Prima lettera ai Corinzi. Introduzione, traduzione e commento 882157962X, 9788821579622

Testo greco a fronte. La Prima lettera ai Corinzi, così chiamata perché destinata "alla Chiesa di Dio che è a Corin

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Prima lettera ai Corinzi. Introduzione, traduzione e commento
 882157962X, 9788821579622

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FRANCO MANZI

sacerdote della Diocesi di

Milano, ha conseguito il dottorato in Scienze Bi­ bliche e

in Teologia È élève titulaire de I École Bi­ '

blique de jérusalem. Insegna nel Seminario di Mi­ lano ( i n cui è direttore degli studi), nella Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, nell'Istituto Su­ periore di Scienze Religiose di Milano (in cui

è

docente stabile straordinario) e nella Facoltà Teo­ logica di Lugano.

Cattolica

e

È direttore della rivista La Scuola

collabora con altre r i viste .

È

membro

di alcune associazioni bibliche e teologiche. Tra i

numerosi libri, ha pubblicato presso l'editrice San Paolo: Paolo, apostolo del Risorto. Sfidando le crisi a Corinto (20082) e S e l'amore è Amore. Le suoi

sette perle del fidanzamento e del matrimonio

(2011).

Copertina: Progetto grafico di Angelo Zenzalari

Presentazione \\0\'.\ YEiblO\E DELLA BIBBL\ D.\1 TFSTI A\TIC!ll

I

a Nuova versione della Bibbia dai testi antichi si pone sulla scia di una Serie inaugurata dall'editore a margine ____j dei lavori conciliari (la Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali), il cui primo volume fu pubblicato nel 1967. La nuova Serie ne riprende, almeno in parte, gli obiettivi, arricchendoli alla luce della ricerca e della sensibilità contemporanee. I volumi vogliono offrire anzitutto la possibilità di leggere le Scritture in una versione italiana che assicuri la fedeltà alla lingua originale, senza tuttavia rinunciare a una buona qualità letteraria. La compresenza di questi due aspetti dovrebbe da un lato rendere conto dell'andamento del testo e, dall'altro, soddisfare le esigenze del lettore contemporaneo. L'aspetto più innovativo, che balza subito agli occhi, è la scelta di pubblicare non solo la versione italiana, ma anche il testo ebraico, aramaico o greco a fronte. Tale scelta cerca di venire incontro all'interesse, sempre più diffuso e ampio, per una conoscenza approfondita delle Scritture che comporta, necessariamente, anche la possibilità di accostarsi più direttamente ad esse. Il commento al testo si svolge su due livelli. Un primo livello, dedicato alle note fìlologico-testuali-lessicografiche, offre informazioni e spiegazioni che riguardano le varianti presenti nei diversi manoscritti antichi, l'uso e il significato dei termini, i casi in cui sono possibili diverse traduzioni, le ragioni che spingono a preferime una e altre questioni analoghe. Un secondo livello, dedicato al commento esegetico-teologico, presenta le unità letterarie nella loro articolazione, evidenziandone gli aspetti teologici e metten~o in rilievo, là dove pare opportuno, il nesso tra Antico e Nuovo Testamento, rispettandone lo statuto dialogico. Particolare cura è dedicata all'introduzione dei singoli libri, dove vengono illustrati l'importanza e la posizione dell'opera nel canone, la struttura e gli aspetti letterari, le linee teologiche

PRESENTAZIONE

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fondamentali, le questioni inerenti alla composizione e, infine, la storia della sua trasmissione. Un approfondimento, posto in appendice, affronta la presenza del libro biblico nel ciclo dell'anno liturgico e nella vita del popolo di Dio; ciò permette di comprendere il testo non solo nella sua collocazione "originaria", ma anche nella dinamica interpretativa costituita dalla prassi ecclesiale, di cui la celebrazione liturgica costituisce l'ambito privilegiato.

I direttori della Serie Massimo Grilli Giacomo Perego Filippo Serafini

Annotazioni di carattere tecnico \LO\'\ VEHSIO\E IJF.LL.\ BIBBL\ D\I'I'ESl'J A\TICHI

Il testo in lingua antica Il testo greco stampato in questo volume è quello della ve ntisettesima edizione del Novum Testamentum Graece curata da B. Aland- K. Aland- J. Karavidopoulos- C.M. Martini (1993) sulla base del lavoro di E. Nestle (la cui prima edizione è del 1898). Le parentesi quadre indicano l'incertezza sulla presenza o meno della/e parola/e nel testo.

La traduzione italiana Quando l'autore ha ritenuto di doversi discostare in modo significativo dal testo stampato a fronte, sono stati adottati i seguenti accorgimenti: - i segni • ' indicano che si adotta una lezione differente da quella riportata in greco, ma presente in altri manoscritti o versioni, o comunque ritenuta probabile; - le parentesi tonde indicano l'aggiunta di vocaboli che appaiono necessari in italiano per esplicitare il senso della frase greca. Per i nomi propri si è cercato di avere una resa che non si allontanasse troppo dall'originale ebraico o greco, tenendo però conto dei casi in cui un certo uso italiano può considerarsi diffuso e abbastanza affermato.

I testi paralleli Se presenti, vengono indicati nelle note i paralleli al passo commentato con il simbolo l l; i passi che invece hanno vicinanza di contenuto o di tema, ma non sono classificabili come veri e propri paralleli, sono indicati come testi affini, con il simbolo •!•.

La traslitterazione La traslitterazione dei termini ebraici e greci è stata fatta con criteri adottati in ambito accademico e quindi non con riferìmento alla pronuncia del vocabolo, ma all'equivalenza formale fra caratteri ebraici o greci e caratteri latini.

ANNOTAZIONI

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L'approfondimento liturgico Redatto sempre dal medesimo autore (Gaetano Comiati), rimanda ai testi biblici come proposti nei Lezionari italiani, quindi nella versione CEI del 2008.

PRIMA LETTERA AI CORINZI Introduzione, traduzione e commento

a cura di Franco Manzi

~

SAN PAOLO

Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece, 28'h Revised Edition, edited by Barbara Aland, KurtAland, Johannes Karavidopoulos, Carlo M. Martini, and Bruce M. Metzger in cooperation with the lnstitute for New Testament Textual Research, Miinster/Westphalia, © 2012 Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart. Used by permission.

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2013 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2- 10153 Torino ISBN 978-88-215-7962-2

INTRODUZIONE

TITOLO E POSIZIONE NEL CANONE

La Prima lettera ai Corinzi, così chiamata perché destinata «alla Chiesa di Dio che è a Corinto» (l Cor l, l), è uno dei sette scritti epistolari di sicura paternità paolina insieme alla Prima lettera ai Tessalonicesi, alla Seconda lettera ai Corinzi e alle lettere ai Filippesi, aFilemone, ai Galati e ai Romani. Ciò nonostante, non sviluppa alcuni temi tipici di altre lettere paoline, come, per esempio, quello della giustificazione in virtù della fede cristiana e non delle opere della Legge mosaica, che caratterizza le lettere ai Galati e ai Romani. Questo perché i problemi sorti all'interno della Chiesa corinzia erano diversi da quelli che Paolo dovette affrontare scrivendo ad altre comunità cristiane. È noto che l'ordine di collocazione dei singoli scritti biblici all'intemo del canone, cioè della Bibbia ricevuta come norma di fede dalla Chiesa, non rispecchia la cronologia della loro stesura. Anche nel caso della Prima lettera ai Corinzi, la posizione canonica nel cosiddetto «corpo paolino», collocato nel Nuovo Testamento dopo i quattro vangeli e gli Atti degli Apostoli, non è dovuta alla sua datazione. Difatti, la Prima lettera ai Corinzi ora si trova al settimo posto, dopo quella ai Romani; ma non c'è dubbio che, dal punto di vista cronologico, le sia anteriore. D'altra parte, la collocazione canonica delle due lettere ai Corinzi corrisponde al1oro ordine di composizione. Di conseguenza, la lettura delle due missive nella sequenza in cui si trovano nel canone biblico è illuminante per comprendere come si sia rapidamente evoluta la situazione della Chiesa di Corinto. Grazie alla Prima lettera ai Corinzi Paolo era riuscito a mettere alcuni punti fermi su questioni

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dottrinali e morali molto rilevanti nella vita di quella comunità cristiana, tanto vivace quanto problematica. Perciò, non vi si sofferma più di tanto nella Seconda lettera ai Corinzi. Nel frattempo, però, erano sorti o si erano acutizzati altri problemi, concernenti soprattutto l'identità apostolica di Paolo e il suo modo di vivere il ministero e di rapportarsi, in particolare, con la comunità cristiana. Le sue relazioni con i neoconvertiti di Corinto erano peggiorate probabilmente perché alcuni missionari giudaizzanti, sopraggiunti dopo di lui, continuavano a metteme in discussione l'autorità e la metodologia pastorale. Queste nuove difficoltà spinsero Paolo a intervenire ancora per iscritto. Considerando ciò, il lettore potrà rendersi conto, leggendo le due lettere nella loro sequenza canonica, non solo di come sia parzialmente mutata la Chiesa corinzia, ma soprattutto di come sia maturata la coscienza apostolica di Paolo. Particolarmente evidente, per esempio, è la diversa prospettiva con cui l'apostolo tratta nelle due missive lo stesso tema dello statuto dei missionari e del loro modo di annunciare il Vangelo. Già nella prima lettera egli approfondisce la questione dell'identità e dei compiti dei ministri della Chiesa (cfr. 3,4-4,13). Ma ne parla in termini piuttosto generali, pur giungendo a proporsi ai suoi fratelli di Corinto come modello da imitare (cfr. 4,14-16; 11,1). Nella seconda lettera, invece, l'ottica con cui Paolo focalizza il ministero apostolico diventa molto più personale, soprattutto nei capitoli finali (10,1-13,10), nei quali Paolo si difende dalle varie critiche dei suoi avversari, a partire da quella di annunciare il Vangelo per un interesse economico ( 11,7-11; 12,13-16) già respinta nella prima lettera (cfr. 9,4-18). È sufficiente questo esempio per intuire come lo studio delle due lettere ai Corinzi nella loro sequenza canonica ne favorisca un'illuminazione reciproca.

ASPETTILETTERAJU Genere letterario e accorgimenti stilistici L'introduzione della Prima lettera ai Corinzi (1,1-3) corrisponde ai cosiddetti «prescritti» delle lettere dell'epoca, incluse quelle

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del Nuovo Testamento. In effetti, anche il prescritto di quest'opera paolina consta di un indirizzo (1,1-2) e di un saluto iniziale (1,3). Nell'indirizzo sono menzionati i due mittenti, cioè Paolo e Sostene, con i loro titoli rispettivi, e poi il destinatario, costituito dai fedeli della Chiesa corinzia, ai quali si aggiungono idealmente «tutti» gli altri cristiani, «ovunque» essi vivano. Gli elementi costitutivi di questo prescritto si rintracciano, per esempio, nella della lettera del tribuno Lisia al governatore Felice, reperibile negli Atti degli Apostoli (23,26): «Claudio Lisia saluta l'illustrissimo governatore Felice». Ma a conferma del fatto che quest'opera sia una vera e propria lettera possono essere portati vari altri indizi, primo fra tutti il ricorso frequente al verbo grapho («scrivere», 4,6.14; 5,9.11; 9,15; 14,37) riferito appunto alla stesura della missiva. A partire da essi si può escludere che lo scritto rientri tra le opere del Nuovo Testamento come la Lettera di Giacomo o la Prima lettera di Pietro - che, pur iniziando con un prescritto epistolare simile (cfr. Gc l, l e l Pt l, 1-2), in realtà non sono di genere letterario epistolare. Al contrario, dalla Prima lettera ai Corinzi risulta che Paolo invia loro una missiva perché, in quel momento, si trova a Efeso (16,8; cfr. At 19,1-20,1). Perciò, inizia a dare per via epistolare numerose direttive ai suoi fratelli di Corinto. In ogni caso, egli desidera visitarli nuovamente a breve ( 16,2.5), per trascorrere tra loro l'inverno ( 16,6-7). D' altronde, ha notizie di prima mano su molteplici situazioni problematiche, venutesi a creare qualche tempo dopo l'evangelizzazione della città (cfr. At 18, 1-18), da lui portata a termine «nella debolezza e con molto timore e tremore» (lCor 2,3). Dai dipendenti di Cloe (1,11) è venuto a sapere delle divisioni che nel frattempo erano sorte nella Chiesa di Corinto (1,12). Da Stefana, Fortunato eAcaico, che pure erano venuti a visitarlo a Efeso (16,17), ha ricevuto un resoconto accurato di certi atteggiamenti e comportamenti poco caritatevoli dei Corinzi, che rischiavano di accentuarne conflitti e divisioni. Ha saputo, infine, di t~ndenze dottrinali eterodosse di alcuni di loro, che stavano facendo sbandare la comunità. Per questo, Paolo invia a Corinto il suo fedele collaboratore Timoteo (4,17; 16, l 0-11 ), mentre non riesce a convincere Apollo a fare lo stesso ( 16, 12). Comunque, la sua missiva precederà l'arrivo di Timoteo, offrendo suggerimenti

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e comandi per affrontare in modo evangelico le questioni più urgenti, come, per esempio, la scomunica di un cristiano che continuava a vivere una relazione incestuosa (5,1-5). In secondo luogo, nell'indirizzo della Prima lettera ai Corinzi compaiono due mittenti: Paolo- che di certo ha dettato la missivae Sostene, suo collaboratore (l, l). Di conseguenza, questo scritto non è né una lettera individuale - come la lettera di Lisia sopra citata (At 23,25-30)- né una lettera collettiva, inviata cioè da un gruppo di persone (cfr. 2Mac 1,1-9; At 15,23-29). Potremmo piuttosto definire la Prima lettera ai Corinzi come collegiale: un genere letterario amato da Paolo (cfr. 2Cor 1,1; Fill,l; Fm l; Gall,l-2) fin dalla sua prima missiva, la Prima lettera ai Tessalonicesi, da lui dettata anche a nome dei suoi collaboratori Silvano e Timoteo (l, l). Infine, a confermare il genere letterario epistolare del nostro scritto è la sua conclusione (16,1-24). A differenza, per esempio, della cosiddetta Prima lettera di Giovanni, che, al posto dei saluti, termina con una lapidaria esortazione antidolatrica (5,21), questa lettera di Paolo ha una conclusione epistolare: le esortazioni e i cenni ai successivi progetti missionari ( 16, 1-18) sono seguite dai saluti (16,19-21) e da alcune brevi formule conclusive (16,22-24). Le persone qui nominate e il tenore liturgico di queste formule spingono a pensare che la lettera fosse destinata a essere proclamata dinnanzi alla comunità cristiana di Corinto tendenzialmente al completo (16,24), radunatasi forse (cfr. lTs 5,27; Col4,16) per la celebrazione eucaristica domenicale (cfr. l Cor 11, 17-34; 16,2; e anche At 20,7; Ap 1,12). Certo è che il confronto con i passi conclusivi di altre opere di genere letterario epistolare sia del corpo paolino (cfr. Rm 16,3-16.21-23; Fil4,21-23 ecc.) che del resto del Nuovo Testamento (cfr. 2Gv 12-13; 3Gv 13-15 ecc.) dimostra ulteriormente che siamo di fronte a una lettera. Inoltre, come si conviene a una vera e propria lettera, Paolo continua a interpellare i suoi destinatari, talvolta rivolgendosi a loro con una serie di interrogativi rapidi e coinvolgenti (cfr. 6,2-4; 9,1.4-5). Il suo linguaggio spazia dal contesto religioso di matrice biblico-giudaico (cfr., per esempio, l'interpretazione cristologica della Pasqua in 5,6-8) all'ambito culturale greco-ellenistico

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(cfr. l'immagine di matrice stoica del corpo e delle membra, sviluppata in senso ecclesiologico soprattutto nel c. 12). Per quanto riguarda la dipendenza dalla Bibbia, la trentina di citazioni dell'Antico Testamento (secondo la versione greca dei Settanta), spesso introdotte dalla formula kath6s gégraptai («come è scritto», l, 19.31; 2,9; 3,19; 9,9; l O, 7; 14,21; 15,45), collocano questa lettera al secondo posto dell'epistolario di sicura paternità paolina, dopo la Lettera ai Romani. D'altro canto, gli studiosi hanno dimostrato dettagliatamente l 'uso frequente che l'apostolo fa in questo scritto dello schema della diatriba, proveniente dai filoni di pensiero cinico e stoico (cfr. 6,12; 10,23; 15,35). Benché nel contesto polemico della Seconda lettera ai Corinzi Paolo abbia riconosciuto di essere «un profano nell'arte di parlare» (idi6tes toi 16g6i, 11,6), dalla Prima lettera ai Corinzi mostra di essere capace di ricorrere con spontanea elasticità ai procedimenti della retorica greco-ellenistica, oltre che alle regole ermeneutiche rabbiniche, come la cosiddetta ghezerà shawà (o «principio di equivalenza»; cfr. 15,25.27.54-55). Tutto sommato, questa lettera, espressione nitida della paternità apostolica di Paolo (cfr. 4, 14-15), ne conferma la geniale abilità anche letteraria. Articolazione della lettera Tenuto conto dei rilievi stilistici precedenti, tentiamo, senza pretese di esaustività, d'individuare la struttura letteraria fondamentale della Prima lettera ai Corinzi, a partire dai dati testuali più evidenti, che metteremo in luce più dettagliatamente lungo il commento successivo. L'introduzione (1,1-9) e la conclusione epistolari (16,1-24) sono facilmente identificabili. Come di consueto nelle lettere paoline, l'introduzione comprende l'indirizzo e il saluto (1,1-3), seguito da una preghiera di ringraziamento (1,4-9). In 1,10 Paolo passa dal rendimento di grazie rivolto a Dio a una solenne esortazione indirizzata ai Corinzi. Il cambio di genere letterario è segnato dal vocativo «fratelli». La conclusione della lettera inizia in 16, l, con la formula introduttoria: «A proposito poi di [ ... ]» (perì dé, cui fa seguito il genitivo)

