più grandi atrocità nei confronti di esseri umani o di altri esseri senzienti sulla base dell’assunzione che essi non siano dotati di razionalità. Né poi la constatazione eventuale di trovarci di fronte a una persona dotata di ragione è normativamente autosufficiente, in quanto essa non fornisce indicazioni sostantive su quali debbano essere le condotte rispettose della natura razionale di questa persona. Critiche più specifiche possono poi essere rivolte a ciascuna delle diverse genealogie. Ad esempio, per quanto riguarda quella che riconduce la moralità direttamente a una volontà divina, possiamo obiettare che la pretesa stessa che vi sia una volontà divina è falsa in quanto di questa volontà non possiamo avere nessuna esperienza. Non è il caso di tornare qui sulle critiche delle diverse vie con cui si è cercato di provare l’esistenza di Dio: quella della cosiddetta prova a priori ontologica (la sua esistenza sareb-

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be in un certo senso intrinseca al concetto di Dio come essere massimamente perfetto), quella a posteriori di tipo cosmologico (dato che nella nostra esperienza tutto ha una causa dovremmo risalire a una causa prima non causata che è appunto Dio), o quella che rinvia all’argomento del disegno (ciò di cui abbiamo esperienza mostra una tale armonia e ordine nelle parti che non possiamo non presupporre che sia frutto del progetto di un Essere Intelligente). Tutte e tre queste vie sono state contestate in modo efficace nel XVIII secolo da Hume (nei suoi Dialoghi sulla religione naturale) e da Kant (nella sua Critica della ragion pura) e senza rispondere a queste contestazioni risulta ingiustificato sia sostenere che possiamo conoscere Dio, sia riferirsi a una sua pretesa volontà costitutiva del bene e del male2. Infatti, chi sostiene questa tesi genealogica non si limita ad assumere che esista un creatore intelligente del mondo, ma gli attribuisce anche una volontà e una volontà buona. Vi sono difficoltà in queste attribuzioni. La prima difficoltà è che così facendo si cade in una forma di antropomorfismo contestata anche da molti religiosi che preferiscono fare propria una teologia negativa che escluda la possibilità di attribuire alla divinità dei tratti umani. Inoltre, se veramente vogliamo trovare nella volontà di Dio l’origine della moralità, vi sono due linee argomentative critiche che possiamo percorrere3. Dovremmo infatti chiederci se ciò che Dio comanda è comunque bene solo in quanto Dio lo comanda, oppure se Dio si è limitato a volere ciò che era già buono di per sé: se seguiamo la prima strada, obbedendo a Dio potremmo essere costretti a fare anche ciò che è male in sé, in quanto non è contraddittoria la frase «la volontà di Dio lo vuole, ma non è in sé buono» come invece dovrebbe accadere se la nozione di buono fosse identificabile con «ciò che Dio comanda»4; se invece percorriamo la seconda strada saremo costretti ad ammettere che Dio si è limitato a ratificare ciò che è bene e ciò che è male e dovremo quindi riconoscere che l’origine di questa distinzione è precedente o comunque indipen-

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dente dalla volontà divina. Va infine rilevato che fare dipendere dalla volontà del Creatore il bene e il male apre tutte le questioni su cui per secoli si è affannata la teodicea, ovvero il tentativo di conciliare con una presunta bontà del Creatore l’esistenza di enormi mali nel mondo: un interrogativo che porta spesso ad allontanarsi dall’ingenua fede in un ordine razionale stabilito da una Provvidenza benevola5. Un’ulteriore critica epistemologica al tentativo di fare derivare direttamente da Dio la moralità è rivolta alle formulazioni che fanno appello a una rivelazione che Dio avrebbe svelato a qualche essere umano che poi l’ha trascritta in un testo. Una prima ovvia constatazione è che seguendo questa strada non possiamo spiegare l’origine di un’unica morale, ma dovremo piuttosto riconoscere che attraverso di essa giungiamo ad accettare più morali, in quanto differenti sono le presunzioni di disporre della vera rivelazione di Dio. Sulle diverse rivelazioni potremo poi aprire una riflessione critica che ci porta a dubitare che esse siano state comunicate espressamente da Dio a una personalità – il fondatore della religione – che ha corroborato le sue pretese con una serie di eventi miracolosi. Tutti questi passaggi non reggono a una critica storica e filologica sulla base delle evidenze fornite dalla nostra esperienza. Per quanto riguarda la critica alle concezioni che inscrivono la morale in leggi naturali conosciute razionalmente, è ovvio che anche in esse sia le leggi naturali sia la ragione trovano il loro fondamento in Dio e, anzi, solo tale fondamento garantisce la convergenza della ragione con le leggi e la verità di queste leggi. Esponiamo alcune critiche elaborate diffusamente dai filosofi del XVII e XVIII secolo (Hobbes, Hume e Kant giocano un ruolo centrale in questa vicenda). Va in primo luogo rilevato che questa presunta legge naturale morale non sembra possa essere frutto di esperienza diretta o indiretta, nello stesso modo in cui riusciamo ad avere esperienza di leggi scientifiche che riguardano il comportamento dei corpi e delle cose o

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degli esseri viventi che popolano il nostro mondo. La stessa diversa validità riconosciuta alle leggi naturali morali rispetto a quelle scientifiche non permette questa assimilazione. Infatti, mentre per quanto riguarda le leggi naturali che riguardano i corpi e le cose – essendo esse frutto dell’esperienza e dunque a posteriori – è ampiamente riconosciuto che non possono che essere rivedibili e aperte a ulteriori verifiche o a eventuali falsificazioni, nel caso invece delle leggi naturali morali coloro che vi si richiamano pretendono che siano fissate a priori una volta per tutte e che siano, dunque, assolute e sempre vere. In secondo luogo, dubbia è la pretesa che vi sia una forma peculiare di percezione delle leggi naturali chiamata appunto Ragione (talvolta si ricorre anche all’equivoca nozione di «coscienza»), in quanto tale tipo di percezione non sembra potersi attribuire a tutti gli esseri umani alla stessa stregua dei diversi modi in cui essi raccolgono sensazioni e reagiscono emotivamente agli eventi. Quanto sia fallace la presunzione che gli esseri umani siano forniti di tale speciale facoltà di percezione delle leggi morali naturali – o, come spesso si sostiene, di una peculiare conoscenza morale – risulta ovvio se solo si consideri che l’appello a tale facoltà non permette di superare i disaccordi portando a un qualche esito oggettivo o universale. I fautori di questa concezione avanzano proprio questa pretesa di essere in grado di fondare nelle leggi naturali giudizi morali oggettivi e universali, e il fatto di non riuscirvi è fatale per la loro concezione: nessun disaccordo morale può essere risolto facendo appello alla Ragione. Non si sa in che cosa consista questa Ragione che dovrebbe essere risolutiva e, come spiegava con chiarezza Hobbes, in realtà ciascuno chiama «retta ragione» la propria, ovvero quello che egli vuole fare passare per giusto6. In realtà, fare appello alla legge naturale equivale a raccomandare un qualche valore che si propone come superiore immunizzandolo nei confronti di eventuali critiche con una mossa convenzionalistica che lo rende indiscutibile in quanto legge naturale. Non vi sono

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dunque criteri indipendenti da una determinata dottrina morale con cui controllare l’esistenza di una legge naturale morale e mettere a punto una lista affidabile di quali siano le leggi naturali morali da noi sicuramente conosciute. In terzo luogo, se riteniamo che la morale sia riconducibile a una conoscenza della legge naturale cadiamo in uno degli errori più diffusi e influenti che possono rendere inaccettabili le nostre riflessioni sull’etica, ovvero quello di non saper distinguere il piano del dover essere, che è proprio della moralità, dal piano dell’essere su cui si colloca tutto ciò che è oggetto di conoscenza: contravveniamo cioè a quella legge logica della diversità tra essere e dovere commettendo una vera e propria «fallacia naturalistica»7. Per cui, anche ammettendo per assurdo che noi potessimo conoscere come reale una qualche legge naturale del genere, la questione etica fondamentale resterebbe sempre aperta nel senso che dovremmo continuare a chiederci se dobbiamo o non dobbiamo farci guidare da questa legge naturale nelle nostre azioni. Infine, tutta una serie di critiche può essere mossa nei confronti di quei tentativi di derivare la moralità dalla razionalità umana. Come abbiamo già detto, questa può essere vista come una trascrizione in termini secolari delle due ricostruzioni genealogiche religiose che abbiamo appena esposto. Che questa trascrizione comporti la persistenza di alcune componenti residuali acriticamente accolte, risulta chiaro ad esempio in concezioni come quella di Kant. Basta richiamare il peculiare statuto epistemologico attribuito da Kant alla Ragione Pratica Pura che fonderebbe la morale sulla sua trascendentalità e purezza facendone una realtà sovra-empirica. La natura residuale del razionalismo etico, rispetto alla precedente fase religiosa, risulta evidente anche in alcune componenti attribuite alla moralità fondata su di essa sia sul piano meta-etico sia sul piano normativo, quali l’assolutezza ed eternità dei principi morali e la scelta di un linguaggio fatto di doveri, obblighi e leggi per enunciare le tesi normative sottoscritte8.

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Va anche rilevato che l’appello alla ragione come strumento decisivo in morale viene oramai fatto solo in contesti in cui è riconoscibile una qualche comunità di fedeli – o di persone che condividono una forte identità storicamente connotata – che condividono una tradizione o una visione del mondo. Spesso solo strutturazioni del genere permettono di identificare con chiarezza la Ragione con quella richiamata e definita dal capo della comunità9. Taluni filosofi presumono di potersi sostituire ai capi delle religioni indicando ciò che la loro ragione trova evidente e indiscutibile come patrimonio per tutta l’umanità: ma il pluralismo filosofico – incompatibilmente più ricco di quello religioso – mostra l’illusorietà di queste pretese. Messo da parte questo uso di ragione, l’unico che rimane percorribile non sembra potere andare molto oltre rispetto a quello di ragione strumentale. Il tentativo di spiegare la moralità come un’invenzione umana creata strumentalmente in quanto mezzo per favorire la realizzazione di condizioni di maggiore pace e benessere per tutti è stato fatto varie volte da pensatori contrattualisti, a partire dal primo tentativo di Hobbes. La difficoltà di queste spiegazioni sta nell’uso di quel modello del costruttivismo razionalistico che, come ha mostrato ad esempio Friedrich von Hayek, risulta del tutto fallace come spiegazione empirica a posteriori dei processi storici10. 2.2. Le radici delle spiegazioni naturalistiche e sentimentalistiche Di pari passo alle critiche che hanno portato ad abbandonare le ricostruzioni teistiche, giusnaturalistiche e razionalistiche come mitiche e senza fondamenti nell’esperienza, si sono andati sviluppando diversi tentativi di rendere conto della genesi della moralità in un quadro alternativo. Le spiegazioni genealogiche alternative sulle quali vogliamo soffermarci – in quanto le consideriamo più adeguate – so-

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no caratterizzate in primo luogo dalla sottoscrizione di un quadro naturalistico e secolarizzato dell’origine della moralità. Si mettono dunque da parte le cause extranaturali o metafisiche per spiegare l’origine della moralità umana. Il contesto nel quale la genesi della moralità viene collocata è lo stesso del mondo o universo naturale ricostruito dalle scienze e dall’esperienza sensibile comune degli esseri umani. Queste spiegazioni sono segnate dalla fine del monopolio di quelle genealogie che ricorrevano a una peculiare facoltà di ragione. Troviamo sempre più elaborato l’approccio rivolto a mostrare come la morale si radichi invece nel lato passionale e affettivo della natura umana, spesso identificando a sua base un peculiare sentimento o una specifica sensibilità. Presentiamo ora più diffusamente quelle che sono, a tutt’oggi, le due spiegazioni naturalistiche non razionalistiche più compiute della moralità: quella filosofica offerta da Hume e quella biologica ed evoluzionista presente nelle opere di Charles Darwin. 2.2.1. David Hume: la morale e la natura umana In Hume troviamo una sistematica spiegazione naturalistica e secolare dell’origine della moralità. Avremo modo di tornare spesso su Hume a proposito di varie sue tesi meta-etiche, di psicologia morale e normative: il rifiuto della possibilità di derivare dalla ragione umana le distinzioni morali; la radicale differenziazione tra il piano del deve proprio della morale e il piano dello è proprio della conoscenza; la collocazione delle distinzioni morali sul terreno dei sentimenti e delle passioni che muovono i caratteri delle persone; il privilegiamento sul piano normativo di un insieme di tratti virtuosi delle persone che possano essere piacevoli e utili alla persona stessa o agli altri. Soffermiamoci ora sul modo in cui Hume spiega l’origine della morale umana con la sua antropologia11. Secondo Hume è indubbio che la morale sia una pratica che derivi da cause naturali, in quanto in nessun mo-

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do possiamo risalire con qualche attendibilità a cause sovrannaturali12. Una volta che ci siamo liberati dalle spiegazioni genealogiche che rinviano a cause trascendenti, possiamo percorrere la strada di ricostruire la moralità come qualcosa in cui si esprime la natura umana che ne è la causa, ma così facendo non dobbiamo ricorrere a un’altra specie di spiegazione mitica, ovvero quella che vede nella moralità la realizzazione di un qualche fine che sarebbe proprio dell’essere umano (spiegazione che accompagna l’antropologia aristotelica che privilegia la vita teoretica come fine proprio della natura umana). Nella prospettiva filosofica di Hume sono poste al bando le cause finali in quanto anch’esse non riscontrabili con l’aiuto dell’esperienza. Hume si impegna poi risolutamente a mostrare la fallacia dei tentativi di ricondurre la creazione della moralità all’attività razionale degli esseri umani. La ragione può essere concepita come la facoltà con cui gli uomini percepiscono l’esistenza di una serie di relazioni tra le esperienze e queste relazioni si trovano sia nelle esperienze che riguardano le condotte umane sia in quelle che riguardano le relazioni degli animali tra di loro (ad esempio, le relazioni di genitorialità o figliolanza, o di consanguineità o di rassomiglianza e appartenenza alla stessa specie ecc.). Dato che la moralità non può certo riguardare la condotta degli animali, questo mostra l’assurdità di farla dipendere dalle relazioni scoperte dalla ragione13. Per quanto riguarda la ragione, secondo Hume non potremo che riconoscere di trovarci di fronte a una facoltà inattiva: in grado di mostrare l’evidenza di una serie di ragionamenti, ma senza poi la capacità di muoverci all’azione14. Una concezione della ragione come facoltà meramente teoretica che Hume ritrovava sia nella tradizione cartesiana, sia nella caratterizzazione che dell’intelletto forniva John Locke, come capace al massimo di analizzare, scomporre e ricomporre idee che in modo più o meno tenue rinviano a qualità sensibili degli oggetti. Kant seguirà Hume su questo punto proprio mettendo al centro

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della moralità una ragione pratica del tutto distinta dalla ragione conoscitiva di cui si occupa nella Critica della ragion pura. La genesi della moralità va quindi cercata, secondo Hume, in un meccanismo affettivo presente nella struttura psicologica degli esseri umani, quello che egli chiama principio di simpatia15. La moralità è una specificazione di questa potente forza della psicologia umana che rende del tutto naturale per ciascuno di noi essere influenzati dai piaceri e dai dolori altrui, in modo tale che i dolori creano pena e sofferenza e i piaceri gioia e sollievo. La simpatia chiamata in causa da Hume vale nei confronti di tutti gli esseri umani, e si estende in parte anche agli animali laddove si individuano componenti di somiglianza tra i loro piaceri e dolori e i nostri. Hume dedica molte pagine del suo Trattato sia a spiegare la natura della simpatia sia a mostrare come tutta una serie di passioni – quali ad esempio l’amore e l’odio, l’orgoglio e l’umiltà – siano inspiegabili senza presupporre questa inclinazione fondamentale degli esseri umani a tenere conto e partecipare dei piaceri e dei dolori dei loro simili. Proprio nel riconoscimento di una minima radice simpatetica nella natura umana troviamo la diversità principale tra Hume e Hobbes. Hobbes, negando che gli esseri umani fossero in grado di provare questo tipo di simpatia minima e vedendo la loro struttura passionale dominata dall’egoismo e dalla paura, considerava la moralità come una radicale alternativa alla naturale condizione umana, costituita dunque da una serie di obblighi che gli esseri umani si autoimpongono in modo coercitivo: il costo di questa impostazione era l’assunzione di un improbabile – e comunque inaccettabile dal punto di vista della libertà individuale – potere sanzionatorio totalitario in grado di controllare pienamente e continuativamente la condotta di tutti. Per Hume, invece, la moralità va vista come una pratica che nasce in continuità con la struttura psicologica degli esseri umani. La capacità di simpatizzare, secondo Hume, è solo il presupposto della moralità. Infatti, laddove il simpatizza-

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re con gli altri è fortemente influenzato dalla vicinanza, lontananza o somiglianza della persona con cui si simpatizza, il punto di vista morale presuppone invece una valutazione generale che non è influenzata da queste relazioni più dirette. Per spiegare il punto di vista morale dovremo dunque aggiungere un’ulteriore componente alla capacità di simpatizzare. Hume introduce la capacità umana di reagire alle condotte di cui si ha esperienza con il senso morale, che reagisce però a una situazione che è ricostruita immaginativamente. Infatti spiega Hume «la nostra situazione sia rispetto alle persone sia rispetto alle cose è continuamente fluttuante» e dunque ogni singolo essere umano ha «una particolare posizione rispetto agli altri; e ci sarebbe impossibile riuscire mai ragionevolmente a conversare insieme, se ognuno dovesse considerare caratteri e persone unicamente da come ci appaiono dal nostro particolare punto di vista. Quindi per prevenire queste continue contraddizioni e raggiungere una maggiore stabilità nei nostri giudizi sulle cose, fissiamo certi punti di vista fermi e generali, e sempre, nei nostri pensieri, ci riferiamo a essi, quale che sia la nostra situazione attuale»16. La moralità è proprio una pratica, come rileva Hume, per cui «nonostante questo mutare della nostra simpatia si dà alle stesse qualità morali la stessa approvazione, tanto in Cina quanto in Inghilterra; esse appaiono egualmente virtuose e si raccomandano egualmente alla stima di un osservatore giudizioso»17. Importante dunque è comprendere a che cosa risponda il nostro sentimento morale quando approva o disapprova moralmente una qualche condotta umana : «È dunque a causa dell’influenza dei caratteri e delle qualità di una persona su coloro che hanno rapporti con essa che la biasimiamo o la lodiamo. Non importa se le persone influenzate da queste qualità siano nostri conoscenti o estranei, concittadini o stranieri»18. La nostra immaginazione ci aiuta dunque a ricostruire, nel caso di persone lontane nel tempo e nello spazio, quali sono state le azioni che hanno compiuto; e poi, sulla base delle

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sofferenze e dei piaceri che tali azioni hanno prodotto nelle persone che ne hanno subito gli effetti, esprimeremo i nostri sentimenti di approvazione o di disapprovazione per le qualità morali degli agenti. Al centro della moralità ci sono dunque i caratteri delle persone valutati indipendentemente dalle nostre tendenze più interessate ed egoistiche, per cui apprezziamo moralmente anche le «buone qualità di un nemico»19 o di qualcuno che è tanto lontano da noi nel tempo e nello spazio che le conseguenze delle sue azioni non hanno alcuna ricaduta su di noi. Nella genealogia della moralità di Hume l’etica viene introdotta come una pratica al centro della quale più che il bene e il dovere ci sono le virtù e i vizi degli altri esseri umani. Molta della vita morale, secondo Hume, può essere dunque vista come un’espansione di tendenze naturali – in un certo senso parte di una psicologia umana radicata nella biologia – che non ci permettono di restare indifferenti alle sofferenze altrui e che ci spingono a prenderci cura della nostra prole e delle persone a noi più vicine. Proprio queste naturali tendenze morali umane hanno poi permesso, secondo Hume, il consolidarsi di tutta una serie di regole casualmente scoperte che hanno reso più stabile, pacifica e ordinata la convivenza umana. Si tratta di quell’insieme di regole che nel Trattato Hume caratterizza come virtù artificiali: le istituzioni per cui gli esseri umani riconoscono e rispettano la proprietà altrui, trasferiscono i beni per consenso, mantengono le promesse, sono leali nei confronti dei governanti e spingono le loro donne a rispettare la castità e la modestia20. Tutte queste regole rappresentano abitudini che aiutano gli esseri umani ad andare avanti nella loro vita senza tensioni continue e guerre selvagge. Hume insiste sul fatto che si tratta di regole scoperte casualmente e in un certo senso gradualmente, nel senso che il processo del loro consolidamento è stato il frutto di un continuo progresso di quegli equilibri sentimentali e passionali che rendevano più stabile una vita associata e pacifica.

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La casualità della genesi è secondo Hume ricavabile dal riconoscimento che regole del genere sono spiegabili sulla base di alcuni tratti della psicologia umana e delle condizioni ambientali. Infatti, queste regole sono state inventate dagli esseri umani in quanto essi non sono né totalmente egoisti né totalmente altruisti: per cui la loro natura, da questo lato affettivo, è mista. Se invece avesse prevalso l’egoismo, tali regole non si sarebbero potute consolidare, mentre se avesse prevalso l’altruismo esse non sarebbero state necessarie. Non diversamente, se gli esseri umani avessero avuto a disposizione una quantità di beni infinita, in grado di soddisfare tutte le loro esigenze, larga parte della moralità non si sarebbe generata. La morale è quindi una pratica casualmente scoperta da esseri umani caratterizzati da una mescolanza di egoismo e benevolenza limitata e in una condizione naturale di scarsità di molti dei beni (tra l’altro si tratta anche di beni esterni il cui possesso è del tutto instabile)21di cui essi hanno bisogno. È inoltre ovvio che tale pratica coinvolge le azioni sociali degli esseri umani e non già le condotte che non hanno alcuna ricaduta sugli altri. 2.2.2. Charles Darwin e la spiegazione evoluzionista della morale Con la messa a punto da parte di Darwin della sua teoria evoluzionista troviamo un’ulteriore tappa dello sviluppo di un’analisi genealogica della moralità che tiene insieme le esigenze metodologiche dell’empirismo naturalistico con un’opzione sostantiva in favore di una ricostruzione in termini di sentimenti. Molto probabilmente Darwin riprese da Hume alcune delle linee fondamentali della sua impostazione scientifica empiristica e naturalistica22. In primo luogo Darwin riprese da Hume un’impostazione antropologica che non perdeva di vista le forti analogie tra la natura umana e quella animale, e che non ribadiva dunque la narrazione cara ai razionalisti che segnava un salto

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categoriale tra gli esseri umani forniti di ragione e gli animali che non ne erano dotati. Darwin accettava tutta una serie di dubbi sulla ragione umana. Scriveva, in particolare, nei suoi taccuini tra il 1838 e il 1840: «Suppongo che l’infinito circolo di dubbi e di scetticismo potrebbe essere risolto considerando la ragione come il prodotto di uno sviluppo graduale. Vedi Hume sulla filosofia scettica»23. Darwin non solo riprende da Hume lo scetticismo sulle capacità della ragione, ma elabora la tesi generale di un accostamento tra gli animali e gli esseri umani fino a mettere da parte, come ha sottolineato James Rachels, quella concezione antropologica razionalistica fondata sull’idea che gli umani siano speciali24. Più specificamente la consapevolezza da parte di Darwin dell’inaccettabilità della tradizionale concezione genealogica che derivava la morale da Dio e dai suoi dettami è realizzata progressivamente negli anni 1838-184025. In secondo luogo, quando si tratta di fornire una caratterizzazione all’interno della sua concezione evoluzionistica della base specifica della condotta morale negli esseri umani, Darwin elabora nell’Origine dell’uomo una spiegazione chiaramente affine a quella fornita da Hume. Infatti, la moralità umana è collegata strettamente alla simpatia e al senso morale considerato come «un sentimento molto complesso che trae origine dagli istinti sociali»26. Per quanto riguarda la spiegazione della genesi e natura del senso morale, Darwin era pienamente consapevole che il nucleo decisivo del suo contributo doveva consistere nell’abbandono delle posizioni di coloro, come ad esempio William Whewell, che lo consideravano come «un’impronta stampata nella mente umana dalla Divinità stessa; una traccia della sua natura, un’indicazione della Sua volontà, un annuncio del Suo disegno, una promessa del Suo favore»27. Invece Darwin doveva riuscire a mostrare che la moralità poteva essere derivata da un processo naturale della vita animale. Hume aveva affermato questa tesi e l’aveva connessa con la sua ricostruzione complessivamente passio-

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nale dell’antropologia umana, mentre Darwin elaborava precise ipotesi empiriche a questo proposito. Tra l’altro, secondo Darwin, la simpatia è strettamente correlata con il senso morale ed è un’«importantissima emozione». Egli poi aggiunge: «Quale che sia la complessità dell’origine di questo sentimento, esso è di grande importanza per tutti gli animali che si aiutano e si difendono reciprocamente; e quindi si deve essere accresciuto tramite la selezione naturale: le comunità con un maggiore numero di individui capaci di provare simpatia debbono aver goduto di una maggior prosperità ed allevato una prole più numerosa». Darwin suggerisce anche una più specifica spiegazione del ruolo delle emozioni simpatetiche: gli «istinti sociali indubbiamente acquisiti dall’uomo come dagli animali inferiori in vista del bene della comunità, gli avranno ispirato il desiderio di aiutare i suoi simili e qualche sentimento di simpatia, e lo avranno costretto a tener conto dell’approvazione e della disapprovazione dei suoi simili». Un processo che si è spinto fino alla «simpatia al di là dei confini umani, cioè verso gli animali inferiori». Proprio tenendo conto di questo processo, «guardando alle generazioni future» possiamo ritenere che «non v’è ragione di temere che gli istinti sociali si indeboliranno», anzi «possiamo prevedere che le abitudini virtuose si rafforzeranno e forse attraverso l’ereditarietà diverranno stabili. In questo caso la lotta fra gli impulsi superiori e quelli inferiori sarà meno aspra, e la virtù trionferà»28. Dunque, nelle riflessioni di Darwin troviamo un ampliamento in un contesto biologico e su di un piano storico e culturale della spiegazione sentimentalistica della morale, realizzato elaborando la sua generale ipotesi dell’evoluzione come effetto della selezione naturale. Questa sua ipotesi lo spingeva a guardare ai rapporti tra il mondo umano e quello animale come due universi tra i quali non solo andavano sottolineate le somiglianze, ma nel caso di diversità le si potevano spiegare come il prodotto di un graduale cambiamento sorretto dalla selezione29.

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Proprio questo approccio ispirato dall’ipotesi evoluzionistica portava Darwin a riconoscere – come già aveva fatto Hume – che negli esseri umani, come del resto in tutti gli animali, vi sono degli istinti affettivi – ad esempio, l’amore della prole – che non sono legati alle motivazioni egoistiche e che costituiscono una base, una sorta di punto di partenza biologico dei sentimenti morali. Un contributo specifico di Darwin fu poi quello di contestare un modello errato (di fatto un residuo del paradigma razionalistico di spiegazione) che vedeva una diversità categoriale tra l’istinto animale, fisso e immutabile, e le abitudini umane, non solo variabili ma in un certo senso plastiche e sempre originali. In definitiva, argomentava Darwin, tra queste realtà non c’è una grande diversità e le differenze possono essere viste come il prodotto di graduali trasformazioni rese possibili dall’inserimento del linguaggio e dalle associazioni che solo con il suo uso si istituiscono30. Questo accostamento tra istinti e reazioni abitudinarie rappresentava un passaggio obbligato se si voleva rendere conto della moralità, con le sue regole e norme, non già come un fatto originario derivato da una particolare facoltà ma come il consolidarsi di regolarità nelle condotte. Si poteva quindi procedere ricostruendo il modo in cui gli esseri umani avevano acquisito i sentimenti morali, insieme ad altri istinti sociali, in un lungo processo evolutivo che li aveva resi, come del resto i cervi, degli animali sociali. 2.3. L’evoluzionismo agli inizi del XXI secolo L’impostazione evoluzionistica di Darwin, negli ultimi due secoli, è stata ripresa varie volte per fornire spiegazioni naturalistiche sull’origine della moralità. Solo negli ultimi decenni queste spiegazioni hanno ripreso in modo esplicito il nucleo sentimentalistico che Darwin condivideva con il paradigma esplicativo avanzato nel XVIII secolo da Hume. Precedentemente, due sono state le strategie esplicative più fortunate.

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In una prima fase, Thomas Henry Huxley, in particolare in alcune sue conferenze nell’ultimo decennio del XIX secolo31, sosteneva che le condizioni etiche che si ritrovano nella società umana sono il frutto «dell’evolversi dei sentimenti» di simpatia organizzata con cui gli esseri umani contrastano quel «processo cosmico» che è governato dal solo principio selettivo della sopravvivenza del più adatto. Huxley rifiutava esplicitamente i tentativi di spiegare i sentimenti morali con un processo di continuità evolutiva con gli istinti che guidano le vite delle altre specie animali, insistendo sulla specificità umana – frutto della ragione e del linguaggio – di una condotta ispirata dalla «regola aurea» di considerare le sofferenze altrui come le proprie32. Una seconda fase, molto ampia e tuttora in corso, è invece impegnata a mostrare le radici della moralità nell’altruismo. Numerosi sono stati i modi con i quali i teorici dell’evoluzione hanno ricondotto la moralità umana a forme naturali di altruismo presenti in molte specie di animali sociali. Così, ad esempio, William Donald Hamilton ha mostrato la presenza di comportamenti altruistici verso i consanguinei in molte specie animali. Si tratta di «comportamenti con i quali gli animali accudiscono, difendono, dividono le risorse, avvisano del pericolo e mostrano altri comportamenti altruistici verso i consanguinei, perché è probabile che essi condividono copie degli stessi geni»33. Un altro modello esplicativo evoluzionistico è quello – usato ad esempio nei primi anni Settanta da Robert Trivers34 – che identifica come propria dell’etica una forma di «altruismo reciproco» («Tu mi gratti la schiena e io la gratto a te»). Può valere ottimamente anche tra individui di specie molto diverse ed è la condotta alla base del commercio e del baratto. Questa motivazione in individui che hanno bisogni e capacità asimmetriche può far nascere quelle che Richard Dawkins caratterizza come «relazioni mutualistiche». Nel caso degli esseri umani questo tipo di «altruismo di reciprocità», potendo essi coniugarlo con operazioni mentali quali il rinvio o l’attesa, si allarga fino

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a strutturare condotte molto più complesse e che coinvolgono un numero molto più esteso di soggetti35. Un altro modello, oramai classico, è quello che alla base semplificata dell’altruismo reciproco aggiunge ulteriori componenti che hanno a che fare con la reputazione. È questo, ad esempio, il modello della reciprocità indiretta, delineato da Richard Alexander36, secondo il quale certe condotte altruistiche vengono adottate anche perché rafforzano la reputazione che rende più attraente, per istituire alleanze cooperative, chi si uniforma a una condotta altruistica. Ma oggi stiamo assistendo probabilmente a una terza fase che, spiegando la genesi della moralità in un quadro di naturalismo evoluzionistico, ricorre a una chiara ipotesi sentimentalistica in continuità con quanto abbiamo trovato in Hume e Darwin. A testimonianza di questo cambiamento si può riprendere la dichiarazione recentemente fatta da Frans de Waal: «Il mio ragionamento ruota ovviamente intorno alla continuità tra istinti sociali umani e quelli propri ai nostri parenti più stretti, le scimmie non antropomorfe e quelle antropomorfe, ma la mia sensazione è che siamo alla vigilia di un cambiamento molto più grande, in cui la teoria finirà per collocare saldamente la moralità all’interno dell’essenza emozionale della natura umana. Stiamo per assistere alla grande rentrée del pensiero di Hume»37. Il quadro più generale della svolta humeana che si sta realizzando nella ricerca evoluzionistica sulla morale38 si manifesta già a livello critico. Infatti, ad esempio, de Waal è fortemente impegnato a criticare la «teoria della patina» di Huxley: ovvero una spiegazione della genesi della morale che riconosce come centrale il ricorso a una facoltà della ragione con la quale gli esseri umani correggono e limitano i loro istinti egoistici e competitivi. Ma è poi sul piano delle ipotesi positive sulla genealogia della morale che questi autori lavorano per ricostruire un ruolo dei sentimenti e delle emozioni più rilevante di quello riconosciuto da quei modelli che chiamano in causa una forma più o meno perfezionata di altruismo biologico. In questo senso de Waal

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mostra come le specie sociali siano caratterizzate dalla presenza di naturali tendenze empatiche e simpatetiche che favoriscono la loro sopravvivenza. Queste tendenze si manifestano psicologicamente come forme più o meno allargate di altruismo che si estendono, in alcune scimmie superiori, al di là dei confini della specie39. Muovendo dai dati offerti dall’etologia comparata, possiamo concludere con de Waal che la naturale simpatia ed empatia tra gli esseri umani, ben lungi dall’essere un’intercapedine artificiale prodotta dalla nostra cultura, è l’eredità istintiva della storia biologica che abbiamo condiviso con altre specie: qualcosa di innato, o forse meglio, con Hume, di originario, certamente non il prodotto di un ragionamento. Si tratta poi di lavorare su questa radice empatica e sentimentalistica come in grado di spiegare alcuni aspetti specifici della moralità umana, senza dover ricorrere all’introduzione di una facoltà razionale del tutto speciale. De Waal è di particolare aiuto sia nel confrontare l’altruismo che caratterizza la condotta morale umana con le altre forme di altruismo, sia nel mostrare come le forme più complesse in gioco nella pratica morale umana possano essere viste come trasformazioni di tendenze empatiche e simpatetiche di natura comunque sentimentale. Egli presenta infatti una ricca tassonomia del comportamento altruistico definito comunque nel contesto della biologia «come un comportamento costoso per il soggetto e vantaggioso per il destinatario». Partendo da qui possiamo poi distinguere varie dimensioni di altruismo, ovvero «altruismo funzionale», «aiuto socialmente motivato», «aiuto intenzionale mirato», «aiuto egoistico»40. Queste forme di altruismo vanno viste come interconnesse tra di loro nel senso che quelle più complicate sono sorrette dalla presenza di quelle più elementari e derivate evolutivamente da esse. La specifica forma morale dell’altruismo è, secondo de Waal, quella che viene caratterizzata come altruismo intenzionale e di cui sono capaci non solo gli esseri umani, ma anche alcuni animali con un cervello di grandi di-

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mensioni. Proprio questo radicamento dell’altruismo morale nell’empatia animale permette di salvaguardare un’interpretazione dell’intenzionalità che di solito attribuiamo alla condotta moralmente responsabile che non è costretta a chiamare in causa quella facoltà razionale cui ricorrono i fautori delle spiegazioni genealogiche razionalistiche e discontinuiste della genesi dell’etica umana41. Secondo de Waal la capacità di riflessione richiesta dalla morale non comporta che si attribuisca al soggetto che ne è capace una teoria della mente più complicata di quella che acquisisce uno scimpanzé quando è in grado di riconoscersi allo specchio e nello stesso tempo essere consapevole che si tratta di un’immagine riflessa42. 2.4. La formazione del giudizio morale e la psicologia empirica Un diverso modo di affrontare la questione genealogica della moralità è quello di collegarla allo sviluppo della personalità individuale, ricostruendo il processo mediante il quale gli esseri umani acquisiscono sul piano psicologico la capacità di tracciare distinzioni morali. Si tratta di una ricerca di tipo empirico che è stata compiuta in diversi modi da svariati classici della psicologia e che, ad esempio, troviamo delineata nelle opere di Sigmund Freud e Jean Piaget. Una sistematica elaborazione delle varie fasi di acquisizione della morale nello sviluppo psicologico dei bambini è stata poi sviluppata da Lawrence Kohlberg43. Il modello esplicativo generale in queste concezioni era quello che collegava il consolidarsi della capacità di dare vita a giudizi morali con il rafforzarsi delle capacità logiche, cognitive e razionali individuali. Ma anche su questo piano, negli ultimi decenni, si è andata sviluppando una ricerca di psicologia scientifica che ha raccolto dati empirici sul ruolo necessario delle emozioni e dei sentimenti per l’acquisizione della capacità di fare

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distinzioni morali. Esistono numerosi studi, ma quello di Shaun Nichols44, probabilmente, ha condotto più avanti degli altri l’obiettivo di fornire un’elaborazione sistematica di una teoria sentimentalistica della moralità tratta dai dati forniti dalle ricerche di psicologia empirica. Anche nel caso di Nichols ci troviamo di fronte a una ricostruzione della moralità che in modo esplicito viene collocata nel contesto della concezione generale della natura umana elaborata da Hume nel suo Trattato, collegando l’etica con il nostro lato affettivo e passionale, piuttosto che con quello intellettuale e razionale. Nichols pone al centro della sua ricerca l’obiettivo di rendere conto del formarsi, nello sviluppo individuale, della capacità di formulare il «giudizio morale essenziale», ovvero la capacità di cogliere la negatività dei danni e delle sofferenze subite da un’altra persona e di comprendere che tale negatività non ha in alcun modo un’origine convenzionale, ovvero non può essere ricondotta a qualche regola consuetudinaria della società in cui viviamo o a una norma emessa da qualche autorità. Una prima serie di dati empirici sui quali Nichols richiama l’attenzione riguarda la presenza di questo «giudizio morale essenziale» nello sviluppo evolutivo delle persone fin dai primi anni di vita. I dati indicano che bambine e bambini, già nel secondo anno di vita, sono in grado di manifestare nella loro condotta quello che è il nucleo portante della moralità, ovvero una reazione negativa in presenza di una situazione di sofferenza o di dispiacere di un’altra persona. Non solo. Essi sono consapevoli che la sofferenza altrui è negativa senza che qualcuno gliel’abbia detto. Questa capacità di discriminare come negativa una condotta in cui un altro essere umano patisce o subisce un danno si presenta, in un certo senso, come prelinguistica, ovvero prima e indipendentemente dalla capacità di formulare veri e propri giudizi morali con la presenza dei principali termini etici. Va rilevato poi che il nucleo concettuale del giudizio morale non include solo la capacità di cogliere la negatività della sofferenza altrui, ma anche quella di distinguere tra una

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sofferenza che un’altra persona subisce come effetto di qualche evento naturale catastrofico e la sofferenza moralmente rilevante in quanto provocata dall’azione di un’altra persona. Padroneggiare, dunque, il nucleo della moralità significa anche essere in grado di rendersi conto della rilevanza di una qualche responsabilità altrui. Per cui, come nel caso di Hume, anche Nichols ritiene che al centro del giudizio morale ci sia una valutazione del carattere delle persone: il carattere moralmente disapprovato è appunto quello che porta a produrre in altri dei danni, andando contro regole – non convenzionali – che considerano del tutto illecito fare azioni che causano sofferenze non volute per altri esseri in grado di provare piacere e dolore. Nel suo libro Nichols discute criticamente alcune spiegazioni genealogiche dell’acquisizione individuale della capacità morale. In particolare: quella cognitivistica – alla radice dei modelli esplicativi sia di Piaget che di Kohlberg – che richiede la capacità di assumere in qualche modo l’altrui prospettiva sulle cose; e quella che, come fa ad esempio nei suoi lavori R. James Blair, ritiene riducibile questa capacità morale a una forma più istintiva di reazione che inibisce la risposta violenta in presenza di qualcuno che – come chi soffre – mette da parte le strategie di attacco. Dal punto di vista sentimentalistico questi sono i principali difetti di tali spiegazioni. Per quanto riguarda la spiegazione cognitivistica, essa esige per l’acquisizione della moralità il possesso di una «teoria della mente» troppo elaborata. Ritenere che sia capace di moralità solo chi è in grado di elaborare una simile conoscenza teorica sulla mente altrui è in contrasto con una serie di dati empirici che mostrano come la capacità di formulare il giudizio morale essenziale sia presente in bambini molto piccoli ben prima che essi siano in grado di fare propria la prospettiva dell’altro, e come tale capacità sia riconoscibile in bambine e bambini autistici che a causa della loro malattia sono proprio incapaci di immaginare in qualche modo l’altrui prospettiva. Invece, la spiegazione in termini di ini-