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che presenta il nuovo tema della colletta per i cristiani di Gerusalemme, mai accennato prima. Del resto, il capitolo 15, completamente dedicato alla questione della risurrezione di Cristo e dei cristiani, termina con una solenne conclusione esortativa («Sicché [ ... ] siate saldi e irremovibili»), enfatizzata dal vocativo «fratelli miei amati» (15,58). In 16,1 prende così avvio una serie di direttive, progetti ed esortazioni, seguiti dai saluti e da alcune formule liturgiche (16, 1-24). Quindi, la struttura dell'opera è fondamentalmente tripartita: introduzione epistolare (1,1-9); corpo della lettera (1,10-15,58); conclusione epistolare (16,1-24) L'articolazione del corpo della lettera è fonte di numerose discussioni esegetiche, dovute al fatto che Paolo passa in rassegna una serie di problemi pastorali di per sé molto variegati. Il passaggio da un tema all'altro è scandito soprattutto da una formula: perì dé («a proposito di») seguita dal genitivo. Essa ricorre in quattro punti in cui l'apostolo inizia una nuova parte della lettera (7,1; 8,1; 12,1 e 16,1), oltre che in altri due passi (7,25 e 16,12) che aggiungono precisazioni interne al tema trattato. Grazie a questo evidente elemento testuale, siamo in grado d'individuare già alcune questioni che Paolo analizza nella lettera. È molto probabile che stia rispondendo a interrogativi, più o meno espliciti, che i neoconvertiti di Corinto gli hanno fatto pervenire, forse attraverso Stefan, Fortunato e Acaico, recatisi a Efeso a fargli visita (16, 17). Si tratta di quesiti sul matrimonio e la verginità (7, 1-40), sulle carni immolate agli idoli (8,1-10,33) e sull'esercizio ecclesiale dei doni dello Spirito (12,1-14,40). Altri due temi sono introdotti con formule tra loro abbastanza simili: «A vostro riguardo (perì hymon), fratelli, mi è stato segnalato da quelli di Cloe che tra voi vi sono discordie» (l, 11) e «Dappertutto si sente (parlare) di fornicazione tra voi (hymin)» (5,1). Non sappiamo se la fonte della preoccupante notizia dell'immoralità sessuale dei cristiani di Corinto sia costituita ancora dai dipendenti di Cloe. Comunque sia, a questi due gravi problemi della comunità cristiana di Corinto l'apostolo riserva le prime due parti della missiva: la prima (1,10-4,21), incentrata sulla predicazione di Cristo crocifisso e sui contrasti intraecclesiali, e la seconda ( 5, 1-6,20), dedicata ai disordini

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della Chiesa corinzia dovuti alle cause di fedeli portate in tribunali pagani e all'immoralità sessuale di alcuni cristiani. Restano altre due parti ben determinate della lettera, una delle quali presenta una serie di direttive sull'andamento delle assemblee comunitarie e delle celebrazioni eucaristiche ( 11 ,2-34), mentre l'altra è una trattazione teologica del tema della risurrezione dei cristiani (15,1-58). Questo capitolo 15, caratterizzato dal campo semantico della risurrezione dai morti, è chiaramente delimitato da una formula introduttoria («Vi rendo poi noto[ ... ]») con il vocativo «fratelli» (15,1) e da un finale esortativo, in cui è ripreso inclusivamente il vocativo «fratelli miei amati»'(l5,58). Del resto, questo invito finale («Sicché, fratelli miei amati, siate saldi [ ... ]», 15,58) è molto simile a quello della parte precedente, dedicato ai doni della grazia di Dio («Sicché, fratelli [miei], cercate con zelo di profetizzare[ ... ]», 14,39). Tenuto conto di questi indizi letterari e di altre annotazioni sulle suddivisioni letterarie minori, che illustreremo in seguito, possiamo iniziare a mostrare l'articolazione letteraria fondamentale della missiva con il seguente schema settenario: Introduzione epistolare (l, 1-9) l. Predicazione del Crocifisso e contrasti ecclesiali nella Chiesa (1,10-4,21) 2. Disordini giudiziari e immoralità sessuale nella comunità (5,1-6,20) 3. Matrimonio e celibato (7,1-40) 4. Carne sacrificata agli idoli (8, 1-11, l) 5. Assemblee liturgiche ( 11 ,2-34) 6. Doni della grazia e carità (12,1-14,40) 7. Risurrezione dei cristiani (15,1-58) Conclusione epistolare (16,1-24)

LINEE TEOLOGICHE FONDAMENTALI

L'indiscussa attribuzione della Prima lettera ai Corinzi a Paolo prende le mosse specialmente dalla constatazione delle notevoli

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somiglianze tra i temi che vi sono trattati e quelli presenti in altre lettere di certa paternità paolina. Limitandoci alle convergenze tematiche più evidenti con la Lettera ai Romani, il capolavoro dell'apostolo, possiamo ricordare: l'attenzione ai cristiani spiritualmente più deboli a riguardo della problematica consumazione della carne sacrificata agli idoli (cfr. l Cor 8,1-11,1 con Rm 14,1-15,13); il primato della carità nell'esistenza cristiana (cfr. 1Cor 13; 16,14; con Rm 12,9-21; 13,8-10); la visione della Chiesa come corpo di Cristo, vivificato da molteplici doni dello Spirito (cfr. 1Cor 12 e 14 con Rm 12,3-8); la speranza nella risurrezione universale dei cristiani (cfr. l Cor 15 con Rm 8); il rapporto tipo logico istituito tra Cristo e Adamo (cfr. 1Cor 15,21-22.44b-49 con Rm 5,12-21). Certo è che nella Prima lettera ai Corinzi - a differenza che nella Lettera ai Romani - Paolo non elabora un sistema teologico completo e organico, ma affronta molteplici problemi pastorali e dottrinali sorti all'interno della giovane Chiesa di Corinto. Per questo suo carattere occasionale, lo scritto risulta piuttosto refrattario all'individuazione di una serie ordinata di temi sostanzialmente corrispondenti ai trattati teologici tradizionali, come la cristologia, l'ecclesiologia, la sacramentaria ecc. Ciò nonostante, le varie questioni trattate dall'apostolo possono essere ricondotte tutte all'interno di un orizzonte coerente, vale a dire la comunione di vita dei cristiani con Cristo «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1,24). Dunque, la prospettiva della «sapienza» di Dio rivelata da Cristo crocifisso e predicata da Paolo illumina i vari ambiti della vita ecclesiale dei cristiani di Corinto. La lettera ne passa in rassegna alcuni, soffennandosi sui loro aspetti critici. L'apostolo intende così favorire una stabile comunione dei Corinzi con Cristo risorto, il cui compimento eterno si realizzerà nell'esistenza risorta, proclamata n eli 'ultima parte della lettera (c. 15). Se, tenuto conto di ciò, evitiamo il rischio di proiettare sulla Prima lettera ai Corinzi una sistematizzazione teologica a essa estranea, non possiamo in questa introduzione approfondirne dettagliatamente i temi. Conviene allora sintetizzarli, mostrando come la loro costellazione rientri nell'orizzonte della potente sapienza di Dio rivelata da Cristo crocifisso e presentata da Paolo nei primi

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quattro capitoli della lettera. Possiamo così comprendere come le varie soluzioni ai problemi della Chiesa corinzia prospettate nel seguito della lettera siano riconducibili al tentativo di Paolo di favorire la comunione di vita dei cristiani con il Crocifisso risorto. La predicazione di «Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» Cristo,· sapienza di Dio Una prima serie di problemi pastorali affrontati da Paolo (l, l 04,21) era dovuta al deleterio culto della personalità sviluppatosi all'interno della comunità cristiana nei confronti di alcuni missionari, tra cui lo stesso Paolo. Inizialmente l'apostolo rammenta quattro «parole d'ordine» verosimilmente utilizzate dalle fazioni ecclesiastiche di Corinto: «lo sono di Paolo!», «lo invece di Apollo!», «E io di Kefa!», «E io di Cristo!» (1,12). Poi l'apostolo pare disinteressarsi di coloro che si appellavano a Kefa e a Cristo (sempre che ad appellarsi a Cristo non fosse lo stesso Paolo). Egli si concentra piuttosto sul gruppuscolo che dichiarava di fare riferimento ad Apollo, contrapponendosi a lui e alla sua fazione (cfr. 3,4-6.22; 4,6). Come fa di frequente, l'apostolo cerca di risolvere questa grave situazione con un discorso di ampio respiro, che richiama le verità di fede poste a fondamento dell'esistenza cristiana e della vita ecclesiale. Paolo, quindi, non si limita a rimproverare i fedeli litigiosi di Corinto, ma cerca di aiutarli a maturare. A questo scopo, mette allo scoperto gli equivoci cristologici che sono alla base di certi loro comportamenti peccaminosi in ambito ecclesiale. Anzitutto, chi intendeva la Chiesa come un insieme di gruppi tra loro autonomi, se non addirittura in reciproca competizione, mostrava di non averne compreso l'essenza di corpo di Cristo (cfr. 12,12-31). L'organismo di Cristo non può essere diviso in varie membra tra loro sparpagliate (cfr. l, 13)! In positivo, la comunione ecclesiale si fonda sul battesimo, in cui i credenti fanno un tutt'uno con Cristo crocifisso e risorto, e non con il ministro del battesimo (cfr. 1,13-15). Più radicalmente ancora: l'unico mediatore della salvezza è Cristo (cfr. 1,30; 8,6; 15,2). Dunque, in certi attaccamenti a un missionario piuttosto che a un altro, a essere frainteso in ra-

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dice è il ruolo centrale e insostituibile di Cristo nel sapiente piano salvifico di Dio. Per illustrare questa centralità di Cristo nella storia della salvezza e nella Chiesa, Paolo lo presenta, fin dall'inizio della lettera, come «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1,24). Anzi, per l'apostolo il nucleo incandescente della predicazione cristiana sta precisamente in questa verità di fede. Affascinati com'erano dalle capacità oratorie dei missionari, i Corinzi vengono così distolti da questo loro deleterio culto della personalità e invitati a contemplare unicamente Cristo, «il quale è diventato per noi, per intervento di Dio, sapienza, giustificazione, santificazione e redenzione» (l ,30). Per giungere a questa mirabile sintesi di cristologia, Paolo ha preso le mosse probabilmente dalla riflessione anticotestamentaria e giudaica sulla figura personificata della sapienza di Dio. Più esattamente: numerose pagine dell'Antico Testamento, e in specie degli scritti di carattere sapienziale, professavano, all'interno dell'atto creatore di Dio, il ruolo mediatore portato a termine dalla sapienza di Dio (cfr. Pr 3,19-20; 8,30; Sap 7,21; 9,2.9) e dalla sua parola (cfr. Sal33,6; 147,15.18; Sap 9,1; Sir 42,15; 43,5). Nell'orizzonte di queste speculazioni, alcuni testi poetici erano giunti addirittura a raffigurare in termini personali le due realtà mediatrici, esaltandone la trascendenza ma anche l'attività rivelatrice e salvifica a favore dell'umanità e dell'intero creato (cfr. Pr 1,20-33; 8,1-36; 9,1-6; Sir 1,1-10; 24,1-34; Ba 3,9-4,4). Ma nel momento in cui il procedimento poetico della personificazione lascia spazio a un rigore teologico maggiore, nell'interpretazione di questi passi anticotestamentari appare chiaro che le realtà divine di mediazione salvifica coincidono in sostanza con Dio stesso oppure con la Legge da lui donata agli Israeliti tramite Mosè (cfr. Sir 1,26; 24,8-23; Ba 4, l). La sapienza divina, che - come pròclama il Siracide (24,8) ha fissato la tenda in mezzo al popolo di Israele, finisce per essere identificata con «il libro dell'alleanza del Dio altissimo» e con «la Legge che ci ha comandato Mosè» (Sir 24,22; cfr. Ba 4,1). D'altra parte, Gesù aveva insegnato con una sapienza stupefacente (cfr. Mc 6,2 e paralleli), dichiarando scandalosamente di conoscere Dio come nessun altro, essendone il Figlio, mentre ai sedicenti sapienti questa rivelazione era preclusa (cfr. Mt 11,25-27;

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Le l 0,21-22). Anzi, ai suoi avversari che lo accusavano di essere «un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori!», aveva risposto identificandosi allusivamente con la «Sapienza» di Dio, «riconosciuta giusta da tutti i suoi figli» (Le 7,34-35; cfr. Mt 11,19). Fu soprattutto Giovanni, che con il suo circolo missionario avrebbe fondato a Efeso e nell'Asia Minore varie comunità cristiane accanto a quelle di origine paolina, a presentare nel suo vangelo Gesù come la Parola sapiente (Logos) di Dio (Gv 1,1), per mezzo della quale Dio Padre ha portato a termine la creazione (1,3.10) e la rivelazione (1,18). Anche Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, scritta da Efeso, identifica Cristo con la «sapienza di Dio». Ma, per l'apostolo, Cristo non è- come nel filone sapienziale dell'Antico Testamento e del giudaismo- una semplice personificazione poetica della sapienza divina. Tant'è che egli giunge a fare una profonda professione di fede in «un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale esistono tutte le realtà» (1Cor 8,6). Ora, l'originalità dell'intuizione paolina sviluppata nella Prima lettera ai Corinzi risalta dal fatto che per correggere equivoche bramosie di sapienza mondana sorte tra i cristiani di Corinto, egli li sollecita ad approfondire la loro fede nel Crocifisso contemplato come l'unica autentica «sapienza» salvifica di Dio. Cristo, «potenza di Dio» «[Noi predichiamo] - dichiara Paolo nella prima parte della lettera- Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (1,24). Indica, così, uno stretto legame tra la visione del crocifisso come «sapienza di Dio» (lCor 1,24.30), contraria alla sapienza orgogliosa di questo mondo (v. 20; cfr. 2,6; 3, 19), e il tema della potenza salvifica di Dio. In effetti, la potenza di Dio si manifesta paradossalmente nella debolezza del Figlio e, di conseguenza, nella debolezza dei credenti che - come Paolo - prendono parte al mistero della sua morte e risurrezione. Già una lettura attenta degli Atti degli Apostoli consente d'individuare diverse occasioni in cui la debolezza di Paolo diventa un luogo privilegiato della rivelazione della potenza di Dio. Questa tesi traspare in maniera emblematica fin dai tre racconti dell'incontro

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di Paolo con il Signore risorto sulla via di Damasco (cfr. At 9,1-19; 22,3-21; 26,12-18). Uomo di potere che stava perseguitando accanitamente i cristiani, Paolo ha ricevuto la grazia immeritata di vedere il Signore risorto (cfr. 1Cor 9,1; 15,8), il quale gli ha fatto percepire tutta la sua nullità (cfr. 1Cor 15,9). A Paolo accecato (cfr. At 9,8-9) Dio ha rivelato suo Figlio (Gal1,15-16), facendogli così risplendere nel cuore ottenebrato la luce divina (2Cor 4,6; cfr. Gen 1,3). A più riprese nelle sue lettere Paolo ricorda questa irruzione della potenza salvifica di Dio in lui (cfr. Gal1,15-16), «ultimo fra tutti» (1Cor 15,8; cfr. l T m l, 12-16). Anzi, è in questa esperienza personale che va rintracciata probabilmente una delle fonti principali della tesi paolina del primato della grazia di Dio, che giustifica dai peccati chiunque creda nel Vangelo di Cristo (cfr., per esempio, Rm 1,16-17; 3,21-26; 5,1.6-11.15-21; 8,30; Gal2,16.21; 3,2-5.7; 5,4-5). Ma dagli Atti degli Apostoli appare pure come l'intero ministero di Paolo sia stato una continua pedagogia di Dio, che gli ha insegnato che la potenza divina si compie nella debolezza umana dell'apostolo (cfr. 2Cor 12,9). Basti ricordare che a Filippi, durante il suo secondo viaggio missionario, Paolo venne bastonato e arrestato (cfr. At 16,22-24). Da Tessalonica fuggì di notte, a causa di un tumulto scatenato dagli Ebrei (cfr. 17,5-1 0). Da Berea fu di nuovo costretto a partire per i subbugli causati anche là dagli stessi Ebrei diTessalonica (cfr. 17,13-14). Fallita la predicazione nell'areopago di Atene (cfr. 17 ,32), l'apostolo lasciò la città per recarsi a Corinto (cfr. 18,1). Qui, la reazione della comunità giudaica alla sua predicazione fu ancora più violenta delle precedenti (cfr. 18,6). Eppure, fu proprio allora che il Signore apparve in visione a Paolo per rassicurarlo sulla futura fecondità dell'attività missionaria a Corinto (cfr. 18,9-10). «lo sono con te»: gli garantì il Risorto, facendogli intuire come la sua potente presenza si manifesta specialmente in situazioni umanamente fallimentari. È alla luce di questa travagliata esperienza ministeriale che si comprende perché Paolo, rammentando l'inizio della propria missione a Corinto, tenga a riconoscere: «Anch'io quando sono venuto da voi, fratelli, non sono venuto ad annunciarvi il mistero di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Infatti, ho deciso di