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bizione della risposta violenta di fronte alla sofferenza altrui ha il difetto di non riuscire a distinguere specificamente la genesi del giudizio morale, in quanto una risposta del genere si manifesterebbe nei confronti di qualsiasi essere sofferente indipendentemente dal fatto che tale sofferenza sia il prodotto di una catastrofe naturale o dell’azione moralmente rilevante di qualcuno. A confermare la congruenza dei dati forniti dalla psicologia evolutiva con la spiegazione sentimentalistica della morale, Nichols richiama tutti quei casi che documentano come la capacità del «giudizio morale essenziale» manchi invece in quelle persone che manifestano – nell’infanzia, ma anche nell’età adulta – gravi patologie nelle risposte affettive e relazionali. Una serie di esperimenti mostra come le persone affette da sociopatie – e spesso diagnosticabili come psicopatici – non manifestino una carenza nella capacità di leggere il mentale, o di conoscere le altrui sofferenze, o di comprendere linguisticamente una qualche regola o norma, ma presentino lacune proprio sul piano emotivo e sentimentale. In queste persone, infatti, possiamo rintracciare l’assenza di una risposta affettiva ed emotiva alle condizioni di sofferenza degli altri che non vengono percepite dunque come negative o da evitare. La mancanza di questa capacità di empatizzare o simpatizzare – nel senso richiamato da Hume e Darwin – rende impossibile la vita morale. Abbiamo visto come intervenga poi, per rendere possibile il giudizio morale, un riferimento al punto di vista generale che Nichols connette – come accade nell’antropologia di Hume – con qualche forma di acquisizione del linguaggio. 2.5. Le radici emozionali del sentimento morale Nel cercare di fare il punto sulle acquisizioni scientifiche che negli ultimi decenni hanno privilegiato una spiegazione sentimentalistica della genesi della moralità, possiamo

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brevemente ricordare altre due linee di ricerca: quella impegnata a rintracciare la base cerebrale e neurofisiologica delle varie attività della mente umana; e quella preoccupata di collocare i sentimenti morali all’interno di una mappa più compiuta delle diverse emozioni riconoscibili nella natura umana. A proposito della genesi delle nostre capacità morali, negli ultimi decenni è stata frequentemente percorsa la strada della neuro-etica che riconduce tale genesi al funzionamento del nostro cervello e in particolare dei sistemi neuronali. L’individuazione di uno stretto collegamento tra la capacità di fare distinzioni morali e una base cerebrale neurologica è stata argomentata in particolare da studiosi come Antonio Damasio che hanno mostrato la rilevanza in questo senso del caso dell’operaio Phineas Gage45 (un operaio delle ferrovie il cui comportamento cambiò completamente sul piano etico dopo aver subito una lesione al cervello perforato da una sbarra di ferro). Ampie conoscenze sono state da allora acquisite documentando le correlazioni tra condotte sociopatiche e danni alla struttura neuronale del cervello, in particolare per ciò che concerne la parte dove si collocano le risposte affettive ed emotive. Il tentativo da parte di coloro che studiano il funzionamento del cervello e del sistema nervoso degli esseri umani di provare a togliere l’etica dalle mani dei filosofi non è riconoscibile solo in alcune applicazioni della neuro-etica46, ma anche in alcuni modi di presentare le più specifiche ricerche sulla base fisiologica dei meccanismi empatici. Ancora una volta Damasio ha avuto un ruolo di primo piano in queste ricerche, ma numerosi altri studiosi hanno recentemente approfondito la dinamica delle emozioni morali presentandola spesso come dipendente dalla componente limbica piuttosto che da quella corticale della struttura cerebrale47. Queste ricerche vanno ovviamente seguite quando indicano la necessità di connettere una spiegazione empiri-

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camente adeguata della genealogia del giudizio morale con il riconoscimento del ruolo di meccanismi empatici e simpatetici in generale, mentre suscitano dubbi laddove accampano la pretesa di aver identificato una base fisiologica o biologica a cui l’etica può essere ridotta nella sua interezza. In generale, come spiegheremo, non sembrano convincenti quelle strategie che cercano di ridurre i sentimenti morali a qualche altra cosa, si tratti di meccanismi di funzionamento del cervello o di una qualche altra specifica emozione. Si tratta di negazioni della specificità e unicità dei sentimenti morali che troviamo non solo al livello delle ricerche sul cervello o sulla struttura neurologica degli esseri umani, ma anche talvolta sul piano filosofico. Ad esempio, sembra essere questo il caso dello sforzo fatto da una linea di riflessione fenomenologica che risale a Edith Stein e che vede la moralità come dipendente da una complessa capacità di provare empatia, ovvero un’empatia a sua volta distinta dalla simpatia in senso stretto e vista come una capacità o facoltà in grado di fornirci direttamente la «conoscenza» della persona altrui nella sua interezza48. Una prospettiva naturalistica come quella che guida queste nostre lezioni è metodologicamente contraria a qualsiasi forma di dualismo ontologico o metafisico e, piuttosto che fare riferimento alla presenza di qualche consapevolezza del sé nella morale, cercherà di rendere conto dei sentimenti che guidano la condotta etica come un insieme frutto di influenze biologiche, culturali e storiche. Per quanto riguarda la caratterizzazione delle emozioni che danno corpo ai sentimenti morali propriamente intesi, non sono convincenti quelle concezioni che le riducono ad altre emozioni o passioni. Ricordiamo alcune di queste proposte di identificazione in termini psicologici della specificità delle emozioni coinvolte nell’esperienza morale: per Peter Strawson si tratta del risentimento e dell’indignazione; per Allan Gibbard e Simon Blackburn del senso di colpa; per Cora Diamond della pietà; per Annette Baier della fiducia; per molte delle sostenitrici di una teoria etica delle

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donne, come ad esempio Virginia Held, si tratta della cura ecc.49. La trattazione di Nichols che abbiamo precedentemente richiamato presenta una forma di sentimentalismo molto più convincente. Egli si confronta con molte delle caratterizzazioni emozionali dei sentimenti morali che abbiamo appena ricordato mostrando come la psicologia empirica e la riflessione teorica non permettano di accettarle. Si prenda, ad esempio, la proposta di Gibbard e Blackburn che identificano con un vero e proprio senso di colpa il sentimento moralmente rilevante. Nichols mostra come tali concezioni siano inaccettabili perché rinviano a un’emozione che nello sviluppo evolutivo individuale si presenta molti anni dopo rispetto al momento in cui si presenta la capacità di cogliere la rilevanza morale di certe situazioni50. Questa strada sostantiva per la caratterizzazione della natura delle emozioni morali va abbandonata. A queste forme di sentimentalismo, preoccupate forse di catturare l’eredità emozionale della cultura cristiana, si contrappongono quelle interpretazioni che – come ha fatto ad esempio Bernard Williams51 – provano piuttosto ad affiancare il sentimento morale alla vergogna. Ma riprendendo l’impostazione di Hume per quanto riguarda il sentimento morale, più che percorrere la strada di una sua caratterizzazione psicologica concreta, si tratta piuttosto di ricostruire il meccanismo immaginativo e mentale che ne accompagna la genesi. Tra l’altro è questa la via per evitare di dover confondere l’approccio sentimentalistico con un’impostazione che deve trovare uno spazio nella vita morale per tutte le emozioni che nel passato si sono a essa accompagnate: oltre al già ricordato senso di colpa, il rimorso, il pentimento ecc. Il sentimento morale non va caratterizzato sostantivamente anche per non confonderlo con qualche emozione immediata: è invece proprio del sentimento morale il punto di vista riflessivo su tutte le passioni che si presentano senza qualificazione valutativa nella mente di una persona. Se il sentimentalismo etico si presenta come un nuovo modo di caratterizzare la vita etica, è probabile – come cer-

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cheremo di approfondire nei prossimi capitoli – che esso si accompagni con una revisione della psicologia morale del passato che è molto spesso costruita sulla base dell’assunzione della validità di una prospettiva genealogica religiosa o razionalistica. In questo senso si tratta di dare corpo a un’esigenza revisionistica spesso sostenuta dalle riflessioni sulla morale che cercano di recuperare il punto di vista delle donne. È quanto, ad esempio, spiega Held: «Uno dei punti sostenuti da molte femministe che si occupano di teoria morale [...] è che si debba fare posto per quelli che alcuni chiamano sentimenti morali. Il razionalismo di molte teorie morali tradizionali, sia quello dell’etica kantiana sia quello calcolatore degli approcci utilitaristici, è sospetto nel suo denigrare i sentimenti, nel suo pretendere che la moralità comporti una soppressione dell’emotività o una presa di distanza da sentimenti che possono offuscare quello che penserebbe un individuo razionale o quello che giudicherebbe un osservatore ideale». E questa esigenza di affermare la centralità dei sentimenti in morale va fatta valere a tutto tondo in quanto, in luogo della tradizionale impostazione che si accontentava di sottolineare il contributo dei sentimenti «alla realizzazione delle richieste della moralità», Held ritiene si debba far valere il ruolo dei sentimenti per la «comprensione» delle richieste della moralità52. Seguendo questa impostazione, una volta fatto tesoro delle spiegazioni sentimentalistiche per spiegare la genealogia dell’etica, dobbiamo vedere se queste spiegazioni sono in grado di farci «comprendere» adeguatamente quale sia la natura della moralità. Si tratta appunto di esaminare, come faremo nel prossimo capitolo, la possibilità di sviluppare una meta-etica sentimentalistica adeguata.

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La natura della morale: un confronto tra razionalismo e sentimentalismo

3.1. La meta-etica e le ovvietà del senso comune Affrontiamo ora quella parte della riflessione filosofica sulla morale che abitualmente viene caratterizzata come meta-etica o meta-morale, sviluppando un discorso di secondo livello che prende a suo oggetto, al primo livello, la natura dell’etica o della morale. Il punto di partenza della riflessione meta-etica è largamente acquisito nell’etica teorica contemporanea. Basta infatti rivolgersi ad alcuni pensatori recenti, che elaborano prospettive anche molto diverse tra loro, come ad esempio Michael Smith1 e Richard Mervyn Hare2, per rendersi conto di come il programma fondazionalista sia stato abbandonato. Ben lungi dal proporsi di fondare o costituire, per così dire, l’etica, l’analisi teorica deve assumerla per data e deve riuscire a catturare tutti i diversi truismi che caratterizzano la moralità a livello di senso comune. Ci sono poi divergenze nell’elencazione e nella caratterizzazione delle ovvietà, o truismi, che accompagnano la moralità di senso comune, e di cui l’etica teorica deve rendere conto in modo compiuto e coerente. Questo modo di intendere il lavoro dell’etica teorica viene espresso con chiarezza, per esempio, da Smith che scrive: «un’analisi dei termini morali deve in qualche modo catturare diverse ovvietà [...]. Deve fare così se non si vuole correre il rischio che non sia affatto un’analisi dei termini morali»3. Nel XX secolo le vicende della meta-

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etica hanno assistito, in una prima fase nei decenni iniziali – un’epoca caratterizzata come «l’apogeo della meta-etica» –, al confronto tra intuizionisti, emotivisti e non-descrittivisti. È poi seguita una seconda fase, alla fine del secolo – un’epoca caratterizzata come la «rinascita della meta-etica» –, in cui la contrapposizione principale è stata quella tra realisti e anti-realisti, teorici della sensibilità e costruttivisti. Le diverse concezioni hanno lavorato intorno a un programma di ricerca comune rivolto a «comprendere le pretese della pratica o dei discorsi ordinari» con cui trattiamo i valori morali4. Dopo l’ubriacatura per l’etica normativa negli anni Settanta e dopo l’irruzione delle varie etiche applicate negli anni Ottanta, è ritornata, come un punto fermo, la convinzione che la comprensione di cosa stiamo facendo, o dicendo, nel tracciare distinzioni morali o nel realizzare decisioni morali, sia un passaggio necessario per poterci poi impegnare in modo soddisfacente sul piano normativo. Come abbiamo già detto, anche Hume e Kant concordavano nel considerare centrale il compito di comprendere la concezione della moralità radicata nel «senso comune» dell’umanità5. Entrambi ponevano al centro delle loro analisi un fatto: nel caso di Hume un «fatto oggetto del sentimento»6 e nel caso di Kant «un fatto della ragion pura»7. L’identificazione più stretta tra programma dell’etica teorica e analisi della moralità a livello di senso comune è stata ripresa, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, prima da Henry Sidgwick e poi da George Edward Moore. Nel caso di Sidgwick la ricerca dell’etica filosofica sul senso comune era rivolta a individuare e poi valutare criticamente i veri e propri principi normativi (o, come si esprimeva Sigdwick, le «ragioni normative») incapsulati in esso8. Nei suoi Principia Ethica, invece, Moore conduce le sue analisi esplicitando le assunzioni meta-etiche del senso comune9. Oggigiorno possiamo ipotizzare che l’elaborazione meta-etica ha acquisito una rilevanza ancora maggiore. Infatti, il consolidarsi di culture che riconoscono

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una pluralità di concezioni etiche normative rende in un certo senso ancora più necessario il lavoro propedeutico che può essere fatto dalla filosofia nel tentativo di caratterizzare la natura dell’etica. Si può infatti cercare di scaricare le tensioni provocate da disaccordi morali diretti sulle questioni normative sostantive con una riflessione più mediata sulla natura della moralità. Sul piano meta-etico si potrebbe realizzare quel minimo accordo che non è invece raggiungibile sul piano dei valori direttamente intesi. Va subito precisato che procedere elencando alcune delle caratteristiche proprie della moralità di senso comune, e poi cercare di renderne conto con una teoria compiuta e coerente, non è in alcun modo un lavoro neutro. Elaborare una certa concezione meta-etica – come vedremo con la nostra teoria sentimentalistica – non può non comportare una scelta delle componenti ritenute decisive per la moralità fatta dalla prospettiva considerata più adeguata. Non solo una serie di tratti considerati caratterizzanti, ad esempio, per una concezione razionalistica dell’etica non lo saranno per una sentimentalistica, ma quelli che troveremo nelle due teorie saranno analizzati in modi diversi da ciascuna di esse. È proprio questo che ci accingiamo a fare. Insistendo però sull’esigenza che una prospettiva revisionistica sull’etica, come quella che non può non accompagnare la nostra caratterizzazione in termini di sentimenti, non può spingersi tanto oltre nella sua rielaborazione presentando un’immagine della moralità completamente diversa da quella tradizionale. Alcuni punti generali sulla natura della moralità, in realtà, oggigiorno vengono riconosciuti concordemente sia da coloro che ne elaborano una ricostruzione in termini di ragione sia da quelli che vedono predominare nella vita etica sentimenti ed emozioni. Proviamo quindi a partire da una loro elencazione prima di fornirne un’analisi. Un primo punto condiviso è che la morale si colloca a livello pratico, nel senso che influenza la condotta delle persone. Il riconoscimento della natura pratica della mo-

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rale, come abbiamo già visto, è ad esempio chiaramente condiviso sia da Hume che da Kant. Sosterremo che proprio la capacità di rendere conto della stretta connessione tra moralità e condotta pratica umana è uno dei punti di forza di una ricostruzione sentimentalistica piuttosto che razionalistica. Un secondo tratto che tutti coloro che vogliono rendere conto della moralità come comunemente intesa cercano di spiegare è la pretesa dei giudizi etici di essere oggettivi. La centralità di questa caratteristica è stata molto rimarcata da Moore nel suo libro Etica10. In effetti nel nostro pensiero morale è implicito che se noi valutiamo positivamente una cosa, poniamo come buona, giusta o virtuosa, e un’altra persona giudica la stessa cosa negativamente, ovvero come cattiva, ingiusta e viziosa, queste due valutazioni sono incompatibili. Questa dimensione dell’incompatibilità o oggettività delle nostre prese di posizione morali si lega con tutta una serie di approfondimenti sulla collocazione da attribuire ai giudizi morali e, in particolare, con la questione del realismo o meno dei valori affermati nelle prese di posizione etiche. Quanto la pretesa di oggettività in gioco in morale vada assimilata a quella che accompagna le nostre affermazioni sui fatti del mondo – fino al punto di poter connotare con i criteri di verità e falsità i giudizi morali – è dunque una delle principali questioni della meta-etica. Proveremo a spiegare che rendere conto dell’oggettività dei giudizi morali all’interno di una concezione sentimentalistica non può che andare di pari passo con un riesame critico e una riformulazione di tale oggettività relativamente al modo in cui essa è stata caratterizzata dalle filosofie morali razionalistiche del passato. Infine va riconosciuta come propria della moralità una terza caratteristica: essa ha a che fare con impegni niente affatto arbitrari ma relativamente ai quali è del tutto legittimo chiederci ragioni e giustificazioni. Sembra dunque che non si possa evitare di connettere le prese di posizione morali con una qualche forma di argomentabilità. Va

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subito precisato che nel riconoscere la dimensione dell’argomentabilità che accompagna la nostra vita etica non dovremo cadere nell’illusione propria dei razionalisti che si tratti di una dimensione ultima e decisiva. Per convincerci di quanto sia illusoria questa pretesa razionalistica, basta confrontarci con l’esperienza comune secondo la quale è proprio nella moralità che si presentano talvolta disaccordi e conflitti insanabili con qualsiasi appello alle giustificazioni razionali: ancora di più, la moralità sarebbe caratterizzata da drammatici dilemmi che lasciano aperta comunque l’insoddisfazione razionale per l’esito che pure si è stati costretti eticamente a privilegiare. Sosterremo che un punto di forza della meta-etica sentimentalistica rispetto a quella razionalistica sta proprio nel declinare la condizione dell’argomentabilità in modo tale da rendere conto anche di questi modi in cui la pratica della morale si presenta nella nostra condizione umana. Saranno queste, dunque, della praticità, dell’oggettività e dell’argomentabilità11, le ovvietà di senso comune sulla moralità rispetto alle quali proveremo a sviluppare la nostra meta-etica sentimentalistica mostrandone la preferibilità rispetto a quella razionalistica. Nel rendere conto della moralità così articolata non intendiamo presentarla esclusivamente come una pratica linguistica e discorsiva. Nel corso del XX secolo la filosofia, specialmente quella analitica, ha realizzato molte acquisizioni nella comprensione dell’etica, privilegiando – in coerenza con il paradigma analitico prevalente nella fase della «svolta linguistica» tra il 1950 e il 1970 – l’ottica della ricerca sul significato e sulla logica del linguaggio morale12; ora la riflessione rivolta a comprendere la natura della morale si occupa in modo più libero di condotte e di eventi psicologici e non solo di discorsi. Nel rendere conto delle tre ovvietà principali che sarebbero proprie della nostra concezione di senso comune della moralità, gran parte del lavoro consisterà – come abbiamo già dichiarato – nel riqualificare e riformulare tali ovvietà tenendo conto delle muta-

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te condizioni in cui si sviluppa oggi la nostra vita. Per adeguarci a queste mutate condizioni abbiamo del resto già effettuato alcune eliminazioni nell’elencazione dei truismi. La più importante tra queste riguarda l’assunzione che la moralità sarebbe caratterizzata da conclusioni con uno statuto del tutto eccezionale e in particolare assolute e valide in tutti i tempi, in tutti i luoghi e per tutti gli esseri umani, oggi e sempre. Questa assunzione è una residualità della fase della storia umana nella quale vi era una tendenza a caratterizzare la moralità come coincidente con i comandi di Dio o con le leggi naturali. La pretesa di assolutezza della morale non è solo – come abbiamo argomentato nel precedente capitolo – un tratto epistemologicamente irricevibile, ma è anche un tratto normativamente negativo che ostacola gli esseri umani nei loro tentativi comuni di realizzare una vita più felice e pacifica. Ma accantonare questo tratto dell’assolutezza della morale non comporta – come proveremo a mostrare nell’ultimo paragrafo di questo capitolo – che si debba avanzare una concezione dell’etica intrinsecamente nichilista o scettica o relativista a proposito dei valori. Vanno proprio completamente riqualificate le categorie di nichilismo, scetticismo e relativismo. Il sentimentalismo e il riconoscimento di una bene intesa universalità dei giudizi morali possono benissimo essere coniugati insieme. 3.2. La forza pratica e motivazionale della morale e la sua autonomia L’alternativa che conta sul piano della ricostruzione in termini teorici della spinta motivazionale che accompagnerebbe la moralità non è quella – sulla quale si è principalmente concentrata la riflessione degli ultimi decenni – tra internalismo ed esternalismo13, quanto quella tra un internalismo razionalistico e uno sentimentalistico. Le teorie che forniscono una spiegazione esternalista della motiva-

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zione etica si accompagnano in genere a una concezione realistica e ontologica dei valori morali che è inconciliabile sia con il paradigma kantiano che con quello humeano. Le concezioni esternaliste, infatti, assimilano la formazione del punto di vista morale a un tipo di conoscenza e dunque concepiscono la capacità motivazionale che accompagna l’etica a quella che accompagnerebbe una qualche percezione di tipo intuitivo o sensibile che ci mette in contatto con la realtà dei valori che sono là nel mondo, indipendentemente dagli esseri umani. Esprimere un giudizio morale equivarrebbe dunque a conoscere, o meglio, a raffigurare e descrivere dei valori esistenti nel mondo. Tanto l’approccio kantiano all’etica quanto quello humeano sono riconducibili invece a una concezione non-descrittivistica o non-cognitivistica della morale come quella delineata una cinquantina d’anni fa in modo sistematico da Hare14. Ciò che sul piano motivazionale accomuna questi due paradigmi è il riconoscimento dell’autonomia della morale, nel senso che le scelte morali sono il frutto di un libero investimento da parte della persona che le sottoscrive, la quale non deve adeguarsi a una qualche realtà già data ed esistente indipendentemente da essa. Entrambi i paradigmi ritengono, dunque, che non si possa rendere conto della responsabilità morale senza passare attraverso la soggettività dell’agente morale. La diversità tra le due strategie sta nella via che ritengono sia necessario percorrere individualmente per entrare nell’universo della moralità: la via della razionalità o quella costituita da sentimenti o emozioni. La strategia di derivazione kantiana fa appello alla ragion pratica come unica via che può motivare nei confronti dell’etica. Il punto decisivo di questa impostazione non sta tanto nel negare che sentimenti e desideri abbiano un’indubbia capacità di muoverci ad agire, ma piuttosto nell’indicare sia nei desideri che nei sentimenti delle spinte ad azioni che sono profondamente inconciliabili con la dimensione propria dell’etica15. Kant riteneva infatti che i

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desideri e i sentimenti non possono che spingere verso contenuti particolari ed egoistici. Seguirli nella propria condotta equivarrebbe quindi a far prevalere una forma di eteronomia, ovvero di cedimento alla passività degli impulsi emotivi, impedendo dunque di raggiungere quell’autentica universalità che si richiede in etica. Solo una forma di razionalità pratica è in grado di muoverci verso qualche obiettivo che non sia particolare ed egoistico, ma che abbia – come è richiesto se ci si vuole collocare nel campo della moralità – una portata generale (o meglio, come ritiene Kant, «universale»). Questa impostazione è stata più volte riproposta negli ultimi decenni. Ricordiamo due casi esemplari. In questo senso, ad esempio, Thomas Nagel ha messo a confronto un approccio alla moralità in termini di desideri o sentimenti soggettivi con un approccio in termini di ragioni. Nagel sostiene che se ci si colloca nell’universo dei desideri o delle emozioni non si riesce in alcun modo a spiegare una condotta che cerchi di superare i limiti della soggettività individuale, concepita come il qui e ora in cui decidiamo. Se vogliamo cercare di spiegare, da una parte, la possibilità di essere motivati da qualche spinta prudenziale nei confronti del nostro bene futuro fatto prevalere sull’immediatezza, o, dall’altra, la possibilità di essere eticamente motivati in termini altruistici, abbiamo bisogno di qualche risorsa razionale che ci permetta di superare l’ottica particolaristica dei desideri o delle emozioni. La linea argomentativa di Nagel risale quindi a ragioni morali «soggettive naturali» che ricavano la loro capacità di motivare da una concezione condivisa della natura umana. Le ragioni morali superano il piano delle spinte egoistiche dei desideri in quanto rendono operativa un’idea minima di persona, o di soggetto umano capace di comportarsi altruisticamente e di essere motivato dalla percezione del dolore altrui16. Un’analoga strategia di internalismo razionalistico è quella percorsa da John Rawls17. Rawls critica l’etica di Hume per la mancanza di una razionalità pratica. Hume perderebbe di vista che la

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razionalità è la sola capacità umana in grado di motivare direttamente verso un certo risultato considerato migliore di un altro proprio in quanto supera il piano dei desideri egoistici. Nelle sue analisi Rawls ripercorre la strategia chiaramente delineata alla fine del XVII secolo da John Locke. Questi riteneva infatti che l’intelletto umano fosse addirittura capace di risvegliare il desiderio umano orientandolo verso il bene. Così, secondo Locke, un alcolista che effettivamente comprenda che la sobrietà è un bene non si limiterà ad apprezzarla ma sarà in grado di suscitare un desiderio per essa che lo terrà lontano dall’alcol18. In alternativa a questo quadro razionalistico, in queste pagine privilegiamo una ricostruzione sentimentalistica della motivazione morale. Per quanto riguarda le critiche alle pretese di trovare nella ragione una base per tracciare distinzioni etiche capaci di ispirare la nostra condotta, vanno riprese – come abbiamo già richiamato in 2.2.1 – quelle avanzate da Hume. Come spiegava Hume, ciò che è al centro della moralità «non si può scoprire mediante la ragione o il confronto di idee» e dunque si deve concludere che «la morale è più propriamente oggetto di sentimento che di giudizio»19. Sempre alle analisi di Hume si può far risalire la negazione che la ragione possa motivare alla condotta morale, in quanto la ragione viene presentata come una facoltà inerte e la morale come tale da coinvolgerci passionalmente. Muovendo da questa caratterizzazione della ragione essa può essere considerata solo capace di ragionamenti di natura strumentale indicandoci quale via privilegiare se vogliamo raggiungere un certo obiettivo, ma incapace di indicarci mete o di farcene apprezzare una rispetto ad altre: «per quanto la ragione, se pienamente sviluppata, sia sufficiente per istruirci delle tendenze dannose o utili di qualità e azioni; essa non basta da sola a produrre qualche biasimo o qualche approvazione morali. L’utilità è solo una tendenza a un certo fine; e se il fine ci fosse del tutto indifferente, noi proveremmo la stessa indifferenza nei riguardi dei mezzi per conseguirlo.

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Qui occorre che si affermi un sentimento, affinché si dia una preferenza alle tendenze utili rispetto a quelle dannose. Questo sentimento non può essere che una sensibilità per la felicità degli uomini e un risentimento nei confronti della loro infelicità, giacché questi sono i diversi fini che la virtù e il vizio tendono a promuovere. Qui dunque la ragione ci insegna a che cosa tendono le azioni, e il senso di umanità opera una distinzione in favore di quelle che sono utili e benefiche»20. Nell’elaborare i meriti della spiegazione sentimentalistica della forza motivazionale dell’etica, dobbiamo precisare in primo luogo che ci muoviamo all’interno di una concezione che, riprendendo Hume, considera le emozioni principalmente come degli eventi psicologici affettivi e non già come dei processi cognitivi21: le emozioni, i sentimenti e le passioni sono appunto delle reazioni psicologiche affettive che costituiscono una sorta di riflesso individuale alle sensazioni, ai piaceri e ai dolori fisici. Non solo. Le emozioni e i sentimenti sono un fenomeno psicologico del tutto originario che diversamente dalla sensazione empirica non riflette o raffigura una qualità sensibile delle cose. Secondo l’impostazione sentimentalistica, in definitiva, non c’è niente di maggiormente contrario alla nostra esperienza quanto la tesi secondo cui sapere che una persona è meritevole del nostro amore basta per produrre un reale amore nei suoi confronti. I sentimenti non si possono volere e non possono derivare da qualche altra azione della mente. Ciò non toglie che ricostruire come stanno esattamente le cose può essere un passaggio obbligato per far sorgere un’emozione o un sentimento (o per far sparire una passione). Ma nessun accumulo di conoscenze o informazioni può essere in grado di generare in una persona un’emozione o un sentimento che essa non abbia già provato e di cui non sia già, in un certo senso, dotata. Una spiegazione nel dettaglio di questa impossibilità psicologica di ricondurre la moralità a una conoscenza è stata fornita, ad esempio, da Nichols, che ha mostra-

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to sperimentalmente come conoscere una regola può accompagnarsi benissimo a una condotta che in nessun modo la applichi: come illustra il caso degli psicopatici sociali. Costoro sanno bene, ad esempio, quali sono le regole giuridiche contro l’omicidio ma, non provando nessuna emozione personale di rifiuto delle sofferenze altrui, restano indifferenti di fronte a queste reazioni anche quando espresse dalle loro vittime: conoscono e sanno come stanno le cose ma non provano nessuna reazione emotiva (se non, talvolta, la reazione emotiva patologica) verso la situazione22. Se poi vogliamo connettere la dimensione della praticità della morale con l’esigenza di salvaguardare la scelta autonoma e responsabile della persona moralmente impegnata, possiamo vedere che la concezione sentimentalistica ha un’indubbia efficacia esplicativa. Non solo, come si è spiegato, la capacità di fare distinzioni etiche risiede in una personale e concreta reazione emotiva di fronte alle sofferenze o ai piaceri che un’altra persona prova come effetto dell’azione di un’altra persona. Ma, inoltre, non sembra certo possibile che noi si provi un’emozione o un sentimento di un’altra persona mentre possiamo condividere con un’altra persona un sapere e il contenuto di un giudizio di conoscenza. All’obiezione secondo cui potremmo essere spinti a provare un sentimento e un’emozione per mezzo di una manipolazione dall’esterno cercheremo di rispondere più avanti, quando caratterizzeremo la natura peculiarmente riflessiva dei sentimenti morali. I sentimenti morali sono sicuramente emozioni che noi dobbiamo concretamente provare ma non vanno confusi con pulsioni immediate e dirette quali, ad esempio, la paura, l’amore, l’odio o l’invidia: quelli morali sono, per così dire, sentimenti di secondo livello. Se non riuscissimo a indicare una qualche connessione tra i sentimenti morali e un processo di riflessione critica sulla loro accettabilità, ci troveremmo di fronte a un’insufficienza radicale della meta-etica sentimentalistica, incapace di catturare la dimensione

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dell’argomentabilità che è propria delle prese di posizione morali. Non bisogna dunque confondere – come vedremo – i sentimenti morali con le emozioni più immediate, dirette e viscerali che possiamo provare23. La specificità e peculiarità dei sentimenti a base della moralità viene riconosciuta insistendo sul fatto che si tratta di una specifica motivazione non auto-interessata in grado di motivare la condotta umana. Anche in questo caso possiamo rinviare a quanto già scritto nel precedente capitolo sull’individuazione di un’affezione del genere all’interno del modello esplicativo della condotta umana fornito da Hume e Darwin, e dall’evoluzionismo biologico24. A proposito di ciò che motiva la condotta umana, Hume sosteneva che è difficile trovare un essere umano nel quale gli investimenti emotivi nei confronti degli altri, a partire ovviamente dalle persone a lui più vicine e che gli sono più care, non prevalgano su quelli egoistici. Questo equivale a radicare la capacità della moralità di motivare sul riconoscimento empirico dell’incidenza della simpatia nella nostra condotta sociale25. La moralità umana innesta su questa basilare reattività simpatetica e altruistica tutta una serie di ulteriori specificazioni, e in primo luogo – come spiegheremo nel prossimo capitolo – il rinvio alle persone e alle loro qualità come oggetto specifico del sentimento morale. Ma questa articolazione aggiuntiva non potrebbe avere luogo se nella nostra sensibilità non fossero radicate tendenze simpatetiche ed emozioni altruistiche, con un’estensione al di là della nostra specie, che ci spingono a rifiutare le sofferenze altrui partecipando a quanto accade ad altre persone. Trovare alla base della praticità della morale questo sentimento che le persone provano realmente in presenza delle sofferenze altrui permette anche di spiegare le trasformazioni che l’etica ha subito nel corso della storia umana. La forza pratica della morale si innesta infatti in un sentimento che rappresenta anche un continuo motore di cambiamento per le nostre impostazioni etiche.

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3.3. Intersoggettività e oggettività Come abbiamo già detto, chi vuole spiegare la moralità si trova di fronte alla necessità di riuscire a fornire una spiegazione adeguata alla pretesa di una validità oggettiva, o se si vuole intersoggettiva, che accompagnerebbe i nostri giudizi su ciò che è bene, giusto, doveroso, obbligatorio e doveroso. Questi giudizi sono proprio per questo radicalmente diversi da quelli di gusto. Il compito di rendere conto della pretesa di oggettività sembra essere particolarmente arduo per chi vuole sviluppare una spiegazione sentimentalistica dell’etica e così facendo non può fare ricorso né alle assunzioni di un realismo ontologico, né a quelle di un razionalismo universalistico di natura trascendentale, come quello che troviamo nella filosofia pratica kantiana. Le linee che restano aperte, una volta messe da parte queste due concezioni dell’etica, sembrano essere quella di negare completamente la pretesa di oggettività o quella di cercare di riformularla in termini accettabili. Percorreremo questa seconda strada, dopo aver reso conto delle insufficienze della prima26. Moore sì è decisamente impegnato a sostenere l’inconciliabilità tra oggettività dell’etica e un’analisi soggettivistica in termini di preferenze, emozioni e sentimenti, in quanto questa analisi «comporta la singolarissima conseguenza che due persone non possono mai avere un’opinione diversa rispetto al fatto che un’azione sia giusta o ingiusta»27. Ma questa critica di Moore a tutte le concezioni soggettivistiche non è giustificata. Essa suggerisce che possiamo dare un significato alla pretesa di oggettività dei giudizi morali solo dandole una portata ontologica. In questa luce l’unica meta-etica adeguata è quella del realismo morale che, appunto, ritiene che i valori siano una parte del mondo non diversa dalle sedie e dalle montagne. Moore tenta di attenuare questo esito riconoscendo ai valori una realtà del tutto peculiare, in quanto qualità non-naturali che hanno un’esistenza non circoscrivibile nello spazio e

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nel tempo e che sono percepibili solo con una speciale intuizione28. Ma se tutto quello che riusciamo a fare, muovendo dalla ricostruzione del significato di oggettività che fornisce Moore, è inventarci un mondo a cui non possiamo accedere con la nostra esperienza sensibile, allora tanto vale abbandonare il requisito dell’oggettività dell’etica. Contro il requisito dell’oggettività forte, attribuita alla moralità da intuizionisti realisti come Moore, sono state elaborate nel secolo passato alcune teorie alternative e radicali. Secondo queste teorie la pretesa di oggettività non è altro che una confusione linguistica, un mito non diverso da quello che ammette l’esistenza di spiriti e folletti. Tale è la posizione espressa da Alfred Jules Ayer29, il quale presenta una concezione «radicalmente soggettivistica» dei giudizi morali: l’etica non ha alcun significato, i giudizi etici «di validità obiettiva, quale si voglia, non ne hanno nessuna», e i termini etici vanno analizzati esclusivamente come «il tono di ripugnanza o i punti esclamativi che noi aggiungiamo al significato letterale dell’enunciato». Perciò, secondo Ayer, i giudizi morali sarebbero solo pseudoproposizioni e, dunque, «in realtà non si discute mai su questioni di valore». Procedendo così Ayer non spiega affatto la natura dell’etica ma la elimina sulla base di alcuni suoi presupposti teorici, e il suo emotivismo non ha nulla a che fare con il sentimentalismo che stiamo elaborando30. Di certo un’analisi dell’oggettività dei valori che li concepisca come forniti di una loro realtà in sé, del tutto indipendente dalla soggettività umana, è solo una bizzarria (solo forme spinte di teismo e spinozismo possono renderne conto). Se ci poniamo la questione metafisica di ciò che intendiamo con le parole ‘obbligazione’, ‘bene’, ‘male’, è difficile non tenere conto dell’impostazione di William James: «Immaginatevi un mondo assolutamente materiale, contenente soltanto fatti fisici e chimici, esistente dall’eternità senza Dio e senza neanche uno spettatore interessato: avrebbe qualche senso dire di quel mondo che uno dei suoi stati è migliore di un altro? Indubbiamente in un mondo

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completamente privo di sensibilità non esiste uno status in cui il bene e il male si possano trovare. Né le relazioni morali né la legge morale possono apparire in vacuo. L’unico ambiente possibile può essere una mente che li avverte; e nessun mondo formato di fatti puramente fisici può mai essere un mondo a cui si applicano proposizioni morali. Comunque, nel momento in cui un essere dotato di sensibilità diventa parte dell’universo si dà la possibilità che mali e beni esistano realmente. Da quel momento le relazioni morali hanno il loro status nella coscienza di quell’essere. Nei limiti in cui egli sente qualche cosa come buono lo rende tale. È buono per lui ed essendo buono per lui è buono assolutamente, perché in quell’universo è l’unico creatore di valori e al di fuori della sua opinione le cose non hanno alcun carattere morale»31. Una volta preso atto che «bene e male vengono creati dai giudizi», dobbiamo provare a riformulare la pretesa di oggettività. Non del tutto soddisfacente in questa direzione è la strada percorsa dal filosofo australiano John Leslie Mackie con la sua teoria che attribuiva un errore fondamentale a tutta l’etica. Da una parte Mackie riconosceva correttamente che la pretesa all’oggettività dei valori si presenta come un risultato proiettivo dell’evoluzione culturale degli uomini; più propriamente come una «convenzione» linguistica e concettuale. Ma, dall’altra parte, rilevava che l’etica, incorporando questa convenzione, finisce con il suggerire comunque che i valori esistano come delle proprietà e fatti del mondo e, dato che le cose non stanno così, tutti i giudizi morali risultano falsi e ingannevoli32. In Mackie sembra dunque mancare quella che è l’assunzione di fondo delle diverse impostazioni meta-etiche non-descrittivistiche, ovvero che i giudizi morali da un punto di vista linguistico non sono in alcun modo delle descrizioni o asserzioni e dunque fanno riferimento ai fatti solo in modo molto indiretto. Le diverse analisi non-descrittivistiche dell’etica possono dunque interpretare in termini completamente di-

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versi la natura della pretesa di oggettività dei giudizi morali: se la principale funzione della moralità non è quella di descrivere o raffigurare il mondo, in essa una pretesa di oggettività non coinciderà con quella rintracciabile nelle asserzioni fattuali o nelle proposizioni delle scienze. In luogo di una pretesa «forte» di oggettività agganciata alla descrizione del mondo, queste analisi non-descrittivistiche dell’etica rintracciano una più «debole» pretesa di oggettività presupposta dai nostri usi effettivi. Enunciando un giudizio morale trasmettiamo una qualche rivendicazione di ottenere una convergenza su di esso tra tutti gli agenti morali che verranno a conoscenza della situazione che stiamo valutando33. Naturalmente, sottoscrivendo il giudizio morale che prescriviamo ci impegniamo anche a fornire tutte le giustificazioni che siamo in grado di richiamare per spiegare la validità della posizione che stiamo assumendo, e tra queste giustificazioni, in modo indiretto, saranno richiamate ricostruzioni di come stanno le cose o di come potranno stare dopo che avremo agito. Ma il nucleo centrale dell’oggettività dell’etica è appunto una pretesa all’accettazione intersoggettiva del contenuto del nostro giudizio. Riprendendo le analisi di Hare, possiamo formulare questa pretesa come la rivendicazione del carattere «universalizzabile» del giudizio morale che stiamo sottoscrivendo: siamo tenuti cioè a dare lo stesso giudizio in situazioni simili, anche se diverso sarà il nostro ruolo in esse, e riteniamo che gli altri esseri umani ne devono riconoscere la giustezza34. Nel corso degli ultimi secoli sono state presentate numerose concezioni – sia razionalistiche che sentimentalistiche – che hanno interpretato l’etica come una faccenda non riducibile a una qualche descrizione o raffigurazione dei fatti o delle cose e che pure, tuttavia, rivendica qualche validità oggettiva e intersoggettiva. Molto ampia è la schiera dei non-descrittivisti che hanno analizzato poi l’oggettività come un esito che si può guadagnare rispettando le regole della razionalità pratica. È stata così ampiamente riproposta la concezione di Kant che

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presenta ciò che è oggettivamente valido come qualcosa che ogni essere razionale – o meglio, trattandosi della moralità, ogni agente razionale – accetterebbe o dovrebbe accettare. L’impostazione che tende a spiegare in termini razionali le condizioni di possibilità dell’oggettività in etica ha avuto versioni meno forti di quelle legate alla concezione kantiana della trascendentalità della ragione. Ad esempio, nel XX secolo è stata coniugata in termini di condizioni di significato del linguaggio o discorso morale da vari pensatori quali Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas: secondo questi pensatori l’oggettività dell’etica si realizza laddove rispettiamo le regole logiche o d’uso che caratterizzano il discorso morale come una sorta di apriori comunicativo che sembra così occupare, se visto dalla prospettiva della persona morale individuale, uno spazio di trascendenza e non disponibilità non molto diverso da quello presupposto dalle tradizionali concezioni realistiche35. Altre concezioni razionalistiche più storiche o procedurali sono quelle che, come ad esempio nel caso della teoria della giustizia di Rawls, indicano l’oggettività come una condizione contestuale preesistente al confronto interpersonale sulle questioni morali. Il punto è che noi disporremmo di una serie di intuizioni morali condivise, rispetto alle quali valutare la maggiore o minore oggettività degli esiti che privilegiamo a seconda che essi si accordino o meno con queste intuizioni di partenza, realizzando con esse quell’«equilibrio riflessivo» che dà validità al nostro giudizio36. Queste interpretazioni dell’oggettività non risultano convincenti nel modo in cui usano questa pretesa, una volta agganciata a un contesto logico-linguistico o storico-culturale preesistente rispetto al processo con cui il soggetto forma il proprio punto di vista etico. I nostri giudizi etici guadagneranno un’oggettività in quanto individualmente ci adegueremo a un criterio già riconoscibile nella pratica delle regole del linguaggio morale o delle intuizioni condivise. Non solo l’oggettività dell’etica è già data ma si presenta come orizzonte unico e immutabile per tutti coloro

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che si vogliono impegnare in valutazioni morali adeguate. L’oggettività delle concezioni razionalistiche sembra impegnata a catturare quei tratti di assolutezza ed eternità che le concezioni teistiche e realistiche ritenevano come essenziali della moralità. Ma così facendo si espungono dalla pratica della moralità componenti quali il cambiamento, la rivedibilità e la diversità che sembrano innegabili sul piano della nostra esperienza di vita. Completamente diverso è dunque il modo in cui spiegheranno la pretesa dell’oggettività dell’etica le concezioni meta-etiche che uniranno alla caratterizzazione non-descrittivistica l’elaborazione di una prospettiva sentimentalistica. Questa spiegazione, come abbiamo ripetuto più volte, potrà riprendere e sviluppare elaborazioni già offerte nel corso del XVIII secolo da Hume e Adam Smith37. In primo luogo, come si è già spiegato, la concezione sentimentalistica è fortemente impegnata a rendere conto che il sentimento morale espresso nelle nostre approvazioni etiche non coincide in alcun modo con le emozioni più immediate che sentiamo sulla base della nostra inclinazione momentanea o in risposta alle relazioni contingenti, più o meno strette, che nella situazione in cui ci troviamo abbiamo con le altre persone38. Il contesto di oggettività in cui dobbiamo collocare le nostre valutazioni etiche è dunque costruito attraverso una serie di correzioni delle nostre emozioni realizzata assumendo – come suggeriva Hume – quel «punto di vista fermo e generale» che ci consente di valutare anche le persone lontane da noi nel tempo e nello spazio, in particolare considerando quali sono state le loro condotte nei confronti di coloro con cui esse erano in relazione. Il contesto di oggettività che abbiamo ricostruito guadagnando un punto fermo e generale di valutazione rappresenta solo il presupposto per fare intervenire – come un’impostazione sentimentalistica non può evitare di esigere – quella clausola finale rappresentata dalla concreta reazione del sentimento morale normativamente inteso che cercheremo di illustrare nel prossimo capitolo.

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Per una più compiuta delineazione dell’oggettività cui possiamo pretendere nella vita morale, dei suggerimenti molto utili furono offerti da Smith. Nella sua Teoria dei sentimenti morali troviamo un’analisi tesa a rendere conto di un dato indispensabile della vita morale e cioè che essa comporta che noi si valuti, approvando e disapprovando, non solo la condotta altrui ma la nostra stessa condotta. Smith allargò la costruzione di un contesto di oggettività dal punto di vista dei sentimenti dell’agente morale chiamando in causa uno «spettatore interno», che in ciascuno di noi sottopone a esame le proprie condotte. Spiegava Smith: «Ci sforziamo di esaminare la nostra condotta come immaginiamo che la esaminerebbe ogni altro equo e imparziale spettatore. Se mettendoci al suo posto prendiamo parte del tutto alle passioni e alle motivazioni che l’hanno influenzata, l’approviamo, per simpatia con l’approvazione di questo immaginario giudice equo. Se questo non succede, prendiamo parte alla sua disapprovazione, e condanniamo la nostra condotta»39. Nella prospettiva di questo spettatore interno, imparziale ed equo, troviamo il punto di vista fermo e generale che può dare oggettività alle nostre valutazioni di autoapprovazione e autodisapprovazione. La spiegazione genetica della presenza di questo «uomo interno» in ciascuno di noi può essere fornita – come anche Smith prova a fare – in termini compiutamente naturalistici, considerandolo come una proiezione delle nostre esperienze e delle regole morali che ci sono state trasmesse. L’esigenza generale della meta-etica sentimentalistica, cioè che all’interno di questo contesto di oggettività dato dall’immaginario spettatore interno resti decisiva la clausola delle emozioni e dei sentimenti, viene salvaguardata radicando in essi l’approvazione e la disapprovazione della nostra stessa condotta. L’autovalutazione non è così il prodotto di una coscienza razionale che ci guarda dal di fuori, ma una nostra condizione interna ed emotiva per la quale non proviamo vergogna per quanto abbiamo fatto nel passato: anzi, possiamo essere orgogliosi del nostro carattere morale.

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Cogliere la pretesa di oggettività propria dei giudizi morali può essere vista anche come capacità di percepire che i contenuti moralmente privilegiati sono tali in quanto non dipendenti da comandi o costrizioni esterne. Questa è un’altra faccia di quella dimensione dell’autonomia della moralità richiamata in precedenza. La teoria sentimentalistica può ancora fare ricorso, quindi, alle analisi sperimentali fatte da Nichols sulla formazione della capacità di formulare il «giudizio morale essenziale». Questa capacità – ricordiamolo – comporta il riuscire a sentire a livello motivazionale che le regole morali sono categorialmente distinte da quelle regole della consuetudine e dell’etichetta che invece dipendono da specifici contesti di validità. Siamo capaci di moralità solo in quanto consapevoli che non facciamo o approviamo ciò che è moralmente apprezzabile perché ci viene detto da qualcuno, ma perché è giusto: imparare le regole morali è qualcosa di profondamente diverso dall’imparare le regole degli scacchi o di qualsiasi altro gioco o dall’apprendere a uniformarsi alle regole di un particolare club di cui siamo entrati a far parte. Le regole morali hanno dunque una loro pretesa di oggettività che le distingue da tutte queste altre regole. Le ricerche di psicologia empirica sullo sviluppo individuale mostrano che bambine e bambini sono in grado di distinguere questi due tipi di richieste sulla loro condotta già nei primi anni di vita e, in particolare, a partire dal periodo tra la fine dei due anni e i tre anni40. Il punto è che proprio queste ricerche indicano come la pretesa di oggettività che accompagna la morale possa essere raggiunta solo sentimentalmente, ovvero sentendo effettivamente quella partecipazione per le sofferenze altrui che le fa giudicare negative in se stesse e non solo perché qualcuno ci dice o ci impone di considerarle tali. 3.4. Il ricorso alle giustificazioni e argomentazioni Un’altra ovvietà della moralità di senso comune che una versione sentimentalistica dovrà spiegare è quella per cui

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l’etica costituisce una pratica della nostra vita nella quale la gente si confronta su ciò che è bene, giusto e virtuoso, richiedendo e avanzando ragioni a sostegno delle scelte fatte. Come abbiamo già visto, ci sono teorici della morale – in primo luogo Ayer, ma dopo di lui, sia pure su basi teoriche diverse, anche Charles L. Stevenson41 – i quali hanno ritenuto che questa pretesa di argomentabilità nella morale sia mal riposta e ingiustificata in quanto in realtà non si potrebbe ragionare sulle questioni di valore. Ma coloro che riducono la moralità a una forma di propaganda sulla quale è inutile – anche perché logicamente impossibile – discutere finiscono con l’assimilare una posizione etica a quella per cui una persona rivendica esplicitamente che fa quello che fa perché le fa comodo e non vuole in alcun modo giustificarsi. Anzi, forse una persona che procede così è anche migliore perché intellettualmente onesta e non ci inganna chiamando in causa presunti valori. Si tratta di risultati estremi di una prospettiva che evidenzia l’esigenza di non allontanarsi dai fatti naturali fino a negare la presenza nella nostra vita di benefici spiegabili solo come risultato della condotta etica degli esseri umani. Rispetto alle posizioni di coloro che negano l’etica e di coloro che riconducono il contenuto della discussione etica al riscontro dei fatti in gioco o alla verifica del tipo di emozione che ciascuno prova esattamente di fronte alla situazione in esame, la nostra concezione sentimentalistica condivide un rilievo avanzato da Stanley Cavell all’analisi di Stevenson. Cavell rilevava42 che, in una teoria – come quella di Stevenson – che assimila l’unica forma di argomentazione a cui si può ricorrere per superare un disaccordo etico a una verifica dei fatti in gioco, possiamo diagnosticare in realtà una vera e propria «assenza della moralità». Ciò in quanto Ayer e Stevenson, con le loro analisi, mostrerebbero di essersi dimenticati del modo in cui nella vita ordinaria affrontiamo i nostri disaccordi morali. Non solo c’è un senso ovvio in cui ciascuno di noi discute con gli altri su questioni di valore, ma vi sono anche con-

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dizioni del tutto ovvie con cui sappiamo distinguere una ragione che cerca di convincerci sulla correttezza etica di una certa posizione da un mero appello teso a persuaderci ad accettarla. Così siamo in grado di distinguere una convergenza con le posizioni etiche altrui, frutto di una comune e attenta revisione dei rispettivi punti di vista, da un accordo frutto di opportunismo o di lavaggio del cervello da parte di qualcuno degli interlocutori. Ben lungi dal negare queste condizioni dell’argomentabilità in etica, una versione sentimentalistica deve saperle cogliere. Per seguire il sentimentalismo lungo questa strada costruttiva bisogna però abbandonare un pregiudizio del paradigma kantiano e razionalistico. Il pregiudizio da abbandonare è quello secondo cui le impostazioni che rinviano al ruolo risolutivo delle emozioni e dei sentimenti in morale finiscono con l’ancorare il giudizio etico a stati psicologici volubili, labili e del tutto rozzi e immediati43. Già con le elaborazioni presenti nelle opere di Hume e di Smith, invece, il sentimentalismo riconosce la natura riflessiva dei giudizi espressi dal punto di vista morale e questo riconoscimento apre dunque lo spazio necessario per rendere conto del ricorso a giustificazioni, argomentazioni e ragioni – siano esse rivolte a se stessi, nel momento in cui si delibera o si riesamina la propria condotta, o ad altri per spiegare ciò che abbiamo ritenuto di dover fare – come costitutivo dell’etica. Impegnandosi a ricostruire la natura riflessiva dei giudizi morali, il sentimentalismo non può che distinguere dunque tra la mera occorrenza di una qualunque emozione nella sua immediatezza e la sottoscrizione di un’emozione come risposta moralmente valida alla situazione. Non potremmo proporre un’etica sentimentalistica come risposta all’attuale condizione storica degli esseri umani, così drammaticamente caratterizzata dal diffondersi di emozioni del tutto inaccettabili come la paura delle novità e dei cambiamenti o l’odio per le persone diverse sul piano etnico, religioso e culturale, se all’interno di quest’eti-

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ca non vi fossero risorse per distinguere tra le emozioni che danno corpo ai giudizi morali e quelle espresse in modo immediato senza alcuna riflessione ed elaborazione. Oggigiorno le reazioni emotive immediate delle persone vengono spesso utilizzate a fini politici, anche nei sistemi democratici, da coloro che cercano di ottenere consenso facendo leva sulle passioni peggiori della popolazione44. Il sentimentalismo etico che stiamo delineando cerca di elaborare criteri per distinguere tra queste emozioni, di cui fanno uso i demagoghi, e quelle che possono aiutare una società ad aprirsi e a migliorare la cooperazione al suo interno. I sentimenti morali devono essere chiaramente distinti dalle emozioni viscerali che oggigiorno vengono espresse violentemente nelle relazioni sociali, e vi sono delle risorse argomentative ed epistemologiche per distinguere le emozioni moralmente connotate da quelle che tali non sono. Si tratta di un passaggio decisivo per un’etica sentimentalistica che deve mostrare di non essere costretta a ridursi a una forma di conservatorismo e che, a proposito di ciò che sia moralmente legittimo fare di fronte alle novità relative ai modi di curarsi, nascere e morire, non debba farsi portavoce dell’indignazione e del disgusto espresso dai difensori dei valori della tradizione. Va trovata una risposta dunque all’obiezione già avanzata da Jeremy Bentham nel 1789 contro quei sistemi che, come quelli di simpatia o del senso morale, «si riducono ad altrettanti espedienti per evitare di appellarsi a qualche criterio esterno e per forzare il lettore ad accettare i sentimenti o le opinioni dell’autore come una ragione e una ragione sufficiente in se stessa»45. I sentimentalisti possono rispondere a queste critiche sia insistendo sulla diversità genealogica tra emozioni immediate e sentimenti morali e sia ribadendo la loro consapevolezza della radicale diversità contenutistica – che abbiamo più volte richiamato – tra i sentimenti moralmente qualificati e le emozioni più personali e interessate. Il primo punto è formulato chiaramente, ad esempio,

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da Annette Baier: «la spontaneità del sentire non esenta i sentimenti dall’essere criticati come appropriati o inappropriati, ragionevoli o irragionevoli, razionali o irrazionali, più di quanto la spontaneità del credere esenta le credenze da tali critiche»46. A proposito del secondo, basta ricordare tutto quello che abbiamo già scritto nel paragrafo precedente per mostrare come il sentimentalismo possa riuscire a catturare l’esigenza che la moralità abbia a che fare con una prospettiva imparziale e intersoggettiva. Per quanto riguarda la strategia positiva di interpretazione dell’argomentabilità in etica in modo consono con una teoria che metta in primo piano i sentimenti e le emozioni, va dunque chiarito che le argomentazioni e le giustificazioni dovranno riguardare l’accettabilità di un dato sentimento ed emozione come risposta a una situazione. Non bisognerà però cadere nella fallacia di considerare l’argomentazione o la giustificazione come capaci di far sorgere e causare direttamente l’emozione adeguata. Questo punto centrale di come vada inteso il ruolo della riflessione e dell’argomentazione all’interno di una prospettiva teorica sentimentalistica è stato analizzato da Bernard Williams quando ha affrontato47 i diversi modi in cui si può cercare di argomentare per favorire il passaggio dall’egoismo all’altruismo. Il punto decisivo dell’analisi di Williams sta laddove spiega che ‘argomentabilità’, per una prospettiva humeana e sentimentalistica, non può significare qualcosa di completamente fondazionale che ci porta, attraverso il ricorso a qualche ragionamento, a trasformare radicalmente la nostra prospettiva da egoista ad altruista. Questo è il modo in cui fallacemente la questione verrebbe ricostruita da una versione kantiana, che cercherebbe di spiegare il passaggio come un salto da motivazioni emotive particolaristiche fondate sui desideri a motivazioni universali suggerite dalla ragione, sottratta all’influenza delle emozioni. Come spiega Williams, in realtà non ci sono processi puramente razionali per fare sì che un uomo passi da desideri concernenti solo se stesso a desideri non concer-

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nenti se stesso. Elaborare una concezione dell’argomentabilità che presupponga il compito di trovare ragioni di questo tipo equivale a muoversi in una versione razionalistica dell’etica, dando per buona l’interpretazione dell’argomentabilità dell’etica congruente con questa versione. Una prospettiva sentimentalistica accetta l’idea che i desideri e le emozioni non possono essere prodotti o suscitati da processi razionali, ma ritiene che emozioni e sentimenti possano essere modificati e corretti solo da un processo graduale al cui interno si presentano anche informazioni e regole logiche. Non c’è dunque nessuna strada per una fondazione razionale della superiorità dell’altruismo sull’egoismo48: un’argomentazione a favore di una prospettiva etica più generale e meno dipendente dalle emozioni particolaristiche va piuttosto vista – così come spiega analiticamente Cora Diamond – come un processo gradualistico di revisione e allargamento di quelle emozioni e quei sentimenti che ci troviamo già ad avere49. La correzione delle distorsioni, per così dire, particolaristiche delle emozioni erronee dal punto di vista morale dovrebbe avvenire non tanto ragionando, quanto piuttosto mettendosi in condizione di sentire meglio ciò che vi è in gioco in una certa situazione. Un’esigenza che Diamond indica con chiarezza quando suggerisce che il compito della riflessione morale sta non solo nell’illuminare la comprensione delle situazioni, ma nel migliorare in un certo senso gli affetti e realizzare uno «stile di interesse e affettivo» verso la situazione senza cadere nel sentimentalismo50. Su questa linea procedeva già Hume quando indicava i modi in cui con l’immaginazione – non più uno strumento per fondare o per conoscere ma solo per correggere le distorsioni – si può assumere un punto di vista più generale, eliminando così le parzialità in gioco nelle relazioni dominate dalle regole associative che governano la simpatia51. Non diversamente Smith indicava nel modo in cui si cerca di costruire uno spettatore interno imparziale il processo immaginativo con cui si controllano le proprie

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emozioni personali e si costruisce un punto di vista riflessivo su di esse52. Per la prospettiva sentimentalistica argomentare in etica significa dunque fare ricorso alle risorse di un’immaginazione capace di presentare vividamente la situazione in esame, con tutte le caratteristiche rilevanti in primo piano, alla mente di chi riflette sulla giustezza delle emozioni provate in modo più immediato e diretto. Analizziamo, dunque, brevemente come dovrebbe procedere l’immaginazione individuale quando si impegna a mettere alla prova l’accettabilità morale dei sentimenti che proviamo in riferimento a una certa situazione. Occorre subito chiarire che l’immaginazione impegnata nella riflessione etica non procede esclusivamente lungo le vie percorse quando si limita a controllare sul piano empirico come siano andate le cose su cui si sta esprimendo un giudizio morale. Quali siano poi le componenti della situazione su cui maggiormente si fisserà la nostra immaginazione per rivedere la validità delle nostre conclusioni etiche lo potremo determinare con maggiore compiutezza una volta che, nel prossimo capitolo, avremo presentato la nostra etica normativa che ci dirà ciò che conta in morale. Accertato comunque che l’immaginazione non dovrà aiutarci solo a ricostruire come sono andate le azioni, o quali saranno le conseguenze prevedibili delle diverse alternative, essa dovrà spingersi a identificare quali sono stati i caratteri e le qualità individuali che hanno spinto le persone a compierle. Può risultare comprensibile, sulla base di quanto abbiamo scritto, la tendenza di alcuni pensatori contemporanei a far coincidere le potenzialità della riflessione morale non razionalistica con quelle di un’immaginazione alimentata dalle risorse della letteratura (in particolare dei romanzi) e del cinema. In questa linea va ricordato il modo in cui Martha Nussbaum – che pure elabora una concezione etica che diversamente dalla nostra riprende le impostazioni di Aristotele –, occupandosi delle «emozioni razionali», insiste sul ruolo svolto da un’immaginazio-

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ne coltivata dalla lettura dei romanzi per rendere possibile un’educazione alla moralità53. Come spiega Nussbaum, la forza dei romanzi – come quelli di Dickens, Forster o Wright, su cui ella si sofferma – sta nel loro contribuire in modo essenziale a costituire il contesto che rende possibile l’esperienza morale: allenando la nostra immaginazione simpatetica attraverso la lettura dei romanzi, ci mettiamo in condizione di comprendere più pienamente le vite dei nostri simili e le loro opzioni, incluse quelle di rilevanza morale. Anche secondo Richard Rorty, per percepire situazioni di crudeltà dobbiamo ricorrere a Dickens e Nabokov e non certo alle analisi della filosofia morale54. Nel mettere in luce le analogie tra ricorso all’immaginazione in morale e fruizione delle narrazioni letterarie e cinematografiche, non bisogna confondere le due cose: solo una reale esperienza emotiva può dare una forza motivazionale a una distinzione morale percepita attraverso una rappresentazione artistica. Gli argomenti morali a cui si richiama l’etica sentimentalistica non possono dunque che essere radicati nell’effettiva esperienza emozionale di fronte a persone concrete e non già a casi letterari. Questa consapevolezza troviamo in Diamond55 che mostra in modo convincente che tutto ciò che poesia e immaginazione letteraria possono fare è «sviluppare le capacità del cuore [...] approfondendo la nostra vita emozionale e la nostra comprensione di essa», ma che poi la moralità richiede anche una capacità di distinguere tra ciò che accettiamo e ciò che rifiutiamo. Come si è detto, l’analisi sentimentalistica dei modi in cui si può argomentare e presentare giustificazioni in etica – dato che la diversità tra è e deve è uno degli elementi costitutivi di una meta-etica sentimentalistica – dovrà rendere chiare le differenze tra le procedure cui si ricorre per mettere da parte le nostre credenze erronee sul mondo e quelle che ci permettono di abbandonare le convinzioni morali che non ci sembrano sostenibili. Risulta infatti ovvio che, con l’aiuto dell’immaginazione, l’elaborazione ri-

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flessiva in etica non si limiterà a verificare come stiano le cose o come siano andate, ma cercherà di mettere alla prova l’accettabilità delle reazioni emotive che in risposta ai fatti si sono provate o si devono provare. Questa parte di una teoria sentimentalistica dell’argomentazione etica è stata ancora una volta elaborata da Williams, laddove, ad esempio, ci invita a divenire consapevoli delle diverse basi con cui si può accettare la pretesa di qualcuno di essere un testimone affidabile rispetto a quelle con cui si può accettare che qualcuno sia effettivamente un’affidabile guida morale. Il testimone dovrà essere in grado di fornirci delle informazioni veritiere, mentre per quanto riguarda la guida morale Williams rileva: «Possiamo avere consiglieri che possono essere migliori di altri nell’aiutarci a vedere come stanno le cose dalla prospettiva dei concetti etici, possono aiutarci nella comprensione della situazione e sul fare un certo tipo di scoperta. Tutti questi sono segni di ‘affidabilità’. Tuttavia questi segni non sono caratterizzati nel modo migliore se li traduciamo in termini del possedere una qualche informazione, ma piuttosto saranno meglio compresi nei termini di possedere certe capacità quali il giudizio, la sensibilità, l’immaginazione e così via»56. Un’ulteriore differenza è da prendere in considerazione. Nel caso delle nostre credenze empiriche possiamo ammettere che una conferma del come siano andate le cose possa essere offerta, in assenza di nostre precise evidenze, da tutti gli altri osservatori, purché si segua una procedura pubblica di raccolta delle loro testimonianze. Invece, per quanto riguarda la morale, difficilmente potremmo accettare che il nostro giudizio sia sostituito o sostenuto da emozioni o sentimenti provati da qualcun altro. Nel caso delle credenze possiamo accettare una qualche divisione del lavoro tra noi e gli altri, mentre una analoga divisione dei compiti è del tutto fuori posto in morale. Ancora una volta, per rendere conto di ciò che accade in etica non basta chiamare in causa solo la nostra capacità di sapere o immaginare, ma proprio la nostra capacità di sen-

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tire e provare il tipo peculiare di sentimento in gioco e poi eventualmente di riflettere sulla sua adeguatezza. Parte dell’argomentazione e della riflessione etica, infine, consisterà – come abbiamo spiegato nel precedente paragrafo di questo capitolo – nel guardare alle azioni nostre ed altrui non già dalla prospettiva del nostro interesse personale, ma – come suggeriva già Hume – da un punto di vista generale. Proprio l’immaginazione morale ci permette di elaborare questo punto di vista generale dal quale si valutano le azioni – o meglio, come vedremo nella parte normativa della nostra etica, le qualità e i caratteri delle persone che le compiono –, specialmente sulla base delle sofferenze e delle soddisfazioni che esse provocano nelle vite di coloro su cui ricadono. Come spiega Smith, completando la teoria sentimentalistica di Hume, lo stesso punto di vista generale viene elaborato quando, con l’aiuto della nostra scrupolosità morale – una sorta di «spettatore imparziale» che abbiamo interiorizzato nel corso del processo di socializzazione con i nostri simili –, sottoponiamo a controllo la nostra stessa condotta per vedere se possiamo o meno approvarla moralmente57. Proprio sulla base di queste riflessioni ed elaborazioni immaginative rifiuteremo quelle condotte che si accompagnano a inutili danni o sofferenze, ovvero considereremo del tutto viziose le qualità delle persone che con le loro azioni o con la loro passività rendono possibili tali danni. 3.5. Scetticismo e relativismo morale dal punto di vista sentimentalistico Per concludere la nostra parte meta-etica, fermiamoci a rivisitare alcune delle nozioni che vengono più frequentemente usate per valutare complessivamente la natura della concezione morale di fronte alla quale ci troviamo: ovvero le nozioni di scetticismo e relativismo alle quali spesso si accompagna la nozione di nichilismo. Come abbiamo

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visto, una delle difficoltà principali che secondo Moore accompagna le concezioni soggettivistiche e sentimentalistiche dell’etica è quella di dovere abbracciare un’assurda concezione relativistica per cui, per ciascuno, è bene e giusto quello che viene approvato dai suoi sentimenti (ed eventualmente da quelli condivisi nella società di cui fa parte). Non vi sarebbe dunque nessuna possibilità, se facciamo nostra un’analisi sentimentalistica dell’etica, di rendere conto della pretesa che sembra propria della nostra morale secondo cui certe condotte vanno rifiutate sempre e dovunque da tutti gli esseri umani. Cosa farcene di una spiegazione dell’etica che non riuscisse a rendere conto della nostra pretesa di giudicare che le azioni di Nerone sono state malvagie, che Hitler è stato un criminale morale e i nazisti che lo hanno seguito colpevoli di una catastrofe etica, che, non diversamente, Stalin e tutti coloro che lo hanno sostenuto negli assassini di massa che hanno caratterizzato la storia russa tra il 1930 e il 1950 sono state persone moralmente orrende? Quella che stiamo elaborando è una concezione dell’etica che ci permetta di rifiutare condotte quali le mutilazioni genitali femminili, la poligamia o i matrimoni con bambine di dodici anni (e in genere con minorenni), considerandole moralmente inaccettabili: e chiamando in causa un rifiuto morale stiamo sostenendo che in nessun modo questo giudizio può essere influenzato dalla considerazione che tali pratiche sono giustificate da consuetudini e credenze religiose in molte delle società attualmente esistenti. Abbiamo cercato di spiegare precedentemente – nel paragrafo 3.3 – quali siano le risorse che il sentimentalismo ha per ricostruire una pretesa di validità generale per tutti gli esseri umani che sarebbe propria delle nostre prese di posizione morali. Nel paragrafo 3.4 abbiamo anche indicato il processo critico attraverso il quale il sentimentalismo – con un impasto di simpatia, immaginazione e rifiuto delle sofferenze non volute da parte delle persone – guadagna quel punto di vista generale che costituisce la

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prospettiva morale. Se ripercorriamo questi passaggi, vedremo che possiamo decisamente rifiutare tutte le condotte che abbiamo appena elencato, anche se non possiamo cullarci più nell’illusione – che è propria dei fautori del realismo morale – di avere attinto dei valori ontologicamente fondati o unirci al coro della retorica razionalistica che pretende di disporre di norme universali razionalmente fondate. La meta-etica sentimentalistica riconosce che vi può essere una pluralità di prospettive morali, che le prospettive morali sono aperte a una continua revisione e non vi sono dunque soluzioni etiche definitive. Ma questi riconoscimenti non escludono che quando prescriviamo come giusta o ingiusta una certa condotta in base alle nostre emozioni morali stiamo formulando giudizi che riteniamo debbano valere per tutti gli esseri umani, fino a quando non vi siano esperienze cognitive o emozionali che ci portino ad abbandonare i nostri valori. La nostra rivisitazione della natura della pratica morale degli esseri umani ci spinge dunque anche a ridefinire il significato di categorie quali relativismo etico, scetticismo morale, nichilismo etico ecc. Queste nozioni vanno ridefinite liberandole dal monopolio che su di esse pretendono di avere quelle concezioni assolutistiche, realistiche e razionalistiche dell’etica che abbiamo riconosciuto come del tutto infondate. Per procedere a questa ridefinizione, in primo luogo, dobbiamo prendere atto che tutte queste nozioni hanno un prevalente significato valutativo: sono infatti usate più per giudicare negativamente le concezioni a cui vengono applicate che per comprenderle nelle loro componenti logiche o filosofiche. Ma così facendo, muovendo dalla nostra prospettiva meta-etica, possiamo subito cogliere che per lunga parte della storia dell’etica coloro che hanno fatto ricorso a queste nozioni se ne sono serviti per rifiutare conclusioni morali che non si uniformavano a quei criteri di assolutezza, universalità, definitività ed eternità che accompagnavano le prospettive religiose e razionalistiche della morale. Il criterio con cui sono state e

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vengono per lo più diagnosticate le patologie del relativismo, scetticismo, nichilismo ecc. sta tutto nel distanziamento di qualche concezione dal riconoscimento di valori oggettivi ontologicamente o razionalmente fondati. Una volta preso atto dell’inesistenza di questi valori, tutte queste nozioni dunque non possono che cambiare significato: dovrebbe essere messo da parte il loro uso valutativo e fatto prevalere un uso meramente ricostruttivo. Il primo passo sulla strada di una ridefinizione di queste nozioni consisterà nel riconoscere pienamente la molteplicità di significati che si accompagna a ciascuna di esse. Cominciamo dunque dalla nozione di nichilismo. Possiamo rilevare che la diagnosi di nichilismo viene solitamente fatta da coloro che piangono o deprecano la scomparsa dei valori eterni e assoluti, e dunque in definitiva di un’etica che presume di essere fondata su verità religiose. Ma se così stanno le cose, la nostra ricostruzione propone di usarla solo sul piano storico, ovvero per ricordare non già i moralisti nichilisti, ma piuttosto quei pensatori (ad esempio, Dostoevskij e Nietzsche) che hanno denunciato forme di nichilismo. La nostra concezione dell’etica può liberarsi dallo spettro del nichilismo in quanto la messa da parte dell’illusione di valori assoluti ed eterni non risulta, muovendo da essa, una perdita, ma il guadagno positivo di una visione secolare e naturalizzata della nostra vita. Passando poi alla nozione di scetticismo, dopo averne riconosciuto la pluralità di significati e dunque la grande varietà di «scetticismi morali»58, sosteniamo che in senso stretto lo scettico morale, su di un piano meta-etico, è chi nega che le distinzioni morali abbiano una qualsiasi validità, ovvero ritiene che a esse non possa essere riconosciuta alcuna forza motivante, oggettività e argomentabilità nei sensi – anche molto deboli – che vengono richiesti da un’impostazione che radica tali distinzioni nei sentimenti umani. Questa forma di scetticismo morale potrà forse essere fatta coincidere con la condizione dell’amoralista, di cui ha lungamente trattato Hare: ovvero una per-

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sona che non faccia mai uso in modo sincero dei concetti della moralità o ritenga che tali concetti vadano sempre e comunque evitati, anche quando la loro forza e portata sono state depotenziate e liberate dalla carica coercitiva che ne accompagna il senso assolutistico59. Completamente diverso è il significato sostantivo o contenutistico di scetticismo morale con il quale ci si riferisce a quegli scettici più limitati e moderati che hanno sviluppato una riflessione critica, spesso largamente condivisibile, sulle soluzioni morali tramandate dalle culture del passato. Quando, ad esempio, Hume contesta nel XVIII secolo le idee diffuse sull’inaccettabilità sempre e comunque del suicidio, egli elabora uno scetticismo di questo tipo, anche se è chiaro che le critiche che muove alle soluzioni tradizionali contro il suicidio sono proprio di ordine morale: in nome di una moralità migliore di quella che egli invita ad abbandonare. Lo scettico morale, in questo senso, si avvale delle risorse dell’etica come da lui riformulate per prendere le distanze da soluzioni condivise o accettate acriticamente. Lo scetticismo morale, in questo senso sostantivo o contenutistico, può essere un atteggiamento critico più che giustificato e nel quadro del nostro sentimentalismo coincide con una predisposizione a mettere alla prova sulla base di un’effettiva esperienza emotiva le norme e le regole morali che ci sono state trasmesse. Nei due capitoli seguenti, occupandoci di questioni normative, mostreremo come una moralità ispirata a una prospettiva sentimentalistica non possa non essere scettica dovendo criticamente rivedere larga parte delle regole e delle norme che teisti e razionalisti pretendono di farci condividere. Per quanto riguarda la rivisitazione della nozione di relativismo, va riconosciuto che il nostro sentimentalismo presenta una concezione che sottoscrive una forma di relativismo meta-etico nel momento stesso in cui lega i valori alla soggettività individuale. Ma questo è necessario se vogliamo catturare la nostra esperienza morale e non equi-

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vale certo a negarne il senso60. Un’ulteriore analisi della nozione di relativismo può aiutarci a spiegare questo punto facendo tesoro di una distinzione largamente acquisita tra relativismo morale sul piano descrittivo e sul piano normativo61. Non si possono confondere i due sensi di relativismo: riconoscere, storicamente e sociologicamente, che nelle società in cui oggi viviamo sono presenti diverse concezioni morali (si pensi, ad esempio, alle diverse convinzioni morali di coloro che fanno proprie diverse appartenenze religiose) non equivale certo a sostenere che ciascuna di queste ha lo stesso valore morale delle altre, in quanto la validità dei valori è relativa alla comunità di appartenenza. Quello che conta sul piano morale è dunque il relativismo normativo e, diversamente da quanto sostenuto da Moore, ci siamo sforzati di argomentare che una concezione che considera l’etica come costituita dalle emozioni e dai sentimenti umani non è costretta, logicamente, ad abbracciarlo. Prendiamo, ad esempio, il caso delle mutilazioni genitali femminili: pur riconoscendo che vi sono concezioni nella nostra società che prescrivono tale pratica, il sentimentalista etico, mettendo in primo piano le sofferenze non volute inferte alle bambine coinvolte, non potrà che considerarla una barbarie che le stesse leggi del nostro paese dovrebbero impedire.