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non sapere altro tra voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (l Cor 2, 1-2). Sul versante cristologico, questa tesi della manifestazione della potenza salvifica di Dio attraverso la debolezza di chi si affida a lui è illustrata da Paolo soprattutto nella prima parte della lettera. Mostrando come la sapienza divina si contrapponga a quella mondana (cfr. l, 18-3,4), l'apostolo insiste sul fatto che Dio ha rivelato la propria potenza salvifica nella crocifissione del Figlio suo. Tale rivelazione divina è così paradossale che l'annuncio di questo evento centrale della fede cristiana risulta scandaloso ai Giudei e stolto ai pagani (1,23). Nonostante ciò, l'apostolo è fermamente convinto dell'efficacia salvifica della propria predicazione nella misura in cui essa resti ben focalizzata sull'annuncio del crocifisso risorto (cfr. 1,23; 2,2; 15,3-5.14-15; anche Gal3,1; 2Cor 4,13-14), che è «potenza di Dio e sapienza di Dio». Difatti, «ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (lCor 1,24-25). A livello ecclesiale, questa tesi della manifestazione dell'onnipotenza divina nella debolezza dei credenti ha, per Paolo, una conferma nella nascita di una Chiesa proprio in una metropoli apparentemente così refrattaria al Vangelo come Corinto. Di sicuro, questa minuscola comunità cristiana non era per nulla potente dal punto di vista umano. Tutt'altro: Paolo sottolinea come nella loro comunità non ci fossero «molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili» (l Cor l ,26). Eppure, sta di fatto che anch'essi hanno accolto la sua predicazione, mediante la quale hanno ricevuto in dono la conoscenza di Cristo crocifisso e risorto (cfr. 15,3-4). Anche nel loro caso, quindi, Dio ha mostrato la sua predilezione per gli stolti; i deboli, gli ignobili e i disprezzati (1,2728). Ma è sempre così: preferendo rivelarsi nei deboli, Dio spinge gli uomini a non cedere alla tentazione di vantarsi, quasi che fossero loro i fautori della propria salvezza (1,29). Infine, dal punto di vista più propriamente apostolico, le implicazioni di questa verità di fede affiorano dallo stesso atteggiamento con cui Paolo aveva intrapreso l'evangelizzazione di Corinto (cfr. 2,1-5): all'apostolo sta a cuore far memoria che era giunto in cit-

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tà con tutta la sua debolezza (cfr. 2,3). In particolare, non aveva scommesso sulla propria capacità oratoria (cfr. 2,4). Con questo stile pastorale piuttosto dimesso aveva inteso evitare nei suoi interlocutori l'equivoco che l'origine della salvezza risiedesse nelle sue capacità umane più che nell'intervento di Dio mediante Cristo crocifisso. In positivo, aveva cercato di fare in modo che la fede deineoconvertiti «non fosse (fondata) sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (2,5). Quanto a se stesso, Paolo era giunto all'umile consapevolezza che tutta la sua attività ministeriale, ben più intensa di quella di altri evangelizzatori, non si sorreggesse tanto sulle proprie capacità personali, quanto piuttosto sulla grazia di Dio che agiva attraverso di lui (cfr. 15,10). Questa nitida consapevolezza di fede riceverà un approfondimento ulteriore nella Seconda lettera ai Corinzi, soprattutto a livello ministeriale (cfr. 1,9; 4,7-12). In quel frangente Paolo dovrà difendersi dal tentativo di delegittimazione del suo ministero apostolico messo in atto dagli oppositori di Corinto, che attaccavano le sue debolezze personali. Reagendo con fede alle loro ingiurie, Paolo ribadirà in vari modi questa tesi della manifestazione paradossale di Dio in chi - come lui - è «nulla» (2Cor 12,11; cfr. l Cor l ,28). Per mostrarne poi la veridicità, riprenderà sinteticamente quanto aveva illustrato nella Prima lettera ai Corinzi sulla rivelazione della sapienza di Dio nel Figlio crocifisso (cfr. 2Cor 13,3-4). Ma non temerà di confessare anche una rivelazione sconvolgente fattagli dal Signore in un periodo in cui stava soffrendo per una sua «spina nella carne»: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). La comunione di vita dei cristiani con Cristo e con il suo corpo ecclesiale Una volta precisato nella prima parte della lettera (l, l 04,21) che il principio e fondamento della vita ecclesiale è la comunione con Cristo, «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1,24), Paolo affronta nel resto dello scritto varie questioni problematiche sorte all'interno della comunità cristiana di Corinto. La «sapienza di Dio», che nella morte e nella risurrezione di Cristo si è rivelata

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con tutta la sua paradossale potenza salvifica, diventa criterio di discernimento nella vita concreta dei credenti che hanno deciso di vivere in comunione con Cristo e con il suo corpo ecclesiale. In sostanza questa loro opzione fondamentale si dovrebbe tradurre in una vita all'insegna della carità, alla quale Paolo dedica l'intero capitalo 13. Questo suggestivo elogio della carità è posto al cuore di una specie di trattato dedicato ai doni dello Spirito (cc. 12-14) e, più in genere, dell'intera concezione della Chiesa come corpo di Cristo. Difatti, è proprio alla luce della carità che Paolo può offrire, in questa sesta parte della lettera, alcune direttive pastorali perché i fedeli vivano nella comunione ecclesiale le differenze personali dovute ai multiformi doni dello Spirito. D'altro canto, a mettere a repentaglio la comunione ecclesiale dei Corinzi erano i comportamenti sessuali immorali di alcuni e le liti di altri, che spesso si concludevano davanti al tribunale civile della città. Nella seconda parte della lettera (5,1--6,20) Paolo condanna con fermezza un incestuoso (5,1-13) e, più in genere, i cristiani che cedevano all'immoralità sessuale (6,12-20), ricordando loro che «chi [ ... ] si unisce al Signore è un solo spirito (con lui)» (6,17). Quindi, i battezzati in Cristo (cfr. 1,13.15) continuano a restare uniti a lui (cfr. l O, 16-17) specialmente n eli' eucaristia (cfr. Il ,20-29). Affiora anche qui la convinzione di Paolo secondo cui la comunione del credente con Cristo crocifisso e risorto ne fondi la comunione con il corpo ecclesiale. D'altronde, quest'ultima non dev'essere infranta nemmeno da liti, tanto più se esse spingono i cristiani interessati a ricorrere a tribunali pagani (6,1-11 ). L'esortazione a glorificare Dio nel proprio corpo (6,20) con cui si conclude la seconda parte della lettera, si dischiude senza soluzione di continuità alla trattazione, nella sua terza parte (7, 1-40), di una serie di casi morali in materia di celibato e di matrimonio. Per Paolo, questi due stati di vita hanno un valore relativo, risentendo della caducità del mondo presente (cfr. 7,29-31 ). L'assoluto della vita cristiana, alla luce del quale Paolo dà direttive morali e consigli spirituali, è ancora una volta il rapporto di appartenenza dei credenti a Cristo risorto, il quale con la sua morte in croce li ha «comprati a caro prezzo» (7,23).

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Anche il problema delle carni sacrificate agli idoli, affrontato nella quarta parte (8, 1-11, l), trova soluzione sulla base del principio generale secondo cui «la carità edifica» (8, l). Fermamente convinto di ciò, Paolo porta il proprio comportamento come modello di carità (9, 1-27): «Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare in ogni modo qualcuno» (9,22). Può così invitare i cristiani di Corinto a imitarlo, come egli stesso imita Cristo (11,1). In pratica, raccomanda loro, in nome della carità, di non mangiare la carne sacrificata agli idoli, così da non scandalizzare i fedeli spiritualmente più «deboli» (8, 13; cfr. l 0,23-33). Quanto poi ai disordini che si verificavano nelle assemblee liturgiche della Chiesa corinzia, alla soluzione dei quali è dedicata la quinta parte della lettera ( 11 ,2-34 ), il rimprovero più severo di Paolo (cfr. vv. 17 .22) riguarda il modo per nulla caritatevole dei Corinzi di celebrare la memoria d eli 'ultima cena del Signore, cedendo a odiose discriminazioni nei confronti dei meno abbienti (v. 22). Meno espressamente legata al criterio della carità sembra la presa di posizione di Paolo a favore della consuetudine che le donne cristiane pregassero o profetizzassero a capo coperto al cospetto della comunità (vv. 2-16). La direttiva pastorale data da Paolo risente pesantemente del clima culturale dell'epoca e della sensibilità dello stesso apostolo. Tuttavia è chiaro che le contestazioni su questa consuetudine (cfr. v. 16) mettevano a repentaglio la comunione ecclesiale, che invece Paolo intende garantire e promuovere. Da questa rapida carrellata sulla costellazione tematica della Prima lettera ai Corinzi appare evidente come Paolo non si sia limitato a dare loro direttive pastorali o consigli spirituali. Di fronte ai gravi problemi morali e dottrinali sorti nella giovane Chiesa corinzia, egli ha supportato le sue concrete proposte di soluzione delineando nella prima parte della lettera (l, l 0-4,21) una teologia della «parola della croce» (1,18), sempre animata dall'annuncio della risurrezione del crocifisso e dei credenti in lui (settima parte: 15,1-58). Dopo di che, l'apostolo ha illustrato come dalla comunione di vita con Cristo crocifisso e risorto, segnata dalla dinamica paradossale della sapiente potenza salvifica di Dio che si manifesta

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nella debolezza umanamente stolta dei missionari e dei credenti, sgorghi la concordia all'interno della Chiesa.

DESTINATARI, DATAZIONE E LUOGO DI COMPOSIZIONE, AUTORE

La città e la comunità cristiana di Corinto Attorno alla metà del I secolo d.C., Corinto contava circa cinquecentomila abitanti, anche se i numerosi schiavi sfuggivano ai censimenti. La città era quindi una delle più grandi e popolate metropoli dell'impero romano, in cui vivevano sessanta milioni di persone, di cui circa un milione nella capitale. Al di là del numero ingente di abitanti, Corinto era una metropoli estremamente complessa sotto il profilo economico, sociale, culturale e religioso. Anzitutto, a livello economico, Corinto si trovava al crocevia delle rotte commerciali del mondo antico, dotata com'era di due porti: il porto di Kencre sul golfo Saronico (o di Egina) e quello di Lecheo sul golfo di Corinto (o di Patrasso) costituivano il passaggio privilegiato per gli scambi commerciàli tra Occidente e Oriente. Costeggiare via mare la punta meridionale del Peloponneso presentava rischi notevoli. Di conseguenza, si preferiva trascinare le navi più piccole da un porto all'altro di Corinto. Oppure si scaricavano le merci in un porto e le si trasportava nell'altro, per imbarcarle di nuovo. Anche i traffici via terra tra il Nord e il Sud dell'impero attraversavano non di rado la metropoli, distesa sui sei chilometri dell'istmo, che ali' epoca connetteva il Peloponneso alla Grecia. Per questa posizione geografica privilegiata, nel 44 a.C. Gaio Giulio Cesare (100-44 a.C.) aveva fondato, sulle rovine della città distrutta un secolo prima dagli stessi Romani (146 a.C.), la Colonia Laus Iulia Corinthiensis. La struttura politica e amministrativa organizzata da Giulio Cesare rispecchiava in parte quella della Roma repubblicana. Anzi, quando nel27 a.C. l' Acaia divenne provincia senatoriale, il proconsole nominato dal senato romano iniziò arisiedere a Corinto. · Dalla rifondazione della città in poi, vi era sopraggiunta da varie regioni dell'impero una massa ingente di ex-schiavi, che contribui-

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vano, con la loro intraprendenza, allo sviluppo economico. D'altra parte, anche numerosi imprenditori si erano trasferiti a Corinto, per investirvi capitali, senza preoccuparsi delle condizioni deplorevoli in cui versavano le classi meno abbienti. Tutto sommato, la ricchezza non mancava in città, anche perché ogni due anni si svolgevano, presso il grandioso tempio di Poseidone, i giochi istmici. Spettacolare e dispendiosa, questa iniziativa faceva affluire in città assieme ad atleti e spettatori di ogni razza, anche ingenti quantità di soldi. Ma, con il benessere, anche l'immoralità si diffondeva a macchia d'olio a ogni livello della società, specialmente nelle fasce sociali più basse, concentrate nelle aree malfamate dei porti. Anzi, Corinto era diventata un emblema d'immoralità ben noto in tutto l'impero. Tant'è che il titolo di korinthia («corinzia») si usava per bollare una donna di facili costumi (cfr. Platone, Republica, III, § 404d, 5) e il verbo korinthiazein («corintizzare», «vivere alla maniera corinzia») significava comportarsi in maniera immorale soprattutto a livello sessuale. Si comprende come mai la stessa comunità cristiana fondata dali' apostolo Paolo registrasse scandalose situazioni d'immoralità sessuale, rispetto alle quali egli dovette intervenire con comprensibile severità (cfr. lCor 5,1-13; 6,9.18-20). Lo sviluppo socioeconomico di Corinto trova conferma nei resti archeologici dei numerosi edifici e monumenti, risalenti al regno degli imperatori Augusto (31 a.C.-14 d.C.) e Tiberio (14-37 d.C.). Nella grande piazza del mercato gli archeologi hanno portato alla luce anche il tribunale di Gallione, che convalida quanto raccontano gli Atti degli Apostoli (cfr. 18, 12.16-17) su Lucio Giunio Anneo Gallione (3 a.C.-65 d.C. ca.), proconsole romano della provincia d' Acaia durante i diciotto mesi del primo soggiorno di Paolo a Corinto. Negli scavi archeologici sono poi affiorati i resti di templi e santuari, segno evidente dell'atmosfera multireligiosa della metropoli. Certo, a metà del I secolo d.C., il santuario corinzio dedicato ad Afrodite, la dea dell'amore, non era più così in auge come alcuni decenni prima, quando - stando al geografo greco Strabone (58 a.C.-25 d.C. ca.)- vi viveva un migliaio di sacerdotesse dedite alla prostituzione sacra. Ciò nonostante, anche all'epoca di Paolo, erano fiorenti in città non solo la religione greca tradizionale e il

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culto dell'imperatore, ma anche vari culti orientali, con tutto il loro fascino esoterico. Oltre a ciò, gli Atti degli Apostoli (cfr. 18,2-8) ricordano la comunità giudaica di Corinto, a partire dalla quale Paolo intraprese la prima evangelizzazione della città. D'altronde, anche il filosofo Filone di Alessandria (20 a.C.-50 d.C. ca.) ne fa menzione nella Ambasceria a Gaio (§ 281) ed è stato ritrovato un architrave in pietra, sul quale è leggibile l'iscrizione parzialmente restituita di [syna]gogi Hebr[aion] («[sina]goga [degli] Ebr[ei]»). È in questo policromatico orizzonte sociale e religioso che Paolo fondò la Chiesa corinzia. L'apostolo non ebbe mai paura delle differenze culturali e religiose. Al contrario, anche in questo caso, pare che avesse scelto di proposito Corinto come base d'azione per la propria attività missionaria in quell'area: in un'atmosfera multietnica e multireligiosa come quella di Corinto il Vangelo avrebbe avuto molte chance per germogliare. Il numero ingente di abitanti della metropoli, le navi che- eccezion fatta per l'inverno- facevano scalo nei suoi due porti, la marea di persone che si riversava in città per affari o per i giochi istmici costituivano condizioni favorevoli alla diffusione del cristianesimo. L'apostolo seppe approfittarne con entusiasmo e tenacia, investendo per un anno e mezzo tutte le sue energie. Nacque così una comunità cristiana che inizialmente doveva essere di dimensioni modeste, non superando il centinaio di persone. Ciò nonostante, era divisa in vari gruppi e tendenze, dovute alla sua stratificazione religiosa, socioeconomica e culturale. Anzitutto, dal punto di vista della provenienza religiosa, era una Chiesa mista, in gran parte proveniente dal paganesimo, ma con una minoranza d'origine ebraica. Gli Atti degli Apostoli ricordano la sostanziale chiusura deU' ambiente ebraico alla predicazione di Paolo (18,6.12-17), a eccezione di un certo Crispo e della sua famiglia (18,8). È verosimile che costui, essendo la guida della sinagoga, abbia esercitato un certo influsso su altri Ebrei, che si fecero battezzare. Tant'è che l'apostolo invita i giudeo-cristiani di Corinto a non nascondere di essere stati circoncisi (cfr. l Cor 7, 18-19). Certo è che questa presenza di giudeo-cristiani è strettamente legata al fatto che Paolo dovette

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difendere la propria identità apostolica (cfr. 9, 1-2) e il proprio modo di svolgere il ministero (cfr. 9,3-27). Difatti, a Corinto - più che in altre comunità cristiane da lui fondate - sorse ben presto un fronte antipaolino, contrapposto ai fedeli che invece dichiaravano di essere «di Paolo» (1,12; 3,4). Partito Paolo (cfr. At 18, 18), erano sopraggiunti anche lì alcuni missionari di matrice ebraica. Attraverso dicerie e calunnie di diverso genere - da cui l'apostolo si sarebbe difeso nella Seconda lettera ai Corinzi - costoro lo bollavano probabilmente come traditore delle radici ebraiche del cristianesimo. Il motivo era che egli non richiedeva ai pagani l'osservanza della Legge m osai ca né la circoncisione (cfr. Rm 2,26; 4,10-12; Gal 5,2.11; Fil 3,2-3) come condizioni necessarie per appartenere a pieno titolo alla Chiesa (cfr. Rm 3,20.28; Gal 2,16.21; 3,1-5). Effettivamente, anche nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo dichiara - con grave scandalo non solo dei giudei, ma anche dei giudeo-cristiani - che «la circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non conta nulla; ma (ciò che conta è) l'osservanza dei comandamenti di Dio» (7, 19), il cui fine è la carità (cfr. Rm 13,8-10; Gal5,6.14). Per questo, l'apostolo esorta i Corinzi a fare tutto nella carità (cfr. 1Cor 16,14; ma anche 13,1-13). Anche a causa della propaganda giudaizzante e antipaolina, ben attestata dalla Seconda lettera ai Corinzi, la giovane comunità aveva iniziato a frantumarsi in alcuni gruppuscoli, ciascuno dei quali si appellava a un leader carismatico, tra cui anche Paolo (cfr. l C or l, 12; 3,4 ). Queste divisioni interne, che verosimilmente si radicavano nella duplice provenienza religiosa della comunità cristiana, si erano poi acutizzate per la differente condizione socioeconomica dei fedeli: nella Chiesa corinzia, che rispecchiava il variegato tessuto socio logico della metropoli, i fedeli benestanti si erano messi a fare odiose discriminazioni nei confronti dei più poveri. Scandalose mancanze di carità si verificavano persino durante la celebrazione della memoria dell'ultima cena di Cristo (cfr. lCor 11,17-34) Infine, strettamente connesse alle differenze di ceto sociale erano

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quelle culturali, accentuate da un certo gnosticismo 1 ante litteram e da alcune tendenze carismatiche, che ben presto affiorarono nella Chiesa corinzia, soggetta- come, del resto, l'intera Grecia- al fascino indiscreto della cultura. È chiaro che soltanto i fedeli facoltosi avevano potuto permettersi una buona formazione intellettuale. Ma da alcuni passi della Prima lettera ai Corinzi parrebbe che questa loro formazione li portasse a umiliare altri cristiani come «carnali» (cfr. 3,1-3) sostanzialmente perché, anche per la loro scarsa cultura, erano più «deboli» nella fede (cfr. 8,7-12; 12,22). Su questo sfondo sociale ed ecclesiale, la Prima lettera ai Corinzi splende maggiormente nella sua qualità di scritto pastorale. Con un ventennio di esperienza missionaria alle spalle, Paolo non si è lasciato vincere dalla frustrazione dovuta alla constatazione che certi problemi fossero causati non tanto dei fedeli, quanto piuttosto dai missionari. Pur perdendo talvolta la pazienza davanti ad alcuni comportamenti tutt'altro che cristiani della Chiesa corinzia, l'apostolo ha cercato d'individuame le cause profonde, così da aiutare i fedeli a intraprendere efficaci cammini di conversione. In particolare, un accurato discernimento spirituale ha portato l'apostolo a rendersi conto della complessità dei problemi di quella Chiesa, dovuti alle suddette differenze di carattere religioso, culturale, socioeconomico ed ecclesiale. Autore, epoca e luogo di composizione Fin dal più antico scritto cristiano non entrato nel canone neotestamentario, vale a dire la Prima lettera ai Corinzi di Clemente 1 Di sicuro non si trattava del vero e proprio gnosticismo (dal greco gnosis, «conoscenza»), un complesso sistema filosofico-religioso fiorito, a partire dalla metà del II secolo, nel ricco contesto culturale di Alessandria d'Egitto. Penetrò anche all'interno della Chiesa, esercitandovi una seducente pressione, volta a trasformarla in un sistema mitico-simbolico di speculazioni cosmologiche e soteriologiche. Causò così un'eresia, cui gli adepti erano iniziati, trovandovi una risposta mitica alle domande fondamentali dell'esistenza: «Chi sono? Da dove sono stato precipitato? Come sono stato generato, rigenerato e purificato? Dove cerco di tornare?». Nella comunità cristiana di Corinto non si era giunti a tanto. Ma d1;1 alcuni indizi della Prima lettera ai Corinzi si possono congetturare modi di pensare e comportanti riconducibili, se così si può dire, a tendenze gnostiche ante litteram. In sostanza la convinzione che pare le muovesse era che la salvezza del credente dipendesse dalle conoscenze teologiche. Sapere è potere accedere alla salvezza divina. Perciò quanto più i cristiani pervenivano alla «conoscenza» di Dio, tanto più giungevano alla comunione salvifica con lui.

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Romano (ca. 95 d.C.), la paternità paolina della Prima lettera ai Corinzi ha riscosso un consenso universale, eccezion fatta per pochissimi biblisti del passato. Più problematica è la datazione della lettera. Sappiamo che il primo soggiorno di Paolo a Corinto (cfr. A t 18, 1-18) è collocabile tra la fine del49 e la metà del 52. Difatti è storicamente sicuro che Lucio Giunio Anneo Gallione fu proconsole dell' Acaia dal maggio 51 all'aprile 52. Il suo proconsolato può essere precisamente datato soprattutto grazie alla cosiddetta «iscrizione di Delfi», una lapide che contiene una lettera inviata in Grecia dall'imperatore Claudio al successore di Gallione. Ammettendo, dunque, che Paolo fosse condotto in tribunale davanti a Gallione (cfr. At 18,12) agli inizi del mandato proconsolare di costui (maggio 51), si evincerebbe l'arrivo dell'apostolo a Corinto al massimo un anno e mezzo prima (cfr. At 18,11), cioè alla fine del 49. Se, invece, l'apostolo fosse stato portato da Gallione al termine del mandato di costui, sarebbe l'aprile del 52. Quindi, Paolo sarebbe giunto a Corinto al massimo alla fine del 50. Comunque sia, l'apostolo giunse a Corinto al termine del suo secondo viaggio missionario, dopo aver evangelizzato le città macedoni di Filippi, Tessalonica e Berea (cfr. A t 16,12-17,15). Aveva poi soggiornato ad Atene, nel cui raffinato ambiente culturale il suo tentativo di proclamare la risurrezione dai morti di Cristo crocifisso si era scontrato con lo scetticismo dei più (cfr. At 17,16-34). A Corinto rimase per circa diciotto mesi. Dopo di che, gli ebrei lo accusarono dinnanzi a Gallione di propagandare un culto contrario alla Legge mosaica. Benché il proconsole non si fosse pronunciato su questioni religiose, l'apostolo s'imbarcò per la Siria. Fatto scalo a Efeso, in Asia Minore, v'intraprese un primo tentativo ben riuscito di evangelizzazione. Si imbarcò poi per Cesarea e da lì fece ritorno, per via di terra, ad Antiochia (cfr. At 18,12-22), concludendo così il suo secondo viaggio missionario. Per cercare di dirigere da lontano la comunità cristiana di Corinto, Paolo dettò quattro lettere, anche se nel canone del Nuovo Testamento ne sono state conservate soltanto due. Nella Prima lettera ai Corinzi Paolo ricorda loro di aver scritto un'altra lettera precedente, in cui li ammoniva di non avere a che fare con gli impudichi (cfr.

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5,9). Ma questa missiva non è stata conservata dalla tradizione ecclesiale. Nella Seconda lettera ai Corinzi Paolo preannuncia un suo terzo viaggio a Corinto (cfr. 2Cor 12,14; 13,1-2). Se ne evince che ne aveva già fatto un altro, dopo la prima evangelizzazione della città. A riguardo di questa seconda visita Paolo confessa che fu per lui un'esperienza triste (cfr. 2, l). In quel frangente, infatti, egli aveva dovuto rimproverare severamente alcuni peccatori (cfr. 12,21 ; 13 ,2) e, in particolare, un tale che aveva commesso una colpa non meglio determinata, rattristando l'apostolo stesso e l'intera comunità (cfr. 2,5-9). A ogni buon conto, questo caso problematico spinse Paolo a mutare il suo piano missionario: da Corinto non si diresse in Macedonia per poi tornare ancora a Corinto (cfr. 2Cor l, 15-16), ma partì per Efeso. Fu da lì che, «tra molte lacrime», scrisse una terza lettera ai Corinzi (cfr. 2Cor 2,4), che però non è stata conservata nel canone. Sul motivo della sua stesura, Paolo dichiara di essersi reso conto che la visita che avrebbe voluto fare alla Chiesa corinzia si sarebbe rivelata molto penosa. Aveva quindi preferito inviarle una missiva (cfr. 2Cor 2,3). Purtroppo, però, anche questa lettera aveva finito per rattristare sia lui che i Corinzi (cfr. 2Cor 7,8-1 0). Trasferitosi in Macedonia (cfr. 2Cor 2,13), l'apostolo fu raggiunto dal suo collaboratore Tito, che gli portò buone notizie circa la Chiesa corinzia: i cristiani avevano punito in modo adeguato il responsabile della grave offesa subita da Paolo (cfr. 2Cor 2,5-6) e avevano manifestato apertamente il loro dispiacere per l'incidente (cfr. 2Cor 7, 7). Perciò, dopo aver gioito dell'avvenuta chiarificazione nei suoi rapporti con la comunità, Paolo mandò di nuovo Tito a Corinto così che egli facesse portare a termine la raccolta di fondi economici per i cristiani bisognosi di Gerusalemme (cfr. 2Cor 8,6). Al di là delle numerose supposizioni, il dato certo è che la stesura delle suddette quattro lettere di Paolo ai Corinzi è da collocare lungo il suo terzo viaggio missionario (cfr. At 18,23-20,38). Se però cerchiamo di precisare la datazione della Prima lettera ai Corinzi, registriamo varie opinioni: alcuni sostengono che essa sia stata dettata negli anni 53-54; altri nel 54-55; altri ancora nel 55 o nel 56; altri, infine, la spostano al 57. Non si trovano ragioni necessitanti per giungere a una datazione più certa; d'altronde, questa impreci-

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sione si ripercuote sulla possibilità di datare la successiva Seconda lettera ai Corinzi, di cui sappiamo da Paolo stesso che è stata scritta l'anno dopo la prima (cfr. 2Cor 8,10; 9,2; anche 1Cor 16,1-4). Pare, invece, sicuro che il luogo di composizione della Prima lettera ai Corinzi sia Efeso (cfr. At 19,1-20,1), come si evince soprattutto dalla conclusione della missiva, in cui egli dichiara l'intenzione di fermarsi in quella città fino a Pentecoste (cfr. l Cor 16,8), ossia fino a primavera inoltrata. Strettamente connessa con la questione della datazione della Prima lettera ai Corinzi è il problema piuttosto complesso della sua composizione. Dal punto di vista diacronico, gli studi di taglio storico-critico fatti sulla Prima lettera ai Corinzi sin dalla fine dell'Ottocento ne hanno spesso accentuato il carattere frammentario, evidenziandone passaggi repentini da un tema ali' altro, tensioni letterarie interne, interruzioni improvvise, incoerenze di soluzioni a medesimi problemi ecc. Si è giunti così a mettere in dubbio l'unitarietà originaria della missiva e a congetturarne la composizione finale da parte di un redattore successivo a Paolo. Fra le posizioni più estreme appartenenti a questa tendenza, si potrebbe citare la proposta dell'esegeta tedesco Walter Schmithals2 : a suo avviso, le attuali due lettere di Paolo ai Corinzi sarebbero una compilazione redazionale a uso liturgico di nove biglietti epistolari. Pur ritenendo eccessiva questa ipotesi, diversi biblisti individuano tra le lettere in origine distinte e successivamente incorporate nell'attuale scritto canonico (che per alcuni sarebbero due, per altri tre o addirittura quattro) quella menzionata in l Cor 5,9 .11. Reagendo a congetture di questo tipo, incapaci di guadagnare un effettivo consenso degli studiosi, la maggioranza degli esegeti odierni preferisce studiare la disposizione letteraria dello scritto unitariamente considerato. I motivi fatti valere a supporto di questa opzione metodo logica sono molteplici. In prima battuta, non si sottovaluta l'impulsività di Paolo, che del resto traspare anche da altre sue lettere. In secondo luogo, sulla stesura di una missiva lunga come questa possono aver influito fattori concreti come, per esempio, 2 W. Schmithals, «Die Korintherbriefe als Briefsarnrnlung», in Zeitschrift fiir die Neutestamentliche Wissenschaft 64 (1973) 263-288.

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le più che probabili interruzioni nella dettatura o l'eventuale arrivo di notizie scritte o orali dalla comunità corinzia. Ma soprattutto a numerosi biblisti pare convincente la sostanziale coerenza interna dello scritto sotto il profilo tematico e la sua omogeneità dal punto di vista terminologico e stilistico. Non sòlo: vari studiosi hanno tentato di analizzare la lettera con il metodo retorico. Così si è scoperto per esempio che la proposizione (proposi fio) della sua tesi principale si troverebbe in 1,10, per cui l'intero scritto epistolare sarebbe finalizzato a convincere la Chiesa corinzia a recuperare la concordia, superando le varie faziosità interne. Ad altri biblisti, però, i diversi tentativi di rinvenire in questa lettera i momenti costitutivi dell'articolazione (dispositio) specifica del discorso retorico classico (exordium, narratio, argumentatio e peroratio) sembrano vere e proprie forzature. Effettivamente questo scritto risulta piuttosto refrattario ad analisi troppo rigide di questo tipo.

TESTO E TRASMISSIONE DEL TESTO

Il più antico ricordo esplicito della Prima lettera ai Corinzi si trova nella prima lettera inviata, attorno al 95 d.C., da Clemente Romano alla stessa Chiesa corinzia (l Clemente 4 7, l). Questo scritto, che è l'opera cristiana più antica al di fuori del Nuovo Testamento, cita non solo la Prima lettera ai Corinzi, ma anche le lettere ai Romani e agli Ebrei. Si evince, quindi, che alla fine del I secolo la comunità cristiana di Roma conservasse una raccolta di lettere di Paolo, tra le quali c'era appunto la Prima lettera ai Corinzi. Sempre a Roma, intorno all40, l'eretico Marcione accolse la lettera paolina in un catalogo di scritti biblici. Ad attestarlo è il Panarion (42, 9, 3-4), scritto nel 3 77 da Epifanio di Salamina, secondo cui la Prima lettera ai Corinzi apparteneva al cosiddetto canone marcionita, con altre nove lettere attribuite a Paolo (Galati, 2 Corinzi, Romani, l e 2 Tessalonicesi, Efesini, Colossesi, Filemone e Filippesi). D'altra parte, anche la grande Chiesa recepì subito questa lettera all'interno del canone. Lo dimostra la sua menzione nell'elenco

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delle lettere paoline riportato dal cosiddetto canone muratoriano, attestazione della Chiesa di Roma della fine del II secolo, scoperto da Antonio Ludovico Muratori (1672-1750) nella Biblioteca Ambrosiana di Milano e da lui pubblicato nel 1740. A ulteriore conferma si potrebbero portare le innumerevoli citazioni reperibili nelle opere degli scrittori di epoca patristica, a partire dalle lettere agli Efesini (16,1) e ai Romani (5,1) di sant'Ignazio, vescovo di Antiochia di Siria all'inizio del II secolo, e dalla Lettera ai Filippesi (11,2) di san Policarpo di Smirne (69 ca.-155). Nella tradizione testuale non si trovano indizi che autorizzino a sostenere che la Prima lettera ai Corinzi sia l'esito della fusione redazionale di più biglietti epistolari. Al contrario, il testo della lettera canonica risulta ben stabilito fin dal suo testimone più antico, che è il papiro Chester Beatty II (ip46). Appartenente alla collezione Chester Beatty, questo codice consta di 86 fogli molto mutili - dei 104 originari- ed è datato intorno al200. È il più antico dei dieci papiri frammentari del III secolo che contengono alcune lettere paoline e le riporta secondo una sequenza basata sulla lunghezza in senso decrescente (Romani, Ebrei, l Corinzi, 2 Corinzi, Efesini, Galati, Filippesi, Colossesi, l Tessalonicesi, 2 Tessalonicesi). Ma frammenti importanti della Prima lettera ai Corinzi sono trasmessi anche da altri papiri, come, per esempio, il papiro di Leningrado (ip 11 ), il paprio Harris 14 (ip 14), il papiro greco 39784 di Vienna (ip34) e il papiro Colt 5 (ip 61 ). Per quanto riguarda i più antichi manoscritti onciali, la Prima lettera ai Corinzi è interamente contenuta nel Sinaitico (N), un manoscritto in caratteri maiuscoli, che risale al IV secolo e che contiene tutto il Nuovo Testamento greco. Anche il codice Vaticano (B) del IV secolo e il codice Alessandrino (A) del V secolo la riportano integralmente. Sulla base di questi dati, possiamo concludere che le numerose congetture dei biblisti sulle lettere o i biglietti epistolari confluiti nella Prima lettera ai Corinzi possono essere avanzate unicamente sulla base - a dire il vero, piuttosto instabile - di argomenti di critica interna. Invece, sulla circolazione di questi ipotetici biglietti epistolari non abbiamo prova alcuna nella tradizione manoscritta e nelle antiche versioni.