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Un’etica della virtù su base sentimentalistica

4.1. L’etica della virtù in alternativa alle etiche dei principi e delle conseguenze Delineata nel capitolo precedente la ricostruzione metaetica propria di una prospettiva sentimentalistica, possiamo ora provare ad affiancarle una concezione normativa sul contenuto da privilegiare come moralmente rilevante. Come è oramai comunemente praticato, divideremo la nostra esposizione della parte normativa in due sezioni: la prima dedicata all’enunciazione dei criteri teorici generali con cui impostare e provare a risolvere le questioni etiche e che potremmo caratterizzare come la nostra etica normativa propriamente detta; la seconda – che presenteremo nel prossimo capitolo – dedicata ad affrontare l’etica applicata, ovvero alcune delle questioni più determinate proprie della nostra epoca (nel nostro caso saranno le questioni della bioetica, dell’etica ambientale e del trattamento degli animali) alla luce dei criteri generali. Ricordiamo che, come abbiamo già detto fin dall’inizio di queste lezioni, le questioni applicative hanno un ruolo prioritario nella nostra teoria sentimentalistica in quanto a tali questioni proviamo a rispondere ritenendo del tutto inadeguata la trattazione che ne offrono le etiche religiose e razionalistiche. Il capitolo precedente ci ha suggerito alcuni requisiti propri di un contenuto eticamente rilevante: dovrà essere

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in grado di motivare la nostra condotta, dovrà essere oggettivo in uno dei sensi di questa equivoca nozione che abbiamo conservato, dovrà essere tale da poter fornire a suo sostegno delle argomentazioni e giustificazioni. Nel delineare la parte normativa della nostra filosofia morale, ciò che dovrà guidarci in particolare è la consapevolezza che abbiamo guadagnato nelle pagine precedenti sul fatto che al centro della moralità ci siano un sentimento e un’emozione che ci portano a tenere conto dei bisogni e delle esigenze altrui, e in particolare a reagire negativamente nel caso di azioni umane che provocano danni e sofferenze non volute negli altri. La nostra elaborazione, può iniziare esaminando la riflessione che si è sviluppata negli ultimi decenni nella quale si sono principalmente confrontate tre linee etiche normative1. La prima – abitualmente presentata come una forma di etica deontologica o dei principi –, che riprende l’impostazione cara a Kant e ai razionalisti, ritiene che la soluzione moralmente corretta debba essere formulata in termini di principi etici che aiutano a individuare quelli che sono i nostri doveri o obblighi prevalenti. L’altra linea, abitualmente caratterizzata con l’appellativo di conseguenzialismo, è quella secondo cui per sapere quale sia la soluzione corretta delle nostre questioni morali dobbiamo identificare le diverse azioni alternative che ci stanno di fronte, poi per ciascuna di esse cercare di immaginare quali saranno le conseguenze che avranno e scegliere quindi quell’azione che ha le migliori conseguenze per tutti coloro che sono coinvolti. Diversamente dalla precedente, l’etica conseguenzialista non ritiene prioritaria la fedeltà a principi o leggi morali – molto spesso fatti coincidere con quelle norme e regole che ci sono state trasmesse dalla tradizione –, ma mette in primo piano una qualche esperienza delle situazioni concrete spesso privilegiando esiti e soluzioni nuove. Infine, la terza impostazione normativa – quella dell’etica della virtù che noi sottoscriveremo – colloca al centro della vita morale una valutazione sia della

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nostra stessa condotta sia di quella altrui in termini di virtù e vizio. La moralità non è dunque nient’altro che una nostra reazione di approvazione o disapprovazione nei confronti delle qualità o del carattere che hanno spinto una persona a compiere le azioni di cui abbiamo esperienza. L’esame critico delle etiche deontologiche o di forme ristrette di conseguenzialismo è stato già sviluppato nei precedenti capitoli sia dal punto di vista della ricostruzione genealogica, come da quello della trattazione meta-etica. Una serie di argomenti è stata sviluppata per mostrare quanto le meta-etiche che accompagnano deontologismo e conseguenzialismo risultino inadeguate dal punto di vista motivazionale, nel modo di rendere conto dell’oggettività delle soluzioni e nel tipo di epistemologia o ragionamento che chiamano in causa2. Non è dunque il caso di ripetere questo tipo di critiche. In generale, queste impostazioni ostacolano la realizzazione di una soddisfacente soluzione alle nostre questioni perché non riescono a mettere in primo piano ciò che effettivamente conta nella vita morale: l’esperienza delle condizioni delle altre persone coinvolte e le sofferenze o i piaceri che in esse ritroviamo provocati dalla condotta di altri o dalla nostra condotta. Esse portano a riflettere e a elaborare analisi lungo vie che il più delle volte ci allontanano dalla valida soluzione morale. Ora però dobbiamo discutere criticamente e più specificamente le loro proposte normative, ovvero quali sono i criteri sostantivi che propongono come soluzione dei nostri problemi morali. Occupandoci delle etiche deontologiche o dei principi dobbiamo confrontarci criticamente con due linee teoriche: da una parte quella che propone un unico principio o legge morale, e che è rappresentata nella sua forma più compiuta da Kant e da coloro che ne hanno ripreso le idee sulla moralità; dall’altra quella che propone una molteplicità o pluralità di principi e che nel XX secolo è stata ben esemplificata prima da William David Ross e poi da John Rawls. Si potrebbero richiamare altre concezioni (ad esem-

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pio, alcune forme di giusnaturalismo), ma privilegiamo le etiche dei principi che abbiamo ricordato perché esse condividono l’assunzione di fondo di queste nostre pagine per cui l’etica è una pratica che riguarda l’umanità nella sua vita naturale senza chiamare in causa componenti trascendenti o fondazioni religiose. Molte delle critiche normative all’etica kantiana sono di natura epistemologica e riguardano l’astrattezza e il formalismo con cui viene enunciato l’imperativo categorico che sta al centro degli obblighi morali. Come abbiamo già detto, da una prospettiva sentimentalistica il difetto principale dell’etica kantiana sta nel confondere l’esigenza dell’imparzialità dell’etica con quella della purezza della legge morale: che le conclusioni morali non debbano privilegiare gli interessi particolari di nessuno è riconosciuto anche dalla meta-etica del sentimentalismo ma che questo possa essere realizzato solo sradicando dalle singole persone tutte le emozioni, anche quelle altruistiche e simpatetiche, sembra un grave errore filosofico. In realtà, proprio qui si radica uno dei principali difetti dell’etica normativa kantiana: la sua assolutezza e pretesa di formulare norme che debbono valere sempre e comunque. Si pensi alle implicazioni moralmente bizzarre che lo stesso Kant trasse dall’imperativo categorico di dire la verità. In polemica con Benjamin Constant, Kant ritenne di dover difendere la tesi che la verità va sempre detta anche di fronte al caso che gli veniva presentato, ovvero se dire o meno la verità sulla presenza in casa nostra di una persona anche a chi la sta cercando per assassinarla3. Il rigore completo della norma, così come talvolta difeso dai kantiani, può trasformarsi in una grave patologia morale della loro etica se porta a forme di fanatismo morale in cui la validità della legge viene fatta valere fino in fondo, senza minimamente tenere conto delle condizioni reali delle persone su cui essa ricade. Un altro limite normativo dell’etica kantiana può essere colto da una prospettiva sentimentalistica se riflettiamo

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su una delle formulazioni più condivise dell’imperativo categorico. Si tratta di quella formulazione che più si collega con il rispetto assoluto per la persona umana, spinto fino a riconoscerle sempre un valore intrinseco e mai un valore strumentale4. La difficoltà normativa qui non sta tanto nell’assurdità di escludere un qualsiasi rapporto strumentale – sia pure parziale, limitato, condizionato e liberamente accettato – con gli altri esseri umani, ma proprio nel contenuto di questa norma. Il punto è che quella che dobbiamo rispettare è una persona razionale e non certo un’individualità umana connotata da desideri e interessi particolari. Questo significa che in nome di questa norma potremmo anche – come a suo tempo fece già rilevare Max Scheler5 – rifiutare qualsiasi sostegno e rispetto per tutti gli obiettivi concreti di tutte le persone con cui siamo in relazione. L’altra insufficienza è data inoltre dal fatto che la morale kantiana, su questa base, escluderà completamente dal raggio dell’interessamento morale tutto ciò che non è riconducibile alla persona umana razionale. È noto che Kant, coerentemente, negava vi fossero doveri morali diretti verso gli animali e a proposito del rispetto della natura riteneva di poter avanzare solo considerazioni estetiche. Come vedremo nell’ultimo capitolo, questa impostazione rende difficile affrontare i concreti problemi morali che oggi si pongono in merito alle nostre responsabilità nei confronti degli esseri senzienti non umani che sono con noi sulla terra e verso l’ambiente o la natura6. Come un tentativo di rivedere i difetti dell’assolutismo e monismo dell’etica normativa kantiana vanno viste alcune forme di pluralismo deontologico elaborate nel secolo scorso. Non ci riferiamo alle posizioni, come ad esempio quella di Isaiah Berlin, che ricostruiscono la vita morale come un campo caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di valori irriducibili che pongono di fronte a conflitti etici irrisolvibili7. Ma piuttosto alle posizioni che riconoscono una lista ben determinata di principi e doveri alla base dell’etica. In questo senso, ad esempio, William

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David Ross presentò un deontologismo pluralista che prendeva le distanze dalla moralità kantiana in due direzioni; da una parte andando oltre il monismo morale kantiano con il riconoscimento di una serie articolata di doveri etici quali, ad esempio, i doveri di fedeltà, di riparazione, di gratitudine, di beneficenza, di non maleficenza, di automiglioramento e di giustizia; dall’altra modificando lo statuto stesso del dovere morale non più concepito come assoluto, ma piuttosto come «prima facie», ovvero tale che nelle situazioni concrete si presenta come condizionale e che quindi solo nel processo deliberativo si presenta come dovere reale8. Un pluralismo normativo troviamo anche nella teoria della giustizia di Rawls che presenta, come operanti nella struttura fondamentale della posizione originaria, i principi di libertà e di differenza9. Queste concezioni normative presentano due tipi di difficoltà. Da una parte la fragilità del criterio con cui identificano i principi che privilegiano sul piano normativo facendo appello a qualche intuizione di senso comune: come aveva già mostrato Sidgwick nei suoi Metodi di etica, qualsiasi forma di intuizionismo normativo pluralistico finisce con il trasformare la constatazione dell’accettazione di alcuni principi nella tesi della loro validità10. Dall’altra l’inefficacia sul piano pratico, laddove l’affermazione di più principi etici validi non si accompagni con qualche criterio preciso per identificare quale sia il principio che si può far valere nella specifica situazione concreta. Queste concezioni pluralistiche sembrano dunque interpretabili in modo convincente solo se tradotte in una struttura più sistematica e monistica. Proprio questo sembra aver fatto Rawls riconoscendo un ordine lessicale tra i due principi e rendendo spesso preordinate quelle condotte etico-politiche che tendono a superare le condizioni di arretratezza di coloro che stanno peggio11. Anche Ross, in definitiva, è stato spesso interpretato in modo tale da ricondurre il suo pluralismo intuizionistico nell’alveo di una concezione che riconosce la priorità di una condotta ispirata dalla non ma-

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leficenza12. Questi aggiustamenti sembrano cercare un ancoraggio dell’etica dei principi alla prevalente esigenza di minimizzare le sofferenze non volute dalle persone coinvolte che muove verso l’etica normativa difesa in questo capitolo. Se passiamo poi a considerare le concezioni normative conseguenzialiste, dobbiamo in primo luogo riconoscere che esse hanno l’indubbio merito di avviare la riflessione etica alla ricerca della soluzione migliore su di una strada aperta all’esperienza e all’innovazione, e questo proprio in quanto ritengono che ciò che conta sono le azioni e la loro giustezza valutata nei termini delle rispettive conseguenze. La struttura epistemologica chiamata in causa dalle etiche conseguenzialiste è sicuramente una parte importante della procedura mediante la quale si può costruire una moralità adeguata: nulla (azione, regola, principio, carattere, istituzione ecc.) può essere moralmente approvato se ciò che produce è solo danni e sofferenze. Va anche riconosciuto che proprio nel XXI secolo l’etica normativa conseguenzialista ha manifestato un’indubbia vitalità dando corpo a numerose forme di utilitarismo che, proprio per aver cercato di tenere conto degli effetti delle condotte da valutare, sono riuscite a confrontarsi con tutti i principali problemi morali del nostro tempo13. Ma muovendo dalla nostra impostazione sentimentalistica enunciamo alcune critiche alla pretesa di presentare come autosufficiente sul piano normativo un’etica conseguenzialista. Non possiamo certo limitare la nostra proposta normativa alla considerazione delle conseguenze delle azioni e saremo costretti a integrarla con un criterio che ci indichi ciò che è decisivo per valutare le diverse conseguenze. Il conseguenzialismo richiede dunque anche una teoria del bene. Solitamente la forma più comune di conseguenzialismo – tanto comune che talvolta si confondono erroneamente le due teorie – è l’utilitarismo. Ma anche un conseguenzialismo integrato esclusivamente dalla tesi che bisogna privilegiare le azioni che sono utili non può

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rappresentare una compiuta teoria normativa. Questa insufficienza era chiaramente già denunciata da Hume quando rilevava che c’è bisogno comunque di un sentimento morale che ci faccia approvare ciò che è utile all’umanità in generale, rispetto a quello che è inutile e rispetto a quello che è vantaggioso per il singolo individuo14. Non è poi accettabile ricondurre l’etica normativa al conseguenzialismo anche perché la stessa area delle conseguenze rilevanti deve essere ulteriormente determinata. Infatti, il mero invito a considerare le conseguenze non basta perché va ulteriormente specificato; da una parte ciò che bisogna considerare calcolandone le conseguenze (atti, norme, regole, caratteri delle persone, istituzioni ecc.); dall’altra che cosa dobbiamo far rientrare nell’area delle conseguenze rilevanti (la serie di effetti prevedibili in un prossimo futuro o in un futuro più lontano; gli effetti per la biografia complessiva della persona che agisce, per le generazioni future, per tutti gli esseri senzienti ecc.). Qualsiasi determinazione ulteriore delle conseguenze che contano darà vita a una diversa teoria normativa. Si pensi appunto a come l’utilitarismo, ovvero l’etica che maggiormente ha cercato di strutturarsi su base conseguenzialista, abbia generato tutta una serie di concezioni in forte polemica tra di loro proprio per il modo di intendere gli aspetti che abbiamo appena ricordato: utilitarismo dell’atto, della regola, della norma ideale ecc.; o utilitarismo biografico, delle generazioni future, degli esseri senzienti ecc.15. Un’ulteriore specificazione dovrà poi offrire il conseguenzialismo relativamente all’ambito in cui fa valere le sue pretese normative, ovvero se si tratta dell’ambito della spiegazione delle motivazioni della condotta umana o di quello della delineazione di giustificazioni delle varie opzioni. Anche questa alternativa richiederà l’aggiunta di sostanziose clausole normative alla mera raccomandazione di badare alle conseguenze dell’azione, e anche queste clausole finiranno con il richiamare il nostro sentimento morale di rifiuto delle sofferenze non volute dalle persone.

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Ma la critica più forte, dalla nostra prospettiva, all’inadeguatezza del conseguenzialismo, almeno nella sua forma classica e prevalente, è quella di considerare moralmente rilevanti solo le azioni, ovvero – come abbiamo spiegato finora – ciò che non solo non conta per la morale ma proprio non basta. Proprio per questo il conseguenzialismo e le forme di utilitarismo che cercano di incorporare questa concezione nella sua forma più semplice (quali l’utilitarismo dell’atto e della regola) vanno incontro a gravi difficoltà sul piano normativo. Numerose sono le obiezioni al conseguenzialismo utilitaristico: quella di essere una concezione normativa inadeguata perché di volta in volta non ci permette di affrontare le questioni di giustizia distributiva, dei diritti e degli obblighi che avremmo nei confronti delle persone con cui abbiamo relazioni speciali (figli, genitori, rapporti professionali ecc.)16. Molte di queste critiche, probabilmente, sono capziose nel senso che coloro che hanno cercato concretamente di elaborare una soddisfacente teoria utilitaristica (si pensi, ad esempio, a classici come Bentham, Mill, Sidgwick o a pensatori più recenti come John Harsanyi e Peter Singer) hanno elaborato sezioni o clausole della loro trattazione per fronteggiare queste obiezioni. Ma certo è che il conseguenzialismo utilitaristico, che ritiene basti calcolare le conseguenze degli atti per trovare la risposta ai nostri problemi morali, risulta radicalmente inadeguato. Esso non riesce a rendere conto del fatto che vi è una diversità di fondo tra le azioni dannose per gli esseri umani ed eticamente rilevanti e gli eventi o accadimenti naturali catastrofici. Solo le prime sono moralmente rilevanti in quanto rinviano a un agente responsabile che le ha compiute, ma questa dimensione personale sfugge a chi si ferma solo alle azioni considerate di per se stesse. Proprio tenendo conto di questo, con la nostra etica procediamo a proporre una concezione che unisce il riconoscimento dell’importanza degli atti e delle loro conseguenze con la considerazione del carattere delle persone che tali atti hanno compiuto: delineando come

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parte normativa del nostro sentimentalismo un utilitarismo della virtù. Mettere in primo piano la valutazione delle virtù permette infatti di rendere esplicito che le azioni contano, ma solo in quanto prodotte da qualcuno alle cui qualità appunto reagiamo con i sentimenti morali considerandole virtuose o viziose. Ma una volta delineate le ragioni che portano a rifiutare le concezioni normative deontologiche e conseguenzialiste, dobbiamo ora presentare in modo più costruttivo la nostra proposta di etica della virtù. Anche qui la lezione di Hume e le esigenze di tenere ferma la nostra prospettiva sentimentalistica ci possono aiutare a delineare un tipo di etica della virtù completamente diversa, nei suoi tratti decisivi, da quella che risale ad Aristotele. Una diversità significativa perché permette di rendere più articolato e adeguato il paniere delle concezioni normative. 4.2. Diversità tra l’etica della virtù aristotelica e quella sentimentalistica Sembra largamente diffusa la convinzione che con le riflessioni di Aristotele e di coloro che ne hanno ripreso le impostazioni, specialmente nel XX secolo, non solo ci troviamo di fronte alla formulazione migliore dell’etica della virtù, ma in definitiva di fronte all’unica forma di quest’etica17. Proveremo a contestare queste due tesi: accanto all’etica aristotelica della virtù bisogna riconoscere l’esistenza di un’etica humeana della virtù (e probabilmente anche di un’etica nietzscheana della virtù e di una delle donne18) con tratti del tutto caratteristici19 che la rendono decisamente più soddisfacente sul piano normativo. Proveremo a elaborare in questo capitolo il peculiare paradigma dell’etica humeana della virtù argomentando anche come al suo interno possano essere collocate molte delle specificazioni fornite da John Stuart Mill sulle vie per sviluppare in modo virtuoso le vite umane individuali.

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Tentativi di ricondurre l’etica humeana della virtù a quella aristotelica sono stati fatti, ad esempio, da una delle principali teoriche dell’etica della virtù, Rosalind Hursthouse20. Ma tali tentativi vanno rifiutati in quanto rilevanti sono le differenze, che si estendono su tutta una serie di piani: da quello epistemologico a quello meta-etico, fino a quello più propriamente sostantivo della lista delle virtù da privilegiare. Una differenza di fondo tra Aristotele e Hume sta nel fatto che uno degli aspetti decisivi del progetto dello Scozzese di costruire una scienza della natura umana comportava il rifiutare qualsiasi posto al riconoscimento delle cause finali. Come egli spiegava, già al tempo della stesura del Trattato, a Francis Hutcheson – che invece ammetteva tali cause –, il riconoscimento delle cause finali costringeva a spingersi al di là dei dati dell’esperienza. Nella presa di distanza di Hume dalle componenti provvidenziali che l’etica di Hutcheson ricavava dal ricorso alle cause finali, si possono radicare alcuni degli elementi che dividono la sua concezione delle virtù da quella di Aristotele. Aristotele derivava la sua peculiare maniera di declinare le virtù dall’elaborazione di una concezione metafisica sulla realtà sostanziale della natura umana che si esprimeva nella sua essenziale razionalità. Proprio in quanto l’essere umano era così concepito, le virtù che ne caratterizzano la vita etica vanno viste come attività che affermano il fine specifico facendo prevalere la razionalità su tutto ciò che è istintivo o passionale21. Proprio il quadro sostanzialistico di caratterizzazione della natura umana in termini finalistici segna dunque le peculiarità dell’etica aristotelica che l’allontanano profondamente dal paradigma humeano. L’etica aristotelica si presenta come una forma di cognitivismo realistico radicalmente diverso dalla forma di non-cognitivismo che si accompagna al paradigma sentimentalistico derivato da Hume. Per Aristotele, infatti, alla base della sua elencazione delle virtù sta una conoscenza concettuale dei tratti essenziali della vita umana. Questa concezione cognitivi-

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stica e realistica non sembra abbandonata dai numerosi neo-aristotelici che si impegnano a riformulare parti della sua filosofia pratica. Si fanno certo molti tentativi di indebolire la base ontologica e metafisica a cui agganciare le pretese realistiche, ma resta ferma la prospettiva di fondo secondo la quale un’etica può essere formulata solo dopo che si è conosciuto cosa sia la natura umana. Molto forte è così la tentazione, in questa prospettiva, di ricavare la lista delle virtù che dobbiamo realizzare da quella che è la natura umana nei suoi tratti essenziali. Per quanto riguarda poi l’immagine della natura umana da cui muovono gli aristotelici, essa è di certo molto forte e strutturata. Infatti, secondo questa immagine la vita umana manifesta i suoi tratti peculiari in quanto, diversamente da altre forme di vita (vegetativa e sensibile), è in grado di svolgere un’attività razionale e realizza questa sua capacità proprio con le relazioni sociali e politiche garantite dall’etica. Le virtù umane segnano una profonda diversità tra chi è capace di razionalità e chi – umano e non umano – non lo è. Il paradigma sentimentalistico, invece, come ci siamo sforzati di spiegare, procede sostenendo che gli esseri umani entrano direttamente in contatto con ciò che ha un valore o un disvalore, senza bisogno di passare attraverso un qualche concetto generale della natura umana considerata come superiore alle altre specie viventi. Il sentimento di chi giudica moralmente è mosso dalle reali sofferenze della persona concreta che si trova al centro dell’attenzione e non da una qualche immagine sostantiva della natura umana. Ciò vuol dire che il paradigma sentimentalistico non è in alcun modo legato al quadro generale di classificazione degli esseri viventi che pone la vita umana ontologicamente al di sopra delle altre vite. Questa distinzione tra il cognitivismo realistico dell’etica di Aristotele e il quadro sentimentalistico dell’etica humeana della virtù ritorna anche nelle riflessioni rivolte a ricostruire il processo deliberativo e quello argomentativo di giustificazione. La soluzione accettabile sul piano normati-

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vo o pratico può essere raggiunta, secondo Aristotele, ma anche secondo i neo-aristotelici, deducendola da una caratterizzazione concettuale della natura umana oppure collegandola alle scoperte di una virtù della prudenza nella quale prevalgono le componenti razionali e conoscitive. La prudenza non può certo essere fatta coincidere con un senso, un istinto o un sentimento, in quanto si presenta come una facoltà complessa che permette al virtuoso di individuare la condotta di vita moderata in alternativa a quelle condotte eccessive ed estreme suggerite da giudizi errati. Per Hume, invece, la prudenza è una virtù solo in quanto rientra tra le «attitudini naturali», e dunque non è qualcosa di volontario, né il massimo della perfezione22. Queste distinzioni, come vedremo nel prossimo paragrafo, si connettono alle diverse nozioni del carattere offerte nell’etica aristotelica e in quella sentimentalistica: laddove il carattere per gli aristotelici è un tratto permanente, globale e totalizzante radicato nell’identità personale dell’agente, per gli humeani è solo una proiezione immaginativa delle nostre relazioni con noi stessi e gli altri. Non meno decisive sono le differenze quando passiamo a componenti più propriamente normative delle due teorie delle virtù. Elenchiamo qui le più significative. In generale, è proprio diversa la concezione delle virtù: mentre nel contesto aristotelico le virtù si presentano come dei funzionamenti o delle capacità che ciascuno di noi ha come membro della specie umana in quanto tale, nel caso dell’impostazione sentimentalistica le virtù sono solo dei tratti del carattere delle persone individuali che approviamo o disapproviamo come causa delle azioni nei cui confronti reagiamo emotivamente23. Notevoli sono ancora le differenze tra concezioni aristoteliche e humeane per quanto riguarda la lista delle virtù e l’ordine delle priorità. Nel caso di Aristotele, come è noto, ci si trova di fronte a una lista delle virtù chiusa e con un rigido ordine lessicale al suo interno, nel tentativo di affermare poi l’unità e globalità del carattere virtuoso. Per quanto riguarda l’ordine

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tra le virtù, è importante considerare che la priorità viene data a quelle che Aristotele chiama virtù dianoetiche, ovvero forme di condotta che privilegiano le attività di tipo intellettuale e conoscitivo: proprio in queste si esprime la natura sostanziale degli esseri umani. Anche su questo piano risulta così confermato il quadro prevalentemente cognitivistico dell’etica aristotelica. Va solo ricordato che in alternativa, per il sentimentalismo, la virtù centrale (e in un certo senso costitutiva di tutte le altre) è una virtù per tutti, data dalla capacità di reagire con la disapprovazione morale in presenza di qualità o caratteri che producono sofferenze non volute nelle persone coinvolte. Oltre a questo, nel caso della lista delle virtù che può essere riconosciuta da un sentimentalista che riprende il paradigma di Hume, essa, come vedremo – anche tenendo conto delle ulteriori componenti pluralistiche innestate dall’utilitarismo di Mill –, è una lista molto aperta fino al punto che individualità libere possono creare la loro peculiare accezione di vita virtuosa ed essere approvate per questo. Inoltre non c’è alcun bisogno di istituire un ordine rigoroso e stabile tra queste virtù, in quanto i caratteri che verranno apprezzati dal sentimento morale possono far prevalere anche esigenze diverse a seconda del contesto, e dunque l’ordine può essere modificato: in alcune situazioni prevalgono quindi le esigenze di coloro – familiari e amici – con cui abbiamo una più stretta relazione, mentre in altre si richiede una nostra lealtà verso interessi e beni pubblici. Vi sono, dunque, alcune insufficienze dell’etica aristotelica delle virtù che valgono anche nei recenti tentativi di ripresentarla in una nuova veste (per così dire social-democratica), fatti ad esempio da Nussbaum24. Malgrado gli sforzi di Nussbaum di presentare un’etica della virtù libera dalle assunzioni ontologiche e metafisiche di Aristotele, il suo modo di connettere la teoria della virtù con una particolare concezione sostantiva e concettuale della natura umana finisce con il ripresentare quei tratti che segnano la diversità tra il paradigma aristotelico e quello sottoscritto

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dai teorici della virtù che, con Hume e Mill, richiamano una concezione della natura umana di derivazione empirica. La concezione neo-aristotelica conserva al suo interno alcune categorizzazioni sulla natura della virtù che risentono del fatto di essere stata originariamente elaborata per una società aristocratica di liberi che escludeva sia le donne che gli schiavi (oltre a non avere alcuna considerazione per gli animali). Il quadro in cui Hume inserisce la sua trattazione delle virtù è invece chiaramente aperto sia al punto di vista delle donne come al riconoscimento dell’influenza sulla valutazione di un carattere virtuoso della condotta nei confronti degli animali. 4.3. Il carattere virtuoso, la persona e la soggettività morale Come abbiamo già spiegato, le etiche della virtù concordano nel ritenere che al centro dell’etica normativa vanno poste prescrizioni e raccomandazioni che riguardano non già il mero compimento di azioni bensì la realizzazione di un certo carattere personale, ma poi si differenziano radicalmente nel modo di intendere cosa sia questo carattere e dunque come si possa formarlo in modo eticamente apprezzabile. Per Aristotele e coloro che riprendono la sua concezione, il giudizio etico sulla virtù è rivolto all’essere umano inteso come soggetto dotato di una natura speciale razionale. Perciò proprio al centro della vita morale – sia come agente che come paziente – molti seguaci di Aristotele collocheranno un’entità sostanziale designata con il concetto di persona: la cultura filosofica cristiana, elaborando l’etica tomistica e spiritualistica, attribuirà poi a questa persona un’anima individuale immortale. Non è il ricorso alla nozione di persona a creare difficoltà, in quanto si tratta di una nozione convenzionale (ovvero che non raffigura direttamente nessuna parte della realtà) e che dunque possiamo definire nel modo che riteniamo più op-

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portuno. Uno dei limiti principali delle etiche aristoteliche sta invece nel proporre una definizione ontologica e realistica della persona e dunque del carattere virtuoso. L’altra debolezza di questa etica consiste nel far ruotare la struttura sostanziale del carattere intorno alla modalità della vita razionale. Da una parte, muoversi a un livello di analisi che dia per scontata l’esistenza di persone individuali fornite di una propria realtà ontologica e sostanziale comporta un gran numero di difficoltà che sono state denunciate specialmente dai pensatori moderni che rientrano nel filone naturalistico ed empiristico a cui siamo vicini: le revisioni della nozione di sostanza a cui Locke cercò di porre mano e poi le obiezioni critiche di Hume a una concezione realistica dell’identità personale rappresentano un punto d’arrivo a cui si uniformò anche Kant depurando la sua etica da qualsiasi assunzione ontologica25. Dall’altra, connettendo la sua concezione della persona morale a una specifica concezione ontologica che privilegia la razionalità, l’etica aristotelica è costretta a limitare l’universo dei soggetti moralmente rilevanti escludendo spesso intere aree dell’umanità (abbiamo visto come Aristotele non vi includesse certo le donne e gli schiavi) e comunque tutti gli esseri viventi diversi dagli esseri umani. Un’altra difficoltà di questa impostazione sta nel fatto che se il carattere virtuoso è visto come un tratto ontologicamente inscritto in una determinata natura personale individuale, non sembra esservi più spazio per l’elaborazione di un effettivo processo di miglioramento. Il ricorso per l’elaborazione di questo processo alla distinzione tra ciò che sarebbe potenziale e ciò che diventa attuale con la condotta virtuosa finisce con l’introdurre, ancora una volta, delle categorie filosofiche controverse e difficilmente analizzabili. Un punto critico decisivo è dunque che le etiche aristoteliche della virtù presentano una concezione troppo forte di carattere, spesso detta «globalista», che incontra notevoli difficoltà sul piano empirico se ci si confronta – come non possiamo non fare – con una serie di esperi-

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menti condotti da psicologi della personalità e da psicologi sociali, principalmente a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Si tratta di esperimenti che contestano la possibilità di riconoscere un qualsiasi ruolo al carattere così inteso nella motivazione della condotta umana26. Sembra condivisibile il presupposto che ispira questi scritti, ovvero che una concezione etica normativa si deve confrontare con una specifica psicologia morale e dunque non potrà nel caso dell’etica della virtù che rinviare a modelli affettivi, cognitivi ed emozionali in grado di attribuire tratti di carattere. Ma se accettiamo di percorrere questa strada, dobbiamo allora confrontarci con i numerosi esperimenti che mostrano come le condotte umane non risultino essere causate da caratteri globali, stabili e continui, del tipo di quelli presupposti dall’etica aristotelica. Le condotte umane sembrano invece spesso dipendere da una serie di circostanze del tutto contingenti e apparentemente secondarie che influenzano l’azione delle persone in modi del tutto indipendenti dal carattere che esse hanno. Ad esempio, in situazioni sperimentalmente controllate si è constatato che condotte rivolte ad aiutare o meno altre persone sono influenzate in modo decisivo da fattori di nessuna rilevanza etica: il rumore; la presenza nelle vicinanze di una pasticceria o gelateria; il fatto che la persona invitata ad aiutare abbia o meno trovato un momento prima una moneta; la maggiore o minore fretta; il fatto che una persona autorevole chieda o meno di compiere una certa azione ecc.27. L’unica soluzione percorribile sembra essere quella prospettata da Kwame Anthony Appiah, il quale rileva che la «sfida situazionista» contenuta in questi esperimenti è rivolta specificamente alla concezione «globalista» del carattere e dunque, se vogliamo continuare a elaborare un’etica della virtù, dobbiamo collegarla a una diversa concezione del carattere. L’«errore fondamentale di attribuzione» che noi faremmo – in un senso comune impregnato di tomismo aristotelico – è proprio quello di ritenere che la

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nostra condotta morale sia guidata dal nostro carattere globale razionale presentato come una trascrizione a livello di psicologia morale dell’anima sostanziale individuale28. L’impostazione filosofica naturalistica ed empiristica aiuta a elaborare una nozione del soggetto e della persona morale che non richiede le forti categorizzazioni dell’etica aristotelica, e che vede dunque il carattere al centro della ricerca della condotta virtuosa non in termini di un’identità e stabilità tanto strette da dover essere concepita come aprioristica e indipendente dalle esperienze. È questa la strada da percorrere se vogliamo tenere insieme l’esigenza di riconoscere, come abbiamo già sottolineato, la centralità della dimensione soggettiva e individuale nella vita morale con l’impostazione critica che evita di entificare e assolutizzare questa componente soggettiva e personale. Dunque, per ricostruire una nozione di soggetto e persona morale è importante la diversità delle basi epistemologiche empiristiche a cui fa ricorso la prospettiva dell’etica utilitaristica e sentimentalistica della virtù rispetto a quelle coinvolte dall’etica aristotelica. Molto del lavoro necessario è stato già fatto nelle pagine che sia Hume sia Mill hanno dedicato al ruolo del carattere individuale nella vita morale. Un primo punto importante è che il carattere di un agente morale non viene colto direttamente con l’aiuto dell’intuizione intellettuale, ma piuttosto a partire dalle azioni che egli effettivamente compie: in questo modo si eviterà l’errore di concepire il carattere come tratto intrinseco di una persona del tutto indipendente da ciò che fa. Un secondo punto importante è che per la ricostruzione del carattere che è al centro della nostra valutazione morale non dovremo fare ricorso, appunto, al lato intellettuale e intuitivo della nostra esperienza, ma piuttosto a quella dimensione empatica, simpatetica e affettiva con cui entriamo in relazione con le altre persone29. Il carattere non può essere una realtà psicologica del tutto distinta e indipendente dalle azioni effettive. Questa connessione tra azione e carattere è già presente nel para-

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digma etico di Hume, che nel Trattato spiega dettagliatamente come l’oggetto del giudizio morale sia il carattere o la qualità di una persona da noi ricostruiti muovendo dalle azioni che essa ha compiuto30. Riprendendo questa impostazione l’etica sentimentalistica della virtù, nell’impegnarsi a elaborare analiticamente una nozione adeguata di carattere, cerca di tenere insieme il livello soggettivo della motivazione delle azioni che si approvano e disapprovano con le effettive conseguenze del loro compimento: proprio questo intreccio permette di recuperare anche le esigenze normative dell’utilitarismo31. Così procedendo si può tenere conto che una larga parte del nostro apprezzamento di qualità virtuose – quali, ad esempio, la veracità, l’onestà e la benevolenza – è originata dall’utilità delle condotte che da esse derivano per le persone che sono in relazione con la persona che possiede tali qualità. Cogliamo sinteticamente tutto questo facendo nostra la definizione di Julia Driver: «Un tratto di carattere è una virtù morale se è una disposizione a produrre (cioè essa tende a produrre) un’azione intenzionale che è sistematicamente produttiva del bene»32. Sul piano soggettivo, questo quadro conseguenzialista e utilitaristico in cui viene inserito il richiamo alla componente del carattere aiuta a non confondere questo richiamo con il mero appello ai motivi o alle intenzioni. Mentre dal lato oggettivo della considerazione delle conseguenze delle diverse alternative, il ricorso al carattere rende chiaro che il tipo di utilitarismo che stiamo elaborando è quello indiretto piuttosto che quello che pretende di utilizzare sempre il solo calcolo e confronto razionale tra i diversi esiti possibili. Torneremo più avanti su questi due diversi modelli di utilitarismo; per ora rileviamo come Roger Crisp abbia spiegato perché una concezione «biografica» dell’utilitarismo, ovvero una concezione di utilitarismo in termini di ricerca del carattere virtuoso, sia preferibile a una in termini di ricerca dei migliori risultati ottenibili in ciascuna situazione. Infatti, per la prima specie di utilitarismo ciò che conta è la formazione di

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caratteri individuali che vivranno, nel complesso, in modo tale da realizzare una storia del mondo nella quale ci si avvicini quanto più è possibile alla massima utilità generale; mentre la seconda comporta un’impostazione irrealizzabile, ovvero che una persona valuti, ogni qual volta agisce, quale sia l’azione che dal suo specifico punto di vista temporale e spaziale massimizzerà l’utilità33. C’è poi un ulteriore elemento che caratterizza la ricostruzione non globalista del carattere che si collega alla nostra concezione etica della virtù. Il carattere virtuoso non dovrà adeguarsi a schemi di virtù precostituiti, ma dovrà principalmente dipendere dalla capacità della persona che stiamo valutando di evitare il danno delle persone coinvolte e promuovere il loro benessere. In questo senso il carattere virtuoso dovrà tenere conto non solo della felicità di tutti in generale, ma anche dei piaceri e dolori di coloro con cui si è in relazione più stretta, si tratti dei nostri cari o dei nostri amici o di coloro con cui abbiamo una relazione speciale. In questo modo si supera un limite che viene solitamente denunciato nel conseguenzialismo e nell’utilitarismo in generale: di non riuscire cioè a rendere conto dei nostri doveri nei confronti di familiari e amici34. Ma questo limite viene superato per il fatto che il carattere apprezzato dal nostro utilitarismo della virtù sarà strutturato non tanto intorno alla capacità dell’agente di calcolare e ragionare, quanto sulla sua sensibilità nei confronti delle reazioni di coloro che gli sono vicini. Ciò che conta per apprezzare moralmente un carattere, o per formare in modo eticamente apprezzabile il nostro, sarà dunque la capacità di essere sensibili nei confronti dei danni che le azioni proprie e altrui producono sugli altri esseri senzienti35. In questo senso la ricostruzione del carattere che è al centro dell’utilitarismo della virtù è diversa da quella fornita da Aristotele o da un’interpretazione kantiana delle virtù. Il carattere virtuoso secondo l’ottica utilitaristica deve avere principalmente la capacità di reagire sentimentalmente alle sofferenze e ai piaceri altrui36. Così inteso, l’utilitari-

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smo della virtù è del tutto conciliabile con una concezione sentimentalistica della morale che mette in primo piano sentimenti e non già capacità di ragionare o di rispettare leggi37. Possiamo per questa via integrare nell’utilitarismo della virtù il modello psicologico esplicativo – già ricordato – con cui Nichols ricostruisce la formazione della capacità di tracciare distinzioni morali38. Per apprezzare come virtuoso il carattere di una persona, dovremmo avere evidenze empiriche nelle sue azioni della sua consapevolezza che le sofferenze e il danno arrecato alle altre persone sono di per sé negativi e che questa negatività non dipende da qualche specifica convenzione del paese in cui vive o dai comandi di un’autorità che gli impone di riconoscere come negativo questo danno o sofferenza. 4.4. Le azioni rivolte verso se stessi e verso gli altri e le condotte virtuose Uno dei meriti dell’etica della virtù nella formulazione sentimentalistica e utilitaristica che ne stiamo proponendo è dunque di essere una risposta ai problemi morali che sembrano essere propri e predominanti nella nostra epoca. Il carattere virtuoso è quello che porta a quelle azioni e condotte che favoriranno un mondo in cui sia presente una maggiore felicità e fioritura umana. La natura di questo carattere potrà essere dunque identificata solo dopo che l’esperienza ci avrà detto quali sono le condotte che nelle condizioni date rendono possibili una maggiore felicità e fioritura umana. L’utilitarismo della virtù si presenta quindi, in primo luogo, come una concezione etica revisionistica impegnata continuamente a rivedere piuttosto che confermare la lista delle condotte virtuose. Non può avere senso proporre per le relazioni morali di sei miliardi e mezzo di esseri umani la concezione della condotta virtuosa che andava bene per società nelle quali c’erano gli schiavi, non era realizzata alcuna parità tra donne e uomi-

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ni, e la condotta verso gli animali o l’ambiente non aveva alcuna rilevanza morale diretta. Ciò detto chiediamoci: quali sono i caratteri virtuosi da apprezzare negli altri? Quali quelli a cui noi stessi dobbiamo cercare di dare stabilità nella nostra personalità? C’è un modo in cui procedere laddove si apre un conflitto tra diversi caratteri virtuosi? Dobbiamo così confrontarci con una problematica ricorrente nella riflessione sulla virtù: da una parte il tentativo di determinare una lista delle virtù e dall’altra l’esigenza di un criterio per mettere ordine tra le virtù. Il modello con cui ci dovremo confrontare è ancora una volta quello aristotelico che da una parte presentava una lista ben determinata di virtù e poi fissava un ordine lessicale tra di esse, dando la prevalenza – come abbiamo detto – alle virtù dianoetiche, ovvero quelle che segnavano il perfezionamento delle capacità intellettuali propriamente umane. Liste diverse di virtù e modi diversi di stabilire un ordine lessicale tra di esse si trovano non solo nell’etica stoica, ma anche nell’etica cristiana che – come sappiamo – aggiunse tutta una serie di virtù teologali. In realtà, il tentativo di elaborare concezioni complessive delle virtù etiche è rintracciabile all’interno di svariate tradizioni religiose e filosofiche, non solo nella cultura occidentale. L’idea che la fioritura umana passi attraverso il carattere virtuoso è presente non solo nella filosofia greca e cristiana, ma anche nelle religioni orientali (in primo luogo nel buddismo) ed è ancora al centro dei recenti tentativi degli scienziati della mente di trovare una trascrizione delle condotte migliori per gli esseri umani a livello di funzionamento del sistema neuronale39. Non vogliamo confrontarci, dunque, con tutto l’insieme delle questioni storiche e teoriche approfonditamente affrontate in molti lavori – come quelli di Alasdair McIntyre, Philippa Foot, Bernard Williams, Julia Annas, Martha Nussbaum, Rosalind Hursthouse ecc. – e ci limitiamo quindi a chiarire quale sia il modo in cui procede un’etica sentimentalistica e utilitaristica della virtù. Ancora una volta, sono i pensato-

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ri alle origini del nostro paradigma che possono aiutarci in questa riflessione. Sia Hume che Smith cercano di affrontare il problema di enunciare un’adeguata lista delle virtù muovendo da una prospettiva naturalistica che indicava nei sentimenti il centro della vita morale. Di certo, potremo seguire l’impostazione di Hume la cui lista delle virtù era ricavata a posteriori, in generale, da una ricerca empirica sulla condizione umana, ricerca che si proponeva anche di individuare criteri che permettessero di spiegare le trasformazioni storiche subite dalle virtù40. Nella sua Ricerca sui principi della morale Hume compie anche il tentativo di individuare le qualità considerate apprezzabili dagli esseri umani tenendo presente panegirici, biografie, poesie, romanzi ecc. Numerose sono le qualità che Hume inserisce così tra i caratteri virtuosi: da una parte vere e proprie attitudini naturali, quali ad esempio l’arguzia; dall’altra virtù naturali che influenzano la nostra condotta nei confronti di coloro che ci sono più vicini in quanto nostri familiari o amici, come la benevolenza o la generosità; e, infine, quelle virtù convenzionali e artificiali che tutte le società umane hanno consolidato nel corso delle loro condotte sociali, come il rispetto della proprietà altrui, il mantenimento delle promesse, il senso della giustizia e la lealtà nei confronti dei governanti e delle leggi del proprio paese. Hume faceva dipendere il riconoscimento del carattere virtuoso da una valutazione della sua gradevolezza o utilità ai fini della fioritura complessiva della specie umana: ovviamente tale riconoscimento andava continuamente rinnovato, impedendo così una qualsiasi cristallizzazione non solo del contenuto della condotta virtuosa ma anche dell’ordine di priorità da istituire tra le virtù. Ciò non toglie che, secondo Hume, le virtù fissate con una convenzione artificiale, quali ad esempio il rispetto della proprietà, delle regole della giustizia e della lealtà verso il governo, in quanto vere e proprie virtù sociali, sembrano avere in quanto utili a tutti una portata più ampia – se assumiamo il punto di vista generale da cui nasce

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il sentimento morale – delle altre virtù più legate alla condotta nel contesto delle nostre relazioni personali. Ma questa priorità non varrà sempre, in quanto in alcuni casi, del tutto legittimamente, dovranno essere le nostre relazioni più strette e familiari a guidare interamente la nostra condotta. Inoltre, la possibilità stessa di queste virtù sociali è legata alla nostra formazione morale personale che avverrà nel più stretto universo delle relazioni familiari e di amicizia, al cui interno dovremo costituire quella capacità di partecipazione ai dolori e alle gioie altrui senza la quale le virtù sociali si presentano come un vincolo meramente formale e meno forte sulla nostra condotta. Diverso è il modello dell’etica sentimentalistica della virtù elaborata da Adam Smith. Smith è certamente preoccupato di cogliere con la sua teoria dei sentimenti morali il contenuto dell’etica di senso comune del suo tempo, prevalentemente cristiana, lasciando in secondo piano l’ottica antropologica, più ampia e di tempi lunghi, del radicamento delle virtù nella natura umana nella quale si era mosso Hume. Di certo, in Smith troviamo una lista ristretta e chiusa delle virtù. Esse, in definitiva, sono solo quattro: beneficenza, giustizia, prudenza e autocontrollo. Inoltre, Smith sembra dare la palma alla virtù stoica dell’autocontrollo41. Ma se andiamo a vedere come egli affronti la questione delle relazioni dinamiche tra queste virtù, ci rendiamo conto che anche nel suo caso, in definitiva, il tutto dipende da una sola capacità o qualità del carattere che è quella di riuscire a simpatizzare in modo adeguato con le sofferenze e le gioie delle persone coinvolte, utilizzando come guida le reazioni sentimentali immaginarie di uno spettatore imparziale disinteressato. Per cui, sia Hume che Smith sostengono che il carattere virtuoso viene fortemente influenzato dal contesto e dalla situazione con cui dovrà interagire. Completamente diverso sarà dunque ciò che la virtù ci chiederà di fare (ammesso che abbia qualcosa da chiederci), quando la condotta coinvolge solo noi stessi, da quello che ci chiederà quando invece ciò

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che faremo ricadrà sulle persone con cui abbiamo relazioni familiari o di amicizia, o quando ci troveremo a dover agire prendendo in considerazione il più ampio cerchio degli interessi dei nostri concittadini, o ancora di tutti gli esseri umani o addirittura di tutti gli esseri senzienti. Proveremo nel prossimo paragrafo a rendere conto del carattere e della qualità che l’etica sentimentalistica della virtù prescrive quando sono in gioco ambiti più ampi rispetto a quelli delle persone con cui siamo in una relazione più stretta, ambiti che chiamano in causa significative nozioni, quali quelle delle regole di giustizia e dei diritti da riconoscere agli esseri con cui viviamo. Per concludere questo paragrafo, delineiamo brevemente le linee di un carattere virtuoso quando è in gioco una condotta che ricade quasi completamente su noi stessi, o che coinvolge prevalentemente coloro con cui abbiamo relazioni più strette. Per quanto riguarda la condotta che non ha una diretta ricaduta sugli altri e che non provoca in essi alcun danno o sofferenza (tranne talvolta sofferenze di carattere ideologico delle quali non possiamo tenere conto in quanto dovute spesso al pregiudizio altrui che pretendono da noi una condotta che si uniformi comunque ai loro valori), sembra giusta la tesi di Mill secondo cui ciascuna persona debba essere considerata sovrana: la libertà individuale di scelta di uno stile di vita è un passaggio obbligato per una più compiuta fioritura della specie umana nel suo complesso. La nostra etica sentimentalistica della virtù non potrà dunque fare altro che incorporare qui le idee liberali che Mill – elaborando la tradizione di Hume e Smith – presentò nei suoi scritti42. L’impostazione naturalistica humeana ci aiuta a moderare il riconoscimento dell’importanza data allo sviluppo progressivo di ciascun essere umano sulla strada di un proprio personale perfezionamento, senza trasformarlo nel dovere kantiano di perfezionare i propri talenti e capacità: dovere cui Mill sembra talvolta sensibile. Non possiamo pretendere di spingere le persone a perfezionarsi con l’uso delle facoltà razionali in nome di una graduatoria a priori dei

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beni disponibili agli esseri umani che privilegi comunque le attività intellettuali: più decisiva è comunque l’attenzione per le ricadute pubbliche delle nostre condotte e la considerazione di quanto esse favoriscano il consolidarsi di istituzioni che cambiano le condizioni di vita sociali ampliando le possibilità di fioritura autonoma delle diverse persone. Di certo, sul piano personale non saremo costretti a riproporre modelli che fanno propri i doveri verso se stessi delle etiche cristiane e rigoriste. Su questa strada ci aiuta di più la riflessione di Hume che quella di Smith. Proprio Hume, infatti – malgrado l’orientamento più esplicativo che normativo della sua elaborazione –, si impegnò a mostrare come non dovesse essere considerata in alcun modo virtuosa una vita ispirata alla rinuncia e alla sopportazione delle sofferenze. Non c’è una base morale per criminalizzare le condotte rivolte al piacere e all’utile personale, laddove queste non provochino alcun danno ad altri. Mentre, come ironicamente ripeteva più volte Hume nei suoi scritti, vite dominate dalla rinuncia e dal culto della sofferenza sembrano allontanare le persone dai piaceri della compagnia, della vita affettiva in comune e della creazione di condizioni migliori per tutti43. Come ha recentemente ribadito Driver, forme ascetiche di condotta sono del tutto rifiutate da una concezione conseguenzialista e utilitaristica delle virtù. Non diversamente l’utilitarismo mostra la non attualità di virtù di epoche passate, quali la castità e la dedizione all’onore 44. Nessuna fioritura umana sembra possibile laddove si diffondono progetti di vita monastici e ascetici. L’utilitarismo non può che rifiutare gli ideali di perfezionamento delle morali delle anime belle e aristocratiche, per i quali la virtù è identificabile con una mera condizione mentale o spirituale privata mentre tutto il resto va in rovina; per l’utilitarismo questa è una deprecabile forma di egoismo. La considerazione degli interessi di tutti coloro che vivono nel presente e delle generazioni future – che non può non essere presente nel carattere virtuoso utilitarista – non permette di cullarsi in queste illusioni.