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Elenco dei manoscritti citati nel commento Maiuscoli Papiro di Leningrado (~ 11 ), datato al VII secolo e conservato nella Biblioteca Statale di Leningrado (già San Pietroburgo), contiene: 1Cor 1,17-22; 2,9-12.14; 3,1-3.5-6; 4,3-5.7-8; 6,5-9.11-18; 7,3-6.10-14. Papiro Chester Beatty II (~ 46), scritto intorno al 200 e conservato in parte alla University of Michigan di Ann Arbor e in parte a Dublino, nella collezione Chester Beatty (qui si trovano i fogli che contengono Filippesi), contiene della Prima lettera ai Corinzi i vv. 1,1-16,22. Codice Sinaitico (X) scoperto da Tischendorf nel monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, risale al IV secolo. La maggior parte dei suoi fogli sono conservati alla British Libracy di Londra e contiene: i Vangeli, gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline, la Lettera agli Ebrei, l'Apocalisse, nonché l'Antico Testamento (di cui alcune parti sono perdute), l 'Epistola di Barnaba e il Pastore di Erma. Codice Alessandrino (A) è del V secolo. Conservato alla British Libracy Royal di Londra, contiene tutta la Bibbia. Nel testo del Nuovo Testamento (Vangeli, Atti ed epistole cattoliche, lettere paoline, Lettera agli Ebrei e Apocalisse), mancano: Mt 1,1-25,6; Gv 6,50-8,52 e 2Cor 4,13-12,6. Codice Vaticano (B) è del IV secolo. Conservato alla Biblioteca Vaticana, contiene tutta la Bibbia, ma con lacune. In particolare, del Nuovo Testamento riporta i vangeli, gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline (con una grande lacuna da l Timoteo fino a Filemone) e la Lettera agli Ebrei (di cui manca da 9,14 fino alla fine). Codice di Efrem riscritto (C), del V secolo, riutilizzato (come palinsesto) nel XII secolo per trascrivere gli scritti di Efrem il Siro. Conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi, contiene tutta la Bibbia, ma con ampie lacune. Codice Claromontano (D), del VI secolo, è conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Si tratta di un codice bilingue, in greco e in latino, che contiene le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei, anche se una mano più tarda ha aggiunto Rm l ,27-30 e l Cor 14,13-22, mentre non è riportato il brano di Rm 1,1-7.

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Codice di Augia (F) risale al IX secolo. Prende nome dalla località in cui fu copiato, il monastero dell'isola di Reichenau sul lago di Costanza, chiamata Augia in latino, ma attualmente è conservato al Trinity College di Cambridge. Contiene le lettere paoline in greco e in latino, e l'Epistola agli Ebrei soltanto in latino (secondo la Vulgata). Codice di Borner (G), risalente al IX secolo, è conservato alla Sachsiche Landesbibliothek di Dresda. Si tratta di un codice bilingue, in cui il testo latino interlineare è posto sopra il greco. Contiene le lettere di Paolo, ma non l'Epistola agli Ebrei. Codice di Mosca (K), del IX secolo, proviene dal monte Athos, ma attualmente è conservato al Museo Storico di Mosca. Si tratta di un manoscritto con commento, che riporta, con varie lacune, gli Atti, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice Poifìriano (P) è del IX secolo. Conservato alla Biblioteca Statale di Leningrado (già San Pietroburgo), è un palinsesto che contiene, con diverse lacune, gli Atti, le lettere paoline, la Lettera agli Ebrei e l'Apocalisse. Codice della Laura del monte Athos ('P) risale all'VIII-IX secolo e prende il nome dal luogo in cui è conservato. Contiene, sia pure con lacune, i vangeli, gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice Angelico (L), del IX secolo, è conservato alla Biblioteca Angelica di Roma. Con varie lacune, riporta gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice Vaticano greco 2061 (048) è un onciale del V secolo, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Palinsesto riscritto due vole e parzialmente conservato, riporta gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice greco 100 di Atene (075) risale al X secolo ed è conservato alla Biblioteca N azionale di Atene. Riporta, con l'aggiunta di un commento, gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice oncia/e 0243, del X secolo, è conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia e contiene dalla l C or 13,4 alla 2Cor 13,13.

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Minuscoli Codice greco 14 di Parigi (33), scritto su pergamena e risalente al IX secolo, è conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Riporta i vangeli, gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice 81, scritto su pergamena, risale al l 044, ed è conservato in parte alla British Library di Londra e in parte al Patriarcato di Alessandria. Contiene gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice 88, scritto su pergamena, risale al XII secolo. Conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, riporta gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline, la Lettera agli Ebrei e l'Apocalisse. Codice 436, scritto su pergamena, è dell'XI secolo. Conservato alla Biblioteca Vaticana, contiene gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice 629, scritto su pergamena, risale al XIV secolo. Conservato alla Biblioteca Vaticana, riporta gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. Codice 1739, scritto su pergamena, risale al X secolo. Conservato alla Laura del monte Athos, riporta gli Atti, le epistole cattoliche, le lettere paoline e la Lettera agli Ebrei. La dizione «testo bizantino» indica quello riportato dalla maggioranza dei manoscritti greci esistenti; essa viene usata perché si tratta del testo adottato dalla Chiesa di Bisanzio a partire dal IV secolo.

BIBLIOGRAFIA

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I1P01: KOPINE>IOY1: A'

Prima ai Corinzi

PRIMA AI CORINZI 1,1

42

1

nauÀoç KÀrrròç àrr6crroÀoç Xptcrmu 'lllOOU Òtà 9eÀ~}lCXToç 9eou KCXÌ LWcr8év11ç ÒÒ:ÒeÀcpÒç 2 Tfj ÈKKÀll> (b: l ,26-31 ), capace di vivere ali' insegna della sapienza di Dio proclamata da Paolo (b 1: 2,6-16). Alla fine, però, l'apostolo gim1ge a far notare ai Corinzi la loro immaturità spirituale nel dividersi in fazioni litigiose (a1: 3, 1-4). n loro atteggiamento attuale è ancora impregnato di «sapienza mondana», sostanziabnente impermeabile alla sapienza divina manifestatasi in Cristo crocifisso (a: 1,18-25).

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PRIMA AI CORINZI I,l9

tcrriv' -roiç OÈ cr>, «psichici» e «spirituali». I cristiani «ilici» non avrebbero potuto conoscere la sapienza divina, se non a un livello minimale, intrisi com'erano di materia (hyle). I credenti «psichici» (cfr. 2,14 e il relativo commento; abbiamo tradotto lì il termine greco con e le ha «rivelate ai piccoli» (Le l 0,21, parallelo a Mt 11,25). Ma allo stesso tempo questa amorevole predilezione di Dio per i «piccoli», ossia per i credenti, ha svergognato i saccenti di questo mondo. I criteri mondani sono completamente capovolti: le persone che il mondo considera sapienti sono smascherate come presuntuose da Dio, che invece sceglie quelle che il mondo disprezza come stupide. Del resto, nella comunità cristiana di Corinto era avvenuto proprio così: non si erano convertiti solo benestanti come Crispo, capo della sinagoga (cfr. At 18,8), o Erasto, il tesoriere della metropoli (cfr. Rm 16,23), ma si erano fatte battezzare specialmente persone dei ceti medio-bassi, schiavi compresi (cfr. l Cor 7,21 ). A differenza della religione giudaica che rifiutava la conversione degli schiavi, il cristianesimo li accoglieva, riuscendo così a diffondersi rapidamente nell'impero romano. Questo perché, come dichiara Paolo, è Dio stesso che predilige gli «ultimi» e tutti quelli che, pur con i loro limiti, si affidano a lui. Perciò al cospetto del Signore non ha alcun senso vantarsi (v. 29; cfr. Rm 3,27) o, peggio, porre il proprio vanto in altri uomini, com'era prassi nei gruppuscoli di Corinto nei confronti dei rispettivi leader

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PRIMA AI CORINZI 1,30

30 È~

aÙTOU ÒÈ Ù~dç ÈcrTE Èv XptcrT 'IJlcrOU, oç èyev~811 crocp{a ~~iV Ò:rrÒ 8EOU, ÒlK) (v. 4; cfr. At l ,8). Non pare che con questa espressione Paolo indichi una sua attività taumaturgica durante l'evangelizzazione iniziale di Corinto. Del resto, gli Atti degli Apostoli (18, 1-18) non ne parlano. L'apostolo riconosce piuttosto l'influsso positivo esercitato dallo Spirito Santo sia sugli evangelizzatori che sugli evangelizzati. In fin dei conti è fermamente convinto che sia stato proprio lo Spirito a spingere misteriosamente gli uditori a convertirsi, rendendo efficace la sua attività missionaria (cfr. ICor 14,25; anche Rm 15,19; lTs 1,5). 2,6-16 Sapienza dei «perfetti»

Pur ribadendo a più riprese di non aver voluto fondare la fede dei Corinzi «sulla sapienza degli uominh) (v. 5; cfr. 1,18-20), Paolo seguita comunque a parlare in questa lettera di «sapienza)) (v. 6). In lui, però, qualcosa è ormai cambiato per sempre. In effetti, già quando era giunto a Corinto, em ormai fermamente convinto che la predicazione cristiana non potesse assomigliare ai «[discorsi] persuasivi di sapienza)) (v. 4) che, speciahnente nelle città greche come Corinto, si potevano udire da retori e filosofi, ma anche da politici e governanti (v. 6). Senza dubbio

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PRIMA AI CORINZI 2,6

la mia parola e la mia predicazione non (si sono fondate) su [discorsi] persuasivi di sapienza, ma sulla conferma dello Spirito e della (sua) potenza, 5perché la vostra fede non fosse (fondata) sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio. 6Di sapienza, certo, parliamo tra i perfetti; tuttavia, di una sapienza non di questo mondo, né dei governanti di questo mondo, che si vanno dissolvendo.

4

alcun altro passo noto dell'intera letteratura greca, per cui sarebbe stato Paolo a coniarlo a partire dal verbo nd9uv («persuadere»). Quindi può essere stata questa sua invenzione linguistica la causa della confusione avvenuta nella trasmissione testuale. Una seconda possibilità è che uno scriba abbia reso erroneamente con nu9oiç la lezione originale, che invece aveva nEL9ol (dativo del sostantivo nu9w, «persuasione»), vale a dire: l:v nu9ol oO(aç («sulla persuasione di sapienza»). Si potrebbe tradurre piuttosto liberamente: «SU sapienti discorsi persuasivi>>. Ma la traduzione proposta («su discorsi persuasivi di sapienza») riesce a rendere

meglio l'antitesi tra la «sapienza» (umana) e la ~~potenza» (dello Spirito), che Paolo istituisce aggiungendo: È:V atTo&(çn 'ITVE4J.a,toç Ka t ouvli~Ewç («sulla conferma dello Spirito e della [sua] potenza»). 2,6 Tra i perfetti (È v tolç tEÀELOLç) - Dal contesto positivo dell'affermazione (cfr. 2, 12; 3,1 e anche 2,15), oltre che dalle altre occorrenze paoline del termine tÉÀELOL (cfr. 14,20; Fil3,15; Col1,28; 4,12), si evince che Paolo chiama qui «perfetti» i cristiani pervenuti a una fede matura, a differenza di altri che sono «deboli» (1Cor 8,7-13; 9,22; 12,22), come «bambini in Cristo», che hanno ancora bisogno di «latte» e non di «cibo solido» (3,1-2).

l'apostolo non era né un ignorante né un oscurantista. Non era pregiudizialmente schierato contro la filosofia o la retorica, né più in genere contro la cultura. Anzi, credeva che ogni essere umano potesse accogliere la rivelazione di Cristo (che è grazia) con tutto se stesso e, dunque, anche con le proprie facoltà intellettuali. La sapienza e la conoscenza sono doni dello Spirito (cfr. 12,8). Perciò, qui come nelle altre lettere, Paolo ha perseverato nello sforzo tenace di comprendere a fondo e di spiegare più chiaramente possibile la «sapienza di Dio, nascosta nel mistero», ossia il piano della salvezza, «che Dio ha prestabilito prima dei secoli>> (v. 7; cfr. anche 2,1; 4,1; 15,51) e che ha poi rivelato pienamente tramite Cristo (cfr. Rm 16,25-26; anche Ef3,4-5; Coll,26). Quanti tentativi Paolo ha fatto per penetrare «quelle realtà che occhio non ha visto, né orecchio ha sentito, né mai sono affiorate nel cuore umano» (v. 9)! Ma ad animare il suo sforzo teologico era la consapevolezza che i misteri divini sarebbero rimasti comunque al di là dei limiti della pura ragione (cfr. Rm 11,33-35). A quanti espedienti anche retorici ha fatto ricorso l'apostolo dei pagani per farsi capire dai suoi variegati uditori e per persuaderli a convertirsi! Eppure, specialmente in questa prima parte della lettera, dichiara senza mezzi termini che non si può fondare la fede cristiana sulla «sapienza di questo mondo» (1Cor 3,19; cfr. 1,20-21; 2,6). Insegnamento paolino della sapienza di Dio (2,6-9). Convinto di ciò, l'apostolo ammette che per lo meno tra cristiani «perfetth> (téleioi), cioè maturi nella

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PRIMA AI CORINZI 2,7

7

àÀÀà. ÀaÀOU}l€V 8eou crocp{av èv }lUOTfJpt

) o anche «i 'uomo lasciato alla sua sola natura)> (cfr. 3,L3). Facendo leva sull'antitesi paolina, finalizzata a evidenziare le possibilità conoscitive dell' «uomo spirituale» (ò 11VEUj.lcttLKÒc; [civ9pwnoc;]; cfr. 2, 13-14), ossia del credente in Cristo che accetta docilmente di essere illuminato dallo Spirito santo, è più semplice definire lo ljiUXLKÒç liv9pwnoc; in negativo: sì tratta dell'essere umano che, dotato di «anima» (ljlux~). non sì lascia (ancora) guidare dallo Spirito dì Dio (tò nvEilj.l« toil 9EOil). D'altronde, l' «uomo spirituale>) non è da far coincidere con la figura del mistico. Se ne può dare un giudizio (avcxKpLVEt«L)- Il verbo &vcxKp(vw, che fa parte del gruppo dì termini neotestamentari usati solo da Paolo

tramite il quale Dio stesso la manifesta (cfr. Mt 11,25-27; Le 10,21-22). Coerentemente, Paolo può a questo punto ribadire d'aver comunicato ai fedeli maturi o «spirituali» (pneumatik01) di Corinto verità «spirituali» (pneumatikd), cioè «insegnate» anche a lui dallo stesso Spirito di Dio, e non conquistabili con la «sapienza umana» (v. 13). Difatti, l'«uomo naturale» (in greco psychikos, «animale»), cioè l'essere umano guidato unicamente dali' «anima>> (psychi), non riesce a cogliere verità di fede come quella del valore salvifico della croce di Cristo. Semplicemente la croce gli appare una stupidaggine (v. 14; cfr. l, 18). Al contrario, l' «uomo spirituale» diventa capace di comprendere anche queste verità spirituali, così misteriose, perché ha accolto in sé lo Spirito (pneùma) di Dio (cfr. Gv 3,5-8). Grazie ai suggerimenti dello Spirito, l' o «di Kefa» (cfr. 1,12; 3,4), ma essere esclusivamente «di Cristo» e, quindi, «di Dio» (v. 23). I ministri della Chiesa, come l'intera creazione, sono a servizio dei credenti perché, a loro volta, essi possano servire Cristo e, mediante lui, possano servire Dio stesso, facendo «tutto per la gloria di Dio» (10,31).

PRIMA Al CORINZI 4, l

4

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0urwc; ~}léic; Àoyt~Écr9w av9pw~oc; wc; ÙrrflpÉ-ra:c; XptcrTOU KO:Ì OtKOVO}lOUç }lUOTflptWV 9EOU. 2 WÒE ÀomÒv ~flTElTO:l fV TOtç oiKov6}lotc;, !va: mcrr6c; ne; EÙpE9ft. 3 È}lOÌ ÒÈ Eic; ÈÀaxtcrr6v f.crnv, tva: ù>, ma ricorda che all'epoca di Paolo i due termini avevano anche lUl significato tecnico: in-

dicavano gli indigenti che venivano nutriti aspese della città, allo scopo d'immolarli in sacrificio agli dèi, per implorare da loro la fine di calamità o carestie. A costoro, forse, si paragonerebbe Paolo. Tuttavia, in questo contesto letterario non ci sono ragioni cogenti per intravedervi tale allusione. •!• 4,14-15 Testi affini: Gal4,16-19; Ef2,2122; lTs 2,11-12.17

4,14 Per ammonirvi (vou9Etw[v])- La lettera

Ma ciò che primariamente gli preme confessare è l'atteggiamento interiore con cui ha affrontato tutto questo «a causa di Cristo» (v. 10). Coltivando in sé «lo stesso sentire che fu anche in Cristo Gesù» (Fil2,5), ha benedetto chiunque lo insultasse; ha perseverato nella fede nelle persecuzioni; ha ricambiato le calunnie con esortazioni positive e consolazioni (vv. 12-13 ). Anzi, avendo cercato d'imitare così (cfr. Il, l b) l'amore incondizionato di Cristo crocifisso (cfr. Rm 5,6-8), Paolo potrà con coerenza raccomandarlo agli altri nella Lettera ai Romani: «Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi [... ]. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» ( 12,17-21 ). Questa scelta di mitezza e di non violenza, anzi di vero e proprio sacrificio spirituale (cfr. Rm 12,1; Fil2,l7) «a causa di Cristo» (v. IO) e per amore dei suoi figli spirituali di Corinto (cfr. 4,6), consente di comprendere la concezione che Paolo ha del ministero ecclesiale e, quindi, anche dei rapporti di una comunità cristiana con i propri ministri: attraverso una vita che partecipa misteriosamente alla stessa passione di Cristo, costoro sono chiamati in primo luogo a rendere percepibile ai fedeli, nel modo più nitido possibile, il «sentire che fu anche in Cristo Gesù» (Fil2,5), sintetizzabile in un 'unica parola: «carità» (agape; cfr. l Cor 13). Nella misura in cui i Corinzi comprenderanno ciò, riusciranno a superare le rivalità interne alla loro comunità.

81

PRIMA AI CORINZI 4,16

1'Noi

stolti a causa di Cristo, voi invece sapienti in Cristo; noi deboli, voi invece forti; voi glorificati, noi invece disonorati. 11 Ancora adesso patiamo la fame, soffriamo la sete, siamo denudati, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando, 12ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Ingiuriati, benediciamo; perseguitati, resistiamo; 13 diffamati, confortiamo. Siamo diventati come l'immondizia del mondo, la spazzatura di tutti, fino a oggi. 14Non

per farvi arrossire vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei amati. 151nfatti, se anche aveste diecimila pedagoghi in Cristo, non avreste però molti padri: (sono) io (che) vi ho generati in Cristo Gesù attraverso il Vangelo. 16Vi esorto, dunque: diventate miei imitatori! finale della parola greca è tra parentesi quadre perché la tradizione manoscritta non permette di decidere con certezza se originariamente c'era il participio presente vou9Etwv («ammonendo» o delle filosofie del tempo, diffusisi a livello popolare (vv. 9c-10a; cfr. 5,10-11). Qui l'accento cade non tanto sulle ingiustizie e sul furto appena menzionati (v. 8), quanto piuttosto sui

PRIMA AI CORINZI 6,9

94

"H OÙK OlÒan: Otl aÒtKOl 8EOU ~ TÒ OUTW> (Sof 1,15; cfr. Le 21,23). Per l'essere umano (&.vapwmv)- La considerazione di Paolo vale per l' «essere umano» in quanto tale, sia egli di sesso maschile (&.vt1p) o femminile (yuvt1).

propria tensione spirituale orientata alla fine dei tempi (c: 7,29-35). Quindi tutto il discorso ruota intorno proprio a questo proposito, essenzialmente verginale, che l'apostolo cerca di trasmettere ai cristiani di Corinto: usare ogni dono di Dio, cercando, ciascuno nel proprio stato di vita, di essere graditi a lui (cfr. 7,32). 7,25-26 Vergini All'inizio Paolo dà un consiglio alle vergini (parthénoi) e, più precisamente, alle giovani che non si sono ancora maritate, pur avendo l'età per farlo. Tuttavia immediatamente il discorso paolina pare abbracciare anche i vergini. Difatti l'apostolo dichiara che sia bene (v. 29). Difatti, per Paolo, ormai si sono avvicinati i tempi ultimi del ritorno di Cristo glorioso (cfr. l Cor 15,51; l Ts 4, 15-17), introdotti dal «giorno della tribolazione» (Sof 1,15; cfr. Dn 12,1). Del

tipica dello stile apocalittico, l'apostolo allude ai terribili patimenti dovuti alla fine dei tempi (cfr. Le 21,23). Lascia così affiorare la propria vivida attesa di un imminente ritorno glorioso di Cristo risorto, che avrebbe messo fine alla storia (cfr. 7,29; 15,51-52). 7,27-28 Fidanzati Con lo stile di chi enuncia un principio di portata generale, Paolo designa prima i cristiani sposati e poi quelli che non sono ancora legati a una donna (v. 27), anche se magari fidanzati. Già prima aveva risposto al gruppo dei rigoristi, che sostenevano che l'esercizio della sessualità, anche nel matrimonio, fosse sempre da rifuggire come peccaminosa (cfr. 7 ,2-6). A costoro Paolo ripete adesso, in modo ancora più chiaro, che chi si sposa e (sottinteso) ha rapporti coniugali non commette alcun peccato (v. 28). A questo punto, però, l' apostolo si mette a parlare anche della «tribolazione» (thlipsis) che si abbatte sugli sposati. A che cosa allude? Senza dubbio alle preoccupazioni tipiche della vita coniugale (cfr. 7,32-34). Egli vorrebbe evitarle ai giovani, consigliando appunto di rimanere celibi. Ma poi Paolo precisa che a essere colpita da tale tribolazione è la «carne» dei coniugi (v. 28), vale a dire la loro persona ancora inclinata alla concupiscenza. Si sente qui una seconda nota apocalittica (cfr. Mc 13,19), che fa da eco al precedente cenno alla «necessità presente» (v. 26) e introduce il paragrafo successivo (vv. 29-35) segnato da un'intensa attesa del ritorno ormai prossimo di Cristo glorioso. 7,29-35 Tensione escatologica Strettamente connesse alle tribolazioni sono le preoccupazioni alle quali Paolo dedica questo paragrafo centrale della sezione 7,25-40. Di che preoccupazioni si tratta? Per certi versi, è innegabile che sposarsi implichi l'assunzione di tutta una serie di responsabilità nei confronti del coniuge e dei figli. Ma qui c'è di più: Paolo viveva permanentemente in attesa di quell' «istante», ormai per lui imminente, in cui «in un batter d'occhio, al (suono del)l'ultima tromba, [ ... ] i morti» sarebbero stati «risuscitati incorruttibili» e i cristiani ancora in vita- come lui- sarebbero stati «trasformati» (lCor 15,52; cfr. lTs 4,15). In quel frangente,

113

PRIMA AI CORINZI 7,29

Sei legato a una donna? Non cercare la separazione! Non sei legato a una donna? Non cercare una moglie! 28Ma se anche ti sposassi, non peccheresti; e qualora la vergine si sposasse, non peccherebbe. Ma costoro avranno tribolazioni nella carne, e io vorrei risparmiarvele. 29Ma (vi) dico questo, fratelli: il tempo si è fatto breve; per quel che ne resta, quelli che hanno una moglie, vivano come se non l'avessero; 27

resto, Gesù stesso lo aveva preannunciato (Mc 13,19-20) nei termini di una «grande tribolazione» (M t 24,21; cfr. anche M t 24,29; Mc 13,24). ) (7,29.31). Della vita in questo mondo «rimangono queste tre cose: fede, speranza e carità. Ma la più grande di queste è la carità)) (13,13) perché non verrà mai meno (cfr. 13,8), neppure quando entreremo nella comunione eterna con Cristo risorto. C'è però anche un risvolto negativo: una speranza così ardente conduce l'apostolo a una visione tendenzialmente sfocata della storia della Chiesa e, prima ancora, dell'esistenza propria e altrui. Si comprende perché Paolo giunga a consigliare insistentemente a tutti i credenti di non cambiare il proprio stato di vita. D'altra parte, si capisce l'augurio di Paolo che ogni cristiano possa vivere come lui (cfr. 7,7), libero da vincoli coniugali e tutto dedito ali' evangelizzazione. Ma al di là di questi eccessi, Paolo offre un criterio valido anche per i cristiani di duemila anni dopo, che possono constatare che la storia non si è conclusa nel I secolo d.C. Attraverso quattro categorie di persone- gli sposati (v. 29b ), i

114

PRIMA AI CORINZI 7,30

°KaÌ OÌ KÀatOVn:ç wç J.l~ KÀatOVTEç KaÌ OÌ XatpOVTEç wç J.l~ xatpOVTEç KaÌ OÌ àyopa~OVTEç wç J.l~ KaTÉXOVTEç, 31 KaÌ oì XPWJ.lEVOl ròv KOO'J.lOV wc; J.l~ KaraxpWJ.lEVOl' napayEl yà:p rò crxfiJ.la TOU KOO'J.lOU rourou. 32 9ÉÀW ÒÈ Ù).l· 33 Ò ÒÈ yaJ.l~crac; J.lEPlJ.lV~ rà: TOU KOO'J.lOU, nwc; àpÉcrn rfi yuvalKl, 34 KaÌ J.lEJ.lÉplO'Tal. KaÌ ~ yuv~ ~ aya).loç KaÌ ~ nap8Évoç J.1EplJ.1V~ rà: TOU '7.-, \-, \, KUplOU, lVa TI ayta Kal T(f> O'WJ.lan Kal T(f> 1tVEUJ.lan 1'J ÒÈ yaJ.lftcracra J.lEPlJ.lV~ rà: rou KOO'J.lOU, nwc; àpÉcrn r àvòpi. 35 rouro ÒÈ npòç rò ÙJ.lWV aùrwv O'UJ.l àneptcrnacrrwc;. 3

'

(f

7,31 Infatti, è transitorio l'aspetto esteriore di questo mondo! (nap/t.yn yàp tÒ axfJJa toù KOOflOU mutou) -Alla lettera: «passa infatti la figura di questo mondo!». 7,35 Che conduce al Signore (tò ...

l(

eùn&peopov t4ì Kup(~)- Essendo un hapax biblico, l'aggettivo sostantivato eùn&peopoç risulta non facilmente traducibile. Alla lettera significa: «ciò che ama stare in modo assiduo con qualcuno», che, in questo caso,

piangenti (v. 30a), i contenti (v. 30b) e gli acquirenti (v. 30c) -,Paolo distingue tra «usare» (chniomai) dei beni di Dio e «usarne appieno» (katachraomai): «Quelli che usano del mondo, (lo facciano) come se non ne usassero appieno» (v. 31 ). Come a dire che è ovvio che ci si debba relazionare con le cose buone del mondo: dai beni materiali alle persone con cui si entra in contatto. Questa raccomandazione paolina è del tutto coerente con l'insegnamento di Cristo, secondo cui viviamo «nel» mondo, senza essere «deh) mondo, ossia senza appartenergli totalmente (cfr. Gv 15,19; 17,14-16). In quest'ottica, anche il matrimonio deve condurre i coniugi cristiani al Signore: attraverso il loro reciproco amore umano, essi sono attratti dal Risorto (cfr. Gv 12,32) all'amore divino o, meglio, al Dio-amore. Restano così esclusi sia i propositi puritani di evitare i rapporti coniugali, espressamente raccomandati dall'apostolo (cfr. ICor 7,3-6), sia ogni genere d'immoralità sessuale (cfr. 5,1-13; 6,12-20). Quanto al resto, per Paolo è innegabile che il matrimonio implichi tutta una serie di preoccupazioni quotidiane. Da questo punto di vista, l'apostolo è realista e dice il vero: il confronto da lui istituito tra il matrimonio e il celibato (vv. 32-34) porta a riconoscere che chi vive il celibato in vista del regno di Dio (cfr. Mt 19, 12) è maggiormente aiutato a trovare l'unità interiore della propria esistenza. Essendo soltanto «di Cristo» (l Cor 3,23), può costantemente dedicarsi al servizio di lui (v. 22) e delle realtà del suo corpo ecclesiale, così da essergli gradito (v. 32). Chi si sposa, invece, pur essendo chiamato alla stessa meta della santità (cfr. l ,26), deve giungere alla comunione con Cristo attra-

115

PRIMA AI CORINZI 7,35

quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che acquistano, come se non possedessero; 31 quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: infatti, è transitorio l'aspetto esteriore di questo mondo! 320m, vorrei che foste senza preoccupazioni! Chi non è sposatò si preoccupa delle realtà del Signore, di come piacere al Signore. 33Chi è sposato, invece, si preoccupa delle realtà del mondo, di come piacere alla moglie, 34e si sente combattuto! Anche la donna non sposata o la vergine si preoccupa delle realtà del Signore, per essere santa sia nel corpo che nello spirito. La donna sposata, invece, si preoccupa delle realtà del mondo, di come piacere al marito. 35Ma questo (lo) dico a vostro vantaggio, non per tendervi una trappola, ma per (indirizzarvi) a ciò che è onorevole e che conduce al Signore, senza distrazioni. 30

è il Signore. Se ne può illuminare maggiormente il significato alla luce del participio sostantivato oi. 'llttPfOpEoovnç in 9,13 («quelli che prestano servizio» all'altare), con cui sono evocati i ministri del culto. Anche qui

dunque c'è una sfwnatura si servizio cultuale reso al Signore con un'esistenza perseverante e «senza distrazioni» (Ò:nEpLanaa'twç; cfr. Le 10,40), ossia senza essere interiormente combattuti (v. 34).

verso l'amore sponsale. Perciò nella misura in cui il proprio coniuge non viva evangelicamente la relazione matrimoniale, da mezzo per giungere a Cristo viene a costituire un ostacolo per perseguire questo scopo. Ciò non toglie che Paolo inviti a superare tale difficoltà, non separandosi dalla persona amata così da cercare di santificarla (cfr. 7,12-14). Ciò detto, si deve puntualizzare che non può essere questa difficoltà la ragione fondamentale per preferire il celibato al matrimonio. Altrimenti il celibato sarebbe una scelta di ripiego, troppo comoda e perfino egoista. In realtà è lo Spirito Santo che, donando carismi diversi ai cristiani celibi e a quelli sposati (cfr. 7,7), misteriosamente li chiama e li abilita alla sequela di Cristo nel rispettivo stato di vita. 7,36-38 Fidanzati Con questo intento l'apostolo torna a considerare di nuovo lo stato di vita dei fidanzati. Già prima li ha rassicurati che sposarsi non è affatto peccaminoso (v. 28), anche se, considerando il ritorno imminente di Cristo glorioso, sarebbe conveniente per loro non farlo (vv. 26-27). A questo punto si sofferma su un caso concreto di astensione dal matrimonio che risulta non così perspicuo ai lettori odierni, dando adito almeno a tre interpretazioni. Stando ad alcuni biblisti, saremmo di fronte al proposito preso da un giovane e da una giovane di vivere insieme da celibi, senza sposarsi. L'indicazione data loro dall'apostolo sarebbe, invece, quella di accedere alle nozze, sempre che lo vogliano, e di continuare a mantenere il loro proposito all'interno della vita coniugale. Ma di una prassi del genere abbiamo testimonianze soltanto succes-

116

PRIMA AI CORINZI 7,36

n

OÉ nç àoxrn.!ove:iv èrd nìv rrap8Évov aù-rou VOlll~El, Èàv urrÉp>, Kfrios, YHWH), significa che ne ha la stessa divinità, come Dio ha rivelato a tutti gli uomini esaltandolo con la risurrezione dai morti (cfr. Fil 2,9-11 ). Riflettendo sulla mediazione salvifica definitiva portata a termine da Cristo con la sua vita, morte e risurrezione, la Chiesa delle origini ha colto che egli è la «Sapienza di Dio» (l Cor l ,24; cfr. Col 2,2-3 ), che ha mediato la creazione divina dell'universo (cfr. Col l, 15-20): per mezzo di Cristo esiste ogni creatura, esseri umani inclusi (v. 6b). Come attesta questo simbolo di fede, che forse Paolo ha recepito dal cristianesimo primitivo, attorno alla metà del I secolo i cristiani già professavano la fede nella signoria (ossia nella divinità, cfr. Rm 9,5; Col2,9) di Gesù Cristo (cfr. lCor 2,8; Fil2,11), mediatore della creazione del mondo (cfr. Eh l ,2; anche Gv l ,3 ), della redenzione degli uomini (cfr. l Cor l ,30) e della nuova alleanza con loro (cfr. ITm 2,5; Eh 8,6; 9,15; 12,24), attuate dall'unico vero Dio, Padre suo. Paolo non tira subito le conseguenze di questa professione di fede monoteista, ma è evidente la direzione verso cui procede la sua argomentazione: i cristiani sono «di Cristo e Cristo è di Dio» (ICor 3,23); sono cioè sottomessi soltanto a Cristo e a Dio (cfr. 7,22-23). Non adorano alcuna delle divinità pagane, che sono idoli inesistenti (v. 4). Ma non si asserviscono neanche agli esseri angelici o demoniaci, denominati talvolta «dèi» e «signori» (v. 5). La conclusione, quindi, sarebbe che i credenti in Cristo potrebbero cibarsi, senza problemi, della carne degli animali sacrificati agli idoli. È carne qualunque!

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PRIMA AI CORINZI 8,7

'AÀÀ, oùK €v rréiotv ~ yvwotç· nvÈç ÒÈ Tfi ouvYJ8Ei~ EW crwlJan Ka9wç ~9ÉÀf1crtv. 19 EÌ ÒÈ ~v rà mxvra EV lJÉÀoç, rrou "CÒ O'W}la; 20 vuv ÒÈ rroÀÀà lJÈV lJÉÀfl, EV ÒÈ crG>lJa. 21 où òuvarat ÒÈ ò Ò>, ossia per i missionari e i fondatori di Chiese (cfr. 9,2), e per i «maestri» in teologia (v. 29), oltre che la «capacità d'assistere» malati e bisognosi e «quella di governare» (v. 28). Non è casuale che i doni delle preghiere in lingue e della loro interpretazione siano relegati in fondo all'elenco: anche così Paolo cerca di moderare la bramosia che avevano i Corinzi. Le domande retoriche conclusive (vv. 29-30) sono finalizzate a riaffermare la tesi della variegata molteplicità dei doni della grazia all'interno dell'unica Chiesa che, proprio grazie a essi, seguita a essere nel mondo corpo di Cristo.