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Ma come abbiamo detto il cerchio della nostra condotta può allargarsi e coinvolgere gli altri, e vediamo come il modello di etica della virtù di Hume tratta questo allargamento. Spesso si è pensato di avere ragione dell’etica della virtù considerandola incapace di risolvere il problema di conciliare esigenze apparentemente contrapposte, quali ad esempio quelle della benevolenza e della giustizia, o se si vuole le esigenze di coloro con cui siamo in relazione, con le prospettive più imparziali del benessere generale. Queste tensioni possono essere sciolte da una concezione sentimentalistica e utilitaristica della virtù: di volta in volta in questo quadro si privilegerà quel tratto o carattere che porta a realizzare le azioni in grado di produrre il bene totale maggiore e che minimizza le sofferenze di coloro che sono coinvolti. Realizzare questo carattere, come abbiamo detto, non sarà il risultato di una qualche forma di ragionamento, ma piuttosto il prodotto di una viva sensibilità nei confronti delle sofferenze e dei bisogni altrui. Questa viva sensibilità non va poi identificata con una qualche forma di amore universale, in quanto è piuttosto una reazione che richiede sempre la capacità di entrare in connessione con persone concrete e non con un qualche concetto di quello che è l’umanità in generale45. La virtù non può consistere nel compiere sempre e comunque lo stesso tipo di azioni. Non ha senso dunque identificare la persona virtuosa con un solo tratto, poniamo la benevolenza o la giustizia: la sua virtù consisterà piuttosto nel permettergli di sentire quali siano le azioni che di volta in volta produrranno il maggior bene generale. Così non si vede perché un teorico sentimentalista e utilitarista della virtù non potrebbe riconoscere il valore dell’amicizia o dei cosiddetti doveri associativi46. Vi sono comunque contesti che coinvolgono un cerchio più allargato di persone in cui si richiede da noi una virtù meno relazionale e più imparziale. La considerazione dell’utilità generale di tutti coloro che sono coinvolti porterà di volta in volta a diversificare ed eventualmente a ordinare in modo differente i ca-

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ratteri e le qualità personali da apprezzare. Di certo tutto ciò allontana definitivamente la vita morale dalle dimensioni mitiche dell’assolutezza, della definitività e della certezza. Ma la pretesa di possedere una virtù che garantisca una certezza morale è del tutto inconciliabile con l’orientamento generale della nostra etica secondo cui la nostra valutazione dipenderà da quanto ci dice l’esperienza sulle persone che sono coinvolte dalle nostre scelte e dunque su quelle che potranno essere le conseguenze della nostra condotta per le loro vite. 4.5. Una spiegazione sentimentalistica della virtù della giustizia Una delle principali obiezioni alle teorie utilitaristiche e conseguenzialiste della virtù è di non avere una base adeguata per rendere conto di una delle virtù eticamente essenziali, quella della giustizia. Ma le concezioni sentimentalistiche e utilitaristiche della virtù possono trovare nelle riflessioni di John Stuart Mill una trattazione della virtù della giustizia coerente con le loro impostazioni. Per questa via riusciremo anche a dire qualcosa sulla relazione tra la nostra etica e la vaga e complessa etichetta di liberalismo47. Nella sua teoria – esposta principalmente nel quinto capitolo dell’Utilitarismo48 – Mill procede a determinare quale sia il contenuto dell’idea di giustizia; presentare un possibile modello genealogico di questa idea in termini di sentimenti; suggerire che la concezione etica utilitaristica rivolta all’acquisizione di un carattere virtuoso può fornire un’adeguata base per portare verso una soluzione le principali questioni di giustizia. Mill elenca prima di tutto le sei diverse tipologie di azioni che secondo la sua opinione rientrano nella nostra nozione di giustizia: ciascuna di esse introduce una valutazione etica che non ha niente a che fare né con la convenienza né con la mera registrazione di un’idea di utilità generale49.

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In primo luogo, le azioni che rispettano o violano i «diritti legali» di qualcuno, ovvero «la sua libertà personale, [i] suoi averi, o [...] qualunque altra cosa gli appartenga per legge» (p. 294). Subito dopo troviamo quelle azioni che sono ingiuste in quanto sottraggono o rifiutano «a qualcuno qualcosa su cui egli ha un diritto morale» (p. 295). Proprio in quanto i «diritti morali» sono inclusi nella riflessione sulla giustizia, in loro nome potremo interrogarci sulla legittimità delle leggi, la possibilità che vi siano delle «leggi ingiuste» (ivi), e ancora su quali siano i modi più giusti per opporsi a una legge ingiusta (o «solo [...] battendosi perché la legge venga modificata dalle autorità competenti» o «disobbedendo» a essa esplicitamente). In terzo luogo il tipo di azioni che coinvolgono la nozione di «merito» alla luce dell’esigenza secondo la quale è giusto «che ognuno riceva ciò che merita [...] e ingiusto che qualcuno riceva un bene o abbia a subire un male che non merita» (pp. 295-296). In quarto luogo il tipo di azioni con cui si può «mancare alla parola data» (p. 296), ovvero si mantiene o meno un impegno esplicito o un’aspettativa suscitata con la nostra condotta. In quinto luogo il tipo di azioni che risultano ingiuste in quanto «parziali», ovvero tali che favoriscono o «mostrano preferenza per una persona più che per un’altra, in questioni dove favore e preferenza non devono propriamente entrare» (pp. 296-297). Infine, le azioni che rinviano all’idea di eguaglianza, molte delle quali hanno a che fare con i modi in cui si «distribuiscono» le ricchezze, i prodotti del lavoro, i poteri, i privilegi, i diritti ecc. (pp. 297-298). Con le valutazioni in termini di giustizia Mill fa riferimento dunque a tutte le questioni in cui è in gioco l’obbligatorietà. Proprio questa dimensione di ciò che è obbligatorio viene poi da lui connessa con una base sentimentale che è a sua volta la radice di una virtù o di una capacità umana di essere giusti che dobbiamo cercare di acquisire e mantenere vitale con il nostro carattere. Vogliamo sottolineare che, secondo la ricostruzione di Mill, l’idea di giustizia chiama in causa una obbligatorietà

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che non può essere ricondotta alla sola dimensione giuridica. Come egli scrive: «La giustizia implica qualcosa che non solo è moralmente corretto fare e moralmente scorretto non fare, ma che per giunta può essere rivendicato da una certa determinata persona come un suo diritto morale nei nostri confronti. Nessuno ha moralmente diritto alla nostra generosità o alla nostra beneficenza, per la ragione che non siamo moralmente tenuti a praticare queste virtù a favore di questa o quella determinata persona» (pp. 304-305). Questo significa che l’area delle questioni di giustizia, seguendo Mill, non coincide con l’impegno a rintracciare e a far valere i diritti (di proprietà, di sicurezza) già legalmente riconosciuti, ma si estende anche alla riflessione critica e revisionistica su quale sarebbe un diritto che una certa persona potrebbe giustamente rivendicare nei confronti nostri e della società. I diritti da chiamare in causa non sono certo solo quelli che possiamo rivendicare nei confronti delle istituzioni o degli altri, ma anche quelli che gli altri hanno appunto la possibilità di far valere nei nostri confronti50. Come Mill spiega: «Quando diciamo che una certa cosa è un diritto di una certa persona, vogliamo dire che quest’ultima ha valide ragioni per esigere che la società protegga il suo possesso di quella cosa, o con la forza della legge o con quella dell’educazione e dell’opinione» (pp. 310-311). Questo è un punto decisivo di diversità della nostra etica normativa rispetto a tutte le concezioni positivistiche o realistiche che rifiutano che si possa parlare di diritti morali ritenendo che la nozione di «diritto» vada ristretta solo ai diritti giuridicamente riconosciuti 51. Nella teoria che stiamo presentando, il diritto morale si presenta come una pretesa e un appello per far valere il quale non si ha bisogno di risalire a una coscienza interpretata in termini religiosi, ma che si aggancia – alla luce della nostra impostazione completamente naturalizzata e secolarizzata – a un processo di esperienze emotive, che può essere ripercorso e ripetuto, con cui apprezzeremo o rifiuteremo i caratteri delle persone sulla base

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delle sofferenze che provocano nei soggetti in relazione con loro. Nel prossimo capitolo vedremo come proprio nel riconoscimento di diritti morali non ancora codificati dalle leggi, o riconosciuti esplicitamente dalle corti di giustizia, risiede il motore con cui l’etica applicata può individuare le soluzioni da proporre per le diverse questioni pratiche che sono al centro della riflessione odierna. La condotta virtuosa della persona giusta si presenterà quindi principalmente con la rivendicazione di diritti morali sia per se stessa che per gli altri. La nostra etica può far proprie le analisi con cui poi Mill collega tutto questo processo di rivendicazione dei diritti morali con la sfera dei sentimenti e delle emozioni, specificando contenutisticamente il principale tra questi diritti. Sul versante della genealogia sentimentalistica della nostra virtù della giustizia, Mill spiega che essa dipende dalla nostra capacità di partecipare al danno subito da colei o colui che sta facendo appello al diritto morale che non viene riconosciuto, una partecipazione che implica anche il sentire come la lesione di tale diritto debba essere accompagnata da qualche forma di sanzione o giuridica o dell’opinione pubblica. Il processo sentimentale alla base della virtù della giustizia deriva, secondo Mill, da una ben precisa genealogia evolutiva e ciò in quanto esso rinvia a «due sentimenti, entrambi estremamente naturali, e che o sono entrambi degli istinti o vi rassomigliano molto: l’impulso all’autodifesa e il sentimento di simpatia» (p. 306). Proprio il fatto che il sentimento di giustizia si colleghi con l’impulso all’autodifesa spiega come in esso sia presente una forte esigenza di rivalsa (addirittura un qualche impulso alla vendetta nelle forme più elementari) che si esprime in forma mediata con la richiesta dell’intervento di qualche sanzione. Ma Mill, oltre a rendere conto dell’ampiezza con cui gli esseri umani fanno valere questo sentimento di giustizia – a seconda delle varie dimensioni prima elencate di questa idea –, indica anche le trasformazioni che esso subisce attraverso la dialettica che si apre tra le due componenti in

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esso presenti: «Il sentimento di giustizia, quindi, se consideriamo quella sua componente che consiste nel desiderio di punire [...] non ha nulla di morale: a essere morale è la sua totale subordinazione alle simpatie sociali, tanto da essere ai loro ordini e al loro servizio. Il sentimento naturale, infatti, tende a farci risentire indiscriminatamente di qualsiasi cosa per noi spiacevole che possa fare chicchessia; assunto poi un carattere morale grazie al sentimento sociale, agisce invece solo nelle direzioni che sono conformi al bene generale: gli uomini giusti si risentono per un’azione dannosa alla società, anche se peraltro non dannosa per se stessi, mentre non si risentono di un’azione dannosa nei propri confronti, per quanto dolorosa possa essere, a meno che non sia di quel tipo che tanto loro quanto la società hanno un comune interesse a reprimere» (p. 307). Seguendo l’analisi sentimentalistica della giustizia proposta da Mill, dunque, l’obbligatorietà che accompagna la nostra consapevolezza di trovarci di fronte a ciò che è giusto o ingiusto non è riconducibile né al rispetto di qualche legge già esistente né alla paura della sanzione che potrà seguire da una non osservanza, ma proprio alla simpatia con chi subisce un danno a causa di condotte che non rispettano il suo diritto alla libertà dalle interferenze non volute. Mill recuperava così la concezione sentimentalistica della giustizia già presente in Hume e Smith contrapponendosi a quella che da Hobbes era arrivata fino a Bentham e al padre James Mill52. Anche oggi, per spiegare l’appello alle leggi e alla giustizia, dobbiamo scegliere tra questi due filoni: uno pessimistico che ritiene gli essere umani controllabili solo con la paura e la forza; l’altro che li ritiene capaci di un’estensione e perfezionamento delle loro emozioni simpatetiche. Questa riformulazione da parte di Mill della base sentimentale della nostra nozione di giustizia è molto importante perché permette di rendere esplicita una ricaduta applicativa dell’etica sentimentalistica e utilitaristica della virtù che stiamo elaborando. Essa ci permette di elabora-

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re il modello di formazione del carattere che la nostra etica sentimentalistica della virtù dovrà raccomandare per universalizzare l’acquisizione della capacità di essere giusti. Risulta chiaro, in negativo, che la persona non acquisirà questa capacità obbedendo ai dettami paterni o di qualsiasi altra autorità – una negazione che concorda con le ricerche sulla psicologia evolutiva di Nichols –, ma sviluppando in positivo la sua esperienza personale delle condotte delle altre persone e i suoi modi di reagire a esse. Ciò che conta è la capacità delle persone di essere motivate da ben specifiche disposizioni caratteriali che ruotano intorno a sentimenti simpatetici di partecipazione, rafforzati anche dalla richiesta di qualche forma di sanzione, laddove vediamo leso qualche diritto morale essenziale delle altre persone. Sul piano decisionale poi l’azione giusta non sarà individuata attraverso una procedura diretta rivolta a calcolare le conseguenze delle varie alternative privilegiando quella che massimizza i risultati, ma piuttosto attraverso una procedura indiretta che considera la ricaduta dell’acquisizione di determinati caratteri. Naturalmente percorrere questa strada non comporta dover sempre accettare forme accanite di individualismo ripartendo ogni volta da zero. Infatti potremo sia accettare quelle regole e norme di giustizia che sono in accordo con il processo di civilizzazione legato all’ampliamento dei sentimenti simpatetici di cui siamo capaci, sia riconoscere – come peraltro già suggeriva Hume53 – che vi sono alcune vie istituzionali (ad esempio, il consolidamento di sistemi politici liberal-democratici) che favoriscono l’acquisizione di quella capacità di essere giusti che riteniamo virtuosa. In questo contesto potremo inserire la delineazione di un processo di sviluppo del carattere morale artificialmente prodotto con strumenti culturali, tra i quali un ruolo causale centrale viene giocato da leggi, regole della giustizia, forme del governo politico e regole morali generali tramandate54. Infatti, in un’etica sentimentalistica, risulta chiaro che regole e norme della giustizia riescono a moti-

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vare in quanto operano in un contesto sociale e storico nel quale il processo di civilizzazione ha fatto emergere, attraverso la formazione e l’educazione, disposizioni e caratteri in grado di radicarle in una concreta sensibilità morale. La crescita delle individualità di cittadine e cittadini liberi e autonomi in una società che fa proprio il richiamo ai diritti di libertà della tradizione liberale può essere uno degli obiettivi delle istituzioni pubbliche governate con il metodo democratico. Secondo la nostra prospettiva sentimentalistica è indispensabile per la permanenza e la sopravvivenza delle leggi e dei governi che siano accettabili nei termini dei personali modi di sentire morali. Non meno fertile è poi il modo in cui Mill caratterizza proprio la natura del diritto morale che il carattere virtuoso deve far valere non solo per se stesso ma per tutti gli altri. L’elemento innovativo introdotto da Mill riguarda il modo di intendere il diritto morale come una protezione della sfera della libertà individuale da qualsiasi forma di interferenza. L’innovazione è possibile sulla base delle concezioni antropologiche di Mill che sono quelle accettate – come abbiamo visto – anche da Hume, da Darwin e dall’evoluzionismo. La libertà individuale che va salvaguardata trattandosi di esseri umani non è una mera libertà di movimento o di non subire coercizioni inique a proposito dei propri beni e proprietà, ma è più sostantivamente quella che va riconosciuta a un essere progressivo la cui vita si identifica con l’esigenza di sviluppare compiutamente – se lo vuole e se lo ritiene essenziale per il senso della sua vita – le sue potenzialità. La libertà richiamata da questo diritto morale alla non interferenza è lesa quando a un essere umano viene impedito il miglioramento e lo sviluppo verso forme di vita che ritiene più elevate. Si può dunque comprendere come una lesione di questo diritto sia anche il sottrarre alle persone quelle risorse che permettono di realizzare il loro piano di vita: un’interferenza sulla libertà di una persona è anche una condizione sociale che per distribuzione della ricchezza, salvaguardia

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della salute, possibilità di lavoro rende impossibile a quest’ultima qualsiasi condotta attiva per realizzare il suo personale progetto di vita. Il diritto morale a cui possiamo richiamarci, quindi, non è certo riconducibile a un mero diritto negativo ma piuttosto a un vero e proprio diritto positivo: qualcosa che in collegamento con la libertà è stato rivendicato non solo da Mill, ma più recentemente anche da Amartya Sen55. Proprio la stretta connessione tra giustizia, diritti morali e sviluppo della capacità individuale mette in luce come sia da superarsi la concezione che lega il riconoscimento dei diritti di libertà che devono essere protetti dalla giustizia a una forma ristretta di libertà negativa. In realtà, come è stato giustamente spiegato, l’interpretazione della teoria della giustizia e dei diritti di Mill come il semplice appello alla libertà negativa cara a Isaiah Berlin è del tutto inadeguata, e in Mill troviamo una connessione tra la teoria della giustizia e i diritti individuali da salvaguardare, che chiama in causa una libertà che supera la dicotomia tra libertà negativa e positiva presentandosi come «libertà di non interferenza». La libertà di non interferenza coinvolta dalla teoria della giustizia di Mill chiama in causa, appunto, il diritto di ogni individuo a non subire interferenze nel pieno sviluppo delle sue capacità e dunque nella libera formazione del suo carattere56. Un diritto morale che ovviamente va riconosciuto almeno a tutti gli esseri umani.

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Le applicazioni pratiche dell’etica sentimentalistica della virtù

5.1. L’etica applicata e i limiti della teoria morale Dopo che abbiamo individuato come centrale nella nostra etica normativa l’obiettivo di formare caratteri in grado di riconoscere, per se stessi e per gli altri, il diritto alla libertà dalle interferenze non volute, passiamo ad affrontare alcune conseguenze applicative di questa impostazione. Un modello del tipo di riflessione che vogliamo intraprendere è ancora una volta rintracciabile nell’opera di John Stuart Mill, che ripetutamente ha messo alla prova il suo utilitarismo riformato confrontandosi con alcune concrete questioni etiche della sua epoca1. Come più volte abbiamo ripetuto, la filosofia morale non è altro che una pratica riflessiva di lunga durata con cui gli esseri umani tentano di comprendere meglio i problemi etici che devono affrontare per cercare di avviarli verso una qualche soluzione accettabile. Nel procedere ora sulla strada applicativa, dovremo non solo mostrare quali siano le ricadute della nostra teoria etica sentimentalistica della virtù, ma anche chiarire quali siano i limiti e la portata di queste riflessioni. Dovremo anche illustrare l’insieme delle questioni morali sulle quali riteniamo opportuno sviluppare un approfondimento applicativo: di certo, le questioni con cui ci dobbiamo confrontare non potranno essere le stesse che privilegiava Mill nell’Inghilterra vittoriana. Ricordiamo poi che siamo partiti

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nel nostro lavoro dalla rilevazione di una sorta di scacco o crisi che le filosofie morali religiose, giusnaturalistiche e razionalistiche hanno vissuto nel corso del XX secolo. Nel concludere dobbiamo quindi non solo indicare le linee applicative che possiamo trarre dalla nostra teoria, ma anche provare a mostrare come la nostra impostazione sentimentalistica abbia una fertilità e capacità di suggerire qualche incidenza del punto di vista morale nella condotta umana. La nostra etica applicata si presenta dunque come l’elaborazione della virtù etica fondamentale che abbiamo identificato nella parte normativa generale di questo volume. La virtù morale, secondo l’impostazione sentimentalistica, è principalmente un carattere stabile acquisito dagli esseri umani che li porta a evitare quelle azioni che danneggiano o provocano sofferenze non volute nelle altre persone. Da questa virtù possiamo ricavare le basi per un’affermazione universalistica di un diritto morale alla libertà da qualsiasi interferenza non voluta: non solo una rivendicazione negativa nei confronti degli altri – istituzioni pubbliche, leggi, opinioni morali diffuse ecc. – di non intromettersi nelle sfere di azione di nostra pertinenza in quanto non comportano danni per le altrui vite, ma anche una pretesa positiva da riconoscere a tutti coloro che rientrano nell’universo dell’etica. Nell’affrontare le questioni applicative la metodologia che dovremo applicare dovrà essere del tutto diversa da quella cui ricorrono le etiche religiose o giusnaturalistiche o razionalistiche. Più in generale, le soluzioni dei problemi particolari non saranno dunque ricavabili deduttivamente da principi e norme universali già fissati o con una procedura di tipo ingegneristico o comunque costruttivistica2. Al centro di tale metodologia bisogna invece porre l’intervento di quella sensibilità morale per i piaceri e i dolori altrui di cui è fatta la nostra riflessione morale. Questo è possibile solo se, quando affrontiamo delle reali difficoltà morali, mettiamo in primo piano la nostra diretta esperienza della si-

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tuazione, considerando quindi tutti i casi di cui si occupa l’etica applicata come nuovi e non riducibili a principi o norme già dati. Se mettiamo in primo piano le nostre esperienze emotive, la struttura portante dell’etica applicata non sarà certo né il calcolo deduttivo, né l’estensione con l’aiuto dell’induzione di una soluzione già data, ma la responsabilità etica individuale con cui le persone coinvolte giungono a identificare la condotta moralmente accettabile. Muovendo da questo modello non potremo che ritenere molto limitato il lavoro che può essere fatto sul piano applicativo. La consapevolezza della fragilità e limitatezza delle soluzioni applicative raggiungibili all’interno di una concezione di questo genere è stata spesso formulata sottoscrivendo una vera e propria posizione antiteorica3. È vero che in questo paradigma teorico la parte applicativa sembra non tanto impegnata a presentare soluzioni o a enunciare norme e principi che possono sciogliere i dubbi che ci stanno di fronte, quanto piuttosto ad analizzare le situazioni riflessivamente con l’aiuto della sensibilità morale. Di conseguenza, come vedremo nelle pagine seguenti, le applicazioni etiche non sono altro che il tentativo di rendere esplicite nei diversi contesti le componenti delle situazioni che contano per coloro che si avvicinano a essi da un punto di vista morale. Fare etica applicata significa dunque rivisitare le alternative che ci stanno di fronte immaginando le ricadute che esse hanno in termini di sofferenze e frustrazioni sui soggetti coinvolti, in modo da creare un oggetto adeguato per la nostra sensibilità morale. 5.2. Il ruolo di leggi, istituzioni politiche e riflessioni critiche nella formazione dei caratteri virtuosi Questa apertura alla concreta sensibilità morale e alla continua revisione del giudizio etico sembra una componente di fertilità dell’etica applicata sentimentalistica quando ci

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si occupa di tutte quelle situazioni problematiche nuove, delle vere e proprie emergenze morali, con cui la nostra generazione deve in primo luogo confrontarsi. Queste nuove situazioni mancano spesso di regole consolidate e condivise e richiedono dunque da parte nostra la capacità di creare per esse una moralità accettabile. Nei paragrafi successivi delineeremo, in particolare, le impostazioni che il sentimentalismo etico suggerisce per quelle che ci sembrano le questioni applicative più nuove per il nostro tempo: ovvero quelle del trattamento degli animali, in particolare nell’industria alimentare e nella sperimentazione; del modo di comportarci nei confronti di piante, vegetali e alberi e in generale del nostro habitat naturale; delle diverse responsabilità a cui siamo chiamati per quanto riguarda le nuove opzioni offerte dagli sviluppi della ricerca scientifica e medica sia per quanto riguarda i modi di nascere, curarsi e morire sia per le stesse possibilità di ampliare o modificare la biologia umana. Proveremo ad argomentare che il sentimentalismo etico, a proposito di questi problemi morali, può aiutarci a mettere in primo piano quegli elementi delle diverse situazioni che sono maggiormente significativi per cercare una soluzione eticamente accettabile. Preliminarmente, però, l’orizzonte etico del sentimentalismo deve confrontarsi con due ordini di difficoltà che sembrano rendere le sue impostazioni deboli, parziali e bisognose di integrazione. In primo luogo, rispetto al modo in cui il sentimentalismo ricostruisce le situazioni di scelta e decisione morale, sembra da prendere seriamente l’obiezione di coloro che invitano ad assumere una prospettiva più equilibrata e realistica che non ritenga necessario e sufficiente il ricorso a una personale sensibilità morale con cui riflettere sui dati raccolti. Una strategia che connetta la scelta, la decisione e il giudizio morali con un processo che deve ricominciare sempre da capo sembra destinata al fallimento, tenuto conto delle limitazioni di tempo e di capacità di previsione di tutti noi. Al di là di queste difficoltà procedurali, va

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rilevato che molte delle regole e dei principi etici tramandati dalle tradizioni, molte delle leggi che sono accettate nella nostra società reggono alla prova della nostra riflessione morale: dunque, è solo un astratto radicalismo quello che invita a tutto discutere e tutto rifiutare in nome della nostra personale sensibilità morale. Su questa esigenza di inserire all’interno della nostra vita etica una qualche accettazione anche delle regole e dei principi tradizionali, la concezione sentimentalistica sembra dover fornire delle clausole correttive e delle precisazioni ulteriori. Un’altra difficoltà, di segno completamente contrario, viene dalla nostra esperienza storica. Un’attenzione quasi esclusiva sulle nuove frontiere morali e sull’esigenza di mettere a punto sentimenti riflessivamente corroborati per esse si accompagna a una visione irrealistica del corso della storia umana: si dà cioè per scontato che su tutte le questioni al centro dell’attenzione delle generazioni passate il lavoro dell’etica sia stato già fatto e che le emozioni per risolverle siano state già guadagnate e acquisite stabilmente. Questa illusoria concezione, progressiva e ottimistica, viene continuamente confutata dalla nostra vita quotidiana in cui vediamo affermarsi emozioni del tutto contrastanti rispetto a quelle che ritenevamo adeguate per molte delle questioni già affrontate dall’umanità. Gran parte delle riflessioni di John Stuart Mill – come abbiamo ricordato – erano rivolte a rendere esplicita, per la sensibilità morale di noi tutti, la pretesa normativa che qualsiasi essere umano ha diritto a essere libero nello sviluppare le sue potenzialità progressive e che questo diritto va affermato principalmente a sostegno di coloro che vengono discriminati sulla base di pregiudizi – come, ad esempio, le donne, le persone provenienti da altre culture o a cui in generale si attribuisce erroneamente una razza differente dalla nostra, i fedeli di religioni diverse dalla nostra, o persone diversamente abili ecc. Ma di certo, nei primi anni del XXI secolo, in larga parte del nostro mondo e in molti paesi del cosiddetto Occidente civilizzato, compresa l’Italia,

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sono state avanzate pretese e rivendicazioni del tutto in contrasto con questi riconoscimenti. Lo stesso rifiuto della tortura è stato ripetutamente contestato da scelte politiche giustificate da filosofi e opinionisti. Ben lontani dal perfezionamento dei sentimenti morali di giustizia, poi, per quanto riguarda il riconoscimento a tutti gli esseri umani del diritto a delle cure minime o a non essere privati di cibo o di altri beni con cui soddisfare i loro bisogni fondamentali, abbiamo assistito al prevalere di emozioni e sentimenti localistici ed esclusivi manifestati senza vergogna e rimorso morale, esibiti anzi orgogliosamente in nome di qualche presunta identità geografica o religiosa. L’ancora dei sentimenti morali corre il pericolo di mostrarsi più fragile e precaria di quella fornita dai presunti dettami della ragione di cui abbiamo diagnosticato la crisi in apertura delle nostre riflessioni. Al primo tipo di obiezione si può replicare riconoscendo all’interno del nostro sentimentalismo uno spazio per le consuetudini e per le leggi tramandate. Uno spazio del genere viene riconosciuto da una forma di sentimentalismo che centra tutto non già sui sentimenti e sulle emozioni dirette ma piuttosto sui caratteri e sulle virtù come tratti stabili delle persone individuali. Nella nostra etica non basta la percezione di un’ingiustizia o di una situazione in cui alcune persone subiscono sofferenze frutto di crudeltà, ma si richiede una condotta e dunque un carattere pronto a evitare quelle azioni che producono tali ingiustizie e crudeltà. Norme giuridiche, affermazioni di diritti, slogan quali «dignità umana» e «rispetto delle persone» possono dunque favorire la formazione e il mantenimento di caratteri virtuosi. Ma non saranno certo solo queste strutture istituzionali o formule linguistiche a guidare la nostra condotta: da qualche parte dovrà intervenire una nostra effettiva esperienza emotiva in grado di riconoscere nell’altra persona un essere a noi simile e dunque, nelle sofferenze che subisce per le condotte di altri esseri umani, qualcosa che non possiamo non rifiutare come inaccettabile.

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Proviamo a rispondere al secondo tipo di obiezione. La moralità creata dalle emozioni dipende da quelli che sono i sentimenti umani: la nostra condotta è guidata sia dall’amore di sé come dall’altruismo, e l’equilibrio che tali spinte realizzano è sempre precario e instabile. La ricerca riflessiva di equilibri adeguati tra queste diverse spinte deve poi tenere conto della variabilità delle situazioni storiche e sociali in cui gli esseri umani sviluppano la loro condotta. Non solo questi devono confrontarsi con una condizione nella quale la disponibilità di beni è sempre inadeguata a soddisfare i loro desideri e le loro esigenze, ma vi sono fasi e periodi in cui questa disponibilità può essere minore o maggiore e può riguardare anche tipologie differenti di beni che prima erano in abbondanza e in circostanze mutate non lo sono più4. Molte delle tensioni etiche dei primi anni del XXI secolo, molti appannamenti delle emozioni morali acquisite dalle generazioni precedenti sembrano essere riconducibili a un mutamento delle condizioni esterne per cui la scarsità delle risorse a disposizione è risultata più marcata ed evidente. In un mondo globalizzato in cui vivono sette miliardi di esseri umani, le diversità tra ricchi e poveri sono più marcate e si accentuano i conflitti tra coloro che non vogliono perdere ciò che hanno e coloro che vogliono ottenere condizioni migliori di vita. Non si tratta di riflessioni volte a giustificare una fase di imbarbarimento in cui emozioni immorali vengono spesso sfacciatamente espresse, ma solo un tentativo di spiegare perché restare fedeli ai sentimenti moralmente corroborati diventa più difficile. Ma indipendentemente dalla diffusione di caratteri pronti a riconoscere in qualsiasi essere umano un loro simile, e dunque a riconoscere per essi lo stesso nostro diritto alla libertà dalle interferenze non volute, non riusciamo a immaginare un futuro senza guerre, conflitti e insostenibili tensioni. Sul piano applicativo, dunque, l’etica sentimentalistica della virtù privilegerà la formazione di caratteri personali in cui prevalga la capacità di farsi guidare da un uso riflessivo della

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propria sensibilità morale piuttosto che dall’osservanza nei confronti delle consuetudini e delle leggi in vigore nella nostra società. In primo piano andranno dunque poste le esperienze dirette delle vite e delle condizioni delle altre persone con il ricorso alla propria sensibilità. L’etica sentimentalistica, sul piano applicativo, non privilegerà solo la formazione di questo tipo di carattere individuale, ma anche un tipo di istituzioni che lascia libertà a questi caratteri e ne favorisce la diffusione. Non sembra che attualmente, sulla base delle nostre esperienze, vi sia qualche tipo di istituzione preferibile a quelle all’opera nelle società rette da costituzioni liberal-democratiche, ovvero società nelle quali i governi sono scelti a maggioranza ma poi, nelle loro decisioni, in presenza di un pluralismo etico e religioso, rispettano – come esige la loro tradizione costituzionale – i diritti delle minoranze. I pensatori del XVIII e XIX secolo all’origine del sentimentalismo – non solo Hume e Smith ma anche Mill – sembravano ritenere che questo tipo di società potesse essere favorito dal prevalere di rapporti economici e commerciali liberi nelle relazioni interne e tra Stati: possiamo di certo riconoscere che lo sviluppo economico e la libertà di commercio sono tra le condizioni che favoriscono la diffusione del carattere considerato virtuoso dalla nostra etica. Non crediamo più però che le nostre società debbano essere affidate integralmente alle scelte che vengono fatte prevalere nella competizione di mercato. I processi di globalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi decenni hanno permesso di richiamare l’attenzione sulle idee già espresse da Mill e riprese in vari modi da pensatori contemporanei come Sen e Singer5. Si tratta di quelle impostazioni che non legano la realizzazione del progresso, nelle forme di civilizzazione degli esseri umani, esclusivamente agli indici economici del benessere, ovvero agli avanzamenti della produzione industriale e degli scambi mondiali. Questo vuol dire che la ricchezza e il benessere economico possono essere considerati condizioni necessarie ma non sufficienti per una società che favorisca la dif-

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fusione dei caratteri liberi e virtuosi considerati centrali da un’etica sentimentalistica della virtù. Questo non vuol dire certo non impegnarsi per favorire un incremento di benessere e ricchezza in quelle popolazioni che vivono oggigiorno nella povertà e nella miseria una vita breve, violenta e solitaria. Ma vuol dire operare anche perché in queste società vengano privilegiate istituzioni volte a diffondere tra tutte le cittadine e i cittadini un carattere che riconosca il ruolo fondamentale del diritto alla libertà dalle interferenze non volute, piuttosto che istituzioni totalitarie, antidemocratiche e illiberali. 5.3. La rilevanza morale di generazioni future, animali, ambiente Tra le principali questioni applicative che la nostra teoria deve affrontare, vi è quella di determinare l’insieme dei soggetti nei confronti dei quali un carattere virtuoso dovrà riconoscere quel diritto alla libertà dalle interferenze che abbiamo visto costituire il centro della condotta moralmente responsabile. Come abbiamo spiegato nel paragrafo precedente, malgrado riflussi e cadute di consapevolezza, dobbiamo dare per scontato quello che già Hume, Mill e altri esponenti della storia del sentimentalismo etico moderno ritenevano moralmente imprescindibile, ovvero che tutti gli esseri umani viventi, sulla base delle nostre emozioni simpatetiche e del principio di eguaglianza cui esse danno contenuto, godano già di questo diritto. Molte situazioni pratiche che abbiamo vissuto nel corso del XX secolo – quali, ad esempio, l’aumento demografico, lo sviluppo tecnologico e produttivo con lo sfruttamento intensivo delle risorse del pianeta, i timori legati all’uso dell’energia nucleare per un’eventuale catastrofe atomica, gli sviluppi sempre più avanzati della produzione alimentare industriale, l’espansione della sperimentazione sugli animali e le trasformazioni dell’ambiente con la riduzione

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della biodiversità e il cambiamento climatico – hanno trasformato radicalmente il confine di inclusione dei soggetti nell’universo della rilevanza morale. Risulta ora del tutto inadeguata la convinzione che accompagna forme di ontologismo ed essenzialismo secondo cui il raggio di applicazione della moralità possa esser fatto coincidere con il rispetto per la natura umana ed eventualmente per l’affermazione della sua dignità. Queste formule non sembra possano aiutare al fine di mettere a punto soluzioni adeguate per i problemi reali che ci stanno di fronte. Un linguaggio ben diverso si è andato sviluppando negli ultimi decenni, più adeguato per un’etica secolare, naturalistica e strutturalmente conseguenzialista. Il quadro d’insieme in cui vanno collocate le riflessioni applicative è oramai quello della nostra responsabilità verso le generazioni future: un quadro su cui convergono, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, pensatori molto diversi come Derek Parfit e Hans Jonas6. Questo quadro nasce dai problemi che abbiamo appena evidenziato come tipici del XX secolo e che mettono in primo piano la presenza di condotte che incidono non solo su coloro che vivono nella nostra epoca, ma anche sulle generazioni che verranno. Il sentimentalismo dovrà dunque aiutarci a mettere a punto un carattere virtuoso e responsabile nei confronti delle generazioni future. Dovrà inoltre aiutarci a risolvere la questione della nostra responsabilità anche nei confronti degli animali, ovvero degli esseri senzienti non umani, nonché chiarire che tipo di responsabilità morale abbiamo nei confronti delle piante, dei vegetali, dell’ambiente e del nostro habitat naturale. La riflessione sulla nostra responsabilità verso le generazioni future può rappresentare effettivamente la prospettiva unificante in merito alle questioni applicative al centro di questo capitolo: ad esempio, da questa ottica potremo cogliere come le questioni del cambiamento climatico siano fortemente connesse con quelle della nostra responsabilità procreativa, laddove si consideri che una del-

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le cause probabili della profonda trasformazione che gli esseri umani stanno producendo sull’ambiente sta anche nell’enorme incremento demografico degli ultimi cento anni. Come incide sulla nostra condotta attuale l’impegno che abbiamo di garantire il diritto alla libertà dalle interferenze ai membri delle prossime generazioni? Un diritto che non sarà certo salvaguardato se le nostre scelte procreative o gli stili di vita da noi adottati e privilegiati produrranno condizioni di estrema povertà, penuria di risorse o conflittualità per gli esseri umani che vivranno il prossimo secolo. In analogia con quanto abbiamo già fatto a proposito dell’etica normativa in generale, anche per quanto riguarda la declinazione di quella parte dell’etica applicata che ha a che fare con le nostre responsabilità nei confronti delle generazioni future dovremo mettere da parte le impostazioni razionalistiche. Per quello che riguarda un’impostazione etica dei principi, essa risulta insoddisfacente perché solitamente assimila le nostre responsabilità verso le generazioni future con il dovere di rispettare una qualche identità o integrità umana che – come vedremo nel prossimo paragrafo – risulta del tutto vacuo e incapace di fornirci suggerimenti pratici. Anche l’impostazione del contrattualismo razionalistico presenta una sua propria difficoltà in quanto essa comporta il rinvio a una procedura che esige la presenza contemporanea di coloro tra i quali si stipula il patto rilevante. La presenza delle generazioni future allo stesso tavolo di contrattazione con noi – anche se aiutata da una forma di contrattualismo ideale come quella di John Rawls – difficilmente potrebbe evitare l’estensione paternalistica della nostra concezione etica di equità a coloro che vivranno solo tra centinaia di anni. Mettere in primo piano la ricerca di un qualche patto ideale che lega insieme diverse generazioni potrebbe essere una procedura evasiva che non permette di divenire consapevoli del fatto che, mentre siamo alla ricerca di una contrattazione ideale con le generazioni future, con le no-

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stre attuali azioni stiamo modificando le loro prossime condizioni di vita, fino al punto che non saranno più disponibili quei beni necessari che noi ci impegniamo – con il patto che ci accingiamo a sottoscrivere – a distribuire equamente tra di loro7. Vi è un accordo tra numerosi teorici in merito alle nostre responsabilità verso le generazioni future, secondo cui il modo migliore per sviluppare un’etica in tal senso sia quello di articolare un paradigma conseguenzialista8. Sembra un merito della nostra etica sentimentalistica riuscire a spiegare il processo mediante il quale noi ci sentiamo responsabili per le generazioni future: immaginare esseri simili a noi che soffrono e patiscono in modi a cui non possiamo evitare di partecipare simpaticamente comporta che la nostra sensibilità interverrà a farci considerare inaccettabili eticamente i caratteri e le azioni di coloro che fanno ricadere su questi nostri simili sofferenze, dolori e miserie. Sulla base della nostra etica della virtù stiamo raccomandando di propagare tra le persone varie forme di caratteri virtuosi in grado di causare delle azioni rilevanti. Tali azioni sono poi quelle che fanno valere il diritto nostro e degli altri esseri umani (incluse le generazioni future) a vedere salvaguardata la loro libertà dalle interferenze. Passando poi alla questione dell’allargamento della comunità dei soggetti da ritenere moralmente rilevanti, va rilevato che sono molto rare le teorie che si spingono fino a riconoscere un qualche spazio agli animali nel campo della soggettività morale come veri e propri agenti morali. Mentre più ampiamente sottoscritta è l’idea che sia gli animali che i vegetali abbiano rilevanza morale se considerati come oggetti o entità che subiscono le conseguenze della nostra condotta: su questa base essi sono spesso caratterizzati come «pazienti morali». Possiamo rifiutare, sulla base di quanto finora spiegato – e riprendendo quanto detto nel secondo capitolo –, la soluzione di limitare agli esseri umani la considerazione morale, specialmente se giustificata9 con argomentazioni metafisiche e ontologiche

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che indicano che solo l’Uomo (è molto frequente l’uso di questa forma di scrittura: ovvero il ricorso al genere maschile e alla maiuscola) è un Essere capace di conoscenza universale e dunque dotato di quella sostanza razionale e anima che permettono di definire la persona. Superando il quadro creazionista, che ha collocato l’essere umano sulla cima della grande catena degli esseri, una concezione che limita ai soli esseri umani la rilevanza morale viene elaborata nel pensiero moderno e contemporaneo anche da teorie non strettamente religiose o creazioniste, come quella, ad esempio, di Kant. L’universo degli esseri moralmente rilevanti viene occupato integralmente da cittadini capaci di una soggettività morale definita in termini di razionalità. Le persone morali avranno doveri solo nei confronti di altre persone morali e le azioni nei confronti degli animali o dei vegetali potranno essere rilevanti solo indirettamente e per le eventuali ricadute che esse avranno sugli esseri umani, ovvero sugli unici esseri dotati di valore. Accanto a una concezione antropocentrica forte, possiamo dunque individuare anche una concezione «antropocentrica debole» che, sia pure indirettamente, attribuisce agli esseri umani doveri nei confronti di animali e vegetali, ovvero forme di rispetto quali la «conservazione» o la «protezione»10. I fautori dell’antropocentrismo, nel fare propria la tendenza ad attribuire agli animali e ai vegetali o alla natura solo una rilevanza morale indiretta, finiscono con il sottoscrivere la posizione espressa da Kant, con l’abituale chiarezza e rigore, nelle Lezioni di etica sia per i «doveri verso gli oggetti inanimati» come per i «doveri verso gli animali»11. Sulla base della nostra concezione sentimentalistica, per quanto riguarda la rilevanza morale da riconoscere agli animali e all’ambiente, potremo sottoscrivere un’etica che si presenta come una forma di non antropocentrismo di tipo sensiocentrico, ovvero tale da ritenere decisiva la capacità di sentire dolore o piacere12: naturalmente la metodologia che abbiamo sottoscritto ci spinge ad aggiungere a

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questo nucleo sostantivo il privilegiamento di un quadro individualistico con il conseguente rifiuto di qualsiasi forma di olismo. Va anche chiarito subito che la motivazione di un allargamento della rilevanza morale nella nostra impostazione non sarà fatta derivare da qualche principio di equità razionalmente fondato, quanto piuttosto da un’estensione della nostra partecipazione empatica e simpatetica anche agli animali13. Come abbiamo visto, che gli animali siano in grado di soffrire e provare piacere è un dato continuamente corroborato dalla ricerca scientifica e dall’esperienza, per cui, facendo nostra una concezione non antropocentrica che include nella sfera protettiva degli scrupoli morali anche gli animali, accettiamo la prescrizione avanzata da Bentham nel 1789 di non farci fuorviare da elementi irrilevanti. Ricordiamo le parole precise di Bentham perché fissano un punto fondamentale delle nostre opzioni normative: «C’è stato un giorno, mi rattrista dire che in molti luoghi non è ancora passato, in cui la maggior parte delle specie umane, sotto il nome di schiavi, veniva trattata dalla legge esattamente come lo sono ancora oggi, in Inghilterra ad esempio, le razze inferiori degli animali. Può arrivare il giorno in cui il resto degli animali del creato potrà acquistare quei diritti di cui non si sarebbe mai potuto privarli, se non per mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il nero della pelle non è una ragione per cui un essere umano debba essere abbandonato senza rimedio al capriccio di un carnefice. Può arrivare il giorno in cui si riconoscerà che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’os sacrum sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare un essere senziente allo stesso destino? Quale attributo dovrebbe tracciare l’insuperabile confine? La facoltà della ragione, o forse, quella del discorso? Ma un cavallo o un cane adulto è un animale incomparabilmente più razionale e più socievole di un neonato di un giorno o di una settimana o anche di un mese. Ma anche ponendo che le cose stiano diversamente a che

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servirebbe? La domanda da porre non è ‘Possono ragionare?’ né ‘Possono parlare?’, ma ‘Possono soffrire?’»14. Secondo questo criterio le azioni umane sono moralmente rilevanti laddove rivolte a esseri capaci di soffrire o provare piacere e dunque gli animali sono da considerare direttamente, sia pure solo in quanto pazienti od oggetti, cittadini dell’universo della moralità. Facciamo così nostra l’impostazione di Singer, che ha raccomandato nelle sue analisi di «non operare discriminazioni sulla base della specie»15, e ciò equivale a sottoscrivere una concezione non antropocentrica, che allarga l’universo della moralità a tutti gli individui che presentano quei tratti da considerare decisivi da un punto di vista etico, quali la capacità di provare dolore e piacere16. Giuridicamente saranno benvenute tutte le leggi che comminano pene per violenze e crudeltà verso gli animali, mentre non sembra ancora possibile riconoscere agli animali – sia pure quelli superiori forniti non solo di coscienza, ma anche di consapevolezza di sé, del loro passato e del loro futuro17 – veri e propri diritti giuridici, quali, ad esempio, quelli di proprietà o di libertà di espressione ecc. Il diritto morale alla libertà dalle interferenze non volute non si limita comunque a una protezione morale degli animali, ma attualmente esige anche una protezione giuridica, pure riconoscendo la limitazione sottolineata da una prospettiva humeana secondo cui tra noi e gli animali non sono operanti tutte quelle convenzioni che presiedono alle relazioni di giustizia18. Del tutto accettabile è dunque l’impegno di coloro che, come nel caso del Progetto Grande Scimmia19, muovendo da una diretta rilevanza degli animali e non solo da un rispetto dei sentimenti degli umani verso gli animali, si battono per allargare l’area delle condotte nei confronti di questi ultimi sottoposte a regolamentazione giuridica. Va condiviso, inoltre, il loro compiacimento per qualsiasi nuova conquista in questa direzione, come, ad esempio, l’esclusione in Gran Bretagna delle grandi scimmie da forme di sperimentazione sugli animali. Non solo: probabilmente

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potremo ritenere una conseguenza del modo sentimentalistico di considerare le questioni sulla condotta verso gli animali la raccomandazione di incrementare quelle abitudini di vita che permettono di far emergere più stabilmente con la convivenza forme di simpatia; fermo restando che dobbiamo sempre essere consapevoli della condizione di scarsità in cui vivono tutti gli esseri senzienti sul nostro pianeta, condizioni che però non giustificano in assoluto forme di cannibalismo intraspecifico e transpecifico. In questo contesto si dovrà promuovere la diffusione di caratteri che cerchino un equilibrio tra vegetarianismo e semivegetarianismo e che favoriscano comunque la riduzione della dipendenza da abitudini alimentari che confermano l’attuale organizzazione dell’industria alimentare20. Sono altresì da condividere tutte quelle impostazioni che invitano a rivedere completamente i modi in cui si ricorre alla sperimentazione animale mettendo in atto come minimo in attesa di un bando definitivo la procedura delle tre R: ovvero Rimpiazzandola ogni volta che sia possibile con altre sperimentazioni che non coinvolgono animali; Riducendo al minimo il numero degli animali a cui si ricorre in ciascuna sperimentazione ritenuta necessaria; e Raffinando le tecniche al fine di ridurre le sofferenze degli animali coinvolti21. Assumendo poi il quadro della responsabilità nei confronti delle generazioni future, sembra che esso esiga di non escludere completamente la considerazione anche del benessere delle specie animali22. La concezione etica sentimentalistica ritiene che questi obiettivi morali debbano essere realizzati gradualmente, formando – anche con l’aiuto delle sanzioni di legge – esseri umani capaci di capire la necessità di rivedere le loro abitudini per evitare condotte che portino al non riconoscimento del diritto morale alla libertà dalle interferenze non volute per gran parte degli esseri senzienti. Passando alle altre questioni applicative, abbiamo già chiarito che la nostra concezione non antropocentrica su base sensiocentrica prende comunque le distanze da quel-

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le posizioni che derivano da criteri diversi una rilevanza morale diretta non solo degli animali, ma anche di piante, vegetali e ambiente. Non ci sembra accettabile il criterio che indica come sufficiente, per la considerazione etica di un essere vivente, la presenza di un interesse di vita, qualsiasi esso sia, e dunque inteso in un senso molto ampio23. Proprio interpretando in modo ristretto il tipo di interesse rilevante per richiedere una considerazione morale, come interesse a non subire sofferenze e a provare piacere vedendo soddisfatte le proprie preferenze e desideri consapevoli, non riterremo i vegetali oggetti diretti di considerazione morale prendendo così le distanze da quelle forme forti di anti-antropocentrismo che si spingono fino al biocentrismo o alla «deep ecology»24. Dato che non possiamo attribuire ai vegetali, alle piante e all’ambiente interessi moralmente rilevanti, dobbiamo tener conto delle conseguenze che le nostre azioni hanno su di essi per il benessere e la soddisfazione delle preferenze degli esseri umani e degli animali che sono protetti dalla nostra etica. Seguiamo a questo proposito Singer, non solo per il rifiuto di una prospettiva olistica, ma per il senso allargato con cui interpreta i valori indiretti in gioco nelle condotte verso i vegetali, le piante e l’ambiente. Singer include tra questi valori anche quelli estetici, sottolineando l’importanza della capacità umana di godere e apprezzare la bellezza di un «ambiente incontaminato»25. In questa linea può ovviamente procedere un’etica sentimentalistica, con l’invito a privilegiare quei caratteri capaci di considerare la natura – salvaguardando ovviamente le condizioni reali per un’estrinsecazione di questa capacità – come essenziale per una concezione in senso ampio di benessere o felicità umana (ed eventualmente animale). Per mettere alla prova la fertilità della nostra prospettiva sentimentalistica, per quanto riguarda le questioni dell’etica ambientale, fermiamoci a ricostruire schematicamente come al suo interno possono essere affrontate le questioni relative al cambiamento climatico. Vi è una dif-

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fusa consapevolezza nella riflessione etica del fatto che la questione del cambiamento climatico presenti una particolare urgenza e rilevanza. Se infatti risultano attendibili alcune ipotesi relative alla trasformazione delle condizioni ambientali in cui si sviluppa la vita della specie umana sul nostro pianeta, si è aperta tutta una serie di nuove responsabilità per evitare catastrofi che possano portare all’estinzione della vita nel giro di qualche generazione. Naturalmente la questione del cambiamento climatico può essere affrontata da diverse prospettive: quella strettamente scientifica, quella economica o quella religiosa26. Inoltre, a proposito del cambiamento climatico e del riscaldamento globale, è ancora aperta una vivace discussione sulla gravità dei fenomeni, sui possibili fattori scatenanti e, di conseguenza, sui rimedi a cui ricorrere27. Cercando di elaborare un’applicazione a tali questioni può esserci d’aiuto quanto ha recentemente suggerito uno dei più significativi esponenti di etica ambientale nel mondo anglosassone, Dale Jamieson, il quale ha rilevato che proprio le questioni del cambiamento climatico dovrebbero spingere i conseguenzialisti e gli utilitaristi ad abbracciare un’etica della virtù28. È proprio Jamieson ad aiutarci a identificare quali siano i punti di forza dell’analisi sentimentalistica delle virtù. In negativo, risultano insuperabili i limiti di una concezione etica che per cercare la soluzione ricorra a una qualche forma di calcolo razionale intorno alle diverse alternative disponibili: una strategia che pretenda di ricondurre tutto a un calcolo di costi e benefici è destinata a collassare subito perché incapace di suggerire condotte effettive, data la complicazione insuperabile dei conteggi e la molteplicità degli interessi in competizione29; tale prospettiva risulta inadeguata anche per la ristrettezza degli interessi che è in grado di prendere in esame riducendo tutto a un’analisi dei costi e dei benefici economici nella quale non trovano spazio le perdite dovute, poniamo, alla completa scomparsa di un cielo azzurro, dei ghiacciai sulle montagne o delle diversità di

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temperatura tra una stagione e l’altra30. In alternativa a tutto questo, il nostro sentimentalismo della virtù può trovare uno spazio nella nostra vita per l’acquisizione di quelle motivazioni che, in quanto caratteri continui e persistenti delle persone, muovono a quelle azioni che contrastano le abitudini alla base della crisi ambientale, senza dovere ogni volta tener fede al proprio interesse individuale. Ancora, la nostra concezione etica può aiutarci a impostare in un modo peculiare e fertile la ricerca delle condotte da privilegiare per evitare la catastrofe ambientale, ovvero contribuire a farci comprendere in cosa consista la cosiddetta «virtù verde». Inadeguate risultano infatti quelle concezioni ambientalistiche che identificano questa virtù etica con una sorta di rinuncia o ascetismo di vita. Una caratterizzazione diversa è invece quella derivante dall’impostazione generale della nostra etica sentimentalistica della virtù, che richiede la formazione di un carattere sensibile al riconoscimento del diritto altrui a non subire interferenze e coercizioni non volute. Molte delle azioni che inquinano o riducono la biodiversità vanno evitate in quanto forme di costrizione e limitazione nei confronti degli altri esseri umani, di oggi e di domani. Spesso queste azioni riducono la libertà, degli altri e degli esseri umani futuri, di godere di quella fondamentale libertà morale che consiste nel cercare di perfezionare a modo loro le vite che hanno di fronte. Sottrarre alle generazioni future la diversità tra le stagioni, i boschi, i cieli stellati, le correnti d’acqua limpide, il silenzio e la possibilità di isolarsi vorrebbe dire, naturalmente, danneggiarle, ma anche impedire loro di godere di tutta una serie di condizioni che si accompagnano alla creazione e alla fruizione estetica. Come si nota, questa impostazione riconosce un valore indiretto all’ambiente che ci circonda, un valore che non è esclusivamente prudenziale ma legato allo spazio morale di scelte libere che deve essere garantito per tutti gli esseri umani e non ridotto, impoverito e reso asfittico dalle nostre decisioni.

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5.4. La virtù etica e le responsabilità nel campo delle questioni bioetiche Tra le questioni etiche che tuttora coinvolgono le persone, continuano ad avere uno spazio significativo quelle solitamente fatte rientrare nell’area di riflessione della bioetica in senso stretto31. Si tratta di quei nuovi problemi morali che gli esseri umani si sono trovati di fronte a partire dagli ultimi decenni del XX secolo come conseguenza della ricerca biologica nel campo della medicina. Ci fermeremo principalmente sulle questioni aperte dalla messa a punto di nuove vie per la procreazione umana, dai nuovi modi per accompagnare la fine della vita degli esseri umani conseguenti all’ampio uso di strumenti vicarianti, e da quegli interventi – cosiddetti di ingegneria genetica – rivolti ad ampliare o modificare le capacità della specie umana. In tutti questi casi non possiamo affidarci a norme giuridiche già consolidate e le soluzioni più adeguate andranno trovate non considerando esclusivamente noi stessi e la nostra generazione, ma guardando alle generazioni future. Si tratta dunque di situazioni etiche che hanno tutto da guadagnare se affrontate alla luce della nostra concezione normativa, ovvero quella che fa dipendere la condotta giusta dalla diffusione di una virtù che porti a compiere quelle azioni che favoriscono un più ampio riconoscimento del diritto morale individuale a una libertà dalle interferenze non volute. L’acquisizione di tale virtù è un presupposto per il riconoscimento a tutte le persone della loro libertà in merito alle scelte riproduttive, ai modi di morire, di curarsi e in generale di sviluppare il proprio personale progetto di vita. Solo questa libertà permette di dare vita a un’etica della nascita, della fine vita, della cura e del rispetto della struttura genetica della specie umana che riconosca pienamente la responsabilità morale delle persone coinvolte come agenti. Il nostro approccio normativo spinge a impostare la riflessione sulle questioni morali di inizio/fine vita e inge-

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gneria genetica rifiutando quelle prospettive che cercano di far ricadere sulla ricerca scientifica o sulla medicina la «colpa» di tutto. Una colpa che sarebbe identificabile principalmente nella creazione di condizioni relative al nascere, morire e correggere la propria condizione genetica del tutto artificiali e che allontanano gli esseri umani da ciò che è naturale. Si tratta infatti di prospettive che sembrano impegnate principalmente a non rendere consapevoli le persone che le responsabilità morali con cui devono confrontarsi riguardano le loro azioni e le loro scelte effettive e che a queste responsabilità non si può sfuggire attribuendo alla scienza (o al ceto criminalizzato degli scienziati) tutte le colpe e alla natura tutti i meriti. In generale, poi, queste posizioni risultano del tutto vacue in quanto pretendono di far valere come criterio risolutivo un qualche modo «naturale» di nascere e morire, o una qualche essenza naturale della specie umana. Che la natura possa essere una base adeguata per discriminare tra ciò che è giusto e ingiusto non è solo un mito e un errore logico, ma proprio un errore morale. Come già Mill argomentava chiaramente, la natura può essere intesa in due sensi: «o essa denota l’intero delle cose con l’aggregato di tutte le loro proprietà, oppure denota le cose come sarebbero prescindendo dall’intervento umano»32. In entrambi i sensi è impossibile indicare nella natura un modello di ciò che è accettabile e che andrebbe contrapposto a ciò che è negativo in quanto artificiale. Infatti, nel secondo senso, la natura includerebbe condizioni per noi inaccettabili, quali la diffusione, senza contrasto, di malattie, fame, povertà e altre calamità. Nel primo senso poi la natura non potrebbe che includere in sé le stesse pratiche artificiali che vengono in realtà rese possibili solo da condotte che applicano le leggi fisiche naturali secondo le quali viviamo. Chi fa appello alla natura o a ciò che sarebbe naturale come criterio risolutivo, in realtà non dice niente e prende in giro l’uditorio perché messo alle strette non riuscirebbe a fornire nessuna regola precisa33.

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Esaminiamo ora brevemente le questioni etiche sulla nascita. Sembra evidente che i problemi legati alla riproduzione, sia essa naturale o artificiale, in quanto considerano l’alternativa se mettere al mondo o meno, quando, quante volte, come e finanche che tipo di prole, rientrano sicuramente tra le questioni etiche legate alle nostre responsabilità verso le generazioni future34. Molto lavoro è già stato fatto per elaborare un’etica riproduttiva nella prospettiva di tale responsabilità. Sembra essersi in parte chiusa la fase nella quale si criminalizzava, da un punto di vista morale, la fecondazione artificiale in vitro, in quanto questa forma è accettata da quasi tutti i paesi dell’Occidente liberal-democratico – sia pure talvolta, come nel caso della legge 40 approvata dal parlamento italiano nel 2004, con forti limitazioni (peraltro quasi tutte annullate da varie sentenze di corti di giustizia di diverso livello). È stata accettata la prospettiva per cui questa pratica si configura come una via attraverso la quale allargare la libertà procreativa delle donne e delle coppie, sottolineando che la decisione sui singoli casi debba essere lasciata alle singole persone. Oggigiorno il rifiuto di alcune modalità di nascita in quanto considerate intrinsecamente dannose sembra essere rivolto quasi esclusivamente nei confronti del ricorso alla clonazione come pratica riproduttiva. Ma queste critiche risultano inaccettabili e non solo perché non vi è attualmente, di fatto, alcun ricorso a questa pratica per far nascere persone. Vi sono anche varie altre vie con cui mettere in crisi questa idea demagogica e semplicistica che tutto il male derivi dalla clonazione riproduttiva in quanto metodo specifico di generazione: ancora una volta gli esseri umani scaricano le responsabilità morali che spettano a loro su di una presunta negatività intrinseca della realtà con cui hanno a che fare. In primo luogo si potrebbe chiaramente argomentare che tra la clonazione riproduttiva, che si ritiene del tutto illecita, e altre forme di clonazione di cellule somatiche non vi è alcuna diversità intrinseca, in

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quanto anche la clonazione di cellule somatiche, se spinta più avanti, è in grado di far nascere individui35. Inoltre, anche nel caso della clonazione la negatività morale non è nella pratica in sé ma piuttosto nelle emozioni morali che la promuovono o in quelle provate dagli altri nei confronti di eventuali persone nate dalla clonazione. Infatti, in linea del tutto ipotetica, non possiamo attualmente escludere né che si scoprano situazioni riproduttive nelle quali una vita sana di un essere umano può essere fatta nascere solo ricorrendo alla clonazione, né che si creino condizioni in cui tale pratica riproduttiva possa essere realizzata senza alcun rischio medico per coloro che nasceranno. È infatti moralmente ovvio che la clonazione riproduttiva, come del resto qualsiasi pratica riproduttiva, può essere eticamente accettabile solo quando il rischio di danni ai nascituri è ridotto. Questo è l’unico tipo di giudizio intrinseco a cui si può sottoporre una pratica medico-biologica: valutare se comporta un rischio di danni inaccettabili per chi vi ricorre. Ma procedendo su questa strada dovremo ammettere che anche la pratica della clonazione riproduttiva, una volta sicura, risulterà del tutto benefica in quanto è prima facie preferibile che, con il ricorso a essa, possa nascere una persona, tra l’altro responsabilmente voluta, piuttosto che il contrario. Quindi, il giudizio propriamente etico riguarderà la questione se, una volta che la pratica sia stata resa sicura – dal punto di vista medicobiologico –, siamo legittimati a farne uso e fino a che punto. Non potremo sostenere che tale pratica priva coloro che nasceranno del loro diritto alla libertà dalle interferenze non volute. Infatti, la clonazione in quanto tale non esclude che la persona nata attraverso questa procedura riproduttiva possa svilupparsi in modo progressivo e libero: che questo possa avvenire viene mostrato chiaramente dai casi di gemelli monozigoti nati naturalmente. Messo da parte l’approccio che rinvia alla natura intrinseca della pratica, occorre valutare l’accettabilità o meno della scelta procreativa e questo potrà essere fatto

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esclusivamente guardando se la persona che la promuove è motivata dalla considerazione delle conseguenze che tale scelta ha sulla persona che nasce e sulle generazioni future. Applicando il nostro modello sentimentalistico della virtù, possiamo fornire qualche contenuto sostantivo più preciso in merito alla condotta che esso richiede. In questo ci aiutano alcuni principi elaborati da Tim Mulgan all’interno della sua teoria conseguenzialista sulle nostre responsabilità in generale verso le persone future, principi che valgono non solo per la procreazione assistita, ma anche per la ricerca genetica. Il presupposto costitutivo dell’etica riproduttiva è quello sottolineato a metà del XIX secolo da John Stuart Mill: «donare una vita che può rivelarsi una maledizione o una benedizione è un crimine verso l’essere cui la si dona, se non gli si offrono quanto meno delle opportunità normali di condurre una esistenza desiderabile»36. Mulgan ritiene che la nostra nozione di responsabilità procreativa e genetica possa essere colta solo se non perdiamo di vista tre esigenze o intuizioni prioritarie: quella di non compiere un’ingiustizia fondamentale che realizzeremmo se creassimo gratuitamente una prole che va incontro a nient’altro che a sofferenze; quella di non compiere in quanto generazione un’ingiustizia collettiva mettendo le cose in modo tale da causare gratuitamente delle grandi sofferenze per le generazioni future; e infine quella del riconoscimento di una libertà fondamentale che porta all’impegno di garantire un’autonomia riproduttiva che coinvolga sia la dimensione del mettere o meno al mondo sia quella del come mettere al mondo37. Proprio la nostra virtù morale impegnata a salvaguardare il diritto morale individuale alla libertà dalle interferenze di tutti gli esseri umani, attuali e futuri, può aiutarci a dare una qualche concretezza alla natura della responsabilità procreativa di fronte alle nuove tecniche di riproduzione assistita. L’etica riproduttiva richiede una virtù che riguarda tanto gli uomini quanto le donne, anche se è comprensibile il ruolo privilegiato che si riconosce a quest’ul-

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time in tale ambito di scelte umane. Nell’attività procreativa è in gioco la centralità delle donne che non può in alcun modo essere limitata facendo appello alle leggi della natura, ai doveri verso la prole o ai doveri verso il partner: l’affermazione dell’ambito della procreazione assistita ha reso più esplicita la richiesta di responsabilità e quindi di libertà che viene rivolta alle donne per il loro ruolo essenziale nella riproduzione umana38. Nel declinare in modo virtuoso le loro scelte procreative, le donne dovranno tener conto in primo luogo dei loro diritti di libertà e in secondo luogo delle esigenze di libertà e salute di quella che si avvia a essere la propria prole. Un carattere virtuoso in questo senso non dovrà perdere di vista le tre clausole della condotta responsabile appena richiamate con le riflessioni di Mulgan. Una virtù procreativa così concepita non ha nulla a che fare con l’accettazione di criteri estrinseci sul modo naturale di procreare, o su ciò che una concezione astratta e paternalistica di «buona madre» richiederebbe nella gravidanza39. Come, ad esempio, ha spiegato Rosalind Hursthouse, le scelte procreative creano una situazione peculiare nella quale le donne possono coniugare lungo vie del tutto personali una serie di virtù collegate con il dare la vita e prendersi cura della loro prole. Nessuna codificazione di queste virtù può essere imposta da leggi sostantive che cercano di individuare delle forme naturali di procreazione o di escludere alcune vie perché si scostano dalla famiglia tradizionale: la valutazione relativa alla virtuosità o meno delle scelte che una donna fa nel corso della procreazione dipende da una considerazione delle sue qualità e del suo carattere. Potremo approvare come virtuose una serie di scelte procreative in quanto ci sentiamo spinti ad approvare motivi e ragioni morali che guidano la donna. Come appunto esemplifica Hursthouse, anche la decisione di una donna di vendere il suo utero per permettere ad altre donne di avere dei figli – un caso dunque di maternità surrogata non oblativa – può in determinate condizioni essere considerata una scelta virtuosa40.

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Espressioni come coraggio, dedizione, responsabilità vanno dunque coniugate solo a posteriori, e perché questo sia possibile le donne e noi tutti dobbiamo salvaguardare una completa libertà procreativa che fa parte integrante del diritto morale alla libertà dalle interferenze non volute, diritto che con le nostre applicazioni etiche stiamo universalizzando e incorporando in situazioni concrete. Nello stesso contesto di individuazione di una virtù che porti a una condotta rispettosa del diritto morale alla libertà dalle interferenze non volute, vanno collocate le riflessioni relative alle scelte di fine vita che chi vive oggi non può evitare di fare come soggetto etico. Anche in questo caso non ha alcun senso ritenere già risolte nelle nostre leggi le alternative su come considerare da un punto di vista etico la richiesta fatta da una persona morente e in preda a gravi sofferenze di non essere più curata, né alimentata o idratata, e anzi di essere aiutata nell’abbreviare la sua vita – siano queste richieste avanzate da una persona ancora consapevole o sottoscritte in un testamento biologico o direttiva anticipata. Questioni del genere potranno essere risolte in modo eticamente accettabile dalle leggi e dalle corti di giustizia solo se non si perderà di vista che a contare in questi casi è il diritto morale alla libertà dalle interferenze della persona morente e non certo la riaffermazione di qualche legge divina sulla non disponibilità della vita o della legittimità esclusiva di qualche modo naturale di morire. Questa è un’area di questioni nella quale si vanno realizzando cambiamenti sociali anche più ampi di quelli legati alla diffusione delle pratiche di procreazione assistita. Le scelte relative alla procreazione artificiale sembrano riguardare comunque un numero limitato di persone, mentre l’interrogarsi sul come morire riguarda, almeno nelle società dell’Occidente, tutti gli esseri umani. Naturalmente, porsi questa domanda comporta l’aver capito che anche la fine della propria vita coinvolge la responsabilità morale individuale, una comprensione che si va sempre più diffondendo in un contesto in cui la cosiddetta

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«morte naturale» risulta sempre più difficilmente identificabile. Le norme giuridiche esistenti non sono fatte per dirci fino a che punto si può spingere l’autonomia della persona per quanto riguarda la propria morte41. Queste norme sono state concepite per situazioni in cui la morte avveniva, per così dire, naturalmente e non era governata da processi sociali quali l’ospedalizzazione della morte, il progressivo aumento dell’età delle persone nelle società avanzate e il diffondersi delle malattie degenerative legate all’invecchiamento, o sviluppi medici quali l’uso di varie forme di sostegno delle persone morenti con il ricorso a vari strumenti vicarianti che si spingono fino all’alimentazione e all’idratazione. Muovendo dal principio di fondo della nostra etica che riconosce come prioritario il diritto delle persone a non subire interferenze non volute, potremo affidare completamente alla responsabilità della persona stessa tutte le scelte che incidano sulla dignità della sua morte: riconoscendo in questo senso un vero e proprio diritto di morire alle persone, che non potranno essere mantenute in vita contro il loro volere ricorrendo a cure o a mezzi vicarianti di alcun genere42. Un diritto a morire che una volta pienamente giuridificato – come sembra eticamente necessario – comporterà l’attribuzione di una priorità alla volontà espressa dal morente sugli orientamenti di altri. Tenendo conto tassativamente delle direttive anticipate (eventualmente integrate con l’aiuto di un fiduciario)43, al cui interno dovranno trovare spazio non solo le richieste di sospensione delle cure, ma anche le richieste eutanasiche in presenza di gravi sofferenze alla fine della vita (fermo restando che tali richieste non possono imporre obblighi giuridici a qualcuno)44. Sul piano delle scelte individuali da considerare virtuose, non risulta più accettabile quell’impostazione che indica come condotta virtuosa, nei processi di fine vita, esclusivamente la coraggiosa sopportazione di quanto la natura prevede per noi. Non esiste più una natura a cui fa-

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re riferimento, ma solo un potere delle tecniche che la medicina utilizza per farci sopravvivere. In questo senso la virtù a noi richiesta sarà piuttosto, per quello che riguarda noi stessi, una scrupolosa riflessione sui modi in cui prevediamo di morire alla ricerca di condotte che rispettino l’unità del nostro carattere, e dunque una nostra concezione di quella che è una morte dignitosa sulla base del modo in cui abbiamo scelto di vivere. In questo quadro del tutto legittima, anzi in un certo senso l’unica virtuosa, potrà essere la richiesta (anticipata o presente) di sospendere quei mezzi con cui siamo costretti a continuare a vivere una vita che non si armonizza con quelle che sono state le nostre scelte precedenti. Non diversamente virtuosa sarà una richiesta di essere aiutati a morire, ovviamente laddove le leggi del nostro paese lo permettano (in assenza di queste leggi, la nostra etica raccomanda un impegno per un loro cambiamento in modo da garantire la libertà di questa richiesta e la non punibilità della condotta che l’accolga nei modi previsti). Tutto questo nasce dalla nostra capacità di immaginare quanto la nostra sopravvivenza, più che la nostra morte, possa essere fonte di inutili sofferenze per altri. La richiesta di sospendere le cure o di essere aiutati a morire può dunque essere considerata virtuosa anche per non rendere la nostra sopravvivenza un danno per i nostri cari o per tutti gli altri membri della nostra società (immobilizzando risorse che potrebbero essere utilizzate meglio). Non è affatto sicuro che noi tutti si sia privi di responsabilità laddove si contribuisca passivamente a realizzare una condizione sociale con un gran numero di persone (tra cui noi stessi) in stato di avanzata senilità e in cattive condizioni di salute che può creare forti limitazioni per i diritti delle generazioni future. La nostra etica non permette certo di auspicare leggi che impongano scelte sulla fine della vita contro la volontà delle persone direttamente interessate, ma si limita a suggerire una riflessione responsabile individuale sul come avvicinarsi alla propria morte.