183

PRIMAAI CORINZI 12,31

0ra, voi siete corpo di Cristo e sue membra, (ciascuno) per (la sua) parte. 28 Alcuni Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi c'è la capacità di operare miracoli, poi il dono di (compiere) guarigioni, la capacità d'assistere, quella di governare, vari generi di lingue. 29 Sono forse tutti apostoli? Forse tutti profeti? Forse tutti maestri? Forse tutti operatori di miracoli? 3°Forse tutti hanno il dono di (compiere) guarigioni? Forse tutti parlano con (il dono del)le lingue? Forse tutti (le) interpretano? 31 Cercate con zelo i doni della grazia più grandi! Anzi, vi mostro una via ancora più sublime. 27

risma, finora non menzionato, di coloro che presiedono e governano una comunità cristiana (cfr. 16,15-16 e anche Rm 12,8; lTs 5,12). 12,30 Parlano con (il dono del)/e lingue (yì..uiomuç J..ocì..ofmv)- Con questa traduzione cerchiamo (qui come di seguito) di rende-

re l'idea del dono spirituale della cosiddetta «glossolalia». Usato spessÒ dai biblisti, il termine tecnico «glossolalia» deriva appunto dal sostantivo greco yì..W> (v. 1). Per la prima volta nella lettera, Paolo mette questo dono al primo posto. Anzi, lo considera al suo livello massimo: «Poniamo - sembra dire ai Corinzi - che io riuscissi a pregare Dio persino con la lingua ·inaudita delle creature angeliche ... >>. Ma l'apostolo esalta così tanto questo dono spirituale proprio perché tiene a ridimensionarlo subito, rispetto ali' enfasi eccessiva che esso riceveva nella comunità cristiana di Corinto. Disgiunto dalla carità, persino questo dono così ambito non servirebbe a niente. Anzi, provocherebbe confusione. Causerebbe un fastidioso rumore, simile a quello provocato dalla ripetuta percussione di una spranga di bronzo: così, si fa fracasso, non si tiene il ritmo della melodia, come invece si dovrebbe fare con i cembali (cfr. Sal 150,5). Ma poi l'apostolo riconduce nei giusti limiti anche un secondo dono spirituale molto apprezzato a Corinto, vale a dire la profezia (v. 2a; cfr. 12,10.28). Anzi, a .essa aggiunge altre tre capacità eccezionali, in qualche modo legate a essa, vale a dire: la comprensione di «tutti i misteri>>, cioè la «capacità di parlare con sapienza» (12,8; cfr. 2,7-l O); la «conoscenza>>, ossia probabilmente la «capacità di parlare con conoscenza>> ( 12,8); e infine il dono di una fede straordinaria (cfr. 12,9-1 O; anche Mt 17,20). Ebbene, tutti questi doni spirituali, privi della carità, sarebbero inutili (v. 2).

186

PRIMA AI CORINZII3,3

KaV \jJW}JlO"W rravra rà Òrrapxovra }JOU KaÌ È). Assente nelle prime due sezioni (vv. 1-ll e 12-34), esso invece connota la terza (vv. 35-58), ricorrendovi per ben nove volte (vv. 35.37.38.40.44). In buona sostanza, Paolo si riallaccia a ciò che ha professato n,ella prima sezione ( vv. 1-11 ), mostrando che come è stato risuscitato Cristo, così saranno risuscitati coloro che fin d'ora vivono uniti a lui. 15,1-11 Il Vangelo della risurrezione di Cristo ricevuto e trasmesso Il punto di partenza dell'argomentazione paolina sulla risurrezione dai morti è la citazione di uno dei primi simboli di fede della Chiesa apostolica, ossia di una formula sintetica capace di riassumere le verità fondamentali della fede cristiana. Riallacciandosi alla vivente tradizione della Chiesa (a: vv. 1-3a), Paolo trasmette fedelmente questo simbolo di fede (b 1: vv. 3b-5), sentendosi parte egli stesso di questa tradizione, come ultimo testimone oculare di Cristo risorto (a 1: vv. 6-11). 15,1-3a Tradizione ecclesiale e fede dei Corinzi Molto probabilmente Paolo apprese questo simbolo di fede, che abbraccia per lo meno i vv. 3b-5, negli anni 40-42, vale a dire subito dopo il suo

PRIMA AI CORINZI 15,3

210

rrapÉÒwKa yà:p Ù!liv Èv rrpw-roH;, 8 KaÌ rrapÉÀa~ov, on Xpurròç àn:É9avev ùrr€p "CWV Ò:!lapnwv ~!lWV Ka-cà: -cà:ç ypaq>à:ç 3

incontro sconvolgente e straordinario con il Signore risorto sulla via di Damasco (cfr. v. 8; lCor 9,1; Gall,l5-17). Forse questa arcaica formula di fede, di matrice giudaico-palestinese, era il «credo» che si recitava nella comunità cristiana di Antiochia di Siria. Il neoconvertito Paolo vi risedette per qualche tempo, prima di partire in missione con Barnaba (cfr. At 13,1-3). Perciò vari biblisti parlano di questi versetti come del «credo antiocheno». Citandolo verosimilmente a memoria - non senza, magari, qualche ritocco-, l 'apostolo mostra prima di tutto che la speranza cristiana nella risurrezione dai morti è fondata sull'evento pasquale di Cristo, così com'è testimoniato da tanti testimoni oculari. Poi sostiene che, se davvero si crede nell'annuncio apostolico della risurrezione di Cristo crocifisso tramandato dalla Chiesa, non si può non credere nella risurrezione universale dai morti. A questo scopo egli insiste sull'accettazione integrale della tradizione della Chiesa, che ha trasmesso anche a lui tale annuncio. In questo senso, nel solenne lemma introduttorio della formula di fede (v. 3a), Paolo fa ricorso ai due verbi tecnici della dinamica della tradizione ecclesiale (cfr. nota a 15,1-3). Come ha fatto anche prima (cfr. 11,2.3), l'apostolo tiene così a presentarsi come un anello della tradizione. D'altro canto, l'annuncio ecclesiale della risurrezione di Cristo crocifisso costituisce il punto comune fondamentale che lega Paolo ai Corinzi. In quanto cristiani, non si può non credere in questa verità di fede. Perciò l'apostolo non fa che rammentare loro la «bella notizia», il «Vangelo», che essi hanno appreso proprio da lui, quando si convertirono al cristianesimo (vv. l-2a). Ora, però, Paolo è altrove e il pericolo che i neoconvertiti stanno correndo è di vanificare la propria fede, fraintendendone il nucleo incandescente: la speranza nella risurrezione universale dai morti (cfr. 15,17). Seriamente preoccupato della situazione, l'apostolo ricorda ai suoi figli spirituali ciò che è sicuro di aver annunciato loro nei diciotto mesi dell'evangelizzazione di Corinto (v. l; cfr. At 18,11). 15,3b-5 Simbolo di fede Accogliendo e trasmettendo il «credo antiocheno», Paolo non stende un velo pietoso sulla morte di Cristo in croce, «scandalo per i Giudei, stoltezza invece per i pagani» (1,23). Piuttosto, qui l'intento principale dell'apostolo è quello di presentare in maniera lapidaria l'intero mistero pasquale di Cristo, soffermandosi soprattutto sulla sua risurrezione. In ogni caso, mettendo l'accento sul carattere tradizionale di questo credo, l'apostolo lascia già implicitamente cogliere ai Corinzi l'immutabilità di queste verità dottrinali fondamentali e, di conseguenza, la necessità che anch'essi, in quanto cristiani, le accolgano con fede nella loro integralità.

211

3Infatti,

PRIMA AI CORINZI 15,3

vi ho trasmesso prima di tutto quello che anch'io ho ricevuto:

Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, Morte di Cristo per i peccati degli uomini (15,3b). Con le parole del credo antiocheno, Paolo dichiara la propria fede nel fatto che la morte in croce di Cristo sia avvenuta «per i nostri peccati secondo le Scritture». La conformità di questo evento alla rivelazione di Dio attestata nell'Antico Testamento significa che Dio, nella sua sapienza misteriosa (cfr. l ,21; 2, 7-9; anche Rm 11 ,33-35), ha fatto rientrare nel suo piano di salvezza universale persino la crocifissione del Figlio suo portata a termine da uomini peccatori. Come preannunciava il salmista, Cristo è stato come «la pietra che scartarono i costruttori>> che «è diventata testata d'angolO» per opera di Dio (Sal 118,22; cfr. Mc 12,10 e paralleli; At 4,11 ). Dunque la morte di Cristo è stata indubbiamente un 'uccisione ingiusta e vergognosa (cfr. Eb 11 ,26; 12,2), non voluta da Dio Padre, ma perpetrata dagli uomini (cfr. At 5,30; 10,39). Ciò nonostante, il Padre, grazie alla solidarietà con i peccatori vissuta dal Figlio (cfr. Rm 5,7-10; Gall,4; 2,20), in tutto obbediente a lui (cfr. Fil2,8; anche Gall,4), è riuscito a tramutare quell'omicidio in salvezza sia per il Figlio che per l'intera umanità. Dal canto suo il Figlio, persino in quel momento cruciale, ha voluto mediare la nuova alleanza con gli uomini peccatori, che Dio, mediante il profeta Geremia (cfr. Ger 31,31-34), aveva promesso di portare a termine. Benedicendo il calice di vino dell'ultima cena con i suoi discepoli, Gesù ha evocato proprio quell'oracolo profetico (cfr. lCor 11,25 e Le 22,20). Il desiderio di Dio d'eliminare tutti i peccati degli uomini, per entrare in un'eterna relazione d'amore con loro, è stato portato a compimento dal Figlio, che sulla croce ha chiesto al Padre di perdonarli (cfr. Le 23,34). E Dio ha esaudito la sua richiesta di remissione incondizionata, offrendo a tutti coloro che credono nel Vangelo la possibilità d'essere perdonati e giustificati (cfr. Rm l, 16-17). In questo modo la morte di Cristo è stata «secondo le Scritture» perché, ottenendo la remissione divina dei peccati umani (cfr. Gal 1,4), ha adempiuto la profezia della nuova alleanza e, con essa, tutte le promesse di salvezza fatte da Dio nell'Antico Testamento (cfr. 2Cor 1,20). D'altro canto, la morte ingiusta e scandalosa di Cristo (cfr. l C or l ,23) è illuminata da tali promesse e liberata così dalla sua apparente casualità. In effetti, in quanto è riuscita a togliere i peccati degli uomini (v. 3), la crocifissione di Cristo riceve luce soprattutto dalla narrazione della morte oscura di una figura misteriosa dell'Antico Testamento, più volte allusivamente evocata da Gesù in riferimento alla propria missione messianica (cfr. specialmente Le 22,37): il servo sofferente del Signore. Dall'ultimo dei quattro canti del libro del profeta Isaia dedicati a questo personaggio (42, 1-7; 49, l-9a; 50,4-9a; 52,1353,12) appare che anche questo innocente venne ingiustamente ucciso per i peccati altrui (cfr. Is 53,4-5.11-12 [LXX]). Il credo antiocheno sembra riecheggiare

PRIMA AI CORINZI 15,4

15,4 È stato risuscitato (Éy~yeptcn)- Il verbo significa alla lettera: «è stato risvegliato (dalla morte))). La risurrezione è, in prima istanza, un avvenimento che riguarda Cristo in maniera permanente. Lo si può intuire dal tempo perfetto del verbo Èy~yeptln: il perfetto greco esprime di solito un'azione o un fatto del passato i cui effetti permangono nel presente. Di conseguenza, l'affermazio-

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ne secondo cui Cristo Éy~yeptn:t significa che egli «è stato risuscitatm) e continua a vivere da risorto. Poi, però, le benefiche conseguenze della sua risurrezione sono universali, anzi cosmiche, perché l'intera creazione nutre la speranza di essere lei pure «liberata dalla schiavitù della corruzione per ottenere la libertà della gloria dei figli di DiO)) (Rm 8,21 ). Per quanto riguarda

questo canto anticotestamentario, che, fin dalle prime fasi del cristianesimo (cfr. At 3,13-15.26; 4,27), aveva consentito ai cristiani di cogliere il valore salvifico della morte di Cristo: come aveva proclamato il profeta a riguardo della morte umiliante del servo sofferente, Cristo aveva effettivamente espiato con la sua morte i peccati degli uomini (cfr. Rm 3,25; Eh 2,17; lGv 2,2; 4,10).Anche Cristo «non aveva commesso peccato e non si era trovato inganno sulla sua bocca)) (l Pt 2,22; cfr. Is 53,9). Eppure «morì una volta per i peccati, egli che era giusto, a favore di non giusti)) (lPt 3,18; cfr. Is 53,11-12). Obbediente a Dio (cfr. Eh 5,8) «fino alla morte e alla morte di croce)) (Fil2,8), Gesù era morto come quel servo, lasciandosi mettere «nel numero dei malfattori» (Le 22,37; cfr. Is 53,12), in piena solidarietà con loro e a loro favore (cfr. lCor 11,24-25; 2Cor 5,14-15.21; Gal 3,13; 1Ts 5,10). In questo modo ha espiato i loro peccati, strappandoli «al mondo presente malvagio)) (Gal 1,4; cfr. Rm 5,6). Quella profezia isaiana su un servo di Dio che sarebbe stato «innalzato, elevato ed esaltato grandemente)) da Dio (ls 52,13), per secoli rimase oscura. Ma, guidati dal Signore risorto (cfr. Le 24,2527.32) e dal suo Spirito di verità (cfr. Gv 14,16-17.26; 16,13-15) nella lettura dell'intero Antico Testamento in riferimento a Gesù, i primi cristiani riconobbero che Dio aveva mantenuto fede a quell'antico canto: grazie alla risurrezione, egli aveva «sopraesaltato)) Cristo crocifisso e lo aveva insignito di quel «nome che è al di sopra di ogni nome)) (Fil 2,9). Aveva così riconciliato «a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe)) (2Cor 5,19). Sepoltura di Cristo (l 5, 4a). In secondo luogo, il credo antiocheno professa che Cristo «venne sepoltO)). La sepoltura è espressa con un verbo all'indicativo aoristo (etaphé), che esprime un'azione ben determinata nel passato; come, del resto, l'indicativo aoristo del verbo precedente (apéthanen, «morì))) ricorda la morte di Cristo come un fatto storico puntuale: «Cristo morì [ ... ] e venne sepolto)). Per lo meno da un punto di vista umano, con la sepoltura di Gesù si sarebbe conclusa la sua vicenda terrena. Quindi, questa annotazione non fa che confermare quella sulla morte. Gesù ha sperimentato davvero che cosa significhi l'esistenza umana nella sua totalità, morte e sepoltura incluse. Va così accantonato il dubbio, forse già sorto nelle prime fasi del cristianesimo, che Cristo fosse deceduto apparentemente, ma non morto realmente.

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PRIMA AI CORINZ115,4

'\renne sepolto, ed è stato risuscitato il teiZO giorno secondo le Scritture, più specificamente il genere umano, Cristo risorto è la «primizia di coloro che sono morti» (l Cor 15,20-23; cfr. Ap l ,5), ossia è il «primogenito dei risuscitati» (Col l, 18). Ciò significa che da quell'evento in poi la morte seguita indubbiamente a porre fine in modo rapace alla vita terrena di ogni essere umano (cfr. ò:pmi(nv, «rapire», l Ts 4, 17): del cristiano come del non cristiano

o dell'ateo. Anche dopo la risurrezione di Cristo la morte rimane, come recitava un antico proverbio d'Israele, la prima delle realtà insaziabili (cfr. Pr 30,15-16). Pur tuttavia, grazie alla risurrezione del Signore Gesù, la morte può essere vissuta dai cristiani come l'ha vissuta lui, cioè come un passaggio verso una vita di comunione piena con Dio Padre (cfr. Gv 13,1).