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Prima lezione di filosofia morale

Tutto questo implica una trasformazione delle norme relative alla morte delle persone e ai loro diritti, nonché ai doveri del personale sanitario. In assenza di una diffusione di determinati sentimenti morali sulla morte dignitosa e sulla nostra responsabilità verso il morire che sostituisca le emozioni attuali prodotte da secoli di etica della non disponibilità della fine della propria vita, risulterà impossibile costruire un nuovo sistema giuridico. Di certo, questo mutamento giuridico non potrà essere avviato in quelle società che fanno appello a presunte leggi naturali, eterne e assolute, rendendo impossibile un’influenza sulle leggi da parte dell’esperienza morale. L’ultima area di questioni in cui la condotta virtuosa andrà individuata, sulla base di quanto dobbiamo fare per garantire la libertà dalle interferenze non volute a beneficio delle generazioni future, è quella legata a eventuali trasformazioni genetiche rese possibili dalla ricerca biologica e sul Dna. In questo caso rifiuteremo preliminarmente le soluzioni legate al rispetto dell’embrione umano o del Dna della specie umana, ovvero alla salvaguardia di una qualche identità umana ontologicamente caratterizzata. Un’etica della responsabilità verso le generazioni future che fa ruotare tutto intorno al rispetto di esseri umani così concettualizzati è fuorviante e le sue conclusioni applicative non possono che essere inservibili a causa delle premesse da cui muovono e del modo in cui ricostruiscono ciò che conta. Per una critica a questa concezione ontologica dell’essere umano, e per una rivisitazione dell’interpretazione del concetto di persona richiesta dalle questioni della nostra responsabilità verso le generazioni future, possiamo fare tesoro delle idee di David De Grazia45. De Grazia mostra come la nostra concezione di persona per le questioni della procreazione assistita e dell’ingegneria genetica debba essere in grado di fornire una risposta unitaria e coerente a tutto un insieme di nuove questioni che coinvolgono, oltre l’identità prenatale e gli interventi genetici, anche la definizione della morte, le direttive anticipate e le

V. Le applicazioni pratiche dell’etica sentimentalistica della virtù 143

tecnologie finalizzate al miglioramento del nostro corpo. Nell’elaborare quindi una concezione dell’identità umana adeguata a tutte le odierne questioni bioetiche, De Grazia ipotizza l’intreccio di due diversi livelli di analisi. Il livello più prioritario e costitutivo è quello che guarda all’identità umana in connessione con il requisito essenziale dell’identità numerica. Tale identità numerica è secondo De Grazia garantita dal fatto che una persona umana sia sempre lo stesso organismo biologico in vita. A questa identità corporea le persone umane uniscono poi – ed è questo il secondo livello di analisi – una peculiare capacità di autocreazione che si esprime con la loro attitudine a narrare la propria vita come la propria vita, un’attitudine a cui essi tengono e che desiderano continuare. Sulla base di questa rivisitazione – va sottolineato del tutto secolare e naturalistica – dell’identità umana, De Grazia affronta le questioni etiche relative all’inizio della vita che sono strutturalmente legate a quelle dell’ingegneria genetica. La sua concezione è che l’inizio della vita umana, ovvero di un organismo che poi continua identico fino alla morte, non può essere fatto risalire al concepimento: questa interpretazione del concetto di persona umana non si confronta con il dato biologico secondo il quale lo sviluppo dello zigote entro le due settimane dalla fertilizzazione può non avere ancora sviluppato i tratti dell’individuazione in quanto soggetto a processi come quelli della «gemellazione» – la divisione dello zigote in due, tre o quattro distinte individualità – o della «fusione», ovvero il caso in cui due zigoti si uniscono in uno solo dando vita a una chimera46. Secondo De Grazia, «ciascuno di noi comincia a esistere al momento in cui vi è una individuazione unica, circa due settimane dopo il concepimento. L’organismo precedente all’individuazione non è un essere della nostra specie, piuttosto è un precursore di un organismo umano della nostra specie e perciò numericamente distinto da esso. Se si interrompe quindi la gravidanza prima della individuazione unica questa interruzio-

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Prima lezione di filosofia morale

ne è più simile alla contraccezione perché ci impedisce di cominciare a esistere piuttosto che uccidere uno di noi. L’organismo distrutto da questi aborti prematuri è simile a un uovo non fertilizzato o a uno spermatozoo, non al tipo di cose che può avere uno status morale sostanziale. Per cui essendo numericamente distinto da qualsiasi essere senziente successivo o persona, strettamente parlando non può nemmeno divenire uno di essi. Perciò anche se la potenzialità di divenire un essere con uno status morale conferisse essa stessa uno status analogo – una posizione altamente discutibile che rifiuto – l’organismo precedente alla individuazione manca di questo potenziale. Così il porre termine alla gravidanza a questo stadio molto primitivo è relativamente facile da giustificare. Per la stessa ragione – significativamente – la clonazione terapeutica e le ricerche sulle cellule staminali sono relativamente facili da giustificarsi se lo sviluppo è interrotto prima del tempo della individuazione unica»47. Una volta che si sia messa da parte anche per la nostra stessa identità numerica la concezione che tende a farla coincidere con un dato biologico, naturale e originario, avremo lo spazio per far valere quella concezione dell’identità personale che abbiamo elaborato nella nostra etica sentimentalistica. In effetti, l’identità narrativa che De Grazia riconosce come propria della persona umana può essere ampiamente strutturata intorno a quelle scelte libere e responsabili che – come abbiamo spiegato seguendo i suggerimenti di Mill – sole possono far progredire ciascun essere umano nell’elaborazione del proprio progetto di vita. Attraverso la strada indicata da De Grazia l’etica della riproduzione e della ricerca genetica non sarà dunque centrata intorno all’assoluto rispetto di un presunto statuto dell’embrione umano, quanto piuttosto intorno a una valutazione delle conseguenze delle diverse pratiche in esame e delle motivazioni delle persone (genitori, medici, scienziati, legislatori ecc.) che si impegnano in queste pratiche. Dopo aver affrontato su queste basi le questioni del-

V. Le applicazioni pratiche dell’etica sentimentalistica della virtù 145

la procreazione assistita, occupiamoci ora delle questioni legate agli interventi terapeutici e migliorativi sulla biologia umana. In primo luogo dobbiamo mettere da parte completamente quell’impostazione che vede nella vita umana – individuale o di specie – il dono di un creatore o di una natura benigna che va accettato nella sua casualità: un’impostazione che comporta il rifiuto di qualsiasi pratica di sperimentazione sulla struttura genetica umana sia per liberarci definitivamente da gravi malattie sia per cercare di ampliare e sviluppare le nostre capacità48. Queste impostazioni, ovviamente, sono da rifiutare sia per la pretesa inaccettabile di legare la vita umana a una realtà biologica originaria priva di diversità e di potenzialità di cambiamento, sia per l’uso di concetti ambigui e confusi (ad esempio, quello di un dono che ci viene fatto vietandoci anche di disporne liberamente). Una volta abbandonate queste concezioni rinunciatarie e le superstizioni che vi si accompagnano, dobbiamo passare a elaborare anche per il campo dell’ingegneria genetica e dell’ampliamento e miglioramento delle capacità umane una concezione della virtù in accordo con la teoria etica che stiamo presentando in questo libro. Individuare la natura propria della virtù chiamata in causa in questi contesti, come abbiamo spiegato ripetutamente, è difficile: di certo deve essere rilevante, nel carattere umano da considerare virtuoso, la capacità di simpatizzare e dunque di immaginare le condizioni di vita delle future generazioni, così come notevole deve essere la capacità di immaginare eventuali rischi connessi con la forma di sperimentazione che si vuole promuovere per cercare di minimizzarli e tenerli sotto controllo (e laddove questo non fosse realizzabile mettere da parte la sperimentazione). Ma non è comprensibile la condotta di chi eviti tutte queste vie aperte dalla ricerca per paura: un modo di procedere che talvolta si trova in coloro che fanno proprio un principio di precauzione interpretato – in realtà spesso richiamando le idee di Hans Jonas – come divieto di qualsiasi innovazio-

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ne, sia essa anche minimamente rischiosa. Come ha suggerito John Harris, sarà piuttosto da apprezzare una generale motivazione a favorire la continuazione e l’ampliamento della ricerca e che non escluda dall’orizzonte nemmeno quelle ricerche che non siano esclusivamente riparative, ma che tendono ad ampliare le capacità umane49. Non si potranno apprezzare come virtuosi quei biologi e medici che escludono completamente dal loro ambito di ricerca cellule staminali e clonazione terapeutica in quanto condotta impopolare o proibita dalla morale religiosa del loro paese. Benefici per la salute e il benessere umano non verranno da loro ma da biologi e medici che riterranno, in altri paesi eventualmente, non solo di essere liberi ma anche obbligati a sviluppare ricerche che possano migliorare le condizioni di vita degli esseri umani.

Note

Capitolo I 1 Un tentativo di ricostruire alcune linee centrali dell’evoluzione storica della morale viene offerto da S. Nichols, Sentimental Rules. On the Natural Foundations of Moral Judgment, Oxford, Oxford University Press, 2004, pp. 141-147, mostrando l’estensione e variazione delle norme rivolte ad evitare il danno per gli esseri umani. Per una riflessione sulla morale che cerca di evidenziare alcune linee di sviluppo si veda anche D. Jamieson, Morality’s Progress. Essays on Humans, Other Animals, and the Rest of Nature, Oxford, Oxford University Press, 2002. 2 La metodologia che si adotta non è dunque molto diversa da quella illustrata, ad esempio, da Bernard Williams: in generale nei saggi raccolti in Philosophy as a Humanistic Discipline, Princeton, Princeton University Press, 2006; e in termini esemplificativi in Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Roma, Fazi Editore, 2005. 3 D. Copp, Introduction. Metaethics and Normative Ethics, in Id., The Oxford Handbook of Ethical Theory, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 5-6. 4 G. Preti, Adam Smith. Alle origini dell’etica contemporanea, Bari, Laterza, 1957. 5 Si veda appunto Platone, Eutifrone, in Opere complete, vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1992. In generale, per questo aspetto dell’eredità di Socrate: G. Vlastos, Socrate. Il filosofo dell’ironia complessa, Firenze, La Nuova Italia, 1998. 6 Naturalmente il lettore dovrà tenere presente che la nozione di sentimentalismo che caratterizza la concezione etica che proponiamo viene usata in un senso tecnico e non ha niente a che fare con la nozione del linguaggio quotidiano con cui ci si riferisce spesso a un atteggiamento che tende a una sentimentalità eccessiva e verso senti-

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Note

menti affettati e sdolcinati. Il sentimentalismo etico che proponiamo è incline a rifiutare – come comunemente accade – questo tipo di atteggiamenti in quanto vacui e retorici: divenire consapevoli che la nostra condotta etica è ispirata da un peculiare sentimento morale non esclude la sobrietà e il rifiuto di eccessi melodrammatici. 7 J. Glover, Humanity. Una storia morale del XX secolo, Milano, Il Saggiatore, 2002. 8 Si veda su questo B. Brunetau, Il secolo dei genocidi, Bologna, Il Mulino, 2005, in cui si ricostruiscono il primo genocidio moderno degli armeni nel 1915, le politiche genocidarie nella Russia sovietica, l’estremo genocidio nazista degli ebrei in Europa, il genocidio della Cambogia e l’etnismo genocidario della Bosnia e del Ruanda fino alla nascita della Corte penale internazionale. 9 Una narrazione di questi sforzi di creazione di istituzioni internazionali nel corso del XX secolo è stata recentemente fatta da P. Kennedy, Il parlamento dell’uomo. Le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale, Milano, Garzanti, 2007, che non manca di indicare le continue battute d’arresto e gli ostacoli cui vanno incontro. 10 Su questi aspetti della crescita senza freni della popolazione e sulla ricaduta che essa ha sull’ambiente si veda G. Sartori e G. Mazzoleni, La terra scoppia. Sovrappopolazione e sviluppo, Milano, Rizzoli, 2004, 3a ed. aggiornata. 11 Su questi aspetti di distorsione del processo di globalizzazione si veda P. Singer, One World. L’etica della globalizzazione, Torino, Einaudi, 2003. Il libro di P. Collier, L’ultimo miliardo. Perché i paesi più poveri diventano sempre più poveri e cosa si può fare per aiutarli, Roma-Bari, Laterza, 2008, è utile invece perché documenta le persistenti condizioni di povertà e arretratezza di quasi un miliardo di esseri umani e suggerisce alcune impostazioni per venire loro in aiuto. 12 Questo sfruttamento senza limiti degli animali a fini alimentari e farmaceutici è stato documentato da P. Singer, Liberazione animale, Milano, Mondadori, 1991. 13 Per una presentazione complessiva della discussione dal punto di vista dell’etica su questi cambiamenti nell’ambiente si veda ad esempio: S.M. Gardiner, Ethics and Global Climate Change, in «Ethics», CXIV, 2003-2004, pp. 555-600; D. Jamieson, Ethics and the Environment. An Introduction, Cambridge, Cambridge University Press, 2008, pp. 181-204. 14 La tematica dell’«autosoppressione della morale» è presente in una serie di opere di Nietzsche, in particolare in Al di là del bene e del male e Genealogia della morale, raccolte nel tomo II del volume VI delle Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1972.

Note al capitolo II

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Capitolo II 1 J.S. Mill, L’utilitarismo, in La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne, Milano, Rizzoli, 1999, p. 291. 2 Per questo si veda D. Hume, Sulla religione e i miracoli. Sulla provvidenza e il male, Roma-Bari, Laterza, 2008 e I. Kant, Critica della ragion pura, Bari, Laterza, 1963; più in generale, J.L. Mackie, The Miracle of Theism. Arguments for and against the Existence of God, Oxford, Clarendon Press, 1982 e C. Hughes, Filosofia della religione. La prospettiva analitica, Roma-Bari, Laterza, 2005. 3 Queste due linee, ad esempio, sono state riprese recentemente da Jamieson, Ethics and Environment cit., pp. 33-38. 4 Argomentazione che è stata avanzata da G.E. Moore nei suoi Principia Ethica, Milano, Bompiani, 1964, pp. 212-213. 5 Questo tipo di obiezioni filosofiche è stato ricostruito da S. Landucci, La teodicea nell’età cartesiana, Napoli, Bibliopolis, 1986 e da E. Scribano, Teodicea, in I concetti del male, a cura di P. Portinaro, Torino, Einaudi, 2002, pp. 338-351. Per una formulazione molto chiara di queste obiezioni nella filosofia del XIX secolo si veda J.S. Mill, La Natura, in Saggi sulla religione, Milano, Feltrinelli, 1972. Si tratta di dubbi sulla bontà e onnipotenza di Dio che trovano anche un’espressione letteraria drammatica nei personaggi di Dostoevskij, in particolare in I fratelli Karamazov, Milano, Rizzoli, 1968. 6 T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, Firenze, La Nuova Italia, 1985, pp. 261-262. 7 Questa critica decisiva all’etica giusnaturalistica si trova non solo in D. Hume, Trattato sulla natura umana, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 496-497 (un passo noto come il «capoverso dell’è-deve»), ma è al centro del rifiuto di tutte le concezioni eteronome da parte di I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 118-125. Più specificamente, la critica della «fallacia naturalistica» di chi riduce una questione di valore a una questione di fatto si può trovare in Moore, Principia Ethica cit., pp. 44-89. 8 Questa continuità della morale di Kant con il contesto dell’etica religiosa è stata diagnosticata anche da G.E.M. Anscombe, La filosofia morale moderna (1958), in «Iride. Filosofia e discussione pubblica», XXI, 2008, pp. 47-67. Anscombe riteneva fallito il progetto kantiano in quanto considerava come privo di contenuto il linguaggio morale fatto di doveri e obblighi, una volta scomparso il contesto dell’etica religiosa. Ma diversamente da ciò che accade per Anscombe, la teoria che si sviluppa in questo libro non ha alcuna nostalgia per la perdita di questo linguaggio: esso è solo un intralcio che può essere pienamente sostituito da una moralità ricondotta alle nozioni di virtù e vizi, beni e mali colti dai sentimenti morali.

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Note

9 È questo l’uso che della Ragione in morale è stato fatto, ad esempio, nella seconda metà del XX secolo e all’inizio del XXI secolo dai pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che con le loro encicliche e prese di posizione hanno indicato autoritariamente e in modo indiscutibile quali siano le conclusioni che la Ragione detta a tutti gli uomini sulle questioni controverse della bioetica. 10 F. von Hayek, Legge, legislazione e libertà. Una nuova enunciazione dei principi liberali della giustizia e della economia politica, Milano, Il Saggiatore, 1986, in cui si presenta la ricostruzione del modello alternativo di spiegazione dei processi storici come spontanei e non intenzionali che da Bernard Mandeville è giunto fino ai nostri giorni. 11 Per una presentazione complessiva della filosofia morale di Hume e della sua influenza sul pensiero contemporaneo si veda E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1991. 12 Queste critiche a un uso della causalità al di là di ciò che è effettivamente testimoniato come abituale dall’esperienza sono esplicitamente formulate nei Dialoghi sulla religione naturale pubblicati da Hume solo postumi (li si veda in Opere filosofiche, vol. IV, Roma-Bari, Laterza, 1987), ma come ha giustamente indicato Paul Russell, The Riddle of the Treatise. Skepticism, Naturalism and Irreligion, Oxford, Oxford University Press, 2008, esse fanno parte già del progetto iniziale della filosofia di Hume di fornire una spiegazione naturale dell’essere umano. Parte essenziale di questo progetto era liberare le spiegazioni della moralità dalle componenti teistiche e deistiche. 13 Hume, Trattato sulla natura umana cit., III.1.1, pp. 481-497. 14 Ivi, II.III.3, pp. 433-439. 15 Ivi, II.II.11, pp. 332-340. 16 Ivi, III.III.1, p. 615. 17 Ivi, III.III.1, p. 616. 18 Ibid. 19 Ivi, p. 499. 20 A queste virtù è dedicata tutta la seconda parte del III libro del Trattato, pp. 504-606. Sulle peculiarità delle virtù della castità e della modestia e sulla natura «ironica» della ricostruzione che Hume ne fornisce si veda E. Lecaldano, Hume’s Theory of Justice, or Artificial Virtue, in A Companion to Hume, a cura di E.S. Radcliffe, Oxford, Blackwell, 2008, pp. 257-262. 21 Hume, Trattato cit., III.II.1 e 2, specialmente p. 515. 22 È quanto sostiene ripetutamente R. Keynes, Casa Darwin. Il male, il bene e l’evoluzione dell’uomo, Torino, Einaudi, 2007, p. 44. In realtà Hume è continuamente richiamato nelle opere di Darwin ed è particolarmente presente nei suoi Taccuini, principalmente in quel-

Note al capitolo II

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li cosiddetti metafisici M e N che risalgono al 1838-1840 e che si possono leggere in C. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. Taccuini M e N. Profilo di un bambino, Torino, Boringhieri, 1982. 23 C. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali cit., p. 82. 24 J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, Torino, Edizioni di Comunità, 1996, specialmente pp. 9-74 in cui si narra la scoperta di Darwin, e le pp. 203-261 in cui si elabora la presentazione di una «moralità senza l’idea che gli umani siano speciali». 25 Una ricostruzione della natura tempestosa, sul piano biografico, del processo con cui Darwin negli anni 1836-1842 fece cadere le barriere della concezione antropologica tradizionale, con tutte le implicazioni che ciò comportava anche sul piano della spiegazione della natura della morale, è offerta da A. Desmond e J. Moore, Darwin, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, specialmente pp. 261-292. 26 C. Darwin, L’origine dell’uomo, a cura di F. Paparo, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1991 (riprende l’edizione degli Editori Riuniti di Roma del 1966), p. 173. Tra l’altro, in questo contesto, Darwin riprende l’assimilazione di senso morale e coscienza che Hume introduce nel Trattato, III.I.1.10. 27 Keynes, Casa Darwin cit., p. 53, che rinvia (nota 12, p. 70) a W. Whewell, Bridgewater Treatise III, London, 1833, p. 267. 28 Darwin, L’origine dell’uomo cit., pp. 134-135 e 161-162. 29 Sulle forti affinità tra le emozioni degli animali e quelle degli esseri umani Darwin lavorava sistematicamente pubblicando, nel 1872, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. Questa prospettiva comparativa permetteva anche di suggerire la trascrizione in termini di emozioni elementari di processi caratteristici della vita morale solitamente attribuiti alla peculiare natura spirituale e razionale umana. Darwin in questa linea rielaborava la nozione di «coscienza morale» in modo tale da non escludere che ne fossero forniti anche gli animali (i cani, ad esempio), considerandola una passione composta ereditaria da cui gli esseri umani gradualmente avevano ricavato i sentimenti morali. Il senso di colpa, il rincrescimento sono dunque elementi del tutto comprensibili in chiave naturalistica e riconducibili a emozioni presenti negli umani e negli animali. Su questo si veda in particolare L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali cit., pp. 58-89. 30 Darwin, L’origine dell’uomo cit., pp. 137-149. 31 Queste conferenze sono raccolte in T.H. Huxley, Evoluzione ed etica, a cura di A. La Vergata, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. 32 Huxley, Evoluzione ed etica cit., specialmente pp. 7-10 e 50-54. 33 Così ricorda il contributo di Hamilton, R. Dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Milano, Mondadori, 2007, p. 214. Sull’importanza dei lavori di Hamilton per una ricostruzione dei processi

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Note

sociali di cooperazione si veda in particolare R. Axelrod, Giochi di reciprocità. L’insorgenza della cooperazione, Milano, Feltrinelli, 1985. Lo stesso modello di altruismo genetico o parentale è stato elaborato da E. Sober e D. Wilson, Unto Others. The Evolution and Psychology of Unselfish Behavior, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1998. 34 R.L. Trivers, Social Evolution, Menlo Park (CA), BenjaminCummings, 1985. 35 Dawkins, L’illusione di Dio cit., p. 216. Questa forma di altruismo di reciprocità è al centro di R. Dawkins, Il gene egoista, Milano, Mondadori, 1995. Tra l’altro, sulla base della teoria dei giochi, l’altruismo di reciprocità si presenta come una delle strategie stabili, alla quale vengono poi dati svariati nomi come Tit-for-Tat, Retaliator e Reciprocator. 36 R.A. Alexander, The Biology of Moral Systems, New York, Aldine De Gruyter, 1987. 37 F. de Waal, Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Milano, Garzanti, 2008, pp. 82-83. 38 Tra i molti testi che documentano il consolidarsi di questo paradigma va ricordato J.L. Prinz, The Emotional Construction of Morals, Oxford, Oxford University Press, 2007. 39 Il libro di de Waal è ricco di osservazioni etologiche sulla presenza di condotte empatiche nelle scimmie. Egli descrive, tra l’altro, il caso della scimmia Kuni che riesce a immaginare i bisogni di un uccellino ferito che viene da lei aiutato a riprendere a volare (Primati e filosofi cit., p. 53); il caso del bonobo Kakowet che «urlando e agitando freneticamente le braccia» cerca di avvertire gli inservienti dello zoo che alcuni piccoli bonobo erano rimasti in una fossa che, dopo essere stata svuotata d’acqua per pulirla, cominciava a essere riempita di nuovo (ivi, p. 98). De Waal descrive anche casi in cui gli animali manifestano gratitudine e senso di giustizia. 40 de Waal, Primati e filosofi cit., pp. 211-215. Sulla distinzione tra varie forme di altruismo è più volte tornato Peter Singer, in particolare in The Expanding Circle. Ethics and Sociobiology, Oxford, Clarendon Press, 1981, e in Una sinistra darwiniana. Politica, evoluzione, cooperazione, Torino, Edizioni di Comunità, 2000. 41 de Waal, Primati e filosofi cit., specialmente pp. 142 e sgg., fa valere la sua lettura anti-razionalistica della moralità in polemica con la tesi di chi ritiene necessario un rinvio a qualche forma di «capacità di autogoverno normativo». In particolare questa tesi è difesa nel volume da C.M. Korsgaard, Moralità e particolarità dell’azione umana (ivi, pp. 125-147) e P. Kitcher, Etica ed evoluzione. Come si arriva da lì a qui (ivi, pp. 148-169). 42 Ivi, pp. 95-99. 43 L. Kohlberg, The Psychology of Moral Development. The Nature and Validity of Moral Stages, New York, Harper and Row, 1984.

Note al capitolo III

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Nichols, Sentimental Rules cit. Si veda, in particolare, A. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (1994), Adelphi, Milano, 1995; A. Lavazza, Neuroscienze e filosofia morale, in «Rivista di filosofia», XCVIII, 2007, pp. 327-358. 46 Si veda, ad esempio, N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, Milano, Apogeo, 2009. 47 Un quadro d’insieme è in M.D. Hauser, Menti morali. Le origini del bene e del male, Milano, Il Saggiatore, 2006. Va rilevato che Hauser, come molti ricercatori in quest’area, individua a base dell’etica non tanto dei sentimenti quanto piuttosto delle intuizioni socialmente diffuse, ma lo stretto collegamento tra queste intuizioni e le componenti emozionali è esplicitamente richiamato da J. Haidt, The Dog and Its Rational Tail. A Social Intuitionist Approach to Moral Judgment, in «Psychological Review», CVIII, 2001, pp. 814-834. In questo contesto vengono anche considerate rilevanti le ricerche fatte sui «neuroni specchio»: si veda G. Rizzolati e C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaello Cortina, 2006. 48 Per una ricostruzione e applicazione della nozione di empatia ricavata da Stein si veda L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, Raffaello Cortina, 2006. 49 Si fa riferimento nell’ordine a: P.F. Strawson, Freedom and Resentment and Other Essays, London, Methuen, 1974, e per un più recente sviluppo della prospettiva strawsoniana J.R. Wallace, Responsibility and the Moral Sentiments, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1994; A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, Clarendon Press, Oxford, 1999 e S. Blackburn, Ruling Passions. A Theory of Practical Reasoning, Oxford, Clarendon Press, 1998; C. Diamond, The Realistic Spirit. Wittgenstein Philosophy and the Mind, Cambridge (Mass.), The Mit Press, 1991, e inoltre L’immaginazione e la vita morale, a cura di P. Donatelli, Roma, Carocci, 2006; A. Baier, Moral Prejudices. Essays on Ethics, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1994 e V. Held, Etica femminista. Trasformazione della coscienza e famiglia post-patriarcale, Milano, Feltrinelli, 1997. 50 Nichols, Sentimental Rules cit., pp. 88-95. 51 B. Williams, Vergogna e necessità, Bologna, Il Mulino, 2007. 52 Held, Etica femminista cit., pp. 38-39. 45

Capitolo III 1

M. Smith, The Moral Problem, Oxford, Blackwell, 1994. R.M. Hare, Scegliere un’etica, Bologna, Il Mulino, 2006. 3 Smith, The Moral Problem cit., p. 41. E Smith elenca le ovvietà 2

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rilevanti quali «praticità, sopravvenienza, oggettività, sostanza, procedura». 4 È questa la tesi interpretativa di S. Darwall, A. Gibbard e P. Railton, Toward Fin de Siècle Ethics. Some Trends, in «The Philosophical Review», CI, 1992, pp. 115-189 (testo poi ripubblicato come Introduction della raccolta Moral Discourse and Practice. Some Philosophical Approaches, a cura di S. Darwall, A. Gibbard e P. Railton, Oxford, Oxford University Press, 1997, pp. 7-9) da cui riprendiamo l’elencazione delle più importanti concezioni meta-etiche. 5 Sul ruolo del senso comune nelle elaborazioni filosofiche di Hume si veda D.W. Livingston, Hume’s Philosophy of Common Life, Chicago, The University of Chicago Press. Per quanto riguarda il ruolo guida che hanno nella filosofia morale di Kant «le conoscenze razionali del senso comune», si veda A.W. Wood, Kant’s Ethical Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 17-20. 6 Hume, Trattato sulla natura umana cit., p. 496. 7 I. Kant, Critica della ragion pratica, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 67 e 101. 8 H. Sidgwick, I metodi dell’etica, a cura di M. Mori, Il Saggiatore, Milano, 1995; sulle relazioni tra il programma teorico di Sidgwick e la moralità di senso comune – oltre al classico volume di J.B. Schneewind, Sidgwick’s Ethics and Victorian Moral Philosophy, Oxford, Clarendon Press, 1977, specialmente pp. 260-285 e 349-351 – si vedano i contributi di M.G. Singer, J.B. Schneewind, A. Donagan e R. Hardin nella prima parte del volume Essays on Henry Sidgwick, a cura di B. Schultz, Cambridge, Cambridge University Press, 1992. 9 Moore, Principia Ethica cit. Il grande contributo che Moore ha dato allo sviluppo delle riflessioni meta-etiche partendo dall’analisi del senso comune è sottolineato sia nel volume di T. Baldwin, G.E. Moore, London, Routledge, 1990, sia nella recente rivisitazione di B. Hutchinson, G.E. Moore’s Ethical Theory. Resistance and Reconciliation, Cambridge, Cambridge University Press, 2001. 10 G.E. Moore, Etica, Milano, Angeli, 1982. 11 Si tratta di una lista diversa da quella avanzata, ad esempio, da Hare, Scegliere un’etica cit., p. 74, che ricorda la neutralità, praticità, incompatibilità, logicità, l’argomentabilità, conciliazione. Ma tenuto conto del modo in cui coniugheremo le ovvietà di senso comune sulla moralità che privilegiamo nel testo in esse sono ricomprese tutte le esigenze fatte valere da Hare. 12 Un classico di questa fase è il libro del 1952 di R.M. Hare, Il linguaggio della morale, Roma, Ubaldini, 1968; ma si veda anche U. Scarpelli, L’etica senza verità, Bologna, Il Mulino, 1982. 13 Rende conto di questo dibattito, inserendolo in una prospettiva critica, P. Donatelli, La filosofia morale, Roma-Bari, Laterza, 2001, specialmente pp. 116-122.

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14 Hare nella sua meta-etica non-descrittivistica della moralità rende però conto di una moralità molto più vicina a quella di Kant che a quella di Hume, come emerge chiaramente in Il pensiero morale, Bologna, Il Mulino, 1989 e in Saggi di teoria etica, Milano, Il Saggiatore, 1992. 15 È famosa in questo senso l’analisi con cui Kant sostiene che solo un «filantropo rabbuiato da un suo dolore» e, anzi, di «temperamento freddo e indifferente verso i dolori altrui» sarebbe in grado di una forma di beneficenza moralmente apprezzabile (Fondazione della metafisica dei costumi cit., pp. 25-27). 16 T. Nagel, La possibilità dell’altruismo, Bologna, Il Mulino, 1994 (l’edizione originale è del 1970), specialmente pp. 178 e sgg. 17 J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia morale, Milano, Feltrinelli, 2004, specialmente pp. 48-56, 106-107, 287-291. 18 J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Roma-Bari, Laterza, 1988 (si veda il capitolo XXI del libro II dedicato all’idea di potere e in particolare pp. 262-288). 19 Hume, Trattato sulla natura umana cit., p. 497; cfr. supra, 2.2.1. 20 D. Hume, Ricerca sui principi della morale, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 191. 21 J. Oakley, Morality and the Emotions, London, Routledge, 1992, pp. 17-19. Sulla natura originaria e dominante delle passioni si veda Blackburn, Ruling Passions cit. 22 Nichols, Sentimental Rules cit., specialmente pp. 30-82; cfr. supra, 2.4. 23 Questa natura peculiare dei sentimenti morali è già pienamente colta dal filone espressionista delle concezioni sentimentalistiche dell’etica: si veda, ad esempio, Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings cit. 24 Cfr. supra, 2.2.1, 2.2.2 e 2.3. 25 Una risorsa a cui ricorrono non solo coloro che fanno propria l’antropologia humeana e darwiniana, ma anche molti pensatori che elaborano il paradigma della fenomenologia del XX secolo. Sull’importanza della simpatia in Hume si veda C. Schmidt, David Hume. Reason in History, University Park, The Pennsylvania State University Press, 2003, specialmente pp. 161-260. Sull’importanza della simpatia nella tradizione fenomenologica, oltre alle ricerche sull’empatia di Stein che abbiamo già ricordato, si veda M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, Milano, San Paolo, 1996. Sul ruolo centrale della simpatia in morale si veda anche A. Smith, Teoria dei sentimenti morali (1759), Milano, Rizzoli, 1995. 26 Per una ricostruzione più compiuta della riflessione intorno alla questione dell’oggettività si veda E. Lecaldano, L’oggettività dell’etica. Una versione sentimentalistica, in «Rivista di filosofia», LXXXIX,

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Note

1998, pp. 353-384. Si veda anche Giorgio Bongiovanni, nel volume da lui curato, Oggettività e morale. La riflessione etica del Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2007. 27 Moore, Etica cit., p. 68. 28 Moore, Principia Ethica cit., pp. 213-230. 29 A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, Milano, Feltrinelli, 1961 (in questo libro del 1936 particolarmente significativa la «critica all’etica e alla teologia», pp. 135-147). 30 Molte obiezioni che condividiamo all’emotivismo di Ayer sono state avanzate in occasione del cinquantenario della pubblicazione di Language, Truth and Logic: A.J. Milne, Value and Ethics. The Emotive Theory, in Logical Positivism in Perspective, a cura di B. Gower, London, Sydney, 1987, pp. 89-108; M. Smith, Should We Believe in Emotivism?, in Fact, Science and Morality. Essays on A.J. Ayer’s Language, Truth and Logic, a cura di C. Macdonald e C. Wright, Oxford, Blackwell, 1986, pp. 289-309. 31 W. James, Volontà di credere, trad. di C. Sini, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 213-214: il passo è tratto dal saggio Il filosofo della morale e la vita morale, pubblicato per la prima volta nel 1891 sull’«International Journal of Ethics». 32 J.L. Mackie, Etica. Inventare il giusto e l’ingiusto (il libro è del 1977), a cura di B. De Mori, Torino, Giappichelli, 2001, specialmente pp. 40-41. 33 B. Williams, in L’etica e i limiti della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 161-188, sostiene anzi che in luogo dell’equivoca idea che l’etica pretenda all’oggettività bisogna far valere l’idea che essa pretenda a una qualche forma di convergenza, peraltro diversa da quella che si realizza con le scienze. 34 R.M. Hare, Libertà e ragione, Milano, Il Saggiatore, 1971 è il libro che più diffusamente illustra la nozione di «universalizzabilità» e ne mostra la ricaduta nell’argomentazione morale. 35 Si veda, ad esempio, di J. Habermas, Etica del discorso, RomaBari, Laterza, 1985; di K.O. Apel, Etica della comunicazione, Milano, Jaca Book, 1992. Per una ricostruzione del modo in cui Apel e Habermas affrontano questa tematica si veda C. Roversi, Etica del discorso. Oggettività e fondazione, in Bongiovanni (a cura di), Oggettività e morale cit., pp. 237-256. 36 Sull’elaborazione da parte di Rawls di una sua strategia per rendere conto in coerenza con il paradigma costruttivistico kantiano dell’oggettività o autorità della morale si veda, ad esempio, C. Bagnoli, L’autorità della morale, Milano, Feltrinelli, 2007. 37 Una ricostruzione dell’incidenza del «sentimentalismo britannico» del XVIII secolo sulle teorie contemporanee è stata offerta da J.D. Filonowicz, Fellow-Feeling and the Moral Life, Cambridge, Cam-

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bridge University Press, 2008. Nella lista dei sentimentalisti britannici Filonowicz aggiunge a Hume e Smith anche Anthony Ashley Cooper conte di Shaftesbury e Hutcheson. La nostra teoria più attenta ai requisiti del naturalismo e della secolarità mette in secondo piano il contributo degli ultimi due pensatori. 38 Cfr. supra, 2.2.1. 39 Smith, Teoria dei sentimenti morali cit., III.1.2, pp. 252-253. 40 Cfr. supra, 2.4; nel già citato Nichols, Sentimental Rules, il capitolo VIII, pp. 166-198, è dedicato a spiegare da un punto di vista sentimentalistico «L’oggettivismo di senso comune e la persistenza del giudizio morale». 41 C.L. Stevenson, Etica e linguaggio (l’edizione originale è del 1944), Milano, Longanesi, 1962. 42 S. Cavell, The Claim of Reason. Wittgenstein, Skepticism, Morality and Tragedy, New York, Oxford University, 1979, p. 280. 43 Questo tipo di critica nei confronti delle concezioni sentimentalistiche è stato ripetutamente espresso, tra l’altro, da C. Korsgaard, The Sources of Normativity, Cambridge, Cambridge University Press, 1996 e più recentemente, in polemica con de Waal, nell’articolo Moralità e particolarità dell’azione umana, in de Waal, Primati e filosofi cit., pp. 148-169. 44 Sul ruolo dell’appello alle emozioni nella vita politica di sistemi democratici si veda, ad esempio, D. Westen, La mente politica. Il ruolo delle emozioni nel destino di una nazione, Milano, Il Saggiatore, 2008. 45 J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Torino, Utet, 1998, p. 197. Il rifiuto di Bentham di un appello ai sentimenti personali o a presunti sentimenti comuni, come criteri ultimi nella discussione pubblica sulla validità di certe condotte, è stato giustamente fatto valere, ad esempio, da Hare in contrasto con Mary Warnock in una polemica di alcuni anni fa su cosa fosse legittimo fare nel caso della fecondazione in vitro e della sperimentazione sugli embrioni: M. Warnock, Do Human Cells Have Rights?, in «Bioethics», I, 1987, pp. 1-15 e R.M. Hare, An Ambiguity in Warnock, in «Bioethics», I, 1987, pp. 175-178. Ancora nella stessa linea John Harris criticava la «morale sentimentale» della Warnock come un modo per mettere avanti i tabù per impedire qualsiasi innovazione etica: Wonderwoman e Superman, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, pp. 86-91. Anche Peter Singer è stato particolarmente attento a fondare la sua liberazione degli animali non già sulle emozioni che si provano nei confronti dei propri animali domestici, ma su di un principio razionale di eguaglianza: si veda Liberazione animale cit. Singer chiarisce lo sfondo teorico del suo rifiuto di un’etica basata sulle emozioni anche nella polemica con de Waal: Moralità, ragione, di-

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ritti degli animali, in de Waal, Primati e filosofi cit., pp. 170-190. I limiti di queste critiche al ruolo decisivo delle emozioni in morale stanno, da una parte, nell’incapacità di distinguere tra sentimenti morali ed emozioni immediate, dall’altra nell’attribuire un ruolo risolutivo al ragionamento o alla ragione il che, oltre a essere espressione di ottimismo, nega la necessità di un’adesione personale in etica. 46 A. Baier, Postures of the Mind. Essays on Mind and Morals, London, Methuen, 1985, p. 110. 47 B. Williams, Problemi dell’Io, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 302-323. 48 Ivi, p. 310. Si comprende così il fallimento del progetto di Sidgwick di trovare una ragione normativa in grado di dimostrare la superiorità dell’altruismo rispetto all’egoismo. Preso atto di questo fallimento Sidgwick si mostra consapevole che l’unica strada di argomentabilità in morale, in alternativa a quella fondazionale irreparabilmente bloccata, procede attraverso una revisione e correzione di interessi già dati nel tentativo di renderli sempre più coerenti e generalmente comprensivi: I metodi dell’etica cit., pp. 449-453. 49 Diamond, The Realistic Spirit cit., pp. 297-299. 50 Ivi, p. 300. 51 Hume, Trattato sulla natura umana cit., pp. 607-625. 52 Smith, Teoria dei sentimenti morali cit., pp. 290 e sgg. 53 M. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, Milano, Feltrinelli, 1995. Per un esame generale dei diversi modi in cui le concezioni teoriche dell’etica hanno analizzato la questione della rilevanza delle opere letterarie per la morale si veda M. Balistreri, Etica e romanzi: paradigmi del soggetto morale, Firenze, Le Lettere, 2010. 54 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà, Roma-Bari, Laterza, 1989, specialmente pp. 165-228. 55 Diamond, The Realistic Spirit cit., pp. 291-308, ma si veda anche L’immaginazione e la vita morale cit. 56 B. Williams, Making Sense of Humanity and Other Philosophical Papers, 1982-1993, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 207. 57 Smith, Teoria dei sentimenti morali cit., specialmente la parte III. 58 È quanto cerca di fare sistematicamente, ad esempio, W. Sinnott-Armstrong, Moral Skepticisms, Oxford, Oxford University Press, 2006. 59 Hare, Libertà e ragione cit., in cui non solo si spiega chi sia l’amoralista, ma si mette in luce l’impotenza del ragionamento per spingere una persona del genere a entrare nel circolo della moralità. 60 Questo punto è fatto valere con forza da Blackburn, Ruling Passions cit., pp. 279-310; ma si veda anche J. Dreier, Moral Relativism

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and Moral Nihilism, in Copp (a cura di), The Oxford Handbook of Ethical Theory cit., pp. 240-264. 61 Si veda su questo la discussione tra G. Harman e J.J. Thomson, Moral Relativism and Moral Objectivity, Oxford, Basil Blackwell, 1996.