Risurrezione di Cristo il terzo giorno (15,4b). Una volta che Cristo fu deposto nel sepolcro come cadavere impotente (cfr. Mt 27,59-60 e paralleli), Dio Padre, che «non è un Dio di morti, ma di viventi» (Mt 22,32), «lo ha sopraesaltato» (Fil 2,9), risuscitandolo dai morti. Per iniziare a comprendere qualche aspetto del fatto che Cristo «sia stato risuscitato» (egigertai) da Dio Padre, bisogna rendersi conto, anzitutto, di avere a che fare con un'espressione analogica o antropomorfica: facendo leva cioè sulla somiglianza parziale (analogia) tra l'umano e il divino (cfr. Sap 13,5), anche il termine «risurrezione)) riesce a rendere soltanto qualche sfaccettatura di un atto divino, che comunque è, e rimarrà sempre, del tutto singolare nella storia. Infrangendo le leggi della natura, l'intervento di Dio Padre di risuscitare dai morti Cristo, suo Figlio, pur essendo annunciato con parole umane, trascende ogni esperienza umana. Di per sé, il verbo greco egeiro, traducibile con «risuscitare)), allude a tre atti umani del tutto ordinari: «svegliare>> (cfr. Mt 8,25), «alzarsi in piedi» (cfr. Mt 2,13) e «tirare fuori» (Mt 12,11). Quindi l'idea che evoca simbolicamente questo verbo in riferimento alla risurrezione di Cristo è che Dio Padre, attraverso il suo Spirito vivificante, l'abbia risvegliato dalla morte come da un sonno (cfr. l Ts 4,15; Ef5,14) e l'abbia tirato fuori dal sepolcro (cfr. Gv 11,43-44), rimettendolo in piedi (cfr. Mt 9,25; Le 7,14; At 9,41; Ef 5,14). S'intuisce come la Chiesa primitiva abbia cercato di designare con una categoria umana un evento per descrivere il quale il linguaggio è carente; anzi, anche la ragione e la capacità immaginativa risultano inadeguate. Premesso ciò, torniamo al credo antiocheno, che precisa che la risurrezione di Cristo avvenne «il terzo giorno» e «secondo le Scritture». L'espressione «secondo le Scritture» può essere compresa prendendo le mosse dalle osservazioni precedenti sulla sua prima occorrenza a riguardo della morte di Cristo (cfr. v. 3b). Da un lato, l'evento singolare della risurrezione di Cristo diventa più comprensibile qualora venga considerato alla luce delle Sacre Scritture del popolo ebraico (cfr. soprattutto Le 24,27). In particolare, esso viene illuminato dalle vicende di tanti personaggi dell'Antico Testamento - come il servo sofferente del Signore (cfr. specialmente Is 53, l O) o il giusto perseguitato del Salmo 22 (cfr. v. 30) -, ma anche dalle sue molteplici categorie, espressioni, istituzioni socio-religiose ... In maniera misteriosa, Dio

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ha ispirato l'Antico Testamento per preparare, attraverso il popolo d'Israele (cfr. Gal 3,24), l'intera umanità ad accogliere con fede l'evento unico della rivelazione pasquale del Figlio suo. Dall'altro lato, il fatto stesso della risurrezione di Cristo chiarisce le oscurità e precisa il senso ultimo di testi anticotestamentari come il quarto canto del servo sofferente del Signore (cfr. Is 52,13-53,12). Ma soprattutto svela il significato pieno di quei passi che già esprimevano, spesso in maniera solo allusiva, la speranza nella risurrezione universale dai morti (cfr. specialmente 2Mac 7; Dn 12,2-3 ). In questo senso la risurrezione di Cristo è il compimento eccedente e definitivo di quanto Dio aveva già rivelato e promesso nell'Antico Testamento sulla vita eterna con lui. In particolare si può ricordare un testo significativo dell'Antico Testamento, che la Chiesa apostolica ha di frequente (cfr. At 2,27.31; 13,35-3 7) riletto in riferimento a Cristo risorto: Sall5, l O(LXX; TM 16, l O) «[Tu, o Dio,] non abbandonerai la mia anima [in preda] agli inferi, né permetterai al tuo santo di vedere la corruzione». Il giudaismo aveva già riletto questo salmo in riferimento al messia che, prima o poi, Dio avrebbe inviato al suo popolo. Stando a questa rilettura messianica, l'invocazione di non vedere la corruzione della morte non riguardava più il salmista, ossia il re Davide tradizionalmente ritenuto autore del Salterio, ma era messa sulle labbra del messia futuro. Perciò Paolo e i primi cristiani giunsero a cogliere che, risuscitando Cristo dai morti, Dio aveva esaudito la preghiera da lui stesso suscitata nel cuore di Davide e di tutti gli Ebrei che, da generazioni, proclamavano con fede quell'antico salmo. Certo, Cristo era davvero morto (v. 3b), tant'è che era stato anche sepolto (v. 4a); ma il Signore non lo aveva abbandonato nel sepolcro, permettendo che il suo corpo fosse preda della corruzione. In questo senso la risurrezione di Cristo dai morti è avvenuta «secondo le Scritture» (v. 4b). Ma già a partire da questi rilievi s'intravede un altro dato importante della fede cristiana nella risurrezione, che va esplicitato nel credo antiocheno: l'intervento vivificatore operato da Dio su Gesù, ormai morto e sepolto, ha coinvolto ogni dimensione dell'umanità del Figlio. Inviato da Dio Padre «in uno stato di affinità con la carne del peccato» (Rm 8,3), egli è stato risuscitato mediante lo Spirito Santo nel suo stesso corpo mortale. Tant'è che, tra i tanti dati storici legati alla risurrezione del Signore che avrebbero potuto essere ricordati, il credo antiocheno precisa che essa si verificò al «terzo giorno». Per comprendere questa puntualizzazione soltanto apparentemente cronologica, è interessante rifarsi al racconto giovanneo della risurrezione di Lazzaro (cfr. Gv 11 ). Nella sua testimonianza di fede, l'evangelista Giovanni intende sottolineare che l'amico di Gesù fosse morto davvero. Per questo motivo ricorda l'obiezione realistica e imbarazzata di Marta all'ordine di Gesù di aprire il sepolcro: «Signore, già puzza» (Gv 11,39). Ma subito l'evangelista precisa anche che erano trascorsi quattro giorni dal decesso di Lazzaro. Questo dato, a prima vista non così necessario al racconto, ha una finalità ulteriore. In effetti, pare che una tendenza del giudaismo dell'inizio del I secolo d.C. immaginasse che l'anima del defunto restasse vicina al cadavere per

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e si fece vedere a Kefa e in seguito ai Dodici.

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tre giorni, quasi per tentare di rianimarlo, e che poi, sconsolata, se ne andasse via per sempre. Nel caso di Lazzaro, quindi, anche questo esilissimo filo di speranza si era spezzato irrimediabilmente. Erano trascorsi più di tre giorni. Ormai l'anima di Lazzaro se n'era andata. Ciò nonostante Gesù richiama in vita l'amico (cfr. Gv 11,43-44), benché il cadavere di lui avesse ormai cominciato a essere preda della decomposizione, che si riteneva iniziasse dopo il terzo giorno. Nel caso di Cristo, invece, che pure era morto e sepolto davvero (vv. 3-4), le cose sono andate in maniera differente: stando al credo antiocheno, ma anche ai racconti della concorde testimonianza evangelica (cfr. Mt 20,19; 27,63; Le 24,7.46; At 10,40), Cristo è risorto «il terzo giorno)), per cui non ha visto la corruzione del suo corpo. In questo modo Dio ha esaudito pienamente la preghiera di intere generazioni di credenti che recitavano il Salmo 15 (LXX; TM 16). Grazie all'evento umanamente indeducibile della risurrezione di Cristo,. quell'antico Salmo, da Dio stesso ispirato, ha trovato un significato non solo ben determinato, ma anche pieno e definitivo. Rilievi analoghi si potrebbero ripetere per i testi anticotestamentari di Giona (cfr. Gio 2,1 con Mt 12,40) o di Osea (cfr. Os 6,2) e, per certi aspetti, anche per quelli della tradizione rabbinica (successivamente messa per iscritto) sulla redenzione escatologica del popolo d'Israele al terzo giorno. Apparizioni di Cristo risorto (15,5). Infine, il credo antiocheno, senza accennare al dato-anch' esso ben attestato (cfr. p. es. Mt 28,6 e paralleli; Le 24,24; Gv 20,12)- del sepolcro vuoto, testimonia le cosiddette apparizioni del Crocifisso risorto. Come il ricordo della sepoltura di Cristo ne attesta la morte, così la menzione delle sue molteplici apparizioni ne conferma la risurrezione. Effettivamente questi suoi interventi manifestano come egli sia entrato in una condizione di vita divina completamente diversa da quella terrena, in cui si era svuotato per farsi vero uomo (cfr. Fil2,7). Dalla concisa formulazione del credo antiocheno si può già intuire come le apparizioni del Signore fossero atti inscindibilmente legati alla sua risurrezione, senza però coincidere con essa. Nell'originale greco l'espressione verbale usata per indicare questo secondo genere di avvenimenti è l'aoristo medio-passivo del verbo horao («vedere))), cioè 6phthe, che significa «si fece vedere)). La traduzione «si fece vedere)) è più corretta di quella che rende il verbo greco con «apparve)), perché nell'immaginario collettivo parlare di apparizioni fa venire in mente l'idea rnitica dei fantasmi. Nei racconti evangelici, invece, si esclude espressamente che il Crocifisso risorto fosse un fantasma, ossia un puro «spiritO)) (pne-Uma; cfr. Le 24,37-39; anche Gv 21,12). In realtà, le cosiddette apparizioni testimoniate dagli scrittori del Nuovo Testamento consistono nel fatto che il Crocifisso risorto abbia lasciato sperimentare sensibilmente la propria presenza personale ad alcuni credenti in lui, incontrandoli di nuovo, dopo la sua morte e risurrezione. In questo senso gli agiografi hanno usato il verbo 6phthe per attestare gli incontri del Risorto sia con i suoi discepoli (Le 24,34; At 13,31) che con Paolo (At 26,16; cfr. 9,17). In questo modo sono rimasti fedeli alla versione greca dell'Antico Testamento secondo la

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errnra W (v. 20a), verrebbe a ridestare. Vita sventurata (15,19). In termini più generali, se Cristo non fosse risorto, tutta la vita dei fedeli di Corinto, che nonostante tutto tenevano a dichiararsi cristiani, sarebbe vuota, essendo privata della sua meta ultima: la comunione eterna con il Signore. Bene che vada, i cristiani potrebbero sperare qualche soccorso da Cristo «solo per questa vita», ma non oltre. Non è chiaro, però, se Paolo, giunto a questo punto, si sia ormai lasciato prendere la mano dal-

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PRIMA AI CORINZI 15,20

se i morti non vengono risuscitati, neppure Cristo è stato risuscitato. 17Ma se Cristo non è stato risuscitato, senza valore sarebbe la vostra fede, voi sareste ancora nei vostri peccati 18e anche quelli che sono morti in Cristo sarebbero andati in perdizione. 19 Se solo per questa vita abbiamo sperato in Cristo, siamo degni di compassione più di tutti gli uomini. 200ra, invece, Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di coloro 161nfatti,

festa di Pasqua si sacrificasse al Signore il primo covone come segno d'offerta dell'intero raccolto (cfr. Lv 23, I0-11 ). Dunque, at1ribuendo al Ri-

sorto il titolo di «primizia» (vv. 20 e 23), Paolo non lo intende soltanto in senso cronologico, ma soprattutto in senso causale ed esemplare.

la controversia, perché sembra attribuire ai Corinzi la credenza che, dopo la morte, non ci sia più nulla. In realtà, la tradizione culturale greco-ellenistica, pur recalcitrante di fronte alla risurrezione corporea, sosteneva l'immortalità ultraterrena dell'anima. Comunque sia, resta vero che i primi a fare le spese dell'impossibilità della risurrezione dei cristiani con Cristo sarebbero proprio loro, avendo impostato la propria vita su una pura illusione. 15,20-28 Risurrezione di Cristo e risurrezione dei cristiani Paolo giunge così al cuore del suo discorso sulla risurrezione dei cristiani, che egli pare curare particolarmente dal punto di vista della struttura letteraria. Il suo scopo è mostrare come la speranza nella risurrezione universale dei cristiani si fondi sulla solidarietà che lega Cristo risorto ai credenti in lui. Perciò Paolo ricorre a due argomenti, ciascuno dei quali è strutturato concentricamente. Anzitutto approfondisce un parallelismo antitetico tra Adamo e Cristo (vv. 20-23): noi moriamo in Adamo, ma vivremo in Cristo risorto. Per essere più precisi, si potrebbe dire che il rapporto vivificante di solidarietà con cui siamo legati a Cristo è ben più stretto della connivenza mortifera con Adamo. Schematicamente, Paolo procede in tre momenti: Cristo risorto è la «primizia» dei cristiani che sono destinati alla risurrezione (a: v. 20); mentre «in» Adamo troviamo la morte, «in>> Cristo riceveremo la vita (b: vv. 21-22); nella condizione risorta entra prima Cristo, che è la «primizia», e poi i cristiani (b 1: v. 23). Anche la seconda argomentazione paolina (vv. 24-28), che precisa il passaggio dal regno storico di Cristo al regno escatologico del Padre, è scandita in modo concentrico: un primo sguardo è rivolto alla fine dei tempi e al regno eterno di Dio Padre (a: v. 24); un secondo colpo d'occhio è orientato all'attuale regno in fieri di Cristo (b: v. 25-27) e, infine, una scorsa contemplativa va ancora alla fine della storia e alla signoria universale del Padre (a 1: v. 28). Moriamo «in» Adamo, ma vivremo «in» Cristo risorto (15,20-23). Paolo continua, sia pure in modo implicito, a richiamare i suoi figli spirituali di Corinto alla coerenza rispetto a quello che già sono: se tengono a professarsi cristiani, vuoi dire che assentono ancora al credo (cfr. vv. 3b-5) trasmesso loro da Paolo (cfr. vv. 1-3a), secondo cui «Cristo è stato risuscitato dai morti» (v. 20a; cfr. 15,4b). Riaffermata

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PRIMA AI CORINZI 15,21

KEKOlj..ll']l!éVWV. 21 È:nEtÒ~ yàp òt' àv8pwnou 8ava-roç, KCXÌ òt' àvepwnou àvacrra: ÌÒ{~ -rayl!CXTl' àna:px~ Xptcr-r6c;, EnEna oi -rou Xptcr-rou è:v -rft napoucr{çc a:ù-rou, 24 fi-ra TÒ TÉÀoç, ()Tav na:pa:ÒtÒ K. 55

//15,55 Testo parallelo: Os 13,14 (LXX). 15,58 Irremovibili (d!J.Et!XK (V T) 't" O L)

~

Si tratta de li 'unica ricorrenza biblica dell'aggettivo UIJ.E't"IXKLVT)toç, che alla let-

di gioia sulla sconfitta definitiva della morte e rende grazie a Dio che l 'ha portata a termine tramite Cristo. Per certi versi è un ringraziamento simile a quello elevato dall'apostolo nella Lettera ai Romani (7,25). In quella lettera l'apostolo approfondirà la tesi, qui (v. 56) soltanto enunciata, della Legge mosaica come forza del peccato, il quale provoca la morte degli uomini, ossia la loro perdizione eterna. Sta di fatto che, in virtù della risurrezione universale, la morte verrà completamente annientata. Giungeranno allora a compimento le profezie di salvezza dell'Antico Testamento. Paolo ne cita qui due in maniera piuttosto libera (vv. 54-55), applicando la regola rabbini ca della gezerà shawà (o «principio di equivalenza»), secondo cui si possono illuminare vicendevolmente due passi biblici contenenti nessi terminologici. In questo caso, i due oracoli profetici contengono entrambi i termini «morte>> (thanatos) e «vittoria» (nikos). Con le parole del primo oracolo, preso dal libro d'Isaia (25,8 [LXX]), l'apostolo preannuncia che, alla fine della storia, la morte sarà «assorbita» o «ingoiataper la vittoria» di Dio (v. 54; cfr. 2Cor 5,4). Citando poi in maniera altrettanto libera una profezia di Osea (cfr. 13,14 [LXX]), rivolge direttamente alla morte due interrogativi retorici, la cui risposta è evidente: la morte ha finito per sempre di sterminare gli uomini e il suo aculeo è ormai definitivamente spuntato e innocuo (v. 55). L'idea piuttosto indeterminata del pungiglione della morte, che suscita nella fantasia dei lettori immagini di animali pericolosi come gli scorpioni, viene precisata subito dall'apostolo in rapporto al peccato e alla Legge mosaica. Lo scorpione inietta in chi lo tocca un veleno letale attraverso il pungiglione della sua coda. Similmente fa la morte: attraverso il peccato conduce a sé chi fonda orgogliosamente la propria esistenza sulla Legge di Mosè, illudendosi di potersi salvare con le proprie forze (cfr. Rm 7, 7-

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PRIMA AI CORINZI 15,58

Dov'è, morte, la tua vittoria? Dov'è, morte, il tuo aculeo? 56L'aculeo della morte è il peccato, ma la potenza del peccato è la Legge. 57 Sia quindi (reso) grazie a Dio, che ci dà la vittoria mediante il Signore nostro Gesù Cristo! 58 Sicché, fratelli miei amati, siate saldi e irremovibili, abbondando continuamente nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore. 55

tera significa «che non può muoversi». Qui esprime l'idea di chi, nonostante le

molte difficoltà, si mantiene «costante» e «perseverante».

12). In questo senso la virulenza del peccato è potenziata dalla Legge, la quale, come Paolo preciserà nella Lettera ai Romani, pur essendo santa, giusta, buona e spirituale (7,12.14), è stata strumentalizzata dalla potenza demoniaca del peccato (cfr. Rm 6,12.14). Perciò, di fatto, la Legge spinge chi orgogliosamente s'illude di potersi salvare da solo nel baratro della morte (cfr. Rm 6,23; Col 2,13; Gc 1,15; IGv 5,16) o, più esattamente, della «morte seconda» (Ap 2,11; 21,8; cfr. anche Ap 20,6.14), cioè della lontananza eterna da Dio. In conclusione Paolo esprime tutta la sua riconoscenza a Dio perché ha vinto in modo definitivo la morte, pur passando paradossalmente attraverso la morte in croce di Cristo (v. 57). 15,58 Invito conclusivo a rimanere saldi nella speranza Come al v. 34 Paolo aveva concluso la risposta al primo quesito sull'esistenza della risurrezione dai morti con un'esortazione, così con un'esortazione conclude anche la risposta al secondo interrogativo sul modo in cui si risorge dai morti. A questo punto, quel «qualcuno» anonimo, che aveva sollevato la duplice domanda all'inizio della seconda sezione (v. 35), viene identificato come appartenente alla comunità dei «fratelli[ ... ] amati» da Paolo (v. 58). Dunque l'apostolo non umilia nessuno di loro, preferendo invitarli a rimanere saldi nella speranza di risorgere con Cristo. Chi vive con questa speranza cercherà di fare sempre con generosa docilità la volontà di Dio, nella consapevolezza che tutto ciò che di buono riuscirà a portare a termine non sarà vanificato per sempre dalla morte. Così questa esortazione, rivolta - come già nel primo paragrafo di questa settima parte (vv. 1-11) - ai «fratelli>> di Corinto (cfr. v. l), si conclude non solo il terzo paragrafo (vv. 35-58), ma anche il secondo (vv. 12-34), il quale è appunto incentrato sulla vanità di un'esistenza terrena non destinata a sfociare nella risurrezione.

PRIMA AI CORINZI 16,1

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IlepÌ OÈ: rfjç Àoyeiaç rfjç EÌ