Capitolo IV 1 La lettura che stiamo privilegiando della recente riflessione di etica normativa è ovviamente una proposta interpretativa non universalmente condivisa. Molti sono i libri in cui essa è ripresa: si veda, ad esempio, Jamieson, Ethics and the Environment cit., pp. 76-101. J. Driver, Ethics. The Fundamentals, Oxford, Blackwell, 2006, oltre a riprendere le due concezioni del conseguenzialismo e dell’etica della virtù, fornisce un paniere più ricco di etiche normative distinguendo le etiche deontologiche in etica kantiana e teoria del contratto sociale, e dando inoltre uno spazio del tutto autonomo sia all’utilitarismo classico che all’etica femminista. Un’opzione analoga alla nostra ispira la parte sulla teoria etica normativa dell’antologia a cura di Copp, The Oxford Handbook of Ethical Theory cit., che accanto alle concezioni principali del conseguenzialismo, delle etiche deontologiche e della virtù, aggiunge, per completezza, trattazioni dedicate ai «diritti morali», l’etica della cura, il particolarismo e l’antiteoria. 2 Per le critiche alle etiche deontologiche dei principi o della legge morale si vedano in particolare 2.1; per le critiche all’approccio conseguenzialista centrato sulla rilevanza delle sole azioni si veda 2.2.1 e 2.4. 3 I testi coinvolti nella discussione e il contesto in cui essa si svolge si trovano in Immanuel Kant, Benjamin Constant. La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, a cura di A. Tagliapietra, Milano, Mondadori, 1995. 4 Si veda Kant, Fondazione della metafisica dei costumi cit.: «agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua persona, come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo», p. 91. 5 M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori cit., p. 457. Lo stesso punto è stato fatto valere da numerosi pensatori, ad esempio, da J. Feinberg, Harm to Self, in The Moral Limits of Criminal Law, vol. III, Oxford, Oxford University Press, 1986, che scrive: «Trovo la concezione di Kant non convincente [...] essa colloca la dignità di una persona in una caratteristica astratta non peculiare ad essa, piuttosto che almeno in parte nella sua propria individualità. Inoltre non riesco a comprendere come dal fatto che tutti gli es-

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seri umani e solo gli esseri umani hanno dignità si possa derivare che tale dignità sia interamente fatta dipendere da quei tratti minimi che essi condividono in comune e che li rendono per definizione umani, ovvero perché mai il ‘rispetto’ non debba propriamente essere indirizzato a tali esseri, ma a questi tratti considerati astrattamente», pp. 96-97. 6 Questo tipo di critica all’etica normativa kantiana è mosso anche da Jamieson, Ethics and Environment cit., pp. 97-101, che prende anche le distanze dai tentativi di Christine Korsgaard di far rientrare anche i doveri verso gli animali in un’etica di derivazione kantiana. 7 Si veda, ad esempio, I. Berlin, Quattro saggi sulla libertà, Milano, Feltrinelli, 1989. 8 W.D. Ross, Il giusto e il bene (l’edizione originale è del 1930), a cura di R. Mordacci, Milano, Bompiani, 2004 e Foundations of Ethics, Oxford, Clarendon Press, 1939. Un’esposizione complessiva della teoria di Ross è stata data da F. Allegri, Le ragioni del pluralismo morale. William David Ross e le teorie dei doveri prima facie, Roma, Carocci, 2005. Una ripresa del pluralismo di Ross si può considerare il «principilismo» che è stato fatto valere per l’etica biomedica da T.L. Beauchamp e J.F. Childress, Principi di etica biomedica, Firenze, Le Lettere, 1999. 9 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1982 e Liberalismo politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1994. 10 Sidgwick, Metodi di etica cit. 11 Questi aspetti controversi dell’etica di Rawls sono illustrati, ad esempio, in due contributi al volume The Cambridge Companion to Rawls, a cura di S. Freeman, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, di P. van Parijs, Difference Principles, pp. 200-240 e S. Scheffler, Rawls and Utilitarianism, pp. 426-459. 12 Su questo punto, oltre al libro di Allegri, Le ragioni del pluralismo morale cit., si veda G. Pellegrino, In difesa della teoria etica. Contro il pluralismo, in «Rivista di filosofia», XCVIII, 2007, pp. 359-384. 13 In questo senso significativa è la rivisitazione in termini di conseguenzialismo della regola realizzata da B. Hooker, Ideal Code. Real World, Oxford, Oxford University Press, 2000. Sull’impatto dell’utilitarismo nella riflessione etica contemporanea si veda W.H. Shaw, Contemporary Ethics. Taking Account of Utilitarianism, Oxford, Blackwell, 1999. 14 Cfr. supra, 3.2. 15 Un tentativo recente di avere a che fare con queste varie correnti dell’utilitarismo è T. Mulgan, Understanding Utilitarianism, Stockfield, Acumen, 2007. Uno studio più classico e tuttora valido è quello di G. Scarre, Utilitarianism, London, Routledge, 1996. Per una

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presentazione d’insieme delle varie posizioni riconoscibili nell’utilitarismo contemporaneo si veda il fascicolo della «Rivista di Filosofia» dedicato a L’utilitarismo: un’etica dell’esperienza, IC, 2008, a cura di E. Lecaldano e con scritti di S. Bucchi, B. Hooker, E. Lecaldano, M. Mori, T. Mulgan, G. Pellegrino, G. Pontara, M. Renzo, F. Rosen, J. Skorupski. 16 Una raccolta di saggi che espongono queste diverse critiche al conseguenzialismo si trova nel volume a cura di S. Scheffler, Consequentialism and Its Critics, Oxford, Oxford University Press, 1988. A queste critiche cerca di rispondere Mulgan presentando una forma di conseguenzialismo della regola moderato, The Demands of Consequentialism, Oxford, Oxford University Press, 2001. 17 In questo senso si veda, ad esempio, R. Hursthouse, On Virtue Ethics, Oxford, Oxford University Press, 1999. 18 Una concezione non aristotelica dell’etica della virtù che risente molto dell’impostazione di Nietzsche è stata offerta da C. Swanton, Virtue Ethics. A Pluralistic Approach, Oxford, Oxford University Press, 2003; per una presentazione di una concezione della virtù non aristotelica che elabora le impostazioni di Hume e quelle dell’etica della cura femminista si veda M. Slote, Morals from Motives, Oxford, Oxford University Press, 2001 e The Ethics of Care and Empathy, London, Routledge, 2007; una presentazione d’insieme delle varie concezioni etiche della virtù è stata offerta da S. van Hooft, Understanding Virtue Ethics, Chesham, Acumen, 2006. 19 Per la specificità dell’etica humeana della virtù, oltre ai numerosi saggi e articoli degli studiosi del pensiero dello Scozzese, sul piano storico sono da vedere gli scritti di Slote già citati e, inoltre: Baier, Postures of the Mind cit. e Death and Character. Further Reflections on Hume, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2008. 20 Per un tentativo di assimilare l’etica humeana della virtù a quella aristotelica si veda R. Hursthouse, Virtue Ethics and Human Nature, in «Hume Studies», XXV, 1999, pp. 67-82; per una sintetica presentazione che invece tiene ferma la distinzione si veda A. Vaccari, Virtù e sentimenti morali in Hume, «Iride», XIX, 2006, pp. 331-341. 21 Per una presentazione dell’etica di Aristotele, oltre alla sua Etica Nicomachea, Roma-Bari, Laterza, 2007, si vedano i saggi raccolti da A.O. Rorty, Essays on Aristotle’s Ethics, Berkeley (CA), California University Press, 1980 e i saggi su Aristotele in B. Williams, Il senso del passato. Scritti di storia della filosofia, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 205-248. 22 Hume, Trattato sulla natura umana cit., III.III.4, pp. 643-644. Non risulta quindi accettabile l’accostamento che fa Hursthouse, Virtue Ethics and Human Nature cit., tra il senso morale in Hume e la prudenza in Aristotele.

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23 Il collegamento delle virtù con funzionamenti e capacità nell’etica aristotelica e neo-aristotelica viene approfondito dalla riflessione di Martha Nussbaum, si veda, ad esempio, Virtù non relative. Un approccio aristotelico del 1988, in M. Mangini (a cura di), L’etica della virtù e i suoi critici, Napoli, La Città del Sole, 1996. Sull’etica della Nussbaum si veda tra gli altri S.F. Magni, Etica delle capacità. La filosofia pratica di Sen e Nussbaum, Bologna, Il Mulino, 2006. La natura della concezione humeana della virtù è stata delineata, ad esempio, da A. Baier in una serie di saggi raccolti in Moral Prejudices cit. 24 Per l’elaborazione da parte di Nussbaum di una versione socialdemocratica dell’etica aristotelica si vedano, in particolare, i saggi raccolti in Capacità personale e democrazia sociale, Reggio Emilia, Diabasis, 2003. 25 Questa vicenda di naturalizzazione dell’anima e della persona, e dunque del carattere nel corso del pensiero del XVIII secolo, è stata ricostruita tra gli altri da R. Martin e J. Barresi, Naturalization of the Soul. Self and Personal Identity in the Eighteenth Century, London, Routledge, 2000. 26 Di questi esperimenti rende conto J.M. Doris, Lack of Character. Personality and Moral Behavior, Cambridge, Cambridge University Press, 2002; si veda anche J.M. Doris e S. Stich, As a Matter of Fact. Empirical Perspectives in Ethics, in F. Jackson e M. Smith, The Oxford Handbook of Contemporary Analytic Philosophy, Oxford, Oxford University Press, 2005. Sulla stessa tematica anche K.A. Appiah, Experiments in Ethics, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2008, specialmente pp. 33-72. 27 Questi sono alcuni degli esperimenti più discussi che si riprendono da Doris, Lack of Character cit., pp. 30-61. 28 Appiah, Experiments in Ethics cit., pp. 38-39. 29 Come la nozione di carattere venga riformulata lungo queste due linee nel contesto della filosofia di Hume, dopo la critica alla concezione metafisica e realistica dell’identità personale, si può leggere in L. Greco, L’Io morale. David Hume e l’etica contemporanea, Napoli, Liguori, 2008, specialmente pp. 125-139. Si veda anche E. Lecaldano, The Passions, Character and the Self in Hume, in «Hume Studies», XXVII, 2002, pp. 175-193; Id., Soggetto morale e identità personale dalla prospettiva del sentimentalismo humeano, in Dimensioni della soggettività, a cura di M. Barale, Pisa, Ets, 2008, pp. 69-89. 30 Hume, Trattato sulla natura umana cit., III.III.1, pp. 608-610. 31 Questa unificazione della concezione etica della virtù con il riconoscimento della rilevanza delle conseguenze delle condotte è al centro delle recenti elaborazioni di utilitarismo della virtù come, ad esempio, quella di J. Driver, Uneasy Virtue, Cambridge, Cambridge University Press, 2001.

Note al capitolo IV 32

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Ivi, p. 107. Si veda dunque R. Crisp, Utilitarianism and the Life of Virtue, in «Philosophical Quarterly», 42, 1992, pp. 139-160, in cui si presenta un utilitarismo della virtù nella formulazione di un «utilitarismo biografico» secondo il quale un agente deve vivere virtuosamente consultando il criterio utilitaristico solo in occasioni speciali, come un’alternativa all’utilitarismo soggettivo che ritiene invece che una persona, ogni volta che agisce, deve coscientemente valutare alla luce dell’utilitarismo le varie possibilità di azione e scegliere quella che massimizzerà l’utilità. 34 Sulla conciliabilità tra l’utilitarismo e le ragioni morali di coloro che sono in relazione con noi si veda Crisp, Utilitarianism and the Life of Virtue cit. e Driver, Uneasy Virtue cit., pp. 30-38. 35 Si tratta di un requisito che Driver ha fissato con chiarezza mostrando come l’utilitarismo della virtù renda conto della qualità caratteriale rilevante in modo tale da soddisfare «il requisito della sensibilità morale»: Uneasy Virtue cit., p. 92. Un punto fatto valere anche da Lawrence Blum laddove ha invitato a non perdere di vista «l’importanza della percezione morale per una piena e adeguata ricostruzione dell’agire morale»: Moral Perception and Particularity, in «Ethics», CI, 1991, pp. 701-725, specialmente p. 701. 36 Questo modo di strutturare il carattere è già delineato da Mill, come spiega chiaramente l’articolo di F. Rosen, Il carattere, l’«etologia» e la politica in John Stuart Mill, in «Rivista di filosofia», IC, 2008, pp. 397-419. 37 Per un’elaborazione che concilia sentimentalismo e teoria della virtù con un quadro utilitarista si vedano: Slote, Morals from Motives cit.; R. Crisp e M. Slote, Introduction, in Virtue Ethics, a cura di R. Crisp e M. Slote, Oxford, Oxford University Press, 1997, specialmente pp. 23-25. 38 Cfr. supra, 2.4. 39 Un tentativo di rendere conto di tutti i diversi modelli di virtù con la prospettiva ampia appena indicata viene fatto da O. Flanagan, The Really Hard Problem. Meaning in a Material World, Cambridge (Mass.), The Mit Press, 2009, specialmente pp. 107-148. 40 Per una ricostruzione di questi aspetti dell’etica humeana della virtù si veda Lecaldano, Hume’s Theory of Justice cit. 41 Smith, Teoria dei sentimenti morali cit. Nell’enorme letteratura dedicata alla teoria della virtù di Smith un’opera limpida e illuminante è quella di C.L. Griswold Jr., Adam Smith and the Virtues of Enlightenment, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. 42 Naturalmente lo scritto di Mill più rilevante è qui La libertà. Su questi aspetti della teoria etica di Mill si vedano W. Donner, The Liberal Self. John Stuart Mill’s Moral and Political Philosophy, Ithaca, 33

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Note

Cornell University Press, 1991 e P. Donatelli, Introduzione a John Stuart Mill, Roma-Bari, Laterza, 2007. 43 L’importanza del rifiuto di una concezione ascetica della vita virtuosa, assumendo la prospettiva di Hume, viene spiegata con chiarezza da D.T. Siebert, The Moral Animus of David Hume, London, Newark University Press (Associated University Presses), 1990. 44 Driver, Uneasy Virtue cit., pp. 64-65, 84-85. 45 Sulle diversità tra la virtù richiesta da un’etica secolare volta a privilegiare l’interesse per le sofferenze e le gioie di tutti gli esseri senzienti e l’ideale dell’amore universale sottoscritto dalle concezioni etiche agapistiche si veda Flanagan, The Really Hard Problem cit., specialmente pp. 212-219. 46 Si veda per un’elaborazione in questo senso D.O. Brink, Impartiality and Associative Duties, in «Utilitas», XIII, July 2001, pp. 152172. 47 Nella stessa linea di una riflessione sull’attualità di Mill si muove il volume di J. Skorupski, Why Read Mill Today?, London, Routledge, 2006. 48 Le citazioni che daremo nel testo dall’Utilitarismo saranno seguite dall’indicazione delle pagine della traduzione italiana di E. Mistretta, nel volume La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne cit. Come spiega N. Capaldi, John Stuart Mill, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, questo capitolo fu scritto da Mill come saggio che doveva essere autonomo negli anni Cinquanta. 49 Come spiega H.R. West, Introduction, in The Blackwell Guide to Mill’s Utilitarianism, a cura di H.R. West, Oxford, Blackwell, 2006, p. 4, qui (pp. 292-293) Mill intende con conveniente ciò che rinvia all’utilità generale in contrasto con le esigenze del dovere e della giustizia. 50 L.W. Sumner, Mill’s Theory of Rights, in West (a cura di), The Blackwell Guide to Mill’s Utilitarianism cit., pp. 184-198, spiega a questo proposito convincentemente che tali diritti comprendono sia «i diritti come pretesa» che «i diritti come libertà». 51 Questa posizione molto diffusa nella cultura filosofica italiana, e in genere nella mentalità che non fa propria la tradizione anglosassone della common law, è stata espressa chiaramente da N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990. 52 Con la sua analisi Mill prende decisamente le distanze dalle ricostruzioni di un’acquisizione del senso della giustizia in termini di riconoscimento dell’autorità della legge trasmessa attraverso l’autorità paterna che erano passate dal padre James Mill ad Alexander Bain, il quale le aveva esposte dettagliatamente in The Emotion and the Will, London, John Parker and Son, 1859. 53 L’ampia presenza negli scritti di Hume del tema della formazione di un carattere attraverso un processo storico in cui è rilevante

Note al capitolo V

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il ruolo delle istituzioni è stata documentata, tra gli altri, da Siebert, The Moral Animus of David Hume cit. e da C. Williams, A Cultivated Reason. An Essay on Hume and Humeanism, University Park, The Pennsylvania State University Press, 1999. 54 Questa linea humeana è stata ripresa recentemente da molti psicologi, antropologi, biologi e filosofi che in risposta alla sfida situazionista hanno messo a punto una «psicologia culturale» che prova a raccogliere le evidenze empiriche disponibili per documentare l’incidenza nella condotta umana di tratti culturalmente acquisiti: si veda, ad esempio, J. Prinz, The Normativity Challenge. Cultural Psychology Provides the Real Threat to Virtue Ethics, in «The Journal of Ethics», XIII, 2009, pp 117-144. 55 Sulle analogie tra Mill e Sen si veda il fascicolo di «Utilitas», Symposium on John Stuart Mill and Amartya Sen, marzo 2006, volume XVIII, numero 1, con interventi di L.W. Sumner, M. Qizilbash, R. Sugden, K.J. Arrow, J. Riley, A. Sen. Nel suo intervento, Reason, Freedom and Well-Being, pp. 80-96, lo stesso Sen argomenta a favore della continuità delle sue idee con quelle di Mill. Sen ha poi chiaramente delineato, nel volume L’idea di giustizia, Milano, Mondadori, 2010, come la sua teoria generale della giustizia faccia parte del paradigma riformistico ed empiristico riconoscibile tra l’altro nelle riflessioni di Hume, Smith, Bentham e Mill e che si presenta come del tutto alternativo al paradigma avanzato dal contrattualismo trascendentale che da Kant si spinge fino a Rawls. 56 Proprio questo è quanto fa vedere con chiarezza N. Urbinati, L’ethos della democrazia. Mill e la libertà degli antichi e dei moderni, Roma-Bari, Laterza, 2006, specialmente pp. 205-226.

Capitolo V 1 Testi particolarmente significativi delle elaborazioni applicative di Mill sono, in La libertà, il capitolo V, intitolato appunto Applicazioni, in La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne cit., pp. 196-227 e tutto il volume L’asservimento delle donne, ivi. 2 Sui limiti del ricorso a un modello ingegneristico o costruttivistico di fondazione nelle etiche applicate si veda E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Roma-Bari, Laterza, 2005, capitolo I. 3 Componenti antiteoriche sono presenti in Hume e furono rese esplicite da Smith, Teoria dei sentimenti morali cit., pp. 615-640, nella sezione IV della parte VII dedicata al «modo in cui i diversi autori hanno trattato le regole pratiche della moralità», criticando quei moralisti che ricorrendo alla metodologia della casistica avevano confuso l’etica con il diritto introducendo a livello dei giudizi morali quelle esigenze

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Note

di rigore e di precisione che valgono solo con le regole grammaticali o i sistemi giuridici. Bernard Williams è stato interpretato come un pensatore che ha fatto valere esigenze antiteoriche – in realtà al di là delle sue esplicite dichiarazioni – fin dal suo libro L’etica e i limiti della filosofia cit., ma si veda L. Greco, Humean Reflections in the Ethics of Bernard Williams, in «Utilitas», XIX, 2007, pp. 312-325. Sulla presenza di una componente antiteorica nell’etica humeana e nelle riflessioni femministe sulla morale si veda Baier, Postures of the Mind cit., in particolare il saggio Fare a meno della teoria morale?, tradotto in italiano nel volume Etica analitica. Analisi, teorie e applicazioni, a cura di P. Donatelli ed E. Lecaldano, Milano, Led, 1996, pp. 261-286. 4 Stiamo qui elaborando il contesto di applicazione della morale di Hume, governato appunto dai vincoli della generosità limitata e della scarsità dei beni e dell’instabilità del loro possesso: si veda Trattato sulla natura umana cit., III.2.2, pp. 513-517. 5 Questa impostazione è stata enunciata da J.S. Mill nei Principi di economia politica, Torino, Utet, 1983, immaginando una «condizione stazionaria per quello che riguarda il capitale e la popolazione» piuttosto che una crescita senza fine (III, p. 756) e si ritrovano in A. Sen, Lo sviluppo è la libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2000; Singer, One World cit. 6 D. Parfit, Ragioni e persone, Milano, Il Saggiatore, 1989 e H. Jonas, Il principio di responsabilità, Torino, Einaudi, 1990. Un confronto tra i due significativi volumi mostra come in essi il linguaggio della responsabilità verso le generazioni future emerga come risposta allo stesso tipo di problematiche morali che facevano parte dell’esperienza comune di quegli anni. 7 Una recente difesa dell’impostazione contrattualistica è stata sviluppata da D. Thompson, In rappresentanza delle generazioni future, in «Filosofia e questioni pubbliche», XII, fascicolo I del 2007 interamente dedicato alla discussione di «Questioni pubbliche e generazioni future», pp. 13-29. Thompson cerca di superare la difficoltà del «presentismo» che caratterizza la posizione contrattualistica ricorrendo al concetto di «amministrazione fiduciaria democratica». 8 In questa linea, oltre a Parfit, Ragioni e persone cit., anche T. Mulgan, Future People. A Moderate Consequentialist Account of Our Obligations to Future Generations, Oxford, Clarendon Press, 2006, e G. Pontara, Etica e generazioni future. Un’introduzione ai problemi filosofici, Roma-Bari, Laterza, 1995. Per una discussione comparativa delle teorie di Parfit e Mulgan si veda, ad esempio, nel fascicolo già citato di «Filosofia e questioni pubbliche», del 2007: G. Pellegrino, Generazioni future e libertà riproduttiva, pp. 31-50 e la discussione tra T. Mulgan, F. Orsi e G. Pellegrino su Quale teoria per l’etica delle generazioni future?, pp. 135-185.

Note al capitolo V

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9 Questo tipo di giustificazione viene illustrata, ad esempio, da J.B. Reichmann, Evolution, Animal Rights and the Environment, Washington, The Catholic University of America Press, 2000. 10 Una chiara presentazione di queste varie forme di antropocentrismo è stata fatta da S. Bartolommei, Etica e natura. Una «rivoluzione copernicana» in etica?, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 40-83. 11 I. Kant, Lezioni di etica, Bari, Laterza, 1971, pp. 273-275. 12 È quanto argomenta in modo convincente Bartolommei, Etica e natura cit., pp. 136-139. 13 In questo senso, in luogo dell’appello alla ragione per fondare una considerazione etica degli animali privilegiato da Singer, Liberazione animale cit., faremo nostra la posizione di M. Midgley, Perché gli animali? Una visione più umana dei nostri rapporti con le altre specie, Milano, Feltrinelli, 1985, che si ispira alle idee di Hume. 14 Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione cit., pp. 421-422. 15 P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Milano, Il Saggiatore, 1996, pp. 205-208. 16 Nello stesso senso procede Rachels, Creati dagli animali cit., pp. 204-205, caratterizzando il suo «individualismo morale». 17 Nel riconoscere questa diversità concordano, accompagnandola poi con un impianto etico differente, sia P. Singer, Liberazione degli animali o diritti degli animali?, in Donatelli e Lecaldano (a cura di), Etica analitica cit., pp. 487-502, sia T. Regan, Pro o contro i diritti degli animali, in I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche, a cura di S. Castignone, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 145-174. Singer ritiene infatti che mentre tutti gli animali, siano essi solo coscienti o anche consapevoli, hanno un interesse a non soffrire, solo quelli consapevoli invece hanno un vero e proprio interesse alla continuazione della loro vita che dovrà essere considerato nella condotta moralmente approvabile. Invece, secondo Regan, la dimensione del valore inerente va attribuita a tutti quegli animali che sono riconoscibili come soggetti-di-una-vita in quanto consapevoli, e tale valore non va riconosciuto agli esseri solo coscienti. L’impostazione metodologica della nostra etica sentimentalistica non permette di utilizzare il riconoscimento di un valore inerente in modo indipendente dalla considerazione delle reazioni giustificate dalla sensibilità riflessiva di un agente morale. 18 Si veda Midgley, Perché gli animali? cit. 19 P. Cavalieri e P. Singer, Il Progetto Grande Scimmia. Eguaglianza oltre i confini della specie umana, Roma-Napoli, Theoria, 1994. 20 L’etica sentimentalistica su questo può sottoscrivere condotte di vita più radicali o più moderate. In linea con le impostazioni di

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Note

Midgley stiamo privilegiando un processo di trasformazione che muove da una posizione di semivegetarianismo a una di vegetarianismo pieno, come in parte spiegato da R.M. Hare, Why I Am Only a Demi-Vegetarian, in Essays on Bioethics, Oxford, Clarendon Press, 1993, pp. 219-236. Per quello che riguarda il vegetarianismo, seguiamo le indicazioni di Singer che lo concepisce come uno stile di vita ispirato da un criterio empirico e naturalistico e non già da una concezione sacrale del valore intrinseco di qualsiasi vita. 21 L’illustrazione del criterio delle tre R si trova in L. Battaglia, Etica e diritti degli animali, Roma-Bari, Laterza, 1997. 22 Sulla rilevanza della considerazione del benessere degli animali si veda S.R.L. Clark, Animal and Their Moral Standing, London, Routledge, 1997. 23 È quanto propone, ad esempio, T. Regan, I diritti animali, Milano, Garzanti, 1990. 24 Queste concezioni vengono presentate da S. Iovino, Filosofie dell’ambiente. Natura, etica e società, Roma, Carocci, 2004, pp. 91123. Per una critica a questi modi diretti di dare rilevanza all’ambiente e alle piante si veda R. Elliot (a cura di), Environmental Ethics, Oxford, Oxford University Press, 1995, e specialmente Introduction, ivi, pp. 1-20. 25 P. Singer, La vita come si dovrebbe, Milano, Il Saggiatore, 2001, pp. 111-114. 26 È proprio questo che fa, ad esempio, Jamieson, Ethics and the Environment cit., pp. 1-25, ricostruendo le analisi dei problemi ambientali che privilegiano di volta in volta le cause tecnologiche ed economiche, oppure i mutamenti nelle concezioni religiose e nelle visioni del mondo, o infine le trasformazioni nei valori etici ed estetici. 27 Il libro di J. Garvey, The Ethics of Climate Change. Right and Wrong in a Warming World, New York, Continuum, 2008, è molto attento a mostrare il forte intreccio in questo campo tra prese di posizione etiche e attenta considerazione del grado di probabilità dei dati empirici disponibili. 28 D. Jamieson, When Utilitarians Should Be Virtue Theorists, in «Utilitas», XIX, 2007, pp. 160-183. Sulla valutazione dei meriti delle diverse forme di conseguenzialismo e utilitarismo nell’avere a che fare con la questione del cambiamento climatico si vedano T. Mulgan, L’esperienza, l’utilitarismo e il cambiamento climatico ed E. Lecaldano, L’utilitarismo della virtù e l’esperienza dell’etica, in «Rivista di filosofia», IC, 2008, rispettivamente pp. 511-530 e 553-576. 29 Si tratta delle difficoltà, proprie di una concezione riduttiva di conseguenzialismo incapace di orientare le scelte individuali verso una qualche forma di bene economico comune, più volte elencate da Amartya Sen fin da Scelta, benessere, equità, Bologna, Il Mulino, 1986.

Note al capitolo V 30

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Jamieson, Ethics and the Environment cit., pp. 145-180. Sulle diverse caratterizzazioni della bioetica si veda Lecaldano, Bioetica cit. 32 Mill, La Natura in Saggi sulla religione cit., specialmente p. 51. 33 Sulle varie fallacie del ricorso alla natura come criterio morale si veda S. Pollo, La morale della natura, Roma-Bari, Laterza, 2008. 34 In questa prospettiva vengono affrontate, ad esempio, da S. Pollo, Scegliere chi nasce. L’etica della riproduzione umana fra libertà e responsabilità, Milano, Guerini, 2003. 35 Questa linea di analisi è seguita approfonditamente sul piano teorico da M. Balistreri, Etica e clonazione umana, Milano, Guerini, 2004, e ha trovato nei laboratori una prima conferma empirica nel corso del 2009. 36 Mill, La libertà, in La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne cit., p. 217. 37 Mulgan, Future People cit., pp. 5-7 e sgg. 38 Punto che è stato ben spiegato da Held, Etica femminista cit. 39 Per un’elaborazione di modelli meno paternalistici su ciò che per le donne è virtuoso fare in gravidanza si veda C. Botti, Madri cattive, Milano, Il Saggiatore, 2007. 40 R. Hursthouse, Beginning Lives, Oxford, Blackwell, 1987. Un’analoga impostazione dell’etica riproduttiva, senza la dipendenza presente in Hursthouse dall’etica aristotelica della virtù, si può leggere in C. Botti, Bioetica ed etica delle donne. Relazioni, affetti e potere, Milano, Zadig, 2000. 41 Nell’enorme letteratura che riflette sui cambiamenti del morire da un punto di vista etico si possono utilmente vedere: Singer, Ripensare la vita cit.; J. Rachels, La fine della vita. La moralità dell’eutanasia, Torino, Edizioni Sonda, 1989; C.A. Defanti, Soglie. Medicina e fine della vita, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. 42 Il riconoscimento di un «diritto di morire» è stato già avanzato da Hans Jonas, in Il diritto di morire fin dal 1985 (trad. it. Genova, Il melangolo, 1991). Questo diritto è stato in vari modi riaffermato dalle corti di vari paesi in risposta a casi di sopravvivenza di persone contro il volere da esse manifestato. Si vedano, ad esempio, il dibattito negli Stati Uniti su Terri Schiavo di cui rende conto L. Gaudino, L’esperienza statunitense, in Scelte sulle cure e incapacità. Dall’amministrazione di sostegno alle direttive anticipate, a cura di P. Borsellino, D. Feola e L. Forni, Varese, Insubria University Press, 2007, pp. 90117; e il dibattito in Italia su Eluana Englaro ricostruito ad esempio da M. Mori, Il caso Eluana Englaro. La Porta Pia del vitalismo ippocratico, ovvero perché è moralmente giusto sospendere ogni intervento, Bologna, Pendragon, 2008. 43 Un’ampia discussione sulle direttive anticipate è ancora in cor31

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Note

so in Italia spesso deformata da componenti ideologiche che presentano i problemi tecnici di formulazione come problemi di sostanza etica: si veda P. Borsellino, Bioetica tra «morali» e diritto, Milano, Raffaello Cortina, 2009, pp. 137-174. 44 Sull’eutanasia si veda D. Neri, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, Roma-Bari, Laterza, 1995. 45 D. De Grazia, Human Identity and Bioethics, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. 46 Ivi, p. 247. 47 Ivi, p. 282. 48 Questa linea che invita a considerare le natura umana come un dono – senza necessariamente legare l’uso di questa nozione a un contesto teistico – è stata recentemente sviluppata da M.J. Sandel, Contro la perfezione. L’etica dell’ingegneria genetica, Milano, Vita e Pensiero, 2008, che ha argomentato contro l’impegno continuo per realizzare su basi culturali e biologiche l’enhancement delle capacità umane. Secondo Sandel questo modo di procedere corrompe il contesto tradizionale della vita umana all’interno del quale abbiamo abitualmente elaborato la nostra concezione di virtù. Per il rifiuto della diagnosi preimpianto, vista come una radicale trasformazione della struttura della vita umana non più fatta dipendere dal caso, si veda anche J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Torino, Einaudi, 2002. 49 J. Harris, Enhancing Evolution. The Ethical Case for Making Better People, Princeton, Princeton University Press, 2007.

Indici

Indice dei nomi

Alexander, R., 35, 152. Allegri, F., 160. Annas, J., 100. Anscombe, G.E.M., 149. Apel, K.O., 61, 156. Appiah, K.A., 95, 162. Aristotele, 26, 70, 88-96, 98, 100, 161-162. Arrow, K., 165. Axelrod, R., 152. Ayer, A.J., 58, 65, 156. Bagnoli, C., 156. Baier, A., 42, 68, 153, 158, 161162, 166. Baldwin, T., 154. Bain, A., 164. Balistreri, M., 158, 169. Barale, M., 162. Barresi, J., 162. Bartolommei, S., 167. Battaglia, L., 168. Beauchamp, T.J., 160. Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa, 150. Bentham, J., 67, 87, 110, 127, 157, 165, 167. Berlin, I., 83, 113, 160. Blackburn, S., 42-43, 153, 155, 158. Blair, R.J., 39.

Blum, L., 163. Bobbio, N., 164. Boella, L., 153. Bongiovanni, G., 156. Borsellino, P., 169-170. Botti, C., 169. Brink, D.O., 164 Brunetau, B., 148. Bucchi, S., 161. Buddha, 100. Capaldi, N., 164. Castignone, S., 167. Cavalieri, P., 167. Cavell, S., 65, 157. Childress, J.F., 160. Clark, S.R.L., 168. Colli, G., 148. Collier, P., 148. Constant de Rebecque, B., 82, 159. Copp, D., 6, 147, 159. Crisp, R., 97, 163. Damasio, A., 41, 153. Darwall, S., 154. Darwin, C., 25, 30-33, 35, 40, 56, 112, 150-151, 155. Dawkins, R., 34, 151. Defanti, C.A., 169. De Grazia, D., 142-144, 170.

174 De Mori, B., 156. Descartes, R., 26, 153. Desmond, A., 151. De Waal, F., 35, 36, 152, 157-158. Diamond, C., 42, 69, 71, 153, 158. Dickens, C., 71. Donagan, A., 154. Donatelli, P., 153-154, 164, 166167. Donner, W., 163. Doris, J.M., 162. Dostoevskij, F., 76, 149. Dreier, J., 158. Driver, J., 97, 104, 159, 162-164. Elliot, R., 168. Englaro, E., 169. Feinberg, J., 159. Feola, D., 169. Filonowicz, J.D., 156-157. Flanagan, O., 163-164. Foot, P., 100. Forni, L., 169. Forster, J.M., 71. Freeman, S., 160. Freud, S., 37. Gage, P., 41. Gardiner, S.M., 148. Garvey, J., 168. Gaudino, L., 169. Gibbard, A., 42-43, 153-155. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa, 150. Glover, J., 19, 148. Gower, B., 156. Greco, L., 162, 166. Griswold, C.J. jr, 163. Habermas, J., 61, 156, 170. Haidt, J., 153. Hamilton, W.D., 34, 151. Hardin, R., 154.

Indice dei nomi Hare, R.M., 45, 51, 60, 76, 153, 150, 156-158, 168. Harman, G., 159. Harris, J., 146, 157, 170. Harsanyi, J., 87. Hauser, M.D., 153. Held, V., 43, 44, 153, 169. Hitler, Adolf, 74. Hobbes, T., 21-22, 24, 27, 110. Hooker, B., 160-161. Hughes, C., 149. Hume, D., 5, 7- 8, 20-21, 25-31, 33, 35-36, 38-40, 43, 46, 48, 51-54, 56, 62, 66, 68-69, 73, 77, 86, 88-94, 96-97, 101105, 110-112, 121-122, 149150, 154-155, 157, 161, 163168. Hursthouse, R., 89, 100, 138, 161, 169. Hutcheson, F., 5, 89, 157. Hutchinson, B., 154. Huxley, T.H., 34-35, 151. Iovino, S., 118. Jackson, F., 162. James, W., 58, 156. Jamieson, D., 131, 147-149, 159160, 168-169. Jonas, H., 123, 145, 166, 169. Kant, I., 7-8, 20-21, 23, 26, 44, 46, 48, 51-52, 57, 60-61, 66, 68, 80-84, 94, 98, 103, 126, 149, 154-155, 159-160, 165, 167. Keynes, R., 150-151. Kennedy, P., 148. Kitcher, P., 152. Kohlberg, L., 37, 39, 152. Koorsgaard, C.M., 152, 157, 160. Landucci, S., 149. Lavazza, A., 153.

175

Indice dei nomi La Vergata, A., 151. Levy, N., 153. Livingston, D.W., 154. Locke, J., 26, 53, 94, 155. Macdonald, C.,156. MacIntyre, A., 100. Mackie, J.L., 59, 149, 156. Magni, S.F., 162. Mandeville, B. de, 150. Mangini, M., 162. Martin, R., 162. Mazzoleni, G., 148. Midgley, M., 167-168. Mill, James, 119, 164. Mill, John Stuart, 17, 19, 87-88, 93, 96, 103, 106-110, 112114, 118, 121-122, 134, 137, 144, 149, 163-166, 169. Milne, A.J., 156. Mistretta, E., 164. Montinari, M., 148. Moore, G.E., 46, 48, 57, 58, 74, 78, 149, 154, 156. Moore, J., 151. Mordacci, R., 160. Mori, M., 154, 161, 169. Mulgan, T., 137-138, 160-161, 166, 168-169. Nabokov, V., 71. Nagel, T., 52, 155. Neri, D., 170. Nerone, Lucio Domizio, 74. Nichols, S., 38-40, 43, 54-55, 64, 99, 111, 147, 153, 155, 157. Nietzsche, F., 14, 76, 88, 148, 161. Nussbaum, M. 49, 70-71, 92, 100, 158, 162. Oakley, J., 155. Occam, Guglielmo di, 6. Orsi, F., 166.

Paparo, F., 151. Parfit, D., 123, 166. Pellegrino, G., 160-161, 166. Piaget, J., 37, 39. Platone, 147. Pollo, S., 169. Pontara, G., 161, 166. Portinaro, P.P., 149. Preti, G., 7, 147. Prinz, J.L., 152, 165. Qizilbash, M., 165. Rachels, J., 31, 151, 167, 169. Radcliffe, E., 150. Railton, P., 154. Rawls, J., 52-53, 61, 81, 84, 124, 155-156, 160, 165. Regan, T., 167-168. Reichmann, J.B., 167. Renzo, M., 161. Riley, J., 169. Rizzolati, G., 153. Rorty, A.O., 161. Rorty, R., 71, 158. Rosen, F., 161, 163. Ross, W.D., 81, 84, 160. Roversi, C., 156. Russell, P., 150. Sandel, M.J., 170. Sartori, G., 148. Scarpelli, U., 154. Scarre, G., 160. Scheffler, J., 160-161. Scheler, M., 83, 155, 159. Schiavo, T., 169. Schmidt, C., 155. Schneewind, J.B., 154. Schultz, B., 154. Scribano, E., 149. Sen, A., 113, 121, 152, 165-166, 168. Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper conte di, 157. Shaw, W.H., 160.

176 Sidgwick, H., 46, 84, 87, 154, 158, 160. Siebert, D.T., 164-165. Singer, M.G., 154. Singer, P., 87, 121, 128, 130, 148, 152, 157, 166-169. Sini, C., 156. Sinigaglia, C., 153. Sinnott- Armstrong, W., 158. Skorupski, J., 161, 164. Slote, M., 161, 163. Smith, Adam, 62-63, 66, 69, 73, 101-104, 110, 121, 147, 155, 157-158, 163, 165. Smith, M., 45, 153, 156. Sober, E., 152. Socrate, 8, 147. Stalin, Iosif Vissarionovicˇ Džugašvili detto, 74. Stein, E., 42, 153, 155. Stevenson, C.L., 65, 157. Stich, S., 162. Strawson, P., 42, 153. Sugden, R., 165. Sumner, L.W., 164-165. Swanton, C., 161.

Indice dei nomi Tagliapietra, A., 159. Thompson, D., 166. Thomson, J.J., 159. Tommaso d’Aquino, 93, 95. Trivers, R., 34, 152. Urbinati, N., 165. Vaccari, A., 161. Van Hooft, S., 161. Van Parijs, P., 160. Vlastos, G., 147. Von Hayek, F.A., 24, 150. Wallace, R.J., 153. Warnock, M., 157. West, H.R., 164. Westen, D., 157. Whewell, W., 31, 151. Williams, B., 43, 68, 72, 100, 147, 153, 156, 158, 161, 166. Williams, C., 165. Wilson, D., 152. Wood, A.W., 154. Wright, C., 156. Wright, R., 71.

Indice del volume

I.

Cosa aspettarci dalla filosofia morale

3

1.1. Il campo della filosofia morale e la specificità delle problematiche morali attuali, p. 3 1.2. Spiegazioni e non fondazioni, p. 8 - 1.3. Esiste ancora una morale da spiegare?, p. 10

II.

Spiegazioni genealogiche della moralità a confronto

17

2.1. Oltre le spiegazioni in termini di comandi divini, leggi naturali e fondazione razionale, p. 17 2.2. Le radici delle spiegazioni naturalistiche e sentimentalistiche, p. 24 - 2.2.1. David Hume: la morale e la natura umana, p. 25 - 2.2.2. Charles Darwin e la spiegazione evoluzionista della morale, p. 30 - 2.3. L’evoluzionismo agli inizi del XXI secolo, p. 33 - 2.4. La formazione del giudizio morale e la psicologia empirica, p. 37 - 2.5. Le radici emozionali del sentimento morale, p. 40

III. La natura della morale: un confronto tra razionalismo e sentimentalismo 3.1. La meta-etica e le ovvietà del senso comune, p. 45 - 3.2. La forza pratica e motivazionale della morale e la sua autonomia, p. 50 - 3.3. Intersoggettività e oggettività, p. 57 - 3.4. Il ricorso alle giustificazioni e argomentazioni, p. 64 - 3.5. Scetticismo e relativismo morale dal punto di vista sentimentalistico, p. 73

45

178

Indice del volume

IV. Un’etica della virtù su base sentimentalistica

79

4.1. L’etica della virtù in alternativa alle etiche dei principi e delle conseguenze, p. 79 - 4.2. Diversità tra l’etica della virtù aristotelica e quella sentimentalistica, p. 88 - 4.3. Il carattere virtuoso, la persona e la soggettività morale, p. 93 4.4. Le azioni rivolte verso se stessi e verso gli altri e le condotte virtuose, p. 99 - 4.5. Una spiegazione sentimentalistica della virtù della giustizia, p. 106

V.

Le applicazioni pratiche dell’etica sentimentalistica della virtù

114

5.1. L’etica applicata e i limiti della teoria morale, p. 114 - 5.2. Il ruolo di leggi, istituzioni politiche e riflessioni critiche nella formazione dei caratteri virtuosi, p. 116 - 5.3. La rilevanza morale di generazioni future, animali, ambiente, p. 122 5.4 La virtù etica e le responsabilità nel campo delle questioni bioetiche, p. 133

Note

147

Indice dei nomi

173